I film di Gianni Amelio. La ricerca di un cinema di coscienza sociale, fedele alle sue radici 8861560512, 9788861560512


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Prefazione#
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I film di Gianni Amelio. La ricerca di un cinema di coscienza sociale, fedele alle sue radici
 8861560512, 9788861560512

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A tutti quelli che dalla deprivazione culturale sono arrivati alla conoscenza delle ingiustizie

Un grazie particolare a Elisa Piovesana e a Corrado Donati

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© 2009 by Metauro Edizioni S.r.l. – Pesaro (Italy) http://www.metauroedizioni.it [email protected] ISBN 978-88-6156-051-2

È vietata la riproduzione, intera o parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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Indice

Prefazione

9

Capitolo 1. Alla ricerca di Gilda

17

Capitolo 2. Una replica neorealista? Riconsiderando il cinema italiano contemporaneo

47

Capitolo 3. Le conseguenze personali del terrore politico: Colpire al cuore

89

Capitolo 4. La Storia contro una verità più umana: I ragazzi di via Panisperna

133

Capitolo 5. Un impegno cinematografico intellettuale: Porte aperte

175

Capitolo 6. Alla ricerca di un’utopia per gli esclusi: Il ladro di bambini

209

Capitolo 7. L’esodo come un sogno vuoto: Lamerica

257

Capitolo 8. Amore, inganno e amnesia nazionale: Così ridevano

293

Capitolo 9. Correre prima di imparare a camminare: Le chiavi di casa

335

Capitolo 10. Un viaggio antiglobalizzazione: La stella che non c’è

371

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Capitolo 11. Conclusioni: Un nuovo linguaggio per un cinema di coscienza sociale, fedele alle sue radici

403

Immagini

427

Conversazione con Gianni Amelio

455

Filmografia, sceneggiature pubblicate e ricezione

481

Bibliografia specifica

499

Bibliografia selezionata

517

Bibliografia generale

533

Indice dei nomi

553

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PREFAZIONE Se siamo capaci di dire, anche solo dentro di noi, come padri ai figli, come insegnanti agli allievi: «Ribellatevi, traditemi, fuggite», se offriamo così un riscatto al bambino che forse c’è nonostante tutto in noi adulti, al ladro che forse c’è nonostante tutti i nostri carabinieri, allora è ancora possibile un gesto di riconciliazione1.

Gianni Amelio è uno scrittore, un critico e l’unico regista ad aver mai vinto tre Felix Award per il miglior film europeo. All’estero, nonostante il grande successo dei primi anni novanta, il suo nome non è sempre riconosciuto. In Italia, Amelio è percepito come un artista difficile, che incolpa la nazione per la sua memoria troppo corta e biasima le giovani generazioni per la loro superficiale ricerca di beni materiali e di status symbol. Perché, quindi, scrivere un libro su Gianni Amelio? La risposta a questa e ad altre domande ed alle frequenti riserve sui film di Amelio sono complesse ed il testo le affronta in modi diversi. In questo volume voglio riassumere le ragioni del mio interesse per il suo lavoro, soprattutto per quanto riguarda il suo stile cinematografico, in grado di rispecchiare i contenuti dei suoi film e di giustificare la bellezza ed il significato che gli attribuisco. Devo ammettere che l’origine del mio interesse per Amelio deriva da una personale ammirazione nei confronti di un uomo che si dedica seriamente al suo lavoro, senza assumere il ruolo che spesso la società e l’industria cinematografica assegnano ai registi. Fin dagli inizi della sua carriera Amelio esplora temi intrinseci al cinema, all’arte ed alla letteratura italiana, in un modo che disorienta molti critici e spettatori e disattende le aspettative comuni. Parte della lettura del passato nella produzione di Amelio si confronta in maniera diretta con il realismo, la cinefilia e il neorealismo. Il regista si avvale costantemente di digressioni narrative ed ellissi, per rielaborare elementi autobiografici in una coesione cinematografica che include anche 1  Amelio al conferimento della laurea Honoris Causa in D.A.M.S. presso l’Università della Calabria il 28 maggio 1996. Parte del suo intervento è stato riportato da La Regione Calabria, «Emigrazione», 9, settembre 1996 supplemento al n. 8/1996.

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lo stile dei classici americani. Nonostante sia stato definito come il principale erede vivente del neorealismo, Amelio non tiene conto né del termine né dell’associazione con i registi del dopoguerra, il suo cinema evade da ogni categorizzazione. Se per esempio si confronta la presentazione del tema dell’immigrazione e del mito del nuovo mondo nel film Lamerica o in Così ridevano di Amelio con La leggenda del pianista sull’oceano (1998) di Giuseppe Tornatore o Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, diventa subito chiaro come Amelio si rivolga alla storia con uno sguardo di umanità, attraverso gli occhi delle vittime, con compassione, in un modo comparabile solo al romanzo La storia (1986) di Elsa Morante. Fin dal primo film, La fine del gioco, le sue storie si spostano dal piano sociale a quello personale, e sono spesso presentate da persone relegate ai margini della società da parte delle convenzioni della cultura dominante. Tale approccio è una delle caratteristiche che lo distinguono, indipendentemente dal fatto che stia filmando l’utopia di Campanella o l’incontro fra il genio di un contadino analfabeta con un professore inglese, oppure la simbolica storia di un giovane in cerca di un veliero, o che stia riprendendo Bernardo Bertolucci mentre gira Novecento, dove Amelio stesso assume il ruolo di outsider. Quando finalmente realizzò il suo primo film per il grande schermo negli anni ottanta, un film sul terrorismo, si interessò degli effetti di quest’ultimo sulle persone ed il punto focale era la relazione fra padre e figlio. Il cinema di Amelio racconta due storie contemporaneamente, la seconda delle quali disturba una società che si aspetta messaggi rassicuranti dai film e che desidera un’arte che confermi la sua soddisfazione, la sua sicurezza, la sua generosità autopercepita e la sua correttezza. Perfino quando i film erano su commissione, come per esempio nel caso di I ragazzi di via Panisperna, Amelio fu in grado di portare all’attenzione del pubblico alcune inquietanti questioni etiche e morali nel racconto della segreta vita privata di Ettore Majorana, all’interno di una storia intima che intreccia il grande tema della scienza moderna. Porte aperte utilizza la pena di morte per parlare di come lo Stato e la società corrotta manipolino la paura per influenzare l’opinione pubblica. Il ladro di bambini si affida al tema del viaggio per mostrare l’indifferenza e l’ipocrisia che si na-

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scondono dietro la facciata della burocrazia. Questi due ultimi film propongono una intolleranza radicale nei confronti dell’ipocrisia del perbenismo. Amelio mostra esattamente chi sono i protagonisti che si nascondono dietro la legge, la religione e le istituzioni, pertanto la discussione può incentrarsi sul perché la pena di morte venga invocata dalla gente e richiesta dallo Stato, o perché dei bambini che hanno subìto degli abusi siano trattati alla stregua di criminali. In Lamerica, una storia nella storia riguardo all’Albania, il regista critica gli italiani per la loro amnesia. Il cinema di Amelio sull’emigrazione disattende le aspettative parlando degli albanesi, del nostro passato fascista, dei problemi interni irrisolti e del razzismo, antagonizzando così un paese che accetta tutto in maniera acritica ricorrendo ad abbondanti dosi di controversia e di polemiche per nascondere i veri grandi quesiti. Il Mezzogiorno e la Questione Meridionale sono sempre stati al centro della cultura italiana soprattutto dal dopoguerra. Nell’Italia contemporanea, mentre molti sostengono che quest’ultima non esista più, Amelio presenta in modo ricorrente la degradazione del Meridione in relazione al boom economico e all’emigrazione, anche attraverso una rilettura di alcuni classici film italiani. Inoltre Amelio la posiziona nel contesto del presente, utilizzandola come uno specchio per comprendere un’intera nazione. Il suo discorso è intellettuale e appassionato per il fatto che esplora i parallelismi tra integrazione, esclusione e ribellione, dentro e fuori la diegesi del film. Ciò che ne emerge è una rilettura provocatoria del Sud, del suo passato e del suo presente, che si scontra con gli stereotipi progressisti presentati sia nella cultura dominante che in quella popolare. Amelio viene dalla Calabria, da sempre una delle regioni più povere d’Italia, da una famiglia di contadini o gente senza mestiere che, come molti al sud, sopravvisse sognando di emigrare in Lamerica o La Merica2. Ho sempre pensato che per capire l’Italia sia necessario comprendere la Calabria, che rappresenta per estensione l’area più povera della nazione o, meglio, dell’Itaglia3, la parte spesso più dimenticata del Paese. Il Sud nel cinema di Amelio è il luogo di più grande devastazione ed ora “il luogo del cordoglio” per una nazio2  Lamerica e La America era l’ortografia utilizzata dagli emigranti italiani. 3  Riferimento sprezzante alla classe bassa in Italia e ai contadini.

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ne che ha confuso il progresso materiale con l’evoluzione civica e civile. Perfino il mare, che è spesso uno stereotipo associato al Sud, è interpretato da Amelio in modo differente, come un’utopia o uno spazio in cui evadere dalla cultura dominante. Nella sua interpretazione il paesaggio siciliano diventa un’alternativa al conformismo, mentre molti altri film utilizzano il patrimonio geografico nazionale ed il paesaggio in maniera pittoresca o folcloristica, come pubblicità per attrarre turisti. Donne e bambini, raramente utilizzati come protagonisti dagli altri registi, sono invece legati a tematiche molto rilevanti nelle opere di Amelio. I loro non sono ruoli sentimentali per ricattare il pubblico e non sono nemmeno oggetti di attrazione o di sadismo, ma sono piuttosto legati al tema centrale in maniera diretta o indiretta. Le vittime della società, che spesso sono i bambini, le donne e i vecchi, hanno la possibilità di raccontare la loro versione della Storia. Per capire i temi di Amelio è necessario concentrare l’attenzione su ciò che sembra ricoprire un ruolo di secondaria importanza. Gli elementi fondanti nei suoi film sono nascosti o rappresentati in maniera trasversale. La trama procede presentando altri conflitti irrisolti e sospesi, nei quali la composizione, i gesti, i silenzi ed il taciuto creano tensione e passione all’interno della cornice. Per tali ragioni il cinema di Amelio è molto contemporaneo e non ricerca a tutti i costi il consenso del pubblico attraverso l’utilizzo della violenza, di effetti speciali, del sesso, di maggiorate o sex symbol4. L’astensione di Amelio dall’ostentazione della nudità o di rapporti sessuali sullo schermo non implica una mancanza di passione, di emozioni, di amore e sessualità, ma offre una qualità senza compromessi, che non scade nel più banale comune denominatore a discapito della dignità dell’attore. I sentimenti umani e le relazioni che si svolgono in circostanze dolorose sono mostrate in piani medi, mezzi primi piani o a figura intera in un disadorno realismo ricco di riferimenti metaforici. L’andamento lento del racconto unito ad una musica di sottofondo scelta accuratamente creano un tipo di cinema che molti considerano troppo pesante. Mentre il cinema di Amelio potrebbe non avere la leggerezza tanto ammirata e ricercata da Calvino, è 4  Termine coniato per descrivere i più famosi sex symbol degli anni ‘50 e ‘60 come Gina Lollobrigida e Sophia Loren.

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tuttavia in grado di farci ridere, piangere e sperimentare la sessualità senza spettacolarizzarla. I capitoli che seguono descrivono come il suo stile rigoroso sia modellato sulle tematiche che affronta. In ogni inquadratura Amelio vuole rappresentare la fatica che deriva dallo sforzo di equilibrare forma e contenuto. Sfortunatamente, per un numero di ragioni che verranno discusse in seguito, Amelio è conosciuto all’estero principalmente per il film Il ladro di bambini. La scelta di pubblicare il libro prima in inglese deriva dalla mia volontà di guidare un pubblico più ampio verso la scoperta di un regista che rappresenta un caso unico nel panorama cinematografico italiano. La ristampa del volume in italiano nasce dal desiderio di confrontarsi con il pubblico da cui nascono i personaggi e le tematiche dei film di Amelio. La carriera cinematografica di Amelio è fondamentale per capire l’industria cinematografica su larga scala, ma soprattutto ci ha regalato dei film in grado di catturare la nostra attenzione, mantenere vigile la nostra coscienza, stimolare il nostro intelletto e soddisfare il nostro profondo desiderio di arti visive. Antonio C. Vitti

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Capitolo 1

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Alla ricerca di Gilda … Golgotha e Gli ultimi giorni di Pompei … È la mia prima memoria di cinema, anche se la prima vera emozione fu l’anno dopo, con Rita Hayworth. Fu la rivelazione, fu allora che decisi che da grande avrei fatto il «regista», come dicevo allora, che per me siginificava un pò tutto, anche l’attore1.

Quando Amelio acquistò notorietà a livello nazionale, i reporter cominciarono ad interrogarsi su come e quando decise di diventare un regista. Una troupe della televisione pubblica scese in Calabria per intervistare “nonna Carmela” di 96 anni. La nonna raccontò loro dei film che andavano a vedere insieme la domenica ogni due settimane, dal momento che, essendo un’infermiera, alternava i turni diurni con le notti ogni settimana. Andavano al Politeama a Catanzaro, dato che il loro piccolo paese non ospitava un cinema, e guardavano tre o quattro spettacoli dello stesso film, per godersi al massimo la spesa di 250 lire per il biglietto2. Nei primi anni cinquanta andarono a vedere una presentazione al cinema all’aperto3 di Gilda con Rita Hayworth. Uscito negli Stati Uniti nel 1945, il film arrivò in Italia molto più tardi. Ogni membro della famiglia sceglieva a turno che cosa andare a vedere e quel giorno la nonna di Amelio scelse proprio quel film. Quando la scelta toccava a lui, consultava le locandine per le strade ed in genere preferiva quelle che mostravano attori in costumi orientali, quelli d’avventura e, più tardi, i western. Per molti giorni a seguire Nino4, che all’epoca aveva quattro o cinque anni, chiese alla nonna dove fosse Gilda. A partire da quel momento ogni qualvolta si recavano al cinema, Amelio chiedeva dove fosse Gilda e perlustrava il cinema. Durante una lunga intervista con Emanuela Martini, Amelio raccon1  Amelio, citato in Domenico Scalzo, (a cura di), Gianni Amelio. Un posto al cinema, Torino, Lindau, 2001, p. 36. 2  Il suo vecchio amico di scuola Nicola Siciliani de Cumis scrisse un toccante articolo sull’amore di Amelio per Catanzaro, Gianni Amelio, quattro elefanti e una seicento, ivi, pp. 251, 254. 3  Chiamato anche “sotto le stelle”. 4  Nino era il nomignolo di Amelio da bambino.

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tò che quando scoprì che Gilda era un personaggio del mondo del cinema, decise che per trovarla sarebbe dovuto diventare un regista. Pensava a lei ancora come un personaggio reale, non di finzione. Da quel momento iniziò a fingere di realizzare il suo film per gioco, ma sua madre voleva che studiasse e che andasse all’università. Perfino da adulto Amelio cercò di rivedere una proiezione di Gilda per rivivere una sequenza che lo aveva perseguitato fin dalla prima volta che lo vide con la nonna. Era ambientata di notte in un hotel o in una casa lussuosa o nel casinò in cui Gilda lavorava. Una donna molto avvenente con i capelli sciolti ed un lungo vestito fugge da un uomo e, nel tentativo di fuga, salta sulla ringhiera del terrazzo e cade nella piscina. Per Nino questa sequenza rappresentava il cuore del film. Nel 1970 in un cineclub di Genova, fu finalmente in grado di vedere Gilda nuovamente, ma quella scena mancava. Quando si recò dal responsabile per chiedergli per quale ragione avesse mostrato una versione ridotta, gli venne risposto che la pellicola era integrale. Amelio non ne era convinto. Solo quando andò a vedere il film un’altra volta ancora, si rese conto che la sequenza che aveva sognato per tanto tempo in realtà non esisteva. Iniziò allora a pensare di averla vista in Affair in Trinidad, uscito in Italia con il titolo di Trinidad nel 1952. Anche questo interpretato da Rita Hayworth, che era tornata sulla scena dopo quattro anni di interruzione, fu un grande successo al botteghino e venne accolto come un rifacimento di Gilda. Nel 1997 Amelio ebbe l’opportunità di incontrare Vincent Sherman, il regista di Trinidad, il quale gli disse di non aver mai girato una scena simile5. Amelio si interroga tuttora in quale dei film americani, che dominavano i cinema di provincia italiani negli anni cinquanta, possa averla vista e, soprattutto, perché fra tutti i film visti proprio quella scena sia stampata nella sua memoria. Il mito americano che in Italia assunse due forme, era allora dominante nell’immaginario collettivo. La prima, legata al suo benessere, si diffuse ampiamente fra le masse attraverso l’emigrazione; la seconda, legata alla ricorrente rinascita di un’opportunità umana, si mantenne viva soprattutto fra gli intellettuali a partire dagli anni 5  Emanuela Martini, Cinema e cinemi. Intervista con Amelio, in E. Martini, (a cura di), Gianni Amelio: le regole e il gioco, Torino, Lindau, 1999, pp. 107-52.

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trenta6. Quando Amelio ebbe le sue prime esperienze cinematografiche l’Italia stava subendo l’invasione dei film americani, come documentato dallo storico Gian Piero Brunetta7. Nel 1948 gli studi americani riversarono nel mercato italiano il loro enorme repertorio di vecchi film. Il numero totale di film americani in circolazione in Italia era cento volte superiore al numero di film prodotti nello stesso anno negli Stati Uniti8. Al contrario la semidistrutta industria cinematografica italiana produsse solo 54 film9. Nei primi cinque anni della neonata Repubblica italiana erano in circolazione 1586 film americani. Nel 1953, durante la Guerra Fredda e il periodo della Restaurazione10, il numero raggiunse quota 5.368. Due film italiani realizzati molto tempo dopo, ambientati in due diverse regioni ed in due periodi storici differenti, catturano l’influenza dei film americani sulle masse degli italiani. Amarcord (1973) di Federico Fellini mostra l’atmosfera provinciale dell’Italia fascista negli anni trenta, dove la piccola borghesia bombardata dalla propaganda di Stato, riempiva i cinema per sognare le stelle americane, imitava il loro modo di vestire e fantasticava sulle loro trasgressioni. Nuovo cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore mostra l’importanza del cinema come unico mezzo di divertimento e fuga per una piccola e isolata comunità del Sud ed il ruolo del Vaticano nella distribuzione dei film e nella censura durante il dopoguerra. Come per il piccolo Totò in quel film, le pellicole americane rappresentavano per Amelio l’utopia e la fuga da un’infanzia che lui stesso definisce tormentata. Nel 1984, prima che Nuovo cinema Paradiso riflettesse su cosa significasse crescere in un piccolo paese siciliano, Amelio scrisse una scenografia intitolata Politeama sul cinema di Catanzaro. Contrariamente all’omaggio agrodolce di Tornatore nei confronti del grande schermo, la storia di Amelio concentrava l’at6  Si veda Elio Vittorini, Americana, Milano, Bompiani, 1968, pp. 963-964. 7  Cent’anni di cinema italiano, 2. Dal 1945 ai giorni nostri, Roma-Bari, Economica Laterza, 1999. 8  Sui film americani in Italia durante gli anni cinquanta si veda Gianni Canova, Profumo d’America, in Marino Rivolsi, (a cura di), Schermi e ombre, Firenze, La Nuova Italia, 1988. 9  Cent’anni di cinema italiano, cit., p. 14. 10  Durante gli anni 50 la restaurazione in Italia significava la ricostruzione della nazione, ma per la sinistra implicava anche un ritorno ad una sorta di fascismo.

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tenzione non tanto sui film, ma su ciò che accadeva all’interno del cinema, con l’obiettivo di mostrare la sua adolescenza, escludendo allo stesso tempo la sua vita personale e gli odiati parenti. Il piccolo cinefilo Nato il 20 gennaio 1945 a San Pietro Magisano (Catanzaro), un paesino di montagna di circa 600 abitanti in Calabria, battezzato quando aveva già quasi due anni, Giovanni Amelio crebbe esclusivamente fra donne. Trattava sua madre, una sarta che lo partorì a soli sedici anni, come una sorella. Sua nonna gli fece da mamma e contribuì a supportare la famiglia lavorando come infermiera. I film di Amelio spesso le rendono omaggio ed alcune delle idee e dei comportamenti dei suoi personaggi sono modellati sulla persona della nonna. Una sua zia era insegnante. In un’intervista con Erica Ghini, Amelio ricordò come queste tre donne ebbero un ruolo determinante nella sua vita. Raccontò di come fossero donne estremamente forti, come spesso erano le donne del Sud specialmente negli anni cinquanta. La società italiana meridionale era basata sulle donne, disse, perfino dal punto di vista intellettuale ed emozionale. Le donne lavoravano più degli uomini, aggiunse, ed il loro ruolo includeva l’educazione di bambini e adolescenti. Amelio crebbe con una forte etica del lavoro. Sua nonna gli insegnò la necessità di lavorare non tanto per un’affermazione personale, quanto per raggiungere degli obiettivi come forma d’amore. Queste donne lo spinsero a fare esperienza del mondo oltre i limiti dell’orizzonte del suo paese di nascita. In generale Amelio sente di dovere a loro un’educazione molto rigida11. Dall’altro lato, il padre e lo zio se ne erano andati in Argentina in cerca di lavoro, dove loro padre era andato a vivere ricostruendosi un’altra famiglia e abbandonando per sempre la Calabria. Il padre di Amelio tornò dopo diciassette anni ed ebbe Erminio, il fratello di Amelio. Sette anni dopo, in seguito alla morte di sua madre, il padre si risposò ed ebbe altri due figli. Amelio descrive la sua adolescenza come un periodo negativo, di tragica importanza, aggiungendo che 11  In D. Scalzo, Gianni Amelio..., cit., p. 35.

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l’abbandono da parte del padre quando aveva solo un anno gli lasciò una profonda cicatrice. La vita senza padre era peggio di una vita di povertà. Nonostante tutto, non riuscì mai a serbargli rancore, anche se nel momento in cui tornò non fu in grado di riconciliarsi con la famiglia12. Da ragazzo Amelio si sentiva sopraffatto dalla costante lotta per la sopravvivenza, che era imposta come un dovere. A causa dell’assenza del padre sentiva di dover condurre una vita ineccepibile, autorepressa, senza serenità o leggerezza. Viveva in una società in cui la povertà, l’emigrazione e l’ingiustizia venivano accettate senza ribellione, come calamità naturali. Secondo lo storico Paul Ginsborg,13 dopo la guerra nella provincia di Crotone, non lontano da dove crebbe Amelio, l’83 percento della terra era di proprietà del 2 percento della popolazione, e 9.348 dei suoi abitanti avevano una sola fontana a cui rifornirsi. Gli usurai concedevano prestiti di sette mesi con un interesse del 50 percento ai contadini che tentavano di coprire i costi di un ciclo di coltivazione. Per sopravvivere si vedevano obbligati a svolgere qualsiasi tipo di lavoro dopo il raccolto estivo. Contrariamente ad altri personaggi di finzione, quelli di Amelio non si ribellano ma scappano piuttosto, nel tentativo di crearsi una vita alternativa e di scrollarsi di dosso la rassegnazione che per secoli ha regnato nel loro piccolo paese. Dopo le elementari e la scuola media, Amelio si diplomò al Liceo Classico Galluppi di Catanzaro e si iscrisse alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Messina. Lì studiò per due anni e mezzo senza ottenere una laurea14. Amelio ricorda che la più grande difficoltà fu quella di adattarsi all’italiano standard. La sua lingua madre era da sempre il dialetto, mentre l’italiano, a cui era raramente esposto, era considerata una lingua straniera15. Durante gli anni all’università iniziò a coltivare il suo interesse per il cinema mostrando film e organizzando dibattiti. Per due o tre 12  G. Amelio, Gianni Amelio Autoritratto, in Mario Sesti, (a cura di), Nuovo Cinema Italiano. Gli autori i film le idee, Roma, Theoria, 1994, p. 37. 13  Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989, p. 178. 14  Nel 1995 l’Università di Calabria conferì ad Amelio una Laurea Honoris Causa in Discipline dello Spettacolo. Alla cerimonia partecipò anche sua nonna. 15  G. Amelio, citato in D. Scalzo, Gianni Amelio..., cit., p. 36.

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anni fece parte della redazione di «Giovane Critica», una rivista per studenti universitari, alla quale contribuiva scrivendo recensioni e lavorando sodo per ottenere sempre maggior spazio da dedicare al cinema. Il suo approccio critico non era militante. Era più attratto dal cinema classico e non supportava nessuno delle due voci d’avanguardia del tempo, rappresentate da «Cahiers du cinéma» e «Quaderni piacentin»i16. Nel 1994, il regista ricordò che dietro alla sua richiesta di dare maggior spazio al cinema si celava l’ingenuo sogno di imitare un giorno il percorso dei registi della Nouvelle Vague, i quali passarono dagli articoli di rivista, alla critica fino alla regia di film. Si districava faticosamente negli incontri con i critici Nino Recupero e Vito Attolini, i più importanti esperti di cinema in Sicilia, dal momento che si sentiva inadeguato nel condurre una conversazione colta sull’argomento o nello scrivere correttamente in italiano. Lo stesso Amelio ammette di aver passato notti insonni ripensando ad un aggettivo o a dove posizionare un punto e virgola nel posto giusto. In questo periodo Amelio scrisse tre recensioni che vennero pubblicate in «Il sentiero», il quotidiano di Catanzaro. Il seguente esempio è in grado di dimostrare le sue crescenti abilità critiche ed il genere di film che iniziava ad apprezzare. Il brigante (1961) di Renato Castellani, un adattamento dall’omonimo romanzo del 1951 di Giuseppe Berto, racconta la storia di Michele Rende (interpretato da Adelmo Di Fraia), un contadino calabrese che, nel secondo dopoguerra, conduce la sua gente ad una rivolta per la terra. Dopo essere stato ingiustamente accusato di omicidio, si nasconde nelle montagne per evitare l’arresto ma ritorna in seguito al suo paese per vendicare l’omicidio della sua fidanzata. Amelio è certamente interessato alla presentazione della sua regione in un modo che dif16  «Cahiers du cinéma» era l’influente rivista francese fondata nel 1951 da André Bazin, Jacques Doniol-Valcroze e Joseph-Marie Lo Duca, la fonte della teoria d’autore che rivalutava film e registi di Hollywood e premiò il lavoro di Roberto Rossellini, Jean Renoir, Jean Cocteau e Kenji Mizoguchi. Ispirò la Nouvelle Vague. «Quaderni piacentini» fu pubblicata in uscite trimestrali da marzo 1962 fino a metà anni ottanta. Fondata e diretta da Pier Giorgio Bellocchio era aperta al dibattito culturale e promuoveva i giovani di sinistra. È tuttora considerata una delle riviste più interessanti di quel periodo per l’alta qualità delle sue pubblicazioni e i temi delle sue discussioni, che includevano il cinema.

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ferisce dal tipico stile melodrammatico di Cavalleria Rusticana17 o dallo stile della commedia, affrontando invece un certo numero di problemi storici e sociali. Amelio loda il tentativo di Castellani ma critica il disequilibrio della struttura generale del film, in cui individua tre blocchi principali: il primo ed il terzo raccontano una storia personale mentre il secondo è una storia epica e corale. I personaggi soffrono di questa disparità dal momento che la loro psicologia e le loro motivazioni sono o troppo amplificate o non sufficientemente sviluppate. Il protagonista diventa idealizzato anziché reale. Nel 1965 Amelio lasciò l’università e si diresse a Cosenza. Durante le vacanze di Pasqua andò a trovare un suo vecchio compagno di scuola che frequentava l’Università di Roma, il quale gli offrì un posto dove stare per un mese. Leggendo il quotidiano comunista «l’Unità», si imbatté in un’inserzione con cui si cercava un aiuto regista per un film diretto da Vittorio De Seta. Chiamò il regista e, adducendo la scusa di un’intervista per un giornale in Sicilia, fissò un appuntamento. Una volta nell’ufficio di De Seta, Amelio si offrì come assistente regista senza compenso. Un giorno prima dell’inizio delle riprese De Seta telefonò ad Amelio invitandolo a incontrare uno dei suoi assistenti che avrebbe stabilito se egli fosse in grado di svolgere il lavoro richiesto. Questa cruciale conversazione ebbe esito positivo e l’assistente di De Seta istruì Amelio sulle sue responsabilità. La settimana seguente Amelio partì assieme alla troupe ed iniziò la sua carriera nel cinema come assistente di De Seta nel film Un uomo a metà, con un contratto regolare ed un piccolo stipendio: seimila lire per le spese quotidiane e quindicimila lire a settimana per le spese di albergo e gli spostamenti. Amelio mi ha confidato di conservare ancora le matrici degli assegni. Un uomo a metà (1966) racconta la storia di Michele (J. Perrin), un giovane intellettuale affetto da una severa nevrosi causata dalla consapevolezza che le sue idee ed i suoi ideali sono in conflitto con la morale comune. Ricoverato in ospedale, Michele cerca di affer17  Quest’opera di un solo atto di Pietro Mascagni, con libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, adattato da un racconto di Giovanni Verga, ha luogo in Sicilia e affronta i temi dell’amore, del tradimento e della vendetta. Santuzza pensa che il suo amore Turiddu l’abbia tradita con Lola e lo confessa al marito della donna, il quale per vendetta uccide Turiddu in duello. Estratti dell’opera appaiono in Il padrino parte III e in Toro Scatenato, rinforzando questi stereotipi del Sud, a mio modo di vedere.

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rare il significato della sua esistenza liberando mentalmente il suo passato. Dal punto di vista visivo il film alterna dei primi piani di Michele, l’unica realtà oggettiva che il pubblico vede, con riferimento al passato, come una creazione soggettiva dei ricordi del protagonista. Il risultato è onirico e per la maggior parte non ben accolto dalla critica e dal pubblico. In seguito a questa esperienza Amelio lavorò come aiuto regista in sei film, prevalentemente con Gianni Puccini, Anna Gobbi, Andrea Frezza, e Liliana Cavani. Girò inoltre delle pubblicità per Carosello18 con Ugo Gregoretti, Alfredo Angeli, Enrico Sannia e Giulio Paradisi a supportarlo. Scrisse anche alcune sceneggiature con altri registi senza firmarle ed assistette Ugo Gregoretti nel documentario Sette anni dopo. Fin dal principio si avvicinò a questa nuova esperienza con la stessa attitudine che aveva da spettatore, apprezzando ogni genere senza classificarlo e senza pregiudizi. Per quattro anni lavorò a differenti progetti con diversi registi. Amelio scrisse una sceneggiatura per un film sotto falso nome. Lina Wertmüller lo girò anche lei sotto falso nome, seguendo una moda che era iniziata dopo che Sergio Leone si ribattezzò Bob Robertson, forse per “autenticità”, ma anche per proteggere i loro nomi e la loro reputazione artistica. Amelio lavorò a La ballata da un miliardo e raccontò che quando incontrò Bernardo Bertolucci, quest’ultimo era a disagio nel rivelare di averne scritto la sceneggiatura. Amelio prese addirittura lezioni di equitazione a Roma, perché riteneva che fosse di grande aiuto per trovare lavoro nelle case di produzione italiane che si erano trasferite in Spagna per abbattere i costi di realizzazione. Di quel tempo 18  Con l’inizio della ripresa economica la televisione nazionale decise di dare spazio alla pubblicità. In onda ogni sera dalle 20:50 alle 21:00 dal 2 febbraio 1957 al 1 gennaio 1977, il programma mostrava attori, cantanti e comici che publicizzavano un prodotto. Un sipario si apriva su un palcoscenico accompagnato da trombe e mandolini e quattro o cinque pubbicità da 135 secondi venivano presentate. Questo programma molto inusuale venne subito apprezzato dal pubblico e diventò un laboratorio sperimentale per i più grandi registi, fra cui Luigi Magni, Gillo Pontecorvo, i fratelli Taviani, Federico Fellini, Ermanno Olmi, Sergio Leone, e per giovani e vecchi attori quali Totò, Sophia Loren, Virna Lisi, Vittorio Gassman, Dario Fo, Eduardo De Filippo, Macario e Nino Manfredi. «A letto dopo Carosello» diventò, e tuttora è in alcune occasioni, la frase con cui le madri mandavano a dormire i propri figli. Da un punto di vista stilistico e linguistico queste brevi scenette che si svolgevano senza menzionare il prodotto, ma erano seguite alla fine da un breve annuncio del prodotto, rivoluzionarono il linguaggio televisivo e influenzarono molti film commerciali.

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Amelio ha due grandi rimpianti: aver dovuto forzatamente abbandonare il lavoro di assistente alla regia di Pier Paolo Pasolini nel film Uccellacci e uccellini (1966) perché non aveva una macchina, e non aver potuto assistere Bertolucci in Il conformista (1970) perché fu chiamato per la leva obbligatoria. In generale di quel periodo Amelio negli anni novanta ricordò: «l’irresponsabilità abbondava come la mia mancanza di coscienza professionale». L’analisi di quel periodo da parte di Amelio differisce da quella di molti critici che lo consideravano un momento estremamente produttivo e creativo. Quasi 400 western all’italiana furono girati e questo genere prolificò dando vita a molti altri generi e fu esportato in tutto il mondo. Secondo Amelio il cinema italiano godette di buona salute dal 1959 al 1963. Egli definisce i western, i film alla 007-James Bond, e le strategie di mercato dei sottogeneri che ne derivarono, come estranei alla tradizione italiana. Secondo lui questi film furono realizzati soprattutto da registi e troupe che non stavano creando nulla di nuovo, ma che erano piuttosto «senza idee e con pochi soldi in tasca». Ad eccezione di Sergio Leone, Franco Giraldi, Damiano Damiani, e di Se sei vivo spara (1967) di Giulio Questi, secondo Amelio i registi non credevano veramente in ciò che stavano facendo. I più ritenevano che, dal punto di vista artistico, girare film western fosse un’esperienza umiliante che contribuiva alla scomparsa dei film italiani di media caratura che, senza aspirare ad essere film di serie A, erano tuttavia dei buoni prodotti19. I film di Amelio per il piccolo schermo La fine del gioco Nel 1970 dopo un lungo apprendistato in musical italiani, opere teatrali e spaghetti western, Amelio girò La fine del gioco per la serie televisiva Film Sperimentali per la televisione, un progetto creato da Italo Moscato per aiutare i giovani registi al loro debutto. Amelio confessa di tenere molto a questo suo primo lavoro, nonostante gli 19  Per i dettagli si veda Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, Roma, Donzelli, 1994, p. 100.

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errori dovuti all’inesperienza, e aggiunge che Il ladro di bambini prende spunto da questo primo film20. Amelio aveva a disposizione tre settimane di tempo e un budget di cinque milioni di lire; i dirigenti della RAI (che prima di chiamarsi Radiotelevisione Italiana era l’acronimo di Radio Audizioni Italiane) affermano invece che i registi avevano a disposizione dieci milioni di lire per i loro film. Il progetto interessava costoro perché toccava dei temi sociali, il che era in linea con un periodo in cui ogni aspetto della vita era politicizzato. Amelio aveva scritto una storia sulle terribili condizioni dei riformatori nel sud Italia e voleva girarlo interamente a Catanzaro. Tuttavia il film si focalizzò per lo più su un viaggio in treno durante il quale un reporter21 TV intervista un giovane di un riformatorio. Il lungo viaggio di ritorno al paese d'origine rende possibile una conversazione che esplora i principali temi personali. A partire dal suo primo film Amelio dimostra la sua attrazione per una struttura binaria che si sposta dalla dimensione ufficiale, in questo caso il riformatorio, al privato. Egli utilizza inoltre due diverse tecniche di ripresa. Nella prima parte i protagonisti vengono mostrati a figura intera con la macchina da presa a distanza. Nella seconda parte, in treno, la macchina da presa è più vicina, per rafforzare l’intimità della conversazione. In treno il protagonista Leonardo, interpretato da Luigi Valentino, parla liberamente di sé, delle violenze subite in riformatorio e di quelle di cui è stato testimone. Nel momento in cui l’intervistatore chiede al ragazzo di ripetere tutto per poterlo registrare, la conversazione termina e alla fiducia si sostituisce il sospetto. L’apparente semplice conversazione permette ad Amelio di riflettere sulla rappresentazione della realtà nello schermo e sulla relazione fra lo spettatore ed il rispetto per la dignità umana. Per esempio, quando il ragazzo si toglie le scarpe e parla in dialetto, assume nuovamente la propria identità culturale che il riformatorio gli aveva negato e strappato. Con dignità e aria di sfida Leonardo rifiuta di fare la parte del ragazzo del Sud vittimizzato, che racconta la sua triste storia alla televisione pubblica così da suscitare solidarietà e compassione. Il ra20  Citato in Mario Sesti e Stefanella Ughi, (a cura di), gianni amelio, Roma, Dino Editore, 1995, p. 10. 21  Il ruolo è interpretato da Ugo Gregoretti, per cui Amelio aveva lavorato come aiuto regista.

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gazzo considera il progetto come una forma di sfruttamento e chiede al reporter per quale ragione sia così interessato a visitare e scattare fotografie del suo misero paese di nascita. Leonardo comincia ad interrogarsi sulle motivazioni dell’intervistatore. Quando il reporter cerca di spiegargli i vantaggi che il ragazzo trarrebbe dal racconto televisivo, Leonardo gli risponde candidamente che gli spettatori televisivi alla fine non comprenderebbero il messaggio e che se anche lo facessero, le cose per lui non cambierebbero in ogni caso. Ad un certo punto Leonardo salta giù dal treno e scompare. È il primo di una lunga serie di personaggi di Amelio che scappano. Benché superficialmente, questo film tocca alcuni temi sui quali Amelio ritornerà nei suoi film futuri, quali la solitudine umana, l’incomunicabilità, lo sfruttamento dei media ed il conflitto tra la cultura contadina ed il distaccato mondo dello spettacolo. In questo suo primo lavoro si intravvedono già le coordinate stilistiche e tematiche dei migliori film di Amelio, ovvero il rispetto per l’idea originale alla base del film, che in questo caso è il personaggio di Leonardo. Il regista nel 1992 ricordò come il primo giorno di riprese abbia filmato nel nome del più assoluto formalismo. Il secondo giorno, invece, capì di dover comprendere a fondo, attraverso la macchina da presa, che cosa rappresentasse quel ragazzo e soprattutto cosa ci fosse dietro la sua persona. L'osservanza di questi principi, secondo Amelio, doveva avere un ruolo di primo piano rispetto al desiderio e al piacere di esprimere se stesso22. Al di là del racconto, questo breve film permise ad Amelio di focalizzare l’attenzione sul modo di riprendere la realtà. Se da un lato egli era ben consapevole del fatto che il cinema non è realtà e che il regista è colui che costruisce tutto ciò che vuol mostrare sullo schermo, dall’altro lato sentiva di non avere il diritto di modificare la realtà stessa. Amelio mostra la famiglia di emigranti sul treno, i viaggiatori di prima classe ed il riformatorio esattamente per quello che sono e rimane fedele al modo in cui le persone si comportano e parlano. Il regista cerca di preservare il linguaggio e la mentalità di Leonardo senza stereotiparli, come facevano molti reportage televisivi nei confronti del Sud. La modalità di rappresentazione del reale è una questione cruciale per Amelio, un problema che ha sempre 22  Gianni Amelio Autoritratto, in Nuovo Cinema Italiano, cit., p. 43.

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avvertito con disagio. Leonardo è una sorta di alter ego che, nel momento in cui scappa, fa quello che Amelio aveva fatto a suo tempo quando aveva lasciato la famiglia, con la differenza che Leonardo compie un atto di ribellione che il regista da ragazzo non avrebbe mai fatto. Inoltre il dodicenne Luigi Valentino è il primo di una lunga lista di interpreti non professionisti nei film di Amelio. Nei suoi sguardi, espressioni, intensità, frasi misurate e silenzi accompagnati da gesti ben studiati risiede ciò che diventerà una caratteristica dell’inconfondibile stile di Amelio nell’istruire e dirigere i non attori alla recitazione. Nel viaggio di ritorno verso casa dopo essere stati in una scuola per trovare il giusto attore, Amelio ed il suo assistente diedero un passaggio ad un autostoppista, che si rivelò essere la persona perfetta per quel ruolo. Stilisticamente il film riflette l’influenza del regista francese Robert Bresson nell’uso molto consapevole della forma, dei silenzi, delle lunghe scene senza azione, dei suoni diegetici ed extradiegetici e del sincronismo. Tracce del cinema americano, del neorealismo e della Nouvelle Vague sono evidenti nell’uso della luce in varie scene, nel modo in cui è ripresa la scala all’inizio del film e nel modo in cui l’avvicinarsi di un personaggio è annunciato dal rumore dei suoi passi. L’influenza neorealista è evidente da come è filmata la passeggiata in città dei ragazzi, che camminano in fila con le mani dietro la schiena come prigionieri e sono seguiti da un’automobile che li sorveglia. La sequenza fa pensare ai film di De Sica-Zavattini: Sciuscià (1946) e Miracolo a Milano (1951) per il tono, l’inquadratura e il contenuto; l’attenzione ai problemi della povera gente e dei bambini. Nonostante questi dettagli stilistici riflettano lo stile degli anni settanta, la sincerità artistica di Amelio si manifesta nell’uso ristretto di dolly e carrellate, impedendo alla cinepresa di violare la privacy o l’intimità di Leonardo o di oltrepassare il suo panorama culturale. Amelio si sforza molto di evitare gli stacchi tra due individui durante un’intervista e di mostrare primi piani o figure intere da dietro, il che era molto comune nel reportage televisivo. Al contrario Amelio riprende i dialoghi tra Leonardo ed il giornalista in piani che li includono entrambi. Ventidue anni dopo Amelio riprese la storia del ritorno a casa di Leonardo, con il viaggio da Milano alla Calabria di Antonio Criaco, per scortare Luciano e Rosetta fino a un riformatorio in Sicilia in Il

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ladro di bambini. La fine del gioco, titolo emblematico del suo primo film, segna l’inizio di una nuova fase nella sua vita professionale e privata. Aveva raggiunto un minimo di sicurezza finanziaria che gli permetteva di essere un po’ più selettivo rispetto alle prospettive lavorative che gli si proponevano ed aveva più tempo per riflettere, per viaggiare e per leggere. Ripensando a quel periodo Amelio ricorda che dopo la realizzazione di La fine del gioco, che fu un’opportunità inaspettata, smise di lavorare come aiuto regista e cominciò a pensare a quello che realmente voleva fare, perché, per sua natura, ha sempre raggiunto consapevolezza dei suoi obiettivi in maniera graduale ed in seguito ad una lunga riflessione23. La città del sole Nel 1973 Amelio realizzò La città del sole per la stessa serie televisiva del suo primo lavoro. Questo adattamento dell’omonima opera di Tommaso Campanella vinse il Grand Prize al Thonon-LesBains Festival l’anno seguente. Amelio trascorse l’estate di quell’anno alla biblioteca pubblica, a studiare i verbali dei processi lasciati dall’Inquisizione e altre fonti, fin quando, in autunno, poteva ormai disporre di una sceneggiatura solida. Per quanto riguarda i modelli stilistici, Amelio si ispira a Le process de Jeanne d’Arc/Il processo di Giovanna d’Arco (1962) di Bresson e ai film storici per la televisione di Rossellini, fra cui La presa del potere di Luigi XIV (1966). Nei primi anni settanta in Italia la discussione sul ruolo dell’intellettuale nella rivoluzione era in voga. L’uomo ad una dimensione (1964) di Herbert Marcuse venne pubblicato in Italia da Einaudi nel 1967 ed i giovani di sinistra come Amelio24 furono influenzati dalla sua analisi delle democrazie occidentali, che appaiono libere ed egalitarie ma sono di fatto repressive. Amelio riteneva che la vita 23  Ivi, p. 40. 24  Quando gli chiesero quale fosse la sua posizione politica negli anni settanta e se fosse coinvolto con «il manifesto», giornale di un gruppo che si staccò dal partito Comunista, Amelio rispose di essere molto lontano dalle loro posizioni e di non capirli a volte, ma ammette che negli anni settanta era quello il giornale che comprava perchè si sentiva più affine a tale posizione politica. Gary Crowdus e Dan Georgakas, (a cura di), Gianni Amelio: The Cineaste Interviews 2. Filmmakers on the art and politics of the cinema, Chicago, Lake View Press, 2002, p. 207.

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e le idee di Campanella avrebbero sostenuto un discorso sull’autoritarismo. Quando il progetto fu approvato, la realizzazione del film modificò il suo originale approccio storico. Amelio ha spesso riflettuto su quegli anni e su come il film fosse cambiato in confronto alla sceneggiatura originale. Il regista trova oggi imbarazzante l’esibizionismo nell’uso della macchina da presa nel film, che ha “imprigionato” il discorso sull’utopia di Campanella in un apparato formale e tecnico che definisce repellente25. Lo stile del suo secondo film è, in effetti, diverso da quello tipico del cinema impegnato e di coscienza sociale. La città del sole presenta una ricostruzione storica di un evento reale che permette al regista di riflettere sulla situazione politica dell’epoca, altra caratteristica del cinema di Amelio. Con l’imprigionamento e la tortura di Tommaso Campanella il film affronta tematiche che erano al centro del dibattito politico in Italia in quegli anni: la rivoluzione fallita, la repressione e la possibilità di nuove forme di ribellione. Campanella (1568-1639), nato a Stilo in Calabria, è considerato uno dei più importanti filosofi del tardo Rinascimento. Nel 1599 diede il via ad una rivolta con il piano utopico di formare una repubblica fondata sulla scienza e sulla filosofia, che educasse le masse ed emancipasse gli sfruttati. Il regime spagnolo occupante la soppresse e l’Inquisizione arrestò il monaco domenicano, lo torturò e lo obbligò a pentirsi e ad abiurare il suo sogno di uno Stato fondato su una sorta di rudimentale comunismo. Campanella fu imprigionato per 27 anni nelle carceri reali di Napoli e poi tenuto sotto sorveglianza per tre anni dal Sant’Uffizio a Roma. Nel 1633 andò in esilio in Francia, dove morì sei anni dopo. La sua filosofia era un’evoluzione del naturalismo e sensismo di Telesio, il quale poneva la percezione di sé al centro dell’esperienza umana, così che i sensi non erano puramente passivi ma principi attivi alla base delle scoperte esteriori ed interiori. Seguendo uno schema fondato su questi fatti essenziali, Amelio crea un film che non è storico quanto piuttosto allegorico e metaforico. Gli eventi passati servono come punto di riferimento per un discorso più ampio sul coinvolgimento politico e la ribellione popolare, dove gli oppressori e gli oppressi diventano dei significanti. L’estetismo della mise en scène ed il rigore della composizione, 25  Amelio, citato in Gianni Volpi, (a cura di), Gianni Amelio, Torino, Scriptorium, 1995, p. 96.

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conducono il film verso un livello di astrazione, al punto che diventa quasi impossibile capire se il monaco mostrato nel suo ritorno ai luoghi di ribellione all’inizio del film sia Campanella o qualcun altro che lo conosceva. Un giovane di circa sedici anni lo segue e poi lo ferma. Il comportamento dell’anonimo monaco è misterioso ed il pubblico percepisce la sua paura nel rivelare la sua identità, che pertanto rimane un enigma. Ciò che veramente interessa ad Amelio è il discorso sulla conoscenza e sul ruolo dell’intellettuale negli eventi socio-politici. Campanella diventa l’archetipo dell’intellettuale che vuole risvegliare la coscienza politica delle masse. Questo è descritto nel film quando, sulla spiaggia, il giovane comprende il significato del suo incontro con il monaco e continua a diffondere le sue idee. Alcuni elementi richiamano La fine del gioco. Per esempio il momento toccante fra Campanella e suo padre, un uomo rispettoso della legge che non comprende la ribellione del figlio, suggerisce una autocitazione ed è girata con un’unica lunga ripresa con camera fissa senza virtuosismi e termina con un’inquadratura a figura intera. In entrambi i film, Amelio rivisita il Sud ed i suoi antichi problemi. Gli interessi alla base della ricerca artistica di Amelio emergono dal confronto fra l’individuo e l’istituzione della Chiesa, che reprime la libertà personale e quella di pensiero. Il critico francese Luis Séguin comprese il messaggio utopico di questa favola. L’Utopia oltrepassa per definizione il concetto di razza, non è un piano o un progetto, ma lo scandalo di una favola. Secondo il critico è proprio per questo motivo che il ritratto della vita di Campanella da parte di Amelio in La città del sole è organizzata attorno a questo senso di leggenda26. Campanella è interpretato da Giulio Brogi, che era l’icona del cinema militante italiano. Brogi apparve anche in Galileo (1968) di Liliana Cavani, La strategia del ragno (1970) di Bertolucci, e in San Michele aveva un gallo (1973) dei fratelli Taviani. Lavorare con lui insegnò ad Amelio a cambiare tipo di approccio nel dirigere un attore ed iniziò a prestare molta attenzione alle espressioni facciali ed ai gesti. In questo film, al contrario, Amelio era più interessato a come gli attori occupavano lo spazio e a come si muovevano per accompagnare la cinepresa. 26  “La città del sole,” «Positif», 16 Dicembre 1974, p. 14. Anche in Don Ranvaud e Ben Gibson, (a cura di), The Films of Gianni Amelio, Edimburgo, The Other Cinema, 1983, p. 19.

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False partenze e Bertolucci secondo il cinema Tra il 1973 e il 1976 Amelio scrisse L’Orsa Maggiore, trent’anni di vita italiana vista attraverso Sarzi, una compagnia teatrale itinerante. In collaborazione con Enzo Ungari scrisse Il diavolo sulle colline, ispirato al romanzo di Cesare Pavese del 1949, Anonimo Compagno, un’opera teatrale, la seconda bozza di Il ladro di bambini ed infine, con Mimmo Rafele, una sceneggiatura per Jerry Lewis. Nessuna di queste sceneggiature venne girata. Nel ricordare la collaborazione, Ungari affermò che oltre alle sceneggiature c’erano idee e proposte per la televisione. Secondo Ungari la forza dei successivi film di Amelio risiedeva nella capacità di trattare l’argomento con uno sguardo puro, cercando di nascondere con estrema cura e prudenza la natura perversa del tema narrativo27. Amelio propose inoltre di girare l’adattamento realizzato dal suo amico Bertolucci di una storia di Chekhov da ambientare in un ospedale di Catanzaro. Tutti questi progetti vennero declinati dalla televisione pubblica e dal momento che non voleva rivolgersi all’Istituto Luce Italnoleggio Cinematografica, chiese disperatamente a Bertolucci di poter girare uno speciale sulla sua realizzazione del colossal Novecento (1976). Il risultato è Bertolucci secondo il cinema (1976), un film di 62 minuti su pellicola da 16-mm sottoforma di giornale o diario. Amelio intervista il regista in merito alle sue opinioni riguardo al cinema e dipinge un ritratto di Sterling Hayden, il quale interpreta il ruolo del capo più anziano dei contadini, nonché antagonista del padrone Berlinghieri, interpretato da Burt Lancaster. Di fatti lo special di Amelio inizia con la scena del ballo dei contadini che precede la morte del vecchio padrone, anticipata da un’intervista a Hayden che parla in inglese con Amelio, rispondendo una domanda sul significato del film che stanno realizzando. Amelio spesso riprende Bertolucci mentre sta girando le scene e posiziona la cinepresa con un’angolatura completamente diversa da quella del regista emiliano, per affermare la sua propria autorità e l’evoluzione della sua personale sperimentazione cinematografica. Questo documentario è unico ed ha multipli scopi. Innanzitutto, dopo che molti progetti erano 27  Citato in Ranvaud e Gibson, Films of Gianni Amelio, cit., p. 8.

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stati rifiutati, Amelio desiderava semplicemente guadagnare un po' di denaro per potersi mantenere. In secondo luogo, voleva provare l’emozione di trovarsi in un grande set con divi di fama internazionale. Infine, dal momento che conosceva piuttosto bene la sceneggiatura, cercò di indovinare come Bertolucci avrebbe girato le scene individuali e filmò le sue varianti personali. Osservando Bertolucci e ponendogli delle domande, Amelio chiarisce a se stesso alcune tematiche che saranno alla base del suo discorso cienamtografico: il ruolo e la scelta degli attori; la funzione del cinema nella società e come mezzo artistico ed espressivo; il ruolo e la concezione stessa del regista e le teorie relative alla regia. Non a caso il film di Amelio che segue questa esperienza, La morte al lavoro, oltre a rifarsi a Jean Cocteau, a mio avviso prende spunto anche dall’ultima conversazione con Bertolucci che parla del trucco sul volto di De Niro. Lo special di Amelio non copre tutto il film ma si sufferma sui momenti salienti del film di Bertolucci: il ballo dei contadini, la fine della I Guerra Mondiale, l’avvento del fascismo, l’incontro culminante tra Alfredo (Robert De Niro) e la moglie (Dominique Sanda) e l’applicazione del trucco sul volto di De Niro per la parte finale del film. Le riprese sono intercalate da interviste a Bertolucci, dove egli parla della scelta degli attori, del suo bisogno di girare in ambienti reali per confrontarsi con la realtà, della casualità nel cinema e del ruolo dell’inconscio nella creatività. Bertolucci si sofferma anche sull’autobiografismo e sulla dialettica dei contrasti che sta alla base della lotta di classe su cui si sviluppa tutto il film. L’esperienza risultò molto utile ad Amelio, permettendogli di vedere e studiare come si prepara e si realizza una scena ma, a mio avviso, lo indusse anche a sviluppare quella dialettica dei contrasti che è alla base del suo cinema. Senza però correre i rischi della ridondanza di Bertolucci tra cinema classico americano, realismo sovietico, neorealismo, filmballetto cinese e melodramma italiano. Il titolo del film riflette lo spirito dell’iniziativa: cambiando l’ordine delle parole oppure leggendo da destra a sinistra, il significato cambia da il cinema secondo Bertolucci a Bertolucci secondo il cinema. Questo riarrangiamento non solo stimola la curiosità dello spettatore, ma esprime inoltre le intenzioni e gli obiettivi di Amelio: comprendere Bertolucci attraverso il suo cinema, addentrarsi nelle

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sue tecniche di ripresa e sperimentare con la cinepresa, posizionandola in maniera diversa da quella del “Maestro”. Bertolucci nacque nel 1941. Il padre Attilio era un poeta, uno storico e critico d’arte ed un critico cinematografico. Bernardo cominciò a scrivere poesie all’età di quindici anni e vinse molti premi. Si iscrisse alla Facoltà di Letteratura Moderna all’Università di Roma nel 1958, ma l’abbandonò quando l’amicizia del padre con Pier Paolo Pasolini lo aiutò a guadagnarsi un lavoro da aiuto regista in Accattone nel 1961. L’ambiente privilegiato in cui crebbe Bertolucci potrebbe spiegare la sensazione di rivalità che emerge nel film di Amelio, lo special ripete la dialettica dei contrari: Olmo-Alfredo diventano Amelio-Bertolucci. Amelio ama ricordare un aneddoto divertente che ci suggerisce l’esatta atmosfera di quella esperienza. Bertolucci aveva appena cominciato a girare il film ed Amelio andò nella valle del Po per chiedere il permesso di iniziare le riprese del suo documentario. Durante il viaggio Amelio si perse. Dopo una lunga camminata lungo i filari di pioppi, vide finalmente un uomo che si faceva strada attraverso l’erba con una falce. Amelio chiese all’uomo se sapesse dove una troupe stava girando un film in quella zona. Il “contadino” gli rispose «Sorry, I don’t understand…,» e dal suo sorriso Amelio riconobbe Sterling Hayden. Sfortunatamente non aveva una cinepresa con sé. Più che gioia per aver visto l’attore, Amelio provava dispiacere per non averlo riconosciuto immediatamente dal momento che si considera un vero cinefilo, possiede più di 3000 film ed il cinema è spesso il tema delle sue opere. Metathriller Due anni dopo Amelio realizzò La morte al lavoro, un adattamento della novella Il ragno di Hanns H. Ewers. Il film fu ben accolto dalla stampa e dai critici e segnò il più grande successo di Amelio come autore. Prodotto in sei giorni con un budget davvero ridotto, il film vinse il Premio speciale della giuria e quello della critica al Festival di Hyères e il premio FI.PRE.SCI al Festival di Locarno, per il quale venne adattato a 35 mm. Il titolo prende spunto da un’affermazione di Jean Cocteau secondo cui il cinema rappre-

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senta la morte “al lavoro” sugli attori. La cinepresa riprende e fissa per sempre un momento che non potrà mai più essere ricatturato, ma allo stesso tempo immortala ogni segno dell’età negli attori ed il loro progressivo invecchiamento. Il film di Amelio è una riflessione sul cinema classico, con riferimenti ad Hitchcock e alla musica del suo compositore Bernard Herrmann, come anche a Inquilino del terzo piano (1976) di Roman Polanski, un adattamento di Le locataire chimerique di Roland Topor, al fine di ricordare costantemente agli spettatori che essi stanno guardando un film prodotto per la televisione da un regista che ama l’inquietante atmosfera gotica del grande schermo. La storia sembra concentrare l’attenzione su Alex (Federico Pacifici), un giovane uomo che si trasferisce in un appartamento dove un attore si è appena suicidato. Lentamente il protagonista assume lo stesso ruolo del precedente inquilino e si uccide a sua volta. In questo cinema dentro al cinema, Alex intrattiene un silenzioso dialogo dalla finestra sul cortile con una donna il cui nome sembra essere Eve. Nonostante appaia solo occasionalmente, la donna dà l’impressione di controllare i desideri di Alex. La sua finestra diventa una metafora dello schermo, anche se alla fine nulla si spiega chiaramente e l’esistenza della donna viene messa in dubbio. Probabilmente l’unico ad esistere è il ragazzo suicida. Il discorso metaforico è più rilevante della storia in sé e si sviluppa su tre livelli. In primo luogo rappresenta la morte del cinema classico americano, come rappresentato dal suicidio di Alex. In secondo luogo, la scelta di mostrare Eve esclusivamente dalla finestra, come in uno schermo, il fatto che non incontri mai Alex e forse non esista nemmeno, ribadisce l’attrattiva e l’ascendente della diva sul pubblico. Alex e Eve stabiliscono una relazione di intensa complicità, comparabile a quella tra il pubblico e gli attori e tra gli attori ed il regista. Infine, dal punto di vista personale, Amelio mette in scena la morte del suo amore adolescenziale per quel tipo di cinema. È forse svanita la parte di lui che cercava disperatamente Gilda, come Alex? O sta forse suggerendo che la perdita di quel richiamo conduce alla morte? Nonostante Amelio sconfessi questo film, che è stilisticamente molto distante dai suoi lavori successivi, mostra il suo interesse per il ruolo del cinema, la sua attrazione ed il suo impatto nei confronti degli spettatori.

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Lo stesso anno, quattro settimane dopo, girò Effetti speciali, un giallo che riguarda la produzione cinematografica. Luca (Aldo Reggiani) scrive un giallo e lo invia a Boris Delvaux (José Quaglio), un vecchio regista di film horror dimenticati, che invita Luca e sua moglie Gloria, un’attrice, a fargli visita nella sua casa sul lago. Il vecchio regista convince i suoi ospiti a recitare alcune scene tratte dal suo lavoro e Luca, intrigato dalla cosa, è indotto a pensare che Gloria sia morta nell’interpretare una delle scene della sua storia. Alla fine il pubblico scopre che la morte della donna è una beffa orchestrata dal regista per insegnare a Luca che cosa siano veramente i film dell’orrore. Il regista viene ironicamente ucciso dal suo stesso gioco e dalla creatura meccanica che egli stesso ha creato. Per Amelio il film rappresentava un esercizio divertente girato a colori, nonostante a quei tempi la televisione venisse ancora trasmessa in bianco e nero. La storia è semplice e diretta ma piena di tensione e risvolti inattesi. Il critico M. Morandini lo vede più affine a Hamer piuttosto che a Hitchcock, nonostante la presenza della musica composta da Herrmann per il maestro del genere giallo. La morte al lavoro ed Effetti speciali iniziarono e conclusero una serie andata in onda sul secondo canale, intitolata L’ultima scena e sottotitolato Storie fantastiche sul mondo dello spettacolo. Per Amelio questa era un’ottima opportunità per esplorare e riflettere su altri film, come Peeping Tom (1960) di Michael Powell e Sleuth (1970) di Joseph L. Mankiewicz, rivelando il suo amore per il cinema, l’amore per i generi e il suo voyeurismo. Le storie gli permisero di sperimentare tecniche in grado di attrarre e giocare con il pubblico e con il cinema stesso. Gli diedero inoltre l’opportunità di lavorare in uno studio come se stesse girando un film per il grande schermo. Tutto ciò che la recensione di Enrico Magrelli in «il manifesto» interpreta come l’ostinata fiducia di Amelio nel cinema in quanto finzione assoluta, può anche essere letto come il suo tentativo di esorcizzare la sua dipendenza dai film. Come Amelio spiega, all’inizio della sua carriera era assorbito dal cinema a tal punto che non leggeva libri e non ascoltava musica. La sua passione esagerata lo spingeva ad andare al cinema anche tre volte al giorno. La sua professione in un certo senso lo aiutò ad esorcizzare la sua sfrenata cinefilia28. 28  Scalzo, Gianni Amelio, cit., p. 72.

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Il piccolo Archimede Nel 1979 Amelio girò Il piccolo Archimede, un adattamento del romanzo di Aldous Huxley. Il film è tuttora considerato il migliore lavoro di Amelio per il piccolo schermo, paragonato da Tullio Kezich a Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti. La RAI commissionò il lavoro come parte di una serie intitolata Novelle dall’Italia. Amelio dapprima scelse un romanzo di E.M. Forster, ma fu in seguito scartato a causa dei costi sostenuti per la scenografia inglese. La storia di Huxley è ambientata in Toscana ed il film venne realizzato in tre settimane ed un giorno ad un costo minimo. Il film racconta la storia di Alfred Heines, un professore d’arte inglese che, con la moglie Elisabeth ed il figlio Robin, risiedono in una villa i cui proprietari sono una coppia senza figli: la signora Biondi, una ex attrice, e suo marito in pensione. Il professore si trova in Italia per scrivere un libro su Giotto, ma finisce per passare il suo tempo con Guido (Aldo Salvi), l’amico di sette anni di Robin, il quale dimostra una straordinaria predisposizione verso la musica, la letteratura e la matematica. La loro relazione si interrompe quando la famiglia parte inaspettatamente per la Svizzera. Nel frattempo la signora Biondi adotta Guido ed il ragazzo cerca di scrivere una lettera al professore per informarlo di ciò che stava accadendo. La lettera arriva troppo tardi e prima che il professore arrivi in Toscana, Guido muore suicida o cadendo incidentalmente da una finestra. Il film ritrae la dicotomia fra l’innocenza e la cultura che corre attraverso il cinema di Amelio. L’abilità del regista nel ricostruire l’atmosfera della Toscana degli anni trenta attraverso gli occhi di una famiglia inglese è elogiata da Alberto Moravia, il quale riconosce la straordinaria sensibilità culturale di Amelio, senza la quale non sarebbe mai riuscito ad innescare il discorso sulla relazione tra cinema e cultura29. Moravia vide il film come un esempio per superare la profonda crisi del cinema italiano degli anni settanta. La recensione del critico Tullio Kezich in «la Repubblica» afferra l’importanza del suo lavoro ed invita tutti gli amanti del cinema a non perdere questo film, definendolo un capolavoro. Per quanto riguarda Amelio, il critico riconosce la sua ricca filmografia e critica la mancanza di 29  Un Archimede alto così, «L’Espresso», 1980; in Scalzo, Gianni Amelio, cit., p. 76.

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attenzione da parte degli altri critici, per il solo fatto che Amelio non era ancora approdato al grande schermo30. I velieri Un anno dopo Amelio girò I velieri (1983) in 16 mm per la serie di RAI TRE Dieci storie italiane, dieci registi italiani. Il suo ultimo film per la televisione era un adattamento del racconto omonimo di Anna Banti31. Dopo essere stato in passato vittima di un rapimento all’età di tre anni, il dodicenne Jean (R.M. De Azeredo), figlio di un ricco uomo d’affari, vive in un castello isolato con la madre isterica (Monique Lejeune), una teutonica governante (Eva Pilz) ed un padre assente. Jean ha un ricordo ricorrente, anche se vago, di un veliero in una bottiglia visto durante la sua prigionia, un’esperienza terrificante trasformata in un’avventura, un momento di libertà e divertimento nella sua noiosa esistenza. Il giovane decide un giorno di cercare il posto in cui è stato tenuto prigioniero e questa “fuga” lo aiuta a comprendere che cosa sia veramente accaduto e a mettere in discussione il suo rapporto con i genitori ed in particolare con il padre. Secondo il regista, I velieri mostra la sua disillusione verso il proprio lavoro, come reazione all’ostilità con cui era stato accolto Colpire al cuore, un film in cui si era assunto dei rischi e che aveva ricevuto ben pochi consensi dalla critica. Amelio evitava di fare un altro film ma quando gli fu proposto di adattare questo racconto italiano accettò dal momento che, come Il piccolo Archimede, aveva come protagonista un bambino, tenuto prigioniero dalla sua stessa famiglia. Questo, pensava Amelio, avrebbe aggiunto un ulteriore capitolo al suo tema ricorrente. I velieri, Il piccolo Archimede e Colpire al cuore possono essere considerati una trilogia che esplora la realtà, l’immaginario, e sviluppa la relazione fra padre e figlio, il cui legame inadeguato permette al regista di portare all’attenzione del pubblico alcune questioni morali. 30  Chi ha paura di questo piccolo grande Archimede?, «la Repubblica», 1980; si veda anche Scalzo, Gianni Amelio, cit., pp. 75-76. 31  Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti-Longhi, nacque a Firenze nel 1895 e si laureò all’Università di Roma. Diresse la sezione letteraria della rivista Paragone e, dopo la morte di suo marito, il critico d’arte Roberto Longhi, diresse anche la sezione d’arte. Morì nel 1985.

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Ad Amelio piaceva utilizzare la storia come una velata autobiografia. Nonostante il contesto borghese non gli appartenesse, Amelio riuscì ad identificare l’infelicità del bambino, la sua nostalgia per il padre assente ed il veliero con i suoi sentimenti verso il cinema e la cinepresa. Il bambino cerca di ricatturare il momento in cui, mentre giocava con il veliero venne rapito e lo ricorda come il solo momento felice, poiché era lontano dalla prigione costruita dai suoi genitori. Il veliero è la metafora del lavoro del regista come meccanismo di fuga nella vita di Amelio. Jean è coinvolto in una relazione conflittuale anche con la madre. Per Amelio il film aveva un’importanza rilevante anche per quanto riguarda il suo rapporto con la letteratura. Dopo la fine delle riprese, il regista scrisse una lettera ad Anna Banti nella quale si scusò per non averla consultata durante la stesura della sceneggiatura, attribuendo alla sua modestia la colpa di questo comportamento scorretto. Amelio si giustificò per aver “tradito” la storia, definendola una delle meno cinematografiche dei racconti della Banti, a causa della conclusione improvvisa in relazione alla lunghezza del tempo che occupa e all’intensità e complessità dei personaggi. Amelio apportò i cambiamenti in questione senza che ciò implicasse alcuna critica al testo. Scrisse anche che quella breve ed intensa storia lo intrigava come un importante capitolo nella lunga serie di film che aveva realizzato sull’adolescenza32. A distanza di due anni Amelio ritrattò la sua posizione sull’adattamento cinematografico e, riferendosi al racconto della Banti, affermò che la traduzione di immagini letterarie in immagini cinematografiche non può essere come un viaggio di trasloco in cui molti pezzi vanno persi o spostati33. Molti critici italiani trovarono da ridire sul film per l’eccessiva attenzione alla forma cinematografica, che predomina sulla sua spinta morale. Dopo queste esperienze in qualche modo negative, Amelio dovette attendere cinque anni prima di girare il film successivo nel 1988, ispirato a La scomparsa di Ettore Majorana (1975) di Leonardo Sciascia.

32  Parti della lettera di Amelio alla Banti sono riportate in Alberto Cattini, Le storie e lo sguardo. Il cinema di Gianni Amelio, Venezia, Marsilio, 2000, p. 76. 33  Amelio in Ranvaud e Gibson, Films of Gianni Amelio, cit., p. 55.

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I film per il grande schermo: una breve introduzione I capitoli seguenti studieranno in maniera cronologica i film di Amelio per il grande schermo. I film saranno contestualizzati e la sua carriera artistica verrà messa in relazione all’esperienza di Amelio come professore di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia dal 1983 al 1986. Come ha affermato Julianne Burton, l’ambiente contestuale di un film nel momento della sua produzione è rilevante per qualsiasi interpretazione storica del contenuto, della forma e del funzionamento di quel testo34. Queste letture, che tengono conto del contesto sociale, economico, storico e politico, vogliono indurre a una comprensione più completa del valore delle opere cinematografiche di Amelio ed incoraggiare il dibattito, la discussione ed il dissenso. Nonostante alcuni film di Amelio abbiano attratto l’attenzione critica degli ambienti accademici, altri lavori, specialmente quelli per la televisione, hanno riscosso scarso interesse. Uno studio della sua intera carriera offre non solo un incontro stimolante con film di alto valore ed impatto artistico, ma rappresenta anche una rara opportunità di confrontarsi con temi che sono in relazione con la cultura, la storia e l’identità italiane, e che allo stesso tempo affrontano problematiche ricorrenti a livello internazionale. I vari stadi della ricerca, da parte di Amelio, di un linguaggio e di uno stile cinematografico propri, portano all’attenzione i dibattiti e i cambiamenti nella teoria cinematografica dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. Amelio non frequentò mai una scuola di regia, pertanto cominciò la sua carriera senza una formazione professionale, ma con una grande passione per il cinema classico americano. Aveva nove anni quando vide La strada (1954) di Fellini e fu molto toccato e disturbato dalla brutalità di Zampanò, dal sesso e dal peccato che il film ritrae. Amelio ricorda che con tutta la famiglia al completo prese l’autobus per Catanzaro per vedere La dolce vita (1960). Solo dopo 34  «Film artisans and film industries in LA, 1956-80: Theoretical and critical implications of variations in modes of filmic production and consumption,» in New Latin American Cinema, vol. 1, Theory, Practices and Transcontinental Articulations, a cura di M. T. Martin, Detroit, Wayne Sate University Press, 1997, p. 166.

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aver cominciato a leggere la rivista «Cinema nuovo, a partire dal 1957, iniziò ad apprezzare lavori quali Il grido di Antonioni, Le notti di Cabiria di Fellini e Le notti bianche di Visconti. I film di Fellini, Visconti e Antonioni apparivano realistici, naturalistici e complessi. Quando vide Rocco e i suoi fratelli (1960) di Visconti cominciò a comprendere che il melodramma romantico poteva essere utilizzato per mettere in atto una realistica e naturalistica accusa alla società. Il posto (1962) di Ermanno Olmi, che raccontava il primo lavoro di un adolescente in un grande complesso industriale di Milano, è apparentemente senza storia ma narrato con grande senso dell’umorismo. Il film mostrò ad Amelio uno stile che cattura gli eventi quotidiani senza troppa conversazione e semplicità. Una volta giunto a Roma, venne influenzato dalla teoria dei grandi autori che rinforzò la sua forte cinefilia, visibile più chiaramente nei suoi primi lavori. I suoi film ci offrono la possibilità di definire il suo rapporto con il movimento storico del neorealismo e di analizzare l’influenza che ebbe su un artista proveniente da un piccolo paesino della Calabria. L’eredità cinematografica del dopoguerra servì da modello a molti nuovi registi italiani durate gli anni sessanta. Registi quali Pier Paolo Pasolini, Francesco Rosi, Gillo Pontecorvo, Elio Petri e Giuliano Montaldo realizzarono film proponendo un rinnovamento piuttosto che un rifiuto di tale stile. Negli anni settanta, quando Amelio intraprese la sua carriera, il neorealismo era visto come una sorta di padre simbolico la cui influenza doveva essere eliminata e sepolta. Il concetto manicheo di bene e male di alcuni film del neorealismo avevo perso il suo vigore. La virtù e il vizio sembravano influenzarsi l’un l’altro. Secondo il critico Lino Miccichè, i registi degli anni settanta stavano cercando di liberarsi del passato utilizzando l’autobiografia e ritraendo il loro stesso isolamento35. Una nuova analisi dei primi lavori commissionati ad Amelio fa luce altresì sul ruolo della televisione nella produzione e distribuzione di film durante gli anni settanta, nonché sul suo impatto in merito allo sviluppo artistico e alle scelte tematiche a disposizione della nuova generazione di registi che varcava la soglia del mondo 35  Gli eredi del nulla. Per una critica del giovane cinema italiano, in Franco Montini, (a cura di), Una generazione in cinema. Esordi ed esordienti italiani 1975-1988, Venezia, Marsilio, 1988, pp. 251-258.

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del cinema. Oggi gli spettatori godono di una scelta molto più vasta, grazie alla costruzione dei multisala nei centri urbani e alla privatizzazione della visione di film attraverso l’home enterteinment, che ha inoltre eliminato la sindrome Fahrenheit 451, ovvero la paura di perdere le opere d’arte36. Ironicamente l’esperienza artistica che motivò la carriera di Amelio era già alla fine nel momento in cui Amelio si affacciò al mondo del cinema. Se da un lato la Nouvelle Vague fece scattare la scintilla per una rivoluzione cinematografica negli anni sessanta, le case di produzione cinematografiche in Italia stavano chiudendo, lasciando il posto ai set televisivi che mettevano in onda giochi a premi, partite di calcio e documentari. L’analisi su come furono realizzati i primi film di Amelio mette a fuoco un problema centrale, legato al declino della visione di film ed al bisogno di cercare un compromesso con le richieste della televisione pubblica, che era il principale sbocco, se non il solo, per giovani registi. I suoi migliori film in quel periodo furono prima prodotti per la televisione e successivamente adattati al formato 35 mm per i film festival. Dopo aver raggiunto una fama internazionale Amelio ebbe finalmente l’opportunità di realizzare i film che desiderava. Le sue opere successive sull’immigrazione vinsero molti premi italiani, europei e dell’America Latina e Amelio venne riconosciuto come un talento unico, i cui lavori richiamavano alla memoria i maestri del neorealismo italiano e i classici americani. Molti critici italiani e americani posizionarono i suoi film all’interno della nuova ondata di opere neo-neorealiste italiane realizzate alla fine degli anni ottanta e novanta, che modificarono le principali caratteristiche del cinema italiano del dopoguerra e introdussero temi sociali nel contesto contemporaneo. Senza dubbio si possono stabilire molte connessioni tra i film di Amelio e il neorealismo: l’impiego di protagonisti poveri e marginali provenienti dalle classi meno abbienti, incluso bambini ed adolescenti; la relazione tra i personaggi e l’ambiente circostante; la funzione narrativa dell’ambientazione; la tensione etica nell’uso della cinepresa. Ritengo fermamente che Amelio offra un omaggio diretto ed indiretto ai film dei grandi maestri italiani del neoreali36  Dal romanzo di Ray Bradbury, New York, Ballantine Books, 1953, in cui un regime dichiara illegali i libri e i dissidenti cercano di memorizzarli.

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smo, quali De Sica, Rossellini, Visconti e Antonioni, così come ai registi minori di quel periodo, attraverso una rinegoziazione dei temi principali. Tuttavia lo stile attraverso cui affronta i temi politici è molto diverso da quello dei registi del neorealismo, dai registi del cosiddetto cinema civico e sociale italiano e dal movimento conosciuto come Imperfect Cinema. Amelio non crea un cinema rivoluzionario e di opposizione, ma è politico nella misura in cui denuncia i problemi italiani e mostra il malfunzionamento delle istituzioni e la degradazione morale. Amelio non mira ad istigare una lotta contro le ingiustizie, ma analizza piuttosto gli effetti della storia sugli individui e sulla realtà privata. Il regista svela ciò che sta ai margini e lo spettatore deve arrivare all’interpretazione ufficiale della situazione presentata dalla finzione cinematografica. Oltre ai parallelismi ricorrenti tra padre/figlio, insegnante/allievo, il regista contrappone in maniera aperta e riflessiva presente e passato, memoria storica e oblio, convento, prigione, campagna, città e cultura, innocenza, conformità e trasgressione. In quanto figlio del Sud e della generazione del dopoguerra, Amelio fu sia vittima che beneficiario dell’ultimo cambiamento epocale che trasformò l’Italia da Paese agricolo a moderna società industriale. Da questo punto di vista fu fortunato ad avere l’opportunità di narrare questa grande trasformazione antropologica, che in una sola decade modificò uno stile di vita durato per secoli. La generazione che entrò nel mondo del lavoro alla fine degli anni sessanta fece un salto unico e senza precedenti nella scala sociale e fu la prima generazione di analfabeti o semi letterati a poter frequentare l’università. Nel 1951 l’Italia aveva un tasso di analfabetismo del 12 percento, che arrivava al 60 percento al Sud. Dal 1951 al 1961 il numero di persone impiegate nell’agricoltura scese dal 43 percento al 29,6 percento. Tra il 1958 e il 1963 un numero di poco inferiore a un milione di persone si trasferì dal Sud al Nord. Il prodotto interno lordo salì da 17.000 milioni di lire a 30.000 milioni tra il 1954 e il 1964. I nati a partire dagli anni cinquanta non compresero il vero significato di questo salto sociale. Il confronto di Amelio con le sue radici conferisce profondità alla sua ricerca cinematografica. Tutti i suoi film riflettono questa trasformazione in molti modi, sia direttamente che indirettamente. Dal

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mio punto di vista critico, nonostante la sua cinematografia abbia alcuni elementi che ricordano il postmodernismo, la sua arte ed il suo viaggio artistico sono unici e possono essere meglio compresi in relazione alla carriera di Nanni Moretti, che si posiziona agli antipodi di quella di Amelio. L’amore di Amelio per i film era inizialmente un mezzo di fuga. Successivamente diventò un cinefilo, affetto da voyeurismo e suoi film per la televisione avevano il valore simbolico di liberarlo da tale ossessione. Negli anni novanta Amelio dimostrò di saper essere sia un cinefilo che un realista. Per tali ragioni il cinema di Amelio sembra eludere qualsiasi categorizzazione. Che sia moderno o postmoderno, neorealista o neoneorealista, Amelio è un autore che fonda la sua estetica su una base profondamente etica, che influenza il suo stile, il suo linguaggio e i temi che sceglie per i suoi film. Nella sua fedeltà alle sue radici, Amelio è stato in grado di ridefinire e riattrezzare le sue passioni ed il suo amore. Fra le questioni che affronta questo libro ci sono il come ed il perché.

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Capitolo 2

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Una replica neorealista? Riconsiderando il cinema italiano contemporaneo1

Che cosa mi dà questo cinema? [il cinema italiano contemporaneo] … uno sguardo al reale diverso dal cosiddetto sguardo neorealista o neo-neorealista. Uno degli equivoci che si sono autoalimentati negli anni era di considerare neorealismo tutto ciò che era di argomento sottoproletario, o l’uso di attori non professionisti, cioè tutto quello che con l’estetica vera del neorealismo c’entra solo come fatto esteriore2.

Negli anni cinquanta durante una conferenza stampa a Roma per promuovere i suoi film, Billy Wilder venne esortato insistentemente dai giornalisti ad esprimersi in merito al neorealismo italiano. Wilder si diresse verso la finestra più vicina, la aprì e con un gesto teatrale gridò: «Guardate! Questo è Rossellini!»3. Dieci anni dopo Cesare Zavattini affermò provocatoriamente che il cinema italiano aveva smesso di crescere nel momento in cui gli sceneggiatori avevano smesso di prendere l’autobus. Il critico Lino Micciché, commentando la nuova generazione di registi degli anni ottanta, affermò che la loro visione cinematografica del mondo non andava oltre il proprio ombelico. L’impegno sociale dei film italiani contemporanei che affrontano tematiche relative all’imperizia del sistema giuridico e giudiziario, all’abuso di potere, all’immigrazione, alla violenza urbana, alla disoccupazione e alle opportunità per le generazioni future, ha generato il brutto neologismo di neo-neorealismo. Sono davvero così simili ai film del dopoguerra i film contemporanei impegnati? Questo capitolo definirà i contorni del nuovo cinema italiano, analizzandone temi, protagonisti, attori ed i lavori più rilevanti, al fine di contestua1  Questo capitolo tratterà per lo più i film distribuiti alla fine degli anni ottanta e il 2004, quando i film di Amelio raggiunsero il riconoscimento internazionale. 2  Amelio secondo il cinema, cit., p. 120. 3  Mario Sesti, (a cura di), Nuovo Cinema Italiano: Gli autori, i film, le idee, Roma, Theoria, 1994, p. 7.

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lizzare il ruolo singolare di Amelio all’interno di un panorama più vasto. Il mio obiettivo è quello di mettere in evidenza gli stili e le correnti artistiche, in primo luogo per identificare il nuovo approccio cinematografico ed i meriti del suo impegno sociale, in secondo luogo per contestare la validità dell’etichetta neo-neorealismo, creata da alcuni critici cinematografici senza considerare le differenze storiche, ideologiche e stilistiche tra i film del secondo dopoguerra e quelli contemporanei. In merito a questa definizione, il regista Giuseppe Piccioni riteneva che l’idea di neo-neorealismo fosse stata mutuata dal giornalismo e dall’attualità e che non fosse in origine un termine discendente da un progetto autenticamente cinematografico. Secondo il regista la contaminazione stilistica televisiva presente nel cinema contemporaneo che ha ambizione di essere scomodo è troppo forte per essere neorealista, e i temi scottanti trattati trovano un’area di consenso nell’industria cinematografica4.

Quando il Neorealismo era “neo” Nei primi anni quaranta molti registi sotto l’influenza della rivista Cinema5 espressero la necessità di formulare un’ideologia estetica che fosse in grado di rappresentare la multisfaccettata vita italiana e la gente comune, senza la più lieve artificiosità ed in maniera consapevolmente antagonista nei confronti del predominante cinema artificioso del periodo dell’anteguerra e dello stile fascista. Con l’invasione dei nazisti e lo sbarco degli alleati l’Italia entrò nel periodo della Resistenza e nella guerra civile, che comportò anche la liberazione di Mussolini e la fondazione della Repubblica di Salò. In quel momento il cinema italiano si trovò coeso nel supportare la lotta, dando vita a film quali Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) di Rossellini. Questi film rappresentavano un sentimento nazional-popolare manifestato nella lotta per la liberazione, la ricostruzione e la pace, temi 4  In «Cinemazero 11», n. 8 (Ottobre 1991), p. 13. 5  Si veda Gianni Puccini, I tempi di cinema, in Orio Caldiron, (a cura di), Il lungo viaggio del cinema italiano, Padova, Marsilio, 1965; Intervista a Carlo Lizzani, in Antonio Vitti, (a cura di), Peppe De Santis secondo se stesso. Conferenze e sogni nel cassetto di uno scomodo regista di campagna, Pesaro, Metauro, 2006, pp. 405-418.

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che diventarono la connessione principale tra l’immagine e l’identità collettiva. Alla fine, questioni riguardanti chi avrebbe governato e quanto sarebbe stata contrastata la collaborazione fra le varie forze terminarono definitivamente dopo le elezioni del 1948 e la Guerra Fredda. Secondo lo storico cinematografico Mario Verdone, il neorealismo cinematografico italiano fu un movimento che fiorì in Italia durante la seconda guerra mondiale. Il movimento era basato sul reale ed attraverso uno sguardo critico, diretto e collettivo, mostrava la vita esattamente com’era. Secondo lo storico, l’uso di ambientazioni reali era una conseguenza diretta della mancanza di studi cinematografici nei quali riprodurre le ambientazioni e la scelta di attori non professionisti derivava dall’impossibilità di far interpretare i ruoli agli eroi del cinema precedente6. Rossellini, per esempio, dovette comprare la pellicola da fotografi di strada e sono proprio i pezzi di pellicola 35 millimetri uniti assieme a conferire a Roma città aperta quella sensazione documentaristica o da cinegiornale. I suoni di sottofondo e le voci degli attori vennero doppiati dopo il montaggio, una tecnica comune in Italia. La luce naturale tanto apprezzata nei film era dovuta alla mancanza di studi cinematografici e di elettricità. A quanto si dice, la troupe rubacchiava l’energia da un’associazione militare americana, nella quale incontrarono Rod Geiger, che in seguito supervisionò la distribuzione del film negli Stati Uniti. La mancanza di risorse convenzionali si rivelò, a conti fatti, un fattore positivo. Similmente, quando Amelio si recò in Albania per filmare e capire le cause dell’esodo degli albanesi in Italia, vide un paese che gli ricordò l’Italia del dopoguerra ed utilizzò il cinemascope per ricordare alla gente il proprio passato di povertà. Secondo Amelio, infatti, l’Italia soffre di una memoria troppo corta, i giovani non conoscono l’Italia dei loro padri e si preoccupano esclusivamente di accumulare beni materiali in maniera arrogante7. L’Albania divenne il territorio neutro in cui l’Italia contemporanea poteva vedere l’Italia dei propri padri, attraverso lo sguardo cinematografico che colorava i loro sogni. 6

In Alfonso Canziani, Gli anni del neorealismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 209.

7  Si veda Judy Stone, Gianni Amelio, in Eye on the World. Conversations with International Filmmakers, Los Angeles, Silman-James Press, 1999, p. 414.

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Qualsiasi definizione di neorealismo deve includere, inoltre, un elemento corale che enfatizzi la storia collettiva. Questo era generato da un impulso morale di redenzione e dal desiderio di raccontare eventi significativi: la Resistenza, la sofferenza, l’incapacità da parte dei sopravvissuti di riguadagnarsi un posto in società ed il desiderio della gente di vivere in pace. Tutti questi elementi dimostrano lo sforzo di condensare il materiale storico documentato all’interno della finzione. La ricostruzione cinematografica aveva l’obiettivo di apparire autentica. Senza la storia, la rappresentazione potrebbe sembrare un documentario, smascherando l’ansia economica e sociale e la privazione. Il primo impulso creativo che legava i vari autori e i loro stili era il desiderio di essere partecipi, di documentare e di raccontare quello che avevano visto e vissuto. Rossellini cercò di avvicinarsi il più possibile alla realtà con il minimo ausilio di interferenze artistiche. Per Giuseppe De Santis il cinema era uno strumento per rovesciare l’ordine politico ed educare le masse. Per Vittorio De Sica era la poesia della vita allo stato grezzo. Per Luchino Visconti il cinema rappresentava una rilettura della storia italiana dal punto di vista del popolo, rivestita con richiami borghesi ed aristocratici. L’ambiente sociale, storico e soprattutto umano delle storie che questi registi raccontarono e la loro posizione morale unificarono le loro differenze stilistiche. Non è sufficiente affermare che i protagonisti dei film neorealisti erano gente comune con problemi comuni e che pertanto le storie erano basate su temi semplici. Piuttosto i film raccontavano storie senza sensazionalismi per svelare e condannare i fitti problemi sociali e politici di quel momento; i protagonisti emergono dalle masse di gente che condividono la loro stessa situazione. Antonio Ricci di Ladri di biciclette o Umberto D rappresentano un esempio di privazione universale. Basti pensare ai capolavori di De Sica, quali I bambini ci guardano (1944), Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), oppure Germania anno zero (1948) di Rossellini, i quali miravano a creare empatia ed identificazione con i protagonisti, metodo spesso intensificato attraverso l’impiego di bambini. Nella mia definizione di neorealismo è necessario tenere in considerazione elementi storici, temporali e tecnici. I fondatori condividevano un impulso morale nel mostrare e mettere in discussione ciò

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che stava accadendo attorno a loro, ma erano anche animati da un sentimento etico di redenzione nazionale e sociale. Alcuni auspicavano un cambiamento totale nella struttura capitalista e rifacendosi alle idee di Antonio Gramsci erano fautori di opere d’arte impegnate politicamente. L’intellettuale sardo esortava gli intellettuali marxisti a portare gli ideali e l’arte alle masse e ad ottenere potere politico attraverso una sottile ma determinata opposizione alle richieste culturali ed economiche dell’egemonia dominante. Concordo con Celli e Cottino-Jones8, quando affermano che la diffusione delle idee di Gramsci e di Galvano Della Volpe (1895-1968) giunse nel momento di transizione, nella critica letteraria ed estetica, dal neo-idealismo al marxismo. La linea che condusse da De Sanctis al liberale Benedetto Croce ora correva da De Sanctis al marxista Gramsci. A ciò si aggiunga il fatto che più tardi, negli anni cinquanta, la classificazione del movimento in termini critici e teoretici iniziò ad irrigidirsi e a polarizzarsi come conseguenza della Guerra Fredda e della ristrutturazione dell’industria cinematografica italiana. Il tentativo di Zavattini verso qualche sorta di annotazione teoretica sorse nel momento in cui l’impeto originale del movimento iniziava a diminuire. La visione cinematografica dello sceneggiatore era provocatoria ma allo stesso tempo utopica e irrealizzabile in un’industria che doveva tener conto del pubblico e degli elementi della rappresentazione. Secondo la sua oramai famosa teoria del pedinamento, citata da Sudbury, la realtà è fatta per essere pedinata, perché la razza umana ha bisogno di conoscere se stessa per poter esprimere solidarietà. In questo procedimento il cinema è lo strumento di conoscenza più adatto. Come Sudbury afferma, un tale impegno dimostra un ragionamento di forte impatto politico9. La nuova Repubblica era costruita sul mito della Resistenza, che la Guerra Fredda trasformò in una rigida ideologia, ulteriormente minata dal ritorno dell’Italia ad un modello di vita sociale e politico ordinario. Solo i critici marxisti che seguivano ciecamente la linea politica dell’ex URSS cercarono di caldeggiare un’interpretazione 8  A New Guide to Italian Cinema, New York, Palgrave Macmillan, 2007. 9  Lawrence M.F. Sudbury, Nuovo Cinema Italia, «Segno Cinema», settembre-ottobre 1994, p. 10.

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ideologica in merito all’importanza dei film neorealisti10. Registi quali Giuseppe De Santis, d’altro canto, difesero il mito della Resistenza senza rinunciare alla propria libertà artistica11. Gli artisti di sinistra non erano contrari alla teoria cinematografica, ma volevano mantenere viva la loro attenzione nei confronti della classe operaia. Visconti in La terra trema (1948) utilizzò il linguaggio dei pescatori siciliani, un cast interamente non professionista, ampi primi piani, sequenze e riprese molto lunghe, non soltanto per lo sviluppo di una trama naturalista o per ragioni estetiche, ma anche per una provocazione politica, al fine di descrivere la vita quotidiana dei suoi semplici personaggi anche attraverso l’uso del loro modo di parlare e per legarli al loro ambiente. De Santis non modificò le riprese con la gru tipiche dei musical americani semplicemente per ragioni estetiche, ma per sviluppare le sue personali tecniche corali, al fine di trovare dei mezzi tecnici per legare i singoli personaggi al gruppo o alla classe sociale e portare avanti il suo discorso politico centrato sulla lotta di classe. L’uso del dolly in De Santis ha una funzione politica e ideologica, mentre per esempio in Novecento di Bertolucci ha una funzione estetica. Per esempio in Novecento, nella scena della marcia ‘funebre’ dei contadini che segna la loro sconfitta dopo la strage dei fascisti nella casa del popolo, l’operatore inizia la ripresa della sequenza su una gru (un dolly) con una macchina da presa in mano per poter scendere e poi riprendere la marcia dalla strada. Lo scopo del regista emiliano era di dare all’inizio un respiro hollywoodiano e poi passare allo stile documentarista: la sua era una ricerca di stile e linguaggio per creare un equilibrio tra documentario e finzione e un omaggio al cinema. In De Santis le riprese con la gru si spostano dal primo piano di un singolo individuo, senza nessuna posizione spaziale o temporale specifica, alla scoperta di uno spazio spesso illimitato, un paesaggio naturale o un gruppo. Poi la cinepresa torna ad un altro primo piano su quello stesso personaggio, o su un altro, per legare l’individuo alla comunità. Quando questa tecnica fu in seguito utilizzata da Or10  Per una percezione del neorealismo nell’ex URSS, si veda Galina Aksenova, Moscow, Open City. Perception of Neorealism in the USSR in the 1940s to 50s, in A. Vitti, a cura di, Incontri con il cinema italiano, Caltanissetta, Salvatore Sciascia Editore, 2003, pp. 97-114. 11  A. Vitti, Peppe De Santis, cit., pp. 199-221.

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son Welles nella sequenza iniziale di L’infernale Quinlan (1958) e in L’età dell’innocenza (1993) di Martin Scorsese, non possedeva più il suo intento politico ed ideologico. Prima di servirsi della gru, De Santis sperimentò altri approcci per legare l’individuo alla comunità mentre lavorava come aiuto regista per Aldo Vergano in Il sole sorge ancora (1946). Nella scena dell’esecuzione, il prete don Camillo (Carlo Lizzani) inizia a recitare l’Ora pro nobis mentre procede verso lo squadrone di esecuzione, con la folla che lo segue in un assordante crescendo12. Il discorso cinematografico degli anni cinquanta era così polarizzato, che entrambe le parti privilegiavano l’interpretazione politica del messaggio dei film a discapito delle tecniche utilizzate. Celli e Cottino-Jones fanno notare che Alessandro Blasetti, noto regista sotto il regime fascista, era giudicato per il suo passato politico, nonostante fosse stato fautore dello stile cinematografico derivante dal formalismo russo. Anche De Santis venne attaccato per la sua affiliazione politica al Partito Comunista, al punto che venne ostracizzato e obbligato a lavorare nell’Europa dell’Est13. Dal punto di vista tecnico, le differenze tra il cinema del dopoguerra e quello contemporaneo sono enormi. Secondo il critico Brunetta il neorealismo glorifica l’esperienza espressiva emozionale e quegli elementi che legano l’autore alla sostanza del testo, mentre il cinema popolare o commerciale cancella la percezione dell’autore ed orienta tutte le azioni nella direzione del pubblico14.Questa definizione allude al linguaggio elitario inerente al cinema neorealista. Nel rifiutare i modi espressivi accettati della grammatica e della retorica, gli autori dell’Italia del dopoguerra utilizzarono lo spazio e gli oggetti per creare un nuovo linguaggio che fosse anche un nuovo modo di guardare il mondo: con un’urgenza e una forza che raccontavano la storia della tragica realtà della guerra, senza gli eccessi spettacolari dei film tradizionali. Ripensando a quel momento speciale quando l’arte era strettamente legata alle realtà sociali, De Sica affermò che la crisi del neo12  Ivi, 158-162. 13  Per un approfondimento sul tema, si veda I retroscena dietro la disoccupazione, in Vitti, Peppe De Santis, cit., pp. 381-401. 14  Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 1993, 3, p. 543.

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realismo derivava dal dissolvimento di quella particolare realtà che aveva caratterizzato l’occupazione tedesca ed il dopoguerra. Tale realtà doveva essere filmata con uno stile quasi documentaristico, che è totalmente inadeguato a rappresentare la società attuale15. I film prodotti durante il cosiddetto secondo periodo neorealista, durante la ricostruzione-restaurazione, sono per la maggior parte film di opposizione e, alcuni, di controcultura, nel senso che si pongono in conflitto con il governo da poco insediato e con il programma di ricostruzione. Riso amaro (1949), Achtung! Banditi! (1951), Roma ore 11 (1952) e Umberto D (1952), per nominare gli esempi più famosi, incontrarono una severa opposizione da parte delle istituzioni della Repubblica. Nel 1949 una legge introdotta da Giulio Andreotti venne varata per restringere, controllare e censurare i film che venivano accusati di «lavare i panni sporchi in pubblico» e «diffamare l’Italia all’estero». In realtà, i film in questione dimostrarono l’inadeguatezza del governo di centro-destra da poco giunto al potere. Il produttore Carlo Ponti, che non era un intellettuale di sinistra, nel 1953 affermò che un produttore sufficientemente coraggioso avrebbe potuto rischiare al massimo una sola volta. La seconda avrebbe sicuramente preferito investire i suoi soldi in film di puro intrattenimento, che gli avrebbero garantito un sicuro ritorno economico16. In un certo senso Il ladro di bambini (1992) di Amelio può essere considerato un discendente dei film socio-poetici del dopoguerra, perché oltre a mostrare l’inadeguatezza delle istituzioni italiane e la loro indifferenza verso i deboli, alla maniera di alcuni film neorealisti propone un’utopica alternativa alla degradazione. Oggi, come negli anni cinquanta, qualsiasi corrispondenza storica fra lo schermo e la vita reale è andata indebolendosi con la sconfitta di un programma unificato e con la perdita di un’immagine nazionale che era esistita brevemente durante la Resistenza. La ricostruzione dell’industria cinematografica nazionale promosse film che, piuttosto che la controcultura e l’opposizione, riproponevano ed esaltavano la morale conservatrice cattolica, come in tutti i melodrammi di Raffaello Matarazzo e nella commedia regionale e poi 15  Pierre Leprohon, The Italian Cinema, New York, Praeger Publishers Inc., 1966, p. 126. 16  Ivi, p. 127.

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cittadina degli anni cinquanta. Il dibattito sulla crisi e sulla morte del neorealismo, o sulla sua evoluzione nella commedia leggera di stampo sociale, dimostra anche che il momento eccezionale in cui lo schermo era in grado di suscitare un sentimento nazionale era giunto a conclusione. La fine del programma di aiuti, l’invasione del cinema americano e la censura preventiva giocarono un ruolo determinante. I film socio-politici si diffusero profondamente nei sottosettori economici e culturali della società civile, ma non appartenevano più alla corrente principale. Al contrario, le fratture regionali e locali contribuirono al sorgere di una moltitudine di voci e all’alienazione dall’immagine nazionale17. Tali fratture sono evidenziate nei personaggi di Amelio, i quali subiscono gli effetti del post-comunismo, dell’immigrazione e della delocalizzazione industriale. I difetti strutturali socio-economici, che ricoprono un ruolo tanto rilevante in Così ridevano (1998), evidenziano l’opportunità mancata di creare una nazione, esemplificata nel flm in questione dalla barzelletta: «Come fanno quattro elefanti ad entrare in una Fiat 600?» L’indifferenza del protagonista nei confronti dell’imprigionamento del fratello minore, la sua mancanza di scrupoli ed il suo richiamo retorico ai valori famigliari preannunciano la degradazione politica e morale della nazione negli anni novanta18. La fine del nuovo I critici spesso menzionano Il tetto (1956) di De Sica come l’ultimo film veramente neorealista e vi leggono nell’avvilimento della trama la dissoluzione delle possibilità del movimento. Questo punto di vista non tiene in considerazione due importanti fattori: le ripercussioni della Guerra Fredda e la decisione antitrust del 1954, che ruppe la rete di distribuzione tra gli studi di Hollywood e le catene di cinema. Gli studi americani cercarono di accrescere il pubblico del mercato italiano girando i film a Roma e dando vita al mito di Hol17  Si veda Sesti, Nuovo Cinema Italiano e La ‘scuola’ italiana. Storia, struttura e immaginario di un altro cinema, 1988-1996, Venezia, Marsilio, 1996. 18  Per un maggior comprensione della corruzione in Italia si veda David Lane, L’ombra del potere, Bari, Laterza, 2004.

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lywood sul Tevere. L’aumento dei film commerciali italiani significò maggiori opportunità e vitalità e non inficiò necessariamente la qualità, come spesso si sostiene. L’oro di Napoli (1954), per esempio, segna un punto di svolta nella storia della filmografia italiana per le concessioni che fece al gusto popolare, con acclamati attori quali Totò e Sophia Loren, l’ultima rivelazione di Miss Italia. Il film esamina il disequilibrio nelle relazioni di potere socio-economiche che sono accettate come calamità naturali. Gli attacchi contro questi film commerciali del “realismo rosa” auspicavano un ritorno a temi materialistici nel ritrarre le classi più basse, al fine di conferire verità storica ai conflitti, piuttosto che attribuirli a cause naturali o fataliste. Un buon esempio del contrario è Giorni d’amore (1953) di De Santis, dove la commedia è utilizzata per mostrare che la mentalità dei contadini è dovuta a fattori socio-economici e all’influenza del fatalismo di marchio cattolico19. La commedia all’italiana nacque alla fine degli anni cinquanta e raggiunse il suo massimo splendore durante il cosiddetto boom economico. Questo genere mise in evidenza le contraddizioni della modernizzazione in un Paese ancora rurale, dove i benefici economici dell’autosufficienza domestica e le nuove opportunità cominciavano ad erodere i valori tradizionali della casa, della famiglia e della religione. Alla fine degli anni cinquanta la crescita della produzione industriale italiana in settori economici cruciali, quali quelli dell’elettricità, delle automobili e della chimica, promosse anche una migrazione interna che toccò anche l’intrattenimento. Rocco e i suoi fratelli (1960) di Visconti affronta gli effetti della società del consumo sui poveri, con uno sguardo neorealista e positivista. Nonostante sia in qualche modo schematico, il film offre quattro possibili soluzioni all’integrazione sociale: il lavoro non specializzato, il furto, gli studi tecnici per arrivare ad un lavoro specializzato e il pugilato, che diventa una metafora dell’alienazione imposta dal capitalismo. Per cavarsela nella nuova società, la famiglia di emigranti deve pagare un prezzo molto alto, causando l’estraniamento dei suoi membri. Utilizzando un’intelligente dicotomia, il film segue i protagonisti da lontano, creando una barriera visiva tra loro ed il 19  Su come sia stato realizzato il film e le polemiche che seguirono l’uscita si veda Vitti, Peppe De Santis, cit., pp. 223-240.

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pubblico. I protagonisti non sono parte del mondo, ma sono sfruttati. In vari modi Fellini compie lo stesso procedimento in La dolce vita (1960), eccetto che il protagonista, Marcello, preferisce rimanere ai margini e non legarsi a niente. In Rocco e i suoi fratelli, Rocco e Ciro, nel tentativo di scappare dal destino del loro fratello maggiore Simone, hanno l’alternativa di diventare pugili o, simbolicamente, prigionieri in una fabbrica di automobili. Il cinema socialmente impegnato che si sviluppò negli anni sessanta e settanta era il seguito politico del neorealismo, ma lasciò ben presto posto al torpore ideologico degli anni ottanta. La commedia all’italiana, che mostrò l’atrofia dei costumi sociali nel momento di passaggio dal boom economico allo pseudo-socialismo di Craxi, perse la sua vitalità. Il terrorismo delle Brigate Rosse discreditò la sinistra e la caduta del comunismo segnò la fine dell’impegno politico di molti registi, i quali sentirono la necessità di trovare nuove vie e modelli per distinguersi dai grandi registi, la cui autorità aveva imperato nel periodo tra gli anni quaranta e gli anni settanta. Il critico Callisto Cosulich utilizzò un rigido darwinismo per spiegare la scomparsa di così tanti registi tra il 1975 ed il 1995, ma la selezione naturale non spiega le condizioni dell’industria cinematografica italiana prima del risveglio negli anni novanta. Come afferma Cosulich, il cinema ha sempre testimoniato una carneficina di registi debuttanti, ma a quel tempo c’era una vera e propria catastrofe dei media, dal momento che una legislazione approvata dalla Corte Costituzionale legittimò le stazioni televisive private. È difficile stabilire l’effettiva relazione tra questi eventi politici e la crisi del cinema italiano, ma è un fatto inconfutabile che il numero di spettatori scese da 513 milioni nel 1975 a 373 milioni nel 1977. Mary P. Wood afferma che i cambiamenti nella società italiana, quali l’espansione dell’offerta televisiva e la paura del terrorismo, modificarono il concetto di cinema da un tipo di esperienza collettiva e sociale, ad una domestica ed individuale. A giustificazione di tale affermazione, Mary P. Wood riporta che nel 1955 gli italiani andavano al cinema in media 16,8 volte all’anno (nei momenti di picco), mentre la media scende drasticamente a 2 volte all’anno nel 198420.Allo stesso tempo il costo dei film di qualità aumentò da 350 milioni di lire a 20  Italian Cinema, Oxford, Berg, 2005, p. 23.

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1,5 miliardi e, come menziona la Wood, il ritorno economico veniva prevalentemente dalla prevendita della co-produzione, dalle videocassette, dalle sponsorizzazioni e da altri media. La fine del monopolio pubblico della RAI vide la proliferazione di compagnie private nazionali e locali, il che si ripercosse nel decremento del 94%, dal 1975 al 1996, nelle statistiche nazionali dei botteghini e contribuì al fenomeno che Miccichè definì «cinecide». Come afferma Giorgio Gosetti, il fenomeno era dovuto alla diffusione delle televisioni private che si contendevano la programmazione con le reti pubbliche. Questo condusse alla progressiva chiusura dei cinema, alla crescente popolarità dei film trasmessi in televisione e alla nascita del cinema per il piccolo schermo a partire dagli anni settanta21. Oltre che all’avvento dei canali privati, la crisi del cinema italiano può essere attribuita ad oltre cinquant’anni di programmazione televisiva che aveva americanizzato i gusti del pubblico. La prova è riscontrabile nel recente successo al botteghino di Il ciclone (1997; 52.736.924.000), Fuochi d’artificio (1998; 50.076.790.000) e Il Pesce innamorato (1999) di Leonardo Pieraccioni, assieme a Tre uomini e una gamba (1997; 31.566.475.000) e Così è la vita (1999; 43.631.036.000) del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo22. Questi film sono commedie realizzate secondo la formula hollywoodiana. Nonostante abbiano ottenuto incassi record, non possono essere esportati e non saranno mai in grado di salvare il cinema italiano dall’incontestabile potere della tecnologia dell’intrattenimento americano. Parlando più in generale, nonostante il cinema non occupi più il palcoscenico centrale nel dibattito culturale nazionale ed abbia perso l’attenzione del pubblico (il 1960 è l’ultimo anno in cui quattro film italiani hanno guadagnato la top ten dei film più visti in Italia), il disinteresse internazionale potrebbe essere attribuito ad altri fattori culturali, piuttosto che alla mancanza d’identità. Il modo in cui si guarda al cinema oggi non è lo stesso di un tempo. Il cambiamento sociale e le diverse abitudini hanno modificato i gusti degli spet21  In Millicent Marcus, After Fellini. National Cinema in the Postmodern Age, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2002, p. 4. 22  Si veda Paolo D’Agostini e Stefano Della Casa, (a cura di), Annuario 2003 Cinema Italiano, Milano, Il Castoro, 2003.

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tatori. Questo fattore, unito al conformismo culturale, al consumo casalingo di immagini, alla supremazia della tecnologia americana, alla disattenzione nei confronti del passato, al livellamento delle differenze tra gli Stati Uniti e l’Italia, alla familiarità e all’apprezzamento dei format televisivi, ha contribuito a trasformare il piacere di condividere l’immaginazione collettiva, che un tempo veniva dal grande schermo e dal rito comunitario del cinema. Carlo Verdone ha affermato che non esiste pubblico migliore di quello che si incatena al divano e si ubriaca di incontri sportivi, di video-clip o di serie drammatiche di fronte al televisore. La triste verità è che si tratta di un pubblico che ha perso la propria memoria storica, spettatori piuttosto ignoranti che ad un buon film preferiscono una bella risata23. Di conseguenza per due decadi l’Italia è diventata un laboratorio audio-visuale. A partire dal 1975 i nuovi registi hanno dovuto trasformarsi in produttori, ma anche quando riuscivano a realizzare dei film, non riuscivano poi a farli distribuire. In un’intervista alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna Giuseppe Tornatore, parlando dei problemi del cinema italiano, ha affermato che in Italia non esiste momento politico o tendenza commerciale che non provochi una crisi nel cinema. Tornatore continua poi sostenendo che il cinema italiano ha perso la sfida di autofinanziasi all’estero, ed è pertanto costretto a guardare verso il mercato internazionale, che purtroppo non offre argomenti interessanti. Mentre il cinema neorealista riuscì ad essere anche internazionale, quello di oggi non riesce più a farsi apprezzare al di fuori dei confini nazionali24. Le difficoltà a cui allude Tornatore sono diverse, ma la sua triste chiarezza riguardo all’inabilità da parte del cinema nazionale di trovare mercato e di finanziarsi sottolinea il fatto che quasi tutti i film italiani sono realizzati in co-produzione o con un finanziamento parziale o totale da parte dello Stato e che, una volta realizzati, non vengono adeguatamente distribuiti. Anche Amelio condanna queste esigenze di produzione, affermando che l’esclusiva attenzione alla ricerca di finanziamenti per la realizzazione di film, fa dimenticare altri aspetti essenziali quali il 23  In «L’Espresso», 1999, ristampato in Monica Repetto e Carlo Tagliabue, (a cura di), La vita è bella?, Milano, Il Castoro, 2000, p. 48. 24  Fuori dalle mode del cinema italiano, «la Repubblica», 8 aprile 1994, p. 32.

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pubblico e la distribuzione25. Le dichiarazioni di Amelio evidenziano le leggi di produzione con cui la generazione contemporanea deve ancora lottare e l’eterno problema di un’industria legata al prodotto artistico. Per un periodo di dieci anni le condizioni indispensabili per qualsiasi incontro con il pubblico non si sono verificate. Queste contingenze spiegano il cosiddetto cinema minimalista dei primi anni ottanta ma, dopo un periodo precario, diedero l’impulso ad una forte reazione nella nascita e crescita di un cinema nazionale.

Il personale Prendiamo in considerazione questo tormentato processo. Nei primi anni ottanta, fra le nuove leve di registi, la tendenza era quella di realizzare film intimisti, che erano molto distanti dalle rumorose e popolari notizie di cronaca. Questa ritirata esistenziale e solipsistica nel regno del privato venne definita come l’arte del cordone ombelicale. I film erano caratterizzati da una tristezza elegiaca e da una tendenza a guardare nostalgicamente ad una giovinezza idealizzata e ai valori degli anni sessanta. Alcuni esempi includono Il grande Blek (1987) di Giuseppe Piccioni, Marrakesh Express (1989) di Gabriele Salvatores e Italia-Germania 4-3 (1990) di Andrea Terzini. I critici furono forse un po’ precipitosi nel definirli minimalisti, ingannati dai semplici contorni che nascondevano uno stile e una narrazione solidi e ricchi di preparazione drammatica. Come osserva Emanuela Imparato, il cinema degli anni ottanta ha spesso descritto la realtà dominante, sfuggendo ai grandi temi e alle prospettive ideologiche e senza una riconoscibile furia ed angoscia. Questa assenza era tipica del Paese in generale, che stava attraversando un periodo storico di debolezza, dominato dalla cultura della conformità. Il cinema degli anni ottanta, secondo Emanuela Imparato, rifletteva proprio tale fragilità, concentrandosi più nella rappresentazione di micro-storie individuali, piuttosto che nella Storia26. Nonostante Mario Sesti, uno degli studiosi di cinema italiano contemporaneo più coscienziosi, consideri il termine minimalista 25  Amelio secondo il cinema, cit., p. 83. 26  Cfr. Il cinema di Marco Risi, Roma, AIACE, 1992, p. 9.

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troppo restrittivo, concorda sul fatto che i luoghi privilegiati di questi film sono gli interni delle case e che le ambientazioni sono modellate sulla base di un senso di esibizione molto calcolato. Inoltre conviene nel constatare che la maggior parte dei personaggi proviene dalla borghesia, con il loro particolare tipo di problemi esistenziali, e che la società è spesso parte della cornice narrativa e drammatica. Il primo lavoro di media lunghezza di Silvio Soldini, Paesaggio con figure (1982), e il film di un’ora Giulia in ottobre (1985), come anche Piccoli fuochi (1985) di Peter Del Monte, sono esempi calzanti di questa descrizione del design della narrazione e dell’ambientazione. Nel primo, lungo 58 minuti e vincitore di un premio ad Annecy, il regista racconta la storia desolata di donne che vivono negli spazi aperti della città. Nel secondo Giulia, una milanese impiegata alle vendite, va alla ricerca di se stessa e la sua vacanza autunnale si trasforma in una sorta di liberazione dal lavoro. I sogni della protagonista e l’ambientazione urbana in cui vaga non possono essere identificati, ma lo stile e la forza delle immagini sottolineano il disagio che i personaggi provano nell’ambiente urbano. Nel film di Del Monte il piccolo protagonista Thomas, lasciato per conto suo, costruisce il suo mondo fantastico animato dai cartoni e dalla sua attrazione per la baby sitter, interpretata da Valeria Golino nel suo primo ruolo. In tutti e tre i film l’elemento sociale non è identificabile o reso visibile, come Lino Miccichè evidenzia nel suo saggio su questa generazione di cineasti27. Dopo questi primi tentativi di trovare uno stile unico, arrivarono lavori di maggiore successo, quali Piccoli equivoci (1988) di Ricky Tognazzi, Mignon è partita (1988), Verso sera (1990) e Il grande cocomero (1993) di Francesca Archibugi. Mignon è partita è la storia di un primo amore adolescenziale che si scontra con uno scenario di adulterio e amore perduto tra quarantenni disillusi ed esausti. In Verso sera, il contrasto tra un vecchio intellettuale di sinistra e la giovane madre di suo nipote riaccende il dibattito politico degli anni settanta, con le sue idee comuniste ispirate a Gramsci, alla Resistenza e alle proteste del ’68. Entrambi i personaggi sono travolti 27  Gli eredi del nulla: Per una critica del giovane cinema italiano, in Una generazione in cinema: Esordi ed esordienti, 1975-88, (a cura di Franco Montini), Venezia, Marsilio, 1988, pp. 251-257.

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dalle proprie realtà e contraddizioni e la vera vittima è Papere, la nipote, che crea una doppia personalità per se stessa. In Il grande cocomero, la regista torna nuovamente agli anni settanta, ispirata dalla figura di Marco Lombardo Radice. Un giovane medico, Arturo (Sergio Castellitto), sta cercando di mettere in pratica i suoi ideali e la sua morale, salvando una ragazzina epilettica e guadagnando per conto della giovane l’affetto e l’attenzione dei suoi distratti genitori. Il dottore è un ricordo nostalgico degli ideali ed incarna un intenso bisogno di trasformare la condizione attuale e risolvere le difficoltà attraverso la solidarietà umana e l’amore. Il messaggio etico e lo stile cinematografico sono entrambi piuttosto distanti da quelli dei precedenti film di protesta politica. In quasi tutti questi film la regista, per scelta e a causa dello spazio scenico limitato, mette in ombra la cinepresa dietro lo stile modesto della storia. La macchina da presa è poco appariscente, senza gli ampi movimenti che caratterizzavano il grande cinema del passato e non assume mai il ruolo prominente che ricopriva nei film degli anni sessanta, quando i registi si distinguevano dai comuni artigiani attraverso l’uso di diversi obiettivi, un infinito numero di primi piani tagliati da primissimi piani, un abuso dello zoom, un uso continuo del controluce, movimenti della cinepresa esagerati e improvvisi e spesso dei campo-controcampo inesatti per ottenere effetti espressivi. Sotto l’influenza della Nouvelle Vague, questi artisti cercavano di ribellarsi alle convenzioni cinematografiche e al linguaggio convenzionale del cinema americano. Prima della rivoluzione (1964), Partner (1968), e Lo stratagemma del ragno (1970) di Bernardo Bertolucci sono tutti ottimi esempi di tale reazione. L’opposto potrebbe essere detto del cinema italiano dei primi anni ottanta. Quel cinema considerava qualsiasi utilizzo della cinepresa come un’intrusione d’autore a danno dello stile piano e lineare della storia. La Archibugi definì il suo stile naturalistico ed aggiunse che il vero talento risiede nel riuscire a nascondere la presenza della macchina da presa piuttosto che effettuare riprese spettacolari28.

28  In Sesti, Nuovo cinema italiano, cit., p. 95.

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Il personale diventa politico Uno dei lavori che fa da ponte tra la corrente di film intimisti e quella di stampo più corale, ricca di riferimenti metaforici e utopici a particolari momenti storici, è Mediterraneo di Gabriele Salvatores. Dopo i suoi primi film di stampo intimista, quali Sogni di una notte d’estate (1983) e Kamikazen-Ultima notte a Milano (1989), i suoi Marrakech Express (1989) e Turné (1990) riflettono non solo sulle vite e sugli amori personali dei protagonisti, ma anche sulla generazione degli anni settanta alla ricerca di una nuova identità. La metafora del viaggio in entrambi i film permette ai protagonisti di venire a patti col passato e dare un senso alle proprie esistenze. Mediterraneo mescola con successo i vari temi già toccati nei film precedenti, enfatizzando l’elemento sociale senza escludere il piano personale. La seconda guerra mondiale ed una piccola isola greca diventano il pretesto per la trasformazione di otto soldati italiani che, come i loro padri, non si riconoscono nel ruolo stabilito dall’autorità. Grazie all’eccezionale esperienza di vita in un’isola deserta, i protagonisti abbandonano le imposizioni della sovrastruttura culturale e politica e scoprono i valori dell’amicizia e della solidarietà che erano a loro sconosciuti all’inizio dell’avventura. Con una falsa semplicità la metafora del film si interroga sulla direzione del mondo moderno, dominato dal materialismo e dal consumismo. Se Mediterraneo cerca di leggere il presente attraverso gli eventi passati, verso la fine degli anni ottanta un certo numero di altri film adottarono nuovi approcci che possono essere suddivisi in due correnti principali, entrambe le quali affrontano temi importanti ed esprimono un impegno sociale intransigente ed un’accusa alla società. La prima è inclusiva, non spinta da specifiche vicende di cronaca, ma presenta la realtà sociale in maniera incidentale e generale, senza estrapolazione. Ultrà (1990) di Ricky Tognazzi è un esempio calzante di questa tendenza. Ambientato nel mondo del calcio, il film esamina il dramma della disoccupazione ed un segmento particolare di tifosi di calcio, composto da giovani gruppi violenti che conducono una vita sconsiderata nelle città corrotte di oggi. Tognazzi cattura il moderno sentimento di ansia che caratterizza sia la borghesia che il proletariato.

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Il secondo filone ricostruisce eventi attuali o personaggi reali. Molti film anticiparono gli scandali fatali che seguirono le inchieste giudiziarie dei crimini di mafia e le confessioni dei collaboratori di giustizia. Fra questi Il camorrista (1986) di Giuseppe Tornatore, Mery per sempre (1989) di Marco Risi, Il portaborse (1991) e Arriva la bufera (1992) di Daniele Luchetti, Vito e gli altri (1991) di Antonio Capuano e Sud (1993) di Salvatores. Nonostante alcuni film possano venir accusati di rubare materiale al fine di essere catapultati nei giornali creando i cosiddetti “instant movies”, altri meritano credito per aver evitato una tediosa fedeltà alle notizie di cronaca ed inutili sensazionalismi. Molti film riescono a trasformare una vicenda in una metafora, una parabola o una chiave di lettura per interpretare la realtà. Ancora una volta, La scorta (1993) di Ricky Tognazzi è fra i più riusciti. Il film mostra la storia vera del giudice De Francesco a Trapani, delegato a sostituire il suo predecessore, vittima della Mafia. La sua originalità risiede nel descrivere i rischi assunti dalle giovani guardie del corpo, che tuttavia non hanno le risorse adeguate a svolgere il loro compito. L’analisi del loro stato d’animo, ripreso nell’intimità delle loro case, racconta cosa significhi vivere in un luogo assediato dalla criminalità organizzata e mostra gli effetti su chi la combatte e su chi è costretto a vivere nell’ombra, servendo umilmente il Paese e morendo senza funerali di Stato o targhe commemorative. La tensione è percepita attraverso le loro terse conversazioni, attraverso i loro gesti ed i giochi dei loro bambini, senza spettacolizzare la violenza. Un altro scorcio di misteri italiani irrisolti è presentato da Muro di gomma (1991) di Marco Risi. Il film utilizza la metafora della gomma da masticare come collante di un’Italia che cade a pezzi. Il giornalista Andrea Purgatori investiga sui misteri che avvolgono il disastro di Ustica del 1980, nel quale un aereo Alitalia DC-10 viene abbattuto da un missile americano della NATO, uccidendo le 89 persone a bordo. Ciò che scopre sono solo mostri ed ingiustizie, come quando gli ufficiali della Air Force si incontrano al ristorante per mangiare e cantare «Vinceremo» dal Nessuno dorma di Puccini. Alle richieste da parte degli Stati Uniti ed altri governi occidentali di fornire spiegazioni, l’Italia rispose insabbiando l’accaduto. La ri-

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costruzione di Risi utilizza il genere del giallo politico ed uno stile documentaristico. Il regista segue il reporter nel suo sforzo di unire assieme le spiacevoli informazioni e di portare la storia all’attenzione del pubblico. La metafora del muro di gomma rappresenta il modo in cui il reporter cerca di far breccia nel silenzio. Il film ottenne tanto successo che il suo titolo divenne un’espressione idiomatica frequentemente utilizzata: ora ogni qualvolta la verità viene intenzionalmente tenuta nascosta, si dice essere circondata da un “muro di gomma”. Un eroe borghese (1995) di Michele Placido racconta la storia dell’omicidio di mafia del giudice milanese Giorgio Ambrosoli, basata sul libro omonimo scritto da Corrado Stajano. Il film comincia con la caduta di Michele Sindona, un uomo della finanza italiana che intratteneva rapporti con la malavita. L’anno è il 1974 e l’impero bancario di Sindona è appena crollato. Lo Stato manda Ambrosoli a fare da supervisore al funzionario corrotto nella banca personale di Sindona. Nonostante sia fuggito in fretta a New York, Sindona continua a sorvegliare i movimenti del magistrato per precauzione. Sindona non è eccessivamente preoccupato da Ambrosoli, che considera semplicemente un altro inefficace e corruttibile burocrate, magari seccante, ma non una vera minaccia per il suo impero. Ambrosoli investiga più a fondo e scopre che Sindona non è solo colluso con la Mafia, ma ha connessioni anche con il Parlamento e con il Vaticano. Sindona è quindi una vera minaccia dal momento che ha il controllo delle holding criminali europee. Nel procedere delle sue indagini, Ambrosoli non presta attenzione agli avvertimenti sinistri provenienti dal governo che gli intimano di desistere. Il giudice danneggia seriamente la credibilità di Sindona, mentre riceve minacce anonime di morte. Le registrazioni reali delle minacce sono utilizzate nel film per conferire maggiore realismo. Placido dimostra ancor di più il suo impegno sociale verso coloro che hanno combattuto la Mafia interpretando il ruolo di Un uomo perbene (1999) nel film di Maurizio Zaccaro. Il film ricorda il dramma di Enzo Tortora, un conduttore televisivo accusato ingiustamente, e si concentra sul processo che riconobbe la sua innocenza e mise fine ad uno scandalo durato dal 1983 al 1986. Fra i più recenti ed innovativi film appartenenti a questo genere

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includiamo Tano da morire (1997) di Roberta Torre, una regista milanese trapiantata a Palermo. Il film affida la moralità mafiosa alla musica, con artisti palermitani non professionisti che sfidano la cultura del ricatto, della morte e del maschilismo. I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, che scoprì l’attore Luigi Lo Cascio, evita l’esaltazione spettacolare della violenza della Mafia, mostrando il conflitto tra un padre mafioso e suo figlio ed il senso di colpa che deriva dalla ribellione. Giordana trovò l’ispirazione nei giovani di Cinisi, guidati da Peppino Impastato, il quale, anziché accettare la cultura del silenzio e della paura, si ribellò attraverso la poesia, le dimostrazioni in piazza e la fondazione di una stazione radio per protestare contro Tano Badalamenti, il boss del traffico di eroina. Già nel 1995 con Pasolini un delitto italiano, Giordana si era dimostrato un investigatore scrupoloso nel riproporre i misteri italiani. La morte del trentenne militante siciliano, archiviato come suicidio, fu avvolta dal mistero come quella di Pasolini. Altri film che si occuparono della connivenza fra corruzione dello Stato e crimine organizzato, basati su fatti e rappresentanti individuali, includono Il giudice ragazzino (1993) di Alessandro Di Robilant, Giovanni Falcone (1993) di Giuseppe Ferrara, Il lungo silenzio (1993) di Margarethe von Trotta, Testimone a rischio (1997) di Pasquale Pozzessere e Un uomo perbene (1999) di Maurizio Zaccaro. Un altro ramo del cinema contemporaneo connesso ad eventi attuali si rivolge al tema dell’immigrazione. L’ingresso di nuovi gruppi provenienti dal terzo mondo e dall’Est Europa comincia ad alterare il tessuto sociale, religioso ed etnico dell’Italia, dando luogo a due diversi fenomeni: integrazione e scambio da un lato e crescenti intolleranza, razzismo e xenofobia dall’altro, che portavano con loro tragedia e morte. I film di Ferzan Özpetek, regista turco trapiantato a Roma, rappresentano un esempio positivo. Con i film Il bagno turco – Hamam (1997) e Harem Suare (1999) riuscì ad introdurre diverse immagini e valori dell’Est all’interno del cinema italiano. Alcuni registi italiani si sono anche interessati a raccontare delle storie dal punto di vista dei nuovi arrivati. Nel 1990, un anno dopo la morte di Jerry Maslo, uscì Pummarò, primo lavoro da regista dell’attore Michele Placido. Kwaku, un medico africano, intraprende un viaggio verso l’Italia per raggiungere il fratello, conosciuto

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come Pummarò, il quale gli aveva permesso di seguire gli studi medici lavorando in Italia in condizioni disumane. Ciò che inizia come un viaggio di piacere si trasforma in un’esperienza da incubo. In Campania gli immigrati vengono sfruttati dalla camorra, a Roma da magnaccia senza scrupoli, nella civile Verona le organizzazioni assistenziali si scontrano con i pregiudizi e l’odio, a Francoforte il Lavoro viene ucciso a Natale. Sfortunatamente le buone intenzioni del regista non trovano pieno compimento nella rappresentazione eccessivamente riverente di Kwaku. Tuttavia il viaggio da sud a nord sconvolge il tema stereotipato del viaggio verso il sole, il primitivo e l’esotico, che caratterizza molti film che affrontano la relazione fra Europa e Africa. La regia di Placido ed il cast sono di ottimo livello. La trama si sviluppa in maniera efficiente, facendo di questa semplice e commovente storia un piccolo capolavoro. Fra gli altri film sull’immigrazione Storia d’amore (1986) di Carlo Mazzacurati racconta la storia di una donna russa in Italia, in attesa di ricevere il suo visto dagli Stati Uniti. Il suo film Vesna va veloce (1996) vede come protagonista l’attrice Tereza Zajickova nel ruolo della giovane donna della Repubblica Ceca che arriva a Trieste in viaggio di piacere e decide in seguito di fermarsi in Italia. Per sopravvivere la giovane donna è costretta a prostituirsi. Il regista descrive il conflitto tra il suo desiderio di guadagnare soldi e quello di mantenere la sua dignità ed innocenza. Un’anima divisa in due (1993) di Silvio Soldini racconta un amore impossibile tra Pabe, una zingara, e un giovane milanese che lavora per il servizio di sicurezza interna di un grande magazzino. Dopo un breve tentativo, senza successo, di adattarsi alle rigide regole occidentali, la giovane donna ritorna fra la sua gente e alla sua libertà. La storia cattura perfettamente l’agonia ed il disagio di una vita regolata dalla sicurezza economica, dall’agio e da una monotonia senza scampo. Nonostante la tradizione culturale ed artistica del realismo mimetico sia stata sfidata dai paradigmi teoretici contemporanei della semiotica e della psicanalisi, in Italia, come suggeriscono Celli e Cottino-Jones, rimane di fondamentale importanza. In termini più ampi, esprime lo sforzo di imitare l’esperienza storica ed esterna e di formulare osservazioni concrete. Tuttavia, il fatto che tutti questi film si affidino a quelle che definirei sigle metodologiche del neorea-

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lismo, quali l’uso di dialetti popolari, attori non professionisti, suoni doppiati e riprese sul luogo, non è sufficiente per poterli classificare come neo-neorealisti. Forse sarebbe meglio considerarli come versioni modernizzate della tradizione realista italiana, con una sensibilità neorealista. Quando chiesero ad Amelio se si considerasse un neorealista, Amelio rispose di non ritenersi tale, ma piuttosto figlio del movimento da cui ha assorbito delle influenze29.

Ma è veramente neo-neo? Nel 1993 la morte di Federico Fellini fu vissuta da molti giornalisti stranieri come la fine virtuale del cinema nazionale italiano. Dal mio punto di vista quel momento segnò l’inizio di una nuova generazione di registi che, fino ad allora, era stata sottovalutata dalla maggior parte dei critici internazionali, nostalgici dei grandi registi del dopoguerra e dei bei vecchi tempi in cui il cinema italiano occupava una posizione di supremazia nella vita culturale e nel commento storico alla vita della nazione. Il mercato statunitense privilegia un genere di film che il pubblico italiano non apprezza e che considera stereotipato. I film italiani che ritraggono l’Italia contemporanea senza alcun elemento neorealista non vengono esportati. Fra questi Ovosodo (1997), Radiofreccia (1998), I cento passi (2000) e più recentemente Lavorare con lentezza (2004), Romanzo criminale (2005), Il caimano (2006) e La stella che non c’è (2006) di Amelio. È interessante notare come Hollywood consideri inesportabili i film italiani contemporanei, spesso definiti dai nostri critici neo-neorealisti, mentre i film ambientati tra il 1930 ed il 1950 che i critici ed il pubblico italiano considerano folcloristici e ricchi di stereotipi, trovano ampia distribuzione a livello internazionale. Questo problema è legato ai film che affrontano specifiche questioni senza trascendere i confini nazionali, o riflette piuttosto influenze politiche e culturali e la commerciabilità di alcune tematiche? Celli ha affermato che l’olocausto è un argomento che dimostra il potere di Hollywood nel determinare quali film dei Paesi con mercato limitato possano essere esportati. Affermerei che La vita è bella di Roberto Benigni, oltre ai 29  Amelio in Crowdus e Georgakas, Cineaste Interviews, p. 206.

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suoi meriti artistici ed all’utilizzo innovativo dell’umorismo, deve il suo enorme successo di botteghino alla combinazione vincente fra olocausto, fascismo, seconda guerra mondiale, relazione padre/ figlio, storia d’amore e intervento americano, che molti critici fuori dall’Italia hanno interpretato subito come una sorta di neorealismo. Con il passare degli anni la memoria culturale dei film neorealisti ha spesso generato una superficiale ammirazione nei confronti di una povertà pittoresca e di un’umanità sentimentale piuttosto che una comprensione delle loro specifiche implicazioni politiche ed estetiche. Non a caso l’approccio politico alla storia in alcuni film che hanno recentemente raggiunto un riconoscimento internazionale è spesso sublimato nella commedia, nel romanticismo o nel melodramma. Molte di queste etnografie romanzate sono ambientate durante o subito dopo la seconda guerra mondiale, nelle isole italiane o nelle regioni più remote del Sud Italia. Mentre in passato le ambientazioni storiche ed etnografiche erano parti integranti del conflitto drammatico (fosse questo spirituale, materialistico, culturale, politico o perfino generazionale, come in Bertolucci e Bellocchio), qui sono invece cartoline turistiche amate dal pubblico straniero. Allo stesso modo le emozioni dei personaggi erano un tempo impiegate esclusivamente per suggerire valori e promuovere la riflessione. Queste servivano come metafora dei fenomeni culturali e politici, non come soluzione ai conflitti come, per esempio, in Respiro (2002) di Emanuele Crialese. Roger Ebert in una recensione pubblicata nel «Chicago Sun-Times», definisce quest’ultimo film come una poesia sulla persistenza dell’amore che ricorda il neorealismo del primo Visconti, la soggettività surreale di Fellini e le madonne nevrotiche di Antonioni. Questo dimostra come, perfino nel 2002, i film italiani dovevano richiamare in qualche modo il neorealismo al fine di ricevere un’approvazione internazionale. La coincidenza del successo di critica e di incassi di Porte aperte e Il ladro di bambini di Amelio contribuì al dibattito sulla cosiddetta rinascita del cinema italiano. A questo punto è sembrato importante chiederci se gli artisti emergenti degli anni novanta rappresentassero qualcosa di nuovo o semplicemente un inevitabile cambio della guardia. Il dibattito si è centrato nell’individuazione del primo lavoro in grado di esemplificare la nuova generazione, così come

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Ossessione (1943) di Visconti (adattamento dal romanzo di James M. Cain intitolato Il postino suona sempre due volte) rappresentò il gruppo di opposizione anti-fascista formatosi in connessione con la rivista Cinema. Roma città aperta (1945) di Rossellini e Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano rappresentarono il secondo dopoguerra, mentre, invece, I pugni in tasca (1965) di Bellocchio i ribelli anni sessanta e, in un certo senso, Ecce bombo (1978) di Nanni Moretti il cinismo di fine anni sessanta. Senza menzionare La dolce vita (1960) di Fellini e L’avventura (1960) di Antonioni, i quali crearono un linguaggio cinematografico completamente nuovo per i modernisti. Per la prima volta numerose conferenze vennero organizzate per discutere tale fenomeno culturale. Sesti ha affermato che c’erano più conferenze sul cinema italiano di quanti fossero i film30. I critici si dividevano in sostenitori e detrattori che denigravano il movimento con eufemismi quali “carino”, “dignitoso”, “evasivo” e “promettente”, mentre gli scettici ne negavano l’esistenza. Molti singoli film ricevettero premi internazionali, nonostante il cinema italiano non godesse di grande fama positiva. Negli Stati Uniti, Peter Bondanella notò che quando Fellini ha ricevuto il suo quinto Oscar, poco prima della sua morte nel 1993, il cinema italiano sembrava immerso in una crisi artistica ed economica, mentre la sua ricca tradizione di grandi registi, attori e film, era universalmente riconosciuta da un numero considerevole di premi internazionali31. Fra questi riconoscimenti annoveriamo tre Oscar per Nuovo cinema Paradiso (1989) di Tornatore, Mediterraneo (1991) di Salvatores e La vita è bella (1999) di Roberto Benigni, il quale vinse 58 menzioni internazionali e stabilì un nuovo record di incassi in tutto il mondo. Fra gli altri riconoscimenti ci sono le quattro nomination per Porte aperte e Il ladro di bambini di Amelio, Il grande cocomero (1992) della Archibugi e Il postino (1994) di Michael Radford in collaborazione con Massimo Troisi. In Europa, Nuovo cinema Paradiso vinse il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e Ultrà (1993) di Tognazzi vinse il premio come Miglior Regia a 30  Sesti, Nuovo Cinema Italiano, cit. 31  Italian Cinema, in Zygmunt G. Baranski e Rebecca J. West, (a cura di), Modern Italian Culture, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, p. 240.

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Berlino. Nel 1991 il Premio Speciale della Giuria al Festival del Cinema di Venezia andò a Mario Martone per Morte di un matematico napoletano (1992). Negli anni seguenti molti altri premi e menzioni andarono a film italiani, fra cui il Nastro d’Argento a Moretti nel 1994 a Cannes per Caro diario, il Felix a Lamerica (1994) di Amelio come Miglior Film Europeo dell’anno ed il Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia a Così ridevano (1998) di Amelio. Oggi, quasi un decennio dopo l’inizio del nuovo millennio, tutti riconoscono il nuovo cinema italiano. Guardando ai recenti libri sullo stato economico dell’industria o ai titoli di film quali La bella vita (1994) e Baci e abbracci (1999) di Paolo Virzì oppure La vita è bella (1999) di Benigni, potremmo immaginare una fioritura o quantomeno una primavera negli anni novanta, come i giornali francesi dichiararono a Cannes in seguito al successo di La stanza del figlio (2001) di Moretti, il quale al Festival del Cinema di Toronto definì questa nuova fase come un rinascimento. Come confermato nella conferenza «Per cambiare pagina» tenutasi a Cinecittà nell’ottobre del 1999, il dibattito non era incentrato tanto sulle innovazioni o sui meriti dei nuovi film, quanto su come ottenere l’apprezzamento del pubblico, sul ruolo della televisione e su come proteggere l’industria nazionale dalla supremazia di Hollywood. Molti critici sostengono che il cinema contemporaneo abbia perso il terreno culturale che è sempre stato un punto di riferimento per i film del passato e riflettono sulla complessa questione dell’identità culturale rappresentata dai film italiani contemporanei. Qual è lo stato reale del cinema italiano? Come si sta evolvendo all’interno dell’immaginario collettivo dei registi e del pubblico e nel contesto della rivoluzione tecnologica che sta cambiando l’intero mondo dell’intrattenimento? In che cosa consiste l’originalità e l’identità dei nuovi film? Per la generazione nata alla fine degli anni cinquanta i film per la televisione hanno distrutto l’idea del cinema come il regno della magia. Good Morning Babylon (1987) dei fratelli Taviani, Nuovo cinema Paradiso di Tornatore, Splendor (1989) di Ettore Scola e Via Paradiso (1989) di Luciano Odorisio ricordano quanto i cinema erano in grado di rendere felici gli spettatori accalcati al loro interno. Al contrario, la televisione nel film di Fellini Ginger e Fred (1985) rappresenta la confusione, il vuo-

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to, l’isolamento, l’opposto della stretta relazione visibile nei film di Scola e Tornatore, nei quali il cinema è sia un rifugio che il paese delle meraviglie, pieno di misteri e prodigi. Questa nostalgia per il cinema classico potrebbe essere stata generata dalla mancanza di fiducia nelle immagini. Realizzare film era più semplice quando era possibile raccontare storie da una prospettiva privilegiata e ben definita, cosa che non era più possibile durante gli anni ottanta. Un film che presenta un punto di vista diverso è L’uomo delle stelle (1995) di Tornatore, vincitore del Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia, che mostra come il cinema sia usato per sedurre e sfruttare la gente. Negli anni ottanta e novanta la cultura cinematografica, che comprende la maniera di guardare i film, di apprezzarli e renderli oggetto di dibattito, era colpita dalla svalutazione dell’educazione e dalla fiducia smisurata nei confronti della televisione come strumento d’insegnamento e fonte d’informazione. Le sitcom dicevano alla gente come vestire, come comportarsi con i figli e che musica ascoltare. I documentari, i reportage e perfino le pubblicità parlavano di eventi contemporanei, di lavoro, di macchine, di viaggi oltre che di questioni scientifiche. Questo periodo segnò una transizione da una televisione che emulava il cinema ad una che incorporava molte arti performative e forniva loro mezzi tecnici e finanziari per sopravvivere e raggiungere un vasto pubblico. I film dei nuovi registi italiani mostrano i cambiamenti nella cultura visiva attraverso quattro elementi differenti: la supremazia delle parole sulle immagini, l’insistenza sui primi piani, la scelta di colori sgargianti e l’utilizzo di riprese sullo stile documentaristico. Spesso i personaggi scelti dai registi provengono da diverse parti della penisola, sanno generalmente esprimersi in vari dialetti locali e cercano altresì di mettere in discussione il potere del discorso. Alcuni critici ritengono che questa reazione sia il risultato diretto della televisione, dove interminabili talk-show costringono gli spettatori a riflettere sull’importanza del discorso. Altri pensano che la tendenza sia dovuta alla proliferazione di parole inglesi, slang e neologismi nel vocabolario quotidiano, che ha creato una tensione nel linguaggio parlato stesso, riaprendo il vecchio dibattito sui dialetti regionali.

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La televisione, ed ancora più il videoregistratore, hanno trasformato anche il ruolo dell’immaginazione cinematografica. Bruno Bigoni, che realizzò Veleno (1993) con una telecamera, dà voce a questa nuova cultura affermando che la videocassetta ha cambiato la società permettendo un facile accesso ai mezzi di produzione ad un costo limitato32. Il fatto che i giovani d’oggigiorno siano cresciuti guardando film con il videoregistratore e riproducendoli con un masterizzatore magnetico ha sia contaminato che rinnovato la loro cultura cinematografica. Il videoregistratore permette loro di interrompere il flusso di immagini e di studiare a fondo la messinscena di ogni film. Al giorno d’oggi chiunque può avere un’intera scuola di cinema a casa. Conseguentemente le ultime generazioni hanno una maniera totalmente diversa di padroneggiare lo spazio ed il tempo cinematografico. L’espansione culturale e tecnologica ha anche incrementato la contaminazione fra le varie arti che prima era molto limitata nel cinema italiano. De Santis cercò di portare le tecniche del cinema popolare nel regno del cinema artistico con Riso amaro. Negli anni sessanta Antonioni realizzò film intellettuali in un sofisticato scambio con la pittura. Fellini mescolò l’alta moda con le tecniche del cinema popolare italiano. Con Pasolini e Bertolucci arriviamo ad un tipo di intertestualità estrema che è spesso narcisistica. Nel cinema contemporaneo i giovani registi citano da altri film, prendono a prestito elementi del teatro, della musica, della politica, del giornalismo e del telegiornale con una semplicità vincente. Marrakech Express, Turné e Mediterraneo di Salvatores si intersecano con il teatro europeo nello stile di Giorgio Strehler, con il cinema americano, con la commedia italiana, con la musica rock e pop e citazioni da Mao, Henri Laborit e Albert Camus. La pratica dell’interpretazione e della rilettura al fine di riappropriarsi del passato è l’unica forma di creatività della nuova generazione33. Questa permette da un lato di riconciliarsi e dall’altro di prendere le distanze dal passato e da una nuova prospettiva artistica. Un’ulteriore caratteristica comune fra i nuovi film è l’importanza della sceneggiatura e della drammatizzazione della storia. Oggi i 32 Sesti, Nuovo Cinema Italiano, cit., p. 48. 33  Si veda Adriano Aprà, Ladri di cinema, Milano, Ubilibri, 1983.

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bravi autori non solo abbozzano il testo, ma spesso aiutano il regista durante le riprese. L’atteggiamento dei nuovi registi è completamene diverso da quello di Fellini, per citare un esempio famoso. Per quanto riguarda un lavoro scritto con Dino Buzzati e Brunello Rondi, Il viaggio di G. Mastorna, Fellini affermò, senza voler recare offesa a nessuno, che la sceneggiatura è un atto ibrido e che la pagina scritta non corrisponde al ritmo delle immagini e perde tutto il suo interesse nel momento in cui entra in contatto con la realtà. Pertanto secondo Fellini l’immagine prevale indiscutibilmente sulla parola34. Se confrontiamo l’idea di Fellini su come scrivere, filmare e distribuire un film con quella della nuova generazione, notiamo una consistente differenza. Per esempio, Salvatores ha realizzato la maggior parte dei suoi film con uno stretto gruppo di amici, sempre assistiti da alcuni sceneggiatori. Nel 1986 assieme a Diego Abatantuono, Paolo Rossi e Maurizio Totti egli ha fondato la Colorado Films. In seguito vi si sono uniti Gigio Alberti, Oliviero Beha, Claudio Bisio, Antonio Catania, Silvio Orlando, Alba Parietti e Carmela Vincenti. Molti di loro avevano già partecipato al Teatro dell’Elfo a Milano. In merito al film Puerto Escondido, l’attore Antonio Catania ha affermato che tutta la semplicità del film e dei dialoghi era frutto di un lavoro preventivo molto accurato e che l’improvvisazione derivava da una reciproca conoscenza acquisita nel tempo e dalla profonda amicizia che lega Salvatores ai suoi collaboratori35. Questo differente metodo di realizzare film non si applica solo al gruppo di collaboratori di Salvatores, ma è la caratteristica di un’intera generazione. Si pensi solamente al popolare teatro napoletano di Massimo Troisi, a «I cammelli» di Segre a Torino, alla «Monogatari» di Silvio Soldini, alla «Sacher Film» di Nanni Moretti, a «Nutrimenti Terrestri» di Calogero a Messina e a «Teatri Riuniti» di Martone a Napoli36. Dal 1992 con la produzione di molti film a Napoli di registi napoletani, si inizia a fare riferimento ad una vera scuola napoletana. Tuttavia, nonostante Capuano, Corsicato, De Lillo, Incerti e Martone condividano caratteristiche quali lo stile, gli obiettivi artistici, la 34  In Costanzo Costantini, “But Buzzati only collaborated,” Fellini broke off, «Il Messaggero», 28 gennaio 1995, p. 19. 35  Flavio Merkel, Gabriele Salvatores, Roma, Dino Audino Editore, 1994, p. 62. 36  Si veda Sesti, Nuovo Cinema Italiano, cit., p. 18.

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maniera cinematografica di vedere le cose, le ambientazioni napoletane e l’impiego di attori partenopei, sono evidenti altresì molte differenze, visibili nel film ad episodi I vesuviani, che realizzano e presentano assieme al Festival del Cinema di Venezia nel 199737. Malgrado la perenne crisi strutturale e dell’industria, quasi tutti i registi e scrittori italiani preservano la loro tenerezza, il loro sentimento umano e la loro curiosità ed allo stesso tempo la loro visione non perde mai la fiducia nell’immagine cinematografica. Queste qualità si ritrovano nei film di Mimmo Calopresti, Francesco Calogero, Gabriele Muccino, Paolo Virzì, Pasquale Scimeca, Leone Pompucci, Carlo Carlei e Francesca Comencini. I più grandi meriti degli ultimi due film di Giuseppe Piccioni, Fuori dal mondo (1999) e Luce dei miei occhi (2001) risiedono nell’abilità di creare personalità realistiche e nel portare gli spettatori più vicino ai sentimenti di questi outsider, attraverso primi piani e movimenti lenti della cinepresa. In La stanza del figlio (2002), Nanni Moretti, nel personaggio di uno psicanalista, racconta la storia del dolore e dei malintesi che accompagnano la morte di un figlio. Questo film, che ha avuto successo in tutto il mondo, dimostra come il cinema italiano sia in grado di piacere raccontando una storia di gente comune senza mettere in scena effetti speciali. Il cinema italiano di oggi utilizza modelli, forme e convenzioni profondamente radicati nella cultura cinematografica occidentale, senza rifiutare le innovazioni linguistiche dell’esperienza postgodardiana. Le convenzioni e le nuove tecniche sono utilizzate in maniera controversa e per ragioni politiche. Per esempio, Salvatores parlando del suo film Sud affermò che il suo obiettivo era quello di creare qualcosa di nuovo, che avesse ritmo, tensione, tecniche di ripresa, un film che prendendo spunto da altre arti fosse in grado di generare personaggi piuttosto che di mostrare la loro umanità38. Nella scena contemporanea oltre a Luchetti, Nichetti, Moretti, Benigni, Risi, Tognazzi, Salvatores, Soldini, Tornatore, Giordana, Mazzacurati, Martone, Grimaldi, Rubini, Archibugi, e Placido ci sono 37  Per una maggior comprensione del cinema napoletano, si veda A. Addonizio et al., (a cura di), L’oro di Napoli. Il nuovo cinema napoletano 1986-1997, Bologna, La Luna nel Pozzo, 1997. 38  In Sesti, Nuovo Cinema Italiano, cit., p. 95.

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alcuni registi, attori e attrici molto giovani come Gabriele Muccino, Roberta Torre, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Luigi Lo Cascio, Sandra Ceccarelli, Fabrizio Gifuni ed un gruppo di eccellenti sceneggiatori. Questi autori, attori ed attrici hanno creato un tipo di cinema che ci permette di comprendere più a fondo la lotta dell’Italia contro la Mafia, il terrorismo, il flusso d’immigrazione legale ed illegale da paesi non appartenenti alla Comunità Europea, la miriade di cambiamenti culturali nella sfera privata e le relazioni inter-famigliari. I film prodotti in Italia negli ultimi vent’anni hanno esplorato terreni e persone ai margini della nazione, spostando l’attenzione al di fuori della città, che era invece il centro d’attenzione del cinema precedente, utilizzando mezzi d’espressione propri, dimostrando un’identità cinematografica unica e riemergendo da una rielaborazione del passato e dalla rivoluzione dei mezzi di comunicazione. Nei film di oggi, i personaggi marginali non hanno lo scopo di rivelare i più segreti tratti psicologici del comportamento umano. La loro fuga dalla realtà sociale quotidiana è una scelta di tipo politico. Si prenda, per esempio, il gruppo di amici del più famoso film di Gabriele Salvatores. La loro battaglia è una ribellione contro il consumismo, la conformità, la classe dirigente e la decadenza morale e civile. Alla fine di Mediterraneo, Diego Abatantuono afferma: «Non ci hanno lasciato cambiare niente. Allora ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice». Queste parole sono portavoce del messaggio del regista. I film di Moretti rifiutano a livello internazionale il linguaggio dei mass media, della pubblicità, della classe dirigente, la mentalità arrivista degli arrampicatori sociali e la cultura nebulosa dei nuovi quiz televisivi. Il film più contemporaneo sullo stile di Rossellini, Il ladro di bambini, ci mostra un’Italia nascosta, dove vivono gli outsider della società. Perfino il carabiniere Antonio non appartiene a quell’Italia suggerita o descritta da Silvio Berlusconi ed i bambini non saranno mai considerati “carini”. Mery per sempre e Ragazzi fuori di Marco Risi o Ultrà di Tognazzi o ancora Le buttane (1994) di Aurelio Grimaldi obbligano lo spettatore a reagire con disgusto a ciò che vedono sullo schermo39. La maggior parte dei nuovi registi usa una messinscena 39  L'idea di paragonare l'intenzionalità e l'identificazione nei due stili è di Sudbury, Nuovo Cinema Italia, cit., p. 10.

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volta a provocare rifiuto e rabbia negli spettatori. In Il portaborse di Daniele Luchetti, il disgustoso politico senza scrupoli ha lo scopo di scatenare il dissenso pubblico e la ribellione contro la corruzione. Il nuovo cinema non approva in maniera auto-indulgente gli errori della nazione. Questo posizionamento politico e sociale è distinto da quello del dopoguerra italiano per ragioni storiche ed ideologiche. Oggi le più importanti scelte morali e politiche non sono così nette. Ciò che i nostri nonni e padri desideravano e per cui lottavano è messo in dubbio, come mostrato in Lamerica e in Così ridevano, così come in Verso sud (1992) e Padre e figlio (1994) di Pasquale Pozzessere, Con rabbia e con amore (1997) di Alfredo Angeli, Il teppista (1994) di Veronica Perugini, Ovosodo (1997) di Paolo Virzì e Tutto l’amore che c’è (2000) di Sergio Rubini. Il sogno di una bicicletta che permette di avere un lavoro e mantenere una famiglia, o il desiderio di vivere in una stanza in affitto con un piccolo cane come unico lusso per un dignitoso e rispettabile pensionato, contrastano fortemente con i frustrati desideri di una coppia milanese che vive un disagio esistenziale senza ottimismo, direzione o obiettivi nei film di Silvio Soldini. Gli incontrollabili fattori sociali ed economici che rendevano impossibile il cambiamento personale nei film del passato si scontrano con l’indifferenza o gli scialbi valori dei protagonisti dei film contemporanei di Pozzessere. Nel primo lavoro del regista pugliese due giovani romani alienati si incontrano, rapiscono il figlio della donna e fuggono verso il Sud. La loro storia d’amore finisce con la morte del giovane durante una sparatoria mentre sta compiendo una rapina come soluzione ai loro problemi. In Padre e figlio, l’ex sindacalista militante Corrado (Michele Placido) trasferitosi dal Sud a Genova dopo aver lavorato come operaio dell’Ansaldo sopravvive come guardiano notturno e si scontra con il figlio Gabriele (Stefano Dionisi), il quale non possiede alcuna coscienza di classe e non vuole lavorare in fabbrica. Il film drammatizza il conflitto generazionale basato sui temi della memoria storica e della solidarietà di classe. Il giovane si fa licenziare dalla fabbrica, dedica la sua vita alle motociclette, alle macchine veloci ed alle relazioni causali che riesce a permettersi grazie a rapine e droga, mentre il padre vive la fine dell’utopia socialista con ansia e frustrazione.

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Cosa c’è di nuovo in Italia? In seguito al suo arresto, il politico socialista Mario Chiesa rivelò ai magistrati i minimi dettagli del sistema di tangenti a Milano, che causò lo scandalo di Tangentopoli, la fine del governo di Bettino Craxi e della Prima Repubblica. Nel periodo successivo la coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi, il più ricco uomo italiano e membro della Loggia massonica P2, vinse le elezioni nazionali nel 1994. Berlusconi ha accumulato una ricchezza che si avvicina ai o supera i 14 miliardi di dollari a partire dal 1962, anno in cui iniziò la sua carriera come impresario edile. Nel 1980 fondò Canale 5, una rete televisiva indipendente che lanciò il suo impero mediatico, Mediaset, ad oggi la potenza predominante nella televisione commerciale. Nel 1986 diventò proprietario della squadra di calcio A.C. Milan. Nel 1994 colse l’occasione di entrare in politica, creando un nuovo partito, Forza Italia, per salvare l’Italia dal comunismo, secondo lui ed i suoi amici, per salvare il suo impero, secondo i suoi nemici e detrattori. Il suo primo governo cadde, seguito da una formale dichiarazione il 14 settembre 1996 di una Padania indipendente da parte di Umberto Bossi, leader della Lega Nord, un movimento separatista e razzista. La coalizione formata dal partito di Berlusconi, dalla lega Nord e da Gianfranco Fini a capo di Alleanza Nazionale vinse le elezioni nazionali il 13 maggio 2001. Due conduttori televisivi i cui programmi criticavano Berlusconi e si interrogavano sul conflitto d’interessi fra la carica di primo ministro e quella di magnate dei media, furono licenziati. Vennero varate leggi per proteggere i suoi interessi personali ed i suoi amici corrotti, come il suo seguace Marcello Dell’Utri, accusato di collusione con la Mafia, il quale ricevette il 65 percento dei voti a Milano. La città del Risorgimento, considerato dal gruppo Cinema il vero centro dell’Italia progressista, è descritta da uno storico britannico come centro del potere sociale, culturale ed elettorale di Berlusconi, dominato da un’economia di servizi estremamente individualista40. Con la politica a fare da sfondo, la discussione sull’identità culturale si spostò dal cinema contemporaneo all’intera nazione. In un momento di crisi identitaria il cinema era riconosciuto come un 40  John Foot, Heirs of Tangentopoli, «New Left Review», 16 (luglio-agosto 2002), pp. 153-160.

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mezzo per coltivare l’idea di nazione, che risale alla lotta per la liberazione dal fascismo, momento in cui la coscienza collettiva aveva raggiunto il suo massimo livello. Le incertezze del presente fecero scattare la scintilla della nostalgia nel cinema italiano di oggi41. Per molti critici la vita intellettuale dell’Italia è in uno stato di regressione che si riflette, come sempre, nel cinema. Secondo Giuseppe De Rita in Il regno inerme l’Italia è allo stesso tempo una società molecolare e nomade, che ha perso le sue forme tradizionali di comunione sociale e sta mettendo in discussione, se non lo ha già fatto, il rispetto per le istituzioni42. Di conseguenza l’interesse personale ha sostituito il bene collettivo. Secondo De Rita, la forza della diversità italiana, spesso identificata con i cento comuni, manca ora dei legami collettivi che erano esistiti in passato, fossero questi fascisti, antifascisti, comunisti, anti-comunisti, della resistenza o anti-terroristi. L’inabilità della condizione presente di trovare nuove formule trova conferma, secondo molti critici, nell’inabilità dei film di narrare storie ben sviluppate e corali. Al contrario, i film centrano la loro trama su un singolo dramma personale, fallendo nel racchiudere il contesto sociale, come fece Francesco Rosi nel film Le mani sulla città (1962), nel quale l’ideologia, la mafia, la cattiva amministrazione e la politica sono legate allo scandalo degli abusi edilizi a Napoli. Nel 2004 un solo film italiano, il cinepanettone di Neri Parenti dal titolo Christmas in Love, riuscì ad entrare nella top ten nazionale degli incassi al botteghino. I film hollywoodiani guadagnarono più del 60 percento quell’anno. I film italiani si aggiudicano poco più del 20 percento del mercato nazionale, fenomeno che i produttori ed ora i politici neo-liberali attribuiscono alla filosofia “auteur-driven” che si focalizza troppo poco sul mercato locale. Guardando a questi fatti alcuni produttori mantengono viva l’arte del cinema italiano solo grazie a finanziamenti statali mentre i registi italiani dovrebbero specializzarsi nel realizzare film nostalgici, che incontrino il gusto americano ed internazionale. Alla cerimonia di premiazione annuale del 2004 il Presidente Ciampi spronò i nuovi registi a rappresentare meglio l’Italia. I pes41  Per una discussione completa si veda Carlo Celli, The Nostalgia Current in the Italian Cinema, in Vitti, (a cura di), Incontri con il cinema italiano, cit., pp. 271-287. 42  Torino, Einaudi, 2002.

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simisti risposero che un’identità frammentata non può essere narrata con completezza ontologica. Ufficialmente l’Italia lotta per presentarsi come una società pluralista, moderna e democratica, che favorisce le relazioni aperte all’interno della famiglia, il progresso per le donne, crescenti opportunità educative e accesso alle informazioni. L’Italia afferma di aver raggiunto un benessere materiale per la maggior parte della sua popolazione. Molti critici fanno notare che è necessario abbandonare la cultura basata sul clientelismo per costruire nuovi ponti tra la democrazia formale e la vita quotidiana e lottare in maniera più efficace contro la criminalità organizzata, la degradazione culturale e la disoccupazione. Per altri, incluso Nanni Moretti che ha realizzato due film sull’argomento, Aprile (1998) e Il caimano (2006), è impensabile che una democrazia che si rispetti abbia come primo ministro un uomo sulle cui spalle pendono dei processi giudiziari e con un impero d’affari di 14 miliardi di dollari che pervade virtualmente ogni aspetto della vita pubblica e finanziaria: banche, assicurazioni, proprietà immobiliari, editoria, calcio e il 90 percento di tutte le televisioni, se includiamo le reti pubbliche. Dimentichiamo spesso che nonostante Berlusconi rappresenti un’anomalia italiana, ebbe il supporto dei democratici cristiani europei Kohl e Aznar assieme agli Stati Uniti, la Russia e l’Inghilterra. Per uno come me, che ama vedere gli eventi culturali rappresentati in termini cinematografici, l’ascesa al potere di Berlusconi ha confermato tutte le previsioni fatte da molte commedie all’italiana. Una storia italiana, l’opuscolo autobiografico che Berlusconi distribuì gratuitamente per ricordare agli elettori che chiunque sarebbe potuto diventare ricco e di successo se avesse votato un uomo che si è fatto da sé, potrebbe servire da copione. Dopo le speranze di una rinascita italiana, radicalmente trasformata, dopo la crisi del 19921993 e mani pulite, gli italiani si stanno ora chiedendo se la nostra sia una vera democrazia che includa tutti i suoi cittadini, che cosa significhi veramente “Italia”, chi ne definisce l'identità, se sia veramente un paese fiorente, etnicamente diverso e tollerante in seguito all’approvazione delle nuove leggi sull’immigrazione. Amelio rivolge tutte queste domande indirettamente nella sua trilogia Il ladro di bambini, Lamerica e Così ridevano.

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Il cinema contemporaneo italiano, ai suoi massimi livelli, ha sia divertito che rappresentato questa realtà e forse ha risvegliato il paese. Come possiamo giudicare se un film raggiunga o meno questi obiettivi? In primo luogo deve rappresentare storie e personaggi in maniera diversa da quella che vediamo al telegiornale. In secondo luogo dovrebbe avere il coraggio di esplorare la memoria collettiva e fare luce su traumi antichi e personaggi dimenticati, presentandoli o analizzandoli sullo schermo. Infine dovrebbe possedere un’energia sufficiente a mantenere viva l’attenzione del pubblico con nuove tecniche narrative e una continua ricerca di stili ed attori nuovi, senza abbandonare l’illusione di realismo o trasformando la realtà quotidiana in magia. Nel nuovo millennio la maggior parte dei critici italiani sono convinti dell’esistenza di un nuovo cinema, anche se non concordo con Angelo Guglielmi, il quale il 13 giugno 2001 durante una conferenza internazionale organizzata a Roma, ha lanciato la formula «epica dell’intimo» per descrivere il terreno comune fra i cosiddetti film neo-neorealisti degli anni novanta. Nel cinema italiano odierno è di moda mostrare come nuovi amori ed amicizie possano nascere fra estranei nelle avversità. Fra questi, ad esempio, Le fate ignoranti (2001). Registe di successo quali Francesca Archibugi e Cristina Comencini hanno girato storie toccanti di bambini, famiglie e piccole città nella tradizione della commedia italiana. Non meno rappresentativo, seppur meno conosciuto, è Giuseppe Piccioni con Chiedi la luna (1991) e Fuori dal mondo (1999). Questo nuovo regista potrebbe caratterizzarsi come un realista con un profondo tocco umano. Luce dei miei occhi (2001) è il suo film più riuscito, ma non è stato ben distribuito in Italia o negli Stati Uniti. Piccioni non gioca mai con i sentimenti del pubblico. Al contrario, con un notevole lavoro della cinepresa, utilizza primi piani a tutto schermo che permettono al pubblico di afferrare sguardi ed inflessioni quasi prima che i personaggi stessi ne siano consapevoli. Il tono non forzato e le impreviste relazioni umane caratterizzano il suo lavoro e sono apprezzate dai pochi critici americani che li hanno riconosciuti come elementi che aggiungono una nuova profondità a ciò che è ancora guardato in questo Paese come neorealismo. L’urgenza sociale che l’eroico periodo del neorealismo concentra sul lumpenproletariat (gli emarginati dalla società), non connesso

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con la classe operaia o i disoccupati, è difficile da trovare nel cinema italiano contemporaneo. Il realismo non deve più abbracciare la povertà e la miseria, ma al giorno d’oggi si concentra sulla classe media. Nonostante il Sud sia ancora il tema principale di molti film, le trame non sono palesemente politiche. I film non descrivono lo sfruttamento dei contadini del Sud e dei pescatori in una società in cui possono contare solo sull’empatia e sull’unità famigliare. Molti film di oggi mantengono una semplice trama basata su una dicotomia: madre/figlia, padre/figlio, fratello/sorella. La crisi coniugale, lo sfruttamento minorile ed il tema del viaggio sono ancora in voga, in contrapposizione ai temi del passato dove la malasorte dei personaggi era contrastata dal successo dei personaggi dei film americani: John Wayne nel film western Red River (1948) di Howard Hawks ha un lungo cammeo nel film Bellissima di Visconti e la locandina di Rita Hayworth nel ruolo di Gilda ossessiona Ladri di biciclette di De Sica. Oggi i registi guardano allo stile di vita americano in frequenti rappresentazioni poco originali della modernità e producono una reazione emozionale non pertinente ad alcuna ideologia. Il riscatto e la redenzione nazionale ottenuti nei film neorealisti sembrano messi in ombra dai ricordi che vogliono scoperchiare vecchi conti aperti, visibile nella reazione ai film Così ridevano e con film come Il sangue dei vinti. I nuovi registi di sinistra come Giulio Chiesa trovano difficoltà nel convincere i registi della vecchia sinistra che, per la nuova generazione, le bandiere rosse possono anche rappresentare l’ingiustizia e la repressione che prosperavano durante la dittatura comunista, come fece durante le riprese di Un mondo diverso è possibile ancora, realizzato per il G8 di Genova. I registi sulla cinquantina amano rivisitare i temi del terrorismo, delle proteste degli anni sessanta e della Resistenza. La nuova generazione cerca la felicità, interpretata come una conquista raggiungibile e ben meritata così come lo era un posto di lavoro sicuro nel dopoguerra. Amelio, Muccino, Calopresti e Özpetek rivelano che, a partire dalla dissipazione delle convinzioni politiche, l’amore ed il profitto non sono forze motivanti, ma piuttosto alibi. L’amore ed i sentimenti sembrano essere tutto. Se il primo può trovare giustificazione, il secondo sembra essere l’unica aspirazione in grado di aiutare milioni di persone a sopportare una condizione di alienazione.

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A differenza della stampa francese che dibatté su cosa rendesse un film legittimamente francese dopo il successo del film finanziato dall’America dal titolo Un long dimanche de fiancailles/Una lunga domenica di passioni (2004) di Jean Pierre Jeunet (4.5 milioni di euro) e l’uscita di Alexander (2004) di Oliver Stone finanziato dalla Francia, e della Spagna che cercò una redenzione nazionale attraverso La mala educación di Pedro Almodóvar, i media italiani non si sono minimamente chiesti se È più facile per un cammello... di Valeria Bruni-Tedeschi e i meravigliosi film di Ferzan Özpetek e Edoardo Winspeare siano veramente italiani. I politici continuano a dibattere se l’industria cinematografica meriti di essere considerata un patrimonio culturale da sostenere con fondi pubblici e come trovare etichette adeguate per i suoi nuovi prodotti cinematografici. I registi cercano spazio in un mercato mondiale in cui i successi cinematografici americani con grossi budget richiedono una porzione sempre più grande di mercato. Il nuovo cinema italiano non ha perso solamente il pubblico nazionale. Gli incassi annuali per i film italiani oscillarono dal 59.9% negli anni settanta al 18% nel 1996 fino al 30% alla fine del secolo. Secondo Mino Argentieri, questo declino ha minato anche il dialogo tra critici e registi43. I primi, per la maggior parte, screditano i film commerciali e sperano di tornare ai temi sociali e storici ripuliti da giustificazioni naturali o fataliste. I secondi lamentano il fatto che i critici passano più tempo alla ricerca di difetti nei nuovi film piuttosto che analizzare la situazione internazionale attuale. Secondo Argentieri il cinema italiano negli anni novanta ha perso il supporto della critica specializzata ed ha acquisito l’appoggio dei media quotidiani. Personalmente ritengo che i nuovi film siano tecnicamente ben realizzati, ma riflettano allo stesso tempo la nostra attuale mancanza di una visione utopica. In questo libro mi pongo l’obiettivo di dimostrare come il cinema di Amelio abbia attraversato varie fasi all’interno di una nozione flessibile di genere in un momento in cui il confine tra il cinema artistico e quello commerciale è meno defi43  Scenari italiani. Il cinema e la società, in Vito Zagarrio, (a cura di), Nuovocinema. Il cinema della transizione. Scenari italiani degli anni Novanta, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 66-81.

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nito. In un modo molto pragmatico Amelio ha trovato uno stile che gli permette di aderire a tematiche serie. Prima di allora il regista ha dovuto affrontare la riorganizzazione dell’industria cinematografica, la mania delle teorie d’autore e le richieste del mercato, in cerca di un proprio linguaggio, rimanendo fedele alle sue radici, come la seguente citazione attesta: ... Regista non mi sento, ma soprattutto non mi voglio sentire perché voglio anche sentirmi altre cose, e questo è lo spazio di libertà che mi coltivo. Io non voglio prendermi sul serio, io prendo sul serio il mio lavoro, il che è diverso; non voglio prendere sul serio il mio cosiddetto ruolo. Se confondi il tuo lavoro con il tuo ruolo sei finito, finito perché poi sarai un infelice nel momento in cui il tuo ruolo scricchiola o vacilla, o qualcuno non te lo riconosce44.

Dal momento che è impossibile predire il futuro, per ora, ciò che possiamo fare è osservare che, durante questa fase intermedia di incertezza e confusione politica, una nuova generazione si è insediata e sta dimostrando una profonda creatività e abilità nell’abitare la storia del proprio tempo e nel catturare la realtà di questo Paese in transizione, meglio di quanto non stia accadendo nelle altre arti. Come nota Fofi, questi giovani artisti non solo rappresentano il consueto cambio generazionale ma anche una forza culturale che è riuscita a catturare le molte contraddizioni del loro Paese, in un momento in cui la vecchia generazione, Wertmüller, i fratelli Taviani e Scola, ha perso il senso di come sono le cose, ricorrendo a inutili esercizi d’eleganza, poesia stantia e adattamenti puerili con arroganza autorevole. Nel clima precedente caratterizzato da film di serie B ed inutili commedie, l’industria cinematografica italiana, in costante crisi e sempre sull’orlo di un abisso, ha sostenuto una vitalità artistica ed immaginativa perfino tra i non più giovanissimi come Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Gabriele Salvatores e Gianni Amelio. Il debutto di Amelio coincise con l’inizio della crisi. Da allora ha realizzato 14 film in una varietà di generi. La sua produzione cinematografica è caratterizzata da un’espressività che va oltre le parole e da rivelazioni che vanno oltre le immagini. La sua è una ricerca non solo di 44  Amelio secondo il cinema, cit., p. 122.

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mezzi per mostrare la realtà, ma anche di uno stile e di una forma che non tradiscono mai la realtà nascosta dietro a ciò che è rappresentato. Amelio ebbe un ruolo di primo piano nel rinnovato interesse internazionale per il cinema italiano, guadagnando l’ammirazione dei critici ed un considerevole successo di pubblico, fornendo qualche speranza di prevalere contro lo spettacolare ed evasivo cinema di Hollywood. I suoi film hanno altresì rivissuto alcuni momenti cruciali della storia nazionale in un Paese che sembra, per buona parte, accettare la rapida trasformazione del periodo del dopoguerra, la perdita della sua identità, la beatificazione fantasiosa di Padre Pio, gli spot pubblicitari di Forza Italia e gli attacchi del Papa ai comici. Partendo dalla colonizzazione del Sud nel 1600, i suoi film hanno riaperto una rivalutazione della trasformazione dall’agricoltura rurale all’industrializzazione urbana, con il simultaneo spostamento di masse di persone che hanno effettivamente perso la loro anima. Di conseguenza, l’apparente benessere è stato raggiunto ad un costo salato, e proprio questo è il centro della sua analisi.

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Capitolo 3

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Le conseguenze personali del terrore politico: Colpire al cuore (1982) Non esiste un modo naturale di fare bene il padre; esiste un modo per farlo, ed è quello che deve essere naturale. Non è la nascita, è il rapporto che deve essere creato dalla natura. Questo è il tema di tutti i miei film, che ovviamente, nelle cose più serie che ho fatto, è espresso con più finezza, ed è quindi un po' più nascosto1

La genesi del film Dopo che nel 1979 la serie televisiva Il piccolo Archimede riscosse un buon successo di critica, il produttore televisivo Paolo Valmarana chiese ad Amelio di girare un film sul terrorismo, a partire da una sceneggiatura in suo possesso. Il giovane regista rispose che era incapace anche solo di immaginare un film su quel tema. In un certo senso restio a realizzare un film politico, Amelio non era convinto della trama piuttosto superficiale e considerava oltretutto la sceneggiatura troppo strutturata, che lasciava poco spazio alla sua creatività. Aggiunse provocatoriamente che avendo fino a quel momento girato solo film con bambini come protagonisti, avrebbe potuto al massimo concepire la storia di un figlio con il sospetto che il padre fosse coinvolto nel terrorismo. Per ironia della sorte l’idea piacque a Valmarana il quale lo spinse immediatamente a scriverne la sceneggiatura e gli fece firmare un contratto. Nel breve tempo intercorso tra l’iniziale rifiuto e l’accordo finale, un amico di Valmarana gli raccontò la vicenda di un politico denunciato dal proprio figlio per “collusione con il terrorismo”, a conferma della fiducia del produttore nell’idea di Amelio. Inizialmente Amelio ha fatto fatica a convincere Vincenzo Cerami2 a collaborare alla sceneggiatura. Lo scrittore riteneva, infatti, 1  Amelio, citato in Martini, (a cura di), gianni amelio: le regole e il gioco, cit., p. 142. 2  Nato a Roma nel 1940, Cerami lavorò come assistente alla regia di Pasolini nel film del 1966 Uccellacci e uccellini. Nel 1976 pubblicò il suo primo romanzo, Un borghese

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che la storia fosse troppo inconsistente per descrivere la complessità del momento storico. Amelio si è sentito ferito nell’orgoglio e ha così iniziato a scrivere da solo la storia di un figlio quindicenne che, bombardato dalla demonizzazione del terrorismo da parte dei mass media, denuncia il padre alla polizia. Come Amelio ha spesso affermato, il suo obiettivo era quello di riflettere sulla realtà non in maniera schematica. In quel momento, la volontà del regista era di esaminare il problema del terrorismo in profondità, non tanto per rappresentarlo come un paradosso o per andare contro l’opinione pubblica, quanto per descrivere il conflitto e lo scontro fra due generazioni3. Cerami, alla fine, si è unito allo sforzo creativo, suggerendo di cominciare dal diario del ragazzo che avrebbero in seguito utilizzato per entrare nel suo mondo e catturare i suoi pensieri e le motivazioni sottese alle sue azioni. I due finirono la sceneggiatura in un tempo relativamente breve ed iniziarono immediatamente le riprese, che furono sospese dopo soli tre o quattro giorni a causa di un cambio di ruoli all’interno del consiglio di amministrazione della RAI, che stava producendo il progetto. Le riprese ricominciarono nelle primavera del 1982. Nel frattempo il film del 1981 di Margarethe von Trotta, Anni di piombo, vinse il Leone d’Oro al Festival Internazionale del Cinema di Venezia. Il film si ispirava alla storia vera di Charlotte Ensslin, la cui sorella Gudrun nel 1977, dopo quattro anni di prigionia per il suo ruolo nel gruppo Baader-Meinhof, fu trovata impiccata in circostanze sospette nella prigione di Stammheim. L’interruzione delle riprese di Colpire al cuore coincise con un cambiamento nell’atteggiamento nazionale nei riguardi del terroripiccolo piccolo, che fu ben accolto dalla critica e adattato per il cinema l’anno seguente da Mario Monicelli. Cerami scrisse sceneggiatura e dialoghi per Casotto (1977), Il minestrone (1981) e Mortacci (1988) di Sergio Citti e collaborò con Amelio a I ragazzi di via Panisperna (1989) e Porte aperte (1990); con Marco Bellocchio lavorò a Salto nel vuoto (1980) e Gli occhi, la bocca (1982); collaborò con Giuseppe Bertolucci a Segreti, segreti (1984); con Francesca Comencini a Pianoforte (1985); assieme ad Ettore Scola lavorò a Il viaggio di Capitan Fracassa (1990); con Antonio Albanese a Uomo d’acqua dolce (1997) e La fame e la sete (1999); infine con Roberto Benigni collaborò a Il piccolo diavolo (1988), Johnny Stecchino (1991), Il mostro (1994) e La vita è bella (1997).  3  Amelio, citato in Sesti e Ughi, Gianni Amelio, cit., p. 33.

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smo, che incise nella versione finale del film4. Durante la stesura della sceneggiatura originale il più importante dibattito sul terrorismo in Italia verteva sul Teorema Calogero. Il pubblico ministero Pietro Calogero ordinò l’arresto dei leader di Autonomia Operaia, un gruppo extra-parlamentare di sinistra. In un’intervista del 5 luglio del 1979 pubblicata dal «Corriere della Sera» fu memorabilmente vago riguardo alle prove d’incriminazione: non sostenne di aver identificato i veri esecutori degli attacchi terroristici, ma piuttosto gli intellettuali ed i “cattivi maestri” che li avevano organizzati ed ispirati. Le accuse ricaddero su molti professori universitari di sinistra i quali vennero considerati responsabili di aver indottrinato i propri studenti con idee marxiste, leniniste e maoiste, che li avevano condotti alla lotta armata. Il titolo del film richiama il motto delle Brigate Rosse «colpire al cuore dello Stato», che alludeva al loro obiettivo di attaccare personaggi considerati i fulcri della struttura politica ed economica. Nel momento in cui Amelio ricominciò le riprese, i primi pentiti avevano già testimoniato in merito alle presunte collusioni tra alcuni dei “cattivi maestri” e le Brigate Rosse. L’attenzione del regista si spostò pertanto verso gli effetti del terrorismo sul figlio Emilio, che rappresenta la generazione nata nel 1968. Nel 1983, spiegò che questo particolare approccio gli permetteva di dimostrare che la reazione di Dario nei confronti del terrorismo era mediata dalla propria esperienza culturale, dalla personalità oramai formata e dalla propria capacità di giudizio. Al contrario, un ragazzo di quindici anni che è costretto ad affrontare il terrorismo dal nulla, vi reagisce istintivamente con un assoluto desiderio di ordine5. Dopo l’uscita del film negli Stati Uniti, in un’intervista a Cineaste fu chiesto ad Amelio quali fossero le sue tendenze politiche. Amelio rispose che il fatto di provenire da un’umile famiglia di una regione sottosviluppata, lo aveva spinto ad identificarsi in maniera naturale con la sinistra, cosa che aveva inciso profondamente sul piano cul-

4  Per un resoconto di Amelio su come fu accettato lo script e perché il film sia stato posticipato, si veda Franca Faldini e Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi, Milano Mondadori, 1984, p. 261. 5  Sesti e Ughi, gianni amelio, cit., p. 33.

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turale e intellettuale nella sua formazione6. Amelio dichiarò che il film non si ispirava al processo di Antonio Negri7, uno dei professori considerati “cattivi maestri”, che in quel momento riempiva le pagine dei giornali, ma piuttosto ad un atteggiamento generale. Secondo il regista infatti esisteva una vera e propria ossessione nevrotica nei confronti del terrorismo, che impedì di comprenderne le vere ragioni che lo avevano determinato. Colpire al cuore non guarda solamente al terrorismo, ma pittosto ne indaga la demonizzazione da parte dei mass media e la reazione convulsa della gente8. Infatti dopo l’interruzione la trama originale che tendeva a criminalizzare il padre si tramutò in un resoconto più equilibrato di una tragedia generazionale successiva alla Resistenza, durante un’altra guerra civile italiana. Le riprese si spostarono da Torino a Milano e Bergamo, luogo dove si trovava la casa di campagna della nonna. Il luogo venne consigliato ad Amelio, che lo ritenne ideale per rappresentare l’inizio del dramma famigliare che si consumava tra la vecchia e la nuova generazione. Valmarana supportava il progetto presentandosi sul set ogni giorno. Amelio era ora in grado di affidare il ruolo della protagonista femminile Giulia all’attrice Laura Morante, che era incinta prima dell’interruzione delle riprese. Dal 6  Gary Crowdus e Richard Porton, Beyond Neorealism: Preserving a Cinema of Social Conscience, intervista con Gianni Amelio, «Cineaste», dicembre 1995, pp. 6-13. 7  Nato a Padova nel 1933, Negri è un filosofo politico e professore. Dopo una carriera da cattolico attivista militante, Negri si unì al Partito Socialista Internazionale nel 1956. Negli anni Sessanta diventò sempre più coinvolto nel movimento Marxista. Nel 1969 fu uno dei fondatori del gruppo Potere Operaio e operaismo. Nel 1973 Potere Operaio si sciolse e Negri aiutò a fondare Autonomia. Nel 1979, venne arrestato con l’accusa di aver capeggiato il terrorismo di sinistra in Italia, incluso il rapimento e assassinio nel 1979 del precedente ministro Aldo Moro. Nessun legame è stato mai stabilito tra l’uccisione di Aldo Moro e le Brigate Rosse e Negri venne rilasciato. Nel 1984 venne condannato a 30 anni di prigione e nel 1986 gli vennero aggiunti altri 4 anni di carcere per insurrezione contro lo Stato, prevalentemente a causa dei suoi scritti e delle sue idee rivoluzionarie. Negri venne eletto dalla legislatura italiana come membro del Partito Radicale mentre era in prigione, e quindi rilasciato grazie ad un privilegio parlamentare che venne revocato pochi mesi dopo dalla Camera dei Deputati. Negri scappò in Francia, dove insegnò filosofia all’Università di Parigi III. Nel 1977 tornò volontriamente in Italia per scontare il resto della sua pena, che era stata ridotta a 17 anni dopo vari appelli, al fine di attirare l’attenzione sulla situazione critica di centinaia di altre persone in prigione o in esilio a causa di attività politiche radicali. Negri uscì di prigione nel 2003 avendo scontato tutta la sua condanna, ed è ora conosciuto come co-autore di Empire, che molti definiscono il nuovo Das Capital. 8

Crowdus e Porton, Beyond Neorealism, cit. 

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momento che Cerami non contribuì alla revisione, Amelio si assunse piena responsabilità e sentì la pressione sia di realizzare il suo primo film che di renderlo un successo. Amelio fu assalito da coloro che ritenevano che il terrorismo fosse una tragica esperienza con la quale la nazione stava ancora lottando, e che fosse quindi ancora prematuro realizzare un film sul tema. La salute del regista fu messa a dura prova e dovette essere ricoverato per una settimana per un’infezione ai reni aggravata dal forte stress. Amelio lavorava alacremente alle riprese, improvvisando sequenze e spesso riscrivendo le scene la notte prima della registrazione per conferire al dialogo una maggiore spontaneità. Fin dalla sceneggiatura originale, Amelio e Cerami cercarono di evitare il più possibile il gergo politico dei messaggi dei gruppi terroristici trasmessi ogni giorno dai media, temendo che sarebbe presto entrato in disuso. Ritenevano inoltre che, al fine di evitare la censura, avrebbero dovuto astenersi dall’utilizzare un linguaggio che avrebbe potuto in qualche modo favorire i terroristi. Alcuni hanno criticato l’austerità del film senza tenere in considerazione la forte pressione esercitata dai produttori. In un’occasione, per esempio, Amelio discusse per tre ore al telefono con Valmarana per trovare un accordo su come mostrare dei poliziotti uccisi in uno scontro a fuoco con i terroristi: se fra i morti si fossero contati più terroristi, il pubblico lo avrebbe potuto interpretare come una forma d’accusa nei confronti della brutalità delle forze dell’ordine, mentre se fossero morti più poliziotti, avrebbe potuto significare la debolezza dello Stato. Per rappresentare il conflitto famigliare ed evitare un punto di vista strettamente politico, Amelio fa spesso uso di inquadrature costruite ad arte e di lunghe riprese integrali piuttosto che di conversazioni esplicite. Tuttavia nell’ultimo incontro fra Dario e Giulia, compagna del terrorista, Amelio si vide obbligato a farle dire: «Che cosa dirò a mio figlio, che suo padre era un assassino e che io sapevo tutto ma non ho fatto niente9?» Il regista avrebbe preferito lasciare il coinvolgimento di Dario e Giulia nella lotta armata in qualche modo 9  Per un resoconto dettagliato su come fu inizialmente scritta la sceneggiatura e successivamente cambiata, si veda Volpi, Gianni Amelio, cit., pp. 113-120. Per il resoconto di Cerami in merito ai suoi contributi e su come vennero scritti i dialoghi, si veda Padri & figli. Le delazioni pericolose, in Scalzo, Gianni Amelio, cit., pp. 106-107.

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vago, senza escludere la possibilità di una forte attrazione fisica, che traspare dai loro sguardi evasivi e dal loro ultimo disperato abbraccio, ma i produttori richiesero una chiara condanna del terrorismo senza ambiguità. Attacchi al cuore In un giorno d’inverno inoltrato, in un’unica ripresa, un giovane uomo pedala su di una bicicletta vecchio stile. Il suo abbigliamento sportivo rosso e blu, i guanti ed il berretto di lana colorato stile veneziano contrastano con la sua espressione seria. Un altro uomo sulla cinquantina con guanti, maglione bianco di lana pesante, pantaloni e scarpe da tennis lo raggiunge, gli posa la mano destra sulla spalla ed inizia a raccontargli una barzelletta. Il giovane lo ascolta attentamente ma la sua espressione non lascia trapelare emozioni. Il ragazzo fatica a mantenere l’equilibrio dal momento che l’uomo lo afferra mentre gli racconta la storiella, che può essere riassunta in questo modo: in un istituto di cura mentale all’avanguardia i pazienti, non più definiti pazzi ma ospiti, mettono in piedi un’orchestra. Durante il loro primo concerto, dopo una perfetta esecuzione di La Cucaracha, il direttore d’orchestra, lui stesso un ospite, risponde all’entusiasmo del pubblico invitandolo a fare delle richieste. Dopo un momento di esitazione qualcuno richiede Casta Diva. L’orchestra accondiscende felicemente con un bis della Cucaracha. In un tono di autocompiacimento l’uomo insiste che la barzelletta è divertente mentre suo figlio si rifiuta di ridere, rimproverandolo di prendersi gioco di una psichiatria più innovativa e democratica. Il padre lo solletica esortandolo a ridere, ma la serietà e la rigidità del figlio gli impediscono di riconoscere la natura ludica e irriverente delle barzellette. Il padre lo solletica giocosamente, cercando di indurlo alla risata. Questo breve episodio introduce i due personaggi: il padre, Dario, è aperto, loquace a giocherellone, mentre il figlio, Emilio, è piuttosto introverso, accusatorio, politicamente corretto e molto severo nei confronti di Dario, il quale sembra preoccupato della rigidità del figlio. L’incapacità di Emilio di accettare gli scherzi in quanto profanazione e ribellione contro lo status quo dimostra la

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sua inabilità di andare oltre le circostanze immediate e le interpretazioni letterali. Nel discorso del film la storiella può essere estesa alla società italiana: la gente e le istituzioni, come l’orchestra, riescono a suonare una sola melodia a loro familiare. Giorgio Agamben descrive questo atteggiamento come una ricerca di sicurezza. Attraverso una graduale neutralizzazione della politica, la sicurezza diventò il compito principale dello Stato e l’unico criterio in grado di legittimare l’azione politica. Ma, aggiunge Agamben, uno Stato il cui solo compito è quello di provvedere alla sicurezza è sicuramente fragile e diventa facilmente preda del terrorismo10. Questa prima sequenza utilizza una carrellata che si allontana mentre Dario ed Emilio procedono fianco a fianco in un momento di intimità che non si ripeterà più. La conversazione porta con sé i semi di quello che diventerà un conflitto generazionale irreparabile e rappresenta uno dei traslati narrativi tipici di Amelio, quali ad esempio la barzelletta che rivela tratti personali e contestualizza alcuni temi centrali, o le allusioni alle arie musicali e alla musica da ballo. La sequenza iniziale così cinematograficamente ben costruita può anche essere citata come esempio di contrasto con la povertà tecnica dimostrata da altri registi nei primi anni Ottanta. Fatta eccezione per i film di registi già famosi, quali Rosi, Fellini, Scola, i fratelli Taviani, Monicelli e Nanni Loy, i critici reagirono negativamente a questo nuovo tipo di cinema, definendolo povero nelle idee e nell’ispirazione e concentrato solo su se stesso11, ed accusando i registi di essere disorganizzati e incapaci di creare un modello di direzione e produzione coerente12. Amelio, al contrario, dimostra maestria nell’uso della macchina da presa, una straordinaria abilità nell’integrare attori professionisti e giovani inesperti, nel narrare una storia universale e nell’entrare all’interno del discorso sulla rappresentazione cinematografica. Il tema del conflitto generazionale prosegue nella scena successiva. Padre e figlio siedono uno di fronte all’altro e per sottolineare 10  On the State of Exception, conferenza tenutasi a Saas-Fee, Svizzera, 2003; disponibile all’indirizzo http://www.egs.edu/faculty/agamben-resources.html 11  Si veda il saggio di Lino Miccichè, Il lungo decennio grigio, in Miccichè, (a cura di), Schermi opachi: il cinema italiano degli anni ’80, Venezia, Marsilio, 1998. 12  Alessandra Levantesi, in Miccichè, Schermi opachi, cit., p. 91.

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visivamente la distanza crescente fra di loro la macchina da presa stacca ad ogni battuta invece di utilizzare un campo-controcampo. La scena mostra un’inquadratura intera di Emilio che sta colpendo il ceppo su cui è seduto con una falce arrugginita, inconsapevole del significato storico ed iconico che quell’oggetto aveva nel passato di suo padre e del suo uso attuale da parte dei gruppi extra parlamentari e terroristici, nonchè del fatto che fosse un richiamo al Partito Comunista Italiano (PCI). Il silenzio è interrotto da una sequenza di parole pronunciata da Emilio: «Pera, arpe, apre, pare, mela, alme, male, lame, seta, tesa, aste». Spostando le lettere, come se fossero note musicali, si creano nuove parole, con nuovi significati. Emilio chiede a suo padre se si ricorda di quando era solito fargli fare continuamente anagrammi ed aggiunge che il suo professore Rosini, spesso, in classe parla di come anche Giovanni Pascoli si dilettasse da bambino con gli anagrammi. Dario afferma di ricordarselo, aggiungendo che Rosini era all’epoca il suo più bravo studente e gli domanda come sia ora da professore. Alla risposta di Emilio che afferma che è il peggiore dei suoi professori, Dario riconosce, suo malgrado, che queste cose accadono. Dopo una pausa, come se stesse ancora pensando a Rosini, Dario riprende dicendo che i suoi colleghi sembrano aver dimenticato tutto ciò che avevano appreso dai libri e che, quando si ritrovano, gli unici argomenti di discussione sono lo sport, le donne e la Tv o si raccontano barzellette come quella che ha appena raccontato lui. In passato, al contrario, erano soliti scambiarsi bibliografie perfino a pranzo. Emilio gli suggerisce di cambiare amicizie e gli propone di presentargli alcuni dei suoi amici. Dario taglia corto dicendo che la generazione dei giovani non è di certo migliore, si alza sfidando Emilio a correre verso casa e salta sulla bicicletta lasciando indietro il figlio e le sue proteste. Preoccupato che il padre gli rompa la bici, Emilio lo prega di scendere ridicolizzando la sua capacità di guidarla. Nelle prime due sequenze Emilio ha minato le capacità di Dario come insegnante, come adulto e come padre, assumendo il ruolo paterno che lo stesso Dario tende a rifiutare. D’altro canto Dario manca di rispetto alla generazione del figlio ed è isolato dai suoi colleghi, ai quali rimprovera un’amnesia. Le loro divergenze possono essere

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interpretate come un microcosmo rovesciato della guerra civile che si sta svolgendo attorno a loro: i gruppi armati si stanno ribellando al sistema e ai loro padri. Emilio, che rappresenta la generazione nata dopo il 1968, è alla ricerca di un equilibrio, e dal momento che il padre non glielo può garantire, si affida alle forze dell’ordine, alla polizia e alla legislazione speciale. L’individualismo di Emilio e la distanza dalla vita contemporanea trovano ulteriore risalto nella scena successiva, quando è inquadrato da solo, in abito rosso e cravatta, mentre picchietta nervosamente con le dita il palo del tram a cui è aggrappato. Dopo essere sceso dal tram, cammina verso il bar dell’università e siede ad un tavolo a leggere «la Repubblica». Le curve di una donna, Giulia, che sta guardando fuori dalla finestra mentre fuma, lo distraggono. Si scambiano uno sguardo e mentre lei passa accanto al suo tavolo, Emilio si alza nell’atto di seguirla, ma la macchina da presa mostra l’incontro fra Giulia ed un uomo che le porge un bambino. La scena si chiude con l’inquadratura che si sofferma su Emilio assorto nel guardarli. Il dramma famigliare può essere determinato, in parte, dalla sua gelosia per la relazione che suo padre intrattiene con l’uomo e la donna, aggravato da una sorta di rivalità edipica che si manifesta nella sua attrazione per Giulia. Nella scena che segue, la macchina da presa mostra Emilio che entra in una casa molto lussuosa e si muove nella direzione della cucina, da cui provengono alcune voci. Una donna matura e Sandro, lo stesso giovane che nella scena precedente porgeva il bambino a Giulia, stanno sistemando delle rose in un vaso mentre discutono del loro orto. Sandro rivela come una volta da ragazzo buttò via dei getti, innestati da sua madre, scambiandoli per semplici bastoncini. La donna afferma che al posto di sua madre lo avrebbe ammazzato. Gli racconta inoltre che coltiva rose nere e che ha addirittura vinto un premio nella prestigiosa competizione di San Remo. Apparentemente triviale, questa conversazione cela in realtà i temi principali della vicenda: le divisioni generazionali e famigliari. Emilio si sposta in un’altra stanza e quando vede Dario tenere fra le braccia il bimbo visto nel bar, gli chiede informazioni circa la sua identità. Dario scherza affermando che appartiene alla nonna di Emilio, la donna che si trovava in cucina. Giulia entra e mentre

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Dario cerca di presentarle suo figlio Emilio, la ragazza lo interrompe dicendo semplicemente: «Ci conosciamo già». La presenza della giovane coppia irrita Emilio, il quale chiama la madre per avvisarla del fatto che lui e Dario non rientreranno per cena a causa dell’arrivo inaspettato di questi intrusi. Il suono di un pianoforte accende la curiosità di Emilio il quale segue la melodia che lo conduce all’interno di un’altra stanza, dove c’è Sandro che suona Chopin. Emilio insiste nel dire che il pianoforte ha bisogno di essere accordato. Mentre si sposta nella stanza dei giochi di suo padre per aggiustare un trenino, Sandro lo segue scrutando ogni piccolo particolare, intento ad afferrare i dettagli della vita privata di Dario. Nello sfogliare i libri di Dario, Sandro si imbatte in La ribellione delle masse13 di Ortega y Gasset. Mentre Emilio ammette di non averlo letto, Sandro gli consiglia di farlo, aggiungendo che il filosofo spagnolo, un tempo considerato fascista, era stato rivalutato. È interessante notare come Sandro, che sarà in seguito ucciso dalla polizia in quanto parte di ciò che veniva definito «il culto della morte e della violenza», sostiene un principio che afferma la necessità della ragione e della cultura a servizio della vita. Forse la sua ammirazione per gli scritti di Ortega y Gasset deriva dalla convinzione che gli individui possono scegliere il proprio destino o pianificare la propria vita nonostante la sorte, trovando la propria libertà nello scambio dialettico tra l’individuo e le circostanze in cui si trova. La conversazione si sposta su ciò che Emilio sta leggendo nel suo corso di filosofia. Sandro sminuisce la Repubblica rifiutando l’idea di Platone sull’illusione e la realtà come elementi tragici della condizione umana. I riferimenti letterari di questa apparentemente semplice disquisizione fra giovani rimandano ai temi della realtà e dell’illusione ed introducono il discorso sul mezzo cinematografico. In particolare c’è un richiamo diretto a Il conformista di Bertolucci, il quale si serve di Platone per riflettere sul valore della rappresentazione cinematografica. 13  José Ortega y Gasset (1883-1955) scrisse Meditaciones del Quijote (Meditazioni sul Chisciotte) (1914) e La rebeliòn de las masas (1930), che fu acclamato dai suoi contemporanei come il nuovo Das Kapital. In esso Ortega y Gasset denigra la commercializzazione della cultura, dei valori e dei comportamenti. Ortega accusa l’uomo medio del declino culturale moderno, nega l’esistenza di una verità assoluta e basa la conoscenza sulla realtà radicale della vita, con la ragione come sua essenza.

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Sandro infine scopre una foto del 1944 in cui Dario è ripreso assieme ad un gruppo di partigiani mentre tiene in mano qualcosa che lui identifica con una mitraglietta. Emilio asserisce che suo padre ha in mano un bastone. Il contrasto dialettico tra realtà e illusione si ripete nei due malintesi riguardanti i bastoni, che vengono prima visti come getti per l’innesto e poi scambiati per una mitraglietta. Il pubblico non vede di fatto la fotografia. All’affermazione di Sandro, secondo cui Dario fin da giovane era abituato a maneggiare armi, Emilio ribatte che al massimo suo padre stava protestando e appendendo un poster, essendo totalmente incapace di uccidere. Emilio non capisce che, come gli anagrammi, anche le fotografie possono essere interpretate da più punti di vista e contestualizzate in vari modi, per assumere diversi significati. Amelio applica lo stesso concetto alla rappresentazione cinematografica ed alla sua capacità di commentare gli eventi. Dopo che Sandro lascia la stanza indossando una felpa che Emilio gli ha dato, il giovane torna a scrutare la fotografia del padre. Il dubbio sul passato del padre oramai si è insinuato nella sua testa. La scena sottolinea il contrasto tra i due giovani. Mentre Emilio indossa un abbigliamento borghese, Sandro porta i vestiti tipici dei ribelli di quel tempo, nonostante la sua ideologia anticapitalista sia contraddetta dalla sua ammirazione per la felpa dell’American Surfing Club, sottile segno della convergenza tra scelte nello stile di vita e cambiamento sociale. È molto aggressivo, duro, invadente, sempre pronto a prendersi ciò che vuole e a cercare gratificazioni immediate, atteggiamento tipico della sua generazione. Emilio è molto perbene, ma non sottomesso. Sorprendentemente, quando Giulia gli chiede se gli piacciano i bambini, Emilio risponde di non averli ancora assaggiati che, oltre al gioco di parole, è un esplicito riferimento politico alla propaganda cattolica degli anni ’50 che accusava i comunisti italiani di uccidere, mutilare e mangiare i bambini. L’insensibile gioco di parole di Emilio sul fatto che gli piacciano i bambini, come fossero pollo, e l’episodio in cui presta la sua felpa a Sandro, che lui stesso considererà poi un pericoloso terrorista, sono altri due esempi di confusione tra immagine ed essenza. L’azione si sposta poi in giardino, dove troviamo la nonna che canta «Argentina, del tango sei regina» mentre prova alcuni passi

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con Sandro. In seguito chiede a Dario di cantare «La rondine antica», resa famosa dal tenore Beniamino Gigli. Riluttante e stonato, Dario si lamenta e chiede a sua madre, in cambio, di impersonare Mae West. Lei rifiuta e se ne va adducendo la scusa che è stanca. Il ballo è la sua ultima apparizione prima che il sipario per lei si chiuda. Rimasto solo in casa, Emilio scatta foto degli altri dalla finestra e poi accende il grammofono per diffondere la voce di Gigli in giardino: «la rondine torna ogni anno al suo nido: l’amore, quando fugge e va lontano, aspetti invano, ma non torna più». La canzone allude al dramma che si sta manifestando tra Emilio e suo padre. Prima il giovane se la prende con gli amici del padre, ora, inconsciamente, gli sta mandando un messaggio di superiorità. La musica attrae la loro attenzione verso la finestra e rimangono immobili, quasi incantati dal magico trompel’œil. Emilio li guarda dall’alto: Sandro accanto a Dario e Giulia, ora con i capelli sciolti, in un breve momento felice prima della tragedia. Emilio sembra troneggiare sui loro destini. Sandro, Giulia, ed il loro bambino hanno varcato la soglia di quello spazio che appartiene di diritto a lui e a suo padre, la loro tranquilla domenica nella casa di campagna della nonna, dove può giocare con il trenino del padre. Sandro ha invaso la loro privacy ed ha insinuato dei dubbi circa il passato di Dario e la sua attuale relazione con le armi, dubbio che perseguiterà Emilio e creerà una frattura nel loro rapporto. Il tempo dell’intera sequenza è lento al fine di dare al pubblico la sensazione che ci sia un mondo al di là della violenza che imperversa in città. Ancora una volta il gioco tra apparenza e verità domina la scena, dal momento che il pubblico non sente il tema della discussione tra Sandro e Dario, a parte quando Dario interrompe il dialogo dicendo: «Idee... Non mi va di discuterne ora. Lo faremo più tardi» Seguendo la struttura ellittica del film, la scena successiva mostra Giulia in macchina mentre accompagna Emilio a Milano, che appare molto nervoso. Il pubblico non sa perché Sandro stia tornando in città da solo con Dario. Cercando un argomento di discussione, Emilio nota con invidia che suo padre e Sandro staranno parlando di politica e letteratura. Nel tentativo di flirtare con Giulia le confessa di essere più fortunato degli altri due, dal momento che sta viaggiando con una ragazza molto carina. A corto di argomenti, si appella al sofisma di Parmenide e, come si addice alla sua personalità, dissen-

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te fortemente dal tentativo di Giulia di spiegare come gli altri due promuovano il ragionamento analitico, che di certo non piace ad Emilio. Giulia rivela che Dario è preoccupato per l’eccessiva rigidità del figlio, per il fatto che studia troppo e che non ha successo con le ragazze. Dario si era anche lamentato del fatto che Emilio fosse troppo autosufficiente e non gli chiedesse mai dei soldi. Emilio si sente irritato, geloso e umiliato e le risponde che non capisce perché suo padre si confidi con lei. Mentre lui cerca di comportarsi da adulto, lei lo tratta come un ragazzino, chiedendogli perfino se abbia la ragazza. La scena successiva si apre nell’aula universitaria di Dario. Emilio entra dall’alto della gradinata ed ascolta suo padre mentre legge Pensée de Byron di Gérard de Nerval. Emilio sembra fiero del padre e la poesia fa diretto riferimento al loro rapporto, questa volta invertito: «Par mon amour et ma constance … ta riguer» (per il mio amore e la mia costanza... il tuo rigore). Fuori dall’aula, Dario si lamenta per la mancanza di interesse degli studenti per la poesia. Emilio li difende consigliando il padre di non leggere le poesie in francese, al quale il padre ribatte dicendo che Leopardi lo legge in italiano. Emilio non coglie la lamentela del padre sull’apatia degli studenti e risponde che Leopardi non ha nulla a che vedere con questo discorso. Allora suo padre gli racconta di una sua allieva che, studiando la Ginestra di Leopardi, aveva memorizzato e ripetuto la parola «mindo» anziché «mondo». Quando era stata interrogata sulla visione del mondo di Leopardi, la studentessa si era giustificata dicendo che l’errore di ortografia si trovava nella dispensa del docente. Emilio gli domanda se l’abbia bocciata, ma Dario risponde che oramai nessuno più viene bocciato ad un esame. Questo breve incontro rappresenta un momento molto intimo nella loro relazione. Emilio racconta al padre di una poesia divertente letta in un quotidiano ed il padre, dimostrando interesse per i progressi del figlio in ambito musicale, gli propone di trovare un insegnante migliore, più moderno. Emilio dimostra ancora una volta la sua rigidità e Dario la sua insoddisfazione riguardo alla generazione dei giovani, a causa del disinteresse verso la poesia, della mancanza di elasticità mentale, della pedanteria e dell’incapacità di andare oltre le apparenze; ognuna di queste caratteristiche descrive un tratto della personalità di Emilio.

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Dopo la tranquillità della campagna e questo breve incontro fra padre e figlio, la violenza del mondo circostante comincia a minare la relazione fra Emilio e la propria famiglia. Quando il suo tram si ferma, Emilio scende e vede la polizia di Stato intenta a prendere appunti e ad effettuare delle misurazioni. Due poliziotti ed un terrorista, che riconosce essere Sandro con ancora indosso la felpa che gli aveva prestato, sono a terra morti. Emilio corre a casa. La macchina da presa non lo insegue, ed Emilio scompare in fondo all’inquadratura nel momento in cui arrivano altre macchine della polizia. Sandro era entrato nella vita di Emilio in modo arrogante ed invadente ed ora Emilio scappa da un mondo che non conosce. Tuttavia una volta a casa Emilio si scontra nuovamente con il violento mondo degli adulti, nel momento in cui scopre da un telegiornale che uno dei terroristi è fuggito. Immediatamente chiede alla sorella, che sta facendo i compiti al telefono, notizie di loro padre. Entra di corsa nello studio di sua madre e la trova intenta ad ascoltare ciò che sta traducendo, assorta mentre scrive a macchina. Corre nel suo studio, dove trova sulla scrivania le fotografie scattate in campagna dalla nonna. Emilio si sofferma a guardare Giulia, Sandro e Dario. Al muro sono appesi poster dei Beatles, della guerra in Vietnam e di Charlie Chaplin nei panni di Hitler in Il grande dittatore. Il tumulto dell’epoca ha fatto irruzione nella sfera privata di Emilio, sostituendo quelle immagini ricostruite di un tempo passato. La scena successiva vede Emilio alla stazione di polizia, sotto ad un poster di carabinieri in festa che disegna un netto contrasto con la sua situazione. Nel momento in cui il padre viene condotto al piano superiore, i due si scambiano degli sguardi silenziosi, freddi ed inquisitori. Poi, all’alba, entrambi siedono senza parlare nel sedile posteriore della macchina della polizia. Guardando suo padre Emilio si tocca il polso quasi stesse pensando alle manette. Il padre evita lo scambio di sguardi. Davanti alla porta di casa Emilio siede sui gradini e Dario, accanto a lui, inizia a raccontare un episodio accaduto quando il figlio aveva otto anni. Un pomeriggio, Emilio era rientrato in casa da scuola ed aveva pianto tutto il resto del giorno rifiutandosi di raccontare al padre che cosa fosse accaduto. A scuola Dario aveva poi scoperto come Emilio avesse rivelato il nome di uno dei suoi compagni all’insegnante che aveva la cattiva abitudine

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di scrivere alla lavagna i nomi degli studenti che si comportavano male. Ora Emilio afferma che l’episodio accaduto a scuola non ha nulla a che vedere con il fatto di aver denunciato l’identità di Sandro alla polizia. È certo di aver agito da buon cittadino, rispettoso della legge. Dario, che inizialmente pensava che Emilio si sentisse colpevole, cambia atteggiamento interpretando l’accaduto sul piano politico. Nonostante riconosca che Emilio si sia comportato in modo corretto, i suoi stessi principi gli impediscono di spiegare pienamente i suoi sentimenti nei confronti delle azioni del figlio. Dario rivela chiaramente di essere contrario alle denunce e, sminuendo ulteriormente Emilio, afferma che se tutti coloro che hanno visto un terrorista lo denunciassero alla polizia, sarebbero tutti in fila di fronte alla stazione di polizia, perdendo tempo. Aggiunge che Emilio ha perso il suo tempo, quello di Dario e della polizia, dal momento che non ha nulla da denunciare. La conversazione è interrotta da un loro vicino che li saluta. L’intera scena è girata con una sola ripresa della macchina da presa che si muove lentamente in semicerchio, unendo intimamente padre e figlio per l’ultima volta, in un momento cruciale che preannuncia la rottura del loro rapporto. Amelio ha in seguito spiegato che la scena è stata girata in un’unica ripresa per evitare ogni possibile taglio da parte dei produttori14. Dario è in disaccordo con l’atteggiamento legalitario del figlio, che considera un comportamento pericoloso per il quale Emilio dovrebbe sentirsi colpevole. L’incapacità o la mancanza di volontà di Dario di spiegare le sue idee al figlio crea una maggiore confusione e distanza tra i due, nonostante egli non faccia allusione al dovere filiale né gli chieda una cieca fiducia, come impone la tradizione italiana del pater familias. Dentro casa Dario sfodera un atteggiamento più paterno ed esorta Emilio a riposare un po’ dal momento che il mattino seguente lo aspetta un giorno di scuola. Emilio non è pronto a cedere. Non vuole essere trattato da bambino ed insiste che andare alla polizia non è stata una perdita di tempo. Emilio accusa il padre di essersi arrabbiato inutilmente con lui in macchina, senza nessuna buona ragione, 14  Si veda Alessandro Rais, (a cura di), Gianni Amelio: Conversazione in Sicilia, Palermo, CIP, 1999, p. 71.

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e per guadagnarsi nuovamente la sua benevolenza, afferma di non aver rivelato alla polizia che Dario era tornato a Milano da solo con Sandro. Per tutta risposta, Dario afferma di aver raccontato tutta la verità alla polizia. Emilio scatta improvvisamente chiedendogli se abbia confessato di essere a conoscenza o meno delle attività terroristiche di Sandro. Il pubblico non vede le fotografie che Emilio ha portato alla polizia e non sente nemmeno quello che lui e suo padre riferiscono alle forze dell’ordine. Allo stesso modo, non sappiamo dove fosse Dario durante la sparatoria e non conosciamo il tipo di relazione che lo legava a Sandro. Inaspettatamente vediamo Giulia uscire dalla metropolitana e camminare velocemente guardandosi attorno furtivamente. Emilio la segue nascondendosi fra gli altri pedoni fino ad arrivare di fronte ad un edificio mostruoso con diversi passaggi labirintici. Il luogo rappresenta l’antitesi della casa di campagna, dove lo spazioso giardino è sostituito da uno spazio comune abbandonato con vetri rotti, porte e spranghe d’acciaio, che lo fanno sembrare una sorta di prigione o ad un appostamento militare abbandonato. Sul muro, una gelida scritta, «Finché la violenza dello Stato si chiamerà giustizia, la giustizia del proletariato sarà violenta», allude alla complessa costruzione della violenza altrui. Emilio in quel labirinto perde di vista Giulia e per sapere dove abiti è costretto a leggere i nomi nei campanelli all’entrata. Emilio la pedina di soppiatto come un terrorista o un poliziotto e spia attraverso una finestra rotta come se fosse l’obiettivo della sua macchina fotografica. Il suo atteggiamento sembra voler confermare l’accusa del padre, cioè di essere una spia della polizia. La sequenza che segue si apre con una panoramica che richiama l’idea di pedinamento del teorico Zavattini e successivamente alterna inquadrature di Giulia ed Emilio che salgono e scendono, spesso nella stessa inquadratura, il che amplifica il senso di suspense e di dinamismo. Zavattini utilizzò la storia di una donna, che elemosinava per poter comprare un paio di scarpe al proprio figlio, per dimostrare in che modo il neorealismo differiva dal cinema hollywoodiano. Sosteneva che attraverso l’analisi di tutti gli elementi di una situazione, ciò che era accaduto e quello che sarebbe successo dopo, un film era in grado di arrivare a comprendere l’intero processo che aveva

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determinato tale situazione15. Nella discussione sul neorealismo il punto di vista di Amelio differisce da quello di Zavattini. Amelio ritiene infatti che il realismo non debba ritrarre la quotidianità come si presenta, ma debba piuttosto ricreare l’essenza della realtà, indagando le ragioni nascoste e le connessioni di causa ed effetto tra le cose con occhio critico16. Questa affermazione e l’esempio di Zavattini, che cosa ci suggeriscono circa la descrizione cinematografica di Amelio? Giulia vive in un complesso povero e segregato di nuova costruzione, dove i gruppi extraparlamentari reclutano persone per le loro lotte contro lo Stato, utilizzando slogan simili a quello scritto sul muro. Emilio durante il suo pedinamento non osserva nessuno di questi dettagli e si limita a prendere nota del suo indirizzo e a spiarla attraverso i buchi nelle finestre. Il pubblico vede le azioni di Emilio in quel determinato modo scelto dal regista, che gli permette di avere una migliore prospettiva per esprimere giudizi. Aggiungendo la sua personale visione del realismo all’idea del pedinamento zavattiniano, Amelio fa un passo avanti nella discussione sulla rappresentazione cinematografica e sulla capacità del cinema di influenzare il discorso sociale. La scena successiva è strutturata in diretta contrapposizione alla sequenza nella quale Emilio ritorna a casa dopo l’omicidio di Sandro. Dario entra in casa e si dirige nel suo studio, dove Emilio sta ascoltando «Pavana» di Fauré mentre studia seduto alla scrivania del padre. Il padre annuncia la sua elezione a preside di facoltà e le cose fra loro sembrano tornate alla normalità. Dario critica il sistema che attribuisce più responsabilità ma meno poteri. Inaspettatamente prima di andare a letto, Emilio tira fuori il giornale del giorno per mostrare a suo padre una fotografia di Giulia, ricercata dalla polizia per collusione con il terrorismo. Emilio racconta a suo padre che era coinvolta nella sparatoria e gli dice di averla vista recentemente in metropolitana, senza tuttavia menzionare il fatto di averla pedinata. Dario minimizza l’accaduto asserendo che non c’erano donne coinvolte nella sparatoria. Nonostante riconosca l’errore di aver invitato 15  Si veda il saggio di Zavattini, Alcune idee sul neorealismo, in «Rivista del cinema italiano», 1952. 16  Citato in Rais, Gianni Amelio, cit., p. 42.

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Sandro e Giulia in campagna, aggiunge che non hanno nulla da temere dal momento che hanno già chiarito ogni cosa con la polizia e gli consiglia di non farne una questione personale. In tono conciliatorio, per liberare suo padre da ogni colpa, Emilio afferma che al giorno d’oggi i terroristi non hanno denti da vampiri, ma sembrano persone assolutamente normali e perbene. Emilio esce dalla stanza per rientrarvi subito dopo in una bellissima mossa teatrale, afferra il padre intento a leggere l’articolo di giornale e gli ripete di aver visto Giulia consigliandogli di dirle di consegnarsi alla polizia, se davvero è innocente. Il mattino seguente la presenza di Emilio obbliga Dario a terminare bruscamente una conversazione telefonica con qualcuno che insisteva per vederlo. Emilio mentre fa il caffè dice di essere stato svegliato dal suono del telefono. Dario per evitare domande improvvisa una conversazione senza senso sul té cinese. La sequenza termina con una scena toccante in cui Dario, seduto sul divano, passa da un canale televisivo all’altro con il telecomando, abbracciato al suo cane. Ancora una volta lo spettatore si chiede se Dario sia effettivamente coinvolto con il terrorismo o se stia semplicemente proteggendo Giulia, che potrebbe essere la sua amante. Lo sguardo pensieroso e distratto di Dario rivela l’immagine di un uomo stanco e vulnerabile alla ricerca di un po’ di tenerezza da parte del suo cane. L’inquadratura rappresenta inoltre un tentativo di ridurre la distanza tra vittime e carnefici. Nella sequenza che segue, Emilio ancora una volta sta fotografando dettagli dell’edificio in cui vive Giulia. L’azione si sposta poi all’università dove alcuni ragazzi si sono radunati per protestare contro il regime in El Salvador. Emilio, estraneo a ciò che sta accadendo attorno a lui ed impegnato a scattare fotografie, si nasconde dietro una colonna. La macchina da presa si allontana da lui per mostrare l’oggetto della sua attenzione: Dario e Giulia stanno guardando assieme un quotidiano. La telecamera indugia sullo sguardo sconvolto di Emilio, prima che si giri e scappi via. Ora sdraiato sul letto di casa, Emilio non riesce a dormire. Si alza ed entra nello studio di sua madre, trovandola ancora una volta dietro alla macchina da scrivere con le cuffie alle orecchie che la proteggono dal mondo circostante. Come la scorsa volta, la madre

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non presta alcuna attenzione al figlio. Emilio in piedi dietro di lei l’accarezza ripetendo: «Stupida, stupida, stupida, tu sei una povera stupida. Scimmia, sciocca, scema. Non sai niente, niente di niente, niente di niente di niente, beata te. Gobba la mamma, gobba la figlia era gobba pure quella, una famiglia di gobbettini». Nella sua confusa frustrazione la litania di Emilio, diversamente dagli anagrammi dell’infanzia, è piena di allitterazioni che rinforzano gli insulti e le condanne al silenzio della madre ed alla sua mancanza di consapevolezza. Nel definire sua madre, la sorella e l’intera famiglia dei «gobbettini», Emilio allude alla superstizione italiana secondo la quale toccare la gobba è di buon auspicio. Il gesto di accarezzare la schiena di sua madre potrebbe essere interpretato come un tentativo di liberarsi dalla cattiva sorte toccata alla famiglia in seguito all’arrivo di Sandro e Giulia. Significativamente le risparmia i dettagli della dissoluzione famigliare. Seguono i funerali di Sandro alla presenza di poche persone. La macchina da presa inquadra i fiori, una fabbrica vicina, i presenti nell’atto di andarsene ed un furgoncino dei carabinieri. Emilio guarda attraverso le inferriate del cancello del cimitero, mentre la telecamera coglie la pietra tombale di Sandro con le sue date. Il giorno della sua morte, il 26 aprile 1982, cade un giorno dopo la commemorazione della liberazione dell’Italia. Durante la prima conversazione con Sandro, Emilio era sembrato ignorante circa la data di fine della guerra, e sembra improbabile che ora colga l’associazione. Il regista potrebbe aver voluto commentare gli attentati terroristici come un’eredità della Resistenza, una sottile allusione che dimostra come la macchina da presa insinui o stimoli determinate percezioni. Di nuovo a casa, tutta la famiglia, tranne Emilio, ha appena finito di cenare. Mentre la sorella guarda la televisione, la madre sta chiamando preoccupata gli amici del figlio per avere sue notizie. Dario è seduto in silenzio a tavola, intento a costruire un castello di carte. Alla fine si ritira nel suo studio, alza un po’ di musica, si accende una sigaretta e, mentre fuma, il suo sguardo cade su una fotografia scattata da Emilio, che lo ritrae assieme a Giulia. Immediatamente si dirige al bar dell’università dove Emilio ha incontrato per la prima volta la donna. Emilio è lì, seduto di spalle, che gioca con le carte proprio come

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suo padre. Dario siede di fronte a suo figlio e lo ammonisce dicendo che scattare delle fotografie come quelle è una specialità dei criminali che le utilizzano per i ricatti. Consapevole che Emilio è dalla parte della legge, gli chiede sarcasticamente se stia collaborando con la polizia e per quale ragione non gliele abbia ancora consegnate. Informa inoltre il figlio che il suo tentativo intimidatorio non lo ha spaventato. Poi più teneramente gli confessa di non essere arrabbiato con lui, ma gli chiede cosa mai abbia fatto per meritare un tale trattamento. Nel momento probabilmente più sincero tra loro, Dario confessa tutta la sua incapacità nello spiegare al figlio da che parte stiano il bene e il male e, a malincuore, ammette che i genitori perfetti non esistono più. Emilio risponde freddamente che i figli perfetti sono perfino più difficili da scovare. Dario vuole sapere quando ed in che modo ha fallito come padre e chiede al figlio di dargli dei voti. Emilio, riprendendo l’affermazione del padre, risponde che nessuno ormai viene più bocciato. Emilio sfida il padre a schiaffeggiarlo, probabilmente per provare la sua attitudine alla violenza, e Dario lo fa. Emilio si alza per andarsene ma, soddisfato, torna indietro ed in tono maturo esorta il padre ad andarsene a casa assieme. Dario chiede perdono al figlio per lo schiaffo ed Emilio, in un ultimo tentativo di riconciliazione, prende il padre per un braccio e gli dice di essere troppo fiducioso e di essersi lasciato fuorviare da Giulia e Sandro. Dario reagisce bruscamente dicendogli che chiunque, se giudicato o spiato dalla serratura, potrebbe sembrare un ladro o un assassino. Dario svuota con violenza le tasche del figlio e trovandoci un bottone che non appartiene al suo cappotto ed un foglietto con una grafia sconosciuta, sostiene che chiunque potrebbe essere accusato per quegli oggetti insignificanti. Emilio rifiuta la dimostrazione del padre e gli rivela con soddisfazione ciò che Sandro aveva detto in merito alla sua abilità nell’usare le armi, affermando inoltre prima di andarsene: «Non so cosa tu abbia insegnato ad altri, ma a me non hai insegnato niente». Una macchina avanza nella nebbia mattutina. Dario scende e comunica al figlio che da quel momento in avanti esigerà rispetto. È deciso a diventare il tipo di padre che Emilio desidera, controllandolo attentamente in ogni sua mossa. Dario abbraccia il figlio, ma,

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oramai troppo tardi, Emilio rifiuta la sua istanza. Dal punto di vista cinematografico, la scena è girata in una lunga ripresa che contrasta ed allo stesso tempo riprende la scena del giardino in cui Sandro entra nelle loro vite e la scena in cui Emilio vede il corpo esanime di Sandro a terra. Il discorso è concluso. Nella scena successiva, una macchina parcheggia di fronte all’edificio in cui Emilio aveva seguito Giulia. Dario consulta una mappa ed alla fine entra in un appartamento spoglio, dove una vecchia signora sta guardando la televisione. Le immagini scorrono senza il sonoro e mentre la donna si allontana per fare il caffè Dario rompe definitivamente la televisione nel tentativo di ripararla. In ognuna delle scene d’interni, ad eccezione della villa, la televisione accesa aveva sempre avuto un ruolo centrale. Ora, giunti all’epilogo, lo schermo nero allude al fatto che Dario ha portato con sé il dramma all’interno del piccolo appartamento. Il pubblico non ha più bisogno del telegiornale per capire ciò che sta succedendo nel mondo esterno. Il tumulto causato dal terrorismo convergerà presto nell’ultimo incontro fra Dario e Giulia. Dario le ha comprato un libro, La chiave a stella, del sopravvissuto all’olocausto Primo Levi. Il romanzo di Levi narra la conversazione tra un chimico e un operaio in un campo di detenzione, che si conclude con la convinzione che un lavoro soddisfacente è essenziale per condurre una vita serena e che le persone dovrebbero usare le proprie mani e i propri cervelli per risolvere i problemi che la vita presenta. Dario e Giulia devono risolvere i propri problemi ed affrontare la loro situazione. Non è una coincidenza che Dario scelga il libro di Primo Levi come dono d’addio, assieme a dei biglietti del treno per lasciare Milano. La piccola stanza di Giulia è in netto contrasto con la casa di Dario: la biancheria da lavare ne riempie la metà ed il resto è occupato da un grande letto dove sta dormendo Matteo, il figlio di Giulia. Sul muro una foto della Madonna di Pompei suggerisce l’idea di una cultura e di un mondo ormai scomparsi. Giulia è dispiaciuta per tutti i problemi procurati a Dario. Le sue parole, unite al fatto che Dario non sapeva quale fosse l’appartamento di Giulia, eliminano ogni dubbio riguardo ad una possibile relazione tra i due. Lui le confida le sue preoccupazioni riguardo ad Emilio e descrive come, durante il loro ritorno a casa, Emilio si fosse rifiutato di parlargli, mentre le sue mani si muovevano nervosamente. Dario le confes-

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sa di voler passare del tempo con il figlio e di volerlo portare a fare una gita, mentre Giulia afferma di non saper cosa dire a suo figlio, dal momento che non può raccontargli del passato di Sandro. Inquadrando attraverso il vetro rotto dove Emilio aveva scattato fotografie di Giulia, la macchina da presa mostra dei carabinieri completamente armati pronti ad irrompere nell’appartamento. Giulia e Dario vengono trascinati fuori. Lei lotta, mentre Dario si lascia portare fuori senza opporre resistenza. Entrambi si guardano: Giulia è spaventata e ribelle, mentre gli occhi di Dario appaiono increduli. Quando il luogo si libera da curiosi e spettatori, appare la figura di Emilio. La macchina da presa si allontana in un movimento inverso a quello dell’inizio della scena ed Emilio cammina calmo verso la strada, girando a sinistra mentre lo schermo si annerisce. Altri film sul terrorismo italiano e la particolarità di Colpire al cuore Le Brigate Rosse vennero fondate nel 1970, cominciarono ad essere operative un anno più tardi e per oltre una decade, nonostante esistessero varie altre organizzazioni, diventarono praticamente un sinonimo del terrorismo politico italiano. Secondo diverse fonti, negli oltre 13.000 atti di violenza perpetrati dai gruppi politici militanti di destra e sinistra che tennero sotto scacco la società italiana per oltre dodici anni, morirono 1.200 persone e ne rimasero ferite 10.000. Il terrorismo politico italiano ricopre un posto unico nella storia, perché fu l’unico movimento di quel momento storico che non basava la sua ideologia politica sulla guerra di religione o di razza, ma sulla lotta di classe. Più recentemente, alcune unità hanno ucciso il consulente di sinistra Massimo D’Antona nel 1999 e un altro consulente del governo, Marco Biagi, nel 2002. L’opinione pubblica rimane divisa su quale debba essere il destino di Sofri, Marino, Fioravanti, Mambro, Barbara Balzerani e altri ex-militanti e presunti terroristi, che ancora si trovano in carcere. Per lungo tempo, gli esperti italiani si sono chiesti se i gruppi terroristici fossero stati in qualche modo indirizzati dai servizi segreti o se, al contrario, la lotta armata in Italia fu un fenomeno autonomo

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e spontaneo, scaturito dal timore di colpi di stato militari, dall’impossibilità di un cambiamento democratico pacifico o dal desiderio di completare o perfezionare la rivoluzione comunista cominciata dalla Resistenza. Nel mondo dell’arte, le opere letterarie sul terrorismo durante gli “anni di piombo” furono scarse. Fu scritto pochissimo per il teatro, con l’eccezione di Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo, una ricostruzione satirica della morte di Giuseppe Pinelli, accusato della strage di piazza Fontana. Questo attentato, in cui rimasero uccise 16 persone e ferite 90 il 12 dicembre del 1969 a Milano, è considerato l’inizio della lotta armata contro lo Stato oppure della strategia della tensione. Negli anni settanta, Carlo Bernari scrisse due romanzi, Tanto la rivoluzione non scoppierà e Il giorno degli assassini, entrambi pubblicati da Mondadori, in cui continuava la sua dichiarazione di condanna della violenza come mezzo per cambiare la società. L’autore napoletano sviluppò lo stesso tema nel suo lavoro per il teatro, Roma 335, scritto in onore dei cittadini romani uccisi dai soldati nazisti come rappresaglia per l’attacco di via Rasella, in cui i partigiani italiani avevano ucciso 33 soldati tedeschi. Per Bernari, le rivoluzioni non si potevano compiere senza il supporto del popolo o contro la sua volontà. Negli anni novanta, il dibattito venne riaperto dai film, che misero in evidenza la questione irrisolta dei terroristi incarcerati, alcuni dei quali stavano beneficiando di leggi speciali che permettevano loro di lasciare temporaneamente il carcere per lavorare. Il primo film dopo quelli di Amelio a riaprire un dialogo costruttivo sulle cicatrici del passato e l’ossessione di vendetta, ricordando cosa accadde senza alcuna teoria o tesi da provare, fu La seconda volta del 1995 di Mimmo Calopresti. Questo film, inoltre, per la prima volta mostrò le vittime degli attentati. La trama si basa sull’incontro fortuito tra un professore di sociologia industriale, vittima di un attacco terroristico, e il suo carnefice, una donna in permesso temporaneo dalla prigione. Il loro confronto aperto drammatizza ciò che la nazione stava ancora attraversando. Un anno più tardi, uscì La mia generazione di Wilma Labrate, basato sulla storia vera di Paolo Lapponi e Andrea Leoni, arrestati nel 1982 e condannati a trent’anni di carcere per aver fatto parte

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delle Unità Comuniste Combattenti, senza aver mai preso parte ad attacchi armati. Nel film della Labrate, gli antichi “terroristi” ammettono la sconfitta e chiedono di essere trattati con dignità come prigionieri politici. Nell’opera viene messa in luce la doppia faccia della polizia, che offre al prigioniero di incontrare la sua compagna in cambio dei nomi di antichi compagni. Diversamente dal film di Calopresti, La mia generazione mostra l’impossibilità di giungere ad un dialogo fra le opposte fazioni. È uno dei pochi film che ritraggono i terroristi come una generazione sconfitta, che rifiuta di disconoscere le proprie credenze. Negli stessi anni, nel documentario Sogni infranti di Marco Bellocchio vengono intervistati antichi componenti delle Brigate Rosse e leader dei gruppi marxisti-leninisti italiani. Nel 1987 aveva girato il controverso Diavolo in corpo, che tratta il processo ad un ex-brigatista, ma è maggiormente incentrato sull’amore erotico. Nel 2003, ricostruì il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro in un film surrealista, Buongiorno, notte, che rifiuta qualsiasi collegamento tra la Resistenza e i terroristi e, attraverso un’accurata ricostruzione della vita quotidiana all’interno dell’appartamento dove era prigioniero Moro, mostra l’isolamento dei rapitori e il loro distacco dalla realtà. Tra i molti film girati sul delitto Moro, Piazza delle cinque lune di Renzo Martelli abbraccia vent’anni di teorie di cospirazione dei servizi segreti sul coinvolgimento della Mafia, dell’intellighenzia italiana e della CIA in tutti i delitti irrisolti e le uccisioni di massa della nazione. Il titolo viene dal nome della piazza di Roma vicino a Piazza Navona, dove i servizi segreti hanno la propria base nella storia. Questo thriller raggiunge il suo obiettivo attraverso la manipolazione digitale e ripetute spiegazioni didattiche. Tre altri film più recenti hanno trattato il tema del terrorismo. La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana dà rilievo a vent’anni di storia italiana attraverso le vite di due fratelli e di un gruppo di loro amici. Uno dei personaggi più importanti denuncia la propria moglie alla polizia quando scopre che è coinvolta col terrorismo. Il film inizialmente uscì come una mini-serie di sei ore per la televisione e, dopo aver vinto il premio della giuria a Cannes, venne portato nelle sale cinematografiche nel 2005. Il primo film di Giordana, Maledetti vi amerò, racconta il ritorno dall’America Latina di un giovane che

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aveva preso parte alle proteste degli anni sessanta. Di fronte all’Italia post terroristica, dove i suoi vecchi amici sono morti, arrestati o dissociati dai propri ideali, si fa uccidere dalla polizia con una premeditata messinscena. Il film Lavorare con lentezza (2004)17 di Guido Chiesa, è un esempio perfetto di come una giovane impresa progressista e liberale, come la radio indipendente Radio Alice, proclama la violenza dopo che uno dei suoi membri viene ucciso dall’insulsa brutalità della polizia. Il 12 marzo 1977 a Bologna, unità della polizia attaccarono la stazione e durante gli scontri venne ucciso Francesco Lorusso, uno studente venticinquenne militante di Lotta Continua. Il caso venne chiuso come incidente. Il titolo viene da una canzone di protesta contro le condizioni e i ritmi di lavoro troppo pressanti, che chiede un ambiente di lavoro più umano e rilassato. Anche Romanzo criminale (2005) di Michele Placido nel descrivere l’ascesa e la caduta della banda della Magliana, un’organizzazione criminale che raggiunse la notorietà negli anni settanta, abbraccia la teoria di una cospirazione dei servizi segreti internazionali. Placido si occupa brevemente di alcuni degli attentati terroristici, come la strage nella stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto del 1980, in cui morirono 85 persone e il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Il film di Amelio fu il primo a trattare l’argomento durante quel tragico periodo. Negli anni ottanta uscirono solamente tre film sull’argomento, dei quali uno per la televisione. Tre fratelli (1981) accenna al terrorismo attraverso la figura di un giudice, ma si sofferma maggiormente sulla fine della cultura contadina giungendo a una profonda riflessione sulla morte. Altri progetti di quegli anni sono Segreti segreti (1984) di Giuseppe Bertolucci, Nucleo zero (1984) di Carlo Lizzani, film per la televisione, e Il permesso (1986) di Giuseppe De Santis, che, sfortunatamente, non fu mai girato. Quest’ultimo tratta un giorno nella vita di dieci terroriste che, dopo aver scontato diversi anni di ergastolo in una prigione di massima sicurezza, fruiscono di un permesso di quattro ore per assistere ad uno spettacolo teatrale. I film di Amelio e di G. Bertolucci escono nel momento in cui la lotta armata cominciava a scemare e trattano il dazio che società 17  Questo film non è stato distribuito negli Stati Uniti

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e famiglie dovettero pagare per una decade di violenze. Nel film di Amelio, il giovane terrorista Sandro viene ucciso nelle fasi iniziali e al pubblico non viene mostrata né l’azione, né la sparatoria con la polizia. I film di G. Bertolucci e Lizzani seguono i militanti durante un periodo di tempo più lungo, mostrando i loro attentati e la detenzione. Il film di Amelio non ritrae il terrorismo in relazione all’organizzazione a cui Sandro appartiene, ma vede la sua morte in relazione ai suoi familiari e parenti. In modo simile, la denuncia non è connessa al resto del gruppo, ma è vista in maniera unica e personale, perché è stata fatta da un figlio. La decisione di Amelio di mantenere una prospettiva personale diede vita ad ogni sorta di accuse e polemiche dopo l’uscita del film. Gli spettatori e la critica la interpretarono come un inespresso ma diretto riferimento al fenomeno del pentitismo che stava avvenendo in quel periodo. Nel film di G. Bertolucci, le azioni della terrorista portano la madre al suicidio. Subito dopo l’arresto, la figlia rivela i nomi dei suoi compagni per ottenere una sentenza più clemente. Il presagio della sua collaborazione scaturisce da una conversazione tra l’avvocato d’accusa per il suo caso e la sua piccola figlia, che inaspettatamente rivela l’infedeltà di suo padre. Tale rivelazione e la disapprovazione per la madre può essere letta come una condanna del pentitismo, giudicato come un metodo per ottenere una sentenza ridotta per proprio tornaconto. Il dibattito sulle libertà civili e il pentitismo continua e lo storico britannico Paul Ginsborg commenta il suo sviluppo ambivalente, affermando che il conflitto tra l’utilità di utilizzare tali prove nel sistema legale ed i pericoli insiti in tale metodo, stava dando il via ad un acceso dibattito in Italia18. Colpire al cuore non racconta il terrorismo in se stesso, ma mostra i suoi effetti attraverso il conflitto ideologico tra varie generazioni, intrecciato con la rivalità edipica e i ruoli morali di padre, insegnante e figlio. La figura del padre/insegnante viene accusata dal figlio/ discepolo di non avergli insegnato nulla: «A me non hai insegnato niente papà, ma quello che hai insegnato agli altri sono affari tuoi». A questa accusa il padre/insegnante reagisce: «Vuoi che ti dica cos’è male e cos’è bene? No. Padri così perfetti non ce ne sono più». Un 18  Italy and Its Discontents. Family, Civil Society, State: 1980-2001, New York, Palgrave MacMillan, 2003, pp. 192-193.

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anno più tardi, Segreti segreti di G. Bertolucci pone alcune delle stesse domande in una complessa trama che, come spiega il regista, può somigliare alle onde generate da un sasso lanciato in uno stagno. Non viene analizzata la mano che lancia il sasso o la traiettoria che questo descrive nell’aria, ma piuttosto gli effetti che ha sull’acqua. I film di Amelio e di Giuseppe Bertolucci si soffermano su famiglie dell’alta borghesia: il primo mostra un mondo dominato dalle figure maschili; l’altro descrive madri e figlie in famiglie che erano già problematiche prima che le più giovani diventassero terroriste. Questo tipo di narrazione ellittica rispecchia la complessità del terrorismo e gli effetti contraddittori che ebbe sulla popolazione e le famiglie in questione. Nel film di Amelio, le conseguenze del terrorismo si ripercuotono su Giulia e sul bambino. Nel film di Bertolucci, gli effetti catastrofici della violenza sono rappresentati metaforicamente da un terremoto nel Sud Italia, dove si celebra il funerale del terrorista giustiziato dai suoi stessi compagni. Il film per la televisione Nucleo zero di Carlo Lizzani è più simile al film di G. Bertolucci che a quello di Amelio, in quanto segue i terroristi partendo dalle azioni, all’incarcerazione fino a diventare penitenti e/o delatori. La storia è divisa in due parti, che descrivono il successo e il declino del gruppo e la detenzione. Il pentitismo è visto per tutta la durata del film come il mezzo con cui la polizia distrugge il gruppo. L’opera di Lizzani si basa su un romanzo di Luce D’Eramo del 1981. A differenza degli altri due film già citati e della maggior parte degli altri film sull’argomento, la storia offre una dettagliata descrizione di un gruppo chiamato Nucleo Zero. La parola zero del titolo allude sia alla strategia clandestina dell’organizzazione, che permetteva ai membri di condurre vite regolari ed allo stesso tempo portare avanti azioni illegali, sia alla lotta tragicamente confusa e futile, che il regista è convinto non possa portare alla rivoluzione perché non ha il supporto della gente. La visione politica e morale del film si rivela fin dall’inizio, quando i membri del gruppo, inizialmente scambiati per rapinatori, vengono poi identificati come poliziotti che hanno catturato due terroristi che lavoravano in banca. L’inversione dei ruoli non sembra mettere in dubbio la formazione culturale che oppone la violenza legittima a quella illegittima, ma è utilizzata per evidenziare che la capacità di tenere nascosta la propria identità era

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molto utile per i terroristi, che credevano erroneamente di combattere una battaglia giusta, per un mondo migliore. Da ex partigiano, politicamente vicino ai comunisti, Lizzani è profondamente contrario alla visione dei terroristi come moderni partigiani, che combattono per portare a compimento la rivoluzione comunista. Il film Colpire al cuore è unico per il modo in cui usa l’ambivalenza e l’ambiguità per mostrare gli effetti del terrorismo sui personaggi e per far vivere e sentire al pubblico l’isterismo di quel periodo. L’atmosfera misteriosa che pervade la trama ricostruisce quel periodo ingannevole ed illusorio e permette agli spettatori di avvicinarsi al dramma vissuto da molte famiglie. Il film di Amelio crea una tragica palinodia per permettere a un’intera generazione di rivivere e allo stesso tempo giudicare questi eventi, rovesciando i ruoli delle opposte generazioni e offrendo una moltitudine di allusioni morali e sociologiche che sono tuttora valide. Il discorso metacinematografico con Bernardo Bertolucci Nel 1970 Amelio fu chiamato a svolgere il servizio di leva e dovette lasciare il suo ruolo di aiuto regista nel film Il Conformista di Bernardo Bertolucci, la storia di un omosessuale represso, Marcello Chierici, che crede di aver ucciso, da bambino, l’autista di famiglia quando stava per molestarlo sessualmente. Da adulto durante il periodo fascista, per conformarsi ed essere accettato, Marcello sposa una donna borghese della classe media e si unisce alla polizia segreta fascista. Mandato a Parigi con il compito di uccidere il suo vecchio professore di filosofia all’università, di sinistra ed antifascista, si invaghisce e sogna di scappare con la moglie del professore, organizza l’assassinio e torna a Roma. Nel 1943, con la caduta e l’arresto di Benito Mussolini, Marcello intravede per caso il vecchio autista e perde nuovamente il senno, denunciando il suo migliore amico, il conduttore radiofonico cieco e propagandista fascista Italo Montanari, come la persona responsabile di tutto ciò che gli è successo. Il sesso e la politica sono le due forze che plasmano la vita di Marcello Clerici, ma oltre alla sua storia personale, Bertolucci sviluppa un confronto metacinematografico, ed in qualche misura edi-

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pico, con i suoi maestri artistici: Hollywood, i neorealisti italiani e la Nouvelle Vague francese, specialmente Jean-Luc Godard. Il Conformista è girato con uno stile molto sontuoso e un’ambientazione che ricorda i film noir americani degli anni trenta. Bertolucci ha spesso dichiarato che il film è basato su tutti i film ambientati in quel periodo e non su fatti storici. Dal punto di vista estetico, è un tour de force modernista; il suo gioco di luci ed ombre sul mito della caverna di Platone; il suo uso del complesso di Edipo che intreccia la vita personale di Clerici con la psicologia di massa nell’Italia fascista; infine, lo stile personale del regista che dialoga continuamente con il neorealismo e la Nouvelle Vague. Amelio ha sempre professato la sua ammirazione per i film di Bertolucci ma, allo stesso tempo, non ha mai nascosto una certa paura di cadere in quello che lui chiamava «la contagiosa complicità di Bertolucci con la camera da presa». Ciò che Amelio apprezzava de Il Conformista era l’abilità di Bertolucci di intrecciare il discorso metacinematografico con la storia e soprattutto la sua capacità di giudicare un’intera società, senza adottare una visione manichea, sia dal punto di vista politico che nelle sue radici più contorte19. In Colpire al cuore, Amelio sviluppa il discorso metacinematografico di Bertolucci in diversi modi. In primo luogo scelse Jean-Louis Trintignant, che aveva interpretato il ruolo di Clerici ne Il Conformista, per interpretare Dario, suggerendo che Emilio possa essere visto come il figlio del conformista. Amelio mi ha confidato che quando Bertolucci menzionò il progetto di Amelio all’attore francese, lo descrisse come un film sul figlio di Clerici ambientato negli anni ottanta. In un’intervista, Trintignant ha dichiarato ad Alberto Farassino che Bertolucci ed Ettore Scola gli avevano parlato del progetto di Amelio ancora prima di leggerne la sceneggiatura. Quando gli chiesero se sapesse il motivo per cui Amelio lo scelse per la parte, rispose senza esitare: «... perché avevo fatto Il Conformista ... per Amelio, i due film hanno molto in comune. Il giovane protagonista di Colpire al cuore è in qualche modo il figlio del conformista: introverso, moralistico, severo con se stesso e con gli altri»20. 19  Amelio, Il vizio del cinema. Vedere, amare, fare un film, Torino, Einaudi, 2004, p. 248. 20  Farassino, Amelio è un regista che ‘abita’ l’attore, «la Repubblica», 1983; in Scalzo, Gianni Amelio, cit., pp. 92-93.

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Amelio affronta anche la convenzione della rappresentazione attraverso le fotografie di Emilio e le diverse interpretazioni che lui, Sandro e Dario gli attribuiscono, con una valenza politica e morale. Il discorso inizia nel momento in cui Emilio e Sandro commentano in maniera contrastante la foto di un giovane Dario che tiene in mano un oggetto in compagnia di vecchi partigiani. A questo punto, il passato invade il presente e, nella diegesi del film, assume un ruolo separato dall’antagonismo personale di Emilio nei confronti del padre, che emerge dal suo complesso edipico e dalla gelosia derivante dalla relazione aperta e libera che Sandro intrattiene con Dario. Il significante nella foto diventerà la prova che Emilio usa contro suo padre. Nella stessa sequenza, quando Emilio dice che sta leggendo il mito della caverna di Platone, Sandro liquida uno dei testi fondamentali della filosofia occidentale definendolo noioso. Bertolucci utilizza questo mito come una metafora centrale ne Il Conformista per argomentare come il cinema proietti solo ombre della realtà. Il concetto è ripetuto e realizzato nello studio parigino di Quadri, quando Clerici accusa il suo ex professore di aver lasciato una generazione senza una guida, facendolo diventare fascista. Nel film di Amelio, Sandro è a casa del suo ex professore ed afferma che nella fotografia sta tenendo in mano una mitraglietta; come Clerici, ritiene che il suo professore sia responsabile per la sua decisione e confonde l’ombra con la realtà. Il film ritorna alla dialettica tra illusione e realtà come tragici elementi dei malintesi tra Emilio e Dario. Dopo che l’incontro con Sandro aveva insinuato in Emilio il sospetto di un possibile coinvolgimento del padre con il terrorismo, Emilio scatta fotografie senza essere visto, prima per denunciare il padre e gli amici di suo padre alla polizia, poi per accusare il padre di collusione. Il giovane lascia una foto sulla scrivania del padre per fargli sapere che lo ha visto assieme a Giulia, che è ricercata dalla polizia. La sua accusa provoca Dario, che afferma che la verità non può essere scovata dal buco di una serratura (o l’obiettivo di una macchina fotografica) dal momento che da una prospettiva così limitata chiunque potrebbe sembrare un ladro o un assassino. Il commento di Dario può essere letto come una critica diretta alle leggi varate per arginare il terrorismo, lo stato

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d’eccezione. Mi riferisco in particolare al decreto legge del 1979 che autorizzava la polizia ad arrestare qualunque persona sospetta fino a 48 ore senza prove e di tenere un imputato in prigione fino a 10 anni e 8 mesi senza possibilità di cauzione prima del processo21. Nel discorso metacinematografico rappresenta l’artificio delle convenzioni artistiche e paragona la prospettiva della serratura con il mito della caverna e la macchina da presa. Al contrario Emilio crede in ciò che vede e non nell’interpretazione dei fatti; così appoggia anche le leggi dello stato d’eccezione: «dove c’è fumo, c’è un incendio». Quando suo padre cerca di dimostrare che un bottone qualsiasi e un pezzo di carta nella tasca di Emilio non provano nulla, Emilio risponde che la sua dialettica nasconde malafede. Amelio ritiene che girare un film non significhi solo ritrarre oggetti messi di fronte alla telecamera da determinate angolature, ma piuttosto come tali oggetti vengono sistemati e preparati. In senso artistico, la sua macchina da presa è un’estensione della macchina fotografica di Emilio, ma a differenza di Emilio è consapevole dei limiti della sua rappresentazione e focalizza l’attenzione sull’illusione della realtà che produce. Il Conformista di Bertolucci rifiuta l’idea neorealista secondo la quale i testi sono costruiti su precise e dettagliate osservazioni dei personaggi in un determinato ambiente e contrasta anche l’opposizione di Godard alla teoria brechtiana della distanza estetica. Amelio strutturò Colpire al cuore come una storia di suspense che si sviluppa in maniera geometrica man mano che i personaggi si incontrano o incappano gli uni negli altri per caso. La macchina da presa conferisce l’idea che un film non possa mostrare la verità o racchiudere l’intero quadro, come sosteneva la teoria del pedinamento di Zavattini. Diversamente dal neorealismo classico, qui il personaggio ed il luogo non si determinano l’un l’altro e gli spettatori devono interpretare il significato delle molte cose non spiegate. Il pubblico diventa consapevole di questa forma di autocoscienza ed è obbligato a confrontarsi dialetticamente, contrariamente a quanto accadeva con i film del neorealismo classico, dove gli elementi della storia sono organizzati in maniera tale da suscitare l’impressione dell’osservazione diretta. Disponendo i materiali di 21  Robert Meade Jr., Red Brigades: The Story of Italian Terrorism, Londra, Mcmillan, 1990, pp. 208-209.

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fronte alla macchina da presa in modo da creare delle relazioni intricate tra le percezioni dei personaggi all’interno della finzione e le percezioni del pubblico, Amelio porta avanti il suo discorso metacinematografico. In un momento in cui molti critici credevano che il cinema italiano avesse raggiunto il suo punto più basso, il giovane regista mostra la sua maestria nel discorso modernista, senza rinunciare alle premesse neorealiste, ma piuttosto arricchendole.

Conclusioni Colpire al cuore descrive un momento critico della storia italiana, avvalendosi di una prospettiva mai utilizzata né prima né dopo nel cinema italiano. Nell’analizzare il terrorismo attraverso il dramma di due famiglie, Amelio crea un microcosmo in cui il dramma generazionale riflette quello nazionale. La distruzione della famiglia, generalmente un tema borghese utilizzato per narrare passione, amore ed inganno, diventa invece il pretesto per rappresentare gli effetti distruttivi del terrorismo nel tessuto sociale. La prima uscita sul grande schermo di Amelio ha apparentemente una trama molto semplice il cui merito risiede nell’attenzione agli effetti del terrorismo sugli individui, sia che ne siano coinvolti, sia che siano semplicemente obbligati a reagirvi. La storia può essere altresì letta come la formazione di un ragazzo che subisce l’invasione del terrorismo nella sua vita privilegiata. Conseguentemente comincia a vedere il padre sotto una nuova luce e, per la prima volta, lo giudica non più da figlio ribelle, ma da adulto. Narrato prevalentemente attraverso brevi dialoghi e primi piani, il conflitto aumenta in un crescendo ellittico, dal malinteso al dramma fino a giungere alla tragedia. Indirettamente il film decreta la fine del collettivismo, che aveva dominato le relazioni interpersonali negli anni Sessanta. È l’individualismo delle azioni e delle idee di Emilio a portare con sé l’allusione a questo cambiamento, sottolineato dal punto di vista visivo da primi piani in cui appare attorniato da finestre e porte. Emilio rappresenta la nuova generazione emergente che vuole trovare la propria identità. All’età del figlio, Dario aveva abbracciato i nuovi ideali che erano seguiti alla liberazione dell’Italia, mentre Emilio li

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rifiuta assieme agli ideali trasgressivi del padre, che per lui rappresentano solo ornamenti esteriori. La conformità al conservatorismo di Emilio rappresenta inoltre una reazione spaventata al terrorismo. La mia lettura è in disaccordo con la critica che ha affermato che il film di Amelio si discosta dal tema politico che ha reso famoso il cinema italiano, banalizzando il momento storico. Il film, al contrario, è pieno di implicazioni sociologiche e morali, narrate con una tecnica matura e con inquadrature che alternano momenti di quiete a scatti d’inseguimento. Sono inoltre in disaccordo con quei critici che hanno scritto che il film è ambiguo al punto di confondere gli spettatori. Colpire al cuore non giudica, ma certamente prende posizione nella misura in cui la macchina da presa sottolinea le aree grigie nella storia in uno stile caratteristico del cinema di Amelio: non detto ma mostrato. Tipico del suo discorso cinematografico, ogni causa plausibile viene rovesciata, contraddetta o negata dai fatti, non tanto per creare ambiguità, quanto per lasciare spazio alle conclusioni personali dello spettatore. Il pubblico non è lasciato nell’incertezza, ma è spinto a vedere ed interpretare il dramma che si è consumato durante alcuni degli anni più polemici della storia del dopoguerra. Nel 1999 durante un seminario in Sicilia, un giovane aspirante regista chiese ad Amelio dopo la proiezione di Colpire al cuore se la verità fosse dalla parte del figlio o del padre. Chiese inoltre al regista di rivelare la soluzione per ognuna delle opzioni suggerite dalla trama. Amelio rispose spiegando che le intenzioni del suo film erano quelle di ricercare le ragioni sottese alle azioni, non le spiegazioni alle zone d’ombra lasciate dalla trama. In questo processo, aggiunse Amelio, lo spettatore ha il compito ed il dovere di interpretare e trovare la propria strada all’interno del film22. In Colpire al cuore, vedo quattro mondi che presentano e sviluppano i conflitti e definiscono i protagonisti. Il primo è la proprietà di campagna della nonna, lontano dalla modernità, dai conflitti e dalla violenza del mondo circostante. In questo microcosmo a sé stante, manca perfino la televisione che in qualsiasi altro scenario domestico è sempre accesa e trasmette telegiornali ed offre aggiornamenti sulle morti terroristiche. Nella villa di campagna la nonna è in grado di parlare della coltivazione delle rose o di insegnare a Sandro come 22  Rais, Gianni Amelio, 43.

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ballare il tango. Nonostante sia troppo stanca per esibirsi nell’imitazione di Mae West, può nondimeno dedicarsi a cantare vecchie canzoni romantiche e a bere del buon vino. Sfortunatamente il tranquillo mondo adolescenziale di Emilio rappresentato dal trenino del padre, la reliquia di un’altra infanzia passata che sta cercando di aggiustare, è interrotto dall’intrusione di Sandro, che apre ad Emilio le porte della controcultura letteraria ed insinua un terribile dubbio riguardo al passato e al presente del padre. Anche Giulia si intromette in questo spazio idilliaco risvegliando la sessualità di Emilio. In questo luogo borghese vecchio stile, il desiderio di Sandro di intraprendere una discussione politica è messa a tacere da Dario, come se volesse proteggere questo angolo di mondo dal pericolo a cui si fa riferimento nella canzone di Beniamino Gigli. Il secondo mondo è quello delle donne, nel quale domina il silenzio. La madre di Emilio è continuamente assorta nei suoi libri e protetta dalle cuffie. La madre emerge in maniera inadeguata, indirettamente e troppo tardi solo quando chiama l’amico di Emilio per avere notizie del figlio. Non è chiaro se sia inconsapevole di ciò che sta succedendo o se si sia creata un modo tutto suo per poter affrontare l’indifferenza del marito e preservare la sua stabilità e salute mentale. Questo personaggio è sicuramente il meno sviluppato, vestita di silenzi e possibile negazione. Il mondo della sorella di Emilio è in molti modi la replica di quello della madre e la vediamo solamente mentre parla al telefono o guarda la televisione. Il mondo di Giulia si rivela solo in seguito alla morte del compagno: una stanza singola in un appartamento che ricorda l’Italia degli anni Cinquanta, con l’immagine della Madonna di Pompei e la padrona di casa che fa la maglia seduta di fronte alla televisione. Questo piccolo spazio è parte di una struttura che riflette la desolazione delle nuove costruzioni nelle quali i meno abbienti vivono. Lo spazio comune mostra come i residenti siano marginali. La struttura disumana riflette la loro desolazione, e possibile ribellione, attraverso gli solgan e i graffiti dipinti sul muro, l’immondizia, i vetri rotti, ed una palla abbandonata all’interno di una squallida stanza vuota. Il mondo di Dario non è rivelato attraverso una prospettiva moralistica e soggettiva del figlio, bensì dagli oggetti mostrati e dalle cose non dette, come nella scena in cui abbraccia il cane per alleviare i

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suoi problemi. Lo spazio personale di Dario, come il suo studio pieno di libri e carte dove ascolta le note melanconiche e sentimentali della «Pavana» di Fauré, rivela la sua natura intima, che si scorge anche quando tiene in braccio il piccolo Matteo e durante il suo ultimo abbraccio con Emilio e Giulia. L’università, il suo spazio pubblico, è fonte di disappunto. Dario legge il radicale e dirompente scrittore romantico Nerval in francese e Leopardi in italiano a degli studenti distratti dalle proteste. Secondo Dario, oramai più nessuno impara qualcosa, né fra gli studenti, né fra i suoi colleghi. Il suo mondo segreto da intellettuale di sinistra mantiene contatti con un suo vecchio studente che fa parte di un gruppo terroristico, anche se non ammetterà mai di esserne consapevole. Quando infatti Emilio lo incalza con domande, Dario si limita a rispondere che Sandro è fuori di testa. Il mondo di Emilio è in relazione ai suoi conflitti con il padre. Le sue azioni in principio irritano Dario. Molti critici hanno descritto il loro rapporto come l’atto di ribellione di un giovane senza la guida di un padre. In seguito alla morte di Sandro, Emilio consegna le foto che ha scattato in campagna alla polizia, per denunciarne l’identità e dopo aver visto suo padre assieme a Giulia, anche lei ricercata dalla polizia, compie la sua delazione finale che porterà all’arresto di suo padre e Giulia. Dario è sconvolto da ciò che percepisce come un atto brutale che può essere giustificato solo se supportato da prove evidenti, che Emilio non ha. Tuttavia le azioni e reazioni di Emilio rispecchiano la reazione del governo in carica nei confronti del terrorismo, nelle svariate leggi speciali varate durante gli anni Settanta. La coalizione governativa composta da Democristani, Socialdemocratici, Repubblicani, Liberali e Socialisti, supportati esternamente dai Comunisti a metà e fine anni Settanta, fece approvare una serie di leggi che ebbero come risultato la regressione ad uno stato di polizia, con una diminuzione delle libertà civili e costituzionali e maggiore potere a discrezione delle forze di polizia. La legge Reale (n. 152), approvata il 22 maggio 1975, autorizzò la polizia ad utilizzare le armi qualora lo ritenessero necessario23e nel 1978, vennero formate delle unità speciali. In seguito al rapimento e uccisione di Aldo Moro, venne istituito il decreto 23  L’11 giugno 1978 la legge fu confermata con il 23.5% di voti contrari e il 76.5% a favore. Il 17 maggio 1981, 14.9% voti contrari e l’85.1% favorevoli a mantenerla.

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Moro che attribuiva alla polizia un potere illimitato. Nel 1980 la legge Cossiga richiedeva pesanti sentenze per coloro considerati colpevoli di terrorismo ed estendeva i poteri della polizia all’arresto di persone sospettate di associazione con i gruppi armati. Alcune delle leggi più repressive vennero fatte passare con dei decreti speciali come, per esempio, il n. 59, approvato il 28 marzo 1978 per reprimere il terrorismo, che diventò legge il 21 maggio 1978 (n. 191), e il n. 625 del 15 dicembre 1969 che divenne legge il 6 febbraio 1980 (n. 15). Tali decreti legge portarono ad una restrizione delle libertà. Amnesty International protestò contro questi decreti, che trovarono invece l’appoggio della maggioranza, la quale li approvò tramite referendum, nonostante fossero spesso utilizzati per imprigionare persone sospettate che finivano con il restere in prigione per dieci anni prima di essere processate o comunque senza prove evidenti. L’isteria che imperversava durante il terrorismo, rappresentata dalle reazioni di Emilio nel film di Amelio, e l’impatto che le leggi speciali ebbero nel nostro concetto di democrazia, sono riassunte da Agamben il quale scrive che lo “stato d’eccezione”, o la creazione volontaria di un permanente stato d’emergenza, è diventato una pratica essenziale in tutti gli stati sovrani anche quelli democratici24. Queste leggi che richiedevano «l’intervento immediato dello stato sovrano in conflitti eccezionali», sono utili per capire le azioni e le reazioni di Emilio al suo personale e famigliare stato d’eccezione. Emilio sembra essere d’accordo con le leggi tanto da volere l’arresto di Giulia e da ritenere il padre colpevole solo per aver parlato o visto una donna ricercata dalla polizia, che ha contatto con i terroristi o che sembrava maneggiare un’arma in una fotografia scattata quando aveva sedici anni. Dall’altro lato, Dario si comporta come se fosse contrario a tali leggi, essendo cresciuto con gli ideali della Liberazione e della Resistenza che erano parte del dopoguerra comunista e della cultura di sinistra. Questo contesto culturale trova conferma nella scoperta della fotografia da parte di Sandro. Il rifiuto di Dario di denunciare Sandro e Giulia alla polizia lo posiziona vicino agli intellettuali italiani di sinistra che nei primi anni Settanta vedevano i terroristi come compagni che avevano scelto il cammino sbagliato. Dario 24  Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 11.

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può altresì essere schierato dalla parte di quegli intellettuali come Leonardo Sciascia, il quale non supportava né lo Stato né i terroristi25. Questo punto di vista trova conferma nella scena in cui Dario scredita Sandro dicendo «So solo che è fuori di testa», mentre allo stesso tempo si rifiuta di denunciarlo alla polizia. I commenti di Amelio durante un’intervista in merito al ruolo giocato dal Partito Comunista Italiano nel dopoguerra sembrano riflettere il punto di vista di Dario, che il film lascia in una “zona grigia”. Secondo il regista il PCI era un partito radicale intenzionato a cambiare il nuovo sistema di potere che, nonostante la fine del fascismo e l’avvento della democrazia, era ancora incapace di creare un vero cambiamento26. Dario è cresciuto in un momento storico in cui la polizia era vista come la violenta arma di uno Stato repressivo che era schierato con Mussolini prima, e con l’opprimente governo conservatore di centro nella “ricostruzione” del dopoguerra. Il nuovo governo violò la nuova Costituzione escludendo le frange di sinistra dalla coalizione parlamentare, nonostante avessero lottato per la liberazione dell’Italia dalle forze d’occupazione Nazi-Fasciste ed avessero contribuito alla stesura della costituzione. Dal loro punto di vista la polizia commise molti crimini, che potevano includere la dura repressione dell’occupazione delle terre e delle riforme nel Sud subito dopo la guerra, degli scioperi al nord e della ribellione studentesca alla fine degli anni Sessanta, prima che cominciasse il terrorismo. Per esempio, il 7 luglio 1960 a Reggio Emilia cinque lavoratori membri del Partito Comunista furono uccisi dalla polizia durante una protesta sindacale. Il 2 dicembre 1968 ad Avola in Sicilia la polizia sparò contro dei contadini in sciopero, uccidendone due. Il 9 aprile 1969 a Battipaglia in Campania, la polizia aprì il fuoco contro i cittadini in protesta contro la chiusura di una fabbrica di tabacco, uccidendone due. La lista di crimini commessi dalla polizia o dall’esercito va indietro ulteriormente nel tempo ed include il terribile massacro di circa un centinaio di scioperanti l’8 maggio 1898 a Milano, ordinato dal generale Fiorenzo Bava-Beccaris. 25  Il punto di vista di Sciascia apparve in «Lotta continua», il 18 marzo 1977. 26  Beyond Neorealism, cit., p. 12.

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La lotta armata contro lo Stato cominciò dopo il 12 dicembre 1969, con una bomba esplosa negli uffici della Banca Nazionale Agraria in Piazza Fontana a Milano, con quella che venne definita strategia della tensione. La giovane generazione e i militanti di estrema sinistra credevano che questi atti, attribuiti appunto alla sinistra, fossero in realtà orchestrati dal governo del centro-destra e dai suoi alleati, al fine di spaventare gli elettori per una possibile vittoria da parte del partito Comunista alle elezioni e dirottarli verso i partiti conservatori. Più di 4.000 persone vennero arrestate ed un sospettato, Pinelli, cadde e morì da una finestra del quarto piano della stazione di polizia. Adriano Sofri, allora appartenente a Lotta Continua, ricorda gli effetti dell’evento e spiega come il massacro di Piazza Fontana rese chiaro ai giovani militanti, convinti che la strage fosse un reazione dei servizi segreti deviati alle lotte degli studenti e dei lavoratori, che avrebbero dovuto farsi carico delle giovani vittime ed impedire ulteriori massacri in futuro27. Un esempio di quanto la cultura di sinistra fosse avversa alle forze di polizia può trovare conferma nelle accese polemiche che seguirono la pubblicazione di una poesia di Pier Paolo Pasolini nel 1968. La poesia venne pubblicata in seguito ad un violento scontro di due ore tra poliziotti e studenti il 1° marzo 1968 alla facoltà di architettura e ingegneria a Villa Giulia a Roma. Anziché identificarsi con gli studenti in rivolta, Pasolini, un intellettuale di sinistra, si schierò dalla parte dei poliziotti che li affrontavano. Pasolini li considerava le vere vittime dello scontro, i veri proletari e sottoproletari, figli di contadini che non erano in grado di pagarsi gli studi e stavano rischiando le loro vite, lottando contro giovani borghesi viziati che giocavano. La posizione di Pasolini venne condannata all’unanimità come provocazione da tutta la sinistra, anche se il poeta, durante un dibattito pubblico, cercò di spiegare la sua posizione in termini poetici ed artistici. Nel film di Amelio tutte queste recriminazioni sono riassunte nella disapprovazione di Dario nei confronti della delazione del figlio e nella sua candida ammissione che la denuncia alla polizia è contro i suoi principi. Emilio non è cresciuto lottando per il Terzo Mondo, dimostrando contro la guerra in Vietnam o il coinvolgimento ame27  Ibidem.

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ricano in El Salvador, come aveva fatto la generazione di Sandro. Il giovane non appartiene a quella generazione cresciuta leggendo le pagine di Marcuse, Franz Fanon e Che Guevara28. Sandro, al contrario, appartiene alla generazione che, secondo lo storico Giovanni De Luna, associò la propria concezione della politica e dell’identità collettiva a due specifici elementi: l’utilizzo del conflitto e dello scontro per affermare e legittimare le proprie richieste e la definizione dei propri principi esclusivamente attraverso la loro applicazione e messa in pratica29. Sandro appartiene a quella generazione che ha sentito la necessità morale di assumere una posizione politica, un atteggiamento ben riassunto da Marta Boneschi, la quale affema che il fatto di non aver lottato durante la Resistenza, spingeva tale generazione ad assumere una posizione attiva per compensare a questa mancanza30. A differenza del padre, Emilio non ha vissuto l’orrore della seconda guerra mondiale. Durante il suo primo incontro con Sandro, Emilio sbaglia perfino la data di fine guerra. Egli è cresciuto secondo uno stile di vita borghese, nutrendosi di poesia italiana e francese, studiando musica e facendo anagrammi per affinare l’ingegno. Emilio è il migliore degli studenti nella sua classe, come Giulia sottolinea nel loro viaggio di ritorno in città, quando suo padre le ha espresso le sue preoccupazioni. Emilio non parla mai di politica con suo padre, e Dario non condivide mai le proprie idee con il figlio. Quando Emilio sospetta il coinvolgimento del padre con il terrorismo, il suo comodo mondo protetto crolla. A questo punto suo padre non può far nulla per aiutarlo dal momento che, invece di spiegargli la situazione in termini politici, cerca di proteggerlo assumendo il tradizionale ruolo del pater familias: «Sarò lì a proteggerti... finché diventerai un adulto». Ormai è troppo tardi. In aggiunta Dario non riesce ad essere il padre che dice di voler diventare in questo disperato tentativo di salvare il loro rapporto. Dario va a trovare Giulia per l’ultima volta per darle un biglietto ferroviario ed un 28  Tra il 1966 ed il 1967 gli scritti di Fanon, Guevara e Marcuse furono pubblicati in italiano e diventarono campioni d’incassi fra le generazioni dei giovani. 29  Interpretazioni della rivolta, in Tano D’Amico, Gli anni ribelli 1968-1980, Roma, Editori Riuniti, 1998, pp. 5-15. 30  La Grande Illusione, Milano, Mondadori, 1996, p. 337.

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libro in regalo, ma poi si intrattiene a parlare, dimostrando di non riuscire ad incarnare la figura del padre tradizionale che ha promesso ad Emilio di diventare. Molti critici hanno condannato Dario sia come padre che come insegnante31. Secondo il loro parere Dario trasmette confusione e ambiguità comportandosi più da fratello maggiore che da padre. Si dimostra un cattivo padre perché è incapace di prendere posizione, di decidere o di assumersi delle responsabilità, un padre nevrotico che non riesce ad essere d’esempio. Dal mio punto di vista queste accuse moralistiche non colgono il tema principale sollevato dal film. Il tentativo di Amelio di essere giusto nei confronti di entrambi i suoi personaggi dimostra coraggio. Amelio dà vita ad una storia personale nel contesto di un problematico momento della storia italiana ed inserisce il loro conflitto all’interno di un discorso storico e generazionale che in molti modi preannuncia il dibattito contemporaneo sulla legalità della Resistenza ed il suo significato per l’identità nazionale italiana post Fascista. Le azioni di Emilio si schierano con la posizione assunta da tutti i partiti parlamentari, e mostrano anche l’erosione della cultura di sinistra, identificata nell’ostentazione di sciarpe rosse durante le manifestazioni, o con alcune insinuazioni, come quando risponde alla domanda di Giulia che gli chiede se gli piacciono i bambini dicendo di non averli ancora assaggiati, o paragona il grosso bavaglino del bimbo ad una divisa antiterrorista. ll suo senso dell’umorismo può essere attribuito alla propaganda conservatrice di destra e del clero contrario al comunismo. Emilio preferisce rimuovere la generazione dei radicali dal proprio mondo. Suo padre esemplifica una vecchia corrente di pensiero, non ancora sorpassata dalla nuova società o da una mentalità di destra, ma dal reflusso culturale personificato dal figlio, che si oppone alla ribellione degli anni Settanta, sostenuta da una minoranza. Piuttosto che esprimere una diversa posizione politica, Emilio è a favore di un diverso stile di vita e i suoi ideali politici e culturali differiscono da quelli del padre. 31  Fra i molti articoli che furono pubblicati dopo l’uscita del film, quello di Giovanni Buttafava, Un grande esercizio di scrittura, in «L’Espresso» (1983), fornisce una panoramica esaustiva di come i critici ed i media abbiano reagito; si veda Scalzo, Gianni Amelio, cit., pp. 103-105.

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Il punto di vista politico di Emilio può essere definito egualitario e può essere paragonato a quello espresso dal giudice Raffaele Giuranna (Philippe Noiret) in Tre fratelli di Francesco Rosi. Raffaele, di rientro dal funerale della madre, sta entrando nel bar di paese quando è fermato da degli habitués che discutono se sia meglio denunciare un crimine politico alla polizia o se sia invece meglio evitare problemi. Raffaele risponde: «So che è difficile... perché il terrore è esattamente ciò che è, la sostituzione della persuasione con la paura. Ma la paura non può essere un sentimento normale sul quale la società si basa. La paura è un’eccezione; la regola deve essere la fiducia; altrimenti, com’è possibile vivere?» Emilio ha agito da buon cittadino, come suo padre riconosce per primo. Dopo l’incontro con la polizia, tuttavia, nella sua ossessione di conoscere la verità Emilio fotografa suo padre in compagnia di un’amica, azione che Dario paragona a quelle compiute dalla polizia. Dario va addirittura oltre dicendo che Emilio lavora per la polizia o è stato assoldato dalla polizia come spia. Per aver pedinato Giulia, Dario paragona il figlio ad un detective che lavora per raccogliere informazioni su qualcuno accusato di collusione con il terrorismo. La cultura e gli ideali di Dario gli impediscono di accettare l’azione di Emilio, non tanto per paura, come il Giudice Giurana afferma, ma piuttosto per principio. Il suo comportamento induce alla riflessione su come trasmettere ideali politici alla generazione che segue o su come trasmettere un’utopia politica, un modo alternativo di pensare e come governare la sfera privata. Quando Dario esprime a Giulia il proprio desiderio di cambiare tutto quello che era accaduto tra il 1968 e il 1982, periodo che corrisponde alla vita di Emilio, capiamo che non sta semplicemente rimpiangendo quello che è successo durante quegli anni, come ha scritto un critico. Il movimento del 1968 contro il conformismo e le regole conservatrici ebbero un profondo effetto sulla democratizzazione del sistema educativo e della struttura famigliare, migliorando la condizione femminile e garantendo migliori condizioni lavorative. Ritengo che il commento di Dario si riferisca direttamente al suo personale fallimento nel trasmettere tali ideali al figlio. Le azioni e le opinioni anticollettive di Emilio e le sue forti convinzioni contro il cambiamento rivoluzionario anticipano le trasformazioni che avranno luogo negli anni Ottanta con

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la nascita del neoliberalismo, dell’individualismo e del consumismo che trionfarono con Margaret Thatcher e Ronald Regan e in Italia con il Craxismo, dopo Bettino Craxi, che guidò il Partito Socialista Italiano fuori dalla sua eredità della Resistenza. Per Craxi, come per Emilio, il dilemma di un’eredità storica Marxista-Leninista non esisteva. Emilio riferendosi a Sandro e Giulia dice a suo padre: «Non abbiamo nulla da spartire con quelle persone». L’affermazione implica inoltre che capire se il terrorismo sia il risultato della tradizione rivoluzionaria del comunismo italiano, non è un nostro problema. Nel presentare il confronto generazionale, Colpire al cuore riduce la distanza tra vittima e carnefice interrogandosi sul discorso culturale che costruisce e privilegia una violenza legittima al di sopra di una violenza illegittima. Dopo che il film fu presentato al Festival Internazionale del Cinema di Venezia, Amelio dovette rispondere agli amari attacchi che accusavano il suo film di non prendere una posizione precisa fra Dario e Emilio. Il regista si difese affermando che il suo film descrive ciò che lui stesso conosceva, ovvero gli effetti del terrorismo sugli individui e sulle relazioni interpersonali. Pertanto lo scopo di Colpire al cuore era quello di dimostrare come la reazione al terrorismo vissuta da un adulto fosse diversa da quella di un giovane ragazzo che si scontra con questo terribile fenomeno senza nessun filtro culturale precedente32. Sebbene il film fosse stato commissionato dalla televisione nazionale, che si aspettava una chiara condanna del terrorismo, Amelio fu in grado di rappresentare il confuso e caotico periodo degli anni di piombo utilizzando alcune tecniche tipiche del thriller politico, ma rallentando il ritmo frenetico del genere in alcune sequenze cruciali. Amelio ottiene un tempo narrativo teso e misurato che, senza nessuna visione manichea, spinge alla riflessione su problemi politici contrastanti, combinandola all’astio edipico, alla gelosia, all’attrazione fisica e alla ribellione, che non ci abbandonano mai.

32  Beyond Neorealism, cit., pp. 6-13.

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Capitolo 4

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La Storia contro una verità più umana: I ragazzi di via Panisperna (1989) Quello che io voglio raccontare dopo è che Majorana è diventato il fantasma di Fermi, il fantasma di tutti i ragazzi, il fantasma anche nostro… «Fermi indagò, non arrivò a nessuna soluzione concreta e però già tutto si sapeva dall’inizio» ... lui ha già una sua idea, come se in qualche modo la ragione della scomparsa di Majorana fosse anche contenuta in se stesso, e quindi la conoscesse meglio di chiunque altro1.

A causa degli scarsi consensi raccolti, Colpire al cuore fu distribuito in maniera limitata. Uno dei superiori del produttore Paolo Valmarana si rifiutò di presentare il film al Festival del Cinema di Venezia, affermando che non si trattava di un brutto film, ma che era stato un errore girarlo. Di conseguenza per Amelio le opportunità di dirigere per il grande schermo precipitarono drasticamente. Fortunatamente nel 1983 gli fu commissionata la realizzazione de I velieri per la televisione, ma dopo questo lavoro dovette aspettare cinque lunghi anni per poter lavorare ad un altro progetto. Durante quel periodo si dedicò all’insegnamento di corsi di regia, esperienza che ebbe un impatto rilevante nella sua visione del cinema. Amelio descrive spesso questo momento come il raggiungimento di un sogno che aveva fin dall’infanzia. In un’intervista dichiarò che da bambino non diceva mai che sarebbe diventato regista, ma solo che avrebbe frequentato Il Centro Sperimentale, la scuola statale di regia a Roma. L’insegnamento ebbe un’influenza determinante nella scelta di realizzare I ragazzi di via Panisperna. Tale esperienza, infatti, lo spinse a chiedersi se il lavoro di regista possa essere insegnato, se sia un’abilità che deriva dall’esperienza o se, invece, sia un talento naturale innato2. Da un lato Amelio crede che le regole cinematografiche e le riprese basilari possano essere imparate. Dall’altro lato ci sono dei geni, quali Pier Paolo Pasolini, che hanno reinventato in molti modi 1  Amelio, in Conversazione con Gianni Amelio, «Filmcritica», n. 394, (1989), p. 255. 2  Sesti e Ughi, gianni amelio, cit., p. 40.

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l’arte della regia e il cui percorso sembra confutare la necessità di frequentare una scuola. Amelio si chiedeva spesso che cosa avrebbero fatto all’interno della scuola dei geni come Pasolini o come lo scienziato Majorana, la cui storia ispirò il film, pur avendo dei brillanti insegnanti. Il suo quesito irrisolto si intensificò quando raccolse la sfida de I ragazzi di via Panisperna. Il dipartimento di fisica all’Università La Sapienza di Roma si trovava in via Panisperna. I giovani scienziati che studiarono con Enrico Fermi contribuirono alla sua dirompente scoperta dei neutroni lenti, che condusse all’invenzione del reattore nucleare e, in seguito, alla bomba atomica. Il gruppo era composto da Edoardo Amaldi, Oscar D’Agostino, Ettore Majorana, Bruno Rasetti ed Emilio Segrè, ai quali si aggiunse in seguito Bruno Pontecorvo. Majorana, nato a Catania il 5 agosto 1906, scomparve il 27 marzo 1938 durante un viaggio da Palermo a Napoli. La verità in merito alla sua scomparsa è ancora incerta e il suo corpo non fu mai rinvenuto. Le teorie più disparate si sono susseguite, dal suicidio, al rapimento da parte di potenze straniere, alla volontaria fuga in un convento o in Sud America. Nel 1975 Leonardo Sciascia scrisse La scomparsa di Majorana, tradotto in inglese con il titolo di The Mystery of Majorana3. In questo breve saggio lo scrittore siciliano ipotizza che Majorana sia scomparso perché, avendo compreso il potere distruttivo dell’energia atomica, non voleva contribuire al suo utilizzo. Sia Amaldi che Segrè non sono d’accordo con questa ipotesi. Descrivendo Majorana, Fermi affermò che, fra le varie categorie di scienziati, lui era fra quella dei geni, alla stregua di Galileo e Newton. L’ammirazione di Amelio per persone come Ettore Majorana andava accentuandosi di pari passo alla sua esperienza nella scuola di regia, dal momento che la diversità di Majorana è paragonabile non solo a quella di Pasolini, ma anche a quella di Amelio, specialmente per ciò che riguarda il conflitto tra i suoi interessi cinematografici, i temi, lo stile e le strategie di marketing dell’industria cinematografica. Nonostante il regista ed il matematico provenissero da contesti culturali completamente differenti ed aves3  La scomparsa di Majorana, Torino, Einaudi, 1975; The Moro Affair and the Mystery of Majorana, trad. di Sasha Rabinovitch, Manchester e New York, Carcanet, 2004. In Il caso Majorana: Lettere, testimonianze, documenti, Roma, Di Renzo Editore, 2000, Erasmo Recami riassume i vari resoconti sulla vita e la scomparsa di Majorana. Erice, in Sicilia, è il luogo in cui sorgono la Fondazione Ettore Majorana ed il Centro di Cultura Scientifica.

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sero interessi socio-politici diversi, Amelio riformula la questione del conflitto tra natura ed educazione nella rivalità fra Enrico, lo scienziato che lavora sodo testando rigorosamente ogni ipotesi, ed il geniale matematico Ettore, il cui puro e naturale talento Enrico cerca di disciplinare con il suo insegnamento. Si possono evidenziare anche molti parallelismi con i sentimenti di Amelio nei confronti di Bernardo Bertolucci, quali la gelosia e l’invidia frammischiate all’ammirazione. Come Ettore, Amelio ha lavorato con e contro Bertolucci alla realizzazione di Bertolucci secondo il cinema. In merito a questo film Amelio ha affermato che la migliore definizione di ciò che aveva realizzato era quella di Farassino, il quale aveva utilizzato l’espressione «film rubato»4. Amelio ha parlato spesso dei suoi sentimenti contrastanti riguardo allo “show business” e allo spettacolo e della sua avversione nei confronti del glamour e dello sfruttamento che ne deriva. La sensazione di attrazione e repulsione che prova verso l’industria cinematografica è paragonabile alla lotta di Enrico con il regime fascista. La sua ricerca scientifica richiede il supporto economico dello Stato ma, allo stesso tempo, è utilizzata dal regime per accrescere la sua immagine davanti al mondo e agli italiani. I compromessi a cui Enrico deve sottostare sono derisi da Ettore il quale, come lui stesso afferma, fortunatamente è troppo ricco per lavorare. Allo stesso modo la generazione di Amelio dovette scendere a patti con la televisione quando, negli anni settanta, la cultura del grande schermo all’interno di sale cinematografiche grandi e buie giunse all’epilogo, con conseguenze artistiche, di produzione, linguistiche e culturali che si rifletterono nel modo in cui I ragazzi di via Panisperna fu prodotto, concepito, distribuito e fruito dal pubblico. Il film, scritto da Amelio e sceneggiato da Vincenzo Cerami5, venne prodotto dalla televisione pubblica, ma a poca distanza dalla sua conclusione alcuni direttori decisero di destinarlo al grande schermo6. Questa decisione dell’ultimo momento rese necessaria 4  Volpi, Gianni Amelio, cit., p. 99. 5  La sceneggiatura originale era di Amelio e Alessandro Sermoneta. 6  Il film fu prodotto da Conchita Airoldi e Dino Di Dionisio per Urania Film e RAI TV – RAI Uno; il produttore RAI era Giovanna Genovese e il co-produttore Betafilm. L’originale produzione televisiva durava 180 minuti e fu trasmessa in due parti, la prima il 18 febbraio e la seconda il 25 febbraio 1990.

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una spiacevole e difficile operazione: Amelio dovette adattare il lavoro esistente ad un formato che richiede uno stile ed uno svolgimento differente. Il primo problema pratico fu come ridurre la versione televisiva di tre ore alle circa due ore richieste dalla proiezione al cinema. Amelio la ridusse prima a due ore e venti, ma questo adattamento non convinse nessuno, lui per primo. La versione che alla fine fu distribuita è lunga un’ora e ventitré minuti. Amelio sente tuttora che I ragazzi di via Panisperna non è un film completamente suo, nonostante molti dei temi affrontati siano tipici dei suoi lavori. Il disequilibrio nella sua economia riflette i problemi che la sua generazione dovette affrontare per realizzare dei film ed evidenzia il modo in cui la televisione ne cambiò la produzione. Amelio definì la decisione di realizzarlo come «un atto di riconciliazione con il cinema», ma dal momento che era destinato al piccolo schermo, era ben consapevole delle aspettative dei produttori e del genere di pubblico televisivo. Amelio dovette trovare un equilibrio fra lo stile cinematografico che aveva utilizzato in Colpire al cuore e la necessità di creare una sceneggiatura televisiva accessibile a qualsiasi spettatore. Allo stesso tempo non voleva cadere nel modello della saga popolare melodrammatica e sentimentale tipico delle serie televisive, prevalentemente basato sul dialogo, con un discorso cinematografico autonomo molto limitato. La storia aveva tutti gli ingredienti che interessavano ad Amelio: il mistero della fissione atomica con i problemi morali connessi, le leggi razziali, la scomparsa di Majorana, il suo contesto culturale meridionale, la sua relazione con una forte figura femminile, la lotta di potere fra diversi stili, abilità e punti di vista. Questi temi dovevano essere equilibrati con quelli che sarebbero piaciuti al pubblico televisivo: le rivalità fra persone giovani, famose e di successo in un periodo storico che intrigava ancora gli italiani, la fuga di Fermi negli Stati Uniti e le storie personali di tutti gli altri scienziati avventurosi, che sarebbero potute servire da cornice al conflitto individuale fra Enrico ed Ettore. Il regista ricorda che quando iniziò le riprese, dopo cinque anni di astinenza dalla cinepresa, era animato dall’intenzione di realizzare un film stilisticamente anti-televisivo. Il fatto di dover raccontare fatti già accaduti e ben conosciuti dal pubblico, gli permise di dare forma al suo messaggio senza preoccuparsi eccessivamente dello

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sviluppo della trama7. Chiaramente, Amelio riteneva che realizzare un film che avesse a che fare con personaggi storici gli avrebbe dato modo di sviluppare i temi che gli interessavano all’interno di una cornice precostituita. Da un punto di vista critico, tuttavia, il film abbandona la ricostruzione storica degli eventi e dei personaggi reali, per dedicarsi a una ricostruzione fittizia della rivalità personale fra Enrico ed Ettore e per esplorare il dramma della differenza, dell’esclusione e della maledizione della conoscenza. Il discorso del film resiste consciamente alla storicizzazione di Fermi e Majorana in favore di una personalizzazione del conflitto, tentativo evidenziato dal fatto che i due scienziati si rivolgono l’un l’altro non con i loro famosi cognomi, ma per nome. Il regista conferma di non aver assolutamente rispettato le vere personalità dei cinque ragazzi e di aver tralasciato qualsiasi aneddoto realmente accaduto8. Le date storiche delle scoperte scientifiche indicano lo scorrere del tempo, dal 1924 al 1938. Le due narrazioni, quella storica e quella romanzata, sono rese evidenti dal titolo e dalla locandina che accompagnò l’uscita del film. Il titolo suggerisce un approccio corale mentre la locandina, divisa in tre parti, rappresenta Ettore e contraddice immediatamente il titolo. In alto, Ettore appare all’estrema destra di una barca sul Lago di Vico con altri tre ragazzi di via Panisperna. Fra tutti è l’unico che indossa dei vestiti e anziché guardare l’obiettivo come fanno gli altri, le sue spalle sono leggermente girate verso di loro, distinguendolo e distanziandolo dal resto del gruppo. Al centro del poster, l’omosessuale Ettore è immortalato in compagnia di una bella donna, immagine che suggerisce una relazione sessuale mentre nella storia, ed anche qui, lui la usa come copertura per essere accettato. L’immagine sul fondo ritrae Ettore sulla destra ed un altro giovane e bel ragazzo di via Panisperna, Bruno, sulla sinistra, nonostante quest’ultimo abbia un ruolo minore nel film. Enrico Fermi non appare affatto nella locandina, mentre nel film è il leader del gruppo e le azioni di Ettore si sviluppano in funzione della sua rivalità ed attrazione nei confronti di Enrico. In seguito all’episodio del lago, che è la terza sequenza dall’inizio, e l’incontro fra Enrico ed Ettore, la 7  Conversazione con Gianni Amelio, cit., p. 244. 8  Sesti e Ughi, Gianni Amelio, cit., p. 40.

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storia si concentra su di loro e sul loro rapporto di attrazione, amore e odio. La narrazione cinematografica raffinata e semplice ed il dialogo sofisticato sono ben al di sopra delle serie televisive o dei film del tempo e più appropriati al grande schermo che al distratto pubblico della televisione. Mentre il film non si lascia andare a nessun sentimentalismo, Amelio sembra non aver avuto il coraggio di sviluppare completamente il suo reale interesse: la lotta di potere fra Ettore ed Enrico. Il film descrive il desiderio irrealizzabile di Ettore di essere come Fermi e di venire amato da lui ed affronta il dibattito sui loro diversi stili e percezioni nel raggiungimento delle scoperte scientifiche. L’invisibile particella fantasma funge da metafora perfetta che si concretizza nella scomparsa di Majorana. Ettore perde la lotta per il potere e l’amore ma diventa una presenza durevole nel gruppo dei ragazzi di via Panisperna, specialmente per Fermi, per il quale rappresenta la coscienza e gli ricorda le sue responsabilità.

La decade nera Le apparenti contraddizioni del film riflettono la strana situazione a cui la generazione di Amelio dovette far fronte a partire dagli anni settanta, periodo giustamente denominato «la decade nera». Amelio affermò che tale momento segnò profondamente la sua generazione, provocando una cicatrice che non è mai guarita definitivamente. I pochi film prodotti per il cinema o non erano visti per niente, o dirottati in televisione. Amelio è convinto che con la sua generazione si ponga fine alla figura del cinefilo, poiché da quel momento in poi il concetto stesso cambiò. I cineclub vennero chiusi ed i film non potevano più essere goduti dalla terza fila da quei pochi fortunati che li amavano in svariati modi. I registi che iniziarono con Amelio provenivano tutti da percorsi professionali di critici o operatori culturali nella distribuzione di film o da altre aree dell’industria cinematografica. La televisione rilevò la produzione di film aprendone l’accesso ad un pubblico più ampio, ma condizionando il linguaggio cinematografico, problema evidente in I ragazzi di via Panisperna. Alcuni registi furono in grado di adattarsi e realizzaro-

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no un tipo diverso di cinema. Altri cambiarono pelle completamente o, nell’adattamento, persero le loro piume e la loro capacità di volare. Fu un processo difficile che comportò una riscoperta di se stessi e la ricostruzione di uno stile personale e che costringeva i registi a destreggiarsi fra restrizioni che non tenevano in considerazione le loro necessità personali e tecniche. Per registi quali Amelio, che amavano il cinema, al quale dovevano la propria formazione culturale, il passaggio dal grande al piccolo schermo significò soddisfare un nuovo tipo di pubblico, con bisogni e aspettative diverse9. Per esempio Lo stratagemma del ragno (1970) di Bernardo Bertolucci utilizzò uno stile provocatorio che rappresentava un affronto alla televisione. Dopo trent’anni Athos Magnani ritorna a Tara, una città della bassa Padania, per scoprire la verità che si cela dietro la morte di suo padre, considerato un eroe anti-fascista. La storia ambigua e labirintica può essere letta come la ricerca personale di Bertolucci, intellettuale borghese e marxista, di una verità che non può essere scoperta. Lo spettatore medio della televisione incontrò difficoltà a seguire la storia del film. Amelio realizzò i suoi primi film per la televisione e dovette attendere fino agli anni ottanta per realizzare il suo primo lavoro per il cinema che, non a caso, fu prodotto dalla televisione. Queste scelte erano dettate dal marketing e dalla produzione della televisione di stato che decise di realizzare dei film per il grande schermo. Alla fine degli anni ottanta, le nuove strategie di mercato permisero alla nuova generazione di registi di poter scegliere se lavorare per la televisione o realizzare film prodotti dalla televisione ma destinati al grande schermo. Questi nuovi registi avevano anche imparato dall’esperienza e dagli errori della generazione precedente. Amelio sintetizza la situazione con una frase che è dolorosa e divertente allo stesso tempo, ovvero che chi non è vissuto davanti alla televisione non può conoscere la piacevole bellezza del cinema. Tale affermazione è una parafrasi di una battuta del film Prima della rivoluzione (1964) di Bertolucci, in cui Puck, mostrando come le terre attorno al Po fossero cambiate, dichiara che chi non ha vissuto prima della 9  Benché Amelio all’epoca avesse lavorato per la televisione la sua visione cinematografica derivava per lo più dal grande cinema americano e, come descritto nei primi capitoli, anche quando faceva film per la televisione il suo punto di riferimento era il grande cinema.

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rivoluzione non può sapere quanto dolce fosse la vita in precedenza. L’uso ironico che ne fa Amelio dimostra l’influenza che il cinema di Bertolucci ebbe su di lui in molti modi diversi ed allo stesso tempo esprime la triste consapevolezza di un impossibile ritorno al grande cinema del passato, nemmeno ai film degli anni cinquanta o sessanta.

Prologo Via Panisperna è un’antica strada di Roma. Al numero 90, in una palazzina10 nascosta tra gli alberi, un gruppo di giovani scienziati effettuò l’esperimento di fisica nucleare destinato a segnare per sempre il cammino della scienza e del genere umano. Era l’autunno del 1934. Le persone che il film mette in scena sono realmente esistite, ma alcuni dei protagonisti ancora viventi forse non si ritroveranno nell’invenzione e nel racconto dei fatti. Con l’aiuto della fantasia gli autori hanno cercato di seguire più un sentimento che una didascalica fedeltà ai caratteri e agli avvenimenti reali.

Questa breve nota apre il film, fornisce il contesto storico ed allo stesso tempo spiega che ciò che lo spettatore sta per vedere non è Storia. Lo scopo, inoltre, è di stimolare interesse menzionando la scoperta scientifica ed i nomi dei fisici con i quali il pubblico generico è superficialmente familiare11. La prima sequenza ha poca azione e nessun dialogo, ma solo una lieve musica di sottofondo proveniente da una radio, che preannuncia un’inaspettata beffa. Un muretto bianco occupa la parte inferiore del10  Oggi l’edificio fa parte del complesso del Viminale, sull’omonimo colle romano dove si trova anche il Ministero dell’Interno. Ci sono progetti per creare un museo dedicato a Fermi e ad altri scienziati. 11  Dopo la guerra Fermi fu incluso fra i più grandi italiani e la sua partenza per gli Stati Uniti nel 1938 fu descritta come una forma di anti-fascismo. A partire dal 1938 il regime smise di menzionare il suo nome e diffuse alcune voci sul fatto che Marconi avesse inventato un dispositivo speciale, simile ad un potente raggio di luce, che poteva distruggere i batteri a distanza. Questa credenza popolare è ripetuta nel film di Francesco Rosi Cristo si è fermato ad Eboli, basato sul romanzo di Carlo Levi.

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lo schermo. Sulla destra una statua bianca mutilata, ripresa da dietro, è retta da un’asta di ferro arrugginita mentre una torre si staglia sulla sinistra. Un ragazzo snello con occhiali ed abiti sportivi attraversa lo schermo accovacciato, stringendo nella mano un filo. La cinepresa lo accompagna lentamente e appare un’altra statua con le dita spezzate, anche questa vista da dietro. L’uomo vi si ferma vicino e gli avvolge il filo attorno alla mano destra, ripresa in primo piano. Parte di un enorme palazzo si profila sullo sfondo. La cinepresa si allontana e una ripresa a figura intera cattura un interessante insieme di oggetti, edifici e statue di vari periodi che compongono il ricco e affascinante patrimonio culturale di Roma. All’interno di questa equilibrata composizione, che preannuncia una rottura con il passato, il giovane si intromette con il suo filo ed un grosso pallone rosso gonfiato ad elio si alza lentamente sul lato destro dello schermo. L’altare della patria, il monumento in onore di Vittorio Emanuele II, primo re dell’Italia unita, sembra consacrare la solennità del momento storico. Uno stacco e dal basso una grande griglia di ferro riempie lo schermo, nel momento in cui il giovane la attraversa correndo. La macchina da presa si inclina verso il basso e si ferma ad aspettare l’arrivo del giovane che scende dalla scala sulla sinistra. Lenti movimenti geometrici della cinepresa in entrambe le direzioni, grazie ad una combinazione di carrelli, sono ripetuti con delle pause, a partire dalle quali la cinepresa riprende il movimento nella direzione opposta in maniera sempre più visibile, aggiungendo tensione allo svolgimento dell’azione. La scena successiva si apre con una ripresa intera del laboratorio, dove Emilio12 (Alberto Gimignani) ed una giovane donna (Sabina Guzzanti) stanno aspettando Edoardo13 (Giovanni Romani), l’uomo con il filo. I due intendono interrompere il discorso di sua Eccellenza Guglielmo Marconi, considerato al tempo il padre indiscusso della 12  Emilio Segrè fu il primo studente a ottenere una laurea con Fermi. Dal 1936 al 1938 fu il direttore del Laboratorio di Fisica all’Università di Palermo. Dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, lasciò l’Italia per recarsi all’Università della California a Berkeley, dove lavorò prima come ricercatore e poi come lettore nel dipartimento di fisica. Lavorò per il Los Alamos Laboratory (ora Los Alamos National Laboratory, LANL) al Progetto Manhattan. Dopo la guerra ritornò ad insegnare a Berkeley e morì il 22 aprile 1989. 13  Edoardo Amaldi (5 settembre 1908-5 dicembre 1989) fu l’unico scienziato del gruppo a rimanere in Italia durante la guerra e contribuì alla ricostruzione della fisica italiana. Fu anche uno dei fondatori del CERN, il nuovo centro europeo per la fisica a Ginevra.

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fisica classica italiana14, che la EIAR15, la stazione radio nazionale italiana, sta per trasmettere. Improvvisamente Emilio scopre qualcosa che non va nei loro calcoli e accusa veementemente Edoardo dell’errore. Il piano sembra destinato al fallimento, quando la ragazza di Edoardo, intenta a provare l’annuncio della morte di Marconi, consiglia loro di rivolgersi ad Ettore Majorana. Hanno solo mezz’ora di tempo a disposizione. Edoardo corre in un’aula dove Ettore (Andrea Prodan) sta osservando impazientemente un professore alle prese con un’equazione alla lavagna. Con un semplice sguardo Ettore corregge l’errore nei calcoli di Edoardo e, senza prestare alcuna attenzione al suo amico, si avvicina alla lavagna ed interrompe il professore, dicendogli che se qualcuno lo avesse trattato nel modo in cui lui trattava la matematica, sarebbe finito dritto in galera. Ettore è ben vestito, con indosso una cravatta come il professore, ben curato, giovane, intenso, arrogante, determinato e completamente rapito dal problema matematico. Il confronto è descritto con inquadrature trasversali del viso apprensivo e perplesso del professore e del profilo di Ettore, che enfatizzano la sua determinazione ed intensità. Da un primo piano di Edoardo traspaiono ammirazione e trepidazione per la prova del suo compagno. Le inquadrature delle reazioni rivelano la genialità di Ettore. Dopo aver concluso i suoi calcoli rimane eretto come su un podio, gira le spalle allo stupito professore, posa il gesso con forza ed esclama: «Il risultato è questo». Uno stacco, e nel laboratorio Emilio ammira i calcoli di Ettore e si rimprovera di non essere riuscito a giungere alla soluzione da solo. Un altro stacco, e alla stazione radio una donna annuncia al suo pubblico che c’è ancora una canzone prima dell’atteso discorso. La cinepresa esegue una panoramica dal grammofono che suona una canzone d’amore ad un palco semibuio dove si vede l’intera figura di una donna che balla. La scena rappresenta un omaggio a Il conformista e conferma come Amelio non stia utilizzando il materiale storico ma si affidi ad altri film per creare l’atmosfera del periodo. 14  Prima che l’Istituto di Fisica venisse fondato nel 1924 e che Fermi occupasse la prima cattedra di Fisica Teoretica, l’ingegneria sotto Marconi era una disciplina secondaria. 15  Lo Stato fascista creò l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche come suo organo dal 1928 al 1944 rilevando l’URI, che iniziò a trasmettere da Roma il 3 giugno 1924.

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Un palcoscenico con delle sedie vuote si illumina lentamente. Uno stacco, ed ora il palco su cui siedono delle persone è mostrato da dietro le schiene dei tecnici. Ora l’azione ritorna nello studio dove la messa in onda sta per cominciare. Il titolo del film ed i nomi del cast appaiono, mentre un nervoso Senatore Corbino (Mario Adorf)16 chiama un custode per assicurarsi che Enrico Fermi (Ennio Fantastichini) sappia di dover presenziare alla cerimonia. All’università la cinepresa segue il custode mentre corre nell’ufficio di Fermi per informarlo che è richiesta la sua presenza, ma Fermi finge di non esserci ed ignora il custode con un sorriso soddisfatto. Dalla sua scrivania guarda fuori dalla finestra e poi vi si avvicina con piglio inquisitorio, guardando il pallone che i suoi studenti stanno usando come antenna per lo scherzo. Uno stacco trasversale ed Ettore è ripreso mentre entra in casa. Con uno sguardo arrabbiato ordina alla madre, una donna attraente che sta lavorando a maglia, di spegnere la radio. La madre si difende affermando di averla appena accesa, ma un autoritario Ettore l’accusa di ascoltarla in continuazione anziché dedicarsi alla lettura. Ettore conclude intimandole di non farlo arrabbiare, agitando l’indice come se stesse rimproverando un bambino. Come una ragazzina ribelle la madre accende nuovamente la radio non appena il figlio si allontana. Ettore si ferma ad ascoltare fuori dalla porta. Di nuovo alla stazione radiofonica l’annunciatrice presenta Marconi, l’inventore della radio moderna, descrivendolo con una tipica retorica fascista come la combinazione dell’audacia di Cristoforo Colombo ed il genio scientifico di Alessandro Volta. Mentre la donna parla, il pubblico vede Edoardo ed Emilio che lavorano furiosamente in laboratorio. Marconi avanza attraverso lo schermo in abito bianco, ripreso solo dalla vita in giù. L’enfasi sul suo passo lento e sul rumore ritmico del suo bastone accentua la sua leggendaria statura, ulteriormente rafforzata da un ripresa da lontano nel momento in cui raggiunge il palcoscenico. Il suo discorso comincia e sulle parole «un messaggio della rivoluzione fascista» viene interrotto dal rumore di un fischio ed immediatamente la stanza si riempie delle note del Re16  Questo personaggio cinematografico è basato su Orso Maria Corbino, fisico, ministro, senatore e direttore dell’Istituto di Fisica in via Panisperna. Nel 1924 creò la cattedra di Fisica Teoretica affidandola a Fermi.

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quiem di Verdi. I gesti di Marconi, visti da dietro, rivelano la sua incredulità e costernazione. Ora via Panisperna annuncia che un tragico evento ha sconvolto l’Italia ed il mondo intero, mentre la cinepresa alterna reazioni e stacchi trasversali delle diverse espressioni di Fermi e del ministro. Lo scherzo è riuscito: Marconi viene proclamato morto proprio mentre sta per pronunciare alla radio un discorso sulla radio, la sua invenzione. Marconi rimane fermo, senza parole (morto, in termini di trasmissione), incapace di portare a termine il suo discorso. Simbolicamente l’icona della vecchia scienza italiana viene uccisa per fare spazio alla nuova fisica teoretica, condotta da giovani uomini coraggiosi. Due stacchi veloci mostrano Fermi mentre guarda il palloncino ed Ettore, l’outsider, mentre mangia uva, sorride e si gode lo scherzo alla disprezzata radio. La sequenza si conclude con un’inquadratura del palloncino, simbolo dell’ascesa dei nuovi scienziati che hanno sfidato e rimpiazzato il vecchio. I rapidi movimenti della cinepresa ed i montaggi alternati del prologo introducono tutti i protagonisti principali ed i loro ruoli. Fermi appare come spettatore degli eventi. Questi è troppo maturo per farsi coinvolgere nello scherzo dei suoi studenti, ma non così integrato nel sistema da impedire che accada. Nonostante la sua giovane età è già professore con il titolo di Eccellenza, ma in conflitto con se stesso per dover scendere a patti con il regime, rappresentato dal Ministro Corbino. Fermi, capo incontestato e tacito complice, cerca di preservare la sua indipendenza rimanendo in silenzio chiuso nel suo ufficio e fingendosi assente. Rasetti17 è un professore che, a differenza di Fermi, interagisce socialmente con gli studenti. Edoardo è il burlone e la lingua maliziosa del gruppo e non si fa scrupoli nell’utilizzare le abilità di Ettore per raggiungere i propri scopi. Emilio è più riservato e si fa trascinare da Edoardo, perfino quando spingono Ettore giù dalla barca nella seconda sequenza del film. Dopo questo fatto appare solo come parte del gruppo. Inizialmente Emilio ed Ettore si comportano come i personaggi adulti delle commedie all’italiana, i quali scherzano e si rifiutano di crescere. Ettore è arrogante, viziato, diverso dagli altri, 17  Franco Dino Rasetti, nato il 10 agosto 1901 a Castiglione del Lago, morì in Belgio il 5 dicembre 2001. Rasetti aiutò Fermi a compiere scoperte chiave che condussero alla fissione nucleare ma rifiutò per questioni morali di lavorare al Progetto Manhattan.

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un genio che gioca con il suo talento naturale sfidando Fermi, come anticipato nello stacco trasversale che li inquadra singolarmente alla fine del prologo. Solo durante l’incontro con l’affascinante madre, Ettore mostra il suo lato infantile, che verrà sviluppato nella seconda parte del film. Per il cinema italiano o per uno spettatore televisivo la complessa relazione con la madre è sottolineata dal fatto che l’interprete è Virna Lisi, icona erotica femminile conosciuta per i suoi ruoli da seduttrice nei film italiani e hollywoodiani18. L’inizio, come nella maggior parte dei film, è costruito e montato come una narrazione fluida nello stile di molti classici film americani, che permettono immediatamente allo spettatore di riconoscere i personaggi e di comprendere le relazioni e le dinamiche fra di loro. Nel dare inizio ad un film storico con una spettacolare beffa, anche se di fantasia, il regista vuole comunicare immediatamente allo spettatore che la storia è una libera ricostruzione di un momento storico, imperniata più sulle relazioni fra i personaggi che sui fatti reali. La trama si sviluppa attorno alle figure di Enrico ed Ettore, i quali, per ragioni differenti, sono gli unici ad essere ritratti isolati mentre guardano ed ascoltano da spettatori, piccolo dettaglio che anticipa al pubblico la loro rivalità. Marconi è presentato secondo il tradizionale ritratto dei santi e degli eroi, attraverso inquadrature che evitano riprese frontali o primi piani. Nel discorso del film tale tecnica assume due significati. In primo luogo riafferma il fatto che non si tratta di un film verità ed in secondo luogo richiama il tono goliardico dello scherzo, che proclamerà la morte di Marconi in favore di una nuova mentalità. Queste due interpretazioni si applicano anche al confronto matematico fra Majorana ed il professore. 18  Virna Pieralisi nacque ad Ancona l’8 settembre 1937. All’età di sedici anni interruppe i suoi studi per un ruolo in E Napoli canta. Per alcuni anni interpretò il ruolo della giovane, ingenua, povera orfana in film minori. In La donna del giorno (1956), il regista Francesco Maselli la lanciò nel ruolo di una donna amorale che finge uno stupro per diventare una modella di successo. La sua carriera proseguì da bionda sexy con gli occhi azzurri a Hollywood. Per la televisione italiana diventò famosa nel 1957 con «la bocca della verità», in cui interpretò Candida Chedenti, una donna che poteva dire qualsiasi cosa volesse grazie alla sua bellissima bocca e ai denti, mantenuti bianchi e splendenti grazie ad un dentifricio che pubblicizzava. Lo spot giocava anche sul significato del suo cognome. Negli anni novanta dopo il ruolo nel film di Amelio continuò con ruoli da donna matura e nel 1994 nel ruolo di Caterina de’ Medici in La regina Margot. Ha vinto il premio Cesar, il David di Donatello e dei premi al Festival di Cannes come miglior attrice.

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Lo scherzo è un omaggio cinematografico all’adattamento radiofonico, del 1938, del romanzo La guerra dei mondi (1898) di H. G. Wells da parte di Orson Welles, il quale convinse molti ascoltatori che il New Jersey era stato invaso dai marziani19. In un’intervista rilasciata dopo l’uscita del film, Amelio fu molto chiaro in merito ai suoi obiettivi nel realizzare un film su dei personaggi storici, e raccontò che nello scegliere il posto adatto a conferire la giusta atmosfera dell’epoca e illustrare la vivacità dei ragazzi, gli sovvenne lo scherzo di Orson Welles. Secondo il regista era inutile cercare di conferire verità storica ad un film che la rifiutava20. Lo scherzo si rifà anche a Novecento di Bertolucci quando, dopo il prologo ambientato durante la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazi-fascista, un gobbo ubriaco vestito da Rigoletto annuncia la morte di Giuseppe Verdi, per riportarci al periodo annunciato dal titolo, mentre la morte del compositore avvenne nel 1901. Bertolucci sta evidenziando il modo narrativo collettivo e l’ideologia del suo film come realista/neorealista/social-realista. Nel film di Amelio il Requiem di Verdi viene suonato durante la messa in onda della finta morte di Marconi. Il pezzo fu composto in onore della morte di Alessandro Manzoni e suonato durante il suo funerale21. Da un lato Manzoni è considerato il padre del romanzo storico e dall’altro lato Amelio rifiuta di realizzare un film storico. La presa in giro di questi riferimenti culturali è un modo astuto e divertente per stabilire il tono di un film che prende le distanze dalla ricostruzione storica.

L’insegnante, i suoi allievi e il rivale Nel suo studio, vestito in abiti eleganti, Ettore sta guardando fuori dalla finestra con un binocolo nel momento in cui Emilio ed Edoardo arrivano e lo avvisano costernati che la polizia è a casa sua per 19  Nel 1953 il regista Byron Haskin realizzò un film dall’omonimo romanzo. Si trattava di uno spettacolo Technicolor con leggendari effetti speciali di Gordon Jennings, principalmente girato nello studio con le sequenze esterne girate in Arizona. Ci vollero cinque mesi per realizzarlo. 20  Volpi, Gianni Amelio, cit., p. 86 21  Era una rielaborazione di una precedente versione scritta nel 1869 in memoria di Gioacchino Rossini.

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arrestarlo. Il professor Corbino vuole espellerlo e sta per avvisare la madre di Ettore. Emilio accusa Edoardo di aver detto a Corbino che lo scherzo era un’idea di Ettore. Edoardo si difende dicendo che Corbino era arrivato a tale conclusione da solo dal momento che solo Ettore avrebbe potuto realizzare una trasmittente con un segnale più forte di quello della radio nazionale. Ettore è agitato, specialmente quando sente che sua madre sta per essere coinvolta nello scandalo. Mentre corre per parlarle prima dell’arrivo di Corbino, i suoi amici confessano che si tratta di uno scherzo e ridono del fatto che Ettore ci sia cascato. I ragazzi continuano i loro giochi imitando il ministro, il quale nel suo ufficio aveva detto loro che in qualità di Preside li avrebbe dovuti denunciare alla polizia, come ministro li avrebbe dovuti espellere ma in qualità di scienziato si complimentava con loro. Corbino aveva inoltre aggiunto che come ingegneri erano sprecati e che il loro talento doveva essere impiegato nella nuova Facoltà di fisica atomica, dove avrebbero potuto studiare con l’unica persona in grado di offuscare Marconi. Il tono si fa più serio quando riportano ad Ettore che il Ministro Corbino ha intenzione di trasferirli nella nuova facoltà di Fermi, a condizione che superino un test di matematica. I due cercano di convincere Ettore a cambiare facoltà e gli consegnano l’equazione assegnatagli da Fermi, che non sono in grado di risolvere da soli. La versione per la televisione si apre nell’ufficio del Ministro Corbino che finge di essere arrabbiato con i due studenti. Come nel preludio il tono è leggero e goliardico e ricorda la commedia all’italiana con un tocco di umorismo inglese, che cominciava ad essere apprezzato in Italia negli anni trenta. Gli studenti sono obbligati a rimanere in piedi nel saluto romano richiesto dal regime fascista mentre Corbino cammina fra loro, simulando un’arrabbiatura. Rapidi controcampi si soffermano sugli studenti e sul ministro. Alla fine Corbino li “punisce” trasferendoli nella nuova facoltà di Enrico Fermi, dove possono metaforicamente uccidere Marconi. Nel film gli studenti affermano con ammirazione che, secondo Corbino, Fermi è il più giovane genio italiano, una mente difficile da trovare in cent’anni. Ettore, in silenzio, solleva le sopracciglia esprimendo la sua disapprovazione e serra i denti come a voler raccogliere la sfida e provare ai suoi amici il contrario. Per convincerlo

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a cambiare dipartimento Emilio ed Edoardo gli spiegano che potrebbe passare dallo studio dell’elettronica a quello dell’atomo. Nonostante il discorso ben preparato per far leva sull’ego di Ettore, la sua reazione è inaspettatamente brusca. Ettore intima loro di andarsene, mentre i due cercano invano di fare appello all’amicizia accusandolo di non essere un vero amico. La loro uscita è comica, sullo stile della commedia all’italiana. La sequenza si conclude con lo sguardo determinato di Ettore che fissa l’equazione. A questo punto nella versione televisiva uno stacco trasversale mostra Fermi in uno spiacevole incontro con una zelante segretaria, la quale afferma che la materia che lui insegna non esiste. Nella stanza accanto un’altra segretaria discute con una studentessa sostenendo che in quanto ebrea non può essere considerata italiana bensì straniera. Nella metà degli anni trenta le autorità fasciste stavano raccogliendo informazioni sugli ebrei italiani e parlavano di “leggi razziali”, che furono promulgate nel 1938. Le due brevi scene, che non appaiono nella versione per il grande schermo, sollevano questioni sull’interferenza dei dirigenti in ambito scientifico nonché nelle questioni identitarie connesse alle ignominiose leggi razziali. Il film per il cinema si concentra invece sullo sviluppo della rivalità tra Ettore ed Enrico. In un’aula vuota Ettore di fronte alla lavagna lavora furiosamente all’equazione. Fermi entra dalle scale e, senza essere notato, si siede ed osserva. La sua giovane età ed il suo abbigliamento lo fanno sembrare uno studente ed in maniera cameratesca chiede ad Ettore se abbia trovato la soluzione. Ettore risponde che dopo un passaggio complicato nella prima parte, ciò che rimane sono solo numerelli. Fermi sorride e chiede ad Ettore quanto tempo gli sia servito per risolverlo. Ettore risponde di averci impiegato una notte intera e Fermi controbatte che lui ed altri due ci stavano lavorando sopra da una settimana. Ettore propone altezzosamente di lasciare la soluzione alla lavagna per permettere agli studenti di fare una bella impressione al professore. Fermi apprende che nonostante Ettore frequenti il dipartimento di ingegneria, la materia non lo appassiona e gli domanda se sia mai stato interessato a studiare fisica. Ettore risponde che la matematica gli piace, ma che trova irritanti tutti quelli che se ne servono. Risolvere un problema gli dà soddisfazione, ma dopo i calcoli perfetti dovrebbero essere

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cancellati. Fermi scende verso la lavagna per cancellare i calcoli e alle proteste di Ettore risponde che sta distruggendo un lavoro perfetto per salvare gli altri studenti dall’imbarazzo, dal momento che il professor Fermi avrebbe capito che non si trattava di un loro lavoro. Alla fine, irritato dalla sfrontatezza di Ettore, Fermi gli chiede in maniera diretta dove abbia copiato la soluzione. L’ego di Ettore divampa e sfida Enrico a risolvere qualsiasi tipo di equazione presa a caso da un testo, dovunque ed in qualsiasi momento. Fermi accetta la sfida, porge il libro ad Ettore, il quale sceglie un problema da una pagina a caso. Enrico lo guarda ed afferma che, nonostante non sia di facile soluzione, uno studente di Fermi dovrebbe essere in grado di risolverlo in mezz’ora. La scena si affida al fatto che il pubblico, conoscendo i due personaggi più di quanto uno conosca dell’altro, può già prefigurarsi l’esito della sfida e gli effetti sul vincitore e sul vinto. Enrico è rilassato, maturo e consapevole della dedizione e della genialità richieste dalla ricerca scientifica. Il suo obiettivo è di affermare la sua autorità su di un arrogante studente che intende reclutare per la sua facoltà. Ettore è sicuro di sé e vuole dimostrarsi alla pari di Fermi. La sfida mette in gioco la mente e la virilità. La messinscena pone i due rivali sullo stesso livello, nonostante Fermi goda del lieve vantaggio che lo sfidante non conosce la sua identità. Il vantaggio di Enrico è espresso anche nella sua maniera di muoversi occupando più spazio. Enrico va alla lavagna ed impartisce ordini. Ettore non va all’altra lavagna, ma siede sui gradini alla sinistra. La cinepresa mostra sia Enrico che lavora in piedi all’equazione, sia Ettore, seduto a lato. Il pubblico vede solo la mano di Enrico ed il viso di Ettore, che non fa trapelare nessuno sforzo nel risolvere il problema di fronte a Fermi. Dopo la sua vittoria, Ettore chiude la sfida insultando Fermi ed insinuando che doveva essere fresco di cattedra e che un professore non avrebbe mai dovuto dare esami in incognito per non rischiare di fallire. Il ragazzo, che rifiuta di usare il suo talento per ciò che le istituzioni considerano costruttivo, è in opposizione ad un uomo che ha lavorato sodo per coltivare la sua intelligenza e sa benissimo come usarla e perché. Il contrasto fisico fra gli attori crea una tensione sensuale, provando, nonostante ciò che molti critici hanno scritto, la forte sfumatura di erotismo che accompagna le storie private nel

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cinema di Amelio. Gli eventi sociali sono quasi dei pretesti che permettono al regista di entrare nella storia con il suo cuore, non con la testa. Questo è evidente in tutte le scelte per ogni suo film, a partire dalla scelta del cast e dal modo in cui dirige gli attori. Il lavoro teoretico di Ettore Majorana fu in grado di spiegare la struttura del nucleo atomico e le forze che vi agiscono, chiamate anche Forze di Majorana. Parallelamente Amelio utilizza le relazioni personali ed i conflitti, come le forze nel nucleo, per comprendere le strutture e le leggi umane su vasta scala, senza affrontarle in maniera diretta. La relazione personale tra Enrico ed Ettore si instaura in un ristorante il medesimo giorno. Ettore si avvicina al tavolo dove Enrico sta mangiando e i due parlano amichevolmente della loro formazione sociale e culturale. Enrico proviene da una famiglia della media borghesia e suo padre era impiegato nelle ferrovie statali. Ettore ha solo vent’anni e proviene da una famiglia aristocratica siciliana benestante dominata dalla madre, la quale aveva imposto al figlio l’iscrizione all’università, che le avrebbe permesso di frequentare gli alti circoli della capitale. Queste due scene sono il preludio ad una notte in osservatorio. I due sono passati dal reciproco sospetto, alla competizione, alla simpatia fino al riconoscimento delle rispettive abilità. Ettore, solitario e distaccato, è sedotto e ammaliato dalla nuova scienza e da Fermi. Dentro al buio osservatorio la cupola si apre ed il telescopio si erge alludendo ad un fallo in erezione. Ettore guarda una stella, chiedendosi da dove provenga la sua luce. Enrico stimola la sua curiosità chiedendogli se abbia mai sentito parlare di radioattività. Fermi svela al giovane affascinato il suo sogno, ovvero di scoprire cosa ci sia all’interno di un atomo, aggiungendo che penetrare un nucleo equivarrebbe a conquistare una stella e controllarne l’energia. Questa scena si rifà al precedente uso dei binocoli da parte di Ettore. In quel momento Ettore è come un voyeur solitario ed il suo sguardo erroneamente direzionato è ostacolato dai suoi amici, che non gli permettono di vedere cosa stia accadendo. In questa scena, Fermi induce la sua curiosità e intelligenza a penetrare i segreti di natura ed essere parte del suo sogno. Ettore sta cercando inconsapevolmente una guida o una figura fraterna, ma prova anche una forte attrazione sessuale. Fermi seduce Ettore non solo con la sua cono-

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scenza ma anche con le sue parole. In primo luogo chiede ad Ettore se sia grande abbastanza da rimanere fuori e se abbia le chiavi di casa. Poi, sfiorandogli lievemente la spalla, lo prega di non rivelare la sua sconfitta nella sfida di matematica. Durante l’accordo Enrico agita il suo dito indice nello stesso modo in cui Ettore aveva fatto nell’ammonire la madre che ascoltava la radio. L’incontro termina quando Ettore si sveglia da solo. Alla vista del Professor Rasetti, questi gli chiede dove sia Fermi e lo rimprovera per aver trascorso la notte all’osservatorio. Ettore è come un amante sedotto e abbandonato, che può solo sognare di conquistare una stella assieme al suo maestro. La composizione della scena di chiusura rinforza questa sensazione: Ettore da solo vicino al telescopio, con la cupola emisferica aperta. Quando volge lo sguardo verso l’alto vede Emilio ed Edoardo e chiede loro se abbiano visto Enrico.

La gita Ettore si unisce a Edoardo ed Emilio per un giro sulla lussuosa decapottabile Fiat del Professor Rasetti. Mentre gli altri si divertono a cantare una canzone a doppio senso, Ettore sfoglia un libro di microfisica che gli ha dato Fermi. Emilio spiega ad Ettore i due significati della canzone e poi continua a parlare di una prostituta, aggiungendo che ad Ettore queste cose non interessano. Edoardo menziona una nuova casa chiusa che aveva appena aperto ed il Professor Rasetti lo invita a non palare di tali argomenti in sua presenza, aggiungendo che l’amore è solo desiderio sessuale e che tutto il resto si riduce a materia ed energia. Seduto nel retro, Ettore non prende parte alla conversazione, sentendosi a disagio e nervoso e nascondendo una diversità che rivelerà in seguito solo ad Enrico. Sulla barca, mentre gli altri nuotano, Ettore rimane vestito a leggere il libro. Emilio ed Edoardo lo spingono in acqua in una sorta di iniziazione ed Ettore scompare. La sera, dopo una lunga e fallimentare ricerca e preoccupati che Ettore sia annegato, i tre lo trovano nella macchina del Professor Rasetti. Ettore dichiara teatralmente di essere un fantasma, istigando i suoi amici a rincorrerlo. Lo scherzo di Ettore è un intelligente presagio della sua vera scomparsa finale e

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acquista maggior significato grazie alla consapevolezza del mistero da parte del pubblico. Il finale comico continua simbolicamente con un montaggio tematico nella scena successiva, in cui i comici Stanlio e Ollio appaiono mentre si rincorrono in un film muto. Tutti i ragazzi di via Panisperna si ritrovano qualche anno dopo in casa di Enrico per festeggiare il suo primo anniversario di matrimonio. Il riferimento ai due comici americani offre ancora un omaggio a Il conformista. In quest’ultimo, una foto di Stanlio e Ollio è appesa nella sala da ballo parigina dove avviene la famosa scena del tango tra Giulia, la moglie di Marcello Clerici e Anna, la moglie del Professor Quadri, che Marcello ha il compito di uccidere per conto della polizia segreta fascista. Oltre al bel lavoro della cinepresa, la scena di Bertolucci insinua la velata attrazione omosessuale tra le due donne. Nel film di Amelio, il primo anniversario di Enrico e Laura (Laura Morante) può essere interpretato come un rito simbolico che celebra il riconoscimento ufficiale della sua mascolinità. Ettore cerca di rivaleggiare portando con sé alla festa la cugina Margherita (Cristina Marsillach), appena arrivata da Catania, cercando di farla passare per la sua fidanzata. Edoardo commenta, «Ettore con una donna!» Il loro arrivo è preceduto dall’arrivo della fidanzata di Edoardo che chiede cosa stia succedendo nella commedia alla televisione, ma la domanda può facilmente essere estesa ad Ettore e Margherita. Nel loro ingresso teatrale, Enrico apre la porta e vede Margherita; solo pochi secondi dopo appare Ettore, il quale l’abbraccia guardando gli altri con disagio. Una volta entrati, Ettore rimprovera Enrico per il suo gusto fuori moda per i film muti, e il maestro risponde che il cinema muto è per il divertimento in casa, mentre i film sonori sono per il cinema. In realtà, Enrico e Laura stanno recitando come se fossero in un film, specialmente quando Enrico chiama Laura per spegnere le candeline sulla torta e la folla applaude. Come nel film di Bertolucci c’è un ballo, ma qui Margherita balla da sola e non con Ettore, il quale è impegnato a rincorrere Enrico. Il comico rincorrersi al lago è seguito dall’inseguimento nel film muto e dalla disperata ricerca amorosa di Ettore. Tutti si comportano come in una sorta di film sonoro, più divertente dei film muti, ma non così realistico. L’amichevole atmosfera è punteggiata dall’immancabile critica accademica. Margherita balla con gli altri ospiti mentre Ettore inse-

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gue Enrico, cercando di provocarlo con osservazioni che insinuano una sua compromissione con il regime fascista, allo scopo di fare una bella vita. Fermi risponde che ha bisogno di fondi del governo per compiere le sue ricerche. In un momento intimo e rivelatore Margherita e Laura iniziano a parlare di Ettore, ma la loro conversazione è interrotta da Enrico, il quale prega Margherita di togliergli di dosso Ettore. Nella versione televisiva Laura, da sola con Enrico, commenta che Margherita è una donna troppo semplice per un uomo così complicato come Ettore; Enrico risponde che Margherita non esiste. Nella versione per il cinema Enrico chiede a Laura se si consideri una donna semplice o complicata. Ancora, nella versione per la televisione alla festa segue il rientro a casa della finta coppia. Mentre salgono le scale Ettore chiede a Margherita di togliersi il rossetto e l’abito da sera e il pubblico comprende che Ettore teme la gelosia della madre. La conversazione avviene al buio ed assume un’atmosfera viscontiana. Margherita gli chiede come abbia recitato il suo ruolo. È chiaro che è innamorata di lui fin dall’infanzia. In piedi uno accanto all’altra di fronte allo specchio, Ettore le risponde serio che si sono presi gioco di alcune persone. Lei non capisce e gli rivela i suoi sentimenti chiedendogli come mai il più bel ragazzo del gruppo non abbia ancora una ragazza. Ettore parla del problema dei bambini nati da matrimoni fra cugini e prima di andare a dormire la prega di non raccontare alla madre della notte appena trascorsa. Dopo essersene andato, Margherita rimane di fronte allo specchio come se volesse cancellare o ricatturare l’immagine di Ettore. Ettore esce dalle tenebre ed entra nella stanza della madre. Nonostante abbia lasciato il grammofono acceso lo sente entrare e gli chiede di scrivere una pagina del suo diario. La madre gli racconta di come la figlia di una sua amica sia rimasta incinta fuori dal matrimonio come una stupida contadina ed aggiunge che Margherita farebbe meglio a tornare a Catania, dal momento che la vita di città non fa per lei. Nella scena finale Ettore cancella l’ultima frase nel diario come forma di ribellione repressa. Sfortunatamente la scena non compare nel film e Margherita non apparirà più, confermando le parole di Enrico, «Margherita non esiste». L’azione si sposta direttamente dalla festa al dramma di Ettore, rappresentato dal conflitto tra come è visto dagli altri ed il modo in

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cui lui percepisce se stesso. Sta piovendo ed è tardi quando Ettore bussa alla porta di Enrico dopo essere stato picchiato e derubato. Una volta entrato, Ettore si aggrappa ad Enrico e lo implora di non chiamare un dottore. Il tempo trascorso è suggerito dalla gravidanza di Laura e si ha l’impressione che dopo l’apparizione teatrale alla festa in compagnia di una donna, ora Ettore voglia rivelarsi ad Enrico. Il giorno successivo, indossando gli abiti di Enrico, Ettore entra in cucina dove trova Laura che gli offre una tazza di caffè e gli chiede come si senta nei panni di Enrico. Laura vuole che Ettore dia un’occhiata all’articolo di Enrico prima che questo venga pubblicato. Per la prima volta Ettore dimostra il suo malessere dicendo a Laura che non gli importa dell’articolo che sta per essere pubblicato. Le urla poi che non confesserà loro dove e come è stato picchiato, così che possano riprendere a parlare di cose più frivole. Le dice che entrambi i Fermi sono gentili, ma che lui non ha bisogno di nessuno. Esce dalla stanza ma vi rientra subito dopo e senza riflettere sussurra a Laura che ama sia lei che Enrico e qualsiasi altra persona. L’intera conversazione è ripresa con controcampi che mostrano il dolore di Ettore e le reazioni di Laura. Lei nasconde il suo stupore ed esprime poche emozioni. Per dissimulare Laura attribuisce la colpa delle percosse e del ladrocinio alla crescente criminalità in città. Ettore è dispiaciuto. Per la prima volta prova a parlare del suo dramma personale. Fermi torna a casa e cerca Ettore che sta lavorando nel suo studio. Enrico sembra stanco e preoccupato ed è frustrato perché i suoi esperimenti non stanno dando i risultati sperati. Il professore teme di illudere troppa gente con false speranze e sente di rubare del materiale radioattivo che potrebbe essere utile per aiutare dei malati. Ettore cerca di confortarlo ricordandogli che l’inventore dei raggi X fu accusato di rubare energia all’ospedale. Ettore chiede poi ad Enrico di spiegargli in maniera semplice e didattica che cosa sia la radioattività. Enrico risponde e continua a spiegare che stanno colpendo un nucleo con oggetti irradiati, ma nulla accade. Ettore afferma che devono capire di che cosa sia fatto il bersaglio. Enrico si illumina e gli chiede se lui lo sappia. Ettore risponde di non esserne ancora certo e che glielo avrebbe detto l’indomani. Il discorso scientifico sviluppa la trama e fornisce un quadro della loro relazione personale. Fermi crede che elettroni e protoni formino

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il nucleo. Ettore è sull’orlo della grande scoperta che gli elettroni non si trovano all’interno del nucleo ma sono, al contrario, ciò che chiama particelle fantasma e che hanno la forza di attraversare un muro di pietra. Quando Enrico entra nello studio, Ettore confessa di avere la testa piena di fantasmi e che ha bisogno di una pausa. Dopo la loro conversazione, Ettore afferma che le cose ora sono chiare. Simbolicamente Enrico e Laura rappresentano il nucleo ed Ettore è il fantasma che cerca di farsi spazio nel cuore di Enrico. Sfortunatamente le persone che Ettore ama lo tradiscono. Prima Laura rivela ad Enrico tutto ciò che Ettore le aveva confidato. Laura ripete che Ettore vorrebbe essere come Enrico e quando il marito le chiede il perché lei risponde che il motivo è facilmente intuibile. Enrico chiama dunque la madre di Ettore perché venga a riprenderselo. Come un bambino, Ettore si nasconde dietro la porta per ascoltare la conversazione tra sua madre e Laura. Ettore si sente ripudiato e ingannato dalle due persone con le quali era riuscito ad aprirsi. In un impeto di rabbia brucia i suoi appunti per nascondere ad Enrico la sua scoperta. Non c’è alcuno spazio nel cuore di Enrico per la particella fantasma. Da questo momento Ettore non sarà mai più ripreso in compagnia dei ragazzi di via Panisperna.

Derisione e vendetta Nella breve sequenza seguente, Bruno22 (Giorgio Dal Piaz), un nuovo studente del gruppo di via Panisperna, sta risistemando il laboratorio seguendo le istruzioni di Fermi di rimuovere tutte le carte 22  Bruno Pontecorvo (22 agosto 1913-24 settembre 1993) diventò l’assistente di Fermi a soli 18 anni. Nel 1936 si trasferì a Parigi per lavorare nel laboratorio di Irène e Frederic Joliot-Curie. Diventò socialista ed intrattenne una relazione con Marianne Nordblom. Pontecorvo non poté tornare in Italia a causa delle leggi razziali contro gli ebrei. Quando i nazisti occuparono la Francia, scappò in Spagna e poi negli Stati Uniti. Lavorò per una compagnia petrolifera a Tulsa, Oklahoma, ma non venne invitato a partecipare al Progetto Manhattan a causa della sua fede socialista. Nel 1943 si unì ai River Laboratories in Canada, e nel 1948 fu invitato a lavorare per il progetto della bomba atomica inglese. Durante la Guerra Fredda lasciò Roma per Stoccolma con la moglie e i suoi tre figli. Da lì, con l’aiuto degli agenti sovietici andò nell’Ex URSS, dove morì. Nessuna accusa di spionaggio o di passaggio di informazioni ai Sovietici venne mai mossa contro di lui. Nel film l’attore è doppiato in italiano da Roberto De Francesco.

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di Ettore. Quest’ultimo entra inaspettatamente e lo afferra. Per la prima volta appare senza giacca, con la camicia sbottonata, la cravatta allentata ed il nodo sciolto, fisicamente violento e paranoico. Quando Bruno gli dice che Fermi sta per arrivare e che deve finire di mettere ordine, Ettore, preso dalla gelosia, gli dice di non credere al Professor Fermi perché è un bugiardo: non ci sono elettroni nel nucleo, ma solo una particella fantasma. Ettore è in piedi contro una colonna che divide lo schermo in due, a rappresentare il tormento della sua mente e del suo cuore. La scena si espande e chiarisce la scoperta nello studio di Enrico ed il suo simbolismo sul piano personale. Aveva detto ad Enrico «Avevo una testa piena di fantasmi. Ora ne ho solo uno». La sua reazione isterica mostra che dal momento che Enrico lo ha sbattuto fuori da casa sua e dal suo cuore, Ettore è ora un fantasma. Nella scena successiva Enrico sente dal Professor Rasetti che uno scienziato inglese ha scoperto che gli elettroni non si trovano all’interno del nucleo. Il fantasma ha trovato conferma. Di fronte ad una bancarella di libri usati Ettore tiene in mano Il nuovo mondo (1932) di Aldous Huxley ma lo lascia andare e se ne va per cercare di evitare Fermi che sta sopraggiungendo. Il professore compra il romanzo che parla di un futuro scientificamente ingegneristico di droghe psicotiche e sesso promiscuo. Il titolo originale, Brave New World, proviene da La tempesta di Shakespeare, quando Miranda si meraviglia nel vedere il folletto Ariel ed esclama «O brave new world that has such people in’t!» (Oh mirabile e ignoto mondo che possiedi abitanti così piacevoli!). Queste fonti possono suggerire dei cambiamenti sociali che porteranno alla libertà degli omosessuali, o potrebbero avere una valenza ironica. Fermi segue Ettore al ristorante dove avevano parlato la prima volta e gli porge il romanzo. La loro collaborazione era nata simbolicamente con lo scambio di un libro di scienze e muore con lo scambio di un altro libro che preannuncia il modo in cui la scienza arriverà a controllare e a condizionare l’umanità. Fermi porge ad Ettore anche un giornale inglese che annuncia la scoperta di Chadwick sulla struttura interna del nucleo. Enrico dice ad Ettore che uno scienziato che brucia una sua scoperta è come un padre che uccide il proprio figlio: il peggiore dei criminali. Ettore replica che Enrico rimpiange solamente di non essere stato il primo ed aggiunge di essere invidioso di lui, che sarà

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un uomo felice e di successo e che ama solo cose senza vita perché non è in grado di vivere le cose. Enrico lo schiaffeggia ed Ettore sorride amaramente. Prima di andarsene Enrico lo avverte maliziosamente di fare attenzione a non amare troppo gli esseri umani e soprattutto ad amarli troppo a modo suo. La meschinità e cattiveria di Enrico si manifestano sul volto di Ettore. Per accrescere il confronto Amelio gira la scena senza utilizzare la tecnica del campo-controcampo, al fine di suggerire che i loro destini sono legati l’un l’altro. La sequenza si chiude su Ettore, amante ferito e abbandonato. Majorana vive la sua omosessualità non come una diversità dichiarata ma come una verità taciuta che lo allontana dal resto del gruppo. Fin dall’inizio il film descrive la sua lotta per accettare la sua diversità. Per esempio durante la gita quando Emilio ed Edoardo cantano la canzoncina a doppio senso, la sua stessa omosessualità è un doppio senso che gli impedisce di comunicare con gli altri e di divertirsi, rappresentando un elemento di rottura. Ettore cerca di farsi accettare e lo scherzo di scomparire è un tentativo di far parte dei loro giochi. Durante il film Majorana imita il loro comportamento che è dettato dalle convenzioni maschiliste del tempo: parlare di prostitute e case chiuse. Quando si confida con Laura, lei lo tradisce rivelando tutto ad Enrico, il quale lo tradisce a sua volta cacciandolo da casa sua. Amelio compie un ottimo lavoro nel suggerire senza mostrare esplicitamente l’omosessualità di Ettore in un periodo storico in cui, in Italia ed altrove, era condannata e punita severamente. Inoltre, quanto sono cambiate le cose? Sarebbe stato impossibile per il regista mostrare apertamente l’omosessualità in un film nato per la televisione.

Scoperte e nascita I ragazzi di via Panisperna sono di nuovo in laboratorio ed usano la loro rudimentale tecnologia per testare l’uranio. Bruno rompe una provetta e gli altri lo spingono sotto la doccia fredda. Laura sta dando alla luce il suo bambino in ospedale. Nella versione televisiva, Ettore è accanto a Laura e lei gli consiglia di cercare di riallacciare i rapporti con Enrico, ma Ettore ha già deciso di lasciare Roma. Nel

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film, Enrico attende la nascita del figlio in corridoio, ma sta pensando ai test che i suoi assistenti stanno conducendo per confermare i risultati dei nuovi esperimenti. Quando viene informato del loro successo, Enrico si allontana immediatamente ignorando la suora che gli annuncia la nascita della figlia. Mentre i ragazzi di via Panisperna corrono da stanza a stanza impegnati nei loro test, il Ministro Corbino fornisce una breve spiegazione ad un gruppo di visitatori benestanti, che serve al pubblico per essere aggiornato sulle loro ricerche ed è funzionale ad introdurre la sequenza successiva, in cui la nuova scoperta è annunciata al mondo. La propaganda ufficiale ed il silenzio di Ettore Un fotografo sull’isoletta del lago di Como è pronto a scattare una fotografia di gruppo. Uno stacco, e per immortalare l’evento la cinepresa mostra l’intero gruppo al pubblico. All’interno della villa di Cernobbio, il Ministro Corbino sta presentando ufficialmente la grande scoperta in tedesco. La macchina da presa fa una panoramica rivelando che Fermi non è seduto al tavolo con gli altri scienziati. In un’altra stanza Laura lo sta spronando a superare i suoi dubbi e a difendere il suo lavoro, che lei definisce il più importante dalla scoperta del radio. La versione televisiva affrontava in maniera più estesa le aspettative delle mogli, il modo in cui i politici usano la scienza per fare dello spettacolo e come gli scienziati debbano indossare delle maschere per raggiungere la fama nella commedia del potere. La tensione sale quando Corbino estrae un telegramma che annuncia l’arrivo di Ettore e la sua richiesta di leggere una presentazione prima di quella di Enrico. Rasetti è preoccupato e afferma che non si può dare fiducia ad Ettore. Per evitare possibili imbarazzi Laura cerca di raggiungerlo. L’arrivo di Ettore e l’incontro con Laura sono descritti con movimenti geometrici della cinepresa che sottolineano le circostanze. Con un dolly orizzontale ed una panoramica, la macchina da presa riprende Ettore che arriva dalla Germania e si imbarca sul ferry per Cernobbio. Poi la cinepresa si allontana per riprendere l’intera barca, ironicamente chiamata Concordia. Ettore è sul ponte mentre Laura gli si avvicina. Li si vede parlare ma non

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è possibile sentire la loro conversazione. I due entrano nella cabina e siedono uno di fronte all’altro. Laura in primo luogo loda le sue conquiste in Germania, menzionando l’ammirazione di Enrico per le sue pubblicazioni. Poi prosegue perorando la causa di suo marito e chiedendo ad Ettore di non pugnalare Enrico alla schiena, in nome della loro passata amicizia. Laura sostiene che Ettore debba molto a Enrico. Ettore ascolta senza parlare, incredulo quando lei gli chiede di non rivelare a nessuno il loro incontro. Lui risponde che ama i segreti e afferma che fa tanto freddo al lago quanto in Germania, annunciando indirettamente la sua intenzione di andarsene. Ognuna delle sue affermazioni rimanda a un doppio senso: il velenoso segreto della sua omosessualità, il tradimento di Laura in merito alla sua confessione, il suo segreto contributo al lavoro di Enrico, la freddezza dei Fermi. La manovra di Laura che fa appello alla famiglia e all’onestà priva Ettore del diritto di parola e lo estromette dalla sfera pubblica. Il processo di scomparsa di Ettore continua. Ad eccezione di Enrico, i soli contatti che avrà con gli altri avverranno durante incontri casuali in barca, rinforzando il suo posto incerto nel mondo scientifico moderno. Ettore ha perso la sua identità come fisico. Il congresso riceve un altro telegramma di Ettore che porge le più sentite congratulazioni per la scoperta dell’Ausonio e dell’Esperio, i due elementi che il gruppo Panisperna credette di aver generato bombardando un campione di uranio con dei neutroni, ed a cui le autorità fasciste avevano affibbiato dei classici nomi altisonanti23. Corbino è estasiato dalla notizia. In risposta ai commenti di Edoardo sulla decisione di Ettore di inviare un telegramma di congratulazioni anziché farlo di persona, Enrico risponde che Ettore voleva fargli sapere che sono dei cretini.

23  Entrambi sono comuni nel Lazio. Ausonia è usato poeticamente per significare l’Italia e, nel 1861, fu il nome assegnato ad un asteroide. Esperia viene da Hesper, una stella della sera, ed era il nome che gli antichi greci diedero alla penisola italiana.

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Volo verso il freddo e ritorno alla natura La visita di Enrico ad Ettore in Sicilia è preceduta da una breve scena in cui il gruppo di via Panisperna porta a compimento un esperimento in grado di liberare energia dall’uranio. La versione televisiva elabora la visita per spiegare la decisione di Ettore di lasciare la ricerca scientifica e permette ad Amelio di commentare attraverso un sottile linguaggio cinematografico. È estate ed Ettore, vestito da contadino, è in piedi accanto ad un agricoltore che sta potando un albero. Guardando il terreno secco Ettore predice una siccità ancora più estesa. Il vecchio è troppo pragmatico e semplice per comprendere. Alla fine della sequenza il pubblico capisce che Ettore è un monaco che ha instaurato una relazione molto forte con l’agricoltore. Ettore è anche ripreso in una stanza della sua casa di famiglia mentre aggiusta una radio che trasmette l’aria Ecco ridente in cielo sorge la bella aurora, in contrasto con la campagna circostante bruciata dalla calura estiva. Alcune vedute compaiono in una ripresa ravvicinata all’interno di uno spazio fortificato: un gregge di pecore, alcuni fuochi di accampamento, misere case di contadini. Queste immagini ricordano sia la natività che alcune scene di Amelio da La città del sole. La nuova vita di Ettore è similmente mostrata in diverse fasi: mentre aiuta una giovane contadina con i suoi compiti, mentre tiene in braccio un bambino e mangia con i contadini la sera. Ettore è tornato nella terra posseduta da suo nonno, di cui sentiamo parlare nella prima conversazione con Fermi. Da un punto di vista critico, l’occhio di Amelio sembra guardare a queste scene senza nostalgia. Presentando composizioni che sono ben composte e suggestive per essere prese seriamente o sembrare reali, il regista descrive deliberatamente il luogo come un falso rifugio per un uomo tormentato dalle possibili conseguenze della scoperta scientifica, a cui si allude attraverso la siccità. La visita di Enrico in questo luogo è il nodo cruciale del film. Fermi appare come Enrico IV a Canossa,24 in penitenza, pronto ad ammettere i suoi errori per ottenere ciò per cui sta lottando. Un’inquadratura intera di Enrico è seguita da varie immagini della carrozza, 24  Nel 1077 Enrico IV del Sacro Romano Impero si umiliò di fronte al Papa Gregorio VII al Castello di Canossa per conservare la sua corona.

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con un’ultima lunga ripresa attraverso un viale polveroso con palme su entrambi i lati mentre la carrozza giunge di fronte ad una vecchia casa aristocratica tipica del Sud. Enrico sale una lunga scala ed entra in un palazzo semi abbandonato, attraversando un corridoio e delle stanze in cui i piccioni stanno nidificando nella muffa. Enrico segue le note di una romantica canzone che parla di un piccolo cavallo che porterà a casa il primo amore, un dolce accompagnamento a quello che sta accadendo sullo schermo. Dal punto di vista cinematografico la scena è un omaggio a Il Gattopardo (1963) di Visconti, quando l’emissario piemontese viene mandato a Donnafugata, la residenza estiva del principe e l’ultimo rifugio dall’usurpazione della Sicilia ai Borboni da parte di Garibaldi. Lì Angelica (Claudia Cardinale) e Tancredi (Alain Delon) avevano trascorso i migliori momenti delle loro vite, rincorrendosi a vicenda con amore e desiderio sessuale prima che il tempo rovinasse tutto. Nel film di Amelio Enrico sta rincorrendo Ettore per riportarlo alla scienza e raggiungere il suo obiettivo. Ettore è in cucina, tipico posto in cui le donne attendevano il ritorno dei loro amati, mentre si prepara qualcosa da mangiare. I due siedono ai lati opposti del tavolo. Ettore dice ad Enrico che quello è il suo posto. Mentre passa una fetta di pane al suo ospite, Enrico gli afferra la mano e gli confessa che ci sono molte cose di cui vuole essere perdonato. Come due vecchi amici, o amanti, i due commentano sorridendo i loro cambiamenti fisici. Ettore appare compiaciuto dal discorso di Enrico sulla sua barba e per la prima volta mangia serenamente, apparendo naturale e rilassato. Uno stacco, e si ritrovano fuori. Enrico siede ad un tavolo, stavolta con indosso una maglia marrone a maniche corte. La cinepresa mostra le sue mani che estraggono una cartellina dalla sua valigetta. Ettore, con indosso gli stessi abiti, siede su un muretto guardandolo, poi si avvicina al tavolo e confessa ad Enrico che ogni volta che Edoardo ed Emilio lo andavano a trovare durante i loro anni all’università, gli portavano problemi di matematica da risolvere. Enrico ammette che tutti hanno ricevuto delle lezioni di fisica da lui. In seguito gli consegna un brevetto per la produzione industriale di energia atomica e vuole che Ettore controlli i calcoli, per avere la conferma finale di essere stati i primi ad aver scisso l’atomo. Ettore

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è rilassato e parla di Galileo, che spese gran parte della sua vita a guardare il fuoco. Nonostante l’abiura della sua scoperta, Galileo temeva di aver piantato il seme del dubbio nella gente. Enrico, il nuovo scienziato, afferma che le scoperte procedono da sole, senza gli scienziati, i quali hanno comunque il dovere ed il diritto di rivelarle. Ettore non è d’accordo e risponde che si trova solo ciò che si vuole trovare. Questa assunzione di responsabilità non lascia spazio al dialogo. La conversazione è filmata con campi e controcampi che enfatizzano la distanza fra i due. Alla fine la macchina da presa si allontana mostrandoli assieme, mentre siedono a distanza e guardano in direzioni opposte. La separazione finale era stata preannunciata dal discorso di Enrico quando Ettore voleva entrare a far parte della ricerca sulla struttura del nucleo. Ora Enrico gli dice che, secondo uno scienziato americano, il suo esperimento scinde l’atomo esattamente nel mezzo in due parti separate. Ettore non vuole controllare i calcoli e le sue ultime parole «troviamo solo ciò che vogliamo trovare», hanno un doppio significato. Enrico se ne va. Il paesaggio idilliaco dove stavano sedendo appare sullo schermo senza di loro, come a mostrare che il ragionamento di Enrico non tiene in considerazione l’umanità. Ettore gli aveva detto che era un grande scienziato perché amava oggetti senza vita e non esseri umani. Uno stacco, e la cartellina che Enrico ha lasciato ad Ettore è ripresa sul tavolo accanto a della frutta fresca. Nella versione televisiva, molto più elaborata, Ettore viene mostrato assieme ai contadini mentre aiuta una ragazza con i suoi compiti. Impegnata nei suoi studi, la ragazza trascura il fratellino, il quale muore in un incendio nel suo lettino. Una dissolvenza ed il pubblico comprende ciò che potrebbe essere accaduto. Il fumo nero della casa in fiamme, una donna che recita il rosario, una giovane madre che piange. La ragazza vuole che Ettore continui a correggerle i compiti, minacciandolo di gettarsi nel fuoco a sua volta. Ettore scappa e lei gli lancia delle pietre addosso. Alla fine Ettore è ripreso mentre guarda sopra ad un muro, come se volesse suicidarsi. Tutte le sequenze nel palazzo e nel giardino si bilanciano a vicenda nell’organizzazione della storia. All’interno la tensione emozionale cresce e all’esterno Ettore ottiene la sua vendetta su Enrico.

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Dal punto di vista scientifico la moralità di Ettore non è sufficiente per opporsi al progresso umano ed è esposta ad ogni tipo di attacco. La lotta si concluderà nell’ultima parte del film con il fallimento di Ettore nell’insegnamento all’università. Di notte Ettore inizia a lavorare febbrilmente ai calcoli che Enrico gli ha lasciato. Il rumore del vento, che si sentiva mentre il gruppo di via Panisperna stava conducendo i propri esperimenti, si ripete, questa volta accompagnato da una ninna nanna in dialetto siciliano per un bambino che non riesce ad addormentarsi. Ancora una volta Amelio propone una contrapposizione visiva tra la cartellina con l’etichetta Uranio e le pesche che precedentemente erano sul tavolo, simboleggiando così la lotta che si sta consumando dentro Ettore. Alla fine egli getta tutto nel fuoco e si stende. In un flashback, Ettore si rivede a otto anni mentre cerca di sfuggire alla madre che lo obbliga ad eseguire dei calcoli per il divertimento delle sue amiche, nascondendosi imbarazzato sotto ad un tavolo, vittima della maledizione della sua diversità e della sua conoscenza, due temi centrali nei film di Amelio. Quando Laura chiede ad Ettore di non pugnalare Enrico alle spalle, lo priva del suo diritto a dissentire e da quel momento in poi egli si trasforma progressivamente in un fantasma. Ettore vive in una casa vuota con degli uccelli, non più riconosciuto per ciò che è o ciò che fa. Enrico gli ordina di tornare alla vita solo per usarlo, come faceva sua madre. Ettore è considerato solo una mente prodigiosa che esegue calcoli perfetti, non come una persona.

Fantasmi La scena si apre con una scia d’acqua ed un ferry che divide lo schermo a metà, contrariamente alla precedente ripresa laterale della barca sul Lago di Vico, che riempiva lo schermo. Un uomo di mezza età con un cappotto marrone scende le scale, mentre dei ragazzi vestiti da giovani fascisti passano di fronte a lui. Una volta sul ponte, incontra un uomo vestito in abiti scuri. Ettore ed Emilio si abbracciano e siedono per parlare senza guardarsi. Emilio racconta ad Ettore ciò che sta accadendo ai ragazzi di via Panisperna. Emilio vuole lasciare il Paese a causa delle leggi razziali che voglio-

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no espellere gli ebrei dalla scuola pubblica, come avevano fatto in Germania. Ettore, che ora insegna all’Università di Napoli, appare fragile, stanco e distante. Per dimostrare che non è più lui, nella sequenza successiva il Professor Majorana viene umiliato in classe da uno studente che corregge i suoi calcoli. Stanco e confuso, Ettore si allontana dalla lavagna, varca la soglia di una porta e scompare come una particella fantasma che attraversa i muri. La sua uscita è seguita da una scena in cui Enrico, Edoardo e Rasetti siedono in un bar, discutendo della scomparsa di Ettore. La discussione si conclude quando Rasetti afferma che forse non avevano bisogno di lui e che la sua scomparsa era per loro quasi conveniente. Una persona può morire per mancanza di riconoscimento ed amore, afferma Rasetti rivolgendosi a Fermi. Nella versione televisiva Laura è testimone di una scena umiliante in cui una donna ebrea cerca di comprovare la sua discendenza ariana. Enrico le racconta della scomparsa di Ettore e dubita che la polizia lo voglia davvero trovare. Lei risponde che un uomo tanto intelligente è impossibile da trovare. Enrico si reca a Napoli per parlare con il Preside di Facoltà. I due entrano nell’aula di Ettore dalla stessa porta da cui era scomparso e, quando escono, una ripresa a volo d’uccello suggerisce una volta di sepoltura. Mentre guardano tra il materiale di Ettore, Fermi trova il romanzo di Huxley che gli aveva regalato durate il loro ultimo incontro a Roma. Sfogliando le pagine Enrico trova una foto di Ettore in cui è in piedi accanto ad un piatto di marmo su cui proietta la sua ombra e che porta l’inscrizione in latino: similis erit mors atque vita fuit (la vita dopo la morte sarà come la vita che ho condotto). Fermi lo cerca nel monastero e lì trova quell’inscrizione, ma ora che la legge, la sua ombra copre il piatto. Ettore giocherà lo stesso ruolo nella vita di Enrico in vita così come in morte. Epilogo I Fermi sono in una nave diretta in America. Nella versione integrale, Laura racconta alla stampa italiana che sarebbe stato impossibile per Fermi continuare a vivere in Italia con una moglie ebrea.

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Nella versione ridotta, un giornalista ed un fotografo vedono la piccola figlia di Fermi e vogliono sapere dove sia il padre. Enrico è da solo mentre fissa il mare ed immagina Ettore sul ferry da Palermo a Napoli su cui molti credono abbia commesso un suicidio. Laura si avvicina e, credendo che il marito stia riconsiderando la decisione di lasciare l’Italia, lo rassicura sul fatto che non avranno problemi ad americanizzarsi. Enrico le confessa che stava pensando ad Ettore, e quale ritiene che li abbia lasciati per diventare la loro coscienza. Laura crede che abbia commesso suicidio ed aggiunge che mancava di buonsenso. Enrico è convinto che Ettore volesse lasciarli nell’incertezza della sua morte, cosicché, come un fantasma, avrebbe potuto seguirli, giudicarli e farli riflettere sulle loro azioni. Ettore mirava a creare un mistero. Laura va a letto ed Enrico rimane sul ponte, immaginando Ettore in piedi sul pone di un’altra nave. In alcuni stacchi trasversali Enrico ed Ettore appaiono sullo schermo due volte, su due navi diverse, in due notti diverse, in due mari diversi ma per sempre insieme: Similis erit mors atque vita fuit. Nella versione lunga, dopo una dissolvenza appaiono come se si stessero guardando ed Ettore sorride al pensiero che Enrico lo stia pensando. I meriti del film I ragazzi di via Panisperna ebbe un grosso impatto nella cinematografia di Amelio, decretando il suo ritorno al cinema dopo una pausa di cinque anni a causa delle controversie che seguirono l’uscita di Colpire al cuore. Si trattava di un film che Amelio desiderava realizzare. La storia è ricca di temi che sono vicini ai suoi interessi personali ed artistici. Ritrarre i “Wonder Boys” della fisica italiana era molto importante per la sua maturazione artistica, nonostante alcune restrizioni poste dai produttori. La televisione voleva uno sviluppo convenzionale diretto ad un pubblico vasto ed Amelio, il cinefilo, voleva insinuarsi in un’altra storia affrontando il tema della differenza attraverso l’omosessualità di Majorana. Negli anni novanta i film televisivi seguivano ancora un piano concepito alla fine degli anni cinquanta: educare il pubblico attraverso film biografici e documentari su scienziati, santi ed altre persone famose. Amelio de-

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siderava fare un film sulla diversità di Majorana, ma le circostanze diedero come risultato un film sul sentimento di bisogno reciproco tra Enrico ed Ettore, con qualche motivo residuo sul dramma della differenza. Dal punto di vista critico, la seconda parte del film sembra cambiare registro, focalizzando l’attenzione sul conflitto tra i due scienziati e sugli effetti delle loro scoperte scientifiche. Amelio avrebbe voluto usare solo i nomi propri, a significare che il film non è una ricostruzione storica di eventi e persone reali, ma fu invece obbligato ad utilizzare i famosi cognomi. Il regista cercò di trarne il massimo vantaggio collegando i cognomi a questioni morali sollevate dalla scienza e dalla politica. Oltre al discorso tematico e metacinematografico di cui abbiamo già discusso, il film mostra grandi momenti di originalità. Per esempio, la musica folcloristica siciliana che accompagna Ettore mentre controlla i calcoli di Enrico si abbina perfettamente al flashback e ai suoi conflitti interiori. La sensibilità artistica di Amelio è visibile anche nella scelta di contrastare i colori nelle scene d’interno e d’esterno, per comunicare il calore dei rari momenti in cui Ettore ed Enrico si sentono vicini e la freddezza degli incontri pubblici, in cui la scienza è sfruttata dai politici. I molti riferimenti cinematografici e la ben sviluppata metafora principale della particella fantasma conferiscono al film una qualità artistica raramente riscontrabile in altri film pensati per il piccolo schermo. Non credo che il film focalizzi la sua attenzione sul tema ameliano della relazione fra padre e figlio, come molti critici hanno scritto, e non è nemmeno corretto affermare che si tratti di un conflitto tra studente e insegnante, attorniato da altre problematiche di tipo morale ed etico, temi sempre centrali nei film di Amelio. I ragazzi di via Panisperna è stato negligentemente comparato a Colpire al cuore per similitudini che possono essere tracciate tra il rapporto padre/figlio e insegnante/ studente, con la differenza che nel film del 1982 la coppia risponde o è minacciata dal terrorismo, mentre nel film successivo il conflitto si svolge in ambito scientifico. Queste osservazioni non considerano il dato importante che il film non mostra mai Majorana come studente di Fermi. Al contrario, tutti gli scienziati di via Panisperna concordavano nel riconoscere che Ettore, nel suo “delirio”, risolveva problemi prima di chiunque di loro e che tutti avevano da imparare da lui.

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Il rapporto tra Fermi e Majorana è più complesso, minato da motivazioni personali e sessuali. Majorana comincia non tanto come studente di Fermi, quanto come un suo pari o addirittura un suo superiore in matematica. La loro relazione è segnata dal fatto che si chiamino per nome e da una forte tensione sessuale alla quale reagiscono in maniera diversa. Ettore è un uomo fragile, tormentato dai dubbi e in molti modi infantile. Come scienziato teme lo sfruttamento e le responsabilità morali che derivano dalla ricerca d’avanguardia. Nella versione per il piccolo schermo, durante il suo viaggio verso l’America Fermi ricorda una frase di Isaac Newton che Ettore ripeteva spesso, che rivela la sua anima e la sua innocenza di fronte all’universo: «Non so come il mondo potrà giudicarmi ma a me sembra soltanto di essere un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso o una conchiglia più bella del solito, mentre l’oceano della verità giaceva inesplorato davanti a me»25. Al contrario, Enrico sente come suo diritto quello di scoprire e utilizzare quello che gli si propone, incluse le abilità di Ettore. Quest’ultimo vede in Enrico un mentore, un rivale, un fratello maggiore, un amante irraggiungibile, un riparo. Tuttavia la sua innata differenza e incapacità di essere parte di un sistema che usa le abilità della gente, sia per mostrarle agli altri, come faceva sua madre, sia per fama personale o per la gloria dello Stato, obbligano Ettore a diventare un fantasma, come la particella atomica che stanno cercando. Il film ci porta a credere che Ettore la trovò e che poi la distrusse quando Fermi lo tradì. Ettore avrebbe collaborato se Enrico gli avesse dato amore, affetto e comprensione, ma Fermi voleva la sua mente, non il suo cuore. Amelio utilizzò la relazione fra Enrico ed Ettore per parlare del tema della differenza, ma dovette prestare attenzione. Anche se la caratterizzazione dei personaggi era di finzione, doveva comunque considerare la corrispondenza con Enrico Fermi ed Ettore Majorana, i quali giocarono un ruolo centrale nella scienza e nella storia moderna, in un film commissionato dalla televisione nazionale italiana. Il regista potrebbe protestare dicendo che non stava realizzando un film biografico, eppure il riferimento ai personaggi storici aveva lo 25  Ha origine in David Brewster, Memoirs of the Life, Writings, and Discoveries of Sir Isaac Newton, 1855, 2, cap. 27.

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scopo di attrarre l’attenzione del pubblico. Infatti la serie in due parti trasmessa dalla televisione registrò sei milioni di spettatori. Anche le riprese furono difficili perché tutti i personaggi erano parte della società sotto il regime fascista e molti spettatori volevano determinare se tale società li avesse delusi e, se sì, come e perché. Le leggi razziali che giocarono un ruolo in questa intrigante storia sono, per la maggior parte, escluse dalla versione per il grande schermo assieme al rifiuto da parte degli scienziati di creare un’arma di distruzione di massa per il regime reazionario. Il film è probabilmente il lavoro meno rosselliniano di un regista che è spesso definito l’erede del maestro del neorealismo. Il film rifiuta di adottare l’idea di Rossellini sull’importanza didattica dei film per la televisione. Mi riferisco a Socrate (1970), Blaise Pascal (1971), Agostino d’Ippona (1972), L’età di Cosimo de’ Medici (1972) e Cartesius (1973). Amelio ricostruisce l’atmosfera del tempo citando altri film ambientati negli anni trenta, ma approccia il tema scientifico indirettamente, come fece quando la questione storica riguardava l’inquisizione, la dominazione spagnola nel Sud Italia, il terrorismo, l’emigrazione interna, la nuova emigrazione, la povertà o la globalizzazione. Il film è strutturato su tre piani. Il primo, ufficiale, il racconto storico che circonda personaggi specifici e identificabili durante l’Italia fascista degli anni trenta. Il secondo, gli eventi pubblici che avvengono fra i cinque personaggi principali del gruppo di via Panisperna. Il terzo, gli eventi pubblici e le forze personali che spingono Majorana ai margini. Dal punto di vista critico, ritengo che questi piani non sempre convergano. Il film era stato immaginato come un’ampia storia corale, ma vuole anche affrontare il personale al punto che la storia ufficiale è generalmente sacrificata a favore della sfera intima. L’autore cerca di esprimere il suo rifiuto per la ricostruzione storica a partire dallo scherzo iniziale, modellato sulla versione radiofonica di La guerra dei mondi di Orson Welles. Caratterizzando alcuni degli scienziati come personaggi ribelli e goliardici sullo stile delle commedie all’italiana degli anni sessanta, Amelio segna una rottura con lo stile documentaristico. I molti momenti che filtrano i personaggi e gli eventi attraverso la cultura cinematografica rendono evidente come Amelio non sia interessato alle loro vite ufficiali o alla Storia. Amelio si preoccupa di mostrare come Majorana sia

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diventato un fantasma e come, dopo essere stato forzatamente estromesso, avesse tramutato la sua esclusione in un vantaggio. Amelio costruisce il personaggio a partire dal suo voyeurismo nella terza sequenza, quando guarda fuori con il binocolo. Ettore guarda ma non si vuole mischiare. È diverso e non può vivere assieme agli altri. «Sono un fantasma» afferma, dopo aver finto la sua scomparsa al lago. Ettore cerca di cambiare, di nascondere, di imitare gli altri ragazzi ed Enrico, ma quando Fermi lo rifiuta, comincia a negare la sua sostanza fisica e a diventare la particella fantasma che può penetrare la coscienza di Fermi. Ritengo che in questo risiedano l’originalità ed il merito del film. Ettore è l’opposto di Enrico ed il primo odia e allo stesso tempo desidera tutto ciò che Enrico possiede. Quando Ettore indossa gli abiti di Enrico, Laura gli chiede come si senta nei suoi panni. La domanda ha un doppio significato anche perché Fermi era soprannominato il Papa ed infatti più tardi, Ettore vestirà i panni di monaco. La crisi personale e morale di Ettore rivela un mondo che non è in grado di accettarlo e integrarlo. Ettore può essere un esempio per tutte le epoche, come uomo e come scienziato, nel suo rifiuto di essere sfruttato dallo Stato. Fermi ha successo e conquista la fama nella sfera pubblica. Sul piano personale ha una moglie, una famiglia, soldi ed il suo posto nella Storia. Ettore deve scomparire per guadagnarsi la stessa importanza e questa è la contraddizione che affascina Amelio. Ettore è troppo infantile e debole per costruire delle adeguate relazioni con gli altri, oppure è troppo maturo, un genio che prevedeva ciò che sarebbe accaduto? A livello personale il film fa un ottimo lavoro nel mostrare come la madre di Ettore lo forzasse a far sfoggio della sua intelligenza senza considerare le conseguenze. La madre lo faceva sentire mercificato e usato, così come si sentirà nei confronti dei ragazzi di via Panisperna e di Enrico. Non condivido l’opinione dei critici che associano la sua situazione a quella di Emilio in Colpire al cuore. Il momento che li divide è racchiuso nel flashback in cui Ettore si nasconde in Sicilia e ricorda sua madre che lo spinge ad esibirsi di fronte alle amiche. Ettore smette di parlare e di rispondere, mentre una lacrima scorre sulla sua guancia. Sua madre non se ne rende conto e continua ad usare Ettore perfino da adulto iscrivendolo all’università così da potersi trasferire

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a Roma ed accrescere la sua vita sociale. L’uso insensibile delle abilità di Ettore per raggiungere i suoi scopi è comparabile al modo in cui la società odierna mercifica la bellezza ed il sesso e sfrutta il talento. Il film rappresenta queste due pratiche in due scene parallele: la beffa alla radio che preannuncia la morte prematura di Marconi, e la conferenza stampa del Ministro Corbino per annunciare le nuove scoperte italiane prima che Fermi ne abbia piena certezza. La genialità di Majorana e il suo sfruttamento sono mostrati come un continuo processo che comincia con sua madre e prosegue con i suoi amici e colleghi. Ettore vuole essere riconosciuto non solo per le sue abilità matematiche. Questa lotta raggiunge il suo apice nel confronto con il nuovo studente Bruno, che sta sistemando il laboratorio e sta rimuovendo le carte di Majorana su ordine di Fermi. Recensioni ed articoli pubblicati dopo l’uscita del film si focalizzarono principalmente sull’aspetto ufficiale della complessa relazione fra Ettore ed Enrico. Per esempio Antoccia lo definisce «un caso etico, il caso etico per eccellenza»26. Secondo il critico, Majorana prevede le conseguenze della sua ricerca scientifica e non confida nella società, che li userà o ne trarrà vantaggio a discapito di altri esseri umani. Massimo Garritano ritiene che la ricerca di Ettore tormenti la sua coscienza e lo renda incapace27. Per altri critici Ettore non è sufficientemente forte per proseguire la sua ricerca e la sua vita, mentre Fermi riesce ad accettare, adattare e conciliare il suo lavoro con la vita quotidiana. Queste letture escludono la battaglia sessuale di Ettore, che è chiaramente rappresentata nel momento in cui si presenta ferito, picchiato e perso a casa di Fermi in cerca di protezione. La mia lettura dimostra che, nonostante le restrizioni commerciali e culturali, il regista fu in grado di sviluppare una trama secondaria che mostra come Ettore, consapevole fin da bambino della sua diversità, lottò tutta la sua vita per accettarla. Tale lotta va oltre ciò che Gianni Brambilla vede come l’unica alternativa che la società lascia a coloro che non vogliono seguirne le regole28. Ancora 26  L. Antoccia, I ragazzi di Via Panisperna, «Cinema Nuovo», 38, 3 (1989), p. 44. 27  M. Garritano, I ragazzi di Via Panisperna, «Cinemasessanta», 30, 3-4 (1989), p. 89. 28  G Brambilla, I ragazzi di Via Panisperna, in Martini, Giulio, e Guglielmina Morelli, (a cura di), Patchwork Due. Geografia del nuovo cinema italiano, Milano, il Castoro, 1997, p. 121.

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una volta il critico afferra solo parte del messaggio del film, che è esemplificato nella scena conclusiva. Il finale non è enigmatico o irrisolto, come i critici spesso affermano di tutti i film di Amelio, ma porta a compimento la storia che Amelio ha voluto raccontare. Ettore è simbolicamente una particella: sarà sempre con Enrico e sarà ricordato per sempre. Lo stacco trasversale che mostra Enrico ed Ettore in una posizione simile in due posti differenti mira a suggerire la fusione nucleare29. Enrico ed Ettore sono intimamente e scientificamente riconciliati. L’ultima scena della versione per il piccolo schermo ricorda la scena in cui Margherita viene lasciata sola nella sua stanza dopo aver capito di non poter stare con Ettore, la cui immagine scompare dallo specchio e lei rimane a fissare se stessa. Nella scena finale l’oceano è come uno specchio ed Ettore, nonostante sia assente, è presente ed eternamente con Enrico.

29  Andrea Pastor, Ettore, Enrico e gli altri, «filmcritica», 40, 394 (1989), pp. 238-241.

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Capitolo 5

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Un impegno cinematografico intellettuale: Porte aperte (1990) Non ho mai fatto un film con un solo protagonista ... . Alla base c’è sempre la volontà di scontrarsi e incontrarsi al tempo stesso. In Porte aperte vedo due solitudini che si fronteggiano. Da una parte il giudice, solo all’interno della cosiddetta «società dei giusti» dove nessuno la pensa come lui; dall’altra «l’ingiusto» per eccellenza che non cerca o forse non ha la solidarietà della «società degli ingiusti», i suoi complici, i testimoni corrotti che sfilano in tribunale1.

Una nuova occasione per tornare al grande schermo Dopo il successo della produzione televisiva a basso costo di I ragazzi di via Panisperna, il produttore Angelo Rizzoli2 si rivolse ad Amelio per proporgli un film basato su Porte aperte, il romanzo di Leonardo Sciascia pubblicato nel 1987 da Adelphi, a cui spettavano i diritti. Lo sceneggiatore Furio Scarpelli che dal 1949 al 1985 assieme ad Agenore Incrocci formava la squadra di migliori sceneggiatori di commedie all’italiana, realizzando sceneggiature per Sergio Leone e per i migliori registi italiani, che aveva già elaborato alcune parti di un adattamento per il produttore Rizzoli, fu affiancato al regista. Sebbene a quel punto il progetto non fosse completamente suo, ad Amelio piacque la sfida di realizzare il suo secondo film a partire da una storia di Sciascia, anche se all’inizio il romanzo dello scrittore siciliano non gli sembrava molto interessante. Diversamente da tutti gli altri romanzi dello scrittore siciliano adattati per il cinema (Il giorno della civetta, 1968, di Damiano Damiani; Cadaveri eccellenti, 1976, di Francesco Rosi; Toto mondo, 1976, di Elio Petri), questo sembrava mancare di elementi cinematografici e di una drammatur1  Amelio, in Conversazione con Gianni Amelio, «cineforum», anno 30, n. 5 (maggio 1999), p. 80. 2

Dopo un’infanzia difficile, Angelo Rizzoli (31 ottobre 1889-24 settembre 1970) comprò il bisettimanale «Novella» della casa editrice Mondadori nel 1927 e nel 1960 fondò la Rizzoli. Circa nello stesso periodo fondò anche Cineriz, una casa di produzione cinematografica che produsse La dolce vita e Otto e mezzo di Fellini.

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gia ben definita. Si trattava per lo più di una riflessione intellettuale sulla pena di morte. Amelio spiegò che la scelta del regista da parte di un produttore e di uno sceneggiatore che avevano già cominciato ad elaborare il progetto era una modalità di lavoro tipica dei classici americani ed in Italia era una procedura utilizzata da Dino de Laurentiis. Il produttore Angelo Rizzoli, che operava quasi secondo il sistema americano, aveva già scelto lo sceneggiatore Scarpelli ed in seguito i due scelsero il regista a cui affidare l’incarico. Amelio ricorda di aver accettato con timore, ma certo di poter lavorare nelle migliori condizioni possibili3. Dopo una breve collaborazione Scarpelli abbandonò il progetto a causa di alcuni contrasti con Amelio. Con intelligenza e generosità Amelio spiegò che alle prime divergenze, Scarpelli lasciò con grande umanità che le idee del regista prevalessero sulle sue. Alla prima del film Scarpelli ebbe solo parole di apprezzamento per il lavoro di Amelio4. Rizzoli si rivolse quindi a Vincenzo Cerami, che aveva già lavorato con Amelio a Colpire al cuore e I ragazzi di via Panisperna, per collaborare alla seconda sceneggiatura. Questa fu completata in un tempo relativamente breve e le riprese cominciarono in primavera. Lavorando con Cerami, Amelio si appassionò al racconto dimenticando il romanzo, non come spunto, ma come un fatto letterario. Inoltre Amelio ebbe finalmente l’opportunità di lavorare con l’attore Gian Maria Volonté, il quale aveva a suo tempo rifiutato di interpretare la parte di Dario in Colpire al cuore5. 3  Scalzo, Gianni Amelio, cit., p. 125. 4  Volpi, Gianni Amelio, cit., p. 131. 5  Nato a Milano nel 1933, Volonté si diplomò all’Accademia di Arte Drammatica nel 1957. Due anni dopo ebbe una parte nella versione televisiva di L’idiota. Il suo primo ruolo cinematografico fu in Sotto dieci bandiere (1960) di Duilio Coletti, seguito da Un uomo da bruciare (1962) dei fratelli Taviani e Il terrorista (1963) di G. De Bosio. Fu grazie alle sue interpretazioni in Per un pugno di dollari (1964) e Per qualche dollaro in più (1965) di Sergio Leone che raggiunse la popolarità. Successivamente lavorò con Mario Monicelli in L’armata Brancaleone (1966), con Lizzani in Svegliati e uccidi (1966) e Banditi a Milano (1968), con Damiani in Quien sabe? (1967) e con Sollima in Faccia a faccia (1967). Dopo il ruolo da protagonista nell’adattamento di A ciascuno il suo (1967) di Sciascia, ebbe le parti principali in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in paradiso (1971) e il controverso Todo modo (1976) di Elio Petri. Con Francesco Rosi lavorò a Il caso Mattei (1972) e Lucky Luciano (1973). Nel 1980 interpretò Aldo Moro in Il caso Moro di Giuseppe Ferrara.

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Amelio reclutò anche Ennio Fantastichini, il quale aveva lavorato prevalentemente per produzioni teatrali d’avanguardia e aveva all’attivo solo ruoli meno rilevanti in alcuni film. Per la sua interpretazione dell’assassino in Porte aperte si aggiudicò un Felix, il Premio Europeo come miglior attore, e da allora è riconosciuto come miglior interprete italiano di personaggi crudeli o sessualmente perversi. Renato Carpentieri, al suo primo film, era già cinquantenne quando fu chiamato ad interpretare il ruolo del giurato Consolo. In precedenza aveva lavorato per il teatro sia come attore che come regista ed in seguito diventò uno dei più popolari attori di mezza età nel cinema italiano e nelle serie TV. Entrambi interpretarono egregiamente i loro ruoli in Porte aperte6. Nonostante la storia originale fosse di difficile trasposizione, Amelio voleva che questo film decretasse la consacrazione del suo stile. La sceneggiatura scritta da Amelio e Cerami, con la collaborazione del giovane Alessandro Sermoneta, fu approvata da Rizzoli senza cambiamenti di rilievo, nonostante Amelio avesse modificato e introdotto molti eventi e personaggi funzionali alla rappresentazione di alcuni dei suoi interessi tematici ricorrenti: l’unità famigliare, la cultura, la conoscenza e una società che richiedeva adesione e consenso, in questo caso nei confronti del fascismo, e che puniva coloro che esprimevano idee contrastanti, che non si adattavano o che erano semplicemente diversi. Per sviluppare la rappresentazione di tali temi Amelio si affidò a due protagonisti: il giudice Vito Di Francesco (Volonté), che ha un ruolo maggiore rispetto al “piccolo giudice” del romanzo (per Sciascia un piccolo giudice era un ufficiale scrupoloso che lavorava per lo Stato) e la sua controparte Tommaso Scalia (Fantastichini), l’assassino, che ha un ruolo minore nella storia originale. Inoltre verso la fine del film Amelio dà maggiore risalto al personaggio del giurato Consolo (Carpentieri), il quale durate l’ultima consultazione prima del verdetto finale assume 6  Riguardo ai due attori principali Amelio ha dichiarato che con Volonté, essendo un attore forte, ha agito come un direttore d’orchestra agisce con con il suo più grande violinista, facendo in modo che il suo suono si inserisse tra gli altri nella maniera migliore. Riguardo a Fantastichini, ha dichiarato che era un attore di grande talento, tra i migliori tra i giovani dell’epoca, dotato di un miscuglio di razionalità e di istinto e di grande capacità di essere allo stesso tempo teatrale e e anti-teatrale, attore di grande studio e di totale naturalezza. Amelio in «cineforum», anno 30, n. 5 (maggio 1999), p. 82.

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un’importanza comparabile a quella del giudice. I protagonisti sono affiancati da altri due personaggi minori completamente nuovi: la figlia del giudice, Carmelina, e il figlio di Scalia, Leonardo. Questi due sono contrapposti, a completare la dialettica di Amelio sulle famiglie, sui figli e sulla conoscenza. Anche tutti gli altri personaggi vengono sviluppati per inquadrare il discorso sulla corruzione di una società che vive nella paura e si conforma alle regole dettate da coloro che detengono il potere. Amelio combina questi temi con il punto di vista di Sciascia sulla pena di morte, per costruire un film che segna una tappa importante nel suo sviluppo artistico. Come afferma Amelio, la differenza fondamentale tra il romanzo e il film si riscontra nel confronto dialettico fra il condannato e il giudice, che il regista crea attraverso la caratterizzazione dei due personaggi come facce opposte della stessa medaglia7. Amelio ha utilizzato il mezzo cinematografico per sottolineare il più posssibile la metafora delle porte aperte, simbolo per eccellenza di ordine, sicurezza e fiducia. Coloro che cercano la verità, come il Giudice Di Francesco, trovano solo porte chiuse, usate per nascondere una società corrotta che utilizza la pena di morte per generare un fittizio senso di sicurezza. Nel 1926 la reintroduzione della pena di morte in Italia, che era stata abolita per 40 anni, venne identificata con il fascismo. Il primo sostenitore fu il Ministro della Giustizia Rocco, un professore di diritto criminale alla Sapienza di Roma, il quale promosse inoltre il corporativismo, che dichiarava illegali le unioni sindacali e gli scioperi. Il regime dichiarò che si trattava di una decisione presa nel totale interesse dei cittadini, i quali non avevano nulla da temere e potevano dormire con le porte aperte. La storia di Sciascia focalizza l’attenzione sulla pena di morte, mentre la trama più complessa di Amelio affronta il tema in maniera più indiretta. I tentativi del giudice di sospenderla sono utilizzati per entrare in un mondo apparentemente legittimo e ordinato. Le indagini descrivono Palermo come un microcosmo complesso, una società piramidale con al vertice le autorità che rubano e si appropriano indebitamente di fondi, appoggiate da portaborse disposti a far prostituire le proprie mogli. Il partito fascista controlla la struttura del potere e il sistema giudiziario deve interpretare fedelmente i suoi 7

In Sesti e Ughi, gianni amelio, cit., p. 45. 

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desideri, che sono anche rappresentati come principi che riflettono la coscienza della nazione e i cittadini rispettosi della legge. Il sistema è raffigurato nel film attraverso la connessione tra l’assassino e le sue vittime e l’accondiscendenza del presidente della corte, disposto ad obbedire alle richieste delle autorità fasciste. Tale sistema alimenta la negazione, l’omertà e la corruzione, sottolineate nel film da varie tecniche narrative e cinematografiche, come l’uso di luci e ombre, silenzi e gesti, spazi chiusi e paesaggi aperti o suggestive scene di campagna, controparti visive delle contraddizioni culturali che esistevano in Sicilia sotto il regime fascista.

Strategie di mercato Quando Rizzoli decise di produrre questo film, il mercato stava vivendo un momento di totale ritorno alle serie giudiziarie. Film americani come Prova d’accusa (1989) di Costa-Gravas, Un uomo innocente (1989) di Peter Yates e Verdetto finale (1989) di Joseph Rubin avevano invaso l’Italia. Nel gennaio del 1987, la televisione nazionale italiana trasmise anche Il ritorno di Perry Mason di Dean Hargrave, ed in seguito al grande successo di pubblico vennero trasmessi tutti gli episodi della nuova serie americana. Nel giugno dello stesso anno la televisione mandò in onda nuovamente tutti gli 80 episodi della serie originale di Perry Mason, programmata per la prima volta in Italia nel 1959. A questo punto il pubblico televisivo era pronto per sorbirsi più di dieci anni di La piovra, la serie italiana sul crimine organizzato. L’immagine della piovra suggeriva un’idea chiara dei lunghi tentacoli delle organizzazioni criminali, in primo luogo della mafia, nelle strutture politiche, finanziarie, legali e civili della società e catturò l’immaginazione dello spettatore. La serie fu di cruciale importanza per il cinema italiano. Nel 1986 la televisione trasmise cinque nuovi episodi di La piovra 2 diretto da Florestano Vancini, con protagonista Michele Placido e le musiche di Ennio Morricone. La serie tenne incollati allo schermo 15 milioni di spettatori. Nel 1987 fu lanciata La piovra 3, diretta da Luigi Perelli, con Placido ancora come protagonista. Questa serie diede il via alla collaborazione del duo Sandro Petraglia e

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Stefano Rulli, i quali in seguito ai successi di Il portaborse (1991) diretto da Daniele Luchetti e Il muro di gomma (1991) di Marco Risi, erano considerati gli sceneggiatori italiani più innovativi. Rizzoli li ha in seguito contattati per lavorare con Amelio a Il ladro di bambini (1992). I quattro episodi della terza serie registrarono il 46,11% di share e furono seguiti dalla quarta serie, diretta nuovamente da Perelli, che terminò il 20 marzo 1989 e fu vista da 17 milioni di spettatori. Nel 1990 Perelli diresse La piovra 5, con Vittorio Mezzogiorno come sostituto di Placido nel ruolo dell’eroe. I cinque nuovi episodi ebbero una media di 14 milioni di spettatori. La piovra 6 registrò il primo calo di pubblico e furono gli ultimi episodi con Mezzogiorno. La serie aveva ancora sufficiente popolarità da sostenere La piovra 7, presentata il 5 marzo 1995, con Fantastichini nel ruolo del cattivo e Raul Bova, nuova star della fiction televisiva, nei panni dell’eroe. I sei episodi furono visti da 10,2 milioni di spettatori, continuando la tendenza in discesa. Nel complesso La piovra ebbe un successo internazionale e fu comprato da 80 televisioni straniere, rinforzando gli stereotipi della mafia siciliana. La serie ebbe un forte impatto sul cinema italiano ed incoraggiò il passaggio verso dei prodotti commerciali con poca qualità artistica, per lo più finanziati dalla televisione e prodotti per il piccolo schermo. La piovra si rifece indirettamente al contributo cinematografico di Rosi, Petri, Loy, Damiani, Maselli e Ferrara dal punto di vista dei contenuti sociali, senza il loro talento artistico. Lo sviluppo della storia era modellato sulla serie americana Dallas. Il suo grande successo era dovuto, in parte, ai liberi riferimenti a fatti reali che accadevano tra lo Stato e la mafia. Nella serie televisiva lo Stato rivendicava la vittoria. In realtà la lotta tra la nuova mafia ed il numero crescente di servitori civili determinati a non chiudere più i loro occhi era diversa e più simile all’analisi pessimista di Paul Ginsborg che nel contesto siciliano rivelava che lo scontro fra lo Stato e la mafia poteva solo sfociare in una guerra piuttosto disequilibrata, che mieteva vittime anche fra le file dei magistrati8. Rizzoli, grazie alla sua grande abilità nel cogliere il momento adatto, comprese che il mercato era pronto per un film ispirato alla storia di Sciascia sulla pena di morte. Il produttore aveva piena fidu8  Italy and Its Discontents, cit., p. 207.

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cia nelle abilità di Amelio di realizzare un film di qualità basato su una storia che aveva molti elementi in comune con i suoi interessi cinematografici. Dal punto di vista stilistico Porte aperte è completamente diverso dalle serie televisive italiane e dalle serie giudiziarie americane, nonostante sia il prodotto più commerciale di Amelio e, ironicamente, andò vicino a vincere l’Oscar. Come puntualizza il critico Gianni Canova, Amelio adottò una drammaturgia ed un tempo narrativo completamente diversi dalla tendenza hollywoodiana del tempo9. Nonostante avesse dimostrato un certo disagio per le concessioni fatte all’intrattenimento, il regista calabrese fu comunque soddisfatto del risultato finale. A questo proposito Amelio confessò la presunzione di ritenere che l’adattamento sarebbe piaciuto a Sciascia, dal momento che, come Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, il film andava oltre il testo dello scrittore, mettendolo in discussione10. Nelle tipiche serie televisive del momento il desiderio di denunciare le istituzioni corrotte si fondeva con stereotipi ed effetti speciali, azioni frenetiche e violenza, elementi tipici dei drammi giudiziari americani e delle serie poliziesche, con scarso sviluppo individuale o personale. Anziché un prodotto commerciale medio sullo stile La piovra, anch’esso con riferimenti a opere di Sciascia, Porte aperte dimostra l’intervento di un vero artista che non costruisce il film per compiacere i sentimenti e gli stereotipi popolari, al punto di rischiare di allontanare una consistente fetta di pubblico che a quel tempo avrebbe potuto considerare il film «un impegno cinematografico intellettuale». L’austerità del film fu sorprendentemente criticata da Francesco Rosi, il padre del cinema sociale italiano, il quale dopo una proiezione privata si avvicinò ad Amelio e gli disse che il film era troppo esoterico, troppo distante dal gusto del pubblico per l’intrattenimento e troppo lontano dalle norme della rappresentazione cinematografica che qualsiasi buon film deve seguire. Rosi sosteneva che un regista poteva parlare della realtà, poteva risvegliare sentimenti e sollevare problemi, ma c’erano delle regole da osservare e abbracciare al fine di intrattenere il pubblico11. Nonostante rispetti 9  In «Segnocinema», n. 44 (luglio 1990). 10  Amelio secondo il cinema, cit., p. 49. 11  Ibidem.

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i commenti di Rosi, a mio avviso Amelio ha sempre perseguito il suo stile intrattenendo lo spettatore grazie alla qualità della composizione del film. Amelio ha sempre cercato di adattare le regole dell’intrattenimento popolare alla struttura interna del film, anziché adottare lo schema esteriore del cosiddetto cinema d’intrattenimento che arriva al pubblico. Amelio ha sempre evitato i meccanismi dell’intrattenimento facile nei propri film, al punto di rischiare l’impopolarità12. La posizione del regista si riflette in maniera evidente in Porte aperte. Anziché utilizzare cliché cinematografici traendo vantaggio dall’attrazione del pubblico per la mafia, Amelio si appella ad un senso di giustizia, evitando la suddivisione manichea fra bene e male tipica delle serie TV e delle rappresentazioni hollywoodiane. Il regista evita anche di utilizzare belle case, paesaggi da cartolina e attraenti magistrati con dei bei figli che lottano contro il crimine organizzato, come in La piovra o nei film di Damiani e Vancini, elementi che esemplificano i meccanismi di intrattenimento esteriori che Amelio evita nei suoi film. Ognuna delle riprese è ben progettata e i movimenti della cinepresa sono accuratamente studiati, a conferma dell’intenzione di Amelio di intrattenere attraverso un discorso cinematografico autonomo che si affida a composizioni ben costruite. Il film si discosta dalla verisimiglianza televisiva attraverso diversi momenti di immaginazione e fantasia. Per esempio all’interno dello studio dell’avvocato Spadafora, riflessi, suoni, ombre, mappe ed una raffica di vento aggiungono spessore al simbolismo delle porte aperte. Le qualità visive del film sono scelte stilistiche di un vero autore.

Le porte aperte Palermo, 10 Marzo 1937. Un primo piano mostra le mani di un arrotino nell’atto di affilare una baionetta, mentre una musica dai toni acuti accompagna il rumore di una grande lama sulla pietra. La macchina da presa si muove verso sinistra e lentamente si sposta in alto per mostrare un altro paio di mani che si sfregano nervosamen12  Ibidem.

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te, come ad anticipare la sensazione di brandire la baionetta affilata. La cinepresa effettua una panoramica verso l’alto e poi si ferma sul primo piano del volto di un uomo alto, sudato e con la barba incolta che indossa cravatta e cappello. La sua posizione determinata ed i suoi occhi penetranti e indiavolati completano un’associazione metonimica con la baionetta, definendone l’uso mentre la musica amplifica l’inquietante scena. Un rapido montaggio mostra in primo luogo una strada stretta, dove l’uomo sta ora camminando verso la cinepresa. Nel passare di fronte alla macchina da presa si stringe la giacca come a nascondere qualcosa dalle dimensioni di una baionetta. In un secondo momento l’uomo è ripreso da dietro mentre si avvicina ad un grande e vecchio palazzo governativo, che appare in fondo allo schermo. Uno stacco, e l’uomo è ora all’interno dell’edificio mentre sale una scalinata illuminata da una grande finestra. Nel salire sul lato buio della scala l’uomo appare come una sagoma. Mentre procede verso il corridoio è ripreso nuovamente da dietro. Dall’alto delle scale il grandangolo mostra una larga entrata con un busto di marmo nero di Benito Mussolini. Dopo uno stacco, la cinepresa mostra l’uomo nell’atto di entrare con cautela nell’ufficio del presidente della Confederazione dei Professionisti e degli Artisti. Un altro stacco e un’inquadratura frontale mostra il presidente mentre sonnecchia con «Il giornale di Sicilia» aperto sulla scrivania del suo grande e buio ufficio. Con questo montaggio di brevi e rapide scene e tre panoramiche che seguono l’uomo nella piazza e all’interno del palazzo, il film di Amelio introduce l’assassino Tommaso Scalia con uno stile ricco di vitalità e padronanza cinematografica, che prende le distanze delle abituali serie televisive che gli italiani amavano guardare negli anni ottanta. Il regista sfrutta al massimo gli elementi cinematografici per accrescere il dramma, mentre il rapido montaggio suggerisce al pubblico la sensazione di inseguimento mentre Scalia si avvicina alla sua preda come un animale. Dopo una lunga attesa in seguito a Colpire al cuore del 1982, Amelio tornò al grande schermo con una piena maturità per quanto riguarda la commistione di generi e le tecniche cinematografiche. Nel descrivere i suoi film Amelio definisce Porte aperte un punto di svolta, dal momento che prima di questo non si era mai spinto oltre

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il minimo impegno necessario per realizzare un progetto. Amelio ammette che questo tipo di atteggiamento è comune in ogni genere di lavoro, ma dal momento che i registi devono confezionare film spesso su commissione che soddisfino i loro collaboratori, il rischio è maggiore. A volte l’esigenza di accettare dei compromessi trattiene un regista dall’investire il massimo delle energie in un prodotto che non sente completamente suo, anche a discapito della propria carriera. Traendo spunto dalla sua educazione rurale, Amelio compara il lavoro di regista a quello dell’agricoltore: Porte aperte è stato un progetto per lui gratificante, perché ha potuto seguire tutte le fasi di lavorazione, alla stregua di un contadino che ara, semina e vede crescere il frutto della propria terra13. Il suo impegno nel portare a termine un lavoro più che rispettabile si riflette nella maestria evidente in tutto il film. Dopo la sequenza d’apertura visivamente spettacolare e drammatica, il regista si serve di due tecniche diverse per introdurre i due omicidi. Dopo l’arrivo inaspettato di Scalia, l’avvocato Spadafora gli ordina di aprire la finestra per lasciar entrare un po’ d’aria all’interno della soffocante stanza. Una raffica di vento disperde sul pavimento le carte appoggiate sulla scrivania. L’avvocato rimprovera Scalia di non essere in grado di combinare niente di buono e gli ordina di raccogliere le carte e di andarsene, dal momento che sta aspettando alcune persone e gli ordina che non deve più farsi vedere nel suo ufficio. Scalia sembra abituato a ricevere ordini da un superiore ed obbedisce, pur lamentandosi di non poter abituarsi a non lavorare. In piedi di fronte all’avvocato, Scalia afferma che il suo licenziamento lo ha reso un capro espiatorio per tutti. Spadafora gli risponde che dovrebbe ritenersi fortunato di non essere finito in prigione e, con tono minaccioso, aggiunge che ha rubato troppo ed in malo modo. Spadafora ordina di nuovo a Scalia di lasciare la stanza, aggiungendo di andarsene da Palermo, così avrebbe liberato la città dai tipi come lui. Scalia obbedisce pieno di risentimento. Chiedendo perdono, si volta improvvisamente e colpisce l’avvocato alla schiena con la baionetta che aveva nascosto sotto la giacca. Il suo corpo copre quello di Scalia ed in un primo momento il pubblico vede solo la punta della lama e poi l’intera baionetta fra le mani di Scalia, accanto alla spalla. Scalia 13  Ibidem.

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asciuga il sangue dalla lama con un pezzo della mappa della Sicilia, di cui Spadafora stava ricomponendo i pezzi come un puzzle. L’intera sequenza è girata con brevi scene e rapidi montaggi. La scrivania su cui giaceva la mappa fornisce un punto di riferimento per un montaggio geometrico ottenuto con due carrelli incrociati. Il sangue non appare sulla vittima ma su un pezzo della mappa. Scalia ha distrutto il puzzle che Spadafora stava ricostruendo, come se con il suo gesto potesse distruggere la rete che Spadafora controllava rubando tanto e male. Il gesto assume anche un altro significato se riportato al tentativo del discorso interno al film di spostare la storia oltre la Sicilia allargando la visione della problematica affrontata, la specificità territoriale viene così rimossa dal gesto di Scalia. Dal punto di vista cinematografico la composizione geometrica della sequenza, basata su riprese essenziali, è un omaggio indiretto a Hitchcock. A partire dalla prima scena si procede con un’alternanza di generi dal film noir, al thriller, al film dell’orrore. I movimenti di Scalia, come quelli di un assassino che tende un’imboscata alla sua vittima, richiamano il genere giallo, ma allo stesso tempo il suo servilismo nei confronti di Spadafora richiama inaspettati elementi della commedia all’italiana. L’atmosfera da film noir è basata sul contrasto e la sovrapposizione di ombre, suoni, espressioni facciali, e lievi gesti: l’arroganza dell’avvocato contrastava con l’iniziale espressione di sottomissione di Scalia, tramutatasi successivamente in sfida. Il fascino della scena è ottenuto anche grazie agli elementi poco realistici che conferiscono significato simbolico agli eventi, i quali precipitano con la raffica di vento. La complessità cinematografica ha molto poco in comune con i film italiani del tempo ambientati in Sicilia i cui personaggi sono carichi di tic comportamentali siciliani. Porte aperte non accentua gli stereotipi siciliani sulla mafia e sui siciliani, ma piuttosto presenta Spadafora e Scalia come due impiegati del governo ugualmente corrotti. Scalia era stato licenziato non per la sua disonestà, ma per la sua incompetenza nell’essere disonesto. Entrambi sono parte di un sistema corrotto, rinforzato dal Corporativismo che non permetteva la competizione. Durante l’intera sequenza Scalia è ripreso di fronte o mentre cammina davanti a Spadafora, come a rinforzare i loro destini comuni ed il fatto che ognuno rispecchia l’altro. Questa

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unione è proclamata dalle immagini del re d’Italia e di Mussolini, appese alla parete una accanto all’altra e riflesse sulla scrivania di Spadafora: i due responsabili di ciò che stava accadendo nell’Italia fascista, dopo che i partiti d’opposizione erano stati eliminati e la pena di morte reintrodotta per sradicare i dissidenti politici. Ora nel corridoio Scalia ignora i saluti servili degli impiegati che si inchinano chiamandolo per nome, sullo stile della commedia all’italiana. Scalia entra in quello che era stato il suo ufficio ed il nuovo impiegato, Antonio Speciale, si alza dalla sedia muovendosi in modo comico e remissivo mentre si discolpa spiegandogli di non aver niente a che fare con il suo licenziamento. Servile e spaventato, Speciale chiede a Scalia di aiutarlo con gli schedari, confessando la sua incompetenza nel nuovo lavoro. Questo scambio allude direttamente alla corruzione della confederazione, dove i portaborse sono impiegati non tanto per svolgere i loro compiti, quanto per entrare a far parte di un sistema sotterraneo che controlla e protegge il furto e la prostituzione, come il processo rivelerà presto. Scalia accetta di aiutarlo e Speciale gli dice di chiudere la porta per non essere visti da altri. La cinepresa da fuori la porta non riesce a mostrare ciò che accade all’interno prima della dissolvenza. Tuttavia la musica induce lo spettatore a sospettare il peggio. Il vetro scuro della porta che la vittima voleva chiusa nasconde il crimine e protegge il criminale. Il preludio del film introduce gli eventi da cui dipende tutta la trama e la metafora che occupa il centro del suo discorso: le porte aperte. Il regime totalitario cerca di illudere i cittadini che la pena capitale garantisce sicurezza e protezione, grazie alle quali possono permettersi di dormire con le porte aperte. Tommaso Scalia ha ucciso due persone, pertanto merita di morire. La gente deve applaudire l’esecuzione, nonostante i fatti realmente accaduti ed il movente rimangano oscuri. Il processo fungerà da conferma alla giustizia e all’integrità dello Stato. Prima della sua morte, Spadafora rivela il concetto base secondo cui la confederazione operava: l’avidità e la stupidità di Scalia disturbava il suo ordine corrotto. La porta chiusa al pubblico simbolizza il contrario delle dichiarazioni del governo: le porte sono chiuse perché servono a nascondere un sistema corrotto fondato sul nepotismo, sull’omertà e sulla paura. Mentre la cinepresa lo segue, Scalia entra nell’edificio ed attraver-

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sa porte e corridoi dall’esterno verso l’interno, mostrando perfino i materiali di cui sono fatte le porte. Alla vista di Scalia, Spadafora gli chiede come sia entrato e chi l’abbia fatto entrare. Nonostante il motto, l’avvocato vuole tenere la porta chiusa a chiave per evitare visite inaspettate. Ironicamente la porta chiusa agevola Scalia nel commettere l’omicidio dal momento che, come dirà al giudice, una baionetta non fa rumore. Amelio suggerisce che le porte sono semplicemente una metafora per delimitare lo spazio, mentre alcuni le utilizzano per nascondere la corruzione e condurre affari illegali. Scalia si avvale della protezione offertagli dalle porte chiuse per uccidere. Apparentemente ha violato la politica delle porte aperte, ma in realtà nel momento in cui il vetro oscura il secondo omicidio, la porta impedisce al pubblico di vedere come i due crimini si svolgano. Quando Scalia esce dal palazzo governativo, il cancello dell’entrata principale si chiude dietro di lui, come ad indicare non solo l’esclusione immediata, ma anche il suo imminente arresto e la conseguente esecuzione. Il cancello allude alle sbarre della cella e all’entrata dei cimiteri, proseguendo la metafora delle porte.

Fuori è sicuro? L’azione si sposta all’esterno. Con un carrello laterale ed una panoramica, la cinepresa segue Scalia fino ad una macchina. Sua moglie lo sta aspettando accanto al veicolo. La donna è arrabbiata e, una volta salita, lo rimprovera di averla fatta aspettare più di un’ora in mezzo alla strada. La moglie è preoccupata di quello che penserà la gente avendola vista. La sua preoccupazione ironizza sulla sua paranoia nei riguardi della gente, mentre lei è sposata con un uomo che commette atti illeciti e la forza a prostituirsi, e sulla priorità dell’apparenza, come l’illusione delle porte aperte. Mentre se ne vanno la moglie si lamenta della velocità, che teme possa danneggiare la macchina. Lui le risponde di non preoccuparsi della macchina, dal momento che in seguito al suo licenziamento non se la può più permettere e la accusa amaramente e sarcasticamente di essersi divertita a fare la signora. Per sminuirla comincia a toccarla fra le gambe. Lei protesta e gli grida con risentimento che è un bastardo,

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aggiungendo che la sua battuta non fa ridere nessuno. Scalia insiste nel tirarle i vestiti e, giunti in mezzo alla campagna, ferma la macchina e la insegue mentre lei cerca di scappare. Una volta raggiunta la violenta e poi urina contro un albero con un’espressione indiavolata. Una volta riallacciati i pantaloni torna da sua moglie, la quale sta pregando di fronte ad un capitello, e le spara. L’intera scena dello stupro è girata in una ripresa molto lunga e sia la violenza che l’omicidio sono ripresi da lontano. Il pubblico sente le grida della donna e l’ansimare di Scalia. La scena successiva si svolge dentro la casa dell’assassino. Un ragazzino siede al tavolo della cucina e versa del latte in una pentola appena lavata. La macchina da presa mostra la porta con il catenaccio aperto. Scalia entra e senza rivolgergli la parola si dirige in camera sua, posa la pistola in un cassetto e si sdraia sul letto esausto. Il ragazzino entra e racconta al padre che il gatto è scappato. Scalia gli chiede se abbia mangiato ed il figlio risponde di aver mangiato pomodoro, pane, sale e zucchero. Amelio ha spesso rivelato di utilizzare la propria esperienza personale nel caratterizzare giovani personaggi poveri. Qui Leonardo mangia quello che Amelio era solito mangiare durante la sua infanzia in Calabria. Scalia gli domanda se abbia preso le sue medicine. Il ragazzo nega spiegando di aver rotto la boccetta e lo prega di non dire nulla alla madre al suo rientro. Leonardo aggiunge di aver perso un altro dente e chiede dei soldi come da tradizione. Scalia acconsente e lo abbraccia così forte che il ragazzo è costretto ad allontanarsi per il dolore. La breve sequenza rivela un lato più umano di Scalia prima che tutti lo proclamino “il mostro di Palermo”. Durante lo scambio di battute Scalia non sorride e non si muove dal letto e alla notizia della scomparsa del gatto risponde che ha fatto bene, come se invidiasse la libertà dell’animale ed amirasse la sua ‘ribellione’. Al termine della sequenza la cinepresa, che prima riprendeva Scalia steso sul letto dal lato sinistro, si alza per riprenderlo verticalmente, poi si allontana scendendo lentamente fino a che la pediera del letto copre tutto lo schermo. Un secondo prima che l’immagine si faccia buia, nello scorgere Scalia con le braccia lungo i fianchi il pubblico ha l’impressione di vedere un corpo dentro ad una bara. Oltre alle evidenti qualità visive, l’immagine introduce la scena successiva durante il processo, traccian-

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do un’associazione metonimica con la sua esecuzione. Dal punto di vista cinematografico l’inquadratura rende omaggio alla ripresa di Francesco Rosi del corpo senza vita del bandito Salvatore Giuliano nell’omonimo film del 1962 e all’inquadratura del cadavere di Ettore in Mamma Roma (1962) di Pier Paolo Pasolini.

L’inizio del processo Si sente bussare alla porta e la cinepresa esegue una panoramica verso destra accompagnando il giovane che va ad aprire. La scena finisce in dissolvenza ed uno Scalia ammanettato visto da dietro, viene condotto da due carabinieri in una cella all’interno dell’aula di tribunale. La folla gli urla che è un assassino e che merita di morire senza processo. L’udienza comincia tra una folla chiassosa che continua a proferire insulti. L’ordine ed il silenzio vengono ristabiliti prima che il presidente della corte faccia il suo ingresso. La cinepresa si muove lentamente, fermandosi brevemente su Sanna, il presidente, e poi sul giudice (Volonté). Dopo le formalità iniziali l’imputato è chiamato a deporre ed il suo avvocato, che appare esitante ed intimidito, lo rassicura e lo invita ad essere umile. Non appena gli vengono tolte le manette, Scalia si alza in piedi di fronte alla corte e chiede al presidente il permesso di parlare. L’imputato estrae un foglio di carta dalla manica e dichiara che quelli che erano solo presagi di inefficienza e tradimento hanno preso ormai il sopravvento nella rivoluzione fascista e nessuno ha fatto niente per fermarli. Il presidente Sanna ordina immediatamente che il foglio di carta venga sequestrato. Scalia prosegue il suo discorso a memoria dichiarandosi un vero fascista dall’inizio del movimento. A causa della sua fede nel duce e in Dio è stato obbligato ad accucciarsi come un cane nel terribile travestimento di un pubblico ufficio, ma dal momento che quelli al comando erano corrotti, il cane è riuscito alla fine a strappare un pezzo della loro carne marcia. Il presidente ordina di allontanare Scalia dall’aula. Scalia continua a dichiarare di aver commesso i crimini pur sapendo di finire in un’aula di giustizia. L’imputato dichiara di essere pronto ad affrontare la squadra d’esecuzione senza paura e proclama il suo desiderio di svergognare i falsi fascisti.

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Durante la filippica di Scalia la cinepresa mostra il volto impenetrabile del giudice, lo sgomento dell’avvocato difensore, la collera del presidente della corte e l’indifferenza della parte lesa. Scalia ha confessato pubblicamente e ha chiesto la pena capitale. Da buon fascista acclama la legge dello Stato come giusta punizione per le sue azioni. Anche la folla vuole che sia giustiziato per i crimini commessi. Le azioni e le dichiarazioni di Scalia confermano il suo carattere contraddittorio, ma allo stesso tempo non lasciano dubbi in merito alla sua esecuzione da parte dell’opinione pubblica e dello Stato, il quale sollecita una sentenza rapida per rinforzare la sua posizione in merito alla legge e all’ordine. La sua folle accusa contro i sospetti di inefficienza pubblica ha un impatto sul giudice e sul Ministero della Giustizia per diverse ragioni. La sequenza successiva mostra il riflesso del dibattito pubblico sulle vite private dei protagonisti. In una casa buia la cinepresa mostra con una panoramica una collezione di conchiglie ed il presidente Sanna che esamina con delle lenti d’ingrandimento alcuni nuovi pezzi appena giunti dall’Oceano Indiano. Le porte chiuse e scure dimostrano conformità con l’ordine dello Stato in merito alla massima segretezza. Una donna entra e Sanna le dice in dialetto siciliano di non disturbarlo, ma lei insiste che il giudice Vito Di Francesco è lì per vederlo assieme alla figlia Carmelina di dieci anni. Sanna lo saluta caldamente chiamandolo per nome e lo invita a sedersi. La confidenza tra loro è sottolineata da una breve scena in cui la moglie di Sanna invita Carmelina a sedersi in soggiorno, dove avrebbe incontrato una giovane donna a cui sarebbe piaciuta. Prima di lasciare le due giovani ospiti da sole la donna di casa comunica che la cena sarà pronta a breve. Questi dettagli sono utili al pubblico per comprendere il cambiamento nella relazione fra il giudice ed il presidente Sanna nel corso del processo. Nel frattempo Vito sta leggendo una lettera che Sanna ha ricevuto dal Ministero della Giustizia, con la quale si richiede un processo veloce e la pena di morte per Scalia, affinché sia d’esempio. Vito si sofferma sulla frase in cui si afferma che il trionfo della giustizia fungerà da esempio, da ammonimento e da sprone. Con sguardo perplesso chiede a Sanna il significato di tali parole ed il presidente minimizza la loro importanza dicendo che sono solo un invito a

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lavorare in maniera efficiente. Vito è sbalordito nel constatare che hanno già raggiunto la sentenza. Sanna risponde che i criminali scrivono le loro stesse sentenze e che il vero scandalo non risiede in ciò che Scalia ha letto alla corte, ma nel fatto che il ministro non perde occasione per mostrare il suo zelo. Sanna chiede a Vito un’opinione sull’esito del processo ma Vito non si esprime, dal momento che è appena cominciato. Sanna gli dice che può considerarsi già concluso e che sono appena stati invitati a compilare le carte. Per giustificare la sua posizione aggiunge che i malfattori dovrebbero essere uccisi se minacciano la legge e l’ordine, citando Tommaso D’Aquino a supporto della sua tesi. Risulta chiaro che per Di Francesco il processo è appena cominciato e intende investigare tutti i fatti precedenti ai tre omicidi. La sua posizione è in diretto conflitto con quella dello Stato, che si è già proclamato parte lesa. Terminata la discussione a porte chiuse, fuori è già buio. Di Francesco e Carmelina camminano verso casa. Entrano in casa e mentre si preparano per andare a letto Carmelina racconta la favola di una bambina furba che aveva rovesciato il sapone nel lago e chiede al padre di indovinare come l’avesse punita il principe. Vito cerca di indovinare ma dopo due tentativi sbagliati Carmelina gli dice che alla bambina cattiva era cresciuta una coda d’asino. Carmelina afferma che il principe ha punito giustamente la cattiva facendola diventare così brutta da non poter uscire di casa per la sua cattiveria, ed aggiunge che le persone cattive dovrebbero essere brutte mentre quelle buone dovrebbero essere belle. Carmelina, nonostante sia ancora piccola, sembra sulla via per conformarsi al resto degli adulti raffigurati nel film, ad eccezione del padre: conformisti, pronti a compiacere le autorità, ma soprattutto pronti a giudicare gli altri dall’apparenza. La scena è in contrasto con quella di Scalia e Leonardo: l’assassino abbraccia disperatamente il figlio, mentre il giudice sorride divertito al racconto della figlia. Anche le maniere di Carmelina e la sua presunzione sono in contrasto con il piccolo Leonardo, che appare fragile e trascurato dai genitori. I commenti e le conclusioni di Carmelina sulla gente brutta si possono applicare a Leonardo, il quale vive mangiando pomodori, pane, sale e zucchero, deve assumere medicine ed ora è un orfano indesiderato. Leonardo sembra

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rappresentare il povero nella favola a conferma degli stereotipi della comunità: ha perso un dente, il gatto ed i genitori, appare trasandato (la favola comincia con del sapone buttato) e parla in dialetto. Di conseguenza secondo il discorso di Carmelina dovrebbe essere considerato cattivo. Dopo l’arresto del padre Leonardo è rifiutato da tutti, una punizione meritata per essere brutto e cattivo, secondo la percezione dei giurati della corte e dalla società in generale. Dopo che Carmelina è andata a letto, il giudice guarda le fotografie delle vittime. Le prime due sono state colpite vicino al cuore. Rosa, la moglie di Scalia, è invece stata colpita all’occhio e la sua faccia è sfigurata. Il pubblico vede le fotografie, probabilmente scattate dal coroner, e questa volta la violenza del mostro di Palermo è evidente. Il discorso cinematografico sulla pena di morte è chiaramente indirizzato al pubblico esterno, dal momento che gli spettatori del processo all’interno del film hanno già raggiunto un verdetto. La vista delle atrocità provoca reazioni diverse. Per alcuni, come per il pubblico che partecipa al processo, le fotografie rinforzano il desiderio di vedere Scalia giustiziato. Per altri, come il giudice, la pena di morte rimane un atto che va contro i loro principi morali, nonostante la ferocia dei crimini. Questa posizione rappresenta il messaggio del film. Il terzo effetto, che fa parte della strategia di Amelio, è quello di eliminare qualsiasi sentimento di simpatia per Scalia, rendendo la discussione sulla pena di morte strettamente morale ed umanitaria. Ironicamente in casa di Vito Di Francesco le porte non oscurano il massacro. Il giudice vuole vedere. Nella seconda sequenza in aula Scalia è di fronte al presidente della corte mentre esamina la pistola con la quale è stata uccisa la moglie. Il giudice Di Francesco vuole che Scalia gli spieghi la ragione per cui ha usato due armi diverse per commettere i crimini e quando abbia deciso di uccidere la moglie. L’accusato è inizialmente insolente e pieno di sé. Successivamente perde il suo temperamento e vuole tornare nella sua cella dopo aver raccontato al giudice di aver ucciso la moglie perché era una strega, un’arpia che non lo ascoltava. Il giudice conclude che Scalia aveva progettato l’omicidio da tempo e che il suo comportamento sembra giustificare una perizia psichiatra. La giuria vota in merito alla perizia mentre il presidente si astiene. Alla fine della seduta Consolo, il giurato che ha votato

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contro la valutazione psichiatrica, si avvicina al giudice commentando gentilmente che la decisione a favore della perizia è un errore, dal momento che nemmeno l’avvocato della difesa ne ha fatto richiesta. Di fatto il giudice sta cercando una via legale per evitare la pena di morte facendo giudicare l’imputato incapace di intendere e di volere. Per rompere la barriera di sospetto tra loro, Consolo racconta al giudice che da giovane era solito comprare il pane al panificio di suo padre, ma il silenzio di Di Francesco lo mette a disagio. Le loro espressioni facciali riflettono la società in cui vivono, dominata dalla paura, dal sospetto e dalla corruzione. Consolo è prudente e sottomesso. Il giudice è freddo e formale mentre il suo volto austero e gli occhi penetranti rivelano il disprezzo che prova nei confronti del giurato. La loro conversazione è girata in una sola ripresa. La scelta di questi attori è perfetta, non solo per i loro stili differenti ma per i loro volti e fisici fortemente contrastanti. Il volto del giudice scuro, ossuto e stanco dimostra la lotta che sta affrontando e suggerisce la sua forza interiore. Il viso paffuto, con la barba e cordiale di Consolo definisce la sua personalità e la sua semplicità. La sue maniere timide ma naturali mentre si rivolge al giudice rivelano la sua curiosità e la mancanza di timore. La recitazione dei due attori conferma l’idea di Amelio in merito all’importanza della scelta degli interpreti per un ruolo. Per Amelio un buon casting costituisce l’ottanta percento del lavoro. Il regista è interessato a scoprire le loro emozioni piuttosto che a mettere in evidenza le loro tecniche recitative14. Nel romanzo di Sciascia, Di Francesco proviene dall’alta borghesia mentre il giurato cura una fattoria, pur non essendo realmente un contadino. Nella versione di Amelio il giudice è figlio di un panettiere, dettaglio che aumenta l’ammirazione del pubblico nei suoi confronti e nei confronti della sua lotta per la rettitudine e i principi, dal momento che non teme di perdere la posizione conquistata con tanti sforzi. Nell’Italia fascista solo il due percento della popolazione riusciva ad ottenere una laurea. Di Francesco interferisce non solo con gli interessi della confederazione, ma anche con lo Stato e con il sistema sociale chiuso che vuole conservare i propri privilegi. Tale preoccupazione è confermata dal presidente Sanna, il quale, preoccupato di perdere la posizione che deteneva prima dell’ascesa 14  Citato in Lardea, Gli attori sono come colori, cit., p. 8.

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di Mussolini, si adopera per convincere il giudice a desistere dal suo futile tentativo di evitare la tanto auspicata pena di morte. Nonostante il presidente lo abbia accolto sotto la sua ala, Di Francesco resiste testardamente. Il giudice si oppone anche al padre, il quale si aspetta di ricavare dei privilegi dall’educazione del figlio e dalla posizione sociale acquisita di recente.

Morte in famiglia Il commento di Consolo sul padre di Vito serve a introdurre Bagheria, la città natale di Vito. Di Francesco è in un cimitero soleggiato, dove un uomo anziano è inginocchiato ai piedi di una tomba mentre riempie un vaso di fiori. Vito si avvicina da dietro e lo saluta chiamandolo papà. L’uomo non si volta e Vito si rivolge a lui rispettosamente chiamandolo Don Michele. Vito appare felice, scherzoso e premuroso nei confronti del padre, il quale gli porge dei fiori da sistemare sulla tomba della moglie. Don Michele, con baffi e bastone e dal fisico energico nonostante l’età, si lamenta del fatto che la loro è l’unica famiglia a non essere sepolta assieme. Guardando una cappella più grande esprime la sua ammirazione per il proprietario, il quale ha provveduto a far riposare tutta la sua famiglia unita per sette generazioni. Poiché Vito mostra disinteresse, il padre esprime la sua disapprovazione, affermando che Vito potrebbe provvedere a ciò che lui ritiene una necessità, scrivendo una lettera al Podestà per ottenere delle nuove tombe e dove riposare in pace tutti assieme. Vito risponde che è meglio attendere il proprio turno. La disapprovazione di Don Michele adesso si rivolge al vestito sgualcito di Vito, lo stesso che indossava nella sua visita precedente. Il padre lo rimprovera dicendogli che dovrebbe prestare più attenzione a come si presenta, dal momento che la gente è molto attenta alle apparenze. Uscendo essi scorgono a distanza un uomo che si avvicina. Don Michele esorta il figlio ad occuparsi della questione ma dice al nuovo arrivato che Vito si farà carico della faccenda a tempo debito. Il padre spiega al figlio che l’uomo, uno poco perbene, ha un fratello in prigione che non è ancora stato sottoposto a giudizio e vuole che Vito si occupi del caso. L’uomo si scusa per averli disturbati in cimitero

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e si difende affermando che la gente perde la dignità nel momento del bisogno. Don Michele, il quale ha appena spronato il figlio ad accelerare la sua richiesta di una nuova tomba di famiglia, non trova correlazioni con la richiesta dell’uomo e si limita a ripetere ciò che Vito gli aveva risposto precedentemente, ovvero di lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche se qui ha un significato etico contrario. Don Michele non vuole che Vito si lasci coinvolgere, non in quanto contrario al familismo, ma perché quell’uomo e l’avanzo di galera del fratello rischiano di rovinargli la reputazione. Don Michele sembra seguire la morale della favola di Carmelina. Vito si ferma e si volta a guardare l’uomo con dolore e comprensione sul volto, mentre il padre si lamenta della mancanza di rispetto verso un luogo sacro come il cimitero. Ironicamente molte delle fucilazioni per le condanne a morte in quel periodo venivano eseguite contro muri posteriori dei cimiteri. In segno di rispetto per il padre Vito non rivolge la parola all’uomo, il quale rimane a distanza come a chiedere giustizia di fronte a un giudice. Il conformismo e l’indifferenza di Don Michele nei confronti dei meno fortunati si ripetono durante il pranzo domenicale. L’intera famiglia siede attorno al tavolo, con Don Michele a capotavola, mentre mangiano una cassata siciliana fatta in casa. La cinepresa fa una lenta panoramica sulla famiglia, poi si ferma lentamente sui loro volti tristi, specialmente quelli delle donne, che lottano per nascondere il disagio, il risentimento ed altre emozioni represse. Per introdurre ognuno degli adulti, la macchina da presa stringe a mezza distanza mentre ognuno di loro esprime la propria opinione sul processo di Scalia, che, come prevedibile, è il tema centrale della conversazione. Il capo famiglia afferma che Vito ha richiesto la perizia psichiatrica per dimostrare la propria scrupolosità. Quando l’accusato verrà giustiziato, il giudice guadagnerà la stima di tutti per aver seguito la legge con meticolosità. Il cognato di Vito, al contrario, esprime il pensiero della maggioranza definendo il processo una perdita di tempo e uno spreco di soldi degli onesti cittadini, poiché l’assassino merita la pena capitale. L’unica donna non sposata rimane in silenzio seduta al tavolo, atteggiamento tipico delle donne in una società patriarcale. Il nipote di Vito deride i suoi nuovi orecchini, regalo che Vito le ha portato dalla

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città, e vuole sapere se siano d’oro: il valore monetario e l’apparenza hanno più valore del gesto gentile del regalo. Mentre lei se li toglie la madre del ragazzo rimprovera il marito per non aver rimproverato il figlio per tale osservazione. I due chiedono poi al ragazzo di leggere un tema sulla famiglia scritto a scuola. Il tema parla sia dei vivi che dei morti. Nella sua lista Carmelina non ha nome mentre Vito è esaltato ancor più del suo titolo di Eccellenza, dal momento che sta presiedendo il processo a Scalia. La cinepresa mostra Don Michele mentre guarda orgoglioso davanti a sé e Vito che ascolta in silenzio sia la conversazione sul processo che il tema del ragazzo. La sua espressione rivela il suo disagio di fronte al conformismo e alla mentalità piccolo borghese della famiglia. Vito disapprova le idee all’antica espresse dal padre e dal cognato. La sequenza rivela la costernazione e l’isolamento che le persone come Vito provano nei confronti delle richieste di una famiglia tradizionale di mentalità conservatrice, tema che emerge in tutti i film di Amelio. Carmelina fa di nuovo sfoggio del suo zelo virtuoso correggendo l’italiano scorretto della zia. La conoscenza utilizzata non tanto come mezzo di emancipazione quanto come strumento di oppressione e derisione è un altro tema caro ad Amelio. Questa scena a tavola e la disposizione dei vari famigliari, con Vito e il padre l’uno di fronte all’altro a capo tavola, con i famigliari intorno alla tavola bandita a festa, si oppone e assume un significato dialettico rispetto alla tavola vuota e spoglia che si trova nell’ospedale per vecchi che ospita l’ormai orfano Leonardo Scalia che rifiuta di mangiare e usa una chiave per graffiare la parete, chiuso in un silenzio ostile. La perizia psichiatrica La discussione sulla perizia psichiatrica ci porta all’interno dell’infermeria carceraria. La cinepresa segue Vito mentre osserva l’esame attraverso le sbarre. In un’abile giustapposizione il pubblico vede gli sguardi immobili di Di Francesco e Scalia. Dal punto di vista del detenuto anche il giudice appare dietro alle sbarre. La scena commenta in maniera visiva il sentimento di imprigionamento di Vito: dopo la conferma della sanità mentale di Scalia, Vito è ob-

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bligato a richiederne l’esecuzione. Entrambi sono estraniati da una società che esclude coloro che la pensano in maniera diversa e sono diversi. Il confronto tra il giudice e l’imputato non ha una ragione giuridica ma appartiene al procedimento di Amelio che attraverso azioni non precise e anche irrazionali oppure singoli gesti si arrivi a capire un personaggio e a definirlo. Durante le riprese Amelio ebbe delle difficoltà nel convincere Volonté in merito alla necessità della scena. Come affermò Amelio, l’incontro tra il giudice e l’assassino aveva l’obiettivo di raccontare due solitudini in contrasto dialettico. Il film è costruito sull’antagonismo dei due caratteri dei personaggi principali che ci viene mostrato attraverso scene in contrapposizione: il detenuto nella cella e il giudice in cucina, il primo che abbraccia il figlio e il secondo che stringe la mano della figlia. Si trattava di un gioco di corrispondenze che Volonté giudicava interessante, ma che sviava l’attenzione dal tema principale della pena di morte15. La sensazione di intrappolamento e di isolamento di Vito è reiterata durante la sua conversazione con Consolo. La breve sequenza è girata con i due attori faccia a faccia seduti al tavolo di un bar in uno scambio molto emozionale. I due non si fidano ancora l’uno dell’altro e Consolo avverte Vito che le sue idee sono pericolose per i tempi difficili in cui vivono. Vito dimostra la sua contrarietà al giurato rispondendo che in qualità di giudice agisce secondo i dettami della sua professione. Di nuovo nell’aula di tribunale, Di Francesco sta interrogando tutti i testimoni che hanno lavorato per Spadafora. Dal direttore del personale vuole sapere la ragione per cui Scalia era stato licenziato solo poco tempo prima, nonostante avesse rubato per cinque anni, durante i quali gli era stata addirittura promessa una promozione. Anziché fornire spiegazioni, l’intimidito e sudato direttore abbassa la testa e con un rapido gesto circolare delle mani, che denota vergogna e colpevolezza, e risponde che quando è troppo è troppo. La scena termina con la macchina da presa ferma su Scalia dietro le sbarre che sorride soddisfatto. L’espressione dell’accusato cambia quando il contabile, chiamato a deporre, non sa spiegare un trasferimento di denaro dalla federazione all’ospedale, che anche l’avvocato Spadafora, prima 15  Volpi, Gianni Amelio, cit., p. 131.

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vittima di Scalia, aveva disposto. Dalla sua cella Scalia solleva la folla contro il giudice, accusandolo di volersi mettersi in luce a sue spese. Voci dalla folla avvertono che anche i giudici possono pagare un prezzo se denigrano dei galantuomini e favoriscono i malfattori. In mezzo al tumulto la vedova Spadafora, la marchesa Anna Pirotta, è chiamata a testimoniare. Mentre entra cala il silenzio. Per la prima volta Scalia abbassa la testa nel momento in cui la vedova passa davanti alla cella. Anche il presidente della corte è ossequioso nei suoi confronti. Di Francesco la incalza con delle domande. La donna si contraddice due volte ed il giudice le ricorda di essere sotto giuramento. Quando mostra segni di stress e debolezza, Sanna la lascia andare aggiornando la sessione. La folla protesta contro le domande di Di Francesco che mirano a scoprire che cosa si nasconda dietro l’omicidio e invoca la pena capitale. La gente ritiene che il giudice stia portando alla luce fatti irrilevanti che dovrebbero essere lasciati segreti o discussi a porte chiuse, come nella scena seguente con Sanna. La sequenza si apre con Sanna che si lava le mani, gesto che assume un significato sia letterale che metaforico, dal momento che sta convocando Vito per criticare il modo in cui sta conducendo il processo. Sanna chiude la finestra, si accerta che il suo assistente non stia ascoltando dietro la porta e ricorda a Vito di essere prudente perché le sue azioni in aula stanno causando tumulto. Durante il loro incontro i fascisti hanno organizzato una dimostrazione fuori dal tribunale per protestare contro lo svolgimento del processo e invocare l’esecuzione immediata di Scalia. L’incontro è artisticamente ben costruito, con rapidi stacchi tra Di Francesco, il quale rifiuta di arrendersi, e Sanna, che evita di sedersi e di guardare Vito per rinforzare la sua disapprovazione e porre una distanza tra sé e la posizione del giudice. L’atmosfera, la recitazione e i movimenti della cinepresa danno l’impressione al pubblico che Vito sia l’imputato chiamato a testimoniare contro se stesso di fronte al presidente della giuria. Con la scusa che si è fatto tardi e che deve andare a prendere sua figlia Vito se ne va. Nella via d’uscita Vito incontra la sua vecchia insegnante delle elementari, la quale lo invita a casa sua. La maestra elogia la sua condotta in tribunale e la sua testardaggine, tratto tipico del suo carattere fin da bambino.

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Vito si reca all’ospedale per anziani dove è stato relegato Leonardo, il figlio di Scalia. Una cinepresa posizionata in cima ad un’ampia gradinata inquadra in basso un grande crocefisso sul muro posteriore, a commentare il sacrificio di Cristo per l’umanità e il rifiuto di Leonardo da parte dei suoi parenti e della società, incluse le istituzioni religiose. Un’anziana suora zoppicante informa Di Francesco sulla situazione del ragazzo mentre salgono le scale. Il giudice cerca di mettere a suo agio Leonardo parlandogli in dialetto, ma il ragazzo distoglie gli occhi e graffia il muro con una chiave, convinto del fatto che il padre sia già morto. Di Francesco, sopraffatto, può solo constatare quanto ancora sia piccolo e cerca di rassicurarlo sul fatto che nessuno toccherà suo padre. Questa scena, quella in cui Scalia abbraccia Leonardo in seguito ai tre omicidi e l’incontro fra Scalia e il giudice durante la perizia psichiatrica appartengono alle azioni e alle scene che potrebbero apparire prive di una connessione logica ma che Amelio volle nel film a tutti i costi perché sono parte della sua poetica del contrasto. Dal punto di vista tematico queste scene forniscono anche una chiave di lettura diversa di altri incontri. Fra questi, per esempio, l’incontro di Vito con Don Michele o con Carmelina. In quest’ultimo il suo racconto della favola sulle persone cattive contrasta con il silenzio e l’isolamento di Leonardo, segnale del zelante conformismo della bambina e del disadattamento del ragazzino. Il dolore del giudice alla vista del ragazzino risuona con quello dello spettatore e solleva serie questioni riguardo alle ripercussioni dei giudizi e dei valori morali sui più deboli. Questa scena contiene un’altra importante innovazione cinematografica: l’utilizzo da parte di Vito del dialetto palermitano mentre parla con il ragazzo. La maggior parte dei film girati in Sicilia negli anni sessanta, settanta e ottanta utilizzano il dialetto di Catania, considerato il più accessibile al pubblico italiano. Seguendo una tendenza iniziata da Pietro Germi e continuata da Lina Wertmüller, Vito e Leonardo parlano nel dialetto che conoscono. Inoltre, al fine di identificare Vito come uomo comune tra la gente, il film è fedele alle tradizioni del luogo, senza mettere al primo posto la convenienza per il pubblico. Mentre esce dall’ospedale Di Francesco parla con un vecchio, il quale gli racconta che il ragazzino aveva detto che non era stato il padre ad uccidere la madre, ma una guardia in uniforme

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con dei grandi bottoni luccicanti. La loro breve conversazione avviene nel loro dialetto. Da un luogo di esclusione e solitudine, dove gli anziani o non possono parlare o barattano informazioni con un sigaro e Leonardo è stato lasciato crescere meditando vendetta, il film si sposta ad un altro mondo, anch’esso abitato da anziani. Vito fa visita alla sua vecchia maestra. Lei lo accompagna all’interno di una stanza privata e chiude la porta. Lì la marchesa Spadafora lo sta aspettando. Vestita con un abito nero, cappello e velo a dimostrazione del suo lutto, la vedova è ora disposta a rispondere a tutte le domande del giudice, mentre in aula deve proteggere il marito ed il buon nome della famiglia. Il potere, la corruzione e i privilegi utilizzati per nascondere la verità e mantenere le apparenze contrastano con le verità sull’esclusione e l’insensibilità evidenti in ospedale. Vito rifiuta di parlarle. Il giudice non può avere contatti con coloro che sono coinvolti nel processo e rifiuta ogni tipo di complicità con individui che pretendono di raggirare la legge per salvare il proprio onore. La vedova ricorda al giudice di non parlare male dei morti e di punire gli assassini come richiede la legge. Ironicamente aveva appena detto a Di Francesco che le leggi non hanno senso per la gente della sua condizione, che è in grado di adattarla ai propri scopi. Mentre se ne va un bambino nota Vito e avverte l’autista della vedova, il quale offre un passaggio al giudice in un ulteriore tentativo di corromperlo e screditarlo pubblicamente. Mentre cammina Vito si volta a guardare i bottoni dorati della giacca dell’autista, come indizio di ciò che accadrà successivamente.

Il verdetto Nella terza scena in aula l’autista è chiamato a testimoniare. Inizialmente l’uomo non vuole cooperare e diverte la folla affermando che un buon autista non vede e non parla. Dopo le minacce d’arresto del giudice, l’autista confessa che Spadafora era solito incontrare la moglie di Scalia a casa di Speciale, seconda vittima dell’omicida. La sessione si conclude ed il giudice sembra avere sufficienti prove per collegare i tre omicidi ad un unico movente: sopraffatto dalla pas-

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sione o dalla gelosia, Scalia li ha uccisi per salvare il proprio onore o il proprio nome, tutte motivazioni che escluderebbero la pena di morte. Scalia si sente intimorito da questa vittoria del giudice e minaccia di ucciderlo qualora riuscisse a scappare. Durante la deposizione dell’autista la cinepresa inquadra Scalia, il quale per la prima volta anziché avere uno sguardo minaccioso e di sfida dà le spalle alla giuria come a nascondere la faccia o salvare l’onore. La minaccia di Scalia si ripete in modo sottile ma più credibile in un elegante ristorante in cui il presidente Sanna ed un ministro mandato dal governo cenano con Vito attorno ad un elegante tavolo. La discussione sembra civile e cordiale, ma è chiaro che sono lì per convincere il giudice che la pena capitale è una misura necessaria per liberare la società dai delinquenti. La gente onesta desidera vivere in maniera comoda e sicura al punto da poter dormire con le porte aperte. Vito risponde fermamente di chiudere sempre le sue porte. Il ministro afferma che Sanna ha un’alta considerazione di lui. Quando il presidente andrà in pensione Vito potrebbe prendere il suo posto. Il giudice è impassibile. Vito decreta la fine della sua carriera affermando di non credere nella pena di morte e di non poter mai riuscire a far sparare a nessuno. La minaccia di Scalia verrà ora portata avanti dal governo, che farà retrocedere Di Francesco in grado e lo trasferirà in una sorta di esilio forzato a servire in un tribunale di campagna. Dall’interno la cinepresa mostra un terrazzo che dà sul mare, una grande tenda bianca che si gonfia con il vento, che fa pensare ad un omaggio al telone usato per il cinema all’aperto, e Vito che sonnecchia su una poltrona con un giornale sul grembo, mentre la figlia gioca vicino alla ringhiera. Il mare calmo e la tranquillità di un pomeriggio in spiaggia sono interrotti da un paio di barche di pescatori. Un giovane pescatore morde un polpo e lo getta sulla terrazza. La cinepresa mostra un primo piano di uno degli occhi del polpo, mentre Carmelina lo fissa e nella incoscienza fanciullesca mette un dito sull’occhio, mentre invece gli spettatori hanno una reazione diversa se non opposta. La tensione, simile a quella di una scena del crimine, aumenta nel momento in cui Vito si sveglia agitato cercando la figlia. Carmelina è seduta in terrazza. La ragazzina gli porge un libro che qualcuno ha lasciato per lui. L’apprensione del pubblico si

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placa con la scoperta che il libro non contiene una lettera minatoria, come si aspettano sia lo spettatore che Di Francesco per il modo in cui è costruita la scena. Al contrario, si tratta di un regalo che poi si scoprirà di Consolo, grato al giudice per avergli aperto gli occhi sulla pena di morte. Ultima scena in tribunale: l’autista è chiamato a deporre, questa volta dall’avvocato delle vittime, il quale appare molto fiducioso. Stranamente Scalia è di fronte alla corte e la sua espressione è nuovamente di sfida. L’avvocato chiede se Scalia sapesse degli incontri amorosi fra la moglie e Spadafora e l’autista risponde che Scalia era solito accompagnarla alla macchina, spesso obbligandola a salire anche con percosse. Scalia, sorridendo, lo interrompe per dire alla corte e alla folla divertita che era solito picchiarla ed obbligarla a salire in macchina quando protestava. Con orgoglio Scalia afferma che la moglie doveva guadagnarsi dei soldi per soddisfare il suo desidero di fare la bella vita. L’autista sembra a disagio mentre rilascia la sua deposizione ed il giudice Di Francesco cerca di dire qualcosa al presidente della corte, il quale lo interrompe e con un gesto eloquente lo mette a tacere. La sequenza è filmata in 24 montaggi molto rapidi verso la fine, mostrando la reazione del presidente, la folla, un primo piano dell’avvocato, uno di Di Francesco con una mano sul volto e poi a coprire la bocca con gli occhi abbassati, sconfitto e silenzioso. La sequenza termina con un’inquadratura di Scalia, che ribadisce con orgoglio al giudice che ora è necessario l’ordine della condanna a morte. È mattino presto ed un furgone scortato da due poliziotti in moto porta Scalia in un altro carcere. Il processo si è concluso. Uno stacco trasversale su Scalia che dorme nella sua cella e Di Francesco nella sua cucina che beve caffè e poi nel suo studio mentre legge il romanzo di Dostoevskij lasciato a Carmelina sulla terrazza vicino al mare. La solitudine del giudice è di nuovo contrastata all’indifferenza di Scalia che russa. Nella stanza della giuria il presidente avverte i giurati che nonostante siano investiti di un arduo compito, il codice penale richiede (e la comunità si aspetta) la pena di morte per gli assassini. Di Francesco rimane in silenzio. Consolo dice al presidente che ora è tempo di una discussione perché pur avendo in mano un fucile, lui

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non è pronto a fare fuoco. C’è uno stacco e il cortile di una prigione appare sullo schermo. Una voce da una finestra sussurra a Scalia che il giudice ha risparmiato la sua vita e che non deve più temere. Scalia cammina verso una panchina all’ombra vicino ad un muro, si siede, estrae dalla tasca un pezzo di pane, lo spezza lentamente e ne mastica piccoli pezzetti con uno sguardo vuoto negli occhi. Questa breve scena silenziosa è una di quelle che il regista volle a tutti i costi, nonostante dovette combattere con il produttore e con gli attori. Amelio ha spesso ricordato i suoi litigi con Volonté, il quale era contrario alle scene silenziose in cui, anziché parlare, doveva compiere qualche semplice gesto. Come raccontò Amelio, Volonté dubitava dell’autonomia del discorso cinematografico di Amelio, ritenendo che il suo punto di vista sulla pena di morte non era sufficientemente supportato. Nonostante i contrasti il regista ha sempre apprezzato la grande credibilità di Volonté nell’interpretare momenti di riflessione16. Ogni piccolo pezzo di pane che Scalia mastica simbolizza la sua volontà di rivendicare la sua vita ed introduce l’ultima sequenza del film. Una carrozza trainata da un piccolo cavallo bianco giunge ad un fattoria dove sta avendo luogo un matrimonio. I bambini stanno giocando all’aperto e l’estate è sbocciata. Un ragazzino chiama Consolo, il giurato, il quale saluta Di Francesco. Il giudice gli fa una visita inaspettata per restituirgli il libro di Dostoevskij. Quando Vito siede al tavolo, la cinepresa si sposta sui volti della sposa e dello sposo e poi sul musicista che suona una fisarmonica. Sono tutti molto giovani. I loro volti allegri, semplici, rurali e sobri ricordano sequenze dei film di P.P. Pasolini. Il matrimonio si sta svolgendo nello spazio in cui c’era la stalla, senza porte, e lo spirito di festa contrasta con l’atmosfera soffocante e crudele del pranzo domenicale a casa di Don Michele. Consolo conduce Di Francesco dentro a una biblioteca con oltre settemila libri che ha ereditato dal padre. Nel romanzo di Sciascia Consolo è più un intellettuale che un agricoltore. È sofisticato, con una moglie francese. Amelio lo ha reso il figlio di un mezzadro analfabeta che ereditò la biblioteca quando il marchese Salemi perse tutto per debiti di gioco. Consolo vuole che Di Francesco tenga il libro. 16  Ivi, p. 135.

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Un altro stacco e lo schermo si riempie di spighe di grano risplendenti e sature di sole. La voce di Vito fuoricampo legge la scena dell’esecuzione da L’idiota di Dostoevskij, seguita da un’inquadratura da dietro di lui e Consolo mentre camminano lungo una strada polverosa accanto ai campi di grano che Amelio aveva trovato grazie alla sua troupe mandata alla ricerca di un campo di grano che assomigliasse al mare. Un altro stacco mostra i due uomini seduti mentre Vito legge l’ultimo passaggio, quando la testa si stacca dal corpo. Il paesaggio, lodato strettamente per la sua bellezza dalla maggior parte dei critici stranieri, conclude lo sforzo del film di dimostrare che la vera Sicilia è essenziale alla storia, non solo per la sua apparenza. La bellezza della scena conclusiva contrasta con le strade e le piazze palermitane grigie, austere e sature di morte nella prima parte del film. Per creare tale contrasto Amelio cercò luoghi semplici e incantevoli, simili alla campagna calabrese dove era cresciuto con la madre. Le poche immagini del campo di grano e del mare non sono utilizzate come decorazione, ma sono tematicamente essenziali alla conclusione della storia. Il giudice è felice di vedere Consolo. È rilassato ed ora sa che Consolo ha usato le parole di Dostoevskij per convincere gli altri giurati prima del voto. Vito vuole anche che Consolo sappia che lo aveva giudicato male e lo vuole ringraziare per ciò che aveva detto durante il loro ultimo incontro. Vito ammette le sue paure e confida a Consolo il suo trasferimento in un paese remoto. Quando Consolo esprime ottimismo sugli effetti duraturi della loro decisione, Vito controbatte che le autorità fasciste si sono appellate alla sentenza ed alla fine Scalia verrà giustiziato. Il loro tentativo è stato inutile e non hanno cambiato nulla. A supporto della sua idea il giudice racconta a Consolo di tutti i documenti archiviati negli scantinati del tribunale di Palermo, che definisce cadaveri condannati da cadaveri, come in un cimitero. Consolo si pronuncia come aveva fatto nel dibattito finale, quando Di Francesco rimase sconfitto in silenzio. Anziché Dostoevskij, utilizza una parabola per spiegare al giudice che ciò che hanno fatto ha avuto un significato e promuoverà un cambiamento. Quando una vite matura e forte viene sradicata, alcuni pezzi della radice rimangono nel terreno. Il tempo passa e, inaspettatamente, un nuovo germoglio cresce. Consolo è il nuovo germoglio. In principio la sua curio-

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sità sulle motivazioni che spingevano il giudice ad essere contrario alla pena di morte lo aveva motivato ad avvicinarsi a Di Francesco, e alla fine Dostoevskij lo ha aiutato ad afferrare l’importanza della vita. Consolo è un umanista che crede nella forza della conoscenza per promuovere il progresso. Due rapidi primi piani, uno su Vito e l’altro su Consolo. L’ultima immagine del film riprende Vito mentre guarda serenamente di fronte a sé, come se stesse meditando sulle parole di Consolo. Il giudice non ha potuto fare niente per scavalcare la legge dall’interno, ma Consolo il contadino ci riesce dall’esterno arrivando alla conclusione che la legge senza la partecipazione della gente non ha significato perché condizionata a priori. I meriti del film Con Porte aperte Amelio è stato in grado di realizzare un film brillante a partire da un romanzo intellettuale e meditativo. Il regista utilizza immagini, gesti e silenzi per trasmettere tensione e per rendere palpabili le emozioni intime dei personaggi. Amelio ha affermato che Porte aperte è stato il suo primo vero lavoro slegato dalla televisione, grazie alla collaborazione con il produttore, il quale si è occupato della parte economica lasciando ad Amelio la gestione della parte artistica17. Facendo affidamento sul suo autonomo linguaggio cinematografico, il film è in grado di penetrare attivamente nei pensieri dei personaggi, mantenendo alta l’attenzione del pubblico e arrivando all’anima e alle menti degli spettatori, specialmente durante le scene nel cimitero e all’ospedale. In un discorso visivo, le vite usurpate delle vittime innocenti, Leonardo e l’uomo che non può parlare, all'ospizio sono contrapposte alle vite sprecate e ai valori corrotti dei personaggi di “successo”. Alla fine del film la contrapposizione tra la vita e la morte raggiunge l’apoteosi quando il paesaggio e il grano dorato e risplendente al sole si convertono in un appello ad onorare la vita in tutte le sue forme e a condannare la morte inopportuna e l’ingiustizia. Inoltre questo processo filosofico e intellettuale non preclude il coinvolgimento del pubblico nella situazione e con i personaggi. 17  Volpi, Gianni Amelio, cit., p. 131.

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Il lungo periodo di attesa tra i due film principali, interrotto solo da I ragazzi di via Panisperna, aiutò Amelio a raggiungere una piena maturità artistica18. Porte aperte combina vari stili, generi, innovazioni e temi chiaramente originali. La scelta di grandi attori e l’abilità del regista nel dirigerli permette al discorso cinematografico di rivelare la bellezza della fonte che, sebbene intellettuale, non è mai fredda o sterile. Il fascino e la forza delle scene meditative emergono grazie all’attenzione ai dettagli. La musica, i gesti, i rapidi sguardi, le espressioni facciali e molti altri interventi sui dialoghi reinventati dal testo letterario donano al film una rara forza nel mostrare ciò che si nasconde dietro alla servile arroganza e alla stupida ideologia che agisce contro la ragione e l’umanità. Scalia è la personificazione di un individuo i cui istinti sono manipolati dal fallace senso dell’onore tutelato da una società corrotta. All’estremo opposto un giudice scrupoloso, che rispetta le persone e la corretta procedura della legge, alza coraggiosamente la sua voce contro gli ufficiali e contro l’idea popolare che la pena di morte garantisca sicurezza alla brava gente. Con l’aiuto di un giurato illuminato il giudice apre le porte alla vita e ad una società più umana.

18  Il film ricevette 4 premi cinematografici europei, compreso quello come Miglior Film; 4 David di Donatello, fra cui miglior fotografia, miglior attore, miglior suono e migliori costumi; 2 Golden Globe dalla stampa estera come miglior film e miglior sceneggiatura e una nomination agli Academy Award come miglior film in lingua straniera nel 1991.

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Capitolo 6

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Alla ricerca di un’utopia per gli esclusi: Il ladro di bambini (1992) Questo è un altro grande privilegio, il grande privilegio di essere mio malgrado un realista. Tra l’altro sono arrivato a considerare il realismo l’unica mia chiave possibile di approccio alle cose proprio perché tutte le altre mi sono sembrate un tradimento delle mie radici. E d’altra parte ritengo che è anche il mezzo più onesto e più pulito per rispettare queste radici: ossessivamente riporto tutto a quelle radici, anche quando tratto di ... borghesi londinesi che vengono a passare le vancaze in una villa del Chianti1.

Il ladro di bambini è ad oggi considerato il film italiano più rappresentativo degli anni novanta. La sua uscita venne accolta con molti premi: il Felix come miglior film europeo; il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, il Premio della Giuria Ecumenica e una nomination per la Palma d’Oro; sei David di Donatello tra cui Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Produzione, Miglior Montaggio e Miglior Musica; quattro Nastri d’Argento assegnati dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani; due Golden Globe assegnati dalla stampa estera; cinque Golden Ciak, fra cui Miglior Film e Miglior Regia e una nomination come miglior film straniero ai Film Festival di Valencia e Amsterdam. Sorprendentemente, oltre agli apprezzamenti della critica, il film riscosse un successo commerciale in tutto il mondo e valse ad Amelio un riconoscimento internazionale2. Il costo per la realizzazione fu di 1,5 milioni di dollari e nel 1997 solo in Italia incassò 10 milioni di dollari ed altri 109 milioni nel resto d’Europa, confutando il detto di Amelio secondo il quale era meglio non realizzare film troppo costosi perché avrebbero richiesto un folto pubblico3. 1  Amelio, citato in Amelio secondo il cinema, cit., pp. 60-61. 2  Questa esperienza fu diversa da quella di Leonardo Pieraccioni in Il ciclone (1996) un successo al botteghino nel 1996-1997 e Fuochi d’artificio (1997) che nella stagione 19971998 fu secondo solo a Titanic come incassi. Entrambi furono snobbati dai critici e non ebbero successo all’estero. 3  Citato in Stone, Eye on the World, cit., p. 419.

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Questo film gli ha fatto guadagnare un posto nella rosa dei candidati come regista italiano di maggior successo e ha dato il via ad un confronto con i grandi registi italiani del dopoguerra, al punto che alcuni lo stavano proclamando il nuovo Roberto Rossellini. I critici stranieri furono travolti dall’apparente semplicità del film. Bruce Reid nel giornale di Seattle «The Stranger» scrisse di essere concorde con l’opinione di Carol Reed, secondo cui per i registi neorealisti era più semplice usare attori non professionisti, perché tutti gli italiani sono attori naturali. Reid aggiunse che tale osservazione trovava riscontro in questo film e che per vedere un film migliore quell’anno, De Sica sarebbe dovuto uscire dalla tomba4. Janet Maslin in una recensione per il «New York Times» scrisse che il film ricordava la forza del neorealismo italiano nel trattare temi politici con enorme compassione e senza perdere contatto con le persone5. La studiosa di cinematografia italiana Millicent Marcus manifestò il suo entusiasmo nei confronti della fedeltà del film al neorealismo. Il titolo già preannuncia un doppio attaccamento alla tradizione cinematografica italiana. Il riferimento più ovvio è a Ladri di biciclette e alla naturale predisposizione del regista per la critica sociale attraverso il punto di vista innocente di bambini, come in I bambini ci guardano e Siuscià. Il critico nota come il film sia stato girato secondo l’ortodossia del neorealismo, focalizzando l’attenzione su personaggi ordinari che parlano lingue vernacolari e per lo più interpretati da attori non professionisti, attraverso un uso della cinepresa non intrusivo6. In Italia Anna Maria Mori, Mario Sesti e Stefanella Ughi elogiarono il film come un ritorno alla miglior tradizione cinematografica italiana7. Alcuni lo distinsero dai film “realisti” contemporanei, i quali affrontano problematiche odierne utilizzando schemi naturalistici8 e un linguaggio televisivo, senza tuttavia la profondità ed il lirismo dei film realizzati nel secondo dopoguerra. Taluni concordarono con registi 4  Citato in Sesti e Ughi, gianni amelio, cit., p. 52. 5  Humane Story of Lost Children, «New York Times», 3 marzo 1993. 6  The Gaze of Innocence. LOST AND FOUND in Gianni Amelio’s “Il ladro di bambini”, in After Fellini, cit., p. 154. 7  Si veda Mori, Un amaro viaggio nel Sud, «la Repubblica», 8 aprile 1992, p. 33; Sesti e Ughi, gianni amelio, cit., p. 5. 8  Si veda Cattini, Le storie e lo sguardo, cit., pp. 112-130.

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quali Giuseppe Piccioni, che consideravano il paragone con il neorealismo più una promozione giornalistica che una valutazione attendibile. Lorenzo Pellizzari in «Cineforum» scrisse in merito alla distanza stilistica tra il cinema di Amelio, fondato “sull’assenza”, e il neorealismo in quanto cinema di “presenza” (le folle di gente, per esempio), e perfino di eccessi9. Dalla mia prospettiva critica Il ladro di bambini ha un indiscutibile debito con la storia cinematografica italiana, come tutti i film di Amelio10, ma non si tratta di un’opera neorealista. Il film è il risultato di un’inimitabile e scorrevole maestria che permette un lento sviluppo della trama, quasi alla stregua di un giallo.

Origini Amelio ha spesso raccontato la storia delle semplici, benché anomale, origini del film. I produttori non chiamano di frequente un regista dandogli carta bianca per realizzare un film. In questo caso Angelo Rizzoli richiese una pellicola che parlasse del mondo di Amelio, dei suoi ricordi d’infanzia, del Sud e dell’Italia contemporanea, attraverso una prospettiva indiretta. La proposta sembrava irreale, eppure Rizzoli, con il quale aveva realizzato Porte aperte, gli diede questa opportunità. Amelio raccontò che l’unica condizione postagli dal produttore fu quella di scrivere la sceneggiatura assieme a Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Durante il loro incontro i due sceneggiatori gli chiesero che tipo di film volesse realizzare. Amelio rivelò di essere stato colpito da Lamb di Colin Gregg, del quale lo intrigava la relazione tra un prete ed un ragazzo costretti a scappare dall’Inghilterra. Si trattava di un viaggio intenso e sincero. Da qui ebbe il via l’idea di raccontare un viaggio sullo stile di La fine del gioco, il quale aveva luogo interamente nello scompartimento di un treno11. 9  “Il ladro di bambini”, «Cineforum», 32 (giugno 1992), p. 73. 10  Per il legame del film con la tradizione cinematografica italiana si veda Nino Siciliani de Cumis, Il mestiere del critico, «Cinema nuovo», 41 (novembre/dicembre 1993), p. 42; e Massimo Garritano, “Ladro di bambini,” «Cinemasessanta», 33 (marzo/aprile 1992), p. 27. Per gli altri film di Amelio si veda Martini, Gianni Amelio, Firenze, Il Castoro Cinema, 2005. 11  In Volpi, Gianni Amelio, cit., pp. 139-140.

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Amelio questa volta sentì di voler raccontare un viaggio attraverso l’Italia, da nord a sud, una sorta di rientro in patria di un soldato, o un poliziotto, magari un prete o addirittura un sacrestano o un insegnante, dal momento che tutte queste professioni lo intrigavano. Mentre lavorava al progetto consultandosi con i due sceneggiatori, l’idea del ritorno in Calabria di un poliziotto da adulto maturo iniziò lentamente a prendere forma. In seguito il poliziotto diventò un carabiniere con il compito di accompagnare un ragazzo in un riformatorio minorile, in una variante di La fine del gioco. A questa prima bozza fu aggiunto il personaggio di una ragazzina. Il ruolo fu concepito in riferimento ad un episodio reale sul quale il regista aveva meditato a lungo. Alla fine degli anni ottanta durante il telegiornale della notte il regista aveva assistito alle immagini di una ragazzina costretta a prostituirsi dalla madre, per contribuire all’economia famigliare in seguito alla morte del marito. Dopo l’introduzione di questo personaggio la trama su cui stavano lavorando si concentrò sempre di più su di lei. Il ragazzino, Luciano, venne ripensato come un personaggio minore all’ombra della sorella, mentre Rosetta diventò il fulcro del film. Amelio ricorda che quando tutti accettarono l’introduzione del nuovo personaggio lo sviluppo della storia divenne molto più fluido. Una volta terminata la lavorazione del film, lo sottoposero al giudizio di Rizzoli, il quale glielo scaraventò letteralmente in faccia. Amelio racconta di aver sempre avuto un rapporto burrascoso con Rizzoli, nonostante il rispetto reciproco, e durante quell’incontro la possibilità di realizzare il film rischiò di svanire. Amelio ammette che Rizzoli aveva ragione su molte cose, fra cui quella di ritenere la lavorazione troppo azzardata. La seconda versione che scrissero fu quella che utilizzarono per iniziare le riprese del film, ad eccezione del finale, dal momento che nessuno era disposto a fornire supporto finanziario ad un film in cui alla fine il ragazzino uccide il carabiniere. Amelio dovette scrivere un altro finale, che fu letto ed accettato12. Amelio giustificò a se stesso la necessità di cambiare il finale del film ripetendosi che, dopotutto, molti elementi di un film cambiano prima della versione finale e che era inutile impuntarsi nel mantenere invariato il finale a costo di non girare il film, mandando all’aria 12  Ivi, pp. 138-139.

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questa opportunità unica. Il regista decise di girare due versioni, la prima con l’epilogo tragico e la seconda con il finale alternativo, che alla fine ha avuto la meglio. L’unica modifica apportata è nella frase conclusiva: mentre nella sceneggiatura e durante le riprese Rosetta consolava il fratello dicendogli che il riformatorio era vicino al mare e che gli avrebbe insegnato a nuotare, nella versione definitiva Rosetta rassicura Luciano dicendogli che lo prenderanno a giocare in una squadra di calcio. La frase fu cambiata a film concluso. Secondo Amelio inizialmente la sceneggiatura era più spettacolare ed azzardata. Tuttavia questa subì alcuni cambiamenti radicali durante le riprese, per lo più per conferire alle scene un tono più appropriato e per adeguarle all’atmosfera che si era venuta a creare fra gli interpreti in fase di lavorazione. Le spiegazioni sul perché, come e chi convinse Amelio a cambiare il finale sono diverse. Quando glielo chiesi io, mi raccontò che mentre si preparava a girare la prima versione disse a Luciano che doveva uccidere Antonio e gli spiegò come farlo. Tuttavia quando iniziarono a girare il ragazzo non si mosse. A quel punto Amelio comprese che se Luciano, che aveva dato molto durante il film, non riusciva a compiere quel gesto, significava che c’era qualcosa di sbagliato in quell’idea.

Il contesto politico Il film fu anticipato con entusiasmo prima della sua uscita ufficiale a Roma nel marzo del 1992. Il lancio fu accompagnato da molti eventi politici, fra cui nuovi omicidi di mafia in Sicilia e l’insoddisfazione locale nei confronti del governo centrale, fatti che culminarono nell’assassinio dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e nell’ascesa della Lega Nord. Il Paese era maturo per un rinnovamento generale, evidente nel desiderio condiviso di un cambiamento concreto in grado di sovvertire i vecchi modi di gestire la politica. Questa coincidenza tra il punto di vista del film e ciò che la nazione stava vivendo potrebbe essere vista come un’ulteriore similitudine con i film del dopoguerra, i cui racconti riflettevano la storia sul grande schermo.

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Tuttavia Il ladro di bambini fu realizzato in un tempo piuttosto lungo e gli eventi che condussero alla Seconda Repubblica italiana ebbero un’influenza minima sulle varie elaborazioni del film. È importante ricordare che il progetto ebbe inizio nell’estate del 1991. I giudici di Mani Pulite iniziarono la loro campagna contro politici e imprenditori corrotti, conosciuta in seguito come Tangentopoli, il 17 febbraio 1992, data in cui il socialista Mario Chiesa venne arrestato. A quel tempo Il ladro di bambini era già stato distribuito. Come spesso accade con le opere che sono sensibili allo stato d’animo contemporaneo, il film di Amelio trasmise significati diversi a spettatori diversi. Alcuni vi lessero una certa fiducia a tutti i costi e l’ottimismo nel voler ricominciare nella figura del giovane carabiniere Antonio Criaco (Enrico Lo Verso), traduttore dei due bambini attraverso un’Italia devastata moralmente e fisicamente. Traduttore è il termine tecnico in gergo militare che indica trasferimento di individui sotto custodia. L’uso di questo termine fu suggerito da Lo Verso, il quale, dopo essere stato scritturato per la parte, si recò in una caserma dei carabinieri e parlò con molti ufficiali. Lorenzo Pellizzari legge questo film come un’allegoria della condizione italiana contemporanea. Personalmente, dato il doppio significato del verbo tradurre, lo interpreto come un’allegoria che si compie nel tentativo finale di Antonio di trasformare le vite dei bambini13. Altri vedono nel film una moralità senza compromesso, un’innocenza anacronistica necessaria al tempo delle invocate riforme. Secondo Fofi all’epoca dell’uscita del film 25.000 persone in Italia erano coinvolte nel crimine organizzato. Fra politici, imprenditori, amministratori e impiegati statali, 2 milioni e mezzo di persone non svolgevano i propri compiti e 25 milioni di periti agivano con la stessa mentalità venale espressa nel film dal signor Papaleo durante la festa della Prima Comunione14. Ginsborg definì complessa e spesso contraddittoria la profonda crisi che liquidò la vecchia classe politica. A differenza del ‘68, non si trattava di una rivolta proveniente dal basso, che contestava il potere e la politica di una generazione, e non era indirizzata ad una singola classe o forza sociale. Le molte13  Si veda Amelio, Il ladro di bambini. Sceneggiatura di Gianni Amelio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 72-76. 14  Ivi, p. x.

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plici facce della crisi la resero quasi impenetrabile ai contemporanei e a chiunque altro all’infuori delle sue vittime politiche15. Il critico Franco Prono vede l’Italia in questo film come un’orfana priva di cultura. Tutte le istituzioni civiche e gli individui che compongono il coro sociale appaiono corrotti, mentre la ristretta minoranza composta dai tre protagonisti è alla disperata ricerca di uno spazio di sopravvivenza16. Il conflitto tra gli individui e la società qui ritratto differisce radicalmente da quello rappresentato nei film neorealisti del dopoguerra, in cui la disoccupazione e l’incapacità di vivere una decente e dignitosa vecchiaia erano fonte di sofferenza. La denuncia in Il ladro di bambini si insinua più profondamente, attestando una corruzione così radicata nelle persone e nelle istituzioni da cui si può fuggire solo prendendo le distanze dall’ordine prestabilito.

Il lungo percorso verso l’indipendenza e la maturità artistica Nel corso della sua carriera Amelio si è sempre adoperato per rimanere fedele alle sue origini e per mantenere un equilibrio tra la realtà esteriore e i limiti della rappresentazione cinematografica. Questa sua ricerca è sfociata in un tipo di cinema che non è né narrativo e né descrittivo, ma piuttosto allusivo, provocatorio, ellittico e consapevole nell’uso dei montaggi e dei movimenti di macchina. Il cinema di Amelio aspira ad un’espressività che vada oltre le parole e ad una rivelazione oltre le immagini per ritrarre il quotidiano come si presenta, senza tradire la realtà che si nasconde alle sue spalle. I critici guardavano a questa ricerca con riserva, considerando la sua maniera di filmare troppo erudita per intrigare il mercato e, allo stesso tempo, non sufficientemente artistica da garantirgli un posto fra i grandi del cinema italiano. Tuttavia negli anni ottanta il suo cinema venne considerato originale e diverso. Massimo Garritano nota come Amelio abbia saputo distinguersi in maniera singolare, senza fare concessioni all’intrattenimento nel passaggio dal piccolo al grande schermo, per evitare che i suoi film venissero incasellati all’interno 15  Italy and its Discontents, cit., pp. 249-250. 16  Crisi di paternità e svolta nel cinema di Gianni Amelio, «Cinema nuovo», 41 (luglioottobre 1992, p. 41.

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di gruppi o tendenze del cinema nazionale17. Fofi disse ad Amelio che il suo cinema si posizionava tra quello di Rossellini e Fellini. Fofi definiva Fellini un «Rossellini degli interni» poiché ricostruiva tutto in uno studio in attesa della «grazia», mentre Rossellini girava tutto in esterni e attendeva che la grazia passasse di lì. Amelio rispose di non sapere dove collocarsi e di non riuscire a concepire un linguaggio sufficientemente cinematografico, per ragioni a lui sconosciute. Amelio percepiva sulle sue spalle il fardello della tradizione cinematografica e si sentiva intrappolato nel passato al punto da non riuscire a focalizzare un linguaggio cinematografico presente o futuro18. Fofi replicò affermando che Amelio ha il super ego di un Godard o di un Bresson, quando in realtà è l’erede di Comencini nella maniera più ovvia e di Visconti e De Sica nella migliore delle ipotesi. Amelio rimase emarginato fino al raggiungimento del successo con Porte aperte, Il ladro di bambini e Lamerica. Poi mise in discussione la sua popolarità. Durante una delle nostre conversazioni mi confessò che prima del successo degli anni novanta aveva vita dura nel trovare finanziamenti mentre in seguito avrebbe potuto realizzare un film all’anno, se avesse voluto. Quando uscì Il ladro di bambini molti critici internazionali scrissero che il film segnava un cambiamento nello stile di Amelio. Alcuni affermarono che aveva abbandonato le sue tematiche più sentite per raggiungere un pubblico più vasto ed ottenere successo commerciale. Secondo Prono Il ladro di bambini rappresenta un compromesso stilistico pur non rinunciando al suo precedente impegno tematico e ai suoi obiettivi linguistici19. Interrogato su come avrebbe descritto il film a coloro che non l’avevano visto, Amelio rispose che per chi conosce poco il regista, direbbe che il film segna un punto d’arrivo. Per chi invece non lo conosce, Amelio descrive il film come una svolta, non tanto perché è distante dai film precedenti, ma perché è un film con il quale Amelio si identifica20. 17  Garritano, Gianni Amelio tra le righe del racconto, in Vincenzo Camerino, (a cura di), Il cinema italiano degli anni ottanta, Lecce, Nuovaemme, 1999, pp. 19, 27. 18  Amelio secondo il cinema, cit., p. 108. 19  Crisi di paternità, cit., p. 41. 20  Andree Tournès, Entretien avec Gianni Amelio. L’Intelligence du coeur, «Jeune Cinema», 218 (novembre 1992), p. 15.

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Il ladro di bambini non rappresenta un cambiamento radicale nello stile del regista, ma piuttosto la prima occasione di raccontare la sua storia ed esprimere la sua visione della società italiana contemporanea a modo suo, senza dover considerare gli interessi del committente. Non c’è dubbio che Porte aperte e Lamerica rivisitino la dialettica tra la saggezza, la cultura e la dignità da un lato e l’ignoranza, la presunzione e l’insensibilità dall’altro. Il ladro di bambini vi associa una denuncia del degrado, del conflitto generazionale e della triste consapevolezza della nostra crisi culturale in termini di paternità e di mancanza di modelli adulti. Il regista rappresenta ed interpreta questi temi basandosi sul senso di responsabilità nell’utilizzare la libertà della creazione cinematografica per registrare fedelmente la realtà. La sua prima opportunità di esercitare tale libertà con responsabilità offre un’eccellente occasione per esaminare il suo genere di cinematografia e le ragioni del suo successo. In primo luogo desidero fare una distinzione in merito al successo di questi tre film. Porte aperte utilizza una struttura drammatica. In Il ladro di bambini gli eventi sono presentati in un flusso continuo che sdrammatizza la storia, dettaglio non insignificante dato il suo contenuto scottante, attraverso il non detto e l’esplorazione delle cause. Lamerica registra un momento di crisi, ovvero il flusso epocale di immigrati, attraverso riferimenti continui al passato dell’Italia come paese di emigranti e all’irrisolto razzismo ed offre una profonda comprensione del fenomeno affidandosi a soluzioni linguistiche che si adattano perfettamente al tema. L’apparente semplicità di Il ladro di bambini ricorda il cinema italiano del dopoguerra e i film di Abbas Kiarostami. Nato il 22 giugno 1940 a Tehran, Kiarostami appartiene all’Iranian New Wave, un movimento cinematografico internazionale che ebbe inizio a partire dalla fine degli anni sessanta ed utilizza l’allegoria per trattare argomenti politici e filosofici. Lo stile documentaristico di Kiarostami e l’utilizzo di bambini come protagonisti sono stati paragonati alle forme d’espressione di De Sica, Eric Rohmer e Satyajit Ray. Amelio rinforzò il paragone affermando che con questo film ambiva al ritorno a una sorta di neorealismo in stile mediorientale. Per fare ciò, tutto doveva essere realizzato con estrema semplicità, fino ad

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eliminare il dolly e ad abolire qualsiasi mezzo di cui Kiarostami non disponeva21. Questa scelta stilistica valse ai suoi ultimi due film la definizione di nuovo cinema italiano, senza pregiudizi generazionali, come se fosse un nuovo regista o avesse scoperto un nuovo stile. Amelio ha sempre lavorato per definire un linguaggio specifico per i suoi film, chiedendo sempre molto a se stesso. Nonostante l’ammirazione per la semplicità di Kiarostami, Amelio si aspetta di più dai registi occidentali. Il linguaggio di Kiarostami lo tocca, così come il neorealismo, per la sua sensibilità nei confronti della modernità, ma non è colpito dalla sintesi occidentale del modernismo in letteratura e nel cinema. Amelio non è interessato a ciò che definisce un compromesso fra il modernismo e le avanguardie. Il regista è alla ricerca di un linguaggio nuovo, senza farsi frenare dal timore che alcune immagini siano legate a convenzioni passate. Quando iniziò a girare Il ladro di bambini, Amelio disse a se stesso che il neorealismo era la chiave, non tanto il neorealismo di Rossellini o De Sica, ma quello che poteva essere al giorno d’oggi22. Cesare Zavattini in un articolo del 1953 scrisse che il neorealismo poteva evolvere in un tipo di cinema alternativo che ha sempre più a che fare non con lo straordinario ma con l’ordinario, anche trattando semplicemente l’acquisto di un paio di scarpe. Secondo Zavattini questi semplici episodi vengono guardati con la stessa ansia e la stessa curiosità con cui la gente assisterebbe ad un incontro in una piazza pubblica23. Zavattini auspicava un tipo di cinema che fosse in grado di cogliere la superficie degli eventi e la psicologia dei personaggi. Al contrario Il ladro di bambini denuncia il sistema attraverso le immagini ed il non detto, e il silenzio come rifiuto, uno stile che era emerso chiaramente nel ritratto di Leonardo in ospedale in Porte aperte e continua in Il ladro di bambini a partire dal prologo, in cui immagini semplici ma toccanti mostrano come lo sguardo di sfida di Luciano nasconda un’innocenza prematuramente strappata. Lunghe carrellate attraverso la città di Civitavecchia, in stazione 21  Da una conversazione privata con Amelio in un bar a Roma nel 2007. 22  Amelio secondo il cinema, cit., p. 8. 23  Cinema. Diario di cinematografia. Neorealismo ecc., a cura di Valentina Fortichiari e Mino Argentieri, Milano, Bompaini, 2002, p. 716.

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e al loro arrivo all’orfanotrofio mostrano come i bambini siano rifiutati, soli, abbandonati ed esclusi. Durante la loro sosta in Calabria i due ragazzini colgono un barlume di affetto famigliare, che alla fine viene loro negato. A supporto della mia interpretazione del film in quanto prodotto artistico unico e innovativo, intendo metterlo a confronto con altri film che hanno bambini come protagonisti, al fine di dimostrare come Il ladro di bambini mescoli generi e influenze da pellicole americane, francesi e italiane, con riferimenti autobiografici e personali. Questa lettura si presta a varie interpretazioni, come del resto il film di Amelio. Il mio obiettivo è di esplorare come, a differenza della controparte del dopoguerra, il film proponga un’utopia che può essere raggiunta solo al di fuori della società civile e non attraverso il riassestamento delle istituzioni. La mia lettura vede il film come un’ideale continuazione del finale di Porte aperte, dove il giurato Consolo emerge come una voce di basilare decenza. In Il ladro di bambini il semplice Antonio, senza l’aiuto del Dostoevskij del giurato, di intellettualismi, ideologie o sermoni, lotta contro un mondo che schiaccia i deboli e favorisce i furbi, i quali si considerano più in gamba di coloro che rispettano e seguono le leggi. Come un padre, una madre o un bambino perfino più impotente dei due veri ragazzini, Antonio si scontra con una società che, secondo il film, manca di guide positive. Ciò di cui è testimone Antonio sono solo leggi ingiuste, madri che vendono i corpi e l’innocenza delle proprie figlie e ragazzi che crescono con una mentalità affine a quella mafiosa. Per contrastare tale realtà è obbligato ad uscire dal mondo reale controllato da leggi e categorie. Amelio costruisce una sorta di fuga che ha la spinta ottimista di un film di Frank Capra24 e il lirismo di una storia di De Sica. Le due scene principali alla fine del film, in spiaggia e a Noto, sono in contrapposizione, una come un momento di utopia e l’altra come un ritorno crudele alla realtà. Le azioni di Antonio, dettate dal 24  In un’intervista del 1997 Capra disse che il cinema del suo tempo rifletteva una società che aveva fatto progressi tecnici e artistici, ma che era più preoccupata dei vizi, dei dubbi e delle angoscie del genere umano, senza sospettare che questo tradiva un ottimismo che, per lui, era un modo di essere vivi. Nei suoi film ha sempre voluto aiutare l’umanità a vivere meglio perché la vita è meravigliosa e troppe persone vivono senza rendersene conto. Per l’intera intervista si veda Gian Luigi Rondi, Il cinema dei maestri. 58 grandi registi e un’attrice si raccontano, Milano, Rusconi, 1980, pp. 61-66.

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cuore, risvegliano un atto di solidarietà da parte della sorella, la quale copre le spalle del fratello a dimostrazione del fatto che gli esclusi sono consapevoli del loro dolore e dell’esistenza di qualcosa di diverso. La trasgressione necessaria al raggiungimento di tale utopia è un filo conduttore che lega tutti i film di Amelio. Essa rappresenta la comprensione più profonda della sua cinematografia e il sogno che i suoi film possano trasformare i pochi momenti di solidarietà in una condizione permanente, un’utopia ed una rottura dalla crudele quotidianità vissuta e subita dagli esclusi. Il ladro di bambini ottiene successo perché dà inizio ad una meditazione artistica sull’infanzia perduta e sull’assenza di padri o di figure paterne, in un linguaggio cinematografico di immagini e gesti che cattura questioni morali vissute e sentite, ma taciute. Amelio ha sempre cercato di conciliare il linguaggio e lo sguardo dei suoi film con il contenuto e qui sembra esserci riuscito alla perfezione. Come ha lui stesso confessato, Amelio vive in maniera drammatica la tensione fra la sua dimensione morale privata e la ricerca di un linguaggio e di uno sguardo cinematografico in grado di esprimere tale dimensione. Il regista confessa che forse questa lotta e questa contraddizione sono dovute ad una codardia estetica o ad una non totale fiducia in se stesso25. Dal mio punto di vista critico quel perfetto equilibrio tra sguardo, linguaggio e contenuto si manifesta pienamente in Il ladro di bambini ed in un momento in cui il paese ne aveva più bisogno, come dimostrano gli sconvolgenti eventi del biennio 1992-1994. Una caratteristica dei film di Amelio è l’elemento del non detto, dove il significato non è affermato ma in qualche modo mostrato. Amelio ha un’avversione nei confronti dei film che rappresentano la realtà semplicemente affermandola. Secondo il regista il cinema deve oltrepassare i suoi limiti, che consistono nel suo sguardo limitato, sebbene questo comporti una grande difficoltà. Amelio crea metafore, come il viaggio o gli specchi e altri oggetti che riflettono e che mostrano una società che non vede se stessa, o il buco della serratura o i vetri della finestra in Colpire al cuore, o le porte aperte e chiuse in Porte aperte. Il fine è quello di dimostrare come il film può solo mostrare la realtà in maniera obliqua, in ombra, innescata 25  Amelio secondo il cinema, cit., p. 113.

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da silenzi e misteri, in tutte le sue incertezze e ambiguità. In Il ladro di bambini, il taciuto è in armonia con il soggetto e raggiunge la perfezione nel conferire alle sequenze un’atmosfera di tensione, in grado di riflettere lo stato mentale dei bambini e del carabiniere oltre che il deterioramento della società. Questo secondo aspetto del film, spesso ignorato dai critici, racconta lo stato della società italiana da nord a sud meglio di qualsiasi altro film contemporaneo, attraverso il degrado delle sue istituzioni, della polizia, del sostegno sociale e dell’unione famigliare. Il critico Piero Spila sostiene che Amelio sia più consapevole di qualsiasi altro regista italiano della disparità tra la volontà di creare un cinema di impegno sociale e morale ed i limiti del mezzo26. Il procedimento di Amelio si basa su un’operazione di sottrazione che forza lo spettatore a prendere parte alla ricerca di sfumature e significati più profondi. Il pubblico è spinto a cercare ed osservare le inquadrature di volti, sguardi e ambienti vuoti che limitano o disumanizzano i personaggi. La vita moderna è distorta da una desolazione e da un dolore innaturali. In questo paesaggio i bambini sono molto spesso vittime dell’assenza di punti di riferimento culturali e umani. La costante tensione nei film di Amelio consiste nel far guardare e pensare il pubblico in maniera introspettiva. I movimenti della macchina da presa e gli spazi vuoti e desolati mettono a nudo la mancanza di umanità nelle relazioni. I bambini non possono vivere con serenità la loro infanzia, che li condurrebbe in modo naturale verso la consapevolezza di sé e all’instaurazione di relazioni reali ed oneste. In Porte aperte Carmelina, la protetta ed amata figlia del giudice, è in contrasto con Leonardo, il quale in seguito all’incarcerazione del padre per l’omicidio della madre è costretto a vivere in un istituto senza affetto paterno o guida di alcun genere. In molti modi il ragazzino, assieme al Leonardo di La fine del gioco, è il prototipo di Luciano, il bambino di Il ladro di bambini, il quale all’inizio del film rimane in silenzio di fronte agli orrori perpetrati dagli adulti.

26  Gianni Amelio: L’espressività del non detto, in Montini, Una generazione in cinema, cit., pp. 45-51.

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I bambini nei film italiani del dopoguerra e contemporanei I bambini sono stati ritratti o come vittime innocenti degli adulti o semplicemente come futuri adulti in molti film appartenenti al cosiddetto genere di formazione. I fratelli Lumière in Francia realizzarono il primo film sui bambini prima del 1900. In Italia I bambini ci guardano (1943) di De Sica, realizzato con Zavattini e considerato uno dei precursori del neorealismo, introdusse il tema morale dell’innocenza perduta, che sarebbe diventato fondamentale in altri film del dopoguerra italiani quali i suoi Sciusà (1946), Ladri di biciclette (1948) e Miracolo a Milano (1951) e la trilogia di guerra di Rossellini composta da Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1947). In tutti questi film i bambini sono vittime di forze sociali, di eventi provocati da mano umana o di errori, siano questi il furto, la guerra, il divorzio o l’adulterio. Nel cinema italiano contemporaneo, i bambini ritornano in Nuovo cinema Paradiso (1988) di Tornatore, Io non ho paura (2003) di Salvatores, Vito e gli altri (1991), Pianese Nunzio 14 anni a maggio (1997) e La guerra di Mario (2005) di Capuano e Mignon è partita (1988), Il grande cocomero (1993) e L’albero delle pere (1998) della Archibugi. In generale i bambini in questi film perdono la propria innocenza o esprimono l’antagonismo e la desolazione che li divide dagli adulti. I bambini della Archibugi sono utilizzati come lente per esplorare il modo in cui la famiglia italiana è cambiata con l’avvento dell’industrializzazione, della civilizzazione urbana e dell’entrata in massa delle donne all’interno della forza lavoro27. Lo stesso potrebbe essere detto per i film di Capuano, con la differenza che questi ultimi sono ambientati in una Napoli sottoproletaria. Nei film del dopoguerra i bambini spesso confortano gli adulti, come fa Bruno alla fine di Ladri di biciclette. Al contrario in I bambini ci guardano, Prico rifiuta perfino di incontrare la madre adultera quando lei lo va a trovare al collegio. La figura del ragazzo appare schiacciata dall’enorme arcata dell’atrio dell’istituto, che simbolizza l’effetto che ha su di lui il comportamento della madre su cui la morale dell’epoca attribuisce la responsabilità di tutti i misfatti fami27  Si veda Flavia Laviosa, Francesca Archibugi: Families and Life Apprenticeship, in William Hope, (a cura di), Italian Cinema. New Directions, Berna, Peter Lang, 2005, pp. 201-227.

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gliari. De Sica è presente in Il ladro di bambini, ma il punto di vista di Amelio è più negativo. La pedofilia e la prostituzione minorile sono suggerite in Ladri di biciclette ma immediatamente evitate grazie all’intervento fulmineo di un adulto, il quale salva Bruno quando al mercato un uomo cerca di adescarlo mentre è intento a giocare con il campanello di una bicicletta. Nel film di Amelio i bambini devono badare a se stessi senza nessuna protezione dagli abusi degli adulti. I bambini sono più forti della loro controparte adulta. Il principale elemento di originalità e modernità nella trattazione dell’argomento in Il ladro di bambini è l’impiego di una bambina come protagonista e punto focale della storia. La ragazzina compie il passaggio da un’infanzia spogliata della sua innocenza, a causa della violenza fisica e dell’avidità e indifferenza del genitore, ad una maturità che, alla fine del film, le permetterà di iniziare a rapportarsi al passato in maniera diversa. Non sono d’accordo con i critici che hanno scritto che la comunicazione più significativa avviene tra uomini. Antonio parla a Luciano e Rosetta in termini differenti, ma è alla ragazzina che comunica le decisioni importanti ed è con lei che intrattiene le conversazioni più rilevanti. Inoltre alla fine del film Rosetta posa la giacca sulle spalle del fratello e lo conforta, nel tentativo di ricostruire un’unione su sua iniziativa. Rosetta è maturata, sa che lei ed il fratello devono dipendere l’uno dall’altra e che deve prendere in mano la situazione, dal momento che il mondo circostante e gli adulti li hanno delusi. Il cambiamento di Luciano è diverso. Solo dopo aver incontrato la nonna di Antonio inizia ad interagire e a parlare con lui. Nella foto di Antonio travestito da Zorro, Luciano vede un eroe, qualcuno che lo può proteggere, come fa il carabiniere quando arresta il ladro a Noto. Per molti uomini del Sud la figura del carabiniere incarna una sorta di eroe sociale che oltre ad avere un lavoro sicuro, ha anche un’uniforme ed incarna la legge. Agli occhi di Luciano, Antonio rappresenta quella posizione privilegiata. Quando Antonio è spogliato del suo grado e rifiuta di parlare con Luciano, il ragazzino torna a chiudersi nel suo silenzio iniziale. Al contrario Rosetta ha imparato che i sentimenti veri possono superare le categorizzazioni e le identità definite. Rosetta ha la forza e la consapevolezza di comprendere che il suo amore per Antonio è impossibile e che deve costruirsi una vita da sé.

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Il prologo: poetica del non detto La storia può essere divisa in blocchi: il prologo a Milano, il viaggio a Civitavecchia durante il quale viene introdotto Antonio e i due fratelli vengono maggiormente sviluppati, la tappa all’orfanotrofio dove gli eventi sconvolgono la trama, il viaggio al paese di Antonio e la festa a casa della sorella che si conclude con la crudele rivelazione dell’identità dei bambini, la “vacanza” e il furto che porta all’incontro fra Antonio ed il suo superiore, l’epilogo che conclude il film a Gela. Dall’inizio vediamo come le immagini siano portavoce della denuncia del regista della mancanza di umanità nelle relazioni famigliari e come la cinepresa catturi il sentimento di alienazione dei bambini. Il prologo si apre con un’inquadratura di alcuni secondi in cui i rumori e gli sguardi giocano un ruolo fondamentale. Un ragazzino, Luciano, è seduto al contrario su una sedia in cucina mentre fissa qualcosa che non rientra nell’inquadratura. Le sue braccia sono incrociate sul petto in segno di difesa mentre il suo pollice destro in bocca esprime il suo bisogno d’amore, consolazione e tenerezza. Il volto è serio e concentrato. In sottofondo si sente il dialogo di una telenovela. Nessun controcampo mostra al pubblico l’oggetto dell’attenzione del ragazzino. Al contrario la macchina da presa esegue dei movimenti lenti attorno al suo volto, ancora in primo piano e a fuoco, ma ora la televisione è alle sue spalle e la cinepresa assume il suo punto di vista, mostrando al pubblico il motivo del suo disagio. Di fronte a lui la madre sta lavando una pila di piatti sporchi. Il suono della televisione domina il silenzio che regna nella stanza. A livello superficiale la scena ritrae la quotidianità della classe media in una tendenza neorealista. Più in profondità esprime il risentimento di un abuso attraverso lo sguardo di Luciano. I suoi occhi provocano ansia nella madre, la quale gli chiede per quale ragione la stia fissando. La domanda esprime la sua irritazione e il suo disagio nell’essere giudicata. In dialetto siciliano la madre prosegue dicendogli di andare a giocare con i suoi amici e rimproverandolo di essere sempre attaccato a lei come una femminuccia. Dal punto di vista stilistico, il regista non usa controcampi ma induce lentamente

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lo spettatore ad identificarsi con lo sguardo del ragazzo, accrescendo la partecipazione e le emozioni del pubblico nel voler scoprire che cosa si nasconda dietro. Le parole degradanti della madre ed il termine femminedda sono dirette allo spettatore. Luciano percepisce il suo disprezzo e continua a fissarla mentre si dirige verso la porta della camera da letto, bussa e chiama Rosetta che è chiusa dentro alla stanza. Torna verso Luciano e lo esorta ad andarsene, mettendogli in mano una banconota da 1000 lire per comprarsi un gelato. Luciano scompare dallo schermo. Guardando la schiena della madre si sente una porta che sbatte. La cinepresa è in fondo alle scale. Ripreso dal basso attraverso la ringhiera, Luciano scende due gradini e si siede. Dietro di lui la macchina da presa mostra un condominio popolare. Un uomo tarchiato di mezza età in giacca e cravatta con un anello all’anulare sinistro appare in fondo alle scale. L’uomo saluta Luciano come se lo conoscesse e cerca di toccargli la guancia. Luciano si sposta all’indietro e si gira per guardare l’uomo mentre bussa ed entra nell’edificio. La cinepresa mostra la reazione sul volto di Luciano. Un dolly segue l’uomo mentre cammina all’interno di un corridoio, bussa alla porta di Rosetta ed entra sorridendo. Un taglio sulla madre che guarda e poi la cinepresa la riprende alle spalle mentre si siede dove prima sedeva Luciano, incrociando le braccia allo stesso modo. Un accenno di costernazione appare sul suo volto mentre estrae lentamente dei soldi da una busta. Un altro taglio e dalle mille lire nella mano di Luciano la cinepresa passa ad inquadrare il suo viso. Luciano sembra disorientato, come se stesse pensando a ciò che sta accadendo all’interno della casa. Successivamente vediamo Rosetta, una ragazzina di circa undici anni, ripresa di spalle in una stanza semi buia con le veneziane abbassate e la mano appoggiata sul letto. Un’altra televisione è di fronte a lei. La cinepresa si sposta dalla sua testa, inclinata verso sinistra, alla sua mano sul letto che stringe un rosario. Sta pregando il suo angelo custode. Quando la mano dell’uomo si posa sulla sua e l’accarezza, Rosetta smette di recitare la preghiera. Luciano sta correndo in cortile e si nasconde dietro a dei bidoni della spazzatura. Non sappiamo se stia scappando da ciò che sta accadendo in casa sua o dalla polizia che ha chiamato per difendere

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Rosetta o il suo onore. La scena dell’arrivo della polizia in Il ladro di bambini ricorda il finale di Colpire al cuore, quando Emilio assiste all’arresto del padre e di Laura. Quando chiesi ad Amelio se avesse creato una scena intenzionalmente autoreferenziale e se sia stato Luciano a chiamare i carabinieri, mi rispose che non aveva mai considerato l’idea che Luciano denunciasse la madre, ma niente nel film lo esclude. Uno stacco all’interno della casa riprende l’uomo, la madre e poi Rosetta che chiede disperata ai carabinieri che cosa le faranno, piangendo mentre i vicini e i passanti cercano di sbirciare. Come in tutti i programmi televisivi italiani, storie poliziesche, film sulla mafia e perfino telegiornali, la macchina dei carabinieri sfreccia in caserma sgommando a sirene spiegate e lampeggianti accesi. In alto su una terrazza Luciano si precipita correndo e ansimando per assistere alla scena. Una dissolvenza e sullo schermo appaiono il titolo Il ladro di bambini ed il nome del regista. In un incontro con dei potenziali studenti di una scuola di cinema, un ragazzo chiese ad Amelio perché avesse posizionato il titolo ed il suo nome dopo il prologo. Il regista rispose di averlo fatto per indicare che la vera storia ha inizio alla stazione dei treni e che avrebbe potuto tagliare la prima parte senza incidere nel resto del film28. Dal mio punto di vista il prologo è vitale non solo perché fornisce uno sfondo di ciò che è accaduto a Luciano e Rosetta, ma anche dal punto di vista stilistico. Amelio gira l’arresto di Rosetta e della madre come una serie televisiva, ma lo sguardo di Luciano, il suo silenzio mentre l’uomo entra in casa e l’incontro di Rosetta con il cliente sono girati in uno stile completamente diverso. Questo non solo crea grande empatia con i personaggi, ma mostra la ricerca da parte del regista di un linguaggio che possa descrivere l’inenarrabile storia che sta per raccontare. Il regista riesce a mostrarci la verità nascosta attraverso gesti significativi, sguardi e movimenti della cinepresa. Per esempio, il tentativo del cliente di toccare la guancia di Luciano anticipa ciò che accadrà nella stanza da letto. La stessa mano toccherà quella tremante di Rosetta che si chiude in una preghiera silenziosa ed è poi ripresa mentre stringe il copriletto. La macchina da presa descrive inoltre la casa della madre come una pri28  Rais, Gianni Amelio, cit., p. 76.

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gione senza pupazzi o diversivi, solo televisioni gracchianti e buio, dove i due bambini non hanno altra scelta che quella di accettare passivamente l’umiliazione, il degrado e la mancanza di umanità. Gli effetti di un’infanzia rubata appaiono sul volto silenzioso e sugli occhi fissi di Luciano e nei gesti, nelle preghiere e nelle espressioni di Rosetta mentre i carabinieri la portano via. Queste immagini brucianti rivelano la tragica assenza dei genitori e l’irresponsabilità della nostra società. Le scene sono ricche di emozioni descritte con movimenti di cinepresa serrati e montaggi che riflettono queste vite alienate, trascinandoci all’interno in un’implicita contrapposizione con i vicini e i passanti curiosi, ripresi in uno stile televisivo. Il prologo termina con una carrellata esterna che mostra il garage dove sono parcheggiate le macchine della polizia, le strette scale dell’appartamento del condominio nella periferia del paese, la grande terrazza dove tanti bambini, tranne Luciano, stanno giocando. Tutti questi luoghi rappresentano l’alienazione sociale e sono il teatro di un’agonica esistenza non più umana. L’oscurità del prologo stabilisce il punto zero per lo sviluppo del viaggio, durante il quale il cambiamento della luce accompagna i movimenti della cinepresa e i cambiamenti nelle relazioni fra i tre protagonisti, raggiungendo la sua massima espressione nella brillante luce del sole del sud e della spiaggia.

Il viaggio verso un’utopia per gli esclusi Il viaggio nello spazio o nel tempo è un tema ricorrente nei film di Amelio. A volte appare in entrambe le dimensioni, come in Lamerica dove l’attraversamento dell’Albania da parte di Gino ed il suo incontro con Spiro/Michele mette a confronto l’Italia degli anni quaranta e cinquanta con l’Albania degli anni novanta. Un discorso simile anche se lievemente differente appare in La stella che non c’è (2006), in cui Vincenzo Buonavolontà (Sergio Castellitto) si reca in Cina per consegnare un pezzo di macchinario e vede un luogo che gli ricorda l’Italia del boom economico, riuscendo a trovare ciò che manca nella sua vita. Il viaggio in Il ladro di bambini può essere letto a due livelli. Il

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primo racconta la storia, ispirata ad un fatto reale, di Luciano, Rosetta e del carabiniere Antonio che viaggiano insieme da Milano alla Sicilia e si aprono l’uno verso l’altro. Il secondo mostra lo squallore che circonda i bambini ed il paese. Credo che il film suggerisca un finale immaginario a Rocco e i suoi fratelli di Visconti trent’anni dopo, nonostante io sia consapevole del fatto che Amelio desiderava rivisitare il suo primo film per la televisione e tracciare un ritorno in Calabria senza alcuna intenzione di continuare il film di Visconti. Come Amelio ha affermato, oggigiorno Catanzaro e Matera sono essenzialmente “simili” a Torino e Milano. Una persona può viaggiare attraverso l’Italia senza notare cambiamenti evidenti. Secondo il regista non è possibile assegnare al viaggio dei suoi tre protagonisti un valore che richiami anche solo lontanamente Rocco, e non vi è nessun significato ideologico in questo ritorno. Il viaggio rappresentato nel film è più un cammino fra i protagonisti che un percorso in qualche dimensione spazio-temporale e non ha alcun sentimento nostalgico29. Ciononostante, sebbene il dramma centrale del film coinvolga i tre personaggi principali, leggo il secondo livello come un ipotetico ritorno di Luca Parondi all’interno dei temi ameliani dell’integrazione fallita e delle mancate opportunità di creare una vera nazione. Il soggetto della storia ed i bambini protagonisti, che riflettono la rottura delle famiglie in concomitanza con quella delle infrastrutture sociali, presentano un triste contrasto all’utopia progressiva di Visconti. Ritengo che il viaggio evochi un ipotetico nipote di Luca o un alter ego che ritorna al Sud per scoprire che il vecchio ed isolato villaggio di collina è abbandonato e che gli alberi di ulivo nelle valli hanno lasciato il posto alle autostrade e alle case abusive. Il film di Visconti del 1960 raccontava la storia di una famiglia e il cambiamento di un paese nella trasformazione dei Parondi, contadini del Sud, in soldati, criminali, eroi dello sport e operai. La famiglia guidata dalla matriarca Rosaria (Katina Paxinou) non nutre mai l’illusione che la vita che si sono lasciati alle spalle fosse migliore, nonostante la realtà urbana disgreghi i loro legami ed intacchi le leggi di fedeltà ed onore che hanno protetto i contadini attraverso generazioni di oppressione. Dopo essersi trasferiti al Nord, Rocco (Alain Delon) si sacrifica per salvare la famiglia. Il fratello mag29  Volpi, Gianni Amelio, cit., pp. 137-138.

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giore, Simone (Renato Salvatori), perde se stesso fra alcol e droga. Ciro, il più giovane e l’emblema di ciò che la famiglia Parondi è diventata, sposa una donna del Nord e abbraccia una nuova mentalità. Visconti conclude il suo film con la speranza che Ciro, dopo essere stato “civilizzato” dalla cultura più avanzata del Nord, riporti a casa la nuova mentalità per cambiare l’arcaico Sud. Ciro immagina il ritorno del fratello Luca alla loro casa abbandonata da uomo libero e onesto, sgombro da antichi fardelli di sfruttamento e pregiudizi, in un’utopia rivoluzionaria. Antonio ritorna a casa, ma vi ritrova gli antichi ostacoli. Sebbene sia un uomo onesto, non è libero. I genitori di Luciano e Rosetta non mostrano nessuno dei valori che legava le famiglie contadine e hanno trasformato la loro figlia in un prodotto. Questa lettura non guarda solamente al viaggio dei protagonisti, ma considera anche un elemento autobiografico, presente in tutti i film di Amelio. In un’intervista rilasciata a una rivista francese Amelio dichiarò che nel momento in cui Rizzoli gli aveva dato carta bianca, sapeva di dover recuperare lo spirito di La fine del gioco e di dover intraprendere un nuovo viaggio, questa volta da nord a sud, per riscoprire se stesso30. Era tempo per la cinepresa di dare vita al suo linguaggio cinematografico, uno stile, uno sguardo e un controllo slegati dalle influenze della sperimentazione della Nouvelle Vague che avevano caratterizzato il suo primo film, espresso fin dalla prima scena di Il ladro di bambini. Nel cinema italiano il viaggio si svolge prevalentemente da sud a nord, per ragioni geografiche e socio-politiche, seguendo l’emigrazione della gente del Sud alla ricerca di condizioni migliori. Esempi di questo genere includono Il cammino della speranza (1950) di Germi, Stanno tutti bene (1990) di Tornatore e Italiani (1996) di Ponzi. Quando il cinema nazionale descrisse viaggi da nord a sud, le due tendenze principali rappresentavano o la conquista o la “liberazione”, come in 1860 (1934) di Blasetti, reintitolato I Mille di Garibaldi nell’edizione del 1951 e Il brigante di Tacca del Lupo (1952) di Germi, sulla lotta contro i banditi del Sud che si opponevano all’unificazione o all’annessione del Sud. Questa tendenza influenza film in cui magistrati del Nord si recano al Sud per portare legge, ordine e progresso, come In nome della legge (1948) di Germi 30  Tournée, L’intelligence du cœur, cit., p. 15.

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e Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani. Damiani, nato il 23 luglio 1929 vicino a Pordenone, è considerato assieme a Francesco Rosi e Elio Petri uno dei padri del cinema politico italiano. In Il giorno della civetta, basato sul romanzo di Leonardo Sciascia con Franco Nero e Claudia Cardinale, un capitano dei carabinieri di Parma investiga su due crimini ordinati dalla mafia per coprire una speculazione edilizia e di terreni. Anche altri film contemporanei su questa linea si concentrano sulla lotta contro la mafia, come Cento giorni a Palermo (1984) di Ferrara e La scorta (1993) di Tognazzi. Stanno tutti bene (1999) di Tornatore è insolito nel seguire il viaggio di un padre deluso che, stanco di aspettare i suoi figli, decide di fargli visita e scopre non solo il disfacimento del suo sogno personale, ma anche la triste condizione della società italiana. Uno dei pochi film che segue il tragitto dal nord al sud senza scopi politici è Verso Sud (1992), opera prima di Pasquale Pozzessere che racconta la storia di due giovani sbandati che si incontrano, s’innamorano, rapiscono il bambino di lei dall’istituto e sognano di rifarsi una vita nel sud. In Il ladro di bambini, Amelio mescola in maniera caratteristica i generi, per creare il suo prodotto personale: una sorta di road movie, senza essere incentrato su un veicolo come Il sorpasso (1962) di Dino Risi, Easy Rider (1969) di Dennis Hopper, Road Movie (1974) di Joseph Strick, Rain Man (1988) di Barry Levinson o Thelma and Louise (1991) di Ridley Scott31. Concordo con il critico Morando Morandini il quale, citando Enzo Ungari, rifiuta di definire il film un road movie o un film viaggio/ricerca. Come afferma il critico, a differenza di quei generi il film documenta un percorso morale o psicologico piuttosto che spaziale. Antonio intraprende il suo viaggio perché comandato ad accompagnare i due bambini in un orfanotrofio. Durante il suo corso la realtà del sistema sociale lo obbliga a prendere un decisione: la scelta di non consegnare Luciano e Rosetta al suo superiore a Roma è dettata dalla paura di essere punito per non aver denunciato il suo collega, che li ha lasciati a Bologna. 31  Sui film italiani di viaggio si veda il commento di Fofi in Sesti e Ughi, gianni amelio, cit., pp. 52-53; Laura Rascaroli, New Voyages to Italy. Postmodern Travelers and the Italian Road Movie, «Screen», 44, 1 (Spring 2003), pp. 71-91; Carlo Mazzacurati, Silvio Soldini, and Gianni Amelio: Highways, Side Roads, and Borderlines – the New Italian Road Movie, in Hope, Italian Cinema, cit., pp. 251-272.

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Il film non ha nemmeno il finale tipico dei road movie. Il viaggio non continua senza fine, i protagonisti non muoiono né vengono uccisi e non ritornano o trovano una nuova casa. Il dispiegarsi degli eventi in Il ladro di bambini comporta una perdita piuttosto che una vittoria ogni volta che il trio si scontra con le istituzioni e, allo stesso tempo, un arricchimento interiore si accumula in ciò che io definisco utopia dei sentimenti. Il viaggio sviluppa lentamente la consapevolezza dei tre anche se in maniera diversa. L’attraversamento del paese è un ritorno a casa per Antonio, il quale vuole portare i bambini dalla sua famiglia, per dare loro quello che hanno perso o gli è stato tolto. Il ladro di bambini racconta la storia di una società degradata. Amelio non ha un programma ideologico, ma ritrae il Sud o i personaggi del Sud come vincitori, non come vittime o vinti secondo la tradizione verghiana. Giovanni Verga (1840-1922) è considerato il più grande artista realista grazie alla sua descrizione della vita delle classi basse in Sicilia nel Ciclo dei vinti: I Malavoglia (1881), Mastro Don Gesualdo (1889) e altri tre romanzi mai scritti. Il ciclo segue le ambizioni sconfitte di una famiglia di pescatori in un piccolo paese siciliano. La vittoria del trio di Amelio è diversa anche dalla vittoria morale e politica raggiunta alla fine di Paisà di Rossellini. Il legame tra i personaggi e la nazione in Il ladro di bambini è il contrario di una riconciliazione. Il trio può ricostruire un nucleo tradizionale di amore e affetto solo per alcuni momenti, ma ogni qualvolta entrano in contatto con il mondo o con altre persone ne escono feriti. Alla fine qualcosa di nuovo riempie la distanza creata dagli adulti, dalle autorità e da una società che ruba loro prima l’infanzia e poi la dignità. Il loro viaggio è un percorso all’indietro. I tre lasciano la casa senza speranza, incontrano ostilità e si scontrano con una nazione senza radici e senza alcuna volontà di lottare in nome degli esclusi. Ciononostante alla fine Rosetta assume il ruolo di sorella maggiore e conforta il fratello. Luciano in cambio accetta il fatto che la sorella non è responsabile per ciò che è accaduto a lei e, indirettamente, a lui. Ora che non è più tenuto a vendicare il suo onore può accettare il suo aiuto. Antonio ha insegnato loro che non possono contare sulla società e che devono contare solo su loro stessi. I due fratelli hanno imparato un nuovo modo di pensare che, per il regista, è necessario al fine di cambiare la società nel lungo termine.

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A mio avviso, anche Antonio è un vincitore e mostra il suo solido fondamento interiore, simile a quello che Amelio nutre e al quale si aggrappa quando realizza i suoi film, perché qualsiasi altra visione del mondo è per lui un tradimento. In maniera ossessiva Amelio riconnette tutto a quelle radici e a quello sguardo morale. Parlando del Sud affermò di sentirsi vicino a tutti quelli che, come lui, avevano solo lo stretto indispensabile e dovevano lottare per soddisfare i loro bisogni primari, quali pane, scarpe e vestiti. Amelio si sente unito come un fratello a tutti i calabresi ed in generale a tutti coloro che hanno subito le stesse mancanze32. La bellezza del film risiede nel modo in cui il carabiniere smette i suoi panni ufficiali per assumersi una responsabilità umana, che va contro i suoi interessi personali. Antonio diventa un uomo che prova ancora solidarietà nei confronti degli emarginati e cerca di compensare i difetti sociali e umani di una società indifferente. Inizialmente i bambini, forzati a mettersi in viaggio con lui, indossano delle maschere che li proteggono dalla società. I due fratelli riflettono la volgarità, il cinismo e la mancanza di scrupoli degli adulti. Assieme ad Antonio riscoprono lentamente che cosa significhi essere bambini, anche se altri adulti non permetteranno loro di dimenticare che sono vittime e che devono pagare per questo. In queste interazioni il film trasmette anche la trasformazione della società italiana. Tutto è raccontato con l’idea di Amelio di un cinema alternativo che mostra senza dire e risveglia le emozioni del pubblico senza offrire soluzioni semplicistiche e consolatorie. La sconfitta nel finale del nuovo nucleo famigliare che si è venuto a creare è determinata dal sistema, ma la vittoria del sentimento umano offre la speranza di un mondo diverso e migliore, basato sull’idea che persone come Antonio, Luciano e Rosetta hanno creato una propria dignità malgrado un sistema ipocrita che è inflessibile con i deboli e le vittime.

32  Amelio secondo il cinema, cit., p. 43.

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L’inizio del viaggio Il viaggio dura cinque notti e quattro giorni e ha luogo prevalentemente su un treno ma anche su un vecchio autobus, in un traghetto e in una macchina, passando per Milano, Bologna, Civitavecchia, Roma, con una sosta in un paese vicino a Reggio Calabria, Marina di Ragusa, Noto fino a terminare a Gela. La prima notte il carabiniere Grignani (Fabio Alessandrini) chiama i suoi superiori da un telefono in stazione per informarli del fatto che il suo collega Antonio Criaco è in ritardo. Il carabiniere è molto preoccupato perché teme che Antonio non sia sufficientemente in gamba o furbo. All’ultimo momento Antonio salta a bordo del treno. Una volta salito, una ripresa a volo d’uccello mostra il treno che si muove rapidamente nella notte che avanza. Metaforicamente le tenebre e le inquadrature dei personaggi all’interno di spazi chiusi suggeriscono il Nord, la situazione che stanno vivendo e gli eventi che accadranno. Il pubblico comprende in fretta che lo zelo di Grignani nel chiamare i suoi superiori non era dettato da un senso del dovere, ma piuttosto dalla volontà di scendere a Bologna per sbrigare una faccenda personale. Antonio lo guarda dalla porta aperta del bagno mentre si prepara per andarsene. Lo specchio accresce il contrasto tra i due: Antonio ha la faccia da persona semplice ma perbene, gentile mentre l’altro incarna la furbizia ‘italiana’ che lo porta ad approfittare del collega che considera un “sempliciotto.” Grignani sa bene che Antonio non lo denuncerà e approfitta della sua bontà. Successivamente il pubblico impara a conoscere meglio Rosetta e Luciano. Lo scompartimento del treno è ripreso dalla prospettiva di Rosetta. La ragazzina si comporta da adolescente viziata e presuntuosa. Antonio entra con due sacchetti contenenti dei panini, siede accanto alla porta. Mentre Luciano dorme, Rosetta si informa su dove sia l’altro carabiniere, chiamandolo erroneamente poliziotto. Chiede poi ad Antonio della sua pistola. Antonio taglia corto e se ne va, tornando poco dopo in jeans. Grignani gli aveva detto che la sua uniforme avrebbe infastidito i ragazzini, fingendo di preoccuparsi del loro stato d’animo quando in realtà voleva solo evitare che si notasse il fatto che i due bambini erano scortati da un solo carabiniere anziché da due, come richiede il protocollo. Antonio,

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tuttavia, corre il rischio perché è sinceramente preoccupato per il loro benessere. Dopo essersi assicurato che i due fratelli si siano addormentati, siede nei sedili in corridoio per non disturbarli e sfoglia i loro documenti. All’arrivo alla stazione di Civitavecchia, prima di recarsi all’istituto dove sono stati assegnati i bambini, Antonio li porta in un bar a fare colazione. Luciano, che non ha proferito parola, compra un sacchetto di patatine con una banconota da mille lire, forse la stessa che gli aveva dato la madre prima dell’arresto. Rosetta ordina un panino e un caffè latte, mantenendo la sua aria da giovane donna di mondo brontolona e lamentandosi con Antonio di come Luciano mangi sempre male. Più tardi Rosetta raggiunge Luciano che siede da solo di fronte ad una televisione e gli grida, chiedendogli dove abbia preso i soldi e cercando di imporgli il ruolo che la madre le ha assegnato. Luciano rifiuta di riconoscere sia l’autorità di Rosetta che quella di Antonio evitando di parlare e perfino di guardarli. Rosetta si rivolge al fratello dicendogli che la madre aveva ordinato a lei di tenere i soldi perché il fratello è stupido e malato. Rosetta utilizza il verbo disse al passato remoto, come d’abitudine in Sicilia. Il dialogo presenta varie espressioni tipiche del Sud e parole siciliane. Luciano si alza e le sferra un calcio. Scoppia una lite e Antonio accorre a sedarla con non poca fatica. Quando alla fine riesce a dividerli, Rosetta cerca di attirare la sua attenzione lamentandosi del fatto che Luciano le ha graffiato un occhio. La ragazzina si comporta da ragazza viziata, mostrando come il mondo degli adulti e la violenza subita abbiano letteralmente compromesso un’undicenne. Dall’altro lato Luciano, barricato nel suo risentimento e nel suo silenzio, dimostra un senso di colpa per non essere stato in grado di difendere le sue donne. Amelio mi raccontò che essendo cresciuto tra sole donne si sentiva spesso a disagio e provava in un certo qual modo lo stesso desiderio di Luciano di avere accanto una figura paterna.

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Nessun asilo All’interno dell’orfanotrofio i tre sono scortati da un prete che appare sorpreso di non vedere Antonio in uniforme. Amelio mostra sottilmente come nell’orfanotrofio cattolico le regole, i documenti e le uniformi abbiano maggiore rilevanza rispetto ai sentimenti umani, alla comunicazione diretta e alla compassione cristiana. Il gioco di luci e ombre, di apparenza e riflessi è qui sottolineata come a voler enfatizzare la falsità dell’istituzione. Lo specchio ricopre un ruolo fondamentale nel mostrare come i personaggi siano percepiti, come loro percepiscano se stessi e come li percepisca il pubblico33. Amelio non utilizza esclusivamente specchi ma anche porte e vetri di finestre per accrescere ciò che la cinepresa mostra già e per enfatizzare il punto di vista imperfetto di uno sguardo rubato. I due bambini sono lasciati soli in una stanza, ancora una volta con la televisione accesa. La porta si chiude e Rosetta continua nel suo atteggiamento supponente, fingendo di non comprendere la situazione e chiedendo una stanza singola o se organizzino gite. Rosetta rifiuta la nuova sistemazione e mostra il suo disgusto per il luogo dicendo al fratello che ha lo stesso odore dell’ospedale in cui la madre era stata operata d’appendicite. Luciano la ignora e si sposta verso la porta, la apre leggermente ed ascolta il prete che discute del loro destino al telefono, affermando che sarebbe meglio per l’istituzione non accoglierli. Antonio spinge via il ragazzo e chiude la porta, ma Luciano non si muove ed Antonio è costretto a battere sul vetro per farlo spostare. Il vetro è usato per spiare e per testimoniare l’isolamento ed il rifiuto. Luciano ha compreso chiaramente la situazione dal suo punto di vista marginale. La sua esclusione è ripetuta nella scena successiva quando, dal fondo di una classe, il pubblico vede una suora che detta un messaggio di Madre Teresa ai bambini sul significato della vita: deve essere vissuta come un dono. Luciano appare tra gli stipiti di una porta, ancora una volta intrappolato ed escluso. L’insegnamento della san33  Per maggiori dettagli sull’uso dello specchio nel film si veda Jennifer Hirsh, Lo specchio, la luce, e l’ombra: Riflessioni stilistiche nel cinema di Guanni Amelio, «American Journal of Italian Studies», 22 (1999), pp. 38-51.

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ta non è applicabile a lui. Luciano girovaga da solo in cima ad una scala e, preceduto da un dolly, entra in un corridoio e poi in una lunga stanza con dei letti vuoti mentre voci di bimbi cantano una ninna nanna. Su un letto una bambina calva con uno specchio ed una spazzola finge di pettinarsi i capelli. Luciano sorride per la prima volta in tutto il film ed i suoi occhi mostrano un calore mai visto prima. Gentilmente chiede alla bambina se sia un maschio o una femmina. Lei lo ripaga con un altro sorriso e toccandosi il lobo per mostrare l’orecchino risponde: «Femmina». Questo momento tra i due bambini esclusi è avvolto di tenerezza. La ragazzina sul letto che canta «Ho visto un pesciolino piccolino/ È tutto raffreddato, inquinato» è la sorella di Giuseppe, che interpreta Luciano. La bambina doveva rimanere tutto il giorno con la troupe e la madre, che non poteva lasciarla a casa da sola. Giuseppe era molto affezionato a lei e Amelio voleva trovarle una piccola parte. Un giorno la trovò che piangeva e le chiese il perché. Sua madre spiegò al regista che i bambini passando di lì l’avevano presa in giro perché era calva. Amelio le chiese come sono le attrici secondo lei e la bambina rispose «Belle, belle, belle». Allora Amelio le chiese come, secondo lei, lui sceglieva le sue attrici, se belle o brutte, e lei rispose «Belle». Allora lui le disse che la voleva nel suo film e lei smise di piangere. Durante la pausa pranzo cercò il collegio e nel dormitorio pensò ad una scena in cui Luciano, vagando da solo, trovava una ragazzina troppo ammalata per andare a lezione. La scena fu improvvisata ed Amelio ancor oggi ritiene di essere stato ampiamente ricompensato per il suo generoso gesto con questo momento toccante. Questo dimostra che il dono della vita deve essere rubato o scovato ai margini, al di fuori della società strutturata, o della sceneggiatura. Da quel momento in avanti la ragazzina voleva essere presente in ogni scena, quindi Amelio le disse di stare sullo sfondo, con piena soddisfazione della bambina. Dopo l’inaspettato incontro con la bambina, la cinepresa ritorna su Rosetta, la quale è in piedi provocante accanto ad una finestra mentre si mette lo smalto alle mani. Antonio le si avvicina. Quando lo vede gli mostra il suo lavoro sulle unghie. La sua crescente civetteria mette Antonio a disagio e prima di uscire le raccomanda di non farsi vedere da nessuno nell’istituto mentre fa queste cose. Antonio corre a chiamare Grignani, il carabiniere che se ne era an-

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dato alla stazione di Bologna, per informarlo che l’istituto non vuole accogliere i bambini. Grignani non sembra preoccupato e gli dice di portarli in una caserma dei carabinieri. La seconda notte trascorre, ed il giorno successivo si apre con Rosetta che guarda gli altri bambini mentre vanno a lezione ed esprime il suo disgusto per la suora. Si avvicina al fratello che sta giocando e gli confessa di aver rubato una macchinetta giocattolo per lui. In questa scena molto breve Amelio descrive la distanza tra i due fratelli e gli altri bambini e l’educazione distorta che hanno ricevuto. Antonio ritorna e dice loro che se ne devono andare. Rosetta si lamenta di non aver chiuso occhio per colpa di una monaca che russava. Antonio taglia corto ribattendo che nemmeno lui è riuscito a dormire. Mentre camminano con le loro pesanti borse in zone sordide della città, sembrano l’opposto dei turisti che si vedono normalmente in Italia. Antonio non riesce a trovare la stazione dei treni e vagano attraverso i giardini di Piazza Vittorio. Rosetta beve un sorso di birra da un ubriaco seduto su una panchina. Il suo comportamento semplice, ma di una noncuranza sconvolgente, rivela ancora una volta l’educazione ricevuta. Luciano si ferma a guardare un uomo che fa trucchi con le carte, un riferimento cinematografico a Ladri di biciclette. Ancora una volta il paesaggio rivela spazi simili a quelli di città del terzo mondo, sottolineati da splendidi movimenti della cinepresa che mostrano il trio mentre cammina in fila fuori dal parco verso Via Giolitti, vicino alla stazione. Luciano ha un attacco d’asma e si aggrappa alla rete di ferro, che simboleggia il loro intrappolamento. Antonio accorre in suo aiuto mentre Rosetta estrae con calma un inalatore dallo zaino. Luciano non può viaggiare. La frustrazione e la rabbia di Antonio traspaiono visivamente mentre si siede sconfitto sulla recinzione. All’interno di un modesto appartamento si scorge il bel volto insolente di un carabiniere napoletano. Luciano sta riposando in una cameretta in cui è appeso il poster di Diego Armando Maradona con la maglia del Napoli. Rosetta sta giocherellando con un telecomando. Luciano dice al carabiniere di non riuscire a respirare. Il film cattura molti aspetti della cultura popolare italiana contemporanea e, in poche frasi, descrive la mentalità e lo stato precario del giovane ca-

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rabiniere, espressi nell’affermazione «Cca se non respire è meglio». Quando viene a sapere che Luciano è tifoso dell’Inter, il carabiniere afferma che deve soffrire. Sottile riferimento al mondo calcistico italiano, dato che nonostante tutti i soldi investiti e le promesse fatte, la squadra di Moratti all'epoca non aveva vinto nulla in tanti anni. Antonio è ripreso mentre parla con un altro carabiniere, il quale si sta stirando la camicia. Quest’ultimo consiglia ad Antonio di recarsi alla caserma più vicina per comunicare che l’orfanotrofio ha rifiutato di accogliere Luciano e Rosetta, aggiungendo che sono guai per il carabiniere che li ha lasciati. Antonio è dispiaciuto di non averlo fatto prima, a differenza del napoletano, la cui sicurezza da arrivista e il disinteresse per i bambini esemplificano la mentalità maschilista che il film sta smantellando. Il napoletano ora si sta facendo la barba di fronte allo specchio del bagno con una maglietta indosso, mentre ascolta la radio. Da una veranda attraverso una finestra del bagno Rosetta inizia a conversare con lui sui cantanti e le canzoni che le piacciono. Rosetta comincia a canticchiare Albachiara di Vasco Rossi. La canzone è contenuta nell’album Non siamo mica gli americani, uscito nel 1979. Il napoletano prende in giro Rosetta su Nino D’Angelo34, Rosetta ne chiede una cassetta e con un sorriso furbo il carabiniere la invita ad entrare a prenderla. Lei lo guarda con risentimento e se ne va. Ancora una volta un adulto, questa volta un carabiniere, cerca di sfruttare le sue innocenti osservazioni e azioni. Tutti gli episodi che vedono coinvolta Rosetta, quali il furto della macchinina, il sorso di birra, la conversazione nel luogo sbagliato con la persona sbagliata, enfatizzano la sua vulnerabilità e provocano trepidazione nello spettatore.

34  Nato il 21 giugno 1957 da una famiglia povera dei sobborghi di Napoli. Dopo aver lasciato la scuola ancora molto giovane negli anni settanta, ha avuto un successo considerevole fra gli adolescenti del Sud, specialmente in Sicilia. Quasi tutte le sue canzoni sono in dialetto napoletano. Come attore recitò in Il cuore altrove, un film di Pupi Avati, e nel 1982 uscì con «Un jeans e una maglietta», un album molto popolare che ebbe un grande successo di pubblico come film. Ignorato dai critici, è uno dei cantanti italiani più amato dal grande pubblico popolare.

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Non puoi andare a casa La terza notte ha inizio alla stazione dei treni. Antonio cerca di strappare qualche parola al silenzio di Luciano, ma si accorge improvvisamente che Rosetta non c’è. Corre subito a cercarla in bagno. Prima di mostrarlo direttamente, la cinepresa riprende il suo riflesso nello specchio. Rosetta lo invita a leggere alcune scritte sporche sulla porta. Lei si avvicina allo specchio e si dà un’occhiata mentre si lava i denti. Antonio cerca di metterle fretta, temendo di perdere il treno. Rosetta non se ne cura e chiacchiera provocatoriamente sul milione di lire speso dalla madre per raddrizzarle i denti con un apparecchio, così ora ogni uomo che la guarda può ammirare la sua “bocca”. La sua seduzione adolescenziale raggiunge il suo massimo. Amelio compie un ottimo lavoro nel fare in modo che il pubblico provi simpatia per i bambini in quanto tali, per esempio quando Rosetta gioca a fare l’adulta sdegnosa in orfanotrofio, e poi ribalta la situazione facendolo infuriare, come qui, quando Rosetta si comporta da ammaliatrice, in quanto consapevole che le sue azioni sono il risultato della reificazione della sua persona. Antonio si sente mortificato e infuriato e le intima di smetterla di dire certe cose e di iniziare a comportarsi da bambina. Lei si sente insultata e umiliata e contrattacca minacciandolo di accusarlo di molestie. Rosetta è ancora ferita da alcune osservazioni sprezzanti che lui ha espresso nei confronti della madre. Antonio è incredulo. La sua angoscia cresce nel momento in cui si siede di fronte a lei e la scuote. Lei lo sfida a colpirla e a lasciarle dei segni, così da poterlo denunciare. Il loro totale dissidio trova espressione in una ripresa a figura intera che li mostra separati nel loro dolore. Rosetta sta ricattando sessualmente Antonio facendo sua un’erronea percezione che Amelio sta cercando di smantellare nel film. Godfrey Cheshire definisce l’operazione di Amelio come il tentativo di resistere all’impressione forzata dai media, secondo cui lo spirito del pedofilo arrestato nella prima scena è letteralmente presente ovunque, in ogni cuore e in ogni sguardo di adulto35. Il giorno successivo, di nuovo sul treno, Luciano è mostrato in un riflesso sul finestrino mentre dorme. Antonio siede sul sedile in cor35  The Compassionate Gaze of Gianni Amelio, «Film Comment», (luglio-agosto 1993), p. 88.

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ridoio. Rosetta esce dallo scompartimento e con sguardo inquisitorio, dice ad Antonio che ha sete e chiede se può prendere dei biscotti. Antonio appare stanco. Rosetta vuole conversare dimostrandosi dispiaciuta e da questo momento in avanti la loro relazione comincia a migliorare. Per la prima volta Rosetta affronta la situazione e afferma che il loro viaggio è inutile, dal momento che nessuno li accoglierà. La ragazzina è sincera e la sua paura traspare. Il cambiamento si riflette anche nel suo comportamento. Quando rientra nello scompartimento si siede accanto a Luciano, lui posa la sua testa sulle gambe della sorella e lei gli accarezza i capelli, mentre Antonio li guarda sorridendo. E’ iniziato il lento processo che porterà alla decostruzione di Rosetta come oggetto del piacere maschile. Un vecchio autobus si ferma, i tre scendono ed entrano in una casa in costruzione con l’insegna di un ristorante. La corriera che si allontana mostra in una bellissima e ricercata inquadratura Antonio con i due ragazzi davanti all’edificio, in una perfetta sintesi dell’immagine della loro disperata ricerca di un rifugio, negato dalle condizioni precarie dello stabile. Il ritorno a casa di Antonio ha inizio. Un ragazzino vestito da cameriere li avvisa che il ristorante è chiuso. Antonio lo chiama per nome e per farsi riconoscere rivela la sua identità: l’equivoco indica che i ritorni dopo la lontananza non sono ritrovamenti. All’interno si sta celebrando una festa di Prima Comunione, ma non assomiglia al gioioso e innocente matrimonio rappresentato in Porte aperte. La sorella di Antonio lo riconosce, lo saluta e gli chiede chi siano i due bambini con lui. Antonio le racconta che sono i figli di un Maresciallo dell'Arma dei Carabinieri e che ha il compito di accompagnarli in Sicilia. Rosetta incontra la ragazzina della Prima Comunione e la interroga sul catechismo. La ragazzina risponde correttamente alla domanda sul primo comandamento, ma Rosetta la snobba rimproverandole di non conoscere la preghiera dell’angelo custode, la stessa che recitava in cerca d’aiuto mentre il cliente l’approcciava. La sorella di Antonio li accompagna al piano superiore perché si rinfreschino con una doccia e giustifica le pareti spoglie ed il disordine dicendo che tutti i soldi erano stati spesi per il ristorante. La sorella aggiunge che sono accampati come albanesi, senza porte né pavimento. In poche frasi il film cattura il sentimento di dovere famigliare della sorella nei confronti di Anto-

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nio, i suoi pregiudizi e la sua presunzione, lo stato dell’economia del Sud, e le paure di Antonio, evidenti nella bugia raccontata per proteggere Rosetta e Luciano. Nella scena succesiva, Antonio e Luciano sono sul terrazzo. Il cambiamento nel comportamento di Rosetta diventa maggiormente evidente quando si preoccupa di fare la doccia con la dovuta intimità e interroga Antonio sulle motivazioni che lo hanno spinto a mentire alla sorella riguardo alla loro identità. Una panoramica del paesaggio mostra il mare, un muro di case in costruzione lungo la spiaggia e la strada. Antonio racconta a Luciano della sua infanzia. Il contrasto con il passato è rinforzato dalla degradazione del paesaggio che stanno esaminando. Poi Antonio scorge sua nonna e scende in giardino per incontrarla. La loro conversazione è naturale e spontanea e la nonna gli rivolge le frasi che ogni nonna italiana avrebbe detto, ovvero se stia mangiando bene e che lo vede sciupato. Amelio aveva visto la donna che interpreta il ruolo al mercato mentre vendeva della verdura e la volle nel suo film. Lei obiettò dicendo che non era un’attrice e che la sola cosa che faceva era stare in giardino a legare pomodori. Il regista si limitò a spiegarle la situazione: Antonio è il giovane nipote che vive a Milano e che va a trovare la nonna ogni tre anni. La donna si limitò ad improvvisare le sue battute. Questa figura è l’omaggio personale di Amelio a sua nonna, la quale quando vide Il ladro di bambini a Catanzaro, oltre che essere felice di non dover pagare il biglietto, rimproverò il nipote regista di non ricordarsi nemmeno come era solita portare i capelli. Quando le chiesero se le era piaciuto il film, dimostrò i suoi “solidi fondamenti” chiedendo che cosa sarebbe accaduto ai bambini e, abituata alla televisione, chiese se suo nipote aveva intenzione di girare il seguito. Antonio racconta a sua nonna che ora è un carabiniere e che cerca di fare del suo meglio. Lei risponde che fare del proprio meglio è ciò che conta. La sua filosofia rispecchia l’atteggiamento di Antonio nei confronti dei due bambini, ma non sarà abbastanza per la società o per l’esercito. Per un istante la scena è vista dall’alto attraverso gli occhi di Luciano che più tardi sarà visto scambiare alcune parole con la nonna. Luciano è l’altro soggetto con cui la cinepresa cerca di creare un contatto. La sequenza è girata in maniera differente da

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tutte quelle viste fino a questo punto. Amelio utilizza quindici brevi fotogrammi per preannunciare che la felicità in questo luogo avrà vita breve. Molto presto il dramma dissiperà ogni illusione di Rosetta, Luciano e Antonio. Il tono gioioso della sequenza e il diverso comportamento di Rosetta sono sottolineati altresì dal bel vestito floreale che indossa. Di nuovo alla festa, il signor Papaleo, sua moglie e altri due amici sono al tavolo con la sorella di Antonio e suo marito. La maliziosa e frivola signora Papaleo insinua che Antonio abbia sposato una donna divorziata e che Luciano e Rosetta siano i figli di lei. La conversazione devia sulla politica e la loro argomentazione in difesa delle costruzioni abusive mostra quanto sia accettata la corruzione. Antonio riesce solo a dire che le leggi devono essere rispettate. Inevitabilmente controbattono dicendo che quando una persona lascia il Sud, comincia a vedere le cose in maniera diversa. Antonio, come un padre, tiene sempre d’occhio i “propri bambini”. Luciano siede con la nonna, la quale gli porge una foto di Antonio a sette anni vestito da Zorro. Rosetta si comporta in modo amichevole con un’altra ragazzina e le racconta alcune bugie sul fatto di aver incontrato il Papa e di come andasse bene a scuola. Le legge addirittura la mano per predirle il futuro. La signora Papaleo distrugge il ritorno di Rosetta alla sua infanzia estraendo un giornale in cui la bambina è fotografata con una striscia nera a coprirle gli occhi, come a nascondere qualcosa di vergognoso, e rivelando la sua identità. Rosetta scappa fuori inseguita da Antonio e Luciano, il quale si ferma e si volta indietro con un’espressione di apprensione. Indisturbata la signora Papaleo mostra la foto alla sorella di Antonio. Amelio fornisce un’analisi di questa sequenza in Calabria che è, come scrive Fofi, una chiave per capire l’Italia di fine secolo. Il ritratto delle case abusive, i commenti sulla nuova immigrazione, i vari personaggi maschili e femminili ed i modi diversi in cui le generazioni agiscono ed interagiscono serviranno da testimonianza futura alle generazioni successive. Come ha raccontato Amelio, la sceneggiatura originariamente prevedeva due modi diversi di rappresentare quel mondo, letterario e cinematografico allo stesso tempo. Da un lato c’era l’immagine romantica del villaggio con le case in collina quasi del tutto abbandonate. Dall’altro lato voleva creare

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un contrasto facendo svolgere alla sorella di Antonio un lavoro moderno, come la gestione di una pompa di benzina, qualcosa di simile a quello che l’attrice Dorian Gray fa in Il grido di Antonioni. Come prosegue Amelio, l’aspetto più letterario ed arcaico nel film avrebbe dovuto essere rappresentato dalla figura della nonna che vive da sola nella vecchia casa di famiglia in un antico villaggio, mentre all’estremo opposto troviamo la sorella di Antonio che si è trasferita in una casa accanto all’autostrada, in una netta divisione tra il vecchio ed il nuovo36. Tuttavia quando Amelio si recò ad esaminare la zona, non trovò né il vecchio villaggio che desiderava né la pompa di benzina nei pressi dell’autostrada, e pensò così di ricostruirla. Lo scenografo disegnò l’immagine di una pompa di benzina che, secondo Amelio, sembrava più adatta ad un film di fantascienza. Trascorsero parecchio tempo esplorando Reggio Calabria. Dal momento che tutti i locali chiudono alle dieci di sera in città, chiesero dove poter mangiare e gli consigliarono di guidare per 11 chilometri fino ad un ristorante a conduzione famigliare vicino all’autostrada in un paese chiamato Fumaiolo, il quale si rivelò come il luogo che Amelio stava cercando. Dovevano ancora risolvere la questione della nonna. Avevano cominciato a girare la sequenza dall’esterno, con il trio che arrivava alla casa in costruzione e a quel punto il regista si accorse di un piccolo orto. Questo gli fece dimenticare il villaggio arcaico, anche se il giardinetto si trovava giusto accanto alla moderna casa in costruzione. La sceneggiatura venne modificata. Il pranzo che inizialmente era previsto alla fine della sequenza, diventò invece il fulcro. Amelio la notte eliminò dalla sceneggiatura un incontro in cui Antonio spiegava in tono sentimentale ai due ragazzini il significato di crescere in quella zona. Nella sceneggiatura originale non era previsto che Antonio rincorresse e abbracciasse Rosetta; al contrario egli discuteva brevemente con la sorella dopo la rivelazione fattagli dalla signora Papaleo. I ricordi di Antonio sono rimpiazzati dalla conversazione con i Papaleo in cui il suo rispetto della legge si scontra con il loro cinismo. La sequenza rappresenta anche l’unione naturale tra attori professionisti e non professionisti, i quali, in realtà, non erano tutti propria36  Amelio secondo il cinema, cit., pp. 61-62.

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mente dilettanti: i personaggi minori sono interpretati o da attori di teatro o da studenti della Scuola Nazionale Italiana di Cinema, come Amelio mi ha confidato. Antonio e i bambini sono meridionali che tornano al loro suolo natio e quando il regista spiegò loro ciò che voleva, lo fecero in maniera naturale. L’occhiata di Rosetta ad Antonio mentre sta parlando con la signora Papaleo o il momento in cui gioca con la forchetta durante la festa erano tutti gesti spontanei. Amelio non le aveva chiesto di fare nulla di speciale. Tutti gli altri personaggi si sono comportati come se stessero interpretando loro stessi. Per esempio, la ragazzina con il vestito della Prima Comunione che piange nascosta dietro il mobile con la soppressata si stava comportando esattamente come se fosse alla festa. Secondo Amelio un regista non può dire ad attori non professionisti come apparire, ma può solo far capire come iniziare una frase o che tipo di intonazione dare. De Sica era solito recitare ciò che voleva. Amelio si basa sul suo istinto nello scegliere le persone giuste per determinati ruoli. Originariamente Angelo Rizzoli voleva ingaggiare Antonio Banderas per il ruolo di Antonio, ma Amelio non era convinto che fosse la scelta giusta, specialmente perché non parlava italiano e non aveva tempo per impararlo. Il doppiaggio sarebbe stato impossibile dal momento che l’intero film è basato su dialoghi con bambini che utilizzano espressioni colloquiali del Sud. Amelio cercò di prendere tempo, sperando che Banderas accettasse l’offerta di qualche altro film, cosa che accadde. Qualcuno gli suggerì Enrico Lo Verso. Lui era venuto a Roma da Palermo per studiare recitazione e, dopo essersi diplomato all’Accademia drammatica, fece un’audizione e fu scritturato per la parte. Del suo rapporto con Amelio, Lo Verso raccontò che il regista era in grado di cambiare atteggiamento in base al film che stava girando. I tre film a cui hanno lavorato assieme, tutti vincitori di premi importanti, affrontano la stessa idea di base in maniera completamente diversa, dal punto di vista della regia, dei movimenti della cinepresa e dell’attenzione ai dettagli. Avendo lavorato con altri registi, Lo Verso ha affermato che Amelio è l’unico che sappia adattarsi in questo modo37. È chiaro che fra i due c’è un legame molto forte. In un’intervista inedita Lo Verso ha confessato 37  Da un’intervista del 10 luglio 2005 a Roma di Edward Bowen, il quale me l’ha gentilmente ceduta.

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di essere cresciuto leggendo Sandokan e guardando Zorro, che era diventato il suo idolo. Da bambino interpretava quei ruoli ed è convinto di essere diventato un attore per continuare ad interpretarli. Ha aggiunto inoltre che stava girando un film in cui, per sei mesi, sarebbe stato Zorro. L’idea di introdurre la fotografia di Antonio da bambino vestito da Zorro è scaturita dai suoi giochi d’infanzia. Giuseppe Ieracitano, che interpreta Luciano, è di Reggio Calabria, uno di nove fratelli. Amelio ha affermato di aver compreso bene il temperamento calabrese del ragazzino. Era molto geloso delle attenzioni riservate a Rosetta e spesso reagiva non parlando o rifiutando di muoversi o di reagire alle indicazioni del regista. Un giorno era talmente triste che disse ad Amelio che era inutile che lui si presentasse sul set, dal momento che lo riprendeva sempre a distanza38. Valentina Scalici (Rosetta) è di Palermo, città in cui Amelio la notò mentre camminava. Per diversi mesi rifiutò di fare un provino ma quando Amelio fu sul punto di scegliere un’altra protagonista, lei cambiò idea. Amelio ricorda di aver faticato a stabilire un rapporto di lavoro con lei, poiché Valentina non si fidava di lui e spesso mostrava segni di insofferenza verso ciò che stava facendo. Tuttavia dopo aver capito o essere stata convinta dai suoi genitori, entrò in sintonia e diede una splendida e generosa prova39. Quando chiesi ad Amelio come lei si sentisse nell’interpretare quel tipo di ruolo, mi disse di non averle spiegato che cosa stesse accadendo realmente nel prologo. Il regista raccontò che durante le riprese lei era maturata molto ed alla fine quasi lo aveva rimproverato per non essersi fidato di lei completamente. Amelio aggiunse che il cinema non fa bene ai bambini e che probabilmente non avrebbe più lavorato con loro. Amelio aveva scritto la parte della madre dei due bambini per una donna calabrese che viveva a Roma e che non conosceva personalmente. La mattina precedente le riprese del prologo, vide una donna vicino ad un camerino e cominciò a ripeterle le sue battute e quello che avrebbe dovuto fare. Lei lo interruppe dicendogli che lei era la cognata dell’attrice e che si era limitata ad accompagnarla in macchina sul set. Amelio le affidò la parte mentre la vera attrice era nel camerino impegnata a truccarsi e vestirsi. 38  Volpi, Gianni Amelio, cit., pp. 144-145. 39  Ivi, p. 144.

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Da un punto di vista strettamente cinematografico la fiducia di Amelio nel suo istinto ed in quello della sua troupe aiuta a comprendere sia come una sceneggiatura possa essere modificata in fase di realizzazione del film, sia il ruolo della scenografia nelle riprese all’aperto e come le circostanze determinino lo sviluppo di un lavoro artistico. I commenti del regista rafforzano inoltre la mia interpretazione del ritorno al Sud come un continuazione di Rocco e i suoi fratelli. Luca/ Antonio torna a casa senza portare con sé la cultura progressista del Nord come vediamo in altri film italiani che seguono il viaggio da nord a sud. Egli trova la sua terra devastata ed un’immoralità e corruzione così radicate da essere rifiutato dalla sua stessa gente per la sua fiducia in quei solidi fondamenti morali a cui Amelio si affida nel realizzare i suoi film, basati sulla compassione, sul rispetto e sull’amore per gli esclusi. La mia lettura del viaggio verso sud raggiunge il suo compimento in questa sequenza ed in seguito, per riempire il vuoto, Antonio decide di portare Luciano e Rosetta al mare.

Un momento di utopia La quarta notte inizia nella vecchia Fiat di Antonio, con Luciano seduto nel sedile anteriore e Rosetta dietro. I tre viaggiano silenziosamente fino al traghetto per la Sicilia. Luciano finalmente esprime ad Antonio i sentimenti verso la sorella, che in precedenza abbiamo percepito nei suoi silenzi e nei suoi sguardi svogliati, dicendogli che con i suoi pianti si prende gioco di tutti, mentre lui è innocente. Luciano non sa dove sia il padre, ma sostiene che, non appena compirà quindici anni, lo andrà a cercare. Antonio cerca di controbilanciare l’isolamento di Luciano, la sua frustrazione e il bisogno di una solidarietà maschile, dicendogli di prendersi cura della sorella, perché nessuno li avrebbe aiutati. Antonio cerca inoltre di fargli capire che la sorella non è colpevole di ciò che le è accaduto. Quella notte nell’albergo di Marina di Ragusa mentre Luciano dorme, Antonio e Rosetta siedono sulla cornice di un pilastro a parlare. Proprio come il fratello si era aperto ad Antonio chiedendogli dell’arresto del cliente, Rosetta ora vuole conoscere il destino della madre. Spaventata del suo futuro in un istituto Rosetta vorrebbe scappare via.

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Il giorno successivo, il loro unico momento di felicità e di fuga dal mondo, la loro breve utopia, prorompe in una spiaggia dai colori brillanti del sole e della sabbia con la canzone di Gianna Nannini «I Maschi» a fare da colonna sonora. Maschi e altri, uscito nel 1988, vendette più di un milione di copie e fu il secondo maggior successo della Nannini, nata a Siena il 14 giugno 1956. Nel 1984 raggiunse un successo internazionale con la canzone «Puzzle» e con il video «Fotoromanza», diretto da Antonioni. Il titolo «I Maschi» si abbina perfettamente alla scena di Luciano e Antonio che nuotano mentre Rosetta li guarda: maschi e altri. Una macchina da presa fissa mostra Rosetta in un ruolo diverso da quello di sorella e figlia mentre guarda la foto di Antonio travestito da Zorro ed osserva i due che nuotano in mare. Amelio utilizza ventidue fotogrammi per conferire a questa scena uno stile ed un linguaggio cinematografico che espliciti il cambiamento del loro rapporto e crei un perfetto equilibrio tra contenuto, forma e musica. Rosetta in seguito rivela i suoi sentimenti segreti per Antonio chiedendogli l’indirizzo per spedirgli una cartolina e scrivergli quello che non gli può dire direttamente. Alla cattedrale di Noto, fra alcune turiste francesi, Luciano esprime amicizia per Antonio e gli dice che quando compirà quindici anni lo andrà a cercare. L’idillio della breve vacanza è interrotto da un furto. Antonio compie il suo dovere e arresta il ladro, ma alla stazione di polizia la nuova unione famigliare viene spezzata. Un’immagine dall’alto mostra Rosetta seduta su una panchina con le braccia incrociate sul petto. Luciano è loquace e felice nel riconoscere il coraggio di Antonio; le loro reazioni alla retrocessione di grado di Antonio sono mostrati in due gesti tipici del non detto di Amelio. Luciano prende una delle sue scarpe e la svuota della sabbia che era rimasta dentro, un atto simbolico ed inconscio che segna la fine della loro vacanza. La maturità e la dignità di Rosetta emergono nel suo rifiuto di accettare un paio di occhiali da sole da una delle turiste francesi che ha appena scoperto il suo passato. Rosetta non vuole la loro compassione. Nel giornale della signora Papaleo che ritrae la sua foto, i suoi occhi sono coperti da una striscia nera, a testimoniare l’ipocrisia dei media (la signora Papaleo non ha alcuna difficoltà nel riconoscerla), ma anche il modo in cui la società eti-

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chetta e giudica le persone. Gli occhiali da sole sono come la striscia nera, atti a nascondere la sua identità mentre la etichettano come una prostituta. Nel rifiutarli Rosetta afferma di non avere nulla da nascondere e di non volersi rassegnare alle categorie imposte dalla società. I suoi occhi sono puliti. I tre se ne vanno ed il cancello si chiude dietro di loro, in una scena che ricorda l’ultima uscita di Tommaso Scalia dall’edificio in cui lavorava nel film Porte aperte. Tuttavia la convinzione di Antonio di essere più forti e di vincere è sostenuta dall’atteggiamento di sfida di Rosetta. Epilogo Nel sedile anteriore della macchina Luciano tenta di parlare ad Antonio nel vano tentativo di ritardare la loro partenza, ma Antonio è silenzioso e chiuso in se stesso. Attraverso una cinepresa posizionata in una macchina che procede, i tre si vedono ancora una volta intrappolati nelle buie e vuote strade di Gela, dagli oscuri edifici e dagli alti condomini che preannunciano i muri dell’istituto. Antonio si ferma e invita i bambini a dormire. Lui stesso chiude gli occhi e Luciano ricorda la fotografia di Zorro. La mattina seguente all’alba Rosetta sta ancora dormendo con la testa appoggiata al finestrino. Nella luce dell’alba Luciano scende dalla macchina e si siede su un marciapiede infreddolito e intorpidito. Al suo risveglio Rosetta guarda Antonio ancora addormentato, come a dire addio al suo amore segreto, poi scende dalla macchina, siede accanto al fratello e assume i panni del suo nuovo personaggio rassicurandolo sul futuro. Non sta più scappando. La loro breve vacanza è finita e i due bambini sono soli. I meriti del film Dopo il racconto della vicenda di Fermi e Majorana e della lotta etica del giudice Di Francesco contro la pena di morte, Amelio torna con Il ladro di bambini al tema dell’infanzia e dell’adolescenza in rapporto agli adulti e alla realtà esterna, che, secondo Massimo Gar-

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ritano, è il suo interesse principale40. Tuttavia questo film va oltre la precedente caratterizzazione di bambini e dei suoi contemporanei, che, come sostiene Cesare Biarese, hanno anch’essi vite difficili41. Fin dall’inizio è chiaro che Luciano e Rosetta sono vittime di una moderna forma di violenza molto diversa per ognuno di loro: violenza diretta per la ragazzina e indiretta per il fratello. Amelio mostra con cura gli effetti di quel che hanno subito. Luciano potrebbe aver denunciato la propria madre chiamando la polizia, con un’azione dettata dal suo desiderio di vendicarsi della sorella e della madre, che considera responsabili di aver umiliato il suo orgoglio maschile. Amelio ha svolto un ottimo lavoro nel comprendere fin dall’inizio i suoi contraddittori sentimenti. Luciano è un giovane ragazzino del Sud con una coscienza maschilista viscerale che confonde erroneamente con l’onore e il rispetto. Si sente debole e umiliato dalle circostanze. Pur essendo l’uomo di casa non può fare nulla né per difendere le sue donne, né per indurle a fermarsi. La sua situazione di impotenza è sottolineata dai suoi sguardi silenziosi e dalla sua incapacità di comprendere che anche la sorella è una vittima. Il modo in cui è presentato all’inizio del film si adegua perfettamente all’intenzione originale di Amelio di fargli uccidere Antonio nel finale. Luciano non ha alcun rapporto con la madre o la sorella ed è praticamente abbandonato. Nonostante soffra d’asma e sia fragile desidera andare a cercare il padre. Luciano si è isolato, sente tutti gli altri come nemici e si rifiuta di parlare. Durante il corso del film sviluppa una relazione con Antonio che è prettamente maschile. Inizia a parlare con il carabiniere non da bambino ma da adulto, raccontandogli barzellette a doppio senso sulle donne e sul sesso, mostrando gli effetti della sua educazione distorta. Luciano non è come Emilio in Colpire al cuore, come altri critici hanno affermato. Antonio è un figura positiva per Luciano, prima come carabiniere e poi come Zorro, quando protegge Rosetta alla festa e arresta il ladro a Noto. Antonio gli insegna anche a nuotare. Nel momento in cui inizia a guadagnare l’ammirazione di Luciano, Antonio viene degradato anziché ricevere la sperata promozione, Luciano è distrutto e strappa la foto di Zorro. Il comportamento distorto dei due bambini 40  “Il ladro di bambini”, «Cinemasessanta», 33 (marzo-aprile 1992), p. 25. 41  Adolescenza, in Sesti, La ‘scuola’ italiana, cit., pp. 297-300.

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violati rivela sia innocenza sia malizia. I due bambini sono feroci e candidi allo stesso tempo. L’utopia del film risiede nella speranza che le azioni di un uomo come Antonio, il quale non è completamente condizionato dal suo lavoro e dalla società moderna, possano offrire loro un codice alternativo. Il film stesso si offre come un codice alternativo per raggiungere e cambiare un pubblico che è parte della fredda società che rappresenta. L’obiettivo di Amelio non è quello di salvare l’ordine patriarcale ma di sensibilizzare o “femminilizzare” la coscienza maschile, come scrive Cheshire42. Il regista vuole modificare lo sguardo imposto dal cinema e dai media contemporanei, che favoriscono il sesso, la passione e la violenza, a favore di una visione morale. Questo tentativo è rivelato in maniera indiretta dalle paure del regista nei confronti del pubblico, quando afferma che lo spettatore ideale a cui un regista si rivolge, in realtà non esiste. Amelio è consapevole del fatto che lo sguardo dello spettatore deve essere liberato da una enorme quantità di imposizioni che gli vengono propinate ogni giorno43. Il prologo conduce all’interno di una situazione prestabilita. Una donna che probabilmente si è prostituita, ora vende la figlia, ma Amelio si sforza di non condannarla. Rosetta non odia mai la madre e non parla mai di lei, ma rivela i suoi sentimenti ad Antonio affermando: «Io mi sogno sempre che muore»44. A poco più di undici anni, Rosetta è intrappolata, dalla società e dai giudizi dei mass media, in una contraddizione che la vuol far pentire per qualcosa che era stata costretta a fare ed allo stesso tempo le nega la possibilità di farlo. Per la società Rosetta è il simbolo della malignità femminile che potrebbe contaminare altre ragazzine nelle sue istituzioni cattoliche. Rosetta è colpevolizzata, condannata e marginalizzata, violentata anche dopo la violenza fisica. Prima l’istituto di Civitavecchia rifiuta di accoglierla, poi il carabiniere napoletano cerca di approfittarsi di lei. In Calabria la curiosità ed il sensazionalismo dei mass media unito al falso senso di giustizia della gente comune la relegano nuovamente ai margini. Lei ne è consapevole e in principio vorrebbe fuggire. Nel cinema contem42  Compassionate Gaze, cit., pp. 82-85, 88. 43  Amelio secondo il cinema, cit., pp. 113-114. 44  Il ladro di bambini, cit., pp. 75.

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poraneo italiano i bambini fuggono per varie ragioni; Rosetta cerca di convincere Antonio a lasciarla scappare per vivere la vita che la società si aspetta da lei. L’incoraggiamento di Antonio «Siamo più forti noi» dopo che la signora Papaleo si fa interprete del giudizio sociale compiaciuto della virtuosità, non riesce ancora a convincerla a lottare. Antonio mente a sua sorella e ai suoi amici per proteggere Rosetta dalla loro mentalità. Come Vito Di Francesco in Porte aperte, Antonio mostra la distanza tra i bigotti e coloro che stanno dalla parte della giustizia e del rispetto per la legge, ma con compassione per la dignità umana. Ma mentre Antonio non riconosce più il suo paese e la sua cultura, Vito già dall’inizio è in contrasto con la mentalità che lo circonda. Dopo il fallito ritorno a casa, Antonio, Luciano e Rosetta si godono una breve vacanza al mare, al di fuori del codice morale ufficiale, e ne sono trasformati. Antonio fa nascere fra loro un nuovo rapporto “rubandoli” alla società strutturata ma, nel momento in cui lo fa, diventa anch’egli un escluso. Come carabiniere egli fa parte della società ufficiale con il compito di proteggere la legge e rispettare le sue convenzioni, ma fallisce nel seguirle e perde perfino il poco prestigio che era riuscito a guadagnare agli occhi di Luciano. Il suo ruolo di carabiniere e di Zorro è finito, coma indica simbolicamente il fatto che egli continua a dormire quando Rosetta e Luciano escono dalla macchina nel buio e vuoto parcheggio fantasma dei sobborghi di Gela. Tuttavia Antonio è riuscito ad instillare in loro il coraggio di andare avanti. Dopo ‘la breve vacanza’ alla spiaggia, dove l’utopia ha regnato brevemente, le tenebre, la chiusura e l’aridità tornano a riflettere il loro isolamento. Anche Antonio perde il suo ruolo ed è costretto a rinunciare al suo sogno di fare carriera; invece di riconoscere i suoi meriti il commissario gli toglie la sua identità sociale. Il paesaggio e la scenografia giocano un ruolo ben preciso. Lo sfondo visivo aggiunge profondità ai personaggi e ai temi, richiamando silenziosamente una realtà comune e mostrando ciò che si nasconde sotto la superficie, secondo la metafora ameliana dell’iceberg45. Amelio ha sempre legato strettamente il paesaggio alla storia. 45  “La regia è un iceberg, la parte importante sta sotto”: Intervista a Gianni Amelio, a cura di Dino Audino e Gino Ventriglia, «Script», 5 (maggio 1994), p. 36.

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In Il ladro di bambini lascia che la casa in cui vivono Luciano e Rosetta ci racconti il loro degrado e la loro privazione culturale. I bambini e la madre vivono a Milano, la più moderna fra le città italiane, ma segregati in un complesso di appartamenti remoto ed oscuro come le vite dei personaggi, dove il cemento ha soppiantato la terra e la televisione ha rimpiazzato le conversazioni. Il sogno dei Parondi di una vita migliore si riduce alle banconote che il cliente di Rosetta porge alla madre. Il carabiniere che abbandona Antonio alla stazione di Bologna, dà appuntamento ad Antonio di fronte al memoriale delle vittime delle bombe del 2 agosto 1980, che causò 85 morti e 200 feriti in uno dei peggiori attacchi terroristici visti in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. Sette bambini al di sotto dei quindici anni morirono, fra cui una bambina, e molti turisti. Molto poco si sa sui mandanti e sui moventi: nel film Antonio non capisce a cosa alluda l’altro carabiniere, ma al pubblico dovrebbe suggerire il degrado delle relazioni umane, la mancanza di responsabilità civile e l’amnesia storica. A Roma il degrado aumenta quando i tre camminano attraverso Piazza Vittorio, in cui ubriachi siedono fra immondizia e bottiglie vuote e Via Turati che appare come una prigione circondata dove Luciano stenta a respirare. In Calabria il nuovo ha invaso e rimpiazzato il vecchio con case incomplete che sembrano ergersi sul mare ai bordi dell’autostrada. L’Italia non è il bel paese o il giardino d’Europa, ma una terra di nessuno che ha perso la sua identità geografica e la sua compassione per i più deboli. Il ladro di bambini è un film di rara angoscia ma lascia aperta la speranza a una possibile vittoria del cuore umano, nell’estrema capacità dei deboli di riconoscersi l’un l’altro, perfino in un mondo che nega le loro identità, o meglio, impone false identità. Antonio, Rosetta e Luciano non ricevono aiuto da nessuno. Le istituzioni li rifiutano: il loro scopo è l’indottrinamento, non il sussidio e la carità. La polizia si aspetta disciplina e fedeltà ad un pezzo di carta. Genitori e parenti si aspettano lealtà a tutti i costi. La famiglia come istituzione è in rovina: il padre li ha lasciati, la madre forza la figlia alla prostituzione, il fratellino vive nell’odio e nel desiderio di vendetta. Antonio verrà accusato di sequestro di persona e forse anche di abuso sessuale, come insinua il commissario. Tutte le porte gli vengono sbattute in faccia. Solo l’angoscia, la sofferenza, la vio-

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lenza, la lascivia e la privazione esistono e sono reali. Non esistono guide, né punti di riferimento e nessuna autorità paterna. Tuttavia la solidarietà del piccolo gruppo nasce proprio in queste circostanze e non può essere controllata da nessuna legge e da nessun ordine. Per la prima volta nel suo cinema Amelio cerca di creare una figura maschile positiva e decisa. Altri film contemporanei italiani presentano eroi che stanno al di sopra degli altri e lottano per lo Stato o per una causa. Antonio è un eroe per Rosetta e Luciano; i due bambini lo vedono come Zorro, anche se alla fine egli viene sconfitto dalla stessa legge e mentalità che li ha relegati ai margini, e che classifica le persone, perfino dei bambini indifesi, in buoni o cattivi. Tuttavia secondo i nuovi ideali proposti dal film, fondati sulla compassione, sulla dignità, sulla solidarietà e sul rispetto, Antonio è sicuramente un vincitore. Ha insegnato loro, e forse al pubblico, qualcosa di diverso dall’educazione che hanno ricevuto. Il viaggio si svolge come una sorta di percorso di formazione. In Porte aperte il giurato Consolo dice a Di Francesco che perfino quando una pianta viene sradicata, lascia delle piccole radici nel terreno che un giorno, inaspettatamente, cresceranno. Antonio, figlio del Sud rurale che era entrato nei carabinieri per diventare un generico italiano, ha dentro sé quelle piccole radici che possono donare a Rosetta e Luciano un momento di felicità e una visione utopica, che Amelio spera possa sbocciare nel suo pubblico e diventare la norma.

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Capitolo 7

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L’esodo come un sogno vuoto: Lamerica (1994) Vivere là, a Tirana o in Albania in generale, ti dava l’idea di essere ritornato un pò nell’Italia degli anni ’50. Partendo da questa impressione non è stato difficile arrivare al soggetto attuale del film. ... Era parecchio tempo che volevo fare un film sull’emigrazione degli anni ’40, un film su mio nonno e mio padre che sono emigrati in Argentina a distanza di quindici anni l’uno dall’altro. Infine il film sull’Albania è diventato anche un film sull’Italia di quarant’anni fa1.

In seguito al successo internazionale di Il ladro di bambini, Cecchi Gori, il più importante produttore italiano in quel momento, diede ad Amelio carta bianca per scrivere un soggetto per un film. Amelio andò nel panico, così abituato a produttori che gli proponevano un soggetto o una storia da adattare. La sua idea originale era quella di scrivere qualcosa sull’immigrazione italiana e, in particolare, sulle esperienze di suo padre e della sua famiglia. Ma la possibilità di pensare liberamente a qualsiasi soggetto inibiva la sua creatività, sicché infine non riuscì a realizzare un film in costume sulla vicenda di emigrazione del padre. Mentre si sforzava di trovare un nuovo approccio, gli albanesi lottavano per entrare in Italia. Immediatamente si spalancò una nuova possibilità. Fra i problemi più difficili e diffusi dei nostri giorni, l’esodo di masse di persone alla ricerca di condizioni di vita migliori è senza dubbio uno dei più critici. Nel 1991 oltre 40.000 albanesi sbarcarono in Italia in cinque diverse ondate. Solo tra il 6 e il 7 agosto oltre 20.000 persone approdarono sulle coste della Puglia a Bari e a Brindisi. Immagini strazianti di immigranti ammassati nel vecchio stadio di Bari in attesa di essere rimpatriati vennero trasmesse da vari canali televisivi italiani. Amelio ricorda quegli eventi con angoscia. Il regista fu particolarmente impressionato da alcuni episodi, fra 1

Amelio, citato in Sesti e Ughi, gianni amelio, cit., p. 55. 

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cui quello dei dodici albanesi rimasti uccisi nell’attraversare un’autostrada perché non si aspettavano che passassero delle macchine, o di altri che scappavano dallo stadio perché si sentivano in prigione2.

Dopo essere stato testimone di questa catastrofe Amelio si convinse che era giunto il momento di realizzare un vecchio progetto. Ispirato all’emigrazione dal Sud Italia verso il Nuovo Mondo, questo film gli avrebbe permesso di riflettere sulle circostanze dell’Italia contemporanea3. Nel vedere l’arrivo di questi uomini e donne privi di tutto ed il modo in cui venivano detenuti e rimpatriati, Amelio rivisse la disperazione che aveva costretto la sua famiglia ad immigrare in Sud America in cerca di lavoro, con la differenza che alcuni suoi cari avevano avuto maggior fortuna, anche se, proprio come gli albanesi, la famiglia di suo zio era arrivata al porto di Napoli dall’Argentina in inverno, senza alcun vestito pesante e addirittura senza valigie. Lamerica prosegue la riflessione critica del cineasta calabrese sull’Italia contemporanea e sullo scontro generazionale, iniziata con Il ladro di bambini. La resa finale di Antonio, interpretato da Enrico Lo Verso, segna da un lato il fallimento delle istituzioni competenti nel proteggere i minori e dall'altro quello della figura paterna che cerca di stabilire un dialogo con i propri figli. Lamerica continua questi temi. Nella sceneggiatura originale il personaggio centrale di Gino era caratterizzato sul modello di Antonio. Solo quando iniziarono le riprese la storia venne modificata e Gino diventò più meschino e losco. Ancora una volta il protagonista è interpretato da Enrico Lo Verso. Amelio lo scelse per ripagarlo della sua brillante prova in Il ladro di bambini. L’attore aveva contribuito ad inventare di sana pianta i dialoghi per la sequenza in Sicilia, quando doveva affrontare il suo superiore. Amelio apprezzava la sua dote, a suo avviso sempre più rara, di non declamare la sceneggiatura, ma di saper “parlare”, facendo sue le battute e i dialoghi4. 2

Amelio, in Crowdus e Georgakas, Cineaste Interviews 2, cit., p. 199.

3

Volpi, Gianni Amelio, cit., p. 148.

4  Ivi, p. 155.

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Il carabiniere Antonio era gentile e ingenuo ma impotente di fronte alla burocrazia e al sistema legale che lo accusa di sequestro di minori. Basti immaginare la sua vita dopo l’espulsione dall’esercito, quando è spinto dalla disoccupazione o dal desiderio di benessere ad associarsi con l’ex socio del padre, Fiore (Michele Placido), per sfruttare i prestiti del governo italiano per gli investimenti in Albania. In questo scenario c’è Gino, arrogante, ingenuo, ignorante e così presuntuoso da credere di poter fare ed ottenere qualsiasi cosa in virtù dei suoi soldi. In un’intervista Amelio spiegò che tra Fiore e Gino il primo è più pericoloso perché è forte di una maggiore esperienza e sa come sembrare una persona affidabile. La colpa di Gino, al contrario, è la sua ignoranza perché a soli venticinque o ventisei anni non si è ancora scontrato con con queste esperienze5. I due soci vogliono sfruttare il fatto che l’Albania è ancora una terra di nessuno, ma in questa realtà sociale completamente diversa tutti i falsi valori di Gino si sgretolano ed è costretto a ricominciare daccapo, praticamente a rinascere. Ignorante riguardo alla storia d’Italia si ritrova a dover affrontare un uomo diffidente e pazzo, Spiro/Michele, che crede di vivere nell’Italia degli anni quaranta. Questo personaggio è meno sinistro dei due giovani italiani, in quanto rappresenta più un simbolo delle qualità e dei difetti delle generazioni italiane precedenti e funge da specchio a Gino e al pubblico italiano. In questo processo il regista denuncia la nuova fragile identità italiana fondata su valori consumistici e sul desiderio di arricchirsi senza scrupoli. Amelio utilizza l’incontro con l’Albania e con i rifugiati come una parabola per mostrare agli italiani quanto abbiano dimenticato della loro storia. Il presente dell’Albania ripropone la colonizzazione dell’Italia da parte dell’America dopo la seconda guerra mondiale, con la televisione che ora svolge il ruolo che i film di Hollywood avevano svolto all’epoca. Gli albanesi vedono l’Italia come la loro nuova America, un rifugio semi-mitico per i poveri del mondo che, anziché sognare la statua della libertà, sognano macchine sfreccianti, belle donne, squadre di calcio vincenti, autostrade veloci e belle case, come i giovani albanesi rivelano a Gino sulla corriera.

5

Crowdus e Georgakas, Cineaste Interviews 2, cit., p. 200.

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Amelio e la sua idea di emigrazione Il primo sopralluogo di Amelio in Albania avvenne nel luglio del 1991. Turbato dalla reazione all’arrivo dei rifugiati volle essere testimone, assieme agli sceneggiatori Alessandro Sermoneta e Andrea Porporati6, delle condizioni che motivavano gli albanesi a venire in Italia. Al suo rientro era sconvolto dalle emozioni. I luoghi e i paesaggi gli riportavano alla mente i ricordi della sua infanzia povera in Calabria nel secondo dopoguerra. L’unione dei suoi ricordi e impressioni del suo passato con la terrificante realtà del presente dell’Albania generò l’idea del film: due soldati italiani in missione umanitaria finiscono ostaggi di una famiglia di contadini, che li usa per fuggire dalla penisola balcanica. Il sogno degli albanesi di ricostruirsi una vita in Italia è paragonato al mito dell’America che ispirò così tanti italiani a lasciare i loro cari e le loro terre in cerca di fortuna. La combinazione di desideri e illusioni, presenti e passati, permisero al regista di rivivere il passato della sua famiglia per riflettere su un periodo drammatico nella storia della nazione e per meditare sul presente. Lamerica intreccia piccole e grandi storie in una sinfonia visiva dei temi più scottanti della nostra epoca: le grandi migrazioni e la storia di un Paese che ha dimenticato che le sue genti sono sparse in tutto il mondo e non sa cosa significhi essere una società multietnica. Il film è anche un’autobiografia del figlio di una povera regione, la cui famiglia ha conosciuto solo privazione, separazione, la tragedia senza fine dell’emigrazione e una vita senza la guida paterna7. Amelio aveva solo un anno e mezzo nel 1947 quando il padre emigrò in Argentina per raggiungere suo padre che a sua volta lo aveva abbandonato quando era solo un bambino. La tragedia è descritta liricamente dal poeta italo americano Joseph Tusiani in una poesia dedicata al padre che conobbe soltanto quando aveva già vent’anni: Oh, we have grown apart—you with no son, I with no father. Emigration’s last 6  Si veda Amelio, Lamerica: film e storia del film, a cura di Piera Detassis, Torino, Einaudi, 1994. 7  Per un resoconto sull’infanzia di Amelio si veda Regione Calabria, «Speciale Emigrazione», anno 5 (7 luglio 1992), pp. 8-14.

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and most uncharted tragedy is slowly it forces people to adjust to want of love, anticipating death. A reunited family means only reunion of faces, not of feelings8. Per queste ragioni personali Lamerica è anche la rappresentazione di un’emigrazione forzata. È evidente che il film non nasce con intenti di puro intrattenimento e Amelio non si aspettava un grande successo di pubblico. L’intreccio scaturisce da un’indagine e da esigenze di stampo totalmente diverso da quelle hollywoodiane, fondendo una forte tensione culturale, civile, storica con una magistrale capacità di dirigere sia attori professionisti che gente presa dalla strada. Ad eccezione di Lo Verso, Michele Placido e Piro Milkani, nel ruolo del mediatore Selimi, gli altri personaggi non sono interpretati da attori ma da persone i cui volti avevano in qualche modo stuzzicato l’immaginazione del regista. Carmelo Di Mazzarelli, che interpreta Spiro/Michele, è un pensionato siciliano che ha vissuto la seconda guerra mondiale. Il regista lo scoprì per caso mentre si aggirava nei quartieri di Siracusa alla ricerca del suo attore. Amelio aveva infatti deciso di non assegnare la parte a Gian Maria Volonté, preferendo un attore non professionista che il pubblico non fosse in grado di identificare. Il regista voleva ad ogni costo un siciliano. Quando nel film Spiro finalmente parla,ha un vero accento siciliano, diverso da quello dei film ambientati in Sicilia negli anni settanta. Nella sceneggiatura il personaggio scovato in un vecchio campo di concentramento, doveva essere calabrese, ma la successiva scelta di assegnare la parte a Carmelo ne cambiò la caratterizzazione e l’identità. Amelio mi raccontò che lavorare con un non professionista adulto era stata un’esperienza completamente diversa da quella che aveva avuto con i bambini; Carmelo provava imbarazzo nel chiedere anche le piccole cose, perfino di poter andare al bagno. Amelio dovette lavorare sodo per riuscire a stabilire un rapporto con lui e mi disse inoltre di non aver mai dato a Carmelo la sceneggiatura, ma di essersi limitato a spiegargli che cosa si aspettava da ogni scena. 8  The Difficult Word, in Gente mia, Stone Park, Italian Cultural Center, 1978, p. 44.

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Oltre alle motivazioni personali del regista il film fu realizzato pensando agli italiani di oggi, un popolo che, ad essere sinceri, soffre di una crisi di memoria. Secondo Amelio il nuovo benessere ha fatto nascere in alcuni una certa arroganza, un cinismo che non rappresenta più la nostra parte migliore. La ricchezza viene utilizzata contro chi ne è privo. Sempre secondo il regista, nonostante molti volti siano cambiati, a partire dagli anni ottanta è emersa una generazione, tuttora al potere, che non ricorda il passato di miseria che molti italiani hanno vissuto9. Il film rappresenta questa mentalità attraverso i personaggi di Gino e Fiore, faccendieri intenti a rubare allo Stato e al prossimo più debole. Come in tutte le opere cinematografiche di Amelio, anche in Lamerica esiste uno scambio, ma a differenza degli altri film in quest’ultimo non avviene solo tra padre e figlio. Nell’intervistare Amelio, il critico Mario Sesti ha affermato che il fulcro della storia è la relazione tra un giovane e un adulto, affine ad un rapporto fra padre e figlio. Ha anche aggiunto che, come in Colpire al cuore, era più semplice per il pubblico identificarsi con il padre che con il figlio10. Il regista dal canto suo ha risposto che il film mostra semmai lo scontro fra due epoche e due mondi diversi. Personalmente concordo pienamente con Amelio. Lamerica contrappone due culture che non possono comprendersi l’un l’altra, fino a che Gino non tocca il fondo e precipita al livello di degrado di chi lo circonda. Inoltre in questo film la figura paterna è come morta, nel senso che appare inaspettatamente, in un ruolo insolito e senza alcun dialogo con il giovane. Spiro nel film parla solo per quaranta minuti ed è come un alieno sia per Gino che per il pubblico, a causa della sua visione del mondo così remota; d’altro canto anche Gino è distante e troppo ignorante per comprendere ciò che sta accadendo attorno a lui. Due scene principali mostrano la sua amnesia: quando gli albanesi rubano le ruote della sua jeep e Gino pretende di denunciarli e farli arrestare e quando chiede al vecchio se il governo albanese sia socialista o comunista. Spiro/Michele fa da maestro all’allievo arrogante Gino e alle nuove generazioni senza memoria storica, ponendole problematicamente 9  I commenti di Amelio sono presi dall’intervista con l’attore Federico Pacifici del 10 ottobre 1995 a New York e generosamente condivisa con me. 10  Per l’intervista integrale si veda Scalzo, Gianni Amelio, cit., p. 178.

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in contraddizione con il passato. L’intento finale del film è di esprimere il rammarico che nasce dalla constatazione che, per la maggior parte, la prosperità economica raggiunta dall’Italia non ha generato una cultura migliore e un più alto senso civico, ma piuttosto un attaccamento ai mezzi di consumo e agli oggetti di lusso, per dimostrare l’alto tenore di vita raggiunto. Amelio ambiva inoltre a riesumare la memoria storica del fascismo in Italia attraverso l’esperienza del comunismo in Albania. Il suo obiettivo era di riscattare la nostra memoria storica non in termini di date ed eventi, ma per far ricordare agli italiani il nostro passato e chi siamo stati, al fine di comprendere il nostro futuro11.

La sceneggiatura originale Nella prima stesura della sceneggiatura la scena iniziale descrive l’arrivo delle truppe all’aeroporto internazionale di Rhinas. Alcuni pastori bivaccano sull’erba e inseguono imprudentemente le loro pecore che corrono impaurite sulla pista, evitando per un soffio le ruote dell’aereo che atterra. Questa immagine di un’Albania post-comunista era stata la prima a colpire il regista. I due protagonisti, Fiore e Gino, sbarcano ed entrano poi nell’unico stanzone dell’aeroporto dove si smistano i bagagli. L’obiettivo di questa scena è di mostrare lo stato di rovina dell’Albania. Tuttavia un anno dopo la stesura della prima sceneggiatura, all’arrivo in Albania per iniziare le riprese Amelio constatò che i luoghi visti durante il primo sopralluogo erano completamente cambiati. Le strade erano piene di macchine e la piazza principale di Tirana era tappezzata con i primi manifesti pubblicitari. Tale situazione spinse il regista a modificare gran parte della sceneggiatura originale per rifletterne i cambiamenti. Amelio sentì innanzitutto di dover mostrare l’arrivo di Fiore e Gino in fuoristrada, che desta la curiosità degli Albanesi ed è oggetto delle loro aspirazioni consumistiche. Nel film i due faccendieri italiani in cerca di facili guadagni arrivano con un fuoristrada giapponese, un Suzuki non a caso targato Bari, la città dove erano sbarcati molti dei profughi ripresi dai servizi della RAI. Dal 11  Crowdus e Georgakas, Cineaste Interviews 2, cit., p. 198.

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momento del primo sopralluogo in Albania e della prima fase delle riprese le strutture socio-economiche erano cambiate a tal punto che il regista sentiva il dovere di accentuare maggiormente la differenza fra gli occidentali e gli albanesi. A tale proposito Amelio ha affermato che far arrivare Gino e Fiore in macchina gli permise di immergerli direttamente in una marea di gente. Questo movimento incessante e invadente della folla è diventato una delle immagini chiave del film. Amelio ha aggiunto che Gino e Fiore approdano in Albania senza il trauma dell’emigrazione forzata ma alla fine Gino sarà costretto a rientrare in patria da profugo, aggrappato ad una vecchia nave. Al regista sembrava giusto che il racconto fosse chiuso tra due ponti e tra due distese d’acqua12. Questa scelta rappresenta buona parte del tema del film sull’albanesizzazione di Gino, l’uomo d’affari che resta in Albania per sbrigare alcune pratiche legali e ritorna in Italia con i profughi albanesi. Durante il soggiorno in Albania, Gino non soltanto perderà tutti i beni di consumo che lo distinguono dai poveri albanesi, ma incontrerà anche un vecchio disertore del periodo fascista, Michele Talarico, che con le sue azioni mostrerà a lui, e di conseguenza a tutti gli spettatori italiani, i valori che essi hanno perduto a causa della loro mancanza di prospettiva storica. Il regista ha spiegato che il film racconta due Italie, quella di suo padre e quella contemporanea, la prima povera e piena di speranze, la seconda cinica e arida. Secondo Amelio queste due Italie avrebbero potuto incontrarsi solamente in un territorio neutro e l’Albania si è rivelata il giusto teatro di questo incontro, dal momento che questo paese oggi è simile all’Italia di un tempo. Il regista ricorda come storicamente l’Italia abbia invaso l’Albania due volte, la prima militarmente nel 1939 la seconda più di recente con la televisione13. Nell’incontro di queste due generazioni di italiani con il passato fascista, Lamerica rappresenta anche un doppio viaggio all’inverso, alla riscoperta del senso della storia, delle proprie radici, di chi erano gli italiani e cosa sono diventati nell’era del post-comunismo, del consumismo, della televisione, della ricerca del facile guadagno, della mancanza di affetto e solidarietà umana. L’intreccio fra il passato e il presente si sviluppa attraverso l’allegoria della memoria perduta e 12  Dall’intervista con Federico Pacifici. 13  Crowdus e Georgakas, Cineaste Interviews 2, cit., p. 198.

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dall’amara constatazione che per sopravvivere in tempi incerti e sotto le dittature la follia è l’unica salvezza. II vecchio disertore Michele Talarico, albanesizzato Spiro Tozaj, è l’emblema di tale condizione. Michele è convinto di avere vent’anni e di essere in Italia con destinazione Sicilia per raggiungere la moglie Rosa e il figlio Pietro, nato il giorno della sua partenza e non ancora conosciuto. Il vecchio è un vero e proprio fantasma del passato ripescato dall’ospizio-prigione che simboleggia il passato italiano ma anche l’identità della nuova Albania. Il personaggio di Spiro ha anche la funzione di dissotterrare l’immaginario collettivo italiano del dopoguerra. Il film II gioco di corrispondenze tra il presente e il passato ha inizio con un montaggio. Prima dell’inizio del racconto, per mezzo di uno split screen, Amelio ci mostra sulla parte sinistra dello schermo, la conquista italiana dell’Albania ad opera dei Fascisti nel 1937 mentre sulla destra scorrono i titoli di testa. II cinegiornale LUCE richiama alla nostra memoria la propaganda del regime e la presa che aveva sugli spettatori. Le immagini mostrano donne e uomini albanesi che accolgono calorosamente gli invasori mentre una voce fuori campo sottolinea l’entusiasmo della folla. In realtà l’interesse per l’Albania da parte dell’Italia fu essenzialmente colonialistico. L’estrazione del petrolio in Albania fu accaparrato dalle raffinerie italiane e milleduecento chilometri di strade furono costruiti con fini strategico-militari per il controllo della penisola e per una futura invasione della Grecia14. Si potrebbe addirittura affermare che Amelio e la sua troupe siano anch’essi degli invasori con l’obiettivo di trarre vantaggio da questo momento storico per realizzare un film ed Amelio ne era estremamente consapevole. La decisione di utilizzare il Cinemascope anziché un formato più naturalistico conferisce al film una dimensione epica. Durante la lavorazione del film Amelio ha ricordato che Sergio Leone aveva usato questo formato per i western, e questa era stata per lui una vera ossessione. Amelio temeva che il formato avrebbe creato 14  Si veda Marco Dogo, Un’altra corona per Vittorio Emanuele III, «l’Unità – Storia dell’oggi. Albania», (22 agosto 1991), pp. 14-15

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una cornice non adatta al contenuto del film e che il pubblico italiano non ne avrebbe capito l’uso, essendo abituato a vedere l’immagine lunga, orizzontale del cinemascope con film non drammatici come Lamerica. I due uomini d’affari sono travolti dagli sguardi della folla invidiosa e desiderosa di avere i loro soldi, i loro vestiti e la loro macchina. I doganieri affermano avidamente: «Bella ... macchina italiana? ... Quanto costa? Un milione? Due?» Il fatto che la macchina non sia italiana ma giapponese può essere letto come un commento alla globalizzazione e ai nuovi status symbol o all’immaginario sovradimensionato che gli albanesi (e forse gli italiani stessi) hanno dell’industria internazionale automobilistica. Da un lato dello schermo nelle immagini del cinegiornale si esalta il Duce, mentre qui la folla grida «Italia Italia, tu sei il mondo!». Nella contrapposizione di eventi passati e presenti il film crea un gioco di specchi in cui gli albanesi vedono gli italiani nello stesso modo in cui gli italiani una volta guardavano gli americani. Inoltre Gino e Fiore hanno un atteggiamento dispotico, simile a quello dei personaggi che viaggiano all’estero in vacanza o per affari nei film americani. Il messaggio del film su questo tema è strettamente politico e dovrebbe essere cosiderato come un’implicita condanna del fascismo e, per estensione, del comunismo albanese e del capitalismo sfrenato. Come gli spettatori italiani dei cinegiornali LUCE degli anni quaranta erano manipolati dalla propaganda fascista, gli Albanesi di oggi sono influenzati dai programmi televisivi e dalle esagerate immagini di benessere delle telenovele, dei telequiz e dei varietà trasmessi dalla RAI. Gran parte della stampa italiana attribuì gli sbarchi di albanesi a Bari e Brindisi nel 1991 alla “sindrome fantastica”, incolpando l’influenza dei varietà e dei quiz italiani trasmessi in Albania. Le sequenze che seguono mostrano la folla scatenata che spinge il cancello per raggiungere il porto di Durazzo. In un campo lungo vediamo l’isterismo della gente con la sua povertà, accentuata dal contrasto con gli ospiti. I bambini inseguono la macchina dei nuovi arrivati. L’abbigliamento sportivo e vivace di Fiore e Gino è messo in risalto dall’arrivo di Selimi, il mediatore, vestito dignitosamente ma con un abito grigio e antiquato. I suoi occhiali con la montatura fuori moda sembrano vecchi se paragonati a quelli da sole firmati di Gino.

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Durante il viaggio in macchina dal porto all’albergo la conversazione fra i due Italiani e Selimi evidenzia la loro arroganza e conferma la disperata condizione economica del Paese. La bella jeep sfreccia in mezzo alla strada ai cui lati sono ammassate migliaia di persone, vestite poveramente, a piedi, in bicicletta, con animali e carretti trainati da bestie. Sulla spiaggia si vedono le sagome dei bunker costruiti dal regime comunista. Mentre Fiore e Gino comodamente seduti si guardano intorno incuriositi, l’anziano Selimi è seduto scomodamente nel ristretto spazio posteriore, quasi ad indicare la precaria posizione sua e quella dei suoi connazionali, nonché le brutte maniere e la sconsideratezza dei due italiani. La conversazione fra loro mette in rilievo l’ignoranza e l’arroganza dei nuovi arrivati. Alla spiegazione della presenza di tanti bunker, Gino prorompe: «Ma quale dittatore! È la testa che vi manca, il cervello.... Ma come cazzo fate a morire di fame?» I due perseverano senza ritegno nel loro attegiamento all’Hotel Tirana dove alloggiano e di nuovo quando devono scegliere l’eventuale prestanome per la loro fabbrica. Prima si compiacciono del fatto che il televisore stia trasmettendo un varietà italiano e poi Fiore fa un discorsetto paternalistico e condiscendente ad uno dei candidati. Non fidandosi delle persone selezionate da Selimi, fanno una visita ad un vecchio ex-lager per trovare un prestanome senza famiglia e innocuo. Nella prima versione si trattava di un parente di uno dei due uomini d’affari italiani, ma (dopo aver visto ciò che stava accadendo in Albania) il regista decise di farlo diventare un ex prigioniero. Quando il direttore della prigione vuole sapere a che cosa sarebbe servito il vecchio, il cinico Fiore risponde: «A scuotere l’opinione pubblica occidentale». Diciamo che questo vecchio potrebbe essere il simbolo della “nuova Albania”. Questa apparente battuta di spirito si rifà ironicamente alla considerazione di Amelio sulla tragica storia degli albanesi. Chi dovrebbe rappresentare la nuova Albania? Un vecchio impazzito per aver passato l’intera gioventù in prigione perché italiano o anti comunista o per essersi finto albanese per non prendere parte ad una guerra fascista non desiderata? È forse un simbolo appropriato della nuova Albania perché, ancora un volta, gli italiani scambiandolo per un albanese lo vogliono sfruttare? Il dormitorio è umido e malsano. La sequenza fu l’ultima ad essere girata ai primi di dicembre del 1993 e Amelio non poté utilizzare

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l’originale prigione Spach in cima ad una montagna perché gli edifici erano stati saccheggiati ed erano inaccessibili, soprattutto d’inverno. La troupe dovette ricreare il campo e l’ospedale psichiatrico. L’Accademia fu utilizzata come convento, nonostante le suore missionarie non permettessero l’ingresso alla troupe. I vecchi sono tutti malati, miseri, ricoperti di stracci. I1 loro stato fisico porta i segni di anni d’inedia, maltrattamenti e abusi. I volti dei vecchi esprimono il terrore in cui sono vissuti per anni. I due italiani non si sentono sicuri. Gli ex-detenuti li circondano incuriositi. Fiore non regge al confronto e chiede di essere accompagnato fuori. La scena successiva mostra un vecchio ex-prigioniero, Michele/ Spiro, seduto davanti ai due soci, i quali lo esaminano come se fosse una bestia alla fiera. In primo piano vediamo il vecchio che sembra consumato dal digiuno e dalla fatica. I capelli sono incrostati sul capo. Gli occhi tristi sembrano quelli di un animale avvezzo ai maltrattamenti. Non parla e non guarda in faccia i suoi interlocutori. Il volume della musica che accompagna l’inquadratura del volto e delle mani aumenta drammaticamente, a sottolineare la solennità del momento e il rispetto che il regista prova per l’uomo logorato dal sopruso. II vecchio viene scelto. Ha tutti i requisiti per essere nominato presidente della fantomatica fabbrica: non ha parenti, può scrivere il proprio nome, ha fatto tanti anni di prigionia politica e sembra docile. Nella scena seguente “il presidente” appare lavato, pettinato e con un nuovo vestito, pronto per firmare i documenti presso il Ministero dell’Industria. Una volta apposta la sua firma, il vecchio viene consegnato ad un orfanotrofio della congregazione di Madre Teresa di Calcutta. Prima di lasciarlo Gino scopre che il vecchio si è “pisciato addosso”. I1 sedile della sua macchina è fradicio. Fuori di sé dalla rabbia Gino lo prende per il collo e gli spinge la faccia sulla macchia d’urina come se fosse un cane, poi ordina ad un albanese di pulire il sedile. La storia soggettiva sviluppa la relazione tra Gino, una figura filiale senza identità, e Spiro, una figura paterna senza presente, o in termini più ampi a metà fra un uomo del presente, con i suoi vuoti culturali, e un “vecchio sciocco”, un fantasma, un sopravvissuto di un’epoca che non esiste più. Amelio si impegnò molto per rendere il personaggio di Spiro forte abbastanza da farsi portavoce del messag-

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gio simbolico. Amelio spiegò di temere che il personaggio di Spiro/ Michele Talarico non avesse sufficiente concretezza e che non fosse credibile ad una prima lettura. La preoccupazione principale del regista nella stesura della sceneggiatura era quella di non farlo sembrare un mero pretesto o un soggetto astratto, ma di inserirlo coerentemente nel contesto15. Il giorno successivo è pieno di sorprese. Gino si reca all’orfanotrofio per accompagnare al Ministero il vecchio, ma scopre che è scappato e che ha regalato ad un albanese il suo vestito nuovo, un bene di consumo che vale una vita umana, probabilmente come mazzetta per la sua assistenza. Nel corso della ricerca del vecchio, i falsi ideali di Gino verrano stracciati e il giovane si ritroverà nello stesso stato di povertà e dipendenza di coloro che maltrattava e cercava di sfruttare. L’albanesizzazione di Gino avviene attraverso una serie di incidenti che lo spogliano del suo potere espresso in soldi, mezzi di consumo e vestiti. Prima gli rubano le ruote della macchina ed è costretto a salire su una vecchia corriera sgangherata per rincorrere il vecchio Spiro. Poi fa un lungo viaggio attraverso la fatiscente campagna albanese insieme al vecchio e ad un folto numero di Albanesi che vogliono raggiungere il porto per imbarcarsi verso l’Italia. A Tirana la trasformazione di Gino giunge a compimento con il suo arresto, la perdita dei suoi indumenti sportivi occidentali e del passaporto, eventi che lo renderanno come tutti gli altri albanesi, costretti a fuggire in Italia senza documenti. Durante la caduta morale del giovane, ha luogo una trasformazione complementare. Il vecchio, chiamato Spiro, dal greco speîra, richiama alla nostra mente una spirale che si avvolge o si srotola a seconda del punto di vista e suggerisce la relazione dinamica con Gino. In italiano antico Spiro significa soffio e per estensione soffio vitale, spirito, anima, termini che si associano al suo ruolo e alla sua personalità. I1 vecchio Spiro un po’ alla volta prende coraggio e ritrova la sua civiltà contadina, completamente diversa da quella di Gino e Fiore, ma simile a quella dei poveri costretti all’emigrazione. Spiro si dimostra generoso, comprensivo, solidale, affabile, ottimista, lavoratore, affettuoso e leale. Gli sceneggiatori che collaborarono con Amelio descrivono Spiro come un’anima defunta riportata in vita 15  Volpi, Gianni Amelio, cit., p. 152.

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dall’aggressività di due loschi italiani, una specie di Don Chisciotte che, con l’innocenza di un pazzo, conduce il giovane Gino attraverso un viaggio di iniziazione involontario verso le sue radici, fino a liberarlo dalle costrizioni del consumismo16. Le qualità più stimabili del vecchio affiorano nello svolgimento del tema del pane. Prima del suo rientro in Italia, Fiore fa un discorso molto cinico sulla differenza fra il comunismo e il capitalismo a delle operaie albanesi. Fiore si ingozza di pane e formaggio mentre spiega al socio come ottenere soldi senza mai fare scarpe in Albania. Gino e Fiore sfruttano i loro vicini anziché guadagnarsi da vivere con il sudore delle loro fronti. Al contrario Spiro/Michele, anche se povero e affamato, è sempre pronto a condividere il suo pane con qualcuno più affamato di lui. Durante il viaggio in camion verso Tirana è l’unico ad offrire ad un uomo morente un pezzo di pane: «Mangiati stu pane... Chistu ti fa bene...». Spiro lo soccorre e gli regge la testa abbandonata mentre gli altri sul camion si picchiano o parlano del sogno di giocare nelle file del Milan o della Juve o di chi abbia più potere fra il Papa e il Presidente della Repubblica. Le idee che gli Albanesi hanno dell’Italia sono il risultato dei programmi televisivi trasmessi dalla televisione italiana. L’Italia vista in TV è deformata e appiattita, non esistono distanze geografiche o di classe. Un giovane afferma: «Ho visto in tivú che in Italia ci sono strade dove non si va in bici, soltanto in macchina, cento all’ora...» Un altro chiede a Gino: «Ehi amico, chi è più meglio di squadra: Juventus o Milan»17. Gino risponde: «Nessuna delle due …» E l’albanese: «Ma tu sbagli, Juventus, è più meglio... Anche Schillaci, più forte. Tu abita, a Torino?»18. Gino: «No.» L’albanese: «Torino vicino a Bari?» Gino: «Sì» 16  Andrea Porporati e Alessandro Sermoneta citati in Sesti e Ughi, gianni amelio, cit., p. 63. 17  Prima degli scandali del 2006-2007 la Juventus era la squadra che aveva vinto di più nella storia del calcio italiano, la terza in Europa e la quinta nel mondo. Il Milan la segue a ruota. 18  Salvatore “Totò” Schillaci, nato da una povera famiglia palermitana, entrò a far parte della Juventus nel 1989. Nel 1990, venne sorprendentemente scelto per giocare nella nazionale durante i mondiali di calcio, dove segnò dei goal decisivi e si aggiudicò la Golden Boot per aver dominato i mondiali con sei reti. Fu il primo italiano a giocare a calcio nel campionato giapponese.

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L’albanese: «Calciatore è miglior professione in Italia. Prende i soldi più di tutti.» Gino risponde: «Sì, sì, giocatori... A voi se vi va bene, in Italia vi fanno fare i lavapiatti! Già ci stanno i marocchini, i polacchi, tutti gli altri neri... venite... venite». Alle sue amare constatazioni gli Albanesi rispondono come avrebbe fatto qualsiasi povero disgraziato: «Meglio lavapiatti in Italia che affamati in Albania!» Il giovane inizia a cantare: «Lasciatemi cantare perché ne sono fiero, sono un italiano vero...» La canzone di Toto Cotugno mette di nuovo in evidenza l’assimilazione dei valori culturali italiani ricevuti dai programmi RAI, mettendone a nudo allo stesso tempo la loro pochezza. Gli italiani dopo la guerra furono bombardati dai film americani che glorificavano il loro stile di vita. Quando emigrarono nel Nuovo Mondo vi trovarono lavoro manuale pesante e non specializzato e perpetrati pregiudizi. La televisione italiana in Albania riflette i miti dell’Italia che, decontestualizzati, sono mostrati come vuoti, consumistici, non disponibili in Albania e non accessibili in Italia. Il pubblico italiano sa che questi giovani saranno rimpatriati o moriranno durante la traversata dell’Adriatico con i gommoni e qualora riuscissero a rimanere in Italia, saranno chiamati extracomunitari, immigrati illegali non desiderati. Mentre gli aspiranti emigranti pensano al sogno italiano formato TV, il vecchio Michele nel suo dialetto siciliano rivive i sogni degli emigranti meridionali. Nella sua pazzia il vecchio crede che gli Albanesi vogliano andare in America. All’affermazione di un giovane di voler andare al porto, il vecchio illuminandosi risponde: «A Napoli.... Allora jite a’ America? ... Laggiù e un’autra cosa!» La sua confusione è in realtà un’affermazione perspicace: si tratta del medesimo sogno fatuo e irrealizzabile. Dopo l’arrivo a Tirana il rapporto fra Gino e Spiro sembra cambiare. Appena arrivati in uno squallido albergo il giovane si butta su un letto e si addormenta mentre il vecchio per terra maledice la guerra e la cattiva sorte. La mattina successiva Gino trova del latte vicino al letto e lo beve avidamente. Solo più tardi si rende conto che il vecchio glielo ha procurato facendo dei servizi per il proprietario. Scoprendo che Michele si è privato del latte per lui, Gino si mostra più premuroso e attento, anche perché crede ancora che il giorno dopo gli dovrà servire come prestanome per la Albacalzature.

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Gino, che fino a questo momento era stato presentato senza cuore, comincia ad arrendersi ai sentimenti. I dialoghi fra i due sono più distesi e sembra affiorare l’inizio di un’amicizia, benché Gino continui ad essere occasionalmente molto ironico e non si renda conto della sincerità del vecchio. Gino spiega al vecchio il suo futuro compito di “presidente” dell’azienda. Il vecchio, incredulo di poter vivere solo firmando carte e senza lavorare, gli chiede a cosa debba tale onore. Il buon vecchio contadino vuole sapere come può ripagare tutta la fiducia che Gino gli ripone. Il sorriso sul suo volto magro e raggrinzito trabocca di onestà e gratitudine. Per non cadere nel sentimentalismo la narrazione assume una svolta drammatica. Fiore telefona da Roma per informare Gino che il Ministero degli Esteri non ha approvato il prestito. Gino decide immediatamente di disfarsi dell’ingombrante ed ora inutile presidente. Michele, inconsapevole dei piani di Gino, cerca di confortarlo dalla disperazione che l’ha colto dopo la telefonata. L’ottimismo e la fiducia nella vita e nel lavoro del vecchio contrastano con la debolezza di carattere e di temperamento del giovane. Michele dice al demoralizzato Gino che la delusione era inevitabile perché è impossibile guadagnarsi il pane senza un duro lavoro. Gino, incurante della fiducia di Michele, paga il proprietario del ristorante-pensione dove hanno trascorso la notte e cerca di convincerlo a tenersi il vecchio. Durante il loro discorso di addio il cinismo di Gino («lo non ho bisogno di nessuno, presidente») diventa ancora più crudele se paragonato alle parole di Spiro: «In Sicilia ci dobbiamo tornare insieme, io non vi lascio andare da solo, ora che avete bisogno.» Tornato in albergo per riprendersi i bagagli, Gino viene inaspettatamente accusato di corruzione di pubblico ufficiale e arrestato. I1 dialogo fra lui e l’ispettore di polizia mostra la differenza che esiste fra la mentalità di un onesto dipendente statale e il cinismo di un ladruncolo italiano abituato a corrompere. Il comportamento e la falsa innocenza di Gino mettono a nudo lo stato di corruzione nelle istituzioni pubbliche e nella politica italiana. Gino è consapevole di quello che ha fatto ma cerca di difendersi mentendo e recitando il ruolo della vittima. Alle accuse del commissario di polizia Gino risponde: «non siete pratici dei metodi occidentali. In Italia si fa sempre così, per snellire la burocrazia. Si aiutano le pratiche ad andare avanti... .

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Noi siamo imprenditori... . La gente sta morendo di fame... allora noi rischiamo i nostri capitali.. investiamo di tasca nostra». Una volta uscito di prigione senza documenti, Gino si avvia verso il porto per potersi imbarcare. Le strade sono piene di gente impazzita che corre da tutte le parti. Gino si avvicina ad un bivacco dove una ragazza sta insegnando l’italiano a un gruppo di giovani albanesi. In un’intervista parlando dei film che avevano lasciato un segno su di lui, Amelio menzionò Domani è troppo tardi e in particolare l’attrice Anna Maria Pierangeli. Mentre stava girando Lamerica a Scutari, vide Esmeralda che gli ricordò quell’attrice e volle trovarle una piccola parte come insegnante di italiano in omaggio alla Pierangeli. L’episodio è un esempio di come eventi e influenze artistiche che si nascondono nel subconscio possono riemergere inaspettatamente. Nel film del 1950 diretto da Leonide Moguy, due adolescenti in collegio, Mirella e Francesco, vengono scoperti insieme da soli all’interno di una cappella abbandonata, dove sono entrati per ripararsi da un temporale. I due vengono severamente puniti e Mirella, sentitasi disonorata, tenta il suicidio. Il film, un adattamento di Printemps sexuel (1928) di Alfred Machard, fu uno dei primi film usciti in Italia a raccontare la storia di un’educazione sessuale. La storia e l’interpretazione di Anna Maria Pierangeli ebbero un grosso impatto sugli adolescenti italiani degli anni cinquanta. Anche Vittorio De Sica e Ave Ninchi facevano parte del cast. L’azzeramento culturale di Gino è completo; ora deve simbolicamente imparare nuovamente la propria lingua. Dall’espressione del giovane sembra che senta le parole per la prima volta. Infatti le ripete con gli altri: «strada ... sogno ... figlio ... marito ... canzone ... amore ... freddo ... ragazza ... fiore ... bene ... mano … strada ... acqua ... fame ... scarpe ... nave ... mare». Le parole riassumono i temi principali del film e simultaneamente appartengono all’esperienza dell’emigrazione e alle aspettative degli emigranti italiani di una volta e a quella degli albanesi di oggi. Le parole ci portano, tematicamente e visualmente, all’ultima parte del film19. 19  Nella sceneggiatura invece della nave con gli albanesi, che per la prima volta nel film appaiono calmi, c’era l’assalto finale alla nave all’alba, con una sirena che suonava e con migliaia di persone che scavalcavano i cancelli per raggiungere la nave.

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II passaggio di campo avviene in modo fluido, ma inaspettato. Infatti la nuova inquadratura mostra una nave in mezzo al mare stracolma di profughi e l’effetto, nonostante crei una piccola difficoltà di riferimento generale nello spettatore, introduce un’immagine tematicamente legata al flusso narrativo e ai temi del film. La posizione della nave che divide lo schermo ricrea visualmente lo split screen visto all’inizio del film durante la proiezione del cinegiornale LUCE, portando a compimento il tema dell’amnesia storica. Durante il fascismo gli Italiani hanno conquistato l’Albania, erano colonialisti e non hanno imparato nulla da quella esperienza; anzi, hanno addirittura dimenticato di essere stati un popolo di emigranti con parenti sparsi in tutto il mondo, così come non ricordano il loro passato colonialista. Gino, ormai uno di loro dall’aspetto e dai vestiti, si muove a fatica fra la folla stanca ma piena di speranza. Ad un tratto scorge il vecchio Spiro seduto, attorniato da bambini ai quali dona pezzi di pane. Gino vuole distogliersi vergognosamente dalla sua vista ma il vecchio sorridente gli fa cenno di avvicinarsi. Gino gli siede vicino senza guardarlo o parlargli. Spiro nella sua pazzia crede di essere in viaggio per l’America. Il vecchio ha delle buone parole per il giovane: «Comu sugnu cuntentu.... Vi siete imbarcato pure voi.... Cussi facimu ii viaggio assieme.... Come state? Siamo stati sfortunati, tutti e due! Ma ci avimu a dari curaggiu....» Dopo aver detto altre parole incoraggianti si abbandona sulla spalla del giovane. Mentre Gino fissa immobile il vuoto, il vecchio muore o cade addormentato. Studenti e colleghi mi hanno suggerito che Michele si risveglierà al suo arrivo e il testo sembra confermare tale interpretazione. Infatti il vecchio afferma di essere stanco ma di voler essere sveglio per il suo arrivo a New York. Personalmente credo che Michele muoia dal momento che ha compiuto la sua funzione all’interno della storia. Il suo personaggio rappresenta la memoria storica assente nell'Italia contemporanea e la sua morte sembra ribadire che non c’è posto per un uomo di un’altra generazione, animato da ideali che oramai non esistono più, in un Paese che ha perso il rapporto con il proprio passato. Forse la cosa non fa molta differenza perché, qualora si sia solo addormentato, il suo risveglio sarà terribile: il suo sogno è destinato a morire e la sua vita diventerà un inferno. I primi piani dei volti degli albanesi appaiono sullo schermo e per un momento fissano gli spettatori. Sono fiduciosi, hanno occhi allegri

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ma c’è in loro il dolore misto alla forza che ha sempre sorretto la gente di campagna e i rozzi contadini di tutto il mondo verso Lamerica, ovvero la speranza. In questa scena per la prima volta nel film gli albanesi sono calmi e non corrono in massa e appaiono felici, queste inquadrature danno loro una nuova identità mentre Gino ha perso la sua che era legata a un passaporto e un falso senso di superiorità. Le difficoltà della critica nel definire il genere del film Presentato al Festival del Cinema di Venezia nel 1994, Lamerica di Amelio vinse il premio per la miglior regia ed il premio Felix come miglior film europeo, ma non fu scelto fra i cinque migliori film stranieri per concorrere all’Oscar. Il film confermò la maestria di Amelio e la sua distribuzione riaprì il dibattito italiano sull’identità del cinema nazionale e sulla sua relazione con il pubblico. Per la prima volta in vari anni, dall’agosto del 1994 al luglio del 1995, tre commedie italiane apparvero nei primi dieci posti dei campioni d’incassi e uno di questi, Il mostro di Roberto Benigni, risultò il primo. Gli altri erano S.P.Q.R. di Carlo Vanzina e Il postino di RadfordTroisi. Il loro successo confermò ancora una volta come il pubblico preferisse i film in stile americano o le commedie nazionali, visti i limitati incassi al botteghino dei pluri-premiati Lamerica e L’amore molesto (1995) di Mario Martone20. Nella vita culturale italiana gli intellettuali discutono periodicamente sullo stato di salute del cinema nazionale, dividendosi spesso in due schiere: quelli che gli attribuiscono un’imminente morte e quelli che proclamano una nuova rinascita, caratterizzandola, in modo originale, come neo-neorealismo, nel caso di alcuni bei film del cinema contemporaneo, considerando il loro impegno politico o sociale o una presunta rivisitazione delle tecniche neorealiste. Fra i film tematici incontriamo Il ladro di bambini e Lamerica di Amelio, Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, Il camorrista (1986) di Giuseppe Tornatore, due film ambientati in Sicilia, Mery per sempre (1989) e Ragazzi fuori (1990) di Marco Risi nonché Ultrà (1990) e 20  Per maggiori dettagli si veda Disastri, comici & cani, bambini, coppie & romanzi, in Lietta Tornabuoni, ’95 al Cinema, Milano, Baldini & Castaldi, 1995, pp. 9-12.

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La scorta (1993) di Ricky Tognazzi. Nella seconda categoria rientrano gli intensi drammi di Amelio Colpire al cuore, Porte aperte, Il ladro di bambini e Così ridevano, il primo film di successo di Carlo Carlei La corsa dell’ innocente (1993), la commedia/dramma di Salvatores sulla seconda guerra mondiale Mediterraneo (1991), Il postino (1994) e altri film di Luchetti, Moretti e Pozzessere. Tralasciando gli interessi personali da parte di alcuni critici nel difendere la qualità di certi film e i vari premi vinti in competizioni internazionali e festival, il cinema italiano continua a sperimentare la sua perenne crisi dovuta alla inconsistenza strutturale della sua industria. Quando uscirono e furono apprezzati film controversi come le tre opere di Amelio sull’emigrazione, Il ladro di bambini, Lamerica e Così ridevano, che sebbene non siano stati girati consecutivamente possono essere considerati una trilogia, ci furono anche polemiche sulla loro verosimiglianza e sulla loro accusa all’Italia contemporanea. C’è da dire che queste polemiche contribuiscono a stuzzicare la curiosità del pubblico, anche se per guardarli si attende che vengano trasmessi dalla televisione. A metà degli anni novanta, quando uscì Lamerica, chiunque stesse lavorando a qualsiasi livello nell’industria della cinematografia era consapevole dei problemi legati alla distribuzione, all’inesistenza di leggi che regolassero il mercato nazionale e alla scarsità di sale cinematografiche al di fuori dei grandi centri urbani, a causa dell’esiguo numero di spettatori e di finanziamenti. A questi problemi si aggiungevano la concorrenza spietata di Hollywood e della televisione, l’assenza di produttori autentici e, ultimo ma non meno importante, un monopolio che vedeva solamente tre produttori/finanziatori che controllavano non solo l’industria cinematografica ma anche le sale di proiezione. In Italia gli unici produttori cinematografici erano Cecchi Gori, Berlusconi attraverso Fininvest e la RAI. Nel 1995, ad esempio, 95 film vennero prodotti in Italia, ma solo 47 di questi ottennero una distribuzione su scala nazionale, per gestioni sbagliate da parte dei distributori e pessime scelte di mercato da parte dei manager, i quali optavano per film americani che garantivano successo. Quando chiesero ad Amelio cosa avrebbe fatto per salvare il cinema italiano dalla sua decadenza e dal crescente mercato americano e per restituirgli la sua dignità, il regista rispose che preferiva delle leggi che

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prendessero in considerazione la natura ambivalente del lavoro della produzione cinematografica21. Come se questi problemi non fossero sufficienti, questo periodo dovette anche scontrarsi con la mancanza di produttori e sceneggiatori con buone idee. Durante una serie di conferenze negli Stati Uniti nell’autunno del 1995, il regista Ettore Scola parlò delle carenze del nuovo cinema italiano per lo più dal punto di vista tematico, strutturale e contenutistico. La nuova generazione affronta il dilemma di dover raggiungere una distribuzione mondiale con storie tali di assere percepite dal pubblico non come caricature esotiche o arcaiche, ma piuttosto come racconti universali e riconoscibili. Questi elementi hanno contribuito al successo di Il ladro di bambini e Lamerica. Nonostante questa amara realtà, non credo che i film diretti dai registi della nuova generazione meritino l’accusa di non saper rappresentare il loro paese o di non affrontare i problemi esistenti. I registi contemporanei vogliono comprendere ed esprimere il cambiamento che l’Italia ha affrontato a partire dalla seconda guerra mondiale. Tale trasformazione antropologica, unita al processo di omologazione, ha rivelato la fragilità dell’identità nazionale e ha messo in luce tutte le contraddizioni interne di un Paese che, in molti modi, è stato colonizzato culturalmente dall’America. In Lamerica la memoria storica del fascismo in Italia è rivissuta mostrando gli effetti del governo stalinista in Albania. Il film compie anche un ulteriore passo in avanti nel mostrare l’Albania moderna lusingata dalla televisione italiana, così come l’Italia del dopoguerra lo era stata dai film americani, dalla propaganda e dai beni di consumo. L’esercito americano liberò l’Italia dal nazi-fascismo, mentre soldati italiani che scortavano i rifugiati albanesi rimpatriati non potevano indossare armi per la strada, per evitare di dare l’impressione di un’invasione militare, che avrebbe potuto riportare alla memoria l’invasione del 1939. Contrariamente al collasso del regime comunista, la fine delle ideologie in Italia ha lasciato molti senza legami con partiti politici o con la Chiesa. Di conseguenza molte idee del passato rifiutano di morire e acute contraddizioni si riflettono in un cinema che guarda troppo spesso con nostalgia agli anni cinquanta. Anziché affermare che il cinema contemporaneo non rappresenta il Paese, sarebbe più corretto 21  Citato in Amelio secondo il cinema, cit., p. 83.

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sottolineare che rappresenti la realtà contemporanea, caratterizzata da un’amnesia storica degli italiani. Fra i molti film che affrontano temi tipici del nostro paese annoveriamo Stanno tutti bene (1990) di Tornatore, in cui il viaggio dalla Sicilia al Nord di un impiegato in pensione per visitare i suoi figli diventa un’investigazione sull’Italia contemporanea. Ancora, Il portaborse di Luchetti che anticipa la corruzione politica conosciuta in seguito col nome di Tangentopoli, racconta il dilagare della cultura delle truffe e delle tangenti. Palombella rossa (1989) di Nanni Moretti che affronta la caduta del comunismo e la conseguente crisi di identità. Ragazzi fuori di Marco Risi, un eloquente racconto di giovani siciliani che trascorrono le loro condanne al riformatorio senza alcuna speranza di reintegrazione nella società. La scorta di Ricky Tognazzi, che ritrae vividamente la vita quotidiana di uomini sconosciuti chiamati dallo Stato a proteggere un magistrato senza mezzi adeguati o sicurezza. Verso sud (1992) e Padre e figlio (1994) di Pasquale Pozzessere, il regista più ameliano della nuova generazione, che descrivono conflitti generazionali in un’Italia postindustriale e post-ideologica attraverso le vite di personaggi marginali alla ricerca di un significato. Fra i film che riflettono una coscienza sociale, Lamerica di Amelio è caratterizzata altresì da una palese tensione rivolta alla trasmissione e alla riorganizzazione del passato. Tuttavia il film si spinge oltre nell’argomentare un problema nazionale e internazionale. Mentre sviluppa la sua accusa alla società italiana contemporanea, affronta temi universali quali la memoria storica, la globalizzazione e l’identità nazionale in un momento in cui l’Italia si modificava lentamente da nazione di emigranti a Paese che ospita migliaia di stranieri con bagagli linguistici, culturali e religiosi diversi. La maggior parte degli italiani ha dimenticato che cosa significhi la povertà. Amelio ha dato una splendida definizione di memoria storica, affermando che Lamerica è un viaggio nel tempo piuttosto che un viaggio verso un luogo. Inoltre il regista ha riconosciuto che per la prima volta il percorso porta verso una figura paterna. Il vero viaggio del film secondo Amelio è l’incontro tra Gino e Michele22. All’epoca in cui Amelio si recò in Albania, l’Italia non aveva alcuna legge sull’immigrazione. Prima del crollo del comunismo i primi 22 Citato in Volpi, Gianni Amelio, cit., p. 152. 

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immigrati ad arrivare provenivano dal Marocco, dal Senegal e da altri stati africani e gli italiani, che avevano dato per scontato la loro capacità di accettare le differenze, iniziarono a discutere sul loro razzismo. In virtù delle svariate invasioni subite dall’Italia e del suo passato da Paese di emigranti, gli italiani credevano di aver sviluppato un anticorpo contro il razzismo. Secondo l’intellighenzia italiana, Lamerica offrì l’opportunità per interrogarsi sul ruolo del cinema, per riesaminare la storia passata e presente e per affrontare questioni epocali che esplosero con l’arrivo degli albanesi sulle coste della Puglia. L’uscita del film fu accompagnata dalla pubblicazione di libri molto conosciuti che rievocavano un tempo in cui la nazione era povera o celebravano il fatto che fosse uscita da una situazione di miseria. L’Italia aveva superato l’Inghilterra come quinto Paese più industrializzato e ciò, alla luce del suo complesso di inferiorità, rappresentava una conquista non di poco conto. Durante il G7 nel 1976 l’Italia venne invitata all’ultimo momento, sebbene il presidente francese ospitante, Valery Giscard d’Estaing, avesse fatto il possibile per escludere l’Italia e il Canada23. Lamerica intreccia finzione, elementi autobiografici, eventi contemporanei, allusioni a momenti storici, luoghi autentici e un cast di attori non professionisti, fra cui dei bambini, in una potente miscela che richiamò alla memoria di alcuni critici e recensori il neorealismo e i suoi maestri. Grazie ai produttori Mario e Vittorio Cecchi Gori, Amelio ebbe a disposizione per la prima volta un consistente budget per la produzione. Tuttavia, a una mia precisa domanda, rispose che il film, contrariamente a quanto tutti pensavano, non era costato molto e che, ad eccezione del fatto che dovettero tornare in Albania per girare l’ultima scena, non si ebbero imprevisti di rilievo. Amelio scelse di girare il film in cinemascope con estesi movimenti di macchina e scene a tutto schermo che a molti commentatori ricordarono le produzioni dei grandi colossal americani con le quali erano cresciuti. Una delle critiche più taglienti arrivò da Guido Aristarco, fondatore nel 1952 della rivista «Cinema Nuovo», un importante critico di sinistra influenzato dagli scritti di Gyorgy Lukàcs e Antonio Gramsci e sostenitore dello stile neorealista viscontiano. Il critico trovò l’uso del ci23  Per l’intera storia su entrami i temi si veda Ginsborg, L’Italia del presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Torino, Einaudi, 1998.

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nemascope inappropriato al contenuto. Nicola Siciliani de Cumis, che aveva visionato il film con Aristarco, gli scrisse una provocatoria lettera aperta chiedendogli spiegazione del suo giudizio, e ricordandogli che avevano visto il film una sola volta e senza nemmeno gli strumenti tecnici adatti ad un film che richiedeva un grande schermo. Siciliani de Cumis conferma l’importanza pedagogica di Lamerica e chiede ad Aristarco di intervenire nel dibattito, dal momento che i critici erano divisi fra coloro che consideravano il film un capolavoro e coloro che lo trovavano imperfetto e discontinuo. Siciliani conclude rifiutando il parere di quanti sostengono che il film sia più che altro un’opera politica, e afferma che Lamerica parla non solo dell’Albania e della terra mitica di due secoli fa, ma anche del Sud e di tutti i sud del mondo che devono essere compresi per il benessere del nostro pianeta. Aristarco scelse di rispondere a un solo punto fra quelli esposti da Siciliani de Cumis e senza tante argomentazioni affermò che il film è utile in senso zavattiniano (nel farci riflettere), ma che tutte queste nobili intenzioni rimangono artisticamente irrisolte. Secondo lui potrebbe essere utile mostrarlo nelle scuole, ma rimane stilisticamente non convincente, a partire dall’utilizzo del cinemascope, per gli spettacolari temi socio-politici e per il finale che presenta la redenzione del protagonista, secondo la tradizionale morale cattolica, sottilmente presentata come una presa di coscienza o comunque un risveglio della coscienza. Il critico concluse affermando che nonostante il film tocchi i sentimenti degli spettatori, non colpisce il cuore. La maggior parte delle altre recensioni in Italia lo hanno apprezzato, o criticato per la caratterizzazione dei protagonisti, che sembrava deliberatamente studiata ai fini della tesi, per i dialoghi troppo ideologicamente programmati e per le eccessive pause senza azione. I critici stranieri hanno lodato il film per il ritratto che fa degli orrori causati dal comunismo e per il suo realismo, comparandolo ai grandi capolavori del neorealismo italiano. I media specializzati hanno esplorato più a fondo i presunti legami del film con il neorealismo, spesso utilizzando parametri che mi stupiscono per la loro inadeguatezza e superficialità, come l’attenzione alle ambientazioni esterne, la rappresentazione della povertà, la scelta di attori non professionisti, la combinazione di una semplice narrazione e tecniche improvvisate al fine di dissipare uno sguardo eccessivamente costruito. Tutta-

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via quando queste tecniche furono utilizzate, per esempio nel girare Roma città aperta, la scelta fu dettata dalla necessità, non da ragioni artistiche. Come ben documentato da Tag Gallagher, il film di Rossellini rappresentò una rottura con il contenuto narrativo. Secondo Gallagher il film non fu realizzato per fare un dispetto all’establishment e non fu girato per strada con attori non professionisti che improvvisavano, come la leggenda rosselliniana sostiene. La rivoluzione di Roma città aperta è da ricercare più nei contenuti che nelle tecniche24. La novità dei film italiani del dopoguerra risiedeva nel desiderio di portare la cinepresa in luoghi mai ripresi o addirittura mai menzionati nel cinema e nella loro capacità di utilizzare generi diversi e di trarre spunto da altre arti per gettare luce sulle classi meno abbienti. De Santis in Riso amaro fece costruire una gru per usare un dolly e fu abile nel catturare ambientazioni esterne realistiche in uno stile che ricorda i musical americani. Aristarco e altri critici di sinistra accusarono Amelio di aver spettacolarizzato la miseria usando un formato americano e uno sguardo costruito. Tale accusa, oltre a non prendere in considerazione che Luchino Visconti aveva mostrato la miseria e i pescatori siciliani con un ricercato formalismo, non prende in esame una serie di ragioni che saranno affrontate in questa ultima parte del capitolo. D'altronde nel mondo anglofono i critici notarono che Lamerica pone l’accento sugli effetti “realistici” attraverso citazioni e altre strategie auto-referenziali che lo distanziano da ogni altra volontà di rappresentare una realtà senza mediazioni25. Partiamo da ciò che il regista ha da dire sul problema della rappresentazione, sull’uso del formato spettacolare e sulla sua relazione con l’Albania e con i suoi abitanti, prima di giungere alle conclusioni, che non ambiscono a risolve in alcun modo le controversie, ma a proporre delle risposte. La spiegazione di Amelio per quanto riguarda la scelta artistica del formato è complessa e deve essere analizzata da vicino, poiché è dettata non solo dall’intenzione di rimuovere la distanza neorealistica ma anche da ciò che stava accadendo in Albania all’epoca. Il saggio di Rodica Diaconescu-Blumenfeld “Lamerica, History in 24  The Adventures of Roberto Rossellini: His Life and Films, New York, Da Capo Press, 1998, p. 167. 25  Si veda ad esempio Àine O’Healy, “Lamerica” – Gianni Amelio, Italy, 1994, in The Cinema of Italy, a cura di Giorgio Bertellini, Londra, Wallflower Press, 2004, pp. 245-253.

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Diaspora”, denunciò la cosiddetta complicità del film nel ripudiare la semplicità culturale degli albanesi26. Amelio rispose indirettamente a tale interpretazione nel 1999 a Palermo, affermando che si trattava di una malinteso generato da una bugia. Il regista aggiunse una nota personale ricordando di essere lui stesso figlio di un emigrante, il quale a sua volta era figlio di un emigrante. Il padre di Amelio odiò l’Italia durante tutta la sua permanenza in Argentina e non voleva essere identificato come italiano. Gli albanesi con cui interagiva ogni giorno a Roma non parlavano mai con sentimentalismo e nostalgia del loro Paese. La necessità di sopravvivenza e la fame che li aveva spinti ad emigrare li portava a provare un senso di rabbia e risentimento27. Amelio iniziò il suo progetto dopo aver visto gli albanesi sbarcare nel Sud Italia e si sentì chiamato personalmente ad investigare sullo sviluppo di questa catastrofe umana. Il regista conosceva l’emigrazione ma non aveva mai visto prima tanta gente arrivare allo stesso tempo. Amelio disse che era come se l’intera Calabria si fosse imbarcata in una nave e voleva capire che cosa avesse provocato tale esodo. Il regista ammise che oltre a voler scrivere una storia per un film, desiderava innanzitutto comprenderne le cause. Quando Amelio si recò in Albania la sceneggiatura cambiò a causa degli eventi che si stavano succedendo sotto i suoi occhi. La storia e gli accadimenti avevano cambiato l’Albania e il regista voleva mostrare tali trasformazioni modificando la sceneggiatura. Durante le riprese egli sentì che lui e la sua troupe stavano sperimentando qualcosa di epocale che non sarebbe mai più accaduto. La situazione era paragonabile a quella dei registi dell’Italia del dopoguerra che vivevano il passaggio dalla fine del fascismo al ritorno alla democrazia; ma diversamente da loro Amelio era esterno alla realtà albanese mentre i registi italiani del dopoguerra stavano riscrivendo la loro stessa storia. Come Gallagher scrive, quando Roma città aperta venne distribuito fu considerato un passo importante nella storia italiana e non solo nel cinema nazionale. Gallagher continua affermando che era la prima volta che in un film italiano gente comune era mostrata come artefice della storia e non semplicemente come vittima28. 26  «Romance Languages Annual», 11, 13 (1999), pp. 167-173. 27  Citato in Rais, Gianni Amelio, cit., p. 90. 28  Adventures of Roberto Rossellini, cit., p. 165.

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Nonostante Amelio volesse dimenticare di trovarsi all’interno di un set cinematografico, non voleva realizzare un film alla Spielberg, in cui l’artificio non è mai nascosto. Il regista era anche spaventato da quello che chiama il suo vizio: l’amore per il cinema spettacolare americano. Il suo desiderio era quello di realizzare un film su un’autentica esperienza umana nella miglior tradizione italiana, con l’umanità di De Sica e lo sguardo di Rossellini tra pietà e crudeltà, ma era anche consapevole del fatto che quel tipo di cinema era legato al preciso momento storico che i due registi stavano vivendo. Amelio non poteva fingere e guardare la situazione in Albania con l’innocenza del regista iraniano Abbas Kiarostami. Quello che poteva fare era ricordare la sua povertà nella Calabria degli anni cinquanta. Per esempio i due elementi ricorrenti nel film, il pane e le scarpe, sono due cose che Amelio considerava essenziali alla sopravvivenza durante la sua infanzia. Le scarpe erano di così vitale importanza nella povera Calabria della sua giovinezza, che quando le donne erano lontane dagli sguardi dei vicini le toglievano per preservarle e le indossavano nuovamente una volta giunte a destinazione o quando entravano in un altro paese. Gli italiani regalano a Spiro delle scarpe come status symbol che poi gli vengono rubate da dei bambini, episodio che richiama alla memoria del pubblico Sciuscià di De Sica. La scena ricorda anche l’episodio a Napoli in Paisà di Rossellini quando uno scugnizzo ruba le scarpe all’ubriaco Joe, un soldato nero. Gino non capisce il significato che le scarpe hanno per Spiro. Gli albanesi morti sul camion non indossano le scarpe. Gli altri gliele hanno rubate per sopravvivere. Gino si allontana temendo di venir contaminato mentre Spiro/Michele cerca di offrirgli un pezzo di pane, seguendo la sua saggezza popolare e la sua profonda umana compassione. Amelio non voleva che il problema dell’immigrazione prendesse il sopravvento sulla storia, avendo sempre cercato di evitare film programmatici a tesi. Siano questi sul terrorismo, sulla scienza, sulla pena di morte o sull’immigrazione, Amelio nei suoi film privilegia il discorso metacinematografico. Ad esempio dal momento che non aveva vissuto la guerra, nella scena sul fiume Milot quando la polizia ferma l’autobus per impedire agli albanesi di arrivare al porto, la messinscena si ispira ai film di guerra, in cui i ponti sono luoghi emblematici per i posti di blocco della polizia o dell’esercito. Nella

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sceneggiatura Spiro si rifugia in un bunker per proteggersi dalla folla che fraintende le sue attenzioni verso un bambino che scambia erroneamente per suo figlio. Ancora una volta eventi inaspettati determinano una svolta e Amelio si rifà alla sua infanzia e a film realizzati in una situazione simile per ricostruirli. Questo gioco di ricordi riflette i vari livelli del discorso cinematografico. Un livello racconta degli albanesi, i quali non sono idealizzati. La povertà e la fame non sono più nobili del benessere. Ciò che salva Amelio dall’accusa secondo cui il regista cercava in Albania la purezza dello sguardo o, meglio, la purezza della fame, comparandolo a Pasolini e alla sua ricerca della purezza della natura e della vitalità che la società borghese aveva perso, è il topos ricorrente e multi-sfaccettato della televisione. Il suo ruolo letterale è la sua attrattiva nei confronti degli Albanesi. Lamerica è un gioco di corrispondenze, non solo fra italiani di diverse epoche storiche ma anche fra l’Albania contemporanea, l’Italia di Spiro degli anni quaranta e l’Italia di Amelio degli anni cinquanta. In questo gioco la televisione rispecchia la nostra quotidianità e i nostri miti che, trapiantati in un altro luogo, rivelano la loro totale deformazione. L’Italia copia i programmi televisivi e i giochi a premi americani e gli albanesi li guardano in italiano, rimanendone corrotti. Questi non sono i sottoproletari che Pasolini amava e cercava. La televisione per gli albanesi è fatta di spot pubblicitari rassicuranti che costruiscono i loro desideri e cancellano le loro identità. Lamerica non diventa un complice nel denigrare l’identità culturale albanese, ma mostra come l’invasione fascista prima, il comunismo di stampo stalinista poi e il capitalismo degli anni novanta rappresentato dalla televisione l’abbiano lentamente erosa. Nell’incontro fra questa catastrofe umana e i due loschi uomini d’affari, il film innesca la transizione da un’utopia ideologica sanguinaria ad un futuro in cui ogni relazione umana sarà una merce di scambio. Nella storia sotto la superficie il film racconta lo sfruttamento di questa terra di nessuno e predice uno sfruttamento futuro all’arrivo degli albanesi in Italia. Perciò dal mio punto di vista critico la decisione di girare in cinemascope non tradisce l’identità albanese, ma supporta la struttura del film dando al formato l’astrazione necessaria per la storia raccontata. A differenza di molti film che utilizzano il passato per parlare del presente, Amelio rovescia lo schema. Il cinemascope

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che aveva impressionato il pubblico italiano negli anni cinquanta, qui racconta un deprimente presente. In tutti i suoi film Amelio allinea la sua prospettiva con quella delle vittime della storia. I suoi monaci, scienziati, immigranti analfabeti, bambini abusati e lavoratori licenziati sono stati spinti ai margini della società. In Lamerica, Spiro/Michele e gli albanesi sono vittime del fascismo, dello stalinismo, del capitalismo imprenditoriale italiano e, alla fine, della nuova economia che non necessita di lavoro manuale. Gino e Fiore rappresentano la nuova Italia, allineata ai Paesi più ricchi e industrializzati al mondo, mentre Spiro/Michele sta per un’Italia e un’Albania caratterizzate da duro lavoro e cameratismo. Amelio mira a riconnettere la diaspora italiana a quella albanese, come riaffermato dalla brillante ricerca di Gian Antonio Stella L’ORDA quando gli albanesi eravamo noi, che mostra come gli italiani erano percepiti e discriminati dal resto del mondo. Il giornalista racconta di come fossimo sfruttati e accusati di essere tutti mafiosi, criminali, usurpatori di lavoro, a capo del traffico della prostituzione, così sudici da non meritare nemmeno la terza classe del treno. Stella sottolinea come fossimo vittime della fame, dell’ignoranza e di stereotipi infamanti e di come tutto ciò accadesse solo pochissimo tempo fa29. Lamerica è una storia personale, intima, realistica e metaforica ben rappresentata dal suo discorso epico. Fin dall’inizio Amelio non pensava nemmeno ad utilizzare uno sguardo neorealista, uno sguardo spoglio e semplice ottenuto attraverso semplici mezzi tecnici. Uno sguardo neorealista per Amelio significava adottare un occhio trasparente, quasi invisibile, che maschera le tecniche di illusione per raggiungere il realismo. Tale approccio lo avrebbe fatto sentire un ipocrita. Non avrebbe mai potuto realizzare Tirana città aperta e non voleva dire agli albanesi che, dal momento che loro non avevano un regista in grado di raccontare i loro problemi, voleva farlo lui. Amelio considerava crudele un simile atteggiamento, paragonabile a quello delle ragazze che non indossano le loro pellicce di visone quando vanno a distribuire caramelle nelle bidonville. Amelio inoltre girò in cinemascope, che non è solamente un formato, ma lo sguardo e il linguaggio dei grandi spettacoli cinematografici, specialmente in Italia e in Euro29  Stella, L’ORDA quando gli albanesi eravamo noi, Milano, Rizzoli, 2002, retro di copertina.

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pa (e in Italia anche del melodramma). Molti critici pensano che questo sguardo metta in atto una violenza simile a quella dei loschi affari dei due faccendieri. Anche Amelio prima di operare questa scelta si è posto la stessa domanda. Credo che certi italiani avrebbero utilizzato una tecnica documentaristica falsamente sincera allo stesso modo in cui utilizzano la firma di un falso presidente aziendale. Amelio è più onesto: da occidentale benestante ha utilizzato i trucchi tecnici che la tecnologia occidentale gli metteva a disposizione. Se avesse mascherato ciò che stava facendo, realizzando un film su due Italie in bianco e nero con una cinepresa poco intrusiva, il risultato sarebbe stato più disonesto. Lamerica riconosce la facciata esteriore per raccontare che anche la storia che vi si nasconde dietro è reale: il dramma dell’emigrazione in un periodo storico in cui molta poca speranza è lasciata al povero. Il cinemascope apparve negli Stati Uniti in un periodo in cui la gente era molto fiduciosa, i soldati avevano reso il mondo sicuro e perfino le minoranze potevano permettersi una piccola casa ed un grande frigorifero. La situazione è differente in Italia e in Albania, anche se la prima sembra “Lamerica” agli occhi degli albanesi. Nel rifiutare un disonesto sguardo neorealista Amelio rimane coinvolto nella realtà albanese, contestualizzandola in uno stile visivo dell’Italia degli anni quaranta, al punto che attraverso le allucinazioni di Spiro il pubblico vede l’ultimo film sul dopoguerra italiano. Il personaggio fantasma permette altresì ad Amelio di saldare il debito con suo padre per non essere mai riuscito a scrivere un film in costume sulla sua emigrazione in Argentina. Amelio è consapevole, contrariamente a quanto hanno insinuato alcuni critici, di essere andato in Albania per rappresentare l’incontro di due Italie. Come ammette il regista, aveva utilizzato l’Albania come se avesse assunto una compagnia teatrale locale e le avesse chiesto di recitare un’opera che aveva con sé. La struttura del film alterna ampie vedute di paesaggi o folle di gente a tutto schermo a primi piani di individui. Questa forma ad imbuto incanala il dramma degli albanesi in un messaggio per gli italiani, affinché riconsiderino le loro anime non solo dal punto di vista morale, se vogliono ricominciare tutto daccapo. Spiro è un fantasma proveniente dal mondo contadino, privo di nazionalità nell’epoca dell’imprenditoria. Spiro è un simbolo di umanità manipolata dalla storia a cui non sa opporsi. Vedo una grossa differenza tra la «purezza

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della fame» ed il valore di un pezzo di pane guadagnato con duro lavoro e sofferenze, che sono le qualità associate a Spiro/Michele e a tutti i bisognosi alla ricerca di un’inesistente America. Il montaggio finale del film composto dai primi piani dei volti degli albanesi che fissano la cinepresa, e per estensione noi, spezza l’illusione cinematografica di essere di fronte ad un film e ci obbliga a pensare a tutte le persone stipate su una nave senza meta. Questo ci suggerisce che quello a cui stiamo assistendo è un problema di dimensioni planetarie. Il film fu profetico riguardo al futuro di molti rifugiati e al razzismo. Il 28 marzo 1997 una nave militare italiana entrò in collisione con il Kater I Rades, una nave albanese zeppa di disperati e 108 albanesi morirono nel tentativo di raggiungere a nuoto le coste della Puglia. Il senatore Irene Pivetti, di Lega Nord due anni prima, in qualità di Presidente della Camera dei Deputati dichiarò che per affrontare la crisi dei profughi la marina aveva dovuto lasciarli in mare. Quando Gian Antonio Stella, del «Corriere della Sera», le chiese di commentare il disastro del Kater I Rades, la Pivetti rispose di non essere stata lei a buttarli in mare. Arrivò addirittura a mettere in dubbio il numero delle vittime, affermando che era inferiore a quello dichiarato dalle loro famiglie. Le sue osservazioni xenofobe furono seguite da commenti simili da parte di molti esponenti della Lega Nord, quali Bossi, Borghezio e Calderoli, che liquidarono l’accaduto come una storiella manipolata dalla stampa di sinistra. Il film fu criticato anche da Ismail Kadaré, considerato l’intellettuale albanese più in vista, attualmente residente a Parigi. In svariate interviste accusò la presentazione di Spiro/Michele come una vittima delle persecuzioni albanesi, negando che tali casi siano accaduti. Kadaré affermò che molti italiani trovarono rifugio presso famiglie albanesi, le quali non si vendicarono sugli italiani che erano rimasti dopo la guerra. L’intellettuale accusò Amelio di aver mostrato ciò che lui considera un’eccezione e di aver descritto il peggio degli albanesi, disposti a lasciarsi alle spalle la loro identità nazionale come se non avessero un passato. Per lui la caratterizzazione degli albanesi da parte di Amelio è deplorevole, poiché si colloca in un momento storico in cui è necessario che essi vengano capiti per ridurre gli stereotipi negativi e il forte antagonismo che gli altri europei nutrono nei loro confronti.

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Nel 1995 durante una proiezione pubblica del film in una scuola romana, un’insegnante riprese Amelio per la caratterizzazione negativa dei due uomini d’affari italiani. Secondo l’insegnante il film getta cattiva luce sui giovani uomini d’affari laboriosi che rispettano le leggi e offrono un esempio positivo, aggiungendo che per essere equo il film avrebbe dovuto includere almeno un uomo d’affari onesto. Amelio colse quest’occasione per scrivere una lettera aperta pubblicata da «la Repubblica» intitolata “Viva l’Italia”, per rispondere all’insegnante e a Kadaré. Il regista scrisse di poter comprendere con qualche sforzo le ragioni dello scrittore albanese, il quale aveva vissuto sotto un regime dittatoriale e sapeva come censurare se stesso, ma disse di sentirsi indignato dal giudizio espresso dalla professoressa, dal momento che essendo vissuta in democrazia avrebbe dovuto ben conoscere gli ostacoli che gli artisti hanno dovuto affrontare per liberarsi dalla censura dello Stato e dalle pressioni economiche e sociali che volevano immagini rosee della realtà. Il regista si difese dall’accusa secondo cui Lamerica dipinge un’immagine negativa dell’Albania, affermando di aver descritto le rovine di una anti-utopia politica, definita dalla povertà e dallo sfruttamento, ma non da barbarie. Al contrario aveva mostrato una civilizzazione basata sulle relazioni umane e su una dignità sconosciuta agli italiani benestanti del film. Amelio concluse affermando che siamo tutti albanesi e che per essere europei dobbiamo essere albanesi30.

Conclusioni Lamerica è un film complesso, ricco di emozioni contrastanti. Benché girato senza concedere molto ai gusti del grande pubblico, rimane un film che commuove, un’opera il cui messaggio resta con gli spettatori, come i volti dei primi piani finali del film. Inquadrature commoventi, momenti di verità. Quei volti dovrebbero diventare un ricordo, e per tutti coloro che come Amelio non hanno avuto un’infanzia da dividere con il padre le inquadrature sono la foto appesa al muro del genitore assente. Inoltre i primi piani dei bambini alba30  Le lettere di Siciliani de Cumis, Aristarco e Amelio sono raccolte in Scalzo, Gianni Amelio, cit., pp. 195-198, 199, 214-215.

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nesi fra le braccia dei genitori sono la critica personale del regista nei confronti di tutti gli emigranti che partivano, seguendo un destino analogo a quello di suo padre e del vecchio Spiro, lasciando i figli e le mogli a casa. Amelio ebbe difficoltà nel giustificare l’improvviso cambiamento di Spiro, il quale per tutto il film aveva parlato di quanto desiderasse ricongiungersi con la famiglia mentre alla fine si ritrova sulla nave per “l’America.” Amelio risolve il dilemma facendo in modo che Spiro/Michele dica a Gino: «Rosa ha la febbre e il bambino è troppo piccolo, non sono potuti partire». Questa è la giustificazione usata dal padre del regista, il quale pensava che la moglie fosse troppo debole per viaggiare a causa della sua febbre reumatica ed il figlio fosse troppo piccolo, pertanto non aveva mai richiesto un visto per loro, e per questo il figlio di Michele/Spiro si chiama Giovanni, come il regista. Questa strategia auto-riflessiva e altre realtà costruite sono parte del continuo gioco fra tempo, spazio, ricordi e riferimenti cinematografici. Questi guidano la storia e non sono utilizzati per il piacere estetico o per giochi di cinefilia. Gli albanesi disperati e in cerca di un futuro migliore seguendo un gioco ironico del destino vanno in Italia, la loro America, nello stesso modo in cui tanti italiani poveri e affamati andavano in «Lamerica». Per loro il nuovo mondo era una grande madre che li avrebbe accolti e avrebbe ricompensato i loro sforzi. Il titolo del film riduce ogni desiderio, ogni sogno e ogni speranza ad una sola parola. Il regista ha spiegato lo strategico errore di ortografia, affermando che nella prima bozza della sceneggiatura il titolo era semplicemente L’America, secondo l’idea di Porporati. Ad Amelio piaceva il suono ma non il significato e dopo un bel po’ di tempo propose di scriverlo senza l’apostrofo, proprio come lo avrebbe scritto un emigrante. Lo spunto per tale cambiamento venne dalle molte lettere di emigranti che aveva avuto l’opportunità di leggere negli anni, le quali presentavano le ortografie più disparate, fra cui anche La Merica31. Aggiungerei che nel romanzo di Elsa Morante La storia, Useppe, il figlio orfano di un anno di Ida, chiama l’America «Lamerica» ed Amelio è un avido lettore e ammiratore dell’opera della Morante. Che sarà l’Italia di oggi per gli Albanesi? La risposta ce l’ha data Gino sul camion che attraversa la desolata campagna albanese. «Sì, 31  Amelio, “Lamerica”: film e storia del film, cit., p. 3.

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sì, andate in Italia! Lì troverete da fare. Al massimo laverete i piatti». La televisione italiana ha dato agli Albanesi una visione troppo ottimista delle risorse italiane. Troppo spesso il loro viaggio della speranza è un sogno vuoto. L’America un tempo garantiva lavoro, anche se niente più di duro lavoro, come descritto in Cristo tra i muratori/ Christ in Concrete (1936) di Pietro Di Donato, un eloquente resoconto sui muratori italiani a New York. Mentre svolgere un lavoro umile può essere meglio che patire la fame a casa, Lamerica, la mitica Terra Promessa, è una fredda delusione nell’era della globalizzazione e delle guerre preventive. Una vita migliore, l’obiettivo di tutti gli insoddisfatti poveri del mondo, non può essere conquistata. L’Italia di oggi ha raccolto gli albanesi in uno stadio prima di farli rimpatriare e poi ha disposto del filo spinato lungo i bordi. Nel suo gioco di corrispondenze tra i desideri degli albanesi di oggi e quelli degli emigranti italiani del passato, Lamerica offre anche una possibilità di riflessione su che cosa è rimasto oggigiorno del mito secondo cui con l’emigrazione la gente abbandona il peggio per correre incontro al meglio.

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Capitolo 8

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Amore, inganno e amnesia nazionale: Così ridevano (1998) Una mattina di luglio mi sono svegliato con in mente il finale di una storia. I finali sono sempre importanti, perché spesso sono anche dei punti di partenza. Vedevo un uomo che ne accoltellava un altro; poi arrivava il fratello minore dell’assassino e – per ragioni che quella mattina non mi erano chiare – si addossava la colpa del delitto. ... Non era un’idea peregrina, ma il tema della colpa assunta da un altro poteva diventare il punto nodale – più che la conclusione – di una vicenda tra fratelli che rimuginavo da parecchio tempo1.

Alla fine dell’estate del 1998, Così ridevano di Gianni Amelio vinse il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia. Poiché erano trascorsi ben dieci anni dall’ultima vittoria di un film italiano, La leggenda del santo bevitore (1988) di Ermanno Olmi (un adattamento del romanzo di Joseph Roth), i critici cinematografici italiani avrebbero potuto riservargli un’accoglienza più entusiastica. Dure polemiche seguirono la cerimonia di premiazione e per la fine del 1998 il film aveva scatenato «Il caso Amelio», al punto che il «Liberal» in ottobre pubblicò un articolo dal titolo «Il caso Amelio: Italian Cinema on Trial» (Il cinema italiano sotto processo). L’articolo accusava la coalizione dell’Ulivo al governo di aver beatificato il film e condannava la rappresentazione della Meridionalità come falsa, traditrice e sull’orlo di fomentare nuove forme di discriminazione. Alcuni critici arrivarono addirittura ad accusare la giuria di favoritismo e di protezionismo nazionale e di essersi alleata con la coalizione di centro sinistra in una sorta di colpo di stato culturale. Nel «Corriere della Sera» Giovanna Grassi confermò l’insinuazione, formulata e diffusa da Radio Popolare, secondo cui Walter Veltroni, all’epoca Ministro dei Beni Culturali, aveva esercitato pressioni sul presidente della giuria Ettore Scola affinché votasse il film di Amelio. Due settimane dopo la fine del festival, Amelio scrisse con ironia 1  Franco Prono, (a cura di), Conversazione con Gianni Amelio, in Gianni Amelio, Così ridevano, Torino, Lindau, 1999, p. 218.

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che se mai avesse avuto dei dubbi, dopo aver letto del presunto schema Veltroni-Scola-Amelio era certo di vivere in Italia. Aggiunse con sarcasmo che in effetti nel film il termine siciliano scola è ripetuto almeno trenta volte e che la cosa era stata espressamente voluta traducendo i dialoghi dall’italiano al siciliano al fine di compiacere il presidente della giuria2. Quando fu distribuito, il film riscontrò uno scarso successo di pubblico, incassando solo due miliardi di lire nelle maggiori sale. Dal momento che la maggior parte dei critici ebbe un atteggiamento negativo nei confronti di tutti i film italiani presentati al Festival di Venezia, la settimana seguente «la Repubblica» diede il via ad un dibattito. Innanzitutto chiese a Dino Risi, uno dei più importanti registi di commedie all’italiana, di esprimere un commento sull’interesse ricorrente da parte del cinema italiano contemporaneo per gli anni cinquanta e sessanta, per il passato in generale, per la memoria storica e la dimenticanza. Il vecchio Maestro dimostrò il suo disappunto e definì questa tendenza come una sorta di codardia o di resa, un fallimento nell’affrontare il presente. Il regista concluse affermando che la sua generazione aveva osservato attentamente la realtà circostante e aveva guardato con ottimismo al futuro. I media utilizzarono l’intervista di Risi per sollecitare la risposta di Amelio e Scola. L’autore di Così ridevano affermò che la contemporaneità non rende il contenuto di un film attuale, aggiungendo di aver trovato il personaggio di un contadino in L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi molto più rivelatore e illuminante rispetto a quelli di molte commedie all’italiana3. Scola venne trattenuto quello stesso autunno a Roma durante una retrospettiva cinematografica in suo onore e gli venne inevitabilmente chiesto di esprimere la sua opinione sul festival, sul film di Amelio e sui commenti di Risi. Prima di lodare la genialità del film, menzionò la generosità della sua ispirazione, che riteneva un auspicio per il ritorno al buon cinema italiano. Scola percepiva nei film contemporanei italiani un certa nostalgia per i grandi film del passato e un rimpianto dei tempi in cui il 2  Paolo D’Agostini e Gianni Amelio, Il cinema dei sentimenti oltre i confini del tempo, «la Repubblica», 26 settembre 1998. 3

D’Agostini e Della Casa, Annuario 1998 Cinema Italiano, Milano, Il Castoro, 1998, pp. 301- 308.

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cinema era al centro dell’attenzione nazionale. Il regista riteneva che i critici non volevano ammettere che, come tutte le altre arti, il cinema era afflitto da scarsità di grandi talenti: sicuramente non c’era più De Sica, ma non c’erano nemmeno più Renoir in Francia o Welles negli Stati Uniti. Scola ribadì di non aver ricevuto pressioni di alcun tipo da nessun politico in merito a nessun film durante il festival4. Bernardo Bertolucci venne trascinato nella discussione e dichiarò che era necessaria una distinzione fra tempo cinematografico e storico: il primo, a suo parere, non ha nulla a che vedere con il secondo, perché ciò che conta veramente è il modo in cui il tempo passato è raccontato. Per rappresentare il sedicesimo secolo un film deve infatti utilizzare il tempo presente. Il critico Goffredo Fofi, uno dei pochi ad apprezzare fin dall’inizio il film di Amelio, scrisse un articolo molto provocatorio sul settimanale «Panorama». Traendo spunto dal metodo gramsciano di tracciare una continuità e un’evoluzione nel pensiero intellettuale, nella valutazione della realtà sociale e nelle tematiche socio-politiche, delineò un identikit di registi conformisti di sinistra, inserendo Moretti-Benigni-Pieraccioni sulla colonna negativa, Ciprì e Maresco-Torre-Martone sulla colonna positiva, con Placido-Caligari nel mezzo. Amelio fu inserito in una categoria più alta. La discussione proseguì a lungo, al punto che l’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti fu invitato da Bruno Vespa a «Porta a porta» per esprimere la sua opinione. Tremonti utilizzò il festival per dichiarare che il governo di centro-sinistra aveva finanziato film scadenti a spese dei pensionati. Il film di Amelio aveva ricevuto 6.840.000.000 di lire in finanziamenti pubblici. Un anno dopo, l’asprezza del dibattito era così viva che Fabio Bo scrisse nelle sue impressioni personali di essere rimasto sbalordito e disturbato dalle reazioni aggressive, piene di risentimento e di intolleranza suscitate da Così ridevano. Nemmeno l’amaro ricordo di quelle scaturite dopo l’uscita di Lamerica qualche anno prima lo avevano aiutato a ricordare che, dopotutto, la fatica di un festival internazionale può infiammare non solo l’animo dei critici, ma può far tremare i cuori rendendoli freddi e intorpiditi5. 4  Ibidem. 5  Corpo e cuore, in Martini, Gianni Amelio, cit., p. 55.

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Opinioni contrastanti continuarono ad apparire in recensioni nazionali in seguito alla distribuzione del film nelle maggiori città del Nord con i sottotitoli in italiano per rendere più accessibile lo stretto dialetto del Sud. Amelio confessò che, come Olmi in L’albero degli zoccoli, dovette cedere ai sottotitoli a malincuore. Non c’è bisogno di dire che molti critici e il pubblico in generale si domandarono come un film del genere potesse essere distribuito al di fuori dell’Italia. Ed infatti trascorsero tre anni dopo il premio al Festival del Cinema di Venezia prima di trovare un distributore per il mercato nord americano e poco dopo la sua distribuzione nelle maggiori città della California e del Nord Est degli Stati Uniti, fu ritirato per mancanza di interesse. La sua prima proiezione americana avvenne il 20 febbraio 2000 in uno spazio artistico: durante la mostra all’American Museum of the Moving Image, intitolata «The New York Film Critics Circle Looks at the 1990s.» Amelio commentò ironicamente le controversie sul suo film e il modo in cui l’industria culturale esporta le pellicole, osservando che al Festival del cinema di Venezia del 1998, i film che non ebbero successo al botteghino avevano vinto dei premi, mentre quelli che non avrebbero mai potuto vincere alcun premio erano campioni d’incassi. Amelio continuò affermando che mentre alcuni erano sorpresi della cosa definendola un’eccezione, altri la ritenevano un fenomeno comune e ricorrente6. L’antagonismo critico nei confronti del film ed il rifiuto di vedere l’aspetto innovativo nel suo discorso, sono rappresentati in questo breve scambio che ebbe luogo durante il festival, alcuni giorni prima che Amelio vincesse il Leone d’Oro. Il critico Gregorio Napoli chiese ad Amelio di spiegare il suo rapporto con il neorealismo ed il debito del film nei confronti di Rocco e i suoi fratelli (1959) di Luchino Visconti. Il regista, sgomento e amareggiato, rispose ironicamente che spettava ai giudici, alla critica e agli spettatori il compito di scovare i riferimenti cinematografici, mentre il suo compito di regista terminava con la realizzazione del film7. Inoltre parlando di Così ridevano durante un seminario in Sicilia dichiarò che l’idea del soggetto non era nata da una sua riflessione sull’emigrazione, sulla Sicilia o sugli anni cinquanta. Amelio 6  Promemoria, in D’Agostini e Della Casa, Annuario 1998 Cinema Italiano, cit., p. 12. 7  Conversazione personale con Amelio, dicembre 2005.

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raccontò che l’ispirazione era scaturita in seguito ad una discussione con un suo amico albanese che viveva a Roma. Quest’ultimo aveva invitato suo cugino ed altri due suoi connazionali a festeggiare il suo compleanno al ristorante. Quando i quattro arrivarono di fronte al ristorante, i suoi amici si rifiutarono di entrare temendo che fosse troppo caro, invitarono il festeggiato ad entrare da solo e decisero di aspettarlo all’uscita8.

Un nuovo approccio nella rappresentazione del passato In Così ridevano Amelio ha evitato approcci tradizionali per far rivivere un momento cruciale del passato italiano. Anziché utilizzare lo scenario storico per formulare la divisione manichea spesso osservata in film politicamente impegnati, il regista racconta una storia archetipa di amore fraterno ingannevole con implicazioni metaforiche, diretta ad una nazione che non vuole guardarsi alle spalle. Questo tema è suggerito dal cognome dei due fratelli, Scordia. Scurdari in dialetto siciliano significa dimenticare. Il rifiuto da parte di molti italiani di guardare il film può essere equiparato alla loro mancanza di interesse nell’esplorare la propria storia ed il proprio bagaglio culturale. Per dare un’idea di quanto poco sia studiata l’emigrazione italiana, il «Corriere della Sera» di martedì 13 maggio 1997, un anno prima dell’uscita del film di Amelio, pubblicò a pagina 28, una lettera di un lettore, il veronese Paolo Molinaroli che dichiarando la sua passione per la storia chiese ad Indro Montanelli di consigliargli alcuni titoli sull’emigrazione italiana, perché con sua grande sorpresa aveva appena letto un articolo sul settimanale Sette riguardo a circa 1.300 italiani morti di colera dopo che alla loro nave era stato negato l’ingresso al porto di Montevideo in Paraguay nel 1884. Montanelli non seppe suggerirgli nessun saggio che descrivesse il dramma dell’emigrazione dei suoi connazionali. Dopo una spiegazione piuttosto lunga su come le autorità avevano cercato di utilizzare l’imperialismo per risolvere l’esodo delle masse, il giornalista terminò con una nota sull’esperienza del padre e del nonno, a lui trasmesse attraverso storie vivide e dettagliate. Gian Antonio Stella sostiene 8  Citato in Rais, Gianni Amelio, cit., p. 47.

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che l’identità italiana contemporanea è forgiata sulle famose storie di Lee Iacocca, Mario Cuomo, Rodolfo Valentino, Robert De Niro, Ann Bancroft e Leonardo Di Caprio. Al contrario, afferma, eravamo gli emigranti illegali dello scorso secolo e di qualche anno fa, al punto che i Consolati italiani raccomandavano di sorvegliare i confini non per impedire che la gente entrasse in Italia, ma per evitare che gli italiani se ne andassero9. Gran parte dell’efficacia del film di Amelio deriva dalla sua abilità di consentire al pubblico di fare esperienza di eventi drammatici in uno stile ellittico, lirico e sperimentale e dal dono del regista di scegliere un cast di attori le cui performance non hanno pretese di divismo o manierismo. In un commento sulla recitazione, in una recensione pubblicata sul «New York Times» il 21 novembre 2001, Stephen Holden scrisse che il film è interpretato energicamente. Aggiunse che l’appassionato e focoso personaggio di Giovanni impersonato da Enrico Lo Verso è una stella resa incandescente da un attore con un carisma di prima classe, perfino più impressionante dei ruoli interpretati nei due film precedenti. Così ridevano è anche un film sul cinema, come suggerito dai riferimenti a Rocco e i suoi fratelli e ad altri film oltre che all’uso del cinemascope, che accese l’ira di alcuni critici che associavano quel formato ai western o all’epica. Oltre al fatto che il cinemascope è stato frequentemente utilizzato per narrare storie personali, nel film di Amelio questo formato aggiunge uno sguardo estraneo alla storia individuale. L’allargamento visivo dello sfondo e l’ambientazione urbana distorta, che in parte sono il risultato del formato, conferiscono un’atmosfera epica e universalizzano il dramma degli Scordia. Il titolo fa riferimento al supplemento della domenica del «Corriere della Sera», che pubblicava barzellette datate anni cinquanta che non facevano ridere nemmeno all’epoca. Inoltre fa riferimento ai sentimenti dei protagonisti, specialmente a un’incoraggiante e accattivante frase che i fratelli Scordia usano spesso per superare la loro rabbia nei momenti difficili: «me la fai la ridarella?». Le vicissitudini di questi due outsider fanno sobbalzare la coscienza nazionale poiché fanno pensare alle nuove ondate migratorie che sbarcano ogni settimana sulle coste italiane. 9  L’Orda, cit., p. 12.

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Assieme a Il ladro di bambini e Lamerica il film forma una trilogia che riflette sull’emigrazione, sull’innocenza perduta, sulla solitudine, sull’alienazione, sul passato culturale, sulla rimozione della memoria storica e sulla crescita senza modelli di riferimento positivi. La struttura simmetrica di questo film mette gli spettatori di fronte al passato e al presente, esponendoli a ciò che si è guadagnato e perso dal punto di vista culturale e spirituale. Seguendo un concetto di storia non lineare e anti-progressivo, il film traccia l’involuzione dei due fratelli, demistificando antropologicamente gli atteggiamenti patriarcali della famiglia italiana e mostrando come un amore soffocante e mal riposto possa uccidere psicologicamente. Nonostante sia stato realizzato per ultimo, il film segna l’inizio della trilogia. Il viaggio di Giovanni e Pietro precede l’odissea in Il ladro di bambini. Spiro/Michele in Lamerica è un sopravvissuto e affronta la nuova generazione che ha perso il suo passato storico. Gli albanesi sono parte di una migrazione alla ricerca di una vita migliore mentre la triste condizione degli Scordia riflette il viaggio senza fine degli sconfitti. I tre film riprendono gli stessi temi in maniera approfondita e correlata. I nomi dei personaggi fanno eco gli uni agli altri. Michele lascia la Sicilia prima della nascita di Giovanni. Giovanni è il nome del fratello maggiore in Così ridevano e quello del padre di Amelio e richiama altresì il nome del regista. Il personaggio di Pietro ricorda il regista, il quale lasciò l’università di Roma per trovare lavoro nel cinema. In aggiunta, oltre al nonno, al padre e ad altri membri della famiglia che erano emigrati in America Latina, Amelio aveva un fratello che lavorava al Nord. Tutti questi riferimenti autobiografici si intrecciano con la finzione come spesso accade nel cinema italiano contemporaneo, integrando esperienze individuali alla biografia nazionale10. Sul piano personale il film può essere letto come un’elaborazione del tema ricorrente del regista riguardo al dolore del distacco e all’inconciliabile amore famigliare, che giunge ad una conclusione catartica. In un’Italia in cui i valori millenari del mondo legato alla terra sono calpestati e la cultura emergente compromessa, il film presenta una metafora di amore pri10  Per un’analisi dettagliata dell’autobiografia nei film contemporanei si veda Clodagh Brook, Screening the Autobiographical, in William Hope, (a cura di), Italian Cinema: New Directions, Berna, Peter Lang, 2005, pp. 27-51.

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mordiale in una prospettiva soggettiva, intima e sensuale, in cui ogni gesto è sia un atto d’amore che un tradimento.

Un nuovo sguardo alla fratellanza Così ridevano offre anche una rilettura stilistica e contestuale di Rocco e i suoi fratelli e permette ad Amelio di venire a patti con l’influenza di Visconti. Amelio ha affermato che per i registi della sua generazione era necessario e quasi un dovere partire dal neorealismo, dal momento che era “stampato” nella loro visione del mondo. Tuttavia ha aggiunto che alcuni registi si erano voluti discostare da questa soffocante eredità perché sarebbe stato ridicolo riproporlo in maniera pedissequa. Amelio dichiara di aver preso le distanze dall’eredità neorealista in questo film (ed ancor più che in Il ladro di bambini e Lamerica) quasi con rabbia. Nonostante Così ridevano richiami alcuni elementi di Rocco e i suoi fratelli, alla fine tutti i riferimenti sono contraddetti11. Amelio ha anche affermato varie volte di essere rimasto affascinato da Rocco e i suoi fratelli e di ricordare ancora la prima volta che lo vide a quindici anni in un piccolo cinema di provincia, con l’intimo di Girardot oscurato dalla censura, e di aver pianto quando Rocco nella sua uniforme militare incontra Nadia che esce dal carcere, constatando che allora era più semplice distinguere il bene dal male12. Visconti proveniva da un’antica famiglia aristocratica milanese. Inizialmente impegnato nel teatro, si convertì al cinema solo in seguito al suo incontro con Jean Renoir a Parigi. Più tardi, dopo l’incontro con la famiglia di Puccini a Roma e con i giovani anti-fascisti della rivista «Cinema» nei primi anni quaranta, si convertì al marxismo13. Le sue inclinazioni ideologiche sono una parte integrante della sua arte, che si sviluppa attraverso una complessa analisi della storia, piuttosto che attraverso un’aperta propaganda. Per Amelio il 11  Emanuela Martini, La storia raccontata attraverso la passione. Intervista a Gianni Amelio, «Cineforum», 38 (ottobre 1998), p. 9. 12  Ivi, p. 4. 13  Per i dettagli su come Visconti entrò a far parte del gruppo si veda Mario Puccini, I tempi di “Cinema”, «Filmcritica», (maggio 1951), pp. 153-155.

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cinema rappresentava la via di fuga dalla povertà a dal ciclo di emigrazioni a cui era stata obbligata la sua famiglia per generazioni. Ricordando ciò che aveva significato durante la sua infanzia infelice, Amelio ammise che probabilmente il cinema non sarebbe diventato così importante nella sua vita se egli non fosse vissuto in quel mondo, se quel grande schermo non fosse stato l’unico squarcio di luce all’interno di un’infanzia che perfino oggi gli appare tenebrosa14.Il cinema di Amelio è girato secondo una forte prospettiva di stampo morale e trae piacere nel far scaturire reazioni conflittuali. A differenza dei finali di Visconti, Amelio lascia i suoi film aperti, obbligando gli spettatori a riflettere sui dilemmi presentati. Dal punto di vista strutturale Rocco e i suoi fratelli si compone di cinque capitoli, ognuno dedicato ad ogni fratello (Vincenzo, Simone, Rocco, Ciro e Luca) in un lasso di tempo che ricopre circa quattro anni e mezzo. La trama sviluppa le sventure della famiglia ed esplora le trasformazioni della società italiana man mano che i fratelli diventano soldati, criminali, eroi sportivi e operai. Il film di Amelio è diviso in sei episodi raccolti in un periodo temporale di sei anni: Arrivi, 1958; Inganni, 1959; Soldi, 1960; Lettere, 1961; Sangue, 1962; Famiglie, 1964, con l’evidente salto di un anno, il 1963. Ogni episodio è introdotto da un prologo e dalla data specifica e rappresenta in maniera ellittica il periodo in cui la società italiana ha affrontato i suoi più grandi cambiamenti antropologici, spirituali e sociali. La decade fu testimone del primo grande incontro culturale poiché gli uomini erano reclutati dai due lati opposti della penisola. Dal momento che il film presenta molti riferimenti autobiografici, le date di ogni episodio sono legate anche a momenti cruciali della vita di Amelio: il ritorno del padre dall’Argentina, la nascita del fratello, l’inizio del liceo quando vide per la prima volta Rocco e i suoi fratelli, i suoi giorni da insegnante e il 1963, anno in cui lasciò la sua famiglia e cominciò a lavorare come assistente di De Seta a Roma, che coincide con l’anno mancante in Così ridevano, quando i due fratelli non si incontrano. I due film presentano evidenti differenze tematiche, stilistiche e ideologiche. Visconti fu il primo a riprendere l’emigrazione interna nel momento in cui avveniva, anche se dieci anni prima Il cammino 14  Scalzo, Gianni Amelio, cit., p. 35.

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della speranza (1950) di Pietro Germi aveva descritto il viaggio di alcuni operai di una zolfatara attraverso l’Italia e fino in Francia per trovare lavoro. Il punto di vista positivista di Visconti descrive una famiglia del Sud come portatrice di una malignità atavica e antica che può essere redenta solo grazie al contatto con il moderno Nord, più sviluppato e progressista. I Parondi portano la tragedia con sé a Milano, assieme al fatalismo, al paganesimo e alle idee patriarcali che cozzano con il progresso, ma che attraverso il contatto con la cultura settentrionale si raffinano. L’ideale utopico alla fine del film riflette la concezione marxista-gramsciana di Visconti sul contatto fra gente di diverse culture: i contadini del Sud verranno integrati nella civiltà più industrializzata come operai. La loro tragedia diventa un melodramma. Simone, la mela marcia che deve essere rimossa per preservare le altre, viene arrestato. Nadia, che impersona il peccato e la lussuria, una figura pecatis, deve morire per espiare le sue colpe. Rocco, la figura Christi, si sacrifica per redimere le colpe sue e quelle degli altri per aver dormito con la donna amata dal fratello maggiore. Ciro, che diventa un operaio specializzato nella fabbrica dell’Alfa Romeo, sposa una giovane bionda settentrionale e si integra. Il giovane rigetta la legge meridionale dell’omertà famigliare chiamando la polizia per far arrestare Simone. Luca, il più giovane dei fratelli, studierà per salire un gradino della società. Rocco si augura che Luca torni a casa per ristabilire le sue origini e Visconti spera che porti l’emancipazione. Lo storico Daniel J. Boorstin nel descrivere la creatività e la speranza negli Stati Uniti le distingue dalla situazione europea in quanto basate sulla capacità della nuova nazione, almeno fino alla metà del ventesimo secolo, di crescere e svilupparsi attraverso gli incontri di varie culture e la convergenza di luoghi geografici. Al contrario le antiche culture europee, inglese, francese, tedesca, e italiana, hanno sempre idealizzato la tradizionale uniformità, e l’orgoglio nazionale consisteva nel ritenere che la reale promessa e grandezza di una nazione risiedessero nel raggiungimento del proprio genio individuale con un destino differente dagli altri, anche se le influenze esterne avrebbero potuto dare un pizzico di sapore diverso15. In molti modi il film di Amelio condanna la tradizionale uniformità delle culture 15  Hidden History. Exploring Our Secret Past, New York, Vintage Books, 1989.

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antiche europee dimostrando che esse non permettono l’integrazione dell’altro; il meridionale è escluso dallo spirito geniale italico e la cultura dominante rifiuta la convergenza con lo straniero. In uno dei suoi primi articoli sull’emigrazione del Sud per «Il Giorno», Giorgio Bocca paragonò le bidonville dilaganti nell’hinterland milanese all’Occidente americano, ma terminò con una nota negativa: l’uomo nuovo che emergerebbe da questa nuova generazione sconfitta, non sarebbe probabilmente leale o fiero del suo viaggio epico, come lo fu la sua controparte americana16. La storia circolare e contraddittoria dei fratelli Scordia giunge in vari modi alla stessa conclusione. In Rocco e i suoi fratelli la trasformazione dei Parondi descrive ciò che molti intellettuali del tempo credevano sarebbe accaduto all’intero Paese con l’industrializzazione e la migrazione interna. La graduale scalata della famiglia dalla bieca povertà alla normalità della classe operaia coincide con la trasformazione morale che si riflette nella denuncia, da parte di Ciro, del suo stesso fratello. I loro possedimenti materiali aumentano visibilmente mentre si spostano dal freddo desolato della Stazione Centrale ad un buio seminterrato e poi in una casa popolare con delle belle pareti dipinte, una cucina moderna e un cortile pieno di vicini gentili. Questo processo non avviene nel film di Amelio. I Parondi esprimono nostalgia per la loro regione d’origine senza nutrire veramente l’illusione che la vita che si sono lasciati alle spalle fosse migliore. I personaggi di Amelio mettono a nudo il loro stradicamento culturale in vari modi. I sentimenti di Pietro sono emozionali e quasi inconsci, dal momento che cerca di rimanere fedele al suo dialetto, alle sue canzoni e ai ricordi legati al mare. Giovanni cerca di rimanere legato alle sue origini culturali fornendo un supporto finanziario ed emotivo al fratello minore. Il film di Visconti offre una visione ottimistica della futura unione delle due culture. La cinepresa è sempre vicina ai personaggi ed il pubblico partecipa al loro sviluppo all’interno dello schema viscontiano della storia. Nel film di Amelio la città e l’ambiente sono utilizzati come un palcoscenico su cui osserviamo gli Scordia e il dramma italiano della fallita integrazione da una prospettiva estetica e intellettuale distaccata. Visconti scelse lo stile melodrammatico dell’opera di 16  La fabbrica dei nuovi italiani, «Il Giorno», 3 e 8 settembre 1963.

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Verdi e lo schema narrativo del romanzo del diciannovesimo secolo. Amelio predilige uno stile naturalistico con un tocco di surrealismo e una discontinuità onirica tipica del romanzo sperimentale. Il prezzo che i fratelli Scordia pagano è più alto di quello dei Parondi, dal momento che la loro emancipazione non si verifica. L’utopia di Visconti, raggiunta grazie al sacrificio di Rocco e l’espulsione del male, non può realizzarsi nel film di Amelio. La morte e l’arresto non possono redimere gli individui o i gruppi etnici. La famiglia Parondi si disintegra nello scontro con la città e con la seduzione femminile. In Così ridevano il rapporto polarizzato odio-amore fra i due fratelli è portato all’estremo in un ambiente in cui i deboli sono sfruttati anziché protetti e non esistono forme di assistenza sociale. L’isolamento in cui i due fratelli vivono fu letto come il peggior difetto del film da parte dei critici, i quali avrebbero voluto assistere ad un coinvolgimento più collettivo, una lotta di classe e una coscienza sociale suscitata dal contatto con i sindacati. Il discorso del film ci aiuta a comprendere la devastazione emotiva e psicologica che Giovanni attraversa, il suo rifiuto a prendere parte al movimento operaio e la sua incapacità di lavorare per la Fiat. Nel discorso diegetico le sue azioni sono frutto della mentalità delle masse politicamente sconfitte. In quello extradiegetico (il discorso ameliano) l’amnesia di Giovanni testimonia la netta dissociazione del regista dal percorso politico del neorealismo e da Rocco e i suoi fratelli di Visconti. Quando chiesero ad Amelio se si considerasse neorealista, il regista ribatté che nel 1999 era alquanto anacronistico porre questo tipo di domande. Amelio proseguì interrogandosi se addirittura Rocco e i suoi fratelli girato nel 1959 possa ancora essere definito neorealista, dal momento che già nel 1950 si parlava di morte del movimento17. Arrivi, 1958 Così ridevano mostra come la modernità ed il progresso distruggano le tradizioni, alterino e contaminino ogni valore, macchino la purezza e l’innocenza dell’anima. Il dramma tra Giovanni e suo fratello Pietro Scordia è rappresentato nel loro stare nell’ombra e 17  Citato in Rais, Gianni Amelio, cit., p. 24.

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nei loro ritardi, che simbolizzano la loro posizione di marginalità. Questo tema è introdotto nella prima sequenza alla stazione ed è ripetuto simmetricamente in ogni episodio, permettendo all’autore di mostrare che il progresso è raggiunto attraverso un accumulo di beni consumistici che non conduce a nessuna emancipazione culturale. È il 20 gennaio 1958 di prima mattina18, nei primi anni del boom economico italiano. Un treno giunge in stazione fra la nebbia. Un giovane in un impermeabile bianco con le spalle al pubblico attraversa lo schermo avvicinandosi ad un pilastro, in una panoramica che richiama la scena di Colpire al cuore in cui Emilio, nascosto dietro una colonna all’università, scopre il padre in compagnia della terrorista. Un uomo magro, con la carnagione scura e l’aria sicura e amichevole scende dal treno fra altre migliaia di persone alla stazione Porta Nuova di Torino. Nell’inquadratura d’ambientazione il contesto rimane in un certo qual modo misterioso fino a che il pubblico non sente la folla che conversa in dialetto siciliano. I loro dialoghi proseguono nel rivelare il contesto. «Il treno del sole», che ogni giorno trasporta emigranti in cerca di lavoro, è appena arrivato. Tuttavia Giovanni Scordia non è alla ricerca di lavoro ma si è messo in viaggio per far visita al fratello quattordicenne, iscritto alle magistrali per diventare maestro elementare. A differenza degli altri, Giovanni ha uno zaino, una valigia ed un cesto con prodotti siciliani e due bottiglie di vino come regali per suo fratello e gli altri parenti. Giovanni è fiero di affermare che non si trova a Torino in cerca di lavoro. Mentre saluta e chiacchiera con la gente, vediamo l’uomo con un impermeabile bianco con dei libri in mano che ansima con angoscia. Il pubblico comprende immediatamente che si tratta del fratello, il quale non vuole rivelare la sua presenza. Dopo essersi guardato velocemente intorno, Giovanni si rivolge ad un altro siciliano con un sorriso rassicurante, dicendo: «È a scola …a scola … Saro! … Saro! … Oh, io non ci pinsava… Petru, me frati, è a scola … nu pò venire… ‘A matina Petru è a scola, studia…» Alle parole di un sarcastico compagno di viaggio di Giovanni che insinuano che Pietro deve mangiarsi i libri per sopravvivere, Giovanni risponde che il suo Pietro deve diventare un professore perché è tagliato per 18  Amelio, nato il 20 gennaio del 1945, aveva quasi la stessa età di Pietro nel 1959 quando incontrò suo padre tornato dall’Argentina.

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quel mestiere: «Petru avi a fari u prufissuri … Me frati ci avi a testa». In questi brevi scambi Giovanni non solo assolve la possibile mancanza di rispetto e di attaccamento alla famiglia del fratello, ma esprime anche la sua alta considerazione di Pietro in quanto studente diligente ed esalta la sua reputazione agli occhi degli altri. Lo stile, i temi e la struttura sono stati introdotti. La storia seguirà i due fratelli, i quali saranno incapaci di conciliare le loro differenze. Il dialetto sarà la lingua principale e il periodo storico, rappresentato attraverso l’alternanza di ambientazioni realistiche ed espressioniste, servirà da sfondo per una storia personale e simbolica con ramificazioni universali. Gli spettatori avranno bisogno di una gran dose di intuizione per comprenderlo e coloro che desiderano saperne di più devono ricercare i fatti di cui si fa menzione o a cui si allude in modo metaforico. Il suo realismo serve ai più alti obiettivi della finzione ed è filtrato attraverso le emozioni dei personaggi, piuttosto che stabilito da ricostruzioni di periodi attraverso canzoni evocative, poster e film. Amelio non ricorre ad artefatti culturali che, nonostante la loro “autenticità”, avrebbero legato il suo film agli oggetti di culto simbolo della cultura consumistica e della cultura borghese, che non possono trasmettere il sentimento dell’essere un emigrante durante il primo boom. Questo approccio è opposto a quello di Marco Tullio Giordana in La meglio gioventù (2003), in cui i protagonisti sono giovani della media e alta borghesia circondati dagli “armamentari” che promuovono l’identificazione e la nostalgia; una manovra di successo se quegli oggetti hanno l’obiettivo di enfatizzare il background culturale dei protagonisti, ma un rischio se essi denotano semplicemente i feticci del consumismo. Il film di Amelio vuole andare oltre l’apparente soddisfazione associata alla maggiore disponibilità di beni materiali, per spingere il pubblico a provare l’angoscia che la gente relegata ai margini della società viveva durante quegli anni di sconvolgimenti. Dopo il mancato incontro con il fratello in stazione, Giovanni si incammina con altri emigranti per strade che, attraverso il loro sguardo ed esaltate dalle luci, sembrano brillare. I riflessi di chiaroscuro si fanno più profondi e accentuati da ogni ciottolo, ogni finestra e ogni segnale. Le strade torinesi riflettono lo stato d’animo dei personaggi e sembrano incantate. Il duro e incomprensibile dialetto non è solo

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realistico ma, combinato con l’impressionismo visivo delle lunghe sequenze, dei primi piani e delle panoramiche, permettono agli spettatori di sentirsi trasportati nel passato. Allo stesso tempo grazie alla contrapposizione di colori saturi, il film crea una distanza estetica che disorienta lo spettatore, come disorientati erano gli emigranti. Ogni scelta stilistica ha delle componenti psicologiche, espressionistiche e di finzione e ricostruisce una situazione personale, nazionale e universale. La simmetria della storia prosegue mentre seguiamo i due giovani. Saro, uno dei molti siciliani appena arrivati, accompagna Giovanni all’indirizzo del fratello. Mentre vagano per le strade Giovanni si dimostra indifferente alla sventura di questo ragazzo, il quale si è trasferito a Torino per lavorare nel panificio del cugino, scoprendo poi che era stato chiuso. Giovanni si sente sollevato per non essere lì in cerca di lavoro e prima di congedarsi da Saro lo prega di non dimenticarsi della sua Sicilia. Anziché incontrare e accompagnare il fratello maggiore, Pietro sta aiutando una famiglia pugliese appena arrivata e analfabeta, il cui capo famiglia, Rocco, sta cercando di leggere l’indirizzo del cugino scarabocchiato su un pezzo di carta che anche Pietro ha difficoltà a decifrare. La loro conversazione è patetica, comica e tragica, mentre la famiglia di Rocco sta in silenzio dietro di lui. Rocco commenta con candore la bellezza di un edificio, scambiando la Mole Antonelliana per il Duomo di Milano e racconta ingenuamente a Pietro che il cugino vive in una casa lungo le sponde di un fiume, come mostra una cartolina che gli aveva spedito. La figura di Rocco suscitò la rabbia di alcuni critici, i quali lo trovarono un sempliciotto che offende l’immagine dei meridionali, e accusarono Amelio di falso Meridionalismo. Trovo che questa sequenza sia molto fedele alla realtà. Le ingenue osservazioni di Rocco danno allo spettatore moderno la sensazione di estraniamento che provavano gli emigranti, un’idea della loro poca preparazione culturale e dell’assenza di assistenza. È un fatto scomodo ma innegabile che il 63 percento dei meridionali era analfabeta. Giovanni trova la casa del cugino in cui vive il fratello e scopre che Pietro non ha una stanza sua. Più tardi nello sfogliare i libri di Pietro, la sua nipotina vi trova una rivista con delle donne in co-

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stume da bagno. Durante una cena molto tesa, silenziosa e frugale la moglie del cugino svela che Pietro ha rubato loro quindicimila lire che stavano risparmiando per comprarsi una lambretta. Con quei soldi si era comprato delle scarpe nuove che lucidava ogni sera. La donna aggiunge che il fratello non studia mai e che dovrebbe trovarsi un lavoro da operaio, non essendo tagliato per la scuola. Giovanni nega ogni cosa, li accusa di far vivere Pietro in un alloggio indecente e, prima di andarsene, porge loro cinquemila lire con la promessa di saldare il resto al suo ritorno in Sicilia. Pietro è ancora assieme alla famiglia pugliese. Durante una pausa, mentre mangiano pane e formaggio, il giovane confessa la sua riluttanza per lo studio e la cocciutaggine del fratello nel forzarlo a proseguire la scuola: «Si sta facendo il sangue marcio», racconta a Rocco. Pietro ha un atteggiamento compiaciuto e una presunzione piccolo borghese e offende Nino, il figlio di Rocco, definendolo un povero ignorate che non capisce niente. Tali sprezzanti parole, spesso udite nel cinema italiano, richiamano la crudeltà di Umberto D (1952) di De Sica, il quale dice a Maria, l’inserviente incinta, che tutti i suoi problemi sono frutto del suo analfabetismo. Nello scambio tra Pietro e Nino, Amelio introduce un indovinello su come quattro elefanti possano entrare in una Fiat 600. L’indovinello apparentemente è simile a molti altri senza umorismo che erano apparsi nei giornali del tempo, ma assume una certa importanza nel film dal momento che verrà ripetuto alla fine, a completamento della struttura simmetrica. Il titolo del film e l’indovinello alludono all’innocenza di quel periodo e alle condizioni socio-economiche degli emigranti: proprio come gli elefanti non riusciranno mai ad entrare in una Fiat Seicento, lo status symbol della classe media a quel tempo. Gli spettatori sono lasciati senza risposta, forse per spingerli a riflettere, mentre i due fratelli, che si avviano alla stazione per diverse ragioni, si incontrano. Giovanni è felice di vedere Pietro e vuole credere che sia lì per incontrare lui. Pietro è scioccato e con un’espressione disperata e vuota in volto lascia che il fratello lo abbracci.

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Inganni, 1959 Un anno dopo il suo arrivo a Torino, Giovanni si presta oramai a svolgere qualsiasi lavoro pur di mantenere il fratello a scuola. Nella scena d’apertura di questo episodio, Giovanni sta spazzando l’immondizia per terra al mercato di Porta Palazzo sotto una fitta pioggia e non presta attenzione agli altri spazzini che lo pregano di rientrare. Rosario, l’unica persona che lavora, dice al sollecito Giovanni di aver imparato il dialetto piemontese da una prostituta del Nord a Catanzaro. È interessante notare che Catanzaro è la città nella quale Amelio era solito andare al cinema e dove ha frequentato il Liceo, ed è ironico che al Sud le prostitute siano di Bergamo e del Piemonte mentre al Nord sono meridionali come Lucia, che Giovanni incontrerà presto. Giovanni chiede a Rosario se sia difficile trovare una donna a Torino e questo risponde che, sebbene sia diventato più arduo, gliene avrebbe trovata una. Rosario si riferisce al fatto che la prostituzione era divenuta illegale il 20 settembre del 1958 e che i bordelli erano stati chiusi e dà per scondato, conoscendo l’ambiente torinese, che Giovanni non stia pensando a una ragazza che non “fa la vita”. Nella scena seguente Giovanni rifiuta le avance di una prostituta, la quale per dispetto gli chiede se stia mettendo da parte i soldi per il sapone, una battuta comune nel cinema italiano, che denigra la pulizia dei meridionali. Nella scena successiva al bar di Gigi, punto di ritrovo dei meridionali, Rosario aiuta Giovanni ad assicurarsi la paga, che i caporali gli stanno trattenendo con la scusa che il lavoro non era completo. Attraverso questi dialoghi il pubblico capisce che i meridionali sono sfruttati, e spesso non pagati, ad opera di altri meridionali, i quali approfittano del fatto che i loro conterranei non possono ottenere la residenza e sono costretti a lavorare e vivere al Nord illegalmente. I datori di lavoro, d’altro canto, temono i lavoratori che parlano piemontese poiché potrebbero denunciarli e per tale ragione pagano Rosario regolarmente. Come nella discussione sulla prostituzione, il film trasmette questo genere di informazione socio-politica in maniera indiretta e lo spettatore non informato deve sforzarsi per comprendere a fondo la situazione. Al suo rientro a casa Giovanni trova Pietro ancora addormentato e lo spedisce a scuola dopo avergli dato caffè e pane, ma nell’uscire

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Pietro dimentica i suoi libri. Giovanni è molto premuroso e comprensivo verso il fratello minore e ricopre molti ruoli nel tentativo di provvedere a lui. A scuola Pietro è negligente e lo vediamo intento a convincere il bidello a fingersi il suo professore durante il ricevimento genitori con Giovanni. Dal canto suo, dal momento che non parla italiano, Giovanni è spaventato e imbarazzato nell’incontrare l’insegnante e chiede a Rosario di cercare qualcun altro che prenda il suo posto. Nel primo e nel secondo episodio due importanti riferimenti culturali accrescono il realismo e conferiscono al discorso una profondità socio-politica che molti critici non hanno riconosciuto. Nel primo vediamo Giovanni salire tre rampe di scale per raggiungere l’appartamento del cugino, mentre nel secondo, dopo la scelta di Giovanni di sostenere il fratello negli studi, lo vediamo in un appartamento al piano terra con un piccolo giardinetto, la foto di santi e la Madonna appesa al muro con delle candele accese. A Torino, contrariamente ad altre città settentrionali, gli emigranti potevano permettersi di affittare solo soffitte e stanze fredde a buon mercato ai piani alti. Quando Giovanni cerca di ricreare la loro casa siciliana e l’illusione della loro unione famigliare, affitta un appartamento al piano terra con un pezzetto di giardino. Il film di Amelio alterna fatti storici e culturali a momenti esistenziali e a scene naturalistiche, che trasmettono allo spettatore un senso estetico dell’assurdità e della crudeltà della nuova realtà degli emigranti. Il rifiuto del regista sia di allegorizzare, astraendo un dato significato, sia di essere schiavo del realismo è evidente nella sorprendente sequenza della cucaracha. Giovanni si reca assieme a Rosario, suo unico amico, ad incontrare la persona che vestirà i suoi panni durante l’incontro con gli insegnanti alla scuola di Pietro. Con apprensione Giovanni entra in una stanza dove un uomo magro ed energico e una donna bionda stanno insegnando a ballare la cucaracha ad un gruppo di impacciati meridionali. Giovanni stenta a credere che quell’uomo sia in grado di prendere il suo posto ed è preoccupato che possa mettere in imbarazzo il fratello e mettere a rischio la sua promozione. Rosario lo rassicura dicendogli che il ballerino è anche un attore e sa come comportarsi. La breve scena vuole obbligare gli spettatori ad usare molta in-

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tuizione e sensibilità per comprendere il suo significato più profondo. Per Amelio il cinema è uno splendido mezzo per giocare con la fantasia, ma anche un modo significativo per esprimere e rivivere emozioni. Di fronte al giovane che balla in modo frivolo che dovrebbe vestire i suoi panni, Giovanni si mostra scettico e vorrebbe qualcuno che gli assomigliasse e che fosse in grado di parlare in maniera intelligente con l’insegnante di Pietro. Rosario, più sofisticato ed abituato ad imitare i settentrionali, lo rassicura ancora sul fatto che un buon attore può interpretare diversi ruoli. L’impressionistica e realistica messinscena trasmette il senso e le implicazioni socioculturali di questa difficile situazione. La scena racconta come i meridionali sperino di riuscire ad entrare in società grazie alle lezioni di danza, dal momento che la cucaracha era un ballo da sala molto popolare. I movimenti del ballo, il ritmo della canzone e le parole rimpiazzano drammaturgicamente il dialogo. Il testo della canzone ci suggerisce ciò che sta tragicamente accadendo agli Scordia: «When a fellow loves a maiden/and the maiden doesn’t love him/ It’s the same as when a bald man/Finds a comb on the highway» (quando un ragazzo ama una ragazza/e la ragazza non lo ama/ è come quando un uomo calvo/trova un pettine in mezzo alla strada), un’allusione alla cocciuta devozione di Giovanni per suo fratello e all’inutilità dell’istruzione così odiata da Pietro. La musica celebra le nuove tendenze della società consumistica dalla quale Giovanni è escluso, come lo è da ogni altro rituale del progresso, al di fuori dei traffici illeciti che utilizzerà bene per corrompere e sfruttare gli altri. Come in Pirandello la risata si fa seria quando lo spettatore capisce la desolante posizione di Giovanni. Un’altra scena centrale ha luogo in un bordello. La discussione con Rosario al mercato cambia significato quando Giovanni ritiene di doverci portare Pietro per il rituale di iniziazione all’età adulta. Nel bordello Pietro incontra Lucia, una ragazza del loro paese della quale Giovanni era innamorato e che era partita alla volta di Torino per lavorare come cameriera. Giovanni rifiuterà di credere alla storia del fratello, dicendogli di averla confusa con qualcun’altra. Quando Pietro entra nella camera da letto, la cinepresa mostra una bella e malinconica ragazza che si raccoglie i capelli con le mani. La stanza è lievemente illuminata e l’atmosfera è fioca, scura e diffusa.

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Il dramma è accresciuto dal ticchettio di un orologio, che diventa un’estensione dei sentimenti di dolore di due persone che si incontrano e fingono di non conoscersi. Allo stesso tempo suggerisce allo spettatore la sensazione uditiva della tensione di Pietro mentre sta per fare sesso con la ragazza di cui era innamorato il fratello quando era in Sicilia e un sentimento junghiano di relazioni incestuose esistenti in ogni famiglia. In questa scena lo stile della finzione e quello documentaristico si intrecciano nell’atmosfera misteriosa e nell’immobilità della cinepresa. Lucia è ripresa senza alcun tipo di aggressione invadente, a discapito della sua privacy, tipica dei film contemporanei.

Soldi, 10 ottobre 1960 Un temprato Giovanni ora dorme in un’ampia stanza privata, in un grande e buio seminterrato. Ormai fattosi strada in società, Giovanni, per ironia, si guadagna da vivere affittando a rotazione letti ad altri meridionali in un seminterrato. Nella scena di apertura Giovanni scende una scala buia e ripete meccanicamente ammonimenti agli emigranti. Il suo manierismo ed il suo distacco nel parlare rinforzano visivamente la degradazione umana che accompagna il suo progresso economico. Con demagogia egli sostiene che l’affitto di letti sia l’unica alternativa per i meridionali, ai quali viene negato per discriminazione l’accesso a stanze e appartamenti. Lo squallore è sempre meglio della mancanza di un posto dove stare o di dover dormire in stazione, anche se queste condizioni di vita sono addirittura peggiori di quelle in cui viveva Pietro col cugino, che Giovanni considerava inadatte a degli esseri umani. Ora egli ricorda in modo paternalistico agli affittuari che un letto equivale ad un pezzo di pane e che pertanto non deve essere sprecato, dal momento che chi dorme bene, lavora bene. Dopo questi slogan gratuiti Giovanni li mette in guardia avvisandoli di stare al loro posto, di comportarsi bene, di pagarlo puntualmente e di dargli quanto gli suggerisce la loro coscienza. Tale atteggiamento è subito contraddetto da un duro confronto con un altro affittuario, il quale aveva pagato meno affermando di aver dormito sul pavimento.

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Seguendo una struttura simmetrica, nella scena seguente si vede Pietro, ora a pensione presso una famiglia piemontese, che ozia a letto. Giovanni gli telefona servendosi come sempre di una diversa ragazza del Nord per effettuare la chiamata, in modo da nascondere alla padrona di casa la loro identità siciliana. Pietro dice a Giovanni che è un espediente futile, dal momento che la padrona di casa è a conoscenza delle loro origini. Il pubblico vede poi un Giovanni più umano e premuroso al lavoro in una ditta di costruzione in un giorno di pioggia. Con un atteggiamento benevolo, da genitore comprensivo e orgoglioso, egli parla di un atlante da comprare per il fratello, il cui prezzo, 1.200 lire, sfamerebbe una famiglia di tre persone per tre giorni. Si dimostra comprensivo anche nei confronti di un compagno di lavoro che è in ritardo nel restituirgli i soldi che gli deve; gli rivolge alcune domande sui suoi figli, e gli dice che riscuoterà alla fine del mese. La storia si sposta su Pietro il quale, sul bus per andare a scuola, raccoglie un portafoglio che un borseggiatore getta dopo un fallito tentativo di furto. In seguito Pietro lascia un biglietto a Giovanni dove scrive di incontrarsi in un costoso ristorante. Giovanni si sente a disagio ed afferma che quel posto non è adatto a loro e che non possono permetterselo. Pietro inizialmente cerca di convincerlo che ha vinto alla lotteria e poi, con una specie di ricatto emotivo, gli rimprovera di essersi dimenticato che è il giorno del suo compleanno. Il fratello maggiore allunga a Pietro i soldi per il suo affitto, gli dice di mangiare e se ne va. Pietro lo insegue e per la prima volta getta a terra i suoi libri, dicendo a Giovanni che vuole lasciare la scuola ed andare a lavorare con lui. Giovanni reagisce violentemente schiaffeggiandolo in volto, gli riporta i libri e lo ammonisce di non fare di nuovo un gesto simile. I due fratelli entrano in un bar a parlare e Giovanni cerca di ristabilire la sua autorità, ricordando momenti vissuti assieme e di come si fosse preso cura di Pietro dopo la morte del padre. Qui veniamo a sapere che Giovanni aveva rubato dei soldi a suo padre e Pietro si era preso la colpa del gesto, un importante dettaglio che aiuta a comprendere le azioni successive di Pietro e a bilanciare la sua appropriazione del portafoglio sull’autobus. Giovanni ribadisce a Pietro che non può lasciare la scuola, che lo aiuterà e si prenderà cura di lui, mentre il fratello lo guarda con risentimento, frustrazione e umiliazione.

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Gli episodi dedicati ad ognuno dei due fratelli in maniera alternata sono girati con stili differenti e spesso le luci, la composizione e i gesti creano l’impressione di trovarci di fronte a generi differenti. Il lento movimento della cinepresa dà vita a delle scene liriche ed accresce le emozioni dei personaggi. Inoltre l’austerità della macchina da presa intensifica i momenti e diventa incisiva nelle sequenze urbane che si sviluppano in lunghe panoramiche. Dopo essere usciti dal costoso ristorante, la piazza buia e vuota circondata da edifici imponenti, l’atmosfera umida e la pavimentazione bagnata, aumentano il dramma del conflitto fra i due fratelli. Nella scena all’interno del bar, mentre Giovanni parla e Pietro ascolta in silenzio, la vicinanza della cinepresa mostra i due faccia a faccia, piuttosto che utilizzare controcampi, rinforzando l’impressione che i due fratelli siano uniti da un destino comune. Quando si usa il controcampo, questo è immediatamente seguito da uno stacco e la cinepresa riprende uno dei fratelli per trasmetterne le emozioni. Nel caso di Pietro la cinepresa ci porta più vicini al suo risentimento represso. Il raccordo della linea dello sguardo è utilizzato quando Pietro fissa di fronte a sé senza guardare il fratello. Gli stacchi tendono a rinforzare le simmetrie, mostrando ciò che i due fratelli sentono senza parole. Pietro giocherella con una bottiglia vuota di gazzosa. Ad un certo punto interrompe il monologo del fratello e, per imporsi, chiede a Giovanni di prendergli un’altra bottiglia. Mentre Giovanni è lontano dal tavolo, Pietro infila i soldi rubati nello zaino di Giovanni, sia per ripagarlo dei suoi sforzi che per guadagnare la propria libertà. Il film è pieno di riferimenti cinematografici. Questa scena è un omaggio ad uno dei film più amati da Amelio, Written on the Wind (Come le foglie al vento, 1956) di Douglas Sirk, con Rock Hudson e Lauren Bacall. Per Amelio, Dorothy Malone, che vinse un Academy Award come attore non protagonista, rese il film memorabile. Quando Pietro batte la sua bottiglia sul tavolo in segno di frustrazione, richiama Malone che stringe un pozzo di petrolio in miniatura nella scena conclusiva. Oltre a questo riferimento diretto, anche il melodramma di Sirk si concentra su conflitti personali e famigliari e sulle forze che motivano il fallimento e la frustrazione, allestito con una messinscena sapientemente codificata a colori.

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Al termine di questa sezione gli spettatori si stupiscono nel vedere Pietro stringere forte a sé il fratello in un abbraccio disperato prima di andarsene, a significare una riconciliazione o un addio, oppure un amore, una fedeltà e un obbligo conflittuali che li uniscono nonostante le loro radicali differenze.

Lettere, 7 aprile 1961 Dopo l’abbraccio fraterno qualsiasi aspettativa convenzionale viene bruscamente disattesa. Il nuovo episodio è presentato in uno stile completamente diverso rispetto ai precedenti, come se si trattasse di un film differente. Questi bruschi cambiamenti di stile hanno l’obiettivo di mostrare e di far sentire al pubblico le radicali trasformazioni avvenute in Italia in un solo anno. Giovanni, vestito di nero con la cravatta ed un nuovo taglio di capelli, sembra più in carne e più vecchio, mentre cammina nervosamente fuori dalla scuola magistrale Giovanni Pascoli, stringendo i libri del fratello. Giovanni cerca con lo sguardo Pietro, che è rimasto assente per tre mesi. Giovanni si stupisce nel vedere per la maggior parte ragazze all’entrata. In un’intervista Amelio raccontò ad Emanuela Martini che, senza tenere conto del suggerimento della nonna, si iscrisse al Liceo Classico anziché alle Magistrali, dal momento che, come la maggior parte degli uomini in Italia, la considerava una scuola per ragazze. Giovanni cerca di chiedere dove siano le classi per ragazzi, ma faticando a farsi capire è costretto a seguire un gruppo di ragazzi per sapere dove era solito sedere il fratello. Incapace di ottenere aiuto, siede in prima fila, ritenendo che quello fosse il posto del fratello, il più vicino al professore, come il migliore degli studenti. In una scena commovente Giovanni si avvicina ad una cartina dell’Italia e guarda la Sicilia, la tocca con la mano destra dicendo a se stesso davanti agli stupiti studenti: «Chista ‘a sacciu … Ci sta tutta l’Italia … a Sicilia … Ci avi a essiri macari Torino … Un’è Torino?». La scena ricorda il film di Pietro Germi Sedotta e abbandonata (1964), in cui un carabiniere è frustrato perché una minorenne, entrata di sua spontanea volontà alla caserma dei carabinieri per denunciare il suo molestatore, una volta interrogata si rifiuta di

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rivelarne il nome. Dopo un lungo silenzio, il carabiniere si dirige verso una cartina dell’Italia appesa al muro e copre la Sicilia con una mano. Il gesto mostra il suo sdegno nei confronti del sottosviluppato senso civico della Sicilia. Amelio ribalta il significato di quella scena, come fa spesso nel citare altri film. Giovanni sa dove sia la Sicilia ma non riesce a trovare Torino, dove lui è. Il bidello entra per cercare di far uscire Giovanni dall’aula, il quale si rifiuta di andarsene. Il bidello è obbligato a far allontanare gli studenti e a chiamare i carabinieri, i quali portano fuori Giovanni. Successivamente vediamo Giovanni in carcere dove, fortunatamente, incontra un carabiniere suo compaesano il quale lo aiuta e lo rimprovera di non aver denunciato prima la scomparsa del fratello. Il carabiniere dice a Giovanni che Pietro dovrebbe essere picchiato anziché mantenuto a scuola e conclude che probabilmente a quel punto si trova già in Sicilia. Giovanni gli risponde con rabbia di pensare ai fatti suoi e di lavarsi la bocca prima di nominare il fratello. Dopo il suo rilascio, Giovanni con il volto segnato e livido, appare mentre si incammina da solo con ancora in mano i libri di Pietro. Sullo sfondo degli scioperanti con delle bandiere rosse che recitano slogan e cantano canzoni comuniste sfilano in campo profondo, senza attirare la sua attenzione. La scena richiama una strategia di Il giardino dei Finzi-Contini (1970) di De Sica, quando una folla festante che celebra la dichiarazione di guerra di Mussolini incrocia il personaggio Giorgio Bassani interpretato dall'attore Lino Capolicchio, un ebreo italiano vittima delle leggi razziali, sulla via di casa. Come nel film di Amelio, la scena mette in risalto la sua esclusione e il suo isolamento. Questa scena attirò le critiche di molti intelletuali di sinistra, i quali condannarono l’emarginazione di Giovanni. Personalmente trovo che sia efficace, una strategia visivamente incisiva che mostra la distanza di Giovanni da ogni istituzione e la sua istintiva e primordiale sfiducia nel mondo esterno. Una donna vuole porgergli delle lettere che Pietro gli ha presumibilmente scritto. Giovanni risponde che Pietro non gli avrebbe mai scritto, perché consapevole del fatto che il fratello è analfabeta. L’affermazione contiene tutto il suo pragmatismo e tutta la sua disperazione, il suo orgoglio e la separazione dalle istituzioni. Il suo atteggiamento nei confronti della politica è chiaramente

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affermato nella sequenza successiva. Uno dei suoi giovani inquilini ammette di non riuscire a pagargli ciò che gli deve a causa dello sciopero. Giovanni lo rimprovera chiedendogli che cosa abbia a che fare lui con gli scioperi. Il commento sottolinea la sua marginalità dalla comunità sociale, proprio come quando, camminando da solo nella scena esterna, esprimeva visivamente l’antica esclusione e l’umiliazione degli sconfitti, che non possono essere magicamente trasformate in consapevolezza sociale o politica ma solo in autogiustificazione dello sfruttamento altrui. L’angoscia e la solitudine di Giovanni mentre gli altri stanno protestando è uno dei momenti più toccanti del film, che raggiunge il suo climax quando, nonostante il suo analfabetismo, immagina di scrivere una lettera a Pietro nella quale esprime comprensione per il fratello minore e si dimostra consapevole della difficoltà di vivere in una città così grande e così distante dal piccolo paesino della Sicilia. Giovanni immagina di scrivergli di non vergognarsi se ha fatto qualcosa di sbagliato e di non temere le sue domande, perché non gliene farà. Nonostante il film utilizzi prevalentemente tecniche sperimentali ed una messinscena impressionista, qui il pathos è ottenuto attraverso un espediente molto diffuso nei melodrammi che Amelio era solito guardare durante la sua infanzia in Calabria. In essi le emozioni sono suscitate da una lettera immaginata ma mai scritta in cui si rivela un sentimento incomunicabile. Il dramma centrale dell’amore fra i due fratelli raggiunge il suo culmine, e il lato al tempo stesso fraterno e paterno di Giovanni esce allo scoperto. Egli non comprende che non permettendo a Pietro di scegliere la propria vita lo sta ferendo. Ancora una volta per controbilanciare il lato positivo di Giovanni, ne emerge uno di negativo. Ci troviamo di nuovo al Bar di Gigi. Giovanni è ora caporale e un uomo disperato lo supplica di aiutarlo a trovare un lavoro per mantenere i suoi quattro figli. Giovanni, pensando a suo fratello, gli dice che è meglio allevare maiali che bambini, dal momento che i maiali possono essere mangiati. Una volta che i figli sono cresciuti si possono controllare. L’episodio termina con una toccante scena notturna all’interno di un lungo tram ondeggiante. Seduto davanti, Giovanni non vede Pietro, ora vestito da operaio, al lato opposto della vettura. Il movimento lento e ondulato del tram simboleggia la distanza fra i loro destini.

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Sangue, 29 giugno 1962 Il titolo di questo episodio può fare riferimento sia all’omicidio che vi ha luogo che al detto proverbiale secondo cui il sangue è più denso dell’acqua. Inaspettatamente l’episodio si apre in una grande aula, illuminata dal sole estivo, in netto contrasto con il buio degli episodi precedenti. Un sorridente e ben vestito Pietro sta facendo il suo esame. Un professore molto accomodante si rivolge a lui elogiandolo per aver recuperato tre anni di studio in uno, dopo essere stato bocciato per due volte. Un altro professore, con un sorriso di scherno, chiede a Pietro se abbia studiato in seminario con dei preti e senza cogliere l’ironia Pietro risponde di aver studiato da privatista. Il sarcastico professore aggiunge che lo vedrebbe bene a predicare da un pulpito. Ancora una volta Pietro non coglie l’ironia. Questo breve scambio nasconde una severa critica al sistema d’istruzione italiano. Il fatto che Amelio intitoli la scuola al poeta Giovanni Pascoli e che l’esame si basi sul divertimento del professore nel verificare quante diverse strofe delle poesie di Pascoli abbia imparato Pietro, mostra come un corrotto ed elitario sistema scolastico valuti la conoscenza da una prospettiva distintamente classista. Da una parte abbiamo Pietro, la personificazione “dell’umile Italia” che Pascoli elogia in alcune delle sue poesie e dall’altra professori che sanno solo prendersene gioco, dimostrando la loro ipocrisia, insensibilità e corruzione, in quanto esiste il sospetto che il professore che interroga Pietro sia stato pagato da Giovanni. I professori chiedono a Pietro di spiegare la poetica del fanciullino e ridono quando l’esaminato risponde che si riferisce a componimenti scritti in giovinezza. Pietro spiega inoltre che gli piace la poesia di Pascoli perché, come il poeta, ha perso il padre da bambino. La visione pascoliana della poesia era una reazione all’ampolloso, nazionalista e retorico linguaggio dei poeti precedenti. Pascoli prediligeva un linguaggio umile incentrato sulle cose modeste che la poesia tradizionale escludeva. Egli cercava di riscoprire la purezza dei primi poeti, quali Omero; credeva che il poeta dovesse avere il solo obiettivo di diventare un tutt’uno con la natura e che la poesia deriva da quest’ultima. Questi concetti sfuggono a Pietro che ha meccanicamente memorizzato i versi per superare l’esame. Il loro significato più profon-

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do, tuttavia, sfugge agli stessi professori. Nel suo apprezzamento e nell’identificazione personale con la poesia di Pascoli, Pietro rivela un desiderio inconscio di non perdere contatto con la sua cultura originaria, derivata dagli antichi Greci e nella quale era un tutt’uno con la natura. In una scena del secondo episodio del film, il professore di francese durante la sua lezione suona «La mer» («Il mare»), una famosa canzone cantata da Charles Trenet. Pietro, perso nel proprio mondo, disegna una barca nel mare, in segno di rifiuto per la scuola e come richiamo al suo bagaglio culturale. La preferenza di Amelio per il discorso cinematografico metaforico e il risalto dato ai personaggi delle classi meno abbienti, ai margini dalla cultura dominante, tracciano una certa somiglianza con la poetica di Pascoli. Giovanni e Pietro, tuttavia, non comprendono la poetica di Pascoli o la forza trascendentale della poesia. Giovanni vede l’istruzione come un’alternativa al duro lavoro. Amelio ha più volte affermato di aver scelto questa prospettiva in base alla convinzione della propria nonna che voleva che il nipote proseguisse gli studi, che fosse il migliore della classe e che diventasse un maestro. Il titolo di studio, per queste persone, significa assicurarsi un lavoro stabile e una certa distinzione sociale, evidente quando Giovanni e gli operai che lavorano nella sua cooperativa utilizzano ripetutamente l’appellativo “maestro” quando si riferiscono o si rivolgono indirettamente a Pietro. Costui deve diventare insegnante così da ripagare indirettamente il sacrificio del fratello. Il livello di istruzione accessibile a gente come Giovanni, negli anni cinquanta in Italia, era utile solo per ottenere la patente di guida che gli serviva per guidare il suo quarto camion. Credo che la critica all’istruzione pubblica sia un’altra delle ragioni per cui alcuni intellettuali rifiutarono il film, ritenendo che sminuisse la visione ottimista per cui la scolarizzazione può redimere ed integrare il sottoproletariato proveniente dal Sud, principio esposto in Rocco e i suoi fratelli. Nel film di Amelio si mette in discussione la scolarizzazione che non porta all’emancipazione ma che serve per ottenere una licenza o un lavoro. Il fratello minore ha il presentimento che la scuola non sarà la soluzione dei loro problemi. Pietro è obbligato a studiare l'italiano e, nonostante guardi dall’alto gli emigranti

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che non sanno parlare l'italiano correttamente, è consapevole del fatto che il suo accento lo discriminerà sempre e per questo non sarà mai accettato dai settentrionali. Amelio, come Pietro, raccontò di essersi sentito più volte in imbarazzo per il fatto che i suoi parenti non parlavano l'italiano e volle impararlo per potersi distinguere. Amelio oggi aggiunge di vergognarsi per aver provato quei sentimenti. Giovanni, al contrario, pensa ingenuamente che Pietro sia ora integrato. Dopo gli esami, in un’inversione di ruoli, è Pietro a cercare il fratello ma si imbatte nelle stesse persone che Giovanni aveva incontrato nei primi due episodi. Pietro si reca alla fabbrica della Fiat ma vi trova solo il cugino Santo, con il quale aveva vissuto fino all’arrivo di Giovanni a Torino. Santo gli dice che a Giovanni non era mai importata la famiglia, che non lo salutava mai al lavoro e che non gli era mai piaciuto lavorare in fabbrica dal momento che voleva essere indipendente. Pietro ammonisce Santo di lavarsi la bocca prima di parlare del fratello, e prende le sue difese proprio come Giovanni aveva fatto con il carabiniere in prigione. Pietro si reca in seguito ad un indirizzo che Santo gli ha segretamente confidato con un’allusione agli affari illegali di Giovanni. Alla cooperativa tutti sanno che ha superato l’esame, ma di Giovanni non c’è traccia. Pietro allora si reca in un appartamento dove incontra Lucia, la fidanzatina adolescenziale di Giovanni che aveva incontrato al bordello. La donna sta mettendo a dormire un bambino. La foto di Giovanni è affissa alla vetrina della cristalleria. Sul tavolo c’è un quaderno con fogli su cui è ripetuta una riga che recita «Caro fratello». Pietro apprende che Lucia sta insegnando a Giovanni a scrivere il proprio nome e per farle capire che è a conoscenza della sua identità e del suo passato di prostituta Pietro le suggerisce di insegnare a Giovanni a scrivere anche il suo bel nome, Lucia. La donna finge di non capire e gli chiede se Giovanni gli parli spesso di lei. Gli inganni famigliari continuano da entrambe le parti. Prima di andarsene, nel tentativo di evitare al fratello l’imbarazzo di sapere che lui è a conoscenza del passato della donna, Pietro chiede a Lucia di non dire a Giovanni, per amor suo, della sua visita. Pietro afferma che la debolezza di Giovanni sta nel suo esagerato affetto verso tutti. In questa scena vi è un’allusione al personaggio di Nadia, la donna che divide Rocco e Simone in Rocco e i suoi fratelli, ma come per

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altri riferimenti al film di Visconti, Amelio non crea mai un collegamento chiaro. Lucia potrebbe essere una semplice omonima o la stessa donna che Pietro aveva incontrato in precedenza e si confonde con la ragazza di cui Giovanni era innamorato da ragazzo. Forse lei piaceva anche a Pietro e lui attribuisce questo sentimento al fratello. Lucia rimane un mistero ed infatti non è mai vista assieme a Giovanni, ma solo al fratello minore. La scena riprende al Bar di Gigi, che sembra più un circolo sociale di prostitute e ladri grazie a Giovanni, presidente della cooperativa. Durante una festa di fidanzamento una giovane coppia riconoscente sta ballando e distribuendo confetti come da tradizione, mentre una piccola band suona «Era di maggio»19, un classico napoletano che nel contesto della storia assume vari significati. Nella canzone i protagonisti sono due giovani innammorati. Il giovane deve «andare lontano, per lavoro o per fare il militare, la ragazza non vuole perché non sa quando e se ritornerà. La canzone fa capire che è un pomeriggio di metà maggio, quando nelle vie e tra i caseggiati, l’aria è calda, mentre nel cortile interno, ancor più nel giardino, è fresca e dà all’anima una sensazione di pace. L’atmosfera della canzone riflette lo stato d’animo di Pietro che ritorna dal fratello che lo aspetta, ma nello stesso tempo ci trasmette, attraverso le parole della ragazza, la trepitazione di Giovanni che ritrova la persona amata. Come sempre, Amelio mostra anche il lato negativo dell’amore familiare. La cinepresa si muove lentamente in avanti e vediamo Giovanni, ben vestito in un abito nero, nel seminterrato. Giovanni viene informato che un ragazzo con abiti alla moda chiede di lui. Giovanni risponde che se è in cerca di lavoro farebbe meglio a tornare in ufficio di giorno. Al piano superiore si sente cantare «La mer» in francese di fronte ad una folla attonita. Pietro usa le parole della canzone «et d’une chanson d’amour/La mer a bercée mon coeur/ Pour la vie» (e una canzone d'amore/il mare ha cullato il mio cuore/ per la vita) per esprimere il suo affetto al fratello. La messinscena rappresenta alla perfezione il loro rapporto: Pietro è accanto ad un suonatore di fisarmonica di fronte ad un grande specchio in cui il pubblico può vedere Giovanni, sorridente con le braccia conserte, 19 Poesia di Salvatore Di Giacomo, messa in musica da Mario Costa e presentata al Piedigrotta del 1885.

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vicino all'immagine di Pietro vista di spalle. I due fratelli si sono ritrovati. La famiglia è ricomposta, ma si tratta di una temporanea illusione scenica, come si capirà presto dalla loro conversazione e dai tragici eventi che stanno per accadere. Finita la festa i due fratelli siedono da soli attorno ad un tavolo, come al ristorante tempo prima, ma Giovanni è preoccupato e rimane in silenzio. Pietro vuole dimostrare di aver riconosciuto i propri errori. I due escono a fare due passi. Mentre vagano per la città Pietro sembra felice per la prima volta e propone una vacanza assieme, dal momento che non devono più rendere conto a nessuno. Uno sconosciuto avvicina Giovanni, il quale dice a Pietro di aspettarlo a casa perché deve occuparsi di alcuni affari. Pietro li segue a distanza, perdendoli di vista occasionalmente, e intuisce che qualcosa non va. Alla fine li insegue e dopo una breve ricerca nel buio, si imbatte nel corpo senza vita dello sconosciuto, mentre Giovanni è in piedi di spalle con un coltello in mano, tremante. La cinepresa si sposta su Pietro che regge la testa del cadavere mentre guarda Giovanni con disperazione.

Famiglie, Domenica 5 luglio 1964 Giovanni è sposato con Ada, una piemontese, con la quale vive in una bella casa in campagna. L’episodio si apre con Giovanni che tiene in braccio suo figlio appena nato e gli canta una ninna nanna in dialetto siciliano. Sua moglie li guarda con un’espressione acida e appare risentita per il fatto che il marito parli in dialetto al bambino. Giovanni non le presta attenzione e sembra assorto nel suo mondo. Dopo questa infelice scena famigliare, si vede Giovanni in un vestito celeste con una cravatta rossa e blu, un diverso taglio di capelli e dei baffi ben curati. Giovanni sta guidando una Fiat 1100 accanto ad un altro uomo, mentre Pietro sul sedile posteriore appare assente e in silenzio. I suoi occhi hanno un’espressione triste e il suo sguardo è di vetro. Per la prima volta i suoi capelli sono lunghi. I delinquenti minorenni nei riformatori italiani durante gli anni sessanta non potevano portare i capelli lunghi. Tuttavia Amelio ha scelto di caratterizzarlo con questo aspetto trasandato al fine di non essere

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frainteso, dal momento che oggi i giovani portano i capelli molto corti per le più svariate ragioni. I tre stanno andando al battesimo del bambino. Giovanni ha gli occhi che sorridono e sembra fiero e sicuro delle sue conquiste economiche. Con aria arrogante, che esprime sicurezza e felicità forzata, racconta al fratello che dalla finestra della sua nuova casa può vedere il fiume, che certamente non è il mare, ma è pur sempre acqua. Questi rapidi commenti offrono degli importanti dettagli socioeconomici sul vano sforzo di Giovanni di ricreare l’ambiente agrario del Sud in uno sfondo culturale vuoto. Giovanni porge al fratello una catenina d’oro e gli spiega come metterla correttamente al nipote alla fine della cerimonia, secondo la tradizione siciliana. L’altro uomo, Pelaia, è un istruttore corrotto del riformatorio in cui Pietro è rinchiuso a causa dell’omicidio commesso da Giovanni. Pelaia chiede a Giovanni se per lo meno sua moglie sappia che stanno tornando dal riformatorio. Giovanni risponde di aver detto alla sua nuova famiglia che sia l’istruttore sia Pietro sono insegnanti che lavorano in Sicilia. La sequenza si chiude con un’inquadratura densa di lirismo di Pietro che stringe il nipote fra le braccia e un grande crocifisso appeso al muro: Pietro fissa il fratello in una travolgente metafora da agnello sacrificale. In un ristorante all’aperto tutti i parenti siedono attorno ad un tavolo e la musica proveniente da un jukebox riempie l’atmosfera. Pietro è l’unico che manca. Inevitabilmente la discussione si concentra sulle differenze fra Nord e Sud. I settentrionali si interrogano su come mai Pelaia, uno del Nord, sia finito ad insegnare in Sicilia. Tutti quanti scherzano sul fatto che dopo essere stato al sud ha assunto un accento africano. Pelaia spiega che a suo parere la ragione della mancata integrazione è da attribuire alla sua incapacità di comunicare. Inevitabilmente il suocero di Giovanni pone il problema in termini religiosi e morali, affermando che i meridionali sono comunque Cristiani e si congratula con se stesso per aver dato in sposa la figlia ad uno di loro. Come è tipico delle riunioni famigliari descritte da Amelio, insinuazioni maligne sono dispensate gratuitamente in merito al taglio di capelli di Pietro, sul fatto che conosca l’acqua e il sapone e se vengano somministrati i vaccini contro la tubercolosi nelle scuole del Sud. Giovanni difende appena il fratello,

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dicendo che gli piace stare da solo. In un complimento a se stesso, Giovanni dichiara che se avesse studiato con un insegnante dalle capacità di Pietro, avrebbe sicuramente raggiunto la laurea. I giorni in cui rispondeva ai denigratori di Pietro di lavarsi la bocca prima di pronunciare il suo nome sono finiti. In privato, tuttavia, è ancora molto premuroso. Dice a Pietro i togliersi la giacca e la cravatta perché fa caldo e gli racconta di aver chiamato il figlio Pietro, nonostante la moglie volesse chiamarlo Battista come il padre. I due fratelli non sono più ripresi faccia a faccia, ma uno di fianco all’altro, e la statura di Giovanni lo fa sembrare ancora più prepotente. Il conflitto fra i due è giunto alla fine. Pietro è simbolicamente morto. Giovanni parla di affari e di come le cose siano diverse dal punto di vista economico. Il fratello maggiore gli racconta di come sia riuscito a comprare il suo quarto camion il mese precedente e di come sia riuscito a passare l’esame di quinta elementare per poter prendere la patente e si vanta di come sia stato bravo: «Ho fatto una bella figura». Come in molti incontri fra fratelli nel cinema di Amelio, la malvagità non si risparmia. Pietro risponde che ha fatto bella figura perché ha corrotto l’esaminatore e Giovanni replica di aver studiato tanto quanto abbia fatto lui. Le sottili crudeltà delle relazioni famigliari sono presentate candidamente senza nessun sentimentalismo tipico delle serie TV italiane contemporanee. La conversazione non si fa mai personale. Giovanni non chiede a Pietro come si mangia al riformatorio. Come aveva fatto prima dell’omicidio, invece, Pietro chiede a Giovanni se possono trascorrere del tempo assieme, e propone di vedersi per Natale. Giovanni, come ricompensa per il suo sacrificio, gli dice che quando la giustizia avrà fatto il suo corso Pietro potrà frequentare l’università, poiché ne ha le doti; poi continua a parlare a suo fratello come se fosse un bambino. Quasi ripete le parole di Pietro durante la loro camminata dopo l’esame, promettendogli di tornare in Sicilia assieme con suo figlio, di risistemare la vecchia casa di famiglia e di trascorrere lì l’estate. Ma le sue parole sono cancellate da un lungo e disperato abbraccio che sembra rivelare la loro natura indifesa. Giovanni cerca ancora di consolare Pietro dicendogli che prenderà il treno verso sud con lui, dal momento che hanno molto di cui parlare e che mentirà alla famiglia dicendo che va semplicemente ad accom-

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pagnare il fratello in stazione. Queste vuote promesse si riflettono negli occhi addolorati e afflitti di Pietro. Quando Pietro esce, Pelaia cerca di dire a Giovanni che suo fratello non mangia né dorme in riformatorio e che, non essendo più un minorenne, sta per essere rinchiuso in prigione. Giovanni crede che Pelaia stia solo cercando di ottenere più soldi e gli racconta un’altra bugia affermando che Pietro gli ha chiesto di accompagnarlo in stazione e poi al Sud. La storia chiude il suo cerchio a bordo del treno. Mentre sta per partire Pietro chiede a Giovanni di prendergli una bottiglia di gazzosa; Giovanni è felice di farlo e all’interno del bar della stazione si intrattiene deliberatamente un momento più a lungo. Il film si chiude con il fratello maggiore che evita l’incontro con il minore. Giovanni che finge di inseguire il treno incarna visivamente la sua incapacità di comprendere l’evoluzione della realtà attorno a lui. Tuttavia il film non si chiude qui. Inaspettatamente vediamo Pelaia all’interno del treno nell’intento di divertire Pietro coinvolgendolo nelle parole crociate. «Un’altra parola per famosa valle?» chiede Pelaia. Pietro non risponde e dopo una breve pausa Pelaia grida «Alida Valli». Ciò che sembra un casuale riferimento agli anni cinquanta in realtà è indirizzato ancora una volta a Visconti e al neorealismo. Alida Valli recitò in Senso (1954), la rilettura di Visconti del Risorgimento, che il critico Guido Aristarco considerava un film storico che attraverso il tradimento, la decadenza e la corruzione dimostrava le cause del fallimento del Risorgimento. Dopo altre due domande, Pelaia chiede in quale opera ci sia l’aria «Tacea la notte placida» e la attribuisce, sbagliando, al Rigoletto di Verdi. L’aria è tratta da Il Trovatore di Verdi, la seconda opera della trilogia popolare, con una trama tratta dal dramma di Antonio García Gutiérrez, El Trobador. Ancora una volta il riferimento non è casuale. L’opera di Verdi è centrata sull’ineluttabile destino dei personaggi. La sua unità è costruita attraverso la ricorrenza di simboli. L’aria è suonata nella scena iniziale di Senso. La passione e l’amore romantico sono alla base di quel tentativo di catturare un’epoca e un’opportunità mancata di forgiare un Paese. In Così ridevano, Amelio utilizza la passione fraterna e la storia per mostrare che cosa hanno perso gli italiani con il “miracolo economico”.

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Dopo queste domande, Pelaia legge una barzelletta rivelatrice sul boom economico: due amici si incontrano e uno chiede all’altro: «Ma è vero che tu lavori per la televisione?» L’altro risponde: «Belìn, se è vero! Ancora due rate e l’avrò pagata tutta». La barzelletta riflette in maniera ironica l’atteggiamento consumistico del tempo: la gente è schiava di ciò che possiede. Il film si conclude con l’indovinello su come facciano quattro elefanti ad entrare in una Fiat 600, una domanda che Pelaia definisce intelligente. Come quando Pietro pose la domanda al ragazzo meridionale alla stazione, non sentiamo la risposta. Quattro elefanti non possono entrare in una piccola Fiat esattamente come Pietro e Giovanni, seppur per ragioni diverse, non possono essere parte dell’evoluzione culturale e dell’emancipazione promessa dalla crescita economica. Visivamente il film termina con un primo piano su Pietro che guarda fuori dal treno, ma non si intravede ciò che osserva, come se il regista volesse reiterare il fatto che il giovane ha perso traccia del futuro, come la società italiana in generale.

Il passato come prologo o propaganda I sei anni, raccontati nel film, hanno trasformato la società italiana su larga scala e hanno cambiato la gente per sempre. Fissando lo schermo nero, si sente Neil Sedaka che canta «One Way Ticket» (1959), per rinforzare la separazione e l’inganno. Le strofe della canzone descrivono un treno che si allontana e che deve proseguire e che non tornerà mai indietro. L’innamorato saluta il suo amore e si autocommisera, il tono della canzone contraddice le parole, come nel caso di Giovanni, le sue azioni contraddicono l’espressione del suo volto. Giovanni sta meglio dal punto di vista economico ma deve convivere con il suo rimorso e con la sua anomia emozionale, mentre Pietro utilizza il suo biglietto di sola andata per scontare la prigionia per un omicidio che non ha commesso. La canzone non è usata per evocare l’identificazione con un periodo. Agli americani potrebbe suggerire la frizzante stupidità degli anni cinquanta negli Stati Uniti, ma in Italia la canzone ispirava viaggi stravaganti che contrastano in maniera netta con ciò che accade nel film. Le vite

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di Pietro e Giovanni simboleggiano il prezzo pagato dall’Italia per giungere alla situazione attuale. In molti modi il suo progresso è il risultato di questa violenza ai danni degli onesti ideali. Pietro incarna lo sradicamento di un’intera nazione e l’angoscia che deriva dalla perdita della propria lingua e della propria identità. Il più giovane paga per l’amore soffocante di Giovanni, che opprime la sua anima. Nel racconto di Amelio il fratello che ritorna in Sicilia dopo aver conseguito un titolo di studio, fondendo il successo dei due fratelli Parondi più giovani, è sacrificato per i peccati derivanti dal successo materiale del fratello progressista/regressivo. Quel fratello che sposa una donna del Nord e può considerarsi integrato con la cultura “più alta”, diventa un criminale, senza nessun reale legame sociale e senza coscienza. L’amore e la lealtà sono private del loro significato e rispedite al mittente in Sicilia, mentre le ambizioni venali creano il “progresso”. Amelio ha scelto di raccontare la storia dei due fratelli tracciando connessioni alla storia nazionale, optando per la passione e il dramma, spesso associati a generi popolari quali l’opera e il melodramma, e per una recitazione e una messinscena stilizzate. La sua visione della storia abbatte la distinzione tra progresso e arretratezza, la gerarchia che ha coltivato molte forme di razzismo e le brutali conseguenze della concezione lineare del tempo che permette qualsiasi cosa in nome del progresso e sottovaluta le perdite umane. Ogni episodio ha uno stile diverso al fine di rispecchiare i netti cambiamenti che stavano avendo luogo nella società. Gli spettatori sono costretti a riflettere, ad immaginare ciò che potrebbe essere accaduto durante gli anni precedenti, e specialmente durante l’anno mancante. Gli episodi registrano questi violenti cambiamenti nelle facce, nei colori e nelle atmosfere delle scene. Il dramma è narrato attraverso il nondetto e i silenzi; le parole sono rimpiazzate dai gesti che sintetizzano la storia collettiva d’Italia. Il titolo del film racchiude un significato provocatorio e contraddittorio. La loro risata non ha nulla in comune con il modo in cui i media nazionali presentavano i radicali cambiamenti degli anni cinquanta. Così ridevano vede il presente da una prospettiva passata. Il film dovrebbe essere letto come il primo della trilogia sull’emigrazione al fine di comprendere quando e dove ebbero luogo tali cambia-

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menti e di apprezzare gli anni novanta come in Il ladro di bambini e Lamerica. Dal punto di vista antropologico, il film mostra come l’amore famigliare sia allo stesso tempo utile e distruttivo. Il bene e il male sono inseparabili nei due fratelli. Mentre Rocco di Visconti rappresentava il bene e Simone il male, Giovanni e Pietro sono due facce della stessa medaglia, tenute assieme dal loro profondo amore fraterno, che si rivela distruttivo a causa della sua totale compromissione e della sua cieca devozione. All’inizio Pietro appare come il fratello perfido. È falso, ladro ed egoista al punto da apparire indifferente al sacrificio e alla devozione del fratello. Il boom economico gli insegna a comprare riviste, belle scarpe, bei vestiti, a rubare soldi, a voler mangiare in ristoranti costosi, mentre l’istruzione non agevola la sua integrazione o la sua emancipazione. A metà del film i ruoli vengono mischiati ed invertiti come la vita sociale italiana, quando il Nord e il Sud si sfruttavano a vicenda in vari modi per raggiungere la crescita economica. La sventura di Giovanni arriva quando deve affrontare una società che è indifferente e ostile. Nella strada verso la realizzazione del suo sogno di mantenere il fratello a scuola, non ha alcun tipo di guida e nessun tipo di sostegno. Senza agganci sociali, Giovanni deve regredire verso le regole egoistiche della famiglia che, in cambio, lo spinge verso un’ulteriore marginalizzazione e isolamento. Affidarsi all’istruzione per ottenere l’avanzamento del fratello e la sua redenzione si rivela un piano fallimentare. Quando sente il fratello cantare in francese, non comprende il significato metaforico della canzone. Ciò che conta per lui è che suo fratello sia riuscito a distinguersi e sia finalmente diventato “Il maestro”, dal momento che sa fare qualcosa che i semplici operai non sanno fare. Amelio ha paragonato l’atteggiamento di Giovanni nei confronti dell’istruzione a quello della gente «buona, onesta e semplice», che se ne serve per ottenere l’emancipazione. Tuttavia nel film appare come un mezzo superficiale, che fallisce nel guarire i due fratelli dalla loro cecità e confusione. Così ridevano instaura un discorso dialettico con il passato, senza l’ottimismo e gli ideali marxisti-leninisti e gramsciani sostenuti da Visconti in Rocco e i suoi fratelli. Il film è un’indiscutibile opera d’arte che si pone come alternativa al manierismo, ai giochi linguistici e metacinematografici e alle ossessioni cinema-centriche che

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si celano dietro i tipici remake. Ed infatti ci troviamo di fronte ad un diretto opposto ai rifacimenti americani in cui, come dimostra Fredric Jameson, il presente è colonizzato dal passato per creare un effetto trompe-d’oeil e la nostalgia per un passato idealizzato registra solo gli eventi ed i periodi di successo. Nel complesso la struttura simmetrica del film stabilisce un perfetto equilibrio con il contenuto. Il film si apre e si chiude con una stazione, un treno, i fratelli, l’andirivieni, un indovinello su quattro elefanti e una Fiat. Gli arrivi e le partenze continuano senza fine. Pietro sta tornando in Sicilia per affrontare un periodo di reclusione in prigione. Giovanni continuerà a fare soldi e a mentire a se stesso riguardo all’amore fraterno e al sacrificio famigliare. Il suo rifiuto emerge chiaramente quando Pelaia gli dice di non poter credere che Pietro sia in grado di impugnare un coltello e uccidere qualcuno. Giovanni risponde che Pietro lo ha fatto per amore, una risposta ambigua che riflette non solo il proprio carattere ma anche la nostra società, che in nome del progresso può devastare la natura, avvelenare l’ambiente e uccidere persone. Così ridevano è il primo film in cui Amelio è l’unico autore. Molti dei suoi temi riappaiono incentrati su una dualità che serve come base per sviluppare un discorso molto più vasto e metaforico, portato avanti con tempi lenti, mancanza di azione dinamica e un consistente uso di primi piani. Lo stile del film, il montaggio, la colonna sonora, la scelta di musica extradiegetica e i temi sono inusuali nel cinema contemporaneo italiano. Il cinemascope criticato da alcuni puristi conferisce al film un elemento epico e, allo stesso tempo, arricchisce le emozioni che appaiono sullo schermo attraverso una fotografia con profondità di fuoco. I personaggi di Amelio sono vicini alla realtà. La messinscena è naturalistica e impressionistica. La recitazione è espressiva e studiata al fine di trasmettere passione e sensualità, mentre il contesto storico è ricostruito attraverso il filtro della memoria e la metafora. Il dramma dei fratelli è intimo e trasmette forti emozioni. Torino ne è il teatro. Il film può essere considerato come una critica alla vecchia struttura famigliare, al sistema socioeconomico e a quello educativo. Il film demistifica il boom economico, mostrando come l’ambiente influisca in maniera determinante nel comportamento umano: se

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Giovanni non si fosse trasferito a Torino, probabilmente non avrebbe forse ucciso un uomo fisicamente o il fratello dal punto di vista spirituale e psicologico. La religione ed il soprannaturale non hanno un ruolo fondamentale nella trama, a differenza di moltissimi altri film sulla cultura meridionale italiana. I suoi presupposti sono materialistici e i protagonisti sono trattati come eguali in termini di male e bene, progressisti o reazionari, aggressivi o passivi. I personaggi riflettono la struttura simmetrica del film, che può essere considerato come un microcosmo della società in scala. La narrazione estremamente ellittica diventa un’antitesi dello stile televisivo della maggior parte dei film italiani ora prodotti. Il film può essere letto a tre livelli, presentati con stili differenti. Il contesto storico e sociale dell’emigrazione è presentato con immagini composte in profondità, che forniscono delle importanti informazioni sull’ambientazione urbana e lavorativa. Il livello personale, che mostra il perpetuo tradimento dei due fratelli, è presentato con immagini sensuali, fisiche e ben strutturate. Il terzo livello, il discorso cinematografico che si riferisce ai film di Visconti, è rappresentato stilisticamente in una messinscena visivamente diversa e in una presentazione ellittica che permette agli spettatori di comprendere ciò che è accaduto attraverso la constatazione della crescita delle possibilità economiche e del deterioramento delle circostanze morali. Personalmente penso che l’integrazione del livello personale con quello sociale sia il grande merito di questo film. Visconti, da marxista, descrisse la risoluzione del conflitto nord-sud attraverso la coscienza sociale di Ciro, che denuncia il fratello Simone e sposa una donna settentrionale, diventando un modello di integrazione dei meridionali. Il loro stile di vita del Sud potrebbe essere sanato attraverso un processo di italianizzazione che Visconti aveva paragonato allo stile di vita del Nord. L’istruzione è considerata la risposta alla Questione Meridionale. Per Visconti il personaggio innocente e pulito di Rocco caratterizzato dalla sua abnegazione si integra con il Nord attraverso il matrimonio di Ciro. Rocco oltrepassa la sua famiglia e la classe, esattamente come Simone vi cade in mezzo, ma Ciro, baciando la sua fidanzata e tornando al lavoro allo stabilimento dell’Alfa Romeo è la vera personificazione di ciò che i Parondi sono diventati. Il completamento dei loro destini è lasciato al ritorno di

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Luca alla terra natale, alla loro casa abbandonata, da uomo libero e onesto, sgombro dagli ancestrali fardelli di sfruttamento e pregiudizi, ripulito dalle antiche incombenze di cui i contadini meridionali si facevano carico. Amelio si spinge oltre questa visione ottimistica. Il rigetto di Così ridevano da parte degli italiani e il loro rifiuto del dialetto dei contadini riflettono il loro disgusto nel vedere se stessi allo specchio e l’avversione della borghesia nei confronti dell’ignoranza. Il critico italiano Tullio Masoni scrisse di essere convinto che l’insofferenza del pubblico e della maggior parte della critica nei confronti del film rivela un altro rifiuto: quello che gli italiani hanno per loro stessi, per il loro Paese e per la loro storia20. In Così ridevano, l’ansimante angoscia e i primi piani dei protagonisti si contrappongono ai cliché dell’immagine della cultura che, come Gilles Deleuze spiega in The Image of Time (1989), nasconde piuttosto che mostrare la verità. Amelio non trae vantaggio dalle catastrofi mondiali, ma attraverso queste mostra come la storia non segua una linea progressiva. Al contrario, la storia ricongiunge il presente e il passato con il futuro. Lo spettatore rimane con lo sguardo vuoto di Pietro in viaggio senza un punto di arrivo e senza la speranza di una destinazione migliore. L’ottimismo viscontiano rappresentato dal possibile ritorno di Luca in Lucania ora prende la forma della prigionia di Pietro al suo arrivo in Sicilia. Giovanni, come il vecchio Spiro/Michele in Lamerica, crede nel sacrificio e ritiene che gli obiettivi possano realizzarsi attraverso l’amore e il duro lavoro. Il tragico silenzio e l’immobilismo che circonda Pietro nell’ultima scena getta nuova luce sul ragazzo chiacchierone e tremante della prima scena: questi arrivi non hanno ritorni.

20  Passatopresente ellissi tragica, «Cineforum», 378 (ottobre 1998), p. 3.

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Capitolo 9

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Correre prima di imparare a camminare: Le chiavi di casa (2004)

Chi lo vede per la prima volta spesso non se ne accontenta. Si ferma e si volta a guardarlo. Lui se ne accorge e ho l’impressione che arranchi con una smorfia di sofferenza. Ma forse non è così, lui bada solo a non cadere, è abituato a essere osservato, sono io che non mi rassegno. Ho una smorfia di sofferenza ed è quello che ci unisce, a distanza1. [Amelio parlando del suo cinema] Di contropiede più che di attacco … Io sono da contropiede. L’attacco secondo me è efficace quando è attacco vero, non quando è attacco da «argomento». Il grande difetto del cinema cosiddetto «politico» degli anni passati era il fatto che confondeva l’argomento con il mezzo espressivo, il contenuto con il contenitore2.

In principio, il libro Prima di trovare un linguaggio proprio e prima che la sceneggiatura fosse accettata come una professione autonoma, il cinema si affidava alla letteratura. È possibile che tale dipendenza fosse dovuta ad un complesso d’inferiorità basato su una conoscenza limitata del moderno linguaggio tecnico del mezzo cinematografico oppure su una mancanza di rispetto per i meriti artistici ed espressivi di questo nuovo mezzo3. In ogni caso questa relazione rimane un argomento aperto e di discussione. I vari termini utilizzati per descrivere la trasposizione dal romanzo allo schermo (tratto da, ispirato a, adattato o trasposto) implicano che i due generi sono essenzialmente diversi. Ispirato al romanzo di Giuseppe Pontiggia Nati due volte (2000), Gianni Amelio fu in grado di creare un film autonomo dal punto di vista artistico e linguistico, che rimane in vari modi legato all’opera letteraria attraverso una sorta di cordone ombelicale. Il film fu 1  Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, Milano, Mondadori, 2000, p. 232. 2  Amelio, citato in Amelio secondo il cinema, cit., p. 106. 3  Sulla crescente professionalità degli sceneggiatori a partire dalla seconda guerra mondiale, si veda Federica Villa, Botteghe di scrittura per il cinema italiano, «Saggistica», n. 7 (2002).

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ben accolto dal pubblico e acclamato da giornalisti e critici, sebbene sottovalutato al Festival del Cinema di Venezia. Molti reporter affermarono che la giuria non lo premiò come miglior film per riparare all’immeritata vittoria di Così ridevano nel 1998. In disaccordo con la giuria, Tullio Kezich scrisse che il film per il quale avrebbe ricordato il 61° Festival del Cinema di Venezia, era Le chiavi di casa4. Il film vinse il Premio Francesco Pasinetti; tre Nastri d’Argento per la Regia del miglior film italiano, miglior fotografia e miglior sonoro in presa diretta; il Golden Globe come miglior attore a Kim Rossi Stuart; due Ciak d’oro come miglior sceneggiatura e miglior attore non protagonista (Pierfrancesco Favino); il Premio Anna Magnani come miglior attrice a Charlotte Rampling; il David di Donatello come Miglior fonico di presa diretta e il Premio speciale della giuria al Siviglia Film Festival. Il critico Gian Luigi Rondi, che non aveva del tutto apprezzato Lamerica ed aveva avuto più di qualche riserva nei confronti di Così ridevano, scrisse in «Il Tempo», che con Le chiavi di casa, Amelio era ritornato a psicologie recondite rappresentate con raffinati tremiti ed intensa poesia, simile a ciò che è stato considerato il suo capolavoro, Il ladro di bambini5. Amelio riconosce che il suo film non avrebbe mai visto la luce se Pontiggia non avesse raccontato la sua storia. Senza l’Andrea del romanzo, non avrebbe sentito la necessità di cercare il suo proprio Andrea, l’attore del film, afflitto da lesioni cerebrali infantili6. Da queste considerazioni scaturì la dedica che appare prima dei titoli, «Ad Andrea e ad Andrea,» che richiama l’idea di una doppia nascita, l’Andrea di Pontiggia e quello di Amelio: il libro e il film. Nati due volte, l’ultimo romanzo di Giuseppe Pontiggia (19342003), uscì nell’estate del 2000, raccogliendo apprezzamenti critici e popolari. Nel 2001 il libro vinse il Premio Campiello, che assieme al successo di vendite rese popolare un autore il cui segno nel corpus della letteratura nazionale era stato fino a quel momento marginale. Nel suo romanzo Pontiggia traduce la sua personale esperienza trentennale da padre di un figlio disabile in una complessa testimonianza 4  “Le chiavi di casa”, «Corriere della Sera», 10 settembre 2004. 5  “Le chiavi di casa”, «Il Tempo», 10 settembre 2004. 6  Le affermazioni di Amelio vengono da un’intervista/conversazione privata con lui a Roma nel dicembre del 2005.

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narrativa. Il libro trasforma un apparentemente semplice e naturale racconto d’amore paterno e di solidarietà umana nei confronti di un figlio cerebroleso, nel racconto crudo e senza pietà di un rapporto difficile, che tuttavia apre la strada alla scoperta di legami affettivi. Il romanzo è scritto in forma di autobiografia o di memorie. Il vero figlio di Pontiggia si chiama Andrea mentre il ragazzo della storia, Paolo. Il narratore è un padre e veste i panni del professor Frigerio, insegnante presso un Istituto d’Arte, mentre Pontiggia era impiegato in banca. Con riferimento al suo linguaggio e alle allusioni autobiografiche, Pontiggia affermò di aver cercato di avvicinare la voce narrativa a quella personale non tanto in senso autobiografico o narcisistico, quanto creando un’identificazione etica, un legame completo dal punto di vista emozionale e intellettuale. L’autore aggiunse che cercare la verità del linguaggio (più che la verità assoluta) in ogni pagina, in ogni frase e in ogni parola, stabilisce un coinvolgimento del lettore che deriva dalla sua identificazione con ciò che è scritto7. Lo stile colloquiale della storia evita il sentimentalismo che sarebbe potuto facilmente emergere dal tema: un individuo disabile sostenuto dai propri genitori, in conflitto con il mondo della medicina, con la scuola e con una burocrazia incompetente. L’esperimento narrativo di Pontiggia ha origine dalla consapevolezza di dover evitare il racconto di queste battaglie per la ricerca della solidarietà e dell’amore come fosse un percorso misterioso. In caso contrario, il libro sarebbe stato disonesto e incapace di sensibilizzare i suoi lettori. Anziché suscitare compassione per gli afflitti e per la sua sfortunata famiglia, il romanzo sviluppa la consapevolezza di cosa significhi essere diversi. L’autore filosofeggia ironicamente sul soggetto, obbligando il lettore a riconoscere che accettare e vivere con una persona disabile sono azioni che si imparano ad alto prezzo. Parlando del successo del romanzo, Pontiggia affermò che nonostante tratti un tema doloroso, il libro affronta il dramma con coraggio, con lucidità, con la voglia di farcela e con la consapevolezza critica della stupidità, non solo degli altri, ma anche dello scrittore stesso. Il narratore si esprime in prima persona, rivelando i suoi limiti, le sue colpe e perfino la sua immaturità e rifuggendo frequenti semplificazioni8. 7  Intervista in La Libreria di Dora, www.italialibri.net 8  Ibidem.

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In una storia con uno scarso sviluppo drammatico, il coinvolgimento etico e personale del lettore con i personaggi è conseguito attraverso una serie di ragionamenti narrativi operativi, predisposti per distanziare od oggettivare il tema principale. L’occasionale intervento diretto dell’autore è un espediente tecnico che permette ai lettori un distacco ironico dal loro insensibile mondo “normale”, al fine di comprendere le situazioni difficili che i disabili sono costretti ad affrontare. L’ingegnosità tecnica dell’autore presenta i problemi causati dalla disabilità di Paolo, le sue difficoltà di adattamento e gli strenui sforzi dei dottori, della madre, dei nonni, dei parenti e degli insegnanti attraverso gli occhi del padre, evitando ai lettori un’insincera identificazione con la persona disabile e sottolineando il suo potenziale. Alla fine del romanzo questo approccio ribalta la prospettiva della società nei riguardi di coloro che sono diversi e porta a compimento l’obiettivo dell’autore di mostrare che la “normalità” altro non è che una maschera sociale indossata per difendere una stabilità illusoria. Utilizzata come pietra di paragone, rende sempre più difficile la vita per i disabili. Come suggerisce il titolo del romanzo, i disabili devono nascere due volte perché sono costretti a vivere una realtà che la prima nascita ha reso difficile. Pontiggia veicola il messaggio secondo cui la seconda rinascita diventa possibile quando le persone “normali” capiscono che l’arte di vivere richiede la comprensione delle difficoltà altrui, la capacità di dare e interagire e l’accettazione delle limitazioni, in un’era che esalta il successo come valore in sé e non come valore aggiunto a beneficio della società. Secondo l’autore, la presa di coscienza di questa realtà basilare dipende dal raggiungimento anche da parte delle persone sane di una rinascita che riconosca tutti gli esseri umani. Dobbiamo imparare a coesistere con la disabilità. Pontiggia ha dichiarato che da un punto di vista antropologico siamo tutti disabili nei confronti del mondo e della società in cui viviamo, perché, come affermano dottori e psicologi, i nostri corpi e le nostre menti sono modellate per un ambiente che è completamente differente da quello in cui viviamo. L’evoluzione della società è stata molto più rapida rispetto a quella delle specie9. 9  Ibidem.

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La chiarezza intellettuale alla fine delle sue interminabili avversità emozionali insegna al lettore che in situazioni simili a quelle del Professor Frigerio non ci sono vittorie morali e che la vita è una sfida eguale per tutti. Non ci sono scuse semplicistiche, certamente non per coloro nati diversamente abili, i quali, come afferma la dedica del romanzo, lottano non tanto per essere normali quanto per essere se stessi. Non esistono premi di consolazione, ma solo un’accettazione degli altri. La lunga e difficile ricerca del narratore lo ha condotto a tale constatazione: «Una volta, mentre lo guardavo come se lui fosse un altro e io un altro, mi ha salutato. Sorrideva e si è appoggiato contro il muro. È stato come se ci fossimo incontrati per sempre, per un attimo» (232).

Un lungo periodo arido Dopo gli esigui incassi di Così ridevano, uno dei film con minore successo commerciale di Amelio, il regista dovette attendere sei anni prima di poter realizzare la sua successiva opera. In un’intervista pubblicata su «la Repubblica», Amelio espresse tutta la sua frustrazione. Il regista dichiarò che in seguito a tutte le sciocchezze che i critici avevano scritto su Lamerica, non si sarebbe mai aspettato recensioni e commenti perfino peggiori nei confronti di Così ridevano. Amelio era pronto a ricevere critiche, ma non voleva più sentirsi dire di aver realizzato un altro film sull’immigrazione. I critici avevano attaccato Lamerica come un instant-movie sui rifugiati albanesi e per l’uso del formato cinemascope, pertanto in Così ridevano cercò di prendere le distanze dall’emigrazione contemporanea. Arrivò addirittura ad accusare i suoi detrattori di non capire nulla, nemmeno il coraggio dimostrato nell’aver tralasciato un anno nella storia dei due fratelli. Il regista concluse la sua appassionata difesa rifiutando qualsiasi accusa di aver realizzato il film solo per compiacere gli intellettuali di sinistra che amano la storia e le metafore10. Nonostante gli attacchi, le polemiche e l’insuccesso al botteghino, Vittorio e Rita Cecchi Gori, che avevano prodotto Lamerica, firmarono un contratto per produrre tre film con Amelio. Amelio aveva già le 10  Citato in Martini, Gianni Amelio, cit., pp. 144-145.

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sceneggiature in mano. Cent’anni (come Ventesimo secolo) racconta di un’insegnante napoletana che dopo la Prima Guerra Mondiale viene assunta per dare lezioni serali agli adulti in una zona fortemente analfabeta della Calabria, così da permettere alla gente del posto di conseguire il diploma di scuola elementare e votare per un politico locale. Il paradiso all’ombra delle spade prende il titolo da un verso di Gabriele D’Annunzio, inscritto sul monumento dei soldati in Piazza Cola di Rienzo a Roma. La storia segue un tipografo dalla sua partenza per la Libia quando questa era una colonia italiana, fino al suo rimpatrio nel 197011. Amelio aveva scritto anche una sceneggiatura basata su Il banchiere dei poveri del Premio Nobel Muhammad Yunus, fondatore dell’Istituto per il Microcredito in Bangladesh, le cui idee per combattere la povertà attraverso prestiti alle piccole imprese sono state applicate in sessanta paesi sottosviluppati. Un’altra sceneggiatura era basata su The Pensioner di Friedrich Dürrenmatt, un romanzo incompleto pubblicato postumo. Tra questi progetti Amelio sperava almeno di girare Numeri, il titolo della sceneggiatura tratta dal romanzo di Durrenmatt, che racconta l’ultima investigazione condotta da un capo della polizia in procinto di andare in pensione, ambientato tra San Diego e Venice, in California. Sfortunatamente il gruppo Cecchi Gori iniziò a fallire dopo un investimento sbagliato in Telemontecarlo, il divorzio di Vittorio dalla Rusic e i guai finanziari della sua Fiorentina, che gli costarono l’accusa di bancarotta fraudolenta. Così nel 1999, quando sembrava che Amelio avesse raggiunto la fama autorevole per realizzare i film che voleva, l’inaspettato collasso finanziario cambiò ogni progetto. Il suo contratto con il gruppo includeva il controllo della distribuzione e ciò comportava l’impossibilità di realizzare film con altri produttori. Mary P. Wood spiega che dal 1980 il settore dello spettacolo è stato dominato da un’oligarchia composta dal gruppo Cecchi 11  Al termine della guerra di Libia, o Italo-Turca, con l’Impero ottomano (29 settembre 1911-18 ottobre 1912), l’Italia si prese le provincie della Tripolitania e della Cirenaica assieme all’isola di Rodi e all’arcipelago del Dodecaneso. L’occupazione durò fino al 1943. Nel 1956 si affermò di aver saldato i debiti pagando 6,7 milioni di dollari. Quando il Colonnello Muhammar Gheddafi assunse il controllo della Libia nel 1970 espulse tutti gli italiani che ancora vivevano lì. Nel 1998 il governo italiano e quello della Libia firmarono un altro accordo per il termine del conflitto e l’Italia alla fine riconobbe di aver deportato migliaia di libici nelle isole sterili italiane. Per molti libici la ferita è ancora aperta, dal momento che un milione di abitanti furono uccisi durante l’occupazione.

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Gori e dalla Fininvest di Berlusconi. I problemi finanziari del gruppo Cecchi Gori e l’incarcerazione di Vittorio Cecchi Gori nel 2002, resero la situazione ancor più ardua per i produttori indipendenti, i quali si videro obbligati o a scendere a patti con i proprietari di queste grosse compagnie dello spettacolo, o a rischiare una lunga attesa per una distribuzione con scarsi ritorni finanziari12. La produzione cinematografica annua del gruppo Cecchi Gori scese da circa venti film a uno, ma continuò ad annunciare l’inizio della realizzazione di una delle sceneggiature di Amelio. La situazione di stallo continuò per molti anni, con il regista che scriveva a Cecchi Gori esprimendogli la sua frustrazione e la sua disponibilità a girare qualsiasi cosa. Nonostante la produttività del gruppo fosse crollata a zero, Cecchi Gori sperava ancora di realizzare un grande film di successo con Amelio per mantenere il suo status. Sfortunatamente non poté permetterselo. Dopo una lunga attesa e nonostante le minacce legali, Amelio accettò l’offerta di realizzare un film per RAI Cinema sul romanzo di Pontiggia.

I documentari Durante gli anni trascorsi nell’attesa di realizzare un altro film per il grande schermo, Amelio girò quattro documentari che si rivelarono molto importanti per la sua ricerca di un linguaggio e di uno stile che meglio avrebbero reso il contenuto. Amelio rifiuta chiaramente lo stile televisivo degli instant-movie e la spettacolarizzazione della violenza delle catastrofi naturali che traggono vantaggio dalla tragedia umana. Includo nella mia argomentazione un documentario realizzato dopo l’uscita di Lamerica per una serie di ragioni che spiegherò. Non è finita la pace, cioè la guerra (1997) Nel 1996 Amelio ed altri cinque registi presero parte ad un progetto sponsorizzato dall’UNICEF chiamato Oltre l’infanzia. L’attenzione era rivolta ai bambini e l’intera serie venne trasmessa in Italia il 12  Italian Cinema, cit., p. 32.

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13 dicembre 1999, poco prima di Natale. Amelio andò in Bosnia per filmare la devastazione inflitta alla popolazione dal conflitto etnico che condusse alla guerra. Questo documentario di 53 minuti venne girato a Sarajevo e montato da Marina Sernale. Il titolo è tratto da un’osservazione fatta dal primo bambino intervistato. Una volta in Bosnia, assieme a bambini che avevano perso un arto per una bomba o una mina, Amelio si pose la domanda che si rivolgeva ogni volta che guardava il telegiornale: «Che cosa dovrebbe fare una persona che ha fatto della cinepresa la sua vita? Dovrebbe portarla lì dove hanno luogo le atrocità o dovrebbe rimanere a casa e guardarle alla televisione? Ora sentiva di dover risolvere questa urgente questione morale. Nonostante fosse conosciuto come “il regista dei bambini”, di fronte alle atrocità della guerra voleva inventare un nuovo modo per mostrare i fatti senza manipolare, commercializzare o suscitare pietà nei confronti di bambini afflitti che dovevano parlare con lui. Amelio scelse di farli parlare liberamente, senza far loro domande, di fronte ad una cinepresa fissa, eliminando qualsiasi elemento superfluo o che distraeva l’attenzione. Il suo obiettivo era di indurre lo spettatore a estraniarsi all’approccio commerciale con cui questi fatti sono comunemente presentati, per stimolare o ristabilire la loro sensibilità. Di conseguenza le riprese sono lunghe e fisse. Solo la parte alta del corpo dei bambini è ripresa, al fine di evitare di suscitare pena mostrando gli arti inferiori amputati o feriti. Tutti i bambini appaiono in una ambientazione fissa, con edifici devastati e muri bombardati sullo sfondo, per dare agli spettatori la possibilità di colmare con l’immaginazione ciò che non viene mostrato. Il rumore della pioggia diventa diegetico, una metafora della guerra. La pioggia va e viene, come la guerra, ed è seguita dal sole, in una chiara allusione al titolo del documentario: non è finita la pace, cioè la guerra. Lo stile di Amelio si scontra deliberatamente con quello televisivo o del reportage giornalistico e con le strategie di marketing degli sponsor, lasciando che sia la cinepresa a denunciare la guerra. Credo fermamente che l’esperienza diretta di lavorare con bambini che non stavano interpretando un ruolo ma che stavano testimoniando le loro esperienze di vita ebbe un tremendo impatto su Amelio e giocò un ruolo determinante nel suo modo di lavorare in

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seguito con Andrea Rossi, il ragazzino disabile in Le chiavi di casa. Amelio imparò sulla sua pelle che poteva utilizzare il suo mezzo espressivo per aiutarli, come fece in seguito con Andrea. Poveri noi (1999) Questi cinquanta minuti di documentario furono realizzati nell’ottobre del 1998 a partire da spezzoni d’archivio custoditi negli studi televisivi nazionali a Roma, per l’ultimo programma della serie Alfabeto italiano, trasmesso il 2 febbraio 1999. Amelio mostra l’Italia degli anni cinquanta, subito prima del boom economico e dell’esodo dalle campagne. Il titolo ha un doppio significato e si rifà ad una espressione tipica che allude al fatto che, dopo la guerra, gli italiani erano molto poveri ed emigravano ovunque per sopravvivere. La frase inoltre allude ironicamente al presente e all’escalamazione che gli italiani utilizzano alla vista dei nuovi immigranti. A chi si riferisce il noi? Poveri noi, gli italiani, i quali nonostante non più poveri del punto di vista dei soldi, devono ospitare gli albanesi? O poveri noi, gli albanesi, che dovrebbero tornare a fare i poveri in Albania? Inoltre, l’autocommiserevole “poveri noi” diventa automaticamente ironico e autoincriminante. Dobbiamo tutti essere duri contro un destino indifferente. Le implicazioni del titolo diventano un altro modo, per Amelio, di evitare di suscitare pena nello spettatore. Senza polemiche Amelio continua il discorso cominciato con Lamerica e Così ridevano, come a voler rispondere ai suoi denigratori con i fatti. Il documentario sembra quasi una preparazione per quei film, più un preludio che un prologo. Questo lavoro è diviso in sei parti: Arriva la televisione, Napoli: Chi legge e chi parte, Stranieri, Cara sposa, Verso il Nord e Sud che muore. L’inizio si apre in Sicilia e si sposta verso nord per seguire l’esodo interno. Nel primo episodio, Amelio mostra uno dei primi servizi della televisione nazionale in Sicilia, nella stessa regione che Giovanni e Pietro si lasciano alle spalle in Così ridevano. In alcune interviste una ragazza rivela il suo sogno di diventare una cucitrice e una donna sposata parla dell’importanza di imparare a leggere e scrivere. Alla domanda su quali fossero i suoi desideri e stupendosi che qualcuno fosse interessato

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a ciò che desiderava, la donna rispose con esitazione: «Qualcosa di buono... un pezzo di carne». I volti innocenti di queste donne appartengono ad un’altra età e si esprimono nello stesso dialetto dimenticato che usano i personaggi di finzione del film di Amelio. Il documentario si sposta al porto di Napoli, dove la gente si imbarca per l’Australia. Ironicamente Amelio sceglie lo spezzone televisivo che mostra Mario Soldati, uno degli scrittori più famosi di quel periodo, che chiede agli emigranti analfabeti in procinto di imbarcarsi quali libri stiano portando da leggere durante il viaggio. Amelio si assicura anche di includere il Bar di Gigi a Porta Palazzo a Torino, dove i meridionali si trovavano dopo il lavoro, come in Così ridevano. Il documentario mostra l’Italia del nord “invasa” da “stranieri” del Sud. I settentrionali intervistati vorrebbero rimandarli a casa con una chiara allusione all’attuale sventura degli albanesi. Il documentario si sposta poi in Nord Europa per mostrare gli emigranti italiani in Svizzera e in Belgio. Qui nel 1956 molti persero la vita nella catastrofe della miniera di Marcinelle, dove erano stati assunti a svolgere lavori pesanti ed estenuanti che i nativi non volevano più fare. L’8 agosto di quell’anno, 262 su 274 minatori della miniera di carbone vicino a Charleroi in Belgio morirono. Di questi, 163 erano calabresi. I minatori stavano lavorando a 975 metri sotto terra quando due carretti che risalivano si scontrarono con dei fili elettrici non protetti e dei tubi contenenti olio e aria compressa. Il conseguente incendio riempì la miniera di fiamme e fumo. Il documentario di Amelio scatenò numerose reazioni fra gli intellettuali. Alcuni scrissero al Ministro dell’Istruzione Pubblica chiedendo di inserirlo nei programmi scolastici. Pietro Ingrao, leader dell’ex PCI, offrì di presentare il documentario nelle scuole pubbliche di Roma e di discutere i cambiamenti antropologici in Italia, inclusi coloro che più ne beneficiarono13. Secondo Ingrao, i corpi scarni scavati dalla fame e dalla fatica e le bocche sdentate che parlano del passato dovrebbero essere mostrati accanto ai corpi delle modelle usate nelle pubblicità, come strumento pedagogico per aiutare le nuove generazioni a comprendere la lotta che la nazione dovette affrontare per raggiungere l’emancipazione. Complessivamente il documentario fu ben accolto dalle generazioni che avevano vissuto il 13 Cinema a scuola, «il manifesto», (1999), in Scalzo, Gianni Amelio, cit., pp. 270-271. 

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cambiamento epocale. Sfortunatamente il discorso contemporaneo sull’esclusione e l’inclusione, che credo fosse l’interesse principale di Amelio, fu insufficientemente enfatizzato o completamente tralasciato da molti degli articoli che apparvero dopo la sua uscita. Uno schermo sull’acqua (2000) Amelio girò questo lavoro di cinquanta minuti a Reggio Calabria da luglio a ottobre del 1999. Il documentario gli diede l’opportunità di ritornare alla sua regione natale e di aggiungere un altro capitolo alla relazione contraddittoria con la sua terra. Questo venne trasmesso a Roma il 3 febbraio 2000 al Palazzo delle Esposizioni. Il titolo fa riferimento ad un grande schermo che fu installato sulla spiaggia rivolto verso lo Stretto di Messina per mostrare dei film per il Festival del Cinema del Ventunesimo secolo quell’estate. Nel documentario di Amelio lo schermo è utilizzato per intervistare le persone che sono nate o hanno deciso di vivere a Reggio Calabria. Attraverso le loro testimonianze e i loro racconti emerge la storia di una città che lotta per cambiare la propria immagine di luogo povero e fra i più controllati dal crimine organizzato. Amelio intervista un giovane disoccupato, un giornalista, il proprietario di una libreria, un pittore macedone, un emigrante albanese, uno studente, il proprietario di un negozio di antiquariato e molti altri uomini e donne, fra cui Giuseppe Ieracitano, che aveva recitato il ruolo di Luciano in Il ladro di bambini otto anni prima. Giuseppe vive ancora a Reggio Calabria e afferma che la sua città è cambiata perché a cambiare era stata la gente. Alla fine del documentario Amelio afferma che vorrebbe cancellare dalla mente delle persone il concetto di rassegnazione e di vittimizzazione, la paura di reagire e il sentimento imperante secondo cui, nonostante tutto, per poter sopravvivere è necessario sopportare qualsiasi tipo di violenza. Il regista conclude con la speranza che le sue parole siano in grado di aiutare la città a superare una lunga e drammatica marginalizzazione. Questo lavoro segna il primo commento diretto di Amelio alla vita contemporanea, utilizzando il proprio mezzo espressivo per esortare dei cambiamenti senza lasciare

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che siano gli altri a fare discorsi o a trarre metafore dal passato. A mio avviso questo principale cambiamento mostra come Amelio si stesse avviando verso la realizzazione di Le chiavi di casa, in cui due individui con diverse disabilità si vedono obbligati ad affrontarsi e ad imparare come amare. Il loro viaggio espone il pubblico alla disabilità, agevolando una maggiore comprensione e favorendo l’accettazione delle persone diverse. Questo documentario permise inoltre ad Amelio di mettere in pratica la sua visione sull’utilizzo del cinema per promuovere l’emancipazione, a differenza di come l’industria cinematografica se ne serve in genere. Amelio aveva espresso chiaramente questo concetto nel 1980, quando aveva contraddetto un intervistatore che sosteneva il cinema in generale senza fare alcuna distinzione. Il regista si schierò contro un tipo di cinema che rinforza le vecchie pratiche e non cerca realtà nuove o nascoste. Amelio affermò che il problema da un lato era il rifiuto del cinema di cambiare, dall’altro risiedeva nella contraddizione che vivono i registi, imbrigliati fra ciò che credono giusto e la loro incapacità di andare oltre le strutture preesistenti dell’industria cinematografica. Ciò che propone Amelio è di utilizzare strumenti diversi da quelli tradizionali facendo riferimento a realtà non comuni e di cercare schemi narrativi più liberi14. In Uno schermo sull’acqua, Amelio concretizzò il suo punto di vista lasciando che la gente parlasse della propria città, anziché intervistare persone note, storici e studiosi. Inoltre lasciò la gente esprimersi senza interruzioni ed utilizzò una musica di sottofondo innovativa. Ciò che emerge è una visione molto equilibrata dei lati positivi e negativi della città e del suo forte desiderio di cambiare, espresso non solo da coloro che hanno sempre vissuto lì, ma anche da quelli che hanno deciso di rimanere. Fra questi ultimi, per esempio, un rifugiato albanese arrivato nel 1991, nello stesso periodo in cui Amelio era in Albania per esplorare le cause dell’esodo. Le voci degli intervistati sono accompagnate da splendide riprese della poco conosciuta architettura della città: gli antichi edifici, i bei giardini e via Marina, in contrasto con le case non finite lungo l’autostrada, probabilmente abusive, che richiamano l’edificio in costruzione della sorella di Antonio in Il ladro di bambini. Qui un pittore macedone 14  Citato in Scalzo, Gianni Amelio, 274.

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che ha scelto di vivere in città difende la laboriosa costruzione di una casa come una cosa giusta ed un diritto ancor più prezioso. In questo nuovo modo di raccontare una città, lo schermo sull’acqua diventa una metafora della vita. Il tentativo di Amelio di cambiare il modo tradizionale di girare è evidente anche nel documentario sulla Bosnia e verrà riutilizzato in Le chiavi di casa, un film in cui realtà poco conosciute, come un padre che incontra il figlio disabile dopo quindici anni, assumono un ruolo centrale L’onore delle armi (2000) Nel dicembre 1999, Amelio lavorò a questo documentario di 85 minuti, che fu presentato al Festival di Locarno il 9 agosto 2000 e trasmesso da RAI 3 l’8 settembre. Il documentario parla dell’esercito italiano, costituito dopo la caduta del fascismo e simbolo della nascita della Repubblica. La costituzione appena approvata stabiliva che il popolo dovesse creare un nuovo esercito per difendere il Paese e per mantenere la libertà e la pace. Il film, composto interamente di suoni e immagini d’archivio, presenta diverse visioni del servizio di leva in tempo di pace. In alcune interviste, giovani militari parlano apertamente delle loro esperienze e delle loro ansie riguardo ai metodi vecchio stampo ancora in uso. Il lavoro descrive le dure battaglie per obbligare l’esercito a riconoscere gli obiettori di coscienza e per raggiungere altri cambiamenti nella società civile dalla seconda guerra mondiale. Amelio mostra anche il grande business del traffico di armi e chi ne è vittima. A quel tempo l’Italia era uno dei più grandi produttori ed esportatori di mine verso i Paesi del terzo mondo e l’accusa è rinnovata quando un generale chiede che siano pronte più bombe intelligenti per combattere una guerra moderna. Il documentario termina con immagini di bombe intelligenti, indirizzate dai radar, sganciate mentre si odono voci che commentano allegramente i risultati e rompono il misterioso silenzio della morte.

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La terra è fatta così (2000) Questo film segna il debutto del figlio adottivo di Amelio, Luan, come aiuto regista. Amelio torna al Sud per commemorare il ventesimo anniversario del devastante terremoto che sabato 23 novembre 1980 uccise tremila persone e distrusse vaste aree dell’Irpinia in Campania e nella parte nord della Basilicata. Il documentario fu trasmesso su RAI 3 il 22 novembre e sponsorizzato da Legambiente. Questo diede ad Amelio l’opportunità di tornare ad occuparsi di due dei suoi temi principali: la memoria storica e il Sud. Il titolo viene da un’intervista con una donna che, esprimendo rassegnazione e accettazione, attribuisce la catastrofe alla Madre Terra. Il lavoro si compone del 20% di spezzoni originali, girati il giorno successivo al terremoto e trovati negli archivi televisivi nazionali, e dell’80% di spezzoni nuovi, girati da Amelio sul luogo vent’anni dopo. Ciò che emerge è una strana amnesia: le nuove generazioni, compresi i bambini della scuola elementare, non sanno niente riguardo al disastro, nonostante avessero perso parenti e, in alcuni casi, nonni. Nemmeno i giovani hanno conoscenza di ciò che è accaduto, ed alcuni sono perfino contenti e soddisfatti di vivere nei container, dal momento che non hanno mai avuto esperienza degli agi di una casa vera. Le uniche persone intervistate ad essere informate sull’accaduto erano quelle che avevano vissuto in prima persona il terremoto. Queste mostrano nostalgia per i paesi, per le case e le piazze distrutte, sostituite da condomini costruiti nei sobborghi della città, senza alcuna pianificazione urbana o nessuna attenzione alla tradizionale ambientazione pubblica, dove la gente trascorre il tempo a socializzare. I 54 minuti di documentario, girati con sensibilità, sobrietà e gentilezza, mettono in luce l’indifferenza della nuova generazione, il dolore dei più vecchi e vent’anni di devastazione, di scarsa pianificazione, di corruzione, di sprechi e di miliardi spesi nella ricostruzione, finiti in mano alla camorra con la benedizione dei politici locali. Il racconto ha momenti a volte amari, altri di dolcezza, come quando uno degli intervistati afferma che la parola terrone deriva da terremoto. Nel complesso il pubblico è lasciato con un chiaro e oggettivo racconto di come, nel 1980, la televisione avesse utilizzato

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il tragico evento per mostrare la solidarietà nazionale e, allo stesso tempo, per sfruttare il dolore della regione. Senza esplicita retorica, Amelio paragona i disastri causati dall’uomo alla devastante forza della natura. Amelio è in grado di dimostrare che la tanto odiata e criticata percezione vittimista dei meridionali è il risultato della loro sfiducia nello stato e nelle autorità in generale, che li spinge ad attribuire la colpa di ogni cosa al governo e, allo stesso tempo, a costruire senza rispetto delle leggi. Alla fine il titolo dà prova non tanto della rassegnazione, ma della mancanza di un’adeguata istruzione su come si viva e si costruisca in zone sismiche.

Il valore dell’esperienza dei documentari Tutti questi documentari che furono prodotti dalla televisione, riscontrarono considerevoli successi di pubblico e furono tutti ben accolti dai critici. L’esperienza aiutò Amelio nella sua ricerca di un linguaggio e di uno stile che fossero onesti e che rispettassero le persone. Per sua stessa ammissione, essendo abituato a ricostruzioni fittizie, a manipolare la realtà, a giocare e a recitare con gli altri protagonisti nella sua rappresentazione artistica, dovette imparare come filmare la gente reale, come farsi coinvolgere dai loro problemi senza usare la cinepresa in modo violento nei confronti loro e del pubblico. Questa attenzione è evidente anche nella completa mancanza di suoni imposti. Lo stile realistico imbevuto di emozioni e tensione, spianò la strada per il suo successivo film per il cinema, in cui cercò una verità interiore attraverso il dolore e uno stile delicato e realistico che non nascondesse la durezza e il conflitto personale derivante dalla situazione. I documentari lo aiutarono a raggiungere uno stile in grado di seguire una severa struttura narrativa, dove la cinepresa mostra l’essenziale senza soffermarsi mai in quelle riprese elaborate o raffinate, che sono caratteristiche del suo cinema. Come in Lamerica Amelio si domandò se stesse sfruttando gli albanesi nel realizzare un film sulla loro disperazione, così in Le chiavi di casa si pose la domanda etica se fosse giusto chiedere ad un disabile di recitare e di imparare delle frasi a memoria per interpretare se stesso in un film. Andrea

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Rossi recita un personaggio con frasi studiate per divertire, ma mette in scena anche la propria personalità per far capire agli altri cosa significhi essere un disabile. Amelio non utilizza mai il dolly in questo film, per evitare anche la più piccola impressione di spettacolarizzazione sentimentale del dolore o della disabilità fisica. L’esperienza a Sarajevo lo aiutò a superare la paura di filmare una realtà devastante. Come Amelio ha raccontato, il primo impulso di fronte alle rovine di Sarajevo fu quello di spegnere la cinepresa e tornare a casa. Un sentimento di impotenza, se non di vergogna, è quello che emerge quando una persona guarda con occhio freddo e meccanico il dolore di una tragedia. Il regista confessò di sentirsi più a suo agio di fronte ad una realtà da ricostruire rispetto alla cruda verità, così come preferisce lavorare con attori piuttosto che con persone che raccontano se stesse. Nel girare i documentari il regista affermò di non aver mai nascosto “l’arma” che teneva in mano, ripetendo ad ogni bambino di parlare solo se voleva e di dire ciò che voleva15.

Tagliare il cordone ombelicale Quando Amelio lesse per la prima volta il romanzo di Pontiggia, pensò che era impossibile ricavarne un film. La storia accompagna una ragazzo con certe anomalie fisiche dalla sua nascita fino ai suoi trent’anni, e Amelio pensò che ci volessero per lo meno tre interpreti diversi per il ruolo principale, cosa difficile da coordinare anche da un punto di vista visivo per raggiungere la credibilità che il naturalismo del film avrebbe richiesto. Al contrario Amelio usò il libro di Pontiggia come modello e guida, rispettando a grandi linee la cornice complessiva. Senza descrivere trent’anni di storia, il regista si concentrò sull’esperienza diretta e autobiografica dell’autore. Di conseguenza, la sua prima versione risultò fedele per circa il 40% al testo. Anziché raccontare trent’anni a Milano, la sceneggiatura, scritta da Amelio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, si svolge in una settimana a Berlino e in Norvegia. Nel corso di due o tre giorni, tuttavia, Amelio scrisse un’idea completamente differente in due pagine e le diede un titolo diverso, 15  Ivi, p. 260.

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Le chiavi di casa, convinto del fatto che, per girare il film, doveva rivivere il rapporto di Pontiggia con il figlio Andrea nei suoi stessi termini. Secondo Amelio, Pontiggia trovò la forza di scrivere il suo libro quando il figlio fu in grado di rinascere una seconda volta. Al contrario, Amelio racconta i problemi che si presentano prima di questa rinascita. Nel fare ciò il regista crede di aver realizzato un processo più vicino a quello messo in atto da Pontiggia nello scrivere il libro, e l’apparente infedeltà si dissolve in modo paradossale e finisce col diventare la più solida fedeltà16. In questo modo si è eliminato il problema della corrispondenza fra libro e schermo. Forse il film non sarebbe mai stato realizzato senza il romanzo, e Pontiggia fu il primo a dichiarare che il suo libro non era stato pensato per lo schermo e a comprendere che una semplice illustrazione delle pagine scritte non sarebbe stata sufficiente a rappresentarne il significato. Amelio ha spesso affermato di essersi sentito un intruso all’interno di un rapporto così intimo fra padre e figlio e sentiva di dover guadagnarsi il diritto di girare il film vivendo un’esperienza simile o per lo meno parallela. Amelio ha confessato di essersi assunto l’ambizioso rischio di mettersi nei panni di Pontiggia. Il risultato è che ora ci sono un libro e un film che seguono sentieri paralleli, e forse complementari fra loro, e che Andrea Pontiggia e Andrea Rossi, così distanti per età e storia personale, sono le due facce di Paolo17. Probabilmente era necessario intendere il significato in maniera siggettiva e riproporlo in altri termini. Amelio fece proprio questo. Il regista racconta una nuova storia, nata dal suo incontro con Andrea Rossi e veicolata dal messaggio etico della storia di Pontiggia. Attraverso questa convergenza e connessione, le due separate opere d’arte seguono traiettorie parallele e complementari. Amelio spiegò che l’incontro con Andrea Rossi non significò semplicemente aver trovato un attore adatto al ruolo di Paolo. Fu piuttosto un incontro con una persona che gli permise di creare Paolo, cioè che gli diede la forza di costruire una persona reale in grado di dare vita alla storia. Il regista ha affermato che la semplicità di Andrea si manifestò in maniera assolutamente commovente e seppe riportare tutti 16  Citato in Martini, Gianni Amelio, cit., p. 147. 17  Intervista con Pontiggia in La Libreria di Dora, www.italialibri.net.

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con i piedi per terra. Dal momento in cui incontrò Andrea, Amelio smise di cercare di adattare il suo personaggio a quello del libro; dalla loro relazione nacquero nuovi sentimenti che, assieme agli atteggiamenti innocenti, aperti e inusuali di Andrea, permisero al regista di entrare nel suo mondo. Quando chiesero a Charlotte Rampling, (nel ruolo di Nicole, madre di una ragazzina gravemente disabile), di parlare di Andrea, raccontò di averlo incontrato sei mesi prima delle riprese del film a Roma. Di lui disse che si trattava di una ragazzino pieno di energie, ma troppo isolato e con difficoltà a comunicare con persone esterne al suo nucleo famigliare. All’inizio delle riprese, e dopo un lungo lavoro con Amelio, Andrea aveva acquisito molta più sicurezza, più attenzione e vivacità. Charlotte Rampling vide crescere in lui una maggiore forza interiore, che fino a quel momento era stata messa in secondo piano per privilegiare lo sviluppo fisico. La Rampling proseguì affermando che il fatto di sentirsi amato, apprezzato e con la possibilità di recitare l’importante ruolo di se stesso, gli ha fatto scoprire quell’identità che prima non aveva18. Amelio trovò la chiave per girare la storia di Pontiggia solo dopo aver trovato il “suo” Andrea. Il regista dichiarò che Andrea era in grado di demolire ogni problema, reinventando i rapporti a seconda del momento e dell’umore della persona che aveva di fronte in maniera assolutamente poetica. Amelio aggiunse che Andrea era in grado di annullare ciò che nel cinema è chiamata tensione o rivalità attraverso il suo umorismo e la sua solarità, che rendevano tutto più leggero e risolvibile. Per esempio, Amelio raccontò che Andrea aveva dei problemi a discutere o a litigare con Kim Rossi Stuart e continuava a scusarsi dicendo che era stato Gianni a chiederglielo19. Amelio non parlava di simulazione, come in una copia carbone, ma di stimolazione, una capacità che, dopotutto, rappresenta per il regista il segreto basilare per lavorare con un bambino in un film. Ancora una volta, le esperienze acquisite nei documentari girati in Bosnia e in Campania ebbero un ruolo fondamentale: Amelio comprese che il regista non deve connettere l’attore al ruolo, ma viceversa. Il ragazzino disabile è come i bambini in Bosnia che Amelio non voleva utilizzare in modo commerciale. 18  Citato nel DVD di Le chiavi di casa distribuito in Italia. 19  Amelio in una conferenza stampa al Toronto International Film Festival nel 2004.

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Il regista aveva già scritto la sceneggiatura al suo incontro con Andrea e dopo averlo osservato e averci parlato capì di aver trovato la persona, non l’attore, per il ruolo. A quel punto iniziò a riscrivere e rielaborare il film, basandosi su ciò che Andrea cominciava a trasmettergli. Amelio dichiarò più volte, dopo il film, che ciò che Andrea gli aveva insegnato era qualcosa che nessuno gli aveva mai dato prima, sia dal punto di vista personale che come regista, e che probabilmente nessuno sarebbe mai più stato in grado di dargli. Andrea gli fece percepire che cosa fosse la disabilità. L’esperienza dei documentari gli fu utile per rispettare e proteggere Andrea. Alla fine del film, prima dei crediti, appare una dedica: «In ricordo di Giuseppe Pontiggia». In un breve incontro serale nel giardino dell’ospedale di Berlino, Nicole sta leggendo la versione francese del romanzo di Pontiggia, Nati due volte, e consiglia a Gianni di leggerlo, affermando «Questa storia riguarda noi». Le chiavi di casa Il romanzo di Pontiggia permise ad Amelio di ritornare alla costruzione del personaggio, delle psicologie individuali, dei conflitti generazionali e della gente ai margini della società, temi integrali al suo stile cinematografico. Il film rappresenta anche qualcosa di nuovo per lui. La storia si concentra su un’esperienza personale senza i riferimenti sociali che emergono negli altri suoi film. Emanuela Martini osserva il drastico cambiamento politico durante la pausa di sei anni tra Così ridevano e Le chiavi di casa: dalla prima vittoria alle elezioni di Berlusconi, a quella del centro sinistra che governò con Romano Prodi, alle idee secessioniste della Lega Nord di Umberto Bossi, alla successiva vittoria schiacciante di Berlusconi alle elezioni del 2001, che diede origine, per 5 anni, ad un governo dedito a proteggere gli interessi del Presidente del Consiglio e altri politici che avevano problemi con la giustizia (fra cui, per esempio, Berlusconi stesso e Cesare Previti). Questa situazione determinò il totale impoverimento e il degrado della società italiana che Fellini aveva predetto in La voce della luna (1990). Di conseguenza, scrive Martini, solo la satira poteva descrivere adeguatamente l’Italia, dal

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momento che aveva abbandonato la ragione, la cultura e la memoria. Al contrario, per ragioni politiche ed economiche, il contesto culturale era appiattito dall’ossessione di riconoscimenti e onori non autentici, da un umorismo sciocco e da un totale disdegno per qualsiasi tipo di analisi circostanziata su ciò che stava accadendo. La Martini conclude che per artisti sensibili quali Amelio, l’impulso di ambientare il suo film all’estero, lontano da una nazione che aveva perso la sua identità, era molto forte e Berlino grazie ai suoi riferimenti storici e cinematografici si rivelò in luogo ideale20. Come sostiene la Martini, Amelio si distaccò dal suo Paese, affermando di avere ben poco in comune con l’Italia contemporanea e di conoscere meglio l’Italia che non esiste più e con la quale aveva ancora dei conti in sospeso21. Le chiavi di casa non descrive un contesto sociale dettagliato, ma la ricerca di una verità interiore presentata con semplicità e realismo. Nel narrare la storia di un padre che deve imparare a capire il figlio, Amelio porta se stesso, e per estensione il pubblico, ad accettare le persone con disabilità. Pontiggia voleva mostrare la lotta dei disabili per trovare se stessi. Amelio vuole che lo spettatore capisca il disabile così come capisce se stesso. Durante la scena nell’ospedale tedesco, Gianni, il padre (il quale è sia un attore che interpreta un ruolo che una metafora per il cinema) non può stare a guadare il ragazzo che si sottopone a dolorose fisioterapie imposte dai dottori in un ambulatorio. La storia segue il sentiero del rimorso e della scoperta di nuove emozioni. Il film rappresenta l’assunzione di responsabilità, la nascita di sentimenti reciproci che, seppur fragili, forniscono speranza per una liberazione totale da parte di un uomo che ha deciso di rimettersi in gioco. È per questa ragione che il regista lo definisce il suo film più ottimista prima di La stella che non c’è. Gianni, che aveva abbandonato il figlio dopo la morte di parto della madre diciannovenne, incontra Paolo per la prima volta. La famiglia della madre si è presa cura del ragazzo durante tutto quel tempo e, con il loro consenso dato a malincuore, Gianni lo vuole portare in una clinica di Berlino per sottoporlo a speciali terapie di 20  Gianni Amelio, cit., pp. 161-162. 21  Ivi, p. 162.

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riabilitazione. Gianni si è risposato ed ha un altro figlio. Ora deve affrontare il suo primogenito e riconquistare il suo ruolo di padre dopo quindici anni di indifferenza e dopo aver delegato le sue responsabilità ad altri. Padre e figlio dovranno conoscersi, per comprendersi e accettarsi l’un l’altro. Il loro viaggio è una metafora della rinascita. Gianni deve accettare ed essere accettato dal suo primo figlio per poter essere un vero padre per il suo secondogenito. Il nuovo titolo fa riferimento a quella fase della vita in cui avviene il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, quando i genitori danno ai figli le chiavi di casa per permettergli di entrare e uscire senza bussare ed andare e venire da soli. Questo gesto è un segno di indipendenza che marca uno dei riti di passaggio verso la maturità. Potrebbe sembrare impossibile per il giovane protagonista del film vivere in maniera indipendente, ma se l’idea di includere i disabili in società deve ammettere tali riti di passaggio personali, allora il titolo acquista un valore simbolico e si spinge verso il raggiungimento dell’effetto desiderato. La scena in cui Paolo stringe le chiavi di casa in alto come un trofeo dimostra la sua forza, il suo costante coraggio nell’affrontare le sue battaglie quotidiane, la sua gioia di vivere nonché gli obiettivi e le aspirazioni che pone a se stesso. Nel romanzo Pontiggia raffigura la vita della persona disabile dal punto di vista delle persone “normali” attorno a lui, spingendo il narratore e i lettori ad apprezzarne i valori. Nel film Paolo ha già imparato a muoversi, va a scuola, ha una sua vita e, nonostante abbia difficoltà a camminare, può farlo. Quello che deve imparare a camminare accanto a lui è Gianni. L’andatura innaturale che tanto lo disturba e lo imbarazza diventa la metafora visiva attraverso la quale il regista sviluppa la loro difficile relazione. Il pubblico del film, a differenza del lettore del libro, non è a conoscenza di come il mondo abbia reso così difficile la prima nascita di questa persona e degli eroici traguardi del ragazzo. La prima scena in stazione allude a questo, quando lo zio di Paolo racconta a Gianni che a sei anni non poteva camminare e che per il suo compleanno avevano riempito la stanza di palloni che lui cercava di afferrare trascinandosi a quattro zampe. Il dolore che accompagna la scoperta di se stessi e quella dell’altro è rappresentata dalla metafora del camminare, che il regista sviluppa con tecniche cinematografiche che ci permettono

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di visualizzare il dramma personale di un uomo, la redenzione e l’evoluzione etica. Per Gianni nascere la seconda volta significa superare il peso del suo rimorso e assumersi le responsabilità di padre. Deve imparare a vivere la dura realtà da cui era precedentemente fuggito. La storia si sviluppa attraverso una serie di passaggi ben organizzati: la stazione, l’incontro in treno, il taxi, l’ospedale, l’incontro con Nicole (il forte personaggio femminile che ha abbandonato i suoi sogni per dedicarsi alla figlia, le cui condizioni fisiche sono peggiori di quelle di Paolo), l’incontro di pallacanestro e la fuga di Paolo, il viaggio in Norvegia, la sequenza finale in macchina e l’ultima inquadratura vicino ad una roccia. A questi fatti fanno da cornice dei paesaggi che definiscono ed accentuano le emozioni, fornendo un triste realismo che rende concreti il loro viaggio verso la comunicazione dei sentimenti, il superamento del rancore e la paura. Il romanzo mette in guardia i lettori sul fatto che la rinascita di un disabile «dipende da voi». Amelio sviluppa e porta a conclusione il messaggio di Pontiggia. Padre e figlio sono entrambi menomati, anche se per ragioni diverse. Secondo gli standard contemporanei il padre sembra possedere tutto: è sano, bello, con un lavoro, sposato e con due figli. Tuttavia è fragile dal punto di vista psicologico ed emozionale. Dall’altro lato il figlio disabile ha il coraggio e la forza che a lui mancano. Nonostante ciò che molti critici hanno scritto, il film riflette in maniera sfumata e nei modi caratteristici della sua cinematografia l’autobiografia e le convinzioni di Amelio. Il regista incontrò il padre quando aveva circa la stessa età di Paolo, dopo un’infanzia trascorsa nel bisogno e nell’assenza figura paterna e fu per lui un trauma, nonostante abbia una forte personalità come Paolo. Per molto tempo desiderò diventare padre. Amelio crede che un uomo non diventi automaticamente padre con la nascita di un figlio, ma scegliendo e imparando ad esserlo passo dopo passo, come Gianni fa nel film quando decide di incontrare Paolo e gli chiede di andare a vivere con lui e la sua nuova famiglia22. Non può essere un caso che il personaggio ed il regista abbiano in comune il nome. 22  Per mggiori informzioni sull’idea di Amelio di paternità si veda l’intervista alla fine del volume.

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Il film si apre con l’inquadratura di un uomo, Alberto (Pierfrancesco Favino), mentre beve un caffè alla stazione dei treni di Monaco e discute con qualcuno con il quale non vuole stabilire un contatto visivo. La cinepresa si sposta e vediamo un uomo giovane e attraente di circa trent’anni mentre scruta una foto che non riusciamo a scorgere, e si informa sull'età della persona fotografata. Dalla conversazione capiamo che sta chiedendo notizie del figlio che non ha visto crescere. L’uomo non ne conosce le condizioni fisiche ma è ansioso di sapere se gli somigli o meno, se conosca il suo nome e se sia informato del loro incontro. Gli spettatori vengono a sapere che l’incontro era stato chiesto da un medico, il quale sperava in un miracolo. La conversazione è girata con dei primi piani che inquadrano i volti dei due uomini. Lo spettatore percepisce l’apprensione del padre biologico e il biasimo dell’uomo che si prende cura del ragazzo. L’espressione di Gianni lascia trapelare anche una lieve speranza. I suoni di sottofondo sono diegetici, e fissano chiaramente i personaggi nello spazio. Durante il viaggio i colori, i suoni e l’atmosfera ricopriranno un ruolo fondamentale nello sviluppo del rapporto tra Paolo e Gianni. La velocità e la confusione della prima sequenza rendono difficile comprendere chiaramente chi siano i due uomini, che cosa sia accaduto o che tipo di handicap abbia il figlio. Più che negli altri suoi film Amelio rimuove qualsiasi cosa che non è necessaria alla storia. Il suo obiettivo era quello di isolare la coppia, presentandoli come se stessero su un tappeto volante. Nella seconda scena, su un treno per Berlino, Gianni incontra Paolo per la prima volta. Mentre si avvicina alla cuccetta in cui sta dormendo il ragazzo, l’inquadratura, ripresa da dietro, non è fissa. Il suo incedere incerto è accentuato dal fatto che sta camminando nella direzione opposta a quella del treno in movimento e il lieve tremolio della cinepresa sottolinea la sua fragilità e cattura visivamente le insicurezze espresse dalle sue domande ad Alberto, il quale non gli ha dato risposte. I lunghi primi piani in fotogrammi successivi mentre guarda il figlio che dorme, trasmettono il suo senso di disorientamento. La dolorosa realtà di cui non aveva preso coscienza direttamente sembra stampata sul suo volto nelle inquadrature a mezza figura e nel montaggio.

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L’incontro vero e proprio avviene il giorno successivo. Gianni si sveglia e, non vedendo Paolo nella cuccetta, lo cerca nel vagone ristorante portandogli le scarpe. Grazie alla semplicità del ragazzo i due instaurano una conversazione spensierata e naturale. Paolo è a suo agio con l’ambiente circostante e con la propria disabilità, mentre Gianni, non sapendolo, lo tratta con apprensione e preoccupazione. Paolo inaspettatamente si alza e quando Gianni con disagio cerca di aiutarlo, gli risponde seccamente: «Faccio da solo, so camminare». Le sue parole suonano come quelle di un qualsiasi adolescente nei confronti di un padre oppressivo. Paolo accetta Gianni in maniera sorprendente e sembra covare molto meno risentimento di quello che ci si sarebbe aspettati. È probabile che Paolo nutra la paura di perdere il padre ancora una volta. La metafora della camminata, introdotta durante la conversazione in stazione e preannunciata dalle scarpe, è ora rappresentata visivamente. La cinepresa prima la riprende dalla prospettiva di Gianni e poi di lato, cosicché vediamo assieme a Gianni l’andatura storpiata del figlio con il suo bastone. Paolo non sembra affatto a disagio. Lui cammina da solo mentre il pubblico, assieme al padre, deve imparare a camminare con lui. Il viaggio verso la paternità continua nel bagno. Amelio posiziona la cinepresa dove è generalmente situata per girare scene erotiche, volgari o violente nei film commerciali. Qui ci propone una tenerezza reale e intima. Paolo chiede al padre di aiutarlo ad abbassare le mutande e, allo stesso tempo, per preservare la sua intimità gli chiede di voltarsi. Il primo contatto fra i due è stato stabilito. Il padre cerca di prendersi cura del figlio e, non sapendo come comportarsi, si dimostra molto protettivo quando invece il figlio vuole dare prova della sua indipendenza e dignità. Fin dal suo primo film Amelio ha utilizzato i treni non solo perché sono il mezzo di trasporto popolare, ma anche per aggiungere un’altra dimensione allo sviluppo interiore dei suoi personaggi. In treno sono obbligati a stare assieme e ad affrontarsi. Pur essendo soli non sono completamente liberi da pressioni sociali, che si manifestano attraverso lo sguardo degli altri passeggeri e del personale di bordo. Lo spazio ristretto è utilizzato come un luogo in cui si concentra la tensione umana. Qui padre e figlio sono isolati in uno spazio chiuso che funge da metafora della loro rinascita.

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Al loro arrivo a Berlino si ritrovano in un luogo che non permette distrazioni, dal momento che non possono comunicare con nessun altro. Ancora una volta padre e figlio sono costretti ad affrontarsi e ad adattarsi. Attraverso i finestrini del treno e del taxi si intravvedono frammenti di Berlino nella loro grigia freddezza, facendo da specchio agli eventi e conferendo plasticità alla situazione. Ad eccezione di una rilassante sera al parco, dove un bambino tedesco fissa Paolo che sorride, le riprese si svolgono in posti tutt’altro che spettacolari, quali il taxi, l’ospedale e l’hotel, che rappresentano l’opposto degli agi di casa e trasmettono l’idea di un legame precario fra padre e figlio. La scelta di girare il film a Berlino, dove si parla una lingua che i protagonisti non comprendono, fa parte della strategia che mira a ridurre gli elementi narrativi all’essenziale. Inoltre ha la funzione di riprodurre l’esperienza alienante dei disabili e delle loro famiglie nel rapportarsi con il mondo terapeutico. Nonostante i commenti di Amelio, secondo il quale la scelta ricadde su Berlino in quanto terra di nessuno per isolare i due personaggi, non possiamo non ricordare gli sforzi del Terzo Reich per uccidere o sterilizzare i disabili in quanto “inferiori”. I registi del dopoguerra utilizzarono Berlino per registrare il fallimento di un sistema come, per esempio, Germania anno zero di Rossellini e Berlin Express di Jacques Tourneur. Stephen Barber ha osservato come nei due film lo spazio urbano è utilizzato per mostrare una società fratturata23. Nel film di Amelio la Berlino riunita e post-comunista allude alla riunione fra padre e figlio. Nel taxi Gianni sta guardando la mappa e dice ad un disinteressato Paolo: «Questa è la famosa Porta di Brandeburgo... Un tempo era il confine tra Berlino Ovest e Berlino Est...»24 Ancora una volta Paolo sa come comportarsi, mentre Gianni dimostra spesso disagio e imbarazzo. Il ragazzo, nel suo gioioso atteggiamento d’altri tempi, è in grado di comunicare con il tassista, con gli altri pazienti e con il dottore senza sapere il tedesco. Il disagio di Gianni è enfatizzato durante l’accettazione in ospedale. L’impiegata gli chiede di spiegare la differenza dei loro cognomi. Gianni le dice che non era ancora sposato con la madre di Paolo alla sua nascita. 23  Projected Cities. Cinema and Urban Space, Londra, Reaktion Books Ltd., 2002. 24  Tutte le citazioni sono tratte dal DVD di Le chiavi di casa distribuito in Italia.

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L’impiegata gli risponde: «Ospedale cura malattia non vita privata». Dopo che l’infermiere ha eseguito un prelievo di sangue, Paolo e Gianni sono liberi di andasene. Per prima mangiano qualcosa e Gianni taglia la bistecca del figlio che protesta. Mentre guarda Paolo che mangia, questi lo coglie di sorpresa chiedendogli se sia veramente suo padre o se si tratti solo di una presa in giro. Amelio ha girato l’intera scena alternando inquadrature, controcampi e mostrandoli insieme mentre i due stanno cercando di conoscersi. Il nuovo padre vede il figlio quasi come un neonato, mente il figlio cerca di rapportarsi al padre da uomo a uomo. Entrambi stanno lottando per “guadagnare punti” nella loro relazione. In particolar modo Paolo si sta domandando se il loro rapporto abbia le gambe, ovvero, se abbia un futuro. Paolo insiste nel dimostrarsi indipendente, non solo per proteggersi dal punto di vista emotivo qualora il padre dovesse andarsene nuovamente, ma anche per evitare che il padre lo consideri un peso eccessivo e che quindi lo abbandoni un’altra volta. Nella scena successiva padre e figlio stanno guardando un festival di danza per anziani. Per la prima volta i due sono uno accanto all’altro, allo stesso livello. Gianni si accovaccia per tenere Paolo. I due si spostano nel parco e in un’inquadratura ben studiata appaiono sullo schermo in basso a destra. Gianni cerca ancora di tenere Paolo, il quale si libera. Lo schermo è quasi completamente diviso da una lunga scalinata su cui alcuni bambini stanno giocando. Nello stacco successivo, un bambino fissa Paolo prima di correre a giocare. Seduti su una panchina, Gianni guarda Paolo mentre mangia un gelato e gli chiede se voglia tornare in hotel a riposare. La divertente risposta di Paolo coglie il padre impreparato. La scena al parco enfatizza la gioia del movimento fisico e si conclude con Paolo che si appoggia volontariamente al padre come preludio alla scena successiva, che vede Gianni mentre porta in braccio il figlio addormentato in hotel, gli toglie delicatamente le scarpe e lo mette a dormire. Il loro primo giorno si conclude simbolicamente con Gianni che sfila le scarpe al figlio, proseguendo la metafora del camminare iniziata con il padre che gli portava le scarpe. Un risveglio tormentato segue la calma passeggiata in città e il loro primo incontro. Paolo esce dalla stanza disorientato e Gianni

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deve costringerlo con autorità a rientrare. Nella sua prima crisi di fronte al padre, Paolo afferma di dover tornare a casa dove il suo patrigno e la sua sorellastra lo stanno aspettando. Una volta rientrato in stanza sembra calmarsi e riacquistare il suo contegno. Gianni lo lava. Un primo piano rivela la preoccupazione e l’ansia del padre. Con due stacchi veloci, Amelio introduce lo schermo di una televisione in cui appaiono varie scene da diversi programmi e il pubblico capisce che Paolo sta giocando con il telecomando. Il televisore appare nella parte bassa a destra mentre Gianni si muove nervosamente nella stanza e sfoglia un diario con delle fotografie. Paolo alza il volume e il padre è costretto a spegnere la televisione per imporsi. Il classico comportamento fra adolescente e genitore dopo il gesto in un certo modo inquietante di Paolo, sintomatico delle sue lesioni mentali, fa in modo che il pubblico si identifichi con il padre. In altre parole, Amelio fa vivere allo spettatore comune, che probabilmente conosce meglio le difficoltà di crescere un adolescente coi problemi di Paolo, lo sforzo che compie Gianni, pur non avendo alcuna preparazione, nel prendersi cura di questo complicato ragazzo. Durante la loro conversazione Gianni e lo spettatore apprendono che Paolo ha un’amica di penna in Norvegia, una bella ragazzina come si vede dall’album di foto. Paolo sembra confuso riguardo alla sua età e Gianni lo prende in giro. Per la prima volta Gianni si rivolge al figlio come un adolescente piuttosto che come un bambino, cosa che imbarazza e allo stesso tempo lusinga Paolo. Forse nessun altro prima ha mai scherzato o ha mai preso in considerazione la sua sessualità. Gianni persegue in questo senso durante il viaggio in Norvegia, ma vi pone fine quando i due si abbuffano di torta come bambini, piacevolmente sollevati per aver evitato un’eventualità che li minacciava entrambi. Nonostante il suo apparente autocontrollo, Gianni rivela la sua apprensione. Kim Rossi Stuart è molto convincente nei panni di un debole padre al primo contatto con il figlio disabile che non conosce. In un’intervista il giorno dopo la fine delle riprese, egli ha rivelato di aver atteso anni per lavorare con Amelio e di aver rifiutato l’opportunità di collaborare con un altro noto regista italiano per cogliere questa occasione. Kim Rossi Stuart ha affermato che Amelio aveva pensato a lui per il ruolo del padre fin dall’inizio, cosa che Amelio

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ha poi confermato in uno dei nostri incontri, e lo ha coinvolto nella ricerca del ragazzo adatto ad interpretare Paolo25. Rossi Stuart è nato a Roma ed ha iniziato a recitare all’età di cinque anni con il padre, Giacomo Rossi Stuart. Ha studiato teatro ed interpretato molti ruoli in televisione prima di giungere al cinema con Un’altra vita (1991) di Carlo Mazzacurati. Nel 1993 ha avuto un ruolo principale in Senza pelle di Alessandro D’Alatri, in cui interpreta Saverio, un adulto afflitto da disordine mentale che perseguita una donna sposata e viene aiutato dal marito di lei. Ha avuto anche dei ruoli minori in film di Roberto Benigni e Michelangelo Antonioni. Dopo questo film, Kim Rossi Stuart ha ottenuto un ruolo principale in Romanzo criminale di Michele Placido nel 2005 e ha diretto il suo primo film Anche libero va bene un anno dopo, il quale raggiunse un buon successo al botteghino e fu accolto discretamente dalla critica. La sua bellezza e sensualità, assieme al suo fascino di uomo sexy e bello del cinema italiano, sono oscurate nel ruolo che Amelio gli ha assegnato nel film e la sua interpretazione e le espressioni che riesce a tirare fuori nei momenti più difficili, rovesciano le aspettative del grosso pubblico e l’immagine che la stampa cinematografica ha creato di lui, capovolgendo la metafora del cinema come fucina di belli e belle che fanno sognare gli spettatori. Il desiderio di Gianni di conoscere Paolo è in qualche modo mascherato dalle sue paure quando è accanto al ragazzo. Durante una conversazione telefonica con la moglie, Gianni ha un’espressione facciale diversa e la sua voce rivela il suo entusiasmo riguardo all’inaspettata abilità del figlio di camminare con un bastone. La sua voglia di raccontare le sue scoperte viene interrotta dal risveglio del suo neonato secondogenito. Lui chiede alla moglie di lasciarlo piangere, ma lei risponde che deve andare a prendersene cura e Gianni rimane da solo con il primo figlio. Questo momento può essere letto in due modi diversi: il secondo figlio è più importante e Paolo non dovrebbe intromettersi fra loro, oppure Paolo è la sola preoccupazione di Gianni, il che è di cattivo augurio per il suo inserimento nella nuova famiglia. Forse percependo un possibile problema, quando Paolo apprende che Gianni è sposato, gli dice che la moglie deve avere ottantasei anni. Questo potrebbe essere uno scherzo ostile o 25  Rossi Stuart, citato in ibidem.

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potrebbe semplicemente non avere cognizione dell’età. Al telefono Gianni sembra un neo papà che racconta i progressi del figlio. Il giorno successivo all’ospedale, durante la visita del dottore, Gianni è costretto a lasciare la stanza alla vista del sangue, fallendo il suo primo esame da padre coraggioso. Nel corridoio cerca di spalancare una finestra che non vuole aprirsi. Simbolicamente non può fuggire dalle sue nuove responsabilità di padre o dalle conseguenze di una vita con un figlio disabile. Qui incontra Nicole, madre di Nadine, ricoverata in permanenza con serie inabilità. Nicole renderà Gianni partecipe della sua dolorosa vita e metterà alla prova la sua coscienza e la sua umanità. Il suo ruolo è quello di fare uscire allo scoperto la codardia di Gianni, colta in queste parole: «È strano vedere qui un uomo... Questo è il lavoro sporco che tocca alle madri... I papà non ce la fanno... Con una scusa o con un’altra si tirano indietro». Nicole non è una moralista o una presuntuosa, ma è ambigua, a volte sfinita e piena di risentimento per il suo ruolo. Nella sua caratterizzazione, Amelio crea una figura autonoma che ha molto in comune con l’idea di donna-madre-moglie nel romanzo di Pontiggia, il quale scrive che, dal punto di vista emozionale, generalmente la donna è più solida e più seria dell’uomo. Per ciò che riguarda l’uomo, invece, ha la tendenza a giocare e a concepire l’amore come un gioco. Per questa ragione, secondo Pontiggia la donna è senza dubbio il fulcro della famiglia, mentre del ruolo di padre più frequentemente gli uomini se ne appropriano per diritto piuttosto che per merito26. Nicole è una figura femminile forte e sfaccettata, l’esatto opposto della madre in Il ladro di bambini. Francese di nascita ha imparato a parlare italiano prima che l’arrivo di Nadine cambiasse ogni cosa. Per avvicinare maggiormente l’attrice al personaggio, per la prima volta nella sua carriera, la Rampling parla italiano senza essere doppiata, come accade negli altri suoi film italiani. Amelio la convinse a farlo lavorando con lei e, nonostante le difficoltà, lei fu felice di esserci riuscita. Nel complesso affermò che lavorare con Amelio era stato molto stimolante, dal momento che cambiava costantemente la sceneggiatura e che il suo ruolo era molto impegnativo27. 26  Intervista con Pontiggia in La Libreria di Dora, www.italialibri.net. 27  Rampling, citata nel DVD di Le chiavi di casa.

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Il pubblico sa molto poco di Nicole e del suo passato. Ciò che si sa di Gianni è che vive a Milano e lavora per un’azienda che produce elettrodomestici. Ad Amelio interessano solo i loro attuali rapporti con i rispettivi figli disabili. Nel mostrare il test motorio attraverso la videocamera dei medici, Amelio caratterizza la scena come necessaria alla comprensione della disabilità di Paolo, e non come puro spettacolo. L’obiettività dell’intera sequenza è rinforzata dalle fredde e intermittenti istruzioni del medico, che risuonano come comandi all’orecchio di Gianni e suscitano in lui una reazione negativa. Egli interviene togliendo gli elettrodi dal corpo di Paolo e urlando al dottore: «Chi le ha dato l’autorità di fare questo? Perché lo avete spogliato?» Il medico risponde in tedesco e Gianni, non capendo, afferra il figlio ed inizia a rivestirlo. L’infermiera gli spiega che stanno studiando la disabilità di Paolo per aiutare altre persone nella sua stessa condizione. Prima di andarsene Gianni dice al dottore che la gente muore per colpa di persone come lui. Fortunatamente il medico non capisce. Le reazioni di Gianni possono essere lette in due modi: il primo è metacinematografico ed il secondo è legato al suo senso di colpa e alla sua inesperienza come padre di un figlio con handicap. Al suo arrivo in ospedale, era stato detto a Gianni che avrebbero curato i problemi fisici, non quelli personali, ma le riflessioni di Nicole sulla sofferenza di Paolo per la mancanza dell'affetto paterno convincono Gianni a dare al figlio le attenzioni e l’amore di cui lo aveva privato, quindi decide di portarlo in Norvegia per incontrare la sua amica di penna Kristine. I film di Amelio sono pieni di passioni trasmesse attraverso i gesti e i corpi. In Le chiavi di casa, l’attaccamento crescente tra Paolo e Gianni è segnato dai momenti in cui si toccano. La maggior parte delle volte è Gianni a toccare Paolo. Nella prima parte un momento di intimità è rappresentato quando fanno il bagno assieme. Il punto di svolta avviene quando i due dormono assieme nello stesso letto e la mattina Gianni lo abbraccia da dietro. Paolo è sveglio e finge di essere sorpreso, minimizzando gli abbracci che gli danno tanta gioia e prendendo il giro il padre e il suo bisogno di coccole. La scena assume un’importanza ancor più rilevante perché i commenti arrivano dal figlio, non dal padre, seguendo il tipico ribaltamento dei ruoli dei film di Amelio. Durante il film il padre è descritto come il debole che

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ha bisogno di aiuto per imparare ad affrontare la nuova situazione e per superare la vergogna che avverte nello stare accanto al figlio disabile. Nicole lo identifica immediatamente come il padre di Paolo dal modo imbarazzato con cui lo tocca. Il disagio e l’inadeguatezza sono più credibili sul volto di un attore bello e giovane come Kim Rossi Stuart. Quest’ultimo non solo bilancia l’esuberanza e la naturale gioia di vivere dell’interpretazione di Andrea, ma il suo viso delicato e sbarbato rende visibile il tumulto interiore, alternando momenti di serenità ad altri di disperazione. La sua interpretazione non è mai artificiale. Dopo la fine delle riprese, prima del montaggio, chiesero a Rossi Stuart come fosse stato lavorare con Andrea. L’attore rispose che, anche se poteva sembrare presuntuoso, a suo parere Amelio aveva fatto un’ottima scelta nello scritturare Andrea Rossi e Kim Rossi, convinto del fatto che i due avrebbero lavorato molto bene assieme. Rossi Stuart aggiunse che nonostante le iniziali preoccupazioni nei confronti di Andrea, alla fine la sua vitalità e la sua forza si erano rivelate un sostegno per tutti nei momenti più delicati. Per ciò che riguarda la sua interpretazione, Kim Rossi Stuart affermò di essersi dovuto liberare di tutti i trucchi da attore, così da eliminare ogni ostacolo tra lui e Andrea, in modo che non trasparissero momenti di falsità28. Come attestato da Rossi Stuart la cinepresa carpiva i cambiamenti nella relazione tra Gianni e Paolo e i loro effetti sulla coscienza del padre. Il pubblico è obbligato a riflettere e a trovare il senso di ciò che viene mostrato e di ciò che nasce fra loro. Due sequenze sono emblematiche di come Amelio ricerchi l’essenziale. Gianni e Paolo entrano in una palestra dove alcuni ragazzi in sedia a rotelle stanno giocando a pallacanestro. Gianni si allontana per salutare Nicole e Nadine, che posa accanto ai suoi dipinti. Gianni è molto felice di vederle e cerca di parlare a Nadine mentre Nicole interpreta il suo difficoltoso discorso. Il pubblico comprende quanto Paolo sia più fortunato di Nadine. Quando Nicole gli chiede dove sia Paolo, Gianni rientra in palestra e con suo, e nostro, sgomento, Paolo se n’è andato. Il volto di Gianni rivela angoscia e i suoi occhi disperazione. Gianni rimane in silenzio e, incapace di reagire, cammina avanti e indietro senza meta. Per accrescere il suo 28  Intervista con Rossi Stuart nel DVD di Le chiavi di casa.

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isolamento e la sua sconfitta, Nicole traduce solo poche parole della sua conversazione con il poliziotto tedesco. Paolo alla fine viene trovato e restituito al padre, il quale non sa spiegarsi il perché del suo gesto. Nicole gli spiega che Paolo ha avuto un blackout e che ce ne saranno degli altri. Quella sera Gianni racconta a Nicole della nascita di Paolo e della morte della madre durante il parto, di come avesse rifiutato la consolazione della religione e di come fosse fuggito dal figlio, rifiutandosi di vederlo. Nicole ha preso la decisione opposta nello scegliere di rimanere e di vivere per la figlia disabile. Quando Paolo loda la sua forza e la sua serenità, lei gli confessa che la vita è più semplice per il disabile rispetto a chi se ne prende cura, avvisandolo di essere pronto a soffrire se vuole stare vicino a Paolo. Dopo aver messo a letto Paolo, Gianni incontra nuovamente Nicole e questa volta lei gli rivela i suoi sentimenti più profondi. La donna confessa a Gianni di desiderare, a volte, la morte della figlia, quando accarezzandola vede la disperazione nei suoi occhi. Nicole parla anche delle aspirazioni che nutriva prima di doversi dedicare completamente alla figlia a tempo pieno e il suo volto si illumina. La donna non sta solo pensando alle sofferenze di Nadine, ma anche alle sue, mentre l’imperdonabile desiderio della morte della figlia attraversa la sua mente. Amelio è coraggioso nel riconoscere e mostrare questa dolorosa verità. Le due confessioni sono girate con lunghe riprese. Quando Gianni racconta la sua storia è al buio e la sua calma rivela il suo tormento. Nella seconda, Nicole è mostrata mentre piange in silenzio. Gianni si avvicina da destra e si siede accanto a lei dando le spalle al pubblico, con il volto visto di profilo. Mentre la conversazione procede, dopo uno stacco, i due appaiono sulla stessa panchina ma in posizioni diverse, in una conferma visiva dei loro destini affini e del fatto che non esiste un vittoria morale in ciò che stanno affrontando. Questa relazione seria, rispettosa, quasi protettiva, tra uomo e donna, senza alcun cenno di corteggiamento è rara nel cinema. Nicole se ne va e nella scena successiva Gianni è nella stanza d’albergo mentre si prepara per andare a letto. Un treno passa accanto alla finestra. Gianni è consapevole che finché Paolo ha le sembianze di un bambino, la gente sarà disposta ad aiutarlo, mentre ad attenderlo un domani ci saranno solo scherno e perfino crudeltà. Per questo

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motivo, e anche per il fatto che inconsciamente non vuole ancora accettare le condizioni del figlio, decide di portarlo in vacanza. Questa presa di coscienza è di fondamentale importanza per comprendere tutte le successive azioni di Gianni. Sa di non voler vivere la triste vita di Nicole e nel portare Paolo lontano dal mondo delle terapie, che sembra renderlo infantile, pensa a qualcosa adatto alla sua età, come incontrare la ragazza norvegese. Durante la traversata in traghetto, in un momento di abbandono mozzafiato, Gianni lancia il bastone del figlio in mare e Paolo lo definisce uno sciocco. La metafora della camminata ha raggiunto il suo climax. Paolo può camminare in maniera autonoma solo con il suo bastone speciale. Nel gettarlo via, Gianni spera di costringerlo a raggiungere uno stato di autosufficienza, senza accorgersi che lo sta obbligando ad appoggiarsi ad altri. Il padre vuole rendere il figlio un uomo e forse si immagina come potrebbe vederlo una ragazza, ma non ha ancora alcuna idea di come sia convivere con la disabilità del figlio. Gianni sembra pensare, come fanno molte persone, che un atteggiamento positivo, può vincere la realtà fisica. Il suo tentativo è un fallimento. I due siedono ad un tavolo da picnic ad aspettare Kristine vicino alla scuola con una torta per regalo, fino a che perfino Gianni abbandona la sua fantasia affermando che la scuola deve essere chiusa e i due affondano le dita nella torta come bambini. Paolo è salvo da quello che si sarebbe potuto rivelare un momento doloroso, imbarazzante e distruttivo e Gianni è sufficientemente intelligente da lasciar perdere il suo intento. Paolo assume il ruolo dell’adulto dicendo al padre di non mangiare troppa torta. In un modo molto tipico di Amelio i due ruoli si scambiano e il pubblico si interroga intensamente su ciò che accadrà in seguito. Il loro viaggio di ritorno segna la fine dell’armonia che il padre ha cercato di raggiungere scappando dalla terapia e negando gli implacabili problemi fisici del figlio. Gianni fa un ultimo tentativo di spingere Paolo verso l’età adulta chiedendogli di guidare la macchina. Paolo si rifiuta. Il ragazzo potrebbe pensare che il padre stia giocando con lui o che lo voglia far diventare adulto per abbandonarlo nuovamente. Lui ha sempre spinto per essere riconosciuto come un adulto, ora è spaventato o è semplicemente un adolescente ribelle, stanco, frustrato e confuso? Entrambi sanno che lui deve affrontare la sua disabilità senza scuse. Da parte sua, Gianni ha capito che suo

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figlio avrà sempre bisogno di aiuto e che deve imparare a stargli accanto senza correre via, camminando di fianco a lui. L’immagine di padre e figlio, seduti uno accanto all’altro su una roccia mentre fissano uno specchio d’acqua fredda, segna la fine del loro “periodo di prova” e l’inizio di qualcosa di più profondo e permanente. Il pubblico di lingua inglese potrebbe pensare all’espressione «caught between a rock and a hard place», che può rappresentare la difficile situazione dei disabili e delle loro famiglie. Dal punto di vista stilistico, il regista alterna lunghe riprese per il primo giorno a Berlino e la vacanza in Norvegia, per alleviare il potenziale claustrofobico della storia, trasmettere la sensazione di una vacanza ed esporre i fragili protagonisti al mondo che li circonda. Per il resto del film il regista usa riprese serrate e primi piani con controcampi, specialmente quando padre e figlio conversano faccia a faccia. Nonostante sia ispirato ad un romanzo, il film di Amelio raggiunge un linguaggio proprio attraverso un processo che dimostra una totale maestria artistica. Le varie tappe del viaggio sono articolate attraverso una serie di eventi strutturati all’interno di un preciso linguaggio cinematografico, e sono costituiti da inquadrature studiate, montaggi, presenze fisiche e dalla fisicità degli attori. Il film non cerca di tradurre il libro, ma veicola piuttosto il messaggio etico del romanzo senza generare compassione e risponde al problema della complessa narrazione di Pontiggia con un caratteristico vocabolario cinematografico tutto suo. Con questo film Amelio raggiunge la sua aspirazione di avvicinarsi ai film di Rossellini con Ingrid Bergman. Nell’ultimo abbraccio tra padre e figlio sulla roccia, Gianni prorompe in lacrime perché capisce finalmente le parole di Nicole all’ospedale: «Si prepari a soffrire». Ora devono iniziare a camminare assieme e ad affrontare il loro futuro, duro ma anche gratificante. Gianni ha imparato cosa comporta stare vicino al figlio. Paolo cerca di confortarlo, ma nelle lacrime di Gianni e nelle parole affrante dal dolore di Nicole, quando di notte guarda la figlia, risiede la bellezza essenziale e la compassione del film. Come nella storia di Pontiggia, Amelio rivela i sentimenti intimi dei protagonisti, evitando i sentimentalismi, la pietà e la disonestà, non solo attraverso le parole ma anche grazie ad immagini indelebili.

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Capitolo 10

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Un viaggio antiglobalizzazione: La stella che non c’è (2006)

La stella che non c’è è un curioso impasto di emozioni e di sentimenti che nemmeno io riesco a definire. Per me suona come l’impresa donchisciottesca da parte di un uomo fuori dal “normale”. Un tale che da un giorno all’altro, e senza averlo mai fatto prima, si mette a scalare una montagna e non sa cosa troverà sulla cima1.

In seguito all’immediato successo al botteghino di Le chiavi di casa (che incassò oltre 4 milioni di euro nella sua prima uscita nei circuiti principali) e la delusione di non aver ricevuto né premi né riconoscimenti alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 2004, Amelio siglò un contratto per girare un film in Libia con la Cattleya, la casa di produzione di Riccardo Tozzi. Tuttavia, a causa dell’instabilità politica del paese, il progetto non si materializzò. Allo stesso tempo Amelio ricevette una copia di La dismissione dallo sceneggiatore Umberto Contarello. Il romanzo di Ermanno Rea, pubblicato nel 20022, racconta la chiusura e la vendita nel 1991 dell’acciaieria di Bagnoli, l’Ilva, che contava tredicimila operai e per quasi un secolo aveva ricoperto un ruolo determinante nella vita dell’hinterland napoletano. Nel 1994 la maggior parte delle strutture rimanenti furono vendute alla Cina e all’India. L’ultimo treno che trasferì macchinari in Cina partì nel 2002. Amelio lesse il libro in un giorno e la mattina successiva comunicò a Contarello che avrebbero collaborato ad un film ispirato al romanzo. Il regista contattò Tozzi, il quale accettò di acquistare i diritti. Amelio voleva cominciare il film lì dove il romanzo finisce. Il suo obiettivo non era quello di realizzare un film politico, dal momento che Rea aveva già affrontato ampiamente la questione nel libro, e riteneva alquanto anacronistico rivisitare la chiusura dell’impianto di Bagnoli in termini politici nel 2006. Amelio rimaneva fedele alla 1  Gianni Amelio in La stella che non c’è a cura di Lorenzo Codelli (Venezia: Marsilio, 2006): 30. 2  (Milan: RCS Libri, 2002).

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convinzione secondo la quale per realizzare un film veramente indipendente e non una semplice trasfigurazione visiva del testo scritto, un regista deve creare una storia propria. La dismissione Il romanzo di Rea si basa sulle informazioni fornite da un ex dipendente dell’acciaieria, a cui fu dato lo pseudonimo di Vincenzo Buonocore. Questi era incaricato della manutenzione dell’altoforno per la fusione del ferro ed aveva il compito di istruire i cinesi sul suo funzionamento e manutenzione durante le fasi finali del disarmo dell’acciaieria. Per questo rischia la vendetta dei suoi ex colleghi di lavoro, i quali lo vedono come un collaboratore dell’acquirente straniero. Tuttavia Buonocore ignora le lettere minatorie per svolgere quello che considera l’ultimo e il più importante compito nella sua carriera lavorativa trentennale, un progetto che, per la sua autostima, diventa la sua ultima opera d’arte. Il romanzo lo ritrae come un onesto e diligente lavoratore con il desiderio di crearsi una carriera, un autodidatta che è salito in grado da lavoratore manuale ad addetto alla manutenzione fino a diventare manutentore specializzato addetto alla sezione colata continua. Buonocore inoltre archivia meticolosamente tutti i dati sull’altoforno, cosa che fu molto utile sia per coloro che avevano il compito di venderla che per lo scrittore. Prima della vendita finale, Vincenzo cade in depressione. Ogni mattina, guardando lo stabilimento inattivo, è investito dall’inconfondibile fetore putrido della morte, come di cadaveri in putrefazione. L’odio per lo stabilimento lo assale e comincia a desiderare che venga smantellato il prima possibile, per porre fine a quel capitolo della sua vita e alla sua agonia, nonostante non abbia certezze per il futuro. Buonocore si sente privo di vita, inquietato dalla superstizione al punto da vedere lo stabilimento come un gatto nero che gli ha strappato le ali. Nonostante questa sofferenza, prova ancora un forte attaccamento nei confronti dell’altoforno, come se sia la sola cosa a farlo sopravvivere, tanto che sua moglie paragona il processo della colata continua alle carezze ad un ventre femminile, insinuando che

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il marito ne tragga un piacere quasi orgasmico. Buonocore replica con rabbia che non è possibile copulare con l’acciaio, specialmente se surriscaldato, e la donna risponde che le passioni non sono sempre, o per la maggior parte, carnali. L’attaccamento di Buonocore all’altoforno lo spinge a cercare invano di convincere la delegazione cinese a non smantellarlo in fretta con la fiamma ossidrica, ma smontarlo pezzo per pezzo. Buonocore umanizza la sua macchina con il motto: «Con l’acciaio non bisogna avere fretta» Ermanno Rea arrivò a Bagnoli nell’estate del 1997, solo alcuni mesi dopo l’arrivo della delegazione cinese, giunta lì per rilevare e smontare l’altoforno. Non appena incontrò Buonocore capì di voler lavorare con lui. Gli cambiò nome e identità e lo istruì su come annotare ogni cosa riguardo al suo legame con la fabbrica, ai suoi sentimenti sulla chiusura, alla sua vita personale e alle relazioni con la famiglia, con gli amici e con i colleghi, così che Rea potesse comprendere gli effetti psicologici del licenziamento. Egli voleva sapere tutto di Vincenzo, perfino della relazione extraconiugale con una donna più giovane, Marcella, figlia di un caro amico e collega morto prematuramente per un incidente sul lavoro. Marcella in seguito si suicidò a causa di un’infelice relazione con un giovane affiliato alla camorra e del suo inutile tentativo di convincere Vincenzo a lasciare la moglie per lei. Durante i loro brevi incontri, l’instabilità di Marcella mostrava quanto la sua vita fosse condizionata dall’acciaieria. Quando Rosaria, la moglie di Vincenzo, scoprì la relazione, tornò spesso dalla sua famiglia per riconsiderare i suoi sentimenti nei confronti del marito. Raccontare le loro vite private fa parte di ciò che Rea definisce come un esasperato bisogno di trarre delle conclusioni, come una sorta di resoconto finale dell’esistenza umana, di un’era, di una cultura, di così tante speranze e tensioni, non sostenute da alcun progetto realizzabile. Non è un caso che il titolo del romanzo sia La dismissione, un evento che per diverse ragioni ci ha coinvolti tutti (7). Rea lesse ogni parola scritta da Vincenzo e si incontrarono regolarmente per discutere le informazioni annotate. L’autore definì il romanzo finito come il racconto di Vincenzo e nella prefazione si domanda se, dopo due anni e mezzo di stretta collaborazione, il libro appartenga più a lui o all’ex lavoratore.

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Una storia nella storia molto interessante riguarda il rapporto fra Vincenzo e Chong Fu, capo della delegazione cinese e coordinatore dello smantellamento della fabbrica. Chong Fu è un uomo calmo e attento, interessato a come la città e la gente si adattino alla chiusura dello stabilimento e determinato a scoprire l’anima di Napoli. Una domenica Vincenzo gli fa strada fra le vie del centro storico. Provando imbarazzo a mostrare al suo compagno cinese la casa in cui è cresciuto, Vincenzo dirotta l’attenzione di Chong Fu fermandosi a parlare con una ragazza cinese che parla in perfetto dialetto napoletano. Tuttavia anche Chong Fu proviene da una famiglia umile che lavorava in una fattoria nella campagna a nord di Pechino. La sua notevole predisposizione all’apprendimento gli era valsa il diritto a studiare e, per non finire a lavorare in una risaia come il resto della sua famiglia, era andato a vivere a Pechino dal cugino di sua madre. A sedici anni si unì al partito Comunista, entrando a far parte delle Guardie Rosse di Mao e appoggiando la Rivoluzione Culturale. A diciannove anni venne assunto a lavorare come tecnico della manutenzione degli altiforni per la fusione del ferro. Riconosciuto per il suo zelo politico, venne reimpiegato in un importante ruolo in un ufficio cittadino, ma perse subito l’appoggio per essersi messo in conflitto ideologico con il partito di maggioranza. Tutto ciò che Vincenzo sa di lui è che ha un certo numero di nemici in Cina. Chong Fu ritornò poi a lavorare con un ruolo non ben precisato in una fabbrica e viaggiò molto. Nonostante sia liberamente ispirato al romanzo, il film di Amelio conferma la vita turbolenta di Chong Fu e il suo ruolo misterioso negli affari cinesi. In una scena Vincenzo si reca in Cina all’indirizzo che il suo amico gli aveva dato, scoprendo che era stato licenziato e trasferito con destinazione sconosciuta. Nel romanzo Chong Fu capisce intelligentemente che Vincenzo vive per il suo altoforno e gli offre l’opportunità di lavorare per loro in Cina. Dopo averne discusso con Rosaria, Vincenzo esprime la sua disillusione affermando che il mondo è vecchio, nonostante loro non lo siano, e che lui si sente stanco e disincantato. Quando Chong Fu cerca di convincerlo che le cose in Cina sono differenti, Vincenzo risponde seccamente che la Cina è come tutto il resto del mondo e che come l’Occidente degenerato, corrotto ed egoista, anche il loro

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Paese è solo un grande mercato che, messi da parte i grandi valori ideologici, aspira a diventare uguale agli altri, o meglio, più potente. I commenti di Vincenzo riflettono la delusione di molti intellettuali italiani di sinistra che, durante le ribellioni degli anni sessanta, vedevano la Cina come un punto di riferimento. Quando il libro fu scritto, la Cina era passata da un’economia programmata dal partito ad un’economia di mercato e da centro di rivoluzione mondiale a fiorente nazione capitalista. Per molti la Cina aveva perso l'aura mitica di faro anti-imperialista terzomondista, per diventare il più grande alleato del capitalismo e della globalizzazione. Il film di Amelio registra questi cambiamenti attraverso lo sguardo di Vincenzo. Alla fine di questa analisi retrospettiva, Vincenzo comprende di dovere tutto allo stabilimento, in cui era entrato a vent’anni. Questi sente che l’intero paese ha perso non solo una battaglia, ma la guerra e che la fabbrica non era riuscita a portare la modernizzazione che aveva promesso. La gente si aspettava che l’impianto avrebbe ripulito le strade e sanato i quartieri malfamati. Al contrario, la mentalità delle strette e degradate strade napoletane aveva sopraffatto, invaso e inquinato “la fabbrica di Napoli”, così come era chiamata. La sola cosa buona che aveva prodotto era una certa coscienza politica proletaria in alcuni dei lavoratori, evidente nella loro frenetica agitazione in città e nel desiderio ostinato di Vincenzo di smantellare l’altoforno con dignità e professionalità. L’inaspettata chiusura pose fine ad uno stile di vita strutturato e industrializzato che, per molti, ruotava attorno allo stabilimento e alle varie attività che aveva generato. I macchinari vennero venduti per la maggior parte alla Cina e il resto all’India e alla Thailandia, dopo anni di difficili negoziazioni. Anche la conseguente vendita di liquidazione, a prezzi ridicolamente bassi, si trascinò in un processo agonizzante di cui furono testimoni una sconfitta classe operaia e una popolazione demoralizzata. Il governo cinese comprò uno dei tre altiforni, fra i più grandi al mondo e orgoglio dell’acciaieria. Esso rappresentava l’inutile rinascita di Bagnoli che, per un breve periodo a partire dagli anni novanta, vide lo stabilimento in attivo e diede agli operai l’illusione che potesse essere salvato dalla chiusura. Nei giorni precedenti il disarmo finale, Vincenzo mostra una certa avversione nei confronti del mondo politico, dopo alcune no-

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tizie emerse sulla gestione politica della ristrutturazione finanziaria dell’acciaieria. In primo luogo Vincenzo è molto cauto riguardo alla definizione di “miracolo”, spesso usata dai media italiani per la ripresa economica, dal momento che questo termine avrebbe attribuito dei meriti a chi non ne aveva. La ripresa della produzione e della convenienza finanziaria era stata raggiunta dai lavoratori grazie a un nuovo direttore, che aveva adottato misure forti per eliminare gli operai improduttivi e quelli collusi col crimine organizzato. Questa impegnativa ricostruzione venne portata avanti nonostante tutto e tutti, un azzardo che vide per la prima volta una virtuosa relazione tra la forza lavoro e l’amministrazione e che riuscì a stabilire migliaia di record di produzione grazie all’innalzamento degli standard e a guadagnarsi un riconoscimento internazionale per qualità e affidabilità. Napoli si meritò le testate giornalistiche d’Europa grazie alle puntuali consegne e capitalizzando un profitto da novanta miliardi di lire. Gli sforzi vennero resi vani dagli alti tassi di interesse che si erano accumulati per un prestito di duemila miliardi di lire per finanziare la ricostruzione. I lavoratori che avevano contribuito alla rinascita videro queste manovre finanziarie come un piano macchinato dall’amministrazione per giustificare la chiusura e per appropriarsi del terreno su cui giaceva lo stabilimento. Il golfo di Pozzuoli è fra i più belli in quell’area ed il luogo ideale per gli speculatori edilizi per edificare villaggi turistici. Molti credono che dietro ai miliardi dati in prestito per la ricostruzione ci fossero la FIAT, l’IRI, L’ENI e l’EFIM, le stesse corporazioni che avevano appoggiato il megaprogetto, per ridisegnare interamente i Campi Flegrei, di cui Bagnoli faceva parte. Dopo il disboscamento, il progetto ambiva a costruire complessi di villaggi vacanze, giardini, parchi e piscine, senza alcuna considerazioni per i vincoli ambientali. I sindacati ritenevano che lo stabilimento fosse impossibilitato a funzionare al massimo delle sue capacità, rendendo vano fin dall’inizio qualsiasi rinnovamento proficuo. Con questa deludente e deprimente analisi, si conclude la storia di Rea. Vincenzo vuole recuperare la sua relazione con Rosaria, mentre aspetta di sapere se trarrà beneficio dalle leggi sull’esposizione all’amianto e se quindi riceverà una pensione completa. Rea e Vincenzo si incontrano per l’ultima volta in una calda giornata

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autunnale nel 2001. I due siedono dove un tempo c’era la fabbrica, ora ridotta in rovina come un campo di battaglia e circondata da un noioso silenzio. La fabbrica che avrebbe dovuto garantire lavoro e prosperità a Napoli e dintorni è un un “ground zero”, con crateri neri, con resti dell’impianto a carbone sparsi, perforato come il lato di una fisarmonica, con un’alta e imponente ciminiera come una cupa fortezza che si staglia a distanza: immagini paragonabili alle pericolanti vite di chi un tempo lavorava nello stabilimento. Durante questo ultimo incontro, nel tentativo di dissipare lo scetticismo del lavoratore sull’affidabilità del suo racconto, Rea gli dice che la verità e la falsità sono separate da un sottile confine, e che l’onestà sta nel mezzo. Attraverso i ricordi di Vincenzo e le esperienze dirette, il romanzo realizza una radiografia politica di ciò che accade alle persone quando qualcosa in cui avevano creduto fermamente svanisce improvvisamente. La sua testimonianza personale permette ai lettori di scoprire cosa capita ad una comunità e ad un secolo di vita scandito dal rigido ritmo di una fabbrica. In tali condizioni socio-esistenziali oscure ed instabili, Vincenzo risponde all’ultima domanda di Rea sui suoi piani futuri: un possibile viaggio in Cina organizzato dal suo amico Chong Fu. Ad una considerazione più attenta Vincenzo afferma di non riuscire a vedere nulla oltre la punta del suo naso. È semplicemente un uomo confuso che fantastica, così come fanno molti altri a Bagnoli. Nella sua prefazione, Rea scrisse che il suo racconto degli eventi non era né un’investigazione, né un resoconto storico, ma solamente un modo per sfogare la sua indignazione: una semplice, sciocca storia di sentimenti e rimpianti, ma soprattutto la cronaca di una passione tra un uomo e una macchina che rappresentava l’intera fabbrica.

Il viaggio Il film di Amelio ha inizio con l’arrivo della delegazione cinese, che segna la dismissione della fabbrica, la fine di un’era e l’ascesa di una nuova potenza mondiale. Il film fu girato tra maggio e luglio del 2005 a Shanghai, Wuhan, Chongqing, Yinchuan, Baotou, in alcune zone della Mongolia e a Genova. La storia racconta il viaggio in

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Cina di Vincenzo per consegnare una centralina idraulica modificata, durante il quale il suo rapporto con una giovane ragazza cinese dà vita alla possibilità di ricostruire un’unione famigliare. Attraverso i loro viaggi, i due vedono le contraddizioni della Cina contemporanea e la spinta verso la globalizzazione. Lunghe scene silenziose dimostrano il crescente interesse cinematografico di Amelio verso questi problemi. Come suggerisce il titolo, c’è qualcosa che manca3. Metaforicamente lo spettatore ha l’impressione che la storia di Amelio crei un parallellismo tra la fine dell’era industriale occidentale e il sorgere della stessa in Oriente. Altri lavori critici hanno paragonato l’utilizzo di Amelio del viaggio e della perdita di memoria storica ad una forma italianizzata di road movie. Alcuni affermano che i suoi film appartengono ad un nuovo genere, derivato dal neorealismo, che conferisce alla strada connotazioni differenti e moderne4. Dal momento che la cinematografia di Amelio mescola vari generi e che i suoi modelli sono i classici hollywoodiani ed europei, i suoi personaggi non sono solo eredi del neorealismo, ma hanno qualcosa in comune con i più grandi eroi sconosciuti delle commedie italiane, che, quando tutto sembra perduto, si redimono con un inaspettato atto di coraggio. I personaggi positivi di Amelio sono mossi da forti valori etici, ereditati dal passato. Fra questi, per esempio, Spiro/Michele in Lamerica o Consolo in Porte aperte. I loro viaggi, che evolvono apparentemente da scopi banali, sono in realtà motivati dai loro impulsi morali per rimediare a situazioni insostenibili causate da istituzioni inadeguate, o per proteggere gli innocenti e dimostrare solidarietà verso i più deboli. Il film inoltre riporta alla memoria l’emigrazione storica e rappresenta la mancanza 3  Il titolo potrebbe fare riferimento alla bandiera nazionale della Repubblica Popolare Cinese, disegnata da Zeng Liansong, un economista di professione ma anche un artista di talento che visse a Zhejiang. Liansong disegnò la bandiera per un gara pubblica indetta dalla Conferenza Consultiva Politica del Popolo nel 1949. La bandiera fu scelta fra 3000 partecipanti e 38 finalisti. Quattro stelle gialle a cinque punte compongono un arco attorno ad una stella più grande sul lato sinistro di una distesa rossa. La più grande rappresenta la leadership del partito comunista o il suo programma comune e le quattro stelle più piccole sono pensate per rappresentare le quattro classi sociali che compongono la nazione: gli operai, i contadini, la piccola borghesia e i capitalisti patriottici. Alcuni credono che le quattro stelle rappresentino i quattro partiti minori cinesi. Altri ritengono che la stella più grande simboleggi la gente Han, mentre le quattro più piccole le altre quattro razze: Manciù, Mongola, Tibetana e Mussulmana. 4  Per questa interessante e originale analisi si veda Rascaroli, “New voyages”.

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di stabilità e di radici nella società postmoderna, così come la modernizzazione incontrollata che ha distrutto molti sani valori tradizionali. Tuttavia, la riflessione di Amelio si pone sempre in maniera critica nei confronti del lascito distruttivo del passato ed è priva di nostalgia per l’unione famigliare tradizionale basata sulla cieca lealtà, la vendetta, la protezione, la sottomissione, la fiducia e l’obbedienza. In La stella che non c’è, il viaggio di Vincenzo inizia come un atto di auto-preservazione e forse come desiderio inconscio di trovare la giovane traduttrice cinese che aveva incontrato in Italia. Le sue connotazioni metaforiche cambiano nel momento in cui il protagonista è obbligato ad affrontare varie situazioni e persone ed obbliga gli altri a scendere a patti con la propria eredità e con il proprio cambiamento. Solidi valori e tradizioni sono stati erosi e rimpiazzati da un superficiale senso di benessere e da un’ingannevole sensazione di sicurezza, offerti dal consumismo e dal progresso tecnologico. Amelio riconosce la sua predilezione ad ambientare i suoi film all’estero per scovare le motivazioni intime dei personaggi. Allo stesso modo, riprende il passato per affrontare questioni irrisolte e per permettere al pubblico di riflettere sul presente. Qui Amelio si sposta in una Cina proiettata verso il futuro per comprendere meglio l’operaio italiano, destituito sia del suo passato sia del suo arduo tentativo di resistere a indifferenti e corrotti speculatori edilizi. Spesso il regista calabrese preferisce cercare un’Italia che esiste altrove e attraverso personaggi che non hanno una dimora fissa. La stella che non c’è dice molto più dell’Italia che della Cina, attraverso il personaggio di Vincenzo Buonavolontà (Sergio Castellitto, che vinse il premio Francesco Pasinetti come miglior attore al Festival del Cinema di Venezia nel 2006). Molti recensori del film hanno scritto che il cognome del personaggio è stato lievemente modificato per distinguere il film dal libro, ma Ermanno Rea, durante una nostra conversazione, ha confermato che il nome dell’operaio nel film di Amelio corrisponde al vero nome dell’operaio che lui ha intervistato. A parte i riferimenti ai fatti reali, forse “buona volontà” ha una connotazione più attiva di “buono core”. Il protagonista è molto diverso dai suoi compagni italiani, estraniato dal modo in cui la maggior parte della gente si comporta e pensa. Vincenzo segue un istinto del quale lui stesso non è consapevole. Questo lo inserisce

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nella tradizione di personaggi che, pur percependo qualcosa di sbagliato, non possono fare nulla per denunziarlo al pubblico, il quale al contrario, attraverso loro, può meditare e prenderne coscienza. La stella che non c’è amplia il tema della scoperta personale esaminando il legame tra due individui e collegandolo ad una più ampia indagine sulla Cina e sulla globalizzazione. Personalmente non paragono questo film a quelli di altri registi italiani contemporanei che “spediscono” i loro personaggi a scovare le strade, le piazze, i sobborghi e i piccoli paesi della “vera Italia”. Vincenzo è un italiano estraneo all’Italia contemporanea e alla sua cultura, lui segue un istinto che il film volutamente non chiarisce del tutto. Il paesaggio postindustriale, qui, può essere paragonato a ciò che Roland Barthes chiama inevidence. Vincenzo cerca di trovare una riconciliazione e altre forme di armonia, in un bisogno di superare i conflitti ereditati dal post-capitalismo. Dopo il crollo del suo mondo, non può essere ingannato da ciò che vede: la realtà ha smesso di comunicare con lui e in lui. Come l’uomo di Calvino della seconda rivoluzione industriale, si dirige verso l’unica parte non programmata dell’universo: l’io interiore, la relazione non mediata tra il tutto e l’ego. Che cosa manca? Dall’inizio del film, siamo coscienti del fatto che manchi qualcosa nella vita di Vincenzo. La scena d’apertura stabilisce l’umore contrastante tra la gente del luogo e la delegazione appena arrivata. In una notte fredda e piovosa, un autobus pieno di cinesi allegri e curiosi giunge allo stabilimento. Un lungo travelling lo segue mentre entra. Una fila di manifestanti in abiti invernali, con striscioni contro la vendita che definiscono i cinesi degli “avvoltoi”, è dritta e immobile, a simbolizzare che il disarmo ha messo fine alle loro esistenze. La cinepresa si sposta in alto e un demoralizzato Vincenzo, scuro in volto, guarda fuori da un finestra. Il suo distacco dagli altri è visivamente rinforzato da lui ripreso da solo in una stanza, o mentre guarda silenzioso da una finestra ciò che sta accadendo nella fabbrica, mentre l’ingegnere decanta ai cinesi la grandezza e le potenzialità del macchinario che hanno comprato.

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La sceneggiatura fu scritta tre volte. Nella versione finale, presentata alla commissione cinematografica cinese, in un preludio la delegazione cinese arriva a Bagnoli. Vincenzo sta guardando alcune vecchie fotografie della sua vita nello stabilimento. Una è lo scatto di un incidente dovuto alla centralina mal funzionante nell’altoforno, che aveva causato la morte di un collega di lavoro. Questa scena non appare nella versione finale del film. Amelio l’aveva girata dopo il suo ritorno dalla Cina, e dal momento che la storia era cambiata, decise di escludere i dettagli del passato di Vincenzo. Il regista affermò di aver voluto lasciare molto vaghe le motivazioni che avevano spinto Vincenzo ad andare in Cina, perché era più interessato a ciò che accade durante il viaggio5. Nonostante le critiche che sostengono che Amelio avrebbe dovuto girare la scena, ritengo che il fatto di averla esclusa eviti di cedere alla nostalgia che le immagini avrebbero inevitabilmente suscitato. Il pubblico può comprendere ciò che Vincenzo sta passando mentre vive la conclusione della sua esperienza lavorativa. Evidentemente, ogni pezzo di macchinario venduto alla nazione emergente è come un arto strappato al suo corpo e la vendita finale simboleggia lo smantellamento dell’intera regione e del suo corpo sociale. Elementi iconografici illustrano che la distruzione è avvenuta dall’esterno verso l’interno. Vincenzo non accompagna la delegazione cinese. Il suo sguardo trasmette al pubblico il punto di vista degli sconfitti, rinforzato dalla sua esclusione dalla fotografia che un’allegra cinese scatta al gruppo all’interno della fabbrica. Nella scena successiva, Vincenzo attraversa un lungo corridoio, che contestualizza visivamente la sua esistenza, e poi entra senza preavviso in una sala da pranzo. I cinesi sono seduti a cena. Nonostante la loro sorpresa, lo invitano gentilmente ad unirsi a loro e lo ascoltano con pazienza. In modo turbato e solenne, Vincenzo cerca di dire al capo della delegazione che l’altoforno che hanno appena acquistato ha un difetto, a cui può porre rimedio avendo del tempo a disposizione. Vincenzo li prega di non utilizzare la fiamma ossidrica, ma di smantellarlo pezzo per pezzo: «Con l’acciaio non bisogna avere fretta». L’uomo non parla cinese e la giovane traduttrice non conosce i termini tecnici. Il suo rudimentale italiano consiste di frasi 5  Per l’intervista completa di Amelio si veda «Conversazione con Gianni Amelio,» in Amelio e Contarello, La stella che non c’è, 11-32.

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fatte per una conversazione semplice. La ragazza traduce fiamma ossidrica con «bruciare l’altoforno». A questo punto Vincenzo, nervoso e agitato, la mette in imbarazzo strappandole il dizionario dalle mani per cercare le parole giuste. Poi lascia la stanza e, in una ripresa molto lunga, la cinepresa mostra la ragazza frontalmente mentre se ne va lungo lo stesso corridoio dal quale era entrato Vincenzo, preannunciando così che i loro percorsi si incroceranno nuovamente. Nella scena successiva Vincenzo esce alla pioggia e la vede di spalle. Per un attimo si ha l’impressione che le voglia parlare, ma al contrario se ne va. La cinepresa si sofferma sul volto della ragazza in un primo piano che mostra le sue lacrime. Ora si vede Vincenzo mentre cerca di aggiustare la centralina difettosa. Il giorno seguente scopre con sorpresa che i cinesi hanno smantellato l’altoforno con la fiamma ossidrica e che se ne sono già andati. Nell’ignorare il suo consiglio, hanno distrutto la sua speranza di concludere la sua vita lavorativa con un tocco finale da maestro e hanno violato il suo motto. Tuttavia da uomo di buona volontà, Vincenzo si imbarcherà in un laico viaggio apostolico, inseguendoli per aggiustare il macchinario che rappresenta altresì la sua vita. Un’inquadratura da una gru lo mostra mentre corre lì dove un tempo c’era l’altoforno. Mentre fissa il buco vuoto, il pubblico vede una fabbrica smantellata, vuota, buia, sradicata, con pezzi di metallo che fuoriescono come braccia tese disperate con le dita spezzate, in un’estensione visiva dello stato mentale di Vincenzo e perfetta icona della fine di un’era: uno stabilimento postindustriale durante il periodo del tardo capitalismo. In vari modi il personaggio di Vincenzo si riallaccia alla personalità di Amelio. Anche il regista è un perfezionista, attaccato alla sua professione, scrupoloso ed onesto e in viaggio verso la Cina alla ricerca dell’ignoto, seguendo il suo sentimento di estirpazione e di estraniamento da una comunità con la quale ha poco in comune. Un’avventura in un luogo misterioso è come un nuovo inizio. Si tratta di una scommessa in cui mette in gioco se stesso. Durante un’intervista informale a Roma nel dicembre del 2005, Amelio mi disse che in Cina si sentì a suo agio con il passato. Il regista era felice di avere il figlio adottivo, Luan Amelio Ujkaj, e la nipotina al suo fianco ed espresse la sua gioia nella scelta di costruire un’unione

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famigliare alla fine del film. Non fui per niente sorpreso nello scoprire che il film era dedicato ad Aduina, la figlia di Luan, che porta il nome della nonna albanese. La soddisfazione di Amelio è proiettata nella relazione che cresce fra Vincenzo e Liu e nel desiderio di Vincenzo di avere un figlio e magari di formare una nuova famiglia. Quando poi Vincenzo viene ripreso mentre guarda il mare, è evidente la sua brama di intraprendere un viaggio. L’immagine si dissolve e appare il suo passaporto in cui viene stampato un visto. Fellini utilizza un’immagine con una simile dissolvenza scura su Giulietta Masina in La strada (1954) a significare la fine della sua innocenza. Qui l'immagine simboleggia la conclusione di un’era e l’inizio di un’impresa utopica, come viene descritta da Fredrick Jameson, ovvero la diminuzione di quella imperiosa pulsione di autoconservazione, ora resa inutile6. Vincenzo vuole consegnare una centralina meccanica per aggiustare l’altoforno e proteggere i futuri operai dal destino che ha travolto il suo collega nello stabilimento di Bagnoli, ma è anche alla ricerca di se stesso e di uno scopo nella vita. La storia si sviluppa lungo due sentieri correlati. Il primo è rappresentato dalla sua relazione con Liu, la giovane ventenne cinese, che inizialmente è una straniera ostile e poi diventa un’amica, una guida e alla fine una possibile amante. L’altro è la ricerca della fabbrica che ha acquistato il suo macchinario, che lo porterà ad attraversare tutta la Cina. Il suo sguardo toccherà problemi relativi all’industrializzazione e alla globalizzazione. Nel vedere e nell’incontrare molte cose nuove e inaspettate, metterà in discussione la sua identità, inducendo se stesso e il pubblico a valutare in maniera critica la propria esistenza in relazione al resto del mondo. Il prologo introduce il simbolismo che conferisce alla storia un significato più profondo. Forgiato e modellato nel fuoco, l’acciaio è dolce e tenace, come i personaggi di Vincenzo e Liu. Queste qualità possono essere rintracciate nella rappresentazione dello spirito dei rispettivi Paesi. La solennità di Vincenzo riflette l’umore delle persone lasciate senza lavoro. È un uomo cocciuto, nervoso, tenace, determinato a sopravvivere con le sue forze e a riuscire ad ogni costo. In questo Vincenzo appartiene a quegli Italiani brava gente, incarnando gli ideali italiani, quali l’umiltà, la resistenza, il forte 6  “Politics of Utopia,” New Left Review 25, seconda serie (gennaio-febbraio 2005):51.

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senso etico, e la fiducia nella solidarietà umana, che sono ben lontani dall’attuale identikit in voga, esemplificato da Berlusconi, l'uomo politico che, nonostante la sua fortuna economica e il suo affascinante stile di vita, ama passare per italiano medio: incline alle gaffe e a raccontare barzellette piccanti in pubblico, suggerisce che evadere le tasse, tradire la moglie, essere omofobico, sessista e xenofobo siano cose accettabili. Vincenzo non si aspetta di vedere un’Italia senza gli italiani di oggi, ma si auspica almeno, come confessa a Liu, più professionalità, dedizione, onestà e integrità. Queste qualità le dimostra in primo luogo col suo desiderio di portare la centralina di potenza riparata agli operai cinesi. La sua integrità è evidente anche nell’interesse che dimostra per il bambino di Liu. Vincenzo insiste che lei rimanga con il figlio, scelta che darà alla vita della ragazza una nuova direzione e magari a suo figlio la possibilità di avere un padre. Il giocattolo che il bambino trova nella tasca di Vincenzo funge da catalizzatore nella loro relazione, così come fa la centralina di potenza, che il bambino è in grado di smontare e rimettere assieme: questo è il simbolo di unione e realizzazione. Vincenzo insiste nel voler consegnare la centralina, nonostante Liu protesti affermando che la Cina è piena di meccanici capaci. Ora questo è diventato il suo obiettivo nella vita, e lo realizza quando incontra l’operaio che ne riconosce l’importanza ed è in grado di smontarlo, pur senza capire l’italiano, e di mostrare le due parti di cui è composto, che devono lavorare assieme. Anche Liu Hoa possiede delle qualità tipiche della sua gente. La ragazza spesso afferma che i cinesi sono ostinati, specialmente le donne, forse per la condizione di marginalità in cui vivono che le costringe a lottare per ottenere riconoscimento e rispetto. Il fatto che sia molto interessata ai soldi può essere visto come un aspetto della transizione cinese: Liu abbraccia il capitalismo e il consumismo nonostante sia allo stesso tempo una giovane ragazza alla ricerca della sua strada. Alla fine del film Liu raggiunge una certa maturità e prende coscienza dell’importanza della responsabilità e della solidarietà. La Repubblica Popolare è giovane e sta sperimentando una cancellazione della memoria storica e un’ansia di distruggere e ricostruire. Mentre i viaggi e le iniziative globali la integrano al resto del mondo, «La stella che non c’è» potrebbe essere la libertà e la comunicazione.

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Vincenzo si reca in Cina aspettandosi di trovare qualcosa di completamente diverso da ciò che si è lasciato alle spalle e il suo arrivo a Shanghai sembra confermare le sue aspettative. Nella sceneggiatura Vincenzo arriva dopo un viaggio di un mese via mare e va direttamente ad incontrare Chong Fu, il quale lo accompagna in un lussuoso hotel. Più tardi i due si incontrano in un bar. Chong è seccato e cerca di convincere Vincenzo a lasciare a lui la centralina, ma Vincenzo rifiuta, perché vuole aggiustarla con le proprie mani. Il film mostra solo l’hotel dalla cui finestra Vincenzo osserva operai che costruiscono grattacieli e alte gru che scaricano materiali da costruzione, l’opposto della sua fabbrica in disarmo che aveva distrutto ogni speranza di progresso e di prosperità. Il suo amico Chong, intanto, con sua sorpresa è stato licenziato e al suo posto c’è un cinese pacato che parla italiano ed evita di guardarlo negli occhi, mentre giocherella con delle foglie di palmetta. La Cina aziendale appare molto moderna con edifici curati e puliti, segretarie efficienti e spaziose sale riunioni in cui una televisione mostra un torneo di golf. All’esterno tutti sembrano occupati, disciplinati e soddisfatti. Attraverso lo sguardo di Vincenzo, vediamo studenti delle scuole elementari e adolescenti che indossano divise accademiche, in quella che sembra essere una cerimonia di diploma in un parco. La Cina appare come il Paese spesso descritto dai giornali italiani: sulla via per diventare una superpotenza. Amelio avrebbe voluto nascondere le cineprese in mezzo alla gente, ma curiosi passanti li fissavano tutt’attorno. Durante la conversazione con il manager cinese, «La stella che non c’è» appare. L’uomo si mostra sospettoso ed afferma, senza neppure guardare Vincenzo o sedersi al tavolo con lui, di non capire la ragione del suo viaggio; cerca di congedarlo invitandolo a lasciare a lui la centralina, ma Vincenzo, ponendo l'accento sul suo cognome, spiega che si tratta di una missione personale, un atto di “buona volontà”. Irritato, il manager risponde che l’espressione “buona volontà” esiste anche in cinese, nonostante le sue azioni e la sua espressione facciale sembrino smentirlo. Della musica stridente contrasta nettamente con le luci soffuse e l’ambiente antisettico. Il breve incontro introduce il conflitto tra la mentalità aziendale espressa dal manager («Noi sempre buoni affari con il vostro Paese, mai un problema. Noi non siamo proprietari della fabbrica, facciamo solo intermediazioni

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commerciali.») e le buone intenzioni di Vincenzo che vuole evitare incidenti sul lavoro. Questa tensione rivelerà lo squilibrio tra il progresso, la globalizzazione e i valori umani. Nella sceneggiatura è previsto che Liu Hua scriva un appunto sul dizionario che ha lasciato in Italia; nel film non è chiaro che cosa ci si scritto, ma Vincenzo riesce a capire la frase cercando in una biblioteca ben fornita. Il senso della frase si comprenderà alla fine del film. Tai Ling fa il suo debutto in questo film per impersonare Liu. Amelio rifiutò di scritturare un’immigrante cinese in Italia, perché riteneva che il suo accento sarebbe stato eccessivamente influenzato dalla città in cui viveva. Il regista trovò la ragazza adatta al ruolo fra degli studenti di italiano in Cina. Liu si rifiuta di parlare con Vincenzo in italiano, ancora risentita per il fatto di essere stata licenziata a causa sua. Con l’ostinazione e la determinazione che lo caratterizzano, egli la insegue in mensa durante la pausa pranzo e cerca di convincerla ad accompagnarlo nella città di Wuhan, offrendole più soldi di quelli che sta guadagnando ora. Lei rifiuta. Il giorno successivo, mentre ha delle difficoltà per comprare il biglietto e nel capire dove e quando partano i treni, Vincenzo inaspettatamente la vede. Senza rivolgergli la parola, la ragazza ottiene in un attimo le informazioni necessarie dalla stessa anziana cinese che fissava attonita Vincenzo mentre lui le parlava in italiano. Sul treno Vincenzo dà subito dimostrazione della sua integrità e del suo attaccamento ai valori tradizionali chiedendo alla ragazza se abbia avvisato la famiglia del suo viaggio. Liu, forse pensando che lui si senta superiore a causa della sua giovane età, risponde indignata che si trova lì per lavorare e non per rispondere alle sue domande. Questa risposta interrompe bruscamente la conversazione che si stava facendo amichevole e scherzosa (lei, ad esempio, corregge la sua pronuncia sbagliata della parola “uovo”, che detta da lui suona come la parola “cretino”), ma nonostante questa interruzione il loro rapporto inizia a cambiare. I due cominciano a conoscersi meglio e ad andare d’accordo. La relazione con Liu influenza la visione che Vincenzo ha della Cina e gli rende più semplice il superamento della diversità. Questo ci ricorda i film di Rossellini con Ingrid Bergman. Per esempio, in Viaggio in Italia (1954), ispirato alla novella di Colette intitolata Duo, un coppia si lascia dopo che il marito scopre che

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la moglie ha un’altra relazione. Rossellini non fu in grado di comprare i diritti e dovette abbandonare l’idea di girare un film basato sulla storia, ma la sua influenza è visibile nell’attrazione di Katherine per un vecchio amico che aveva prestato servizio militare a Napoli, che la spinge ad intraprendere il viaggio verso la costa. Come Amelio, Rossellini cercava qualcosa di nuovo nel girare questo film. Il regista disse ad Eric Rohmer e a François Truffaut di volersi occupare di temi nuovi, intraprendere sentieri sconosciuti, per riuscire a dire con grande umiltà ciò che pensava delle loro vite in quel momento. Attraverso la forza del paesaggio, Rossellini voleva spezzare la moderna razionalità che intrappola l’umanità. Mentre lo sguardo di Vincenzo si modifica e riflette sui problemi che dividono il mondo al giorno d’oggi, lui ed il pubblico toccano con mano il prezzo che la gente ordinaria deve pagare per il progresso. Una volta giunti a Wuhan, Liu scopre che Vincenzo non ha l’indirizzo della fabbrica che sta cercando. Seccata, chiama da un telefono pubblico per trovarlo. Lasciato solo, Vincenzo viene circondato da ambulanti che vogliono vendergli qualsiasi tipo di cosa. Mentre cerca di parlare ad una giovane donna con un bambino, si ritrova con in tasca un giocattolo che si illumina e suona un’allegra melodia. Per ironia, nonostante i ripetuti «Non mi serve» per difendersi dai venditori, il giocattolo lo avvicinerà ad un bambino, anche lui vittima dei cambiamenti della Cina. Il giocattolo non appare nella sceneggiatura, mostrando ancora una volta come il film scaturisca dalle dinamiche che si sono innescate tra regista, attori e troupe in Cina. Ora Liu, comprendendo l’inettitudine di Vincenzo, comincia ad assumere il controllo e diventa la sua guida. Quando arrivano alla fabbrica, Vincenzo la invita a dire la verità in merito allo scopo del viaggio in Cina, ma lei gli risponde di attendere fuori ed entra da sola nell’ufficio. Ciò che accade in seguito conferma il conflitto tra l’onestà, la burocrazia e la mentalità aziendale. Vincenzo è così catturato dalla colata continua che entra nella fabbrica e per guardare viene arrestato. Nell’ufficio del poliziotto viene rappresenta la paura onnipresente. Vincenzo estrae la centralina ed inizia a smontarla per mostrare che non si tratta di una bomba ma, sfortunatamente, ottiene l’effetto contrario e il poliziotto gliela strappa dalle mani. Ancora una volta le autorità non vogliono ascoltare le sue spiega-

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zioni e lo sbattono fuori. Mentre aspetta Liu, la sua solitudine e la sua esclusione sono ritratte visivamente in una bella inquadratura in cui è appoggiato ad un gigantesco pilastro di un sovrappasso, mentre controlla che la giuntura modificata sia ancora tutta intera. Il giorno dopo in un ristorante con Liu, Vincenzo rifiuta di mangiare riso a colazione, come è in uso in Cina. La loro apparentemente superficiale conversazione sul fatto che il riso è insipido si trasforma in uno scontro di culture. Liu gli dice che ha un brutto carattere, mentre lui obbietta. Lei allora ribatte che non ha un brutto carattere, ma che è sempre troppo nervoso e gli consiglia di insaporire con la salsa di soia e di usare un cucchiaio per mangiare il fiore di soia, dal momento che è un brodo. In questo modo gli sta insegnando a mettere da parte l’impazienza che associa agli italiani. Da parte sua lui nota che le piace mangiare e quando lei risponde «È la mia passione», lui approva affermando «È un buon segno». Le due culture condividono l’amore per la cucina e i loro sforzi nel cercare di innalzarsi al di sopra delle barriere culturali possono essere paragonati a ciò che Amartya Sen descrive come i passi necessari per andare oltre il comodo e sicuro provincialismo e per resistere alla frammentazione locale e all’isolamento, a favore di una identità comune. Liu gli rivela di essere rimasta nella stazione di polizia per aiutare il poliziotto a localizzare la fabbrica che ha il suo macchinario. Vincenzo si rilassa ma inizia a mangiare solo quando lei gli mostra un piccolo pezzo della centralina che mancava. Il legame fra i due si sta rafforzando e il gesto ristabilisce la sua vacillante fiducia nella missione. Vincenzo accantona il pensiero sulla pena capitale ancora in vigore in Cina, una preoccupazione che aveva espresso lamentandosi dei metodi della polizia, e grazie alla maniera semplice di Liu nello spiegare il suo punto di vista, Vincenzo inizia a comprendere la cultura straniera. Lei gli spiega: «I cinesi prima ti fanno lo sgambetto e poi ti aiutano ad alzarti». Mentre Liu dà voce alla sua filosofia spicciola, lui la guarda con scetticismo. La loro conversazione si fa comica quando lei sbaglia l’uso di alcune parole, lei dice: «È molto forse... e molto sicuro». Mentre si aprono l’un l’altra e la loro conversazione si fa sempre più amichevole, alcune ripetute inquadrature mostrano Vincenzo che guarda dei bambini. Che stia forse pensando improvvisamente ad una famiglia?

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Il punto di svolta nella sua crescita e nella presa di coscienza dei problemi causati dalla globalizzazione avviene nella città di Chongqing nella regione di Hubei, una valle piena di fabbriche. In una grossa barca sul Fiume Azzurro, Vincenzo sfoggia per la prima volta il suo senso dell’umorismo. Guardando il cielo coperto chiede a Liu in quale stagione scattino le foto per le belle cartoline che vendono. Con lo stesso spirito lei risponde «Quando c’è il sole... una volta l’anno». Lei salendo le scale accarezza dolcemente un bambino seduto da solo sui gradini, il quale gira la testa. Sentendo per caso un altro passeggero in una conversazione telefonica, Vincenzo esprime un commento casuale sul fatto di voler comprare un cellulare. Liu chiede se abbia bisogno di telefonare e coglie l’opportunità di chiedergli se abbia una moglie. Ancora una volta, la conversazione è alleggerita dalla sua confusione fra le parole divorato e divorziato. Quando lui alla fine capisce la domanda, le risponde di essere single. Lui le chiede se abbia il ragazzo e perché studi italiano. Lei rivela di essere stata costretta a studiare una lingua minore per non aver raggiunto un punteggio sufficientemente alto per studiare le lingue considerate principali. Mentre dondola sulla ringhiera della barca come una qualsiasi ragazza che si diverte, Vincenzo la guarda in un modo nuovo, interessato. Lui ammira il panorama e lei gli racconta di una diga in costruzione che creerà un lago di 600 chilometri. La diga sarà alta 181 metri e larga 2309, con due motori e 26 turbine. In principio Vincenzo sembra entusiasta del progetto, ma quando lei poi spiega che 1.200.000 persone dovranno essere evacuate e 149 città assieme ad altri 1350 villaggi saranno inondati per creare energia per Shanghai e per altre otto provincie circostanti, si fa pensieroso. Il suo silenzio, mentre fissa le bellezze che presto saranno inondate, esprime i suoi sentimenti. I numeri precisi sono annotati nella sceneggiatura, dove Liu aggiunge uno slogan del governo: «Il nostro Paese si muove più veloce di un fiume e la nostra gente naviga su acque veloci», che conferisce un’ansia positiva al progresso vertiginoso della Cina e al ruolo del governo nel promuoverlo. La loro crescente vicinanza è catturata visivamente quando Liu si siede accanto a Vincenzo che dorme, fissando il mare. I due arrivano a Chongqing, una città che non sembra moderna quanto le altre. La gente spinge per entrare nella cabina della funivia e Vincenzo ne rimane fuori. Ciò che inizialmente sembra una bella

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passeggiata diventa un incubo quando si vede costretto a salire 22 rampe di scale per raggiungere la sua destinazione. Si tratta di un appartamento in un quartiere popolare, fatto di edifici altissimi costruiti attorno ad un grande cortile esagonale in cui la gente stende i panni. Mentre salgono le scale, Vincenzo si lamenta della stupidità dei grattacieli senza ascensori e Liu lo informa che gli ascensori sono disponibili a partire dal decimo piano. Nella sceneggiatura lei aggiunge che costano molti soldi e che non sempre funzionano. La commissione cinematografica cinese volle che fosse tagliato quel commento, affermando che gli ascensori in Cina sono gratuiti. Lo sguardo di Vincenzo rivela la condizione dei lavoratori nell'epoca della globalizzazione. Nell’appartamento ci sono piccole stanze in cui uomini e donne riposano mezzi nudi in letti a castello prima di tornare al lavoro, mentre altre donne lavorano come sarte o stiratrici. Vincenzo ripara una macchina da cucire, mentre Liu lo osserva con aria soddisfatta (un ulteriore passo avanti verso la costruzione della loro relazione). Vincenzo le chiede perché lo abbia portato lì e lei risponde che è più economico rispetto ad un hotel. I due devono risparmiare soldi. La maestria di Vincenzo nel riparare la macchina è in netto contrasto con i ritmi serrati e disumani delle manifatture, in cui il personale è schiavizzato dalle richieste della produzione per il mercato di massa. Il giorno successivo, mentre si recano alla fabbrica, Vincenzo vede degli operai che indossano delle mascherine sulla bocca per proteggersi dall’inquinamento. Una volta arrivati a destinazione, per la prima volta il suo sguardo diventa un tutt’uno con quello della cinepresa. Qui vediamo donne mentre cucinano e cuciono, bambini che lavorano e giocano sul pavimento. Il volto di Vincenzo assume la stessa espressione desolata che aveva a Bagnoli. Su sua insistenza, Liu spiega che le donne rammendano vestiti e cuciono per gli operai, mentre i bambini giocano o svolgono piccole faccende domestiche. Vincenzo è sopraffatto dalla vista di bambini che inalano gas velenosi e giocano fra le macerie della fabbrica ed allo stesso tempo è scioccato dall’indifferenza degli adulti. Sedendo su una scala con la spalla contro la ringhiera, Vincenzo fissa una ragazzina vestita di stracci, con la faccia coperta di polvere mentre mangia del riso da una ciotola. In una lettera a Contarello, Amelio scrisse che le autorità

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cinesi non volevano che lui filmasse quelle fabbriche e i bambini. Il regista dovette infilare la sua cinepresa di nascosto mentre qualcuno della troupe distraeva il personale cinese che li accompagnava7. Questo tipo di scene sono conformi a ciò che il critico Gilles Deleuze descrive come «optical sensation cinema» (cinema di sensazione ottica), in opposizione al cinema d’azione. Grazie a questo, il film di Amelio si allinea alla tradizione italiana del dopoguerra. In particolare a Germania anno zero ed Europa 51 (1951) di Rossellini, quando i personaggi cominciano a guardare le cose e le persone in maniera completamente diversa. Lo spettatore è coinvolto nella verità dell’evento e in una condizione di incertezza, che è tanto minacciosa a teatro quanto sullo schermo. Deleuze considera il momento in Germania anno zero (1947) in cui Edmund alza la mano per coprirsi gli occhi prima di uccidersi, come un punto di svolta nel passaggio da un’immagine di movimento a un’immagine temporale. La prima genera l’idea dell’azione: gli eroi vedono qualcosa che li minaccia e decidono di agire traendo la propria forza dalla spinta dell’azione. I film classici usano tali immagini per risolvere conflitti attraverso un attore che agisce per liberare la situazione dal male. In contrasto, per Deleuze, il film di Rossellini (assieme ad altre opere chiave del neorealismo italiano), inaugura un cinema da spettatore, dove l’atto di vedere è in opposizione al modello d’azione. Secondo Deleuze il protagonista vede e sente cose che non richiedono una risposta o un’azione. Più che reagire, il protagonista registra e più che comprendere una situazione, si arrende ad una visione. Questo nuovo cinema di sensazione ottica propone un atteggiamento etico impegnato nei confronti della realtà storica8. Il cinema ha aperto le porte a realtà mai esplorate prima, dando vita a ciò che Carlo Lizzani definisce un insieme di generi e stili che creano un nuovo linguaggio cinematografico9. I film di Rossellini segnano la fine dell’innocenza dello spettatore e l’inizio della verità, il cosiddetto test della verità dello spettatore, a cui il regista diede il via con Roma città aperta, quando una porta lasciata aperta durante una sequenza di tortura rende lo spettatore testimone delle atrocità naziste. Il personaggio di Don Pietro è senza 7  La stella che non c’è, cit., pp. 33-37. 8  Deleuze, L’image–temps, Cinema 2, Parigi, Les Editions du Minuit, 1985. 9  Si veda Lizzani, Il neorealismo, Roma, Istituto Luce, 1975.

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occhiali e non riesce a vedere da dove è seduto, pertanto lo spettatore è l’unico testimone affidabile e responsabile. A Bagnoli, Vincenzo è in una situazione da anno-zero come vittima della globalizzazione. Il protagonista registra ciò che vede e intraprende un viaggio, non come un film d’azione, ma arrendendosi ad una visione rosselliniana, che Deleuze chiama immagine del tempo. Parlando dell’intenzionalità di Europa 51 di Rossellini, Amelio affermò che, dietro la storia che racconta il film, c’è il seme vitale di una storia più grande: la spinta verso un cambiamento esistenziale che fa scommettere ad ognuno su se stesso, esponendosi al tradimento da parte di chiunque, perché chiunque può interpretare il comportamento di ognuno secondo il proprio punto di vista. Irene, per esempio, potrebbe essere una pazza, un santa, o una che ha perso la retta via, ma che alla fine trova dietro le sbarre l’unica via per superare il dolore. Amelio crede che nella ragione segreta del viaggio di Vincenzo si nasconda un po’ dello spirito dell’apostolo, una ricerca laica che dà senso alla sua esistenza10. Vincenzo si reca in Cina in un viaggio personale di buona volontà. Lì si scontra con la resistenza e lo scetticismo delle autorità e del potere aziendale. Dopo aver visto le sordide condizioni nella fabbrica cinese, sente la stessa disperazione che ha provato all’inizio del film. Nella sequenza successiva, Liu lo porta in un fast food pieno di giovani che mangiano, bevono e ascoltano musica ad alto volume. Questo ambiente è in diretto contrasto con le vittime dello sfruttamento sul lavoro e Vincenzo si dimostra disturbato e disincantato. Nel tentativo di individuare ancora una volta la giusta fabbrica, Liu consulta un computer assieme ad un ragazzo, mentre Vincenzo vaga fuori sotto la pioggia, solo come era in Italia. Liu lo vede dalla finestra e lo invita ad entrare. Lui le dice che non immaginava che la Cina fosse fatta così e le sue parole esprimono la sua nuova consapevolezza. Il suo sguardo ha raccolto informazioni e il suo viaggio ha acquistato una nuova dimensione che non appartiene più solamente al suo io interiore. Vincenzo le confessa di voler tornare in Italia, ma lei lo esorta a trovare la fabbrica prima di andarsene. Di nuovo in strada, un’inquadratura ben studiata mostra uno sconfitto e malato Vincenzo seduto dietro a Liu in un vecchio bus 10  Si veda La stella che non c’è.

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di campagna sulla via per Yinchuan, dove sperano di trovare l’altoforno. Vincenzo è il centro dell’attenzione degli sguardi di tutti i passeggeri: non hanno mai visto uno straniero. Uno di loro chiede a Liu di dove sia Vincenzo e quando lei risponde che viene dall’Italia, lui pensa che intenda l’Iraq. Lei lo corregge affermando che gli italiani sono europei. La battuta è un sottile riferimento all’intervento di pace italiano al fianco degli Stati Uniti nella guerra all’Iraq. Dal momento che Vincenzo ha la febbre, Liu lo porta nel villaggio in cui è nata. Cinque anni prima, spiega, non c’era nemmeno un fruttivendolo. Mentre camminano verso casa sua, vediamo una Cina più vecchia, con risciò e carretti e un’inquadratura toccante di una ragazzina seduta sui gradini di casa che si stropiccia gli occhi per tenere lontani gli insetti. Qui Vincenzo è testimone di una tipica società agricola. I bambini giocano, un vecchio gli offre la sua sedia e nella casa della nonna di Liu tutte le donne sono impegnate a filare la lana nella vecchia maniera. Tuttavia anche questo paesaggio rurale mostra segni di cambiamento. A differenza dell’Italia del sud, dove erano gli uomini che generalmente lasciavano a casa le donne e i bambini, qui è Liu ad aver lasciato la famiglia. Vincenzo si mette a letto. Un bambino, inizialmente visto dietro la ringhiera di una scala, gli si avvicina con in mano il giocattolo che Vincenzo aveva trovato nella sua tasca quando era a Wuhan. Il bambino, felice, porta Vincenzo fuori in una piscina vuota e finge di nuotare. Il bambino è il primo cinese, a parte Liu, ad essere gentile con lui. Vincenzo lo lascia giocare con la centralina e subito il bimbo impara a smontarla e a rimetterla assieme di nuovo. È il solo che si sta divertendo e sta traendo beneficio dall’atto di buona volontà di Vincenzo. Più tardi, quel giorno, Vincenzo chiede a Liu da quanto tempo non vedesse la nonna e il bambino e afferma che quest’ultimo anche quando sorride sembra arrabbiato e le assomiglia. Chiaramente ha intuito che si tratta di suo figlio. Liu gli spiega il significato delle stelle più piccole nella bandiera cinese: si dice che rappresentino l’onestà, la pazienza, la giustizia e la solidarietà. Lui risponde di aver sentito un’altra spiegazione e aggiunge che la gente si lamenta sempre che qualcosa manca nella loro vita. Vincenzo le chiede di non ripartire con lui il giorno seguente e di stare con suo figlio, offrendole di pagarla per quanto dovuto. Seccata per

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la sua intromissione, lei allora risponde che dovrà pagare un sacco di soldi. Vincenzo si mette in viaggio la mattina e lei lo segue, probabilmente per fargli capire di non essere interessata solo ai soldi. La cinepresa mostra un primo piano del bambino sul letto da solo. Liu e Vincenzo sono di nuovo distanti. Lui non le rivolge la parola. I due arrivano ad un paese di minatori e lei afferma che non sapeva che il bus fermasse lì. Vincenzo risponde solamente che lui lo sapeva e le consiglia di trovare un modo per tornare a casa perché è intenzionato a proseguire da solo. Liu siede in un immenso paesaggio con delle montagne sullo sfondo, addolorata per averlo deluso. Prima di andarsene Vincenzo le dice di essere dispiaciuto e lei risponde che non può chiederle perdono dal momento che non conosce niente della sua vita e non può giudicare le sue scelte. In una luce molto chiara che stabilisce l’atmosfera giusta per una rivelazione, lei ammette di essere una ragazza madre, di non aver terminato l’università e che per questo ha tradito la fiducia dei sui genitori e del suo Paese. Vincenzo la sprona a tornare da suo figlio, forse incoraggiandola a non commettere un altro errore. Lei risponde che suo figlio non la conosce nemmeno e gli racconta della legge cinese che proibisce figli “extra” che, una volta nati, vengono abbandonati o nascosti alle autorità e conclude dicendogli che è un brava persona. La sequenza si chiude in una tenda, dove alcuni operai stanno mangiando, cantando in gruppo o guardando la televisione. Vincenzo e Liu siedono lontano l’uno dall’altra e dal resto della gente. Il giorno successivo i due partono a bordo di un camion. Lei si addormenta sul retro e Vincenzo paga la camionista perché la riaccompagni a casa, lasciando a Liu degli altri soldi. Vincenzo raggiunge Baotou e si reca allo stabilimento. All’entrata, incapace di parlare cinese, siede di fronte ad una guardia che non si accorge nemmeno della sua presenza, a significare ancora un volta come la Cina ufficiale sia indifferente nei suoi confronti e non comprenda la sua buona volontà. Il vento scompiglia le sue carte e le sparge in mezzo alla strada. Mentre le sta rincorrendo, un operaio vede la centralina sul lato della strada, si ferma e la raccoglie. Vincenzo cerca di strappargliela ma l’operaio cinese la smonta e gli fa vedere le due piccole parti che la compongono. Vincenzo ha finalmente trovato la sua controparte cinese e lascia che l’operaio porti il

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pezzo nella fabbrica. Da un punto di vista simbolico, il loro incontro dimostra la possibilità per due persone provenienti da culture diverse di poter lavorare assieme. La centralina finisce in un contenitore assieme ad altre parti inutilizzate. Vincenzo, felice e inconsapevole della fine che ha fatto il suo pezzo, se ne va dalla fabbrica sentendosi realizzato. Vincenzo prende una barca in direzione Baotou con solo il barcaiolo, un paio di persone e due capre a fargli compagnia. Mentre è lì a fissare il paesaggio, piange per più di un minuto. Molte recensioni in Italia hanno criticato la scena, definendola artificiosa e un “pianto a comando”. Credo che la scena debba essere letta in relazione al viaggio di Vincenzo di cui la centralina idraulica era il pretesto. Dopo un lungo viaggio fisico, le sue lacrime ne rappresentano la conclusione. Potrebbero essere il risultato della sua soddisfazione, della sfinitezza, del vuoto in sé, della fine dei suoi obiettivi, della perdita di Liu, dei rimpianti della sua vita precedente, del rammarico per i terreni che verranno inondati. Il pubblico, come il protagonista, sente sensazioni che non richiedono una risposta o un’azione e assieme registrano e comprendono la situazione. L’inquadratura è un’immagine temporale appartenente al «cinema da spettatore» che Deluze aveva teorizzato descrivendo il cinema di sensazione ottica. Il film si chiude in una stazione ferroviaria, dove Vincenzo incontra Liu, la quale gli offre un biscotto, ma Lui lo rifiuta. Lei gli chiede di aggiustare il giocattolo che ha lasciato a suo figlio, che ha pianto quando si è rotto. Vincenzo lo guarda e afferma che al giorno d’oggi le cose non si riparano più e conclude con la frase al plurale «ne compriamo un altro». La sceneggiatura termina con Vincenzo che, mentre aspetta il treno, estrae il dizionario che Liu ha lasciato in Italia prima di partire e legge l’appunto che lei ha scritto: «Per i cinesi le cose nascono storte, ma gli uomini le raddrizzano. Io sono nata storta». Il film si conclude, invece, con la possibilità da parte di Vincenzo di portare a compimento il proverbio. Dopo un momento di silenzio, Liu si rivolge a lui in cinese e per la prima volta lui non risponde «non capisco», ma «è andato tutto bene, sono stato fortunato». Nell’ultimo fotogramma, Liu guarda di fronte a lei in silenzio.

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C’è qualcosa che manca? La maggior parte delle recensioni scritte dopo che il film venne proiettato al Festival del Cinema di Venezia concordano nel sostenere che la Cina mostrata nel film è diversa da quella presentata nei telegiornali o nei quotidiani. Gian Luigi Rondi su «Il Tempo» del 5 settembre 2006, Valerio Caprara su «Il Mattino» del 6 settembre 2006, Francesco Felletti e Vittorio Renzi scrissero che nonostante i toni delicati, l’ottima fotografia e la buona interpretazione, le motivazioni interiori di Vincenzo sono a malapena percepibili e comprensibili. Questi ritenevano che il film mancasse di risolutezza, dal momento che la motivazione di consegnare una centralina idraulica è troppo debole per giustificare la storia e per suscitare una forte e continua empatia negli spettatori. Sentivano anche che i silenzi di Vincenzo nel suo peregrinare attraverso la Cina sono meno toccanti di quelli dei personaggi di Amelio nei film precedenti. Amelio è un regista del “non detto”, ma in questo film il silenzio si sincronizza con i dubbi, con i desideri e le reazioni del protagonista. Tutte le recensioni concordarono che al film mancasse un punto di svolta, un’invenzione che catturasse l’immaginazione del pubblico e giustificasse effettivamente il lungo pellegrinaggio di Vincenzo. A queste voci si potrebbe aggiungere anche quella dell’autore del romanzo che ha dichiarato: L’operaio protagonista del romanzo esiste veramente: non si chiama Buonocore ma Buonavolontà, come nel film di Amelio. A proposito del suddetto film non mi sento di esprimere un giudizio positivo. Mi è parso arbitrario e paradossale, soprattutto perché del tutto decontestualizzato rispetto alla città. Buonocore o Buonavolontà (comunque lo si voglia chiamare) ha senso in quanto rappresentativo di quella passione per il lavoro propria di una metropoli dove il lavoro è stato ed è praticamente negato. Prima di scrivere la Dismissione buttai giù un testo lungo una quindicina di pagine, tuttora inedito, nel quale sono riassunte le ragioni del romanzo assieme ad alcuni ricordi di personaggi e di esperienze del mio passato remoto attinenti al tema11. 11  Da uno scambio di posta elettronica avvenuto con Ermanno Rea il 22 aprile del 2009.

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Nella mia analisi ho mostrato come Vincenzo, nel suo viaggio, sia testimone di come l’economia capitalista generi benessere così come privazione, emarginazione e povertà, sia in ambito nazionale che globale e come sperimenti gli effetti della grande espansione economica sulla gente. Il suo viaggio attraverso la Cina alla ricerca del suo altoforno sembra un obbiettivo irraggiungibile, continuamente rimandato. Solo quando giunge nel villaggio di Liu comincia a ricevere la ricompensa per la sua buona volontà. Vincenzo ha perso il lavoro a causa della globalizzazione e si reca in Cina per evitare la possibile morte di altri operai. Appena arrivato, si scontra con l’ostilità del mondo industriale cinese: «Ancora non capisco cosa voglia da noi. Abbiamo sempre ottenuto buoni risultati dai nostri commerci con l’Italia». Vincenzo non si nasconde dietro la scusa dell’appartenenza ad un’altra nazione per lasciar perdere, ma decide di rimanere per una questione morale. Con questa decisione, non porta avanti la sua missione solo per riscattare se stesso, ma come uno sforzo individuale che produce quello che Amartya Sen descrive come un passo necessario per disperdere la tensione globale. Nei suoi “dieci punti” per cambiare la coesistenza ingiusta di grande ricchezza e povertà nel nostro mondo, Amartya Sen cita l’identità e la comprensione degli altri12. Secondo il suo pensiero, la globalizzazione non rappresenta una novità e non si può ridurre agli sforzi delle nazioni più ricche di occidentalizzare il mondo in modo da mantenere i propri privilegi. Amartya Sen crede che le violente proteste contro la globalizzazione siano in realtà indirizzate contro l’ingiustizia e che auspichino impegno etico, responsabilità e un’azione contro le disuguaglianze da una prospettiva sufficientemente ampia da superare i limiti dell’attuale ordine economico globale. La missione di Vincenzo Buonavolontà può essere considerata come un’azione di questo tipo, molto differente dalle aspettative e dai limiti della moderna mentalità cinese, industriale e capitalista, espressa dal dirigente che incontra al suo arrivo in Cina o dal capo della delegazione in Italia che, al contrario di quanto promesso, fa smantellare l’altoforno con la fiamma ossidrica. La disillusione crescente di Vincenzo verso la mentalità industriale della Cina moderna e il suo contatto con l’emarginazione e la povertà, lo cambiano, 12  Si veda Globalizzazione e Libertà, Milano, Mondadori, 2002.

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come si vede dal suo pianto sulla barca, mentre ritorna da Baotou. L’economista indiano scrive che sebbene il mondo sia un crogiolo di persone di nazionalità differenti, le cui relazioni devono essere mediate dai rispettivi governi, questi non possono nascondere i loro problemi o evitare di prendere decisioni difficili con il pretesto che la comprensione reciproca è impossibile o che le barriere culturali sono un impedimento. Per ottenere una giustizia globale, secondo Sen, dobbiamo assumerci la responsabilità di perseguire il tipo di vita e di mondo che vogliamo. La missione di Vincenzo mostra che la moralità non è legata ad un’identità nazionale e che le relazioni internazionali non possono prendere il sopravvento sull’identità umana. Indipendentemente dalla nazionalità o dall’appartenenza ad un sistema industriale ogni individuo deve assumersi responsabilità associate a una più ampia umanità, anziché affidarsi ciecamente alle decisioni dei governi. Vincenzo mantiene la sua integrità e si relaziona con gli altri da essere umano. Sin dall’inizio, dice ai cinesi che l’altoforno ha un problema e, una volta in Cina, si rifiuta di lasciare la centralina e andarsene come gli avevano consigliato di fare i dirigenti dell’azienda. Il film di Amelio ci mostra un uomo che crede nel suo impegno e nella sua integrità, cosa che sembra mancare nella maggior parte del mondo moderno. Il pubblico è portato a riflettere su quello che vede Buonavolontà, nella tradizione dello sguardo rosselliniano descritto da Gilles Deleuze. Attraverso un cinema di immagini anziché d’azione e aperto alle evidenti discrasie tra gli individui e le cose, La stella che non c’è esplora i problemi globali e un intrecciato discorso interiore. La stella che non c’è del titolo viene scoperta alla fine nel contatto con l’altro. Questo film sembra chiudere alcuni dei temi ricorrenti di Amelio, come l’infanzia perduta e la paternità, e sembra muoversi verso un nuovo cinema fatto di personaggi positivi, che sentono non solo il bisogno di affrontare gli altri, ma anche quello di trovare il coraggio di ricominciare. L’azione di Vincenzo è un tentativo utopico di mostrare ciò che serve per superare i conflitti globali. Riflettendo su ciò che aveva visto in Cina, Amelio dichiarò di aver potuto vivere in prima persona il balzo in avanti di cui gli parlava chiunque avesse visitato il Paese. Un progresso che ritiene possa avere i piedi di ar-

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gilla e che potrebbe diventare una vera forza solo nel caso in cui la Cina non si preoccupi solo dello sviluppo sfrenato, dimenticandosi di altri bisogni essenziali. Il regista dichiarò che la Cina sta pagando un prezzo estremamente alto nella sua ingannevole corsa verso il progresso in termini di costi umani. Tuttavia Amelio notò qualcosa di rassicurante osservando i contatti fra le persone e si augura che una grande nazione come la Cina, con tutta la sua storia e il suo bagaglio culturale sia in grado di trovare il giusto equilibrio per gli uomini13. Alla fine, la profonda solitudine che accompagna Vincenzo si rispecchia nei cinesi che, come lui, sono vittime della globalizzazione. Secondo Antonio Negri, lo squilibrio tra i 300 milioni che stanno beneficiando della rapida crescita economica e il miliardo rimanente ravviverà radicalmente il comunismo razionale14. Nell’evidenziarlo, il film apre una discussione su come trovare un compromesso tra il progresso e i valori umani.

13  La stella che non c’è, cit. 14  Goodbye Mr. Socialism, a cura di Raf Valvola Scelsi, Milano, Feltrinelli, 2006.

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Capitolo 11

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Conclusioni: Un nuovo linguaggio per un cinema di coscienza sociale, fedele alle sue radici Il cinema ha un ruolo in ogni fase della vita, ma il messaggio politico non dovrebbe essere lo scopo di un buon film. Il problema centrale di noi registi non è l’argomento ma il linguaggio. Io ho sempre cercato di essere onesto con me e con gli altri1.

Nato in una famiglia sottoproletaria del Sud, dove per generazioni gli uomini furono costretti ad emigrare in cerca di lavoro, Gianni Amelio rappresenta con la sua carriera un caso unico nel cinema italiano, per varie ragioni. La sua visione poetica è stata segnata fin dall’inizio dalla sua esperienza di crescere senza un padre, in una famiglia e in un piccolo paesino dominato da donne forti. La povertà e le privazioni culturali in Calabria influenzarono la sua personalità, il suo carattere, la sua visione del mondo e la sua carriera professionale. Ad oggi le sue affermazioni sull’argomento sono contraddittorie. Da un lato Amelio vuole cancellare il suo infelice passato. Dall’altro lato, l’esperienza ha forgiato il suo amore per gli esclusi, per i disagiati e per le vittime della società. Alla domanda su quale Calabria sia presente nelle sue opere, Amelio ha risposto la Calabria che vive dentro di lui, ovvero quella della sua infanzia e delle sue esperienze personali. Secondo il regista, ognuno può narrare il proprio passato per una vita intera, oppure decidere di rivalutarlo. Lui afferma di aver cercato di rimuovere ogni forma di folclore nei suoi film sulla Calabria. Secondo il regista il processo di rivalutazione non deve bruciare i ponti col passato o i propri legami con il resto del mondo, ma non deve nemmeno riflettere su se stesso in maniera eccessiva, dimostrando così un senso di inferiorità. Secondo il regista se esiste un difetto nei calabresi è la loro eccessiva autocommiserazione, una 1  Amelio in «Cineaste», p. 209. [La traduzione è mia].

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forma di vittimismo che deve essere estirpata una volta per tutte2. Tuttavia, la sua scelta di diventare regista si potrebbe ascrivere al suo passato difficile. I film americani lo hanno aiutato a superare la sua buia infanzia. Amelio ricorda che all’epoca vedeva solo film americani e che deve a loro la sua passione per il cinema. Il regista aggiunge che in quegli anni tutto il pubblico italiano andava al cinema per vedere quel genere di film, piuttosto che i capolavori del neorealismo3. Il fatto di essere un autodidatta ha giocato un ruolo incisivo nello sviluppo della carriera cinematografica di Amelio. Probabilmente è l’ultimo esempio in Italia di un cinefilo che ha iniziato per conto proprio, prima da ragazzo guardando film, poi leggendo riviste cinematografiche e scoprendo film sperimentali ed artistici, quando era studente universitario in Sicilia. In seguito si trasferì a Roma e si fece strada per diventare regista, in un periodo in cui l’idea del cinema per sé e di come e dove dovesse essere fatto stavano cambiando. Il critico Mario Sesti ha denotato una totale assenza di configurazioni collettive e di territori di comunicazione di massa nel cinema italiano di quel periodo. Infatti ha scritto che tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta in Italia si è verificata una catastrofe, un cataclisma mediatico irreversibile, un colpo di stato tra il mercato e il consumo audiovisivo4. I registi italiani hanno dovuto affrontare i dettami del mercato e un mezzo, la televisione, che non concedeva loro la libertà di ricercare uno stile individuale o che controllava l’espressione personale. Tale situazione ha reso il film di Bernardo Bertolucci, La strategia del ragno (1970), film onirico e sperimentale a livello stilistico e personale, un punto di riferimento e di conflitto per i giovani registi del tempo, che faticavano ad affermarsi. La carriera cinematografica di Amelio iniziò con una fuga: prima di lasciare il suo paese, dove era insegnante in una scuola pubblica e scriveva recensioni ai film per un giornale locale, il futuro regista disse a sua madre che sarebbe andato a Cosenza. Al contrario, si recò a Roma per non tornare più, nemmeno per andare a trovarla, 2  In Scalzo, Gianni Amelio, cit., pp. 273-274. 3  Crowdus e Georgakas, Beyond Neorealism, cit., p. 207. 4  Introduzione a Montini, Una generazione in cinema, cit., p. 13.

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nemmeno quando morì5. A Roma ebbe la fortuna di lavorare per Vittorio De Seta in Un uomo a metà (1965). Il suo apprendistato ricorda quello delle generazioni passate piuttosto che quello dei suoi contemporanei; per mantenersi e imparare il ‘mestiere’; ha lavorato come aiuto regista in spaghetti western, si è occupato delle sceneggiature e ha realizzato spot pubblicitari. Amelio è stato anche uno dei primi registi a interrompere la tradizione italiana di seguitare lo stile di un maestro o mentore, come nei casi di Visconti/De Santis, De Santis/Lizzani, Visconti/Rossellini/Rosi, Pasolini/Bertolucci, Moretti/Calopresti. Quando Amelio ha poi avuto l’occasione di realizzare i propri film, negli anni settanta, è caduto nella contraddizione di rifarsi sia allo stile tradizionale del grande cinema americano, che amava, sia a quello della Nouvelle Vague, come facevano i registi d’avanguardia del tempo, Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio, entrambi provenienti da famiglie benestanti e istruite. In Italia la televisione ora commissionava film, lasciando poco spazio alla sperimentazione e permettendo solo a pochi neofiti il privilegio di cimentarsi. Ricordando il ruolo che la televisione aveva avuto nelle carriere dei registi della sua generazione, Amelio ha affermato che costoro si trovavano divisi tra un cinema in decadenza e una televisione che stava lentamente incorporando ogni cosa, anche con strutture non rinnovate. Il regista ha aggiunto che i progetti televisivi in quegli anni ebbero un’importanza rilevante, dal momento che senza di loro il cinema italiano sarebbe stato composto esclusivamente da storie poliziesche, commedie e film porno6. L’unica alternativa era quella dei film indipendenti. Nanni Moretti ha iniziato la sua carriera realizzando cortometraggi con la sua Super 8 mm ed è divenuto un modello per una sorta di cinema d’opposizione con la sua reinterpretazione dei mutevoli ruoli politici e culturali dei giovani. Il suo “corto” La sconfitta, girato nel 1973, ritraeva la vita quotidiana e la lotta politica di un giovane gruppo militante di sinistra a Roma. Moretti ha dimostrato un’audacia e un’inventiva che Amelio non avrebbe mai potuto immaginare, per via del suo diverso bagaglio culturale. Mentre la nuova generazione si stava ribellando 5  Per ulteriori informazioni si veda Scalzo, Gianni Amelio, cit., pp. 272-274, 332. 6  In Faldini e Fofi, Il cinema italiano d’oggi, cit., pp. 394-395.

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e stava esprimendo la sua protesta attraverso la creazione di stazioni radio indipendenti7, Amelio, che solo a vent’anni ha scoperto il cinema sperimentale e le riviste cinematografiche, (come «filmcritica – cineforum», «Cinema nuovo» e «Schermo»), e ha capito che era il momento di colmare o superare quelle che considerava le sue carenze culturali. Lui ed i suoi amici erano stati istruiti da Cinema nuovo, guardando film dei fratelli Taviani e di De Seta. Dal 1963 al 1965, collaborarono alla rivista «Giovane Critica» in Sicilia, dove hanno assunto spesso una posizione moderata, considerata ancora troppo militante dalla redazione. Dopo una lunga lotta, Amelio riuscì a pubblicare un numero della rivista con la copertina dedicata all’attore francese Jacques Perrin, prima ancora che l’attore raggiungesse fama internazionale con la creazione, a ventisette anni, di uno studio che girò una serie di film politici, poi riconosciuti a livello internazionale, come per esempio Z-L’orgia del potere di Costa Gravas. Quando gli chiesero che tipo di impatto avesse avuto su di lui il ribelle “Sessantotto”, Amelio rispose di non sapere a che cosa si stessero riferendo: «Perché non chiedere del ’71, dell’ ’82 o del ’65»8. Amelio proseguì dicendo che la sua esperienza più vicina al movimento di protesta fu il suo coinvolgimento come aiuto regista in Il gatto selvaggio (1968) di Andrea Frezza, un film in cui degli studenti veri incitavano gli elettricisti a scioperare per ottenere lo stesso stipendio dei registi. Amelio si è visto costretto a guadagnarsi da vivere facendo la gavetta a Roma, ma allo stesso tempo era arso dal desiderio di acquisire raffinatezza cinematografica. Sentiva di avere uno svantaggio culturale per non aver concluso l’università o per non aver frequentato il Centro Sperimentale, come avevano fatto molti nuovi registi della sua generazione. Perfino l’enfant terrible Moretti aveva fatto domanda al Centro Sperimentale, ma era stato scartato. Al contrario, Amelio si fece strada come aiuto regista, lavorando in ogni genere di film. Aveva un contatto diretto con il settore, faceva tutto nel vecchio stile italiano, ma era tuttavia influenzato dalle tendenze 7  Per quanto riguarda l’importante ruolo delle stazioni radio indipendenti durante gli anni settanta, si veda Radiofreccia (1998) di Luciano Ligabue, I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana e Lavorare con lentezza/Radio Alice (2004) di Guido Chiesa. 8  Amelio secondo il cinema, cit., p. 40.

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del tempo e adottava modelli che non avevano nulla a che fare con la sua prospettiva culturale. Amelio ha poi confessato che fra tutti i registi della Nouvelle Vague era affascinato da Truffaut, nei cui film originali trovava l’eco di tutti i classici americani che preferiva, mentre non è stato mai particolarmente attratto da Godard e dalla sua rivoluzione sintattica. In una conversazione con Fofi, Amelio afferma di rifiutare il concetto di «film che fanno pensare» in quanto tale definizione implica l’idea che per la gente prima del film non esistessero opinioni, bensì di preferire i film che suscitano emozioni nelle persone, siano queste il pianto o il riso9. Il cinema italiano è stato sempre diviso in due campi che si escludono a vicenda: i film commerciali e i film di qualità, ma tale distinzione si è fatta estrema negli anni settanta durante una prolungata crisi produttiva, e quando il ruolo della televisione pubblica nel finanziamento di film di qualità è aumentato e solo i registi già affermati, quali Vittorio e Paolo Taviani, Fellini, Lizzani, Bellocchio, Olmi e Rosi, ricevevano finanziamenti per il grande schermo. Bernardo Bertolucci era già entrato a far parte del sistema euro-hollywoodiano per raggiungere un pubblico internazionale, rielaborando lo stile di Hollywood con motivi neorealisti. Per alcuni critici il fatto che fosse costretto ad appoggiarsi a co-produttori era un altro segnale del declino dell’industria cinematografica italiana e degli effetti della recessione. Ad eccezione di film innovativi dal punto di vista tematico e stilistico, quali Io sono un autarchico (1976) ed Ecce bombo (1978), il cinema italiano era confinato ai valori tradizionali: risate facili, conflitti padre/figlio, minacce di adulterio della moglie quasi mai concretizzate e ragazzi che incontrano ragazze in vacanza. Secondo Mary P. Wood, la televisione commerciale ha giocato un ruolo determinante nel rapido diffondersi di film basati sul sesso10. La situazione complessiva è riassunta da Piero Spila, il quale afferma che in un momento di crisi generalizzata e ricco di contraddizioni, in un’epoca di videoclip ed elettronica, è praticamente impossibile dominare la realtà delle nuove tendenze e c’è sempre meno spazio per la sperimentazione d’autore11. 9  Ivi, p. 104. 10  Italian Cinema, cit., p. 22. 11  Esordire stanca, in Montini, Una generazione in cinema, cit., p. 29.

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Il dramma vissuto dagli aspiranti registi di quegli anni, che vedevano i loro sogni ostacolati dalla nuova realtà, era intensificato nel caso di Amelio dalla sua formazione culturale e dalla sua posizione contraddittoria nei confronti del cinema sperimentale. Il primo punto emerge dal suo tema ricorrente dell’essere antropologicamente in ritardo o fuori dalla storia. Il secondo punto emerge all’inizio della sua carriera attraverso la sua relazione ambigua con il cinema di Bertolucci, che raggiunge il culmine nel documentario Bertolucci secondo il cinema (1976). Alla sua uscita, in un’intervista, Amelio definì quest’esperienza come un momento chiave, nonché il lavoro più semplice in cui si fosse mai cimentato, dal momento che non era né un aiuto regista, né un regista, ma un semplice osservatore esterno. Amelio aggiunse che tutto ciò che ha realizzato in seguito a questa esperienza liberatoria è stato spinto da un desiderio e da un amore viscerale per il cinema di narrazione, per quello americano e per la cosiddetta cinematografia classica12. Negli anni settanta Amelio realizzò sei film per la televisione: La fine del gioco (1972), La città del sole (1973), Bertolucci secondo il cinema (1976), La morte al lavoro (1978), Effetti speciali (1978) e Il piccolo Archimede (1979). Questi lavori mostrano le sue profonde radici nella cultura filmica, ma anche un originale linguaggio cinematografico con la telecamera ed esprimono la sua ricerca di una voce, uno stile, uno sguardo e un linguaggio nuovo. Inoltre lo hanno aiutato a conciliare la sperimentazione e la narrazione tradizionale cinematografica all’interno dei limiti del mezzo e dello spazio offerto dalla televisione pubblica. Una linea comune si sviluppa dai primi film di Amelio attraverso quelli che hanno ottenuto un riconoscimento mondiale. Oltre ai temi principali incentrati sulle relazioni padre/figlio o insegnante/allievo, l’utopia vi compare sotto varie forme. La ricerca personale del regista su cosa sia e che cosa rappresenti il cinema appare in La fine del gioco, nel confronto tra il reporter televisivo e il ragazzo del riformatorio. Amelio non solo vuole mostrare le condizioni di vita dei protagonisti, ma vuole migliorarle nell’atto di rappresentarle. Il cineasta mostra coscientemente i rischi di incasellare il suo lavoro in una prassi convenzionale, che non lancia sfide sostanziali, ma riapre la discussione. Stilisticamente il film 12  In Faldini e Fofi, Il cinema italiano d’oggi, cit., p. 149.

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mostra il conflitto fra il cinefilo e un autore che affronta la propria autobiografia, il proprio paesaggio e la propria identità e che cerca un linguaggio a loro fedele e in grado di preservare la sua libertà tematica dentro o fuori dal testo. Il suo Bertolucci secondo il cinema fu un’esperienza terapeutica. Il documentario era così inconsueto che, quando fu presentato a Parigi, Antonioni era molto dispiaciuto che avesse rotto le convenzioni degli speciali che venivano fatti allora sui film. Questo lavoro mescola la creatività di un film con il documentario e lo speciale, diventando un precursore dei backstage cinematografici. In seguito Amelio ha esplorato vari generi (il thriller, la teoria filmica, la referenzialità cinematografica, gli esperimenti con la psicologia dei suoi personaggi e col mezzo stesso) in due brevi e fantastici film sul mondo della produzione cinematografica. In La morte al lavoro, per esempio, una ripresa di undici minuti rende omaggio a Hitchcock. Aprendosi e terminando sull'inquadratura della schiena di un personaggio, dà l’illusione di una ripresa unica e continua, accompagnata da un pezzo musicale di Herrmann scritto per Hitchcock, ma da lui non completamente utilizzato. Questa sorta di bravata cinematografica caratterizza la prima fase della carriera di Amelio. Negli anni novanta Amelio parla di questi lavori come di esercizi privati e personali. Chiunque li abbia realizzati, disse, dovrebbe cospargersi il capo di cenere e chiedere perdono13. Il piccolo Archimede rappresenta un film più compiuto in cui il regista è stato in grado di scrollarsi di dosso molte preoccupazioni che lo avevano oppresso. All’età di trentacinque anni egli ha voluto lavorare con una cinepresa e confrontarsi con una storia che mostrasse due bambini e due culture diverse, scritta da uno straniero che osserva la Toscana. Tre anni prima, in Novecento (1976), Bertolucci aveva filmato le battaglie dei contadini dell’Emilia Romagna per l’uguaglianza sociale in inglese – in seguito doppiato in italiano – con star internazionali, creando ciò che è ora conosciuto come una spettacolarizzazione del marxismo. Amelio è stato il primo regista a far parlare i suoi protagonisti in inglese con i sottotitoli in italiano in un periodo in cui, negli studi della televisione pubblica, ogni programma ed ogni film erano doppiati. Questo gesto può anche 13  Ivi, p. 401.

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essere letto come il confronto continuo di Amelio con il suo rivale, l’invidiato e ammirato Bertolucci. Riprendendo in considerazione i suoi primi lavori, Amelio afferma che il controllo dimostrato nei suoi primi due film era spontaneo e dettato dal budget ristretto e dal tempo limitato. La maggior parte dei film fu realizzata in tre o quattro settimane. La città del sole, secondo lui, esibisce un amore narcisistico per la cinepresa. La composizione della cornice mostra un’attenzione raffinata, con riferimenti a dei pittori. Interrogato sulla questione, Amelio ha affermato che si trattava di un fatto casuale, dal momento che non aveva preso a modello nessun quadro specifico, e che forse era il risultato del suo desiderio di realizzare un’opera che differisse dai film per la televisione di Rossellini sui personaggi storici. Amelio riteneva che girare una biografia storica avrebbe oscurato il messaggio utopico del film. In merito a questo, nel 1973, ha affermato che non vi erano nel film riferimenti specifici al diciassettesimo secolo, alle condizioni della campagna calabrese e nemmeno ai tribunali e all’Inquisizione. La storia, secondo il regista, è come la terza lente dell’obiettivo, che cerca di illuminare gli angoli bui o di provocare emozioni da brivido, anche quando ciò che è mostrato può apparire distante14. Anche se Amelio stesso ha criticato i suoi primi lavori e ha spesso affermato che i critici hanno messo in luce elementi che non aveva pianificato o dei quali non era consapevole, La città del sole fu il risultato di una lunga meditazione che, a partire dal liceo, era continuata durante i suoi anni all’università. Da un punto di vista critico, dobbiamo riconoscere la sua abilità nel connettere la storia a temi che appartengono al suo mondo e che ricompaiono in tutti i film: il cinema, la storia, la filosofia, il rapporto tra Nord e Sud, il confronto tra culture e generazioni diverse, l’adolescenza vista come un nodo dolente, l’infanzia vista come il rimorso o la proiezione dell’adulto. Le sue idee ricorrenti riguardo all’utopia, per esempio, sono espresse dall’intellettuale che ritiene che la generazione a venire può proseguire la rivoluzione o perlomeno spingersi oltre la sua. La crisi di un adulto che si ripercuote su un bambino, nel film raffigura un regista che si nasconde dietro alla cinepresa per proteggersi. In Il piccolo Archimede, un intellettuale sfrutta un bambino e la sua cul14  In Ranvaud e Gibson, Films of Gianni Amelio, cit., p. 20.

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tura per nascondere la sua inabilità ad amare il prossimo. Quando Amelio confessò di aver utilizzato la cinepresa in La città del sole per evitare di avvicinarsi troppo ai personaggi e per nascondere la sua stessa insicurezza riguardo al loro sviluppo, rese chiaro quanto fosse cresciuto il suo talento nello sviluppare i personaggi attraverso le immagini e i silenzi. Da quanto dice delle sue paure nel girare Bertolucci secondo il cinema, si comprende come il fatto di guardare Bertolucci mentre girava il proprio film abbia aiutato Amelio a superare le sue insicurezze. È chiaro anche che questa fase della sua carriera è stata una sorta di lotta di classe nei confronti di un artista che era socialmente e culturalmente privilegiato. L’incapacità dei protagonisti di raggiungere i propri obiettivi alla fine di Il piccolo Archimede o La fine del gioco rimanda a personaggi futuri che cadono addormentati prima che le loro storie finiscano. Più che un semplice espediente per concludere il film, questo gesto dà al pubblico il tempo per riflettere sul valore e sul significato dei loro ruoli. Nei film ispirati ad altre fonti letterarie, Amelio si lascia il testo scritto alle spalle. Il regista mostra come sia necessario rimanere fedeli al proprio mondo, lavorare rispettando le sue regole ed evitare di realizzare un film basato sui dettami di un altro artista o di un altro mezzo espressivo. Amelio si affida a questi principi nel realizzare La chiavi di casa, ispirato al romanzo di Pontiggia, e nel suo libero adattamento di La dismissione di Rea in La stella che non c’è. Nel suo uso delle luci, dei materiali e perfino nel suo debole per gli oggetti del passato (che ammira perché sono finiti, smarriti, irripetibili), o ancora nei colori utilizzati in Effetti speciali e La morte al lavoro, Amelio mette in luce la sua abilità nel ricostruire un periodo e un’atmosfera che ricompare in Così ridevano e in alcune scene di Lamerica. Nonostante i suoi primi film non fossero destinati al grande schermo, Amelio si pose ugualmente la questione del pubblico. Un film è diretto agli spettatori e il suo problema era quello di far arrivare loro la sua opera, il che dipende non solo dal regista, ma anche dalle circostanze e dalle strutture. Quando La città del sole uscì a Parigi, fu accolto con successo e trasmesso per tre mesi consecutivi. In Italia venne trasmesso un sabato in bianco e nero. La televisione può garantire un pubblico, ma questo è diverso da quello del grande

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schermo ed ha determinate aspettative che devono essere tenute in considerazione. Nei primi anni settanta il pubblico del cinema era per la maggior parte urbano, istruito e borghese15. Amelio è sempre stato consapevole del ruolo degli spettatori e della loro relazione con i film. Per il regista, un film è contemporaneamente un prodotto artistico sia personale sia rivolto agli altri. Amelio riteneva che l’indifferenza per il pubblico dimostrata da molti registi durante gli anni settanta fosse per lo più un alibi. Se da un lato egli afferma che un regista non dovrebbe mitizzare il pubblico o realizzare un film pensando alla reazione degli spettatori, dall'altro ritiene che sia essenziale non tralasciarlo completamente. Per Amelio un film non visto è come un pianoforte che non viene suonato. Durante il lungo periodo passato a lavorare per la televisione pubblica, egli avvertiva che alla nuova generazione che si era affacciata al lavoro di regia non fosse consentito trovare una propria identità, forse a causa del mancato rapporto con il pubblico. I film di questo periodo, incluso I velieri (1983), furono realizzati in condizioni di produzione piuttosto rigide. Nonostante i limiti del mezzo e del suo pubblico, la televisione ha concesso una certa libertà artistica ad un regista come Gianni Amelio, il quale ammette di essersi sentito protetto dalle varie offerte di lavoro nel momento in cui molti dei suoi progetti cinematografici venivano declinati. La sua gratitudine era rivolta alla protezione che la televisione gli accordava dai rischi con i produttori e con il pubblico. Il suo rapporto con i committenti, che non erano affatto poco sofisticati, procedettero senza troppe tensioni. La sua reputazione come auteur, guadagnata durante i suoi dieci anni di lavoro per la televisione, gli diede l’opportunità di realizzare Il piccolo Archimede, un film che Enzo Porcelli riuscì a far finanziare attraverso un pacchetto RAI-Gaumont. Questo lavoro aprì le porte a Colpire al cuore. L’attrice Laura Betti, che interpretò un ruolo principale in quel film, comprese l’importanza di questo momento nella carriera di Amelio, riconoscendo che le debolezze e le insicurezze del regista erano dovute alla copertura garantita dalla televisione pubblica. Secondo l’attrice, Amelio e Giuseppe Bertolucci erano gli unici due esordienti bravi e capaci16. 15  Wood, Italian Cinema, cit., p. 22. 16  In Faldini e Fofi, Il cinema italiano d’oggi, cit., p. 401.

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Non si può scrivere una storia del cinema italiano senza considerare i film di Amelio realizzati per la televisione, i quali tracciano la sua evoluzione artistica e forniscono una prospettiva sulla produzione e la distribuzione negli anni settanta. In Italia, i suoi primi film, hanno ottenuto il favore del pubblico e ogniqualvolta sono stati trasmessi all’estero hanno ricevuto dei premi. Durante l’Edinburgh Film Festival del 1983, sono state presentate le sue prime opere nella prima retrospettiva dedicata a lui all’estero e, nello stesso anno, è stato pubblicato un libro sui suoi film. Nell’introduzione Don Ranvaud riassume chiaramente il percorso unico di Amelio fino ad allora, definendolo un regista inventato dalla televisione, salvato dai cinefili ai film festival e sotterrato dai burocrati del piccolo schermo. L’autore prosegue affermando che senza la RAI Amelio non avrebbe potuto realizzare alcuni film, ma che allo stesso tempo è stata proprio la RAI a non averli valorizzati a sufficienza. Amelio è così un testimone impotente della loro scomparsa sotto i colpi della SACIS, che per definizione fissava i prezzi di tutto (in cash) ed il valore di nulla (in termini culturali). D’altro canto, continua Don Ranvaud, la RAI esportava il prestigio di coloro che erano già stati consacrati dal grande schermo17. Con Colpire al cuore (1982), Amelio ha raggiunto un successo di critica (ma non quello commerciale), oltre a numerosi riconoscimenti durante i festival per film artistici e sperimentali, nei club e nei circuiti privati. Il film segna un drammatico punto di svolta nella sua carriera e nel suo percorso artistico e giunge dopo un’esperienza complessa. È il primo film dopo la La fine del gioco ad occuparsi di temi attuali, anche se forse lo fa timidamente. Amelio ama ricordare al pubblico che il film gli era stato commissionato e, in un primo momento, fu indeciso se accettare l’offerta o meno. Poi ascoltò un aneddoto in voga in Italia durante gli anni del terrorismo: un intellettuale molto conosciuto era solito ricevere telegrammi che leggeva con apprensione, fino a che il figlio chiese alla madre, o direttamente al padre, se fosse coinvolto con il terrorismo. Questa fu la scintilla per il film di Amelio. Il lavoro richiese uno sforzo notevole e quando il film fu criticato, ostracizzato e rifiutato, il regista ebbe una crisi d’identità. Come punizione non tanto per aver realizzato un brutto 17  Ranvaud e Gibson, ed., Films of Gianni Amelio, cit., p. 4.

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film, quanto per aver commesso “una cattiva azione”, la televisione pubblica non distribuì la pellicola e fece trascorrere cinque anni prima di trasmetterla una seconda volta. Dal 1983 al 1988, Amelio rifletté e studiò a lungo mentre insegnava regia al Centro Sperimentale. Sperimentando con gli studenti e con se stesso, riuscì alla fine a migliorare le sue conoscenze tecniche e trovò la sua nuova strada. Dopo un lungo periodo di inattività, venne inaspettatamente contattato per realizzare un film per la televisione, I ragazzi di via Panisperna, che fu in seguito ripensato per il grande schermo. Nonostante Amelio lo abbia ripudiato, non sentendolo completamente suo, questo film gli diede l’opportunità di raggiungere una certa fama e di scoprire che poteva essere un cinefilo e un regista in grado di sviluppare complesse relazioni personali e di cogliere le dinamiche di un gruppo in un momento storico cruciale. Il film segna un punto di svolta nel suo cinema: il confronto fra Majorana e Fermi è un conflitto generazionale che va oltre le dispute padre/figlio, insegnante/allievo rappresentate nei suoi film precedenti, per diventare un confronto tra la risoluzione e il compromesso da un lato e la trasgressione (incluse le preferenze sessuali) dall’altro. Il successo della versione televisiva aprì le porte al primo film di Amelio al di fuori della televisione pubblica. In Porte aperte, con la collaborazione di Vincenzo Cerami, Amelio trasformò la storia di Leonardo Sciascia in un’opera per il grande schermo, modificando e sviluppando i personaggi e inserendo alcune scene, come quella del ragazzo nell’ospedale per vecchi mentre graffia il muro con una chiave, o il confronto fra il giudice e Scalia. Amelio cattura l’atmosfera e la psicologia dei personaggi con un’analisi esemplare di un mondo corrotto, dove i privilegi sono utilizzati per nascondere la verità e le vittime sono costrette a conformarsi. Porte aperte rivelò l’abilità di Amelio nel riutilizzare gli elementi del thriller americano e nel modificare il “dramma da tribunale” con tocchi di maestria, a dimostrazione di una profonda cultura cinematografica. Il risultato è un film quasi commerciale, che si aggiudicò una nomination all’Oscar e una distribuzione a livello mondiale. Il riconoscimento personale per il regista arrivò più tardi, quando il produttore A. Rizzoli gli permise di realizzare un film tutto suo:

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Il ladro di bambini (1992). In questo film Amelio mostra la sua insoddisfazione nei confronti dell’Italia contemporanea, usando l'accorgimento del non detto e affidandosi alla sua “dimensione morale” e al suo sguardo realista per ritrarre la sua utopia nascosta: l’armonia tra l’innocenza e la maturità in una fuga dai falsi valori del sistema sociale e dalla corruzione morale. Il ladro di bambini fu il primo film a rappresentare una storia e un prodotto davvero suoi. Amelio si spinse verso un genere di film in cui si arrende ai sentimenti, cosa che lo ha aiutato, assieme ad altri elementi, ad essere consacrato come il discendente vivente del neorealismo. In Italia e all’estero per molti Amelio fu una rivelazione e i critici fecero fatica a capire in quale categoria inserirlo. Quelli che conoscevano molto poco i suoi lavori per la televisione, lo inclusero nel gruppo del nuovo cinema italiano, senza tenere in considerazione che nei primi anni ottanta egli era già stato notato come uno dei nuovi registi alla base della ripresa del cinema italiano. Dopo Il ladro di bambini, alcuni critici coniarono addirittura il termine neo-neorealismo per distinguere i nuovi film che affrontavano temi sociali contemporanei, un’etichetta che si basava unicamente sul contenuto. Entrambe le categorizzazioni forniscono un quadro ridotto su registi con diversi bagagli culturali e stili. Negli anni novanta molti gruppi in tutta Italia stavano cercando di realizzare film, ma non esisteva nessun movimento accomunato da uno scopo artistico o addirittura ideologico. Nell’esporre la differenza tra i registi del dopoguerra e la generazione di Amelio, Manuela Gieri scrive che i primi condividevano lo stesso progetto, ovvero quello di costruire un nuovo cinema per un nuovo Paese, mentre gli ultimi non erano caratterizzati da alcun legame18. Gli sforzi dei nuovi registi riflettono il frammentato sistema di finanziamento e di distribuzione e la decentralizzazione del cinema italiano, che rispecchia a sua volta i cambiamenti sociali ed il fatto che il cinema ha perso la centralità del suo ruolo culturale. Wood spiega così la complessità della produzione cinematografica al giorno d’oggi: i film individuali e non convenzionali devono essere realizzati con quel settore dell’industria dei media che offre loro un budget limitato e che deve spesso ricor18  Contemporary Italian Filmmaking. Strategies of Subversion, Toronto, University of Toronto Press, 1995, p. 199.

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rere al supporto finanziario dello Stato o ad accordi di co-produzione con la televisione; le produzioni a medio budget, sempre con il supporto finanziario della televisione, devono rivolgersi ad un pubblico misto; i film a budget elevato devono essere sfruttati al massimo, in quanti più luoghi e forme possibili. Inevitabilmente quest’ultimo genere di film stringe accordi finanziari complessi, inclusi i finanziamenti delle maggiori case di produzione e distribuzione19. Negli anni sessanta molti registi italiani presero le distanze dal neorealismo, abbracciando film di genere e cinema d’autore. Dopo una prima fase, in cui si era rivolto sia ai film di genere sia d’autore, negli anni novanta Amelio torna ad uno stile vicino a quello del suo primo film. Amelio rifiuta la sua presunta appartenenza al neorealismo per ragioni storiche e mette in discussione la legittimità di accorpare sotto un’unica etichetta i registi del dopoguerra, tutti così diversi dal punto di vista stilistico. Il regista afferma puntualmente che il neorealismo non può essere sottoposto a semplificazioni. In primo luogo, il neorealismo si rifà ad un periodo storico ben preciso che va dalla fine della guerra ai primi anni cinquanta. Amelio ritiene che non esistano registi più diversi tra loro dei tre considerati neorealisti per eccellenza, De Sica, Rossellini e Visconti. Quale tra questi, si domanda pertanto Amelio, è veramente neorealista? Risulta chiaro che in questo campo ognuno ha la propria opinione ed è pressoché impossibile stabilire dei confini precisi e creare delle categorie oggettive. Per queste ragioni Amelio ritiene che definire Il ladro di bambini un film neorealista sia fuori luogo. Ciò che il regista ammette è l’influenza determinante che il neorealismo ha avuto nella sua carriera, in quanto italiano che è cresciuto guardando quei film20. Come osserva Amelio, i registi del dopoguerra avevano stili diversi, seppur accomunati dallo stesso sguardo morale, nell’esplorare soggetti, controversie e storie che erano rare nel cinema precedente. Il ladro di bambini di Amelio e tutti i film che realizzò in seguito continuano quella tradizione. Allo stesso tempo i suoi film sono caratterizzati da una intensa consapevolezza della cultura cinematografica del passato e il regista rende tale consapevolezza un elemento esplicito della sua produzione cinematografica. Il fatto che i nuo19  Italian Cinema, cit., p. 30. 20  Beyond Neorealism, cit., pp. 197-209.

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vi registi siano influenzati dalle opere della generazione precedente non è nulla di nuovo e nel cinema, come in altre arti, è addirittura inevitabile. Nei film realizzati dopo Porte aperte, l’intertestualità e l’interrelazione fra i testi, l’assorbimento e la trasformazione dei contenuti e i riferimenti incrociati a film precedenti, allo scopo di proporre uno o più temi da una prospettiva differente, diventano degli elementi costanti. Questo è ancora più vero dal momento che i suoi film affrontano argomenti quali l’unificazione d’Italia, l’emigrazione interna, la memoria storica e l’industrializzazione, temi di cui si occuparono anche i registi neorealisti nel momento in cui l’Italia stava subendo una trasformazione e stava ricostruendo una nuova identità dopo il fascismo. A partire da Porte aperte, Amelio ha portato a compimento una rivisitazione del passato storico e, essendo un cinefilo, ha anche lavorato sulla relazione tra il cinema italiano del presente e la sua eredità cinematografica.

Dove collocare il cinema di Amelio Amelio ha raggiunto la propria identità artistica dopo un lungo e laborioso apprendistato, basato sull’osservazione e sulla collaborazione con altri registi e attraverso una rielaborazione di stili e generi nei suoi film. Il suo stile caratterizzato dalla sottrazione e dal non detto è basato su una dimensione morale, diffusa attraverso uno sguardo che rivela i messaggi con le immagini e compone attentamente sequenze, gesti e silenzi. Amelio suddivide la sua carriera in due fasi distinte: la prima da aiuto regista e la seconda da regista, entrambe caratterizzate da una certa schizofrenia. Amelio racconta che del suo primo periodo rimangono le conoscenze tecniche e il contatto con l’ambiente, ma niente di questo è stato riutilizzato in ciò che voleva esprimere come regista, perché da regista è tornato ai film che aveva amato da spettatore, che non erano italiani. Amelio è convinto del fatto che, fra tutte le altre esperienze, La fine del gioco sia stata quella che gli ha indicato la strada che doveva seguire21. La fine del gioco riflette sul ruolo del cinema e del regista e sceglie il Sud come suo spazio. Il viaggio, un ragazzo e la marginaliz21  Amelio in Faldini e Fofi, Il cinema italiano d’oggi, cit., p. 153.

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zazione sono i suoi argomenti. Con Il ladro di bambini, la prima storia che poté girare veramente come desiderava, la sua cinefilia si è spostata più verso l’eredità cinematografica italiana, senza abbandonare completamente la sua cultura filmica americana e mondiale. Amelio ha spiegato questo cambiamento quando ha affermato di essere giunto alla conclusione che il realismo è stata l’unica via per arrivare alle cose, dal momento che tutte le altre sembravano tradire le sue origini22. Il cinema di Amelio negli anni novanta intreccia alcune influenze da Hollywood ben filtrate, il neorealismo e i migliori melodrammi italiani. Il regista mette assieme la storicità di Visconti attraverso il dramma famigliare e la capacità di Rossellini di essere là dove si sta facendo la storia, utilizzandoli per mostrare come il fascismo, l’utopia comunista, il consumismo ed il capitalismo abbiano tutti fallito per diverse ragioni. Senza fare film politici, egli ha anche toccato gli effetti della globalizzazione o della post-industrializzazione, in La stella che non c’è, in cui con il realismo poetico di De Sica ritrae la vita di un bambino cresciuto senza padre. I sentimenti di Luigi Comencini sono manifesti in La chiavi di casa, che mostra il dolore e la gioia dei disabili e di coloro che vivono con loro, mentre la bellezza delle composizioni di Valerio Zurlini trova espressione in questa interpretazione di passioni e conflitti famigliari. L’influenza di Antonioni appare nell’abilità di Amelio di fare un tutt’uno dei personaggi e dell’ambientazione e di catturare i loro sentimenti senza affidarsi alla parola, com’è evidente in Il ladro di bambini e La stella che non c’è. Lamerica, come Germania, anno zero di Rossellini, trasmette l’impressione di trovarsi di fronte ad una commistione fra documentario e finzione. Oltre alla passione per la storia e al desiderio di utopia, Amelio condivide altresì con Giuseppe De Santis il bisogno di dichiarare la sua autorità di regista, sebbene con molto più controllo. Entrambi, inoltre, ambientano la maggior parte dei loro film al Sud o hanno dei meridionali come protagonisti, il primo con il desiderio di cambiare e migliorare il futuro di quella regione, il secondo per mostrarne l’impoverimento civile. Amelio mostra la fine dell’utopia di De Santis e ne propone una propria, basata sulla riscoperta dell’importanza dei valori umani e del rispetto per i più deboli. Parlando 22  Amelio secondo il cinema, cit., p. 60.

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della sua abilità di inserire i suoi interessi personali all’interno dei temi principali che i suoi film toccano in maniera indiretta, Amelio spiega che nei limiti della cornice di tali temi è in grado di esprimere i suoi messaggi personali più di quanto farebbe se non avesse nulla a cui appoggiarsi. Se così non fosse, il suo imbarazzo e la sua autocensura gli impedirebbero di metterli in evidenza23. Dopo i cambiamenti stilistici degli anni novanta, è stato semplice per i critici classificare il cinema di Amelio all’interno delle vaste coordinate del neorealismo o di uno pseudo-neorealismo, specialmente all’estero, dove ogni film italiano con uno sguardo sociale e con bambini come protagonisti è paragonato al cinema del dopoguerra ed etichettato come neorealista. Le opere di Amelio sfuggono alla definizione, nella misura in cui è chiara la distinzione tra cinema d’autore e cinema della soggettività. Come ha spiegato Goffredo Fofi, la differenza tra Amelio e la Nouvelle Vague e, aggiungerei io, Nanni Moretti, risiede nell’abilità di Amelio di realizzare film privi di narcisismo. Per esempio, la trilogia sull’emigrazione cela la sua autobiografia, ma pur essendo egli il narratore della storia, non vi è presente. Amelio non si identifica con i protagonisti e non rivela se stesso come autore, confrontandosi con Rossellini in un discorso metacinematografico. Amelio crea un tipo di narrazione in cui la soggettività è rivelata attraverso un forte stampo d’autore, senza tuttavia modellare il linguaggio del film e la storia in modo da adattarsi ai suoi impulsi e stimoli personali. Amelio è l’autore ma non il soggetto della sua stessa narrazione24. Inoltre, a differenza di molti film italiani, compresi i capolavori principali, il cinema di Amelio si presta a molteplici letture, spesso contraddittorie fra loro. Tra ciò che il film mostra e il suo discorso, gli interessi tematici si diramano e premono verso urgenze utopiche e irrazionali, come in I ragazzi di via Panisperna, Porte aperte, Il ladro di bambini e La stella che non c’è. Nella sua trilogia sull’emigrazione, Amelio aspira a mostrare il disastro morale, politico e sociale dell’Italia moderna, contrapponendo un’immagine della situazione attuale al passato e utilizzando temi importanti, quali il boom 23  In Craig Jacoby, The Hidden Agenda of Gianni Amelio, http://www.chass.utoronto. ca/~cristian/essays.htm#Jacoby. 24  Per maggiori dettagli si veda Amelio secondo il cinema, cit., p. 15.

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economico della fine degli anni cinquanta, la riforma dell’istruzione e l’emigrazione stessa, per ricordare agli italiani le opportunità sprecate per creare una società migliore. Ai termini quali “sobrietà”, “delicatezza”, “ambiguità” e “passioni controllate”, che sono spesso utilizzati per descrivere i suoi film, Amelio aggiungerebbe rispetto, parola che secondo il regista contiene e trascende le altre. Credo che questo termine, a lui così caro, rispecchi il discorso cominciato nel suo primo film e ripreso di nuovo nei suoi ultimi lavori, mentre si applica meno alla fase intermedia, che è stata ispirata dal suo amore per il cinema e dalla sperimentazione con il mezzo. Il principio che sta dietro alla parola rispetto è alla base dell’approccio realista di Amelio alla cinematografia. Se guardiamo alla sua decisione di abbracciare il realismo come metodo per comunicare, allora diventa più semplice comprendere che cosa intenda per rispetto e che cosa risieda alla base dei suoi film e delle sue idee in merito alla recitazione e alla regia. Durante la fase intermedia, che Amelio stesso ha ripudiato, il regista aveva giocato con la cinepresa e con il mezzo espressivo. Durante i successivi cinque anni passati a riflettere, a studiare e ad insegnare, Amelio ha compreso di voler realizzare qualcosa di diverso: «Ho sempre sentito che il cinema ad un certo punto dovesse scomparire, dissolversi, nascondersi». A quel punto, il cinema è divenuto solamente il mezzo per trasmettere ciò che era diventato più importante per lui rispetto al paradigma classico: il rispetto per il mondo, per i personaggi e per il tema. Louis Giannetti spiega che nel cinema tradizionale il paradigma classico è rappresentato da un film forte per ciò che riguarda la trama, gli attori e i valori di produzione, con un alto livello di conquiste tecnologiche e montato secondo le convenzioni del montaggio classico25. Per Amelio, al contrario, la scelta degli attori, del linguaggio e delle tecniche di ripresa assieme a tutti gli elementi della produzione diventano gli strumenti per conoscere, raggiungere e riprodurre il sentimento originale che ambisce a narrare. Una volta che lui stesso, in qualità di regista, è convinto di quel sentimento, tutto il resto passa in secondo piano e può essere tralasciato. La cinepresa, le scelte estetiche e perfino il messaggio finale diventano subordinati rispetto al sentimento originale, che è più importante rispetto al “cinema”. 25  Understanding Movies, New Jersey, Prentice Hall, 1972, p. 442.

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Nell’ultima fase della sua carriera, Amelio ha legato i suoi interessi cinematografici personali agli effetti che le problematiche principali o i temi storici hanno sulle persone. La cosa più importante in quanto regista, ora, è quella di mantenere un dialogo con quel sentimento originale durante tutto il film, tenerlo sempre presente e trovare il linguaggio adeguato per esprimerlo. L’attore Enrico Lo Verso ha descritto Amelio come l’unico regista con il quale avesse lavorato che fosse in grado di cambiare stile a seconda del film che stava realizzando, pur rimanendo coerente con la stessa idea di base, come in Il ladro di bambini, Lamerica e Così ridevano26. Lo Verso attribuisce questa abilità al «sentimento originale» di Amelio, che sta dietro alle sue poetiche cinematografiche ed è legato alla sua «dimensione morale» o all’obbligo morale di essere sincero verso i suoi personaggi, in modo particolare verso quelli che rappresentano l’umanità oppressa. A differenza di altri registi che vivono la loro professione come un divertimento, Amelio vede il suo set come un luogo di dolore e tristezza nella lotta per l’eccellenza e sente che chiunque vi si avvicini con un approccio diverso andrà incontro a dei problemi. Sul set il regista deve tirare fuori il peggio della sua personalità. Per Amelio il peggio è ciò che non conosce di se stesso. Egli deve assumersi dei rischi senza nascondersi o difendersi e, soprattutto, senza mai fingere di essere più importante degli altri o di recitare il ruolo del regista. Questo approccio è pericoloso perché tutte le altre persone sul set si comportano in maniera opposta, nonostante sia assolutamente sbagliato dare per scontato che il resto della troupe sia del tutto consapevole di ciò che sta avendo luogo. Amelio è perfettamente conscio di tale pericolo dopo che ha lavorato per molti anni come aiuto regista. Il regista ritiene che la miglior metafora per descrivere l’ambiente del set sia quella di Fellini: «Il regista è il capitano di una nave che vuole andare ad ovest mentre tutto il resto dell’equipaggio vuole andare ad est»27. Secondo Amelio il filo comune che lega tutti i suoi film è rappre26  Edward Bowen, intervista inedita con Enrico Lo Verso, avvenuta in un bar a Roma il 10 luglio 2005. 27  Per maggiori dettagli si veda Gianni Amelio. Autoritratto, in Sesti, Nuovo Cinema Italiano, cit., pp. 40-42.

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sentato dal suo rifiuto di considerare la recitazione come una professione. In tutti i suoi film, la figura dell’attore è annullata e viene esaltata l’interpretazione. Il lavoro di interpretazione dell’attore è di fondamentale importanza, forse l’elemento più gratificante. «Gianni non dirige un attore; vive in lui» affermò Trintignant, il quale aveva già lavorato in oltre sessanta film quando recitò in Colpire al cuore nel 1982. La visione di Amelio del ruolo dell’attore si confà all’idea secondo cui il cinema deve scomparire. L’attore non dovrebbe recitare ma entrare nei personaggi, i quali a loro volta sono persone e non divi. Il regista è riuscito ad ottenere delle interpretazioni pacate da Laura Betti, Jean Louis Trintignant, Fausto Rossi, Laura Morante, Ennio Fantastichini, Renato Carpentieri, Enrico Lo Verso, Kim Rossi Stuart, Charlotte Rampling, Andrea Rossi e Sergio Castellitto. Alcuni di loro hanno vinto premi cinematografici italiani ed europei come migliori attori o attrici, grazie alle istruzioni di Amelio. Il regista non scrittura facce o corpi, ma professionisti che sono in grado di catturare i pensieri, le personalità e i sentimenti dei personaggi, come fanno in modo particolare Lo Verso, Kim Rossi Stuart e Gian Maria Volonté. Amelio sostiene che l’attore italiano in generale è eccellente quando deve esprimere la propria fisicità, anche in eccesso, mentre non è credibile quando deve stare dietro alla cattedra di un professore, o sedere al banco del giudice, leggere o pensare28. Amelio ha incontrato qualche difficoltà quando ha dovuto lavorare con attori già affermati o con forti personalità. Gian Maria Volonté, in Porte aperte, non capiva molte delle lunghe sequenze di silenzio, (per esempio, l’ultima lunga scena alla fine del film), pertanto Amelio le ha girate senza farglielo sapere. Nonostante alcuni momenti di tensione, Amelio è stato in grado di fare venir fuori la sua professionalità. Il regista ricorda che Volontè era come un co-autore nel film e che si era messo duramente alla prova per identificarsi completamente con il personaggio, nel bene e nel male. Alla fine, racconta Amelio, era riuscito a catturare così intensamente la personalità del personaggio che era come se stesse mettendo se stesso in prigione29. 28  In un’intervista di Lietta Tornabuoni in «La Stampa», 20 aprile 1989. 29  Amelio, Beyond Neorealism, cit., p. 203.

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Quando parla di come si dirige un attore, Amelio non si riferisce alle istruzioni impartite prima o dopo le riprese, ma al lavoro richiesto per costruire un’intimità, che è la sola cosa che permette all’attore di trasmettere le qualità essenziali del personaggio che il regista ha creato. Amelio è talmente protettivo nei confronti dei suoi personaggi da temere che l’attore al quale ha delegato il ruolo ferisca il personaggio modificandone la personalità. L’interpretazione diventa così importante che Amelio non riesce ad affidarsi completamente ad una persona. L’attrice Laura Morante, la terrorista in Colpire al cuore, ricorda di non aver incontrato nessuna difficoltà nell’interpretare quel ruolo, soprattutto grazie a Gianni Amelio, il quale aveva una visione del personaggio molto vicina alla sua. La Morante si fidava del fatto che se avesse seguito le istruzioni di Amelio, il risultato avrebbe soddisfatto anche lei. L’attrice ha confessato inoltre che questa certezza l’ha aiutata a superare il disagio che provava a volte di fronte all’approccio ansioso e nevrotico che Amelio ha nel suo lavoro30. Le sue affermazioni rinforzano l’idea di Amelio secondo cui per trarre il meglio da un’interpretazione l’attore deve sentirsi a suo agio nel set. Il regista vuole che l’attore sia solo in modo da essere pronto quando la cinepresa comincia a girare, momento che il regista considera l’attimo di verità dell’attore. Un regista può montare il suo film a posteriori, ma l’attore ha solo quel momento. Il rapporto che Amelio stabilisce con un interprete prima di girare è critico. Per preparare Charlotte Rampling e Andrea Rossi ai loro ruoli in La chiavi di casa, dovette “costruire” un rapporto con loro. Gianni Amelio è ora uno dei più importanti registi italiani ed europei e fin dall’inizio ha sempre girato film che mostravano una ricca cultura cinematografica. Le sue opere hanno toccato tutti i temi più scottanti del nostro tempo, così come sono stati vissuti da chi è stato direttamente colpito dalle vicende e dai cambiamenti: la pena di morte, la pedofilia, la prostituzione, l’abuso minorile, la corruzione, l’immigrazione, l’amnesia storica, l’emigrazione interna, il razzismo, i conflitti generazionali, la globalizzazione e la post-industrializzazione. Amelio ama utilizzare una struttura che sospende le domande all’inizio, quando i personaggi si incontrano. Le cose iniziano a chiarirsi o a spiegarsi ma non vengono mai risolte. 30  Faldini e Fofi, Il cinema italiano d’oggi, cit., p. 623.

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Tutti i film di Amelio mettono in luce la sua abilità nel lavorare con attori professionisti e non, ma eludono le etichette di postmoderno, picaresco, neorealista e neo-neorealista. I suoi film dimostrano anche il suo grande amore per il cinema, la sua ricerca appassionata nel reinventare stili, generi e linguaggi, un acume politico senza intenti manichei o didattici e una forte sensibilità psicologica.

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Immagini*

* Le fotografie sono state gentilmente fornite da Gianni Amelio

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Dorian Gray – pseudonimo di Maria Luisa Mangini – una delle attrici degli anni cinquanta preferite da Amelio.

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L'attore Gian Maria Volonté è il giudice Vito Di Francesco con la giovane figlia Carmelina (Eleonora Schininà) in Porte aperte.

L'attrice Laura Morante è Giulia in Colpire al cuore.

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L'ultimo abbraccio tra Dario – il padre – (Jean-Louis Trintignant) e suo figlio – Emilio – (Fausto Rossi) in Colpire al cuore.

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L'addio tra Dario (Jean-Luois Trintignant) e Giulia (Laura Morante) in Colpire al cuore. Il fratello maggiore Giovanni Scordia (Enrico Lo Verso) è operaio a Torino in Così ridevano.

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Il fratello minore Pietro Scordia (Francesco Giuffrida) in Così ridevano.

Può l'amore essere asfisiante? Giovanni Scordia (Enrico Lo verso) e Pietro Scordia (Francesco Giuffrida) in Così ridevano.

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La stazione ferroviaria a Torino: arrivo di immigranti del sud in Così ridevano.

Una famiglia pugliese con Pietro Scordia (Francesco Giuffrida) alla stazione ferroviaria in Così ridevano.

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Giovanni Scordia (Enrico Lo Verso) coi libri del fratello in Così ridevano.

Enrico (Ennio Fantastichini) conforta Ettore (Andrea Prodan) ne I ragazzi di via Panisperna.

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L'attrice Rita Hayworth è Gilda, in Gilda di Charles Vidor che ha ispirato Amelio all'età di quattro o cinque anni a diventare regista.

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Le formule matematiche sono giochi divertenti per Ettore (Andrea Prodan) ne I ragazzi di via Panisperna. Jean, (Raphael Mendez De Azeredo) il ragazzo dodicenne in I velieri dall'omonimo racconto di Anna Banti.

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Ettore (Andrea Prodan) in fuga dai propri fantasmi in Sicilia ne I ragazzi di via Panisperna.

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Emilio (Fausto Rossi) in Colpire al cuore e Luciano (Giuseppe Ieracitano) ne Il ladro di bambini.

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Antonio Criaco (Enrico Lo Verso) conforta Rosetta (Valentina Scalici) dopo che la sua vera identità è stata smascherata alla festa della prima comunione ne Il ladro di bambini.

Antonio Criaco (Enrico Lo Verso) impegnato in un “discorso tra uomini” con Luciano (Giuseppe Ieracitano) ne Il ladro di bambini.

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Il carabiniere Antonio Criaco (Enrico Lo Verso) arriva in ritardo alla stazione dove sta per iniziare il suo viaggio con Luciano e Rosetta ne Il ladro di bambini. Un primo piano di Rosetta (Valentina Scalici) ne Il ladro di bambini, una delle più toccanti figure femminile del cinema italiano contemporaneo.

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Antonio Criaco (Enrico Lo Verso) che, in modo paterno, insegna a nuotare a Luciano (Giuseppe Ieracitano) ne Il ladro di bambini.

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Due immagini delle difficoltà vissute dai bambini in un mondo privo di una vera guida: Rosetta (Valentina Scalici) ne Il ladro di bambini e Guido (Aldo Salvi) ne Il piccolo Archimede.

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L'attrice Laura Betti è la Signora Bondi ne Il piccolo Archimede, ha ricevuto il premio miglior interprete femminile al San Sebastian Film Festival del 1979.

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Luigi Valentino è Leonardo, il dodicenne ragazzo calabrese della scuola del riformatorio nel primo film di Amelio La fine del gioco.

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Sull'autobus in fuga dall'Albania in Lamerica.

Gino Cutrari (Enrico Lo Verso) senza passaporto e la sua ex identità italiana, in cerca di un modo per raggiungere l'Italia come tutti gli Albanesi in Lamerica.

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Gino Cutrari (Enrico Lo Verso) febbricitante e indigente, sarà costretto a mangiare il latte e il formaggio lasciatigli da Michele.

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Spiro, alias Michele Talarico (Carmelo Di Mazzarelli) in Lamerica, un personaggio che ricorda agli spettatori italiani il loro passato dimenticato.

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L'attore Renato Carpentieri è Consolo, il contadino intellettuale e giudice popolare in Porte aperte.

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Amelio sul set mentre prova gli obiettivi.

Amelio con la sua troupe sul set di Lamerica.

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Amelio pronto a dare il via libera ai suoi attori.

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L'attore Giulio Brogi è il monaco Campanella ne La città del sole.

Amelio con l'attore Enrico Lo Verso sul set di Lamerica.

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Amelio e l'attore Gian Maria Volonté sul set di Porte aperte durante la scena al cimitero.

Amelio riposa mentre ascolta il suo cameramen.

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Conversazione con Gianni Amelio nella sua casa a Roma il 12 marzo 2007

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AV. Sei nato a San Pietro Magisano, in provincia di Catanzaro, sui monti della Sila, un piccolo paesino di 400-600 abitanti, e tutti hanno dei parenti all’estero. Quando eri bambino, la maggior parte dell’emigrazione era rivolta verso il Sud America. Ho letto e sentito diversi resoconti sul ritorno di tuo padre e sul suo secondo matrimonio. Potresti per favore raccontarmi quando ritornò e si risposò? Te lo chiedo perché questi fatti traspaiono indirettamente nei tuoi film. GA. Sì. Negli anni quaranta e cinquanta, gli uomini emigravano in Argentina. Adesso, vanno in Germania, e giovani che erano partiti da single ritornano con le loro mogli e figli biondi, ma è la stessa cosa. Mio padre tornò dall’Argentina nel 1959. Io avevo diciannove anni [Amelio nacque nel 1945, quindi se suo padre fosse tornato nel 1959, lui avrebbe avuto quattordici anni]. Se n’era andato quando avevo due anni e mezzo, quindi non lo avevo più visto per quasi diciassette anni. Un anno dopo essere tornato, il 9 agosto, nacque mio fratello Erminio. Adesso è un magistrato a Roma, un pubblico ministero del tribunale di Roma. Più tardi, nel 1967, quando Erminio aveva sette anni, mia madre morì; non aveva ancora quarant’anni. Aveva avuto mio fratello all’età di trenta o trentuno anni. I miei genitori si sposarono molto giovani. Mia madre aveva quindici anni e mio padre diciotto. Io nacqui quando lei ne aveva sedici. Sposarsi in giovane età allora era normale, specialmente per i giovani che non avevano genitori. Il padre di mia madre era morto quando lei aveva quattro anni e il padre di mio padre era in Argentina; lasciò tre bambini e la moglie incinta negli anni trenta e scomparve. Quando mio padre andò a cercarlo in Argentina, scoprì che suo padre aveva un’altra famiglia. Mio padre non aveva un buon rapporto con suo padre in Argentina, dove più tardi lo raggiunse suo fratello. La situazione economica li costrinse a ritornare in Calabria alla fine degli anni sessanta.

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Quando mia madre morì, io ero già a Roma, e mio padre rimase con mio fratello minore. Si risposò ed ebbe altri due figli, che adesso sono adulti. Il più giovane ha ventotto o ventinove anni. AV. Tuo fratello Erminio, il magistrato, ti è stato d’aiuto in Porte aperte? E tuo fratello più giovane, che ha fatto il carabiniere al Sud, ti ha aiutato per il personaggio di Antonio in Il ladro di bambini? GA. Sì, mi sono consultato con loro. AV. Sei in buoni rapporti con tutti e tre i tuoi fratelli? GA. Vado d’accordo con tutti e tre. Se devo essere proprio proprio proprio sincero, devo dire che, stranamente, ho un rapporto migliore con il più giovane. Ho molta stima di lui ed è l’unico con cui ho qualcosa in comune; abbiamo molte cose di cui parlare. Anche dal punto di vista della personalità, abbiamo molto in comune. Lui ha una personalità avventurosa. Ha studiato lontano da casa, ha lasciato la famiglia e, come me, è un uomo che si è fatto da solo. In qualche modo, come me, si è staccato dal suo bagaglio culturale ed è andato oltre. Io sostengo che avere lo stesso sangue non è fondamentale per avere un buon rapporto; è più importante avere la stessa educazione. Ho un rapporto più stretto e dei legami più forti con i miei cugini con i quali sono cresciuto. Non ho mai veramente vissuto con mio fratello Erminio e ancora meno con i due più giovani. La mia famiglia assomiglia molto a tante altre famiglie del Sud: abbiamo tutti dei rapporti particolari, che sono diversi dai rapporti famigliari che ci si aspetta, quindi non siamo molto legati. AV. Pensi che il rapporto contraddittorio che hai con il Sud scaturisca dal rapporto con la tua famiglia? O forse deriva dalla difficile relazione con il tuo bagaglio culturale, che può comunque essere legato alla famiglia? Vorresti fosse diverso? GA. Fai bene a definire la mia relazione con il Sud contraddittoria. Un sentimento che provavo anche da bambino. Io sostengo che

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come i legami di sangue, anche i rapporti con i vicini non sono fondamentali. Al contrario, le persone sono unite da bisogni comuni. Mi sento molto più vicino a una persona povera di un altro Paese, anche non italiana, che a una persona ricca che vive in Calabria, perché sono figlio della classe sociale nella quale sono nato. Provavo un forte risentimento, e ne provo ancora, per i borghesi, soprattutto perché in un posto come la Calabria, le differenze fra un borghese e un sottoproletario sono molto accentuate. Mi riferisco a quelli che hanno l’opportunità di vivere bene rispetto a quelli che invece devono emigrare per trovare l’opportunità di vivere. Non mi sento per niente vicino ad un calabrese ricco. Lo vedo come un nemico perché credo che se il Sud sia ancora un posto di sofferenza, sottosviluppo, senza progresso, la responsabilità ricada sulle spalle di coloro che continuano ad usare il Sud a proprio vantaggio. La classe politica del Sud è assolutamente responsabile del fatto che il Sud era, è e continuerà ad essere in fondo alla scala economica. Ed è anche la causa del basso livello culturale, al di sotto del resto del Paese e dell’Europa. Ho coltivato un rapporto di amore-odio con questa cultura. Il desiderio di tornare al Sud è forte, ma ogni volta che lo faccio, lo trovo peggiorato rispetto a quando ero partito, così il dolore prevale su tutti gli altri sentimenti. E, come ho detto, prima che dia la colpa di questo deterioramento generalizzato alla classe politica, c’è il fatto che ciascuno di noi delle classi basse doveva e deve rubare il terreno da sotto i piedi di qualcun altro per sopravvivere. Non c’è coscienza civile nel Sud e questo non è solo colpa del singolo individuo. Sopravvivere è una lotta dolorosa, una dura battaglia, così coloro che devono guadagnarsi il pane dal nulla, non appena hanno qualcosa in più dello stretto necessario per sopravvivere, lo nascondono in modo che nessun altro possa portarglielo via. Non credo che la solidarietà sia nata tra i poveri ma piuttosto il contrario. La solidarietà viene solo dai ricchi, che hanno di più e in qualche modo cercano perfino dei complici con cui condividere la loro ricchezza. Per esempio, anche in Calabria, i matrimoni erano combinati per preservare la ricchezza. Le famiglie benestanti cercavano famiglie di ricchezza simile con cui far sposare la propria prole, in modo da fondere assieme le ricchezze e i privilegi. Penso

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che i poveri abbiano difficoltà a mostrare solidarietà con gli altri, a meno che non sviluppino una forte coscienza politica e, in tal caso, hanno bisogno che qualcuno insegni loro dove cominciano i diritti e i doveri. Al Sud, c’è una mancanza di consapevolezza dei doveri civili, delle responsabilità che la gente ha verso gli altri. C’è una sorta di anarchia quando si tratta di relazioni con gli altri, con la società e lo Stato. Il Sud è tradizionalmente diffidente verso lo Stato, che è sempre stato il nemico. La storia ha permesso alla Mafia e alla criminalità di crescere nel Sud, e questo ha prodotto un atteggiamento che ha indotto e induce chiunque a violare le leggi. Ho fornito un ritratto fedele, veritiero ed onesto del Sud in Il ladro di bambini, nella sequenza in Calabria, nella casa della sorella di Antonio. Credo sia una fedele immagine della situazione. Forse il film è più violento della realtà, ma lo girai in quel modo non per denigrare la mia terra natale, ma per mostrare il dolore che provo nel vedere il persistere di queste condizioni. AV. È ovvio che i tuoi film non esaltano il Sud e la sua cultura, ma, allo stesso tempo, quella cultura ha lasciato dei segni indelebili nei tuoi sentimenti e nel tuo modo di vedere le cose, che sono anche indirettamente responsabili del tuo amore per il cinema e del tipo di cinema che fai. Ti senti anche fortunato di averne fatto esperienza? GA. Sì, sono ciò che sono grazie alla mia formazione, perciò non torno indietro e non ho rimpianti personali o sentimenti irrisolti riguardo al mio passato. Quando parlo del Sud, non sto parlando di un rapporto personale ma più in generale, come una persona che, crescendo, ha dovuto combattere per sopravvivere e per ottenere qualcosa. Sto parlando di altre cose che facevano parte della condizione della mia famiglia, che mi hanno impedito di crescere e svilupparmi. È chiaro che sono il risultato di quella lotta, ma credo che nessuno dovrebbe essere costretto a combattere per ottenere ciò che vuole fare. Non tutti hanno l’opportunità di superare i limiti nei quali sono nati. Mi vedo fortunato, come una persona privilegiata che ha dovuto combattere per fare ciò che voleva fare, ma sono anche l’eccezione che conferma la regola. Anche oggi, dopo così

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tanti anni, quasi mezzo secolo, è molto difficile per una persona nata nelle stesse condizioni in cui ero nato io ottenere ciò che vuole. Non tutti possono realizzare quello che ho fatto io; è troppo difficile. AV. Vedi qualche valore nelle condizioni in cui sei cresciuto? Te lo sto chiedendo perché alcuni critici americani hanno scritto che in Lamerica stavi glorificando la povertà. GA. Sì, c’è qualcosa di buono nelle emozioni di chi deve combattere ogni giorno per guadagnarsi da vivere. C’è qualcosa di buono nel non credere che tutto ti sia dovuto o adagiarsi su ciò che si è già ottenuto. La gente che non ha nulla non si aspetta nulla dagli altri, ma piuttosto di combattere e lavorare duro per raggiungere qualcosa. Allora non desideri niente più di quanto ti serva, oltre alla serenità, che non si raggiunge accumulando cose materiali. Impari che gli oggetti sono veramente esteriori, meri status symbol. La pace si raggiunge se ami quello che conta davvero, le cose belle che ti fanno sentire bene dentro. Le cose più importanti le ho imparate da mia madre. Non era una tipica madre che vuole tenere suo figlio vicino a lei, come alcune che piangono per mantenere i propri figli vicino, «Mio figlio non se ne dovrebbe andare! Chissà cosa succederà a Roma?» No, lei mi disse, «Se vuoi veramente fare film e pensi davvero di poterlo fare, allora vai a Roma. Vattene da qui. Sei intelligente. Qui stai sprecando il tuo talento. Ami il cinema, e puoi imparare come farlo. Non ho soldi da darti, ma vai e rischia per ottenere quello che vuoi.» È stato questo a spingermi ad andare, ma sapevo anche che non mi stavo lasciando alle spalle nulla che mi sarebbe mancato. Non avevo nulla da perdere nell’andare. Sono abituato a vivere in modo parco, spartano, e soprattutto non mi aspettavo nulla da nessuno tranne che da me stesso. Vivo in modo frugale e non ho bisogno di molto. In Albania, volevo mostrare quanto la gente vivesse in modo semplice, e come superassero grandi eventi storici. Ho il timore che questo Paese da poco libero perderà tutte le sue tradizioni e i suoi valori in favore di una società consumistica e dei costumi occidentali. In quel periodo, gli albanesi passarono del rischiare la galera per aver ascoltato o visto programmi stranieri ad avere 20

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canali di televisione dall’Italia, che provocarono il loro desiderio di andare in Italia. Non seppero distinguere quello che vedevano in televisione dalla realtà AV. La prima volta che mostrai Lamerica in classe, due studenti albanesi si rifiutarono di vederlo e mi dissero che era censurato in Albania, ma molti lo avevano visto su un canale della televisione italiana. Mentre lo stavi girando in Albania, hai avuto problemi con le autorità locali? GA. Il problema peggiore si verificò nella scena finale, in cui gli albanesi stanno andando in Italia. Le autorità governative non avrebbero concesso il permesso di girarla per il timore che le comparse andassero davvero in Italia. Dovemmo minacciare uno scandalo internazionale per ottenere il permesso, e dovemmo accettare 600 guardie armate che, quando arrivarono per controllare i documenti delle 3000 comparse, scambiarono le uniformi con i vestiti delle comparse per imbarcarsi sulla nave. AV. Hai detto spesso che l’Albania ti ricordava l’Italia degli anni cinquanta. L’esodo verso l’Italia mi fa pensare a cosa accadde in Italia durante il boom economico. Nel periodo in cui lasciasti la tua terra natale, negli anni sessanta, l’Italia, anche nel Sud, visse una crescita economica che la cambiò dal punto di vista antropologico. Questo fenomeno ha un ruolo importante nei tuoi film. Ti andrebbe di approfondire questa tematica e come l’hai vissuta? La cultura italiana cambiò così velocemente, e spesso mi chiedo se, come gli albanesi, gli italiani riuscissero a distinguere la realtà da ciò che vedevano in televisione. GA. Ho approfondito questo tema in Così ridevano. L’evoluzione che avrei voluto vedere, avrebbe portato avanti la crescita economica che ci ha condotto al benessere, in parallelo ad un altro tipo di crescita che ci avrebbe fatto stare meglio come esseri umani che amano le cose belle. Per esempio, cose che non danno ricchezza immediata, come un buon libro. In Così ridevano, il fratello maggiore analfabeta Giovanni, che vuole che il suo fratello minore studi, è guidato da

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una necessità morale che allora era anche la mia. Sfortunatamente, senza nemmeno rendersene conto, Giovanni comincia lentamente ad accettare compromessi con se stesso; per l’amore verso un’altra persona e la famiglia, finisce col commettere un crimine e diventa un criminale. Lo vedevo come un pericolo e lo considero ancora tale, non solo per il Sud, ma per una società che mette al primo posto l’accumulo di beni materiali, considerandoli l’unica cosa che ci può salvare. A conti fatti, identifichiamo la felicità con ciò che accumuliamo. Da tutto quello che leggo e sento delle vite di chi possiede grandi ville, barche e tanti altri beni materiali, credo che non abbiano capito qualcosa di fondamentale: mantenere tutta quella ricchezza richiede un sacco di lavoro, al punto da impedire loro di godersi la vita. Penso che siamo nati per goderci la vita e non i beni materiali, perché a meno che non ci fermi qualcosa, come una malattia o qualcosa più forte di noi, la felicità si può raggiungere senza ricchezza. Ma è chiaro che una persona può andare avanti se riesce a capire quale strada vuole percorrere, se capisce che le strade per la felicità, come l’amore per le persone giuste e le cose che non ti tengono sveglio la notte, portano alla serenità. AV. Hai mostrato queste idee nei tuoi film o pensi che il cinema e i tuoi film in particolare rappresentino una metafora della felicità? GA. Sì, ma la metafora va oltre il cinema. Per esempio, un insegnante o un professore universitario possono agire in due modi differenti. Uno insegna per il piacere di avere uno scambio con gli studenti, il piacere di stimolare, che è un piacere che facilita lo sforzo di insegnare, che conosco bene. So quanto sia difficile insegnare, ma uno scambio umano ripaga lo sforzo; si accumula durante il giorno, e quando vai a casa la sera, ti senti meglio. Poi c’è un’altra strada, quella del potere. La imbocchiamo quando puntiamo sulla carriera e usiamo gli studenti con nonchalance, col fine ultimo di prevalere, superare e raggiungere un livello superiore agli altri che hanno il nostro stesso scopo. Quella lotta per il potere esiste in tutte le sfere della società, e credo che sia la cosa più devastante che possa esistere in un essere umano. Penso che l’unico potere che dovremmo cercare è quello che

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ci garantisce di fare le cose che ci piacciono. Per questa ragione, il privilegio di fare il tipo di lavoro che faccio io non dovrebbe essere sporcato dal carrierismo o da piani senza scrupoli per arrivare davanti agli altri. È semplice fare soldi nel mio mestiere, ma può altrettanto semplicemente diventare una trappola: anziché fare un magnifico lavoro che dà soddisfazione, finisci col fare un lavoro che porta ansia, angoscia e frustrazione. AV. Quanto è difficile rimanere estranei alle lusinghe del successo e della ricchezza nella tua professione, che richiede un sacco di soldi e porta con sé molte aspettative da parte del pubblico e dei mass media riguardo a un certo tipo di comportamento e a un certo stile di vita? Qual è il prezzo da pagare? È stata dura per te e quanto ti è costato? GA. È stata dura; è ancora dura, ma è più dura se segui l’altro modo di vivere di cui parlavo, che ti porta ad essere forte o più forte di qualcun altro e a pensare in termini di potere e non di piacere. È chiaro che per preservare la tua felicità, sarai spesso infelice. Per esempio, sono spesso infelice quando, non solo per mesi, ma per anni, non lavoro. Sono infelice anche quando voglio raccontare una storia, ma non posso. Come stavi dicendo prima, fare film richiede fondi. Il cinema è un’industria, ma questo è il tipo di lavoro che ho scelto di fare. Se avessi scelto di fare lo scrittore o il pittore o il musicista, non credo che sarebbe stato più semplice o più agevole, ma non avrei avuto bisogno di molte cose. Un libro può essere scritto con una penna e un foglio. Se un editore lo rifiuta, il manoscritto può comunque essere letto. Un regista non può girare un film se non c’è un produttore che lo finanzi. Il film non esiste finché non è stato girato. Questo è l’aspetto peculiare della mia professione, ma devo anche ammettere che è una cosa a cui ti abitui abbastanza semplicemente visto che nessuno pretende di cambiare completamente le regole di questa professione. Devi esaminare la tua coscienza, nel senso di essere capace di rispondere ad una sola domanda: cosa vuoi fare? Vuoi fare quello che ti piace o quello che piace agli altri? Se rispondi che vuoi continuare a fare quello che ti piace, allora c’è sempre un prezzo da pagare.

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AV. Sono d’accordo che una discussione o un discorso sul neorealismo non si possano semplificare, ma la tua ultima risposta e le tue idee mi hanno fatto pensare al neorealismo come se si sia concluso quando l’industria del cinema appena ricostruita cominciò a ridurre la libertà dei registi di fare ciò che volevano. A quel punto, i film dovettero rifarsi ad una sorta di genere e di star system, all’italiana, come prezzo da pagare per girare film e godersi i benefici del sistema. Cosa ne pensi? GA. Guarda, in genere io parlo di neorealismi anziché di neorealismo perché i registi coinvolti sono molto diversi. Alcuni film fanno parte di una corrente simile, ma i componenti [poi perché] vennero etichettati come un singolo movimento al fine di creare un prodotto. Oltre a questa distinzione, è chiaro che i vari componenti hanno qualcosa in comune, che io identifico con la loro esigenza etica di narrare, con vari mezzi, un’Italia che sta cambiando, che deve cominciare a vivere di nuovo. Il neorealismo comincia quando la guerra sta per finire e c’è una necessità che va oltre il mero desiderio, il gusto di girare film, ed è chiaro che tutti i registi, ma più di tutti Rossellini, non stavano pensando a splendidi ritratti ma erano felici, soddisfatti, di usare i pezzi di pellicola che riuscivano a trovare. I loro film non hanno un linguaggio formale, ma si esprimono con un linguaggio legato a ciò che avevano da dire. Finì presto, molto presto. Finì nel momento, o forse anche prima che l’Italia diventasse la terra del boom economico, come venne chiamato. Il neorealismo durò al massimo cinque anni. Fu il cinema più forte ed efficace ed ha influenzato non solo il cinema italiano, ma quello di tutto il mondo, e non è per caso che diede vita ad un migliaio di strade diverse. Detto questo, devo concordare quando dici che una delle ragioni più probabili per la fine del neorealismo fu che nacque in un’Italia che allora aveva bisogno di quel tipo di cinema, o forse quel tipo di cinema non aveva bisogno del nuovo tipo di Italia. Il cinema di Fellini, cominciando da La strada fino a La dolce vita, riflette ma già deforma la realtà. Pensa la realtà in un modo differente; si potrebbe dire che è in bilico, quando, al contrario, il cinema di Rossellini è guidato maggiormente da un bisogno di testimoniare.

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AV. Pensi che l’estetica di Rossellini fosse la vera essenza del neorealismo? GA. Sì. Penso che la sua estetica rappresentasse un tipo di cinema che mostra prima di dire, un cinema con una tesi che mostra l’esigenza morale del momento, ma non un documentario, che è totalmente diverso. Mi riferisco alla differenza tra la trilogia sulla guerra di Rossellini e i primi due film di Visconti. Ossessione mi sembra tutto tranne ciò che i film di Rossellini rappresentassero. La terra trema si basa su due elementi che non si ritrovano in Rossellini: ad un estremo, l’estetismo figurativo e, all’altro, una posizione politica ben definita. Comunque tutti questi film facevano parte dello stesso movimento, ed è per questo che parlo di neorealismi. Oltre a questo, dobbiamo aggiungere De Sica, quindi se vogliamo esaminare la questione, dobbiamo trovare le differenze all’interno delle loro somiglianze. AV. Se prendiamo come definizione di quel cinema quello che hai appena detto, un tipo di cinema che è capace di afferrare e ritrarre i bisogni del momento, allora potresti essere considerato un neorealista. Non sei d’accordo? GA. Penso di essere un neorealista a un livello differente. Fuori dall’Italia, il neorealismo è stato presentato come un cinema fatto con attori non professionisti, ma io non considero questa la caratteristica principale. Mi vedo più come un successore di Rossellini che di De Sica perché (adesso potrei dire qualcosa di presuntuoso) cerco di trovare me stesso, di posizionare la cinepresa nel posto giusto, necessario. Devo ammettere che il mio film più rosselliniano è l’ultimo, La stella che non c’è, anche se sembra distante dal neorealismo. Tra tutti i film che ho girato, questo è il più vicino all’estetica rosselliniana. Lui girò film che erano trasparenti; si opponeva ai film che erano troppo scritti o troppo elaborati o che avevano una tesi da dimostrare. Io mi sono allontanato dalle sceneggiature in cui tutto è costruito, curato, sistemato, che hanno una risposta ad ogni domanda. In questo film, con grande sforzo, ho cercato di far parlare le cose da sé.

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AV. Quale pensi sia la causa di tutti i malintesi sul neorealismo, che sono comuni in Italia come all’estero, e si riscontrano sempre quando i critici cercano di categorizzare il cinema contemporaneo italiano? Quale pensi sia il motivo per cui il neorealismo viene spesso identificato con trame semplici, attori non professionisti, personaggi della classe operaia o del sottoproletariato e narrativa lineare? GA. Non so se ti ho già raccontato di un semplice esercizio che chiedevo di fare ai miei studenti quando insegnavo al Centro Sperimentale. Cominciavo sempre col chiedere loro di disegnare l’affondamento del Titanic, e ciò che disegnavano era sempre lo scontro tra il Titanic e l’iceberg galleggiante. Gli chiedevo allora di aggiungere ciò che mancava e nessuno rispondeva. Evidenziavo che i loro disegni non mostravano la parte di iceberg sotto la superficie dell’acqua, né ciò che c’era all’interno della nave. Disegnavano solo la messinscena, ciò che chiunque può vedere mentre si gira un film, ma per essere un regista, devi afferrare quello che si cela sotto o all’interno. Molti pensano che fare il regista significhi descrivere ciò che abbiamo davanti, quando in realtà significa catturare ciò che è nascosto. Quindi se vogliamo parlare di neorealismo, possiamo dire che l’aspetto visibile del neorealismo sono le riprese nelle strade fuori dagli studi, usando attori non professionisti e ambientazioni naturali, raccontando storie che hanno luogo nelle strade in cui vive il pubblico, con persone miserabili come protagonisti, dal momento che l’intero Stato, che stava uscendo dalla guerra, era in una condizione deprimente e c’erano più poveri che ricchi. Questi sono gli aspetti che chiunque può vedere, specialmente se non si vuole approfondire la propria comprensione. Il neorealismo è in sostanza la coscienza della realtà, non la sua parte visibile. Posso girare un film neorealista osservando le classi agiate. Per esempio, Rossellini fece film di questo tipo, come Viaggio in Italia, Europa 51 e Stromboli, senza violare nessuno dei suoi sentimenti o il suo bisogno di realizzare film. Penso che il malinteso non sia stato creato artificialmente per una qualche ragione specifica o che sia dovuto a stupidità. Credo che i critici si limitino alla superficie delle cose, agli aspetti esteriori di questi film, senza entrare profondamente in tutti gli aspetti del fenomeno.

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AV. Ogni nuova generazione di registi possiede dei modelli o una grande passione da seguire o da emulare e superare. È corretto se dico che tu e la tua generazione non siete partiti prendendo i registi neorealisti come modello? GA. Sì. La mia generazione non amava il neorealismo. Cominciammo quando il neorealismo era già finito, quindi i registi che ci hanno influenzato sono l’opposto dei neorealisti, magari eretici del neorealismo, se si può usare questo termine, perché quando cominciai come assistente, Rossellini aveva già concluso la sua parabola cinematografica, così come gli altri due principali registi del fenomeno culturale, Visconti e De Sica. Quando cominciai, i due principali maestri erano Fellini e Antonioni, figli illegittimi del neorealismo, entrambi nati in quel movimento ma che poi avevano intrapreso percorsi differenti nelle loro carriere. La scoperta del neorealismo per me avvenne più tardi. Sarà difficile crederlo, ma io scoprii il neorealismo, film come Roma città aperta, Paisà, Sciuscià, La terra trema, Umberto D, Ladri di biciclette, quando avevo ventitré anni. Ne avevo quindici quando uscì La dolce vita; lo stesso anno in cui uscì L’avventura. A quindici anni, fu difficile per me capire il nuovo linguaggio cinematografico di questi due film, così come quello dei film della Nouvelle Vague, che facevano riferimento al linguaggio di Rossellini, che scoprii più tardi. Quindi il mio sviluppo seguì un itinerario complesso. Per queste ragioni, sostengo che se guardi attentamente i miei film, puoi (devi) notare il retaggio dei film degli anni sessanta, dal momento che quello è stato il cinema che amavo e guardavo. Sono cresciuto con questi film; sono dentro di me, e li andai a vedere non appena uscirono. Sono dell’opinione che un film visto alla sua uscita ha molto più impatto di uno visto più tardi, come classico. Scoprii De Sica e Rossellini nello stesso modo in cui scoprii Manzoni e Petrarca, mentre i film di Antonioni e di Fellini erano miei contemporanei. Posso dire lo stesso di Pasolini: scrittore, regista e poeta. Questi sono i registi che ebbero un grande impatto su di me mentre stavo crescendo e mi stavo sviluppando dal punto di vista culturale. In quel momento, non mi resi nemmeno conto dell’impatto che ebbero su di me, ma quando realizzai i miei film, questa influenza si fece sentire.

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Il finale di due dei miei film mostra questa influenza diretta, e penso che non li avrei mai girati se non avessi visto i film di Antonioni e di Fellini. Ad esempio in Il ladro di bambini, quando Rosetta copre il fratello con una giacca e gli dice che potrà giocare a calcio nella squadra dell’orfanotrofio. Mi resi conto solo in seguito, rivedendola, che questa scena è il risultato dell’emozione che provai la prima volta che vidi il finale di L’avventura. Penso che diversi finali dei miei film rappresentino l’influenza diretta di Antonioni, sebbene io non possieda il suo intellettualismo e gli aspetti filosofici del suo cinema. AV. Non credo che i film di Antonioni siano così filosofici come li dipingono i critici. Li trovo superficiali e ora perfino superati. GA. (sorridendo) I miei film giocano in difesa, non in attacco. Concordo con te che la “filosofia” di Antonioni è molto limitata, ma i suoi film tendono ad avere una visione sofisticata del mondo. O, ancora meglio, Antonioni dipinge se stesso come un pensatore molto sofisticato, cosa che io non faccio mai. Concordo con te che non sia un Rossellini e nemmeno un Fellini. Non pensi che Antonioni giochi nel mostrarsi come un mago o qualche volta come un bandito? AV. Lo fa bene mescolando i generi. GA. Sì, mescolandoli, e così i suoi film possono essere letti da varie direzioni, da sinistra o da destra. È il regista che vuole essere, diciamo, “moderno”, tra virgolette. Vuole essere à la page, all’altezza, seguendo una linea di pensiero per le persone sofisticate ed istruite, che le rispecchi e al tempo stesso le guidi. AV. Il suo intellettualismo si può ridurre alla ricerca dell’inabilità umana di comunicare o al tentativo di esprimere ciò che è umanamente inesprimibile. GA. Beh, la sua filosofia si può ridurre a due punti principali, e quando realizzò il suo film più ambizioso, Deserto Rosso, ne rivelò le debolezze. È il film che svela il gioco.

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AV. Come hai detto, non hai cominciato come neorealista, e con questo termine identifico un regista che non vuole giocare con il mezzo. Hai cominciato con grande amore ed ammirazione per la Nouvelle Vague, che risulta evidente in La città del sole. Come hai superato la malattia della cinepresa? Quando hai cambiato? Quando e come hai deciso di diventare un “neorealista”? GA. Sì, sì, capisco la tua domanda. Niente è cambiato; tutto è cominciato. In un momento preciso, ho capito che non ero stato il tipo di regista che volevo essere. Feci un piccolo film, il mio primo, che mi sta ancora molto a cuore (mi riferisco a La fine del gioco) ed è stato molto importante che l’abbia fatto. È un breve film che in diversi modi profetizza ciò che feci più tardi. Quando realizzai quel film, fu come se stessi dicendo a me stesso: adesso devi cominciare a fare le cose seriamente. AV. Prima di parlare di questa importante constatazione, potremmo fare un passo indietro? Dal momento che il titolo del film è così rivelatore, la fine del gioco, potresti raccontare come hai scoperto il tuo interesse per i film e quando hai deciso di diventare un regista? GA. Cominciai a vedere film con mia nonna, che di solito mi portava a vedere film americani nei primi anni cinquanta, quando nacque il Cinemascope. Come studente universitario, diressi un circolo cinematografico a Messina, e cominciai anche a scrivere per una rivista chiamata Giovane critica dal 1963 al 1965, prima di andare a Roma. La mia educazione cinematografica da bambino venne dai film americani come spettatore e da giovane adulto venne invece da Cinema Nuovo e Ciak. Seguii molto anche i fratelli Taviani e De Seta. Come sai, ebbi il mio primo lavoro come uno degli assistenti di De Seta, e dal momento che la produzione durò trenta settimane al posto delle dieci previste, alla fine diventai primo assistente, quando gli altri se ne andarono. La sceneggiatura era molto lunga, un centinaio di pagine, e il primo giorno, cercando di tenere traccia di cosa si stava girando, creai un sistema di numerazione basato su numeri

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e lettere, che dopo tre giorni diventò talmente complicato che fui costretto a scrivere in dettaglio tutto ciò che accadeva. Ricordo che le cento pagine diventarono quattromila, e quando arrivò il momento del montaggio, c’erano metri e metri di pellicola, che riuscimmo a sistemare solo grazie alle mie quattromila pagine di sceneggiatura. Dopo questa esperienza con De Seta, non avevo soldi o lavoro, ero molto depresso e praticamente sul punto di mollare e tornare a casa. Miracolosamente, dopo essere stato a vedere Hatari! di Hawks, un film che avevo visto da bambino e che veneravo, tornai a casa e ricevetti una telefonata che mi portò a un lavoro. Tra il 1966 e il 1968, mi trasferii in Spagna con la maggior parte dell’industria cinematografica per girare i western. Più della metà delle case di produzione avevano uffici a Madrid o si erano spostate in Spagna. C’era un sacco di lavoro e pochi mezzi di produzione; in molti stavano cercando di copiare i successi di Sergio Leone. Io lavorai come aiuto regista e mi divertii molto; guadagnai a sufficienza e mi godetti l’atmosfera rilassata in cui si lavorava. Lavorai con Giulio Questi a Se sei vivo spara e con Gianni Puccini a Dove si spara di più e Ballata da un miliardo, basato su una sceneggiatura di Bernardo Bertolucci. Questo fu anche il periodo in cui incontrai Bertolucci, di cui avevo ammirato i film fin da Prima della rivoluzione. Avevo cominciato a leggere Filmcritica, Cahiers, e, poco più tardi, scoprii anche Cinema e Film. Devo dire che sono stati i film di Bertolucci ad aiutarmi a vedere la cinematografia in senso più ampio e ad impedirmi di diventare un regista o un critico settoriale. Dopo il periodo in Spagna, dal 1968 al 1971, lavorai come assistente a Il gatto selvaggio di Adele Frezza, a I cannibali di Liliana Cavani e con Lina Wertmüller e altri. Girai anche dei corti pubblicitari per caramelle e maionese, che portarono a un grande contratto con Alitalia per realizzare brevi documentari. Nel 1969, dopo quattro anni di lavoro costante con e per altri registi senza scrivere nulla di mio, decisi di smettere di lavorare per riflettere. AV. Fu allora che scrivesti La fine del gioco (1970), un titolo molto simbolico? Non fosti fedele alla sceneggiatura che ho letto; puoi spiegare cosa cambiò mentre giravi il film?

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GA. Sapevo che la RAI aveva creato una sezione per promuovere i giovani registi, chiamata Programmi Sperimentali, e scrissi la breve sceneggiatura che hai menzionato. Non so cosa significhi rimanere fedele ad una sceneggiatura, nonostante sia rigoroso con me stesso mentre la scrivo, nel senso che la scrivo con serietà. In questo caso, dovetti completamente trasformare l’idea originale e invertii il senso originale della storia. Devo ammettere che l’improvvisazione era parte del progetto fin dall’inizio perché stavo usando attori non professionisti e stavo anche sperimentando e spesso brancolando nel buio. AV. Quanto fu differente La città del sole, che è un film più complesso e anche il tuo primo ritorno alla Calabria e al tuo bagaglio culturale? Volevi mostrare un Sud diverso dai cliché con cui di solito viene ritratto nel cinema italiano? GA. La città del sole fu più complesso dal punto di vista tecnico, ed ero messo sotto pressione dal fatto che avevamo un piano di produzione che, nonostante dovessimo viaggiare da una parte all’altra dell’Italia in pochi giorni, aveva tempi molto serrati. Fui fortunato ad avere una troupe che supportava le mie decisioni, e riuscimmo a finirlo in tempo. AV. Potresti dare qualche dettaglio in più? E magari parlare di come hai cambiato il testo e se avevi intenzione di creare una sorta di legame politico tra l’utopia di Campanella e quelle in voga negli anni settanta. GA. Lo abbiamo girato in 22 giorni, da agosto a settembre del 1972. Tutte le riprese esterne furono girate vicino a Napoli, a Matera e in Toscana, in un paesaggio che nella mia immaginazione sarebbe dovuta essere la Calabria ai tempi di Campanella. Le sequenze di interni furono girate a Orvieto e attorno a Salerno, con un costo di 34 milioni di lire, con un ulteriore aiuto finanziario dalla RAI. Non fui fedele agli eventi storici o al testo. Non mi discostai molto dall’idea dei fratelli Taviani di «una verità semplicemente non storica» come alternativa ai drammi storici e ai documentari. Fai

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bene a dire che mi distaccai da Campanella e seguii i miei interessi, ma rimasi comunque vicino alle sue idee. Ciò che rimpiango è che la forma abbia preso il sopravvento sul contenuto e che le luci, i suoni e i movimenti della cinepresa siano troppo orchestrati. Il film giunge a Campanella attraverso un altro personaggio, che nega la propria esistenza. Il ragazzo non esiste come personaggio reale, è una proiezione dei sentimenti del frate, un ponte tra passato e futuro e incarna il desiderio del frate di superare la sconfitta. Il ragazzo non rappresenta la Calabria o il Sud, ma è il vecchio lato di Campanella, il proseguimento della sua lotta e delle sue idee. Per rispondere alla tua domanda politica, devo dire che anche se diversi critici hanno discusso in merito alla sua ideologia in quanto anticipatrice del socialismo o del comunismo, è più corretto parlare di un concetto socio-cristiano che era legato al Rinascimento e alla situazione socio-politica del Sud in quel periodo. Per esempio, il controllo del numero delle nascite per ridurre la povertà, la lotta contro l’ingiustizia e il desiderio di Campanella di mettere la cultura al servizio della comunità puntavano a rompere l’alleanza repressiva tra la Spagna e la Chiesa. Il legame agli anni settanta rimane nel fatto che poi, malgrado le numerose alternative ideologiche, il Sud rimase preda dell’opportunismo politico e della mistificazione. AV. Mi sembra che alcune delle idee e della spiritualità di Campanella siano molto simili alle tue; per esempio, i tuoi principi e il tuo desiderio di vivere in armonia, senza tutte le cose accessorie che non portano felicità. GA. Campanella voleva che gli uomini tornassero ai principi guida della natura, un’idea che è anche politica e irrealizzabile ai suoi tempi, dal momento che lui rifiutava l’unione fra una monarchia assoluta e la Chiesa. Si auspicava anche una riforma sociale, basata su un’educazione sociale che impone una nuova consapevolezza e richiede un nuovo tipo di conoscenza. Le sue idee rifiutano la filosofia di Machiavelli dell’epoca. AV. Torniamo al punto di prima quando hai detto: «Niente è cambiato; tutto è cominciato» riguardo al tuo primo film.

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GA. Tutto ciò che feci tra La fine del gioco e Colpire al cuore, lo vedo come il mio apprendistato, la mia formazione universitaria o, se vuoi, il mio Centro Sperimentale, perché mentre giravo La fine del gioco capii che dovevo fermarmi e riflettere su quale tipo di cinema volevo fare. Continuai a lavorare e a realizzare film, perché mi serviva per sopravvivere, ma se me ne avessero dato la possibilità, avrei voluto studiare. Capii che si può imparare facendo, e quindi è giusto che abbia lavorato, sebbene ora possa dire che il tipo di lavoro che stavo facendo non mi avrebbe fatto intendere cosa volevo essere. Devo anche ammettere che quelli furono anni difficili, in cui assorbivo certi manierismi e sfortunatamente risentivo troppo di tutto ciò che c’era nell’aria attorno a me. L’unico film serio che girai in quel periodo e che meriti una discussione è La città del sole. La morte al lavoro ed Effetti speciali sono due esperienze molto limitate che non hanno nulla a che vedere con il cinema, ma sono esercizi eseguiti in studi televisivi con un produttore che mi disse che dovevo realizzare una sorta di thriller. La città del sole, al contrario, è un film, pieno dei difetti del tempo. AV. Ti riferisci al linguaggio, non al contenuto, giusto? GA. Esattamente. Mi riferisco alla grande differenza tra il linguaggio e il contenuto, all’incapacità di raccontare una storia con l’onestà e la sincerità che distinguono i miei film successivi e anche il mio primo film. Penso che persino un film come Il piccolo Archimede rappresenti il manierismo del tempo, nonostante la storia proceda oltre, e riesca a trasmettere l’emozione che volevo. La città del sole avrebbe potuto essere la strada sbagliata da seguire, visto che quel tipo di regia divenne la via sbagliata per molti registi che cominciarono in quel periodo. Diciamo che tutti abbiamo qualcosa di cui essere dispiaciuti in quegli anni in cui iniziavamo la carriera da registi. Mi riferisco ai primi anni settanta, che furono gli anni peggiori per il cinema italiano. AV. Fu in quegli anni che il cinema passò dal grande schermo alla televisione, no?

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GA. Si, ma credo che fu anche dovuto alla pretenziosità, e mi riferisco a tutti noi registi, che ci fece distaccare dal pubblico e vedere i film come un prodotto che potesse essere apprezzato da un ristretto numero di persone, che potevamo, insomma, fare a meno del pubblico. Dicevamo «Ho girato il film per me stesso». La famosa camera-stilo francese fu allo stesso tempo una grande invenzione e una disavventura. Allora dicevamo: «possiamo usare la cinepresa come una penna», e aggiungevamo «se ci sono lettori, bene, altrimenti possiamo fare senza di loro, è lo stesso», oppure addirittura «peggio per chi se lo perde». Il risultato di questo atteggiamento è qualcosa come Godard al più alto livello, ma al livello più basso tutti noi, me incluso, che facevamo film che nessuno avrebbe guardato e nessun cinema al mondo avrebbe mostrato. AV. Dove posizioneresti Bertolucci in questa scala? GA. Intendi Giuseppe o Bernardo? AV. Bernardo. GA. Lo metterei sopra a qualsiasi altro. Pagò l’intero prezzo del pedaggio per ciò che fece con un film quasi impossibile chiamato Partner – Il sosia. Toccò il limite. Da lì, non poteva andare da nessuna parte e quella esperienza lo fece diventare troppo generoso con il pubblico. Quando vidi Il conformista, assieme a lui, ricordo di averlo rifiutato immediatamente. Sentivo che era troppo popolare, troppo facile, per le masse. Ero abituato al Bertolucci duro e puro, come diciamo noi. Era godardiano fino alla rabbia, quindi quando vidi Il conformista, ne rimasi deluso. Con il tempo ho cambiato idea perché capii che stavo mentendo a me stesso. Per esempio, non è che mi piacessero di più i film rappresentativi della Nouvelle Vague. Mi piacevano molto i film dei registi che erano considerati i loro traditori. Mi piaceva Chabrol perché raccontava storie, che apparentemente significa fare film di serie B. Invece, nei film di Godard più rispettati, ci trovavo vuotezza e non riuscivo a seguirli. Per la stessa ragione mi sono allontanato da Bertolucci. Iniziai a realizzare film che i miei colleghi a quel tempo

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non facevano perché Porte aperte, per esempio, non appartiene né a quella che era chiamata “arte impegnata”, né alle presunte avanguardie. Il film ritorna al modo classico di raccontare una storia senza cadere nella trappola del cinema della generazione precedente, perché si mette in discussione senza ripetere cliché. AV. Puoi approfondire meglio il ruolo che ha giocato per te Bertolucci? Il suo cinema era più un modello o un punto di contrasto? GA. Iniziai come aiuto regista. Per il mio primo impiego lavorai per un film molto importante, ma dopo di ciò, sfortunatamente, non ebbi grosse opportunità fino a che non incontrai Bertolucci, che mi chiese di fargli da aiuto regista in Il conformista. Dovetti rifiutare perché non potevo più rimandare il servizio militare. Da un punto di vista personale quell’incontro fu molto importante. Ci tenemmo in contatto e feci perfino un documentario su di lui mentre girava Novecento. L’idea di riprendere quello che accadeva nel backstage non esisteva allora, quindi non so davvero come definire quello che ho girato. So solo che nacque dall’invidia che provavo per qualcuno che stava girando un film, raccontando una storia. È il risultato di me che mi chiedevo come lo avrei fatto io, come avrei girato quella storia. L’incontro con Bertolucci fu più importante sul piano personale che professionale. AV. Fra i più importanti registi di quel periodo c’è Marco Bellocchio, che realizzò Pugni in tasca, un film che influenzò la generazione successiva. Se non sbaglio, però, non lo menzioni quasi mai. GA. Bellocchio continua ad essere un punto di riferimento per me dal punto di vista professionale, nonostante non abbiamo assolutamente niente in comune. Devo ricordare che l’essere cresciuti in classi sociali completamente diverse conta. Lui è nato in una famiglia borghese a Piacenza, io sono nato in una famiglia calabrese di emigranti, ma i suoi film sono molto interessanti e mi intrigano. Perfino durante il cosiddetto periodo buio, quando i suoi film erano influenzati dal suo guru Fagioli, ho sempre trovato in

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loro qualcosa che mi intrigava e questo accade ancora oggi. Mi ha sempre affascinato come uno che non imbroglia. Commette errori e li paga senza barare, ricercando la verità e le cose giuste. AV. Parliamo del tuo modo di fare cinema e del tuo rapporto con il cinema americano, il cinema politico, il cinema impegnato e quello popolare. Hai spesso affermato che il cinema è un furto, ma apparentemente pensi anche che sia l’argomento più naturale per un documentario. Hai rifiutato l’idea di un cinema politico, ma realizzi film politici che sono anche interessati a come si trasmetta la cultura. Potresti spiegare come questi aspetti del tuo cinema si sono evoluti e cosa ti aspetti da un pubblico e dai critici? Ricordo che nel 1983 durante un film festival affermasti di non essere interessato ai critici in quanto categoria, ma che ti fidi solo di quelli di cui arrivi a fidarti in quanto membri di un pubblico. GA. Mi sento fortemente a disagio a dire qualsiasi cosa, dal momento che ciò che hai detto era più un’affermazione che una domanda, che non necessita i miei commenti. Posso dire che le storie che racconto sono esistite in casa mia. Le ho trovate attorno a me e le ho vissute direttamente. Non è un mistero che tutte le mie storie ruotino attorno agli stessi sentimenti. I miei film si richiamano l’un l’altro per ciò che riguarda i sentimenti e la struttura di base. AV. In queste storie ho cercato di trovare la figura di un buon padre, non dico uno perfetto, ma non sono riuscito a trovarne nessuno. Puoi aiutarmi? Come dev’essere un buon padre per te? GA. (ridendo) Racconto storie che ho vissuto. Tutti i miei film raccontano storie d’amore in maniera non schematica. Le mie storie sono imprevedibili, dove un sentimento o un rapporto non è il risultato di una relazione codificata o ti cade addosso o è imposto. In tutte le relazioni nei miei film, soprattutto quelle fra padre e figlio, il rapporto è putativo. Per esempio, in La città del sole un uomo cerca di trasferire la sua conoscenza ad un analfabeta. O nel caso di Così ridevano la situazione è ribaltata: un analfabeta vuole che il fratello diventi un insegnante, sperando forse di beneficiare in qualche modo

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dell’emancipazione del fratello. Tutti quelli che non hanno cultura da dare, ma solo un pezzo di pane, come in Lamerica, non sono sempre padre e figlio, ma individui che, nei loro viaggi, sviluppano una relazione che può essere paragonata a quella tra genitore e figlio. Questo viene dalla mia idea che ognuno di noi assume il ruolo di genitore o figlio in momenti diversi delle nostre vite. È importante imparare ad assumere entrambi i ruoli, non solo nei confronti di chi ci ha messo al mondo, e anche a cambiare ruoli. In tutti i miei film c’è sempre un momento i cui le parti si invertono: il forte diventa debole e viceversa. AV. Ciò che trovo interessante e anche non convenzionale è che dal punto di vista tematico i tuoi film sono differenti, nonostante tu abbia affermato di essere stato il prodotto di molte mode del tuo tempo, almeno prima che tu decidessi che era giunto il momento di cambiare o di fare cose diverse. Per esempio, dopo il neorealismo, i nuovi registi volevano sopprimere i loro padri culturali (pensa a Bertolucci e Godard o Pasolini). La generazione successiva affermò di essere orfana. I registi contemporanei sentono di essere stati abbandonati. Asor Rosa ritiene che, in Italia, ci siano sempre stati fratricidi e non patricidi. Al contrario, tu stavi e stai tuttora cercando un buon padre e credo che in vari modi tu ne abbia trovato uno in La stella che non c’è. AG. Hai perfettamente ragione. Diciamo una cosa: se esiste un elemento che contraddice questa tendenza è che, come hai messo in luce, è inevitabile, corretto. La contraddizione in tutti i miei film è una profonda nostalgia per un padre. Un padre reale, non un padre possibile o una qualche sorta di padre, e immagini di padri che hanno un estremo, spasmodico bisogno di un figlio, qualsiasi tipo di figlio, al quale trasmettere qualcosa. I miei film esprimono la paura di non avere qualcuno. AV. È interessante notare come tu sia diventato un modello, e quindi una figura paterna, per molti nuovi registi, nonché un vero padre, non solo dal punto di vista artistico, adottando qualcuno con cui condividi delle cose e per il quale provi dei sentimenti.

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GA. Sì, so che molti registi lo dicono, ma lo lascio a loro. Non sono il tipo di figli che volevo, non perché non abbia stima di loro, ma non ho mai pensato di avere dei seguaci. Per me i figli sono tutti quelli che non ho potuto adottare come ho fatto con mio figlio Luan. C’è qualcosa di molto simbolico in questa adozione perché non è un caso che Luan sia albanese e che, quando ci incontrammo, non parlasse una parola di italiano. Non è nemmeno un caso che mio figlio abbia imparato l’italiano da me, a partire dalle lettere dell’alfabeto e dai numeri, che abbia studiato latino, matematica e a leggere un libro. Il piccolo Archimede è molto critico nei confronti degli adulti. In questo caso non posso essere critico con me stesso. La stella che non c’è è come ciò che accadde: un uomo si lega ad una donna attraverso un bambino, scopre un sentimento per una donna che potrebbe essere la figlia, e grazie al bambino che ama, ne diventa il padre. AV. Un figlio può crescere per essere cattivo. GA. Carmelina [in Porte aperte] sta crescendo male. Non credo che suo padre sia davvero un buon padre, non sto completamente dalla sua parte. Sto dalla parte di Consolo, il giurato. Credo che nel giudice, e non a caso mio fratello è giudice, ci sia un certo rigore, e se questo diventa patologico, le persone che ti stanno accanto, i bambini, lo assorbono. Carmelina assorbe un sistema di giudizio, quindi si sente in una posizione dalla quale può correggere gli altri, come quando corregge l’italiano della zia, o interviene in maniera impertinente o attribuisce una morale alle favole che lei racconta al padre, anziché il contrario. Dicono che ci sia un rapporto problematico tra i miei Vincenzo e Leonardo, un’identificazione con i miei personaggi che non si verifica, per esempio, con il padre in Le chiavi di casa. Non avrei mai abbandonato un figlio con seri problemi di salute. Avrei commesso degli errori, ma non avrei mai pianto di fronte a mio figlio, come fa lui. È il figlio che conferisce forza a quella relazione, non il padre, e gli insegna una verità quando gli dice: (ti ricordi la frase?) «Non si fa così», non si piange. No, uno deve lottare per le cose belle, non piangere di fronte agli errori. Questa è una verità che mi ha insegnato mia madre. Lei non avrebbe mai pianto.

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In questo ultimo film per la prima volta nella mia carriera, mi identifico completamente con il personaggio di Vincenzo, anche se la morale del film è enunciata in un modo semplice e leggero, attraverso una parabola. Non c’è nessuno schieramento politico, nessuna presa di posizione politica quando Liu Hua gli dice «La Cina senza i cinesi, l’Italia senza gli italiani». Il mio manifesto, la mia morale, è meno arrogante rispetto a quella di molti dei miei personaggi, che possono essere prepotenti in molti modi diversi. Per esempio, per me perfino Giovanni è arrogante quando impone certe cose a Pietro, nonostante non se ne renda conto. Il padre in Le chiavi di casa, dopo quindici anni d’assenza, si aspetta che il figlio lo ami immediatamente, senza comprendere che non ne ha motivo. Tutti i personaggi in Lamerica hanno qualcosa di negativo, anche il vecchio Spiro, che dice una cosa orribile quando vede che tutti gli altri sulla nave sono con le loro famiglie e i loro bambini e cerca di giustificarsi dicendo che sua moglie è sempre malata e debole e che suo figlio Nino è troppo piccolo, troppo malato e con la febbre. Spiro è un personaggio che non posso perdonare, un avventuriero che è pronto a sbarazzarsi delle proprie responsabilità. È lo specchio dell’Italia di mio padre. Se devo dire quali sono i miei veri ideali, allora mi ritrovo con Leonardo in La fine del gioco, sono Vincenzo in La stella che non c’è e sono Rosetta in Il ladro di bambini. Leonardo rifiuta il cinema... Rosetta è la persona che subisce la peggior umiliazione possibile, fatta prostituire dalla sua stessa madre, la persona che le ha dato la vita e che dovrebbe proteggerla e amarla più di ogni altro. Lei non si ribella ma si protegge tenendo gli altri a distanza, affermando «Non ti voglio bene perché nessuno ha avuto la forza o il coraggio di volermi bene». Ora si innamora di Antonio e alla fine comprende che si tratta di un sogno impossibile e lo lascia andare, vittima di un amore che non può confessare. Ho costruito l’intero film attorno all’amore nascosto di questa ragazzina. Lei è spaventata di fronte a questo sentimento insolito. È puro ed unisce nel personaggio di Antonio tutte le caratteristiche di padre-madre-amante-fratello. Non può farci niente, quindi quando lui si addormenta, lei se ne va senza svegliarlo. Quando lo guarda, capisce che l’amore sarebbe impossibile, un altro errore...

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AV. Tu sei anche madre, la Rampling. GA. Sì, mi identifico più con il personaggio femminile rispetto a quello maschile. La frase che pronuncia nel film è dettata dalla rabbia. L’amore per questa donna è l’accettazione. Quando sei un bambino, tutti ti amano e poi ti ritrovi solo da adulto. Questo è il suo pensiero e non vuole che la figlia muoia. È l’opposto della madre in Il ladro di bambini. AV. Lei ha scelto di rimanere. I tuoi personaggi dall’inizio vogliono scappare. GA. Da Leonardo in poi sì, vogliono scappare. Rosetta vuole scappare. Il ragazzino, Luciano, vuole vendicarsi. All’età di tredici anni sapevo già cosa avrei voluto fare. Quando è possibile vivere in questo mondo o rimanere ad affrontare il fatto che non c’è nessun posto in cui scappare, nessun posto in cui andare? Infatti nei miei film la maggior parte dei personaggi ritorna o è riportata indietro. Scappare è impossibile. Puoi fuggire da una situazione immediata, ma poi ti trovi a doverne affrontare un’altra. Che cosa ti insegnerà la situazione che incontrerai domani? Che devi affrontarla. Stai toccando un punto debole: Luan mi chiede dove possiamo andare. Allora gli rispondo che possiamo andare in una città vicina, senza fare un cambiamento di 180 gradi. Non possiamo sfuggire al cambiamento: è dentro di noi.

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FILMOGRAFIA LA FINE DEL GIOCO 1970 Regia, soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio. Fotografia (16mm, b/n): Giulio Albonico. Montaggio: Cleofe Conversi. Suono: Mario Dallimonti. Interpreti: Luigi Valentino (Leonardo), Ugo Gregoretti (il regista). Produzione: Dazzi & Sagliocco Film per RaiTv Programmi Sperimentali, serie Autori nuovi. Durata: 58’. Origine: Italia, 1970. Girato nella seconda settimana di aprile del 1970 a Catanzaro e sul treno della linea Roma-Reggio Calabria. Prima proiezione: 7-9-1970 sul secondo canale della Rai. Un regista televisivo, che sta filmando un’inchiesta sulle carceri minorili, prende come soggetto del suo programma Leonardo, un ragazzo calabrese di dodici anni, rinchiuso da tempo in un riformatorio del sud. Dopo le riprese e le interviste all’interno dell’istituto, i due partono insieme per completare il “servizio” nel paese di origine del ragazzo. Durante il viaggio in treno, fuori dai condizionamenti della telecamera Leonardo si apre un po’ di più verso il regista, testimoniando di una realtà ben più dura e inconfessata. Ma trova nell’altro soltanto un’attenzione freddamente professionale. Così, alla prima occasione, Leonardo scende dal treno e si dilegua. LA CITTÀ DEL SOLE 1973 Regia soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio. Fotografia (16mm, colore): Tonino Nardi. Montaggio: Donatella Baglivo. Scenografia: Giuseppe Piantanida. Costumi: Vittoria Guaita, Maurizio Millenotti. Musica: Remigio Ducros. Suono: Raoul Montesanti. Interpreti: Giulio Brogi (il monaco), Daniel Sherrill (il ragazzo), Umberto Spadaro (il padre), Riccardo Mangano (il vescovo), Giancarlo Palermo, Ernesto Colli (gli inquisitori), Bedi Moratti (la donna), Luigi Valentino (il ragazzo della Spiaggia). Produzione: Fabrizio Lori per Arsenal Cinematografica s.r.l./RaiTv Programmi Sperimentali. Durata: 84’. Origine: Italia, 1973. Riprese effettuate nel mese di agosto 1972 a Matera, Padula, Orvieto e Marina di Alberese (Grosseto).

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Prima proiezione: maggio 1973 (Quinzaine des Réalisateurs, Cannes). Trasmesso per la prima volta il 3-1-1976 dal secondo canale della Rai. In Calabria, ai primi del ‘600. Con l’accusa di aver fomentato con le loro prediche alcuni tentativi di rivolta di contadini e briganti, frati domenicani vengono imprigionati dalle autorità spagnole che dominano il sud. Uno di loro è Tommaso Campanella, incarcerato per oltre vent’anni e sottoposto anche al giudizio dell’Inquisizione cattolica per eresia e presunte pratiche stregonesche. Prendendo liberamente spunto dai dati biografici e dalla sua opera filosofica, il film propone in una sorta di “saggio fantastico” una riflessione sul ruolo dell’intellettuale in rapporto al potere, del suo porsi tra impegno attivo e riflessione. La storia di Campanella torturato in carcere si intreccia con quella di un monaco che vaga misteriosamente tra i luoghi della rivolta fallita, e con i suoi dialoghi con un ragazzo incontrato lungo il cammino. BERTOLUCCI SECONDO IL CINEMA 1976 Regia: Gianni Amelio. Fotografia (16mm, colore): Renato Tafuri. Montaggio: Sergio Nuti. Suono: Remo Ugolinelli, Corrado Volpicelli. Con: Bernardo Bertolucci, Sterling Hayden, Dominique Sanda, Robert De Niro, e altri attori e tecnici del film Novecento di Bernardo Bertolucci. Produzione: Luca Olmastroni per Daria Cinematografica s.r.l./RaiTv Programmi Sperimentali. Durata: 62’. Origine: Italia, 1976. Trasmesso per la prima volta il 28-2-1976 dal secondo canale della Rai. “Appunti” sulle riprese di Novecento. Fra prove filmate, il racconto di un’intera giornata di lavoro che fa da filo conduttore, osservazioni dietro le quinte, affiorano momenti più intimi, come l’autoritratto di Sterling Hayden lungo il fiume e brani di conversazione sul cinema con Bertolucci. LA MORTE AL LAVORO 1978 Regia: Gianni Amelio. Soggetto: liberamente ispirato al racconto Il ragno di Hans H. Ewers. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Mimmo

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Rafele. Fotografia (Ampex, b/n): Angelo Sciarra. Scenografia: Nicola Rubertelli. Musica: dal repertorio di Bernard Herrmann (brani da Vertigo) e Leonard Rosenmann (brano da East of Eden). Canzone dei titoli: «Que sera sera», cantata da Doris Day. Interpreti: Federico Pacifici (Alex), Giovannella Grifeo (la sua fidanzata), Eva Axen (la ragazza della casa di fronte), Fausta Avelli (la bambina), Clara Colosimo (la custode), Lydia Biondi (la voce al telefono). Produzione: RaiTv/Rete 2. Delegato alla produzione: Gaetano Stucchi. Durata: 83’. Origine: Italia, 1978. Riprese effettuate in ampex nello Studio 2 della sede Rai di Napoli, nel mese di febbraio del 1977. In seguito vidigrafato su pellicola 35mm, b/n. Prima proiezione: agosto 1978 (Festival di Locarno). Trasmesso per la prima volta in tv il 12-1-1979 dalla Rete 2 della Rai nella serie L’ultima scena. Appena arrivato nell’appartamento lasciato libero da un giovane attore morto suicida. Alex si trova sempre più coinvolto nell’atmosfera fantasmatica del luogo. L’ambiente è ancora zeppo di ricordi del precedente inquilino – oggetti teatrali, manifesti di film e di divi del passato – e il giovane riceve strane telefonate notturne. Poco alla volta esclude dalla sua vita la fidanzata per instaurare un rapporto muto, a distanza, con una ragazza che abita in un appartamento di là della strada. Trovati in un armadio a muro degli abiti e una pistola appartenuti all’attore, Alex giunge all’ultimo atto. Indossa i vestiti e finisce coll’uccidersi con l’arma da fuoco, non si sa fino a che punto consapevolmente. EFFETTI SPECIALI 1979 Regia: Gianni Amelio. Soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio, Mauro Marchesini. Fotografia (Ampex, colore): Ugo Settembre. Scenografia: Nicola Rubertelli. Musica: dal repertorio di Bernard Herrmann (brani da White Witch Doctor e The Trouble with Harry). Interpreti: Aldo Reggiani (Luca), José Quaglio (Boris Delvaux), Olga Karlatos (Martha), Jacques Herlin (Max), Angela Goodwin (la governante), Pamela Villoresi (Gloria). Produzione: Rai Tv/Rete 2. Delegato alla produzione: Gaetano Stucchi. Durata: 62’. Origine: Italia, 1979.

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Riprese effettuate in VR 3000 nello Studio 2 della sede Rai di Napoli nel mese di aprile del 1978. Trasmesso per la prima volta il 9-2-1979 dalla Rete 2 della Rai nella serie L’ultima scena. Luca, un giovane cinefilo che coltiva qualche ambizione, arriva in piena notte nella villa sul lago di Boris Delvaux, celebre regista di film gotici, da tempo emarginato. Sua palese intenzione sarebbe proporre al regista una sua sceneggiatura, ma viene subito conquistato dall’ambiente suggestivo e dall’intrigante personalità del suo anfitrione, fino a farsi coinvolgere in un gioco in cui, con la complicità di altri ospiti, si ricostruiscono celebri omicidi di vecchie pellicole horror. Ma il gioco diventa sempre più pericoloso, al punto che Delvaux stesso, la cui vita è andata sempre più intrecciandosi col senso di morte incombente dei suoi film, rimane ucciso da una delle sue “creature”. IL PICCOLO ARCHIMEDE 1979 Regia e sceneggiatura: Gianni Amelio. Soggetto: dal racconto omonimo di Aldous Huxley. Fotografia (16mm, colore): Guido Bertoni. Montaggio: Giorgio Pozzi. Scenografia: Ferdinando Ghelli. Costumi: Aldo Buti. Abiti di Laura Betti: Gabriella Pescucci (non accreditata). Musica: Roman Vlad, eseguita al piano dall’autore; e brani di: Beethoven («Egmont»), Mozart («Concerto K. 466 per pianoforte e orchestra», «Concerto K. 219 in La maggiore per violino e orchestra»), Bach («Concerto brandeburghese», «Passione secondo Matteo»). Suono: Arrigo Rasi. Interpreti: John Steiner (Alfred Heines), Laura Betti (la signora Bondi), Aldo Salvi (Guido), Shirley Corrigan (Elisabeth Heines), Mark Morganti (Robin), Graziano Giusti (il signor Bondi), Renato Moretti (il padre di Guido), Franco Pugi (il ragazzo a Ponte Vecchio). Produzione: RaiTv/Rete 2. Delegata alla produzione: Lucia Campione. Durata: 85’. Origine: Italia, 1979. Riprese effettuate a Firenze e dintorni nell’estate del 1978. Prima proiezione: agosto 1979 (Festival di San Sebastián). Trasmesso per la prima volta il 7-3-1980 dalla Rete 2 della Rai nella serie Novelle dall’Italia.

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Firenze anni’30. Alfred Heines, uno studioso inglese dell’arte italiana, soggiorna con la moglie Elisabeth e il figlioletto Robin in una villa sulle colline, proprietà della signora Bondi, ex attrice senza figli sposata con un anziano gentiluomo. Alfred dovrebbe portare a termine una monografia su Giotto, ma la sua attenzione è attratta da Guido, sette anni, figlio di contadini analfabeti, occasionale compagno di giochi di Robin. Guido mostra un’intelligenza fuori dal comune e una straordinaria disposizione per la matematica e la musica. Un “genio” naturale, uno dei tanti che nascono – pensa Alfred – in quella terra fortunata. Tra l’adulto e il bambino si instaura un legame forte ed esclusivo, interrotto bruscamente dalle circostanze. Alfred e la sua famiglia sono costretti a partire per la Svizzera a causa di uno strano malessere di Robin. Durante la loro assenza, Guido viene “venduto” dal padre alla signora Bondi, che lo adotta e lo porta nella sua ricca dimora fiorentina, per esibirlo come genio precoce. Qualche mese dopo, Alfred riceve una lettera di Guido, arrivata in ritardo per via dell’indirizzo impreciso. Guido gli chiede aiuto. Ma Alfred torna a Firenze troppo tardi: il bambino è morto, caduto giù da una finestra della casa della “padrona”. Dicono che è stato un incidente, forse Guido, sentendosi tradito, ha scelto di morire. COLPIRE AL CUORE 1982 Regia e soggetto: Gianni Amelio. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Vincenzo Cerami. Fotografia (35mm panoramico 1:66, colore): Tonino Nardi. Montaggio: Anna Napoli. Scenografia: Marco Dentici. Costumi: Lina Nerli Taviani. Musica: Franco Piersanti. Brani e canzoni: «Pavane» di Gabriel Fauré, «Your Love and Mine» di PiersantiWilliams, cantata da Vicky Williams, «Rondine al nido», cantata da Beniamino Gigli. Sno: Remo Ugolinelli. Interpreti: Jean-Louis Trintignant (Dario), Fausto Rossi (Emilio), Laura Morante (Giulia), Sonia Gessner (la madre di Emilio), Vanni Corbellini (Sandro Ferrari), Laura Nucci (la madre di Dario), Matteo Cerami (Matteo, il bambino), Vera Rossi (la sorella di Emilio). Produzione: Enzo Porcelli con la collaborazione di Enea Ferrario per RaiTv 1/Antea Cinematografica. Distribuzione: Gaumont. Durata: 105’. Origine: Italia, 1982. Riprese effettuate a Milano e a Bergamo nella primavera del 1982. Prima Proiezione: settembre 1982 (Mostra di Venezia).

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Dario è un professore universitario cinquantenne. Suo figlio Emilio, di quindici anni, studia al liceo classico. Una domenica, nella casa di campagna della nonna, a Bergamo, ricevono la visita inaspettata di Sandro e della sua compagna Giulia, con il loro bambino di pochi mesi. Sandro è un ex allievo di Dario, con il quale mantiene una sorta di complicità, che Emilio rileva con forte antipatia. Al contrario di Giulia, riservata e sensibile, Sandro gli appare troppo sicuro di sé e un po’scostante. Una sera, mentre torna a casa in tram, Emilio si ferma sul luogo di uno scontro a fuoco nel centro di Milano. Oltre a due carabinieri morti, sull’asfalto è riverso il cadavere di Sandro, Sandro era un terrorista. Emilio è spaventato, teme che qualcuno possa implicare la sua famiglia, vorrebbe parlarne con il padre. Ma Dario quella sera è assente, perciò Emilio si presenta al posto di polizia per dire quello che sa del giovane ucciso. La mattina dopo, Dario viene convocato e interrogato. Quando padre e figlio tornano a casa, qualcosa si è incrinato tra loro. Qualche giorno dopo, Emilio incontra casualmente Giulia per strada: cammina in mezzo alla gente, mentre la polizia la cerca, come testimone o complice del suo compagno. Il ragazzo la segue e scopre dove abita. Ne parla con il padre, ma Dario resta evasivo, sostenendo di non averla più vista ma di averle consigliato, a suo tempo, di costituirsi. Gli dice di dementicare: è una vicenda che non li riguarda più. Ma Emilio non sa darsi pace, continua a pedinare Giulia e un giorno la sorprende con Dario all’università. Di nascosto li fotografa e lascia una foto tra le carte del padre. Quando Dario trova la fotografia, la crisi con il figlio precipita. Dario rivendica una paternità ormai priva di certezze morali, Emilio invece la pretende. Dopo una notte di litigi e riconciliazioni col figlio, Dario va a trovare Giulia per consegnarle il biglietto del treno e aiutarla a partire. Emilio, che lo ha seguito e denunciato alla polizia, assiste all’arresto di entrambi, poi, solo, si allontana. I VELIERI 1983 Regia e sceneggiatura: Gianni Amelio. Soggetto: dal racconto omonimo di Anna Banti (nel libro Da un paese vicino, edizioni Mondadori). Collaborazione alla sceneggiatura: Mimmo Rafele. Fotografia (16 mm, colore): Tonino Nardi. Montaggio: Anna Napoli. Scenografia e costumi: Lina Nerli Taviani, Pamela Aicardi. Musica:

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Franco Piersanti. Brani: «Fantasia per flauto e orchestra» di Gabriel Fauré e Collin; «Ypsilon in Malaysian Pale», composto ed eseguito da Edgar Froese; «Nacht und Träume» di Schubert, eseguita da Kiri Te Kanawa. Suono: Alessandro Zanon. Interpreti: Raphael Mendez De Azeredo (Jean), Monique Lejeune (la madre), Eva Pilz (l’istitutrice), José Quaglio (il medico), Ignazio Oliva (l’amico di Jean), Paolo Repetti (il professore). Monique Lejeune è doppiata in italiano da Angiola Baggi. Produzione: Rai TV/Rete 3. Delegata alla produzione: Simona Gusberti. Produzione esecutiva: Antea Cinematografica s.r.l. Durata: 62’. Origine: Italia, 1983. Riprese effettuate a Rocca Sinibalda, in provincia di Rieti, nel mese di gennaio del 1983. Trasmesso per la prima volta il 30-4-1983 dalla Rete 3 della Rai nella serie Dieci racconti per dieci registi. Jean, un bambino di dodici anni, vive nel grande, lussuoso castello di famiglia come in una gabbia dorata. Una madre malata di nervi, una governante autoritaria e un padre ricchissimo ma assente fanno sentire il loro peso sulla vita del ragazzo; tanto che Jean vive il ricordo di un suo rapimento, avvenuto quando era molto piccolo, come una sorta di avventura. Dell’esperienza vissuta allora, Jean conserva soprattutto la memoria dell’immagine di un modellino di veliero in bottiglia. L’atmosfera domestica si fa sempre più soffocante, al punto che il ragazzo architetta un sistematico piano per far esasperare la madre fino al crollo nervoso e spingerla al ricovero in clinica. Così Jean può approfittarne per fuggire e raggiungere, sulla base di una fotografia ritrovata in un giornale, il luogo della sua detenzione, un faro abbandonato. Là il ragazzo incontra un vecchio marinaio, dal quale apprende che il padre si era disinteressato di lui al punto da non pagare il riscatto e che, se è ancora vivo, lo deve alla pietà di uno dei suoi carcerieri. I RAGAZZI DI VIA PANISPERNA 1988 Regia: Gianni Amelio. Soggetto: Vincenzo Cerami, Gianni Amelio. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Alessandro Sermoneta. Fotografia (35mm, panoramico 1:66, colore): Tonino Nardi. Montaggio: Roberto Perpignani. Scenografia: Franco Velchi. Arredamento: Maria

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Paola Maino. Costumi: Lina Nerli Taviani. Musica: Riz Ortolani. Interpreti: Andrea Prodan (Ettore), Ennio Fantastichini (Enrico), Laura Morante (Laura), Michele Melega (Franco), Giovanni Romani (Edoardo), Alberto Gimignani (Emilio), Giovanni Romani (Edoardo), Giorgio Dal Piaz (Bruno), Cristina Marsillach (Margherita), Mario Adorf (il professor Corbino), Georges Geret (il frate), Virna Lisi (la madre di Ettore), Sabina Guzzanti (la fidanzata di Edoardo), Valeria Sabel (l’annunciatrice dell’Eiar), Nicola Vigilante (il professore di matematica), Carlo Boldrini (il bidello), Stefano Antoci (Ettore da bambino), Matteo Di Castro (uno studente universitario), Luigi Montini (un professore all’università di Napoli), Eugenia Costantini (la figlia di Enrico e Laura), James Braddley (il giornalista americano). Nella versione televisiva compaiono inoltre: Lydia Biondi (una segretaria dell’università), Michele Tortorici (un segretrio dell’università), Peter Hintz (il professore tedesco), Eleonora Morabita (Carmelina). Giorgio Dal Piaz è doppiato da Roberto De Francesco, Georges Geret da Glauco Onorato. Produzione: Conchita Airoldi, Dino Di Dionisio per Urania Film s.r.l./Rai1. Coproduttore: Betafilm (Munchen). Distribuzione: Bim. Durata: 123’ (versione televisiva: 180’). Origine: Italia 1988. Riprese effettuate nei mesi di settembre e ottobre del 1987 a Roma, in provincia di Ragusa e a Cernobbio (Como). Alcuni interni negli Studi De Paolis di Roma. Prima proiezione: settembre 1988 (Festival Europa Cinema, Bari). La versione televisiva è stata trasmessa per la prima volta il 18-21990 (prima parte) e il 25-2-1990 (seconda parte). Negli anni ’30, a Roma, prima studenti poi scienziati, «i ragazzi di via Panisperna» sono destinati a cambiare il corso della ricerca scientifica, seguendo poi ciascuno la propria avventura umana. Nella facoltà di Fisica della celebre via, si incontrano, ancora giovanissimi, Ettore, Emilio, Edoardo e infine Bruno, che studiano sotto la guida di Enrico, giovane professore già accademico d’Italia. Tra scherzi goliardici alquanto elaborati – memorabile è una burla radiofonica a spese di Guglielmo Marconi, considerato il simbo-

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lo della “vecchia” fisica ufficiale – e traguardi raggiunti con grande ostinazione, il gruppo riesce a imporre nel tempo esperimenti sull’atomo di portata rivoluzionaria. Tra gli altri emerge, in un costante rapporto di reciproca ammirazione e diffidenza, di slanci e rancori, un’amicizia tra Enrico ed Ettore che si svela e s’infrange di continuo nella differenza dei loro metodi scientifici. Enrico infatti è lo scienziato sperimentatore, mentre Ettore è il “puro”, sempre stimolato da un intuito misterioso e geniale. Diversi anche come personalità e carattere (pragmatico e più disinvolto il professore, introverso e inquieto Ettore, che forse si pone già angosciosi interrogativi sulle responsabilità della scienza), il loro incontro-scontro è inevitabile. Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Enrico, insignito del premio Nobel, ripara negli Stati Uniti con la moglie Laura, che è di religione ebraica. Mentre il gruppo si disgrega, Ettore appare sempre più stanco e smarrito. Non ancora trentenne, si rifugia per qualche tempo nella grande casa di famiglia in Sicilia, vivendo tra i contadini. Poi torna, ma per breve tempo, a insegnare all’università di Napoli. Lo vedono per l’ultima volta sul traghetto che attraversa di notte il mar Tirreno. Poi le sue tracce si perdono per sempre. PORTE APERTE 1990 Regia: Gianni Amelio. Soggetto: dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia (edizioni Adelphi, 1987). Sceneggiatura: Gianni Amelio, Vincenzo Cerami, con la collaborazione di Alessandro Sermoneta. Fotografia (35mm, 1:66, colore): Tonino Nardi. Montaggio: Simona Paggi. Scenografia: Franco Velchi, Amedeo Fago. Costumi: Gianna Gissi. Musica: Franco Piersanti. Suono: Remo Ugolinelli. Interpreti: Gian Maria Volonté (Vito Di Francesco), Ennio Fantastichini (Tommaso Scalìa), Renato Carpentieri (Consolo), Renzo Giovampietro (il presidente Sanna), Silverio Blasi (il procuratore), Vitalba Andrea (Rosa Scalìa), Tuccio Musumeci (l’avvocato Spadafora), Lydia Alfonsi (la marchesa Spadafora), Tony Palazzo (l’autista), Giacomo Piperno (il pubblico ministero), Roberto Nobile (il ragionier Speciale), Antonio Appierto (Lo Prete, un testimone), Nicola Badalucco (il dottor Canillo, altro testimone), Paolo Volpicelli (il padre di Vito), Maria Spadola (la sorella di Vito), Cinzia Insiga (l’altra sorella di

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Vito), Giancarlo Kory (il cognato), Francesco Sineri (Peppuccio, il nipotino), Fabrizio Mendola (Leonardo), Eleonora Schininà (Carmelina), Orazio Stracuzzi (l’avvocato Colao), Domenico Gennaro (il postulante nel cimitero), Gigliola Raja (la maestra), Maria Lauretta (la signora Sanna), Sara Micalizzi (la suora dell’ospizio), Nino Isaja (il vecchio dell’ospizio), Melita Poma (la signorina in casa Sanna), Luigi Stefanachi (il medico del carcere), Turi Catanzaro, Francesco Gabriele, Nicola Vigilante, Pietro Bertone (i giurati), Vittorio Zarfati (il cancelliere), Produzione: Rizzoli per Erre Produzioni/Istituto Luce/Urania Film, in collaborazione con Rai 2. Produttori esecutivi: Conchita Airoldi, Dino Di Dionisio. Distribuzione: Istituto Luce. Durata: 108’. Origine: Italia, 1990. Riprese effettuate nell’Autunno del 1989 a Palermo e Pachino. Alcuni interni realizzati negli Studi De Paolis di Roma. Prima proiezione: maggio 1990 (Quinzaine des Réalisateurs, Cannes). Palermo, 1938. Tommaso Scalia uccide l’avvocato Spadafora, dirigente della Confederazione fascista Professionisti e Artisti (da cui Scalìa era stato allontanato per illeciti), un impiegato dello stesso ufficio che aveva preso il suo posto e la propria moglie infedele. Dopodiché, torna a casa e aspetta i carabinieri. Al processo confessa, senza pentirsi. Pressioni dall’alto e la pubblica opinione richiedono ai giudici una punizione esemplare: la condanna a morte. Solo un magistrato, il giudice a latere Vito Di Francesco, che ha molti dubbi sulla pena capitale si batte contro questa decisione scontata. Avvalendosi degli strumenti della legge, tenta di ricondurre il triplice omicidio a un unico movente, e durante il dibattimento svela l’intreccio di legami che esisteva tra l’imputato, la moglie e le altre due vittime. Di fronte alle difficoltà, il giudice è sul punto di arrendersi, ma trova inaspettatamente schierato dalla propria parte uno dei giudici popolari, Consolo, un semplice agricoltore, che in camera di consiglio si batte quanto e più di lui. Così, al giudizio di primo grado, Scalìa viene condannato all’ergastolo. Dopo la sentenza i due si incontrano in campagna, una domenica di festa. Qui con sorpresa il giudice apprende che quel contadino ha letto tanti libri, conosce Dostoevskij, ma oppone alla fiducia dell’altro un malinconico pessimismo sull’evoluzione di quel caso giudiziario. Infatti, dopo

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il processo d’appello, la condanna a morte di Scalìa sarà eseguita e il giudice Di Francesco verrà esiliato in una sperduta procura di provincia. I LADRO DI BAMBINI 1992 Regia: Gianni Amelio. Soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli. Aiuto regista: Marco Turco. Assistente e collaboratrice ai dialoghi: Giorgia Cercere. Fotografia (35mm 1:66, colore): Tonino Nardi, Renato Tafuri. Montaggio: Simona Paggi. Musica: Franco Piersanti. Suono: Alessandro Zanon. Scenografia: Andrea Crisanti. Arredamento: Giuseppe M. Gaudino. Costumi: Gianna Gissi, Luciana Morosetti. Trucco: Esmé Sciaroni. Musica: Franco Piersanti. Canzoni: «I maschi», «Fotoromanza», «Sognando California», «Anna da dimenticare», «Notte di San Valentino», «Domenica bestiale», «Nun chiagnere». Suono: Alessandro Zanon. Interpreti: Enrico Lo Verso (il carabiniere Antonio Criaco), Valentina Scalici (Rosetta), Giuseppe Ieracitano (Luciano), Maria Pia Di Giovanni (la madre di Rosetta e Luciano), Florence Darel (Martine), Marina Golovine (Nathalie), Fabio Alessandrini (il carabinere Grignani), Agostino Zumbo (il prete dell’istituto), Vincenzo Peluso (il carabiniere napoletano), Santo Santonocito (il carabiniere che stira), Vitalba Andrea (la sorella di Antonio), Massimo De Lorenzo (il geometra Papaleo), Celeste Brancato (la signora Papaleo), Renato Carpentieri (il maresciallo di polizia), Lello Serrao (il cliente di Rosetta), Antonino Vittorioso (lo scippatore). Produzione: Angelo Rizzoli per Erre Produzioni. Coproduttori: Bruno Pesery per Arena Films (Parigi), Vega Film (Zurigo). Produttore esecutivo: Enzo Porcelli per Alia Film. Distribuzione: Darc. Durata: 112’. Origine: Italia/Francia, 1992. Riprese effettuate nell’estate del 1991 a Milano, Bologna, Roma, Civitavecchia, Reggio Calabria, Marina di Ragusa, Noto, Gela. Prima Proiezione: marzo 1992 a Roma. Alla periferia di Milano viene arrestata una giovane donna di origine siciliana: è accusata di aver prostituito sua figlia Rosetta, appena undicenne. Antonio Criaco, un carabiniere calabrese, è incaricato di scortare la bambina e il fratello minore, Luciano, fino a un

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istituto nei pressi di Civitavecchia. Sul treno dovrebbe accompagnarlo un collega che però, alla stazione di Bologna, si “imbosca”, lasciando Antonio solo a gestire i due ragazzini, riottosi e ombrosi. A Civitabecchia un disguido burocratico fa sì che i ragazzini e il militare debbano affrontare un viaggio più lungo e imprevisto. La prima tappa è Roma, dove passano la notte in casa di amici carabinieri. La seconda fermata è nel paese di origine di Antonio, in Calabria, dove la sorella gestisce un ristorante lungo la superstrada che costeggia lo Jonio, in un mare di abusivismo edilizio. È Domenica, si festeggia una prima comunione. Antonio spaccia i bambini per i figli di un suo superiore, in viaggio verso casa. Sembra una parentesi di serenità; ma la copertina di un giornale di cronaca nera, che svela l’identità di Rosetta, li costringe a ripartire in fretta. Arrivano in Sicilia; la notte si fermano, sfiniti, in un piccolo albergo. Rosetta, che non riesce a dormire, chiede ad Antonio di lasciarli scappare. Dopo una mattinata passata in spiaggia, anche Luciano finalmente si scioglie; Antonio gli insegna a nuotare. Poi mangiano il pesce in una trattoria sul mare, dove incontrano due turiste francesi che chiedono un passaggio in macchina. Davanti al duomo di Noto, uno scippatore tenta di strappare la macchina fotografica di una delle ragazze. Antonio fa il suo dovere, lo blocca e lo arresta. Ma, al comissariato di polizia, è lui a trovarsi nei guai: sono tre giorni che porta in giro quei bambini, e rischia, secondo i codici che lui ignora, di essere addirittura accusato di sequestro di persona. È l’ultima notte. I tre arrivano alla periferia di Gela, estremo lembo della Sicilia. Nei pressi dell’istituto che ospiterà i due bambini. Antonio si concede una sosta in uno spiazzo desolato. Si addormenta, o finge di dormire, mentre all’alba Rosetta e Luciano sono ancora là, seduti sul bordo della strada. LAMERICA 1994 Regia: Gianni Amelio. Soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio, Andrea Porporati, Alessandro Sermoneta. Aiuto regista: Marco Turco. Fotografia (Technovision, anamorfico, colore): Luca Bigazzi. Montaggio: Simona Paggi. Scenografia e arredamento: Giuseppe M. Gaudino. Costumi: Liliana Sotira, Claudia Tenaglia. Musica: Franco Piersanti. Suono: Alessandro Zanon. Interpreti: Enrico Lo

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Verso (Gino Cutrari), Carmelo Di Mazzarelli (Spiro/Michele), Michele Placido (Fiore), Piro Milkani (Selimi), Elida Janushi (la cugina di Selimi), Sefer Pema (il direttore della prigione), Idjet Sejdia (il dottor Kruja), Marieta Ljarja (la direttrice della fabbrica), Elida Ndreu (la cantante del night), Ilir Ara (il guardiano dell’orfanotrofio), Liliana Subasi (la dottoressa), Artan Marina (Ismail), Vassjan Lamni (il poliziotto al posto di blocco), Nikolin Eliezi (il ragazzo che muore), Fatmir Gjyla (l’oste), Besim Kurti (il poliziotto della prigione), Elona Hoti (la bambina che balla), Esmeralda Ava (la bambina che insegna l’italiano), Luan Ujkaj, Luftar Brace, Elinor Ceckligi, Ferit Nutai, Klodian Rakai, Andi Toce, Shkelqi Daja, Dritan Alia, Saimir Tila, Marian Tifozi, Gezim Nutai, Altin Garupi, Ismail Kukai, Nuredin Ujkaj (ragazzi sul camion). Produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori, Enzo Porcelli per Cecchi Gori Group Tiger/Alia Film. Coproduttore: Bruno Pesery per Arena Films (Parigi), Vega Film (Zurigo). Distribuzione: Cecchi Gori Group. Durata: 128’. Origine: Italia/Francia, 1994. Realizzato interamente in Albania nell’estate/autunno del 1993. Le riprese della nave sono state effettuate nel giugno del 1994. Prima proiezione: settembre 1994 (Mostra di Venezia). Due faccendieri italiani, Gino e Fiore, intendono comprare per pochi soldi un calzaturificio nell’Albania postcomunista. Le leggi locali richiedono che la nuova azienda abbia come presidente un cittadino albanese, per cui i due rimediano in una ex prigione del regime il prestanome che fa per loro, Spiro Tozaj, un vecchio malato, senza nessuno al mondo e disturbato dal punto di vista mentale. Fiore, il più navigato dei due, torna in Italia, lasciando Gino ad affrontare da solo la gestione del dubbio affare. Ma alla vigilia di un appuntamento decisivo al ministero dell’industria, Spiro si volatilizza. Gino lo insegue e lo ritrova nell’ospedale di una cittadina del nord, dove è stato ricoverato in seguito a un’aggressione. La dottoressa che lo ha in cura dice a Gino di averlo sentito delirare in italiano. In effetti Spiro si chiama Michele Talarico, è siciliano, faceva parte delle truppe di occupazione durante la seconda Guerra Mondiale ed è rimasto sepolto per cinquant’anni nelle prigioni di Hoxha. Crede di essere in Italia alla fine della guerra e di avere poco più di vent’anni,

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con una moglie e un figlio piccolo lasciati in Sicilia, che vorrebbe raggiungere. Gino, pur di farlo tornare a Tirana, finge di assecondarlo. Ma il viaggio si rivela un’odissea. Qualcuno ruba le ruote alla macchina di Gino e si devono affidare a mezzi di fortuna, unendosi alle moltitudini di albanesi che tentano di raggiungere il porto di Durazzo e imbarcarsi per l’Italia. Trovato finalmente un telefono, Gino riesce a parlare con Fiore, che però gli comunica che l’affare è andato a monte. A questo punto, Spiro/Michele non serve più e Gino se ne sbarazza alla prima occasione, lasciandolo solo in un fatiscente ex albergo. Raggiunta Tirana, Gino viene arrestato con l’accusa di corruzione in combutta con il funzionario albanese che aveva fatto loro da tramite. Viene poi rilasciato, ma la polizia gli trattiene il passaporto. Vaga nella capitale scossa dai tumulti e per sfuggire al processo, si imbarca sulla nave di emigranti clandestini che cercano il benessere al di là dell’Adriatico. Sulla nave, in mezzo alla folla dei disperati, ritrova Spiro/Michele, che si addormenta (o forse muore) sulla sua spalla, sognando di essere in viaggio per l’America. NON È FINITA LA PACE, CIOÈ LA GUERRA 1996 Regia: Gianni Amelio, Fotografia (Betacam, colore): Ugo Carlevaro. Montaggio: Simona Paggi. Suono: Mirsad Tukic. Organizzazione: Marco Turco. Assistente: Luan Ujkaj. Produzione: Max Gusberti, Cecilia Cope per Rai 1 ed Enzo Porcelli per Alia Film. Durata: 32’. Origine: Italia 196. Rirpese effettuate a Sarajevo nel mese di luglio del 1996 per il progetto Oltre l’infanzia – Cinque registi per l’Unicef, a cura di Marina Sersale. Trasmesso per la prima volta il 13-12-1996 su Raiuno. Nel quartiere Dobrinja di Sarajevo, ragazzi e ragazze raccontano la loro vita quotidiana durante i quattro anni di guerra e nel presente, segnato da una fragile pace. COSÌ RIDEVANO 1998 Regia soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio. Fotografia (super35, colore): Luca Bigazzi. Montaggio: Simona Paggi. Scenografia: Giancarlo Basili. Costumi: Gianna Gissi. Musica: Franco Piersanti. Canzoni: «La mer», cantata da Charles renet, «One Way Ticket» e

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«Breaking Up Is Hard To Do», cantate da Neil Sedaka, «Cucara cha cha cha», eseguita da Perez Prado, «Un buco nella sabbia», cantata da Mina, «She’s a Lady», cantata da Paul Anka. Suono: Alessandro Zanon. Montaggio del suono: Benni Atria. Collaboratori del regista: Daniele Gaglianone, Lillo Iacolino, Alberto Taraglio, Laura Pariani. Interpreti: Enrico Lo Verso (Giovanni), Francesco Giuffrida (Pietro). E in ordine di apparizione: Arrivi: Calogero Caruana, Roberto Marzo, Davide Negro, Giorgio Pittau, Pasqualino Vona, Giuseppe Zarbano (gli amici di Giovanni), Giuliano Spadaro (il capofamiglia foggiano), Patrizia Marino (sua moglie), Giuseppe Sangari (suo figlio), Giorgia Scuderi (Assuntina), Maria Terranova (la zia), Antonino Trigilia (lo zio), Michele Trigilia (il cugino). Inganni: Claudio Contartese (Rosario), Barbara Braga (la ragazza del bar), Giovanni Leoni (il caporale sardo), Edoardo Ciciriello (il bidello napoletano), Aldo Rendina (il maestro di ballo), Anda Cirelli (la maîtresse), Rosaria Danzé (Lucia). Soldi: Vittorio Rondella (l’aiutante di Giovanni), Antonio Madaro (il leccese), Erika Doria (Alessandra, la studentessa), Jolanda Donnini (la signora Verusio), Massimo Greco (Carmelo, il muratore), Emanuele Aquilino (il ladro nel tram). Lettere: Irene Vistarini, Fabrizio Nicastro (due studenti), Renato Liprandi (il bidello), Domenico Ragusa (Simone, il carabiniere), Francesco Guzzo (il disoccupato nel bar). Sangue: Paolo Sena (il professor Rosini), Domenico Mungo (il direttore della cooperativa), Valerio Contartese (il disoccupato calabrese), Marco Testa (il cantante della festa), Giannicola Resta (il giovane ucciso). Famiglie: Simonetta Benozzo (Ada), Fabrizio Gifuni (Pelaia, l’educatore), Pietro Paglietti (Battista, il padre di Ada), Rosanna Rovere (la madre), Nanni Tormen (il cognato), Ileana Spalla (la cognata). Produzione: Vittorio e Rita Cecchi Gori per Cecchi Gori Group Tiger s.r.l. Produttore esecutivo: Mario Cotone per Pacific Pictures. Distribuzione. Cecchi Gori Group. Durata: 124’. Origine: Itallia, 1998. Riprese effettuate interamente a Torino nella primavera del 1998. Prima proiezione: settembre 1998 (Mostra di Venezia). Sei anni, dal 1958 al 1964, ogni anno una giornata qualunque. Sei giornate, sei capitoli, con un titolo ciascuno: Arrivi, Inganni, Soldi, Lettere, Sangue, Famiglie. Nel 1958, Giovanni arriva a Torino dalla Sicilia. Suo fratello mino-

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re, Pietro, è già in città, dove è stato mandato da Giovanni perché studi da maestro elementare. Per questo, Giovanni fa ogni sacrificio possibile e si adatta ai lavori più duri e spiacevoli. Il suo sogno di analfabeta è ingenuo quanto vano: Pietro abbandona la scuola e sparisce. Si ripresenterà qualche tempo dopo per recuperare in un solo esame i tre anni di studio che ha perso. L’esame è un rito ridicolo e il ragazzo viene promosso perché raccomandato. Intanto Giovanni ha fatto strada in una cooperativa illecita, una specie di ufficio di collocamento clandestino che sfrutta i meridionali in cerca di lavoro e di alloggio. Una sera i due fratelli camminano per le vie di Torino. Giovanni si scontra con un rivale malavitoso che rimane ucciso. Pietro, che è ancora minorenne, si accusa del delitto, e viene mandato in un riformatorio in Sicilia. Giovanni si sposta in provincia, sposa una settentrionale ed entra a far parte della piccola impresa di trasporti del suocero. Nel 1964, quando viene il momento di battezzare suo figlio, Giovanni vuole che sia Pietro a fargli da padrino e gli dà anche lo stesso nome. I nuovi parenti sono all’oscuro del fatto di sangue; Pietro arriva accompagnato da un educatore e Giovanni racconta che i due sono colleghi, cioè maestri nella stessa scuola. Finita la festa, Pietro deve riprendere il treno per tornare al riformatorio. Giovani, che aveva promesso al fratello di accompagnarlo nel viaggio, si attarda a comprargli una gazzosa, così che quando arriva sul marciapiede il treno è già partito. POVERI NOI 1999 Regia: Gianni Amelio. Collaborazione alla regia: Lillo Iacolino. Montaggio: Cecilia Pagliarani. Ricerche dei materiali d’archivio: Rossella Pelagalli, Cristina Scardovi. Coordinamento generale: Rosina Balestrazzi Giudici. Lavorazione RVM: Daniele Colmanni, Giovanni Mantovani. Organizzazione della produzione: Claudio Pittorino per Lantia Cinema & Audiovisivi. Durata: 50’. Origine: Italia, 1999. Realizzato nel mese di ottobre del 1998 presso la sede Rai di Roma di via Salaria. Trasmesso per la prima volta il 2-2-1999 da Rai 3 per la serie Alfabeto italiano, ideata da Beppe Attene e Beppe Sangiorgi. Dagli archivi della Rai vengono riproposti materiali degli anni ’50 e

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dei primi anni ’60. Raccontano l’Italia delle emigrazioni verso la Germania e la Svizzera, poi nelle città Rino e Milano. Storie di integrazioni difficili, di quando gli italiani non erano ancora figli del benessere.

SONO DISPONIBILI IN VIDEOCASSETTA La città del sole (Mondadori Video) Colpire al cuore (VideoRai) I ragazzi di via Panisperna (General Video, Sampaolo audiovisivi) Porte aperte (Videoclub Luce, L’Espresso Cinema) Il ladro di bambini (Ricordi Video, «L’Unità») Lamerica (Cecchi Gori Home Video, «La Repubblica») Così ridevano (Cecchi Gori Home Video)

SONO DISPONIBILI IN DVD Le chiavi di casa La stella che non c'è CORTOMETRAGGI Undici immigrati e Il campione (1967), per la rubrica televisiva Sprint. Idalina (1984), Passeggeri (1984), Vocazione (1984), Camera oscura (1985), 6 Mina (1985), La squadra del lunedì (1985), per il settimanale del TG3 «Sette». Durata: 10’ ciascuno. COLLABORAZIONI Un uomo a metà (1965) di Vittorio De Seta. Assistente alla regia e segretario di edizione (non accreditato). Lo scandalo (1965/66) di Anna Gobbi. Aiuto regista. Dove si spara di più (1966) di Gianni Puccini. Aiuto regista. Se sei vivo, spara! (1966) di Giulio Questi. Aiuto regista (non accreditato). Ballata da un miliardo (1966/67) di Gianni Puccini. Aiuto regista.

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I sette fratelli Cervi (1967/68) di Gianni Puccini. Aiuto regista. Il gatto selvaggio (1968) di Andrea Frezza. Aiuto regista. Cinque anni dopo (1968, mediometraggio) di Ugo Gregoretti. Aiuto regista. I cannibali (1969), di Liliana Cavani. Aiuto regista. Tra il 1967 e il 1970 è stato aiuto regista in numerosi spot pubblicitari («Caroselli») di Alfredo Angeli, Ugo Gregoretti, Giulio Paradisi, Enrico Sannia. Ha diretto il primo spot pubblicitario nel 1969 («Smarties») e nel 1970 ha realizzato cinque spot per Alitalia. TEATRO Gianni Amelio ha curato la regia di due opere: Pagliacci di Leoncavallo e Il tabarro di Puccini, al teatro Carlo Felice di Genova. Maestro concertatore e direttore d’orchestra: Gianandrea Gavazzeni. Prima assoluta: 28-6-1995. RADIO Pirone, La lettera, Il condor, Seconda unità, Le tre carte, La nonna, Il Tabarro, Valentina, Festival, Oscar, Domenica, Intervista, Sopralluoghi, Cineromanzi, Allievi, La sala, Produttori, Comparse, Gelosia, Dorian Gray. Venti storie a sfondo autobiografico raccontate direttamente da Gianni Amelio. Durata: dai 7’ ai 10’ circa ciascuna. Trasmesse per la prima volta tra l’1 e il 16 luglio del 1996. Anna Christie di Eugene O’Neill. Regia e adattamento: Gianni Amelio. Interpreti: Alvia Reale (Anna Christie), Renato Carpentieri (Chris Christofferson), Ennio Fantastichini (Matt Burke), Laura Betti (Marthy Owen), Fabrizio Gifuni (Larry), Luciano Virgilio (Johnny) Durata: 67’. Per la serie Teatri alla radio, a cura di Luca Ronconi. Trasmesso per la prima volta il 20-12-1997.

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BIBLIOGRAFIA SPECIFICA

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Gianni Olla (intervista a cura di), Intervista a Gianni Amelio, «Cineforum» cit. Steve Jenkins, Colpire al cuore, «Monthly Film Bulletin», n. 9, London, settembre 1983. Mino Argentieri, Antonio Ticomi, Colpire al cuore, «Cinemasessanta», n. 5, Roma, ottobre 1983. Philip Schlesinger (a cura di), Blow to the Heart: An Interview with Gianni Amelio, «Framework», n. 22-23, London, autunno 1983. Luigi Bini, Colpire al cuore, «Attualità cinematografiche», ed. Letture, Milano 1983. Viola Brusati, I ragazzi di via Panisperna, «Cineforum», n. 282, Bergamo, marzo 1989. Andrea Pastor, Paolo Vernaglione, I ragazzi di via Panisperna, «Filmcritica», n. 394, Roma, aprile 1989. Paolo Vernaglione, Fabio Bo (intervista a cura di), «Filmcritica» cit. Alberto Morsiani, I ragazzi di via Panisperna, «Segnocinema», n. 38, Vicenza, maggio 1989. Massimo Garritano, I ragazzi di via Panisperna, «Cinemasessanta», n. 3-4, Roma, maggio-agosto 1989, 88-90. Raul Montanari, I ragazzi di via Panisperna, «Attualità cinematografiche», ed. Letture, Milano 1989. Edoardo Bruno, Bruno Roberti, Porte aperte, «Filmcritica», n. 404, Roma, aprile 1990. Bruno Roberti (intervista a cura di), «Filmcritica» cit. Fabio Matteuzzi, Porte aperte, «Cineforum», n. 294, Bergamo, maggio 1990. Cristina Piccino (intervista a cura di), Conversazione con Gianni Amelio, «Cineforum» cit. Antonella Barone (intervista a cura di), Il gioco continua, «Prima visione cinematografica», n. 5, Roma, maggio 1990. Marco Melani, I ragazzi del Filmstudio, «Movie», n. 2, Roma, maggio-giugno 1990. Goffredo Fofi, Ricordare Palermo: la lunga marcia di Gianni Amelio, «Linea d’ombra», n. 50, Milano, giugno 1990.

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LA MORTE AL LAVORO Pier Maria Paoletti, «Il Giorno», 13/1/1979. David Grieco, «L’Unità», 21/1/1979. Callisto Cosulich, «Paese Sera», 14/8/1979. EFFETTI SPECIALI Morando Morandini, «Il Giorno», 10/1/1979. David Grieco, «L’Unità», 9/2/1979. Alberto Farassino, «la Repubblica», 9/2/1979. Enrico Magrelli, «il manifesto», 10/2/1979. Cesare Cavalleri, «L’Avvenire», 11/2/1979. IL PICCOLO ARCHIMEDE David Grieco, «L’Unità», 20/9/1979. Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero», 13/10/1979. Lino Miccichè, «Avanti!», 13/10/1979. Morando Morandini, «Il Giorno», 14/10/1979. Leonardo Autera, «Il Corriere della Sera», 14/10/1979. Tullio Kezich, «la Repubblica», 7/3/1980. Mino Argentieri, «Rinascita», 14/3/1980. Alberto Moravia, «L’Espresso», 13/4/1980. Virgilio Fantuzzi, «Civiltà Cattolica», 1980. I VELIERI Paolo D’Agostini, «la Repubblica», 30/4/1983. Ugo Buzzolan, «La Stampa», 30/4/1983. Ivano Cipriani, «Paese Sera», 1/5/1983. Cesare Cavalleri, «L’Avvenire», 3/5/1983. COLPIRE AL CUORE Lino Miccichè, «Avanti!», 4/9/1982. Michelle Perez, «Arts», 4/9/1982. Olivier Assayas, «Libération», 8/9/1982. Pierre Billiard, «Le Point», 13/9/1982. Mosk, «Variety», settembre 15-21, 1982. Louis Marcorelles, «Le Monde», 10/12/1982. Ernesto G. Laura, «La Discussione», 28/3/1983.

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BIBLIOGRAFIA SELEZIONATA

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Indice dei nomi

Abatantuono Diego 74, 76 Abruzzese Alberto 533 Addonizio A. 75 Adorf Mario 143, 488 Adorno Thedor 533 Agamben Giorgio 95, 124, 533 Agovino Michael J. 507, 524 Aicardi Pamela 486 Aichmayr Michael 518 Airoldi Conchita 135, 488, 490 Ajello Nello 533 Aksenova Galina 52 Albanese Antonio 90 Alberione Ezio 505 Alberti Gigio 74 Albonico Giulio 481 Aldo, Giovanni e Giacomo 58 Alessandrini Fabio 233, 491 Alfonsi Lydia 489 Alia Dritan 493 Alicata Mario 533 Almodóvar Pedro 83 Alvaro Corrado 533 Amaldi Edoardo 134, 141 Ambrosoli Giorgio 65 Amelio Erminio 20, 455, 456 Amelio Luan Ujkaj 348, 382, 493, 494 Anderson John 513, 529 Andreotti Giulio 54 Angeli Alfredo 24, 77, 498 Anka Paul 495 Anselmi Michele 506, 507, 511, 524, 529

Ansen David 514 Anthony Paul 547 Antoccia 170 Antoci Stefano 488 Antonioni Michelangelo 41, 43, 69, 70, 73, 243, 247, 362, 409, 418, 466, 467, 536 Appierto Antonio 489 Aprà Adriano 73, 533 Aquilino Emanuele 495 Ara Ilir 493 Archibugi Francesca 61, 62, 70, 75, 81, 222 Argentieri Mino 83, 218, 502, 509, 511, 520, 527, 528, 534, 551 Aristarco Guido 279, 280, 281, 288, 325, 534, 551 Artan Marina 493 Asor Rosa Alberto 476, 534 Assayas Olivier 501, 509, 520, 527 Atria Benni 495 Attene Beppe 496 Attolini Vito 22 Audino Dino 74, 251, 519, 534 Autera Leonardo 509, 527 Ava Esmeralda 493 Avelli Fausta 483 Axen Eva 483 Aznar 80 Bacall Lauren 314 Bach Johan Sebastina 484 Badalamenti Tano 66

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554 Badalucco Nicola 489 Baggi Angiola 487 Baglivo Donatella 481 Baldelli Pio 534 Baldi Alfredo 534 Balestrazzi Giudici Rosina 496 Balzerani Barbara 110 Bancroft Ann 298 Banderas Antonio 244 Banti Anna 38, 39, 435, 486 Baranski Zygmunt G. 70 Barber Lynden 512, 529 Barber Stephen 359, 534 Barbiani Laura 506, 524 Baricco Alessandro 504, 520 Barisone Luciano 505 Barone Antonella 502, 519 Barthes Roland 380, 534 Basili Giancarlo 494 Battisti Rossella 507, 524 Bava-Beccaris Fiorenzo 125 Bazin André 22, 534 Bechelloni Giovanni 535 Beethoven Ludwig Van 484 Beha Oliviero 74 Bell Daniel 535 Bellocchio Marco 22, 69, 70, 84, 90, 112, 405, 407, 474 Bellocchio Pier Giorgio 22 Bello Marisa 535 Bellour Raymond 535 Benigni Roberto 68, 70, 71, 75, 90, 275, 295, 362 Benozzo Simonetta 495 Bergman Ingrid 368, 386 Berlusconi Silvio 76, 78, 80, 276, 341, 353, 384 Bermejo Alberto 514 Bernabei Alfio 515 Bernardi Sandro 535 Bernardi Sergio 544 Bernard Jami 513, 529 Bernari Carlo 111 Bertellini Giorgio 281, 522, 547 Berto Giuseppe 22

Bertolucci Attilio 34 Bertolucci Bernardo 10, 24, 25, 31, 32, 33, 34, 52, 62, 69, 73, 116, 117, 118, 119, 135, 139, 140, 146, 152, 295, 404, 405, 407, 408, 409, 410, 411, 412, 469, 473, 474, 476, 482, 537 Bertolucci Giuseppe 90, 98, 113, 114, 115, 473 Bertone Pietro 490 Bertoni Guido 484 Bettetini Gianfranco 501, 520, 535 Betti Laura 412, 422, 442, 484, 498 Bevilacqua Piero 535 Biagi Marco 110 Biarese Cesare 249 Bigazzi Luca 492, 494 Bignardi Irene 511, 513, 515, 529, 531 Bigoni Bruno 73 Billiard Pierre 509, 527 Bini Luigi 502, 521 Binosi Remo 507, 524 Biondi Lydia 483, 488 Biraghi Guglielmo 509, 510, 527 Bisio Claudio 74 Blasetti Alessandro 53, 229, 516, 535 Blasetti Marco 516 Blasi Silverio 489 Bocca Giorgio 303 Bo Fabio 295, 502, 504, 515, 520, 521 Bogani Giovanni 503 Boldrini Carlo 488 Bolzoni Francesco 511, 512, 515, 529 Bondanella Peter 70, 535 Boneschi Marta 127, 535 Bonsaver Guido 532 Boorman John 503, 521 Boorstin Daniel J. 302, 535 Borde Raymonde 535 Bordini Carlo 536 Borelli Sauro 510, 527, 528 Borghezio 287 Borsellino Paolo 213 Bossi Umberto 78, 287, 353 Bouissy André 535

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555 Bourget Jean-Loup 536 Bova Raul 180 Bowen Edward 244, 421 Brace Luftar 493 Bradbury Ray 42 Braddley James 488 Braga Barbara 495 Brambilla Gianni 170 Brancato Celeste 491 Bresson Robert 28, 29, 216 Brewster David 167 Bright Dreams 503, 521 Brogi Giulio 31, 450, 481 Brook Clodagh 299 Brugiamolini Fabiola 517, 536 Brunetta Gian Piero 19, 53, 534, 536 Brunette Peter 536 Bruni-Tedeschi Valeria 83 Bruno Edoardo 502, 503, 504, 519, 520, 521, 536, 548 Brusati Viola 502, 521 Buache Freddy 536 Burton Julianne 40 Bussoni Ilaria 507 Buss Robin 536 Buti Aldo 484 Buttafava Giovanni 128, 505, 510, 524, 527 Buzzati Dino 74 Buzzolan Ugo 509, 527 Cain James M. 70, 281 Calasso Roberto 536 Calderoni Franco 536 Calderoli Roberto 287 Caldiron Orio 48, 536 Calogero Francesco 75, 91, 495 Calogero Pietro 91 Calopresti Mimmo 75, 82, 111, 112, 405 Calvino Italo 12, 380, 537 Camerino Vincenzo 216, 537, 545 Caminal Jordi Batllé 514 Campanella Tommaso 10, 29, 30, 31, 450, 470, 471, 482 Campari Roberto 537

Campione Lucia 484 Camus Albert 73 Cannella Mario 537 Cannistrato Philip V. 537 Canova Gianni 19, 181, 503, 505, 513, 521, 523, 531, 537 Cantelli Alfio 510, 527 Canziani Alfonso 49, 537 Capolicchio Lino 316 Cappabianca Alessandro 503, 504, 521, 537 Cappellini Stefano 515 Capra Frank 219 Caprara Valerio 396, 510, 512, 528, 529 Capuano Antonio 64, 74, 222 Capulli Lorenzo 517, 536 Carabba Claudio 505, 510, 512, 528, 529, 534 Carbone Giorgio 510, 512, 528, 529 Cardinale Claudia 161, 230 Cardullo Bert 537 Carlei Carlo 75, 276 Carlevaro Ugo 494 Carpentieri Renato 177, 422, 447, 489, 491, 498 Carpi Fabio 537 Carretta Raffaella 506, 524 Carr Jay 514 Carrón Juan 514 Caryn James 514 Caserta Gino 541 Casetti Francesco 537 Casiraghi Ugo 506, 513, 529, 537 Cassi Marina 515 Castellani Renato 22, 23, 545 Castellitto Sergio 62, 227, 379, 422 Castello Giulio Cesare 538 Catania Antonio 74 Catanzaro Raimondo 538 Catanzaro Turi 490 Cattini Alberto 39, 210, 517, 538 Causo Massimo 532 Cavalleri Cesare 509, 509, 527 Cavani Liliana 24, 31, 469, 498

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556 Ceccarelli Sandra 76 Cecchi Gori Mario 279, 493 Cecchi Gori Rita 339 Cecchi Gori Vittorio 257, 276, 279, 339, 340, 341, 493, 495, 497 Ceckligi Elinor 493 Celli Carlo 51, 53, 67, 68, 79 Cerami Matteo 485 Cerami Vincenzo 89, 90, 93, 135, 176, 177, 414, 485, 487, 489, 499, 500, 511, 528 Cercere Giorgia 491 Cernoni Albert 508, 526 Cesari Maurizio 538 Chabrol Claude 473 Chadwick James 156 Chaplin Charlie 102 Charensol Georges 508, 526 Che Guevara Ernesto 127 Chekhov Anton 32 Cheshire Godfrey 239, 504, 521, 538 Chiaretti Tommaso 538 Chiesa Giulio 82 Chiesa Guido 113, 406 Chiesa Mario 78, 214 Chiti Roberto 538 Chopin Frédéric 98 Ciampi Carlo Azeglio 79 Ciciriello Edoardo 495 Cipriani Ivano 508, 509, 526, 527, 534 Ciprì Daniele 295 Cirelli Anda 495 Cirio Rita 506, 524, 538 Citti Sergio 90 Cocteau Jean 22, 33, 34 Codelli Lorenzo 371, 532, 538 Cola di Rienzo 340 Coletti Duilio 176 Colli Ernesto 481 Colmanni Daniele 496 Colombo Cristoforo 143 Colosimo Clara 483 Comazzi Alessandra 515 Comencini Cristina 81 Comencini Francesca 75, 90

Comencini Luigi 216, 418 Contarello Umberto 371, 381, 390, 533 Contartese Claudio 495 Contartese Valerio 495 Conti Gadda Giuseppe 508, 526 Conversi Cleofe 481 Cope Cecilia 494 Copello Roberto 505, 524 Corbellini Vanni 485 Corbino Orso Maria 143 Cordaly Hunter 513, 529 Corrigan Shirley 484 Corsicato Pappi 74 Costa Gravas Constantin 179, 406 Costa Mario 321 Costantini Costanzo 74, 505, 524 Costantini Eugenia 488 Costanzo Maurizio 512, 529 Cosulich Callisto 57, 506, 509, 510, 511, 515, 524, 527, 528, 530 Cotone Mario 495 Cottino-Jones 51, 53, 67 Craig Jacoby 419, 516 Crainz Guido 538 Craxi Bettino 57, 78, 130 Crespi Alberto 513, 515, 516, 531 Crialese Emanuele 10, 69 Crisanti Andrea 491 Croce Benedetto 51 Crocenzi Luigi 538 Crowdus Gary 29, 68, 92, 258, 259, 263, 264, 404, 519, 538 Cuccu Lorenzo 538 Cuomo Mario 298 D’Agostini Paolo 58, 294, 296, 500, 505, 506, 508, 509, 524, 527 D’Agostini Stefano 518 D’Agostino Oscar 134 D’Alatri Alessandro 362 dalla Chiesa Nando 538 Dallimonti Mario 481 Dal Piaz Giorgio 155, 488 Damiani Damiano 25, 175, 176, 180, 182, 230

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557 D’Amico Tano 127 Danese Silvio 506, 524 D’Angelo Nino 238 D’Annunzio Gabriele 340 D’Antona Massimo 110 Danzé Rosaria 495 Darel Florence 491 Day Doris 483 De Benedictis Maurizio 539 De Bernardinis Flavio 503, 504, 521, 523, 539 De Bosio G. 176 De Curtis Antonio (Totò) 24, 56 De Filippo Eduardo 24 De Francesco Roberto 155, 488 De Gaetano Roberto 517, 539 Degli Esposti Cristina 539 de Laurentiis Dino 176 Deleuze Gilles 331, 391, 392, 398, 539 De Lillo Don 74 Della Casa Stefano 58, 294, 296, 500, 505, 516, 518 Della Volpe Galvano 51 Delli Colli Laura 517, 539 Dell’Orto Adriana 535 Dell’Utri Marcello 78 Delmas Jean 501, 520, 521 Del Monte Peter 61 Delon Alain 161, 228 De Lorenzo Massimo 491 Del Teso Begonia 514 De Luna Giovanni 127 De Marchi Bruno 512, 530 De Matteis Stefano 535 Denby David 513, 530 De Niro Robert 33, 298, 482 Dentici Marco 485 Derek Malcolm 510 De Rita Giuseppe 79 De Sanctis Francesco 51 De Santis Giuseppe 48, 50, 52, 53, 56, 73, 113, 281, 405, 418, 533, 538, 539, 540, 541, 543, 545, 547, 549, 550

De Seta Vittorio 23, 301, 405, 406, 468, 469, 497 De Sica Viittorio 28, 43, 50, 53, 55, 82, 210, 216, 217, 218, 219, 222, 223, 244, 273, 283, 295, 308, 316, 416, 418, 464, 466, 539 Detassis Piera 260, 503, 515, 517, 519, 539 D’Ettore Bruna 539 De Vincenti Giorgio 501, 519, 531 Diaconescu-Blumenfeld Rodica 521, 539 Di Caprio Leonardo 298 Di Castro Matteo 488 Dicks Hans-Gunther 514 Di Dario Vito 539 Di Dionisio Dino 135, 488, 490 Di Donato Pietro 290 Di Fraia Adelmo 22 Di Giacomo Salvatore 321 Di Giammatteo Fernaldo 539 Di Giovanni Maria Pia 491 Di Mazzarelli Carmelo 261, 446, 493 Dionisi Stefano 77 Di Robilant Alessandro 66 Dogo Marco 265 Donaggio Adriano 539 Doniol Jacques 22 Doniol-Valcroze Jacques 22 Donnini Jolanda 495 Dorfles Gillo 540 Doria Erika 495 Dostoevskij Fedor M. 202, 203, 204, 205, 219, 490 Ducros Remigio 481 Durgnat Raymond 540 Durrenmatt Friedrich 340 Ebert Roger 69 Eco Umberto 540 Eisler W. Hans 533 Eliezi Nikolin 493 Ellero Roberto 540 Ensslin Charlotte 90 Escobar Roberto 511, 512, 513, 515, 529, 530, 531, 540

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558

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Ewers H. 34, 482 Fago Amedeo 489 Falcone Giovanni 66, 213 Faldini Franca 91, 405, 408, 412, 417, 423, 519, 539, 540 Fanon Franz 127 Fantastichini Ennio 143, 177, 180, 422, 433, 488, 489, 498 Fantino Davide 540 Fantoni Mannella Maurizio 540 Fantuzzi Virgilio 501, 509, 510, 512, 513, 516, 521, 528, 530, 531 Farassino Alberto 117, 135, 505, 508, 510, 524, 526, 527, 528, 540 Farber Jim 513, 530 Fassati Franco 536 Fauré Gabriel 105, 123, 485, 487 Favino Pierfrancesco 336, 357 Felletti Francesco 396 Fellini Federico 19, 24, 40, 41, 57, 58, 68, 69, 70, 71, 73, 74, 95, 175, 210, 216, 353, 383, 407, 421, 463, 466, 467, 522, 535, 544 Fermi Enrico 133, 134, 136, 137, 138, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 147, 148, 149, 150, 151, 153, 154, 155, 156, 158, 159, 160, 164, 165, 166, 167, 169, 170, 248, 414 Ferrara Giuseppe 66, 176, 180, 230 Ferrari Alain 508, 526 Ferrario Enea 485 Ferraro Adelio 540 Ferraù Alessandro 540, 541 Ferrini Franco 541 Ferzetti Fabio 510, 511, 513, 515, 528, 530, 531 Filippini Enrico 541 Fini Gianfranco 78 Finn Paolo 515 Fioravanti Valerio 110 Fitzmaurice Shiel Mark 549 Flaiano Ennio 541 Fo Dario 24, 111

Fofi Goffredo 25, 84, 91, 214, 216, 230, 242, 295, 405, 407, 408, 412, 417, 419, 423, 499, 502, 503, 504, 505, 507, 512, 513, 515, 517, 519, 521, 523, 525, 530, 531, 533, 539, 540, 541 Foot John 78 Forgacs David 542 Forster E.M. 37 Fortichiari Valentina 218, 551 Fortini Franco 541 Franco Mario 541 Frateili Arnaldo 541 Frezza Adele 469 Frezza Andrea 24, 406, 498 Froese Edgar 487 Frosali Sergio 510, 512, 528, 529, 530 Furno Mariella 541 Fusco Maria Pia 507, 515, 525 Gabaccia Donna 541 Gabriele Francesco 490 Gaglianone Daniele 495 Galeta Robert 539 Galilei Galileo 31, 134, 162 Gallagher Tag 281, 282, 541 Gallo Giuliano 541 Gambelli Stefano 517, 536 Gambetti Giacomo 541 Gambini Giacomo 542 Garambois Silvia 506, 525 García Gutiérrez Antonio 325 Garibaldi Giuseppe 161 Garritano Massimo 170, 211, 215, 216, 248, 502, 521 Garrone Matteo 76 Garupi Altin 493 Gasparini Luca 512, 530 Gassman Vittorio 24 Gaudino Giuseppe M. 491, 492 Gavazzeni Gianandrea 498 Gavillet Pascal 513 Geiger Rod 49 Gennaro Domenico 490 Genoese Giovanna 135, 500, 518

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559 Georgakas Dan 29, 68, 258, 259, 263, 264, 404 Geret Georges 488 Germi Pietro 199, 229, 302, 315 Gersoni Kelly Annalisa 535 Gertz F. 513, 530 Gessner Sonia 485 Gesù Sebastiano 542 Ghelli Ferdinando 484 Ghini Erica 20 Giacovelli Enrico 542 Giannetti Louis 420 Gibson Ben 31, 32, 39, 410, 413, 517, 520, 548 Gieri Manuela 415, 542 Gifuni Fabrizio 76, 495, 498 Gigli Beniamino 100, 122, 485 Gili Jean A. 504, 519, 532, 542 Gilio Maria Esther 507, 525 Gimignani Alberto 141, 488 Ginsborg Paul 21, 114, 180, 214, 279, 542 Ginzburg Natalia 508, 526 Giordana Marco Tullio 66, 112, 306, 406 Giotto 37 Giovampietro Renzo 489 Giraldi Franco 25 Girlanda Elio 501, 521 Giscard d'Estaing Valery 279 Gissi Gianna 489, 491, 494 Giuffrida Francesco 431, 432, 495 Giuliano Salvatore 189 Giusti Graziano 484 Giusti Marco 506, 510, 525, 527 Gjyla Fatmir 493 Gobbi Anna 24, 497 Godard Lean-Luc 117, 119, 216, 407, 473, 476 Goimard Jacques 542 Golino Valeria 61 Golovine Marina 491 Goodwin Angela 483 Gosetti Giorgio 58, 512, 530, 542 Gottler Fritz 512, 530 Gramsci Antonio 51, 61, 279, 542, 549

Grassi Giovanna 293 Grasso Aldo 542 Gray Dorian 243, 427, 498 Gray Hugh 534 Grazzini Giovanni 510, 511, 528, 529, 530 Greaves Roger 544 Greco Massimo 495 Greenberg Clement 535 Gregg Colin 211 Gregoretti Ugo 24, 26, 481, 498 Grieco David 508, 526, 527 Grifeo Giovannella 483 Grignaffini Giovanna 542 Grimaldi Aurelio 76 Grisolia Michel 508, 526 Grmek Germani Sergio 540, 542 Gromo Mario 543 Guaita Vittoria 481 Guarini Ruggero 512, 530 Guglielmi Angelo 81 Guidi Guidarino 543 Gundle Stephen 543 Gusberti Max 494 Gusberti Simona 487 Guzzanti Sabina 141, 488 Guzzo Francesco 495 Hamacher Rolf-Rudiger 512, 530 Hamer Bent 36 Hargrave Dean 179 Haskin Byron 146 Hawks Howard 82, 469 Hayden Sterling 32, 34, 482 Hay James 547 Hayworth Rita 17, 18, 82, 434 Herreo Carlos F. 514 Herrmann Bernard 35, 36, 409, 483 Hintz Peter 488 Hirsh Jennifer 235, 543 Hitchcock Afred 35, 36, 185, 409 Holden Stephen 298 Hope William 222, 299, 543 Hopper Dennis 230 Horst Koll Peter 514

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560 Hoti Elona 493 Hudson Rock 314 Hunter Stephen 513, 530 Huxley Aldous 37, 156, 164, 484 Iaccio Pasquale 543 Iacocca Lee 298 Iacolino Lillo 495, 496 Iarussi Oscar 543 Ieracitano Giuseppe 245, 345, 437, 438, 440, 491 Imparato Emanuela 60 Impastato Peppino 66 Incerti Stefano 74 Incrocci Agenore 175 Ingrao Pietro 344, 515, 516, 543 Insausti Mikel 514 Insiga Cinzia 489 Isaja Nino 490 Jameson Fredrick 383, 543 Jansen Peter W. 514 Janushi Elida 493 Jenkins Steve 502, 522 Jenneray Tina 513, 530 Jennings Gordon 146 Jeunet Jean Pierre 83 Joliot-Curie Frederic e Irène 155 Jordan Richard 508, 526 Kadaré Ismail 287, 288 Kaminsky Stuart M. 543 Kanawa Kiri Te 487 Karlatos Olga 483 Keough Peter 514 Kerner Regina 514 Kezich Tullio 37, 336, 508, 509, 510, 511, 513, 515, 526, 527, 528, 529, 530, 531, 543 Kiarostami Abbas 217, 283 Kilb Andreas 512, 514, 530 Kissin Eva H. 511, 529 Klawans Stuart 514 Knocks Hard 503, 521 Kobe Werner 512, 530

Kohl Helmut 80 Kolker Robert Phillip 543 Korte Peter 514 Kory Giancarlo 489 Kukai Ismail 493 Kurti Besim 493 Kyrou Ado 543 Laborit Henri 73 Labrate Wilma 111 Lanaro Silvio 543 Lancaster Burt 32 Landy Marcia 543 Lane David 55 Lane John Francis 512, 530 La Polla Franco 543 Lapponi Paolo 111 Lardea 193 Lastrucci Massimo 516 Laura Ernesto G. 509, 528 Lauretta Maria 490 Laviosa Flavia 222 Lawton Ben 543 Lazarsfeld Paul F. 535 Lejeune Monique 38, 487 Lenz Eva-Maria 512, 530 Leoncavallo Ruggero 498 Leone Sergio 24, 25, 175, 176, 265, 469 Leoni Andrea 111 Leoni Giovanni 495 Leopardi Giacomo 101, 123 LePetit Paul 513, 530 Leprohon Pierre 54, 544 Levantesi Alessandra 95 Levi Carlo 140 Levinson Barry 230 Levi Primo 109 Lewis Jerry 32 Liehm Mira 544 Ligabue Luciano 406 Liprandi Renato 495 Lisi Virna 24, 145, 488 Livaghi Enrico 511, 529 Lizzani Carlo 48, 53, 113, 114, 115, 116, 176, 391, 405, 407, 540, 544

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561 Ljarja Marieta 493 Lo Cascio Luigi 66, 76 Locatelli Luigi 515 Lodoli Marco 515 Lo Duca Joseph-Marie 22 Lollobrigida Gina 12 Lombardo Radice Marco 62 Longhi Roberto 38 López Jordi 514 Loren Sophia 12, 24, 56 Lori Fabrizio 481 Lorusso Francesco 113 Lo Verso Enrico 214, 244, 258, 298, 421, 422, 430, 433, 439, 440, 444, 445, 450, 493, 495 Lowenthal Leo 535 Loy Nanni 95 Luce D'Eramo 115 Luchetti Daniele 64, 75, 77, 180, 276, 278 Lukàcs Gyorgy 279 Lumière fratelli 222 Luperini Romano 544 Lusardi Stefano 507, 525 Lutzemberger Maria G. 544

261, 438, 491,

275,

Macario Erminio 24 Macchio Francesco 505, 525 Macchitella Carlo 544 Macdonald Dwight 535 Machard Alfred 273 Mack Smith Denis 544 Madaro Antonio 495 Maffettone Alberto 499, 517, 549 Magni Luigi 24 Magrelli Enrico 36, 506, 509, 527 Maino Maria Paola 487 Majorana Ettore 10, 39, 133, 134, 136, 137, 138, 142, 145, 150, 157, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 248, 414, 548 Malanga Paola 504, 522 Malcolm Derek 528 Malerba Luigi 543

Malone Dorothy 314 Maltese Curzio 515 Mambro Francesca 110 Manfredi Nino 24 Mangano Riccardo 481 Mankiewicz Joseph L. 36 Mantovani Giovanni 496 Manzoni Alessandro 146, 466 Mao Tze Tung 73, 374 Marchesini Mauro 483 Marconi Guglielmo 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 170, 488 Marcorelles Louis 509, 528 Marcuse Herbert 29, 127 Maresco Franco 295 Marino Patrizia 19, 110, 495 Marmori Giancarlo 544 Marotta Giuseppe 544 Marrone Gaetana 545 Marsillach Cristina 152, 488 Marsolais Gilles 512, 530 Martelli Luigi 534 Martelli Renzo 112 Martelli Sebastiano 545 Martini Emanuela 18, 89, 170, 211, 295, 300, 315, 339, 351, 353, 354, 505, 508, 515, 517, 518, 519, 525, 532, 545 Martini Giulio 171 Martin M. T. 40 Martone Mario 71, 74, 75, 275, 295 Marzo Roberto 495 Mascagni Pietro 23 Mascia Gianfranco 545 Maselli Francesco 145, 180 Masina Giulietta 383 Masi Stefano 545 Maslin Janet 210, 511, 513, 529, 530 Maslo Jerry 66 Masoni Tullio 331, 501, 505, 517, 522, 531, 545 Matarazzo Raffaello 54 Matteuzzi Fabio 502, 519, 522 Matthews Jack 514 Maudente Floriana 501, 522

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562 Maynard Kevin 514 Mazzacurati Carlo 67, 230, 362 Mazzini Mina 495, 497 McLuhan Marshall 544 Meade Robert Jr. 119 Médioni Gilles 507, 525 Melani Marco 502, 522, 545 Melega Michele 488 Menasci Guido 23 Mendez De Azeredo Raphael 435, 487 Méndez-Leite Fernando 514 Mendola Fabrizio 490 Menem Italo 499 Menon Gianni 545 Mereghetti Paolo 505, 513, 515, 522 Merkel Flavio 74 Merton Robert K. 535 Metz Christian 545 Micalizzi Sara 490 Micciché Lino 41, 47, 58, 61, 95, 508, 509, 526, 527, 528, 533, 545 Michalczyk John 546 Mida Massimo 546, 547, 550 Milanetto Luca 540 Milkani Piro 261, 493 Millenotti Maurizio 481 Millicent Marcus 58, 210, 522, 544 Mizoguchi Kenji 22 Mocci Paola 504, 522 Mogani Giovanni 522 Moguy Leonide 273 Mojica Luis Bonet 514 Molinaroli Paolo 297 Monicelli Mario 90, 95, 176 Monleón Sigfrid 499, 514, 517, 546 Montaldo Giuliano 41 Montanari Raul 502, 522 Montanelli Indro 297 Montesanti Fausto 546 Montesanti Raoul 481 Montini Franco 41, 61, 221, 404, 407, 488, 503, 505, 519, 525, 546 Montini Luigi 488 Morabita Eleonora 488 Morandini Morando 36, 230, 508, 510,

510, 512, 515, 526, 527, 528, 529, 530, 541, 546 Morante Elsa 10, 289 Morante Laura 10, 92, 152, 289, 422, 423, 428, 430, 485, 488 Moratti Bedi 481 Moratti Massimo 238 Moravia Alberto 37, 509, 510, 511, 527, 528, 529 Morelli Guglielmina 171, 545 Moretti Nanni 44, 70, 71, 74, 75, 76, 80, 84, 276, 278, 295, 405, 406, 419, 484 Moretti Renato 484 Morganti Mark 484 Mori Anna Maria 210, 506, 525 Morin Edgar 546 Moro Aldo 92, 112, 113, 123, 176 Morosetti Luciana 491 Morreale Emiliano 505, 522, 531, 546 Morricone Ennio 179 Morris Peter 548 Morsiani Alberto 502, 522 Mosk 509 Mozart Wolfgang Amadeus 484 Mozzati Tommaso 532 Muccino Gabriele 75, 76, 82 Mungo Domenico 495 Murgia Pier Giuseppe 546 Muscio Giuliana 546 Mussolini Benito 48, 116, 125, 183, 186, 194, 316 Musumeci Tuccio 489 Nannini Gianna 247 Napoli Anna 485, 486 Napoli Gregorio 296, 510, 511, 515, 528, 529 Nardi Tonino 481, 485, 486, 487, 489, 491, 500, 518 Natta Enzo 511, 512, 513, 529, 530, 531 Natta Sergio 516 Nave B. 501, 522 Ndreu Elida 493

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563 Negri Antonio 92, 399, 547 Negro Davide 495 Neri Emma 506, 525 Neri Parenti 79 Nerli Taviani Lina 485, 486, 488 Nero Franco 230 Nerval Gérard de 101, 123 Newton Isaac 134, 167, 533 Nicastro Fabrizio 495 Nicola Siciliani de Cumis 17, 280, 510 Nigel Andrews 510, 527 Ninchi Ave 273 Nino Siciliani de Cumis 211 Nobile Roberto 489 Noiret Philippe 129 Nordblom Marianne 155 Nowell-Smith Geoffrey 547 Nucci Laura 485 Nutai Ferit 493 Nutai Gezim 493 Nuti Sergio 482 Odorisio Luciano 71 O’Healy Aine 281, 522, 547 Oheix B. 501, 520 Oliva Ignazio 487 Olla Gianni 502, 519 Olmastroni Luca 482 Olmi Ermanno 24, 41, 293, 294, 296, 407 O’Neill Eugene 498 Onorato Glauco 488 Orlando Silvio 74 Ortega y Gasset José 98 Ortolani Riz 488 Overby David 547 Özpetek Ferzan 66, 82, 83 Pacifici Federico 35, 262, 264, 483 Padovani Marcelle 506, 525 Paggi Leonardo 506, 525 Paggi Simona 489, 491, 492, 494 Pagliarani Cecilia 496 Paglietti Pietro 495 Paini Luigi 512, 513, 515, 530, 531, 540

Palazzo Tony 489 Palermo Giancarlo 481 Panella Giuseppe 499 Paoletti Pier Maria 509, 527 Papuzzi Alberto 508, 525 Paradisi Giulio 24, 498 Pariani Laura 495 Parietti Alba 74 Parini Angela 512, 530 Parisi Antonio 547 Pascoli Giovanni 96, 315, 318, 319 Pasolini Pier Paolo 25, 34, 41, 66, 73, 89, 126, 133, 134, 189, 203, 284, 405, 466, 476 Pastor Andrea 171, 502, 523 Paternò Cristina 507, 525 Patruno Lino 511, 529 Pavolini Alessandro 547 Paxinou Katina 228 Peirce Gualtiero 515 Pelagalli Rossella 496 Pelinq Mireille 503, 523 Pellizzari Lorenzo 211, 214, 503, 523, 547 Peluso Vincenzo 491 Perelli Luigi 179 Peretto Monica 547 Perez Michel 508 Perez Michelle 509, 528 Perez Prado Damaso 495 Perpignani Roberto 487 Perrin Jacques 23, 406 Perugini Veronica 77 Pescucci Gabriella 484 Pesery Bruno 491, 493 Pestelli Leo 508, 526 Petraccone Claudia 547 Petraglia Sandro 179, 211, 214, 350, 491, 533 Petrarca Francesco 466 Petri Elio 41, 175, 176, 180, 230, 542 Petrignani Sandra 512, 530 Petrocchi Fania 547 Pezzotta Alberto 505, 523, 532 Piantanida Giuseppe 481

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564 Piccinini Alberto 547 Piccino Cristina 502, 503, 519, 523 Piccioni Giuseppe 48, 60, 75, 81, 210 Pieraccioni Leonardo 58, 209, 295 Pieralisi Virna 145 Pierangeli Anna Maria 273 Piersanti Franco 485, 486, 489, 491, 492, 494, 505, 524 Pilz Eva 38, 487 Pinelli Giuseppe 111 Pintore Gianfranco 508, 526 Piperno Giacomo 489 Pirandello Luigi 311 Pitillo Mark 515 Pittau Giorgio 495 Pittorino Claudio 496 Pivetti Irene 287 Placido Beniamino 513 Placido Michele 65, 66, 67, 75, 77, 113, 179, 180, 259, 261, 295, 362, 493, 513, 530 Platone 98, 117, 118 Polanski Roman 35 Poma Melita 490 Pompucci Leone 75 Pontecorvo Bruno 134, 155 Pontecorvo Gillo 24, 41, 513, 530 Ponti Carlo 54 Pontiggia Giuseppe 335, 336, 337, 338, 341, 350, 351, 352, 353, 354, 355, 356, 363, 368, 411, 547 Ponzi Maurizio 229, 523 Poppi Roberto 538 Porcelli Enzo 412, 485, 491, 493, 494 Porporati Andrea 260, 270, 289, 492 Porro Maurizio 510, 528, 529 Porton Richard 92, 519, 538 Powell Michael 36 Pozzessere Pasquale 66, 77, 230, 276, 278 Pozzi Giorgio 484 Prattico Franco 510, 528 Previti Cesare 353 Preziosi Adelina 504, 505, 523, 532 Procacci Giuliano 547

Prodan Andrea 142, 433, 435, 436, 488 Prodi Romano 353 Prono Franco 215, 216, 293, 519, 547 Pruzzo Pietro 512, 530 Puccini Giacomo 498 Puccini Gianni 24, 48, 64, 300, 469, 497, 498 Pugi Franco 484 Quaglietti Lorenzo 546, 547 Quaglio José 36, 483, 487 Quarantotto Claudio 513 Questi Giulio 25, 469, 497 Quintana Angel 504, 523 Rabinovitch Sasha 134 Radford Michael 70, 275 Rafele Mimmo 32, 482, 486 Ragusa Domenico 495 Rainer Peter 503, 511, 523, 529 Rais Alessandro 103, 105, 226, 282, 297, 304, 517, 548 Raja Gigliola 490 Rakai Klodian 493 Rama Edi 507 Rambau Esteve 514 Rampling Charlotte 336, 352, 363, 422, 423, 479 Randazzo Giuseppe 510, 528 Rangeri Norma 516 Ranvaud Donald 31, 32, 39, 410, 413, 501, 517, 520, 548 Rascaroli Laura 230, 378 Rasetti Bruno 134 Rasetti Franco Dino 144 Rasi Arrigo 484 Rea Ermanno 371, 372, 373, 376, 377, 379, 396, 411, 548 Reale Alvia 498 Recami Erasmo 134 Recupero Nino 22 Redi Riccardo 536, 540, 544 Reed Carol 210 Regan Ronald 130

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565 Reggiani Aldo 36, 483 Reggiani Stefano 510, 528 Reid Bruce 210 Rendina Aldo 495 Renfreu Neff 507 Renoir Jean 22, 295, 300 Renzi Renzo 541 Renzi Vittorio 396 Repetti Paolo 487 Repetto Monica 59 Resta Giannicola 495 Restivo Angelo 548 Retzs Klaus 514 Riconda Claudia 548 Rinaudo Fabio 506, 525 Ripa Ornella 528 Risi Dino 230, 294 Risi Marco 60, 64, 65, 75, 76, 180, 275, 278 Rivolsi Marino 19 Rizzoli Angelo 175, 176, 179, 180, 211, 212, 229, 244, 491 Roberti Bruno 502, 503, 504, 519, 520 Robinson David 510, 513, 514, 528 Rodica Diaconescu-Blumenfeld 281 Rodriguez Hilario J. 532 Rohmer Eric 217, 387 Romani Giovanni 141, 488 Romanò C. 501, 520 Ronconi Luca 498 Rondella Vittorio 495 Rondi Brunello 74 Rondi Gian Luigi 219, 336, 396, 510, 511, 515, 528, 530, 535, 548 Rondolini Gianni 548 Rooney David 515 Rosenmann Leonard 483 Rosi Francesco 41, 79, 95, 129, 140, 175, 176, 180, 181, 182, 189, 230, 405, 407, 536, 542 Rossellini Roberto 22, 29, 43, 47, 48, 49, 50, 70, 76, 168, 210, 216, 218, 222, 231, 281, 282, 283, 359, 368, 386, 387, 391, 392, 405, 410, 416, 418, 419, 463,

464, 465, 466, 467, 503, 506, 523, 525, 533, 536, 541 Rossello Nicola 503, 523 Rossi Andrea 343, 349, 351, 365, 422, 423 Rossi Fausto 422, 429, 437, 485 Rossini Gioacchino 146 Rossi Paolo 74 Rossi Stuart Giacomo 362 Rossi Stuart Kim 336, 352, 361, 362, 365, 422 Rossi Vasco 238 Rossi Vera 485 Rother Hans-Jorg 514 Roth Joseph 293 Rovere Rosanna 495 Roy Arm 534 Rubertelli Nicola 483 Rubini Sergio 77 Rubin Joseph 179 Rulli Stefano 180, 211, 214, 350, 491, 533 Russo Paolo 548 Sabel Valeria 488 Sadoul Georges 548 Saimir Tila 493 Sainati Augusto 538 Salles Walter 514 Salvadori Massimo 548 Salvatores Gabriele 60, 63, 64, 70, 73, 74, 75, 76, 84, 222, 276 Salvatori Renato 229 Salvi Aldo 37, 441, 484 Sanda Dominique 33, 482 Sangari Giuseppe 495 Sangiorgi Beppe 496 Sannia Enrico 24, 498 Santonocito Santo 491 Sarris Andrew 514 Satta Gloria 507, 525 Satyajit Ray 217 Savio Francesco 548 Scalzo Domenico 17, 20, 21, 36, 37, 38, 93, 117, 128, 176, 262, 288, 344,

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566 346, 404, 405, 517, 518, 548 Scardovi Cristina 496 Scarpelli Furio 175, 176 Scarrone Carlo 501, 523 Schelotto Gianna 507 Schillaci Totò 270 Schininà Eleonora 428, 490 Schlesinger Philip 502, 520 Schubert Franz 487 Schutte Wolfram 511 Sciaroni Esmé 491 Sciarra Angelo 483 Sciascia Leonardo 39, 52, 125, 134, 175, 176, 177, 178, 180, 181, 193, 203, 230, 414, 489, 499, 510, 528, 548, 550 Scimeca Pasquale 75 Scola Ettore 71, 72, 84, 90, 95, 117, 277, 293, 294, 295, 512, 531 Scorsese Martin 53 Scott Ridley 230 Scuderi Giorgia 495 Sedaka Neil 326, 495 Sefer Pema 493 Segre Daniele 74 Segrè Emilio 134, 141 Séguin Luis 31, 501, 522 Sejdia Idjet 493 Sen Amartya 388, 397 Sena Paolo 495 Serenellini Mario 506, 525 Sermoneta Alessandro 135, 177, 260, 270, 487, 489, 492, 500 Sernale Marina 342 Serrano Anna 514 Serrao Lello 491 Sesti Mario 21, 26, 47, 55, 60, 62, 70, 73, 74, 75, 90, 91, 133, 137, 178, 210, 230, 249, 257, 262, 270, 404, 421, 499, 505, 517, 518, 548 Settembre Ugo 483 Shakespeare William 156 Sherman Vincent 18 Sherrill Daniel 481

Shils Edward 535 Shkelqi Daja 493 Shulman Ken 514 Siciliani de Cumis Nino 17, 211, 280, 288, 510, 528, 549 Siciliano Enzo 512, 531 Silvestri Roberto 511, 531, 549 Silvestri Silvia 549 Sindona Michele 65 Sineri Francesco 489 Sirk Douglas 314 Small Pauline 549 Soci Enrico 499, 517, 549 Sofri Adriano 110, 126 Soldati Mario 344 Soldini Silvio 61, 67, 74, 77, 230 Sollima Giovanni 176 Sontag Susan 514 Sorgi Claudio 516 Sorlin Pierre 549 Sorrentino Paolo 76 Sotira Liliana 493 Spadaro Umberto 481 Spadola Maria 489 Spalla Ileana 495 Sparti Pepa 549 Spiga Vittorio 510, 512, 513, 528, 529, 531 Spila Pietro 221, 407, 503, 519, 520, 523 Spinazzola Vittorio 549 Spriano Paolo 549 Stajano Corrado 65 Stallybrass Oliver 544 Stames Bill 514 Stefanachi Luigi 490 Steiner John 484 Stella Gian Antonio 285, 287, 297, 549 Stone Judy 49, 504, 549 Stone Oliver 49, 83, 209, 505, 520, 549 Stracuzzi Orazio 490 Stratton David 513, 531 Strehler Giorgio 73 Strick Joseph 230

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567 Strickler Jeff 513, 531 Stucchi Gaetano 483 Subasi Liliana 493 Sudbury Lawrence M.F. 51, 76 Suriano Francesco 504, 520 Taddei Claudio 501, 523 Tafuri Renato 482, 491 Tagliabue Carlo 59, 547 Taraglio Alberto 495 Targioni-Tozzetti Giovanni 23 Taviani fratelli 24, 31, 71, 84, 95, 176, 406, 468, 470 Taviani Vittorio e Paolo 407 Tedesco A. 501, 520 Telesio Bernardino 30 Tenaglia Claudia 493 Terranova Maria 495 Terzini Andrea 60 Testa Marco 495 Thatcher Margaret 130 Thevenet Homero Alsina 507, 525 Ticomi Antonio 502, 520 Tifozi Marian 493 Tinazzi Giorgio 550 Toce Andi 493 Tognazzi Ricky 61, 63, 64, 70, 75, 76, 230, 276, 278 Tomlinson Hugh 539 Tommaso D’Aquino 191 Topor Roland 35 Tormen Nanni 495 Tornabuoni Lietta 275, 422, 507, 508, 511, 512, 513, 515, 526, 529, 531 Tornatore Giuseppe 10, 19, 59, 64, 70, 71, 72, 75, 222, 229, 230, 275, 278 Torre Roberta 66, 76, 295 Torri Bruno 550 Tortora Enzo 65 Tortorici Michele 488 Toto Cotugno 271 Totti Maurizio 74 Tournée 229

Tournès A. 501, 522 Tournès Andrée 216, 550 Tournès, Andrée 520 Tourneur Jacques 359 Tozzi Riccardo 371 Tremonti Giulio 295 Trenet Charles 319 Trigilia Antonino 495 Trigilia Michele 495 Trintignant Jean-Louis 117, 422, 429, 430, 485 Troisi Massimo 70, 74, 275 Truchtenberg Peter 550 Truffaut François 387, 407 Tukic Mirsad 494 Turan Kenneth 515 Turco Marco 491, 492, 494 Turrioni Maurizio 506, 507, 526 Tusiani Joseph 260 Tyler Parker 550 Ughi Stefanella 26, 90, 91, 133, 137, 178, 210, 230, 257, 270, 499, 517, 549 Ugolinelli Remo 482, 485, 489 Ujkaj Nuredin 493 Ungari Enzo 32, 230, 501 Valentina Scalici 245, 438, 439, 491 Valentino Luigi 26, 28, 443, 481 Valentino Rodolfo 298 Valinotti Tommaso 508, 526 Valli Alida 325 Valmarana Paolo 89, 92, 93, 133, 501, 523 Valvola Scelsi Raf 399 Vancini Florestano 179, 182 Vanoli G. 501, 520 Vanzina Carlo 275 Vassé Claire 504, 523 Vassjan Lamni 493 Vecchi Paolo 504, 505, 523 Velchi Franco 487, 489 Veltroni Walter 293 Vento Giovanni 550

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568 Ventriglia Gino 251, 519, 534 Verdi Giuseppe 144, 146, 304, 325 Verdone Carlo 59 Verdone Mario 49, 550 Verga Giovanni 23, 231 Vergano Aldo 53, 70 Vernaglione Paolo 502, 520, 524 Vespa Bruno 295 Vicky Williams 485 Vigilante Nicola 488, 490 Villa Federica 335 Villoresi Pamela 483 Vincenti Carmela 74 Virgilio Luciano 498 Virzì Paolo 71, 75, 77 Visconti Luchino 37, 41, 43, 50, 52, 56, 69, 70, 82, 161, 216, 228, 229, 281, 296, 300, 301, 302, 303, 304, 321, 325, 328, 330, 405, 416, 418, 464, 466, 534, 543, 546 Vistarini Irene 495 Vitalba Andrea 489, 491 Vitti Antonio 13, 48, 52, 53, 56, 79, 550 Vittorini Elio 19 Vittorioso Antonino 491 Volonté Gian Maria 176, 177, 189, 197, 203, 261, 422, 428, 451, 489, 550 Volpicelli Corrado 482 Volpicelli Paolo 489 Volpi Gianni 30, 93, 135, 146, 176, 197, 205, 211, 228, 245, 258, 269, 278, 499, 500, 518, 541, 547, 550 Volta Alessandro 143 Vona Pasqualino 495 von Trotta Margarethe 66, 90 Vorauer Markus 518

Wayne John 82 Weaver William 551 Welles Orson 52, 53, 146, 168, 295 Wells Herbert Georg 146 Wertmüller Lina 24, 84, 199, 469 West Mae 100, 122 West Rebecca J. 70 Wilder Billy 47 William Philip 550 Wilmington Michael 514 Wilson Emma 550 Wilson Perry 550 Winspeare Edoardo 83 Witcombe R. T. 550 Wood Mary P. 57, 58, 340, 407, 412, 415, 550 Wood Robin 551 Worth Larry 514 Yates Peter 179 Young Deborah 511, 512, 513, 529, 531 Yunus Muhammad 340 Zaccaro Maurizio 65, 66 Zagarrio Vito 83, 535, 551 Zajickova Tereza 67 Zanatta Anna Laura 551 Zancan Marina 550 Zangrandi Ruggero 551 Zanon Alessandro 487, 491, 492, 495 Zarbano Giuseppe 495 Zarfati Vittorio 490 Zavattini Cesare 28, 47, 51, 104, 105, 119, 218, 222, 551 Zeng Liansong 378 Zonta Dario 532 Zumbo Agostino 491 Zurlini Valerio 418

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Finito di stampare nel mese di novembre 2009 presso la tipografia Digital Team – Fano (PU) Printed in Italy

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