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Italian Pages 334 Year 1995
Madri Storia di un ruolo sociale a cura di Giovanna Fiume
Marsilio
Il ruolo di madre si pone in un intricato crocevia tra natura e cultura, tra biologia e storia. Su di esso ha a lungo gravato l’alea di immutabilità e atemporalità che ha finito per scoraggiare la stessa ricerca storica. Questo volume affronta questioni di portata generale, incominciando a dipanare un nodo aggrovigliato, finora eluso dalla storia sociale, che pure ha dato uno straordinario impulso alle indagini sulla famiglia. L’analisi proposta misura la capacità delle scienze sociali di offrire risposte significative a domande di vasto respiro. Che cosa definisce la maternità? Quali soggetti e quali pratiche sociali, in epoche storiche differenti e in diversi contesti culturali, hanno concorso a elaborare la sua definizione? Qual è il rapporto fra maternità e sessualità? Come interagiscono, nella configurazione della maternità, le dinamiche familiari, le istituzioni, la
religione? Questi i temi che nei loro contributi esaminano
studiosi da tempo impegnati in ricerche di frontiera, fra storia ed antropologia affrontate secondo una prospettiva di lungo periodo che spazia dall'età antica a quella contemporanea, con originalità di metodo e freschezza interpretativa.
In copertina: Bernardino Licinio, Ritratto di Arrigo Licinio e famiglia, circa 1535.
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https://archive.org/details/isbn_9788831761451
SAGGI MARSILIO
STORIA E SCIENZE SOCIALI a cura di Luciano Cafagna e Silvio Lanaro
Madri Storia di un ruolo sociale a cura di Giovanna Fiume
Marsilio
© 1995 BY MARSILIO
EDITORI®
S.P.A. IN VENEZIA
I saggi di Thomas W. Laqueur, Emily Martin, Marilyn Strathern e Nancy Triolo sono stati tradotti dall’inglese da Loredana Paris
ISBN 88-317-6145-5
Prima edizione: gennaio 1995
)
INDICE
Introduzione di Giovanna Fiume MADRI
Costruzioni mediche del corpo materno DI
Modelli culturali e fisiologia della maternità nella medicina ippocratica
di Valeria Andò 45
La «meravigliosa armonia». Il rapporto fra seni ed utero dall’anatomia vascolare all’endocrinologia di Gianna Pomata
83
«Madri snaturate». La mania puerperale nella letteratura medica e nella pratica clinica dell'Ottocento di Giovanna Fiume
ME
Feto come tumore.
Gravidanza, sistema immunitario e conce-
zioni culturali del sé e dell’altro
di Emily Martin
Fare le madri 137
157
Essere madri nel xvi secolo. Caterina dell’Anguillara e Geronima Veralli: due vicende e alcuni interrogativi di Marina d’Amelia «Senza speranza di succedere». Madri, figli e Stato nella Toscana moderna (xvI-xXVIII secc.) di Giulia Calvi
INDICE
175
Madkrie figli fra tradizione e rivoluzione. Relazioni parentali di una famiglia patrizia fiorentina (1770-1848) di Maria Fubini Leuzzi
Norme
e conflitti
205
«Figlio in Christo». La «maternità spirituale» tra ortodossia ed eterodossia nella cultura cristiana post-tridentina di Marilena Modica
221
Le gravidanze illegittime e il disagio dei giuristi (secc. xVII-XIX) di Giorgia Alessi
247
Famiglia, aborto e ostetriche in Sicilia (1920-1940) di Nancy Triolo
Un futuro senza padri? 269
Bisogno di padri, bisogno di madri. Le «madri vergini» in Inghilterra di Marilyn Strathern
303.
Da una generazione all’altra. Alla ricerca di nuovi legami nell’era delle tecnologie riproduttive di Thomas W. Laqueur
INTRODUZIONE di Giovanna Fiume
Attorno alla maternità si sta svolgendo, in questo scorcio di millennio, una dura battaglia che vede coinvolti molti e agguerriti combattenti. Gli schieramenti sono disposti su vari fronti: l'aborto, l'etica delle tecnologie riproduttive, il sacerdozio delle donne, i
diritti dei bambini nelle coppie divorziate, l'adozione a genitori singoli o a coppie omosessuali, il matrimonio di coppie omosessuali ecc. Gerarchie ecclesiastiche, governi, scienziati, giuristi e magistrati, persino organismi internazionali, combattono, prima che per imporre il proprio punto di vista per orientare scelte demografiche, politiche sociali o altro, sul piano delle rappresentazioni culturali che, a ben guardare, fanno perno attorno alla delicata questione della riproduzione della specie. E, dunque, alle donne che biologicamente sono predisposte ad assolvere a tale compito!. E la battaglia in corso, che si accompagna a profonde mutazioni delle strutture familiari, può essere definita più opportunamente come «lotta di rappresentazione», rilevante alla stessa stregua della «lotta economica» o della «lotta politica», attraverso la quale «un
1 Uso il termine di rappresentazione per indicare «le classificazioni, le divisioni, le distinzioni che articolano la comprensione del mondo sociale come categorie fondamentali di percezione e di giudizio portate sul sociale. Variabili secondo le classi sociali o gli ambienti intellettuali [...] sono questi schemi che producono le figure per mezzo delle quali il presente può assumere un senso, l’altro diventare intellegibile e lo spazio essere decifrato [...]. Le
rappresentazioni del mondo sociale costruite in questo modo, anche se aspirano alla universalità [...] sono sempre sostenute dagli interessi del gruppo che le forgia». Così R. Chartier, Le rappresentazioni del sociale. Saggi di storia culturale, Torino, Bollati-Boringhieri,
1989, p. 13.
INTRODUZIONE
gruppo impone, o tenta di imporre, la sua concezione del mondo sociale, i valori che sono i suoi, e il suo dominio»?.
A questa lotta partecipano, ovviamente, le donne introducendo non solo una ulteriore variabile, ma sconvolgendo lo stesso assetto discorsivo: l’uso della loro capacità biologica da area di negoziazione, diventa elemento di soggettività di una delle forze entrate in gioco.
In questo volume, che raccoglie gli atti del seminario internazionale tenutosi a Palermo il 9-11 dicembre 1993, si è voluto affrontare un tema ingombrante, misurando, tra storia ed antropologia, la capacità delle scienze sociali di dare risposte parziali, ma possibilmente significative, a domande di vasto respiro. Il tema prescelto risulta particolarmente complesso e di difficile definizione: la maternità, lungi dall’essere una rappresentazione monolitica corrispondente ad univoche pratiche sociali, appare piuttosto come un’immagine caleidoscopica, composta da numerosi frammenti la cui disposizione cambia di volta in volta l'insieme. Di contro all’impressione di staticità e quasi di immobilità del ruolo di madre e delle sue
rappresentazioni culturali, occorre riconoscere la mutevolezza di entrambi, sottoposti come sono alle tensioni che provengono dalle dinamiche demografiche, dall’assetto istituzionale, dagli ordinamenti giuridici, dalle politiche statali, dall’influenza della Chiesa, dal mercato del lavoro ecc.
Ci siamo dunque interrogati su questioni di portata generale per cominciare a dipanare non un singolo problema ma un nodo aggrovigliato, fin qui in gran parte eluso dalla storia sociale, che pure ha dato nell’ultimo decennio straordinario impulso allo studio della famiglia. Che cosa definisce la maternità? Quali soggetti e quali pratiche sociali, in diverse epoche storiche e in diversi contesti culturali, hanno contribuito ad elaborarne la definizione? Qual è il
nesso tra la rappresentazione sociale e la funzione biologica affidata alla specificità della fisiologia femminile? Qual è il rapporto tra maternità e sessualità? Come giocano nella definizione della mater-
nità le dinamiche familiari, le istituzioni, la religione? Sentivamo, in
breve, la necessità di una messa a punto di strumenti analitici e, nello stesso tempo, di passare al vaglio i risultati che alcune ricerche andavano raggiungendo, senza dimenticare le raccomandazioni di 2 Ibid.
10
INTRODUZIONE
chi ci avvertiva che si trattava di addentrarsi in un terreno minato. «Se esiste un campo nel quale è necessario l'esercizio di una prudenza particolare, se non di vere e proprie limitazioni, questo campo è quello relativo allo studio della famiglia, specialmente quando si prendono in considerazione quegli aspetti “affettivi” delle relazioni fondamentali fra i suoi membri che noi tutti abbiamo variamente
sperimentato»?.
E una
componente
«affettiva» nella
stessa scelta del tema è innegabile. Per quanto negli anni scorsi si sia riflettuto, prendendo posizione contro l’identificazione delle donne con il loro destino biologico*, questa convinzione riaffiora continuamente in versioni più o meno
sfumate, sia nel piano teorico, sia in quello politico?. Le stesse teoriche del femminismo sono state tradizionalmente divise su questo punto: Shulamith Firestone vedeva nella maternità la prima divisione ineguale del lavoro e la principale fonte di oppressione per le donne* e Sheril Ortner considerava il coinvolgimento diretto del corpo nella procreazione come la causa dell’identificazione donnanatura, uomo-cultura’. Di contro, per altre, la maternità è la fonte di
uno speciale potere, di creatività, di capacità intuitive, nei confronti dei quali, gli uomini cercano di porre dei limiti per imporre un argine e sovrapporre il proprio controllo al «potere materno»8. Ma l’una e l’altra posizione pescano nel grande mare dell’essenzialismo e, anche al di là di ogni buona intenzione, riconducono ad interpre-
tazioni riduttivamente biologiche del femminile. Se si considerano riproduzione e maternità come basi della differenza sessuale, se ne finisce per sottovalutare il carattere di
è J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli familiari dell’Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 4.
4 Esemplari e ormai classiche le notazioni contenute nel saggio di G. Pomata, La storia delle donne: una questione di confine, in AA.vv., Il mondo contemporaneo, vol. x, t. 1, Firenze, La Nuova Italia, 1983 e in S.B. Ortner-H. Withehead (a cura di), Sexual Meanings. The Cultu-
ral Construction of Gender and Sexuality, Cambridge, Cambridge University Press, 1981. 5 Ad esempio, nella battaglia sull’aborto, i movimenti «per la vita» partono dalla convinzione che la maternità sia la missione e la fonte di gratificazione maggiore per le donne; di contro, i sostenitori della scelta cosciente della maternità — l’aborto è una delle opzioni possibili — rifiutano il diktat che la biologia sembrerebbe imporre alle donne. 6 Cfr. S. Firestone, The Dialectic of Sex, New York, Bantam Books, 1970. 7 S.B. Ortner, Ferzale to Male as Nature is to Culture?, in M. Rosaldo-L. Lamphere (a cura
di), Woman, Culture and Society, Stanford C.A., Stanford University Press, 1974, pp. 67-88. 8 A. Rich, Nato di donna, Milano, Garzanti, 1977. Ma, cfr. anche S. Ruddick, Maternal Thinking, in «Feminist Studies», 6, n. 2, 1980, pp. 342-367 e C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli, 1987.
Li
INTRODUZIONE
costruzione sociale. Il rischio è insito nella peculiarità della maternità che è un fatto sociale costruito su di un fatto biologico: le donne infatti danno alla luce. Ma, «il fatto di dare alla luce non spiega molto cosa significhi essere madre [...]. L'essere madre è tutto il lavoro di cura materna che comporta l’allevare i figli»*. Da un versante diverso, e in parte contrapposto, Nancy Chodorov riecheggiava le stesse affermazioni: «Nella nostra società [...] le donne non si limitano a mettere al mondo figli, sono anche responsabili della cura». E proseguiva: «A causa del nesso apparentemente naturale tra capacità procreativa e di allattamento della donna e assunzione dell’accudimento infantile, e per il fatto che l’essere umano richiede cure prolungate ed estese durante l'infanzia, la funzione materna della donna è sempre stata data per scontata [...] e non è mai stata veramente studiata»!°, La critica ad una visione biologica della maternità conduceva, però, l'autrice ad affermare che «la funzione materna della donna è uno dei pochi elementi universali e perduranti della divisione del lavoro secondo il sesso»!. Tutta l’analisi di Chodorov, acuta e polemica, su cui si sono riversati dalle
sponde più diverse fiumi di critiche, è stata appiattita su questo aspetto, mettendo in ombra alcuni dei suoi pregi maggiori: l’insistenza sui processi psicologici indotti dalle strutture sociali che riproducono la funzione materna, né frutto della biologia, né di un intenzionale addestramento al ruolo; lo stesso orientamento eterosessuale, nella versione psicoanalitica naturale, autoevidente e inin:
tenzionale, diventa l’effetto di un costrutto sociale, psicologico e ideologico che scaturisce dalla struttura della famiglia contemporanea"; la costruzione dell’identità sessuale, maschile e femminile,
viene derivata «dall’organizzazione asimmetrica della cura della prole, per cui la madre ha il ruolo di genitore primario e il padre è tipicamente più distante e interviene nel processo di socializzazione dei figli soprattutto nelle aree che riguardano la tipizzazione di genere».
È Le donne non sono madri, ma farro le madri. La biologia e l'istinto non bastano a spiegare quest’esito storico. «La funzione
E iS
? E. Donini, Conversazioni con Evelyn Fox Keller, Milano, Elèuthera, 1991, p. 45. 10 N. Chodorov, La funzione materna. Psicoanalisi e sociologia del ruolo materno, Milano, Tartaruga, 1991, p. 17. i Ibid.
2 Ibid, p. 153. 5 Ibid, p. 219.
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INTRODUZIONE
materna della donna, intesa come un aspetto della struttura sociale, richiede una spiegazione che alla struttura sociale faccia riferimento. Le tradizionali spiegazioni femministe e sociopsicologiche sulla genesi dei ruoli di genere [...] sono insufficienti, sul piano empirico come su quello metodologico, a rendere conto di come le donne diventino madri». E la struttura della società, prodotto squisitamente storico, a determinare donne provviste e uomini sprovvisti di quelle particolari capacità che costituiscono il ruolo materno”. Nel diritto romano la madre è colei che ha partorito, ma la materfamilias è la moglie di un cittadino. La maternità viene legittimata dall’uomo che riconosce l’atto riproduttivo femminile come filiazione legittima: come nella società greca, appropriandosi del figlio, luomo interviene a «dare legittimazione politica alla
4 Ibid., p. 267. 15 È utile richiamare qui una posizione che si prefigge di contestare l’universalismo (insieme alla naturalità e all’immutabilità della funzione materna), ancorando l’analisi alla
ricerca delle differenze e della multiforme varietà della condizione femminile. La convinzione che la maternità non stia iscritta nella sfera biologica, ma sia una costruzione sociale, ispira le autrici di un recente volume americano (E. Nakano Glenn, Social Construction of Mothering: a
Thematic Overview, in E. Nakano Glenn, G. Chang, L. Rennie Forcey (a cura di), Motbering. Ideology,
Experience
and Agency
New
York-London,
Routledge,
1994)
che vedono
lo
stereotipo della madre come appartenente alla cultura della classe media, bianca, privilegiata, di contro ai valori, alle pratiche e alla cultura di altri gruppi sociali, etnici ecc. Le donne di colore, immigrate, lesbiche o proletarie non corrispondono e non riescono ad adeguarsi all’ideale modello di madre che le esclude dal dominante culto della domesticità. Enfatizzando le basi sociali della maternità, attraverso lo studio di casi di donne afro-americane, latine e asiatiche appartenenti a ceti più bassi, queste studiose complicano l’analisi della maternità con le categorie di razza e di classe. Ci troviamo di fronte all’evoluzione attuale della posizione classica di una parte del Worzen's Liberation Movement che già negli anni settanta chiedeva di intrecciare le categorie di capitalismo e di patriarcato, introducendo oltre alle variabili di sesso e di classe, anche quella di razza e di omosessualità nella produzione di gerarchie sociali. Il linguaggio più aggiornato usato ora non corrisponde però all’uso di più sofisticate categorie
analitiche, se ci si propone di «decostruire la maternità nei suoi elementi costitutivi» e la si riporta poi alla «ideologia patriarcale dominante» che, «dipingendo la maternità come naturale, rinchiude le donne dentro la riproduzione biologica e nega loro identità e senso di sé al di fuori di essa» (p. 9). Ci si spinge fino a ribaltare i termini del problema: la maternità, mitizzato ed esclusivo destino delle donne, con il suo bagaglio di oppressione e marginalità, separazione della sfera privata da quella pubblica, è un prodotto della «nascita dell’industrializzazione [...] e riguarda sottogruppi molto limitati, vale a dire la borghesia europea e americana del xvi e x1x secolo» (p. 14). Che la «maggioranza», costituita dalle famiglie operaie, immigrate, afro-americane o di altre minoranze etniche non sperimentino la «maternità a tempo pieno», non significa che ci si discosti da una norma di «madre-manager» che può restare ideale, sebbene lontana dalla pratica di molte donne. Insomma, la critica all’universalismo non può consistere nella negazione della importanza del modello culturale. L’urgenza della battaglia politica si avverte in questo caso nella caratura ideologica degli stessi risultati della ricerca.
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INTRODUZIONE
maternità» (V. Andò). La paternità sembra quindi un fatto politico, o meglio giuridico — come ha spiegato per la società romana Yan Thomas — che struttura il dominio paterno sui figli come legame di diritto, di contro alla maternità intesa come legame di natura. Il legame di natura «non basta alla paternità, legame di diritto che [...] non deriva dalla nascita del figlio, ma da un fatto giuridico; legame che avvenimenti diversi dalla morte possono rompere; legame necessario e sufficiente per aprire una successione legittima che lo perpetui per mezzo del patrimonio. [...] Il legame al padre e il legame alla madre sono organizzati l’uno astrattamente e l’altro no»!. La funzione paterna si compie nell’ordine successorio: il paterfamilias è il successore del proprio padre. E, per Thomas, è il diritto a creare l'ordine successorio agnatizio e con esso la società. A parte la convinzione nell’onnipotenza del diritto come principio creatore dell'ordinamento sociale, che Thomas condivide con altri avvertiti storici del diritto, sono bene individuate le dissimme-
trie tra i sessi nella società romana, dove le incapacità giuridiche femminili (l’esclusione dal diritto di adottare, la privazione della tutela sui figli minori, l'incapacità a rappresentare gli altri ecc.) discendono dalla gerarchia sessuale della struttura sociale, a partire dal matrimonio, con il quale «la sposa viene incorporata nella famiglia del marito (i giuristi dicono che è “come una figlia”)»!.
Non è questa l'occasione per aprire una discussione, ritornata attuale, sul rapporto tra storia del diritto e storia sociale; ma certo gli elementi del regime matrimoniale, i sistemi successori e di devoluzione, i regimi dotali, l'assenza o meno del divorzio, l'atteggiamento verso i figli naturali, e altro ancora non sono elementi di contorno, ma indicatori di un mutamento di un istituto spesso considerato più statico di quanto non meriti. Un gruppo di studiosi francesi ha provato ad evidenziare i punti di svolta che segnano le fasi dell’evoluzione della paternità!8: dalla società romana il cui diritto fonda la filiazione e l’intera società sulla paternità; alla chiesa medievale che raccoglie intorno al padre, designato dal matrimonio, tutte le funzioni procreatrici e sociali;
SR Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, in P. Schmitt-Pantel (a cura di),
Storia delle donne. L’antichità, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 115 e 142.
7 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, Torino, sEI, 1989, PARO:
18 Cfr. on Delumeau, Préface, in J. Delumeau-D. Roche (a cura di), Histoire des pères et de
la paternité, Paris, Larousse,
1990, p. 11.
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INTRODUZIONE
all’autorità paterna mutuata, per il tramite del diritto dei re, dall’autorità divina nei primi secoli moderni; all’accresciuta autorità che cattolici e protestanti assegnano alla paternità spirituale (rappresentata per i primi da San Giuseppe) per moderare lo strapotere del padre di famiglia a cui i protestanti riconoscono la stessa sacralità del prete. Il secolo dei Lumi desacralizza il re-padre, enfatizzando nello stesso tempo la paternità domestica e la paternità collettiva dei cittadini, la cui autorità sarà temperata, laica, originata non da Dio,
ma dalla «natura»: prevale il modello civico e privato del cittadino virtuoso e mentre «scricchiola la monarchia paterna» si assiste ad una intensificazione affettiva senza precedenti che conduce alla stipula del «contratto morale», dove l’autorità è temperata dagli affetti. Dopo i sommovimenti della rivoluzione francese, toccherà al Codice civile ristabilire il diritto di sangue conciliandolo con la libertà delle volontà, ripristinando il potere paterno. Questo però sarà nell'Ottocento appannaggio dei ceti borghesi e proprietari: i processi di proletarizzazione produrranno i «padri cattivi» a cui lo Stato affiancherà servizi e funzionari. Ma nell’ultimo cinquantennio la crisi investe anche i borghesi, «padri buoni», mettendo in seria difficoltà, insieme al padre, il diritto alla filiazione su cui si regge l’intera società. Questo studio suggerisce di prendere il Cinquecento come punto di partenza dell’età aurea della «monarchia paterna» e dunque di «una lunga evoluzione che finisce per armonizzare tra loro diritti consuetudinari, diritto canonico e diritto romano» e che produce la figura del padre. Dopo il Concilio di Trento aumenterebbe la statura religiosa del padre presso cattolici e protestanti, mentre sarebbe la rivoluzione francese a decapitare il Padre e ad abolire l’autorità dei
padri, inserendo come un’intrusa la società che si sostituisce a molte delle funzioni paterne. Dal nostro punto di vista, il rapporto
«trinitario» di padre-figlio-Stato neutralizza e dissolve lo spazio sociale della figura femminile nella famiglia e nella società: perciò sembra generica, pur nella ricchezza delle informazioni e dei dati,
questa ricostruzione francese. Le scansioni cronologiche della «storia dei padri e della paternità» ricalcano emblematicamente quelle
della storia politico-istituzionale a cui, implicitamente si riconosce valore periodizzante. Quando si va alla ricerca di periodizzazioni, si riesuma un'ipotesi teleologica, sotto le spoglie più aggiornate di un processo di 15
INTRODUZIONE
modernizzazione dello stesso ruolo paterno (o materno) che presuppone una linearità di andamento ben lungi dal vero. Non è solo lo stadio ancora iniziale della ricerca a tenerci lontani dal periodizzare, ma il rifiuto di dare andamento lineare a questo fenomeno che conosce forti asincronie dovute ad accelerazioni, vischiosità, ritorni e rilutta a drastiche cesure storiche. Inoltre, le ricerche hanno messo in
luce un universo frastagliato e incoerente di comportamenti che rendono veramente incerto il rapporto con le norme e dunque la costruzione di modelli. Fonti diverse possono cambiare i quadri di coerenza e ricostruire contesti noti in modo inedito. E facile periodizzare seguendo il tracciato dell'evoluzione delle norme e degli istituti, meno conducente se si cerca di rintracciare le pratiche sociali e i comportamenti individuali. Tra discorso normativo e pratiche sociali non c’è mai perfetta aderenza, se non appunto nel piano degli universali, ma un gap che val la pena indagare senza scorciatoie e semplificazioni. Ed è in questa direzione che abbiamo voluto scavare, tralasciando altri approcci possibili e temi altrettanto rilevanti e cominciando dall’analisi delle costruzioni mediche del corpo femminile e dei suoi processi fisiologici, per affrontare subito il nodo della «natura», della «razionalità» della scienza che indaga e fonda nello stesso tempo le differenze tra maschile e femminile, riflettendovi i codici del proprio tempo.
COSTRUZIONI
MEDICHE
DEL
CORPO
MATERNO
Il sapere della medicina rispecchia e contemporaneamente contribuisce a produrre la rappresentazione culturale della maternità: essa ha infatti una peculiare flessibilità di intervento non solo sul piano della descrizione, ma anche su quello della prescrizione. L'evoluzione della scienza che più di ogni altra è legata al corpo ha trovato storicamente il suo limite nella definizione e nel rapporto tra i generi. Da questo punto di vista, possiamo guardare alle fonti mediche alla stregua di fonti antropologiche! per la caratura BRE di quel sapere che, insieme alla patologia, definisce e crea i anomia. !9 Vedi Th. W. Laqueur, L'identità sessuale dai Greci a Freud, Roma-Bari, Laterza, 1992.
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INTRODUZIONE
Per la ginecologia ippocratica «la maternità si configura come una condizione di perfetto equilibrio fisiologico in cui, nella dinamica dei fluidi corporei, si stabilisce un rapporto armonico che elimina, sia pure temporaneamente, il male di essere una donna» (V. Andò). L’intera fisiologia femminile è qui in funzione della maternità”, così come la continuità dell’ozkos è il compito sociale che le donne sono chiamate ad assolvere. Non stupisce che solo la morte di parto produca gloria, alla stessa stregua della morte eroica in battaglia per gli uomini, e perciò meriti menzione funeraria. L’interdizione di rapporti sessuali in gravidanza, così come l’esclusione della funzione erogena del seno, inteso come strumento di nutrimento e non di seduzione, aiutano a comprendere come la cultura greca concepisca la reciproca esclusione di maternità e sessualità. Su questo aspetto ritorna il saggio di Gianna Pomata che, ricostruendo le spiegazioni mediche sulla produzione del latte e sul rapporto tra seni ed utero, indaga la separazione tra maternità e piacere, ancora oggi «difficile per le donne da conciliare». L'eredità della medicina ippocratica e soprattutto galenica che riconosceva nei seni una delle fonti del piacere femminile e che perdura ancora nella medicina medievale, esita nella teoria medica dell’emogenesi del latte, con la conseguente esclusione dei rapporti sessuali per le nutrici (il coito deteriorerebbe il latte) e la netta separazione tra piacere sessuale e allattamento. Dietro la medicina galenica sta la certezza dell’identità dei due generi, e ancora nel Cinquecento, alcuni medici sono disposti a spingere tale identità fino alla estrema conseguenza di ammettere la lattazione negli stessi uomini e, a differenza di Galeno, a considerare i seni di entrambi i generi come una importante zona erogena.
L’emogenesi del latte viene messa in crisi nel Seicento, con la scoperta dei vasi linfatici. I medici cercano di dare risposte a domande difficili: perché il latte compare solo dopo il parto? E perché solo nelle donne avviene questo processo? Le risposte, ancora parziali, giungono però ad ipotizzare in qualche caso che «pensieri libidinosi», e dunque il desiderio (psichico), possa avere un ruolo in questo misterioso meccanismo. Più in generale è nell’utero che se ne cercano le cause. Sarà la seconda metà
20 Cfr. G. Sissa, Filosofie del genere: Platone, Aristotele e la differenza dei sessi, in
Schmitt-Pantel (a cura di), Storia delle donne. L’antichità, cit., pp. 58-102.
17
INTRODUZIONE
dell'Ottocento a vedere accantonata la teoria dell’emogenesi del latte, attraverso le scoperte del ruolo degli ormoni e del legame neurofisiologico tra allattamento e piacere sessuale. Questa evoluzione della medicina — suggerisce Gianna Pomata — è stata in qualche modo inceppata da «un punto buio nel quadro pieno di luce di una tradizione medica senza dubbio assai ricca di contenuto empirico [...] [che ha impedito] di pensare al latte, letteralmente come a un liquido orgasmico». Ancora oggi, non è superabile senza contraddizioni l’idea che il seno sia contemporaneamente fonte di nutrimento e di voluttà e dunque che maternità e sessualità non vadano forzosamente separate?!. Già Valeria Andò ci ha avvertiti che nella cultura greca la maternità fuori dalle regole sociali viene considerata una malattia mortale, una patologia che conduce le donne alla follia?. La ninfa Aura raffigura nel mito il disadattamento della madre nubile che nell’infanticidio esprime la follia cui incorre chi trasgredisce alle regole sociali. Mito e medicina, da due versanti apparentemente contrapposti, ci rimandano le immagini di norme e trasgressioni. Ancora nell’Ottocento, la medicina si interroga sulla mania puerperale che sembra definire la peculiare patologia della maternità illegittima. Tanto a lungo ci si ostina a considerare norma biologica una norma sociale, da dovere mantenere spiegazioni sociali alle stesse patologie mediche. È così per i medici alzeristi che spiegano la mania puerperale non in termini anatomici o organicistici, ma in
termini sociologici: la madre nubile, spesso una giovane serva sedotta dal padrone, o la moglie abbandonata dal marito sono portatrici di una patologia mentale che le spinge all’infanticidio. E fino all’endocrinologia, alla neurologia e alla psichiatria contemporanee è ancora incerta l’eziologia della psicosi puerperale che ha assunto, comunque, forme meno traumatiche di quelle descritte dai
medici sette e ottocenteschi. Resta da chiedersi se si possa interpretare la mania puerperale e la sua terapia come una sorta di rituale che, attraverso la densa copertura simbolica della follia provvisoria,
offre all’infanticida, madre illegittima che infrange la norma sociale da A conferma cfr. F. Balsamo, G. De Mari, V. Maher, R. Serini, La produzione e il piacere. Medici e madri a Torino, in V. Maher (a cura di), I/ latte materno. I condizionamenti culturali di
un comportamento, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992, pp. 71-100.
GAI Andò, La verginità come follia: il Peri parthenion ippocratico, in «Quaderni Storici», n. 75, dicembre 1990, pp. 715-738.
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INTRODUZIONE
della maternità e disordina lo spazio sociale del matrimonio, l’incolpevolezza di fronte a se stessa e agli altri, e persino di fronte al diritto (G. Fiume).
Che la medicina svolga fino ad oggi un ruolo importante nella costruzione delle rappresentazioni culturali e nello stesso tempo ne rifletta le categorie è documentato dall’esame del linguaggio dell’immunologia che cerca di spiegare quello che si presenta come un vero e proprio rompicapo, «uno degli enigmi della biologia». «Un embrione è un corpo estraneo alla madre, in quanto è il risultato dell’unione tra l’uovo materno ed uno spermatozoo paterno, di una persona cioè [...] geneticamente estranea.
È come un corpo estraneo
andrebbe rigettato»?. Tale linguaggio rappresenta solitamente l’intero sistema immunitario in termini militareschi. Nell’analisi condotta da Emily Martin? su manuali americani e nei media l’immagine del corpo è quella di una «nazione ben difesa, organizzata in base al genere, alla razza e alla classe sociale»: i granulociti sono rappresentati come la «fanteria» del sistema immunitario, i macrofagi come le «unità corazzate», le cellule di complemento come «mine magnetiche», i linfociti T come «cellule killer» ecc. Tra loro vige una precisa suddivisione gerarchica del lavoro che richiama le differenze di genere che vigono nella nostra società, associando le funzioni inferiori al femminile (i macrofagi sono le «massaie» del nostro organismo, le cellule 74 sono i Rambo del sistema immunitario, hanno capacità strategica e gestionale). E la stessa differenziazione gerarchica viene applicata all’antinomia eterosessuale-omosessuale. La tolleranza espressa dal sistema immunitario della madre nei confronti del feto mette in crisi questo modello militare che vede il mondo diviso in categorie in guerra perenne. Il sé, rappresentato come una cittadella ben difesa, è imperfettamente reso dal corpo
femminile più vulnerabile e aperto. E nell’evoluzione più recente, il feto assume la posizione di comando verso il sistema immunitario della madre che semplicemente lo «ospita». L’immunologia così riconferma la difficoltà e l'anomalia della
2. Così D. Geraci, Appunti di viaggio intorno ad una provetta, in AA.vv., Il tempo del sogno. Storia della fecondazione in vitro, Palermo, Sellerio, 1984, pp. 38-39. 24 Già autrice del noto The Wozzan in the Body: a Cultural Analysis of Reproduction, Boston, Beacon Press, 1987, analisi comparata tra immagine medica e immagine popolare del corpo femminile.
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INTRODUZIONE
definizione del sé da parte delle donne, ricalcando la stessa difficoltà dell’applicazione della nozione di individuo («che non può essere diviso»): la gravidanza è «un corpo che diventa due corpi [...] l'esatta antitesi dell’individualità» (E. Martin). Questa irriducibilità delle donne ad individui sta a fondamento della loro esclusione dalla nozione di cittadinanza, che contiene
costitutivamente l'opposizione tra uomini-cittadini e donne incapaci di cittadinanza, perché «mogli e madri di cittadini: cioè [...] soggetti eminentemente familiari e garanti della unità familiare»?. FARE
LE
MADRI
La funzione riproduttiva viene concettualizzata all’interno della coppia coniugale e il matrimonio rappresenta il punto di incrocio tra ordine naturale e ordine culturale. Ma, anche qui, in questo spazio costituito da una istituzione di diritto civile, di cui la Chiesa giungerà ad arrogarsi la giurisdizione, contendendola allo Stato, uomini e donne hanno messo in campo conflitti e aggiustamenti che ne hanno fatto una agenzia di mediazione tra istituzioni e singoli”. Forse una attenta riproblematizzazione di questi aspetti consentirebbe di mettere in relazione in maniera più dinamica il ruolo di moglie e quello di madre, per verificare quanto l’insistenza sul primo non abbia giocato storicamente a sfavore del secondo. O, all’inverso, di quanto il secondo abbia acquisito maggiore individualità grazie all’indebolimento del primo. Lo stesso suggerimento proviene da chi, studiando l’allattamento «non come un comportamento naturale, ma come un’azione culturale, un atto deliberato e significativo»®,
individua un mento da un dire, laddove mento viene
nesso forte, e inversamente proporzionale, tra allattalato e rapporto coniugale o parentale dall’altro. Cioè a la famiglia è incentrata sul rapporto coniugale, l’allattainibito; di contro, nelle aree dove è il rapporto
|? C. Saraceno, La dipendenza costruita e l'interdipendenza negata. Strutture di genere nella cittadinanza, in G. Bonacchi-A. Groppi (a cura di), I dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 167. vi I,Magli, Introduzione a G. Duby, Il matrimonio medievale. Due modelli nella Francia del dodicesimo secolo (1978), Milano, Mondadori, 1994, piaz:
? M. Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell'Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1994.
È 28 K. Hastrup, L’allattamento al seno in Islanda nel XVII e XVIII secolo. Cultura e ragione, in Maher (a cura di), Il latte materno, cit., p. 102.
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parentale a prevalere, esso viene incoraggiato”. Più la donna è moglie, dipendente economicamente e socialmente dal marito, in società dove il matrimonio è strumento di trasmissione di proprietà e status sociale, più il controllo dell’allattamento serve a «sancire l'appartenenza del bambino al ramo paterno e per indebolire il ruolo della madre all’interno della famiglia, accentuando quello di moglie». E ciò vale non solo per l'allattamento, ma più in generale per la cura, la socializzazione e l'educazione dei figli. In poche parole è lo statuto di moglie a trasformare in debolezza e incapacità la capacità delle donne di generare, il loro fare le madri da cui potrebbe derivare loro ben altra autorità e indipendenza”. La nostra proposta va nella direzione di una ricerca che colga i soggetti sociali dentro le relazioni e i rezwork che ne costituiscono il contesto. «Mogli», «madri», «figlie», di fronte a «mariti», «padri» e
tutti dentro lignaggi, famiglie, parentele. Perciò assume rilievo quanto apprendiamo da minute e circoscritte esperienze quali i saggi di Marina d’Amelia, Maria Fubini e Giulia Calvi ci restituiscono. Caterina dell’Anguillara e Geronima Veralli, nel xvi secolo, «fanno
del loro essere madri il fondamento di scelte e comportamenti in contrasto con le aspettative parentali, oltre ad usare il legame con i figli come strumento di pressione per orientare la politica familiare e per rivendicare una certa autonomia decisionale» (M. d’Amelia). Se
si abbandona la visione della famiglia nobiliare di età moderna come un complesso organico di segmenti, tra loro complementari, all’interno del cui «gioco di squadra», la donna espleta puramente un ruolo di comparsa, il rafforzamento del ruolo della madre può essere letto come un momento della crisi del patrilignaggio. Anche se il rafforzamento della figura materna non ha ancora raggiunto il riconoscimento di diritti giuridici e dello status sociale. I due casi sono audaci e polemiche risposte ad una inconsueta domanda: dove si collocano le donne quando c’è conflitto familiare? E la risposta può vederle innescare spinte centrifughe all’interno delle strategie familiari. Già Christiane Klapisch ci ha mostrato la vedova fiorentina del Rinascimento, «madre crudele», capace di lasciare i suoi giovani
29 V. Maher, L’allattamento materno in una prospettiva transculturale. Paradossi e proposte, ibid., pp. 24 ss. 30 Ibid., p. 34. 31 M. Johnson, Strong Mothers, Weak Wives, Berkeley, University of California Press, 1988.
Di
INTRODUZIONE
figli e partirsene con la sua dote. «L'abbandono è tanto di ordine economico che affettivo. [...] Poiché la madre che abbandona il tetto dei suoi figli, antepone ai loro interessi quelli della sua famiglia o i suoi propri». Ma, mentre questa cattiva madre contravviene agli
interessi del lignaggio dei figli perché troppo docile verso la propria
famiglia di origine, Geronima Veralli, rifiutando un secondo matrimonio, sembra ribellarsi ai valori dominanti nel suo stesso ceto. Il rifiuto è fatto in nome dell'amore materno: abbandonare le figlie,
scrive Geronima è «scastrarmi l’anima dal corpo [...] poiché l’anima mia sono queste due figlie». E la posizione dei figli nelle contese familiari al fianco della madre, considerata una aberrazione nella
cultura del patrilignaggio, va letta come l’indicatore dello spazio creato per le donne delle famiglie nobili dalla coesione tra madri e figli che consente loro di disimpegnarsi dalla volontà dei parenti (M. d’Amelia)..
Ma c’è di più. Nella Toscana moderna le scelte della magistratura che governa gli affidamenti dei minori orfani, spesso lasciati alla tutela delle madri piuttosto che dei parenti paterni, apre una stretta interazione tra vedove, orfani e Stato capace di creare «gradatamente uno spazio neutro, sottratto alla violenza familiare [...] e tutelato dalla magistratura» (G. Calvi). Sembra avvenire il riconoscimento del ruolo di madre, caratterizzato dall’«amore puro» verso i figli, di cui certamente tutelerà la salute proprio perché è esclusa dalla loro successione. I patrimoni si trasmettono all’interno del lignaggio, lungo la linea di discendenza agnatizia, dunque le madri sono le affidatarie più sicure degli orfani. Mentre nella trattatistica l’amore genitoriale è per antonomasia l’amore paterno (l'instabilità delle donne dentro i lignaggi corrisponde alla loro instabilità affettiva), tra xVI e xvII secolo «il binomio moglie-madre subisce una rotazione ormai nettamente visibile: il valore culturale, etico della maternità,
quello su cui si fonda il patto reciproco fra donne in quanto soggetti giuridici e Stato, ha prodotto
le madri
morali»
(G. Calvi). Il
consolidarsi del monopolio dello Stato sulla violenza dei lignaggi, dunque, ha consentito l’espressione della soggettività femminile che riceve una legittimazione perché fondata su un rapporto di cura e di accudimento. È un modo di sublimare la funzione biologica dentro 7 Ch. Klapisch-Zuber, La «madre crudele». Maternità, vedovanza e dote nella Firenze dei
dr XI Ho+V, in Id., La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari, Laterza, >
p.
*
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INTRODUZIONE
un codice morale e però anche di usare il «linguaggio dei diritti» al servizio dell’«etica del materno»?. Un esame ancor più ravvicinato su tre figure di madri di una famiglia del patriziato fiorentino permette di cogliere i mutamenti nella consapevolezza, nell’atteggiamento e nella espressione dei sentimenti, in concomitanza con i cambiamenti politici e sociali che investono la Toscana tra fine Settecento e periodo napoleonico. L’esame è tanto più significativo perché prende in considerazione non solo il rapporto madre-figli, ma i rapporti genitoriali nel loro insieme. Maria Anna, madre fredda, distaccata, estranea, secondo la
precettistica e il costume del suo ceto; Carolina, moglie per scelta sentimentale, collaboratrice del marito in primo luogo nell’impartire secondo nuovi precetti una educazione al figlio; Rosa, che impartisce al figlio nel rispetto per la miseria degli oppressi una educazione eccezionale, nell’affetto e nell'amicizia. «Qualunque fosse la via scelta da ciascuna di loro di fronte alla responsabilità della maternità, il distacco e la dedizione, aveva trovato nella famiglia motivi di conflitto che nella successione delle tre generazioni furono causa di disgregazione e di sofferenza» (M. Fubini Leuzzi). È avvenuto un profondo mutamento rispetto all’ideale umanistico dove la donna non ha che da attendere al «governo delle cose minori, [...] alle faccenduzze di casa»”. La centralità del problema dei figli nella trattatistica familiare enfatizzava il ruolo paterno, «relegando in maniera drastica la madre nelle sue funzioni puramente naturali. E il padre a prendersi cura dei figli [...]. I primi anni di vita sono l’unico momento in cui la madre interviene nella formazione del bambino [...] soprattutto per svolgere la sua funzione specifica, l'allattamento [...] l’unica funzione educativa è la nutrizione». L’amore paterno è lì maggiore di quello materno perché «l’uomo per sua natura è più perfetta cosa che non è la femina; sendo cosa più perfetta, più perfettamente dee amare»*. Ma le 3 Su ciò più compiutamente G. Calvi, Il contratto morale. Madri e figli nella Toscana moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994. 34 L.B. Alberti, I libri della famiglia, Torino, Einaudi, 1969, p. 266. «Donna mia, odimi: sopra tutto a me sarà gratissimo faccia tre cose: la prima, qui in questo letto fà, moglie mia, mai vi desideri altro uomo che me solo... La seconda, dissi, avesse buona cura della famiglia,
contenessela e reggessela con modestia in riposo, tranquillità e pace... La terza cosa, dissi, provedesse che delle cose domestiche niuna andasse a male», ibid., pp. 270-271. 35 S. Vecchio, La buona moglie, in C. Klapisch-Zuber (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Il medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 161.
36 G. Gherardi Da Prato, I/ paradiso degli Alberti, Roma, Salerno Editrice, 1975, p. 180.
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INTRODUZIONE
madri fanno rispettosamente sentire la loro opinione contraria: esse «più teneramente ama[no] dei padri» perché «l’amare non solamente [sta] nella perfezione, ma più tosto nell’affezione»?. Quando le donne vogliono far valere il loro ruolo di madre, marito e moglie si contendono il potere sui figli. L'intervento nell'educazione dei figli è la prima, la più palese posta in gioco: l’importanza dell’infanzia cresce insieme a quella del ruolo materno. Il ruolo paterno, ereditato dal medioevo, era già indiscutibile e
assoluto: l'affermazione della madre ridisegna l'ambito e i poteri della sfera paterna. E li ridimensiona. NORME
E CONFLITTI
Caterina, Geronima, le vedove toscane, le donne del patriziato
fiorentino operano per ritagliare uno spazio politico al loro essere madri e confliggono con patrilignaggi e parentele. Quando il ruolo di madre esubera dai compiti «naturali» diventa arena di conflitti e riflette profonde ambivalenze. Non intendiamo affrontare qui il tema di lungo periodo dell’influenza della Chiesa e della cultura cattolica sulla maternità. Marilena Modica ne studia un aspetto minuto, ma significativo, centrando
un tema simbolico dei più tenaci ed ambigui della tradizione cristiana: la maternità spirituale per «misurare l’ambivalente atteggiamento tenuto dalla Chiesa nei confronti della natura femminile e del ruolo della donna nelle istituzioni ecclesiastiche». La maternità spirituale è quella della donna «santa, profetica e visionaria», maestra nei gruppi spirituali che la riconosceranno veicolo della parola divina. Troviamo in queste figure e nell’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche un comportamento contraddittorio che esprime da un lato la convinzione della subalternità femminile, dall’altra la possibilità delle eccezioni alla regola. La preoccupazione della Chiesa post-tridentina di disciplinare il misticismo farà scivolare frequentemente queste figure nell’eterodossia, mentre il monastero marcherà il confine del misticismo ortodosso, «dove le donne
3 Ibid., p. 182. 38 E non solo insieme al processo di scolarizzazione come in Ph. Ariès, Padri e figli nel-
l'Europa medievale moderna, Roma-Bari, Laterza, 1968.
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INTRODUZIONE
erano piuttosto figlie che madri spirituali». Il misticismo delle «beate» secentesche mette in luce il «radicamento nella tematica complessa (propria del pensiero e della tradizione cristiani) del rapporto tra corpo e spirito, anima e natura, sensualità ed esperien-
za religiosa», ma con un continuo slittamento dai «sensi spirituali» ai «sensi carnali». «Le immagini tradizionali della y2aternità spirituale e dell'amore mistico, prive della mediazione dei modelli agiografici [...] sganciate, in definitiva, da un codice di rappresentazione e da un discorso teologico che ne legittimava l’ortodossia, ci appaiono in qualche misura come spazio conteso [...] in cui si misura lo scarto tra modelli normativi e vissuto, tra “regolamentazione” e pratica sociale» (M. Modica).
Lo stesso «spazio conteso» si apre tra la legislazione sull’infanticidio e la maternità illegittima nella Toscana di Sette e Ottocento. Qui la «regola» vuole che le ragazze madri autodenuncino la propria gravidanza al potere giudiziario che cerca così di assicurarsi la sopravvivenza del bambino, mettendo un freno al reato di infanticidio. Ma, le stesse legislazioni europee contengono contraddizioni irrisolte nei confronti della maternità illegittima. «Questo “disagio dei giuristi” [...] ripropone lungo secoli e luoghi diversi la difficile relazione tra diritto e scienza medica, da un lato, diritto e sessualità dall’altro» (G. Alessi). Le donne venivano schedate dal-
l'ufficiale giudiziario, convocate dal giudice, sottoposte a perizie ginecologiche per accertare lo stato di gravidanza, quindi rilasciate solo qualora avessero nominato un mallevadore, garante della cura del feto, o rinchiuse in apposito ospizio, destinato a custodire le «gravide occulte». Il problema si collega alla progressiva depenalizzazione del reato di stupro semplice, la seduzione di una donna consenziente: non resta alle giovani che la denunzia di violenza carnale, quando i rapporti sessuali hanno dato luogo ad una gravidanza, perché i tribunali obblighino il seduttore al pagamento di una dote. Le donne che affrontano nella Toscana leopoldina la battaglia legale contro il proprio seduttore ottengono un modesto risarcimento per le spese del processo, del parto e del puerperio e solo a certe condizioni la liquidazione di una dote. Nel passaggio all'Ottocento «sembra restringersi lo spazio propriamente “giudiziario” della ragazza madre», il cui controllo passa alla polizia dei costumi e agli istituti di beneficenza, o ai consigli di famiglia dei ceti più elevati. L’infanticidio resta il «rompicapo» per i giuristi nella ricerca della 25
INTRODUZIONE
sua differenziazione dall’omicidio, mentre i giudici sono restii ad applicare sulle infanticide tutto il rigore delle leggi. Ambivalenze, contraddizioni e compromessi percorrono il rapporto tra giustizia e madri illegittime, «sollecitate da istituzioni giudiziarie, di polizia ed assistenziali all’autocensura, alla reclusione domestica volontaria, sino alla reclusione temporanea o definitiva negli istituti di beneficenza». A queste donne dalla sessualità disordinata «gli ordinamenti giuridici hanno opposto, con una coerenza teorica spesso con-
traddetta dalle pratiche sociali e dagli stessi aggiustamenti della giurisprudenza, l’immagine più rassicurante della madre [...] come segregata custode del feto» (G. Alessi). Lo scarto tra modelli normativi e comportamenti sociali sembra divaricarsi a proposito del controllo della sessualità femminile, della regolamentazione delle nascite e dell’interferenza delle politiche statali nella Sicilia del periodo fascista. Nonostante l’insistenza popolazionista del regime e la tendenza verso la coniugalità delle famiglie nucleari, le donne siciliane praticano l'aborto — e ne raccontano con naturalezza — all’interno di reti di relazione interamente femminili. L'aborto fa parte delle «cose di donne» alle quali gli uomini non si interessano e delle quali restano all'oscuro. Sono piuttosto le ultime generazioni ad aver realizzato «identificazione dello spazio domestico con la famiglia nucleare e rapporto coniugale come caratteristica qualificante della vita familiare» (N. Triolo) e a parlare delle esperienze di interruzione di gravidanza in termini drammatici ed inquietanti e come risultato di una scelta di coppia.
Anche la ricostruzione del processo che portò le levatrici ad aderire ad una organizzazione sindacale e alla iscrizione obbligatoria ad un albo professionale, sottoponendole di fatto ad una sorveglianza efficace, ma soprattutto collocandole nella posizione di umili collaboratrici del medico, conduce per altra via — quella della «graduale appropriazione degli esperti di attività una volta appannaggio delle donne» — allo svuotamento di quell’ambito comunitario femminile a cui mal si applica la dicotomia pubblico/privato, sede di fittissimi rapporti sociali. Separata dal contesto che le aveva dato senso in passato, la scelta della maternità sembra «definita esclusivamente in termini di gravidanza fisiologica e riproduzione» all’interno di una concezione essenzialista, «modernista», della maternità (N. Triolo).
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INTRODUZIONE
UN FUTURO
SENZA
PADRI?
Alla fine di un lungo excursus sulla storia dei padri e della paternità citata sopra, Daniel Roche scrive: «Il paterfarzilias è morto [...]. Ci si può domandare “Chi è il padre?” [...] Bisogna gettare la spugna e dichiarare l’impossibilità della paternità?»?. La risposta dell'autore è negativa: quella relazione è infatti connessa alla irrinunciabile necessità sociale di trasmettere il senso della filiazione. Ed anche sbrigativa: la realtà sta predisponendo scenari imprevisti. Prendendo spunto dal dibattito svoltosi nel 1991 in Inghilterra attorno alla curiosa richiesta da parte di alcune donne di ottenere l’inseminazione artificiale non per sopperire a problemi di sterilità, ma semplicemente per evitare i rapporti sessuali, Marilyn Strathern® pone quesiti che vanno al di là del rapporto tra maternità e sessualità — queste donne non avevano avuto o non volevano avere relazioni sessuali, ma volevano avere un figlio, da qui il termine dispregiativo di «sindrome delle madri vergini» — e raggiungono i processi sociali coinvolti nello stesso concepimento e i motivi della loro produzione. In breve, le richieste di queste donne mettono in crisi il legame della cultura euro-americana tra rapporto sessuale e fecondazione come creatore di genitorialità. La minaccia alla paternità, insita nella inseminazione artificiale, sembra provenire dalla stessa tecnologia che surroga il rapporto sessuale. Queste richieste sembravano rifiutare la presenza di un padre, ma contemporaneamente, nel rifiuto della componente sessuale della procreazione, denunciavano una questione più generale. «All'interno dell’unione coniugale, il sesso svolge un importante servizio simbolico. [...] L’atto sessuale rappresenta l'impegno della coppia [...], la procreazione deve avere luogo nel contesto di un rapporto che è sia coniugale, sia sessuale: il partner sociale è anche il partner biologico». Già alla fine degli anni settanta gli antropologi si erano divisi sulle «madri vergini» delle isole Trobriand, dove Malinowski aveva registrato l'apparente ignoranza del legame tra rapporto sessuale e gravidanza: la coppia riproduttiva nelle Trobriand è costituita dalla sorella e dal fratello che però non hanno rapporti sessuali, mentre il padre è colui che procaccia il nutrimento al 39 D. Roche, Conclusion, in Delumeau-Roche (a cura di), Histoire des pères, cit., p. 444. 40 M, Strathern, After Nature: English Kinship in the Late Twenteeth Century, Cambridge,
Cambridge University Press, 1992.
2%
INTRODUZIONE
bambino che resta però inserito in un rapporto di filiazione matrilineare. Il rapporto di relazione è basato sulla differenziazione
in Melanesia, sull’idea di unione nella nostra cultura. Qui non è il figlio a definire una madre — «una madre non è tale perilsemplice fatto di ospitare un embrione» — ma il rapporto sessuale. E cioè l’atto sessuale del padre a «concettualizzare» la madre.
La contraccezione ha già separato il sesso dalla procreazione e le tecnologie riproduttive separano ora la procreazione dal sesso: ma la procreazione resta ancorata alla relazione tra i sessi. Si àncora così alla maternità il «bisogno» della società per la donna e per il figlio. «Com'era prevedibile, le nozioni intorno al genere nascondono elementi di teoria sociale» (M. Strathern).
Non c’è dubbio che stiamo vivendo una fase di accelerazione del mutamento di categorie culturali importanti, dove sembrano confliggere «parentela e genealogia, un sistema culturale di significati e una mappa biologica» e necessita di nuova concettualizzazione il rapporto tra il corpo e la cultura, per quanto sedimentate e persistenti siano le eredità del passato. I casi, ormai numerosi negli Stati Uniti, di contesa legale tra genitori biologici e madri surrogate, le motivazioni degli avvocati, le sentenze dei tribunali, portano alla luce incertezze, inquietudini ed ambiguità nella definizione della genitorialità riconducibili alla «tensione tra parentela come cultura e parentela
come
natura».
La novità
non
è rappresentata
tanto
dall'uso delle biotecnologie, quanto dall’acquisizione di forme alternative di genitorialità, da nuove possibilità culturali. Il «figlio biologico», come esito del puro «lavoro» riproduttivo e il «figlio come progetto» si contrappongono nei casi di maternità surrogata e nei casi di famiglie con genitori dello stesso sesso e hanno riconoscimenti legali contraddittori. Da un lato la convinzione che il lavoro fisico della riproduzione non crei la genitorialità, dall’altro lato il fondamento del «legame dei geni», rendono «pieno di tensione il significato dell’espressione “carne della mia carne”» (Th. W. Laqueur). Si aprono, come si vede, scenari inquietanti nel contesto della contemporanea crisi della famiglia che, nella ridefinizione della maternità e della paternità, approda alla ridefinizione della stessa
soggettività, al ruolo del corpo nel delineare la crisi del sé delle donne e degli uomini contemporanei.
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COSTRUZIONI
MEDICHE
DEL CORPO MATERNO
MODELLI CULTURALI E FISIOLOGIA DELLA MATERNITÀ NELLA MEDICINA IPPOCRATICA di Valeria Andò
Un equilibrio precario, che rischia continuamente la crisi, quello che regola il corpo femminile secondo la medicina ippocratica!: una carne debole e spugnosa che assorbe più cibo del necessario, un eccesso alimentare metabolizzato in sangue, la periodica katharsis mestruale indispensabile al benessere ma anche prova manifesta di precarietà”.
! Opere ginecologiche del Corpus sono Le malattie delle donne, Le donne sterili, Le malattie delle vergini, Superfetazione, L’estrazione del feto, La natura delle donne, Il feto di sette mesi, Il feto di otto mesi, La generazione, La natura del bambino, ma riferimenti a malattie
ginecologiche si trovano anche in Aforismi e Epidemie. Per il testo ho fatto riferimento a Oeuvres complètes d’Hippocrate, par E. Littré, voll. 10, Paris, Baillière, 1839-1861. I trattati ginecologici sopra citati sono contenuti nei voll. 7 e 8 (1851, 1853). Non entro nel merito della tradizionale attribuzione di tali opere alla scuola di Cnido; sui cui contenuti epistemologici vedi J. Jouanna, Hippocrate. Pour une archéologie de l’école de Cnide, Paris, Les Belles Lettres, 1974; in particolare l’appartenenza cnidia dei trattati ginecologici, con l’analisi degli strati di composizione, è studiata nei tre volumi di H. Grensemann, Kridische Medizin I, Berlin New York, De Gruyter, 1975; Hippokratische Gynékologie, Wiesbaden, Steiner, 1982, Knidische Medizin II Stuttgart, Steiner, 1987; una lucida sintesi sul problema delle due scuole è stata condotta da A. Thivel, Cride et Cos? Essai sur les doctrines médicales dans la Collection
hippocratigue, Paris, Les Belles Lettres, 1981, che supera un'ottica di contrapposizione qualitativa tra la medicina «empirica», quale è considerata la ginecologia, e la medicina «razionale» della scuola di Cos. Questa contrapposizione è largamente presente ancora in L. Bourgey, Observation et expérience chez les médecins de la Collection hippocratique, Paris, Vrin 1953, e ancor più marcatamente in R. Joly, Le niveau de la science hippocratique. Contribution è la Psychologie de l’Histoire des Sciences, Paris, Les Belles Lettres, 1966, che parla di «ostacoli epistemologici» e di «mentalità prescientifica» a proposito dei trattati cnidi. 2 L’eziologia delle mestruazioni ricorre frequentemente già, per esempio, in apertura del trattato Malattie delle donne, 1, 1; sull'argomento vedi L. Dean-Jones, Menstrual Bleeding
according to the Hippocratics and Aristotle, in «Transactions of the American Philological Association», CxIX, 1989, pp. 177-192.
6,5)
COSTRUZIONI
MEDICHE
DEL
CORPO
MATERNO
C'è un momento però in cui il rischio dello squilibrio sembra arrestarsi e il corpo della donna sembra trovare uno stato di quiete:
quando cioè, durante la gravidanza, il residuo alimentare non si
accumula pericolosamente ma viene anzi utilizzato per il nutrimento dell'organismo in formazione’. Solo allora la soppressione dei mestrui, altrimenti causa di molteplici patologie‘, è invece segno del perfetto stato di salute della donna e del bambino: «quando una donna è incinta, benché il flusso mestruale non scorra, non soffre,
per il fatto che il sangue non si agita, venendo fuori tutto in una volta ogni mese, ma scorre tranquillamente a poco a poco, senza sofferenza, ogni giorno nell’utero»5, e viceversa «se in una donna incinta il flusso mestruale scorre, è impossibile che il feto sia in buona salute»*.
Nella prima elaborazione teorica di un sapere sul corpo femminile, quale è l’antica ginecologia ippocratica”, la maternità si configura cioè come una condizione di perfetto equilibrio fisiologico in cui, nella dinamica dei fluidi corporei, si stabilisce un rapporto armonico che elimina, sia pure temporaneamente, il male di essere una donna,
destinata, per la sua stessa debolezza, alla periodica evacuazione di residui. In gravidanza, proprio la porosità delle carni garantisce il maggiore assorbimento degli alimenti, indispensabile alla formazione del neonato. Ma l'equilibrio è garantito anche dalla relazione, più volte espressa nei testi ippocratici, tra l’utero e i seni. La parte più grassa dei cibi infatti, dopo un processo di dolcificazione e sbiancamento,
dovuto
al calore che proviene
dall’utero, per via della
3 Tra i numerosi riferimenti si veda per esempio Malattie delle donne 1, 34, Natura del bambino 14. 4 Si veda per esempio Malattie delle donne 1, 2 e 3. 5 Natura del bambino 15. 6 Aforismi v, 60.
? La ginecologia greco-romana è oggetto della classica monografia di P. Diepgen, Die frauenheilkunde der alten Welt, in Handbuch der Gynékologie, A. Stoeckel (a cura di), vol. xt, t. 1, Miinchen, Bergmann, 1937. Per una complessiva analisi della fisiologia femminile vedi P.
Manuli, Donne mascoline, femmine sterili, vergini perpetue. La ginecologia greca tra Ippocrate e
Sorano, in S. Campese, P. Manuli, G. Sissa, Madre materia. Sociologia e biologia della donna greca, Torino, Boringhieri, 1983, pp. 149-185, che evidenzia il condizionamento di un’ideolo-
gia maschile. Di impostazione diversa il lavoro di A. Rousselle, Observation féminine et
idéologie masculine: le corps de la femme d’apres les médecins grecs, in «Annales. E.S.C.», xxxv, 5, 1980, pp. 1089-1115. Il corpo femminile e la sua costruzione culturale sono oggetto del recentissimo volume di L.A. Dean-Jones, Women's Bodies in Classical Greek Science, Oxford, Clarendon Press 1994, con ricca bibliografia.
34
MODELLI
CULTURALI
E FISIOLOGIA
DELLA
MATERNITÀ
pressione esercitata sul ventre si porta alle mammelle che si gonfiano così di latte. Più molle e porosa è la carne maggiore sarà la capacità di assorbire alimenti, e per converso, le donne con carne soda e
compatta, che hanno di conseguenza un flusso mestruale scarso, in gravidanza alimentano meno il nascituro e, dopo il parto, hanno poco latte’ o sono del tutto affette da agalaxia!; sicché se in una donna incinta le mammelle anziché gonfiarsi di latte si disseccano, abortirà!'; e se poi «dalle mammelle di una donna incinta scola latte in gran quantità, è segno che il feto è debole, ma se i seni sono ben duri, è segno che il feto è più sano»!. Ancora più esplicitamente è espressa la corrispondenza tra latte e sangue mestruale: «quando una donna che non è incinta né ha partorito ha del latte, è perché le mestruazioni sono soppresse», e «se vuoi fermare i mestrui di una
donna, applica alle mammelle una ventosa la più grande possibile», e ancora «quando alle donne si forma del sangue nelle mammelle, è segno di follia», che è conseguenza gravissima, come è noto, anche della ritenzione di sangue mestruale". Una provvidenziale debolezza dunque quella femminile, che, grazie al rapporto istituito tra mammelle ed utero, garantisce il nutrimento al bambino sia durante la gestazione sia dopo la nascita. Dopo il parto infatti, con la suzione delle mammelle prodotta dal neonato, le vene si ingrossano e in tal modo portano ancora dal ventre la parte grassa dei cibi, in un processo continuo di formazione del latte che durerà per tutto il tempo dell’alimentazione al seno". Ma se il latte trova dalle mammelle una via di sfogo nonché di adeguata utilizzazione, dopo il parto, i residui che in gravidanza venivano utilmente assorbiti, devono anch'essi essere espulsi perché possa ristabilirsi l'equilibrio. Si ripresenta cioè dopo il parto quella situazione di precarietà e di rischio continuo, tipica della fisiologia
8 Natura del bambino 21. ? Ibid. 30. 10 Malattie delle donne 1, 73.
Aforismi v, 37; cfr. Epidemie x, 1. 12 Aforismi v, 32. 13 Ibid. 39.
14 Ibid. 50; cfr. Epidemie 1, 6. 5 Aforismi v, 40.
16 Le teorie successive che, sempre sulla base della corrispondenza tra seni ed utero, hanno diversamente spiegato la formazione del latte sono discusse da G. Pomata, in questo volume, pp. 45-81.
1 Natura del bambino 30.
35
COSTRUZIONI
DEL
MEDICHE
CORPO
MATERNO
femminile. È indispensabile quindi un’altra katharsis, definita lochiale, cioè «del parto», dagli autori ippocratici che ne danno una chiara spiegazione: nel primo periodo della formazione del feto, che dura trenta giorni per il maschio e quarantadue per la femmina, poco sangue va ad alimentare il nascituro e solo dopo questo termine la quantità aumenterà. Sicché all’inizio della gravidanza si verifica un residuo che deve essere espulso dopo il parto in forma corrispondente, nel senso che la purgazione lochiale dura appunto trenta giorni dopo la nascita di un maschio, quarantadue giorni dopo quella di una femmina". È espresso in tal modo, e in forma chiarissima, un rapporto, direi, di uguaglianza qualitativa, tra i mestrui e i lochi, che sono inequivocabilmente costituiti da flusso di sangue «come quello di una vittima», con un paragone identico per altro a quello espresso per il sangue mestruale, e da non confondere cioè con l’umore spesso e sanguinolento emesso subito dopo il parto, che apre la via alla katharsis lochiale. Del resto, la corrispondenza tra mestrui e lochi è espressa di sovente nei trattati ippocratici, già a partire dal paragone con il sangue delle vittime sacrificali; in Malattie delle donne viene detto inoltre che se il flusso mestruale è pituitoso o acquoso, sarà pituitoso o acquoso anche il flusso lochiale (29 e 30). Ma soprattutto c’è una
perfetta identità di effetti nosologici dovuti alla assenza di mestrui o alla mancata purgazione lochiale: febbri, fremito, cardialgia, dolori ai lombi, cefalalgia, vista annebbiata. Nei casi più gravi i lochi si portano al polmone o alla testa e, se non trovano una via d’uscita dalla bocca, la donna è in preda al delirio o al trasporto maniacale?,
insomma quella «mania puerperale» di cui è piena la letteratura medica fino all’Ottocento?. Sembra
cioè che la patologia
del puerperio,
di cui questa,
determinata dalla mancata purgazione lochiale, è la più comune, rafforzi in maniera evidente la complessiva concezione della fisiologia femminile cui è destinata l’unica e insopprimibile funzione della 18 Ibid. 18.
19 Ibid. e Malattie delle donne 1, 72. 20 Cfr. Malattie delle donne 1, 6 e Aristotele, Storia degli animali, vi, 1 581 b 1-2, che
paragona anch'egli il sangue mestruale al «sangue dell'animale appena sgozzato». ni S 21 Malattie delle donne 1, 35.
22 Ibid. 1, Al. 2 Vedi il contributo di G. Fiume in questo volume, pp. 83-117.
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maternità. Il caso di una certa Frontide è esplicito al riguardo: l'assenza di flusso lochiale le aveva provocato delle aderenze all’utero, ma opportunamente trattata, ritornò phords, feconda”. I lochi cioè, come i mestrui, sono quella indispensabile evacuazione di residui alimentari che garantisce la salute della donna, in vista dell’assolvimento dell’unico ruolo assegnatole dalla società, cioè assicurare la riproduzione dell’oskos, la cui continuità è garanzia di stabilità, in quanto elemento centrale del tessuto sociale”. E quando il medico ippocratico, volendo descrivere il flusso mestruale o lochiale, parla di sangue «come quello di una vittima», come abbiamo sopra ricordato, sembra stabilire una relazione tra la donna, con la sua fondamentale funzione biologica, e il sacrificio cruento, altro momento fondante attraverso il quale la società rinsalda i propri legami e la sua stessa esistenza”. E non solo l’essere madre legittima l’intera vita della donna ma è anche, come documenta il costume funerario, ciò che le consente di
lasciare traccia di sé: secondo la rigida legislazione spartana di Licurgo non era permesso di incidere nel monumento funebre il nome del defunto, a meno che non si trattasse di un uomo morto in
guerra o di una donna morta di parto”. L’atto di mettere al mondo un figlio costituisce dunque l’unica giustificazione al mantenimento nella memoria collettiva di un nome e dunque di tutta una vita; se cioè l’esistenza femminile è tutta in funzione della maternità, la
morte di parto, come la morte eroica in combattimento per l’uomo, rende «memorabile» una vita altrimenti cancellata dalla storia. Ciò vale non solo per le iscrizioni funebri di area laconica, in cui alla menzione del nome segue il termine /echoi, cioè «di parto», ma anche per altre provenienti da varie località, nelle quali questa causa di morte è sempre puntualmente ricordata, in quanto la cultura
24 Malattie delle donne 1, 40.
2 Sulla condizione femminile nella Grecia antica la bibliografia è ormai vastissima; i principali strumenti nel recente P. Schmitt Pantel (a cura di), Storia delle donne. L’Antichità, Roma-Bari,
Laterza,
1990.
26 Le analogie di tipo culturale cui rinvia il paragone tra il sangue mestruale o lochiale e il sangue delle vittime sacrificali sono messe in evidenza da H. King, Sacrifical Blood: the Role of Amnion in Ancient Gynecology, in M. Skinner (a cura di), Rescuing Creusa: New methodological Approaches to Women in Antigquity, in «Helios», xm, 1987, pp. 117-126: l’amnion è sia il
vaso di raccolta del sangue della vittima sia la membrana che avvolge l’embrione. 27 Plutarco, Vita di Licurgo, 27, 3. 2 Iscriptiones Graecae v, 1, 699-712, 713, 714, 1128, 1277.
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greca nel suo complesso, attraverso la codificazione dei rispettivi ruoli, dell’oplita e della madre”, aveva determinato una diffusa
mentalità». Un esempio, l’unico di età classica, tra molti di età ellenistico-romana”: un’epigrafe ateniese del rv secolo a.C. ricorda una certa Cratista «che di un triste destino morì tra le doglie del parto, lasciando a casa al marito il figlioletto orfano»”. E così di questa Cratista, e delle altre donne menzionate nelle iscrizioni, è rimasta memoria fino a noi, solo in virtù della causa specifica della loro morte, una morte che, se da un lato conferisce k/eos, gloria
come quella di un guerriero, dall’altro sottrae per sempre alla realizzazione del proprio destino, cioè vivere il ruolo di madre. Di un’altra giovane si dice che, a causa della morte di parto, non può essere chiamata né gyné, né kore, «né donna né fanciulla»: se il
matrimonio l’ha allontanata per sempre dal mondo della fanciullezza, la morte le ha negato la definizione di «donna», attribuibile solo
ad una madre, fissandola dunque per l'eternità in uno stato di imperfezione”. Che del resto il parto dovesse costituire un momento critico rischioso per la donna e per il bambino è documentato ancora dalla Collezione ippocratica, che presenta in dettaglio tutte le possibili cause di difficoltà e sofferenza, quali distacco della placenta”, presentazione con le braccia o con i piedi”, suggerendo quindi al medico interventi manuali” o vari rimedi risolutori quali un violento
2 Sulla polarità dei ruoli maschile e femminile nel mondo greco si veda, oltre la celebre affermazione vernantiana «il matrimonio è per la giovane ciò che la guerra è per il ragazzo», in Mito e società nell'antica Grecia, Torino, Einaudi, 1981, p. 29, N. Loraux, Le lit, la guerre, in «L’Homme», xx1, 1981, pp. 37-67, ora in Il femminile e l'uomo greco, Roma-Bari, Laterza,
1991, della 3° 1942, 31
pp. 5-29, con una ampia analisi delle sovrapposizioni, anche lessicali, dei due ambiti, guerra e del parto. Cfr. R. Lattimore, Themes in Greek and Latin Epitaphs, Urbana, Univ. Illinois Press, p. 142: «the Spartan custom is the simple prototype of the general Hellenic ideal». W. Peek, Griechische Vers-Inschriften, I Grab-Epigramme, Berlin, Akademie Verlag,
1955, nn. 758 (Cirene m/i1 sec. a.C.), 846 (Smirna 1 sec.), 1148 (Smirna tr sec.), 1507 (Alessandria Im sec. a.C.), 1606 (Demetria m/1 sec. a.C.), 1681 (Miconos n sec.), 1842
(Egitto 1-11 sec. d.C.). 3 Peek, Griechische Vers-Inschriften, cit., n. 548; Graeca 2, Berlin, De Gruyter, 1989, n. 576. A proposito p. 7, ne giustifica il dialetto dorico, pur nel Ceramico di conferire alla morta il titolo di Spartiata 44 bonorerz. » Peek, Griechische Vers-Inschriften, cit., n. 1462 34 Superfetazione 2. 35 Ibid. 4, Malattie delle donne 1, 33.
36 Malattie delle donne 1, 69.
38
P.A. Hansen, Carmina Epigraphica di questa epigrafe Loraux, Le lit, cit., Atene, con la volontà della famiglia di
(Larisa i sec. a.C.).
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scuotimento a testa in giù della partoriente, tenuta per le braccia e per le gambe”. La centralità del ruolo materno, in funzione del quale il corpo della donna è interamente concepito, risulta con evidenza negli scritti ippocratici non soltanto a proposito della perfetta corrispondenza tra seni ed utero, finalizzata alla funzione nutritiva sopra chiarita, ma soprattutto nei riguardi della sessualità: il rapporto sessuale è norma igienica, in quanto facilita i mestrui* ed è dunque la terapia adatta al trattamento di svariati disturbi ginecologici; ma per converso, durante la gravidanza, bisogna astenersene in vista di una maggiore facilità del parto”. È evidente cioè che se la gravidanza è l’unico periodo di pieno benessere per la donna, non occorre, anzi appare dannosa, quella terapia fallica altrimenti sempre consigliata‘. È esplicitata in tal modo quella incompatibilità tra maternità e sessualità
che resterà
costante,
vorrei
dire, anche
nella nostra
cultura. E anche se i medici ippocratici ammettono l’esistenza del piacere femminile durante il coito, si tratta tuttavia di un’hedoné che solo il seme maschile ha la capacità di soddisfare. Una significativa pagina del De generatione evidenzia la stretta dipendenza del piacere femminile dall'emissione di sperma maschile (cap. 4): «se si versa
dell’acqua fredda su acqua bollente, si ferma in tal modo l’ebollizione; allo stesso modo, quando il seme dell’uomo cade nell’utero spegne il calore e il piacere della donna. Il piacere e il calore hanno come un sussulto al cadere del seme nell’utero, e poi cessano: come quando si versa vino sul fuoco, dapprima la fiamma manda un bagliore e aumenta un po’ nel momento in cui si versa il vino, poi si spegne, così anche per una donna il calore si accresce al contatto del seme maschile, poi cessa». 37 Estrazione del feto 4. Una riflessione sulle terapie ginecologiche, che ne individua il debito verso la tradizione e l’elaborazione di pratiche «scientifiche» è stata condotta da A.E. Hanson, Continuity and Change: Three Case Studies in Hippocratic Gynecological Therapy and Theory, in S.B. Pomeroy (a cura di), Woen's History and Ancient History, Chapel Hill and London, University North Carolina Press, 1991, pp. 73-110. 38 Generazione 4.
39 Superfetazione 13. 40 Lo studio di G.E.R. Lloyd, I/ sesso femminile: cure mediche e teorie biologiche nel quinto e quarto secolo a.C., in Scienza Folclore Ideologia. Le scienze della vita nella Grecia antica, Torino, Boringhieri, 1987, pp. 53-84, evidenzia invece l’attenzione del medico nei confronti
della salute della donna, per il fatto che in talune malattie il rapporto è sconsigliato (Malattie delle donne, 11, 143, 149, Donne sterili 230, Natura della donna 4): francamente non mi pare
che questi casi, di caduta dell'utero o di sterilità, smentiscano la costante preoccupazione di ristabilire lo stato di fertilità.
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Una sessualità dunque, quella femminile, inesistente*, ma che
trova il suo spazio e la sua ragion d’essere in rapporto alla sessualità maschile. Espressione di tale inesistenza si trova tra l’altro nella unicità della funzione nutritiva riconosciuta ai seni, dei quali si ignora qualunque richiamo erotico. E non soltanto nei testi medici, ma nella cultura greca nel suo complesso, il seno di una madre ha sostanzialmente il ruolo di nutrimento del tutto prevalente su quello della seduzione, ma soprattutto sembra non esserci traccia della sua funzione erogena per la donna. Sicché, non solo la sessualità femminile esiste solo in funzione di quella maschile, ma peraltro solo in vista di un «prodotto», quel figlio che dà legittimità ad un’intera vita e in funzione del quale il corpo femminile è concepito. E in vista della procreazione il medico ippocratico prescrive precise norme da seguire: la stagione migliore per il concepimento è la primavera; l’uomo non deve essere ubriaco, ma deve avere bevuto
vino puro (altrimenti sempre rigorosamente bandito dal mondo greco) e molto forte, avrà mangiato cibi sani e sostanziosi, si sarà lavato con acqua fredda e non calda, e sarà perfettamente in forze e buona salute*. La prescrizione di bere vino puro e lavarsi con acqua
fredda sembra rispondere pienamente all'immagine metaforica del vino versato sulla fiamma o dell’acqua fredda sull’acqua bollente per indicare gli effetti del rapporto sessuale sulla donna. Quest'ultima poi, per la quale, quando è sterile, è prescritta una dettagliatissima terapia fatta di fumigazioni, pessari emollienti e purgativi*, dovrà essere a digiuno e, dopo il coito, restare tranquilla per consentire il trattenimento del seme”. Ma c'è di più: il figlio deve essere preferibilmente maschio. Se le figlie femmine possono costituire un’utile merce di scambio per stringere alleanze attraverso i matrimoni, sono tuttavia indubitabilmente un peso economico per la famiglia di appartenenza, a causa della necessità di dotarle, tanto che l’uso dell’esposizione di figlie
4! Si vedano, riguardo alla cultura moderna, le lucide osservazioni di L. Irigaray, Questo
sesso che non è un sesso, Milano, Feltrinelli, 1990.
‘2 Sulle testimonianze fornite dalla poesia epica e tragica vedi N. Loraux, Matrerz nudam:
quelques versions grecques, in «L’ecrit du Temps», x1, 1986, pp. 90-102. 4 Donne sterili 218 = Superfetazione 30. 4 Donne sterili 217, 221. % Ibid. 220.
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femmine è numericamente più rilevante che per i maschi*: «Un figlio maschio ognuno lo alleva, anche se è povero, una femmina la si espone, anche se si è ricchi», dice un frammento del comico Posidonio”. Sullo sfondo dei dati sociali, un racconto mitico rivela in modo
paradigmatico l’infelice condizione di una madre che genera una figlia femmina contro le attese della famiglia e della società: a Galatea, una donna cretese, il marito Lampro, sapendola incinta, dichiara il suo desiderio di avere un maschio, tanto che, se invece la
donna avesse avuto una femmina avrebbe dovuto esporla. Durante l'assenza del marito Galatea partorisce una femmina ma, non avendo il coraggio di esporla, la traveste da maschio e la chiama Leucippo. L’inganno continua finché la fanciulla, crescendo, diviene di una tale
bellezza da non consentire più di nasconderne la vera natura. La madre Galatea, nel timore di essere scoperta, prega la dea Latona di cambiare il sesso alla figlia, e la dea, mossa a compassione, trasforma
Leucippo in maschio#. Galatea cioè è costretta a nascondere l’identità sessuale della figlia per sottrarla alla morte cui la condanna il fatto stesso di essere femmina, e solo la metamorfosi operata da una divinità consente all’infelice creatura di continuare a vivere, a
patto però di assumere l’identità sessuale maschile rinunciando alla propria.
Se dunque il figlio deve essere maschio, il medico ippocratico fornisce altre prescrizioni per determinare il sesso del nascituro, che dovranno essere eseguite da entrambi i genitori, poiché, come è noto, viene riconosciuta, diversamente dalla concezione aristotelica,
la partecipazione del seme femminile al concepimento” e la nascita di un maschio è data dal prevalere del seme più forte in entrambi i genitori”: poiché i maschi hanno una costituzione secca e calda e le femmine fredda, umida e molle, allora bisognerà seguire una dieta 4 Vedi G. Glotz, ad vocem Expositio, in Ch. Daremberg, Ed. Saglio, Ed. Pottier, Dictionnaire des antiquités grecque et romaines, 11, 1, Paris 1892, pp. 930-939; U.E. Paoli, ad
vocem Filiazione (Diritto attico), in Novissimo Digesto Italiano, va, Torino, Un. Tip.-Edit., pp. 303-308. 4 Posidonio fr. 12 Kassel-Austin = Stobeo, Florilegio, LXXvII, 7. 4 Antonino Liberale 17. Ovidio, Metamorfosi, 1x 666 ss., narra una storia simile che ha
per protagonista Iphis, anch'ella travestita da maschio dalla madre per sottrarla all’esposizione, ed amata quindi da una fanciulla caduta in errore, e infine trasformata in maschio dalla dea Iside. 4 Generazione 5. % Ibid. 6-7.
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acquosa per concepire una femmina, una dieta «ignea» per concepi-
re un maschio”; l’uomo poi, al momento del rapporto, legherà forte, per quanto può sopportarlo, il testicolo sinistro, quasi per impedirne l’azione”, se vuole un figlio maschio, o al contrario il destro, se vuole
una femmina. Viene garantita in tal modo la prevalenza della destra, tradizionalmente dalla parte del bene, e dunque, in questo caso, del maschile in opposizione al femminile: i maschi infatti, nella tradizione medica anche precedente a quella ippocratica, si formano nella parte destra dell’utero”, come sentenzia uno degli Aforismi (v, 48): «Il feto maschio
è a destra, il feto femmina
a sinistra».
Alla
opposizione destra/sinistra dell’utero corrisponde naturalmente anche la analoga opposizione tra i seni. Sempre negli Aforiszzi (v, 38) leggiamo: «Una donna incinta di due gemelli, se una delle mammelle si dissecca, abortisce uno dei due feti: se è la mammella destra a disseccarsi abortisce il feto maschio, se è la sinistra il feto femmina».
Accanto alla opposizione destra/sinistra si trova inoltre quella alto/basso: in una donna incinta di un maschio i capezzoli sono rivolti in alto, in basso invece se è incinta di una femmina. Il volto di
una donna incinta di un maschio ha poi un bel colorito, mentre sarà pieno di macchie e lentiggini se è incinta di una femmina”. Sembra cioè che, se la gravidanza, come abbiamo detto, è un
momento di equilibrio fisico per la donna, in particolare l’essere gravida di un maschio garantisce che questo stato di equilibrio raggiunga la sua piena perfezione. Naturalmente ad una condizione: che la maternità sia vissuta all’interno del legame istituzionale del matrimonio, o che almeno l’uomo intervenga a dare legittimazione politica alla maternità, appropriandosene. In tal modo ritengo vada inteso il costume ateniese secondo il quale il padre ha il compito di riconoscere la filiazione sia in privato sia in pubblico: nell’ambito di una cerimonia domestica, che si svolge al decimo giorno dopo la nascita, il padre,
51 Regime 27. Per i rapporti tra quest'opera e le altre della Collezione vedi R. Joly, Recherches sur le traité pseudo-hippocratique du Régime, Paris, Les Belles Lettres, 1960. 32 Superfetazione 31. .? Sulla polarità destra/sinistra e sulla sua struttura gerarchica nel pensiero greco fino ad Aristotele, vedi G.E.R. Lloyd, Destra e sinistra nella filosofia greca, ora in Metodi e problemi della scienza greca, Roma Bari, Laterza, 1993, pp. 49-85. 54 Donne sterili 216; cfr. Aforismi v, 42. Su questi meccanismi di classificazione vedi M. M. va La scienza dell'uomo nella Grecia antica, Torino, Boringhieri, 1988, in particolare pp. 81 ss.
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preso in braccio il neonato e fatto un giro attorno al focolare, gli assegna un nome e lo depone nudo sul suolo, tutti gesti che suggellano l'appartenenza del bambino al gruppo familiare, simbolicamente rappresentato dal focolare, e il suo legame alla terra, che travalica, quasi ignorandolo, il legame con la madre”; in seguito, sempre il padre, nel corso della festa delle Apaturie, presenta il figlio alla fratria per la iscrizione nell’albo5. Sembra quasi che l’insopprimibile dato biologico della appartenenza del figlio alla madre possa essere rimosso e spostato verso l'assunzione di una paternità attuata tutta in termini politici. Eppure tale legittimazione politica della maternità che si realizza solo grazie ad un uomo che se ne appropria per garantirsi una paternità, è ciò che permette ad una donna di vivere in uno stato di benessere psichico e fisico la gravidanza e il puerperio. Arianna, nella versione cipriota del mito tramandataci da Plutarco”, viene abbandonata da Teseo, il mitico re ateniese, nell’isola di
Cipro quando, di ritorno da Creta dopo l’esito positivo dell’episodio del Labirinto, viene colta da malore perché è incinta. Qui viene
quindi presa da uno stato di grave malessere che le donne del luogo, impietosite, cercano di alleviare portandole finte lettere dell’eroe. Ma il suo stato peggiora al punto tale che muore senza riuscire nemmeno a partorire. La sua condizione di donna sola, abbandonata dall'uomo, con un evidente scarto rispetto alla norma, determina uno stato patologico che trasforma la gravidanza in una malattia mortale. Nei casi più gravi, la patologia della maternità, dovuta ad alterazione delle regole sociali, è spinta fino alla alienazione e alla follia: Aura, una ninfa del corteggio di Artemide, è amata da Dioniso che la insegue per le montagne, ma, grazie alla sua velocità, riesce sempre a sfuggirgli, finché Afrodite, per consentire al dio di unirsi 55 Cfr. G. Sissa, La famiglia nella città greca (secoli V-IV a.C.), in Storia universale della famiglia, 1, Milano, Mondadori, 1987, pp. 165-196. 56 Vedi L. Beauchet, Histoîre du drott privé de la république athénienne, 1, Paris, Marescq,
1897, pp. 338-356, con la discussione delle fonti. La legittimazione poteva avvenire anche nel caso di un figlio naturale, purché maschio, ma di madre asté, «cittadina» e non straniera, che
quindi entrava a far parte dell’oikos, stando almeno alla ricostruzione di U.E. Paoli, Studi di diritto attico, Firenze, Bemporad, 1930, pp. 272-277, e ancora accolta da Biscardi, Diritto greco antico, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 104-105.
5 Plutarco, Vita di Teseo 20, 3. Su questa versione del mito e in generale sulle vicende di Teseo vedi C. Calame, Thésée et l’imaginaire atbénien. Légende et culte en Grèce antique, Lausanne, Payot, 1990, pp. 114-115.
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alla fanciulla, la fa impazzire. Dall’unione col dio Aura dà alla luce due gemelli ma, sempre in preda alla follia, li dilania, per poi precipitarsi, ella stessa, nel fiume”. Per lei cioè, vergine violata, la maternità, conseguenza della violenza subita, assume i tratti della
follia che la spinge all’infanticidio, una sorta di «malattia sociale» che esprime il disadattamento della madre nubile. Se cioè nell'immaginario mitico la cultura greca antica ha proiettato, anche a proposito della maternità, la norma e la trasgressione codificate dalla società, per converso il mito opera quella manipolazione dei dati fino allo stabilimento di regole incontrovertibili, cui la medicina, con orgogliosa consapevolezza di scientificità, conferisce ulteriore validità.
58 Nonno, Dionisiache, xLvII 242 ss.
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LA «MERAVIGLIOSA ARMONIA». IL RAPPORTO FRA SENI ED UTERO DALL’ANATOMIA VASCOLARE ALL’ENDOCRINOLOGIA di Gianna Pomata
Admirandus hic inter mammas & uterum consensus, bini libidinis fontes. BERNARDINO RAMAZZINI, De morbis artificurm diatriba, 1700
Descrivendo i mali che colpiscono le nutrici nel suo libro sulle malattie dei lavoratori!, Bernardino Ramazzini si sofferma davanti a un problema anatomico, che evidentemente lo affascina, e che
considera insoluto dalla scienza medica antica e moderna: come si forma il latte nelle mammelle? Deriva «dal sangue, come anticamente si pensava, oppure dal chilo, come meglio sostengono i moderni? [...] Resta ancora da capire per quale spinta e con quali processi, nelle puerpere, i componenti del latte — siano essi il sangue o il chilo — arrivino alle mammelle. Questo problema — un mistero che ha tenuto impegnate tante menti illustri — è tuttora irrisolto». Medicina antica e moderna sono però concordi nell’indicare che alla radice della questione sta un fenomeno sorprendente, «la meravigliosa armonia» che lega l’utero ai seni: Si deve credere che il divino architetto abbia costruito l’utero e le mammelle con strutture e meccanismi ancora ignoti, di modo che, per una
legge costante, allo svuotamento dell’utero fa seguito la produzione del latte [...] Perché dunque le mammelle risentono delle influenze dell’utero, e
non così gli altri organi, almeno nello stesso modo e con la stessa regolarità? Certamente per quel legame di simpatia, ancora sconosciuto nei suoi meccanismi, che sfugge all'indagine anatomica, ma che forse un giorno verrà completamente chiarito [...] Bisogna ammettere infatti che l'armonia
delle mammelle con l’utero è una cosa meravigliosa, ma che ancora è ignota all’intelligenza umana e all’indagine anatomica. 1 B. Ramazzini, De morbis artificum diatriba, Ultrajecti 1703, pp. 155-157. La prima edizione, di Modena, è del 1700.
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Il legame di simpatia fra seni e utero non è attestato solo dall’ovvio nesso fra gravidanza, parto e allattamento. Vi è un altro elemento che testimonia chiaramente, secondo Ramazzini, il profon-
do influsso reciproco dei due organi: «La mirabile armonia fra mammelle ed utero, entrambi fonti di voluttà (lido), è ampiamente testimoniata inoltre dalla notevole eccitazione che si produce nelle donne, stando a quanto dicono esse stesse, quando vengono loro accarezzate le mammelle». Il rapporto fra utero e seni ha quindi, oltre alla sua indubbia finalità riproduttiva, anche un aspetto che noi chiameremmo «sessuale». L'esperienza della voluttà femminile, esplicitamente descritta qui attraverso «quanto dicono le donne stesse», è parte rilevante, per Ramazzini, del quadro di osservazioni empiriche che suggeriscono un legame particolare fra i due organi. Nella mente di questo medico del Seicento, la funzione nutritiva, materna, del seno va compresa insieme alla sua capacità di provare piacere. Badiamo bene: la funzione erogena del seno a cui pensa Ramazzini non è il suo effetto di richiamo sessuale per gli uomini. È il seno come fonte di libido per le donne il dato osservativo che intriga la sua curiosità di scienziato. Che il seno abbia un significato erotico per gli uomini è un’ovvietà; che lo abbia per le donne è un po’ meno ovvio, tanto nel mondo di Ramazzini che nel nostro. La ricerca sociologica e antropologica sulla sessualità femminile nelle culture occidentali contemporanee ha messo in luce come sia difficile per le donne conciliare la definizione sociale dell’allattamento come
atto di disinteressato amore materno
con quel piacere
furtivo che è «attaccato al seno»?. È stato rilevato come possa essere difficile per le donne conciliare la norma che centra la sessualità femminile adulta nell’orgasmo raggiunto attraverso il coito, con l’esperienza dell'orgasmo raggiunto mentre si allatta, o comunque attraverso la sola stimolazione del capezzolo?. Vi è indubbiamente 2 F. Balsamo, G. De Mari, V. Maher e R. Serini, La produzione e il piacere: medici e madri a Torino, in V. Maher (a cura di), I/ latte materno. I condizionamenti culturali di un comportamento, Torino
1992, pp. 86-87.
} Il fenomeno è ben noto negli studi sul comportamento sessuale. W.H. Masters-V.E.
Johnson, Human Sexual Response, Boston 1966, pp. 161-162: in un campione di 24 donne
intervistate sulla loro vita sessuale durante l’allattamento, tutte dichiarano di provare piacere e
tre di raggiungere l’orgasmo mentre allattano; sei ammettono forti sensi di colpa a questo proposito. Dati analoghi si ricavano da studi successivi: A. e P. Stanway, The Breast,
Mayflower Pub. 1982: il 64% delle donne intervistate dichiarano l’allattamento «sexually pleasant» o «sensual»; 17% ammettono di provare l'orgasmo attraverso la sola stimolazione del capezzolo.
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nella nostra cultura uno straordinario contrasto fra l'enorme enfasi sul seno come richiamo erotico per gli uomini, da una parte, e il quasi silenzio che circonda invece, dall’altra, il seno come fonte di piacere
per le donne*. Perfino la psicoanalisi ha sottolineato l’aspetto erotico dell’allattamento per il bambino, ma non per la madre, passando sotto silenzio le sensazioni sessuali della donna che allatta. Si è parlato, per la nostra cultura di una rigida separazione fra esperienza sessuale ed esperienza materna, una separazione introiettata da molte donne e a cui sembra collegata molta della difficoltà ad allattare?. Rispetto a questa separazione, la pagina di Ramazzini che abbiamo appena letto è certo sorprendente. A partire da questa pagina, possiamo chiederci come sia stato percepito e pensato, nel discorso medico europeo, il legame fra maternità e voluttà femminile. E anche su questo legame, come vedremo, che medici e anatomisti si interrogavano quando cercavano di spiegare fenomeni come la formazione del latte e il misterioso rapporto fra utero e mammelle.
«Magnus est uteri mammarumque consensus», leggiamo in un testo pseudo-galenico del Rinascimento‘. «Queste due parti sono state preparate per il compimento della medesima opera. La natura infatti le ha congiunte mediante vene ed arterie. Questi vasi sono condotti dalle parti superiori del corpo a quelle inferiori e dalle inferiori alle Pionieristici Emotions,
New
a questo proposito gli studi di Niles Newton: vedi in particolare Materzal York
1955 e Interrelattonship Between
Sexual Responsiveness,
Birth and
Breastfeeding, in J. Zubin-J. Money (a cura di), Contemporary Sexual Behavior, Baltimore 1973,
pp. 77-97. Vedi inoltre J.M. Riordan-E.T. Rapp, Pleasure and Purpose: the Sensuousness of Breastfeeding, in «Journal of Gynecology and Nursing», rx, 1980, pp. 109-112.
4 Come osserva giustamente Brigid McConville: «Despite all we hear of the joys of motherhood, there is deep and meaningful silence about the sensual or sexual pleasure which can accompany breast-feeding» (Mixed Messages. Our Breasts in Our Lives, Harmondsworth 1994, p. 116, cfr. anche pp. 111-112). 5 S. Weisskopf, Maternal Sexuality and Asexual Motherbood, in «Signs», v, 4, 1980, pp. 766-782; R.D. Post-R. Singer, Psychological Implications of Breast-Feeding for the Mother, in M.C. Neville-M.R. Neifert (a cura di), Lactation: Physiology, Nutrition, and Breast-Feeding, New York and London 1983, pp. 358-359. 6 Galeni in Hippocratis librum de alimento commentarius, in Galeno, Opera Omnia, a cura di C.K. Kuehn, Lipsiae 1822, vol. xv, pp. 401-402. Che si tratti di un falso compilato nel Rinascimento è stato dimostrato da H. Diels, Sttzungsb. der Kònig. Preuss. Ak., Berlin 1914, pp. 128-29; vedi R.J. Durling, A Chronological Census of Renaissance Editions and Translations of Galen, in «J. of the Warburg and Courtauld Institute», xx1v, 1961, pp. 230-305.
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superiori, affinché quando il feto viene cresciuto e formato nell’utero, le vene comuni gli portino alimento da entrambe le parti; e quando invece è dato alla luce, l'alimento affluisca per intero alle mammelle». Troviamo riassunto in questo testo quanto viene dalla tradizione ippocratico-galenica su questo tema. L’idea di un consensus (ovvero communio, colligantia, consortium, sympatheia) fra mammelle ed utero è infatti molto antica. La troviamo nei trattati anatomici,
nella parte dedicata alla mammella, praticamente in modo ininterrotto dal De usu partium di Galeno (11 secolo d.C.) alla Physiologia di Haller nel Settecento. È dunque uno stereotipo ricorrente nella ricognizione del corpo umano offerta dalla tradizione medica occidentale. Non si tratta di una teoria vera e propria ma di una sorta di schema di riferimento che consente di collegare varie osservazioni empiriche. È così che Galeno la usa, nel x1v libro del De usu partir, legandola a una specifica teoria sulla formazione del latte. Il legame fra i due organi gli appare un dato osservativo evidente per varie ragioni. «Proprio come ci sono nella donna due uteri che sboccano in un solo collo così ci sono due seni, ciascuno fedele servitore dell’utero corri-
spondente». «La corzzzunio fra mammelle e uteri si palesa quotidianamente in modo perspicuo, non solo quando i feti periscono, come ci ha insegnato Ippocrate, ma anche quando l’animale è sano. Finché gli animali crescono, infatti, mammelle e uteri sono piccoli; quando invece essi hanno raggiunto la maturità ed è arrivato il tempo in cui sono capaci di partorire, le mammelle si gonfiano quanto è necessario, insieme agli uteri»”. Galeno riprende inoltre le osservazioni cliniche ippocratiche che segnalano un rapporto fra mammelle ed uteri in varie sindromi morbose. Alcuni degli Aforismi descrivono, in particolare, il rapporto
fra galattorrea in gravidanza e sofferenza fetale: «Quando il latte fluisce copiosamente dai seni di una donna incinta, è un segno che il feto è malato; ma se i seni sono duri, è un segno che il bambino è
sano». O ancora, la sindrome amenorrea-galattorrea: «Se una donna ha il latte quando non è incinta né ha partorito, i suoi mestrui sono soppressi»*?.
? De usu partium, in Opera Ownta, cit., vol. Iv, p. 154.
8 Hippocrates, Aphoriss, Loeb Class. Lib., 1v, Cambridge 1979: v, 52 (ed anche v, 37: «Se i seni di una donna incinta si rimpiccioliscono, il feto viene abortito»). v, 39; vedi anche v
50: «Se vuoi bloccare i mestrui, applica ai seni una coppetta della misura più larga». Sul
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Queste osservazioni cliniche hanno senso, secondo Galeno, nel
quadro di una teoria che identifica nel sangue il liquido corporeo fondamentale, da cui si formano, per cozione indotta dal calore vitale, i fluidi sessuali del corpo, cioè il latte e lo sperma. È forse necessario ricordare, a questo punto, che per Galeno, come già per Aristotele, la definizione di quel che costituisce maschio e femmina nella specie umana è saldamente radicata in una teoria del sangue (e non solo, come si ripete comunemente, del calore vitale). L'enorme
importanza della teoria del sangue e del sistema vascolare nella rappresentazione della differenza sessuale nella medicina antica non è stata sinora sufficientemente sottolineata. Eppure, nella visione antica del corpo, la nozione di differenza sessuale era strettamente legata a una teoria delle diverse trasformazioni che il sangue subisce nei corpi di uomini e donne: diventando seme nel corpo maschile e latte (nonché seme, anche se un seme di qualità inferiore) nel corpo femminile?. Non a caso, nei testi anatomici scritti nella tradizione
galenica, ancora nel tardo medioevo, fra gli organi della riproduzione venivano elencati anche le vene e le arterie (per la ragione che è qui che il seme viene prodotto dal sangue). sangue come «fratello germano del mestruo» vedi Epid. 11, 6, 16. Come osserva giustamente Ch. Bonnet-Cadilhac, Conraissances de Galien sur l’anatomo-physiologie de l’appareil génital feminin, in «Hist. Phil. Life Sci», 10, 1988, pp. 289-290,
criticando le affermazioni
in
proposito di R. Joly (Le niveau de la science hippocratique, Paris 1966, pp. 66-67) si tratta di osservazioni cliniche che hanno una base empirica: la sindrome amenorrea-galattorrea può verificarsi effettivamente in seguito a iperprolattinemia; un aborto negli ultimi stadi di gravidanza può accompagnarsi a montata lattea. Galeno sostiene inoltre che la corzzzunio fra mammelle ed utero coinvolge anche i testicoli. «Per causa di questa corzzzunio avvengono migrazioni di umori. Così la formazione di un tumore nel testicolo in coloro che sono vessati dalla tosse è un indizio della corzzzuzio, che
intercorre fra petto, mammelle, seme ed utero; in effetti talvolta si verifica che in quelli che a lungo, anche se senza dolore, sono tormentati da tosse delle costole si formi un ascesso nel
testicolo»: Hippocratis de humoribus liber et Galeni in eum commentari tres, in Opera omnia, CITAVvO SVI PASSI:
? Sulla teoria dell’emogenesi del seme nell’antichità resta fondamentale E. Lesky, Die Zeugungs-und Vererbungslehren der Antike und ibr Nachwirken, in «Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften und der Literatum», Geist. und soz. KI., 19, Mainz-Wiesbaden
1950, pp. 1344-1417. Sulle implicazioni sociali di questa teoria rispetto alla definizione della parentela e al rapporto fra i sessi si veda, di chi scrive, Legami di sangue, legami di seme. Consanguineità e agnazione nel diritto romano, in «Quaderni Storici», 86, agosto 1994, pp. 299-334.
10 Così scrive per esempio Nemesio di Emesa nel Iv secolo d.C.: «Gli organi dotati di capacità di generare lo sperma, in verità, sono in primo luogo le vene e le arterie. È in esse infatti che il fluido seminale viene originariamente prodotto attraverso la trasformazione del
sangue, proprio come si produce il latte nelle mammelle. Il fluido seminale è infatti l'elemento che nutre i vasi sanguigni. E a sua volta originariamente [cioè nell’embrione] la generazione di
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La teoria dell’emogenesi dello sperma e del latte era stata già aristotelica". Ma assai più precisamente che Aristotele Galeno spiega come si compia la cozione del sangue da cui derivano gli altri due fluidi. La novità della spiegazione galenica — anche questa non sufficientemente sottolineata dagli storici - è che è fondamentalmente centrata non tanto sul principio metafisico del calore vitale ma sull’osservazione accurata dei percorsi del sangue nel corpo, attraverso la dissezione delle vene e delle arterie. È il sistema vascolare stesso a rendere possibile la cozione del sangue. Galeno ci spiega questo con chiarezza innanzi tutto nel caso dello sperma. Il suo punto di partenza è un dato empirico che emerge evidente all'osservazione anatomica: i vasi che vanno ai testicoli, nei maschi come nelle femmine, non procedono in linea retta, ma sono estremamente convoluti e avviluppati su se stessi «come 1 viticci della vite o dell’edera»!. E chiaro che la natura ha disposto i vasi in questo modo, secondo Galeno, perché fossero il più lunghi possibile, e in tal modo rallentassero il flusso del sangue. Nei viluppi di questi vasa parzpiniformia «il sangue e lo pneuma che vanno ai testicoli subiscono una notevole cozione, ed è possibile vedere chiaramente che l'umore contenuto nei primi viluppi è ancora di aspetto simile al sangue mentre in quelli successivi diventa gradatamente sempre più bianco, finché negli ultimi, quelli questi vasi avviene a partire dallo sperma». (De natura hominis, trad. lat. di Burgundio da Pisa, a cura di G. Verbeke e J.R. Moncho, Leyden 1975, pp. 108-109; la trad. it. è mia: non ho potuto consultare quella curata da M. Morani:
La natura dell'uomo, Salerno
1982). Una
concezione simile dell'origine dello sperma nei vasi sanguigni si ritrova comunemente nei commentari medievali: vedi per esempio J. Despars, Expositio supra Librum Canonis Avicenne, lib. 1, fen. 20, tr. 1, cap. 1.: cfr. D. Jacquart-C. Thomasset, Sexality and Medicine in the Middle Ages, trad. ingl, Oxford 1988, pp. 41-42. 11 Sulle differenze fra la teoria aristotelica e quella galenica della generazione vedi A. Preus, Galen’s criticism of Aristotle’s Conception Theory, in «Journal of the History of Biology», 10, 1977, pp. 65-85, e J. Kollesch, Galens Auseinandersetzung mit der Aristetelischen Samenlehre, in J. Wiesner (a cura di), Aristoteles - Werk und Wirkung, Berlino e New York
1987, vol. 11, pp. 17-26. 12 De semine, ed. critica a cura di Phillip de Lacy, Berlin 1992 (C.M.G. v 3, 1), p. 106.
3 Ibid., p. 116: «E immediatamente chiaro a chi ha esaminato queste cose attraverso le dissezioni, che il vaso spermatico percorre un itinerario così tortuoso al fine di raggiungere la massima lunghezza; sarebbe infatti estremamente breve se andasse direttamente dall’epididi-
mo al collo della vescica. E in effetti se i testicoli fossero collocati nel peritoneo, metà del vaso spermatico andrebbe perduta e così pure perduta andrebbe la circonvoluzione di vena ed arteria. Per creare questa circonvoluzione e allungare il vaso spermatico, la natura ha tagliato un passaggio attraverso il peritoneo e ha collocato in basso i testicoli. Così avviene che il sangue, mentre si attarda nei vasi, subisce cozione e coagulamento; e il vaso spermatico diventa molto lungo, così che può emettere una maggior quantità di seme in un solo atto».
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che terminano nei testicoli, è diventato bianco completamente». Quando si tratta di portare nutrimento, la natura fa andare i vasi in linea retta. Quando si tratta di assicurare cozione, li fa procedere
nel modo più tortuoso possibile. Così come ha reso avviluppate e tortuose le vie del seme, analogamente nel portare il sangue alle mammelle la natura non ha seguito la via più breve e diretta ma quella più tortuosa, per consentire la cozione e sbiancamento del sangue nei vasi: Non vedi che, mentre la natura poteva condurre il sangue alle mammelle a partire dalla vena più grande [...], che è chiamata vena cava, non ha però fatto così, nonostante che la vena cava fosse vicina alle mammelle, ma l’ha prima diretta in alto verso il cuore, facendola passare per tutto il torace, poi infine, all'altezza della clavicola, ha fatto partire da essa due propaggini di grosse vene e, con queste, due di arterie, e ha fatto scendere questi quattro vasi insieme in basso per tutto il petto e in tal modo li ha fatti entrare in coppia in ciascuna mammella, facendo ciò in tanto lungo percorso in modo che il sangue nei vasi possa essere perfettamente cotto. Il qual sangue, quando è portato in alto passa attraverso il cuore, e scendendo di nuovo verso il basso corre e viene sempre agitato dal moto dello stesso torace e in tali movimenti erranti si riscalda, dimorando nella
parte predetta con moto perpetuo. E tutte queste cose contribuiscono alla sua perfetta cozione!.
La teoria dell’emogenesi del latte è quindi fondata per Galeno sull’anaiogia fra latte e seme: entrambi i liquidi derivano dalla capacità dei vasi di trasformare il sangue in elemento più cotto, bianco. La configurazione tortuosa del sistema vascolare è cruciale in questo processo. E in effetti l'anatomia vascolare, per Galeno, è
un elemento chiave per capire i processi corporei, in particolare
quelli legati alla differenza sessuale. È attraverso l'anatomia vascolare, appunto, che Galeno spiega il rapporto fra l'utero e i seni: Ora spiegherò perché i seni hanno tanto in comune con gli uteri; anche questo infatti ci segnala la stupefacente maestria della Natura. Poiché essa
14 De usu partium, cit., vol. Iv, p. 184; cfr. De seine, cit., p. 134. Ecco come Galeno
spiega «perché il sangue a lungo trattenuto nei vasi diventa bianco»: «Ogni parte del corpo assimila a sé l’elemento che la nutre; perché dunque dovrebbe sorprendere che le tuniche dei
vasi, che sono bianche, modifichino il sangue a loro somiglianza? (De usu partium, cit., vol. Iv,
p. 185). La nozione aristotelica di cozione è ancora cruciale per spiegare la formazione del seme, ma Galeno le aggiunge l’idea che le pareti vascolari non sono inerti ma hanno la capacità di trasformare il sangue in seme. 5 De usu partium, cit., vol. 1, p. 604.
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ha creato queste parti al fine che servano al medesimo compito, le ha unite
mediante i vasi che, come ho detto parlando del torace, vanno ai seni, portando vene e arterie all’ipocondrio e all’intero ipogastrio, per poi
collegarle ai vasi che salgono dalle parti inferiori e da cui le vene vanno
all’utero e allo scroto. In effetti, questi sono i soli vasi nell’animale che,
originandosi in zone al di sopra del diaframma, scendono alle parti basse del corpo, e gli unici che cominciano in basso e vanno verso l’alto. Infatti uteri e seni sono le sole parti del corpo che hanno bisogno di essere connesse da vasi, al fine che ogniqualvolta l'embrione è formato e cresce negli uteri, esso solo possa essere inondato di nutrimento da entrambe le parti delle vene comuni e affinché quando il bambino è nato tutto il nutrimento possa essere convogliato ai seni. Questa è la ragione per cui una
donna non può mestruare propriamente e allattare nello stesso tempo, perché una parte è sempre prosciugata quando il sangue si volge verso l’altra!S.
Subito dopo aver trattato del rapporto fra utero e mammelle e averne dato una spiegazione vascolare, Galeno passa a parlare del «grande piacere che accompagna l’esercizio degli organi genitali». Contro Aristotele, Galeno, come è noto, è sostenitore dell’idea «falsa
ma bella», come l’ha appropriatamente chiamata Claude Thomasset, per cui anche le donne emettono seme e la loro emissione di seme (quindi il loro piacere) è necessario perché avvenga il concepimento”. Il piacere sessuale è spiegato da Galeno attraverso lo stesso meccanismo per corpi maschili e corpi femminili, e si tratta ancora una volta di una spiegazione legata alla configurazione del sistema vascolare. Dei vasi che vanno alle parti genitali, quelli afferenti all’utero destro e al testicolo destro hanno origine dai grandi vasi che corrono lungo la spina
16 Ibid., vol. 1v, p. 176. Cfr. De placitis Hippocratis et Platonis, in Opera omnia, cit., vol. v, p. 194 e De venarum arteriarumque dissectione, ibid., vol. 1, pp. 796-797.
Bonnet-Cadilhac, Connaissances de Galien, cit., pp. 289-290 suggerisce che Galeno sia stato sviato anche in questo caso dall’anatomia animale: «Nei ruminanti ed equini, la posizione caudale dei complessi mammari spiega la loro vascolarizzazione a partire accessoriamente da un ramo dell’arteria pudenda interna e soprattutto dell’arteria pudenda esterna che si divide in tre branche di cui una, l'arteria mammaria craniale, va ad anastomizzarsi con l’arteria epigastrica craniale. Nella scrofa, nei roditori e nei carnivori, i complessi mammari, in numero variabile secondo le specie, si stendono lungo la parete toracico-addominale anteriore: una parte della loro vascolarizzazione è allora assicurata dai rami perforanti dell’arteria toracica interna e delle arterie intercostali, e dai rami mammari delle arterie epigastriche craniali e caudali, formanti un sistema anastomotico lungo la catena delle mammelle» (p. 290). !? C. Thomasset, La natura della donna, in Ch. Klapisch-Zub di), Stork donne. Il Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 67. A
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dorsale, la vena dalla vena cava e l’arteria dalla grande arteria [=aorta], ma
quelli che raggiungono il testicolo sinistro nell’uomo o l’utero sinistro nella donna (e ci sono due di questi vasi, una vena ed un’arteria) non partono dai grandi vasi stessi ma dai vasi che vanno ai reni. È quindi chiaro che il testicolo sinistro nel maschio e l'utero sinistro nella femmina ricevono sangue non depurato, pieno di residui, acquoso e sieroso!8.
A questa particolare configurazione del sistema vascolare — che è anatomicamente corretta per le vene spermatica e ovarica sinistra ma
non per le arterie corrispondenti, che hanno origine dall’aorta proprio come le destre! — Galeno attribuisce conseguenze molto importanti. L’umore sieroso portato dai vasi direttamente prove-
nienti dal rene sinistro è responsabile infatti per la loro eccitabilità.
18 De usu partiura, cit., vol. 1v, pp. 170-171. Galeno discute questa peculiare configurazione dei vasi che vanno ai genitali in relazione al dislivello fra rene destro e rene sinistro, che egli attribuisce alla specie umana (sviato probabilmente dall’anatomia animale, oltre che dalla sua credenza preconcetta nell’importanza della distinzione destra/sinistra). Egli osserva che, poiché i reni, a differenza delle altre coppie di organi, non sono sullo stesso livello ma il rene destro è alquanto più in alto rispetto al rene sinistro, anche i vasi che li raggiungono non partono dalla cava e dall’aorta al medesimo livello. I vasi renali destri, infatti, si diramano dal tronco principale più in alto dei renali sinistri: «Là dove la vena cava ha inizialmente origine dal fegato e, ancora sospesa, si piega verso il basso lungo la spina dorsale, si trova ad avere il rene destro accanto, alla sua destra mentre alla sua sinistra, un po’ più in basso, c’è il rene
sinistro. Da essa si dirama in ciascun rene un grosso vaso venoso e vi è anche visibile al di sotto di questi vasi un’altra coppia di vasi altrettanto grossi, che partono dall’arteria principale, che corre lungo la spina dorsale, e anche questi, come le vene, raggiungono i reni. Ma in quanto il rene destro si trova presso il fegato e il sinistro un po’ più in basso, i vasi\che raggiungono i reni sono gli unici ad avere una caratteristica speciale che non si trova in alcun altro vaso derivante dalla vena cava o dalla grande arteria. Tutti gli altri infatti si originano in coppia dal medesimo sito tanto nel caso della cava che dell’aorta ma le vene ed arterie che vanno ai reni non si dipartono dai grandi vasi nello stesso luogo; la diramazione dei vasi che vanno al rene destro è
assai più in alto di quella dei vasi diretti all’altro rene, dal momento che un rene è più in alto dell’altro». I vasi che vanno alle parti genitali invece — prosegue Galeno — partono alla medesima altezza, «poiché l’utero sinistro è collocato alla stessa altezza di quello destro, e così pure il testicolo destro e sinistro sono collocati alla stessa altezza». Vi è però anche in questo caso una differenza
fra destra
e sinistra, perché,
come
si è detto, i vasi di destra si diramano
direttamente dall’aorta, mentre quelli di sinistra nascono invece dal vaso renale. 19 L’arteria spermatica interna sinistra nasce dall’aorta proprio come quella destra: vedi Lesky, Die Zeugungs, cit., pp. 1263-1293; pp. 1401-1417. È l'errore che Vesalio corregge nelle
Tabulae sex: «Seminales arterias utrasque [...] semper ab arteriae magnae corpore, aliter scilicet quam venas seminarias enatas inveni» (cfr. J.B. de C.M. Saunders-C.D. O’Malley (a cura di), The Illustrations from the Works of Andreas Vesalius of Brussels, Toronto 1950, p. 240, tav. 89).
20 Secondo Galeno, questa configurazione vascolare è anche la causa della determinazione sessuale dell'embrione. L’utero sinistro, infatti, è più freddo di quello destro perché riceve
appunto dai vasi che lo irrorano l’umore sieroso proveniente dai vasi renali. Se il coagulo di seme maschile e femminile da cui ha origine il feto si forma nell’utero sinistro, il feto è
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«Questo umore [...] ha infatti la proprietà di essere acre e mordace, e più di ogni altro può stimolare all’esercizio di queste parti, e dare piacere mentre esse agiscono». È l’accumulazione di questo umore sieroso nelle parti genitali che le stimola facendole prurire e ne fa desiderare lo strofinamento?!. Troviamo qui la formulazione dell’idea di un ruolo centrale dei reni nella funzione sessuale che sarà attivamente indagata ancora nel Seicento: per esempio in quelle
numerose anatomie secentesche di donne uccise in flagrante adulte-
rio e i cui reni vengono riscontrati essere eccezionalmente grandi
(come il loro appetito sessuale)”. Nonostante il tema della comzzuzio di mammelle ed utero e quello del piacere sessuale siano direttamente contigui nel De usu partium, Galeno non menziona la partecipazione dei capezzoli nella stimolazione sessuale della donna, che attraverso la teoria della
serositas derivata dal rene sinistro, è confinata alle parti genitali. Né ci parla di una particolare dotazione di nervi nel capezzolo come invece nel pene («uteri, scroto e testicoli non abbisognano di molti nervi, perché non servono per acuta percezione o per moto. Il pene
maschile invece, come il collo degli uteri e altre parti del pudendur, ha più nervi, perché ha bisogno di maggior sensibilità per il coito»)?. Non troviamo in Galeno l'analogia fra capezzolo e pene che sarà un femmina; se avviene nell’utero destro, il feto invece sarà maschio, perché l’utero destro è più
caldo, in quanto irrorato da vasi che provengono direttamente dai grandi vasi, la cava e l’aorta, anziché dai vasi renali (De usu partium, cit., vol. 1v, pp. 174-175).
2 Ibid., pp. 179-181. 2 Per esempio R. Lentilius, In Anatorze salacissimae mulieris reperta, in «Miscellanea Academiae Naturae Curiosorum», Cent. 1 e 1, Obs. 168, pp. 344-357; T. Bonet, Sepulchreturr, Genevae 1679, lib. 3, sect. 34, f. 1341. Th. Bartholin, De flagrorum usu medico, Hafniae 1670,
pp. 21 ss. collega a questo ruolo dei reni nella funzione sessuale l’antico uso romano di frustare sul fondo schiena tanto uomini che donne in modo che concepissero più facilmente. Discutendo la funzione dei reni nel De viscerorum structura (1666) Malpighi osserva: «A molti arrise l’idea che i reni preparino la materia del seme. Per questo, nella gonorrea, si appongono medicamenti ai lombi; e gli stessi furono comunemente ritenuti la sede della libidine. Questa
tesi fu a lungo confortata da una certa connessione dei reni coi vasi spermatici. Dato però che dai reni e dai loro vasi nulla viene immediatamente derivato verso le officine del seme, non
sembra che i reni preparino una peculiare materia per la generazione del seme; ma conferiscano piuttosto una generale, remota e non disprezzabile disposizione al sangue che li attraversa, il quale, dopo varie filtrazioni, diviene, da ultimo, seme». Al contrario di Galeno, Malpighi pensa cioè che il funzionamento dei reni, depurando il sangue, faciliti la produzione di un seme più puro (cfr. Opere scelte, a cura di L. Belloni, Torino 1967, pp. 186-187). Ancora nel 1730 Martin Schurig, ricercando la sede della salacitas nelle donne propone quali sedi possibili, oltre al clitoride e al cervello, anche i reni (Gynaecologia historico-medica, Dresdae et Lipsiae 1730, pp. 2-5). 23 De usu partium, cit., vol. 1v, pp. 203-204.
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luogo comune, come vedremo, nell’anatomia del Rinascimento. È un silenzio sorprendente, in un osservatore così acuto, e che può essere
messo accanto a un altro stupefacente silenzio della scienza medica antica sulle sensazioni del corpo femminile: la mancata descrizione delle contrazioni uterine”. Galeno dunque non discute i seni come fonte di piacere per la donna. Ma c’è di più. L’allattamento, per Galeno, è incompatibile col coito. Questa incompatibilità è conseguenza — una conseguenza pratica estremamente importante — della teoria dell’emogenesi del latte. Dal momento che il latte si forma, per cozione e sbiancamento, dal sangue, il latte della nutrice può essere buono solo «se il suo sangue è buono e abbondante». Ma il rapporto sessuale interferisce con la distribuzione del sangue nel corpo della donna. Scrive Galeno nel De sanitate tuenda vietando espressamente il coito alle nutrici: Ordino a tutte le donne che allattano bambini di astenersi completamente da Venere. Infatti il rapporto con l’uomo provoca i mestrui, e il latte si deteriora assumendo un cattivo odore. Inoltre alcune donne in conseguenza del coito concepiscono e non c’è niente di più nocivo al fanciullo lattante del latte di una donna gravida. Infatti la parte migliore del sangue viene attratta dal feto, [...] e di conseguenza il sangue della donna gravida viene impoverito, così che il latte nelle sue mammelle diventa più scarso e di
qualità inferiore. Perciò se una donna che allatta resta incinta io le consiglierei certamente di trovare un’altra nutrice”.
Dunque secondo Galeno non è solo la gravidanza ma già il coito stesso di per sé a danneggiare il latte. Esso richiama il sangue in basso, provocando il flusso mestruale. In queste circostanze, essendo
diminuita la quantità di sangue nel corpo della donna, sembra dire Galeno, il sangue che resta nelle mammelle è sufficiente solo a produrre un latte di qualità deteriore e che — non ci viene spiegato perché — manda un cattivo odore. E un’idea che troviamo ripresa innumerevoli volte nella tradizione medica medievale e rinascimentale, con variazioni che rimandano però sempre comunque all’idea che il coito interferisca con la distribuzione del sangue nel corpo
24 Come ha fatto osservare A.E. Hanson per i testi ippocratici, l’utero viene immaginato passivo nel parto. È il feto che compie da solo e per intero lo sforzo di uscire. Gli ippocratici sembrano ignorare le contrazioni uterine (Continuity and Change: Three Case Studies in Hippocratic Gynecological Therapy and Theory, in S.B. Pomeroy (a cura di), Worzen's History and Ancient History, Chapel Hill and London 1991, pp. 88-89. 2 De sanitate tuenda, in Opera omnia, cit., vol. vi, lib. 1, cap. 9, pp. 45-46.
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femminile. Così per esempio nei Problemata pseudo-aristotelici: «Perché il latte della nutrice che ha praticato il coito danneggia il fanciullo lattante? Viene risposto come nel Libro degli animali che la ragione è che al tempo del coito il sangue diventa più sottile (subtil1at47) e la parte migliore va ai vasi seminali e all’utero, mentre la parte peggiore resta nelle mammelle»*. È dunque la teoria medica dell’emogenesi di latte e seme (femminile) a spiegarci la diffusione della norma che vieta alla balia di avere rapporti sessuali durante l’allattamento — una norma che ha avuto enorme importanza pratica, modellando i comportamenti sessuali nella cultura europea dall’antichità al Rinascimento. La diffusione di questa norma è ampiamente documentata dai contratti di baliatico pervenutici attraverso i papiri dell’Egitto romano, che contengono invariabilmente la clausola che vieta alla balia di «dormire con un uomo e di restare incinta»”. La stessa stipulazione è contenuta nei contratti di baliatico stipulati a Firenze nel Rinascimento, studiati di recente da Christiane Klapisch®. È questa idea medica che vede il coito come causa del deterioramento del latte (e quindi dannoso per la salute del bambino) a spiegarci norme come quella contenuta nelle Leges visigotiche, per cui il servo che avesse praticato il coito con una balia veniva punito con la pena riservata all’omicidio”; oppure il divieto della Chiesa ai coniugi di avere rapporti durante l’allattamento, che troviamo nei penitenziali cristiani”.
2 Problemata varia anatomica (Ms. 1165 of the University Library of Bologna), a cura di L.R. Lind, Lawrence,
Kansas,
1968, p. 37. Si tratta di una versione quattrocentesca
Problemata. 2 K.L. Bradley, Sexual Regulations in Wet-Nursing Contracts from Roman
dei
Egypt, in
«Klio», 62, 1980, pp. 321-325; Id., The Social Role of the Nurse in tbe Roman World, in Id.,
Discovering the Roman Family, New York 1991, pp. 13-36. 2 Ch. Klapisch-Zuber, Parents de sang, parents de lait, in Id., La maison et le nom.
Stratégies et vituels dans l'Italie de la Renaissance, Paris 1990, pp. 263-289. 2 H. Dillard, Daughters of the Reconquest. Women in Castilian Town Society, 1100-1300, Cambridge 1984, pp. 156-157. 30 Burcardo
di Worms,
Decretum,
19.5, in Patristica
latina, vol.
140, p. 959; Ivo,
Decretum, 8.88, in Patristica latina, vol. 161, pp. 601-602. Secondo J.A. Brundage, Law, Sex and Christian Society in Medieval Europe, Chicago 1987, pp. 242 e 508, l’antica regola contro il
coito durante l’allattamento sparisce dalla letteratura religiosa sul rapporto coniugale nell’alto
medioevo, per riapparire di nuovo verso la fine del xrv secolo. Sulle prescrizioni a questo
proposito in età moderna vedi E. e F. van de Walle, A/laitement, sterilité et contraception: les opinions jusqu'au XIX° siècle, in «Population», 27, 1972, pp. 685-701. Nella cultura islamica il divieto dei rapporti sessuali durante l’allattamento sembra essere LESSE (V. Fildes, A History of Wetnursing from Antiquity to the Present, Oxford 1988, io 27
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LA
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ARMONIA»
La norma medica a questo proposito implica evidentemente la separazione rigida di allattamento e attività sessuale per la donna. È interessante che, nell’ambito della cultura medica antica, un testo
quasi coevo a Galeno, la Ginecologia di Sorano (11 secolo d.C.) raccomandi l’astinenza alle nutrici per ragioni tanto fisiche che emotive: «Infatti il coito raffredda l’affetto per il bambino lattante a causa della distrazione del piacere sessuale; inoltre guasta e diminuisce il latte o lo fa cessare addirittura in quanto stimola la purificazione mestruale attraverso l’utero, oppure provoca il concepimento»?!. Qui alle ragioni fisiche avanzate da Galeno, radicate nella teoria
dell’emogenesi di latte e seme, si aggiunge una motivazione psicologica che fa pensare a una profonda difficoltà, per gli uomini che scrivono questi testi, a conciliare maternità e sessualità. Il silenzio di Galeno sulla sensibilità erotica del capezzolo, nel contesto della descrizione del legame simpatetico fra seni ed utero nonché di una profusa ammissione della capacità di piacere propria dei genitali femminili, sembra anch'esso attestare questa difficoltà.
2
Quel che la formulazione galenica dell’emogenesi di latte e sperma tramanda alla medicina del Rinascimento è innanzi tutto una teoria della differenza sessuale. L’analogia di latte e sperma, fondata sulla loro comune origine nel sangue, implica che corpi maschili e corpi femminili non differiscono sostanzialmente per composizione e struttura dei loro organi (come si sa: uomini e donne hanno gli stessi organi, solo che sono collocati rispettivamente all’esterno e all’interno del corpo). Essi differiscono invece solo per il modo in cui cuociono il sangue. Uomini e donne, aveva categoricamente sostenuto Galeno, non hanno una struttura vascolare diversa. Nel
De semine, egli critica il filosofo peripatetico Stratone che aveva sostenuto che maschi e femmine «differiscono nelle vene ed arterie,
proprio come differiscono nelle parti genitali». Ma Stratone, dice con sufficienza Galeno, non praticava «le precise dissezioni». Da queste ultime risulta che «non solo il numero, ma la configurazione e posizione di tutte le arterie e vene nell’intero corpo sono uguali nei
31 Soranus’ Gynecology, trad. a cura di O. Temkin, Baltimore 1956, 2, p. 19.
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MEDICHE
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maschi e nelle femmine»? La vera differenza fra corpi maschili e femminili è determinata non dalla configurazione del sistema vascolare, ma da quel che avviene al suo interno: la trasformazione del sangue. L’idea che la differenza fra i sessi implichi una differenza a livello vascolare sopravvive però alla critica galenica. La ritroviamo infatti nell’anatomia medievale. Nella descrizione del sistema venoso — sorprendentemente, in un quadro mentale che sottolineava di solito l’inferiorità femminile rispetto alla norma maschile — alla donna veniva attribuita una vena in più, oltre a quelle comuni a corpi maschili e femminili: una vena che si trova solo nelle donne, detta vena kiveris, ossia vena femminile.
In un testo della scuola salernitana del x11 secolo la vena kzveris è così descritta: Questa vena parte dal fegato e diramandosi si divide in due rami, uno che va verso l’alto e uno che va verso il basso. Il ramo diretto verso il basso si divide in due rami, uno dei quali entra nel corno destro dell’utero, l’altro in quello sinistro; e attraverso questi rami il sangue mestruale è portato all’utero, per essere evacuato attraverso la sua bocca. Il ramo diretto verso l’alto si divide anch’esso in due rami, uno che va alla mammella destra e uno alla sinistra. Quando la bocca dell’utero si chiude dopo il concepimento, il sangue mestruale è trattenuto e parte di esso è trasportato da queste vene alle mammelle, dove viene trasformato nell’essenza del latte, che la
provvidente cura della natura provvede e prepara come nutrimento per il feto quando verrà alla luce. Il resto del sangue mestruale è usato per nutrire il feto mentre è nell’utero materno”.
L’anatomia rinascimentale, invece, torna all’idea galenica di un sistema vascolare identico in maschi e femmine. Questa differenza fra anatomia medievale e rinascimentale è chiaramente espressa nel testo che segna il distacco critico dei nuovi anatomisti dai loro predecessori medievali, il commentario sopra l'anatomia di Mondino de’ Luzzi (1316) pubblicato nel 1521 da Berengario da Carpi”. Berengario concorda con Mondino — e con una ormai lunghissi-
3 De semine, cit., p. 182. Su Stratone vedi F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentar, vol. v: Straton von Lampsakos, Basel 1969?. % Anatomia Magistri Nicolai Physici, testo e trad. ingl. a cura di G.W. Corner, Anatorzical
Texts of the Earlier Middle Ages, Washington 1927, p. 84. 3 Berengario da Carpi, Commentaria cum amplissimis additionibus
Mundini, Bononiae
1521.
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super anatomia
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ma tradizione — quanto alla teoria dell’emogenesi del latte». (Quest’ultima è un punto fermo della visione rinascimentale del corpo, in quanto è comune ad aristotelici, arabi e galenisti?). Ma lo critica decisamente invece per quel che riguarda la configurazione dei vasi che congiungono l’utero alle mammelle. Mondino aveva scritto di aver visto solo nelle donne (e nelle scrofe) due vene, diramantesi dai
vasi spermatici, «una per ciascun lato [dell'utero], che salgono in profondità nel ventre (72/r2ch) e quanto più salgono tanto più sono evidenti, e sempre più si approssimano alla cute verso l’esterno finché giungono alle mammelle [...] Ed oltre a queste vene sale dal profondo del petto appresso ovvero in linea retta rispetto al pomogranato una vena che viene alle mammelle per compiere la cozione del sangue che deve essere convertito in latte»”. Secondo Berengario, Mondino «certissimamente erra quando dice che [...] dal profondo del petto viene una vena che va alle mammelle per cuocere il sangue che deve essere convertito in latte» e soprattutto erra asserendo che che le vene che salgono alle mammelle attraverso il ventre sono presenti solo nelle femmine: Questo non è vero, e chiunque può vederlo chiaramente nei feti di entrambi i sessi. Le arterie e le vene che si uniscono alle predette vene e arterie inferiori salgono fino alle mammelle e si congiungono a vicenda per anastomosi (coastorzant) e nutrono le mammelle, oltre a portare loro la
materia del latte. E così la natura conduce le arterie e le vene alle mammelle
» Berengario ribadisce la teoria dell’emogenesi servendosi soprattutto di argomenti galenici desunti principalmente dal De usu partium. Con Galeno, ritiene che la dealbatio del sangue
avvenga
nei vasi (Commentaria,
p. CLXXXVII
r.).
36 Si discute però da quale sangue si formi il latte, se dal sangue mestruale o da altro sangue, perché su questo punto le opinioni di Aristotele, Galeno e degli autori arabi, come Avicenna e Averroè, non coincidono pienamente. Su questa discussione vedi per esempio H. Acoromboni, Tractatus de lacte, Venetiis 1536, passim. 3 Berengario, Commentaria, cit., p. CLXXXI v.: cfr. Anatomia di Mondino, in J. de Ketham,
Fasciculo de medicina, volgarizzato per Sebastiano Manilio, Venezia 1493, f Im: «Da queste vene si ramificano e naschono doi vene da ciaschun lato: una delle qual vanno al mirach e saglono: e quanto più saglono mancho si nascondono e di fuora presso la pelle si approximano più sino ad tanto che pervengono alle tette [...] Et doppo queste vene saglie dal profondo del pecto appresso overo per dretto del pomogranato una vena la qual viene alle tette ad cuocer el sangue el qual si deve convertere in lacte: et non se ne vede se non una: e assai manifesta nelle porche gravide». Mirach è un termine che indica complessivamente le parti che formano il ventre: cute,
adipe, pannicolo carnoso, muscoli e loro cordae, nonché il siphac (inteso come «pannicolo sottilissimo e molto denso acciò che i muscoli non comprtimano gli organi interni») (Berengario, Commentaria, cit., pp. XXXXVII r., xCMI r.). «Pomogranato» è il termine con cui
viene designata la cartilagine xifoidea.
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DEL
MEDICHE
CORPO
MATERNO
come pure ai testicoli per una via lunga e tortuosa, affinché in esse avvenga la digestio e preparatio [del sangue] in sperma e in latte®.
L’identità del sistema vascolare in maschi e femmine implica una conseguenza che Berengario è pronto ad ammettere: la possibilità che il latte si formi occasionalmente anche nelle mammelle degli uomini: Nota
però,
lettore,
che benché
tali vene
ed arterie
vadano
alle
mammelle anche negli uomini, come è stato mostrato prima, e benché [....] anche negli uomini possa generarsi il latte, soprattutto se essi si spremono le mammelle, non per ciò tutti gli uomini hanno il latte, ma solo quelli molto carnosi. In questi, come dice Dino del Garbo nel De natura foetus il latte è generato dalla natura non propter finem, ma ratione agentis e rattone materiae. E certamente questo occorre negli uomini molto carnosi che hanno grosse mammelle a nutrire le quali corre molto sangue, come nel caso di Sabinocio nostro da Carpi, di cui ho parlato prima, e del messer Pietro di cui parla Dino, nei quali si generava gran copia di latte??.
Sabinocio da Carpi e messer Pietro sono due dei molti esempi di uomini dotati di latte che spesso troviamo menzionati, per nome e provenienza geografica, nelle Observattones mediche dal Cinquecento al Settecento. Il mio caso preferito è questo, riportato da Joseph Conrad Schenck, juniore, nel 1665: Ho conosciuto un uomo, di nome Lorenzo Wolff, cittadino di Breisach,
[...] che dalla giovinezza ad oggi, all’età di cinquantacinque anni, ha avuto ed ha tanto latte nei seni che per gioco, nelle feste, quando è ormai ubriaco, si preme le mammelle e fa sprizzare il latte in faccia agli astanti. Per questa ragione è diventato famoso presso i suoi concittadini, che spesso lo mandano a chiamare perché mostri tal cosa ad altre persone. In conseguenza di ciò egli non percepisce peraltro alcun dolore, gravezza o tensione”.
38 Berengario, Commentaria,
cit., p. CCCXV
r.
39 Ibid., p. cccxv r-v. Cfr. Dynus de Garbo, Expositio super libro Hippocratis de natura foetus, in Jacopo da Forlì, Expositio supra capitulum Avicennae de generatione embryonis, Venetiis 1502, £. 66 v., col. 2: «illud lac non est generatum a natura propter finem: sed magis ex necessitate materiae et agentis: et ideo non invenitur nisi in hominibus valde carnosis: sicut erat dominus Petrus Praepuntus qui habebat mamillas magnas sicut quadam mulier: et tunc propter multitudinem sanguinis currentis ad mamillas et ibi alterati et conversi in formam lactis accidit quod in eis generatur lac: non propter intentionem naturae: et propter hoc contingit quod tale lac non est ita digestum sicut est lac mulierum: sicut nec sperma quod emittit mulier in coitu est ita digestum sicut sperma viri». 40 SSPERES a Grafenberg, Observationes medicae rariores, Francofurti 1665, lib. 11, obs. XIP,0905:
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Ma torniamo a Berengario. Fin qui abbiamo visto come egli segua sostanzialmente Galeno per criticare l'anatomia di Mondino (cita spesso e verbatim dal De usu partium). C'è però una novità nel modo in cui Berengario tratta la colligantia o communitas di utero e mammelle. Questa è indicata da un fenomeno in più, rispetto a quelli indicati da Galeno. Servono inoltre le mammelle a eccitare al coito col palpeggiarle tanto nel maschio che nella femmina, anche se nella femmina di più. Anche nel maschio infatti vi sono delle vene che vanno dalla regione della verga fino alle mammelle. Ed è verissimo che se il capezzolo della mammella viene toccato, subito si erige come la verga; e così a causa della communitas di utero e verga con le mammelle si produce in questi organi (verga ed utero) una certa eccitazione (corzzzotio), soprattutto in coloro che sono già predisposti e preparati al coito. È peraltro possibile infatti che il palpeggiamento delle mammelle provochi l'erezione del capezzolo senza che si abbia però l’erezione della verga nell'uomo o dell’utero nella donna, come per esempio in un fanciullo, in un vecchio e simili”.
Questa esplicita indicazione dei seni come zona erogena (nelle femmine come nei maschi) sembra una novità non solo rispetto a Galeno ma anche alla medicina medievale. Secondo Claude Thomasset, le carezze ai seni nei preliminari d’amore sono menzionate solo nel Canone di Avicenna, e «i commentatori non sembrano manifestare grande interesse per questo passaggio». E del resto Avicenna stesso
non menziona i seni quando analizza dettagliatamente l’orgasmo femminile specificando che la donna ha tre «delectationes»: una derivante dal moto del suo proprio seme, un’altra da quello del seme dell’uomo, e una terza dalle varietà di movimenti dell’utero*. Come si
vede, Berengario estende le implicazioni della teoria galenica di un rapporto vascolare diretto fra seni ed utero in una direzione che Galeno stesso non aveva considerato. La comunanza di vasi fa sì che i seni abbiano una particolare sensibilità erotica, analoga a quella posseduta dalle parti genitali. Viene ribadita così la somiglianza dell’esperienza del piacere in maschi e in femmine, espressa efficacemente dall’analogia fra capezzolo e pene, entrambi capaci di erezione.
4 Berengario, Commentaria,
cit., p. CCCXVI r.
4 Thomasset, La natura della donna, cit., p. 61. 4 Avicenna, Capitulum de generatione embrionis, in Jacopo da Forlì, Expositio supra capitulum, cit., f. 11r., col. 2. Vedi su ciò H. Rodnite Lemay, Masculinity and Femininity in Early Renaissance Treatises on Human Reproduction, in «Clio Medica», xvi, 1-4, 1983, p. 28.
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MEDICHE
DEL
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MATERNO
Nella storia della medicina, l'analogia fra capezzolo e pene è stata assai meno discussa di quella fra pene e clitoride; ma è in realtà assai comune
nella letteratura anatomica del Rinascimento
(ed oltre).
Vesalio la descrive con grande efficacia: La struttura del capezzolo si accosta precipuamente alla struttura del pene, cioè ad una cute in qualche modo rervea, riempita all’interno di sostanza spugnosa, idonea a rilassarsi e afflosciarsi per poi gonfiarsi ed erigersi di nuovo, se toccata dolcemente. E ciò affinché nella suzione il capezzolo possa essere reso più turgido e sporgente [...] Il capezzolo infatti è ricco di acuta sensibilità e di diramazioni nervose, così che, grazie ad esso,
vi è affinità fra mammelle e genitali. Proprio come infatti la Natura ha dato ai genitali lusinga e voluttà per il congresso venereo e la propagazione della specie, così anche [le ha date] ai seni e soprattutto ai capezzoli, affinché la madre più volentieri offrisse il capezzolo alla tenera e non ancora dentata bocca del neonato, non solo da succhiare ma anche da titillare e solleticare con godimento“.
L’ammissione della duplice funzione del seno, nutritiva ed erotica, non potrebbe essere più chiara, anche se certo entrambe sono finalizzate alla funzione riproduttiva. L’analogia di pene e capezzolo sembra essere diventata un luogo comune nell’anatomia del Rinascimento, uno stereotipo che comunemente ritroviamo alla voce papilla nei repertori di Definitiones medicae#. È interessante però, rispetto a questo, che non venga assolutamente modificata invece l’antica regola che vieta il coito alle nutrici in funzione della qualità del latte. Questa regola continua a essere ribadita con convinzione, tanto dai medici dotti quanto da praticanti di rango inferiore come le levatrici. Louise Bourgeois, per esempio, sostiene che le buone nutrici non mestruano, perché non hanno né desiderano rapporti sessuali: «car l’ordre de nature est que tout le sang de la femme retenu est dédié pour nourrir l’enfant, et ne doit sortir que converti en lait, pur et impur». Anche il solo
4 A. Vesalius, Corporis Humani Fabrica, Venetiis, apud J. A. et J. de Franciscis, s.a. (sec.
xvi), lib. v, cap. xvm, p. 423.
4 Per esempio Io. Gorraeus, (Giovanni des Gorris) Definitiones medicae, Lutetiae Paris. 1564, s. v. djAn, £. 136r.: «Il capezzolo è formato di sostanza che si accosta assai a quella del pene. Ha infatti una cute in certo modo nervea contenente all’interno una sostanza spugnosa, che può di volta in volta vicendevolmente erigersi e rilassarsi non meno del pene. Ha inoltre meati sottili e cospicui, biancheggianti direttamente a modo di fibra e nervo, i quali sono
virgulti delle vene, che in molteplice serie corrono per la sostanza ghiandolare delle mammelle e dai quali fluisce il latte». i
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desiderio del coito è controproducente per il latte, perché «l’amour et la mélancolie sont feux qui consomment la source du lait»*. Il divieto del coito durante l’allattamento è occasionalmente argomento di tesi dottorali presso le facoltà di medicina. Così per esempio due tesi discusse nella facoltà medica di Parigi rispettivamente nel 1573 e nel 1621 riaffermano la prescrizione galenica a questo proposito: La nutrice si astenga da vino e Venere che [...] corrompono la sostanza
del latte, per la qual cosa non le si deve eccitare la fantasia e il ricordo dei piaceri venerei con sguardi allusivi, o con piccoli baci insistenti, né con discorsi suadenti e salaci o con lievi carezze alle mammelle, né con tutte le
altre arti della seduzione”.
Anche nel caso che il latte muliebre venga dato ai malati, anziché ai bambini — l’uso terapeutico del latte umano è una pratica largamente diffusa in questo periodo — i medici raccomandano che la donna che allatta l’infermo si astenga dai rapporti sessuali*. Ben pochi sono i medici rinascimentali che mettano in discussione l’incompatibilità di coito e allattamento. Uno di questi è Laurent Joubert, che nota come i contadini di Linguadoca lascino che i loro bimbi prendano il latte anche da donne gravide senza cattive conseguenze, ed esprime scetticismo, quindi, circa l’idea che il coito
e la gravidanza guastino il latte. Più radicale nel criticare l’opinione tradizionale a questo proposito è il commentario al testo ippocratico De natura pueri scritto da Prospero Marziani”. Non hanno ragione — scrive Marziani — coloro che proibiscono il coito alle nutrici, ritenendo che per sua causa il latte venga viziato e diminuisca.
4 L. Bourgeois, Observations diverses sur la stérilité, perte de fruits, fécondité, accouchements, et maladie des femmes et enfants nouveau-nés [1609], Paris 1992, pp. 125 e 155. 4 E. Beda (praes. A. Robin) Ergo lac nutricis a viri consuetudine deterius, Paris 1621; Pietre, Ergo lac nutricis a viri consuetudine deterius, Paris 1573.
4 Acoromboni, Tractatus de lacte, cit., p. 81: «quantum fieri potest abstineat a coitu ex toto tempore quo lac infirmo porrigit: coitus enim mirum in modum lac mutat immo». La
casistica dell’uso terapeutico del latte muliebre è assai vasta: vedi per esempio D. Scacchi, Subsidium medicinae, Urbini 1596 (occhi malati vanno irrorati col latte di madre che allatti una
femmina); e per una rassegna G. Franck de Franckenau, De triplice lacte virginis, in Satyrae medicae, Lipsiae 1722, pp. 257-288. Si tratta di una pratica ben radicata anche a livello di
medicina popolare: cfr. P. Alpinus, De medicina Aegyptiorum, Venetiis 1591, p. 149 v. 4 L. Joubert, La première et la seconde partie des erreurs populaires touchant la médecine et la santé, Paris 1587, pp. 226-230. 50 P. Marziani, Magnus Hippocrates Cous Prosperi Martiani... Venetiis
1652, pp. 32-34.
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notationibus explicatus,
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Infatti mediante il coito viene eccitato nell’utero un movimento da cui dipende la generazione del latte e dal coito viene indotta nella donna una foga (alacritas) che fa dilatare le venuzze [...] il che indubitabilmente giova moltissimo alla abbondanza e bontà del latte. L’astinenza tanto più è dannosa quanto più le donne sono abituate a Venere, come tutti i giorni esperiscono le donne prive di un uomo, che sono afflitte da vari tipi di morbi. È quindi pericoloso separare interamente le nutrici dal proprio marito.
Marziani quindi ribalta addirittura la tesi tradizionale a questo proposito: lungi dal danneggiare il latte, il coito giova alla sua quantità e qualità. È significativo che, per arrivare a questo ribaltamento, Marziani debba mettere in discussione il cardine stesso della teoria tradizionale sulla formazione del latte: l’idea che esso si formi dal sangue. In realtà, egli sostiene, usando i testi ippocratici contro Galeno”, il latte si forma dal chilo, o più precisamente da una parte dell’umore chiloso, non ancora assimilata, che viene trasformata in latte grazie al calore impartito dall’utero alle mammelle. Come il ventricolo, grazie al calore che riceve dal fegato, trasforma l’alimento in chilo, così le mammelle, scaldate dall’utero, trasformano il chilo in latte. «L’utero
impartisce questo calore alle mammelle mediante una porzione di sangue che porta alle mammelle attraverso alcune piccole vene, e in tal modo le riscalda affinché possano sbiancare, edulcorare e perfezionare la materia del latte». Il sangue dunque — come veicolo del calore dell’utero — ha un ruolo di agente piuttosto che di materia nella generazione del latte. «Ha errato quindi Galeno nell’asserire che la materia del latte è esclusivamente sangue perfettamente elaborato nel fegato, per quanto questa opinione abbia avuto molti fautori ed anzi sia accettata da quasi tutti medici e filosofi come COMMUNIS Opinio».
Marziani adduce vari argomenti empirici contro la tesi «che fa derivare il latte interamente dal sangue»? Innanzi tutto è empiricamente noto che il latte assume spesso odore e sapore dai cibi ingeriti, 7! I testi ippocratici a cui Marziani fa particolare riferimento sono De glandulis, 136
(Littré vini, p. 572) e De rorbis mulierum, lib. 1, sect. 3, 341; De alimento, 36; De morbis vulgaribus, 11, sectio Il, 17 (Littré, v, 118-119); De natura pueri, 250.
°2 Ecco alcuni di questi argomenti: se il latte derivasse da sangue che ha già raggiunto nel fegato lo stadio di perfetta sanguificazione, la donna che allatta non potrebbe vivere, perché i bambini succhiano in genere due libbre di latte al giorno, il che significherebbe che il corpo della donna perde giornalmente due libbre di sangue. Negli animali, vediamo come essi
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il che non sarebbe vero se fosse interamente derivato dal sangue. E a questo proposito, aggiunge ironicamente, «ci si informi presso le nutrici, che asseriscono di sentire chiaramente la discesa del latte alle
mammelle subito dopo aver mangiato, e ancor più chiaramente dopo aver bevuto, [...] e ciò così chiaramente che dubitare di questo per loro è cosa ridicola»?. Già prima di Marziani, un testo singolare ed assolutamente eccezionale nell’ambito della letteratura medica rinascimentale perché attribuito ad una donna, la Nueva filosofia de la naturaleza del bombre di Oliva Sabuco
(1587), aveva messo
in ridicolo l’antica
communis opinio sull’emogenesi del latte: «Es cosa de risa lo que dicen, que la esperma, y la leche son sangre colorada, y que en sus vasos se buelve blanca». Le donne che allattano sanno bene che «il latte viene loro non appena hanno mangiato e bevuto, e che, come si forma, subito fuoriesce bianco, e va via per i turbamenti dell’anima».
Ma
in questo
testo
radicalmente
eccentrico
rispetto
al
galenismo e all’aristotelismo rinascimentali, l’attacco alla teoria dell’emogenesi è condotto in termini puramente speculativi: l’origine del latte (come pure dello sperma) è vista in un ipotetico umore bianco localizzato nel cervello, corrispondente, a livello di macrocosmo, a un fluido nutritivo primigenio, detto «latte di luna».
forniscano in un giorno più latte di quanto sangue è contenuto nelle vene dell'intero corpo. Inoltre, cessando di allattare, il corpo della nutrice, essendo avvezzo a generare tanto sangue, cadrebbe subito in pericoloso stato di pletora, cosa che invece non si verifica. 5 Marziani riporta a questo proposito alcune osservazioni empiriche: «Donna Francesca, moglie di Battista Castelli mastro muratore in Roma, subito dopo aver preso un medicamento purgante, diede il seno a una bimba già grandicella che allattava, non pensando che la forza del medicamento potesse così rapidamente giungere sino alle mammelle (io glielo avevo vietato). La bambina fu purgata così violentemente da farne temere la morte. La madre invece andò di corpo una volta sola, segno evidente che il medicamento era stato attratto immediatamente alle mammelle dalla forza della suzione. Analogamente avvenne a Donna Pompilia moglie di Adamo Melfi aromatario notissimo in Roma, che avendo bevuto per purgarsi sei libbre di latte caprino tutte in una volta, per la forza della suzione fu tutto attratto alle mammelle, cosicché
non bastando a succhiare la bimba che allattava, fu costretta a farsi portare altri bambini, che succhiassero: infatti le mammelle sembravano quasi creparsi tanto erano gonfie». 54 O. Sabuco, Dialogo de la vera Medicina in O. Cuartero (a cura di), Obras, Madrid 1888, pp. 281-282, 352. È incerto se il libro sia stato scritto da Oliva oppure da suo padre Miguel Sabuco. Lo stato della ricerca sulla questione è assai insoddisfacente. Per la discussione più recente si possono vedere i contributi raccolti in «Al-Basit», vol. x1, n. 22, 1987 e J.L. Barona,
Una refutacion del galenismo: naturaleza humana y enfermedad en Miguel Sabuco in Id., Sobre medicina y filosofia natural en el Renacimiento, Valencia 1993, pp. 129-148. Ho in preparazione un saggio sull’opera di Sabuco: rimando per ora a Moon Milk. A Feminist View of the Body in the Sixteenth Century: Oliva Sabuco’s Nueva Filosofia, paper presentato allo Women's Studies Forum, Queen's University, Belfast, 14 giugno 1994.
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Marziani invece si allontana dalla dottrina dell’emogenesi attra-
verso un ritorno all’osservazione empirica contenuta nei testi ippo-
cratici, nonché attraverso l’argomentazione anatomica. Gli paiono conclusive, in particolare, le ripetute delusioni a cui hanno condotto i tentativi di identificare, nelle dissezioni, le vie di comunicazione vascolari fra seni ed utero. Se la materia del latte fosse esclusivamente il sangue, egli osserva, la natura avrebbe creato fra utero e mammelle dotti capaci e continui anziché sottili e comunicanti per anastomosi. «Ma i vasi che dall’utero tendono alle mammelle sono così esili che sono sfuggiti al coltello della maggior parte degli anatomisti». Qui Marziani si riferisce a un problema che è forse uno dei più dibattuti nella ricerca anatomica in questo periodo. Galeno, come sappiamo, aveva affermato di aver individuato chiaramente una connessione vascolare fra utero e mammelle”. Ma questa con— nessione non era affatto palese nelle dissezioni. Alcuni anatomisti rinascimentali ritengono di identificarla nell’anastomosi della vena epigastrica ascendente e della vena mammaria discendente”, ma molti altri, tra cui Vesalio”, dubitano dell’esistenza di queste ana5 Cfr. supra, nota 16. 56 Così Gorraeus, Definitiones, cit., s. v. uG00g, f. 210 r-v: le vene mammarie «con alcune
loro diramazioni si incontrano con altrettante diramazioni delle vene epigastriche, e da qui deriva il consensus di mammelle ed utero». Un disegno di Leonardo mostra l’utero e le mammelle direttamente collegate da un sistema di vasi: cfr. Leonardo da Vinci, Disegni anatomici della Biblioteca reale di Windsor, Firenze 1979, n. 16 A; cfr. C.D. O’Malley-J.B. Saunders, Leonardo da Vinci on the Human Body, New York 1952, p. 461.
5 Fabrica, p. 425: «È mirabile quanto Galeno, per causa di tali speculazioni, si tormenti più volte, ora scrivendo che le vene che vanno alla parte inferiore dell'addome hanno origine da quelle che vanno
all’utero (anche se altrove, invece, dimostra che è altrimenti), ora
prolissamente narrando come il sangue che nelle gravide abbonda nell’utero, salga in alto mediante queste vene verso le mammelle [...] Io riterrei invece, per ora, che questo corsortizzz [di utero e mammelle] qualunque esso sia, vada piuttosto riferito al tronco tutto intero della vena cava». Per un’altra critica alla corzzzunis opinio vedi André Laurens, Historia Anatomzica, Francofurti 1600, lib. 1, quaest. 10: «Quasi tutti gli anatomisti vogliono che le diramazioni della epigastrica ascendente si congiungano con quelle della mammaria discendente e divengano anastomosi di queste vene. Io non nego la congiunzione di queste vene ma trovo cause e vie di comunicazione più palesi e più brevi di questo dotto. Infatti la vena epigastrica non si dirama nell’utero e più spesso ha origine dal ramo crurale. A sua volta quella che è chiamata mammaria corre per la parte interiore dello sterno, a nutrire il muscolo triangolare
né manda rami, se non forse capillari, alle mammelle. Ritengo quindi che il sangue, il latte e gli altri umori rifluiscano al tronco della vena cava attraverso le vene ipogastrica e spermatica, che sono le vene proprie dell’utero; dal tronco poi nella vena ascellare, dalla quale scaturiscono le due grandi vene toraciche, che irrorano i muscoli pettorali e il corpo ghiandolare delle mammelle. Viceversa il latte rifluisce dalle vene toraciche nella ascellare, e da questa nel tronco della vena cava; da cui viene portato attraverso il ramo spermatico all’utero e attraverso il ramo ipogastrico ora all’utero e ora alla vescica, donde spesso dopo il parto si verifica il fenomeno della presenza di latte nell’urina». Due secoli di ricerca e discussione anatomiche sulle
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stomosi. Il problema era evidentemente importante, perché sull’esistenza o meno di un collegamento vascolare diretto fra seni ed utero si reggeva la teoria dell’emogenesi del latte. Ma nonostante questa difficoltà a conciliare le implicazioni della teoria con i reperti anatomici, la tesi dell’emogenesi del latte è raramente messa in discussione prima delle grandi innovazioni, empiriche e teoriche, che rivoluzionano l’immagine del corpo nel Seicento: la scoperta della circolazione e soprattutto quella dei vasi linfatici.
3.
Il modello antico della differenza sessuale viene radicalmente messo in discussione nella seconda metà del Seicento, quando quegli organi che per secoli erano stati percepiti come «testicoli femminili» vengono ridefiniti come ovaie; quando si diffonde la certezza che i testicoli maschili sono l'organo che produce e non semplicemente perfeziona lo sperma; e quando si cominciano a osservare nello sperma stesso minuscoli animali, quei «vermicelli spermatici» della cui funzione però si dubiterà a lungo. Ma altrettanto significativo di queste ben note «scoperte» — quale segno del distacco critico dal modello antico — è il fatto che in questo periodo, per la prima volta, si metta radicalmente in discussione la teoria dell’emogenesi, tanto del latte che dello sperma. «L’anatomia dei fluidi» resta però fondamentale nel quadro mentale che orienta la medicina secentesca. In realtà il Seicento, come osservò acutamente oltre un secolo fa Rudolf Virchow, è il
secolo in cui si forma una «nuova patologia umorale»*: il flusso degli umori nel corpo resta centrale per l’indagine anatomica e patologica. La metafora della circolazione, fornita dalla scoperta di Harvey, diventa la chiave per comprendere altri fenomeni: tanto
l’appena scoperto sistema linfatico che il sistema nervoso vengono visti infatti come altri sistemi circolatori. Il chilo che scorre nelle «vene lattee», come vengono chiamati i linfatici del torace dal loro
anastomosi responsabili della cormzzunio fra utero e mammelle sono riassunti da A. von Haller, Elementa Physiologiae corporis humani, lib. xxvm, sect. 1: wzamzzzae, Lausanne 1778, t. vIl, pars 2, pp. 22 ss.
58 R. Virchow, Hundert Jahre allgemeneir Pathologie, Berlin 1895, pp. 4-5.
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scopritore Aselli nel 1622”, o il «succo nerveo» che si ipotizza scorrere in una presunta cavità dei nervi® — degli altri fluidi, quindi — diventano i candidati più accreditati a sostituire il sangue come materia prima da cui si formano il latte e lo sperma. Con la crisi della teoria dell’emogenesi, si indebolisce anche il legame analogico fra sperma e latte, che era stato per secoli un presupposto indiscusso della visione del corpo. Per la prima volta, infatti, viene suggerita una origine diversa per i due fluidi: dal chilo per il latte, dal succus nerveus per lo sperma. La maggior parte degli scienziati che rigettano l’emogenesi del seme identificano la materia prima alternativa in questo «succo nobilissimo», che si presume scorra in una sottilissima cavità interna ai nervi — un succo che nessuno ha mai visto, ma che è trattato però come un dato osservativo certo6!. Nel caso del latte, invece, la maggior parte degli
scienziati che abbandonano la tesi dell’emogenesi vedono l’alternativa al sangue nell’umore chiloso trovato nei «vasi lattei» del torace®. 59 G. Aselli, De lactibus sive lacteis venis, Milano 1627. Per la storia del sistema linfatico è utile W.C. Cruikshank, The Anatomy of the Absorbing Vessels of the Human Body, London 1786. La storia della comprensione del sistema linfatico è stata fatta finora in modo piuttosto
aneddotico: si possono consultare K. Heinemann, Aus der Fribgeschichte der Lebre von den Druesen in menschlichen Korper, in «Janus», vol. 45, 1941, pp. 137-165; 219-240; N.B. Eales,
The History of the Lymphatic System, With Special Reference to the Hunter-Munro Controversy, in «J. Hist. Med. Allied Sci.», vol. 29, 1974, pp. 280-295; M.A. Kanter, The Lymphatic System:
An Historical Perspective, in «Plastic and Reconstructive Surgery», vol. 79, 1987; e il rapido sommario in C.H. Brock, Le vene lattee, in «Kos», 1989, pp. 82-93 : la dottrina galenica sosteneva che il chilo passava nelle vene mesenteriche, che lo trasportavano nel fegato, dove veniva trasformato in sangue. Aselli pensa che siano i vasa lactea a trasportare il chilo al fegato. Nel 1651 Jean Pecquet individua però il decorso dei vasi latteali fino al punto in cui si immettono nel receptaculum chyli all'estremità del dotto toracico, che va a immettersi nel
sistema venoso alla giunzione della vena succlavia con la vena giugulare. Olof Rudbeck nel 1651 osserva un altro sistema di vasi, anch’essi connessi col dotto toracico, che non contengono chilo bensì un liquido incolore. Thomas Bartholin li chiamò vasa lyphatica. La funzione assorbente dei linfatici fu suggerita da Glisson, Thomas Bartholin e Willis. 6 Sulla dottrina del «succo nerveo» vedi E. Clarke, The Neural Circolation: The Use of Analogy in Medicine, in «Medical History», xx11, 1978, pp. 291-307 e Id., The Doctrine of the Hollow Nerve in the Seventeenth and Eighteenth Centuries, in L.G. Stevenson-R.P. Multhauf (a cura di), Medicine, Science and Culture. Historical Essays in Honor of Owsei Temkin, Baltimore 1968, pp. 123-141.
61 Sulla diffusione della teoria della derivazione dello sperma dal «succo nerveo», vedi il bel saggio di D. Goltz, Samzenfliissigkeit und Nervensaft. Zur Rolle der antiken Medizin in den CAN des 18. Jabrbunderts, in «Medizinhistorisches Journal», 22, 2-3, 1987, pp. 6 Thomas Bartholin, Anatomia reformata, Lugduni Batavorum, 1674, lib. n, cap. I, p. 331. Altri autori che sostengono la teoria della formazione del latte dal chilo sono, per
esempio, William Harvey, Charleton, Deusing, Wharton, e, come sappiamo Prospero Marziani e Bernardino Ramazzini. Poiché tradizionalmente si riteneva che il sangue si
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Assai raramente viene suggerito che il chilo sia anche la materia da cui si forma lo sperma: esso non pare sostanza sufficientemente nobile e atta a produrre il più prezioso fra i fluidi corporei. Di converso, non raccoglie consensi l’ipotesi che anche il latte, come lo sperma, possa formarsi dal succus rerveus. L’unico testo a me noto
che sostenga questa ipotesi è l’Aderographia di Thomas Wharton (1664), che propone però un compromesso. La materia del latte sarebbe duplice: parte chilosa (quantitativamente, la parte maggiore), parte «spermatica» (fornita dai nervi toracici)#. La presenza di un elemento «spermatico» nel latte, secondo Wharton, spiega perché, se la nutrice resta incinta, il latte si guasta o viene a mancare.
«La ragione di questo è che il nobilissimo succo nutritivo — l'elemento spermatico — [...] viene deviato verso l'utero e abbandona le mammelle, il che fa sì che il latte, privato del solito tributo che
riceve dai nervi, diventi vapido (vappescat) e inadatto al nutrimento».
Tra gli argomenti che vengono addotti contro la teoria dell’emogenesi del latte, è cruciale la difficoltà a verificare anatomicamente l'ipotesi galenica di un collegamento diretto, per anastomosi, fra i vasi che vanno, rispettivamente, all’utero e alle mammelle. «Queste vie — si dice — non sono mai state osservate direttamente finora da nessun anatomista»; «la via dall’utero alle mammelle non è manifesta
agli occhi» — ribadisce Thomas Bartholin nella Anatorzia reformata®. formasse dal chilo, la teoria della chilogenesi si adattava facilmente a spiegare quanto veniva spiegato prima attraverso il sangue. In sostanza la teoria della chilogenesi del latte non è radicalmente innovativa: si limita a sostituire al sangue la materia prima del sangue stesso. 6 M. Schurig, Spermatologia historico-medica, Francofurti ad Moenum 1720, p. 5. 64 Th. Wharton, Adenographia, sive Glandularum totus corpos descriptio, Noviomagi 1664: «La prima componente [quella chilosa] costituisce quantitativamente la parte principale del latte, ma non è portata dal ventricolo alle mammelle immediatamente attraverso le vene lattee bensì viene prima portata alle vene succlavie attraverso il dotto chilifero e poi attraverso i ventricoli del cuore circola col sangue, e infine attraverso le arterie toraciche viene riversata
nelle mammelle ingrossate quando è tempo di allattare; e qui la parte sanguigna è separata da
quella chilosa e ritorna nel resto del corpo mediante le vene mammarie [...] Viene dunque preparata nelle mammelle non per metamorfosi del sangue ma per separazione dal sangue [...] Quanto all’altra parte del latte, cioè quella spermatica, ritengo che essa venga fornita grazie ai nervi toracici, di cui moltissime diramazioni raggiungono le mammelle. Infatti questi nervi al tempo della lattazione appaiono più grossi e spessi che in altri momenti» (pp. 240-241).
6 Ibid, p. 242.
6 M. Hofmann, Disputatio de lacte, Altdorff 1673, 1, $ 4; Bartholin, Aratoria reformata, cit., lib. 2, cap. 1; W. Charleton, De Galaxia, seu itinere chyli, in Exercitationes physico-anato-
micae de oeconomia animali, Lugd. Batav. 1693, pp. 26-53 (specialmente pp. 32-33); de Franckenau, De triplice lacte virginis, cit., p. 266: «A quel famoso consensus dell’utero con le mammelle, tanto decantato da ogni scuola di medici, io non ho mai finora potuto consentire».
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Viceversa, le appena scoperte «vene lattee» del torace sono chiaramente visibili a tutti, ed inoltre esse contengono un liquido, si fa
notare, talmente simile al latte (come esso, grasso ed oleoso) che è
quasi impossibile distinguere l’uno dall’altro®. Si diffonde così fra gli anatomisti la speranza di aver finalmente trovato, nelle «vie nuove» recentemente scoperte (i linfatici del torace, 0 «vasi lattei») quei canali di comunicazione fra l’utero e le mammelle che avevano a lungo inutilmente cercato nei meandri del sangue. Come scrive Charleton: «Benché finora non sia stato provato dall’osservazione oculare diretta [...] è tuttavia consono a ragione che alcuni dei vascula lactifera raggiungano le mammelle delle donne e l’utero, al fine di nutrire il feto [...]. Per quanto questi dotti chiliferi alle mammelle e all’utero siano per ora sfuggiti agli occhi dei ricercatori, non sono però oscuri allo scrutinio della mente;
né è da disperare che coll’acume della ragione si compensi in questo caso l’inettitudine dei sensi». Ma le «vie nuove» si rivelano altrettanto difficili da individuare delle antiche anastomosi delle vene. L'opinione che il chilo venga portato alle mammelle dai linfatici del torace si scontra ben presto infatti con un dato empirico incontrovertibile: il contenuto dei vasi che confluiscono nel dotto toracico viene convogliato da questo nella vena cava, presso il cuore. Non va affatto verso le mammelle, ma entra bensì nella circolazione generale del sangue. La teoria della chilogenesi del latte viene modificata di conseguenza: il chilo non viene portato alle mammelle immediatamente dalle vene lattee; queste ultime, attraverso il dotto toracico, lo versano nella circola-
zione; sono le arterie toraciche a portarlo poi alle mammelle, dove la parte sanguigna è separata da quella chilosa. Quest'ultima, che è il 6 E l'argomento addotte da Marziani, al fegato per essere Invece, il chilo è
di Charleton, De Ga/axia, cit., p. 38, che riprende molte delle ragioni citandolo. Sua tesi principale è che nessuna parte del chilo viene portata da esso mutata in sangue, come si è a lungo e generalmente creduto. portato dal ventricolo e dagli intestini a un ricettacolo comune mediante
le vene lattee. Queste, inserite nella parete intestinale attraverso minuscoli ostioli, vanno al mesenterio. Portano il liquido biancastro che avevano ricevuto a un ricettacolo comune, il
conceptaculum di Pecquet, che si trova alla radice del mesenterio, sopra le vertebre dei lombi. E da questo ricettacolo comune emergono altri dotti chiliferi, che salendo verso l’alto attraverso il torace presso la spina dorsale giungono fino ai rami succlavii della vena cava. Uniti
a questi, si scaricano nei rami (della cava) presso le giugulari esterne. «Onde il chilo, ivi infuso
nel flusso del sangue, e ad esso intimamente mischiato, viene portato per il tronco superiore della vena cava al ventricolo destro del cuore. E questa è la vera galassia, ossia via regia, per la
quale il chilo [...] viene portato dal ventricolo al cuore» (p. 27) 6Ibid pi 31
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latte, viene immagazzinata nelle porosità delle mammelle; la parte sanguigna invece ritorna al corpo attraverso le vene mammarie. Il latte dunque non si forma, come si credeva anticamente, «per metamorfosi del sangue, ma per separazione [del chilo] dal sangue». Ma se le cose stanno così si pone il problema: perché questa separazione del chilo dal sangue avviene solo in determinate circostanze — dopo il parto, cioè — e non altrimenti? Ramazzini, che pur propende ad accettare la teoria della chilogenesi, ammette questo problema con grande lucidità: Il chilo di solito, attraverso i vasi chiliferi, scorre verso il cuore. Che cosa
lo fa andare alle mammelle per formare il latte? È da chiarire il motivo per cui, liberatosi l’utero, il sangue chiloso che portava l’alimento al feto, attra-
verso le arterie ipogastriche, venga riassorbito dalle vene, quindi portato al ventricolo destro del cuore e quindi mescolato nel sinistro col sangue arterioso per essere poi spinto alle mammelle dove acquista forma di latte proprio dopo il parto e non in un altro momento”.
Davanti a questa domanda, la teoria della chilogenesi è altrettanto incapace di risposta della teoria della emogenesi. E in realtà la nuova teoria ha minor forza esplicativa di quella tradizionale. La teoria antica aveva infatti il merito di fornire una spiegazione della differenza sessuale. Era il diverso livello di calore vitale posseduto da corpi maschili e femminili a determinare la trasformazione del sangue in sperma, nei primi, o invece in latte, nei secondi. Come già la teoria della emogenesi, anche la nuova teoria vede l’origine del latte in un fluido comune a uomini e donne: l’umore chiloso. Ma perché questa sostanza comune si trasforma in latte solamente nel corpo delle donne? È forse perché non c’è più una risposta chiara a questo problema che nella casistica clinica del Seicento si moltiplicano le osservazioni di latte in mammelle maschili. La descrizione della galattorrea nei maschi era già in Aristotele e viene ripresa da Avicenna”!: ma nella 6 Wharton, Adenographia, cit., pp. 240-241. 70 Ramazzini, De morbis artificum, cit., p. 155.
n Ricerche sugli animali, 493° in D. Lanza e M. Vegetti (a cura di), Opere biologiche, Torino 1971, p. 153: «Il latte del resto si forma anche nei maschi: ma la loro carne è compatta, mentre quella delle femmine è spugnosa e ricca di pori». Galeno non parla di questo fenomeno. L’unico accenno è un passo del De serzine (cit., p. 151) dove si dice che: «Tranne
che in pochi casi, gli uomini non hanno mammelle spugnose». Lo menziona invece Avicenna, Canon, Venetiis 1490, lib. 3, fen. 12 tr. 1, cap. 3. Anche il Talmud menziona il fenomeno del latte maschile: vedi J. Preuss, Biblical and Talmudic Medicine, New York 1978, p. 410.
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cultura medica antica le osservazioni di questo fenomeno sono episodiche e marginali, e soprattutto generiche, non riferite a casi clinici precisi. Non è così in età moderna. Lac in viris è una voce
standard nei repertori della letteratura medica secentesca e settecentesca”?. Casi come quello di Lorenzo Wolff, riportato prima, e che in genere non vengono affatto associati a uno stato morboso (mentre per noi oggi, invece, la galattorrea nei maschi è associata di solito a sindromi patologiche”). Numerose sono inoltre, sulle pagine dei periodici scientifici della seconda metà del Seicento e del Settecento, le observationes che riferiscono la presenza di latte nelle mammelle di donne vergini, o comunque non incinte”. Frequenti sono anche le osservazioni di latte nei seni di neonati, maschi e femmine”
(un
fenomeno che anche la nostra scienza ammette di non riuscire a spiegare adeguatamente)”. La teoria della chilogenesi, di per sé, è incapace di render conto di questa variegata casistica della presenza del latte in mammelle infantili ed adulte, femminili e maschili. Vediamo come un suo sostenitore secentesco, l’anatomista olandese Diemerbroeck, ragiona
davanti a questo complicato puzzle fisiologico. Diemerbroeck parte innanzi tutto dall’asserzione che il latte, «tanto negli uomini che nei neonati e nelle donne, è formato dal chilo»”. Per la formazione del
7 Liste di osservazioni di lac in viris in Schenck a Grafenberg, Observationes medicae rariores, cit., p. 305; de Franckenau, De triplici lacte virginis, cit., pp. 250-251; G.G. Ploucquet
(a cura di), Initia Bibliothecae medico-practicae et chirurgicae sive Repertorii medicinae practicae et chirurgiae, Tubingae 1795, t. v, pp. 201-202 (/ac în maribus); J.D. Reuss, Repertorium Commentationum a societatibus litterariis editarum, Gottingae 1801-1802, vol. x, p. 250 (Zac Juvenum et virorum).
Sul latte maschile nella cultura folklorica europea si veda l’interessante lavoro di R. Lionetti, Latte di padre, Brescia 1984, che analizza (anche se piuttosto superficialmente) anche la letteratura medica (cap. 1).
» D.L. Kleinberg, G.S. Noel, A.G. Frantz, Galactorrbea: A Study of 235 Cases Including 48 With Pituitary Tumors, in «New England Journal of Medicine», 1977, n. 296, pp. 589-600; R.S. Hulugalle et al., Galactorrhea in a Man With Normal Testicular Function, in AMA», vol. 240, n. 23, dicembre, 1978, p. 2565. 74 Reuss, Repertorium, cit., vol. x, p. 249 (lac virginum); de Franckenau, De triplici lacte virginis, cit., pp. 245 ss. 5 Initia Bibliothecae, cit., t. v, pp. 200-201 (lac in infantibus); Reuss, Repertorium, cit., vol.
x, p. 249 (lac infantum). Vedi per esempio G.C. Baricelli, Hortulus genialis, Coloniae 1620, pp. 323-324: «Ego quidem in duobus filiis meis, in primis diebus a partu observavi, ab obstetrice mamillas confrectatas, lac (magno multorum stupore) emisisse: idque in aliis etiam infantibus conspexi». ?© J. Hiba et al., Hormonal Mechanism of Milk Secretion in the Newborn, in Journal of
Clinical Endocrinology and Metabolism», vol. 44, 1977, pp. 973-976.
? I. Diemerbroeck, Anatorzes corporis humani, Ultrajecti, 1671, p. 402.
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latte, occorre il libero transito del chilo alle mammelle, che è facile
concepire nei bambini appena nati, per via della mollezza delle carni e della porosità delle loro mammelle. (E questo spiegherebbe le osservazioni di neonati coi seni gonfi di latte): Ma come questo transito si compia negli adulti, in cui per molti anni è stato chiuso, questo è difficile da capire. Chi lo capisce, scioglie un nodo gordiano. Si succhino e si carezzino le mammelle finché si vuole a cento uomini, cento vergini, o cento donne che non allattano, il latte non verrà in tutti, ma solo occasionalmente in alcuni. Perché non in tutti? Perché le mammelle di quelli o quelle in cui non si forma il latte non sono abbastanza rilassate o porose. Ma se quelle medesime donne restano incinte, il latte si
forma. Occorre quindi pensare ad un’altra causa, di cui ritengo nessuno abbia finora fatto menzione: questa causa è la forte immaginazione, ovvero il pensare intensamente al latte, alle mammelle e al loro succhiamento, che
opera meraviglie nel nostro corpo: non semplicemente di per sé, ma mediante la potenzia appetitiva, ovvero le passioni dell'animo, che mettono in movimento gli spiriti e gli umori. Così l'immaginazione e il pensiero del pericolo fanno tremare, cadere, raggelare, e talvolta in breve tempo incanutire i capelli [...]. Il pensiero dei piaceri venerei infonde calore nel corpo, rilassa i genitali muliebri, di solito contratti, e fa contrarre i genitali virili, di solito rilassati, e spesso apre talmente le vie del seme, altrimenti invisibili, che spontaneamente esso fluisce per polluzione. Questa medesima intensa immaginazione, e desideriosa cogitatio di allattare un bambino è la causa che fa sì che le vie chilifere si rilassino e si aprano verso le mammelle, specialmente se altre cause esterne favoriscano e stimolino ulteriormente quel pensiero — cause esterne come la lasciva contrectatio (le carezze lascive) alle mammelle, il movimento del feto nell’utero, il fatto che
le mammelle vengano .succhiate, ecc.”8.
A riprova di questa ipotesi, Diemerbroeck riporta alcuni casi, di cui il primo — paradossalmente — è quello di un vedovo, il quale «poiché non poteva per povertà assumere una nutrice per il suo bambino, per soddisfare in qualche modo al suo pianto, se lo attaccò varie volte alle mammelle (senza dubbio con intenso desiderio di dargli il latte) e così per quel continuo ed intenso pensiero, e per la ripetuta suzione delle mammelle, le vie chilifere si rilassarono e le mammelle diedero latte in quantità sufficiente a nutrire il bimbo»”. È coerente con la sua ipotesi inoltre, sostiene Diemerbroeck, il fatto che nelle donne incinte il latte cominci ad apparire nelle mammelle
7 Ibid., p. 407. 79 Ibid., pp. 407-408.
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quando il feto si muove nell’utero, perché questo fa sì che la madre pensi al bambino. E fa a questo proposito l'esempio di un caso che noi chiameremmo di rilattazione, che ha per protagonista sua moglie: La mia carissima consorte nel marzo dell’anno 1656 aveva nel puerperio, come di consueto, una sufficiente quantità di latte. Ma il bambino, ammalatosi, divenne così debole che non poté succhiare per sei o sette settimane. Credevamo anzi che stesse per morire. Ella aveva perduto ogni
speranza di allattarlo e le mammelle le si erano prosciugate. In seguito il bambino migliorò ed era in grado di succhiare, ma poiché mia moglie non aveva più latte, fu necessario mandarlo a nutrice. Siccome però questa donna non lo trattava bene, mia moglie ebbe pietà del piccolo e ordinò che le fosse riportato in casa, mentre si provvedeva a cercare un’altra balia. Abbracciò versando calde lacrime il bimbo che piangeva, esternando il grandissimo desiderio di potergli dare la mammella piena di latte. Quello stesso giorno fu trovata un’altra nutrice e il bambino le fu mandato. Ma quella sera stessa mia moglie si accorse che per quell’intensa immaginazione e pensiero le sue mammelle
(che tuttavia non aveva strofinato, e che il
bambino non aveva succhiato) benché prosciugate da ormai più di otto mesi, si erano gonfiate ed emettevano latte buono e in tanta quantità che, se non fosse già stata assunta una nutrice, ella stessa avrebbe potuto allattare il bambino. Questo esempio mostra chiarissimamente che la sola ir2rzaginazione e il pensiero sono la causa prima che fa fluire il chilo alle mammelle".
Lo stimolo che provoca la separazione del chilo dal sangue è dunque il desiderio di allattare — che può verificarsi anche negli uomini. (In molte storie di uomini col latte sembra serpeggiare una sotterranea invidia maschile dell’allattamento). Diemerbroeck, per quel che io sappia, è il primo a sostenere il ruolo di un elemento psichico o emotivo, il desiderio, nella formazione del latte8!. Ma questo desiderio, ammette Diemerbroeck, è in realtà molto ambi-
guo. Può essere puro e disinteressato desiderio di nutrire — così nel caso della propria moglie egli sottolinea l’assenza di ogni stimolo fisico: ella non si era toccata le mammelle né il bambino le aveva succhiate. Ma può essere anche desiderio di godimento: il latte può formarsi infatti anche in conseguenza di «pensieri libidinosi». 80 Ibid., pp. 408-409. 8! La novità della tesi di Diemerbroeck viene immediatamente percepita: si veda la recensione della Aratores nelle «Philosophical Transactions»: A Relation From a Person in Germany Concerning Women of 60 and 66 Years of Age Who Have Given Suck to Li.
f Age
Children, 1676, p. 100.
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Diemerbroeck deve ammettere questo per spiegare alcuni elementi della sua casistica sulla formazione del latte: soprattutto il caso di «quelle vergini lascive che si abbandonano a pensieri libidinosi, accarezzandosi intanto le mammelle e strofinandosi i capezzoli, a cui è capitato di produrre latte, nonostante la verginità. Di queste vergini lattifere a me è accaduto di conoscere due esempi». La stessa spiegazione può applicarsi ad alcuni casi di uomini col latte: «Si può credere infatti che tali pensieri e carezze lascive alle proprie mammelle si verifichino anche in alcuni uomini e che a questi possa capitare di produrre latte»®. Altre observationes secentesche e settecentesche su altre «vergini lattifere» riprendono questa idea, sottolineando però, a differenza di Diemerbroeck, lo stimolo fisico (la suzione o lo strofinamento del
capezzolo) anziché la desideriosa cogitatio quale causa della formazione del latte. In queste storie narrate da medici, il latte nelle mammelle di fanciulle vergini appare come una sorta di punizione per la attrectatio lasciva delle mammelle (vista forse come una forma di masturbazione) a cui si sono abbandonate. Ancor più punitiva appare l’ipotesi, avanzata nella letteratura clinica sul cancro alla mammella nel Settecento, che esso possa essere causato talvolta proprio da tale attrectatio lascivior*. Ramazzini è una voce ben diversa a questo proposito. Egli è convinto infatti che il cancro alla mammella sia causato nelle donne, se mai, dalla forzata astinenza sessuale®. Nella riedizione del De
morbis artificum del 1713 egli inserisce una sezione sulle malattie delle monache, in cui sostiene che per questa categoria di donne il
8 Diemerbroeck, Aratores, cit., p. 408. 8 Ph. Salmuth, Observationes medicae, Brunsvig. 1648, cent. 1, obs. 92: «Una serva si
prendeva cura di un infante e lo portava a letto con sé; e come sogliono essere spudorate, gli dava spesso la mammella da succhiare. Le si fermarono le mestruazioni e il latte le si formò nelle mammelle». Per una storia simile vedi «Ephemerides Academiae Naturae Curiosorum», anni 713, 10bs 135% 84 G.A. Langguth, Programma de potissimis causis cancri mammarum prudenter occupandis,
in A. von Haller (a cura di), Co/lectio dissertationum chirurgicarum, Witebergae 1752, 11, pp. 504-507. 8 Ramazzini, De morbis artificum, cit., p. 156: «L'esperienza dimostra che nelle mammelle
delle donne, per gli eccessivi liquidi dell’utero, si formano spesso dei tumori e questo più frequentemente nelle monache che nelle altre donne, non per mancanza delle mestruazioni, ma piuttosto credo per l’astinenza sessuale. Mi è capitato spesso di osservare delle monache ben colorite, con le mestruazioni regolari, di natura esuberante, morire miseramente a causa di
terribili tumori al petto». L’idea che il cancro alla mammella fosse provocato dall’arresto dei mestrui era galenica: cfr. Galeno, Opera omnia, cit., vol. xI, p. 139; vol. xv, p. 331.
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cancro alla mammella è una sorta di malattia professionale. Anche per
questa ragione Ramazzini critica duramente, come già Marziani, la
regola che vieta il coito alle nutrici. Non nega che la nutrice incinta produca un latte cattivo e povero; né che il coito troppo frequente possa avere cattivi effetti sul latte. Ma effetti certamente peggiori sulla
qualità del latte, secondo lui, ha la forzata astinenza delle nutrici. A Ramazzini, che ha simpatie meccaniciste, l’ipotesi di Diemerbroeck sul ruolo del desiderio di allattare nella genesi del latte sembra assai poco convincente. «Per mandarla all’aria — egli nota — basta questa osservazione: le puerpere nobili e delicate, che si rifiutano di
allattare i propri figli, non pensano e non desiderano la formazione del latte nelle loro mammelle, ed anzi è loro specifico desiderio mandarlo via. Tuttavia, nonostante tutti i rimedi che adottano a questo fine, al terzo o quarto giorno dopo il parto il latte affluisce alle loro mammelle». Il segreto della formazione del latte, secondo Ramazzini, sta
nell’utero, «fonte di libidine». «Se si considera bene la cosa, bisogna riconoscere che la causa prima della formazione del latte va ricercata nell’utero, perché questo, stimolato e agitato dai piaceri amorosi, mette in movimento tutte le funzioni del corpo e dilata i vasi sanguigni»89,
È per questo che, pur aderendo alla teoria della chilogenesi, Ramazzini ritiene che vada comunque mantenuta l’idea antica di un «legame vascolare» fra utero e mammelle, perché solo questo può dare ragione della simpatia fra i due organi che si manifesta così chiaramente nell’esperienza femminile della voluttà. «Chi non accetta questa teoria — conclude Ramazzini — ne esprima una migliore, ma non è facile credere che a questo secolo che volge al termine sia concesso di vedere la soluzione di questo problema, che il sommo Ca di tutte le cose ha forse voluto riservare a un secolo Uturo».
4.
Il nuovo secolo, il Settecento, vede il tramonto definitivo della
teoria della genesi del latte dall’umore chiloso contenuto nei linfatici del torace. La teoria è incompatibile infatti con la nuova comprensione della funzione di questi vasi, o meglio dei linfatici in genere, come 86 Ramazzini, De morbis artificum, cit., p. 146.
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vasi assorbenti. È ormai assodato definitivamente che il movimento della linfa in questi vasi va solo dalla periferia al centro, e non può quindi andare alle mammelle. Si ritorna a questo punto alla teoria dell’emogenesi del latte. Non c’è altra scelta: finché la materia prima del latte viene cercata in un fluido corporeo portato alle mammelle da una qualche struttura vascolare, il sangue è l’unica soluzione del rompicapo. L’unica struttura vascolare che va dal centro alla periferia, infatti, sono le arterie. Solo loro dunque possono portare ai seni la materia prima del latte. Così ci viene detto nel testo più influente della medicina settecentesca, la Physiologia di Haller: Non ci occorrono vie peculiari, che portino il latte alle mammelle dal dotto chilifero, contrarie al legittimo percorso della linfa [...]. Se questi vasi ci sono, portano il loro liquido dalle mammelle al dotto toracico, come in tutto il resto del corpo. Il latte viene dunque dalle arteriole comunicanti con l'origine dei dotti lattiferi negli acini della ghiandola mammaria”.
Ancora a metà dell'Ottocento Sir Astley Cooper, in The Anatomy and Diseases of the Breast critica la ormai obsoleta teoria della chilogenesi e ribadisce la teoria dell’emogenesi del latte: «E stata avanzata
un’idea
assai straordinaria,
e cioè che i vasi assorbenti
[linfatici] portino il chilo alle mammelle — un’opinione che è in contrasto con la natura di questo fluido e interamente in contrasto con ogni esperimento per iniezione da me compiuto, perché infatti tutti questi vasi vanno da e non alle mammelle». In realtà, «il latte è secreto all’interno delle cellule lattifere (725/k cells) a partire dal sangue portato dalle arterie. Le vene riportano alla circolazione generale quel sangue che non è convertito in latte»*. Vi è però una novità in questa resurrezione della teoria dell’emogenesi. Il legame simpatetico fra utero e mammelle, e in particolare la sensibilità erotica del capezzolo, viene reinterpretata non più come dovuta a un collegamento vascolare bensì a un legame nervoso fra i due organi”. 87 A. von Haller, Elementa physiologiae corporis humani, lib. xXvuI, sect. 1, «mammae», Lausanne 1778, t. vII, p. 2, pp. 10-11.
88 1845, latte: 89
Sir Astley Cooper (a cura di), The Anatomy and Diseases of the Breast, Philadelphia pp. 22-107: cit. p.68. Per Cooper, i linfatici hanno solo una funzione ausiliaria rispetto al assorbendo il liquido in eccesso, ne migliorano la qualità. L’ipotesi di un nesso nervoso fra seni e utero era stata avanzata già nella seconda metà
del Seicento: cfr. per esempio F. Bayle, De sywpathia variarum corporis partium cum utero, in
Dissertationes medicae tres, Hagae Comitis 1678, pp. 35-74, specialmente pp. 61-71: la sympathia fra seni e utero sarebbe dovuta al loro collegamento attraverso i nervi, ovvero vasa nervosa, contenenti laticem tenuissimum ac defaecatissimum e sanguinis massa secretum.
Va!
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MEDICHE
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MATERNO
Haller distingue il problema della «simpatia nervosa» fra mammelle ed utero dal tradizionale problema del consensus fra le due parti. Altra cosa è la simpatia nervosa fra mammelle ed utero. Lo strofinamento libidinoso dei capezzoli stimola il desiderio venereo nelle fanciulle che non lo conoscono ancora, e in questi giochi il clitoride a sua volta viene eccitato (in consensum trabitur). Ciò si può attribuire sia al collegamento
dei nervi o anche all’associazione di idee: la quale fa sì che eccitata una parte del corpo alla voluttà venerea, le altre parti spontaneamente si immaginino le cose che provocano quel godimento”.
È interessante, come si vede, che la sensibilità erogena del capezzolo venga menzionata esclusivamente in riferimento alle fanciulle vergini, come se non potesse far parte della sessualità femminile adulta. Notiamo qui, inoltre, uno slittamento dall’idea di
un consensus fra utero e mammelle a quella di un legame simpatetico fra le due parti del corpo femminile che sono state viste come simili al pene: il clitoride e il capezzolo. Nell'Ottocento, peraltro, l’analogia capezzolo-pene diventa obsoleta. «Si è supposto — scrive Sir Astley Cooper — che l’erezione del capezzolo derivi dal passaggio del sangue in una struttura elastica e cellulare, come i corpora cavernosa del pene; ma non c’è nel capezzolo una struttura simile. L’erettilità è dovuta semplicemente alla pressione del sangue nell’assemblaggio di arterie capillari nel capezzolo»”. % von Haller, Elerzenta phystologiae, cit., p. 24. Vedi anche J. Burton, Systèrze nouveau et complet de l’art des accouchements, Paris 1771, trad. franc., t. 1, pp. 13-14: «I nervi della vagina
vengono dal sacro e da varie branche dei lombari, dal plesso mesenterico nonché dal grande simpatico o grande intercostale. Questo spiega i vari fenomeni degni di nota relativi al sesso femminile [...] come la simpatia per la quale infiammazioni o dolori della matrice comunicano a testa e stomaco vertigini, delirio, nausea e vomito, come anche la sensazione voluttuosa
eccitata talvolta nel clitoride dal semplice solleticamento del capezzolo. Infatti in alcune donne questa parte riceve un maggior numero di ramificazioni dell’intercostale». ? Cooper (a cura di), The Aratory, cit., p. 33. È degno di nota, peraltro, quanto Cooper
osserva sulle mammelle maschili. Egli si chiede quale possa esserne la funzione: non sostituire la madre nell’allattamento, risponde, nonostante alcuni casi di uomini che hanno il latte. «A me sembra che la loro funzione sia quella di formare un organo di simpatia con le altre parti del sistema sessuale, che sono influenzate ed eccitate da impressioni mentali, e dalla diretta stimolazione del capezzolo. A questo scopo, l'organo possiede un tessuto erettile di arterie e vene, e un'elevata sensibilità grazie a diversi nervi che sono forniti al capezzolo e alla ghiandola» (pp. 110-111).
Secondo Cooper, il legame fra mammelle e utero è di natura nervosa: «Poiché esiste una forte connessione o simpatia fra l’utero e le mammelle, si è supposto che l’arteria epigastrica ne possa essere la causa e che più sangue possa essere mandato da essa alla arteria mammaria interna e alle mammelle stesse dopo il parto, mediante le anastomosi fra l’epigastrica e la mammaria interna. Questo è assai probabile, ma non è la causa della simpatia bensì il suo
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LA
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ARMONIA»
È solo con la teoria cellulare nella seconda metà del xrx secolo che la teoria dell’emogenesi del latte viene definitivamente accantonata? (come solo negli anni quaranta dell’Ottocento viene avanzata l’idea dell’origine cellulare degli spermatozoi, e viene abbandonata l’idea dell’emogenesi dello sperma”).E solo verso la fine dell’Ottocento prende corpo l’idea che lo sviluppo e la funzione delle ghiandole mammarie sono controllate da «messaggeri chimici» portati dal sangue, chiamati ormoni”. E da uno di questi messaggeri chimici che il problema che affascinava Ramazzini sembra essere stato risolto. Sappiamo oggi che la lattazione implica due processi neurormonali integrati, corrispondenti a due ormoni entrambi prodotti dall’ipofisi: la prolattina e l’ossitocina. Lo stimolo afferente per entrambi gli ormoni è mediato dalle terminazione dei nervi sensori nel capezzolo. Questi neuroni portano impulsi al sistema nervoso centrale in risposta a uno stimolo fisico (come la suzione) o mentale. La prolattina, secreta dalla pituitaria anteriore in risposta a questi impulsi, agisce sulle cellule epiteliali mammarie stimolando la produzione e secrezione di latte negli alveoli della ghiandola mammaria e regola la quantità di latte prodotto. L’ossitocina, secreta in risposta a questi impulsi dalla pituitaria posteriore, stimola la contrazione delle cellule mioepiteliali, forzando il latte dagli alveoli nei dotti e seni mammari e consentendone quindi l’emissione (letdown). Oltre a questa azione sulla ghiandola mammaria, l’ossitocina causa inoltre contrazioni effetto, più sangue venendo portato alle mammelle in conseguenza di quella simpatia mediante le anastomosi esistenti fra i vasi sanguigni... Io per me non vedo altra causa di questa simpatia se non il legame attraverso il gran nervo simpatico, le cui branche sono incorporate ai nervi dorsali delle mammelle, e sono largamente distribuite all’utero per connettere il funzionamen-
to delle due parti» (pp. 72-73). 9 M.C. Neville-M.R. Neifert, Ax Introduction to Lactation and Breastfeeding, in Id. (a cura di), Lactation: Physiology, Nutrition, and Breast-Feeding, New York e London 1983, p. 5. % C.F. Lallemand, Observations sur l'origine et le mode de développement des zoospermes, in «Ann. Sci. Nat», s. II, zool., vol. xv, Paris 1841, p. 94; vedi C. Castellani, Storia della
generazione, Milano 1965, p. 355. % La ricerca più significativa sembra quella di J. Halban (Die innere Sekretion von Ovarium und Placenta und ibre Bedeutung fiir die Funktion der Milchdruese, in «Archiv Gynaek.», 75, 1905, pp. 353-441): vedi Neville-Neifert, Ax Introduction to Lactation, cit., pp. 7 ss. L'espressione «messaggeri chimici» è tratta da E.H. Starling, The Croonian Lectures on the Chemical Correlations of the Body, London 1905, p. 6: «These chemical messengers [...] or
“hormones” (from 6ouàw: I excite or arouse), as we may call them, have to be carried from the organ where they are produced to the organ which they affect, by means of the blood stream». Sullo sviluppo dell’endocrinologia in generale vedi C.V. Medvei, A History of Endocrinology, Boston e L’Aia 1982.
Fi.
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uterine, particolarmente alla fine della gravidanza, durante e subito dopo il parto, ma anche durante il coito”. L’azione dell’ossitocina sembra quindi implicare un legame neurofisiologico inequivocabile fra allattamento e piacere sessuale, e far luce su quella «meravigliosa simpatia» fra seni ed utero nel godimento che Ramazzini non si sapeva spiegare. E certo, senza condiscendenza, possiamo dire che la nostra conoscenza del rapporto fra piacere e allattamento in una donna è un po’ più circostanziata di quella di Ramazzini. Sappiamo per esempio due cose che egli non sembra aver notato: che le donne possono provare l'orgasmo allattando; e che, di converso, in una donna che allatta, il piacere provato durante il coito (in genere al momento dell’orgasmo) può provocare l'emissione di latte”. Chiedendosi le possibili ragioni della lunga durata dell’idea di un’origine uterina del latte, un biologo ha suggerito che esse vanno probabilmente rintracciate in due osservazioni empiriche facilmente accessibili a tutti: l'allattamento è spesso associato a crampi dell’utero, specialmente nei primi giorni dopo il parto, e spesso, nella donna che allatta, l'orgasmo durante il coito si accompagna all’emissione di latte”. È interessante notare che in realtà, come abbiamo visto, nessuno
di questi due fenomeni è mai menzionato nei molti secoli di vita della teoria del consersus di utero e mammelle che abbiamo passato in rassegna. Certo, i medici e gli scienziati che abbiamo letto non partorivano, e quindi possiamo capire che non riportino l’esperienza dei crampi uterini durante i primi giorni di allattamento. Ma che dire del secondo fenomeno, l’emissione di latte durante il coito in una
donna che allatta? Nonostante la proibizione medico-religiosa del coito durante l’allattamento, qualche medico deve pur averla osservata. Il silenzio su questo fenomeno è particolarmente sorprendente, in considerazione dell’analogia fra capezzolo e pene, nonché di % M. Newton-N.R. Newton, The Let-down Reflex in Human Lactation, «J. Pediatrics», 33, 1948, pp. 698-704. R. Caldeiro-Barcia, Mz/k Ejection in Women, in M. Reynolds-S. J. Folley (a cura di), Lactogenesis, Philadelphia 1969, pp. 229-243.
% B. Campbell-W.E. Petersen, Milk «Let-Down» and the Orgasm in the Human Female, in «Human Biology», xxv, 1953, pp. 165-168; C.A. Fox-E.S. Knaggs, Mik Ejection Activity (Oxytocin) in Peripheral Venous Blood in Man During Lactation and In Association With Cottus, in «Journal of Endocrinology», vol. 45, 1984, pp. 145-146; C.A. Pedersen et al., (a cura di), Oxytocin in Maternal, Sexual, and Social Behaviors, «Annals of the New York Academy of Sciences», vol. 652, 1992.
7 A.T. Cowie, The Hormonal Control of Milk Secretion, in S.K. Kon-A.T. Cowie (a cura di), Milk: the Mammary Gland and its Secretion, New York 1961, pp. 163-203.
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ARMONIA»
quella fra latte e sperma, che è così chiaramente presente nel quadro mentale che guida l'osservazione medica fra Rinascimento ed età moderna. A volte, avviando
questa ricerca a conclusione,
mi trovo
a
pensare che il risultato più interessante è proprio questo: questo piccolo particolare che non ho trovato — questo punto buio nel quadro, pieno di luce, di una tradizione medica senza dubbio assai ricca di contenuto empirico. Ma forse la chiave per capire quello che non ho trovato sta proprio nell’analogia fra sperma e latte. Forse, essa poteva essere accettata solo fino a un certo limite e non oltre. Era forse troppo difficile per questi uomini pensare al latte, letteralmente, come a un liquido orgasmico. Se leggiamo la letteratura medica come un referto antropologico, per quel che ci dice degli schemi di classificazione degli uomini che compivano le osservazioni in essa riportate, vediamo più e più volte la difficoltà di questi osservatori a recepire l'evidenza empirica che fa del seno, simultaneamente, fonte di nutrimento e fonte di voluttà, e
dunque vanifica ogni tentativo di separarne l’aspetto erotico da quello materno. Vorrei ricordare però che nella capacità di superare questa frattura, noi non siamo molto più avanti di loro. È ancora difficile, per chi abita in un corpo femminile, vivere la inevitabile coesistenza della esperienza materna ed erotica del seno non come una contraddizione ma come una «meravigliosa armonia».
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‘agua itoin: ina ì wA
i
atri
i L'infanticidal nursing è una componente consolidata del fenomeno già in epoca moderna, come si vede, tra gli altri, in K. Wrightson, Infanticide in earlier Seventeentb Century England, in «Local Population Studies», n. 21, 1975 e R.W. Malcolmson, Infanticide in the
Eighteenth Century, in J.S. Cokburn Methuen, 1977.
(a cura di), Crizze în England (1550-1800), London,
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«MADRI
SNATURATE»
ha fatto ricorso alla pubblicità dei giornali per ottenere che le fossero affidati dei neonati, nessuno dei quali è stato trovato a casa sua; che tre dei cadaveri ultimamente ripescati dalla polizia nel fiume, erano stati strangolati con una cordicella di cui numerosi campioni sono stati rinvenuti a casa sua; che molte madri hanno riconosciuto in lei la donna a cui avevano affidato i loro bambini. Ma - tuonano i giornali — l’orchessa di Reading è l’unica colpevole o l'industria di questo crimine prospera per le centinaia e centinaia di madri che affidano a simili donne i propri figli con l’assicurazione che non ne sentiranno mai più parlare? Esse non vogliono mettere il proprio figlio a balia, vogliono in realtà che qualcun altro pensi a sopprimerlo. A casa della imputata sono stati trovati otto contratti di questo tenore: «Io sottoscritta consento ad affidare mio figlio alla Signora Dyer che se ne prenderà cura. Non mi sarà permesso, sotto qualunque pretesto, di domandarne notizie, né di rivendicarne il possesso. La signora Dyer ne avrà d’ora in poi il possesso e la responsabilità»?.
Qualche tempo dopo un redattore dello stesso giornale fece ospitare da un altro quotidiano una inserzione così concepita: «Una signora caritatevole si offre di adottare un bambino molto piccolo, maschio o femmina, e di allevarlo fino alla sua maggiore età, in cambio di un versamento di 200-300 franchi. Ottime referenze», Il giornalista dichiarò di avere ricevuto in soli tre giorni più di 400 lettere di donne, tanto proletarie che piccolo borghesi, che offrivano la somma richiesta senza esprimere alcuna curiosità in relazione alle referenze offerte. Tutte si impegnavano a non rivedere i loro figli e a non chiederne mai più notizie. A queste madri, infanticide per interposta persona, si aggiungono le infanticide vere e proprie che sono le protagoniste indiscusse dei trattati medico-legali ottocenteschi, che pur nell’appartenenza a scuole giuridiche diverse®! su questo punto sembrano caratterizzati da una buona concordanza argomentativa. La medicina avrebbe dimostrato che «il sesso femminile va soggetto ad impazzire più del mascolino [...] a causa delle rivoluzioni che si compiono nel debole ed eccitabile organismo muliebre all’epoca della pubertà, della
59 Cit. in P. Brouardel, L’infanticide, Paris 1897, p. 7.
6 Ibid., p. 4. 61 Contrari a una minore imputabilità femminile erano Poggi, Renazzi, Grolmann, Zittmann, Feuerbach, Henke, Giuliani, Tolomei, Paoli, Rossi, Carrara, Pessina, Frank, Ziliotto, Forlani, ecc.; erano favorevoli Matteo, Farinaccio, Carpzovio, Reyer, Carmignani, Wieland, Bonneville, Thomas, Ellero, Ziino, Ferri e molti altri.
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gravidanza, del puerperio e dell’allattamento. La debolezza fisica trova riscontro nella debolezza morale, ed in essa si riproduce»®. Sembra precipitare nel diritto il condensato di informazioni prodotte negli ultimi decenni dalla medicina, per sancire una minorità femminile nello stesso piano penale. Citare le particolari condizioni indotte dalla fisiologia femminile equivale a definire le cause «naturali» di questa minorità, che comporta sul piano più strettamente penale, una attenuazione della loro colpevolezza. La natura ha stabilito il ruolo sociale delle donne, lo scopo della cui esistenza è la procreazione e la maternità, «perocché non basta che sia amante, non basta che sia sposa, conviene che essa sia madre»®.
Purtroppo l’espletamento di questo compito viene disturbato da «irresistibili influenze». «La donna incinta è facilmente mutevole,
irritabile, capricciosa, tendente al disgusto ed alla mestizia; nella gravidanza e nel parto le donne compiono talune azioni sotto irresistibili influenze», derivate dalle modificazioni del sistema ner-
voso che risveglia appetiti morbosi, cambia il carattere e le disposizioni, perverte il morale, le induce a trascurarsi, a temere una morte
imminente, provoca allucinazioni, sviluppa tendenze delittuose. Ci sono così tre categorie di madri: le corrotte, le disgraziate, le psicopatiche. Tutte e tre possono produrre infanticide, che hanno in comune con le buone madri una sorta di predisposizione alla morbilità mentale, dipendente dalla scadente qualità della natura femminile. I casi di infanticidio, che la giurisprudenza riprende pari pari dalla letteratura medica, a me sembrano incentrarsi sul rifiuto della relazione materna che la donna spezza in modo clamoroso. Le donne si accaniscono nei confronti del figlio fratturandogli il cranio, mutilandolo, strangolandolo, esponendolo al freddo, gettandolo nelle latrine, annegandolo, avvelenandolo, bruciandolo, 0, più semplicemente non legandogli il cordone ombelicale. E la medicina legale sguazza in questo museo degli orrori femminili, elucubrando su cosa debba intendersi per neonato, su come si stabilisca se è nato vivente, quanto tempo è vissuto, l’epoca e la causa della morte. Ma la stessa intolleranza le donne esprimono nei confronti del marito e degli altri figli Del consorte non sopportano la presenza, non 6 denza 6 4
A. Stoppato, Infanticidio e procurato aborto. Studio di dottrina, legislazione e giurisprupenale, Verona-Padova 1887, pp. 35-36. Ibid. Ibid.
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vogliono sentire la voce, anche le donne più morigerate rivolgono bestemmie e oscenità al suo indirizzo e, caso certo estremo, una donna sente il desiderio di mangiarselo: lo uccide e ne sala le carni per soddisfare questo istinto aberrante”. La violenza verso i figli, invece sembra dettata dal desiderio di risparmiare loro una vita difficile: una madre di cinque figli, giunta alla sesta gravidanza, «precipita in un pozzo tre di loro e vi si gettò essa stessa. Ella avea fatto richiamare presso di sé quel suo figlio che era ancora a balia ed aveva inviato al quinto che era in pensione dei dolciumi avvelenati»6.Le aberrazioni della maternità derivano da aberrazioni della mente, scatenate da
cause sociali - molte donne sono «nubili illegittimamente ingravidate» — o dalle cause ancora sconosciute della follia isterica, della
malinconia lipemaniaca con allucinazione, più raramente dal furore maniaco.
Stiamo assistendo al consolidarsi di conoscenze mediche che definiscono le caratteristiche non solo psicologiche, ma sociali della infanticida, che la giurisprudenza e la medicina legale del x1x secolo useranno come elementi esplicativi dell’origine del crimine dell’infanticidio. L'immagine criminale è quella della serva, giovane, sedotta e abbandonata, lontana dalla famiglia d’origine, ingenua e credulona verso la promessa di matrimonio che le viene avanzata, poi vergognosa verso la propria gravidanza illegittima”. La «primipara infanticida illegittimamente fecondata» non si può giudicare in tribunale con i criteri ordinari con cui si giudica della umana responsabilità, e per quanto ci si guardi dal procurare alla infanticida un generale verdetto di impunità, nei suoi confronti «non si può formare indagine e giudizio alla stregua dei casi comuni»*. Ma, con la follia puerperale il gesto della donna omicida si trasforma nell’atto demente della donna malata: a quest’ultima si rivolge la clemenza del magistrato. La «demente della volontà» è la donna malata nel suo istinto materno, che «compie il delitto in uno stato di “incoscienza morbosa”. Il gesto non 6 Cit. in Stoppato, Infanticidio, cit., p. 43. 6 Ibid. 6 Cfr. M.P, Casarini, Il buon matrimonio. Tre casi di infanticidio nell’800, in «Memoria», n. 7, settembre 1983, p. 27, ma anche Id., La «madrazza». Malattia e occultamento della gravidanza, in G. Bock-G. Nobili (a cura di), Ilcorpo delle donne, Ancona, Transeuropa, 1988, pp. 85-101 e infine Id., Maternità e infanticidio a Bologna: fonti e linee di ricerca, in «Quaderni Storici», n. 49, 1982, pp. 265-271. 68 Stoppato, Infanticidio, cit., p. 49. 6 Nella definizione di V. Mellusi, Madri doloranti. L’incosciente nella dinamica del delitto, Napoli 19372, ma vedi anche dello stesso Quelli che amano e uccidono, Torino 1910.
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le appartiene, è il frutto di atti meccanici ed inconsapevoli dei quali la donna perde poi ogni ricordo. [...] Il vizio parziale di mente [diventa] una zona franca tra il fisiologico e il patologico in grado di ricomprendere e motivare il crimine. Ma soprattutto una formula medico-giuridica che lascia aperta la strada per il recupero della donna al suo ruolo materno»”. Questi teorici hanno di fronte un incremento costante della casistica giudiziaria in Germania, Francia, Italia, Inghilterra”: dalle
statistiche elaborate per il ministero della giustizia francese nel 1880 apprendiamo che nell’ultimo cinquantennio si sono pronunciate 8.568 accuse d’infanticidio (di quinquennio in quinquennio i casi sono passati da 471 a 1.069) rivolte in percentuale decrescente a contadine, domestiche, operaie, donne senza professione, analfabete
nell'83% dei casi, nubili per il 66%, di età compresa tra i 20 e 1 40 anni, che hanno agito per motivi di onore e per problemi economici. Fa capolino la complicità maschile in un caso ogni 15. È una povera ragazza sedotta a comparire davanti alle giurie, è riuscita a nascondere la gravidanza, ha represso il dolore del parto; «gode di un’ottima reputazione tra i vicini, i suoi padroni testimo-
niano che è una gran lavoratrice, una brava ragazza, proba e onesta. Tutti insistono su questo aspetto della questione. Lei, la sventurata, è
in lacrime; nomina il suo seduttore; è un borghese, il figlio del padrone presso cui presta servizio, è il capo-mastro o il capo-reparto e, lui, non lo si perseguirà: la ragazza porterà da sola il peso della sua colpa. Tutti la compiangono, lo stesso pubblico ministero si impietosisce». Solo il medico legale riporta l’attenzione al fatto che c’è un cadavere: «ma il suo dovere è contrario al sentimento generale»??. Per queste ragioni le assoluzioni delle corti francesi — ma ancor di più delle inglesi? — sono frequenti e si aggirano attorno al 37,4% dei 7° Nobili " Select
R. Selmini, I/ delitto incosciente. Storie di isteria nei processi per infanticidio, in Bock(a cura di), I/ corpo delle donne, cit., pp. 118-119. Per l'Inghilterra vittoriana vedi i ricchi dati nei Parliamentary Papers. Report from the Committee on the Protection of Infant Life, London 1871, vol. vi, pp. 607 ss.
7 Brouardel, L’infanticide, cit., pp. 2-3.
% Tra le molteplici ragioni della sostanziale impunità delle infanticide inglesi va considera-
ta l'ambiguità della legislazione che, pure, nell’Offences Against the Person Act del 1803
definiva l’infanticidio alla stregua dell'omicidio, stabilendo di considerare la madre innocente,
fino a prova contraria. Se la giuria non raggiungeva la prova piena della colpevolezza, poteva procedere per «occultamento di nascita» ed eventualmente condannare la donna a due anni di carcere. Ma per l’incriminazione era necessario stabilire che il neonato fosse un essere umano autonomo e indipendente dalla madre, con una sua ben chiara «separata esistenza» e che
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verdetti, oltre che per la pietà verso il «delitto delle serve», come sembra fortemente caratterizzarsi per i contemporanei il reato in questione, anche per la difficoltà di raccogliere prove materiali sufficienti ad una condanna. Infatti, per parlare di infanticidio occorre stabilire che il neonato sia nato a termine e che, dunque, non si tratti di un parto prematuro; in secondo luogo, occorre appurare che il bambino sia nato vivo, e dunque che sia vissuto, cioè che i suoi polmoni abbiano respirato, prima di essere soppresso; inoltre occorre stabilire le cause della morte, e dunque bisogna essere in grado di eseguire un’autopsia; ma spesso i neonati vengono gettati nei canali, negli scarichi fognari, o frettolosamente seppelliti, o smembrati e dispersi. Qualora l’autopsia sia possibile, le prove scientifiche tese a dimostrare che i bambino ha respirato, e che dunque è nato vivente, sono troppo empiriche ed inaffidabili per la stessa medicina legale del tempo. Infine, si può partorire senza averne la consapevolezza. Molte accusate dicono di non essersi rese conto della gravidanza, di aver pensato piuttosto ad una malattia, anche al momento delle doglie. I medici, da parte loro, affermano di conoscere casi di donne che hanno partorito nel sonno”, ma sono troppo rari in letteratura per poter generalizzare la possibilità di una donna «assente» al momento del parto. Più concrete e credibili le assenze dovute alla follia puerperale, accesso passeggero di alienazione mentale che segue di poco il travaglio. È in quel preciso momento che le donne vengono colte da una sorta di delirio che ne perturba tutte le facoltà morali e che fa loro uccidere il neonato, in uno stato di totale incoscienza.
Una contadina ventiquattrenne di Halberstadt, modesta e virtuosa, partorisce una bambina nel novembre del 1857. La serva e il marito la trovano, qualche giorno dopo, a letto addormentata, accanto alla culla vuota. La svegliano. «Perché mi avete svegliata — replica la dunque neanche la più piccola parte del corpo del bambino dovesse essere alloggiata nel grembo materno al momento della morte. In breve, il neonato non doveva essere morto durante o a causa del parto. Così, sia l’Offences Against the Person Act del 1828 che del 1861 si incentrano, piuttosto che sull’ infanticidio, sul reato di «occultamento di nascita» per il quale la formula difensiva più comune consisteva nell’esibizione da parte delle imputate di qualche capo di corredino a dimostrare quanto il neonato fosse atteso. Su ciò cfr. L. Rose, Massacre of the Innocents. Infanticide in Great Britain (1800-1939), London, Routledge and Kegan Paul, 1986, pp. 70 ss.
74 Fa testo il caso di un lord inglese che, a letto con la moglie addormentata, si accorge di qualcosa che si muove sotto le coperte e si rende conto con meraviglia che la donna ha partorito nel sonno. In Brouardel, L’infanticide, cit., p. 154.
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donna —. Provavo una gioia indicibile, ho visto il mio Salvatore, ho sentito gli angeli». E si rimette a dormire. «Poche ore dopo si sveglia, cerca la bambina e non trovandola si affligge e si tormenta in modo indicibile». L’aveva gettata in fondo al pozzo al centro del cortile”. L’impulso omicida è noto negli individui alcolizzati, intossicati, epilettici o isterici, ma per quanto si voglia legare a fatti obiettivi l’accesso di mania, come nell’eclampsia, stato stuporoso nel quale si perde la nozione del mondo esterno (ma le convulsioni che l’accompagnano non permettono di perpetrare l’infanticidio), o come una violenta emorragia, che può provocare una sincope prolungata (ma
conduce di solito alla morte della partoriente), essa risulta prodursi per effetto delle condizioni sociali di una gravidanza illegittima, e dunque, come sostenevano qualche decennio prima i medici alienisti, per cause «morali». «In realtà — sostiene un perito — mai, in ospedale o in città, quando il parto non presenta niente di clandestino, il medico ha citato un solo caso di questi accessi di mania omicida». E poi, che follia sarebbe mai quella che si manifesta improvvisamente, guarisce in modo altrettanto improvviso, durando solo il tempo necessario a commettere il crimine? Non c’è niente di simile nella patologia mentale. «Quello che non mi si farà mai dire — continua il perito —, a me, medico, è che esiste una forma particolare di follia, mentre essa non
esiste, e dicendolo io mentirei alla giustizia e ai miei allievi»”. Le confutazioni delle «falsità della interpretazione» dei medici alienisti che credono agli eccessi di furore del parto, avvengono però senza alcun fondamento anatomopatologico. Dunque non c’è una specifica follia da parto, breve e transitoria, e nell’infanticidio la follia va valutata alla stessa stregua degli altri casi di omicidio: l’esperto non deve lasciarsi imbrogliare da sentimenti di commiserazione verso le giovani sedotte che miseria e abbandono hanno condotto al delitto — come troppo spesso fanno i jury inglesi”, ma anche le corti d’assise francesi e italiane. Così dicendo si riporta la malattia al suo contesto e alle perturbazioni che le infrazioni dei codici onorifici e delle norme sociali inducono nell’animo delle giovani ragazze madri. Ma sta proprio qui il nocciolo della «malattia morale» teorizzata ? L.F. Calmeil, De la folie considérée sous le point de vue pathologique, philosophique,
historique et judiciaire, Paris 1845, t. 1, p. 200.
76 Ibid., p. 162. n Ibid, p. 165.
78 Così Tardieu, Etude médico-légale sur les attentats aux moeurs, Paris 18787.
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dai vecchi alienisti che dichiaravano candidamente di non conoscerne le cause organiche (l’ereditarietà non si era rivelata una risposta convincente) e di attendereiprogressi della scienza per dare risposta a molti quesiti insoluti. Ancora la medicina mentale, d’intesa con la ginecologia” di fine Ottocento, risaliva faticosamente la strada tutta in salita della ricerca delle cause organiche ed elencava sullo stesso piano la parametrite e l’endomertrite settica, la setticemia, la costituzione neuropatica, la clorosi, l’anemia, i parti ripetuti e difficili, il prolungato allattamento, ma poi ammetteva: «La patogenesi è oscura». E riconosceva: «Il maggior contingente che danno alla pazzia le gravide illegittime si spiega con le condizioni affannose della vita di queste, come pure pel pensiero del loro avvenire»8!. Per quanto lo si voglia sottovalutare, si deve riconoscere l’esistenza di un furor transitorius delle donne che hanno appena partorito che si può spiegare «naturalmente per la forte congestione che risulta dalla irritazione vascolare generale e dai disturbi di circolazione e di respirazione, prodotti dalla eccessiva tensione di tutto il sistema muscolare»*. Un medico famoso come Richard von Krafft-Ebing, professore di psichiatria a Vienna, riconosce la potenzialità di tutte le fasi della fisiologia femminile di generare patologie mentali: le mestruazioni, ad esempio, rappresentano una vera e propria «bufera psichica» che scatena tutte le nevrosi latenti, producono disturbi vaso-motorii che si stabiliscono per via riflessa dai nervi delle ovaie eccitati durante l'ovulazione, fino al sistema nervoso centrale#. E volendo indicare i
sintomi di questa patologia dipinge donne che si rendono intollerabili ai mariti e ai domestici, maltrattano i figli che d’altra parte amano, hanno esplosioni di collera, inveiscono, ingiuriano, rompono la pace domestica e sono insubordinate all’autorità (del marito?). Si destreggia tra una spiegazione organicista e una di tipo culturale, come quando, ribadendo l’incidenza delle gravidanze illegittime nella patognesi della malattia, scrive:
7? Cfr. ad esempio G. Veit, Trattato delle malattie delle donne ed affezioni puerperali, Napoli 1876. 80 R, Krafft-Ebing, Trattato clinico pratico delle malattie mentali ad uso dei medici e degli studenti, Torino 1885, vol. 1, p. 260. 81 Ibid., PA62591 82 Id., La responsabilità criminale e la capacità civile negli individui affetti da alterazione mentale, Napoli 1886, p. 79. 8 E al lettore resta il dubbio che il medico pensi ancora che l’ovulazione avvenga insieme alle mestruazioni. Id., Trattato clinico pratico, cit., vol. 11, 1886, pp. 309 ss.
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La vergogna per l’onore perduto, il terrore per l'avvicinarsi del parto [...], i bisogni del momento, le preoccupazioni per l'avvenire, massimamente poi se il seduttore ha abbandonato la fanciulla, tutte queste influenze insomma, non di rado cooperano, e per di più mentre la donna trovasi in uno stato nel quale il sistema nervoso, a motivo dei dolori del parto è esaurito ed irritato.
Sembra di sentire parlare l’Esquirol di parecchi decenni prima... E così la mania puerperale resterà codificata nei libri di psichiatria, solo occupando uno spazio via via minore®, come un inciampo, un sassolino nella scarpa, un problema che non si riesce a rivolvere. In altre parole, la cultura ottocentesca rappresentava la madre illegittima come transitoriamente furiosa. Le donne ne avevano appreso i modi e le forme e ne davano una autorappresentazione coerente. Quando la pressione di questa rappresentazione culturale sarà meno cogente, le puerpere impazziranno sempre di meno e diminuirà il numero delle infanticide. Come la medicina ottocentesca distingueva tra disturbi psichici in gravidanza (di cui facevano parte anche le voglie), quelli legati al parto e all’allattamento e la follia puerperale vera e propria, anche la psichiatria contemporanea discerne tra mazernity blues, puerperal psychosis e chronic depressive disorders of moderate severity. Alla prima fattispecie appartiene l’irritabilità della paziente, la labilità dell'umore, episodi di pianto, ecc.; la seconda — la cui incidenza
attuale viene valutata, in termini di tasso di ammissione negli ospedali psichiatrici, 1/500 — risulta più frequente nelle primipare, nelle donne con una storia familiare di malattie mentali «e probabilmente nelle madri non sposate»*. Le pazienti depresse possono tentare il suicidio o per la paura di malformazioni nel neonato possono giungere sino a sopprimerlo. La depressione puerperale, infine, è caratterizzata da stanchezza, irritabilità, ansietà che può
produrre sintomi fobici. La vulnerabilità delle neo-madri è causata dallo stress del parto, dalla mancanza di sonno e dalla fatica del child care, dalla loro giovane età, dalle povere relazioni affettive con il marito ed in generale dall’assenza di supporti sociali. 84 Id., Trattato di psicopatologia forense in rapporto alle disposizioni legislative vigenti in Austria, in Germania
ed in Francia, Torino
1897, p. 484.
% Cfr. E. Kraepelin, Compendio di psichiatria per uso degli studenti, Napoli 1885. 86 M. Gelder, D. Gath, R. Mayou (a cura di), Oxford Textbook of Psychiatry, Oxford Oxford Medical Publications, 1989, p. 468. Peg
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Vorrei sottolineare la persistente incertezza sulla eziologia dei fenomeni descritti: «Non è chiara la relazione tra psicosi e fattori ostetrici». E più oltre: «Al momento la causa del materzity blues resta ignota». Nonostante gli sviluppi dell’endocrinologia e la conoscenza del gioco tra estrogeni e progesterone, ci si orienta a credere che i fattori endocrini abbiano una parte solo come cause scatenanti in donne predisposte, mentre qualcuno continua a sostenere il nesso tra gravidanza e stati tossici. Ma, a volere essere onesti,
si deve riconoscere che se nelle patogenesi delle psicosi puerperali concorrono fattori tossici, fattori disendocrini e uno speciale stato di sofferenza del diencefalo, «vi sono casi nei quali il quadro clinico ha nulla di caratteristico e prende forme che ricordano quelle di altre infermità mentali (per lo più psicosi maniaco-depressiva, schizofrenia, isterismo)»*. E in poche parole, della psicosi puerperale «non è ancora stato con sicurezza risolto il quesito dell’eziologia»*. Resta inspiegabile il nesso con la paura del parto, nonostante le vittorie conseguite con l’asepsi e con il miglioramento delle tecniche chirurgiche. Ad entrambi questi fattori va addebitato il crollo delle statistiche contemporanee sulla psicosi puerperale che sono passate
dal 13,8% dei ricoveri negli ospedali psichiatrici al 2,8%. Secondo Bleuler, le inferme di mente partoriscono più facilmente delle altre donne, il che dimostra che in queste ultime è spesso la soverchia attenzione che il soggetto rivolge al parto stesso che lo disturba. «In altre parole: presso i popoli mentalmente più evoluti il parto è cosa particolarmente laboriosa per effetto dell’intervento della psiche»”. E la tesi del medico-etnologo Engelmann, che era giunto a queste conclusioni comparando le tecniche del parto tra gli indiani americani e messicani, i popoli occidentali e africani”. È dunque nella psiche delle donne che va cercata l’eziologia della psicosi e sarà la psicoanalisi a tentarne una spiegazione, rimontando al problema generale che ruota attorno alla maternità. Sia che si tratti di istanze istintuali sublimate, della disarmonia tra la soddisfa-
zione dei desideri sessuali e le loro conseguenze, di una regressione biologica, del risultato di una soddisfazione masochistica, di una 87 Ibid, pp. 467-468. 8 C. Ferrio, Trattato di psichiatria clinica e forense, Torino, UTET, vol. 11, 1970”, p. 1546.
89 Ibid., p. 1547.
% Ibid., p. 1545. 9 Cit. supra, note 44 e 45.
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soddisfazione compensatoria per l'accettazione del ruolo femminile, resta il problema della spiegazione esauriente del conflitto creato dalla disarmonia ancora attuale tra i costumi sociali e i fattori biologici, cioè tra sessualità e maternità nel loro essere interamente definiti dalle relazioni sociali. In sintesi, la mania puerperale è la lettura che Esquirol, e i medici della scuola alienista, fanno di un soggetto sociale: è la sindrome della gravida illegittima, serva e anemica, sola di fronte al parto. Avevano ragione quando l’attribuivano allo sconvolgimento delle facoltà morali delle donne, prodotte dalle condizioni sociali in cui la gravidanza si collocava. È una psicosi da contesto quella descritta da questi medici che conoscevano le donne dentro gli ospedali psichiatrici, e che trapela nelle Observations e nelle cartelle cliniche come piccola storia di vita. Abbiamo visto come le donne rappresentino nella follia puerperale il senso della colpa per una condizione di concubina, di ragazza madre di un illegittimo. Un caso emblematico è quello di una donna che impazzisce in gravidanza e partorisce poi un bimbo nato morto. Confessa al medico di essere vissuta per lungo tempo in concubinato con un uomo con il quale
aveva avuto altri figli. E, l'impressione che lei provava per l’immoralità della sua condotta era così profonda che, sebbene il suo amante la sollecitasse spesso di ritornare con lui, non volle cedere ad alcuna preghiera e non volle più nemmeno vedere i suoi figli, prima di essere sposata. Quest'uomo — prosegue il medico — l’amava appassionatamente e sembra che fossero vissuti così, senza essere sposati, piuttosto per indifferenza che per rifiuto delle responsabilità. Egli acconsentì volentieri al matrimonio: i bandi furono legalmente pubblicati nella chiesa della parrocchia, il matrimonio si celebrò fuori dell’asilo. Il marito condusse con sé sua moglie felice e in buona salute”.
Ogni medico avrebbe voluto raccontare storie come questa! Una situazione irregolare produce un forte senso di colpa che provoca la follia nella donna in gravidanza, e dunque in un momento di estrema fragilità psicofisica. Il medico cura il corpo, lo spirito e la società che gli aveva affidato una concubina e gravida illegittima e a cui egli restituisce una moglie e una madre «felice e in buona salute». La ? Cfr. a mo” di sintesi N. Shainess, Problerzi psicologici connessi alla maternità, in S. Arieti, Manuale di psichiatria, Torino, Boringhieri, 1969, vol. 1, pp. 407-425. % Ellis, Trasté de l’alienation mentale, cit., pp. 124-125.
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medicina filosofica esprime apertamente una vocazione a farsi strumento di «ortopedia morale» nei confronti di comportamenti anomici. Il disagio ad interpretare il ruolo di madre ha la sua espressione più drammatica nel rifiuto del figlio illegittimo, di cui il padre eventualmente non voglia farsi carico e il cui peso finisce per ricadere interamente sulla donna. Quando un modello culturale
diventa cogente ed emargina e penalizza chi non ne possiede tutti i requisiti, la maternità biologica e la maternità culturale entrano così in aperto conflitto. «L'uccisione del neonato non sembra contraddire il desiderio di divenire madri. [...] Il termine madre si collega continuamente alla situazione di donna sposata e alla presenza di un marito. Divenire madri aveva innanzitutto un valore sociale legato al matrimonio; solo dopo aver assunto lo status di donna maritata si diveniva madri generatrici ed educatrici di una discendenza»*. L’infanticidio è il rifiuto di un evento biologico, non il rifiuto della maternità come evento culturale. Le infanticide non si sentono vere madri e perciò non si sentono colpevoli verso un «figlio». Non a caso si assiste di pari passo alla progressiva emarginazione
sociale del figlio naturale e ad un progressivo irrigidirsi delle forme di famiglia. Una famiglia meno rigidamente configurata abbassa la soglia del conflitto tra maternità biologica e maternità culturale. È sintomatico che l’irrigidirsi dei requisiti sociali della categoria di madre vada di pari passo con l’irrigidirsi della categoria di prostituta. Quando non si scavano fossati troppo ripidi tra norma e devianza i soggetti sociali possono disporsi lungo un’ampia area di ambiguità e di tolleranza verso i comportamenti meno regolari. Il modello della madre ottocentesca spezza ambiguità e tolleranza, forza le zone d’ombra e obbliga la maternità biologica entro lo schema codificato della maternità culturale, indebolisce lo statuto del figlio naturale, responsabilizzando i genitori solo verso i figli nati dentro il matrimonio. L’insistenza di parte della medicina tardo-ottocentesca a fondare sulle cause organiche la mania puerperale ha a che fare con una visione della maternità come evento biologico, a differenza della scuola alienista. Da questo approccio non si può rifiutare la maternità, perché non si può andare contro natura. Chi lo fa è
9% Casarini, Il buon matrimonio, cit., p. 34.
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malata nel corpo prima che nella mente. Le sue risultanze vengono amplificate dalla medicina legale che interviene per spiegare i casi di infanticidio e fonda la propensione verso la minore punibilità femminile sul rapporto tra salute mentale e funzione riproduttiva, già codificato dalla medicina. Nonostante la tendenza sempre più accentuata a decontestualizzare la psicosi puerperale anche dal parto che diventa una circostanza accidentale, fino a farne una malattia
mentale come le altre, ne resta sempre sconosciuta l’eziologia e soprattutto resta vana la ricerca di una causa organica. Anche la giurisprudenza percorre la stessa strada e tende ad assimilare l’infanticidio all'omicidio, riservandosi semmai
di concedere
alla
donna le attenuanti generiche. Quello che ho chiamato il disagio della maternità viene deprivato della possibilità di esprimersi come follia, che concedeva un alibi legale e una densa copertura culturale all'eliminazione del figlio indesiderato. Dunque la medicina ammette l’esistenza di cause organiche e psichiche che rendono capace una madre illegittima di trasformarsi in una infanticida. La giurisprudenza desume da questi presupposti una minore colpevolezza della donna, e le giurie, non insensibili alla
dimensione sociale del fenomeno, l’assolvono. Perché impedirci di pensare questi elementi come ingredienti di una forma rituale, con caratteristiche consone ad una società contemporanea, ma che per certi aspetti ricordano riti di altre epoche storiche? Ad esempio, nel caso studiato da Jean-Claude Schmitt e relativo alla diocesi di Lione nel medioevo,
il rito consistente
nel condurre
in un bosco
un
neonato gracile e malaticcio, nell’immergerlo più volte nelle acque fredde di un torrente e di esporlo poi nudo sotto gli alberi, portava certamente alla morte del bambino. Sappiamo che implicava la credenza negli chargelins, i bambini di demoni scambiati con quelli delle madri, e proprio la credenza dava una densa copertura simbolica all’eliminazione da parte della madre del figlio malato e «permetteva alle madri di non colpevolizzarsi per la morte del figlio»”. Non a caso, Etienne de Bourbon, inquisitore pontificio nei primi decenni del Duecento, che ci parla del rito, accusa queste madri di infanticidio. Riti del genere dimostrano una straordinaria vitalità se ancora nell’Ottocento sono attestati, seppure in forma
oa J.-C. Schmitt, I/ santo levriero. Guinefort guaritore di bambini, Torino, Einaudi, 1982, p.
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semplificata in Sicilia, dove a Vizzini le donne lasciano al quadrivio, per la durata dei rintocchi della mezzanotte, il figlio nella speranza che le Lamie lo portino via*. Nel nostro caso la credenza è nell’improvvisa follia che coglie le donne al parto, il rito è officiato dal medico che costruisce la copertura simbolica che dà alla madre infanticida la coscienza dell’incolpevolezza, mentre il giudice la dichiara penalmente non perseguibile. Non voglio forzare oltre la possibilità di cogliere analogie, ma questa ipotesi si concilia con la vana ricerca della medicina di una causa organica della follia puerperale e con la considerazione diffusa dell’infanticidio a metà tra «atto maldestro o semicriminale»”, con la
necessità di offrire scappatoie ad un modello sociale di madre troppo normativo, di dare una spiegazione al rifiuto della maternità e all’aggressività femminile in termini non solo repressivi. D’altronde, nei testi esaminati, affiora qua e là la consapevolezza da parte dei medici che la follia sia lo scotto che la donna paga alla modernità, che l’ha tratta dalla campagna — luogo idealizzato della solidità delle reti di relazione sociale — conducendola in città, dove sta alla ribalta,
fuori dal cantuccio protettivo dove viveva poco istruita, ignara degli affari del padre e del marito. La follia «premia» l’emancipazione femminile, è un prezzo esosissimo che una natura inadatta deve pagare sulla strada dell’eguaglianza. Cancellata la possibilità offerta da questa rappresentazione culturale della madre infanticida perché colta da raptus, l’aggressività nei confronti del figlio prenderà la strada dell’interiorizzazione: si approfondirà il conflitto tra sessualità e maternità che, divenuta istinto da sublimare, farà sì che le donne spingano sempre più verso
il profondo e contro se stesse i lacci con cui prima strangolavano il bambino.
% G,. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Bologna, Forni, 1969, vol. Iv, p. 170. bp 9 J.-L. Flandrin, La cellule familiale et l’oeuvre de procréation sous l’Ancien Régime, in «xvi» Siècle», 102-103, dedicato a Le XVII” Siècle et la famille, 1974, pp. 3-4.
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FETO COME TUMORE. GRAVIDANZA, SISTEMA IMMUNITARIO E CONCEZIONI CULTURALI DEL SÉ E DELL'ALTRO
di Emily Martin
In un manuale di immunologia così inizia la sezione intitolata Tolleranza del feto: «Il feto è un omoinnesto [un innesto di tessuto
tra membri geneticamente diversi della stessa specie»! Ci si domanda: «Perché [...] la madre non sferra un attacco contro il feto come farebbe nei confronti di qualsiasi altro omoinnesto?» E vengono avanzate diverse risposte: la placenta fa da scudo agli attacchi materni; durante la gravidanza il sistema immunitario della madre è depresso; il sistema immunitario del bambino potrebbe «agire attivamente nel difendersi dal sistema immunitario della madre». Nel corso della mia recente ricerca sui significati culturali attribuiti al sistema immunitario ho cercato di capire come l’immunologia sia arrivata a definire la gravidanza in termini così militareschi. Quali sono i modelli che sottostanno a una simile descrizione e quali sarebbero le conseguenze di un modello diverso? Dal punto di vista metodologico la ricerca è stata caratterizzata da due aspetti fondamentali. Innanzitutto, è stata condotta contemporaneamente in vari siti: un laboratorio universitario di immunologia in cui ho lavorato come tecnico; diversi ambienti di lavoro; una
delle organizzazioni di Baltimora che si occupano di problemi legati all’AIps, dove ho instaurato, in tempi diversi, un rapporto di amicizia con tre persone sieropositive; la sezione di Baltimora di ACT uP? di ! J.W. Kimball, Introduction to Immunology, New York, Macmillan, 1986, p. 433. 2 Organizzazione promotrice di iniziative che si prefiggono di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dell’Ams [n.4.T.].
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cui ero membro. In secondo luogo, la ricerca si è basata su un lavoro di collaborazione: insieme a numerosi studenti del corso di specializzazione ho condotto, in cinque diversi quartieri della città, più di duecento interviste su ciò che le persone intendono per salute. IL SISTEMA
IMMUNITARIO
COME
INDICATORE
DELLA
SALUTE
Da tale lavoro è emerso come il sistema immunitario sia generalmente considerato lo sfondo della salute: grazie all'attenzione di cui gode nella nostra cultura, esso è diventato simile a un indicatore che permette di misurare la salute e di confrontare i dati relativi ad essa in persone e popolazioni diverse. Il fenomeno è evidente quando si esaminano le tecniche operanti nella sfera pubblica: il processo che io definisco saturazione è uno dei mezzi attraverso i quali la gente comune viene a conoscenza del fatto che alla base dell'organismo umano si trova un sistema immunitario. Il termine da me scelto intende sottolineare come la percezione e l’interesse per la salute del corpo, definita in quanto funzionamento corretto del sistema immunitario, siano diventati così
diffusi nella nostra società da non poter essere ignorati. Nel 1991 i giornali riportarono a grandi titoli che le disfunzioni del sistema immunitario avevano raggiunto la Casa Bianca. Tutti i membri della famiglia del presidente (il presidente Bush e la moglie Barbara con il morbo di Graves, la loro cagnetta Millie con il Lupus) erano affetti da disturbi al sistema immunitario’. In seguito, imponenti campagne pubblicitarie si servirono direttamente della terminologia propria del sistema immunitario, con precisi riferimenti alle cellule coinvolte nei suoi processi, allo scopo di promuovere nuovi prodotti. La Saab pubblicizzò i suoi telai come «l’anticorpo per gli incidenti in auto»*. Questi sono soltanto due esempi di un uso molto esteso del sistema immunitario come sfondo alla luce del quale molti fenomeni } L.K. Altman, A White House Puzzle: Immunity Ailments: George and Barbara Bush Have Graves’ Disease, Their Dog Millie Has Lupus. All Autoimmune Diseases, in «The New York Times», 28 maggio 1991, p. 1. White House Water Samples Sent to Lab for Tests: Research of Causes of Autoimmunesystem Disorders of the President, Barbara Bush, and Their Dog, Millie; Vice Presidential’s
Water Tested, Too, in «Los Angeles Times», 1991, p. 21. 4 «Time», 139, n. 14, 6 aprile 1992, p. 211.
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FETO
COME
TUMORE
hanno ricevuto una nuova interpretazione. Nel corso degli anni ottanta e novanta numerose condizioni conosciute da tempo sono
state ridefinite in termini di disfunzioni del sistema immunitario: le allergie’, la sclerosi multipla“, il cancro”, le affezioni cardiache?. La stessa sorte è toccata a molti elementi tipici di un determinato ambiente e da sempre associati alla salute. I loro effetti, nel bene o nel male, sono mediati dal sistema immunitario: la luce del sole’,
le stagioni", il fumo", protesi di silicone al seno!?, l’elettromagnetismo”, le radiazioni, tossine chimiche di ogni genere”, esami universitari!’,
Collegate direttamente alle funzioni immunitarie e discusse nei media sono anche determinate esperienze sociali. Avrebbero effetti positivi sul sistema immunitario il confessare i propri problemi”, offrirsi volontari per aiutare gli altri, occuparsi di qualcuno affetto dal morbo di Alzheimer!, partecipare a un gruppo terapeutico®, > W.G. Davis, Allergies: Introduction, in Columbia University College of Physicians and Surgeons, Complete Home Medical Guide, 2, New York, Crown Publishers, 1989.
6 L. Thompson, A Research Gain for Multiple Sclerosis: New Strategy that Shuts Down Part of the Immune Systema Shows Promise, in «The Washington Post», 17 ottobre 1989, p. 7. ? S. Squire, New Clues to the Immune System, in «The New York Times», 1° febbraio
1987, p. 32.
8 J. Braly, How to Achieve a Healthy Immune System: Advice from the Experts, in «Health News and Reviews», 2, marzo 1992, pp. 18-19. ? D. Ostreicher-D. Klein, Maxzzzise Your Imnmune Systera, in «McCall’s»,
115, n. 1,
ottobre 1987, pp. 79-80. 10 Cancer and Season, in «The New York Times», 26 maggio 1992, p. 8. !! R. Diekstra, Building Defense, in «World Health», novembre 1988, pp. 28-29. 12 P.J. Hilts, FD.A. Acts to Halt Breast Implants Made of Silicone, in «The New York Times», 7 gennaio 1992, p. 1. 3 P. Brodeur, Annals of Radiation: the Hazards of Electromagnetic Fields, parte 1, in «The New Yorker», 65, 12 giugno 1989, pp. 51-88. 14 R. Graeub, The Petkau Effect: Nuclear Radiation, People and Trees, New York, Four
Walls Eight Windows, 1992. 15 AJ Things Considered, Washington, pc, Natural Public Radio, 15 settembre 1992. 16 J.B. Jemmott-K. Magloire, Acaderzio Stress, Social Support, and Secretory Immunoglobulin A, in «Journal of Personality and Social Psycology», 59, n. 5, 1988, pp. 803-810. In una
lettera all'editore una donna commentò un articolo sull'opportunità che i medici rivelassero una diagnosi terminale ai loro pazienti. La donna non avrebbe voluto ricevere un’informazione simile, poiché: «Più cose saprei, più apprensiva diventerei, causando quindi un maggiore stress al mio sistema immunitario» (in «New York Times Magazine», 14 febbraio 1993, p. 8). 17 H. Dreher, The Healing Power of Confession, in «Natural Health», 22, n. 4, luglio 1992, 74-80.
a 18 A. Helping 19 B. 20 D.
Luks, The Healing Power of Doing Good: The Health and Spiritual Benefits of Others, New York, Fawcett Columbine, 1991. Bower, Taking Care of Immunity, in «Science News», 132, n. 11, 1987, p. 168.
Goleman, Support Groups May Do More in Cancer Than Relieve the Mind, in «The
New York Times», 18 ottobre 1990, p. 8.
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MEDICHE
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MATERNO
eccitarsi sessualmente?! Avrebbero invece effetti negativi il bisticcia-
re con il partner, un divorzio”, un lutto”.
Alla luce di queste nuove interpretazioni è lo stesso concetto di salute a venire modificato e il sistema immunitario è al centro di questa ridefinizione. L'AZIONE
DEL
SISTEMA
IMMUNITARIO
SECONDO
I MEDIA
Qual è la funzione di questa entità in base alla quale viene definita la salute? La risposta è più di una, ma l’immagine del corpo trasmessa con più frequenza e intensità dai media è quella di una nazione ben difesa, organizzata gerarchicamente in rapporto al genere, alla razza e alla classe sociale”. In questo quadro, tra il corpo (il self) e il mondo esterno (il rorse/f) il confine è netto e invalicabile: «La capacità di distinguere tra self e nonself è la caratteristica fondamentale del sistema immunitario. Tutte le cellule dell’organismo trasportano quelle molecole che permettono loro di essere identificate come se/f»*. Preservare la purezza del self entro i confini del corpo equivale a preservare l’essere stesso. Nel noto libro sul sistema immunitario In Self Defense il capitolo intitolato I/ corpo sotto assedio inizia con un'epigrafe: «Essere o non essere, questo è il problema (W. Shakespeare)»?. La nozione che il sistema immunitario preservi una netta linea di 21 Sex is the Best Cure for a Cold!, in «National Enquirer», 9 marzo 1993, p. 3. K. von Kreisler, The Healing Powers of Sex, in «The Reader's Digest», giugno 1993, pp. 17-20. 2 D. Goleman, New Light on How Stress Erodes Health, in «The New York Times», 15
dicembre 1992, p. 1. 2 Divorce and Illness, ibid., 24 febbraio 1987, p. 6. 24 R. Ornstein-D. Sobel, The Healing Brain, in «Psycology Today», 21, n. 3, marzo 1987, pp. 48-52.
2 Haraway lo definisce «corpo Primate
organico gerarchizzato e localizzato»
(D. Haraway,
Visions: Gender, Race, and Nature in the World of Modern Science, New York,
Routledge, 1989, p. 14). Nel suo lavoro Haraway sottolinea eloquentemente la rimozione del corpo gerarchizzato e localizzato sotto l’influsso di nuovi parametri: «un campo di differenze strategiche estremamente mutevole... un sistema semiotico, un campo complesso, generatore
di significati» (sbi4., p. 15). Non si potrebbe fare di meglio nel caratterizzare questi nuovi elementi; aggiungerei soltanto che ragioni strategiche potrebbero spiegare il motivo per cui tracce del corpo vecchio coesistono con il nuovo. 2% L.W. Schindler, Understanding the Immune System, Washington, pc, U.S. Department
of Health and Human Services, 1988, p. 1. ? S.B. Mizel-P. Jaret, In Self Defense, San Diego, ca, Harcourt Brace Jovanovich, 1985, p.
1. Questo potrebbe essere collegato a ciò che Petchesky definisce ideologia del «privatism».
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COME
TUMORE
confine tra il self e il ronself è spesso accompagnata dalla convinzione che il mondo del rorself sia sconosciuto e ostile?. L'organismo umano deve affrontare moltitudini di cellule votate alla sua distruzione: «per difendersi dall’orda minacciosa il corpo ha ideato dei sistemi di difesa straordinariamente intricati». Per sottolineare la gravità di questa minaccia le pubblicazioni a carattere divulgativo dipingono l'organismo come la scena di una guerra a tutto campo fra spietati invasori e risoluti difensori: «Assediato da una vasta schiera di nemici invisibili, per combattere gli invasori l'organismo umano arruola uno squadrone altamente complesso di guardie del corpo interne»?!.
Piccoli globuli bianchi chiamati granulociti, la «fanteria» del sistema immunitario,
sono «tenuti costantemente
in posizione di
tiro per una guerra lampo contro i microrganismi». «In battaglia cadono in gran numero, e insieme ai nemici sconfitti formano il pus che si accumula nelle ferite». Un tipo di globuli bianchi più grandi, i macrofagi, sono l’«unità corazzata» del sistema immunitario. «Si aggirano tra i tessuti [...] divorando qualsiasi cosa giudicano inutile». A un altro ramo del sistema immunitario, il sistema del complemento, spetta il compito di «perforare gli organismi ostili, in modo che la loro vita si arresti lentamente»*. Le cellule del complemento si comportano come «“mine magnetiche”. Vengono
attratte verso il batterio e lo perforano, provocandone l’esplosione»”. Quando il complemento «si raggruppa nella sequenza appropriata, esplode come una bomba, facendo saltare la membrana cellulare dell’invasore»*. Particolari linfociti T, il cui nome scientifico è «cellule killer», sono «unità da combattimento
specializzate
per la guerra contro il cancro». Le cellule killer «colpiscono», 2 Per motivi di spazio non posso dilungarmi sulla dovizia di particolari con cui nelle riviste viene trattato questo «discorso sul corpo vecchio». Basti dire che sono largamente diffuse le metafore militari % Schindler, Understanding the Immune System, cit., p. 13.
# Sono comprese riviste molto diffuse come «Time», «Newsweek» e «National Geographi», oltre a testi più costosi come il noto libro illustrato The Body Victorious di Lennert Nilsson (New York, Delacorte Press, 1985). 3: P. Jaret, Our immune system: the wars within, in «National Geographio», 169, giugno 1986, p. 702. 32 Nilsson, The Body Victorious, cit., p. 24.
» Ibid, p.D.
#* Ibid, p. 24. » Ibid, p. 72. 3% Taret, Our immune system, cit, p. 720.
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MEDICHE
DEL
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MATERNO
«aggrediscono» e «assaltano»?”. «Le cellule killer sono implacabili. Dopo essersi agganciate alle cellule infette lanciano proteine letali contro la loro membrana cellulare. Nei punti colpiti si formano dei buchi, e dalla cellula morente fuoriescono i liquidi interni”. In queste descrizioni predomina la metafora di una guerra contro un nemico esterno, ma altrettanto frequente è la metafora del corpo umano come stato di polizia”. Ogni cellula è dotata di un «segno di identificazione», una particolare disposizione di molecole proteiche sulla sua superficie esterna [...] queste sono la carta di identità della cellula, la proteggono dalle forze di polizia dell'organismo stesso, il sistema immunitario [...]. Il corpo di polizia dell'organismo umano è programmato in maniera tale da sapere distinguere i residenti veri e propri dagli stranieri illegali, una capacità indispensabile ai poteri di auto-difesa dell’organismo”.
In un simile scenario di guerra non sorprende che l’identità delle cellule sia definita in rapporto al genere, alla razza e alla classe. Basti paragonare due tipi di cellule del sistema immuntario: i macrofagi, che inglobano e digeriscono gli organismi estranei, e le cellule T, che li uccidono trasferendo loro delle tossine. I macrofagi sono una forma inferiore di cellule; vengono chiamati «primitiva divisione di carristi»; «incubo infiltratosi nella realtà»*. Le cellule T, invece, dal
punto di vista evolutivo sono più avanzate e hanno funzioni superiori, come la memoria#. Solo queste cellule «frequentano le scuole di specializzazione del sistema immunitario»*. La divisione gerarchica del lavoro qui delineata richiama, in un certo senso, la differenziazione in base al genere in atto nella nostra società. In particolar modo, è interessante riflettere sulle attribuzioni femminili dei macrofagi (cingono e ingoiano) e su quelle maschili delle cellule T (penetrano e iniettano). Inoltre, molti studiosi hanno 37 Nilsson, The Body Victorious, cit., pp. 96, 98, 100. L. Jaroff, Stop that Germ!, in «Time», 131, n. 21, 1988, p. 59.
A volte la «polizia» è più simile a una squadra anti-terrorismo, che meglio svolge il compito di scovare i nemici interni votati alla distruzione. Paula Treichler osserva che il virus dell’ams è «la spia delle spie, capace di qualsiasi inganno [...] il terrorista dei terroristi, l’Abu Nidal dei virus». 00 »W wvw
40 Nilsson, The Body Victorious, cit., p. 21.
4! E. Michaud-A. Feinstein, Fighting Disease: the Complete Guide to Natural Immune Power, Emmaus, PA, Rodale Press, 1989, p. 4.
42 J. Page, The River of Life, Washington, pc, U.S. News Books, 1981, p. 115. 4 Jaroff, Stop that Germ!, cit., p. 60. 4 Nilsson, The Body Victorious, cit., p. 26.
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sottolineato
come
il genere
COME
TUMORE
femminile,
a livello
simbolico,
sia
frequentemente associato alle funzioni inferiori e soprattutto alla mancanza, 0 livello meno sviluppato, di funzioni mentali. I macrofagi sono poi le «massaie» dell'organismo, con il compito di eliminare sporcizia e rifiuti, compresi i «corpi morti» sia di cellule estranee che di cellule appartenenti all'organismo (un immunologo li ha chiamati «piccoli sgobboni»*). «I primi difensori ad arrivare sul posto sono i fagociti (cellule che mangiano e di cui fanno parte i macrofagi), gli spazzini del sistema immunitario. I fagociti perlustrano continuamente e con la massima attenzione i territori del nostro corpo: quando trovano una cosa fuori posto la ingoiano e la eliminano. Non sono schifiltosi. Mangiano tranquillamente tutto quello che desta sospetto, nel sangue, nei tessuti o nel sistema linfatico». Viste le barbare origini, non dovrebbe sorprendere se, dopo aver mangiato, un macrofago «erutti». «Finito il pasto, erutta pezzi del nemico e li dispone sulla sua superficie...»*. Mentre si nutrono i macrofagi sono «arrabbiati», presi da una «furia divoratrice», «insaziabili»*, combinando in un’unica immagine e-
mozioni incontrollate da un lato e una presenza che inghiotte e distrugge dall’altro, due attribuzioni culturali comunemente femminili”. Le cellule B, un diverso tipo di cellule del sistema immunitario, offrono un altro esempio dell'immaginario usato dai media per rappresentare la gerarchia delle cellule. Le cellule B si collocano nettamente al di sopra degli umili macrofagi. Non frequentano la scuola del timo, vengono «educate» nel midollo osseo? e posseggono un'elevata specificità. Occupano una posizione inferiore, tuttavia, rispetto alla cellula T, costantemente definita la «coordinatrice» della risposta immunitaria. È la cellula T, infatti, a provocare l’attivazione delle cellule B 0, secondo le parole Como diffuso, a dare alla cellula B il «permesso» di attaccare gli organismi invasori”. In un 4 Jaret, Our Immune System, cit., pp. 702-735.
4 Udito per caso da Paula Treichler, comunicazione personale. # Jaret, Our Immune System, cit., p. 715. 4 Michaud-Feinstein, Fighting Disease, Ct, ip. 6) 4 Page, The River of Life, cit., p. 104. 50 Affermazione udita nel corso ‘di una conferenza presso l’Istituto di Immunologia in cui ho condotto la mia ricerca. 51 JM. Dwyer, The Body at War: The Miracle of the Immune System, New York, New American Library, 1988, p. 47.
52 Ibid.
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primo stadio le cellule B sono immature; se stimolate da antigeni dotati della specificità appropriata, diventano mature e, con il «permesso» delle cellule T, producono rapidamente gli anticorpi contro l’antigene invasore. In un libro per bambini sul sistema immunitario tutte le cellule posseggono un nome e un'identità ben precisa. Quando comincia a produrre anticorpi la cellula B, chiamata «Bollicina», si gonfia e diventa «grossa e luminosa». Quando il «Maggiore p», un tipo di cellula T, dà l’ordine, «Bollicina saltella, dalla gioia mentre riversa nel sangue secchi e secchi di anticorpi»?. Le cellule B, quindi, hanno
a volte attributi femminili, pur
occupando nella gerarchia delle cellule una posizione superiore a quella dei macrofagi”: in esse è possibile individuare una sorta di figura femminile della classe alta, la partner ideale per la cellula T, la prima della classifica. Queste due cellule insieme sono state definite «la mente del sistema immunitario» e in un disegno in Peak Immunity sono entrambe dotate di un cervello umano*. Molto più in basso in fatto di classe e razza si piazzano i macrofagi, arrabbiati e ingordi, intenti a spazzare o a pulire. In questo modello la differenziazione secondo il genere, oltre all’antinomia maschile-femminile, viene applicata anche all’antinomia eterosessuale-omosessuale. Nelle cellule T sono manifesti i tratti distintivi della potenza sessuale maschile, intesa come potenza eterosessuale. Le cellule T sono gli eroi virili del sistema immunitario, un commando composto di elementi selezionati, che devono la
loro elevata preparazione alla scuola di specializzazione del timo. La cellula T viene chiamata «comandante in capo del sistema immunitario»” o «stratega della battaglia». Alcune cellule T, le cellule killer, hanno caratteristiche maschili secondo i canoni antiquati del fusto muscoloso e brutale; nel dépliant pubblicitario di un libro sul sistema immunitario ci viene detto: «E a questo tipo che devi la vita, al > J. Benziger,
The Corpuscles Meet the Virus Invaders, Waterville,
ME, Corpuscles
InterGalactica, 1990, p. 20. 3 Non sempre le cellule B sono figure femminili: in Michaud-Feinstein, The River of Life, cit., pp. 7, 13, sono descritte come
superuomini e ammiragli.
3 J. Galland, Superimmunity for Kids, New York, Dell, 1988, p. 10.
% L. DeSchepper, Peak Immunity: How to Fight Epstein-Barr Virus, Candida, Herpes Simplex and Other Immuno-Depressive Disorders and Win, Santa Monica, ca, Luc DeSchepper, 1989, p. 16.
2 Jaret, Our Immune System, cit., p. 708.
38 Jaroff, Stop that Germi, cit., p. 58.
126
FETO
COME
TUMORE
Rambo del tuo sistema immunitario». Un giornale a fumetti per l’informazione sull’atps presenta le cellule T come una brigata di Mister T, i forzuti eroi dello show televisivo The A Team.
In un altro tipo di cellule T, le T4, sono invece evidenti caratteristiche maschili come intelligenza, capacità di programmazione
strategica
e predisposizione
alla gestione
collettiva,
tutte
qualità che ben si confanno al mondo delle multinazionali”. La cellula T4 viene spesso chiamata il quarterback® del sistema immunitario, in quanto coordina il lavoro di tutti gli altri elementi ed è di fatto il cervello e la memoria della squadra. Come scritto in un testo molto noto, «oltre ai linfociti T killer, ci sono anche i linfociti T
helper [T 4], o coadiuvanti, e i linfociti T soppressori. Una decisione strategica deve pur esser presa da qualcuno». Questo diffuso manuale sul sistema immunitario, intitolato Fighting Disease, insiste
sull’eterosessualità della cellula T: Per introdursi in una cellula un virus deve prima togliersi il proprio rivestimento proteico, una sorta di mantello, che viene lasciato all’esterno,
sulla membrana della cellula. Questo mantello virale appeso fuori segnala alla cellula T in movimento che qualcosa di libidinoso è in corso là dentro. Come il marito geloso che scorge una giacca sconosciuta nell’ingresso e sa quello che sta succedendo al piano di sopra, la cellula T agisce con prontezza. Va ad urtare contro la cellula che contiene il virus e la perfora®.
In breve, nella maggior parte dei casi, i media rappresentano il sistema immunitario nel contesto di un organismo in guerra. Quando il problema è una parte interna del se/f e non un nemico esterno, come un microbo, le immagini militari vengono estese ai. concetti di «ammutinamento» e «auto-distruzione»®. In uno show televisivo l’autoimmunità è stata descritta in questi termini: «abbiamo
incontrato
il nemico,
e il nemico
è in noi».
Un
libro
59 Si veda Kash, per una lunga disquisizione sul perché il lavoro di gruppo e la cooperazione siano necessari nel mondo dell’economia. 6 Nel gioco del football americano il giocatore in posizione centrale che imposta il gioco della squadra [1.d.T.]. i 61 Michaud-Feinstein, Fighting Disease, cit., p. 10, corsivo nel testo.
6 Ibid., p. 8. 6 Un quotidiano di Toronto ha scritto che «lo psicologo Andrew Feldmar, di Vancouver, offre un'interessante spiegazione per l’insorgenza di malattie autoimmuni negli adulti: “Colpiscono individui che nell'infanzia erano incapaci di distinguere fra gli amici e i nemici”»
(Maté, 1933).
i
6 Informazione a me riportata da Ariane van der Straten.
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MEDICHE
DEL
CORPO
MATERNO
divulgativo sull’AtpSs, scritto da un fisiologo, fa più volte riferimento all’autoimmunità come all’«equivalente immunologico di una guerra civile».
L’immagine dell’organismo come nazione ben armata è comune anche a pubblicazioni scientifiche di immunologia (in cui viene spesso presentata con la stessa intensità con cui compare nei media) e al linguaggio usato dai non specialisti per spiegare il funzionamento del corpo. Esiste, tuttavia, forse non in maniera rilevante nella letteratura
scientifica ma in misura decisamente maggiore nel linguaggio non specialistico, un modo contrapposto di intendere il sistema immunitario. A Vera Michaels, una delle persone intervistate nel corso della ricerca, fu chiesto di commentare la copertina di «Time» che rappresentava il corpo umano impegnato in un incontro di boxe con un batterio. La donna contestò quest'immagine, in quanto raffigurava «una così grande violenza nel nostro corpo». Secondo lei questa violenza semplicemente «non esiste»; la sua personale raffigurazione sarebbe stata «meno drammatica»: — Lamiaimmagine sarebbe più simile a delle maree, forse, o qualcosa del genere... le forze, capisce, il flusso e il riflusso.
— Potrebbe fare un disegno — Certo. Non credo che una venire in mente a qualcuno una — Che cosa sono il flusso e — Le due forze, voglio dire,
di queste forze? raffigurazione di questo genere possa far battaglia all’interno del corpo. il riflusso? le forze... equilibrio e squilibrio.
E mentre parlava abbozzò un disegno che intitolò /e onde. Un autorevole immunologo, a capo del laboratorio universitario in cui ho condotto la mia ricerca, mi parlava spesso di quello che gli immunologi chiamano «immunofilosofia». Egli sosteneva che la distinzione self/nonself, nonostante fosse presa come punto di partenza dalla maggior parte degli immunologi, era a volte causa di difficoltà. «Se si pensa solo in termini di guerra, diventa arduo spiegare fenome© R.S. Root-Bernstein, Rethinking AIDS: The Tragic Cost of Premature Consensus, New
York, The Free Press, 1993, p. 87. David Napier analizza le possibili conseguenze dell’uso di immagini di autodistruzione nella descrizione della malattia. Ritiene che i pazienti possano trarne grandi benefici, nonostante il disorientamento suscitato dalla nozione che il loro corpo sia in guerra con se stesso: «Le persone spesso si sentono meglio quando sanno di poter salvare un “self” da un corpo devastato; imparano ad affrontare la malattia come qualcosa nei cui confronti possono definire meglio se stessi (persino attraverso la dissociazione)» (AD. Napier, Foreign Bodies: Performance, Art, and Symbolic Anthropology, Berkeley, cA, University of
California Press, 1992, p. 187).
pi
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dar:
ri
FETO
COME
TUMORE
ni come l’autoimmunità, i trapianti... perché dovresti lottare per avere la gamba di un altro, sai che bene ti farebbe!». «[I microbi] non vanno visti solo come dei soldati che ci attaccano, nel senso in
cui dei soldati attaccherebbero gli Stati Uniti. Si limitano a vivere la loro vita e per caso vivono la loro vita in noi. Con noi convivono felicemente moltissimi organismi. Lo stato di guerra è una spiegazione convincente a livello superficiale, ma la condizione normale di esistenza di un microrganismo è l'equilibrio». Altri immunologi sostengono quella che viene chiamata teoria della rete del sistema immunitario. Immagini di una battaglia vengono sostituite da immagini di una danza. Il corpo si protende con atteggiamento positivo verso il mondo esterno e lo accoglie in sé: La danza del corpo e del sistema immunitario è il punto cardine della concezione alternativa qui proposta, poiché è questa danza a permettere al corpo di avere un’identità plastica e mutevole nel corso dei suoi molteplici incontri e durante tutta la sua vita. L’identità del sistema immunitario va quindi stabilita positivamente, non soltanto in termini di una reazione contro gli antigeni.
IL FETO
COME
TUMORE
Il modello di nazione in stato di guerra, sebbene non sia usato in modo uniforme nel mondo scientifico o nei media, sembra funziona-
re efficacemente quando si tratta in maniera specifica del corpo della donna. Per quanto diversificate in base al genere, alla sessualità, alla razza e alla classe, tutte le cellule del sistema immunitario appartengono al self e la loro funzione primaria è quella di difendere il self nei confronti del zorself. Quando il rorself è un microbo portatore di malattie, il modello funziona perfettamente. Ma quando il rorself è un feto che cresce dentro al corpo di una donna, allora il modello si trova di fronte ad un ostacolo. Come ho osservato all’inizio, sia nei
media sia nelle pubblicazioni scientifiche ci si chiede per quale motivo la madre, dato che il feto è un innesto di tessuto estraneo all’interno del suo corpo, non sferri «un attacco contro il feto come farebbe nei confronti di qualsiasi altro omoinnesto»®. Un articolo in 6 F.J. Varela-A. Coutinho, Second Generation Immune
Today», 12; n. 5; 1991, p. 251:
6 Kimball, Introduction to Immunology, cit., p. 433.
129
Networks, in «Immunology
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MEDICHE
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«The Economist» ha posto il problema in questi termini: «Perché il corpo permette al feto di vivere?»®. (Il corpo? Il corpo di chi??) La mancanza di un «previsto attacco immunitario» da parte della madre è ancora più misteriosa se si considera che, durante la gravidanza, una donna possiede gli anticorpi per determinati antigeni prodotti dal feto. La riduzione della risposta immunitaria zormzale della donna, che sarebbe quella di distruggere il rorself rappresentato dal feto, viene chiamata «tolleranza», qualunque sia il meccanismo che la provoca. Dal punto di vista immunologico il feto è un «tumore» che l'organismo della donna dovrebbe cercare in tutti i modi di attaccare”, Ma il sistema immunitario della madre «tollera» il suo feto; qualsiasi sistema immunitario «tollera» i propri tessuti, tranne nel caso delle malattie autoimmuni. Gli immunologi non sono ancora riusciti a spiegare del tutto il fenomeno della tolleranza; sarebbe interessante scoprire se da immagini diverse del corpo, meno legate a confini netti e a distinzioni rigide, potrebbero scaturire interrogativi completamente diversi. Secondo le teorie femmiste è evidente il carattere maschilista di una concezione che vede il mondo diviso in categorie ostili e aspramente contrapposte, in cui le uniche alternative possibili siano conquistare, essere conquistati o tollerare l’altro con magnanimità. E la posizione di chi vuole dominare la natura e tenersi distaccato dal mondo”. Molti genitori potrebbero trovare talmente irragionevole la nozione che un bambino nell’utero sia un tumore che la madre fa di tutto per distruggere, da giustificare a pieno titolo la ricerca di un immaginario completamente diverso”. L’idea di «tolleranza» del self e le immagini di un’aggressiva guerra immunologica contro lo straniero si fondano su un corpo che 6 Why Does the Body Allow Foetuses to Live?, in «The Economist», 296, n. 89, 21 settembre 1985. # D.P. Stites, J.D. Stobo, J.V. Wells, Basic and Clinical Immunology (6%), Norwald, cr,
Appleton and Lange, 1987, p. 619.
7? Dwyer, The Body at War, cit., p. 60. E.F. Keller, Reflections on Gender and Science, New Haven, cr, Yale University Press, 1985, p. 124. Keller, in Secrets of Life: Essays on Language, Gender and Science, New Yotk,
Routledge, 1992, pp. 116-117, spiega come nel linguaggio della biologia dell'evoluzione si passi facilmente da descrizioni in cui la natura è neutra e indifferente a descrizioni in cui essa è insensibile e ostile. 72 In altra sede analizzo l'interazione tra il feto e la madre in un contesto immunologico che presuppone un confine indeterminato fra se/f e nonself. Dopo tutto, i bambini nascono, i tessuti possono essere innestati e molti batteri vivono nel nostro intestino (con grandi benefici per la nostra salute).
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COME
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è tutto di un tipo, tutto unicamente se/f. Questa corpo puro è il corpo «normale»; di conseguenza, la donna «normale» dovrebbe
distruggere il feto per tornare allo stato «normale» di purezza interna. È come se il corpo fosse un castello e i suoi bastioni resistessero valorosamente a qualsiasi elemento estraneo che volesse entrare. Scrive Donna Haraway: «La perfezione del se/fben difeso e “vittorioso” è una visione raggelante»?. E si chiede: «Qual è il contesto in cui questa concezione del se/f assume una tale importanza che i suoi confini diventano il punto focale di discorsi istituzionalizzati in medicina, in politica e in economia?». Un’identificazione molto precisa di questo se/, ben difeso, di genere maschile, nordico e bianco, viene offerta dalla copertina di un noto libro sul sistema immunitario, The Body Victorious, di Lennert Nilsson. Le donne sono molto lontane dal possedere la purezza interna di questo self. Durante la gravidanza sono dei veri e propri ibridi, e «tollerano» con imbarazzo il feto estraneo. Per di più, oltre a «mescolare» il se/f e l’altro, sono statisticamente più predisposte a contrarre malattie autoimmuni, che si sviluppano quando il sistema immunitario attacca erroneamente il se/f. Nell’illustrazione di una donna colpita da lupus il suo corpo viene rappresentato come un castello in rivolta. E in numerosi altri casi i corpi delle donne non sembrano essere all'altezza di questo ideale di purezza. Rispetto alla salute in generale, il sistema immunitario offre l’immagine della «cittadella ben difesa e cinta da mura [pronta ad affrontare l’invasione] dell'Altro, portatore di infezioni»”.
Se la copertina del libro di Nilsson offre una ben precisa immagine del se/f, dal discorso sull’Atps emerge un altro aspetto del quadro secondo cui le donne, invece, si scostano da questa immagine. Paula Treichler fa notare come, rispetto all’AIps, il corpo femminile sia considerato più vulnerabile di quello maschile: «L’aIps è una malattia della membrana mucosa [e] la vagina sarà resistente, ma non è poi così tanto resistente»”. In generale, nella letteratura delle malattie a trasmissione sessuale «la vagina non si presenta più così sana e impenetrabile ai vili agenti patogeni; è 73 D. Haraway, When Man (TM) is on the Menu, in J. Crary, S. Kwinter (a cura di), Incorporations, Zone 6, New York, Urzone, 1992, p. 320.
7 C. Penley-A. Ross, Technoculture, Minneapolis, MN, University of Minnesota Press,
1991, p. 7.
5 P.A. Treichler, Beyond Cosmo: AIDS, Identity, and Inscriptions of Gender, in «Camera Obscura», n. 28, gennaio 1992, p. 27.
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segnata da spaccature e lesioni, ferite e piaghe»*. I referti medici avvertono della vulnerabilità della donna in molti siti: Nel caso di un rapporto sessuale durante il periodo mestruale, ad esempio, il virus potrebbe invadere il suo corpo attraverso il sangue; a volte, durante la mestruazione, i vasi sanguigni disgregati sono aperti ai microrganismi come un taglio nella pelle [...]. In seguito all’uso di contraccettivi orali e durante la gravidanza la membrana cellulare della cervice uterina, lo stretto collo dell'utero, può diventare fragile e sgretolarsi; ivasi sanguigni, spesso aperti durante il rapporto, sono una via d’accesso simile a quella che si presenta nel rapporto anale”.
È chiaro il legame tra il corpo poroso della donna, solcato da aperture, e il corpo maschile omosessuale, che permette un uso «improprio» delle aperture del corpo. Il quadro si complica ulteriormente quando il modello del self ben difeso viene analizzato con maggiore attenzione. L'immagine della madre che «tollera» il feto o gli «permette» di vivere potrebbe venire soppiantata da un'immagine diversa, che ha iniziato a prendere piede a partire dalla metà degli anni ottanta. Secondo questa
nuova
concezione,
il feto «è visto
[...] non
come
un
passeggero inerte durante la gravidanza, ma, piuttosto, in posizione di comando su questa [...]; è il feto a risolvere i problemi immunologici sollevati dal suo intimo contatto con la madre»?. Come osserva Sarah Franklin, «l’enfasi non è tanto sul feto come essere separato e indipendente, quanto sulla sua capacità di controllare la madre, invece che di essere controllato da lei». Nell’utero il feto diventa un «piccolo comandante» e la madre semplicemente un’«ospite» inerte. «Alla madre è ingiunto di accettare l'embrione autoallogenico e di non rigettarlo»?. «Dal punto di vista immunologico il feto, con i suoi alloantigeni paterni, può essere considerato un omoinnesto riuscito, residente nell’ospite che è la madre»®. Quando mi sono resa conto che stava avvenendo questo cambiamento di prospettiva, mi è tornato alla mente quanto di analogo era
6 Ibid., p. 27. T Ibid., p. 28. 78 Findlay, citato in Franklin. ? JJ. Stern-C.B. Coulam, Current Status of Immunologic Recurrent Pregnancy Loss, in «Current Opinion in Obstetrics and Gynecology», 5, 1993, p. 252. 80 C.Y. Lu, Pregnancy as a Natural Model of Allograft Tolerance, in «Transplantations», 48, n. 5, novembre 1989, p. 848.
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successo per l’uovo e lo sperma. In quel caso l’immagine classica era quella di un uovo inerte, passivo e debole, mentre lo sperma era forte, attivo e potente. Nuove scoperte, che hanno recentemente rivelato come in effetti l’uovo non sia passivo, hanno portato a nuove rappresentazioni e il debole uovo di una volta è diventato un essere pericoloso e ostile, che, come un ragno nella sua ragnatela appiccicosa, aspetta di ingoiare e divorare lo sventurato sperma. In questo caso l'immaginario è passato velocemente dall’uno all’altro di due opposti stereotipi femminili, deboli donzelle addolorate da un lato e terribili mostri mangiatrici di uomini dall’altro. I cambiamenti in atto nell’immunologia del feto vanno nella direzione opposta, dalla figura della madre terribile, «mangiatrice di feti», a quella di un passivo recipiente. In tutti questi scenari ho l'impressione che il problema effettivamente in discussione sia quello del se/f maschile e ben difeso. Sarah Franklin sostiene che l'indipendenza del feto dalla madre è un aspetto dell’«individualismo patriarcale»: Il potente impulso a formare il feto come persona, in termini di separatezza, indipendenza e individualità, deve essere visto in relazione a questi requisiti psichici, caratteristici dell’individuazione e della formazione dell'identità maschile «di successo».
Lo stesso termine «individuo», cioè «che non può essere diviso», sembra escludere le donne dal prender parte a divenire qualcosa «che non può essere diviso», in quanto «il processo che ha luogo durante la gravidanza è proprio quello di un individuo che ne diventa due. La gravidanza è per l'appunto questo, un corpo che diventa due corpi, due corpi che ne diventano uno, l’esatta antitesi dell’individualità». Donna Haraway spiega perché le donne abbiano avuto così tante difficoltà a farsi valere come individui nei discorsi occidentali contemporanei. La loro personale, limitata individualità è compromessa dall’inquietante capacità dei loro corpi di creare altri corpi, l’individualità dei quali può avere la precedenza sulla loro*!.
Aggiungerei che non è solo la maternità, ma lo stato di salute stesso delle donne e il loro insuccesso, sotto molti aspetti, nel 81 D. Haraway, The Politics of Postmodern Bodies: Constitution of Self in Immune System Discourse, in Simians, Cyborgs and Women, New York, Routledge, 1991, pp. 203-230.
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DEL
CORPO
MATERNO
raggiungere il modello maschile del se/f come castello ben difeso, a produrre questo risultato. Sia che perda liquidi attraverso canali o membrane (che, nello stesso tempo, permettono la penetrazione dell’estraneo nel corpo), sia che permetta al corpo di rivoltarsi contro se stesso, questo se/f poroso, ibrido e disordinato è l’antitesi dell’uomo sprezzante della copertina di Nilsson. Resta da vedere se modelli diversi del corpo, che pure esistono in immunologia, nei media e nella cultura popolare — il corpo come sistema complesso profondamente inserito in altri sistemi complessi, il corpo come «onde» o come «danza» — eviteranno gli elementi di maschilismo presenti nel modello del se/f ben difeso, oppure li iero anno in altro modo; ma di questo si discuterà in altra sede.
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ESSERE MADRI NEL XVI SECOLO. CATERINA DELL’ANGUILLARA E GERONIMA VERALLI: DUE VICENDE E ALCUNI INTERROGATIVI di Marina d’Amelia
Ho fissato la mia attenzione su due vicende familiari del tardo xvI secolo che hanno al centro due nobili romane, Geronima Veralli
e Caterina dell’Anguillara che fanno del loro essere madri il fondamento di scelte e comportamenti in contrasto con le aspettative parentali, oltre ad usare il legame con i figli come strumento di pressione per orientare la politica familiare e per rivendicare una certa autonomia decisionale. A colpirmi e ad interessarmi è stato, all’inizio, il dato di diversità presente in queste vicende e in questi profili femminili rispetto alle esperienze storiche della famiglia nobile dell’epoca, così come ci sono state presentate in questi anni da storici e storiche. Obiettivo non secondario è diventato, quindi, quello di interrogare la capacità interpretativa dei modelli e delle categorie di analisi con cui si è analizzata finora la famiglia nobile nella età moderna. Le due vicende, per le forme che assume il ruolo materno e per i processi interni alla famiglia che ci rivelano, sollevano molte questioni: dal ruolo condizionante che possono giocare le donne nella politica familiare al problema della incidenza della linea materna nel contesto delle strategie familiari, per arrivare infine agli elementi
peculiari che contraddistinguono in questa età il ruolo e le condotte materne. Tutti temi, come si vede, non inediti nella ricerca degli
ultimi anni!. Storici e storiche hanno cercato di cogliere l'emergere ! Mi riferisco soprattutto, per quanto riguarda le ricerche inglesi e americane, a V. Fildes (a cura di), Worzen as Mothers in Pre-industrial England, London-New York, Routledge, 1990; C.W. Atkinson, The Oldest Vocation Christian Motherbood in the Middle Ages, Ithaca-London,
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di un ruolo, inizialmente proposto come figura morale, interrogandosi nel contempo sull’estendersi della relazione madre-figli, nel quadro delle società d’ancien régime che, per essere caratterizzate da esposizioni, baliatico e da un alto tasso di donne morte per parto, sembrano afflitte da un fenomeno di «separazione di massa» dei figli dalle madri?. Un punto di vista sembra condiviso, pur nella diversità di indagini, da questa nuova stagione di studi: un processo di rafforzamento ha investito la figura della donna come madre in un mondo qual è quello del passaggio tra medioevo ed età moderna. Questa osservazione deve accompagnarsi ad un aggiustamento: il nuovo spazio concesso alle madri riguarda il piano della esperienza, delle mentalità, del dibattito intellettuale non certo quello dei principi giuridici che continua a riservare ai padri una posizione di dominio indiscussa sul mondo e sui propri figli mentre rende la madre figura incerta sul piano del riconoscimento dello status e dei diritti. Molti i fattori che concorrono alla valorizzazione dell’esperienza materna e del ruolo delle donne nella famiglia: dalla sempre più articolata caratterizzazione della figura della madre nella socializzazione dei figli proposta da trattatisti e pedagoghi cattolici all’orientamento espresso da alcuni Tribunali dei Pupilli, — come quello recentemente analizzato da G. Calvi per la Toscana Granducale tra Cinque e Settecento?, — che tendono ad affidare i figli orfani alla madre piuttosto che alla linea paterna; per finire al diverso rilievo attribuito dagli ordini cavallereschi alla nobiltà della donna, e della linea materna più in generale, nelle prove di nobiltà‘. Insomma, se è Cornell University Press, 1991 e Your Servant, My Mother: the Figure of Saint Monica in the Ideology of Christian Motherhood, in C.W. Atkinson, C.M Buchanan, M.R. Miles (a cura di), Immaculate and Powerful. The Female in Sacred Image and Social Reality, Boston, Beacon Press, 1985; L.A. Pollock, A Lasting Relationship. Parents and Children over Three Centuries,
Hannover, University Press of New England, 1987; B. Hanawalt, Childrearing Among the Lower Classes in Medieval England, in «Journal of Interdisciplinary History», n. 8, 1977. Per quanto riguarda le indagini che si riferiscono alle diverse realtà italiane, queste ultime saranno prese in esame più avanti, nel corso della trattazione. ? Cfr. G. Levi, Centro e periferia di uno stato assoluto. Tre saggi su Piemonte e Liguria in età moderna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1985, p. 179. 3 Cfr. G. Calvi, Il contratto morale. Madre e figli nella Toscana granducale, Roma-Bari, Laterza, 1994. 4 Cfr. A. Spagnoletti, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta nell’Italia moderna, Roma, École
Frangaise, 1988; F. Angiolini, La «nobiltà imperfetta»: cavalieri e commende di S. Stefano nella Toscana moderna, in M.A. Visceglia (a cura di), Signori, patrizi e cavalieri nell'età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1992. Nel caso di Napoli anche per essere ascritti al gruppo nobiliare era indispensabile la nobiltà del lignaggio materno oltre che paterno. Questo almeno a partire
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vero che non sono poche le donne che, anche prima del Cinquecento, hanno avuto nelle loro mani la gestione della casa e del patrimonio, e forse anche il destino dei figli, in conseguenza delle morti precoci o dell’assenza prolungata dei padri, e che l’attivazione della parentela materna nell’ammissione dei figli nella sfera pubblica fa parte di atteggiamenti aristocratici diffusi’, è a partire dalla fine del Cinquecento che più ampi ed incisivi diventanoipunti di forza per una nuova considerazione del ruolo e della figura materna. L’esigenza di studiare più da vicino la maternità come esperienza interiorizzata e costruzione sociale ha in molti casi avuto un esito imprevisto: si è trasformata in un riaccreditamento, venato di tinte neofunzionaliste, della famiglia come complesso organico; dove il più delle volte le identità distinte, la rimessa in discussione degli individui e il continuo riordinamento della rappresentazione della famiglia e dei gruppi parentali vengono lasciati ai margini. La gran parte degli scenari evocati dalle indagini sulla politica familiare dell’aristocrazia italiana nel Seicento sottolineano infatti di preferenza la spinta alla collaborazione che si instaura tra ruoli maschili e ruoli femminili nelle strategie familiari. Leggendo molte delle pagine dedicate alle possibili forme di una presenza femminile nelle strategie della famiglia, nei progetti di ascesa come nell’integrazione dei più giovani nella comunità politica, si ha spesso l’impressione di muoversi entro un orizzonte nel quale sono le complementarietà tra uomini e donne ad emergere in primo piano; queste famiglie sembrano essere composte più che da individui da segmenti che, si chiamino padri o madri, fratelli o sorelle, o linea materna o linea paterna, si ricompongono all'occorrenza come un tutto. In molti casi il vero tema dell’indagine sembra essere la condivisione di norme e strategie comuni in un mondo organizzato, dove poco spazio hanno dalla riforma del 1520, come dimostra G. Vitale, nella sua analisi su La nobiltà di Seggio a Napoli nel basso Medioevo: aspetti della dinamica interna, in «Archivio storico per le Provincie napoletane», Cvi, 1988. DMEtraSÌ Chojnacki, Kinship Ties and Young Patricians in Fifteenth Century Venice, in «Renaissance Quarterly», 38, 1985.
6 A titolo esemplificativo ricordo R. Ago, Carriere e clientele nella Roma
barocca,
Roma-Bari, Laterza, 1990 e Giochi di squadra: uomini e donne nelle famiglie nobili del XVII secolo, in Visceglia, Signori, patrizi e cavalieri, cit., S. Cabibbo-M. Modica, La santa dei Tomasi. Storia di Suor Maria Crocifissa (1645-1699), Torino, Einaudi, 1989. Proprio per la maggiore
sensibilità che mostrano questi studi nei confronti del ruolo svolto dalle donne nelle strategie della famiglia, più accentuato appare il ricorso al paradigma della complementarietà tra i sessi ed alla visione della famiglia come complesso organico.
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la frammentazione, il disordine, il dissidio o le disposizioni interne dei singoli. La stessa analisi dell'incidenza avuta dalla linea materna nel deter-
minare esistenza e progettualità familiare sembra intervenuta al momento opportuno a consolidare questo modello di perfetta sottomissione dei singoli ai criteri del gruppo. Molte di queste analisi tendono poi a convergere nel suggerire che i fattori cruciali affinché lo status di madre venga rispettato siano essenzialmente due: l’attiva cooperazione offerta dalle donne alle strategie familiari ed il loro ruolo di mediazione tra gli affini. La legittimità dello status materno e la possibilità di esercitare influenza per la madre sarebbero in sostanza modellate dal radicamento nella sua famiglia d’origine e vincolate al grado di identificazione espresso con i percorsi familiari che prevedono — si badi bene — l'armonizzazione delle strategie di due sistemi familiari. Il rischio che in questa linea di ricerca la madre sia una semplice comparsa di una politica che si svolge intorno a lei, — si tratti di sostenere le ambizioni familiari o di indirizzare verso la
vita adulta un figlio o una figlia, — mi sembra tutt’altro che infondato. Non sono convinta che quello restituitoci sia l’unico quadro possibile della realtà e dei condizionamenti che hanno contato, ovviamente
nell’età che qui ci interessa, ai fini di un’integrazione della figura materna nel patrimonio simbolico della famiglia. Non ci si può aspettare che il meccanismo degli scambi e della reciprocità abbia sempre funzionato. Le divisioni interne alle famiglie, la riluttanza degli individui ad accettare le strategie comuni erano altrettanto frequenti delle azioni concertate, degli intrecci, delle alleanze. Gli stessi elementi che hanno favorito tra la nobiltà europea la conservazione di un’attenzione economica specifica ai rapporti bilaterali - penso al rafforzamento dei vincoli tra marito e moglie e alla possibilità per la donna di ricevere eredità non solo dai genitori ma anche dal marito, — sono all'origine di molte tensioni”. Cosa succede allora quando per ragioni diverse non è più possibile coniugare gli interessi tra due famiglie e il «gioco di squadra» sembra impossibile? Quando ad esempio vengono a mancare le solidarietà e i supporti offerti alla donna dalla linea materna? Quando la mediazione non è più perseguibile e la pressione a scegliere tra l’uno o l’altro fronte si fa stringente? ? Cfr. J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 21.
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Dobbiamo pensare che in tutti i casi in cui vengono a mancare uno o più fattori di quei presupposti a cui si è affidata la formazione e l’esplicitazione dello status materno o nelle crisi di instabilità, o nei circuiti di liti e vendette, non sia esistita per le donne alcuna possibilità di esprimere e di affermare il loro status di madri? È sul terreno di questi interrogativi che vorrei spostare l’attenzione. Presentando due casi che ci consentono di rispondere ad alcune domande: dove si collocano le donne in contesti dove ad emergere non è la conciliazione ma al contrario il conflitto? Quali rapporti intrattengono con l’uno e con l’altro fronte familiare? Quali possono essere le scelte d’azione? Le esistenze di Geronima Veralli e di Caterina dell’Anguillara sono un documento chiave del tipo di influenza che hanno avuto alcune nobili nella seconda metà del xvi secolo e nello stesso tempo offrono un chiaro esempio di come il ruolo materno possa interferire con le strategie familiari o diventare agente di spinte centrifughe. Nel caso di queste due donne il percorso di individuazione e di rafforzamento dell’esser madri non si appoggia alla strada dell’integrazione e della cooperazione rispetto alle strategie familiari ma segue al contrario la via della contrapposizione e della differenziazione. Caterina dell’Anguillara e Geronima Veralli condividono non solo la medesima collocazione sociale ma mostrano anche una sostanziale affinità di sguardo in merito alla dinamica familiare in cui vivono: ambedue fanno parte delle frange di una nobiltà impoverita che ha nella seconda metà del Cinquecento perso slancio e in cui le donne devono puntellare le poche risorse disponibili con loro beni dotali oppure con una prudente amministrazione.
In queste frange nobiliari la progettualità familiare è la prima a risentire della diminuzione di reddito che caratterizza la base economica della famiglia. Non meno insanabili appaiono i punti di frizione tra cognati e altrettanto compromessa è la solidarietà all’interno del gruppo parentale paterno, tra l’uomo e i suoi fratelli prevale infatti la competizione. Sia Geronima Veralli che Caterina dell’Anguillara si trovano quindi a svolgere una funzione di supporto e di guida in
nuclei familiari dove l'autorità patrilineare, il ruolo di sorveglianza morale sull’educazione dei figli e il ruolo di progettazione dei destini familiari da parte del capofamiglia sono assai deboli. Ramberto Malatesta, il marito di Geronima Veralli, è quasi sempre assente, lontano da casa non diversamente da Stefano Margani, marito di Caterina. Prima di entrare nel merito delle vicende, un ultimo punto,
relativo alle fonti che ci consentono di ricostruire l’esistenza delle due 141
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MADRI
donne. La documentazione proviene in un caso dalla corrispondenza, nell'altro dalle deposizioni rilasciate dai protagonisti stessi nel corso di un processo. Una documentazione,
come si vede, non
omogenea e su cui a lungo si è esercitata l'accortezza metodologica degli studiosi. Attraverso le sue lettere Geronima Veralli parla in prima persona, ci chiama dentro la sua esistenza, ci offre una visione quanto mai dinamica dei suoi rapporti con il marito, con i figli, con i fratelli e con il cognato. Il contesto dell’inchiesta giudiziaria a cui è affidato il compito di restituirci la voce di Caterina dell’Anguillara e di suo figlio rappresenta un quadro efficace delle tensioni e delle violenze tra ramo paterno e ramo materno che possono scuotere in questa età le famiglie, e degli effetti perversi a cui può arrivare l’influenza materna; un simile contesto riduce tuttavia le iniziative e
le scelte individuali entro i precisi interrogativi dettati dall’indagine giudiziaria. Della ricchezza di punti di osservazione sul rapporto che madre e figli intrattengono ne fissa solo alcuni. DA
ROMA
ALLA
ROMAGNA:
GERONIMA
VERALLI
Le donne cinquecentesche, comunque si comportassero, non trovavano agevole mettere per iscritto la loro esperienza di vita. Geronima Veralli rappresenta, con le centinaia di lettere inviate ai fratelli e parenti nel corso della vita, una straordinaria eccezione a questa ritrosia e difficoltà?. Esponente di una piccola nobiltà provinciale che ha fatto fortuna grazie alla carriera in Curia di alcuni suoi esponenti, Geronima si sposa nel 1572 con Ramberto Malatesta, un piccolo feudatario assai più anziano di lei, soldato di ventura espressione dell’insubordinazione feudale contro il papa, in contrasto politico a partire dal 1585 8 Le lettere al fratello Giovanni Battista della Signora Gironima sono conservate, come tutte le carte che si riferiscono alla famiglia Veralli, nell’Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR) Archivio Spada Veralli, b. 465. Per quanto riguarda il processo che coinvolse nel 1568 Caterina dell’Anguillara, suo figlio Giacomo Margani e il secondo marito Bandino Piccolomini cfr. AsR, Tribunale criminale del Governatore, Processi, 1568, b. 129. ? Per molti versi il destino di Geronima Veralli può essere utilmente messo a confronto con quello di J. De Laurens, una dama provenzale, nata nel 1563 che scrisse la storia della sua famiglia. Vuoi perché nell’uno e nell’altro caso storia ed avvenimenti sono ripercorsi da un soggetto femminile, vuoi per alcune sintonie di fondo che traspaiono nella mentalità delle due donne. Cfr. C. De Ribbe (a cura di), Une farzille au XVII: siècle d’après des documents originaux, Tours 1879.
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con Sisto v; contrasto che culminerà nel 1587 con la condanna alla
decapitazione dell’uomo. Dopo il matrimonio la donna si trasferisce in Romagna, nei feudi del marito e tra il 1572 e il 1583 dà alla luce quattro figli, un maschio e tre femmine. Lontana da casa e legata a un uomo per il quale non proverà che paura e risentimento, l’esistenza di Geronima è stretta nelle maglie di duri condizionamenti economici.
Madre e figli sono costretti a vivere per lunghi periodi in luoghi isolati, la gran parte del tempo privi della presenza del padre, con l’unica compagnia rappresentata da contadini e vassalli. Sotto la pressione delle circostanze la donna finirà col trascorrere accanto ai suoi figli un tempo maggiore di quanto fosse di solito consentito alle sue pari grado dagli obblighi sociali e di cerimonia imposti dalla vita nelle città. Il risultato è una presenza materna centrale e costante e una acuita consapevolezza, testimoniata da alcune lettere, degli ele-
menti di dipendenza che legano madre e figli. La Veralli si sente in molte circostanze sopraffatta dalla responsabilità che su di lei ricade: l’accudimento dei figli unito al governo della casa. Frequenti sono gli scontri tra moglie e marito a partire proprio dalla diversa concezione che oppone i due coniugi su cosa volesse dire assunzione della responsabilità familiare: del Signor Ramberto gli scrissi che voleva io mi partissi di qui [...] — scrive dunque Geronima nel 1585 — et io li ho risposto che non posso andare dove lui vorria stante, che non ho appena modo di vivere qui così meschinamente come vivo, che molto meno potrei vivere altrove dove ci vole meglior modo [che] non ho io a governar questa famiglia, udito questo, non mi ha più voluto dare risposta per quanto lettere da poi gli habbia scritto, di modo che lui non scrive et io non scrivo parimenti!!.
Il contrasto sotterraneo che oppone Geronima al Malatesta su alcune scelte di fondo si trascinerà fino alla morte del marito. Né, mi sembra, viene contraddetta dalla mobilitazione mostrata dalla Veral-
li alla vigilia dell'esecuzione del Malatesta, nei mesi drammatici della 10 In mancanza di una biografia aggiornata su questo personaggio emblematico, alcuni
accenni sui principali avvenimenti della vita sono contenuti in Litta, Farziglie celebri italiane, Malatesta di Rimini, Linea dei Marchesi di Roncofreddo e Montiano, tav. xx. Sugli antefatti della cattura di Ramberto Malatesta nel 1587, sulla crisi sorta tra Sisto v e il Granduca di
Toscana a proposito dell’appoggio offerto da quest’ultimo al nobile e infine sul processo e la relativa condanna cfr. I. Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo nello Stato Pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1985. 1 Cfr. asr, Archivio Spada Veralli, b. 465, lettera del 14 settembre 1585.
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cattura e del processo. In quell’occasione, infatti, si trattava di arginare i contraccolpi che la condanna avrebbe provocato, — in primo luogo la confisca dei beni che sotto Sisto v colpiva tutti i nobili accusati di banditismo, — e di lottare per il proprio futuro e per l'onore dei figli — «saranno quelli [che] all’ultimo porteranno tutta la pena»! — non meno che per la vita del marito. Una conferma di quanto poco ricomponibile fosse la sua contrapposizione agli ideali di vita espressi dal marito la troviamo in un commento che segue di poco la morte del Malatesta e in cui appare in tutta evidenza il distacco dagli ideali del nobile guerriero, la difficoltà quindi di guardare all'esistenza del marito come ad un modello ancora proponibile nel futuro: l’esempio del mio meschino deve essere sempre avanti alli occhi di quanti lo conoscevano che per non haver voluto far professione di cosa buona s'è ridotto sotto la mannaia”.
Nell’universo mentale di questa donna esistono, dunque, precisi criteri per distinguere tra «buoni e crudeli mariti» così come tra «buoni e cattivi fratelli». Fino al 1587, anno della morte di Ramberto Malatesta, la vita di Geronima non si distingue probabilmente da quella, laboriosa e assai poco piacevole, condotta da altre nobildonne che si trovano a dover far fronte da sole all’accudimento dei figli e all’amministrazione delle risorse familiari. Prezioso appare essere nelle aspettative di questa donna il sostegno che dovrebbero darle i fratelli. Più o meno regolarmente, all’inizio di ogni estate il fratello maggiore Giovanni Battista si reca in Romagna
per farle visita. Nonostante
questa
abitudine e complici le difficoltà economiche che angustiano i Veralli nel Cinquecento, l'appoggio che proviene dai fratelli è però pieno di inadempienze sul piano materiale dei diritti di Geronima, a cominciare da quello della mancata liquidazione della dote a dieci anni di distanza dalla celebrazione del matrimonio. La prima ad essere consapevole di quale vuoto involucro potessero rivelarsi le «premure» del fratello è la stessa Geronima. Gran parte della sua comunicazione con il capofamiglia costituisce 12 Cfr. ibid. lettera 26 aprile 1586. 13 Cfr. ibid. lettera del 2 aprile 1588. 14 Cfr. M. d’Amelia, Una lettera a settimana. Geronima Veralli Malatesta al Signor fratello
1575-1622, in «Quaderni Storici», n. 83, agosto 1993.
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un atto d’accusa alla politica familiare, dove le sue esigenze o quelle dell’altra sorella Olimpia saranno le prime ad essere sacrificate. Fortunatamente per noi la donna è una lucida interprete sia del carattere di artificiosità inerente all’appoggio fornito dai suoi che della debolezza della sua posizione nei confronti dei parenti del marito. «Bisogna andar cauta e segreta perché sono nelle forze loro», ripete di frequente!. Dal 1587 Geronima è dunque vedova e deve fronteggiare il cognato, il marchese Giacomo, che le contesta il pieno possesso dei beni del marito in nome della liquidazione della dote mai compiuta da parte della famiglia Veralli. Nel 1594 si prospetta, caldeggiata dai fratelli della donna, l'opportunità di risposarsi. Serio ostacolo al compimento delle trattative matrimoniali è la presenza di due figlie ancora bambine ed uniche sopravvissute dei quattro figli nati da Ramberto Malatesta. (Nel 1589 muore infatti l’unico figlio maschio Giovanni, morte a cui fa seguito nel 1592 quella della figlia Giulia). Poiché Geronima non può fornire loro una dote e scarse sono anche le prospettive che un aiuto alla dotazione possa venire dai parenti paterni — considerato lo
stato di tensione che oppone la donna al cognato, — sulle due bambine grava un incerto futuro. Un frate che funge da intermediario, in una lunga lettera inviata a Geronima, suggerisce il modo di uscire dallo stallo che si è creato: mettere le figlie in convento. Il
frate perora la soluzione di un secondo matrimonio in vari modi: ricordando alla donna la sua giovinezza — «è ancora tanto giovane e atta a far figliuoli», — e le difficoltà del futuro, «stare sotto a questo pericolo di avere a curare zitelle, che sono cose tante pericolose et massime dove non vi è governo d’huomini o capi di casa»; infine mettendola in guardia dal demonio «che sotto pretesto de amore materno impedisce le sante e prudenti opere». La risposta della Veralli al fratello in merito alla soluzione che si va prospettando, risposarsi dopo aver sistemato in qualche modo le figlie in convento, è breve ed inequivocabile: All’altro particolare di che me scrive [del matrimonio], per non mi allungar troppo, brevemente in risposta le dico che quando benanco 15 Cfr. asr, Archivio Spada Veralli, b. 465, lettera del 27 giugno 1591.
16 Anche questa lettera di perorazione del religioso, che vuol mantenersi anonimo, fa parte della raccolta delle lettere di Geronima al fratello, inclusa tra la lettera dell’8 aprile 1594 e quella dell’8 maggio 1594.
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cotesto cavalier me dotasse di 20 mila scudi e non che si contenti di non voler dote come la scrive, non saria mai possibile chi io potesse contentarmi de scastrarmi l’anima dal corpo, così dico poi, che l’anima mia sono queste due figlie le quali [es]sendo piaciuto al Signore di lassarmele dopoi et lungo travaglio nell’allevarle, non sia che li piaccia mai che per qualsivoglia gran comodo mio particolare ben vegga da me separate. Concludo insomma, che mentre io non posso tener le mie figlie con me non solo non sono per remaritarmi; ma se me fusse lecito dire non mi curarei anco della vita”.
Le ragioni che spingono una madre a rifiutare un nuovo matrimonio, se questo è in contrasto con il suo attaccamento per i figli e con i progetti che nutre per loro, trovano qui un’adeguata spiegazione. La generazione delle madri di donne come la Veralli avevano accettato senza protestare la soluzione di un secondo matrimonio, qualora fosse stato deciso dal padre o dai fratelli, con il sacrificio implicito della rinuncia ai figli. Era questa l'atmosfera in cui la stessa Geronima era cresciuta, l’amosfera delle «madri crudeli», di cui parla Ch. KlapischZuber'8. Colpisce che la stessa donna nel 1594 si distacchi da questa tradizione e giunga a prendere una precisa posizione contro i valori dominanti del suo ceto. La decisione di porre le prerogative materne al primo posto presa da Geronima, non vi è dubbio, vien mal digerita dai fratelli Veralli. Come aveva ben visto il frate che si era fatto mediatore della proposta matrimoniale, numerosi sono per una donna i rischi di vivere dove non vi è «governo di uomini». Negli anni successivi, i segnali che provengono dalla Romagna in merito sia al comportamento tenuto dalla donna, che ai mezzi impiegati dal marchese Malatesta per avere la meglio sulla cognata, non sono certo fatti per tranquillizzare gli animi. I sintomi principali dell’inasprimento che caratterizzerà negli anni successivi la lotta tra la Veralli e il cognato sono i tentativi fatti dal Malatesta, da un lato, di screditare la moralità della donna, dall’altro, di guadagnare alle ragioni della linea paterna le nipoti. Soprattutto a quest’ultimo aspetto rivolgerò la mia attenzione, poiché mi consente di affrontare un altro tema, anche questo tenuto ingiustamente in ombra: il posto che hanno i figli nelle contese familiari. 7 Cfr. ibid. lettera del 29 marzo 1594. !8 Cfr. Ch. Klapisch-Zuber, La madre crudele.Maternità, vedovanza e dote nella Firenze dei soi XIV e XV, ora in La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari, Laterza,
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Gli avvenimenti che si succedono tra il 1592 e il 1596 in Romagna si prestano infatti ad essere descritti come una lotta senza quartiere tra linea materna e linea paterna; una lotta che fa dei figli, non meno che dei beni, una posta in gioco di tensioni e rivalità. Nel gennaio del 1599 vi è il tentativo di intimidazione fatto da Giacomo Malatesta per trascinare dalla sua parte le nipoti. Il marchese dunque — scrive Geronima al fratello — ha fatto sapere in giro che chi vuol essere del suo non pratichi con me né vengano dove io sia altrementi non li vole per amici né parenti; et alle figliuole mie ha fatto dire e sapere tutto questo con mille malignità contra di noi, che loro [le figliuole] non si diano fastidio perché lui quello che cerca [di] acquistar da me [...] lo vol per loro e che sempre saranno figliuole con molte altre malignità et in particolare che non si lascino trattare di maritarle senza lui perché lui li guasteria e gli ne succederia poco bene e che gli faccino saper l'animo loro”.
Il Malatesta usa, lo capiamo, argomenti prevedibili: l’incerto futuro che aspetta le giovani accanto ad una madre con pochi mezzi, il pericolo che può loro derivare dall’identificarsi con la posizione della madre, la mancanza di alternative, l’interesse, quindi, ad avere come protettore lo zio paterno. Non molto diverse saranno, come vedremo nel secondo caso che presenterò, le argomentazioni usate da Giovanni Battista Margani nell’invitare il nipote Giacomo ad agire contro la madre. Il tentativo di dividere le figlie dalla madre, spezzando così il morale della Veralli col privarla della fiducia e dell'appoggio delle figlie, è destinato al fallimento. Le minacce dello zio non modificano in nulla la posizione delle due giovani che continueranno negli anni successivi a confidare ed appoggiarsi alla madre. Lontana da casa, sposata ad un uomo compromesso con il potere
papale, finito decapitato e nell’infamia, l’esistenza di Geronima Veralli si presta bene a sottolineare tutti quei punti che fanno della famiglia nobile cinquecentesca un luogo molto spesso lontano da quel concerto ordinato di volontà individuali e progetti comuni che amano descrivere alcuni storici; ci mostra nel contempo l’impossibilità per questa donna di riconoscersi appieno nelle ragioni dell’uno e dall'altro fronte familiare e ci rende evidente come da questa 19 Cfr. AsR, Archivio Spada Veralli, b. 465, lettera del 30 gennaio 1599.
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impossibilità possa nascere la spinta a porre la responsabilità materna al di sopra di tutte le altre esigenze: se non mi trovassi queste tante figliuole femmine alle spalle in aiuto e sostegno delle quali per carità son prima obbligata, gli vorrei far vedere con effetto quanto gli amassi — scrive al fratello nel 1591 - ma trovandomi gravata come mi trovo non solo mi pare dovere di cercar d’havere il mio da loro e da ogni persona”.
Dal conflitto e dalla impossibilità di trovare un punto di equilibrio nelle relazioni familiari nasce, dunque, il discrimine e la differenziazione: né con l’uno né con l’altro fronte familiare.
UNA
DONNA
DI
MALAVITA;
CATERINA
DELL'ANGUILLARA
L'alternativa dell’adesione o dell’opposizione all’uno o all’altro fronte familiare da parte dei figli appare centrale anche nel secondo esempio che qui vorrei portare, quello relativo alla famiglia Margani. Grazie agli interrogatori del processo qui la prospettiva scelta per raccontare gli avvenimenti è quella delle reazioni e delle prese di posizione dei figli. In Giacomo Margani, figlio di Caterina dell’Anguillara, incontriamo il medesimo rifiuto di adeguarsi al mondo paterno mostrato dalle figlie di Geronima e Ramberto Malatesta; un rifiuto che segnerà drammaticamente il destino del giovane. Il senso di estraneità verso la famiglia del padre, infatti, porterà il giovane a svolgere un ruolo determinante negli avvenimenti familiari e alla fine a farsi paladino delle vendette materne contro i Margani, per terminare la sua breve vita sul patibolo. Nonostante i titoli di nobiltà che possono vantare, i Margani appaiono a metà Cinquecento prigionieri, in un certo senso, del loro passato. Alla posizione di prestigio di cui godono nella vita sociale di Roma non corrispondono slanci per il futuro; il sintomo più vistoso della decadenza è il distacco della famiglia dai centri del potere. I Margani,
diversamente
dai Veralli, non
intrattengono,
20 Cfr. ibid. lettera del 31 agosto 1591. 2! Per un resoconto più approfondito delle vicende che coinvolgono la famiglia Margani nel Cinquecento cfr. M. d’Amelia, Uno strano caso di violenza nobiliare. L'assassinio di Flaminia Margani nella Roma del Cinquecento, in «Problemi e dimensioni della ricerca storica»
2, 1993, pp. 177-208.
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all’epoca che prenderò in esame, alcun legame significativo con l’ambiente di Curia. Nel 1568, al principio dell’estate, Giacomo Margani è convocato dai giudici del Tribunale del Governatore di Roma che stanno indagando sull’assassinio di Flaminia Margani, sorella del padre, morto a sua volta da alcuni anni. Il carattere del giovane e le tensioni che da tempo lo oppongono alla famiglia paterna ne fanno agli occhi dei giudici il principale sospettato della morte della zia. Anni prima, nel 1559, Giacomo ha fatto un’irruzione violenta, approfittando della libertà concessa in periodo di sede vacante, nella casa di Flaminia «col proposito di ammazzarla»2. Nel corso dei primi interrogatori Giacomo respinge spavaldo le accuse: «Credete pure
che si io fussi stato colpevole della morte di mia zia io non saria stato nelle terre del Papa ma saria andato in luogo che non havria potuto esser pigliato»?. Ma una confessione totale confermerà infine i sospetti contro di lui. Regista e mandante del delitto è, a stare alle parole del giovane, la madre Caterina dell’Anguillara; Giacomo si è limitato a fornire il sicario, giunto a Roma per la circostanza e subito fuggito lontano. Con l’ausilio dato alla progettazione dell’assassinio, Giacomo non ha fatto altro che venire incontro ai desideri della madre, come d’altronde ha fatto anche negli anni precedenti. L’assassinio di Flaminia non è che l’ultimo atto di una tragedia. Tensioni e conflitti scuotono la famiglia da tempo e negli ultimi dieci anni hanno finito col trasformare la convivenza in un circolo di accuse e vendette di ogni tipo davanti ai giudici dei diversi Tribunali. Esistevano in quel periodo due motivi principali di conflitto tra Margani ed Anguillara e ambedue ruotavano attorno alla decisione, manifestata e poi attuata da Caterina dell’ Anguillara, di risposarsi. Il secondo matrimonio, come ben sapevano tutti, avrebbe comportato
la perdita della tutela fino ad allora goduta da Caterina sui figli. Su questo punto non sembra vi fossero state opposizioni da parte della donna. Aveva di buon grado accolto la decisione del giudice di nominare in anticipo Giacomo tutore dei fratelli; il giovane infatti non aveva maturato ancora i venticinque anni della maggiore età. L’Anguillara non aveva però, a quanto pare di capire, l’intenzione di 22 È la stessa Flaminia Margani nell’interrogatorio rilasciato ormai morente al Governatore a ricordare questo episodio: cfr. Ask, Tribunale Criminale del Governatore, Processi, 1568, b. 1292,
3 Cfr. ibid. £. 230.
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rinunciare ad un’altra tutela, quella sul terzo fratello Margani, Paolo, un minorato psichico. Anni prima, quando Stefano era ancora vivo, al momento di suddividere l'eredità i tre fratelli Margani avevano infatti deciso che uno di loro si sarebbe occupato del fratello minorato
godendo dei suoi beni e di un vitalizio. La scelta era caduta su Stefano
e dopo la sua morte la tutela era passata, non senza contrasti, alla sua vedova. La reazione dei Margani ai progetti matrimoniali di Caterina è dunque quanto mai decisa. Nel resoconto offerto da Giacomo, lo zio, non appena informato dei progetti matrimoniali, lo aveva mandato a chiamare da Perugia e gli aveva proposto di uccidere la madre, da solo o con l’aiuto di un sicario, prevedendo allo scopo un rifugio di copertura*. Secondo lo zio il giovane non può chiudere gli occhi di fronte ad un comportamento della madre che danneggia lui e i fratelli, deve quindi comportarsi da «uomo d’honore». Appare evidente come i cognati, per impedire le seconde nozze della vedova, non si fermino allo strumento coercitivo delle normali
procedure legali ma intendano avvalersi, spingendo Giacomo all’omicidio, del codice di onore. La restituzione della dote alla neo vedova costituisce un punto dolente da non sottovalutare, all’origine forse delle molte tensioni sulla moralità di Caterina che si sono verificate anni prima del fatidico 1568. Per vari anni Flaminia Margani, a lato dei problemi della tutela e dell’amministrazione del patrimonio, conduce una dura polemica personale contro i comportamenti trasgressivi della cognata. Ne ho parlato in modo diffuso altrove”. Caterina delAnguillara, secondo quanto la donna denuncia nel 1566 al Tribunale del Governatore conduce «una mala vita»: si èmacchiata di adulterio,
è rimasta incinta, è stata costretta a partorire dopo aver tentato di abortire. Il secondo matrimonio di Caterina infine ha fatto precipitare, come si è visto, le cose radicalizzando definitivamente il conflitto. La proposta di uccidere la madre per motivi di onore non convince il figlio e il rifiuto di Giacomo di farsi parte attiva nella «punizione» della madre come la famiglia paterna auspicava ha anche definitivamente 2 La notizia di questo episodio ci è giunta attraverso l’interrogatorio di Giacomo Margani del 27 febbraio 1565 nel corso di un precedente processo che vede ancora una volta opposte Caterina dell’Anguillara e Flaminia Margani a causa dei due testamenti redatti dalle due donne: cfr. Asr, Tribunale del Governatore, Processi 1564, b. 102, f. 417 ss. 2 Cfr. d’Amelia, Uro strano caso, cit. pp. 187 ss.
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chiarito l'assetto degli schieramenti familiari. C'è una testimonianza esemplare su quali siano i sentimenti di Giacomo Margani a proposito delle questioni che prima del 1568 vedono contrapposte madre e zia ed è rappresentata da una lettera scritta alla Margani dal giovane, dove esprime la sua solidarietà alla madre; una solidarietà che arriverà al punto di sostenere il progetto criminoso di eliminare la cognata. E questo dunque il contesto in cui matura la decisione di Giacomo di farsi paladino della madre. La fine della nostra storia vede Caterina dell’Anguillara, il secondo marito Bandino Piccolomini e il figlio Giacomo condannati a morte. Gli altri figli passano alla tutela di Giulia Corvini, madre dell’Anguillara. Sia pure sul deserto indotto da tante sciagure e morti — nel 1570, dopo la morte di Giovanni Battista, non vi è più nessun Margani in grado di assumere la responsabilità della cura dei nipoti, — è ancora una volta la linea materna a prevalere nella preparazione del futuro dei giovani Margani.
Siamo lontani, per i toni distruttivi e cupi di questa vicenda, dalla strisciante conflittualità del panorama Veralli ma il risultato sembra essere lo stesso: l’identificazione con le ragioni della madre e l’inizio di una sorta di secessione dalla linea paterna.
Nella esistenza di Geronima Veralli e di Caterina dell’ Anguillara il ruolo materno non solo si va ritagliando uno spazio di riconoscimento — ambedue le donne si fregiano, nella rappresentazione di sé che offrono, degli attributi di madri sollecite, — ma soprattutto fa di questo riconoscimento il discrimine attorno a cui far ruotare alcune scelte di fondo. Gli scenari familiari appena ricordati danno vita ad una reiterata complicità tra madre e figli, che si rafforza nella
mancanza di coesione familiare e nello scontro che li oppone alla linea paterna. L’esperienza materna nel quadro di vita di queste due donne segna un netto distacco rispetto agli atteggiamenti tenuti in passato
dalle nobili. L'immagine della condotta femminile che queste storie ci lasciano è infatti ben diversa da quel prudente ruolo di mediazione in cui sembra esaurirsi ogni ambizione di protagonismo femminile nell’ambito familiare, più volte sottolineato da storici e storiche. Si tratta di esempi non atipici anche se, soprattutto nel caso di Caterina dell’Anguillara, un po’ estremi. A differenza di quanto avviene nei modelli tesi a sottolineare la 151
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complementarietà dei comportamenti femminili alle strategie comuni, qui il ruolo materno convive con l’esasperazione dei conflitti, che si può dire contribuisca ad alimentare. L’influenza della madre sembra anzi rafforzarsi nella contrapposizione che si crea tra due famiglie. Le aspettative nutrite dalle madri sui figli, nate nel quadro dell'impegno di accudimento — sia Geronima che Caterina hanno la tutela dei figli — si dilatano dunque al punto da spingere l’immaginazione materna a formulare la possibilità di una manipolazione: l'utilizzazione dei figli come punto di forza nello scontro con gli «avversari» e come mezzo per compensare lo squilibrio a favore della linea paterna. In secoli più vicini a noi ci si imbatte in storie di monopolizzazione dell’esistenza dei figli da parte delle madri un po’ dappertutto. Non così nel Cinquecento dove tutto impedisce che le donne attingano a quella concezione dei figli come prolungamento di se stessi riservata dal diritto romano solo agli uomini. In una società in cui la filiazione ha un accento patrilineare, la pretesa di pensare che il posto dei figli possa essere accanto alla madre costituisce una mostruosità, sia nel senso comune — l’associa-
zione tra ispirazione diabolica e un male inteso senso materno ricordata a Geronima Veralli dal frate che si fa patrocinatore del secondo matrimonio ne è efficace espressione, — che sul piano giuridico. Non minor sorpresa desta, a mio avviso, la decisa dissociazione
dalla logica patrilineare, a favore della scelta e degli interessi delle madri, di Giacomo Margani e delle giovani Malatesta. Per l’appoggio da loro offerto, non ho trovato, infatti, un solo motivo utilitaristico che possa spiegarlo. La carenza di risorse, è evidente, aggiunge una dimensione importante alla polarizzazione che si viene a creare tra i Veralli e i Malatesta e nella convivenza dei Margani. Anche se qui non è stato possibile affrontare i problemi con gli opportuni dettagli. Ad innescare la miccia sono quasi sempre i dilemmi classici relativi alla dote e alla sua restituzione già messi in luce da Ch. Klapisch-Zuber per la Firenze medievale. Un secolo dopo ritroviamo l’antagonismo innescato dai pagamenti dotali come principale banco di prova dell’alleanza tra famiglia paterna e famiglia materna. L’indebolimento economico a cui vanno soggette alla fine del Cinquecento molte famiglie dell’antica nobiltà ripropone questo banco di prova in molti 2
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casi con una drammaticità sconosciuta in passato: «Tirar la dote in spezzumi è la rovina delle donne e degli uomini»* afferma Geronima Veralli, stigmatizzando così quel fenomeno di rateizzare la dote che,
iniziato forse nel 1527 all'indomani del Sacco di Roma, appare una generazione dopo prassi diffusa e radicata nella nobiltà romana”. In molte famiglie con sempre maggiore difficoltà è possibile esprimere una direzione e una strategia familiare che sia garante delle opportunità sociali ed economiche dei singoli membri. Un fenomeno quest’ultimo che non manca di attirare l’attenzione dei contemporanei più preoccupati di rilevare gli effetti che i rapidi processi di mobilità sociale discendente tra gli strati nobiliari stanno producendo nella fisionomia delle élites nobiliari e nel governo cittadino. Una rivoluzione più sottile, meno spettacolare ma non meno significativa della composizione degli organismi di rappresentanza, sta avvenendo nei rapporti tra i sessi: la sospensione di un esercizio di guida all’interno della famiglia si traduce in spazi per l'affrancamento dalla logica del gruppo dei singoli, uomini e donne; favorisce allo stesso tempo le chances di rivincita per tutte quelle donne da cui dipende la sopravvivenza della famiglia. Ci siamo abituati a pensare che l'orizzonte delle possibilità femminili di questa epoca preveda due sole alternative di vita: sotto la tutela di padre e fratelli o stretta nelle maglie della nuova famiglia in cui la donna è entrata per matrimonio. Abbiamo così trascurato di vedere ed interpretare tutte quelle azioni o prese di posizione di non conformità che cercano di rompere questa rigidità esistenziale. Sia Caterina dell’ Anguillara che Geronima Veralli, pur con esiti esistenziali contrapposti — la prima come si è visto si risposa, la seconda rifiuterà un secondo matrimonio, — sono in disaccordo con quanto deciso dalla famiglia e mostrano un’identica riluttanza a ritornare sotto la tutela dei fratelli. Ho l'impressione che mettere meglio a fuoco la posizione delle
26 Cfr. AsR, Archivio Spada Veralli, b. 456, lettera del 24 dicembre 1591.
27 Manca a tutt'oggi un’analisi della politica dotale della nobiltà romana nel Cinquecento che raccolga i diversi spunti e i casestudies in un quadro sistematico. Sul fenomeno del progressivo estendersi della rateizzazione della dote cfr. M.A. Visceglia, Linee per uno studio unitario dei testamenti e dei contratti matrimoniali dell’aristocrazia feudale napoletana tra fine Quattrocento e Settecento, in «MEFREM»,
n. 1, t. 95, 1983, in particolare pp. 456-459 e E.
Grendi, I/ sistema politico di una comunità ligure in «Quaderni Storici», n. 46, 1981. 28 Cfr. C. Donati, L'idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari, Laterza 1988, in
particolare pp. 124-128.
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madri e la nuova forma di coesione che si va stringendo tra una donna e i suoi figli possa confermare questa ricerca di un distacco e di un disimpegno dalla volontà dei parenti. Esiterei a definire questi comportamenti
come
ricerca di autonomia,
anche se lo scopo è
quello di non farsi inquadrare né da una parte né dall’altra, ma mantenere una certa equidistanza dalle politiche familiari. Questo desiderio di equidistanza non deve meravigliarci: è il prodotto della maggiore libertà che sappiamo veniva riconosciuta allo stato vedovile. Sottolinerei anche, nel caso del gruppo sociale che meglio conosco, la nobiltà povera del xvi secolo, l’impatto delle circostanze familiari. L’ambiguità che contraddistingue le relazioni che Geronima Veralli intrattiene con i suoi fratelli è ben lungi dal costituire una eccezione. Sono molte le famiglie nel Cinquecento che offrono a moglie, figlie e sorelle lo spettacolo di inadempienze o di indifferenti latitanze sul piano della trasmissione dei beni e del rispetto dei diritti. Non è infrequente poi che l'appoggio offerto alla donna dalla linea materna si riveli una gabbia altrettanto rigida. Prima che venisse elaborata l’idea di indipendenza, intesa soprattutto come possibilità di scelte personali, comincia ad emergere una inconfessata ma insopprimibile esigenza. Su questo piano gli esempi che si potrebbero fare, oltre quelli qui ricordati, sarebbero assai numerosi. I rapporti di dipendenza tra le donne e i loro parenti possono continuare ad essere molti forti — e il caso della Veralli mostra che sul piano psicologico non vennero mai meno le aspettative di una presenza di solidarietà attiva, — ma è lecito dubitare che il modo di comportarsi delle donne, sempre consapevole degli interessi in gioco tra le due famiglie, abbia come unico scopo di giovare al consolidamento dell’uno o dell’altro fronte familiare. Alcuni colpi inferti alla logica di controllo sulle donne da parte di un non folto drappello di donne più indipendenti in questa generazione ci autorizzano a pensare i rapporti tra i sessi e i termini
della questione sotto una luce nuova? Probabilmente no, il giro di vite imposto dalla Controriforma aggiungerà nel Seicento una sorta di catalizzatore alle forme di controllo o dissuasione nei confronti di ogni presa di posizione non conformista. Ciò che mi sembra importante è saper leggere in alcune esistenze femminili tutti quegli indizi che rendono la famiglia del tardo Cinquecento un luogo ancora segnato con evidenza da identità differenti. Alcune esistenze ci mostrano la contraddittorietà e la confusione spesso inerente alle diverse obbligazioni imposte da due 154
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fronti familiari, i frequenti vuoti di potere e le congiunture sfavorevoli perché si attui una strategia centralizzata. Sono partita da alcuni dubbi sulla capacità rappresentativa di una lettura della dinamica familiare tra Cinque e Seicento che leghi troppo strettamente la genesi dell'importanza della funzione materna al ruolo di mediazione svolto dalla donna nelle strategie familiari. Attraverso due esempi che ci ricordano con forza l’inconciliabilità di una risoluzione dei conflitti all’interno della parentela bilaterale nell’aristocrazia, ho cercato di indicare quanto sia importante considerare altri terreni di indagine. Sono arrivata infine a chiedermi se il ruolo materno abbia potuto rappresentare, per alcune donne e in circostanze determinate, lo schermo entro il quale attuare una scelta di organizzazione di vita secondo modalità distinte sia dalla propria famiglia che da quella del marito. L’uscita dalla insignificanza dello status materno tra Cinque e Seicento, fondata sulla asimmetria di poteri tra padre e madre sancita dal codice romano e ancora vitale nel Cinquecento, non può limitarsi a moltiplicare gli esempi in cui padre e madre o linea materna e linea paterna convivono in reciproca interdipendenza e cooperazione. Questo paradigma, dandolo già per risolto nella complementarietà dei ruoli, porta alla vanificazione del problema storico che qui ci interessa: come, quando e perché è stata riconosciuta nella società moderna occidentale la funzione materna e a questa sono corrisposti non solo un ruolo ma anche il riconoscimento di uno status. Sono
convinta
che sia necessario
tenere
aperto
uno
spazio
concettuale per questi interrogativi. Moltiplicando tanto per cominciare tutti quegli esempi di situazioni familiari in cui interessi, spinte e desideri degli individui non coincidono con una strategia familiare compatta.
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«SENZA SPERANZA DI SUCCEDERE». MADRI, FIGLI E STATO NELLA TOSCANA MODERNA (XVI-XVII SECC.) di Giulia Calvi
Uno dei risultati più interessanti negli studi di storia della famiglia condotti in Italia in questi ultimi anni riguarda il diverso rilievo che hanno avuto, in varie zone del paese, la linea paterna e la linea materna!. Alcune ricerche sociologiche sulle società contemporanee hanno messo in luce come i legami con la parentela in linea femminile siano più forti, e come, nelle società industriali avanzate,
si profili una tendenza alla matrifocalità, allo strutturarsi cioè del nucleo familiare attorno alla figura materna. In questo senso, la famiglia contemporanea sarebbe il punto di approdo di un lento processo di ribaltamento in cui il ruolo della madre avrebbe progressivamente
guadagnato
una
posizione
centrale,
respingendo
quello del padre verso i margini della scena familiare. Il prevalere del ramo materno su quello paterno è stato messo in relazione alla rivoluzione industriale, che avrebbe spezzato il legame di trasmissione verticale fra padri e figli dominante nelle società agricole ed in quelle caratterizzate da forme di ricchezza legate al possesso fondiario. Eppure alcuni studi riferiti all’Inghilterra e ad altri paesi occidentali in età moderna avanzano l’ipotesi che molto prima della rivoluzione industriale il sistema di parentela non fosse a predominanza patrilineare, bensì bilineare, indebolendo perciò la tesi dell’industrializzazione come chiave di volta nel passaggio alla matrilinearita.
1 Si vedano le osservazioni di M. Barbagli e D. Kertzer in M. Barbagli-D. Kertzer (a cura di), Storia della famiglia italiana 1750-1950, Bologna, Il Mulino, 1992, Introduzione, pp. 21-23.
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FARE
LE
MADRI
Per individuare queste strutture di riferimento e supporto — il ramo materno e quello paterno — nella vita delle famiglie del passato bisogna avventurarsi in territori ancora in gran parte da indagare. Le solidarietà, le strategie, i conflitti che coinvolgevano individui e gruppi di consanguinei e di affini che non vivevano insieme, sotto uno stesso tetto, sono sovente taciuti e questa censura si è tradotta in silenzio storiografico. Le fonti che ce ne restituiscono un'immagine non si prestano infatti ad una quantificazione sistematica come quelle finora utilizzate per lo studio delle strutture familiari. Dialogiche, narrative,
raccolgono però le parole — in forma di protesta, supplica, rivendicazione, minaccia — di chi ha vissuto quei rapporti e quelle relazioni. Si tratta dunque di allontanare la storia della famiglia — o meglio delle famiglie — dal predominio della demografia storica, che pur ha dato risultati fondamentali in questi anni, per arricchirla con domande, fonti, problematiche disciplinari diverse. Studi recenti su alcuni gruppi sociali di antico regime hanno individuato i luoghi in cui prevalentemente affiora la configurazione orizzontale dei rapporti parentali, rendendo visibile la presenza del ramo materno: sono i momenti di passaggio di status — la nascita, l’adolescenza, il matrimonio, la morte — in cui individui e gruppi devono varcare una soglia simbolica e sociale che ne minaccia l’identità. In questo senso la crisi aperta dalla morte di un marito illumina una rete parentale femminile altrimenti poco visibile. La bilinearità è qui intesa come supporto fondamentale nel momento — estremamente diffuso e comune — del lutto, di attraversamento di un confine biologico e sociale insieme. L’attenzione ai rapporti che intercorrono fra i due rami, paterno e materno, nelle società di antico regime ha eletto come punto di osservazione privilegiato, la condizione, le prerogative e lo status socio-economico delle vedove nelle città della prima età moderna. Queste donne, spesso madri di diversi figli, esitanti fra la propria solitudine ed un nuovo matrimonio, soggette alle pressioni della famiglia d’origine, dei parenti del marito defunto e dei propri figli, trasformate all’improvviso in capifamiglia responsabili della gestione e dell’amministrazione del patrimonio familiare, attivano strategie, solidarietà e conflitti all’interno del gruppo di consanguinei e di affini di cui fanno parte?. ? R. Wall, Woman Alone in English Society, in «Annales de Démographie Historique», 1981; MT. Lorcin, Veuve noble et veuve paysanne en Lyonnais d’après les testaments des XIV: et XV° siècles, ibid., pp. 273-287; A. Bideau, A Demographic and Social Analysis of Widowhood
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«SENZA
SPERANZA
DI
SUCCEDERE»
La condizione in cui le precipita il lutto consente loro di avvalersi di una serie rilevante di prerogative e diritti strettamente connessi ai
regimi successori e matrimoniali vigenti, le cui variazioni locali e regionali rendono tuttavia impossibile definire tipologie comportamentali precise. Basti per il momento accennare all’area interna al diritto romano in cui, a differenza di quanto avviene per i paesi atlantici di tradizione germanica, le vedove — donne et madonnae secondo una formula risalente al diritto romano — sono prevalentemente usufruttuarie del patrimonio familiare che sarà poi ereditato dai figli maschi. Lo status di usufruttuaria, prevalente in Italia, nell’area mediterranea e in alcune regioni della Francia, è quasi sempre accompagnato dalla clausola, anch’essa risalente al diritto romano, che vieta le seconde nozze, pena la perdita della tutela sui figli e l’usufrutto dei beni. Gli orfani sono tutelati a scapito della madre le cui eventuali seconde nozze incontrano una serie di ostacoli legati sia al recupero della propria dote, che ad un’ideologia religiosa favorevole alla continenza sessuale. A prescindere da queste considerazioni di carattere generale, la mia attenzione è inizialmente stata attratta dalle differenze che connotano l’esperienza materna del passato. Ricostruendo la vita di una vedova fiorentina vissuta fra la fine del xvi secolo e la prima metà del xviI, ero infatti stata colpita dal reiterato proporsi del ruolo materno in quasi tutto l’arco della sua esistenza, dai venti ai and Remarriage: the Example of the Castellany of Thoissey-en-Dombes (1670-1840), in «Journal of Family History», v, n. 1, 1980; J. Dupaquier et 4/. (a cura di), Marriage and Remarriage in Populations of the Past, London, Academic Press, 1981; O. Hufton, Women without Men: Widows and Spinsters in Britain and France in the Eighteenth Century, in «Journal of Family History» inverno 1984; M. d’Amelia, Scatole cinesi: vedove e donne sole in una società d’ancien
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settant'anni. Madre e poi vedova prima dei venticinque anni; di nuovo madre e poi ancora vedova dopo i quaranta, Maddalena Nerli — questo è il suo nome — ormai anziana è nominata tutrice ed accoglie nella sua casa prima otto nipoti (figli di una figlia) e poi tre bisnipoti, orfani anch’essi ed affidati dal Magistrato dei Pupilli et Adulti di Firenze alla custodia della bisnonna. Accanto a questo riproporsi nel tempo del rapporto di accudimento materno, ciò che mi colpiva era la differenza dell'esperienza materna di Maddalena in rapporto al ciclo di vita e quindi all’età. Vedova a poco più di vent’anni la prima volta, è costretta ad abbandonare tre figli piccoli alla famiglia del marito morto, a lasciare la sua casa ed a rifugiarsi presso il proprio fratello. Rimaritata poco più di un anno dopo, Maddalena partorisce altri otto figli e, vedova quarantenne, diventa il punto di riferimento affettivo e decisionale per l’intera rete parentale composta cioè dai figli dei due matrimoni e dalla propria famiglia d’origine. La marginalità dei vent'anni si era trasformata nella centralità dei quaranta, ribaltando un'esperienza di fragilità sociale nella capacità, giuridicamente riconosciuta, di «governo» di tutto il gruppo familiare. Addentrandomi nella pratica del rapporto materno vissuto da Maddalena Nerli, nella sua capacità di costruire e mantenere in vita legami, o invece di incrinarli e viverli in modo conflittuale, osservavo la stessa duplicità: da un lato si profilava infatti un’immagine forte, ancorata al riconoscimento istituzionale del suo ruolo di madre — per decreto cioè del Magistrato che la nomina tutrice ed affidataria dei minori; dall’altro si disegnava un profilo debole, centrato sulla fragilità sociale del ruolo di moglie, trasversale e passaggero rispetto alla struttura verticale delle case e dei lignaggi. Ho perciò posto il passaggio da un polo all’altro al centro della mia ricerca: in che modo la debolezza dello status di moglie si poteva tradurre nella credibilità istituzionale di quello di madre; in che modo la capacità di generare poteva gradualmente dar luogo a un diritto, a una soggettività precisa?
Le madri di cui qui parlerò agiscono dal «margine» della loro vedovanza che le proietta tuttavia nella sfera pubblica delle competenze e dei diritti tutelati e controllati dal Magistrato dei Pupilli. Il rapporto di negoziazione che intavolano con gli ufficiali granducali ha l'intento di mediare conflitti e dirimere scelte e processi decisionali sovente attivati da loro stesse e dai propri figli e coincidenti con alcuni passaggi nodali del ciclo di vita: la tutela al momento della 160
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morte del coniuge; l'affidamento e le scelte educative e finanziarie; l'ingresso nell'età adulta dei minori attraverso il matrimonio o la professione religiosa. Nell’interazione fra Stato, vedove e fanciulli, si profila gradatamente uno spazio neutro, sottratto alla violenza dei rapporti familiari diretti, garantito e tutelato dalla magistratura. È uno spazio d’intimità domestica e affettiva che gli Ufficiali si preoccupano di proteggere, arginando l’invadenza del lignaggio e dei suoi interessi. Ponendo in primo piano l’interesse ed il benessere degli orfani, i magistrati di fatto incoraggiano e rafforzano lo spazio dell’accudimento e della cura, che spesso coincide con quello del nucleo ristretto formato dalla vedova e dai suoi figli. In questo senso la scoperta storiografica dell'amore romantico e della coppia coniugale non sono l’unico traguardo per una storia dei sentimenti e delle relazioni familiari: esiste anche il nucleo madre/figli e la sua capacità di porsi come elemento attivo, di ricostruzione dei legami familiari. Ancora qualche parola sulla tutela, l’accettazione della quale era in realtà il primo passaggio che sanzionava ufficialmente la vedova nella sua qualità di donna et madonna, con tutte le prerogative ad essa inerenti, oppure ne decretava la marginalizzazione, attraverso l'espulsione dalla casa maritale e l'abbandono dei figli, nel caso in cui tutore fosse stato nominato il cognato o, più raramente, il suocero?. Nei conflitti per la tutela la contrapposizione fra ramo materno e paterno è rappresentata, nel linguaggio degli Statuti del Magistrato, attraverso una polarità che oppone la madre ai parenti del marito morto:
«Avolo paterno, madre, avola paterna, zio da
canto di padre o fratello carnale, cugino». Questa divaricazione paradigmatica, esemplare, fra madre e ramo paterno attorno ad una questione tanto complessa, finanziariamente ma anche emotivamen-
te qual è la tutela degli orfani, si presta bene ad una prima verifica di quanto sopra accennato: la struttura formale del patrilignaggio è attraversata da pratiche e comportamenti orizzontali, in cui la funzione ed il ruolo delle donne ne smussano in modo determinante la rigidità. Si tratta qui, inoltre, di una bilinearità non solo affettiva ed
informale, ma, al contrario, misurata in base a prerogative e ruoli il cui peso giuridico e sociale è esplicito ed ufficialmente riconosciuto.
3 Si veda in proposito, Ch. Klapisch-Zuber, La y2adre crudele, in La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari,
Laterza, 1988.
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MADRI
Amministrare un patrimonio ed esercitare le funzioni di capofamiglia sono contrassegni ben visibili di influenza e potere: il diritto romano definiva munus masculorum e onere pubblico la tutela dei minori e la sfera di attività di una vedova tutrice esce perciò dal chiuso dello spazio domestico*. È possibile ricavare qualche dato di contorno in grado di orientare la nostra attenzione verso la pratica giuridica, che, al di là della dottrina, delinea l’effettivo dispiegarsi di alcuni comportamenti tesi a valorizzare la presenza e la funzione materna in direzione di quella rappresentazione forte, istituzionalmente integrata cui accennavo sopra. Fra il 1648 e il 1766, le tutele legittime che prevedono l’affidamento dei minori prevalentemente alla madre o allo zio paterno, sono — sommando Firenze e il suo territorio — 1.503. Qui di seguito espongo i dati che riguardano Firenze: Anni
1648-1766
Tutele alla madre Tutele al ramo paterno
463 117 16 5 1
Tutori non identificati:
allo zio paterno fratello maggiore all’avo paterno all’ava paterna
12
Totali Tutele alla madre
463 (75,4%)
Tutele al ramo paterno
139 (22,6%)
Tutele non identificate Totale tutele
12 (1,9%) 614
Poniamo questo quadro a confronto con i dati relativi alle «Tutele delle eredità fuori Firenze»: Anni
1652-1733
Tutele alla madre Tutele al ramo paterno
620 234 (zio paterno) 20 (fratello/cugino) 15
Tutori non identificati
Db Solo nel Iv secolo, il diritto giustinianeo prevede il deferimento della tutela alle vedove,
cui era stato invece negato dal diritto romano di epoca precedente, cfr. Y. Thomas, La
divisione dei sessi nel diritto romano, in P. Schmitt-Pantel (a cura di), Storia delle donne in
Occidente. L’antichità, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 156-161.
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DI
SUCCEDERE»
Totali Tutele alla madre
620 (69,7%)
Tutele al ramo paterno
254 (28,5%)
Tutele non identificate Totale tutele
15 (1,6%) 889
Complessivamente,
dunque, su 1.503 tutele legittime, 1.083
(72%) sono deferite alle madri; 393 (26,1%) ai componenti del ramo paterno e 27 (1,7%) a tutori non identificati.
Per quanto frammentari ed incompleti possano essere questi rilevamenti, la tendenza complessiva e di lunga durata che ne emerge mi pare inequivocabile: il Magistrato dei Pupilli operava in base ad una concezione precisa circa il ruolo centrale delle madri entro una interpretazione bilineare della parentela. Dai dati qui raccolti si profila un rapporto di maggior prestigio/potere delle vedove urbane rispetto a quelle del contado e del territorio esterno alle mura di Firenze. La percentuale superiore di tutele deferite alle vedove di città sottolinea il maggior rilievo assunto dal ramo famminile e materno in contesti urbani rispetto alle zone rurali dove invece il ramo paterno, forse in presenza di un patrimonio prevalentemente
fondiario, prevale. In questo senso, sembrano confermati i risultati di alcune indagini antropologiche in area mediterranea: un habitat disperso e una socialità femminile più frammentaria sono correlati ad un minore potere sociale delle donne. Una lunga tradizione giuridica sanzionava che la sola condizione imprescindibile per l’affidamento di un orfano era che fra tutore e minore non esistessero legami successori. Le madri sovente denun-
ciavano ai magistrati i maltrattamenti e, in casi estremi, perfino la morte dei propri figli per mano degli zii paterni, eredi diretti dei minori di cui avevano tutela e custodia. Non affidare un orfano a chi avrebbe beneficiato dalla sua morte era dunque una questione di vitale importanza per il Magistrato che infatti precisava nei propri Statuti il divieto di deferire la custodia di un minore a chi fosse «in sospetto di succedergli». Sia il regime di devoluzione dei beni che la pratica testamentaria erano strutturati su di una linea successoria in via prioritaria patrilineare e gli uomini lasciavano eredi i propri figli maschi, i fratelli, i nipoti e comunque i componenti del gruppo agnatizio di appartenenza. In sintesi, il patrimonio paterno doveva rimanere all’interno del lignaggio. Le madri, al contrario, erano emarginate da una pratica testa163
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mentaria che le escludeva dall’asse ereditario, dato che, in quanto
donne, avevano per lo più diritto alla sola dote e, vedove, all’usufrutto del patrimonio maritale. Nel caso fiorentino, gli stessi Statuti comunali ripetevano l'impossibilità per le donne di ereditare dai propri figli in presenza di discendenti maschi non solo legittimi, ma anche naturali. Ma era proprio questa marginalità delle donne rispetto alla trasmissione dei beni a renderle sicure come affidatarie dei propri figli, nel senso che nessuna madre avrebbe beneficiato dalla loro morte, non essendone erede. In questo senso e all’interno di questa logica, le sentenze emesse dal Magistrato definiscono perentoriamente il rapporto madre/figli «al di sopra di ogni sospetto», essendo guidato da quello che per la giurisprudenza era amore «puro», estraneo cioè ad ogni interesse di succedere. Sollevato dal peso della determinazione economica, libero dai legami del denaro, l'affetto materno era perciò gratuito. Giuridicamente garanti dell’amore «puro», alle madri poteva essere concessa fiducia e perciò la tutela dei figli orfani ed il loro affidamento anche passando alle seconde nozze. Il rapporto di una vedova con i suoi figli si qualificava dunque per un massimo di status — la tutela — e per un minimo di trasmissione patrimoniale, essendo la madre esterna alla verticalità dell'asse ereditario maschile’. Il prestigio del suo ruolo culturale e affettivo conseguiva direttamente dalla fragilità della sua collocazione successoria. Nell’ordine simbolico il rapporto di una vedova con i suoi figli era dunque connotato da un duplice ordine di esclusioni: tutrice a patto di non rimaritarsi, essa garantiva la separazione fra sessualità e ruolo materno; affidataria dei minori perché da essi non avrebbe mai ereditato, assicurava ai suoi figli un amore assolutamente disinteressato, «puro»%. Il prestigio di queste madri si fondava dunque sull’aver esse ormai assolto alla loro funzione riproduttiva e ad aver perciò abbandonato un esercizio essenzialmente fisiologico della maternità, esercitando le loro funzioni entro un complesso di regole rette da un principio di valorizzazione etica, cui se ne affiancava uno ?_ ASF, Magistrato dei Pupilli et Adulti del Principato, Suppliche e Informazioni: nell’istruire i fascicoli processuali, gli Ufficiali ribadiscono che i minori devono essere affidati a chi non eredita da loro, quindi alla madre, qui privilegiata rispetto al ramo paterno, i cui membri sono in genere eredi degli orfani. Questa direttiva che orienta l’affidamento è una norma statutaria. $ La definizione di amore «puro» o «senza interesse» appartiene al linguaggio delle a L’affetto materno è qui posto anche come indubbio, di cui, cioè, «nessuno può uDitare».
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di svalorizzazione patrimoniale. Le parole che suggellano questo patto fra vedove e magistratura attengono alla sfera delle emozioni e dei sentimenti: amore, disinteresse, accudimento, quasi a significare
che la negoziazione con questi soggetti — le donne — si definisce attraverso un codice di genere. Il linguaggio della cittadinanza si modella qui su quello del sentimento ed è la pratica giuridica che, nella sfera pubblica dei rapporti regolati dal diritto, sistematicamente nomina e legittima l’amore materno che diventa così, nelle sentenze, condizione necessaria e sufficiente per l'affidamento degli orfani alle madri. Tranne qualche sporadica eccezione, una lunga tradizione, dai testi dei predicatori alla trattatistica laica e religiosa del primo Rinascimento, sosteneva l'assimilazione fra amore genitoriale e amore paterno. Come quella classica, anche la letteratura devota e i predicatori non distinguono una sfera autonoma dell’amore materno, in genere definito dai gesti ripetitivi dell’accudimento”. Perciò, nei contrasti retorici di tanta letteratura, l’amore paterno è indiscutibilmente superiore a quello materno perché, radicandosi nell’animo e nell’intelletto, si proietta nel tempo, garantendo la successione del nome e del lignaggio. Limitato dalla propria determinazione fisiologica, l’amore materno vive invece nel perimetro immediato della nascita ed è labile come la presenza delle donne entro i lignaggi e fragile come i loro corpi. In Toscana il passaggio dal basso Medioevo all’età moderna trasferisce il discorso sui conflitti e i disordini familiari dalla scrittura privata dei Ricordi a quella pubblica dell’archivio del Magistrato dei Pupilli. In questo passaggio dalla frammentarietà della memoria agnatizia alla compattezza di quella amministrativa e politica, compare in modo sistematico il riferimento all’amore materno ed alla sua qualità specifica, che consiste nell’essere esterno all'interesse patrimoniale ed alla logica verticale della trasmissione dei beni e cioè alle norme portanti del sistema patrilineare. A partire dalla seconda metà del xvi secolo, nelle sentenze di affidamento le parole dei magistrati antepongono, ai componenti del ramo paterno, la madre, che ama di un amore «puro». La trattatisti-
ca medievale trasformava in qualità precipue dell’affetto materno le
? E. Novi Chavarria, Ideologia e comportamenti familiari nei predicatori italiani tra Cinque e Settecento.
Tematiche e modelli, in «Rivista Storica Italiana», c, n. 3, 1988.
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componenti strutturali della condizione femminile, per cui la trasversalità e la mobilità delle donnne entro i lignaggi si traducevano in instabilità naturale e quindi affettiva verso i figli. Al contrario, l’attenzione prioritaria in base a cui il Magistrato dei Pupilli nomina l’amore materno ribalta quella posizione di marginalità: qui l’estraneità all'asse successorio si trasforma in garanzia di sicurezza per i minori — la fragilità in costanza. Un disvalore patrimoniale si capovolge dunque in un valore etico ed in questo senso l’amore delle madri si definisce attraverso la propria differenza, ponendosi come modalità relazionale autonoma. Rispetto ai Libri di Famiglia, che danno voce ai padri, gli atti del Magistrato dei Pupilli lasciano parlare le donne, le madri e i minori. Sottoponendo l’affidamento degli orfani a forme rigorose di controllo pubblico, disciplinando — per così dire — il rapporto madre/figli, lo Stato ne consente e ne legittima anche l’espressione verbale. É quindi nel progressivo abbandono delle forme di memoria e scrittura privata che cogliamo il costruirsi di un patto fra funzionari pubblici e soggetti femminili: patto che, innanzi tutto, si configura come progetto di ascolto entro una strategia volta a garantire dei diritti. Mi soffermerò ora sulla divaricazione fra affidamento e successione, passaggio centrale al costituirsi di quello spazio materno cui accennavo prima, esponendo un breve, ma assai lineare conflitto pet l'affidamento di un minore, in cui la madre e i cognati si contrappongono frontalmente. Il 9 settembre 1643, Lupicino e Filippo Lupicini inoltrano al Magistrato un ricorso in cui chiedono l’affidamento del nipote Domenico, figlio del fratello defunto, già affidato alla madre Anna Mozzi, che si è «rimaritata a Bartolomeo Malingegni»*. Il 31 maggio seguente, il Magistrato sentenzia che, fino all’età di cinque anni, il piccolo Domenico rimanga alle cure della madre, «con la provisione di scudi sei al mese». Superata quest’età, il bambino rientrerà nella famiglia paterna e sarà dunque affidato allo zio Filippo ed ai suoi fratelli. Domenico è giunto al suo quinto compleanno e gli zii fanno istanza per ottenerne l’affidamento, ma la madre Anna si oppone. Avviata un'indagine informativa, il Magistrato ritiene «dubbio» 8 ASF, MPAP, Suppliche con Informazione, F. 2294, c. 553, n. 175; c. 586.
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affidare il piccolo Domenico agli zii per una serie di motivi: gli zii hanno una situazione patrimoniale instabile e sono debitori del nipote che, in confronto ad essi, è «facultoso»; inoltre «succedono al pupillo ab intestato», ne sono cioè eredi diretti. Questo solo fatto è sufficiente
a «suscitare sospetto» nella mente del giudice che non può certo preferire lo zio paterno «alla madre nella quale cessa ogni sospetto. Né par che osti che l'educazione del Pupillo solo si deva alla madre sino all’età di tre anni, perché questa distinzione procede vivente il Padre, et non dopo la morte di esso, quando concorrano gl’Agnati e la madre». Questa flessibilità appare inoltre tanto più giustificata, in quanto Domenico, che ha ora sei anni, è piccolino, gracile e di gentile complessione, sottoposto ancora al vaiuolo, pare habbia ancora bisogno della cura et custodia materna, di gran lunga migliore per l'amor materno a qualunque cura e custodia che possa trovare in casa degli zii dove al più troverà una o due serve, o altra persona estranea, né si può havere in considerazione la custodia e cura degli zii, perché ordinariamente l’huomo, quantunque astretto d’amor paterno, non può, né sa impar-
tir l’opera sua a’ bisogni dei bambini?.
L’attenzione tanto concreta e consapevole rivolta al benessere di questo bambino malaticcio e fragile, non può non colpirci, tanto più leggendo le ultime frasi della sentenza in cui la conoscenza diretta delle persone e dei rapporti che fra esse intercorrono si traduce in uno sguardo che pare scandagliare la realtà domestica fin nei suoi dettagli più minuti: S’aggiunge che detto infante potrebbe portar pericolo della vita, quando per avventura, ritrovandosi in collo, o vicino al detto Filippo zio, in quel punto succedessi a detto Filippo essere assalito dal mal caduco, dal quale stravagantemente è travagliato.
Con quest'immagine tangibile della caduta rovinosa dello zio epilettico che travolge il bambino, capace di evocare anche in noi un senso di allarme, si chiude la sentenza che, rivedendo il decreto precedente, affida Domenico a sua madre. In questa vicenda è posto con forza un dato centrale: l’affidamento è deferito a chi non eredita dai minori. Questa norma statutaria guida l’orientamento del Magistrato che da qui muove nel preferire la madre agli agnati paterni. Quindi la prevalenza dell’affidamento dato ? Ibid., c. 586.
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alle madri consegue in via diretta dal loro essere marginali rispetto alla patrilinearità successoria: affidamento e successione divengono così due termini che si escludono a vicenda. Di qui consegue anche quella scissione fra il discorso patrimoniale e la logica degli affetti, insieme all’enfasi posta sull'amore materno, che perciò assume quelle connotazioni di «insospettabilità», «gratuità» e «purezza» tante volte ribadite. L'ambito relazionale dell’accudimento materno si ricava dunque da questo intreccio di rapporti differenziati fra la linea del padre e della madre. Vorrei riferire ancora un caso, che funziona, in questo discorso,
come una verifica a contrario dell’inconciliabilità fra affidamento e successione. Se, infatti, quasi universalmente, le madri non eredita-
vano dai figli e costituivano un punto d’approdo sicuro per la loro incolumità fisica e per la loro tranquillità psicologica, in qualche rarissimo caso si presenta la situazione opposta. Ci troviamo così fra le mani documenti rivelatori di come la contrapposizione fra affidamento
e successione
venisse
fatta valere
senza
eccezioni,
interrompendo, ove si rendesse necessario, il legame fra madri e figli vincolati da una dipendenza successoria. È quanto capita a Maria Francesca degli Albizi. Vedova del conte Carlo Federighi, che l’ha nominata tutrice dei figli nel suo testamento, è passata alle seconde nozze con Bernardo Gondi. Il 20 giugno 1677 chiede in un esposto al Magistrato che, perdendo la tutela per via del nuovo matrimonio, le sia data «l’attoria» — l’amministrazione cioè delle spese quotidiane — e l'educazione dei figli. L’indagine che il Magistrato avvia, muove dal testamento del marito morto, che esprime affetto e fiducia profonda nella moglie, nominandola tutrice, liberandola dal rendimento dei conti, garan-
tendole la restituzione di ogni credito che dovesse avere nei confronti dei figli. Nel suo testamento, il conte Federighi nomina erede il figlio maschio, cui succede la figlia femmina ed in caso di morte di quest’ultima, lascia sua erede universale la moglie Maria Francesca. Quindi, in questo rarissimo caso, la madre succede ai
propri figli. Quando, nel 1677, la vedova si risposa, chiede al Magistrato che venga nominato un nuovo tutore e propone il secondo marito Bernardo Gondi. Il Magistrato respinge la richiesta, deferendo a sé la tutela in base a quanto prevedono gli Statuti. Anche la richiesta di essere nominata attrice ed affidataria dei figli viene negata perché 168
«SENZA
essendo
passata
SPERANZA
alle seconde
nozze
DI
SUCCEDERE»
[Maria
Francesca]
viene rimossa
dall’amministrazione e molto più dall’educazione dei figli pupilli, etiam che tutti i parenti e congiunti ci consentissero d’alimentarli a sue proprie spese.
et ancora
che si offerisse
La motivazione che presiede ad una sentenza così dura viene specificata immediatamente dopo: Perché essendo ella sostituita a detto suo figliolo o figliola, se morissero senza figlioli o descendenti, non può essere ammessa a tenere appresso di sé i figli pupilli.
Il legame successorio fra madre e figli esclude esplicitamente ogni possibilità di affidamento e questa è «giusta causa di recedere dalla volontà del testatore»!°. La sentenza si pone dunque in diretto contrasto con quanto lasciato dal conte Federighi nel suo testamento: l'aver confuso la sfera degli affetti con quella del patrimonio finisce infatti per penalizzare il nucleo familiare della vedova e dei suoi figli. All’amore materno bisogna dunque garantire le giuste condizioni per esprimersi: deve potenziarsi e crescere entro un ambito separato
da quello del denaro, altrimenti potrebbe, contaminato dalla «speranza di succedere», perdere la sua «purezza». Non sempre, tuttavia, i sentimenti materni ubbidivano a questa rigorosa perimetrazione proposta dal Magistrato: alcuni rari casi fanno infatti affiorare il proiettarsi del desiderio al di là delle norme di legge. Si delineano così — qui non posso che offrirne una traccia — volontà, scelte, tentativi di manipolazione e reinterpretazione del dettato normativo che segnalano un sentire diverso. In questo senso, le strategie protettive nei confronti dei figli costituiscono indubbiamente un aspetto di grande suggestione nel quadro dei rapporti familiari. Tanto più se si tratta di madri, detentrici di poteri minori e più difficilmente visibili. Per attuarle bisognava sovente trasgredire alle norme di legge, mettendo in atto dispositivi non previsti e comunque facilmente impugnabili in caso di conflitto.
È quanto fa sul letto di morte Vittoria Torrini, che lascia con molta inquietudine la sua unica e amatissima figlia Livia di soli due anni. Rimasta vedova negli anni della peste del capitano Giovanni Giudici di Arezzo, Vittoria con la piccola Livia aveva subito lasciato 10 ASF, MPAP, Filza d'Informazione 2298, n. 208, 20 giugno 1677.
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la casa del marito dove abitavano i due figliastri, nati dal primo matrimonio del defunto consorte. Vittoria menò seco la detta Livia, quale ha tenuto sempre appresso di sé fino alla sua morte e per suo testamento l’ha lassata erede et inoltre per detto testamento ha provisto che tutore sia un tale signor Bartolomeo Torini, prohibendo che la tutela et cura di detta figliola s'aspetti ai signori Giudici suoi fratelli di diverso matrimonio!!.
Nominando bambina
tutore il proprio fratello, per evitare che la sua
cadesse nelle mani dei fratellastri, Vittoria ha di fatto
adottato uno strumento giuridico maschile, nominando per via testamentaria un tutore corze se avesse la patria potestà, al pari di un padre. Lo stratagemma era evidentemente assai fragile ed infatti i «signori Giudici» impugnano l’intera procedura, chiedendo ed ottenendo la tutela della nipote, che viene così sottratta allo zio materno. In casa dei fratellastri, la piccola Livia cresce circondata da un gruppo eterogeneo di presenze: «Suo fratello maggiore, se bene di altro matrimonio, quale ha di presente due altri fratelli, de’ quali uno scemarello»'. Dovrebbero darle ventiquattro scudi all'anno, ma «credo che glie li facessero stentare» osserva laconicamente lo zio, inconsapevolmente anticipando quanto il commissario di Arezzo scriverà in proposito a Firenze: in sei anni non solo non le hanno mai versato gli alimenti, ma nemmeno «un braccio di nastro per racciuffarsi i capelli». Tre anni dopo, nel 1639, la convivenza di quella fanciullina undicenne in una famiglia tutta di uomini diventa insostenibile e lo zio paterno chiede al Magistrato di intervenire per «levarmi di casa la citta perché si faceva grande e non voleva imparare cosa alcuna, cosa che mi dava fastidio». Che la si mandi in monastero al più presto: Livia è creditrice di cento scudi". Il potere e la capacità d’intervento del Magistrato si fermano entro il perimetro delle norme di legge: gli Statuti e la dottrina costituiscono un ostacolo invalicabile, che nega alle donne le prerogative derivanti dalla patria potestà. In questo caso, la volontà testamentaria della madre, orientata da una trasparente strategia ll Ibid., Atti e Sentenze, F. 12 Ibid., Campione di Partiti, descrive così la sua bousebold. 13 Ibid., Atti e Sentenze, F. 14 Ibid., Filza di Lettere, 17
820, c. 1. F. 48, c. 621. È lo zio paterno, attore della bambina che
820, c. 1v. febbraio 1639.
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protettiva nei confronti della figlia, s'infrange contro la fragilità della trasmissione per via femminile. Fra il xvi e l’inizio del xv secolo il binomio moglie/madre subisce una rotazione ormai nettamente visibile: il valore culturale, etico della maternità, quello su cui si fonda il patto reciproco fra donne in quanto soggetti giuridici e Stato, ha prodotto le madri morali. Come nella ritrattistica familiare studiata da D. Owen Hughes, anche nella giurisprudenza la madre accanto ai suoi figli occupa il centro del discorso familiare. Non a caso, il linguaggio dei decreti e degli esposti ridonda di etica: civile, doveroso, giusto, «cosa da vero cristiano» — così viene definito il rapporto di accudimento che si trasformerà gradualmente in controllo materno sull’educazione, la salute, il matrimonio, la condotta morale dei figli”.
La costruzione di queste identità orientate ai valori/doveri della maternità si consolida nel tempo sulla base dell’esperienza e delle relazioni affettive. Ciò mette in luce una concezione di genere dell’etica che, come ha osservato Carol Gilligan, è strettamente legata al comportamento e alla responsabilità, quindi all'interazione con gli altri. Essere madri significa infatti entrare in un rapporto fondamentalmente diadico e di responsabilità entro una comunicazione quotidiana e mutevole. Affidarei figli alle madri non era— per i magistrati granducali — una pura questione di equità e una madre, in quanto biologicamente tale, non godeva del diritto di avere con sé i propri figli, ma solo in quanto si mostrava capace di «carità ed affetto» all’interno di una relazione libera dalla «speranza di succedere». La fiducia che la magistratura accordava alle donne era perciò tutt'uno con la creazione di un rapporto di accudimento e di affetto gratuiti, di cui si ribadisce in modo esplicito la valenza etica. 15 Anche nei casi in cui, data l’età, i figli maschi o femmine sono allevati altrove, le madri ne seguono con possessiva attenzione ogni passo. Così Livia, madre del diciottenne Segnino
Baldesi, ansiosamente denuncia al Magistrato l’incuria che circonda suo figlio: «Per l’assistenza corporale che fino ad ora ha avuto di bisogno, è stato tenuto come uno che non avessi nissuno in questo mondo; mentre nessuno gli dimanda in che cosa gli faccia di bisogno, né assettar calze, velate o altro che tutto gli va in malora; e se a di bisogno di qualche cosa è costretto a ricorrere a sua madre, si come lo tengono in un letto che non vi starebberoi cani». ASF, MPAP, Memroriali e Negozi di Cancelleria, F. 2300, c. 416, 13 luglio 1733. Insistentemente, anche la vita delle figlie viene tenuta d’occhio e, nel corso del Settecento, s’infittiscono le denunce contro le serbarze: a detta delle voci materne, in convento ci si ammala, l’aria è malsana e acuto il disagio psicologico prodotto dalla distanza da casa. Chiusa in convento all’età di undici anni, «la pupilla Agata postasi in un’estrema afflizione d’aver lasciato la cara madre, sempre languente in detto monastero, assalita da accidenti apoplettici» fu ricondotta a casa. Merzoriali e Negozi di Cancelleria, F. 2301, c. 49, 4 maggio 1739.
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Senza assumere a modalità trascendenti del femminile queste direttive storiche dell’interazione fra donne e magistratura, posso tuttavia dire che l'intervento della legge nelle dispute familiari ha incoraggiato «un'etica della responsabilità radicata in una rete di relazioni» piuttosto che una morale in cui gli individui si richiamano a valori e reclamano diritti astratti, indipendentemente dai vincoli sociali, psicologici e affettivi che li legano agli altri'. Le donne furono legittimate in quanto soggetti morali entro una serie di rapporti che richiedevano un impegno di cura: in questo modo la funzione biologica e riproduttiva della maternità fu sublimata all’interno di un codice morale in cui il linguaggio dei sentimenti esprimeva la qualità di un’esperienza fondata sulla relazione. Ma questa è solo una parte del quadro. Le vedove che prendono la parola per appellarsi al giudizio della magistratura, chiedendo di essere protette dalla violenza dei parenti, lo fanno appellandosi a dei diritti la cui negazione esse percepiscono come ingiustizia. Riescono ad esprimere il senso della loro esperienza perché possono affidarsi alle competenze di un corpo di funzionari esperti nel dirimere le dispute familiari e nella cui capacità hanno fiducia. Quindi l’espressione stessa della loro soggettività, la possibilità stessa di prendere la parola, corre in parallelo al consolidarsi del monopolio dello Stato sull’esercizio della violenza dei gruppi sociali intermedi: le famiglie e le comunità. Gli Ufficiali dei Pupilli del nascente stato regionale centralizzato riuscirono a piegare l'arroganza dei lignaggi anche facendo leva sui compiti di protezione e tutela dei minori e delle vedove. Rimediando ai torti denunciati e penetrando nel cuore delle complicità familiari, gradualmente i poteri della legge e del centro contribuirono a costruire lo spazio privato. In questo processo, le vedove e poi — a partire dal Settecento — anche le mogli agirono da referente primo, da punto di appoggio e di accesso. Eppure, per affermare se stesse e la propria volontà, le madri che si appellano al Magistrato hanno anche sperimentato l’isolamento, il conflitto, la contrapposizione, il
16 C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli,
1987 e anche Rerzapping the Moral Domain: New Images of Self in Relationship, in T.C. Heller et al. (a cura di), Reconstructing Individualism. Autonomy, Individuality and the Self in Western Thought, Stanford, Stanford University Press, 1986, pp. 237-252; per queste tematiche cfr. ie J.W. Scott, Gender and the Politics of History, New York, Columbia University Press,
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distacco: appellarsi allo Stato, al centro, alla legge, significava anche riuscire a pensarsi come individualità singole, astratte, in lotta per un diritto. Così da un lato, le donne furono legittimate a diventare interlocutrici perché parlavano il linguaggio della responsabilità e praticavano rapporti di accudimento; ma, dall’altro, acquisivano un forte senso di sé comportandosi da soggetti capaci di recidere la vischiosità avvolgente dei legami personali per rivendicare il proprio diritto all’equità. Per affermare il valore ed il senso della propria maternità contro suoceri e cognati, le vedove non avevano a disposizione altra possibilità che ricorrere alla magistratura ed al suo potere coercitivo. Dovevano cioè agire da individui per venir garantite e poi legittimate in quanto madri. Così il linguaggio dei diritti doveva servire l’etica del materno e «l’immagine dello Stato» calarsi nella manipolazione flessibile dell’«immagine della carità».
17 Le due espressioni sono in J. Bossy (a cura di), Disputes and Settlements. Law and Human Relations in the West, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, p. 287.
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MADRI E FIGLI FRA TRADIZIONE E RIVOLUZIONE. RELAZIONI PARENTALI DI UNA FAMIGLIA PATRIZIA FIORENTINA (1770-1848) di Maria Fubini Leuzzi
Non è casuale che questo mio contributo riecheggi il titolo italiano della nota opera di Philippe Ariès!. Nell’analisi dei documenti sui rapporti interni della famiglia Libri, che intendo qui proporre, colpisce come nell’arco delle tre generazioni coincidenti con il passaggio della società da una cultura di antico regime ad una cultura rivoluzionaria prima e napoleonica poi, muti l’espressione del sentimento parentale e particolarmente di quello materno, spia di una forte modificazione dei rapporti familiari. A guardar bene al mutarsi e al rafforzarsi dei sentimenti di affetto e della loro forma espressiva si accompagna una diversa collocazione dei ruoli tradizionali genitoriali senza che istituzionalmente niente sia mutato. Quando il Codice civile napoleonico sanzionò in Toscana i nuovi ruoli familiari che, pur in un rigido paternalismo, sottolineavano il valore della maternità, la madre e il padre anche dell’ultima generazione di personaggi su cui intendo qui soffermarmi avevano ormai raggiunto la piena formazione’. Il fatto è che la famiglia Libri mostra una eccezionale sensibilità nel riflettere nelle relazioni fra i suoi membri le trasformazioni che 1 Ph. Ariès, L’enfant et la vie familiale sous l’ancien régime, Paris, PLON, 1960; prima trad. it., Padri e figli nell'Europa medievale e moderna, Roma-Bari, Laterza, 1968. 2 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1984; M. Palazzi, Solitudini femminili e patrilignaggio. Nubili e vedove fra Sette e Ottocento, in M. Barbagli-D.I. Kertzer (a cura di), Storia della famiglia italiana,
Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 129-158, particolarmente pp. 138-148; C. Saraceno, Le donne nella famiglia: una complessa costruzione giuridica. 1750-1942, ibid., pp. 103-127; P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 121-150.
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gli avvenimenti al passaggio fra i due secoli stavano portando. In un mondo i cui valori tradizionali andavano perdendo significato, i Libri furono solleciti a permeare di nuova ideologia i loro comportamenti manifestando la profondità delle loro convinzioni a cominciare proprio dai rapporti e dai sentimenti familiari che appaiono oggi pienamente aderenti alle trasformazioni della famiglia e alla scoperta della sua intimità proposta dalla filosofia dei Lumi?. La storia delle madri della famiglia Libri ci racconta di un passaggio che linearmente si compie procedendo dall’indifferenza nella cura della prole, verso una piena rivendicazione di autonomia decisionale nella sua educazione. Non ci troviamo dinnanzi al fenomeno di età rinascimentale in cui le donne fiorentine spesso si trovavano di fatto a sostituire nelle scelte per l'educazione della prole gli sposi chiamati altrove dalla loro attività di mercanti‘. Qui si tratta di una trasformazione tutt’affatto diversa, ben radicata in
nuove convinzioni etiche, che portano la famiglia Libri su posizioni radicali più di quanto non avvenisse in altre famiglie fiorentine di pari livello sociale. Gli studi da me fin qui compiuti intorno agli esponenti maschili dei Libri nel medesimo periodo denotano la scelta di percorsi certamente originali e spesso in forte contrasto con le linee di tendenza più comuni nella società fiorentina dell’epoca?. Famiglia di antica origine patrizia, presente in tutte le maggiori magistrature a partire dal x1v secolo, fu iscritta nei Libri d'Oro della nobiltà fin dalla loro istituzione nel 1751. Il suo patrimonio, non ricchissimo all’epoca, ma certamente dovizioso, era stato accumulato
con i commerci, con le libere professioni, con le parentele oculate con famiglie in vista del patriziato e della nobiltà*. Pur essendo il tema qui trattato quello delle relazioni fra madri e 3? Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., pp. 295-405. 4 Ch. Klapisch-Zuber, Le chiavi fiorentine di Barbablà. L'apprendimento della lettura a Firenze nel XV secolo, in «Quaderni Storici», n. 57, 1984, pp. 765-792, particolarmente p. 769. 5 M. Fubini Leuzzi, Gl studi scientifici in Italia nell'età della Restaurazione secondo l'ottica di Guglielmo Libri, in AA.vv., «I primi due secoli dell’Accademia delle Scienze di Torino». Realtà accademica piemontese dal Settecento allo stato unitario, Atti del Convegno, Torino 1985,
pp. 251-281; Id., Guglielmo Libri amministratore del patrimonio ecclesiastico di Prato (1787 1788), in «Archivio Storico Pratese», Lx, 1986, pp. 85-165. 6 Archivio di Stato di Firenze (AsF), Carte Sebregondi, 3038, Famiglia Libri; Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (BNcF), Carte Passerini, 156, c. 10. I riferimenti a relazioni di
parentela a seguire d’ora in poi sono tratti dalle carte ora citate; cfr. inoltre, V. Arrighi, Le carte Libri della Biblioteca Moreniana di Firenze, in «Rassegna Storica Toscana», xxvi, 1982, pp. 115-131; Fubini Leuzzi, Guglielmo Libri, cit., pp. 85-102.
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figli, la mia insistenza sulla famiglia nel suo insieme trova giustificazione nell’ovvia considerazione che non sia possibile definire tali rapporti se non avendo presenti le relazioni all’interno del gruppo. Così i documenti che intendo ora esaminare per dar luce alle figure di Maria Anna, Carolina e Rosa sono tratti soprattutto dalla cortispondenza femminile, ma anche quella maschile fornisce un contributo importante. Le carte della famiglia sono conservate presso la Biblioteca Moreniana di Firenze. Alla Bibliothèque Nationale di Parigi è conservato il carteggio fra Rosa e Guglielmo jr., a completamento sono fondamentali alcuni fondi dell'Archivio di Stato”. Quando nel 1752 Niccolò di Guglielmo Libri sposa Maria Anna di Guido Dainelli da Bagnano ha 52 anni, la sua giovane sposa solo ventuno. Ma certamente non si trattava di un’eccezione nella società
fiorentina dell’epoca8. Come in molti altri casi, il matrimonio tardivo giunge per permettere la continuità del ramo superstite anche di questa famiglia, assai estesa in passato. I fratelli maggiori di Niccolò, Lorenzo e Girolamo per motivi diversi non si trovavano in grado di garantire la discendenza’. Anzi Niccolò in nome della continuità del lignaggio fu costretto ad abbandonare una brillante carriera ecclesiastica presso la curia romana dove gravitava nell’orbita del cardinale Neri Corsini. D'altra parte la condizione matrimoniale in cui egli venne a trovarsi non variò di molto il suo prestigio. La nuova relazione di parentela lo legava ancor più strettamente ai Corsini dal momento che la giovane Maria Anna era nipote di Elisabetta di
7 Biblioteca Moreniana di Firenze (BmoF), Fondo Palagi Libri (FPL) e Nuovo Fondo Libri
(nFL); Bibliothèque Nationale de Paris, Nouvelles Acquisition Frangaises, 3254; cfr. G. Candido, I/ fondo Palagi Libri della Biblioteca Moreniana di Firenze, Roma 1940, estr. dagli
«Atti del secondo congresso dell’Unione Matematica Italiana», Bologna 4 - 6 aprile 1940, Roma 1941, pp. 1-45; Arrighi, Le carte Libri, cit. 8 R. Burr Litchfield, Derzographic Characteristic of Florentine Patrician Families: Sixteenth to Eighteen Century, in «Journal of Economic History», xx1x, 1969, pp. 191-205; D. Herlihy Ch. Klapisch-Zuber, Les Toscans et leurs familles. Une étude du catasto florentin, 1427, Fondation National des Sciences Politiques, Paris 1978, cito dalla traduzione italiana, I
Toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427, Bologna 1988, pp. 533-547; A. Molho, Marriage Alliance in late medieval Florence, Cambridge Mass., Harvard University Press, London 1994, pp. 214-221. ? Le carte genealogiche sopra citate non indicano discendenza per Lorenzo e Girolamo
Libri. È presso che certo che i figli di Girolamo Libri fossero stati esclusi dai «Libri d'Oro» della nobiltà fiorentina a causa di una severa condanna per corruzione subita dal loro padre nel 1749, cfr. Fubini Leuzzi, Guglielmo Libri, cit., p. 89.
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Filippo Corsini. Un buon incremento riceveva invece la situazione patrimoniale dei Libri, dal momento che la sposa portava in dote novemila scudi, mille dei quali dono della madre, la veneziana Angiola della famiglia della Torre e Taxis, che vantava anche origini fiamminghe. Ma soprattutto Maria Anna, come unica erede del padre Guido avrebbe più tardi trasmesso il suo ricco patrimonio ai propri figli'°. Gli elementi insomma che vengono a definire questo quadro di famiglia del patriziato fiorentino a metà del xv secolo non si discostano da quelli a cui si accennava, evidenziati da Litchfield per lo stesso periodo e da Klapisch-Zuber e Molho per l’età precedente. Giuseppe Pelli attento diarista fiorentino per tutto il lungo arco della sua vita, annotando la morte di Niccolò nel 1776, descrive Maria
Anna come donna «strana, litigiosa e inquieta» e il matrimonio come un fallimento proprio in relazione allo scopo per cui era stato contratto, la discendenza. «Questa signora gli diede tre figli e una femmina. La femmina è mostruosa, ma vuol marito. Uno dei figli morì mesi sono per effetto di incontinenza. L’altro è matto, ed il terzo è piccolo in collegio [...] sicché questo buonuomo, che tale lo stimava la città, sacrificò se medesimo alla famiglia e non vedde questa risorgere con quella felicità che sperava»!!. A che cosa alludesse il Pelli a proposito. del carattere di Maria Anna non sappiamo. Quello che i documenti trasmettono ci permette di ricostruire la figura di una donna che definisce le funzioni materne secondo le linee tradizionalmente assegnate dalla precettistica e dal costume della buona società, dove il distacco e il formalismo sembrano prevalere. Per il periodo della adolescenza e della giovinezza dei suoi figli infatti, intorno a cui possediamo il maggior numero di testimonianze, il suo ruolo appare del tutto defilato rispetto a quello del marito-padre, tranne a improntarsi di pesante autoritarismo in alcuni casi. Alla sua cura di madre sembra essere affidata solo la figlia femmina, Costanza, come era nell'uso non solo fiorentino. È Maria Anna che sceglie per lei il monastero, ed è ancora lei a decidere che ne esca, di
fronte alle forti perplessità della fanciulla ormai diciottenne. «Vostra madre ha cavato di monastero vostra sorella fino da lunedì passato» (Firenze 9 maggio 1772), scrive il vecchio Niccolò al primogenito !0 Per la dote cfr. BMOF, NFL, 1, 4; per l’eredità cfr. asc, Notarile Moderno, Notaio
Antonio Fortini, 29115, cc. 16 - 18, Testamento di Guido da Bagnano, 23 settembre 1771.
!! BNCF, «Nuovi febbraio 1776.
Acquisti»,
Giuseppe
Pelli, «Efemeridi»,
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seconda
serie, vol. Iv, 18
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Guglielmo in collegio a Bologna, facendosi tramite con le sue lettere settimanali dei principali avvenimenti in famiglia. Ma aggiunge preoccupato «[Costanza] sta bene, ma è rimasta piccola come la lasciaste, ma si spera che crescerà qualche poco»!. Del resto la corrispondenza di Maria Anna con i figli è limitatissima. È sempre Niccolò a trasmettere benedizioni e saluti della madre a Guglielmo lontano, a farsi tramite delle frequentissime raccomandazioni sulla salute: «Vostra madre vi saluta e ha piacere sentire nuove dei vostri incomodi e mi dice che vi scriva che abbiate riguardo e non vi strapazziate, perché se perdete la salute, perdete il maggior capitale che possiate avere e non vi faccia specie se non vi scrive, perché, come sapete, gli [sic] rincresce molto lo scrivere». Alla morte del marito nel 1776, Maria Anna non ebbe la tutela
né della figlia Costanza, né del figlio Massimiliano allora studente nel collegio Tolomei a Siena. L'ultimo testamento redatto da Niccolò il 14 ottobre del 1775, a differenza dei precedenti non lascia alcun legato e tanto meno la tutela e la curatoria dei figli minori alla moglie: per l’essere la medesima pienamente e abbondantemente provvista per aver conseguita ultimamente l’eredità del prefato Illustrissimo Signor Guido da Bagnano di lei padre, attesa la quale eredità siccome la medesima Signora Maria Anna sua dilettissima consorte è stata finora e sta per essere molto applicata agli interessi della medesima eredità, perciò il medesimo Signor testatore si è astenuto e si astiene dal deputarla tutrice o contutrice degli infrascritti suoi e di lei comuni figli, protestando di avere avuto e di avere per lei un tenero e cordiale affetto, ed una sincera e cordiale stima".
Queste parole sembrano quasi sottolineare l’estraneità di questa donna alla famiglia ed era una estraneità di cui in fondo lei si compiaceva. Infatti, rimasta vedova Maria Anna vive da sola nelle sue ville accudendo non solo all’allevamento dei bachi da seta, che era una consuetudine femminile, ma occupandosi anche dell’andamento generale delle fattorie che gestiva con l’aiuto dei fattori. A Guglielmo che ancora celibe le riferisce di pettegolezzi nati intorno alla sua scelta di vivere nei suoi possessi, separata dai figli, suggerisce indifferenza seguendo il suo esempio, «tanto più che non siamo in 1 BMOF, NFL, Carteggi, xvi sec., 375, Firenze 9 maggio 1772. 13 Ibid., 14 marzo 1772. 14 ase, Notarile Moderno, Notaio Stefano Pretesi, 30079, cc. 12v-16r, Testamento di Niccolò di Guglielmo Libri, 14 ottobre 1775.
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necessità di vivere insieme». Guglielmo dunque, deve sostenere il compito di tramite fra i diversi componenti della famiglia. Gli argomenti epistolari fra madre e figli sempre espressi con freddo formalismo si limitano a raccomandazioni e rassicurazioni sulla salute, oggetto di sollecitudine continua in questa famiglia attraversata nei principali membri del periodo qui studiato da crisi di follia e di tubercolosi. Un episodio può essere illuminante delle relazioni fra madri e figli. Costanza, dopo la rinuncia al monastero, nonostante le malevole osservazioni del Pelli, nel 1777 si era maritata con l’attem-
pato, ma ricco cavaliere Giovanni Gori", riuscendo in ciò che non era stato possibile alla maggior parte delle sue ave”. Ma pochi anni dopo le sue relazioni con la madre giungono addirittura ad interrompersi. «Quando vedrete la Signora Madre — scrive Costanza a Guglielmo — salutatela e ditegli [sic] che da lei non ci vado perché il Sig. Cavaliere espressamente non vuole, onde andateci voi in mia vece».
È difficile per ora dare una spiegazione a queste parole di Costanza. I comportamenti di Maria Anna verso i figli sembrano comunque sempre improntati a freddezza. Già nel periodo di oltre due anni passato da Guglielmo a Bologna nel Collegio dei nobili, San Francesco Saverio, la madre era sembrata rimanere estranea alle
gravi crisi spirituali attraversate dal figlio. Guglielmo aveva da prima incontrato difficoltà ad inserirsi negli studi più avanzati di matematica a cui teneva particolarmente, poi il desiderio di entrare nell’ordine dei gesuiti, rimasto inappagato per lo scioglimento della Compagnia, aveva creato vivissimi contrasti con il padre Niccolò!. Ebbene
5 BMOF,
NFL, Carteggi,
xvm
sec., 370, 24 aprile 1778.
Le disposizioni,
unite alle
considerazioni sui motivi esposti nel testamento di Niccolò Libri sopra citato, che privano Maria Anna, una volta rimasta vedova, della tutela dei figli minori e della cura del patrimonio,
lascerebbero intendere che la delega della tutela dei figli e della cura del patrimonio alle vedove fossero legati principalmente alla personale condizione economica della donna. Maria Anna che è ricca ereditiera, non ha bisogno di ciò, anzi si compiace della propria indipendenza
dai figli e dal loro patrimonio. Per un’interpretazione opposta che spiega la frequenza della tutela femminile nel costume fiorentino, con motivi etici e affettivi cfr. G. Calvi, I/ contratto morale. Madri e figli nella Toscana moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994.
16 asF, Carte Sebregondi, 2687, Famiglia Gori Ciampelli. !7 BNCF, Carte Passerini, 156, Famiglia Libri. Le esponenti femminili della famiglia fra xvn e xvII secolo entrarono tutte in convento. Leonardo di Antonio pone in convento le sei figlie nate dal matrimonio con Laura di Bernardo Bartolommei; Lorenzo di Leonardo (1646 - 1701)
a sua volta monacò le due figlie sopravvissute all’infanzia. 18 BMOF, NFL, Carteggi, xv sec., 259, 28 luglio 1780. !9 Fubini Leuzzi, Guglielmo Libri, cit., pp. 93-97.
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in questi frangenti Maria Anna non si fa viva col figlio neanche attraverso Niccolò, come avviene per gli affari di salute. Proprio queste caratteristiche allora spiegano il più grave e significativo allontanamento fra Guglielmo e la madre, culminato in un episodio che va ben oltre le comuni incomprensioni fra generazioni ed indica l’arditezza del salto culturale compiuto da Guglielmo che ebbe poi importanti conseguenze nelle generazioni successive.
Intendo riferirmi alla scelta delia sposa che Guglielmo segretamente compie e di cui dà notizia alla madre soltanto a matrimonio avvenuto, nella ferma volontà di sfuggire — come le scrive — ai tentativi di dissuasione che i pregiudizi spingono una generazione
dopo l’altra ad intervenire in scelte che egli ritiene essere soltanto personali. Guglielmo con un passo di vera trasgressione, simile a quello che aveva osato fare anni prima, iniziando il noviziato nella Compagnia
di Gesù, aveva
sposato una giovane donna inglese,
Carolina Strickland, «stata sua maestra nella lingua», figlia di un nobiluomo di religione cattolica, costretto ad abbandonare il proprio paese, probabilmente al seguito di Carlo Edoardo Stuart, in condizioni dunque di povertà e di emarginazione rispetto alla società aristocratica fiorentina?°. Di fronte all’accaduto Maria Anna rifiuta di conoscere la sposa e ingiunge al figlio di non fargliene più parola se non nel caso della nascita di prole e soltanto per doverosa consuetudine: Amatissimo Figlio, quando voi vorrete farmi sapere il giorno in cui sarete vicino ad avere figli, io non vi posso impedire che mi diate tal notizia, solo vi dirò che non sono in grado di prendermi né incomodi, né pensieri. Questo vi serva di regola, e pregandovi dal Signore ogni benedizione, passo a dirmi ecc.?.
Si tratta della risposta all'ultima lettera di Guglielmo conservataci della fine dell’agosto del 1781 che annunciava la prossima nascita del figlio Giorgio, avvenuta nell’ottobre successivo. Maria Anna morì poi nel 1785, senza lasciare testamento. Ancora una volta per indifferenza? Ce lo chiediamo, certamente questo suo comportamento si distingue da quello delle altre donne della famiglia a lei più vicine per legami di sangue: la madre Angiola, morta nel 1771 e la 20 Ibid., pp. 100 ss. 21 BMOF, NFL, Carteggi, xvi
sec., 370, Firenze 31 agosto 1781.
22 Ibid., Carteggi, xvm sec., 365, s.d.
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figlia Costanza, morta nel 1795. In ambedue i casi esistono testamenti che, mantenendo il rispetto della patrilinearità, riportano legati generosi per parenti e servitori?. Maria Anna chiusa nel proprio
distacco non ritiene di dover testare, la legge stabilisce per lei. Anzi, indirettamente, già suo padre aveva indicato la successione, «in caso di mancanza di altri eredi, l’unica erede sarebbe Anna Libri, e se lei premorisse, eredi sarebbero i figli maschi di le»*. Il patrimonio immobiliare materno che i due fratelli Massimiliano e Guglielmo si divisero era cospicuo, a ciascuno dei due spettarono oltre 27.352 scudi in case di città, ville e poderi, in aggiunta di altri undicimila scudi circa impegnati in prestiti bancari”. A Costanza, la figlia femmina, che all’atto del matrimonio aveva già avuto la dote di seimila scudi, un legato del nonno materno di mille e trecento e il corredo della madre, elencato in quattordici fogli, niente venne lasciato. Maria Anna non sentì la necessità di dettare un testamento per ricordare personalmente lei come altri che le erano stati vicini.
Carolina, la moglie di Guglielmo è donna di tutt’altro genere. Sensibile, colta, di salde convinzioni religiose, si è unita a Guglielmo
per scelta sentimentale, guidata da principi indirizzati al rinnovamento civile della società e dalla fiducia in essi, da cui fu poi sostenuta nel suo impegno di moglie e madre. Le sue lettere al marito, di solito scritte in francese, a cui si alterna un italiano
alquanto stentato, sono piene di mille tenerezze per lui e di descrizioni affettuose e al tempo stesso piene di apprensione per il comportamento e per la salute del piccolo Giorgio. Il ruolo che Carolina si è assunto è quello di moglie rispettosa, ma anche consapevole collaboratrice del marito in primo luogo nella cura e nell'educazione del figlio. In una addolorata lettera che affronta i difficili rapporti avuti con Giorgio fin dalla prima infanzia, racconta dell’«amore veramente materno» che porta al figlio e di come lo abbia dimostrato sempre:
2 AsF, Notarile Moderno, Notaio Antonio Fortini, 29115, cc. 13v - 14v, 24 febbraio 1771, testamento di Angiola della Torre e Tassis di Venezia, moglie di Guido da Bagnano; ivi, Dar Domenico Chiocchini, 28676, cc. 39v - 42r, 15 agosto 1793, testamento di Costanza ori. 24 Ibid., Notarile Moderno, Notaio Antonio Fortini, 29115, cit. % Ibid., Notarile Moderno, Notaio Domenico Braccini, Atti, 27516, cc. 106v - 1121, «Di-
visio inter fratres», 4 gennaio 1787; per la divisione dei capitali liquidi vedi BMOF, NFL, 2,5. 26 BMOF,
NFL,
1, 4.
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Fin da [quando] la balia lo portò egli dimostrò un carattere indomito e furibondo [...]. Pugni graffi e calci furono i suoi infantili trastulli. Obbligato a serrarmi solo con lui dalle otto della mattina fino vicino alle dieci della sera, senz’altro respiro che per desinare, in quelle lunghe durate di ore io procuravo di istruirlo con la lettura di libri buoni devoti e morali, con la dottrina cristiana, la Sacra Scrittura, come pure novelle innocenti e piacevoli, lo insegnavo a scrivere e per alettarlo a imparare l’inglese componevo da me alcuni dialoghi puerili, adattato alla sua età. Venuto poi l’orribile sua malattia, non l’ho mai abbandonato quantunque egli era come un animale feroce, ma io come madre compativo i suoi trasporti e per indurre gli altri di casa ad averne pietà [...] non cessavo [...] di spargere tutto il mio denaro in benefizio suo per sette anni intieri che durò la di lui malattia”.
Del resto la corrispondenza di Carolina che possediamo riguarda soprattutto i suoi rapporti col figlio fanciullo di cui dà conto giornalmente al marito Guglielmo, assente da casa impegnato a Prato, a San Sepolcro dai suoi incarichi di magistrato pubblico. Si tratta quasi di un diario attraverso cui Carolina dà conto al capo famiglia dei comportamenti del piccolo figlio e dei criteri da lei adottati per seguirlo nella cure quotidiane secondo la linea di educazione
concordemente
scelta, almeno fino all’età dell’adole-
scenza. Le lettere sono affettuose, ricche di piccoli particolari che danno l’impressione di un nucleo familiare intensamente affiatato. Niente insomma vi è qui del freddo formalismo che la corrispondenza di Maria Anna lasciava intendere. C’è un precettore, ma Carolina sorveglia sul suo lavoro, e quando il precettore è malato è lei stessa che conduce a passeggio il piccolo Giorgio, «perché il servo è lourdant e troppo goffo per questo compito», mentre per il carnevale programma di mandarlo a vedere le maschere e la corsa in piazza Santa Croce*®. E poi ci sono gli spazi dedicati all’insegnamento dell’inglese. È il suo affetto di madre che richiede di poter stabilire col figlio una comunicazione più immediata e spontanea, esattamente come le madri fiorentine che insegnavano nei primi anni
di vita ai loro figli il vernacolo per esprimersi con loro più direttamente”. Più tardi nonostante le gravi incomprensioni Giorgio 27 BMOF, NFL, Acquisti Diversi, 53,3, Biglietti della Signora Carolina Libri al Matematico
Pietro Ferrani, Di casa 13 aprile (1798), c. 97v. Trascrivo le lettere di Carolina Strickland senza modifiche né di ortografia, né di grammatica. 28 BMOF, NFL, Carteggi, xvi sec., 343, 30 gennaio 1798. 2 Klapisch Zuber, Le chiavi fiorentine di Barbablà, cit., p. 769.
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sarà grato alla madre di avergli procurato dimestichezza con la lingua di Locke? A Guglielmo viene reso conto anche di questo. Quando egli è impegnato a San Sepolcro è Carolina a prendersi cura che il bambino gli scriva mensilmente una lettera in inglese. Durante i suoi periodi di malattia la corrispondenza fra i genitori fu anche di più lettere al giorno tanta era l’ansia soprattutto di lei che trovava in Guglielmo un appoggio. Giunge addirittura a scusarsi, in occasione di una malattia del piccolo più lunga delle altre, della troppa tenerezza del proprio carattere, dominato dalla malinconia propria degli inglesi. Ma quando è necessario sa divenire anche severa maestra di comportamenti morali, sempre tuttavia col forte sostegno del marito: Ho letto la vostra lettera a Giorgio e gli ho fatto comprendere la sua cattiva sorte se incorre nella vostra disgrazia e se voi prendete la risoluzione di allontanarlo dalla vostra casa. Ho visto con piacere colare le lacrime che indicano qualche sentimento (perché a lui non colano facilmente). Egli implora ilvostro perdono; ma vi sono molto obbligata per le vostre minacce, che mi faranno fortunata se avranno qualche effetto sul suo cuore orgoglioso”.
La sospensione di Guglielmo nel 1792 dalle cariche pubbliche, avvenuta per motivi non del tutto chiari, ma probabilmente per la sua appartenenza al circolo di Francesco Maria Gianni e dei riformisti radicali, permise un rapporto più intenso di Giorgio col padre che lo guidò molto precocemente alla lettura, anche nella lingua originale, di Locke, di Bolingbroke, di Newton, e poi di Rousseau, di Voltaire e via
di seguito.«Alla tua età, — scrisse più tardi al figlio diciottenne, volendo metterlo in guardia dai suoi eccessi, — avevo letto in maniera prodigiosa, a venti anni ancora di più, a venticinque avevo dimenticato i nove decimi delle mie letture». Ciò gli permise di inserirsi nel circolo dei giacobini amici di famiglia, primi fra tutti il matematico Pietro Ferroni, membro poi della municipalità di Firenze nel breve periodo repubblicano, e Rodolfo Gianni, figlio del ministro, e democratico convinto”. Certo è che nei mesi immediatamente precedenti l’arrivo dei 30 M. Fubini Leuzzi, Giorgio a Guglielmo Libri: lettera di un ex giacobino al figlio, in «Labyrinthos», 11, 1984, pp. 264 ss. 31 BMOF, FPL, Carteggi, xvImi sec., 418, 5, 11, 10 gennaio (1788).
3: Fubini Leuzzi, Giorgio a Guglielmo Libri, cit., p. 262, «A ton àge j’avais lù prodigeusement, à vingt ans, bien d’avantage, à vingtcinque j'avais oublié les neuf dixièmes de mes lectures». » Cfr. G. Turi, Viva Maria, La reazione alle riforme leopoldine (1790 - 1799), Firenze, Olschki, 1969, passi; C. Mangio, Patrioti toscani fra «repubblica Etrusca» e Restaurazione,
Firenze, Olschki, 1991, passi; I. Tognarini, Orientamenti politici e gruppi dirigenti nella
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francesi, Giorgio Libri era conosciuto e sorvegliato in città per i suoi atteggiamenti provocatori, per la sua presenza nei caffè ad arringare la folla, per il suo rapporto con i fuori usciti. A tutto ciò non doveva neanche essere estranea la follia ormai definitiva del padre. Fra la primavera e l'estate del 1798, la coincidenza di una serie di avvenimenti fa precipitare la situazione in famiglia. L'armonia fra i tre componenti che aveva prevalso nonostante tutto fino ad allora è definitivamente incrinata. Carolina di fronte allo «stato compassionevole» di Guglielmo e al comportamento irresponsabile del figlio, attraverso l’autorità di Pietro Ferroni, «matematico regio», vecchio
amico dei Libri prima che compagno del circolo democratico, chiede un intervento autorevole per sottrarre al giovanissimo Giorgio il patrimonio di famiglia, praticamente nelle sue mani con il consenso del padre. Con una scrittura resa ancor più scorretta del solito per l'emozione la madre disperata denuncia: Egli profitto dell’infelice grado del suo padre e del suo cieco fiducio in lui per sciupare e scialacquare il suo denaro; giacché è detto pubblicamente che egli spende e sciala. Con la sua infame parlare egli cuopre il Padre di obbrobrio e si è rese l’esecrazione del pubblico [...]. Mediante la costante e volontaria cecità del padre”.
La disperazione e il dolore spingono Carolina a denunciare anche la situazione conflittuale che sull'educazione dell’adolescente, Gior-
gio ha poco più di sedici anni, si è aperta con il marito: In quanto a me io sono sempre stata la vittima perché il Sig. Guglielmo non ha mai voluto prestare orecchi che sola ho dato, anziché credermi egli ha sempre ricevuto i miei avvisi con manifesto disgusto e qualche volta con dirmi che io non amavo suo figlio, quantunque dacché Giorgio fu di ritorno da balia io li ho servito con instancabile servitù. Li sono stata madre, maestra e serva”.
Già qualche mese prima del resto aveva dovuto rivolgersi all’amico perché interrompesse una sgradevole situazione che si era creata in famiglia. Guglielmo aveva invitato a desinare tutti i giorni un conoscente per evitare che durante il pranzo avvenissero battibecchi fra Toscana di fine Settecento, A.M. Isastia (a cura di), in Il 1789 in Toscana. La rivoluzione
francese nel Granducato, in «Annuario dell’Accademia Etrusca di Cortona», xx1v, 1989-1990, pp. 253-280. 34 BMOF, Acquisti Diversi, 53, 3, c. 97r., 13 aprile (1798). » Ibid.
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madre e figlio, causati dai rimproveri di lei. In altre parole Guglielmo, entusiasta del figlio e della sua precocità, riversando su di lui aspettati ve anche ideologiche molto forti, avrebbe voluto escludere la madre, più equilibrata e consapevole, dall’intervenire nell’educazione di Giorgio. Ma lei non accetta, non ha bisogno di uno scomodo sorvegliante della sua condotta verso il figlio, anzi la cosa la turba profondamente”.
Eppure nell’ultimo testamento, dettato il 6 giugno 1794, la fiducia di Guglielmo nei riguardi di Carolina appariva profonda. Carolina vi era indicata come unica tutrice del figlio, anche se le erano affiancati consiglieri ed esecutori espressamente nominati. Inoltre si aggiungeva: «Per legato e per una buona riconoscenza della buona e fedele compagnia avuta con la Sig. Carolina Strickland sua dilettissima consorte e per l’assistenza prestata all’infrascritto suo signor erede nelle di lui malattie [...] lascia alla medesima quanto segue». Si prescriveva di conservare fino all’età pupillare del figlio il medesimo trattamento riservatole in vita del coniuge. Al termine di tale età in caso di separazione dal figlio le sarebbe spettata una rendita annua di mille e duecento scudi, l’uso di un’abitazione «comoda e decente che comporti una pigione di cento scudi annui», l’uso di abitazione con mobilia della villetta di Santa Maria a Coverciano”. Pur nell’ufficialità del linguaggio si rilevano dunque note di affetto personale e una particolare generosità anche in caso di separazione fra la madre e il figlio. L’appello di Carolina fece scattare provvedimenti ufficiali a protezione del patrimonio, contro gli sperperi del giovanissimo Giorgio, non sentendosi in grado lei di condurre da sola i complicati affari di famiglia, ma soprattutto non avendo la forza per contrapporsi autorevolmente al figlio. La certificazione dello «stato compassionevole» di Guglielmo Libri presso il Magistrato dei Pupilli e Adulti, la minorità e la scarsa affidabilità di Giorgio, portarono dal giugno 1798, alla nomina d’ufficio di due curatori del patrimonio, Gualterotto Bardi e Alamanno Altoviti?*. In verità fra madre e figlio si era aperta una profonda incomprensione via via che Giorgio era andato maturando, guidato dal padre e 36 Ibid., c. 115, 23 settembre (1797). AsF, Notarile Moderno, Notaio Cosimo Braccini, 27525, cc. 60v - 85r, Testamento di
Guglielmo Libri, Firenze 6 giugno 1794. 35 BMOF, NFL, 3, 6, 149. Vi si conserva copia degli atti emessi dal Magistrato dei Pupilli e Adulti dal 13 giugno 1798 al 6 dicembre 1800, quando con decreto reale, Giorgio ottenne di amministrare personalmente i beni paterni, ivi 3, 6, 150.
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dai suoi amici giacobini, simpatie bonapartiste, al punto che Carolina se ne sentiva addirittura minacciata”. Anzi proprio il suo persistere in atteggiamenti oltranzisti e il suo preparare nascostamente una partenza insieme col corriere francese portando carte, probabilmente procurategli dagli amici democratici, portarono il 2 agosto addirittura all'arresto del ragazzo. Il giorno dopo Carolina insieme con il cognato Massimiliano Libri e con i curatori del patrimonio, di fronte alla necessità avanzata dagli ufficiali del Buon Governo di isolamento per questo giovane ritenuto pericoloso per qualsiasi normale casa di correzione — «sebbene oltrepassi di poco gli anni 16 di sua età, avendo male impiegato il singolare talento di cui è dotato, si è imbevuto di massime anticristiane e democratiche»
(9 agosto 1798) — , propongono per il ragazzo «un luogo dove possa ricevere un’onesta e religiosa educazione e segnatamente Camaldoli». Ma nell’eremo mancano materiali ove egli possa istruirsi sufficientemente e l°8 agosto egli viene accompagnato «con scorta militare a spese del patrimonio del di lui padre», nel convento francescano della Verna, nell'Appennino sopra Arezzo”. Sono mesi tormentati per Carolina, divisa fra il pensiero del figlio ribelle, la pena per il marito ammalato, i criteri spesso non condivisi della amministrazione patrimoniale tenuta dai curatori, ma è pur sempre in grado di reagire con fermezza: Come moglie e moglie quale ama teneramente il suo marito crede di avere più parte interessante negli affari del marito che non ha il Sig. conte Bardi, e perciò non deve arbitrare lui solo, ho diritto di essere ascoltato e a
più forte ragione mentre che non cerco che li veri interessi del mio amato Guglielmo, ove mi par che altri hanno genio a far buttar via il suo denaro”.
Le lettere di Giorgio alla madre dalla Fortezza da Basso di Firenze, adattata ora a casa di rieducazione per minori, testimoniano di una situazione fra i due complessivamente pacificata, pur nella mancanza sostanziale di comprensione ideologica e culturale. Gior-
gio rimane nel riformatorio fiorentino le ultime settimane del 1798. Agli occhi delle autorità la sua pericolosità non
è scemata
(«il
contegno del noto giovane Giorgio Libri è sempre pessimo e tale che non dà veruna speranza di cangiamento»), si rende «molesto e di 3° BMOF, Acquisti Diversi, 53, 3 c. 103, 17 aprile (1798). 40 ASF, Presidenza del Buon Govermo; 210, affare 778, anno 4 BMOF, Acquisti Diversi, 53,3, c. 111, 27 agosto (1798).
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scandalo ai religiosi». In particolare aveva compiuto un tentativo di fuga, non riuscito, con la complicità degli amici democratici fiorentini, era quindi opportuno spostarlo dalla Verna in altro luogo più sicuro (16 novembre 1798). Le settimane alla Fortezza da Basso, da
metà novembre alla fine di dicembre, sono dunque solo una pausa per celebrare il processo, istruito per quest’ultimo episodio, prima di essere avviato altrove. Carolina è premurosa, non gli fa mancare in carcere i prodotti a lui tanto graditi delle fattorie di famiglia, i limoni, i capponi, e poi il buon vino della fattoria di Riofi che il ragazzo non cambierebbe con nessun altro al mondo (alla madre, 23 dicembre 1798). Giorgio però vuole soprattutto libri, vuole continuare negli studi che la carcerazione aveva interrotto, specialmente quelli di matematica e di filosofia, e particolarmente chiede la storia dell’algebra di Pietro Cossali, il Saggio sull’intelletto umano di Locke e poi per distrarsi opere di storia e poesia, meglio se epica, e dovrebbe essere facile averli dal momento che sono tutti a casa, nella biblioteca di famiglia. Ma Carolina, non gli porta che «fanciullesche ridicole favolette», che a Giorgio paiono un insulto, come scrive al Ferroni a cui si rivolge per lo stesso scopo (a Pietro Ferroni, 4 dicembre 1798) e poi, rimasta la richiesta senza successo anche presso di lui, ai curatori del patrimonio paterno (a Bardi e Altoviti, 19 dicembre 1798). C’è però un elemento della cultura materna che egli non rifiuta, tuttaltro, la
familiarità con la lingua inglese. Ripetitiva è la richiesta di libri in quella lingua, che nel carcere, senza esercizio, ha paura di dimenticare, e che lo spinge a scrivere a Carolina alternando brani in inglese con brani in italiano, mortificato dagli errori di cui è consapevole. Pur di leggere l’inglese è disposto ad aver qualsiasi libro, «except of prayers» (14 dicembre). Il 28 dicembre di quell’anno Giorgio Libri viene relegato nella Fortezza del Falcone di Portoferraio fino a nuovo ordine, con la raccomandazione che possa avere rapporti solo «con persone incapaci di corruttela»*. Termina qui anche la documentazione sui suoi rapporti con la madre, e non disponiamo neanche di altre notizie di questa infelice donna. In un documento successivo, quando Carolina doveva essere ormai morta da tempo, egli la ricorda per apprezzare, come
4 ASF, Presidenza Buon Governo, 210, 1798, affare 778 alle date indicate. 4 Ibid, alle date indicate.
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ricordavo, il grande vantaggio da lei ricevuto nella conoscenza della lingua inglese. I documenti degli anni immediatamente successivi parlano della presenza di Guglielmo presso il figlio e la sua famiglia alle cui cure è affidato. A noi non rimane che immaginare con dispiacere che questa donna sia morta di crepacuore in solitudine negli anni immediatamente successivi. Certo è che Giorgio, mentre militava nell’esercito napoleonico, nel 1812 ricevette dal nonno inglese la cospicua eredità di sessantamila sterline che si affrettò a dissipare in breve tempo. Le note riguardanti la generazione successiva sono tanto ricche che avrebbero bisogno di un intero saggio. Mi limito con rincrescimento, per questione di spazio, a ricordare solo alcuni dei tratti che la caratterizzarono. Rosa di Lorenzo del Rosso, di nobile famiglia pisana, sposò Giorgio Libri nel 1801, quando egli non ancora ventenne si trovava a Pisa in qualità di comandante di un gruppo di volontari, assoldati a proprie spese, per combattere per la causa francese. La giovanissima coppia, trasferitasi nei possessi dei Libri nel Valdarno Superiore, già nel gennaio del 1802 ebbe un figlio, futuro matematico di fama europea, ma soprattutto noto oggi per la conoscenza dei fondi antiquari delle biblioteche e degli archivi specialmente italiani e francesi, e per i furti di materiale prezioso in essi commessi”. A lui, a dispetto della bigotta dinastia Borbonica ora al governo del novello Regno di Etruria, furono imposti i nomi, carichi di allusioni trasgressive e dissacranti, di Giuda Taddeo Icilio Bruto#. Fu appunto con quest’ultimo nome che il bambino venne poi chiamato durante l'infanzia. Questo cenno basti a farci intendere il carattere fortemente ideologico che unì questi due giovanissimi sposi. Nel frammento della propria autobiografia Guglielmo Libri, nome con cui fu conosciuto Bruto dopo l’infanzia, scrisse: «I miei 4 BMOF, NFL, Carteggi, xIx sec., 344, Giorgio Libri al notaio Michele Bandinelli, Toulouse
5 settembre 1812. 5 A. Stiattesi, Comentario storico scientifico della vita e delle opere del conte Guglielmo Libri, illustre matematico fiorentino del sec. XIX, seconda ed. corretta, Firenze, Tipografia G.P. Campolini, 1879; cfr., anche se non sempre attendibile, Gi Fumagalli, Guglielmo Libri, a cura di Berta Maracchi Bigiarelli, Firenze, Olschki, 1963; Fubini Leuzzi, Gt; studi scientifici in Italia, cit. 46 Sulla fortuna di Bruto nella cultura dei Lumi e della Rivoluzione francese cfr. M.L. Clarke, The noblest roman: Marcus Brutus and his reputation, London, Thomas and Hudson
Ltd, 1981, traduzione italiana, Bruto, l’uomo che uccise Cesare, Milano, Bompiani, 1984, pp. 105 e 131-139.
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genitori nutriti con le massime di Rousseau, vollero fare di me un Emilio». In verità l’unione della coppia si interruppe molto presto e buona parte dei precetti e dei comportamenti educativi impostigli nei primi anni di vita furono piuttosto frutto delle convinzioni del padre, alle cui uniche cure fu affidato negli anni della prima infanzia. Un doloroso pudore suggerisce ai protagonisti di velare nei documenti destinati alla posterità, le fratture, le incomprensioni, i litigi che emergono invece con estrema chiarezza da tutta la corrispondenza. Bruto Guglielmo, allattato dalla madre, come volevano le più moderne dottrine mediche e filosofiche, visse con lei nella fattoria di
Poggitazzi, in Valdarno, finché ebbe bisogno di quel nutrimento, mentre il padre, che era stato colpito da una condanna per atti sacrileghi, veniva prima confinato nella Provincia Inferiore di Siena e poi, per sua richiesta, esiliato ad Arcola nella Repubblica Ligure, sul confine col Regno di Etruria. Già a quindici mesi tuttavia il bambino seguì il padre nella residenza ligure, mentre la madre continuava, come aveva già fatto fin dalla condanna di Giorgio nel gennaio del 1802, ad occuparsi dei complessi affari del marito, indebitato dalle imprese bonapartiste, e della amministrazione delle fattorie e dei beni, avendo cura al tempo stesso del suocero, sempre più isolato nella sua pazzia*. Rosa agiva a Firenze in qualità di procuratrice del marito, a cui già prima del matrimonio suo padre aveva versato cinquemila scudi della dote per riscattare parte delle proprietà dalle ipoteche di cui erano gravate‘. Ella continuava ad utilizzare ciò che le rimaneva per arginare i creditori di Giorgio, tenendosi in contatto con amici e consiglieri al fine di risolvere al meglio una situazione patrimoniale che per la vita smodata del marito diveniva sempre più precaria”,
Proprio questa difficile condizione creatasi, controllare il patrimonio e contemporaneamente spingere Giorgio ad abbandonare la sua vita avventurosa suggerisce a Rosa di rifiutarsi di raggiungere il marito in esilio, nonostante le sue suppliche: «Ti prego a sbrigarti più che puoi a venire a Massa con babbo, scrive lui, perché Bruto e 4. BMOL,
FPL, 435, 3, 1, c. lr.
4 BNCF, Nuovi Acquisti, 1050, G. Pelli, «Efemeridi», seconda serie, vol. xx, 4620v, dà
notizia della persistenza della malattia di Guglielmo fino alla morte. 4 BMOF,
NFL, 3, 6, 150.
50 Ibid., NFL, Carteggi, xIx sec., 377, lettere di Rosa a Giorgio Libri; ivi, Carteggi, xIX sec., 344, e ibid, FPL, Carteggi, x1x sec., 423, 3, 8, lettere di Giorgio a Rosa Libri.
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io non possiamo vivere senza di te» (1° ottobre 1803). Lei resiste,
ottiene che Bruto torni da lei verso la metà del 1805 e continua la sua battaglia per dare alla famiglia stabilità affettiva, morale, economica. Ma Giorgio, sempre più legato all’esercito francese seguita a condurre vita disordinata e dispendiosa, e soprattutto si rifiuta di tornare nella Toscana borbonica e reazionaria. Come in una coppia del nostro tempo però la vera posta in gioco è diventata il figlio. Rosa per difendere la sua priorità su di lui, nelle sue lettere gli ricorda la cura e l’amore materno che ha dedicato al piccolo Bruto insieme con gli altri suoi meriti: Io oppongo la freddezza alla tua collera, l’amore materno al tuo furore paterno, l'economia alla dissipazione [...]. Non ami più tuo figlio perché dalle tue lettere si rivela che una volta l'hai minacciato di morte, una di un tutore come Covoni”!, una di diseredarlo e una di toglierlo a sua madre. Nulla è più facile di contestarti in questo, tua moglie seguiterà ad amare il Giorgio di sei anni orsono, riconoscendo per origine del vizio la ricchezza, nulla si curerà della tua eredità per suo figlio [...]. La tua moglie che si occupa sempre di te fa nascere nel cuore di tuo figlio sentimenti di tenerezza a tuo riguardo (7 giugno 1806).
E altrove: «Crescendo mio figlio nella povertà io raddoppio i miei sacrifici onde siino coltivati i miei talenti col mezzo dei quali si solleverà dalla povertà in cui un codice divino ed un padre l’avranno immerso» (senza data). La battaglia si chiude poco dopo, nel 1808 con una separazione consensuale. Giorgio di passaggio per Firenze abbracciò per l’ultima volta il piccolo Bruto che la moglie acconsentì a portargli incontro. E fu probabilmente in quella occasione che redasse il testamento segreto che porta la data del 20 ottobre 1808. L’affetto per il figlio e l'amarezza per doverlo lasciare sono fortissimi. A lui suo erede universale, di un patrimonio ormai coperto di ipoteche vuole che sia consegnato, dopo la sua morte, la metà del suo cuore debitamente imbalsamato, a ricordo dei dolci sentimenti paterni. Insieme con precetti morali coerenti con le sue convinzioni ideologiche — gli raccomanda «la virtù, l'onore, il coraggio, l’amor patrio, la fermezza, l’amore alla vera gloria, allo studio, alle scienze, alle arti, alla libertà» — Giorgio si mostra consapevo-
le delle sue manchevolezze di padre: «Lo prego di rammentarsi d’un 51 Marco Covoni fu esponente della Reggenza nominata da Ferdinando m1 per rafforzare il
governo granducale di fronte a una nuova invasione francese. Cfr. Turi, «Viva Maria», cit., p. 287; R.P. Coppini, I/ granducato di Toscana. Dagli anni francesi all'unità, Torino, UTET, 1993.
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padre che muore adorandolo del più tenero amore paterno e che però non ha avuto la fermezza di dargliene la più alta prova, troncandoli un’esistenza che ei li brama felice, ma che probabilmente sarà disgraziata». A Rosa lasciava la tutela del piccolo Bruto e la cura del patrimonio, affiancandole quattro fra i più antichi e autorevoli amici di famiglia, primo fra tutti il senatore Francesco Maria Gianni”. Le volontà del testamento segreto rimasero ignote, Giorgio morì
molti anni dopo nel 1836, lasciando disposizioni testamentarie di contenuto alquanto diverso”. Ma il pensiero del figlio, della sua educazione, del suo avvenire lo accompagnò sempre negli anni successivi. A lui dedicò nel 1819 dal carcere di Lione, dove si trovava
rinchiuso per la falsificazione di alcune cambiali, una lettera, i cui argomenti ripropongono gli stessi precetti morali presenti succinta-
mente nell’ultimo capoverso del testamento del 1808, con qualche variante. Questa lettera in verità è un trattato vero e proprio, una
sorta di su727z4 in cui si uniscono insieme ricordi del proprio passato, che intende far conoscere a Bruto, richiami agli anni di
Arcola e alle pratiche di educazione adottate, giudizi sugli autori letti, consigli su quelli da leggere, indicazioni precise per gli studi da affrontare, sulle scelte politiche e sociali da compiere, per concludere con la principale scelta della vita, quella della compagna. Tutto lo scritto è una sorta di monologo col giovane figlio, permeato di profonda intensità emotiva, che nulla toglie tuttavia alla lucidità dei giudizi e delle considerazioni, mentre sempre vigile rimane la critica di se stesso”. Si discosta in questo dal Manoscritto per Teresa di Pietro Verri, in cui prevale, pur nella evidente sensibilità affettiva,
l'interesse per l'osservazione analitica che vuole apparire quasi scientifica, e toglie spazio alla più palpabile espressione soggettiva. Alcuni brani del Verri, specialmente riguardanti i consigli per il futuro non si discosterebbero molto nel contenuto dalla trattatistica didascalica di argomento simile se non fossero rivolti personalmente alla piccola figlia Teresa”. 52 ase, Notarile Moderno. Testamenti Segreti, Testamento del 20 ottobre 1808. % La copia dell’ultimo testamento di Giorgio Libri è conservata in BMOF, FPL, 432, 60 bis, e porta la data Amsterdam, 21 novembre 1835.
34 Fubini Leuzzi, Giorgio a Guglielmo Libri, cit., pp. 260-289, pubblicata.
dove è interamente
5 P. Verri, «Manoscritto» per Teresa, a cura di G. Barbarisi, Milano, Serra e Riva Editori,
1983; Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., pp. 370, 387-392.
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Quale sia stata l’importanza di questo scritto per Bruto/Guglielmo, ce lo dice la conservazione accurata del fascicolo fra le carte di
famiglia, quasi a sostituire i libri di ricordi della nobiltà fiorentina dei tempi andati”. In questo documento Giorgio tracciava una strada diversa per l'ideologia familiare, una strada che indicava nei nuovi valori civili, ispirati al liberalismo di Locke e di Voltaire, i
principi da seguire mentre spingeva il suo giovane successore ad uscire dal ristretto mondo toscano e ad interpretare la sua parte sul palcoscenico europeo. Ma quel documento ebbe per Guglielmo una profonda importanza anche nell’immediatezza dei fatti. Non solo egli riuscì a far restituire la libertà al padre, seguendo gli avvertimenti che Giorgio forniva, in un biglietto ora smarrito, contenuto nel medesimo plico, ma le sue scelte più importanti si attennero sostanzialmente ai precetti paterni, dando prova della profondità del legame. Certo, Bruto/Guglielmo fece sempre a meno di ricordare, per quanto gli fu possibile, il peso di questa influenza, al punto da dichiarare come già avvenuta la morte del padre nel 1832, quando si trattava di essere ammessi in qualità di professore al Collegio di Francia, mentre sappiamo che Giorgio morì poi all’Aja nel 1836. Ma come altrimenti menzionare un padre che era stato proscritto, più volte incarcerato per debiti e per falsificazioni di cambiali, in fama di babeufismo, avventuriero e vagabondo nell'Europa napoleonica? Questa lettera di precetti fu scritta oltre dieci anni dopo l’ultimo soggiorno di Giorgio a Firenze — porta la data del 19 aprile 1819 -, ma documenta attraverso minuti particolari, per esempio è a conoscenza dei nomi dei professori del figlio all’università di Pisa, con quanta attenzione egli abbia seguito il ragazzo negli anni attraverso le notizie riportategli direttamente o per corrispondenza da parenti e amici fidati. Colpisce infatti soprattutto l’intimità tutta moderna dei sentimenti che il padre nutre per il figlio, anche quando i richiami sono bruschi. Sono i cenni all'esperienza personale a rivestire di pacata commozione le considerazioni precettistiche rinnovando fra padre e figlio un intenso rapporto fatto di sentimenti e di categorie intellettuali desiderato da ambedue, che 56 G.M.
Anselmi, F. Pezzarossa, L. Avellini, La «memoria»
dei mercatores.
Tendenze
ideologiche, ricordanze, artigianato in versi nella Firenze del Quattrocento, Bologna, Patron, 1980; A. Cicchetti, R. Mordenti, La scrittura dei libri di famiglia, in Letteratura italiana. Le forme del testo: la prosa, 11, 2, Torino, Einaudi, 1984.
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per Giorgio rappresentava la continuazione del penetrante legame avuto nell’adolescenza col padre Guglielmo. «Ben più giovane ancora [di tel, tuo padre è stato l’amico, il confidente del proprio»”. Fortissimo è per esempio il desiderio di Giorgio nel rivendicare l’importanza del suo ruolo nelle cure per l'allevamento di Bruto nei primi anni di vita: Ricordati che dall'età di quindici mesi fino quasi ai cinque anni tu non hai avuto altra bambinaia e potrei dire altra nutrice, che tuo padre, e che durante questo periodo non ho mai sopportato che un domestico, un mercenario, un estraneo ti rendesse alcuni dei servizi che la tenerezza della
tua età ti impedivano di rendere a te stesso. È tuo padre che ti ha abituato per esempio a dormire per terra in inverno e al sole in estate, a rompere il ghiaccio in cui ti bagnavi, a camminare a piedi nudi, a sfidare le intemperie, a nutrirti indifferentemente di ghiande e di cibi delicati e che formandoti così un fisico di bronzo, ha preparato la tua educazione morale”.
Anche il rammarico per gli errori compiuti nella vita passata, per aver con troppa ingenuità seguito letture, rivelatesi pure astrazioni, è significativo. Così mentre nel testamento del 1808 lasciava espressamente al figlio le opere di Rousseau, ora scriveva: «Sono d’avviso che Eloisa ha perduto una gran quantità di donne e che Emilio ha provocato la mancanza di un numero prodigioso di educazioni [...]. Per mia parte, devo ad E/ozsa la più funesta sciocchezza che ho fatto come uomo e al Contratto Sociale le più deplorevoli illusioni che ho nutrito come cittadino». Incredibilmente in quest'uomo, che era stato sempre eccessivo nei comportamenti, nelle letture, nelle scelte, colpisce la ponderatezza non solo 5 «Bien plus jeune encore (du toi), ton père était l’ami, le confident du sien». Fubini Leuzzi, Giorgio a Guglielmo Libri, cit., p. 260. Per i criteri seguiti per l'edizione di questo testo cfr. ibid. p. 259. 78 «Souviens toi que depuis l’àge de quinze mois, jusqu’àpres de cinq ans tu n’as eu d’autre bonne, je pourrais presque dire d’autre nourrice, que ton père, et que durant ce temps je n'ai jamais souffert qu’un domestique, un mercenaire, ni un étranger te rendit aucun de services que la tendresse de ton àge t'empéchait de te rendre toi-méme. C’est ton père qui t’habitua par exemple à coucher par terre en hyver, au soleil en été, à briser la glace en te baignant, è marcher pieds nuds, à défier les intempéries, à te nourrir indistinctement de glands ou délicatament, et qui te formant ainsi un physique bronzé, prépara ton éducation morale»,
ibid., p. 286.
3 «Je suis d’avis qu’He/oîse a perdu une foule de femmes, et qu’Erzile a fait manquer un nombre prodigeux d’éducations... Pour ma part, je dois à Hélofse la plus funeste sottise que J'aie faite comme homme, et au Contrat Social les plus deplorables illusions que j'aie nourries comme citoyen», ibid, p. 279.
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dei ripensamenti ideologici, ma anche il distacco pacato del sofferto rapporto con la moglie Rosa, che è da lui considerata comunque un autorevole e costante riferimento per il figlio a cui desidera essere affiancato. Ciò che è successo fra i suoi genitori non lo deve riguardare: Tutti lodano i tuoi comportamenti e ammirano il rispetto che hai per tua madre. Glielo devi; non appartiene a un figlio scoprire i motivi di divisione che regnano fra coloro che lo hanno messo al mondo. Per essere fiero di averti come figlio non manca che di vederti colmare ugualmente i tuoi doveri verso tuo padre...°.
Quando Giorgio poi nel seguito della lettera passa al programma delle letture riguardanti il pensiero politico, civile e scientifico ci troviamo di fronte ad un modo assai intelligente di ripercorrere il bagaglio culturale del giacobinismo. In fine, le considerazioni sul matrimonio e le donne rivelano riflessioni ancora una volta improntate all'ideologia, ma vi si sente anche il forte desiderio di vedere realizzato, almeno per il figlio un rapporto coniugale basato sulla perfetta intesa di sentimenti e di cultura civile. Così Bruto dovrà scegliere la sua sposa in Francia, dove le donne sono senza paragone migliori che in tutto il resto dell'Europa, e la dovrà scegliere non certo nella dissoluta classe nobile («I nobili di tutti i paesi sono la vera e sola canaglia delle diverse popolazioni: le loro donne sono le più dissolute [...] i loro uomini i più boriosi, i più ignoranti e i più brutti soggetti»), ma in quella media. Là si trovano «madri di famiglia attaccate ai loro doveri, buone spose e buone cittadine». «Ricordati, aggiunge, che l’amore della patria è il primo dei sentimenti e che una donna che non lo prova non è che una macchina per generare indegna e incapace di allevare bene i suoi figli»®. Bruto/Guglielmo dunque, seguì molto da vicino i precetti paterni e col padre condivise la scelta di stabilirsi fuori dai confini 60 «Tout le monde se loue de tes moeurs, et l’on admire ton respect pour ta mère. Tu le lui dois; il n’appartient pas à un fils de sonder les motifs des divisions qui regnant entre les auteurs de ses jours. Pour étre fier de t’avoir pour fils, il ne manque plus que de te voir remplir égalment tes devoirs envers ton père», ibi4., p. 261. 61 «Les nobles de tout le pays, sont la véritable seule canaille des diverses populations: leurs femmes sont les plus dissolues, leurs hommes les plus suffisants, les plus ignorants et les plus mauvais sujets»; «mères de famille attachées è leurs devoirs, bonne épouses et bonnes citoyennes. Souviens-toi que l’amour de la Patrie est le premier de sentiments, et qu’une femme qui ne l’éprouve pas n’est qu’une machine è génération, indigne et incapable de bien élever ses enfants», ibid., p. 284.
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italiani, in Francia, di sposare una donna francese, di seguire piuttosto
il liberalismo di Locke e di Voltaire che l’ideologia democratica, di privilegiare gli studi matematici e altro ancora. Ma nel frammento della sua autobiografia scritta sette anni dopo i riferimenti alla figura paterna sono scarsissimi ed è facile spiegarselo. L’autobiografia era destinata ad essere probabilmente un biglietto d’ingresso da far circolare negli ambienti del liberalismo francese in cui di lì a poco sarebbe stato accolto con incarichi sempre più prestigiosi, grazie alle amicizie e
alle sue capacità di matematico e di uomo di cultura. Le prime pagine riguardanti gli anni dell’infanzia costituiscono anzi l’apologia dell’educazione impartitagli dalla madre e solo da lei, enfatizzandone le doti e i sentimenti: «Mia madre che voleva educarmi a modo suo non amava molto che egli [il padre Giorgio] vi si mescolasse e quando fu costretta a separarsi da lui fece ogni sacrificio piuttosto che cedermi»®,
Punto fermo di Rosa fu quello di educare in tutto personalmente il piccolo Bruto, tenendolo accanto a sé dopo il suo ritorno: si trattava in primo luogo di ammorbidire il rigido esercizio fisico e l'eccesso dell’esaltazione di moralità estrema esemplificata da Bruto o Catone, a cui Giorgio aveva sottoposto il figlio nel periodo dell’esilio. Ma concordemente con quanto avrebbe voluto il marito aggiunse una formazione culturale assai vasta, ma forse con una più equilibrata attenzione verso il nuovo. Allora Bruto/Guglielmo ricorda come fu precocemente accompagnato nella visita dei musei o come gli furono lette per premio, quando ancora non poteva farlo da solo, le Vite di Plutarco. Proprio il piacere di questa lettura lo spinse anzi ad imparare a leggere con il risultato, dice, che le Vite «fecero una rivoluzione in me: e certo un
bambino di sei anni che passa la metà dei suoi giorni a leggere Plutarco, piangendo d’invidia allorché sente il fanciullo spartano straziato dalla volpe prima di cedere non è comune e— avverte — non si creda che io voglia adularmi». Ma non era solo con le letture che Rosa provvedeva alla sua educazione: «Mia madre aveva trovato la sicurezza che tutto il mondo si occupasse di me. Ella riuniva presso di sé una società scelta dove io sono stato sempre, vi si parlava di tutto quello che mi poteva interessare». Ugualmente ferma fu Rosa nell’insegnargli il 6 BMOF, FPL, 435, 3, 1, «Memorie di G. Libri scritte di sua mano dal Natale del 1824
epoca di sua partenza da Firenze al 1830», c. Sv. 6 Ibid., c. 6v.
6 Ibid., c. 8v s.
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rispetto dei miseri e degli oppressi e la fratellanza per i poveri a cui doveva andare la sua elemosina, ma «non con i denari di mia madre — scrive — ma col pane e colla frutta che servivano alla mia colazione». Coerente con i principi che l'avevano avvicinata al marito fu anche il rifiuto di un’educazione improntata a superstizioni e pregiudizi”. In verità Rosa consapevolmente impartiva al figlio una educazione eccezionale, nella volontà di costruire poi un uomo eccezionale. È Guglielmo il primo a riconoscere la diversità della sua infanzia: «Io sono stato sempre isolato dagli altri bambini e il sistema di educazione che si era adottato voleva così». In questo curriculum non manca neanche l’attenzione per i numeri divenuta poi precoce intuizione in analisi matematica, e lo studio della musica, per cui, è
vero, Guglielmo non aveva grande inclinazione, ma ciò era secondario, sua madre «era persuasa che niente era impossibile». Rosa per sua parte, pur nell’intensità degli affetti e delle cure, non fu una madre «possessiva», lasciò, per esempio, il figlio al marito nei primi anni di vita, e del resto Guglielmo fin dall’adolescenza studiò a Pisa, dove arrivò a sedici anni, e viaggiò assai di frequente, rimanendo a lungo lontano dalla madre, per prendere poi stabilmente la residenza a Parigi dal 1831, dopo essere fuggito da Firenze in seguito ai moti, lasciando la madre in condizioni economiche di grande disagio. La corrispondenza fra i due, quasi un diario minuzioso per informarsi reciprocamente degli avvenimenti quotidiani, è carica di affettuosa confidenza e testimonia di un’amicizia vera fra madre e figlio che va ben oltre l’impianto ideologicamente e intellettualisticamente ricercato dell'educazione impartita. Le lettere del primo viaggio compiuto oltre i confini della Toscana sono di particolare intensità e ricchezza: vi si riferisce dalle osservazioni astronomiche, compiute a Torino con apparecchiature idonee per la prima volta da lui sperimentate (4 dicembre 1824), ai paesaggi alpini attraversati, alla visita della casa di Rousseau a Ginevra, al cui riguardo non mancano neanche note adatte alla sensibilità femminile («Andai a vedere la casa di Rousseau aux Charmettes, che si poteva vedere nelle sue Confessioni, colsi alla cappella un geranio ch'io ti manderò
6 Ibid., c. 4r, 2r. 6 Ibid., c. 9r.
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con questa lettera, e siccome vi è il seme, ti sarà una reliquia di Rousseau che potrai trapiantare nel terrazzino e sistemarla al mio ritorno» (9 dicembre 1824)). La corrispondenza fra madre e figlio si compone di centinaia di carte e continuò, fino alla morte di Rosa nel giugno del 1849, dalla Francia e da Londra, dove Guglielmo riparò dopo lo scandalo per i furti librari, scoppiato nel 1848. Fino agli ultimi mesi lei fu non solo il suo forte sostegno affettivo, ma il suo tramite a Firenze negli affari e nei rapporti culturali. Il suo sforzo di fare del figlio una personalità originale rispetto al conformismo della buona società fiorentina, era riuscito. Forse non ne
era stata la sola artefice, era stato un compito di generazioni, cominciato dal vecchio e pazzo Guglielmo. Come osservavo all’inizio, uno degli aspetti importanti della documentazione che qui ho presentato, con esclusione della autobiografia di Bruto/Guglielmo, è il fatto che si tratti di corrispondenza. È possibile cioè ricostrure i rapporti fra genitori e figli, fra le madri e i figli attraverso fonti che non possono dar luogo ad equivoci interpretativi, come possono essere le autobiografie o le fonti narrative, soggette a produrre alterazioni di ciò che presentano per la carica propositiva che in genere portano. Sono stati utili anche i testamenti che, se pur formulati secondo modelli ufficiali prestabiliti, hanno fornito spunti per tratteggiare i caratteri e la mentalità dei personaggi, non solo attraverso le disposizioni per la successione, ma anche attraverso i legati e le volontà sulla sepoltura®. La corrispondenza, in particolare questa della famiglia Libri, ha la forza di cogliere i rapporti e i sentimenti nell’immediatezza dei fatti, di rivelare la condizione sentimentale dei soggetti, anche quando l’espressione formale vorrebbe mascherarla, di dare voce alle donne altrimenti coperte dall'anonimato. Infine, svela le tensioni che si possono celare dietro composte rappresentazioni familiari di stereotipi iconografici o di ricordi apologetici. Non solo, questa corrispondenza si situa in un’età di passaggio dell’organizzazione sociale e di 7 BMOF, NFL, Carteggio xIx sec., 347, 9 dicembre 1824. Le lettere di Guglielmo a Rosa Libri costituiscono gli inserti 346 - 363 del Nuovo Fondo Libri alla Biblioteca Moreniana di Firenze; le lettere di Rosa a Guglielmo sono conservate alla Bibliothèque Nationale, Paris, Nouvelles Acquisitions Frangaises, 3254, tomi 2 e 3. 6 E. Becchi, Premessa, in «Quaderni Storici», n. 57, 1984, p. 716.
6 M.A. Visceglia, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici moderna, Napoli, Guida, 1988, pp. 11 ss.
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a Napoli in età
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quella questa mente questo
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familiare in particolare ed ha il grande merito di riflettere età, grazie alla peculiare vitalità dei suoi protagonisti. Certaproprio questa peculiarità dovrebbe suggerire di non fare di caso un caso generale, ma non sembra fuori posto vedere in
Carolina e in Rosa il nuovo che avanza, il sentimento e l’arricchimen-
to del ruolo materno che predominò nel secolo xIx?. Mi si consentano a conclusione poche considerazioni in mezzo alla pur grande quantità di elementi che meriterebbero attenzione. Su Maria Anna, per cominciare. Considerata donna «strana, litigiosa
e inquieta» dai contemporanei, con la propria indifferenza di madre non ci testimonia soltanto della scarsa generale maturazione del sentimento materno nel suo tempo. Il suo rifiuto a partecipare attivamente al mondo familiare, sembra piuttosto esprimere una protesta contro chi ha deciso per lei della vita, considerandola merce di scambio,
in un matrimonio
che l’ha unita ad un uomo
trent'anni più vecchio. La mancanza di calde affetto materno sono il risultato del più generale dai pregiudizi preposti all'ordinamento familiare identità di persona come quella della grandissima donne, non
solo del suo ceto, venne
di
manifestazioni di disagio provocato e sociale. La sua maggioranza delle
misconosciuta,
e alla sua
identità di donna fu riservato solo il ruolo di machine è génération, per riprendere l’espressione usata da suo nipote più tardi. Difficile era dunque pretendere amore ed affetto da chi non li aveva ricevuti”!.
Diversa è la situazione di Carolina. Alla base del suo matrimonio con Guglielmo esiste una scelta sentimentale, compiuta in piena consapevolezza e responsabilità. Ciò permette alla coppia di affrontare la diffidenza, e tavolta il rifiuto doloroso che il mondo dei
benpensanti riserva loro. «Io essendo forestiera, senza parenti, pare 70 D. Maldini Chiarito, Trasmissione di valori ed educazione familiare: le lettere al figlio di Costanza d’Azeglio, in «Passato e Presente», 13, 1987, pp. 35-62, qui p. 37.
71 L'esperienza di matrimonio di Maria Anna trova un riscontro molto preciso in quello di Lucrezia Medici Tornaquinci: «A me non fecero come a mia sorella Bita alla quale almeno fecero scegliere fra due fratelli, uno biondo e uno bruno; mi dissero un bel giorno: questo è tuo marito; io ne avevo una paura terribile perché quando lo sposai si può dire che non lo avevo mai visto e aveva almeno venticinque anni più di me. E poi figurati! La prima notte di matrimonio tornò a casa la mattina alle sei giacché lui era il cavalier servente della marchesa Aldobrandini... Sicuro! Sicuro! nel mio contratto di nozze restava stipulato che mio marito era il cavalier servente della marchesa Aldobrandini e che io accettavo come cavalier servente il conte Bardi, un vecchio amico di mio marito». Cito da Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., p. 360.
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che io sia esclusa da quella naturale comiserazione dovuta agli aflitti in generale», scrisse Carolina in uno dei momenti più drammatici della sua esistenza”. La fiducia reciproca degli sposi permette che l'educazione del figlio sia comune ai due genitori. Carolina è comprimaria nella cura assidua e attenta, richiesta dalla più aggiornata filosofia. Ha un suo bagaglio di cultura da trasmettere, lo si è visto. Anche quando le incomprensioni col ragazzo adolescente si fanno acute, e lei sembra emarginata dall’intesa forte fra padre e figlio, continua nella propria battaglia, non cede sulla direzione di Giorgio né al marito, né agli amici di lui. Vive la ribellione di suo figlio adolescente come qualsiasi madre moderna con sofferenza e trepidazione, incapace di comprendere i suoi trasporti estremi, ma vigile e affettuosa moderatrice, destinata dall’insuccesso e dal destino a scomparire presto, ma non ad essere dimenticata per la sua
forza e il suo amore di madre. Fra Rosa e Bruto/Guglielmo le incomprensioni sono impensabili, non esistono scarti fra il mondo culturale della madre e quello del figlio, per il semplice fatto che quella che lei, come suo marito del resto, impartisce al ragazzo è un’educazione d’avanguardia, che ha previsto le esigenze future, condotta con amore e sacrificio, ma sempre attenta e sensibile al progressivo avvenire. L'accordo iniziale nel matrimonio ha posto i due genitori nei confronti della loro prole e della società su un piano di parità che li distingue dall'ambiente che li circonda. La diversità dell’impostazione culturale data a Guglielmo sarà a lungo rifiutata a Firenze e in Italia proprio per la sua originalità trasgressiva rispetto alla cultura corrente. Solo per inciso ricordo che la più importante opera di Guglielmo l’Histozre des Sciences mathématiques en Italie (Paris, 1838 - 1841), pubblicata in Francia in numerosissime edizioni non è mai apparsa in Italia fino a qualche anno addietro, per la sua marcata impostazione anticlericale”. Rosa realizza se stessa nel ruolo di madre consapevole della propria intraprendenza, si oppone al marito, pure sposato per amore, di fronte alla sua instabilità, avendo certezza di poter portare a termine il progetto, inizialmente condiviso con lui, di fare di
?? BMOF, Acquisti Diversi, 53, 3, c. 97, lettera a Pietro Ferroni, 13 aprile (1798).
® La bibliografia di Guglielmo Libri più completa è quella che si trova in Stiattesi, Commentario storico scientifico, cit., una bibliografia meno completa, anche se più articolata in
Fumagalli, Guglielmo Libri, cit. Un’edizione anastatica dell’Histoire des Sciences matbémati:
ques en Italie è stata pubblicata a Bologna, Forni, 1966.
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Bruto/Guglielmo un uomo libero, come libera si sentì lei stessa. Fallito il matrimonio ella convisse per tutta la vita con Eugène de Reboul, musicista e botanico verso cui anche il figlio nutrì affetto e amicizia. Non siamo abituati nell'Ottocento a questi profili di madri forti e laiche nel medesimo tempo, tanto meno il codice civile napoleonico che prevedeva un’accentuata gerarchizzazione all’interno della famiglia, poteva aver suggerito a Rosa la larghezza di funzioni che ella si assunse”. Possono essere citate forse a confronto le immagini di altre due madri di cui ci è rimasta la corrispondenza con il figlio e furono contemporanee di Rosa. Intendo alludere a Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini, e Costanza Alfieri di Sostegno, moglie di Roberto d’Azeglio e madre di Emanuele. La prima appartiene alla stessa sua generazione, ha un’esperienza ideologica nei primi anni del suo matrimonio molto simile alla sua, ha come Rosa un ruolo materno
forte. Ma il suo rapporto col figlio non è basato su progetti intellettuali di sorta, le sono sconosciute gran parte delle dottrine filosofiche che ispirano il figlio; il suo è un rapporto di puro affetto, anche morboso, che certamente sostenne Mazzini nelle sue lunghe battaglie, ma che suggerisce l’idea di una personalità forte perché al servizio di un affetto, di un grande trasporto che non può equivalere a indipendenza di scelte e di giudizio”. Costanza d’Azeglio lo è ancor meno; la sua opera di grande signora colta e benefattrice si svolge all’interno di un modello stabilito dal ceto cui appartiene. Nell’intenso rapporto col figlio la sua è una paziente opera di mediazione fra il desiderio di libertà del giovane e il tracciato di vita che la famiglia da più generazioni si tramanda. Costanza ottiene il successo agognato, ma a caro prezzo, quello della vita solitaria di Emanuele, per cui le lettere della madre furono l’unica compagnia anche nell’età matura”. Pure queste donne nella diversità dei loro destini sono unite da
74 Saraceno, Le donne nella famiglia, cit., pp. 110-116. 5 Cfr. G. Assereto, Drago Maria Giacinta, in Dizionario Biografico degli Italiani, 41, Roma 1992, pp. 654-657. Il carteggio di Maria Drago con suo figlio Giuseppe Mazzini in Appendice agli Scritti editi ed inediti di G. Mazzini, a cura di S. Gallo ed E. Melossi, voll. vir-vm, Imola, Edizione Nazionale, 1986. 76 Cfr. Maldini Chiarito, Trasmissione di valori, cit.; Costanza d’Azeglio, Lettere al figlio, a
cura di D. Maldini Chiarito, Comitato di Torino dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Torino 1989. Pur nel rilievo della figura di Costanza d’Azeglio e nella abbondanza di documenti, manca nel Dizionario Biografico degli Italiani la sua biografia.
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un elemento imprescindibile con cui dovettero scontrarsi, intendo alludere alla famiglia e alle sue leggi. Il loro dramma di madri, qualunque fosse la via scelta da ciascuna di loro di fronte alla responsabilità della maternità, il distacco o la dedizione, aveva
trovato nella famiglia motivi di conflitto che nella successione delle tre generazioni furono causa di disgregazione e di sofferenza.
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«FIGLIO IN CHRISTO». LA «MATERNITÀ SPIRITUALE» TRA ORTODOSSIA ED ETERODOSSIA NELLA CULTURA CRISTIANA POST-TRIDENTINA di Marilena Modica
1. La maternità spirituale è tra i temi simbolici più tenaci, ma anche più ambigui, della tradizione cristiana e rappresenta uno degli elementi costitutivi di quell’insieme di «poteri informali» che le donne riuscivano ad esercitare in virtù di una condizione religiosa ricca di carismi e di doni spirituali. Evocazione simbolica di un mito già ambiguo — la «nascita vergine»! cui si collega l’immagine cristiana di Maria procreatrice del Cristo/Dio — la maternità spirituale legava, non senza contraddizioni, la pratica sociale della verginità con l'immaginario femminile materno: solo all’interno, infatti, di una condizione che avesse preli-
minarmente definito lo status di vergine per le religiose, o la pratica della castità per le laiche, la funzione simbolica della maternità spirituale poteva trovare, e non sempre, il proprio spazio di legittimazione.
Madre spirituale per eccellenza, la Vergine Maria racchiudeva l'enigma del concepimento e della nascita del Cristo tra le pieghe di una tradizione secolare che aveva cancellato dalla storia della fanciulla di Nazareth ogni riferimento alla sua natura sessuata. Solo i vangeli apocrifi ne evocano l’immagine sbiadita, già consegnata al miracolo, al prodigio divino: Uscita dalla grotta, l’ostetrica incontrò Salome e le disse: Salome, Salome ho una nuova meraviglia da narrarti: una vergine ha partorito, ciò di
1 Si veda, per una riflessione complessiva su questo tema, Vergirità, a cura di G. Fiume e L. Scaraffia, in «Quaderni Storici», n. 75, dicembre 1990.
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cui non è capace la sua natura. Salome rispose: come è vero che vive il Signore, mio Dio, se non ci metto il mio dito per esplorare la sua natura, non credo che la vergine abbia partorito. Entrò e la sistemò; e Salome verificò la sua natura. Allora Salome mandò un grido: ho tentato il Dio vivo! Ed ecco che la mia mano [bruciata] si stacca da me!
Il riferimento all’ostetrica chiamata ad assistere al parto di Maria, il gesto tendenzialmente profanatore e incredulo di Salome, che nel Vangelo serve a dar risalto al prodigio della nascita vergine, bastò, ad esempio, a S. Girolamo per fulminare la condanna contro tutti i testi che lasciassero affiorare l’immagine di Maria partoriente: nessun riferimento alla fisicità dell'evento doveva evidentemente turbare l’assetto simbolico asessuato che avrebbe accolto il corpo di Maria. Purezza virginale e maternità: due condizioni antitetiche, che fanno affiorare l’oscura tensione di quel mito, da cui è possibile misurare l’ambivalente atteggiamento tenuto dalla Chiesa nei confronti della natura femminile e del ruolo della donna nelle istituzioni ecclesiastiche. Una ambivalenza antica, che si conserva anche nella tradizione
dei vangeli gnostici. Qui, ad esempio, è Maria Maddalena, a ricevere, tra lo sbigottimento e l’incredulità degli apostoli, il privilegio della rivelazione divina e, insieme, la missione
di comunicarla.
Così,
infatti, Pietro accoglie la «rivelazione» di Maria: Ha egli [il Salvatore] parlato realmente in segreto e non apertamente a una donna? [...] ci dobbiamo ricredere tutti e ascoltare lei? Forse egli l’ha anteposta a noi? — E Levi si rivolse a Pietro: — Ora io vedo che ti scagli contro la donna [...] se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu che la respingi? Non v'è dubbio, il Salvatore la conosce bene. Per questo amava lei più di Nol:
Racchiusa nella duplice identità di status della Madonna, la valenza «potente» del femminile si fonda, tuttavia, su una tensione
quasi ossessiva al depotenziamento dell'immagine: umiltà assoluta e altrettanto assoluta obbedienza; cieca adesione al progetto divino e spoliazione di sé; la stessa sofferenza così umana di fronte al figlio Crocifisso, segnano l’altro polo, il polo «debole», della natura procreatrice femminile. ne Dal Vangelo della «Natività di Maria» o Protovangelo di Giacomo, in L. Moraldi (a cura di), Apocrifi del Nuovo Testamento, Torino, UTET, 1971, p. 84.
> Ibid, p. 457.
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Modellata, quindi, più che sulla coesione dell'immagine, sulla bipolarità di essa, sulla sua contraddizione, la condizione religiosa delle donne, dentro la storia e la tradizione cristiane, non può essere
letta altrimenti che sulla cifra dell’ambiguità, della complessità e di una serie, quasi inesauribile, di sfaccettature. Se si considera che la maternità spirituale coincide quasi interamente con l’esercizio di un sapere diverso da quello maschile — è il «sapere rivelato», dono della grazia, che penetra nella donna fecondandola del verbo divino — si coglie tutta l’importanza dello sforzo dialettico che impegnò intere generazioni di teologi (soprattutto nella fase di riorganizzazione disciplinare e normativa tridentina), di fronte al problema di arginare le forme diffuse e variegate sotto le quali si presentava il carisma spirituale della donna santa, profetica e visionaria, punto di riferimento di gruppi di «spirituali» o di singoli fedeli che attorno a lei si raccoglievano esaltandone la funzione di madre spirituale*. Citerò, a questo proposito, un caso emblematico che, seppure non riguarda direttamente il problema della maternità spirituale, può ad esso in qualche modo essere ricondotto, se non altro perché investe la questione del sapere femminile come incarnazione e veicolo della parola divina. Sulla spagnola Maria di Gesù, superiora del convento dell’Immacolata Concezione della città di Agreda, mistica, visionaria, autrice
di un libro sulla vita della Madonna, scritto in pieno Seicento per «rivelazione» stessa della Vergine, la Mistica Ciudad de Dios, si divise
la comunità dei teologici, e con esiti polemici che giunsero a toccare il cuore del «secolo dei Lumi». E dietro la polemica sulla autenticità della rivelazione fatta alla monaca, si celava una questione più
4 Sulla normativa che disciplinava le visioni e le rivelazioni femminili, un utile riferimento è costituito dal volume di G. Zarri (a cura di), Finzione e santità tra Medioevo ed Età Moderna,
Torino, Rosenberg & Sellier, 1991. Sul fenomeno delle madri spirituali e, in generale, sulle donne carismatiche, si veda, A. Prosperi, Dalle «divine madri» ai «padri spirituali, in E. Schulte van Kessel, Donne e uomini nella cultura spirituale XIV-XVII secolo, Gravenhage 1986, pp. 71-90 e G. Zarri, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ‘400 e ‘500, Torino,
Rosenberg & Sellier, 1990. 5 Si veda, sul problema nato attorno al testo della mistica spagnola e sulla questione dei criteri con cui valutare l’autenticità delle visioni e rivelazioni femminili, S. Cabibbo, «Igroratio Scripturarum ignoratio Christi est». Tradizione e pratica delle Scritture nei testi monastici femminili del XVII secolo, in «Rivista Storica Italiana», a. 101, £. 1, pp. 85-124; M. Rosa, Prospero Lambertini tra «regolata devozione» e mistica visionaria, in Zarri (a cura di), Finzione e santità, cit. pp. 521-550.
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sostanziale, quella cioè della legittimità delle donne a toccare temi teologici alti, di pertinenza del sapere maschile: uno sconfinamento poco tollerato che obbligava costantemente la cultura ecclesiastica alla ridefinizione della tradizionale immagine femminile. La difesa di Maria de Agreda, patrocinata naturalmente dal suo ordine di appartenenza, è interessante perché ricompone, nell’intento di «disarmare la calunnia» che aveva colpito la religiosa in quanto donna «Scrittora», le due linee contrapposte sulle quali riposava la percezione che del sesso femminile aveva la cultura dominante: da una parte le ragioni della subalternità; dall’altra i correttivi ad essa, le eccezioni alla regola generale. Il primo livello della difesa (che per comodità di esposizione desumerò da un testo scritto dal biografo della serva di Dio, Ximenez Samaniego*) riguardava la natura delle donne, la loro complessione fisica e, diremmo oggi, quella psichica ad essa correlata. Era la tradizione medica umorale a soccorrere la cultura ecclesiastica nel fissare le prerogative dell’inferiorità femminile, anche in materia di visioni e rivelazioni: «Come la donna è di naturale più debole e fiacco; così è di complessione più umida [...] di appetiti più vivi, di passioni più ansiose, di ragione meno solida, di giudicio più leggiero, di cuore più molle». E lo stesso nome mulier ne diceva la «debolezza e fiacchezza»: Mulier a mollitie dicta. Una debolezza che era anche «debolezza della ragione», di contro alla «maggior durezza o costanza dell'Uomo». «Mente fiacca e indiscreta», quella delle donne, nelle quali dominano la loquacità e la curiosità. Porta larga per la quale entra il demonio con i suoi artifici e illusioni, a ripetere l’inganno primigenio che segnò la caduta di Adamo e dei suoi discendenti. Procedendo nella sua argomentazione, il biografo di Maria de Agreda riprende l’antica interdizione alla parola femminile compendiata nell’affermazione paolina docere mulieri non permitto. Quella proibizione discende proprio dalla fiacchezza femminile, da quel primo insegnamento di donna, Eva, «che rovinò il Mondo». Quel sexus infirmus ac levis patì l'inganno nella persona di Eva. A tutte le donne va quindi proibito prendere la parola nella Chiesa. Ma, precisa il difensore della francescana spagnola interpretando il passo
$ F. Giuseppe Ximenez Samaniego, Vita della Ven. Madre suor Maria di Gesà, Trento, G. Parone Stamp., 1730.
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paolino in senso non riduttivo, «non è loro proibito l’insegnare in particolare, senza usurpazione di officio, e come persone private». Fatta salva l'autorità e il «Magisterio Pubblico» riservato agli uomini, e ribadita la soggezione ad essi — cui la donna «per la condizione del suo sesso [...] è due volte suddita, una per la legge naturale della sua costituzione, l’altra per la Divina, della sentenza che Dio fulminò
contro di essa per la sua colpa» — Samaniego recuperava la tradizione e la pratica sociale che vedeva le donne portatrici di una funzione pedagogica, realizzata innanzitutto tra le mura domestiche, privatim domi, e, per riflesso, nei gruppi sociali di appartenenza: i chiostri, nel caso delle monache.
L’uguaglianza in Cristo — per cui, dice riprendendo ancora san Paolo, «non est Judaeus, neque Graecus: non servus, neque liber:
non est masculus, neque foemina» — si rompe solo dinanzi alla diversità del sesso. Omnes enim vos unum estis in Christo Jesu: Di dove — commenta il teologo francescano — come tutta la diversità stia, non nella natura umana, ma solo nel sesso, di quelli soli doni sarà incapace nella Chiesa la donna, che per la condizione precisa le sono negati. Attendendo a questa precisa condizione, l’uomo fu creato per capo e superiore, la donna per sua coadiutrice nell’assistenza, vita sociabile, e propagazione.
Unione/divisione; uguaglianza di fronte a Dio/subalternità nella Chiesa: coppie dicotomiche che sforzandosi di tenere insieme uguaglianza e subalternità generavano uno scarto persistente tra «simbolico» e «sociale», una cesura insanabile che attraversava sia la
cultura teologica e le istituzioni ecclesiastiche, che l'universo femminile, i modelli di comportamento e le pratiche religiose. Come giustificare il fatto che Dio dispensava anche alle donne i doni straordinari delle profezie e delle visioni, attraverso i quali esse insegnano agli uomini, divenendone le «madri spirituali»? Sono eccezioni, privilegi che non fanno legge. Dice Bellarmino: «Haec privilegia non faciunt legem». Queste eccezioni, tuttavia, hanno costituito una vera e propria tradizione. E ad essa si rifà, con una pedantesca elencazione delle sante donne che nella Chiesa ebbero il dono della profezia (o quello,
meno clamoroso ma altrettanto importante, di guardare nei segreti del cuore degli uomini e di discernervi lo spirito), il difensore di Maria de Agreda. Tuttavia, nell’intrecciare le ragioni della legittimità femminile a profetare con quelle dell’inferiorità del sesso, il teologo 209
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francescano finiva col rendere ancora più evidente il meccanismo di controllo esercitato sui poteri spirituali delle donne. Nella ambigua partita giocata attorno al profetismo delle religiose sante, ad essere fondamentale non era tanto il riconoscimento
astratto della parità di natura tra maschio e femmina, quanto il fatto che la libertà di manovra nell’accordare o negare credibilità, spettava solo alla Chiesa e, quindi, al sapere maschile dei teologi. La stessa tradizione e gli stessi pregiudizi antifemminili venivano di volta in volta utilizzati a difesa o a condanna delle Divine Madri: la «fiacchezza» femminile, ad esempio, poteva essere addotta a giustificazione dell’una o degli altri. Bisogna dar «credito alle maraviglie di Dio — afferma Samaniego — che è stile della sua onnipotente Provvidenza sceglier le cose fiacche del Mondo, per confonder le sorti, e rivelare a’ piccoli quello che a’ Savi nasconde»”. E quanto più le donne coltivano una «sensibile devozione» fatta di quei fervori, di quei deliqui estatici propri alla fragilità del sesso, quanto più «pensano bassamente di sé», si disprezzano e si annullano nella volontà divina e nell’obbedienza cieca al confessore e al magistero ecclesiastico, tanto più saranno oggetto delle «rivelazioni occulte e visioni divine». Siamo lontani, qui, dalla luciferina potenza degli oracoli femminili e delle Sibille del mondo pagano: le «profetesse» cristiane pagano alla sopravvivenza di una antichissima immagine femminile il tributo di un potere dimezzato. Se il caso di Maria de Agreda non tocca direttamente il tema della maternità spirituale — riassumendo piuttosto i problemi del controllo ecclesiastico sulla legittimità della parola femminile e quelli del sapere carismatico, fonte di autorità per le donne — per Birgita di Svezia (1302-1373), fu la «gravidanza mistica» a sancirne il ruolo profetico. Ma era un evento straordinario che andava riferito in modo da premunirsi contro eventuali obiezioni. Dal Libro delle Rivelazioni di Santa Birgita: Durante la Notte di Natale la Sposa di Cristo fu sopraffatta da un empito così grande e mirabile che per l’allegrezza non si poteva contenere. E in quel momento sentì nel cuore un moto sensibile e sorprendente, come se un bambino vivente si voltasse e rivoltasse nel suo cuore. Siccome questo moto continuava, lo fece vedere al suo padre spirituale e ad alcuni suoi amici sacerdoti, nel dubbio che si trattasse di una illusione. Questi ne
? Ibid., pp. 69-71. 210
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constatarono la verità con gli occhi e con il tatto, e rimasero sbigottiti?.
Visu et tactu, quindi, fu provata da uomini dell’entourage di Birgita, la verità del prodigio. Come si sarebbe verificato, poi, nel caso secentesco di Maria de Agreda, anche per la religiosa svedese non fu facile entrare nella schiera delle «profetesse» cristiane. Se molte donne entrarono in questo Olimpo femminile, moltissime furono quelle escluse. E di tante — quando non furono bollate con l’accusa di eresia o di simulazione — il prestigio rimase incerto. Emblematico, in questo senso, il caso delle «sante vive», le 724dri spirituali
delle corti italiane studiate da Gabriella Zarri— che vincolarono la loro immagine al consolidamento del potere politico dei principi. Parte integrante di un clima dominato dall’attesa di «rinnovazione» della Chiesa e della cristianità tutta, queste donne esercitavano un materzage complesso, non esclusivamente limitato alla sfera spirituale, ma rispondente, come è stato efficacemente notato, a richieste di tipo
psicologico: la cura delle madri naturali. meo Stella citato da Adriano Prosperi, Mignani per chiederle di accettarlo come spirito ma ancora di questo fragilissimo
Il laico bresciano Bartolosi rivolgeva a suor Laura figlio «non solamente del et brutto corpazzo»?.
2. Il modello della monaca santa, della mistica attraverso la quale Dio faceva sentire la propria voce, si collocò dentro l’ortodossia tridentina con una notevole carica di rischio, testimoniato proprio dagli innumerevoli casi di religiose sottoposte ad esame, o addirittura inquisite!: la storia di Maria de Agreda non è che una tra le tante. Tradizionalmente considerata a rischio era proprio quella pratica spirituale (la vita contemplativa e mistica), che si fondava su una comunicazione fortemente interiorizzata del fedele con Dio: un rapporto esclusivo, quasi inevitabilmente portato ad eludere la mediazione ecclesiastica e il conformismo delle pratiche religiose. Impossibile, per la Chiesa, separarsi da questa grande tradizione 8 Revelaciones Sanctae Birgittae, Liber vi, citato in Kari E. Borresen, Le Madri della Chiesa, Napoli, D'Auria, 1993, p. 166.
? Prosperi, Dalle «divine madri» ai «padri spirituali», cit., p. 82. 10 Il caso, ad esempio, della benedettina siciliana suor Maria Crocifissa della Concezione,
pur non essendo tra i più clamorosi, a motivo del prestigio familiare che riuscì a salvaguardarne gli esiti, è estremamente significativo. Si veda, S. Cabibbo-M. Modica, La santa dei Tomasi. Storia di suor Maria Crocifissa (1645-1699), Torino, Einaudi, 1989. 11 Su questo tema, si vedano le puntuali osservazioni di L. Kolakowski, Chrétiens sans Eglise. La conscience religieuse et le lien confessionnel au XVII' siècle, Paris, Gallimard, 1969.
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spirituale che, radicata nell'esperienza e nella riflessione dei Padri della Chiesa, aveva tracciato i percorsi della mistica medievale incuneandosi nel razionalismo tomista e poi nella Seconda Scolastica, fino al momento della sua massima fioritura, tra il pria e il dopo della lacerazione provocata dalla diffusione del luteranesimo. La grande preoccupazione della Chiesa tridentina — segnata dal passaggio traumatico della Riforma, e impegnata sui molteplici versanti del proprio riassetto interno — fu di bloccare il misticismo dentro forme più disciplinate, di modellarne il registro simbolico dentro codici prefissati, di incanalarne l’individualismo e il radicalismo esistenziale dentro la teologia, di trasformarla, cioè, in Scienza.
Fu, questa, l’irrisolta ambiguità, la legittimazione incerta di questa tradizione spirituale, che ne avrebbe implicato, lungo tutto il Seicento, il frequente, imprevedibile slittamento dal terreno dell’ortodossia a quello dell’eterodossia e della devianza. E non poco avrebbe probabilmente pesato, nella collocazione eterodossa del misticismo — soprattutto di fronte alla sua crescente «massificazione» e alle inquietudini sociali e religiose della seconda metà del secolo — il grado di incisività con cui venivano trasferite, nel concreto atteggiarsi dei comportamenti e nei rapporti tra gruppi ed individui, le forme di un’esperienza che, tendenzialmente, si poneva fuori dalle regole da cui doveva essere governata. Gli elementi trasgressivi impliciti nel misticismo si ricomponevano a livello simbolico, perdendo la propria potenzialità rischiosa, solo quando riuscivano a legittimarsi come paradigma edificante e privilegiato (e nel quale, a ben guardare, appaiono sedimentati gli strumenti di una mediazione colta), esito, spesso sofferto, di pratiche religiose solitarie, indicato come espressione di una santità eccezionale, pressocché inaccessibile ai molti. Diversa era, invece, la loro portata e la percezione che ne avevano le istituzioni ecclesiastiche, nel caso in cui, attraverso quell’esperienza, si sperimentava una comunicazione so-
ciale capace di elaborare profili alternativi rispetto alle pratiche religiose e alle gerarchie (sessuali e di ruolo), definite dalla Chiesa. Alla stupefacente libertà consentita ai mistici (uomini e donne) sul piano del linguaggio — e segnalata dall'uso ardito delle metafore nuziali, vero e proprio repertorio di una sorta di sublimazione delle «pulsioni erotiche», direbbero gli psicoanalisti — si può dire corrisponda un irrigidimento sul piano teologico, nonché su quello della teologia morale. Non è un caso che le tendenze e i movimenti spirituali eterodossi del Seicento abbiano riattivato — e sull’insorgenza libertina 212
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e «ateista» di questo secolo — il problema degli atti sessuali illeciti, compiuti sotto la maschera ingannatrice della «perfetta vita mistica». Di questa tradizione spirituale, dunque, così ambigua e contrastata, la rzaternità spirituale e il matrimonio mistico rappresentano la struttura simbolica portante. Due temi diversi, ma spesso intrecciati, radicati entrambi in quello specchio dell’esperienza che era il corpo femminile, nascosto, il più delle volte, nelle audacissime metafore del linguaggio, oppure nei topoi agiografici, oppure, ancora, tra le prudenze retoriche cui doveva sottostare per le donne la richiesta di consenso e di legittimazione religiosa e sociale. Consenso e legittimazione, più facilmente acquisibili tra le mura dei monasteri che non in ambiti sociali meno strutturati, quali erano, ad esempio, quelli delle bizoche o terziarie, donne che vestivano l’abito di un ordine particolare e prendevano i voti semplici, ma che, per mancanza della dote necessaria, o per vocazione, non vivevano nella clausura. Gli spazi chiusi e regolamentati dei monasteri, sembrano, così, segnare una linea di demarcazione tra il misticismo femminile ortodosso — guidato e orientato dai padri confessori e dalla rete normativa che su di esso si era progressivamente rinsaldata — e le forme eterodosse di misticismo diffuse soprattutto nel mondo laico, stretto da inquietudini e bisogni sociali e religiosi. Se, naturalmente, questa demarcazione non può essere assunta in
maniera rigida — giacché molto più dinamica, fluida e complessa era la dimensione dello scambio tra mondo monastico e mondo laico — è pur vero che quest’ultimo rappresenta un buon punto d’osservazione. Fu soprattutto qui, infatti, che la scienza dei teologi e gli strumenti della «normalizzazione» religiosa si misurarono con tutta l'ambiguità del misticismo tridentino, con la difficoltà di distinguere una «soda e regolata devozione» — interiorizzata ma non per questo sottratta al controllo esterno, lontana da eccessi del corpo e dell’anima, rispettosa delle gerachie tra i sessi (dove le donne erano piuttosto figlie che madri spirituali) — da quella «libertà di spirito» che sembrava svincolare i mistici da ogni formalismo e da ogni condizionamento. Il concetto del pur arzour di Madame Guyon e di Fénelon, l’esperienza mistica vissuta ed esaltata come abbandono disinteressato a Dio, collocandosi al di fuori di qualunque logica di scambio 12 A proposito del «disinteresse» nell’esperienza mistica secentesca, come forma reattiva alla affermantesi logica del profitto, si veda M. Bergamo, La Scienza dei santi, Firenze, Sansoni, [1983] 1993?.
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(anche morale e sociale in definitiva) apriva — è stato osservato — abissi impensati nell'economia religiosa, nell’assetto delle gerarchie, nelle funzioni e nei ruoli dei fedeli, laici o religiosi che fossero. Il disordine implicito in questa forma di misticismo fu ben chiaro quando si ampliò la sua diffusione sociale. Formalizzate da teologi e inquisitori nell’alumzbradismo spagnolo e nel quietismo, le eterodossie del Cinque e Seicento furono, in virtù di una strategia e di una mentalità inquisitoriali allenate all'emergenza ereticale, considerate varianti di un unico filone eretico che andava dagli antichi Valentiniani, ai Begardi, ai fratelli del Libero Spirito, fino ad approdare alle
«aberrazioni» sessuali del prete spagnolo Miguel de Molinos, processato e condannato dall’Inquisizione romana nel 1685. Erano ben consapevoli, teologi e inquisitori, che queste eresie nascevano sul terreno ambiguo del misticismo, su una pratica spirituale che faceva dell’interiorità e della contemplazione il centro unico dell’attività religiosa. Il mistico diveniva «perfetto» in virtù dell’unione con Dio, dell’indissolubile saldatura tra la sua volontà e
quella divina che liberava il corpo da ogni legame e da ogni vincolo di pensieri e di azioni, persino dalla capacità di peccare: una trasformazione che lo rendeva, appunto, «impeccabile». Il fenomeno delle madri spirituali si impose — seppur con una valenza mutata rispetto alle «sante vive» delle corti italiane — anche nell’alumzbradismo cinquecentesco e nel quietiszzo di metà Seicento. Le donne furono protagoniste, in maniera più o meno diretta e incisiva, di movimenti che, al di là delle motivazioni e implicazioni dottrinarie, sembrano ridisegnare i contorni della condizione e dei ruoli femminili. E possibile che l'opinione di Juan de Villalpando — «sacerdote, confessor y predicador» a/umbrado di Siviglia, figlio spirituale della beata Catalina de’ Jesus, processato dall’Inquisizione intorno al 1623 — fosse abbastanza eccezionale, e non stupisce che sia stata usata dai giudici inquisitoriali come una sorta di aggravante all’accusa di eresia. Essa costituisce tuttavia, a mio avviso, una spia significativa
della capacità che i movimenti spirituali ispirati ad una sorta di radicalismo misticheggiante, avevano di mettere in crisi i modelli sociali e religiosi definiti dalla cultura ecclesiastica. Il «maestro» Villalpando riteneva che lo status ideale per le donne non fosse quello coniugale, né, tanto meno, quello monastico: era la «solterìa», il celibato, «el estado mas perfecto y de mas merescimientos que el de las religiones». Le donne dovevano essere 214
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«beatas y no monjas, porque las beatas servfan mas a Dfos que las monjas que no eran sino unas mujeres encerradas en un corral». E il matrimonio altro non era che «jardîn de puercos y huerto donde entraban las inmundicias del mundo». Dubitava che i coniugati potessero salvarsi, perché, assorbiti com'erano dalle cure domestiche, non avevano tempo di dedicarsi all’orazione mentale. Non poche volte — secondo testimoni ascoltati nel corso del processo — mandò via dalla confessione sue penitenti dicendo che «no pagasen el debito a sus maridos, poniéndoles en pena que todos las veces que pagasen el debito le habfan da dar a él un cuarto»!. Determinante, nella vicenda di Villalpando, la presenza della madre spirituale Catalina de’ Jesus. Beata, cioè terziaria, religiosa laica che viveva nel secolo, questa donna incarnava il modello femminile in qualche modo alternativo alla «monaca santa». Nella Spagna percorsa dall’alumbradismo, le beate, fossero o no madri spirituali, rappresentarono il veicolo privilegiato di diffusione di un misticismo carismatico fondato sulla consapevolezza di una autorità che proveniva direttamente da Dio. La libertà di azione che questo status religioso consentiva, radicandosi in un movimento dalle caratteristiche dottrinarie e spirituali incerte sul piano dell’ortodossia, finiva, da una parte,
col disegnare un profilo femminile di grande capacità seduttiva, e, dall’altra, metteva in discussione gli assetti tradizionali che legavano le religiose alle gerarchie ecclesiastiche e ai loro padri spirituali. Svincolata da quella rete di obblighi che contraddistingueva la disciplina monastica, la beata riconosceva, e non sempre, come unica autorità il proprio confessore, al quale la legava un ambiguo rapporto di maternità/figliolanza spirituale. Il caso forse più emblematico della capacità che questa immagine possedeva di tradurre la propria carica simbolica in vero e proprio vissuto mistico, è quello della cucitrice bolognese Angela Mellini a cui Luisa Ciammitti ha dedicato anni fa un saggio che può essere considerato pionieristico in questo settore di studi. Anche la Mellini era una pinzochera, e anche la Mellini visse nel clima culturale attraversato da quelle inquietudini spirituali che a fine Seicento coagularono attorno al quietismo le suggestioni di tipo 4lumbrado. Il passaggio da figlia a madre spirituale avvenne in Angela attraverso un vero e proprio concepimento mistico, che evoca in qualche maniera 3 A. Huerga, Historia de los Alumbrados. Los alumbrados de Sevilla, 1v, Madrid, FUE, 1988, pp. 386-388.
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la «gravidanza mistica» di Birgita di Svezia. Solo che, nel suo caso, sembra maggiormente avvertirsi la cautela e la preoccupazione di dover raccontare un evento così straordinario, esponendosi al rischio di essere considerata una simulatrice, se non una vera e
propria eretica. Non a caso, Angela Mellini subì un processo (come la Catalina de’ Jesus di Juan de Villalpando), non a caso i sospetti di un rapporto torbido con il proprio confessore non vennero del tutto fugati. La mancanza di strumenti culturali della cucitrice bolognese, il linguaggio stentato, ma non per questo meno incisivo, non tolgono nulla — semmai accentuano — la drammaticità con cui eventi di questo tipo venivano interiorizzati e vissuti. Angela aveva sentito
dentro di sé una voce imperiosa, quella della Vergine, che la invitava a farsi chiamare Madre dal proprio confessore. La giovane aveva resisitito, ma quella voce l’aveva convinta dicendole «che se la Madonna, che è giusta, non si sdegna di essere madre di peccatori, a maggior ragione una peccatrice poteva esserlo di un peccatore». Ma fu dinanzi al giudice che Angela dovette rispondere di quell’evento «in spirito» che aveva cambiato i termini del suo rapporto con il confessore. Il giudice domandò: An sciat aliquam personam
dixisse, che aveva
concepito in spirito
quemdam patrem spiritualem amore filiali, e che sentiva come un goffo o peso nelle coste.
E Angela risponde: So bene che haverò detto che ho sentito scolpito nell’anima il detto padre Ruggieri, come figliolo [...] nel entrare nel Santo sepolcro mi senti) una gravezza nell'anima che pendeva dalla parte del cuore sensibilmente e mi pareva sentirlo scolpito nell'anima come da figliolo. Et nel uscire mi sentij sgravata di quel peso, come che non havessi niente, e stimo di haver detto tutto ciò al medesimo padre nel confessionario, ma non mi ricordo cosa mi rispondesse, ma credo che dicesse: Siate humile.
Angela fa una «esperienza struggente della maternità» — dice Luisa Ciammitti — mescolandola ad un fervore spirituale che rappresenta la cifra enigmatica, pur nel ripetersi di una tipologia consolidata, del misticismo femminile. «Mi pareva — sono le parole di Angela che descrive il piacere fisico di sentire il bambino tirare il latte dalla mammella — anzi sentivo sensibilmente come tirare». Ed !4 L. Ciammitti, Una santa di meno. Storia di Angela Mellini, (1667-17...), in «Quaderni Storici», xLI, 1979, pp. 624-625.
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cucitrice bolognese
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è il corpo femminile, ancora una volta, a porsi come luogo, luminoso
e opaco al tempo stesso, in cui la Storia si costruisce in uno slittamento continuo e impensato dal concreto al simbolico. Corpo materno e corpo del piacere sessuale coincidono in queste esperienze spirituali collocate dentro i confini delle eterodossie mistiche. Confini instabili e incerti, definiti esclusivamente dal sapere teologico e dalle strategie inquisitoriali, mossi e spostati dalle emergenze sociali e culturali che segnarono i momenti di svolta, di crisi, di trasformazione della società di ancien régime. Sullo scorcio del xviI secolo — quando la cultura e le istituzioni ecclesiastiche cominciarono ad avvertire incrinature ben più profonde di quelle che avevano frantumato il mondo cristiano sotto l’urto della Riforma protestante, e quando, con l’incalzare del nascente mito della Ragione, il cattolicesimo illuminato si preparava a relegare il misticismo femminile nell’isteria o nel delirio — la tradizionale percezione di esso come
trasgressione concentrò,
soprattutto in
certe aree (e la Sicilia è tra queste) un repertorio massiccio di disordini sessuali e morali. Predisposti dalla strategia e dalle tecniche di accertamento inquisitoriale come escamotage di preti e bizzocche per fornicare liberamente, la tematica sessuale che si prospetta nelle cosiddette eresie quietista e molinosista (che prende il nome dal prete spagnolo Miguel de Molinos), mette in luce, secondo me, un radicamento del
misticismo nella problematica complessa (propria del pensiero e della tradizione cristiani) del rapporto tra corpo e spirito, anima e natura, sensualità ed esperienza religiosa che non può essere probabilmente interpretato seguendo quella linea usata proprio dagli inquisitori per dimostrarne la valenza ereticale. L’enfasi con la quale questi eretici insistono su tutto un insieme di gesti e rituali che valorizzano il rapporto comunitario o la dipendenza da una figura carismatica femminile (nel caso siciliano, la madre spirituale è la pinzochera suor Teresa di san Geronimo), evoca la dimensione agapica delle antiche comunità cristiane. L’immagine dello spirito che si trasmette col respiro, o addirittura con il bacio, come era nella tradizione gnostica, rivive nel gesto con cui la madre spirituale accoglie i suoi figli: accostare il loro capo al seno, e, quindi, scambiarsi il bacio. Una forma della rappresentazione che sembra dipanarsi da residui misteriosi della memoria fino all’utopia comunitaria delle conventicole misticheggianti secentesche. 217
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«Effondersi dello spirito»; «dilatarsi della carità»: sono i sentimenti descritti con più frequenza dagli imputati siciliani, una sorta di dimensione mistico-affettiva nella quale anche il contatto fisico era concepito come una componente essenziale del legame tra madre e figli «in spirito». D'altra parte, come non considerare che proprio l’esperienza mistica, così come continuava a tramandarsi attraverso i grandi testi
letterari, si fondava su un simbolismo erotico di grandissima suggestione. «Sensi del corpo» e «sensi spirituali»: due cose ben distinte, a detta dei teologi, che, tuttavia, nel linguaggio dell’esperienza mistica, nella pregnanza stessa delle metafore sessuali su cui esso era quasi del tutto giocato, tendono a confondersi, a sovrapporsi: luxuria spiritualis, era infatti definito quell’eccesso di passione, una sorta di disordine dell'anima presa da Dio, ed è ben visibile nell’accostamento dei due termini il gioco complesso di rifrazione e di rimandi tra i due piani. Lo struggimento evocato a proposito della maternità simbolica di Angela Mellini, domina tutta l’esperienza mistica femminile: da Angela da Foligno, a Caterina da Siena, a Teresa d’Avila, a Maria
Maddalena de’ Pazzi, il corpo delle donne racchiude un continuo e ossessivo slittamento dai «sensi spirituali» ai «sensi carnali». Sul corpo delle eretiche passava la linea di demarcazione fissata dal sapere teologico e dalle strategie inquisitoriali. Qui, sentimenti e passioni sperimentavano una pratica di rapporti e legami spirituali ingenuamente, forse, alternativa a quella proposta dalle gerarchie ecclesiastiche. E il corpo sembra rivendicare una legittimità sconosciuta al misticismo «ortodosso». «Impulsi santi del corpo» erano quelli provati da suor Teresa di san Geronimo, «violenze» della natura che la spingevano ad abbracciare e baciare tutte le creature e soprattutto il suo padre/figlio spirituale. Di fronte all’attacco portato dal tribunale inquisitoriale alla «nuova mistica», questa percezione non conflittuale del rapporto tra il corpo e l’anima — direi, addirittura armoniosa — si rompe nei dubbi, le incertezze, gli scrupoli di avere commesso gravi offese a Dio. Ed è significativo che proprio sul tema che aveva costituito uno dei momenti più importanti del dibattimento processuale — la sua maternità spirituale — ella ne ammettesse tutta l’ambiguità e il rischio: «He dicho no aver cosa peor que el Padre espiritual tenga esta especie de la hija espiritual, de serle tambien madre, assì se pega 218
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la familiaridad, y en el espiritu puede incurrir el amor desordenado...»)!.
Il rischio dell’«amore disordinato» sembra una ammissione fatta a malincuore, una sorta di cedimento di fronte alla logica stringente delle accuse. Si ha l'impressione, studiando i materiali inquisitoriali,
che ad essere messo sotto controllo fosse quello spazio di espressività, al tempo stesso sociale e religiosa, che le donne (ma anche gli uomini), si erano ritagliate all’interno di pratiche religiose e di rapporti sociali svincolandosi dal formalismo rituale della devozione e dalla disciplina gerarchica. Le immagini tradizionali della maternità spirituale e dell’arzore mistico, prive della mediazione dei modelli agiografici, prive di una documentazione probatoria redatta da superiori accreditati, sganciate, in definitiva, da un codice di rappresentazione e da un discorso teologico che ne legittimava l’ortodossia, ci appaiono, in qualche misura, come spazio conteso, limitato e flessibile al tempo stesso, in
cui si misura lo scarto tra modelli normativi e vissuto, tra «regolamentazione» e pratica sociale.
15 Sommario del processo di suor Teresa di san Geronimo, conservato in Madrid, Archivo Histérico Nacional, Legajo 1747, £. n. 13.
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LE GRAVIDANZE ILLEGITTIME E IL DISAGIO DEI GIURISTI (SECC. XVII-XTX)
di Giorgia Alessi
Il racconto che tenterò qui di fare non è compatto né facile, e presenta molti rischi di frammentarietà; tuttavia mi pare valga la pena di correrlî, pur di seguire la traccia sfuggente ma continua che lega maternità illegittima e sanzione penale attraverso la disciplina dell’infanticidio. Per mia fortuna i saggi di Giovanna Fiume sulle puerpere «folli» e di Giulia Calvi sulle madri tutrici facilitano il mio compito, da due diversi punti di vista. Da una parte, la puerpera maniaca della pratica clinica dell’Ottocento — spesso una madre illegittima serva, proletaria — rappresenta la versione tarda, estrema di quella gravida occulta che è al centro della mia relazione, e suggerisce un possibile esito del mio itinerario; dall'altra la vedova tutrice, nominata tale perché ha generato legittimi eredi di patrimoni importanti, è certamente una figura femminile forte dell’ancien régizze, tanto da costituirne un perfetto contrappunto. La maternità come vicenda di emarginazione nel
primo caso, come chance per l’assunzione di ruoli autorevoli dall’altro. Di più, ambedue queste figure, per quanto contrapposte, condividono una storia di autorappresentazione all’interno dello scenario giudiziario, in qualche modo sollecitata e recepita dagli stessi magistrati. Allo scontro, o estraneità tra donne ed istituzioni sembra sostituirsi una sorta di compromesso: disperato nel primo caso, assai felice nel secondo. La rappresentazione condivisa della purezza dell'amore materno, scevro da interessi materiali, consente al Magi-
strato dei pupilli di escludere le pretese di aspiranti tutori rapaci e dissoluti, assicurando una posizione di ragionevole agiatezza alla 221
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E CONFLITTI
madre; l'adesione al copione della follia da gravidanza, autorizza
l'esenzione dalla pena di morte per l’infanticidio, senza togliere nulla all’imperatività della norma penale. Anche nella figura della ragazza madre, emerge il tema della recita giudiziaria, dell'esposizione dei fatti modulata dalla consapevolezza delle richieste della giustizia. Il mio racconto sulla maternità illegittima inizia da una vicenda della Toscana di fine Settecento. Qui, nell’estate del 1784, Filippo Mucci, messo del Tribunale di Fivizzano, in Lunigiana, avvisa la Corte
che «Pasqua, figlia di Bartolomeo Ambrosini di Bottignana si ritrova gravida, e perciò ne fo puntuale referto, per discarico di mio dovere». La donna viene così citata, ed il primo agosto 1784 si presenta, e presta la garanzia de tuendo feto, alla quale le leggi toscane la obbligano, promettendo «di bene e fedelmente custodire il feto di cui è incinta, e di dare alla corte l’appresso discarico di scudi 50». Alcuni decenni più tardi, ancora nella Toscana granducale, dalla presidenza del Buon Governo, vertice della rete di polizia, si richiama l’attenzione del Commissario del quartiere di S.M. Novella sul caso di una tale «fanciulla» Teresa Miniati, che chiede, con l’intercessione del
proprio parroco, di essere ricoverata presso l’ospizio delle gravide occulte di Orbatello: «occorrerà — si comunica al magistrato — che ella, presa contezza della situazione e dei rapporti della comparente mi dica se creda conveniente o nò il fare nonostante il difetto della fecondità di costei, ammettere la medesima in Orbatello, o in quale
altra maniera possa provvedersi al caso affinché la Miniati non incontri nella presente sua posizione di ventre pregnante disastri e pericoli dei quali potrebbe farsi obietto alla Polizia»?. Due approcci e due apparati diversi quindi, a controllare la nubile gravida ed assicurare la sopravvivenza del bambino: l’inquisizione d’ufficio ed il conseguente obbligo di autodenuncia dinanzi al potere giudiziario, da un lato; la supplica dal basso, e l’intervento incrociato, tra tutela della pubblica moralità e aiuto assistenziale, delle autorità religiose e di polizia dall'altro. I due diversi orizzonti indicano peraltro un passaggio tipico, in ! Le due citazioni già in G. Alessi, Processo per seduzione. Piacere e castigo nella Toscana Leopoldina, Catania, PME, 1988, p. 24, dove pure l’intera vicenda del processo che oppose,
nella Lunigiana leopoldina, una contadina al proprio parroco. L'intero fascicolo processuale in as, Supremo tribunale di giustizia, 1786, f. 1058, ins. 1. 2 AsF, Commissariati di quartiere, £. 990, Donne gravide dirette ad Orbatello, (carte non numerate, 23 aprile 1833).
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LE
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E IL DISAGIO
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GIURISTI
tutta l'Europa di fine Settecento, tra il tempo storico a forte disciplinamento giudiziario, dominato da apparati di giustizia prestigiosi, solenni ed assai spesso inefficienti, ed i nuovi meccanismi di più duttile e diffuso controllo sociale, affidato ai riorganizzati apparati di polizia. Tra i due documenti, l'affermazione di un principio giuridico importante, sanzionato dal codice Napoleone e largamente recepito negli ordinamenti dell’Italia preunitaria: il divieto di ricerca della paternità, in caso di prole illegittima; con la conseguenza di precludere ogni richiesta giudiziale di risarcimenti, da parte della donna in caso di padre-seduttore occulto?. L’autodenuncia delle nubili in sede giudiziaria, ancora ben presente nella Toscana di fine Settecento, aveva radici assai antiche,
ed un modello normativo prestigioso: si rifaceva infatti alle déclarations de grossesse imposte alle madri nubili francesi dall’editto di Enrico 11, emanato nel febbraio dell’anno 1556‘, e volto, secondo le
esplicite intenzioni del legislatore, a reprimere duramente il delitto di infanticidio’, e soprattutto ad evitare che il bambino, soppresso senza essere stato battezzato, perdesse, insieme alla vita terrena, la
beatitudine eterna. Occultando la propria gravidanza, la donna non avrebbe più potuto eccepire, durante un successivo processo per infanticidio, di aver partorito un bambino già morto; in mancanza di
diverse e positive prove della propria innocenza, sarebbe stata giudicata colpevole, e condannata a morte. L’editto, sovente reiterato durante tutta l’età moderna, doveva
3 Sugli aspetti relativi al risarcimento del danno per la ragazza madre, e sul fallimento, alla fine dell'Ottocento, del progetto Gianturco «Sulla condizione giuridica dei figli naturali e
delle donne sedotte», che tentava di introdurre prudenti modifiche alla disciplina «francese» cfr. G. Cazzetta, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico (1865-
1914), Milano, Giuffrè, 1991, pp. 362 ss. Sui risvolti pesanti della disciplina per le madri illegittime, e sugli stratagemmi per aggirare il divieto di ricerca della maternità G. Pomata, Madri illegittime tra Ottocento e Novecento, in «Quaderni storici», n. 44, 1980, pp. 452-497.
4 Il testo dell’editto in Isambert, Jourdan, Decruisy, Recuezl général des anciennes lois frangoises, Paris 1922, rist. 1964, t. x, n. 364, pp. 471-473; per un autorevolissimo commento
settecentesco alla norma cfr. M. Muyart de Vouglans, Les loîs crimzinelles de France dans leur ordre naturel, Paris, chez Merigot..., 1780. 5 L’indagine più ampia su infanticidio/illegittimità per l’Italia d’antico regime mi sembra
ancora quella di C. Povolo, Dal versante dell’illegittimità. Per una ricerca sulla storia della famiglia: infanticidio ed esposizione d’infante nel Veneto nell'età moderna, in La «LEOPOLDINA», Ix, a cura di L. Berlinguer; F. Colao, Crimine, giustizia e società veneta in età moderna, pp. 89-153; per l'Inghilterra cfr. R.W. Malcomson, Infanticide in the Eighteenth Century, in J.S. Cockburne (a cura di), Crizze in England, London, Methuen, 1977. Per la situazione francese cfr. Y. Bongert, L’infanticide au siècle des Lumières, in «Revue historique de Droit Francais et
Étranger», 1978, pp. 247-257.
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essere riletto ogni tre mesi dal pulpito delle chiese parrocchiali, e le autorità religiose e laiche avrebbero dovuto strettamente collaborare nel diffonderne la conoscenza per i villaggi e città della Francia‘, onde impedire eccezioni difensive basate sull’ignoranza del diritto”. Il preambolo della legge chiariva bene le circostanze che avevano reso necessaria l’elaborazione del meccanismo presuntivo a carico della donna: la consueta difesa delle presunte infanticide, «que leurs enfants sont sortis de leurs ventres morts et sans aucune espérance ou apparence de vie», aveva creato incertezze a livello della prassi giudiziaria, determinando pericolose contraddizioni e talora eccessiva indulgenza nelle sentenze delle corti. Alcuni giudici infatti, ritenute dubbie le prove, optavano per il ricorso alla tortura giudiziaria e, davanti all’esito negativo di questa ed all’impossibilità di ottenere la confessione della donna, la condannavano alla prigione, sottraendola alla pena dell’ultimo supplizio, prevista appunto per il reato di infanticidio. Da quel momento in poi nessuna donna avrebbe potuto sottrarsi alla pena capitale sulla base di simili pretesti in caso di morte della propria creatura. A patto, avrebbero puntualizzato i successivi commenti dei giuristi, che si accertasse l'assenza di battesimo, ed una provata «maturità» del feto, cioè che «l’enfant dont elle est accouchée soit venu à temps [...], qu’il soit trouvé ayant des ongles et des cheveux»*. Questo secondo requisito chiama in gioco il tema arduo dei confini tra aborto ed infanticidio, e del tempo a partire dal quale il primo potesse essere considerato reato. 6 Con l’ordinanza del 25 febbraio 1708, che ne ribadì le disposizioni si ordinò ai curati e vicari, sotto gravi sanzioni, di spedire copia delle pubblicazioni ai magistrati locali: sul punto e sulle varie vicende relative all’applicazione-desuetudine dell’editto, cfr. C.M. Phan, Les déclarations de grossesse en France (XVI-XVIII siècles), in «Revue d’histoire moderne et contemporaine»,
a. xxII, n. 1, 1975, p. 70.
? La tradizione francese venne recepita nella legislazione piemontese, e le Leggi e costituzioni di sua Maestà ripetono, ancora nell’edizione del 1770 «Sarà riputata rea d’infanticidio ogni donna, che verrà convinta d’aver nascosta la propria gravidanza, ed il parto, e si troverà essere stato il figliuolo privato del battesimo per mano del Paroco, e della pubblica, e solita sepoltura, e vi concorrerà altresì un qualche urgente indizio di morte violenta, senza il quale sarà solamente luogo, nelle accennate circostanze, ad una rigorosa tortura per ricavare la verità, e non sarà mai a spese del Fisco la prova, che il parto sia nato vivo». Cfr. ed. Torino,
Nella Stamperia Reale, 1770, t. 11, f. 211. Anche per la Bologna d’età moderna sono note forme di controllo e registrazione dei bastardi: non secondo le modalità dell’autodenuncia di tipo francese, ma attraverso le denunzie di massari e levatrici: alle madri illegittime così registrate presso l'Ospedale dei Bastardini veniva concesso di conservare l’anonimato; cfr. A. Bianchi,
«L'elemosina di un bambino». Pratica e controllo dell'abbandono all'Ospedale dei Bastardini (secc. XVI-XVIII), in «Sanità Scienza e Storia», n. 2, 1989, pp. 35-52.
8 Muyart de Vouglans, Les /oîs, cit., p. 180.
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ILLEGITTIME
E IL DISAGIO
DEI
GIURISTI
I dottori giuristi del diritto comune, sulla scorta di una dottrina della Chiesa assai più duttile dell’attuale in tema di individualizzazione del feto, ripeteranno sino al xvi secolo che «si foetus sit animatus locum habet poena ordinaria Homicidii; si vero sit inanimatus poena extraordinaria judicis arbitrio»?. Ed una opinione di minoranza sosteneva la non punibilità dell’aborto, compiuto al fine di evitare l’infamia,
in caso
di feto non
ancora
animato.
Seguendo linee di ragionamento simile, i giuristi di corzzzon law indicavano nella differenza tra «abortion before and after quickening» il dato essenziale perché si potesse identificare l’aborto come delitto grave, 72urder®. Qualche isolata, ma prestigiosa voce andava oltre, rifiutando in ogni caso l’equiparazione tra aborto e omicidio: quello stesso Edward Coke che aveva osato ricordare a Giacomo I che i giuristi, e non il re, erano i depositari del diritto inglese — perdendo perciò cariche ed onori — escludeva che il feto ancora nel grembo materno potesse mai identificarsi con quella «reasonable creature in being»!! che costituiva il presupposto indispensabile — come vittima — di ogni omicidio o assassinio. Quest’ordine di ragionamenti doveva circolare anche negli ambienti del diritto comune, nell'Europa continentale e cattolica. E proprio a troncare ogni possibilità di errore nella condotta morale dei sudditi cattolici — ed ogni pericoloso probabilismo dei confessori — Innocenzo xI aveva condannato solennemente’, nel 1679, due proposizioni «lassiste» in 9? J. Sorge, Ad... Jurisprudentiae forensis, t. 1x, Neapoli 1758, p. 211b. Il criminalista napoletano Giuseppe De Angelis tentava di definire con più esattezza il momento dell’animazione, distinguendo per altro a seconda del sesso del nascituro: «Dicitur autem partus animatus in Masculo in 40. diebus a die conceptionis. In foemina vero in diebus 80, et hanc sententiam DD. esse communem tradunt ...»; c'erano tuttavia anche opinioni di minoranza che fissavano in trenta giorni per il feto di sesso maschile e quaranta per quello di sesso femminile il momento dell’animazione: cfr. Tractatus criminalis de delictis, Venetiis 1722, pars Ti piro
4:
10 Cfr. S. Gavigan, The Criminal Sanction as it Relates to Human Reproduction, in «The Journal of Legal History», 1984, pp. 20-39. 1 Ibid., p. 24. 12 L'incipit della bolla è declaratur scandalose: cfr. Bullarium Diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum pontificum ..., t. x1x, Augustae Taurinorum 1870, f. 147, XXXIV, XXXV.
Insieme a queste due venivano condannate una serie di altre affermazioni lassiste, come quella secondo cui era lecito rubare non solo in caso di estrema, ma anche di grave necessità, o l’altra, secondo cui i domestici avrebbero potuto compensare attraverso furti occulti l'esiguità del salario ricevuto. Tutte facevano parte di quel bagaglio di verità «probabili» fondate cioè su opinioni autorevoli, e non su principi incontrovertibili, che secondo i dottori giuristi di formazione tardo scolastica potevano attenuare o escludere la responsabilità del cristiano per
comportamenti che impostazioni più rigorose avrebbero definito colpevoli. Tali teorie consentivano una valutazione più duttile della condotta morale, e una capacità di tolleranza
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tema di aborto. La prima affermava la liceità dell’aborto in epoca anteriore all'animazione del feto, ove la ragazza madre avesse agito sotto la minaccia di venire uccisa o infamata. La seconda, negando la presenza di un’anima razionale durante la vita intrauterina del feto — che l'avrebbe acquisita solo al momento del parto — esprimeva forti riserve sulla possibilità di identificare aborto e omicidio. Agli ultimi anni di Coke, ed alla fitta rete di dubbi che circondavano l'effettiva vitalità del feto o del bambino appena partorito, risaliva quella «legge oltremodo severa»! — lo statuto 21 di Giacomo 1, cap. 27 - che sottoponeva alla pena capitale, come assassina, la madre che, avendo partorito un figlio illegittimo vivo, ne avesse poi nascosto la morte, seppellendolo segretamente. La donna poteva evitare la pena capitale solo ove fosse riuscita a dimostrare, attraverso almeno un testimone, che il bambino era nato morto".
Anche in questo caso, lo spettro dell’infanticidio serviva a costruire meccanismi presuntivi a carico della donna, aggirando principi e massime solennemente proclamati dalla criminalistica coeva, la quale ricordava instancabilmente che in caso di processo penale le prove dovevano essere chiarissime più della «luce meridiana», che non potevano quindi mai ammettersi, in questo ambito, le presunzioni; che
che saranno un tratto fondamentale dell’azione sociale dei gesuiti presso le classi più elevate. Proprio questo tipo di strategia costituirà, com’è noto, il bersaglio privilegiato delle polemiche dei giansenisti e delle ire di Blaise Pascal. 3 L’espressione è di William Blackstone, che in un breve commento alla legge sottolinea l’interpretazione restrittiva datane dalle corti inglesi durante il Settecento: «Ma, fra noi, da alcuni anni si richiede la prova completa che il figlio era assassinato vivente, pria di procedere contro la madre» cfr. Commentario sul codice criminale d'Inghilterra, in Raccolta dei classici criminalisti, Milano, Tipografia Buccinelli,
1813, t. 1, pp. 267 ss. Per un quadro ampio,
corredato da molti dati quantitativi, sulla repressione dell’infanticidio in Inghilterra cfr. P.C. Hoffer-N.E.H. Hull, Murdering Motbers: Infanticide in England and New England 1558-1803, New York-London, New York University Press, 1981. Secondo la periodizzazione proposta in questo lavoro, la repressione dell’infanticidio avrebbe trovato pochissimo spazio tanto nella letteratura giuridica che nella prassi sino al 1580: soltanto con il regno di Elisabetta e dei primi Stuart «concealment of sexual transgressions among poor women was a growing concern [...]. At the opening of semiannual assize court sessions, ministers singled out the “descendents of Eve”, especially poor serving women, as bearers of the temptations of the flesh» (p. 11). Nel xv secolo la percentuale delle procedure d’accusa per infanticidio rispetto al totale dei delitti sarebbe entrata in fase decrescente, ed i magistrati si sarebbero mostrati poco propensi a condannare solo sulla base dell’occultamento della nascita (p. 65). 14 Ibid., p. 20, il testo dello statuto, ed il suo senso complessivo all’interno della legislazione statutaria precedente. 13 Per le teorie sulle prove penali nella dottrina del diritto comune cfr., G. Alessi, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Napoli, Jovene, 1979; Id., Processo penale, in Enciclopedia del diritto, vol. xxxvi, Milano, Giuffrè, 1987, pp. 360-401.
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l’ignoranza della legge poteva scusare quando i comportamenti sanzionati non fossero direttamente contrari ai dettami del diritto naturale. Difficile quindi, stando ai principi astratti della scienza giuridica, definire come condotta criminale, non scusabile per ignoranza, la mancata pubblicità data dalla nubile alla propria gravidanza. La resistenza dei magistrati toscani ad applicare alla lettera le pene previste per infanticidio, aborto, esposizione di parto, si deduce dagli stessi severissimi ordini che le confermano, nel 1744. Nel comminare forca e confisca dei beni i governanti ammonivano: non vogliamo che per minorar la pena, si attenda la difesa, su cui alcuna volta è nato qualche dubbio ne’ Tribunali, che il delitto sia stato commesso per salvare l’onore alla madre, o parenti, non meritando compatimento la madre che si è volontariamente esposta, ed illecitamente al pericolo della gravidanza, ed il comodo de’ luoghi, che ricevono le piccole creature, toglie ogni scusa anche ai congiunti, che sien complici del delitto, mentre possono in questi luoghi assicurarle, e tener coperto l’errore della madre!‘.
Difficile capire come potesse conciliarsi l’occultamento dell’«errore»,
con l’obbligo della denuncia, formalmente
previsto dalle
norme sulla mallevadoria. La minaccia della pena capitale, peraltro largamente inapplicata anche in caso di dimostrato infanticidio, sembrava soprattutto diretta a consegnare ad ogni costo la gravidanza delle nubili agli apparati, strappando la madre ad ogni possibile, pericolosa e segreta gestione della primissima fase della sua maternità. Una violazione che raggiungeva livelli paradossali, per le gravide del Regnum Siciliae, «disvelate» anche quando la morte avesse dato loro pace. In una Prammatica del 1749, che imponeva il taglio cesareo ai fini del ‘battesimo per tutte le donne morte in sospetto di gravidanza, s'imponeva agli ufficiali di giustizia responsabili dell'esecuzione, di non esitare dinanzi alle resistenze dei genitori delle «gravide illegittime», ed ai loro tentativi di ostacolare un’operazione che rendeva pubblico un disonore ormai destinato all’oblio”. 16 Cfr. Legislazione toscana raccolta e illustrata dal dottore Lorenzo Cantini, t. xxv, Firenze, Stamp. Albizziniana, 1806, Ordini da osservarsi nelle cause criminali dal dì 15 Gennaio
1744..., p. 160.
17 Per la collocazione della norma nel quadro della politica assistenziale siciliana cfr.S Raffaele, Dalla beneficenza all'assistenza. Momenti di politica assistenziale nella Sicilia moderna, Catania, cuecm, 1990; il testo della prammatica alle pp. 292-300.
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AI di là del terrificante contenuto del loro dettato letterale, questi antichi testi annunciano problemi di lunga durata, e lasciano trasparire, sia pure ancora nascoste dietro la solennità del comando legislativo, contraddizioni mai risolte degli ordinamenti giuridici europei nei confronti della maternità illegittima. Del resto, il ricorso a meccanismi
presuntivi annuncia
già di per sé — sempre — la
disfatta dei giudici, il fallimento dei meccanismi di investigazione propri della giurisdizione, ed il ricorso alla forza della decisione politica. Per quanto quindi sia come sempre necessario sistemare queste
brevi riflessioni entro un contesto identificato — nel nostro caso la Toscana tra Sette e Ottocento — non v'è dubbio che questo «disagio dei giuristi» appartiene alla dimensione della lunga durata, e ripropone lungo secoli e luoghi diversi la difficile relazione tra diritto e scienza medica, da un lato, diritto e sessualità dall’altro.
Mallevadoria di parto e meccanismi presuntivi non avevano risolto una volta per tutte il problema della prova giudiziaria della vitalità del feto, incidendo semmai soltanto nel rendere obbligata una linea difensiva — per le presunte infanticide — fondata sulla totale ignoranza del proprio stato di gravide, e persino della negazione del parto. È una linea di difesa ancora presente nei processi per infanticidio della Bologna del primo Ottocento, ove le imputate sostengono di aver scambiato i segni fisici della gravidanza per una malattia, cui la credenza popolare dà il nome di «madrazza» !8,
Bisognava quindi affidarsi all’esperienza delle ostetriche, che potevano accertare i segni di gravidanza e parto — le famose «rughe e liquidi nel corpo» assunti come segni incontestabili di gravidanza nelle perizie delle levatrici — ed alla scienza dei medici-chirurghi affidando loro, per gli esami del caso, il feto o il bambino che la madre dichiarava morto. Ma l’autopsia diceva poco, in assenza di lesioni o segni evidenti di brutalità: la scienza medica, nel xvi secolo, ricorreva alla prova idrostatica. Claudio Povolo ne ha descritto l'applicazione in uno studio sull’infanticidio nella Venezia
18 Cfr. M.P. Casarini, Maternità e infanticidio a Bologna: fonti e linee di ricerca, in «Quaderni Storici», n. 49, 1982, pp. 275-283; ivi pure l’accenno all’elaborazione del tema dell’infanticidio nella favolistica, in particolare nella favola dei Grimm, intitolata La canzone del
ginepro ovvero mia madre mi ha ucciso, mio padre mi ha mangiato e mia sorella mi ha pianto
(p. 282).
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del Settecento! il cui ordinamento non aveva recepito il modello francese delle dichiarazioni di gravidanza: ma se ne ritrova traccia anche nella Toscana leopoldina, che quell’esempio aveva seguito, come vedremo, pressoché alla lettera. Ancora nel 1787 il Supremo Tribunale di Giustizia affidava alla perizia dei chirurghi un feto di cinque o sei mesi, per accertare la colpevolezza di una tale Maddalena Perazzo, processata per supposto infanticidio, la quale, incarcerata e più volte interrogata, persisteva nel negare di essersi mai accorta della gravidanza. I medici periti, essendosi stato permesso di farlo, lo aprirono di fatto, e ritrovarono tutti i visceri intatti e illesi, e senza la minima alterazione né alcuna offesa interna;
quindi passarono a far l’esperienza di gettare il polmone, dopo d’averlo staccato, e separato dagli altri visceri, in un vaso pieno d’acqua ed appena gettato in esso fu veduto di piombo cadere, e toccare il fondo di detto vaso, senza trattenerne né punto né poco in superficie”.
Anni prima, il Magistrato degli Otto aveva rimproverato il Vicario di Pontremoli, in un altro caso di supposto infanticidio, per la leggerezza con cui aveva prestato fede alle mere dichiarazioni della sospetta — di non essere gravida — senza neanche sottoporre la donna alla perizia delle ostetriche”. Assai più che dai problemi tecnici della prova giudiziaria, era il tema generale della sessualità illecita — femminile, in special modo — a determinare incertezze e contraddizioni nei legislatori e nei magistrati. Nell'ipotesi di gravidanza, era difficile ricondurre tali devianze unicamente ai disordini di una natura debole, all’incapacità di autodisciplinamento, o addirittura — nel caso di querele per
19 Cfr. Povolo, Dal versante dell’illegittimità, cit.; la documentazione settecentesca relativa
all’Old Bailey Session, competente per la contea del Middlesex e la città di Londra, mostra l’uso della prova polmonare anche in questi ambiti, ma la resistenza dei giudici ad accettarla senza riserve come prova della vitalità del feto: cfr. Hoffer-Hull, Murdering Mothers, cit., 733
Pa ase, Supremo Tribunale di Giustizia, £. 1086 (1787), 47. Nonostante la prova dei periti deponesse per la non vitalità del feto, la donna non venne totalmente liberata da ogni accusa, perché il processo è lasciato «aperto» sino a nuove prove e per di più si dispone la trasmissione degli atti al Buon Governo perché il caso sia presente agli apparati della polizia fiorentina. 21 asc, Magistrato degli Otto di Guardia. Principato, £. 1949, 24. L’ammonizione, particolarmente
severa,
è dell’Uditore fiscale Bricheri Colombi:
«Concorro,
ma
resterei
avvertita la corte di Pontremoli dell’errore che ha commesso di non essersi la prima volta assicurata meglio dello stato dell’imputata allorché denunziata a Corte, come gravida, si contentarono i ministri di credere sull’assertiva pura di detta imputata, che non fosse tale; onde la lasciarono andare senza farla visitare dalle Ostetrici [sic!] come era di regola».
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stupro — alle forzature interessate di ragazze in cerca di dote o matrimonio. Qui era evidente la relazione tra due soggetti, e incombeva oscura ma innegabile la presenza dell’altro, il complice di sesso maschile, sicuramente responsabile ma non segnato, nel corpo, dal peccato/delitto. Il discorso valeva tanto più nel caso di un pesante processo per infanticidio, nel quale la donna rischiava la morte. Smascherare il fantasma, inquisire sino al ritrovamento del seduttore era scelta impossibile, talora politicamente inopportuna, e comunque poi scartata dagli ordinamenti dell’Italia preunitaria: più semplice affrontare la piaga delle nascite illegittime e la possibile diffusione degli infanticidi a partire dal colpevole «manifesto» e più debole. Tuttavia il disagio dei giuristi permane, e spiega lo scarto sempre riemergente, dalla fine del xvmi secolo a tutto il secolo successivo, tra durezza delle leggi e mitezza o desuetudine delle pene. Spiega altresì la resistenza ad omologare infanticidio ed omicidio, e le incertezze legislative nella criminalizzazione dell’aborto. Proprio su questo punto il Granduca Pietro Leopoldo, al momento della riforma criminale dell’86, registrerà una piccola sconfitta di fronte ai suoi magistrati consulenti. Nelle Ri/lessioni di suo pugno, che danno il via alla redazione della Leopoldina, considerando proprio le difficoltà di prova cui abbiamo sopra fatto cenno, egli annotava: «l’infanticidio non può condannarsi a morte, perché sempre dubbia la morte violenta»; anche nelle osservazioni successive, quando ormai l'adozione della pena di morte viene esclusa per ogni delitto, egli negò implicitamente ogni omologazione tra le pene relative all'omicidio — lavori pubblici a vita, inaspriti da gogna e frusta — da quelle comminabili per procurato aborto — lavori pubblici a tempo. Assai più rigidi, come spesso accadeva, i magistrati consulenti del Granduca, propensi a conservare l’identità di pene tra omicidio ed infanticidio. Tanto più, avrebbe argomentato Silva-
2 Questo disagio viene registrato dalla storiografia anche per l'Inghilterra del primo Ottocento:
quando,
nel 1803, lord Ellenborough
promosse,
con motivazioni
ed intenti
tutt’altro che favorevoli alla donna, l’abrogazione dell’antico statuto di Giacomo 1 sull’infanticidio, uno degli argomenti fu appunto quello che: «At present the judges were obliged to train the law for the sake of lenity, and to admit the lightest suggestion that the child was stillborn as
evidence of the fact». Il Crimze bill del 1803 inserì l'aborto procurato tra i delitti capitali e dispose che nel caso di proscioglimento dal delitto di infanticidio la donna potesse essere condannata a due anni di carcere se riconosciuta colpevole di aver occultato la nascita: cfr. Hoffer-Hull, Murdering Mothers, cit., p. 87.
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no Tosi, che curerà la stesura definitiva del testo, che la pena capitale era ormai fuori gioco”. Gli articoli 67 e 71 della Riforzza della legislazione criminale non recano nessuna traccia delle originarie intenzioni del Granduca: «Gli omicidi premeditati nella classe dei quali sono pure gli infanticidi...» recita il primo, prevedendo gogna e lavori forzati a vita. Il secondo insiste sull’equazione tra omicidio, infanticidio, aborto «Quelle madri
che avranno procurato l’aborto del feto da sé concepito, ed i complici del loro misfatto, siccome quei che avessero fatto alle medesime alcuna sorta di violenza [....] subiranno la pena ordinaria delli omicidiarii dichiarata all’articolo 67»*. Nella Toscana del xviti secolo, la nubile gravida era venuta alla ribalta legislativa come potenziale infanticida, e l’asserita diffusione di questo tipo di delitto aveva incoraggiato sistemi di controllo pervasivi rispetto alla natalità illegittima. Nel 1701, a firma dell’uditore fiscale Zaccaria Seratti, veniva inviata a tutti i magistrati aventi giurisdizione, una lettera circolare che, partendo dal fenomeno della diffusione degli aborti, ed infanticidi, «a causa che molte femmine, datesi ad
amori impuri, e illeciti, restando poi gravide procurano, o per propria malizia, o per istigazione d’altri, massime de’ complici del delitto occultare le loro disonestà, e gravidanze, o coll’abortire, o pure dopo il parto col malmettere, e occidere con inumana barbarie i proprj parti», faceva carico a tutti gli ufficiali obbligati alle prime inquisizioni e denunzie dei delitti, di fornire i nomi di tutte quelle donne «sì fanciulle che vedove, o maritate, non coabitanti attualmente coi
propri mariti», che fossero state scoperte gravide. Sulla base di tali denunzie si sarebbe proceduto alla convocazione delle donne, all’accertamento della gravidanza «nelle forme solite» — cioè sulla base di due perizie ostetriche — rilasciandole solo quando «non averanno dato idoneo mallevadore d’aver la dovuta cura del feto, e di custodirlo
dopo l’averanno dato alla luce fedelmente con mandarne, o presentarne in scritto fede autentica dell’esito del medesimo Tribunale». 2 Sui vari stadi della riforma indicati nel testo cfr. M. Da Passano, Dalla «mitigazione delle pene» alla «protezione che esige l'ordine pubblico». Il diritto penale toscano dai Lorena ai Borbone (1786- 1807), Milano, Giuffrè, 1988; le citazioni riportate nel testo rispettivamente alle pp. 194, 287. 24 Cfr. Riforma della legislazione criminale toscana, in C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Torino, Einaudi, 1968, pp. 282 ss. 2 Cfr. Legislazione toscana, cit., t. XXI, p. 130.
26 Ibid., come la cit. successiva.
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La riservatezza non era però strappata a tutte le madri nubili con eguale spietatezza: le donne «d’onesto parentado» il cui errore non fosse «così palese all’universale», potevano godere, da parte della Corte «ogni segretezza, convenienza e carità maggiore, e praticabile per preservarli la reputazione». Lo stesso Lorenzo Cantini, nel commentare la norma, notava che
il suo rigore avrebbe potuto avere un effetto opposto rispetto ai fini di tutela del nascituro solennemente proclamati: aumentando, con la prospettiva della convocazione giudiziaria e del necessario coinvolgimento di un parente/mallevadore, l’angoscia per la propria posizione irregolare e l’impulso ad abortire. Il «terrorismo» contro le gravide occulte con cui le legislazioni appena esaminate affrontano il tema dell’infanticidio solleva alcune questioni certo di difficile soluzione in questa sede, ma su cui varrà la pena di riflettere attraverso strumenti e contributi più adeguati.
Ci si può chiedere cioè da una parte, se questo estremo rigore riflettesse una estesa — e intercetuale — disapprovazione sociale intorno alla maternità illegittima; dall’altra se all’ossessione repressiva sull’infanticidio corrispondesse una reale incidenza demografica. La contiguità tra infanticidio e aborto colloca certo la seconda questione, per molti versi, nella zona oscura delle statistiche impossibili; tuttavia alcuni contributi della storiografia recente negano una portata statisticamente rilevante all’infanticidio come strumento di controllo delle nascite”, realizzato piuttosto attraverso l'abbandono degli illegittimi e l’alta mortalità infantile all’interno degli Istituti di accoglienza”. 27 In tal senso decisamente J. Boswell, The Kindness of Strangers, New York-Toronto 1988; trad. it. L'abbandono dei bambini in Europa occidentale, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 254 e passim; in senso analogo, sia pure con maggiori distinguo, G. Da Molin, Nati e abbandonati. Aspetti demografici e sociali dell'infanzia abbandonata in Italia nell'età moderna, Bari, Cacucci,
1993 (pp. 80-83), che insiste sull’impossibilità di tradurre in cifre il fenomeno dell’infanticidio, e sul rapporto tra superamento dell’infanticidio e pratiche contraccettive neomalthusiane (p. 210); a questo recente lavoro rinvio per la ricchissima bibliografia sugli esposti, e per una rapida ma efficace rassegna delle più interessanti interpretazioni in tema di infanticidio (pp. 200-202).
28 Per la Toscana tra Settecento e Ottocento, C. Corsini ha sottolineato il livello sempre più alto, all’interno della mortalità infantile, dei bambini abbandonati rispetto ai legittimi; lo scarto potrebbe essere ancora maggiore, considerando che i dati si riferiscono agli abbandonati che arrivavano vivi all'Ospedale, ed erano quindi registrati: cfr. Structura! Changes in Infant Mortality in Tuscany Between the 18th and 19th Century, in «Quaderni del dipartimento statistico», n. 16, 1981, pp. 1-31.
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Per l'Inghilterra d’età moderna, Macfarlane” ha sottolineato poi la scarsa disapprovazione sociale riservata alla madre nubile. Suggestioni difficilmente documentabili ma attraenti possono venire dall’iconografia relativa alla fondazione degli istituti di assistenza: quella, assai nota, che illustra la nascita dell'Istituto di S. Spirito, nella Roma del xIv secolo, mostra barche di pescatori, intenti a ripescare i bambini gettati nel Tevere dalle madri snaturate, con il chiaro intento retorico di enfatizzare la missione salvifica dell’Istituto stesso. Di certo, tra le immagini pittoresche delle retoriche istituzionali, e le grida deterrenti della legislazione, si profila il problema ben più concreto del mantenimento degli illegittimi e delle responsabilità ad esso relative. Gli statuti inglesi di fine Cinquecento imponevano alle levatrici, nel caso di maternità naturale e in occasione del parto, di estorcere in tutti i modi il nome del padre alla donna, proprio per identificare un soggetto da chiamare in causa, evitando alla comunità l'onere per l’allevamento del bambino illegittimo. Ed in questa direzione sembra trasformarsi il meccanismo delle autodenunce di gravidanza originariamente rivolto alla repressione dell’infanticidio. Così, nella Francia d’ancien régime, la déclaration de grossesse divenne un mezzo di identificazione della maternità naturale e soprattutto una sorta di déclaration-requéte contro il seduttore per ottenere gli alimenti’; mentre la mallevadoria di parto, presente nella pratica giudiziaria e di polizia ancora nella Toscana di fine Settecento:!, parve assumere lineamenti e funzioni diverse rispetto a quelle di mera prevenzione di aborto ed infanticidio: primo atto dei
29 A. Macfarlane, Illegitimacy and Illegitimates in English History, in P. Laslett, K. Oosterveen, R.M. Smith (a cura di), Bastardy and its Comparative History, London, Arnold, 1980,
p. 75.
30 Ch Phan, Les déclarations, cit., passim: tanto l’identificazione delle madri naturali di possibili bastardi che la sottoposizione del seduttore padre alla responsabilità per le prime spese — parto ed allattamento — avevano come scopo di esentare il più possibile le comunità dal peso per il mantenimento degli illegittimi. Tale scopo era rivelato con trasparente brutalità dallo statuto inglese del 1610 (7 James, cap. 4), che dichiarava punibile con un anno di lavori forzati la donna «indecente» che procreasse un bastardo «chargeable to the parish»: cfr. Macfarlane, I/legitimacy, cit., pp. 71-85, particolarmente p. 73. 31 Anche le statistiche sulla criminalità fatte redigere da Pietro Leopoldo mostrano — per quanto ciò possa valere rispetto ad un delitto in cui massimo è lo scarto tra realtà e documentazione giudiziaria — la scarsa rilevanza quantitativa del delitto di infanticidio: su 17.121 processi celebrati in Toscana tra il 1762 e il 1781, 86 riguardano casi di infanticidio, contro i 1685 di stupro, e i 4738 di furto; cfr. Da Passano, Dalla «mitigazione delle pene», cit., Appendici, x.
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processi per stupro intentati contro seduttori o violentatori; dichiarazione «anagrafica» attestante lo stato di ragazza madre di fronte alle autorità di polizia, per iprovvedimenti di assistenza/internamento presso le istituzioni a ciò preposte. Testimonianze sulle mallevadorie realmente prestate nella Toscana leopoldina e preunitaria” sono rintracciabili attraverso i processi penali celebrati dai Vicari del Granducato e inviati al Supremo Magistrato di giustizia per l'approvazione definitiva; le corrispondenze ed atti burocratici dei Commissariati di polizia fiorentini. Tra giustizia e polizia, l'Ospedale degli Innocenti, la potente istituzione che si occupava degli esposti”, operando perciò in strettissima relazione con l’Ospizio di Orbatello, destinato al ricovero delle «gravide occulte»”. Sulle nubili accompagnate ad Orbatello per il parto — talora da congiunti, più spesso dagli stessi seduttori per partorire — e su tutta la vicenda relativa alle circostanze della gravidanza, alla possibilità di «riparazioni» di varia natura, l'Ospedale esercitava un minutissimo controllo. E poteri coattivi di varia natura — indagini, convocazione,
interrogatori — rispetto ai responsabili della gravidanza. Un fondo conservato presso l’archivio degli Innocenti, dal titolo Farciulle delinquenti”, registra appunto vicende relative a nubili gravide, per 32 È in corso presso il dipartimento di Storia della facoltà di Lettere di Pisa, una ricerca sulle mallevadorie di parto nella Toscana dell'Ottocento avviata da Giuliana Biagioli. I dati sinora raccolti, che mi sono stati forniti dal dottor Andrea Zanotto, che ringrazio, si riferiscono alle magistratura di Pisa, San Miniato, Lari, Castagneto, Guardistaldo. Essi sembrano
confermare sostanzialmente due dati: l'incidenza piuttosto bassa del numero delle cauzioni prestate sul totale della popolazione a rischio — sono state schedate 932 cauzioni dal 1832 al
1864 — e lo stato avanzato della gravidanza al momento della denuncia presso il tribunale competente. 3 Dapprima accogliendo indifferentemente legittimi ed illegittimi, con una più netta discriminazione a favore dei secondi a partire dal xvm secolo: la periodizzazione in C.A. Corsini, Materiali per lo studio della famiglia in Toscana nei secoli XVII-IIX: gli esposti, in
«Quaderni Storici», n. 33, 1976, pp. 999-1035. 34 Il primo nucleo di un ospizio destinato ad accogliere le ragazze madri fu fondato da
Filippo Franci, a Firenze, in seguito alla più decisa condanna dell’aborto pronunziata dal pontefice Innocenzo xI, nel 1679. Soltanto dal 1704 le gravide occulte furono inviate presso Ospizio di Orbatello. Questa destinazione trovò conferma nei decreti leopoldini del 17 settembre 1773 e del 24 novembre 1774: cfr. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficienza della città di Firenze, Firenze 1853. 35 Archivio dell’ospedale degli Innocenti (da ora AI), s. XLVI, 2: devo l’indicazione di
questo fondo alla cortesia del prof. Carlo Alberto Corsini, che qui ringrazio. Non tutte le carte del fascicolo sono numerate: per questo motivo, essendo l’elemento fondamentale di identificazione del caso l'annotazione della data, non indicherò alcun ulteriore richiamo
quando questa sia chiaramente indicata nel testo.
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il periodo 1701-1742. Talora la storia si chiude con l’annotazione «si obliga darli la dote»: in questo caso la somma è generalmente indicata tra i 40 ed i 50 scudi. Molto spesso il responsabile della gravidanza è lo stesso «balio» della ragazza, che cerca in tutti i modi di conservare il segreto sulla vicenda e che riesce ad essere smascherato dalle indagini compiute dallo stesso Ospedale o dagli interrogatori fatti alla ragazza al suo arrivo ad Orbatello. Maria Gaetana — in questo registro il cognome della ragazza viene mantenuto segreto, annotato solo attraverso l’iniziale, mentre due cifre successive rinviano ad un diverso registro — il 23 luglio 1723 «fu ingravidata dal medesimo Giovan Battista suo Balio ammogliato e fu condotta dal medesimo in Orbatello sotto altro nome, ove partorì, e dopo aver partorito se la ricondusse a casa; si scoperse il fatto, si fece ricondurre, et esaminare, e poi si rimandò a
Balia. Si obliga darli la dote». Più complicata la vicenda di Elisabetta C., del popolo di S. Arsano: fu ingravidata dal medesimo Piero Cajani suo Balio, e poi la rimesse a nostro spedale; e si consegnò a Giovanni Bartolo Mattioli di S. Michele [...] e questi avendola scoperta gravida la ricondusse al nostro spedale da questo dì 17 Giugno 1724 si mandò in Orbatello. Partorì il dì 28 Luglio a ore 22. Ritornò al nostro Spedale il dì 30 Agosto. Si mandò a balia di nuovo. Si obligò darli la dote scudi 50.
Talora la tenacia dell'Ospedale urtava contro la tenace resistenza della stessa sedotta a smascherare il seduttore Angela Rosa è gravida di sette mesi e non v’è stato modo di farla confessare chi sia stato il malfattore dice di essere stata trovata da due uomini per strada che tornava da Barberino sulle ore 23 et essere stata ingravidata da essi. Si mandò in Orbatello il dì suddetto senza farla esaminare [...] Il Balio confessò essere stato lui il delinquente e si è obligato darli la dote [25 novembre 1731].
Altre volte la volontà dell'Ospedale di costringere il responsabile al pagamento della spese e della dote naufragava di fronte a situazioni di estrema indigenza. Così le disavventure di Maria Maddalena L. — resa gravida da Giuseppe Sati ammogliato e con
figli, che nel tempo della precedente vedovanza l’aveva ingannata con false promesse di matrimonio, costretta a confessare negli interrogatori di aver avuto commercio con un certo Claudio di Domenico del Bolla di Poppi — erano destinate a rimanere senza
alcuna riparazione: «Il Reo fu carcerato ma per essere miserabilissi205
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mo non si può avere altro» [24 agosto 1747]. E una vicenda di estrema povertà emerge dal matrimonio riparatore alla fine offerto Da Lorenzo Monti di Greve ad un'altra, non più fortunata Maria Maddalena, la cui creatura morirà per altro nell’Ospedale, secondo un destino che i registri degli Innocenti annotano assai di frequente: «Il delinquente dopo essere stato fuggiasco quasi otto mesi finalmente questo suddetto giorno ha sposata la fanciulla, avendo Monsignor Ill.mo per carità ordinato, che dalla mia guardaroba se li facesse un letto». Ed è sempre «a titolo di carità» che Monsignor Priore ordina che sia pagata la somma
di scudi dieci
a Domenico
Giannelli
e Domenica
O.,
sposatisi dopo che l’uomo, fratello del Balio di lei, l’ha resa incinta. Il caso, registrato nel luglio del 1743, annota un diverso tipo di «mallevadoria» rispetto al bambino dato alla luce ad Orbatello. «La creatura fu introdotta nel nostro Spedale — racconta infatti il documento — come [...] Maria Teresa avendo fatto l'obbligazione insieme, et in solidum col Fratello Giovanni di riprenderla slattata»: sull’antico tenore delle dichiarazioni de tuendo feto si modella in questo caso un’obbligazione non più relativa alla protezione del feto, ma all’allevamento del bambino e soprattutto alla sottrazione di esso dal «carico» dell'Ospedale. Quando le vicende relative a seduzione e gravidanza sembravano divenire inestricabili, la soluzione poteva arrivare attraverso un mediatore di prestigio, come nel caso di Giovanna R., annotato l’11 settembre 1743: stava con Luca di Giuseppe Panchetti del Popolo di S. Maria [...] di Mugello. Fu deflorata primieramente da Lorenzo di Domenico Raddi del Popolo di S. Donato al Cistio, quale si obbligò a pagare allo spedale scudi 20. Secondariamente dal guardia dei poderi di Cafaggiolo, ultimamente da un uffiziale Tedesco capitano de’ Granatieri acquartierato al Borgo S. Lorenzo, quale in più partite la regalò per la somma di nove zecchini in circa fra roba e contanti. Dovendosi aggravare il Panchetti in dotare la fanciulla per la di lui pessima educazione, si fece mediatore l’Illustrissimo Marchese Vincenzio Riccardj, il quale pagò scudi venti per maritarla, con la condizione di dare qualche pena afflittiva. Si maritò il dì 22 dicembre 1743 a Lorenzo Cinatti del popolo di S. Vito all’Incisa, con l’assegnamento di scudi 40 di dote, dei quali 35 furono pagati dal mio Spedale e scudi 5 di avanzi fatti dalla ragazza suddetta. 36 Ancora alta nel 1841 la percentuale degli esposti deceduti, secondo i dati forniti da
Corsini, Materiali, cit., p. 1002.
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Tra coazione e persuasione, l’Istituto perseguiva quindi con
grande tenacia l’intento di rintracciare i soggetti «delinquenti» per renderli responsabili, attraverso il matrimonio o una dotazione che aumentasse le possibilità di sistemazione per la donna, del mantenimento dei bambini venuti alla luce ad Orbatello?” ed anche, quando fosse possibile risalire ai genitori, di quelli segretamente abbandonati nella ruota dell'Ospedale. In alcuni casi le ricerche, che potevano arrivare a veri e propri esiti processuali, si svolgevano in stretta collaborazione con il Tribunale degli Otto di Guardia e Balia, sostituito dal 1777 dal Supremo Tribunale di giustizia. La sovrintendenza degli Innocenti sull’Ospedale di Orbatello viene ufficialmente sancita da Pietro Leopoldo con il provvedimento del 15 gennaio 1776.
Proprio attraverso gli atti processuali relativi ai delitti di stupro di queste due supreme corti fiorentine sono rintracciabili le dichiarazioni de tuendo feto prestate dalle ragazze madri nella seconda metà del Settecento. Secondo la tradizione del diritto comune il termine stupro comprendeva, nella giurisprudenza toscana, una fattispecie amplissima, dalla semplice seduzione sino alla vera e propria violenza carnale, e contemplava la possibilità di offrire dote o matrimonio di riparazione per sottrarsi alle sanzioni penali previste. La legge del 1754 aveva parzialmente depenalizzato l’ipotesi di stupro semplice, cioè la mera seduzione, stabilendo che le sanzioni e
il diritto a dote o matrimonio si riferissero soltanto ai casi preceduti da vera e propria promessa di matrimonio. Per questo motivo le comparse d’accusa solo raramente registrano racconti di vere e proprie aggressioni sessuali, ed i casi più numerosi
riguardano
lo stupro
con promessa
di matrimonio,
o
qualificato, per usare la terminologia giuridica del tempo, ed assai frequentemente si riferiscono all’esistenza di uno stato di gravidanza. Nel caso riportato in apertura, della contadina che accusa l'amante parroco, la procedura viene attivata alla seconda maternità, rivelatesi le promesse di matrimonio con il proprio fratello, da parte del prete, assolutamente inattendibili.
37 Dal 1755 al 1780 sarebbero state accolte ad Orbatello 1213 donne, — tra pericolanti e povere — per il parto, con bassa incidenza della mortalità delle puerpere: traggo questi dati da A. Bellinazzi, Maternità tutelata e maternità segregata. L'assistenza alle partorienti povere a Firenze nell'età leopoldina, dattiloscritto in corso di pubblicazione gentilmente fornitomi dall’autrice.
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In realtà, essendo spesso la «comparsa» di stupro ad un tempo l’atto d’apertura di un conflitto giudiziario, e l’esito finale di una lunga battaglia privata tra seduttore e sedotta — e famiglie rispettive — per ottenere il matrimonio riparatore o adeguati risarcimenti, la forma del racconto della seduzione/deflorazione, e delle pretese conseguenti, è in qualche modo tipizzata. La promessa di matrimonio, che dà forza alla richiesta di matrimonio o dote”, ed in più alla «liquidazione delle spese di parto, e puerperio», deve essere provata con segni adeguati come l’amoreggiamento precedente, la frequentazione della casa, il fidanzamento. In questo quadro il racconto di un assalto violento e non previsto mal si concilierebbe con la voglia dei parenti di ottenere risarcimenti pecuniari e sarebbe del resto poco produttivo, data la difficoltà di provare lo stupro, se non in casi estremi.
Perciò l'interrogatorio della dolente, che apre gli atti processuali, segue un copione obbligato, una rappresentazione condivisa nel senso in cui si diceva in apertura:il racconto, secondo il consiglio degli avvocati, non sottolinea tanto la violenza del seduttore, ma
l'assoluta sprovvedutezza della sedotta: «sentii un calduccio» è formula troppo ricorrente per non avere il sospetto che essa appartenga più al lessico tralaticio degli avvocati che non alle esperienze individuali delle sedotte. Dunque la gravidanza, quando viene eccepita insieme
allo stupro,
deve necessariamente
essere
descritta come frutto dei primi ed unici rapporti sessuali avuti dalla donna. Subito dopo la deposizione la «querelante» viene sottoposta alla perizia delle ostetriche ed invitata a fornire, se non lo ha ancora fatto, la garanzia di custodire il feto. Il tenore della dichiarazione è costante, e costante lo stato avanzato della gravidanza. È incinta di sette o otto mesi Maria Domenica
Maccherinj,
che intenta un
processo per stupro con gravidanza contro Pasquale del Perugino davanti alla corte di Cortona, la quale promette dinanzi alla Corte «di custodire con ogni diligenza e fedeltà la creatura che ha in corpo, e di mandare a suo tempo in questa corte fede autentica di esito del 38 Sulle raccomandazioni
dei Sinodi a genitori e promessi sposi, e sulla tradizione
tridentina in Toscana, cfr. M. Fubini Leuzzi, Donze doti e matrimonio in Toscana al tempo dei
primi 1992, 39 scudi
granduchi lorenesi, in «Annali dell'istituto storico italo-germanico in Trento», xvi, pp. 121-173, particolarmente p. 128. Ibid., utili riferimenti sulla politica e l'ammontare delle doti in periodo lorenese: 32 per le doti di città e 16 per quelle di campagna.
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parto, nella pena di scudi 300, da applicarsi e cattura non obbedendo e per essa sapendo non essere tenuto, ma nonostante volendo sta mallevadore...». Lievissime le mutazioni lessicali «promesse e promette di bene e fedelmente custodire il feto, che ritiene nell’utero, alla pena della legge e per essa sapendo ma nonostante volendo stette e stà mallevadore...» si legge nel processo contro Piero Gennaj, accusato di stupro da Caterina Borghigiani*. In ambedue i casi, come sempre, la dichiarazione del garante, di solito uno stretto congiunto: nei due esempi ricordati, si tratta del padre, e del fratello della donna. Naturalmente, l'impossibilità di prestare la dichiarazione per mancanza del garante, indica uno stato di disperata emarginazione sociale e familiare. È il caso estremo segnalato dal magistrato di Campi al Commissario di S. Maria Novella negli anni trenta dell'Ottocento a proposito di una ragazza madre di S. Mauro a Signa: Non avendo potuta prestare la consueta cauzione di feto quella Serafina Giannetti [...] della quale ho fatto menzione nei miei rapporti settimanali, per non aver trovato persona, che voglia starle garante, non potendosi servire della di lei madre per essere congiunta ad Innocenzio Giannetti di detto luogo, sospetto autore della terza gravidanza di questa scostumata femmina.
Il documento rivela una delle possibili applicazioni del ricovero ad Orbatello: la protezione della comunità locale dallo scandalo della gravida pericolante e scostumata; la lettera infatti continua: e ritrovandosi nell’ottavo mese [la data che i regolamenti fissavano ormai per il ricovero ad Orbatello] crederei conveniente di toglierla dagli sguardi del pubblico per evitare così in quel Popolo continuo scandalo, che essa arreca alla gioventù, non avendo nessun riguardo di starsene ritirata nella sua abitazione; onde proporrei con il più umile rispetto, che la detta donna venisse rinchiusa ad Orbatello di cotesta città per sgravarsi*.
Quali esiti ottengono, in età leopoldina, le gravide che affrontano — o sono costrette ad affrontare — la battaglia legale contro l’amante/padre del bambino propenso a defilarsi o già sparito nel nulla? In genere, per quanto consente una ricerca ancora svolta per sondaggi limitati, un moderato risarcimento, comprendente le spese
40 asF, Supremo tribunale di giustizia, £. 794, 43, 14 aprile 1777. 41 asF, Commissariati di quartiere, £. 990, Donne gravide dirette ad Orbatello, 4 luglio 1832.
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di parto, puerperio, e quelle relative al processo. In più la sottoposizione del seduttore — che spesso viene carcerato a seguito dell’accusa di stupro — ad una pena pecuniaria, da versare al fisco. La condanna più grave, all'intera liquidazione della dote — ove il seduttore non avesse scelto il matrimonio di riparazione — è comminata solo in presenza di alcune condizioni: l’intenzione matrimoniale, il carattere pubblico della relazione, l’assunzione implicita o espicita di «cura» nei confronti
del bambino;
oltre, naturalmente,
all’adamantina
onestà della ragazza madre. Così nel luglio 1777, modificando la proposta più mite del Vicario locale, il Supremo Tribunale di Giustizia condanna l’uomo a «tre anni di Confino a Volterra, e suo
vicariato, pena la carcere per altrettanto tempo, non osservando, e a dotare, o sposare la stuprata, siccome a di lei favore nelle spese del parto, puerperio, e del presente giudizio di liquidazione, con che eleggendo la via di sposarla e facendo costare alla Corte nel termine d’aver seco lei Contratto il matrimonio
in facie l’ecclesiae, resti
libero da detta pena di confino». Gli elementi di prova che hanno convinto il Tribunale a pronunziarsi in tal senso, vengono enumerati in quest'ordine: «l'onestà della sedotta, l'offerta di 25 scudi al padre di lei a titolo di riparazione, l’accompagnamento della sedotta in luogo distante dal paese per il parto»*. Bisogna tenere presente, quale dato indicativo che in altro caso la liquidazione della dote in via giudiziaria o transattiva ammonta frequentemente a 45 scudi — spesso 50 nelle mediazioni dovute alle autorità degli Innocenti — e che pertanto in questo caso l’offerta appare ragguardevole. All’interno del processo per stupro il magistrato, la nubile gravida, il seduttore stupratore sono legati ad un copione in qualche modo rigidamente prestabilito: la donna deve tradurre in un racconto di amoreggiamento, promessa di matrimonio e «caduta» tanto l’esperienza di una passione condivisa che quella di un brutale assalto nei campi per avere il massimo di riparazione; il magistrato deve supporre l'onestà della donna, ma raccogliere ogni testimonianza anche sulla fama contraria; il seduttore, dal canto suo, negare
strenuamente l'onestà, la promessa di matrimonio ed i propri assalti, persuasivi o violenti che siano. Più discorsive, e duttili rispetto al quadro sociale, appaiono le fonti di polizia sia quando annunciano misure e provvedimenti 4 asF, Supremo Tribunale di giustizia, f. 794, 44.
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relativi al controllo e ricovero delle gravide ed alla sorveglianza sulle nascite illegittime, sia quando rispondono alle sollecitazioni di parroci, congiunti o altri magistrati in merito a relazioni disordinate o ragazze «pericolanti». Alle autorità della polizia di Pietro Leopoldo pervengono gli obbligatori rapporti delle ostetriche#, che devono riferire dell'andamento del parto, dell’eventuale presenza del medico, dell'avvenuto battesimo. Ai commissari si fa carico di svolgere attività di mediazione per conflitti o responsabilità che non è opportuno o possibile trattare in sede giudiziaria. Così, l’Uditore fiscale sollecita il Commissario di S. Giovanni a convocare presso di sé il padre della sedotta/gravida nel frattempo ricoverata ad Orbatello, la ragazza stessa ed il seduttore «per sciogliere o concludere l’Impegno, che tra le parti è seguito»; in altro caso gli affida le opportune ammonizioni da rivolgere ad un medico sospetto di procurato aborto: Quanto all’Istanza presentata per parte al Dott. Giuseppe Cellai, devo dirle, che V.S. lo abbia a sé, gli faccia comprendere la sua impudenza nell’operato, e la poca satisfazione che ha dato in questo riscontro, mettendoli in veduta che egli prima di apprestare i medicamenti alla Sandri [una giovane che aveva accusato il nobile Alessandro Lupardi di Colle di averla sedotta e resa incinta], doveva assicurarsi che la stessa fosse gravida, o no e che perciò sia in avvenire più cauto, se non vuole che siano prese le più forti risoluzioni”.
Nei carteggi di polizia dell'Ottocento il controllo sulle gravidanze illegittime e la trasmissione delle nubili ad Orbatello si burocratizza: appaiono moduli prestampati che fissano le forme della comunicazione tra commissariati di polizia e Pio Stabilimento di Orbatello, le cui maestre agiscono sotto stretta direttiva dei commissari stessi,
che possono controllare i tempi della «reclusione delle gravide»*. 4 Vari esempi in AsF, Carzera di Commercio, Dipartimento esecutivo, £. 988. 4 asF, Commissariati di Quartiere, £. 50, 17 giugno 1779.
# Ibid., 26 giugno 1778. 4 AI, s. XLIX, 37, Lettere di ammissione della gravide occulte nel Regio Conservatorio di Orbatello, 1067, dal Commissariato di S. Croce: «La Sig.ra Maestra di Orbatello potrà accogliere e ritenere in quell’ospizio la fanciulla Domenica Tavolini, incinta, perdurando il suo parto e puerperio, dando per avviso al Tribunale del suo rilascio prima che venga restituita alla sua libertà». E ivi, dal Commissariato di S. Spirito, il 20 agosto 1831: «... faccio accompagnare a codesto conservatorio la fanciulla Annunziata Qualcherotti di Montale incinta di mesi otto
perché costì sgravare si possa del feto di cui trovasi incinta e le sarò grato se al momento del di lei ristabilimento dal puerperio favorirà V. 1 darmene contezza prima di licenziarla, dovendo essere immediatamente allontanata di qua».
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Anche la tradizione della mallevadoria di parto trova una segnatura precisa nelle carte dei commissariati: «Affari relativi a cauzioni de Tuendo feto»: le nubili, o le mogli dai mariti assenti scoperte gravide e denunziate dagli ufficiali minori di polizia, vengono convocate presso i commissariati per la «cauzione del feto». Questa sembra ormai lontana dall’originario orizzonte dell’infanticidio e dell’aborto; sigla la regolare registrazione della madre illegittima ai fini di un eventuale ricovero, ed è certo più funzionale al controllo di esposti ed illegittimi, che non alla prevenzione di possibili aborti o infanticidi attraverso la consegna della madre agli apparati. Basti pensare che la data minima per il ricovero ad Orbatello è fissata all’ottavo mese, da certificarsi mediante attestato del medico. D'altra parte, questi stessi carteggi di polizia testimoniano il tipo di risposte suscitate dallo scandalo per l'esibizione di una maternità non regolare. Il «segreto» con il quale questa va circondata non riguarda in alcun modo la protezione della maternità illegittima, ma il decoro
sociale, minacciato
dal rifiuto della donna
incinta
e
svergognata di vivere in disparte. Il rapporto su Margherita Santini, fanciulla incinta che «vaga per le strade in tempo di giorno senza riguardo alcuno, dando luogo alla mormorazione», pervenuto al Commissariato di Santa Maria Novella il 5 novembre 1836, trova eco
puntuale nell’acclusa memoria del parroco disperato, il quale consiglia l’immediato ricovero ad Orbatello, «per allontanare le dicerie e lo scandalo più volte cagionato da questa cattivella», e ricorda: «Aveva ingiunto ai genitori che la tenessero a casa a motivo dello scandalo ma a che valgono le ammonizioni del parroco con una ragazza che ormai ha rinunziato alla verecondia, e al pudore, e con
genitori, che meriterebbero di essere castigati?». Anche il parroco di S. Maria a Quarto invoca direttamente dal presidente del Buon governo «che la mentovata Teresa Aromi sia quanto prima rimossa dalla propria abitazione, e annessa nel R. Conservatorio di Orbatello [...] per sopire in qualche modo il grande scandalo della gioventù di ambidue i sessi». C’è chi resiste, fidando ingenuamente nella solidarietà del seduttore, agli inviti alla discrezione ed alla reclusione «assistenziale». Di fronte al Commissario di Santa Maria Novella la fanciulla Cavoni, nell’aprile del 1837, «impugnando di fare apposta agli occhi del pubblico conforme veniva rappresentato dichiarò di # anse, Commissariati di Quartiere. Donne gravide dirette ad Orbatello, £. 990.
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non volere essere associata nonostante che entrata nel settimo mese, protestando che non voleva che fosse colà associata il Giovine Domenico Biancucci autore della di lei gravidanza»: Biancucci, interrogato, negherà «ogni confidenza» con la ragazza ed il commissario potrà con maggior forza ammonirla «di stare possibilmente occulta agli occhi del pubblico per non andare incontro a misure dispiacenti»*. Nel passaggio tra Sette e Ottocento sembra restringersi lo spazio propriamente «giudiziario» della ragazza madre: la comunicazione, pur esile, tra gli apparati di giustizia e la madre illegittima cede il posto al controllo della polizia dei costumi e all’assistenza spesso carceraria degli istituti di beneficenza — per le classi subalterne —, a quello dei consigli di famiglia e della segreta repressione parentale per le nubili appartenenti a ceti più elevati. Depenalizzata la seduzione in molti ordinamenti preunitari, gli strumenti della tutela penale sono ristretti alle ipotesi di violenza carnale, di dolorosa e difficile prova. Rimarrà certo, come occasione drammatica di incontro tra madre illegittima e giudice, l’ipotesi di infanticidio, rompicapo di difficile soluzione per i giuristi — che disputano sugli elementi specifici da inserire nella fattispecie per diversificarla dall’omicidio — e i giudici, sempre restii ad applicare con il massimo del rigore leggi formalmente ineccepibili. A dipingere un quadro preciso di quest'ordine di contraddizioni ci viene in aiuto proprio un grande giurista toscano, fermo nella difesa della superiorità della tradizione giuridica toscana — e lucchese — rispetto a tutti gli altri ordinamenti preunitari, e contrario alla disciplina durissima — e perciò frequentemente desueta — della Francia, dalle déclarations de grossesse al codice del 1810. Il codice toscano — inserendo nella stessa definizione del reato gli elementi della nascita illegittima e della difesa dell'onore — sanzionava con i lavori forzati da dieci a quindici anni «la uccisione di un bambino nascente, o nato di fresco, commessa con atti positivi o negativi dalla
madre illegittimamente fecondata, per il fine di salvare il proprio onore,
0 di evitare sovrastanti sevizie». Questa soluzione aveva
finalmente sciolto in senso positivo, secondo Carrara, la lunga 48 ase, Commissariati di quartiere, f. 992, Commissariato S.M. Novella, Affari relativi a cauzioni de Tuendo Foetu, a dì 20 aprile 1837. Sulla reclusione delle pericolanti nelle opere pie della Napoli ottocentesca, e su alcune voci di dissenso, cfr. L. Guidi, L'onore in pericolo,
Napoli, Liguori, 1991, in particolare cap. 8.
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ambivalenza della scienza giuridica nei confronti dell’infanticidio, «fenomeno singolarissimo nelle scienze morali», dove la specialità del delitto, la non omologazione di esso all'omicidio aveva espresso tanto una logica di odiosità del delitto, quanto quella di «benignità verso la donna illegittimamente fecondata»”. Ambivalenze, contraddizioni e soluzioni di compromesso attraverseranno l’altro possibile scenario dell’incontro tra madre illegittima e giustizia negli ordinamenti giuridici dell'Ottocento: il processo intentato in sede civile per ottenere il risarcimento del danno da seduzione. Le richieste, fondate sulla base del principio generalissimo della responsabilità extracontrattuale, dovevano però fare i conti con alcuni limiti sanciti dal codice civile del 1865. La famosa, citatissima frase di Napoleone «La società non ha alcun interesse a che i bastardi siano riconosciuti», trovò traduzione
legislativa nel divieto di indagini sulla paternità naturale, con la sola eccezione del ratto. Il divieto fu recepito nel codice civile del 1865, che estese l'eccezione anche al caso di stupro violento. Le soluzioni giurisprudenziali, dal primo Ottocento al Progetto Gianturco per la tutela delle sedotte del 1893, non possono essere qui ampiamente ricostruite. Vorrei soltanto ricordare che la giurisprudenza fu assai duttile nell’inventare stratagemmi interpretativi per assicurare forme di risarcimento alle ragazze madri, ammettendo ricerche di paternità limitate a questo fine, e non coinvolgenti la discussione di status di figlio naturale, ma assai rigida sul mantenimento del principio e sul requisito di «illibatezza» della ragazza madre. Tale requisito venne tenuto fermo dallo stesso Gianturco, che pure aveva richiesto, nel suo sfortunato progetto, l'abrogazione del divieto anche nell’ipotesi di seduzione. La stretta contiguità tra maternità illegittima e penalità, che trova il suo punto estremo nei meccanismi repressivi in tema di infanticidio, attraversa — nel caso di ceti subalterni — tutta la vicenda delle gravide illegittime, occulte, delinquenti. Con accenti diversi, esse
vengono sollecitate da istituzioni giudiziarie, di polizia ed assistenziali, all’autocensura, alla reclusione domestica volontaria, sino alla
reclusione temporanea o a vita negli istituti di beneficenza, specie dopo il tramonto dei sistemi di penalizzazione della seduzione e del matrimonio riparatore. È Cfr. Programma del corso di Diritto criminale, Lucca, Tip. Cavonetti, speciale, t. 1, pp. 332-393, la cit. è a p. 332.
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1896, parte
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Ma la contiguità tra maternità e castigo, maternità e reclusione, ha dimensioni ulteriori, più profonde e subdole, legate alla disperante impossibilità di controllarne la vicenda «dal primo momento»: di questo aspetto è difficile dar piena prova, trattandosi di un racconto assai più ampio, intrecciato e complesso di quello consentito da una relazione. Tuttavia vorrei almeno ricordare, ad evocare terrori mai sopiti, il sogno di infanticidio narrato a Freud dal suo paziente E., e criticamente ricostruito in un breve saggio di Ingeborg Walter apparso su «Studi storici».
E. racconta al suo analista di aver sognato il proprio arresto per infanticidio dopo un rapporto sessuale in cui ha praticato il coito interrotto. All’analista che gli ricorda che nella legislazione austriaca l’infanticidio era specifico delitto femminile, e che quindi andavano approfondite analiticamente le ragioni dell’incongruenza, il paziente rivela un suo antico coinvolgimento in una vicenda di aborto. Vicenda più pericolosa, perché poteva condurre all’incriminazione anche del soggetto maschile, in caso di cooperazione. Lo spostamento onirico, rivelava la resistenza culturale di E. ad ogni tipo di contraccezione, e l’identificazione di essa con uno specifico delitto «femminile». L’infanticidio simbolizzava così la terrorizzante pretesa delle donne «di controllare la propria sessualità e fecondità». A questa pretesa, durante un tempo storico di lunghissima durata, gli ordinamenti giuridici hanno opposto, con una coerenza teorica spesso contraddetta dalle pratiche sociali e dagli stessi aggiustamenti della giurisprudenza, l’immagine più rassicurante della madre — non solo illegittima — come segregata custode del feto.
50 Un infanticidio immaginario nella Vienna fin de siècle, 22, 66, 1987, pp. 879-894.
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FAMIGLIA, ABORTO E OSTETRICHE (1920-1940)
IN SICILIA
di Nancy Triolo
Analizzando le esperienze di aborto raccontate da donne siciliane appartenenti a generazioni diverse, nel corso della mia ricerca sulla politica demografica attuata dal fascismo, ho notato nelle più anziane, nate fra il 1892 e il 1931 (di estrazione prevalentemente contadina e provenienti dal territorio di Partinico, in provincia di Palermo)!, una disinvoltura e una mancanza di rimorso sorprendenti nel parlare della loro vicenda. Le donne più giovani, invece, spesso figlie e nipoti delle più anziane, tendevano a vedere l'aborto in termini più personali, drammatici e inquietanti. Avere o, in questo caso, non avere bambini sembra essere diventato per le donne giovani una scelta di definizione della propria soggettività, mentre non lo era per le loro madri. È scopo di questo mio contributo esplorare i contesti familiari e politici che potrebbero aiutarci a capire questo cambiamento. Tuttavia, la mia posizione doppiamente particolare — di antropologa che si occupa di storia e di americana che «studia» i siciliani — mi rende alquanto apprensiva: questo mio lavoro, attingendo sia a fonti storiche sia a fonti antropologiche, evidenzia le difficoltà metodologiche e interpretative del tentativo di conciliare il materiale d’archivio con le esperienze vissute quotidianamente dalle persone. Da un lato, la ricerca si è concentrata sul materiale conservato Desidero ringraziare la Wenner-Gren Foundation, il Social Science Research Council, la Fulbright Foundation e il Rockefeller Post-doctoral Fellowship Program in The Humanities. 1 Queste osservazioni sono basate su un approfondito lavoro di ricerca sul campo e su una serie di interviste a sfondo etno-storico, in cui ho cercato di ricostruire immagini di vita
familiare nella Sicilia degli anni venti e trenta. Il materiale proviene principalmente da Partinico e, prima di effettuare generalizzazioni sulla Sicilia, è necessario eseguire un lavoro molto più contestualizzato a livello locale. Ringrazio Giovanna Fiume per questa osservazione.
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nell’Archivio di stato di Palermo, riguardante la nuova posizione in cui vennero a trovarsi le ostetriche siciliane durante il periodo fascista. Nel contesto della politica a favore della natalità messa in atto dal regime, le ostetriche, che all’interno delle famiglie occupava-
no una posizione importante, in quanto assistevano alle nascite e
provocavano gli aborti, furono oggetto di un sempre maggiore interesse da parte dello Stato. La loro attività venne a ricoprire un ruolo di primo piano nell’articolazione della politica demografica fascista (che vide nella donna quasi esclusivamente una riproduttrice di cittadini) e segnò l’inizio di un modo di intendere il governare che prevedeva l’ingerenza dello Stato anche in settori della vita privata quotidiana. Questo materiale, che tratta, in particolar modo, della fondazione della prima organizzazione di ostetriche riconosciuta dallo Stato, il Sindacato nazionale fascista delle ostetriche (1926)?, si
rivela, inoltre, un interessante esempio in miniatura dell’emergere di uno degli elementi dei cosiddetti sistemi astratti della rzodernità, vale a dire l’ascesa degli esperti?. Nel contempo, sulla base del materiale raccolto nelle mie interviste, ho cercato di rappresentare la vita quotidiana delle donne, con l’intento di problematizzare il paradigma della famiglia nucleare che caratterizza gli scritti antropologici sulla Sicilia. Non avrei incontrato alcuna difficoltà se non mi fossi prefissa l’obiettivo, forse irraggiungibile, di conciliare le due prospettive e se non mi fossi chiesta in che modo determinate pratiche politiche, basate su una ridefinizione del ruolo della donna in chiave più restrittiva, giungano ad influenzare i rapporti che contraddistinguono quel complesso spazio sociale chiamato famiglia. PUBBLICO
E PRIVATO
NEL
DISCORSO
LIBERALE
Durante il fascismo, l’attenzione riservata alle donne, al loro
corpo e alla loro capacità di procreare rappresenta un netto cambiamento rispetto alla politica liberale del passato, che conside2 In Italia le ostetriche erano tradizionalmente chiamate levatrici e solo nel 1937 venne riconosciuto legalmente il termine ostetrica. Le ostetriche stesse, tuttavia, avevano fatto uso di
questo termine fin dagli inizi del Novecento e il loro sindacato, sebbene a volte chiamato
Sindacato delle levatrici nella letteratura, fu chiamato Sindacato nazionale fascista delle ostetriche fin dalla sua fondazione. 3 A. Giddens, Modernity and SelfIdentity: Self and Society in the Late Modern Age, Stanford, Stanford University Press, 1991.
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SICILIA
rava il mondo del privato estraneo agli interessi politici veri e propri. E proprio nel pensiero politico liberale, tuttavia, che la posizione fascista, in quanto basata su una concezione estremamente restrittiva
della sfera privata e del ruolo della donna al suo interno, affonda le sue radici. Come sottolinea Carole Pateman'*, il discorso politico liberale, erede della teoria classica del contratto sociale e imperniato sulla separazione giuridica fra i rapporti domestico-familiari e la vita politica, non solo considerava le donne esseri inferiori, soggette per natura all’autorità di un marito, ma negava loro gli attributi che permettono agli individui di dare il consenso a un governo. Il discorso liberale, inoltre, opera una
ristrutturazione
della
famiglia secondo tre linee fondamentali: rapporti sociali molto restrittivi, basati sull’autorità dell’uomo e sulla subordinazione coniugale della donna; identificazione dello spazio domestico con la famiglia nucleare; riproduzione intesa come funzione primaria della donna. Oltre a relegare la famiglia in un mondo a parte, isolato, esso conduce alla creazione di uno spazio familiare semplificato, in cui attività governative invadenti possono agire con maggiore efficacia. In altri termini, il discorso fondato sull’opposizione pubblico/privato si rivela un'efficace strategia alla base di svariate pratiche politiche e potrebbe persino concorrere a formare quella stessa realtà sociale che si prefigge di descrivere. Non sorprende che questa particolare concezione di famiglia, caratterizzata da una sfera femminile subordinata, si basi sugli stessi presupposti che sottostanno all’uso dell’opposizione pubblico/privato come categoria analitica’. I medesimi presupposti contraddistinguono le narrazioni degli antropologi sulle donne e sulla famiglia in Sicilia: nel complesso universo di potere/conoscenza, tuttavia, i presupposti delle discipline sociali hanno un significato di portata ben più vasta dell’uso prodotto da classificazioni popolari.
4 C. Pateman, Worzen and Democratic Citizenship, Jefferson Memorial Lectures, Berkeley, University of California, 1985. 5 Sull’opposizione pubblico/privato in antropologia si veda: R. Rapp, Toward a Nuclear Freeze? The Gender Politics of Euro-American Kinship Analysis, in J. Collier-S. Yanagisako, Gender and Kinship Essays Toward a Unified Analysis, Standford, Standford University Press, 1987; M. Rosaldo, The Use and Abuse of Anthropology: Reflections on Feminism and Cross-Cultural Understanding, in «Signs», 5, n. 3, 1980, pp. 389-417; J. Collier-S. Yanagisako, Toward a Unified Analysis of Gender and Kinship, in Id., Gender and Kinship Essays, cit.
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FAMIGLIE
E CONFLITTI
NUCLEARI?
Il tipico modo degli antropologi, soprattutto anglo-americani, di rappresentare la famiglia meridionale italiana è stato influenzato dal tenace paradigma di Edward Banfield‘, che vede nella famiglia nucleare l’unità elementare della società. Nel suo modo, non privo di angoscia, di vedere l’Italia del sud, Banfield offre l’immagine di un uomo — il familista amorale — che difende gelosamente la sua proprietà e «sfrutta al massimo l’immediato vantaggio materiale della famiglia nucleare a spese degli altri»”. Nel dramma morale di Banfield le donne, passive compartecipi di questa ideologia familista, recitano, ovviamente, una parte secondaria e sono gli uomini gli attori principali. L’etnocentrismo di Banfield è stato oggetto di forti critiche e, in tempi recenti, si è assistito a un graduale smantellamento del suo modo di concepire la donna in questo universo dominato dal maschio*. In Italia si stanno portando avanti straordinari lavori innovativi, altamente contestualizzati, concentrati sulle differenze locali rispetto alle usanze riguardanti la dote e l’eredità, all’età in cui contrarre matrimonio e a fattori occupazionali ed ecologici. Questo tipo di lavoro, oltre ad evidenziare la pluralità delle strategie familiari in Sicilia, è un monito ad evitare facili generalizzazioni sulla «famiglia siciliana». Tuttavia, nonostante le ricerche innovative, mantengono tuttora una certa egemonia sia la concezione di famiglia isolata e nucleare, con il rapporto coniugale al centro della vita familiare, sia la nozione di una netta separazione fra sistema patrilineare e sistema bilaterale. Questa insistenza sulla famiglia nucleare bilaterale ha portato i ricercatori a sottovalutare l’importanza di determinate usanze fra parenti, che rivelano una forte identificazione con un universo di parentela più ampio e che sono destinate 6 E.C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, Glencoe, Il, Free Press, 1958, trad. it. Le basi sociali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1976. 1 Ibid., p. 83. 8 Ricerche multi-disciplinari di notevole interesse, basate su fonti siciliane, sono state
condotte da studiose femministe. Un’ottima raccolta di saggi si trova in N. Ginatempo (a cura del Sud. Il prisma femminile sulla questione meridionale, Palermo, Gelka Editori,
Pra
? G. Delille, Agricoltura e demografia nel Regno di Napoli nei secc. XVIII e XIX, Torino,
Einaudi, 1988; I. Fazio, Farziglia, matrimonio, trasmissione della proprietà: ipotesi di lavoro a partire dal caso siciliano, in corso di stampa. Si veda anche G. Fiume, Cursing, Poisoning and Feminine Morality. The Trial Against Giovanna Bonanno, 1789, relazione presentata alla EASA Conference, Oslo, 1994, per una nuova visione della famiglia urbana in Sicilia alla fine del Settecento.
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SICILIA
ad avere un peso considerevole nei futuri studi sulla famiglia in Sicilia! Si è più volte fatto notare, ad esempio, come in tutta la Sicilia i matrimoni fossero spesso concordati e quanto fossero comuni i matrimoni fra cugini di primo grado, nonostante il veto della Chiesa. Era questa un’usanza molto diffusa sia nell’area da me studiata sia nella cittadina di Milocca, nell’entroterra della Sicilia occidentale,
oggetto di studio dei Gower-Chapman! negli anni venti. Gli Schneider! osservarono una tendenza a contrarre matrimoni tra cugini anche nell’agrigentino e una preferenza per matrimoni fra cugini paralleli fra i pastori”. Comune a molte parti della Sicilia, e ben documentata nella letteratura", è anche un’interessante operazione relativa alla dote, secondo la quale la dote della donna, nel caso in cui questa fosse morta senza lasciare figli, doveva essere restituita alla sua famiglia. Rudolf Bell!, nel suo lavoro sulla Sicilia e l’Italia meridionale, ha rilevato la presenza di una curiosa regola che imponeva al padre (o al fratello o al figlio), invece che al marito, il dovere di comunicare alle autorità locali la morte di una figlia sposata. Tutte queste pratiche devono essere studiate in modo più sistematico, per verificare le variazioni locali nel corso del tempo, ma sono tuttavia indicative di una società nella quale, non solo sono presenti elementi comuni a società organizzate secondo il sistema patrilineare, ma in cui viene spesso accentuata, a spese della coppia coniugale, una solidarietà fra parenti che supera i confini della famiglia nucleare. Questo elemento ha una profonda attinenza con il tema del 10 Quest’'immagine della Sicilia era alla base di molti dei miei stessi presupposti sulla vita siciliana, presupposti mai confermati dall’esperienza. Dopo aver passato mesi a cercare l’isolata famiglia nucleare mi resi conto che la famiglia non era un’unità isolata e inattaccabile, bensì un’entità fluida, in cui i legami coniugali erano deboli e, sotto certi aspetti, lo sono tuttora. ! C. Gower-Chapman, Milocca: A Sicilian Village, Cambridge, Schenkman Publishing Co., 1971, trad. it. Milocca: un villaggio siciliano, Milano, F. Angeli, 1985. 12 J.-P. Schneider, Culture and Political Economy in Western Sicily, New York, Academic Press, 1976, trad. it. Classi, economia e politica in Sicilia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1989. 13 È il modello di matrimonio più comune tra i pastori nordafricani: sebbene non sia mia intenzione suggerire alcun tipo di rapporto causa-effetto, gioverà ricordare, tuttavia, che la Sicilia fu occupata dai nordafricani (noti per la loro patrilinearità) per tre secoli. Al termine di quel periodo, nel x secolo, le province occidentali della Sicilia erano state quasi totalmente islamizzate (si veda M. Amari, Storia dei Musulmani in Sicilia, vol. 1, Catania, Prampolini,
1937, e A. Aziz, History of Islamic Sicily, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1975). 14 Fazio, Famiglia, matrimonio, cit; Gower-Chapman, Milocca, cit.
15 _R. Bell, Fate and Honor, Family and Village, Chicago, University of Chicago Press, 1979.
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nostro dibattito: Goody', infatti, ha osservato come l’emergere della
famiglia nucleare sia da collegarsi, da un lato, a una maggiore enfasi sulla bilateralità e, dall’altro, al passaggio dalla consanguineità alla coniugalità, con una conseguente accentuazione del ruolo della coppia coniugale. Ha sottolineato poi come questo maggior rilievo dato alla coppia coniugale, in quanto base dell’organizzazione domestica, sia tipico del venire meno di legami di parentela più ampi, mentre nelle società patrilineari i legami coniugali sono di solito deboli!8. Il fatto che la consanguineità, contrapposta alla coniugalità, continui ad avere un ruolo ben preciso nella vita familiare siciliana, oltre a riflettersi sul nostro modo di intendere il
paradigma della famiglia nucleare/coniugale, si ripercuote anche sulla posizione delle donne all’interno della famiglia stessa”. Un'altra pratica di particolare interesse è la diffusa usanza, scomparsa da secoli nell'Europa settentrionale e non ancora analizzata nella letteratura sulla Sicilia, di dare ai bambini il nome dei nonni, prima di quelli paterni e poi di quelli materni. In altre parti del mondo, questa consuetudine di associare persone appartenenti a generazioni alterne è collegata a una solidarietà di tipo patrilineare e, secondo Jack Goody, indica una transizione verso un tipo di rapporti ben oltre il legame di parentela”. Nel corso della mia ricerca ho ricostruito l’albero genealogico di una famiglia di agricoltori di Partinico (per la maggior parte lavoratori a giornata, alcuni di essi piccoli proprietari) fino alla settima generazione. Le prime cinque generazioni della famiglia seguono lo schema della ripetizione dei nomi tra nonni e nipoti con una fedeltà assoluta e sorprendente, senza ressuza variazione. È 16 J. Goody, The Development of the Family and Marriage in Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, trad. it. Famziglia e matrimonio in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1991.
1 Ibid, p. 23. 18 Ibid, p. 25. 19 Fazio, Famiglia,
matrimonio,
cit., osserva
come
i modelli anglosassoni di famiglia
nucleare non possano venire applicati alla Sicilia. Per far luce sul caso siciliano, sarebbe forse opportuno prendere in considerazione i modelli di parentela delle società patrilineari. 20 Goody, The Development of the Family, cit., pp. 201-202. 21 In un primo tempo, trovai la cosa assolutamente sbalorditiva. «Nessuna possibilità di scelta individuale, che rigidità!» pensai. Immagini di un mondo contadino europeo, rozzo, affondato nella tradizione ecc..., basate, ovviamente, sul presupposto tipicamente euro-ameticano che la mancanza di scelta individuale sia sinonimo di rigidità culturale, un presupposto, aggiungerei, che trova ampia eco negli studi sulla parentela. Il problema viene analizzato in un libro di notevole interesse di M. Strathern, After Nature: English Kinship in the Late Twentieth
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una testimonianza evidente, quindi, dell’importanza dei rapporti di parentela (con nonni e cugini) al di fuori della famiglia nucleare. Questi rapporti erano ulteriormente rafforzati da altre pratiche, come la consuetudine di festeggiare l'onomastico, momento in cui si ritrovavano insieme tutti coloro che avevano lo stesso nome (e che era, fino a poco tempo fa, più popolare del compleanno, in cui è l'individuo ad essere privilegiato, non il gruppo), e l’usanza, tuttora diffusa a Partinico e nella provincia di Palermo, di scegliere i nonni come padrino e madrina di battesimo, pratica che, sia detto incidentalmente, contraddice i principi tradizionali dell’antropologia secondo cui, tramite la scelta del padrino e della madrina, si instaurano alleanze 4/ di fuori della famiglia”. Più che un semplice indice del rafforzamento dei legami al di fuori della famiglia nucleare, tuttavia, la genealogia dei nomi sfida due nostre nozioni di ispirazione illuministico-evoluzionistica: la concezione del tempo come qualcosa che si muove in avanti e il concetto di generazione come qualcosa di discendente. In questo caso, infatti, sia il ferzpo sia la generazione ritornano: non solo si hanno padri e madri che producono figli e figlie, ma anche figli e figlie che «producono» padri e madri. Inoltre, visto che una variazione da questo schema è semplicemente fuori discussione, è quasi come se un nome e la relazione sociale corrispondente siano in attesa di un corpo. È così possibile parlare non solo della riproduzione di persone, ma anche della riproduzione di rapporti sociali”. Century, Cambridge, Cambridge University Press, 1992. Per una critica alla tendenza dell’antropologia euro-americana di presentare il mondo contadino dell'Europa meridionale come l’elemento esotico dell'Europa, si veda anche M. Herzfeld, Anthropology Through the
Looking-glass. Critical Ethnography in the Margins of Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, e N. Triolo, Mediterranean Exotica and the Mafia Other: Problems of Representation in Pitrè's Texts, in «Cultural Anthropology», n. 3, agosto 1993, pp. 306-316. 22 ]J. Davis, The People of the Mediterranean. An Essay in Comparative Social Anthropology, London, Routledge and Kegan Paul, 1977, trad. it. Antropologia delle società mediterranee. Una analisi comparata, Torino, Rosenberg e Sellier, 1980. M. Bloch-S. Guggenheim, Compadrazgo, Baptism and the Symbolism of a Second Birth, in
«Man», n. 16, 1981, pp. 376-386.
2 Questa è, ovviamente, una rilettura del materiale sulla Sicilia alla luce del libro di M. Strathern (After Nature, cit.), in cui l'autrice dimostra come le concezioni contemporanee — 0,
meglio, «moderniste» — dell'individuo non siano né concetti universali immutabili né il risultato di una marcia illuminata verso la verità, bensì il risultato di un discorso sulla parentela fondato sulla biologia, da cui l’individuo emerge come il fondamento naturale (e sessuato!) dell’essere. Questa nozione, di formazione inglese o euro-americana, oltre ad avere sottoscritto
la teoria della parentela in antropologia, riveste una notevole importanza nel dibattito che circonda la riproduzione e le tecnologie della riproduzione (si veda, a questo proposito, la
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E CONFLITTI
Nelle due generazioni più recenti (con l’introduzione di nomi come Mirko, Vanessa e Sergio) lo schema presenta delle variazioni e la scelta individuale del nome diventa più evidente. Su questo aspetto della scelta individuale tornerò alla fine della mia relazione. COSE
DI DONNE
Come detto in precedenza, l’enfatizzazione posta dagli antropologi sulla famiglia nucleare non ha permesso di rilevare altri elementi che caratterizzavano la vita delle donne e, in particolar modo, l’importanza della separazione del mondo femminile da quello maschile. Nell’area da me studiata, infatti, l'interazione fra uomini e
donne era regolata da diverse pratiche: il reciproco evitarsi e una divisione del lavoro in base al genere portavano alla creazione di spazi femminili socialmente e fisicamente delimitati, caratterizzati da una pluralità di attività economiche e da una complessa rete di rapporti sociali, 4/ di fuori del dominio dell’autorità coniugale. In quest'area della Sicilia le donne, nonostante non lavorassero nei campi, avevano molte responsabilità: si occupavano degli accordi per i matrimoni e le doti, della nascita e cura dei bambini, dei
problemi legati alla salute e delle decisioni riguardanti il numero dei membri della famiglia (argomento su cui tornerò tra breve). Erano poi impegnate in diverse attività economiche: le donne del mio campione di Partinico, ad esempio, guadagnavano entrate accessorie
vendendo o barattando prodotti agricoli, uova, polli e conigli che allevavano nel loro cortile oppure, pratica molto diffusa, prestando denaro su pegno. Le donne spendevano i soldi così guadagnati in acquisti per la casa, oppure, a volte, li mettevano da parte per scopi personali (ad esempio, per pagare un aborto). Ugualmente importante per un’agevole gestione della casa era il continuo scambio di oggetti, che potevano essere dati o presi in prestito, oppure regalati. In questa fitta rete di scambi, le donne relazione di Strathern in questo testo). La mia osservazione che, nel passato più recente, il modo di intendere la persona sociale in Sicilia possa essere collegato a un diverso modo di intendere sia il tempo sia la generazione (e, di conseguenza, la parentela), non implica assolutamente che i siciliani siano la nostra versione dei «relazionali» abitanti della Nuova Guinea. Proporrei, piuttosto, che il concetto di individuo (così come i concetti di tempo,
natura e generazione) sia analizzato contestualmente e che vengano rivisti gli stanchi archetipi di parentela che hanno segnato gli studi sulla Sicilia.
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erano al centro di un ciclo potenzialmente infinito di mutuo sostegno, che permetteva l’instaurarsi di utili rapporti di buon vicinato basati sul debito reciproco. La padronanza di questo intricato mondo di rapporti personali senza regole scritte richiedeva calcoli attenti e non rivestiva alcun interesse per gli uomini. Il governo di una casa ben organizzata comprendeva una vasta gamma di attività nelle quali le donne, e questo è un elemento importante, non erano lasciate sole. Aiuto, appoggio morale e consigli venivano offerti da una rete di sostegno formata dalle donne della parentela (di solito consanguinee), madri, sorelle, zie e cugine,
ed era attorno a questo gruppo di donne, e non all'unità coniugale, che ruotavano le attività domestiche. Queste donne giocavano un ruolo importante anche negli eventi più cruciali della vita, come nel momento di decidere un aborto e, quindi, di stabilire l'ampiezza della famiglia. Le dodici donne che hanno parlato a lungo con me delle loro esperienze di aborto (su un campione di ventidue donne nate fra il 1892 e il 1931) avevano avuto, in media, dai tre ai quattro aborti (si
veda la tabella 1). Erano tutte donne sposate e, nella maggior parte dei casi, erano ricorse all’aborto solo quando i loro bambini avevano già superato i pericolosi anni della prima infanzia. In effetti, queste donne sembravano disposte a non fermarsi davanti a nulla pur di limitare il numero dei figli, dal momento che consideravano sgradita, persino infausta, una famiglia troppo numerosa. Questa informazione non dovrebbe sorprendere, viste le statistiche relative alla popolazione. Secondo Livi-Bacci”, la Sicilia, con il più basso tasso di natalità fra le regioni meridionali, stava già attraversando una fase di irreversibile calo demografico ai primi del Novecento. Verso la metà degli anni venti il tasso di natalità era così basso da lasciar presupporre l’esistenza di un’efficace forma di controllo delle nascite” (che egli presume sia l'aborto)”. La donna non prendeva da sola la decisione di abortire. I pro e i 24 M. Livi-Bacci, A History of Italian Fertility during the Last Two Centuries, Princeton, University of Princeton Press, 1977. 5 Ibid., pp. 83, 155. 26 Secondo Livi-Bacci (:bid., p. 91), in Sicilia, negli anni 1920-1944, il numero medio di bambini per famiglia era 3,82. Secondo il mio campione il numero medio di bambini nelle famiglie in cui le donne avevano abortito era 3,5 mentre nelle famiglie di donne che non
avevano abortito era 4,2. I due gruppi, presi insieme, danno una media del 3,85, molto vicina alla media di Livi-Bacci.
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contro della decisione e la scelta del metodo più appropriato erano oggetto di discussione fra la donna e le sue parenti. Sebbene nella maggior parte dei casi si facesse ricorso alle ostetriche, potevano essere usati altri metodi, ognuno dei quali aveva un diverso livello di efficacia e di pericolo: infusi a base di erbe, bagni caldi e freddi,
veleni, docce, chinino, fasce legate strette attorno alla vita”. Era un
genere di conoscenza riservato alle donne: gli uomini con cui ho parlato non avevano alcuna informazione specifica sui rimedi e spesso, e questo è ancora più significativo, i mariti non erano affatto
coinvolti nella decisione. Una conferma a questo stato di cose viene dal racconto delle donne intervistate: attorno all'anno 1940, ad esempio, una donna,
madre di tre figli, ebbe il sospetto di essere di nuovo incinta; non discusse la cosa con il marito, ma fece visita alla sorella in una vicina
città sulla costa, dove provò la cura dell’acqua fredda. Quando questa fallì, fu accompagnata dalla sorella presso l’ostetrica locale. In un altro caso, una madre accompagnò dall’erborista la figlia che voleva abortire (aveva già tre figli), sebbene le avesse consigliato di non farlo, temendo per la sua salute, e l’aiutò a preparare un infuso di aglio, adianto e prezzemolo. In un racconto particolarmente commovente una donna parlò della volta in cui il marito scoprì che aveva avuto un aborto (il terzo). «Era furioso, gravemente offeso, mi
diede dell’assassina», disse, affranto perché la moglie aveva ucciso un possibile figlio maschio (ne avevano già due). Va detto che, per le donne, il sesso del feto era un elemento che non veniva nemmeno
preso in considerazione al momento di scegliere se abortire o meno. Una figura molto importante nella rete di sostegno delle donne era l’ostetrica (empirica o autorizzata), coinvolta sia nelle nascite sia negli aborti. Il suo ruolo, tuttavia, era molto più ampio: fino a poco 27 Il metodo più comunemente usato per abortire era quello di lasciare una sonda semirigida nell’utero fino a provocare l'aborto. Era il metodo più adottato dalle donne del mio campione, meno rischioso che bucare il sacco amniotico. Le ostetriche autorizzate preferivano usare strumenti
chirurgici, come
un tubicino di gomma
simile a un catetere, mentre le
empiriche e le donne che si procuravano un aborto da sole solitamente usavano lo stelo legnoso di una pianta — generalmente di prezzemolo maturo o di sedano — oppure la saggina, il materiale che veniva usato per fare le scope. Si veda, a questo proposito, l’interessante studio sull'aborto a Palermo scritto da V. Borruso, Pratiche abortive e controllo delle nascite in Sicilia,
Palermo, Libri Siciliani, 1966. Riguardo ai numerosi casi di decesso per aborto procurato con
il prezzemolo, egli ipotizza che le donne meno esperte, avendo udito dell'efficacia del prezzemolo, pensavano che fosse sufficiente mettere le foglie di prezzemolo nella vagina e aspettare. Questo, ovviamente, provocava gravi infezioni, spesso fatali (p. 53).
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IN
SICILIA
tempo fa, ad esempio, l’ostettica partecipava al battesimo del bambino, acquisendo così lo status di parente spirituale; era chiamata comare e, rispetto al matrimonio, valevano per lei, nei confronti delle famiglie in cui prestava i suoi servigi, le stesse prescrizioni e gli stessi divieti che vigevano per i membri della famiglia stessa. Inoltre, piuttosto che il padre, la madre, il padrino o la madrina, era l’ostetrica che tradizionalmente presentava il neonato alla comunità, quando, in testa alla processione, lo portava fra le sue
braccia lungo il tragitto dalla casa alla chiesa in cui doveva essere baitezzato. Secondo Pitrè, questa cerimonia, pur essendo piuttosto antica, era ancora comune nella Sicilia rurale degli anni trenta, come hanno confermato anche le donne del mio campione. Il rituale indica come il ruolo dell’ostetrica si estendesse ben al di là della semplice assistente al momento della nascita e, trascendendo gli spazi limitati che caratterizzavano i rapporti fra uomini e donne, sta a dimostrare l’importante posizione dell’ostetrica nella comunità.
LE
OSTETRICHE
SOTTO
IL FASCISMO
Nonostante le sue svariate attività, fu il ruolo attivo nel procurare gli aborti ad assoggettare l’ostetrica al sempre maggiore interesse da parte dei governi. L’Ottocento registrò una crescente attenzione nei
confronti del problema dell’aborto e i dottori che avevano messo in rilievo la questione, desiderosi di una riforma, proposero delle soluzioni. Un manuale di medicina del 1859 notò, ad esempio, che la
migliore garanzia contro l’aborto era l'educazione morale obbligatoria delle ostetriche, dato che esse «si fanno facile strumento
di
pubblica e sempre crescente immoralità [...] prestano quelle medesime mani destinate a salvare e proteggere degli inermi germogli all'ufficio del carnefice, distruggendoli nel seno materno»?. Nonostante il diffondersi di questo tipo di argomentazioni, fu solo nel 1888, con le riforme Crispi, che venne emanata la prima legislazione sanitaria completa, in cui venivano stabiliti, a norma di legge, i limiti
28 Gower-Chapman, Mi/occa, cit.; G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, Il Vespro, 1978.
29 V. Balocchi, Manuale completo di ostetricia per gli studenti di medicina e chirurgia e per le levatrici, Milano 1859, pp. XXIX-XXx.
2DI
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E CONFLITTI
della pratica dell’ostetricia. Tuttavia, come vedremo, la legge ebbe scarsa applicazione”. Sotto il fascismo, quando la campagna a favore della natalità venne elevata a livello di politica nazionale e l'aborto venne a essere considerato un crimine contro la razza e, di conseguenza, contro lo Stato, non solo le ostetriche furono sottoposte a una più attenta sorveglianza, ma un’ostetrica adeguatamente indottrinata fu vista come un mezzo efficace per promuovere le politiche governative all’interno delle famiglie. Prima di poter arruolare un collaboratore potenzialmente così utile, tuttavia, era necessario controllare con
metodi più severi le sue attività più efferate e furono prese delle misure per portare le ostetriche sotto una più stretta vigilanza del governo, come emerge dal materiale conservato nell’archivio palermitano?,
Nel 1928, ad esempio, secondo una circolare del Ministero degli interni, fu rilevato un calo nelle nascite di bambini maschi nei mesi
di novembre e dicembre, seguito da un aumento nel mese di gennaio. I funzionari ministeriali sospettarono che i familiari non comunicassero la nascita dei figli fino al gennaio seguente, allo scopo di ritardare di un anno il servizio militare?. Ovviamente, venne
sospettata la complicità delle ostetriche e ai prefetti provinciali venne ordinato di controllare i registri delle nascite di ogni ostetrica, divenuti obbligatori per legge nel 1888*. In Sicilia, tuttavia, le ostetriche (e i dottori) avevano completamente ignorato questa legge, fino a quando il prefetto di Palermo, in seguito alla circolare ministeriale, ordinò a tutti gli ufficiali sanitari locali di comunicargli i dati relativi ai registri delle ostetriche”. Inizialmente, più dei due terzi dei dottori non rispose a questa prima richiesta e si dovette mandare una seconda lettera e poi una terza, alquanto minacciosa. Quando, finalmente, furono comunicati i dati,
si scoprì che quasi 180% delle ostetriche non teneva alcun tipo di 30 F. Della Peruta, Sanità pubblica e legislazione sanitaria dall’unità a Crispi, in «Studi Storici», xxI, 1980, pp. 713-759. 31 Per una descrizione più dettagliata di questo materiale si veda N. Triolo, Fascist Unionization and the Professionalization of Midwives in Italy: A Sicilian Case Study, in «Medical Anthropology Quarterly», n. 3, agosto 1994, pp. 259-281. 32 Ministero degli interni, circolare datata 18 dicembre 1928, n. 24000.4.AG531, Archivio Generale della Prefettura (AGP), n. 66 (1913-1941), b. 104, Archivio di Stato di Palermo (ASP).
% Ministero dell'Interno — Direzione della Sanità Pubblica, Regolamento speciale ed istruzioni per l'esercizio ostetrico delle levatrici nei comuni del regno, Roma, 1894. 3 Prefetto di Palermo, lettera datata 2 gennaio 1929, AGP/ASP, b. 104.
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registro e che i dati più recenti del restante 20% risalivano al 1924”. Nel 1931 venne di nuovo mandata una nota simile ma, questa volta, la reazione fu del tutto diversa ed estremamente significativa: la lettera fu mandata ai podestà locali i quali, con delle risposte immediate, assicurarono unanimemente il prefetto che tutto era in ordine. Persino il tono delle risposte era diverso: i funzionari cittadini, nel momento in cui gli eventi riguardanti l’ambiente domestico sembravano essere diventati dominio più legittimo delle attività del governo, cominciarono ad imitare la retorica fascista con maggior convinzione*. Nel giro di pochi anni si passò, quindi, da una generale indifferenza per determinate direttive governative a un’osservanza quasi totale e le ostetriche si trovarono bersaglio di una sorveglianza più stretta da parte dell’élite maschile al potere, i dottori locali, il sindaco e la polizia. Il controllo sulle ostetriche non veniva solo dall’esterno: nel 1926 venne fondato, insieme ad altri sindacati fascisti, un sindacato fascista per le ostetriche. Questa organizzazione di autocontrollo, a
struttura fortemente centralizzata, con una commissione centrale che esaminava tutte le iniziative prese a livello locale, doveva assicurare la «rigorosa disciplinata osservanza» della legge, coordinare una campagna per eliminare le ostetriche empiriche e lavorare in stretta collaborazione con il prefetto”. Il sindacato promosse, inoltre, l'adozione di un atteggiamento professionale da parte delle 3 Esempio tipico delle risposte date è la lettera dell’Ufficiale sanitario di Geraci Siculo, datata 14 gennaio 1929, AGP/ASP, b. 104: «Non mi è stato possibile esercitare il controllo richiesto sui registri di nascita tenuti dalle levatrici di questo comune perché ne sono sprovviste. Chiesto loro il perché di questa irregolarità, hanno risposto di avere ignorato fin oggi tale disposizione prefettizia. Ho dato precise disposizioni perché loro si forniscano subito di un registro perché lo tengano al corrente a partire dal 1/1/1929». L’Ufficiale sanitario di Vicari, nella lettera datata 14 gennaio 1929, AGP/ASP, b. 104, rispondendo alla stessa circolare,
scrisse: «...interrogate le levatrici locali sulla tenuta dei registri dei parti hanno risposto al sottoscritto di sconoscere sino ad oggi l'obbligo della tenuta di tale registro». 36 Il podestà di Gratteri, ad esempio, nella lettera datata 7 febbraio 1931, AGP/ASP, b. 104, scrisse: «Ho curato la immediata comunicazione a questo diligente Ufficiale Sanitario della circolare sopraindicata: egli mi assicura anche verbalmente, che le disposizioni in merito
all'oggetto sono state e sono scrupolosamente osservate dalle due levatrici locali. Esse infatti sono state fornite dei registri parti, nonché dei fogli registri per gli aborti; che l’Ufficiale Sanitario ha cura di controllare e spedire a codesto superiore ufficio trimestralmente... Per tutti gli effetti mi pregio assicurare la E.V. che non mancherò di rivolgere la mia attenzione sulla sempre precisa osservanza delle superiori disposizioni in merito a quanto mi viene raccomandato da codesto superiore Ufficio con la circolare a cui rispondo, poiché intendo rendermi conto del modo come procede tale importante servizio, che sta particolarmente a cuore del Capo del Governo, per la politica demografica, che Esso tenacemente persegue». 3 E. Pestalozza, Disciplina e doveri dell’ostetrica, in «Lucina», n. 1, 1934, pp. 4-5.
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E CONFLITTI
ostetriche e una concezione del parto in termini medici; vennero prescritte norme riguardanti il modo di vestire e di comportarsi,
mentre pratiche antiquate «noiose e seccanti», come la partecipazio-
ne ai battesimi, vennero scoraggiate”. Ci volle del tempo prima che il sindacato diventasse un’efficiente rete estesa a tutta la nazione e a livello locale fu segnalata una forte resistenza a questo nuovo tipo di burocrazia centralizzata. Come testimonia la lunga corrispondenza fra Angela Tutone, il primo presidente del sindacato di Palermo, e i funzionari del sindacato a Roma, furono necessari più di sette anni solo per censire e registrare
le 321 ostetriche autorizzate che esercitavano nella provincia di Palermo”. Entro il 1936, comunque, l’iscrizione al sindacato, sebbe-
ne non fosse obbligatoria, raggiunse, a livello nazionale, il 73 per cento (13 mila delle circa 18 mila ostetriche autorizzate che esercitavano a quel tempo). Il potere effettivo del sindacato, tuttavia, più che dal crescente numero di iscrizioni, venne consolidato dalla fondazione, nel 1935, di un albo professionale delle ostetriche,
rimaste escluse dalle riforme del 1910 che stabilivano la creazione di un albo per le professioni del campo medico: il sindacato, infatti, venne investito della responsabilità di assicurare che tutte le ostetriche in esercizio fossero autorizzate a norma di legge e iscritte all’albo; in questo modo, oltre a tenere sotto controllo tutte le ostetriche della provincia, garantiva una collaborazione ancora più stretta con la polizia. Il prefetto di Palermo, ad esempio, dopo aver completato la stesura dell'Albo del capoluogo siciliano, ne mandò copie al questore, al comandante della Legione dei Reali Carabinieri, alle sezioni di Polizia di Stato della provincia e ai comandi dei Reali Carabinieri della provincia. Potevano così essere facilmente scoperte e denunciate quelle ostetriche che non erano iscritte all'albo.
38 M.L. Luzzi, Per l'elevazione morale delle scuole ostetriche, in «Lucina», n. 7, 1934, pp. 14-15, La relazione della segreteria nazionale, ibid., n. 5, 1938, pp. 10-15. 3° A. Tutone, lettera datata 9 gennaio 1932, AGP/ASP, b. 104; G. Cusimano, lettera a Angela Tutone, datata 20 febbraio 1934, AGP/ASP, b. 104. 4° Federazione nazionale dei collegi delle ostetriche (FNcO), La professione di ostetrica, Castelmadama, De Rossi, 1978.
41 «Quest'Albo avrebbe dovuto essere pubblicato molto tempo prima, ma ciò non è stato possibile per il dissidio e la incomprensione delle ostetriche, le quali hanno avuto bisogno per eseguire un ordine voluto dalla legge di numerose diffide. È stato necessario [...] rompere gli indugi e pubblicare l’Albo. Le inadempienti all’iscrizione, che è condizione essenziale per potere esercitare la professione per cui la NON ISCRIZIONE COSTITUISCE ESERCIZIO ABUSIVO, sentiranno i rigori della legge. A tal scopo ho ravvisato la necessità di inviare l’albo a tutte le
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SICILIA
Effettivamente, il sindacato, tramite il controllo sull’albo e un rapporto più stretto con gli organi dello Stato, iniziò a costruire un'efficace rete centralizzata di informazioni. Sotto questo aspetto, divenne un efficiente punto di riferimento, che raccoglieva le denunce presentate da ostetriche nei confronti di ostetriche empiriche e passava queste denunce alla prefettura. In una lettera anonima al sindacato, un’ostetrica comunicò che una delle sue clienti aveva
partorito senza di provinciale, presso dopo aver condotto sindacato”. Un'altra lettera,
lei. La lettera venne consegnata al medico la prefettura, e quindi alla questura, la quale, un’indagine, comunicò le proprie conclusioni al che dimostra quanto fosse ampia questa nuova
rete di informazioni, riferisce che una certa ostetrica — accusata, ma
non condannata, pet aver procurato un aborto — venne sospesa dall’esercizio della professione. La lettera, firmata dal Sindacato delle ostetriche di Palermo, venne mandata ai Ministeri degli interni, di grazia e giustizia, dell'Educazione nazionale e delle corporazioni; venne inoltre mandata alla prefettura di Palermo, agli uffici giudiziari della Provincia, al Sindacato nazionale delle ostetriche e a tutti i
sindacati provinciali delle ostetriche*. Per il sindacato era di primaria importanza legittimare la posizione delle ostetriche nella gerarchia medica. Era una questione avvertita da tempo soprattutto dalle ostetriche residenti nelle città, profondamente interessate alla professionalizzazione della loro attività; erano state loro, infatti, che, nell’ultimo decennio dell’Ottocen-
to, per rispondere ai crescenti attacchi dei sempre più potenti uomini che esercitavano la stessa professione, avevano dato vita alla prima organizzazione professionale volontaria di ostetriche a livello nazionale. Presentando se stesse come valenti rivali piuttosto che come collaboratrici della professione medica, monopolio dell’uomo, sezioni di P.S. e a tutti iComandi dei RRcc perché controllino le ostetriche le quali esercitano senza figurare nell’albo provvedendo nei confronti di esse alla denunzia all'Autorità giudiziaria nonché alla segnalazione a questa Prefettura ed al Sindacato di Categoria». (Prefetto di Palermo, lettera datata 23 marzo 1938, AGP/ASP, b. 104). Nella lettera si sottolinea anche la
continua resistenza da parte delle ostetriche rispetto all’interferenza dello Stato nelle loro attività. Per maggiori informazioni si veda Triolo, Fascist Unionization, cit. 4 Lettera anonima di un’ostetrica al Sindacato delle ostetriche, 19 novembre 1930, AGP/ASP, b. 104.
4 Questura di Palermo, lettera datata 2 gennaio 1931, AGP/ASP, b. 104. 4 Segreteria Provinciale, Sindacato delle ostetriche di Palermo, lettera datata 3 aprile 1939, AGP/ASP, b. 104.
261
NORME
E CONFLITTI
esse basarono la loro battaglia per la legittimazione, oltre che sulla promozione di una concezione medicalizzata della nascita, sull’opposizione alle leggi che impedivano loro di usare strumenti chirurgici e di assistere a parti complessi”. Questo spirito competitivo, tuttavia, fu presto soffocato e, negli anni trenta, fu accettata una tregua, seppur con un certo imbarazzo.
Inorgoglito 0, forse, sedotto dalla legittimazione politica offerta dal regime, il sindacato preferì riservare alle ostetriche la posizione di umili collaboratrici del medico, salutando come vittorie importanti quelle che, in realtà, erano concessioni superficiali (come il cambiamento del nome, dall’antiquato /evatrice al più scientifico ostetrica) e
abbandonando completamente la battaglia per il diritto a usare gli strumenti chirurgici. La seguente citazione del 1939 è tratta dalla rivista «Lucina», l'organo nazionale del sindacato: È vero che a volte la distanza e la precipitosità del parto non consentono di avere il medico in tempo utile, e in casi simili sarebbe forse bene che l’ostetrica sia autorizzata ad eseguire essa stessa l’episiotomia. Attualmente però le disposizioni di legge e altri fattori non lo consentono e quindi per ora è inutile parlarne. Oggi — come detto — il meglio da fare è chiamare a tempo il medico”.
Che il sindacato rappresentasse o meno la volontà collettiva della categoria, le ostetriche si trovarono trincerate in una struttura burocratica sempre più efficiente, all’interno della quale le loro azioni venivano ad assumere
una maggiore trasparenza e in cui
risultava difficile deviare dalle norme prescritte. Operando a livello nazionale, il sindacato aveva il monopolio della rappresentazione nelle organizzazioni, il controllo sull’albo e un rapporto diretto con l'apparato legale dello Stato. Era stata gradualmente creata un’efficiente rete che, con il benestare dello Stato, si attivava per estirpare le irregolarità ed esercitare un controllo sulla nuova professione. La forza della sua struttura burocratica era basata su una legittimazione acquisita attraverso il recente appoggio ricevuto dallo Stato e dalla professione medica, appoggio che, tuttavia, si fondava sull’istituzionalizzazione della professione dell’ostetrica in quanto subordinata 4 Osservazioni, in «La Levatrice Condotta», n. 6, 1896, pp. 100-101; N. Triolo, The
Angel-Makers: Fascist Pro-natalism and the Normalization of Midwives in Sicily, tesi di dottorato, Berkeley, University of California, 1989; Id., Fascist Unionization, cit. 4 E. Dergnevich, Episiotomie e lacerazioni vaginali, perineali e loro cura, in «Lucina», n.
10, 1939, pp. 19-20.
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E OSTETRICHE
IN
SICILIA
alla professione medica”. Dopo il crollo del fascismo venne fondata un'associazione di ostetriche, con lo scopo di rimettere insieme i pezzi del dissolto sindacato e riprendere la pubblicazione di «Lucina». Era presente un chiaro elemento di continuità: la retorica fascista era scomparsa, ma furono mantenuti lo stesso personale, una struttura ugualmente burocratica e la medesima visione dell’ostetrica come ancella professionalizzata. CONCLUSIONE
Chiunque abbia familiarità con la situazione delle ostetriche in Italia oggi, conosce benissimo le conseguenze di questa professionalizzazione dalle molte sfaccettature. Queste donne, un tempo insu-
bordinate e turbolente, hanno finito con l’assumere nella gerarchia delle professioni mediche una posizione secondaria, quasi marginale («in Italia l’ostetrica è morta»,
ha affermato Anna
Schimmenti,
l’ottantacinquenne presidente dell’Associazione delle ostetriche di Palermo). Ora si identificano senza recriminare con il dottore e con l'ospedale e mantengono con le clienti un rapporto più distaccato e professionale, non vengono più chiamate comari e non partecipano più ai battesimi. La tradizionale figura dell’ostetrica è stata letteralmente estirpata dal contesto sociale — Giddens usa proprio il termine «decontestualizzata»* — che un tempo definiva il suo ben più ampio e significativo ruolo. Il cambiamento è tipico di uno scenario che vede la graduale appropriazione da parte degli esperti di attività che una volta erano
appannaggio delle donne: i problemi relativi alla salute vengono
affidati a impersonali professionisti, il parto avviene in ospedale ed è 4 In un significativo articolo dal titolo Pià pazienza che scienza apparso sulla rivista «Lucina», il paternalismo dell'autore, un dottore di sesso maschile, cattura perfettamente questo nuovo ruolo: «Il medico, lo scienziato è troppo occupato nella soluzione dei suoi altissimi problemi e un brandello di carne vale un altro e la febbre della ricerca può precludergli le vie della tenerezza. L’ostetrica, mai, poiché ella sta accanto alla madre non con
l'occhio freddo e meraviglioso dello scopritore di sintomi, ma con l’occhio e il cuore di un’altra madre...» (G. Bucchi, Pià pazienza che scienza, in «Lucina», n. 8, 1934, pp. 7-8). L’ostetrica era, in altri termini, una via di mezzo tra una sorella consolatrice e una madre
votata al sacrificio, la dolce controparte dell’uomo di scienza. Rappresentava il lato umano della nascita, in un momento in cui questa era sempre più attratta nella sfera di competenza della scienza. 4. Giddens, Modernity and SelfIdentity, cit.
263
NORME
E CONFLITTI
inserito in un contesto sempre più tecnologizzato, in cui la donna recita un ruolo passivo, la cura e l'educazione dei bambini diventano competenza dello Stato e di una vasta gamma di operatori sociali. Si potrebbe quindi affermare che, in Sicilia, il gruppo di consanguinee attorno a cui ruotavano le attività della casa venne a perdere importanza con l’erodersi delle ragioni che stavano alla base della sua costituzione. Nel corso di tre generazioni, rispetto all’atteggiamento nei confronti della famiglia, si verifica un cospicuo e significativo cambiamento: mentre le donne più anziane che ho intervistato rifiutavano seccamente la partecipazione dell’uomo nelle questioni domestiche, considerandola un’impropria e irritante interferenza nelle «cose di donne», le loro figlie vedono nella coppia coniugale l’unità decisionale primaria della famiglia e ritengono che le scelte riguardanti la casa debbano coinvolgere anche il marito”. Con la presa di possesso delle responsabilità domestiche da parte degli esperti, si vengono così ad alterare quei complessi rapporti sociali e quelle attività che un tempo caratterizzavano la vita delle donne, e questo ci porta, in un certo senso, alla realizzazione dei
primi due principi del discorso liberale sulla vita privata: identificazione dello spazio domestico con la famiglia nucleare e rapporto coniugale come caratteristica qualificante della vita familiare. Alla ricerca di un termine di confronto nelle esperienze di aborto di donne appartenenti a generazioni diverse, ho analizzato ciò che dà coerenza narrativa ai racconti di queste donne. Le più anziane parlano di povertà, di troppi bambini, troppo lavoro, mancanza di soldi, problemi di eredità ecc. I loro racconti sono pieni di pathos e di sofferenza, in relazione alle esigenze economiche e sociali che a quel tempo contrassegnavano la loro vita, ma rivelano anche una sorprendente naturalezza rispetto alla necessità di dover abortire. In effetti, se volevo sentire la parola rizzorso, dovevo
essere
io a
pronunciarla. Per queste donne l’aborto non era una questione morale o una questione medica, né, tanto meno, una questione di autodeterminazione individuale, visto che la decisione di abortire
veniva presa all’interno di uno spazio sociale dai confini molto ampi,
4° Non sempre questa centralità della coppia coniugale si è rivelata un passo avanti per le donne, soprattutto in Sicilia, dove, in alcune città, il tasso di disoccupazione raggiunge il 30 per cento e le donne non hanno accesso a molti lavori. Con il dissolversi delle loro attività tradizionali le donne, oltre a ritrovarsi più isolate all’interno della famiglia nucleare, sono più esposte ad assumere una posizione subordinata rispetto ai mariti.
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E OSTETRICHE
IN
SICILIA
in cui era del tutto impossibile concepire una maternità al di fuori dei complessi rapporti sociali e delle attività che la caratterizzavano. Per molte delle donne giovani, invece, l’aborto non conservava
più quei toni di naturalezza. Era cambiato persino il contesto in cui venivano condotte le interviste e dovevo fare più attenzione alle domande che facevo o alle ipotesi che formulavo. In un’occasione, fui invitata ad allontanarmi dalla compagnia di giovani donne per sentire il punto di vista di un’altra donna sull’aborto (solo un punto di vista, non il racconto di un’esperienza). Sebbene le motivazioni di
un aborto siano tuttora legate agli stessi fattori sociali (numero sufficiente di bambini, problemi di eredità ecc. oltre a nuove motivazioni, scuola, carriera e così via) tutti i racconti di queste donne rappresentavano l’aborto in termini personali, drammatici e inquietanti. Non solo è paradossale che, proprio nel momento in cui l'aborto diventa una questione di dominio pubblico, discussa a livello legale, venga invece vissuto come una decisione individuale, privata e motivo di rimorso, ma il fenomeno è indice dell’instaurarsi di una concezione
essenzialista
(«modernista»,
oserei dire) della
maternità, definita esclusivamente in termini di gravidanza fisiologica e di riproduzione. È una concezione che riporta alla mente il terzo principio del discorso liberale — la riproduzione intesa come funzione primaria della donna — e prospetta una visione della maternità separata dal contesto sociale e dai rapporti che nel passato l'avevano arricchita di significato.
265
NORME
E CONFLITTI
TAB. I. Donne nate fra il 1892 e il 1931 nome
1) Anna
anno di nascita
bambini
aborti
1900
6
7.
metodi usati per abortire
auto-procurato
con
il ferro
da
calza
2) Giuseppina 3) Mina
1924 1922
4 5
2. 3.
ost. autorizzata; chinino, bagni ost. empiriche e autorizzate
4) Giulia
1923
4
2
ost. autorizzata; bagni
5) Nilde
1897
1
2.
ost. empirica; chinino, bagni
6) Vitina 7) Franca
1907 1915
3 4
1 4
ost. autorizzata
8) Maria
1921
2
5
9) Pina
1919
5
1
10) Giusi
1924
2
8.
11) Roberta
1918
4
2.
12) Rosalia
1911
3
2.
43
39
Totale
ost. autorizzata
ost. autorizzata; bagni, infusi di erbe infusi di erbe ost. empiriche e autorizzate; bagni, docce, infusi di erbe ost. autorizzata; bagni ost. empirica; bagni
Numero medio di bambini per famiglia: 3,5 Numero medio di aborti: 3,25 (Il 48% delle gravidanze si è concluso con un aborto) 13) Nina 14) Fia 15) Margherita
16) Lila 17) Moma 18) Caterina 19) Rosa 20) Tina
21) Paola 22) Rita
Totale
1912 1931 1928 1926 1892 1897 1919 1920 1924 1919
[n
VUOI VW UA. SSN
Numero medio di bambini per famiglia: 4,2
266
UN FUTURO
SENZA PADRI?
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BISOGNO DI PADRI, BISOGNO DI MADRI. LE «MADRI VERGINI» IN INGHILTERRA* di Marilyn Strathern
La storia, nel suo
farsi, deve inevitabilmente
fondarsi
sulla
capacità di persuasione: è necessario convincere le persone che i tempi sono straordinariamente importanti o che cambiamenti irreversibili incombono sul mondo. È mia intenzione descrivere ciò che avvenne in Inghilterra nel 1991, quando alcuni specialisti in clinica medica diedero voce alle loro riflessioni su determinati cambiamenti in atto a quel tempo e cercarono di fissarli in un preciso momento che, a loro avviso, avrebbe avuto una portata storica. I cambiamenti in questione riguardavano la maternità agevolata e in particolare l’uso delle tecniche di riproduzione assistita; il momento era una conferenza che si prefiggeva di attirare l’attenzione del pubblico su un fenomeno recente. La stampa inglese aveva spesso presentato il caso di donne che, pur non avendo mai avuto rapporti sessuali e non desiderando affatto averne, chiedevano di poter essere sottoposte ad un trattamento contro la sterilità. Che sorta di fenomeno era questo e quali conseguenze avrebbe avuto? L’elemento persuasione, è
* Si tratta della versione italiana del testo di Marilyn Strathern, Gender, a Question of Comparison, apparso in traduzione tedesca con il titolo Geschlecht, cine Frage des Vergleichs, nella raccolta a cura di A. Gingrich, H. Diemberger e J. Helbling, Die Differenz der Anderen, Frankfurt/M., Suhrkamp, 1994.
Sono grata al dottor Robert Silman e agli altri partecipanti al Convegno sulla sindrome delle madri vergini, tenutosi sotto gli auspici del London Hospital Medical College, per l'occasione che mi hanno offerto di riflettere sulle problematiche trattate in questo saggio. A quel tempo, conducevo ricerche su La rappresentazione della parentela nel contesto delle nuove
tecniche riproduttive e ringrazio l’Economic and Social Research Council per la borsa di studio concessami. Il debito nei confronti dei miei colleghi nel progetto di ricerca, Jeannette Edwards, Sarah Franklin, Eric Hirsch e Frances Price, non finisce qui. Riferimenti ai loro lavori si trovano in un volume pubblicato dalla Manchester University Press, dal titolo Technologies of Procreation: Kinship in the Age of Assisted Conception (1993).
269
UN FUTURO
SENZA
PADRI?
chiaro, era insito nel fatto stesso di presentare l’evento come un fenomeno. Parlo della conferenza come di un tentativo di fare la storia, per via delle proporzioni con cui essa venne concepita (anche se non
realizzata) e dell'impatto che, nei propositi degli organizzatori, avrebbe dovuto avere. Doveva essere il primo di una serie di convegni internazionali su questioni medico-sociali (dei cui atti era prevista la pubblicazione), con la partecipazione di oltre cento delegati disposti a pagare duecentocinquanta sterline per assistere al convegno vero e proprio (un giorno) e cinquanta sterline per il seminario del giorno successivo. La pubblicità che precedette la conferenza descrisse il fenomeno di cui avrebbe trattato come un evento che doveva con certezza assoluta generare un dibattito. Gli organizzatori sostenevano di avere identificato una condizione che (sono le loro parole) poneva «questioni di principio mai incontrate prima d’allora nel campo della medicina, della psicologia, del diritto e della moralità». Avevano chiamato questa condizione «sindrome delle madri vergini» e il tema del dibattito consisteva nell’indagare se questa condizione potesse nascondere una patologia. Durante la conferenza la questione venne ulteriormente ampliata, fino a comprendere le implicazioni (storiche) per la società, allo scopo di determinarne le conseguenze nel campo del diritto, dell’etica e delle altre discipline. Di fatto, il convegno ebbe proporzioni di gran lunga inferiori alle aspettative, ma rivelò la vera natura delle apprensioni che i medici avvertivano al momento di esaminare il ruolo cui erano chiamati in questo genere di procreazioni assistite. L’elemento più sconcertante del modo in cui queste donne si presentavano non era tanto il loro desiderio di avere un figlio per via artificiale, mentre non avevano fatto alcun tentativo di averlo per via naturale, quanto, piuttosto, la loro affermazione di non avere la
minima intenzione di provare ad averlo in questo modo. Fu subito evidente che la questione non riguardava soltanto la maniera di concepire, bensì il fatto che potenziali madri non avessero mai avuto un'esperienza sessuale. Personalmente, tuttavia, evidenzierei un fenomeno alquanto diverso: l’elemento nascosto, in questo caso, non
era una patologia, ma l’appropriazione di una possibilità. Le tecniche di riproduzione assistita hanno come interessante sottoprodotto la possibilità di evitare il rapporto sessuale: la singolarità del fenomeno non risiedeva tanto nel fatto che le donne, con il loro comportamento, ponessero questioni di principio che dovevano 270
BISOGNO
DI
PADRI,
BISOGNO
DI
MADRI
essere discusse dalla società intera, quanto che esse si appropriassero di un’agevolazione come di un servizio di cui potevano liberamente usufruire per i loro scopi. L’interesse dell'opinione pubblica per la «sindrome delle madri vergini», forse, non fu tale da creare il senso dell'evento storico auspicato da alcuni, ma rivestì un ruolo cruciale nell’ambito del dibattito sulle cosiddette nuove tecnologie riproduttive. E questo dibattito, in fondo, riguarda la storia: le agevolazioni di cui siamo
testimoni sono nuove dal punto di vista tecnico, ma non nuove in linea di principio? Oppure, hanno dato avvio a cambiamenti sociali e culturali di imprevedibili proporzioni? Ciò che interessa l’antropologo è il modo in cui l'esame di pratiche contemporanee rende espliciti ipresupposti dati per scontati nelle pratiche del passato. Per un osservatore della cultura, l'elemento più affascinante dello scalpore sulle madri vergini è stato il suo mettere a nudo quello che prima era nascosto: il rapporto fra maternità e sessualità. L’argomento riveste interesse anche rispetto al modo in cui la categoria «donna» è legata alla categoria «madre». Nel mio saggio, il materiale proveniente dall’Inghilterra verrà considerato illustrativo del contesto euro-americano in generale, sebbene il mio indirizzo sia prevalentemente nordeuropeo (e, a questo proposito, gradirei moltissimo sentire i commenti dei colleghi italiani). Allo scopo di evidenziare ciò che ritengo sia caratteristico del caso euro-americano, farò riferimento alle diverse ipotesi sul legame fra sessualità e maternità avanzate da Malinowski a proposito delle isole Trobriand: negli anni sessanta e settanta, infatti, queste ipotesi godettero di una nuova ondata di popolarità, almeno fra gli antropologi, che diedero all'insieme dei loro studi sull'argomento il nome di «dibattito sulle madri vergini». Queste ricerche sulle pratiche melanesiane offrono interessanti spunti per comprendere le concezioni euro-americane,
così come venivano formulate nel periodo storico precedente l’avvento delle nuove tecniche di riproduzione assistita.
LA
SINDROME
DELLE
MADRI
VERGINI
In Inghilterra, fu una lettera alla rivista medica «The Lancet» a dare l’avvio al dibattito sulle cosiddette madri vergini. Così inizia la lettera: 2
UN FUTURO
SENZA
PADRI?
Medici e terapeuti sono consapevoli delle patologie che si nascondono
dietro al fenomeno della sterilità, come disturbi alimentari, depressione,
abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti, fallimenti matrimoniali. Tuttavia, in qualità di psicoterapeuta operante in una clinica della sterilità, mi sono imbattuta in una situazione che non ha precedenti nella storia del trattamento della sterilità con l’impiego dell’alta tecnologia: donne sole, con nessuna esperienza sessuale e con nessuna intenzione di avere un rapporto sessuale, che desiderano avere un figlio attraverso la fecondazione
assistita.
Nella maggior parte dei casi, le donne avevano richiesto di seguire la procedura relativamente semplice dell’inseminazione da donatore, sebbene, a volte, fosse previsto il ricorso a farmaci per favorire l’ovulazione. Nel contesto delle altre cure rese possibili dalle nuove tecniche riproduttive, tuttavia, un’assistenza di questo tipo acquisiva un alone di alta tecnologia. La psicoterapeuta citò il caso particolare di una donna: La paziente non vedeva nulla di insolito nella sua richiesta. Riteneva che la tecnologia medica avrebbe trovato la risposta a tutti i suoi sogni [...] e disse che le procedure per il trattamento della sterilità erano scientifiche e preferibili ai rapporti sessuali!.
In generale, le nuove concepite come
un mezzo
tecniche
di riproduzione
per superare menomazioni
sono
state
di natura
fisica. La fertilizzazione in vitro è la più nota. L'unione dei gameti in una capsula di Petri (in vitro), invece che nel corpo di una donna, ha
dato avvio a tutta una serie di fenomeni correlati: ha incoraggiato o reso possibile, ad esempio, la creazione di embrioni frutto di donazioni di uova e di donazioni di sperma e il loro impianto in uteri surrogati. Tutte queste procedure permettono di evitare i rapporti:
non è più necessario che le persone interagiscano direttamente per produrre uova che poi devono essere prelevate, per donare sperma o per ricevere un embrione fertilizzato e le interazioni, quando avvengono, non hanno conseguenze sui rapporti che seguiranno la procreazione. Grazie alle nuove tecniche riproduttive, il processo del concepimento si è svincolato dalla dipendenza da specifiche persone che non sono in grado di concepire a causa di menomazioni fisiche. Ma è proprio a questo riguardo che si pone un problema: in simili circostanze il concepimento non può più essere inteso come la ! In «The Times»,
11 marzo
1991.
2972
BISOGNO
DI
PADRI,
BISOGNO
DI
MADRI
ragione fondamentale dell’unione fra due persone e, in questo caso, non porta alla genitorialità. Questa viene creata dalle decisioni di medici e di clinici. Sorge inevitabile, a questo punto, la questione di chi sia la persona adatta ad usufruire della genitorialità assistita. La questione è all'ordine del giorno sin dai tempi in cui il parlamento inglese discusse della promulgazione di leggi che stabilissero delle direttive per la pratica clinica. Il punto focale è la determinazione delle condizioni coniugali e familiari da cui dovrebbero emergere i genitori più adatti a svolgere questo ruolo. La maggior parte dei commentatori ritiene che sia la protezione della famiglia nucleare eterosessuale ad essere realmente in gioco. Il mio interesse, tuttavia, non riguarda la famiglia in quanto tale, bensì il più ampio concetto di parentela o, piuttosto, la prospettiva con cui
gli euro-americani guardano alla formazione dei rapporti di relazione molto stretti che si vengono a creare in seguito alla procreazione. Ad essere in gioco è anche il diverso modo in cui, nelle formulazioni euro-americane, i due genitori, l’uomo e la donna, vengono coinvolti
nel processo della riproduzione. Esiste quello che si potrebbe definire un requisito di parentela per la genitorialità, nel senso che un figlio dovrebbe avere due genitori ben identificabili, uguali in termini di dotazioni genetiche, ma differenti rispetto al ruolo che dovranno svolgere nella sua vita. I ruoli sociali, ovviamente, possono
essere scomposti in numerose
componenti e, quindi, essere ripartiti fra diverse persone. Se un bambino può essere allevato da diverse persone, allora, forse, non dovrebbe suscitare così tanto scalpore immaginare che anche il suo concepimento sia distribuito fra molti. Tuttavia, per quanto numerose siano, queste persone sono sempre o «madri» o «padri». Possono essere descritte come madri o padri «veri», oppure adottivi o surrogati, madri e padri, cioè, di sostituzione. Ma non esiste, per così dire, nessun altro tipo di genitore*. E il genere assegna sempre alle
persone l’uno o l’altro dei due ruoli. 2 F. Price, Establishing Guidelines: Regulation and the Clinical Management of Infertility, in R. Lee-D. Morgan (a cura di), Birthrights: Law and Ethics at the Beginnings of Life, London, Routledge, 1989.
3 E. Haimes,
Recreating the Family? Policy Considerations
Relating to the «New»
Reproductive Technologies, in M. McNeil (a cura di), The New Reproductive Technologies, London, Macmillan, 1990; F. Cannel, Concepts of Parenthood: The Warnock Report, the
Gullick Debate, and Modern Myths, in «American Ethnologist», n. 17, pp. 667-686. 4 D.M, Schneider, Arzerican Kinship: A Cultural Account, Englewood Cliffs, Prentice-
Hall, 1968, p. 42.
273
UN FUTURO
SENZA
PADRI?
Il genere è coinvolto nelle questioni sollevate dalle nuove tecniche riproduttive anche in altri modi: il genere della tecnologia, ad esempio, un fenomeno ampiamente discusso nella scrittura femminista’, oppure il genere del medico tramite la cui azione viene agevolata la maternità. «Riproduzione senza sesso, ma con il dottore» è l’ironico commento di Price. Una nozione popolare abbastanza diffusa vede nella tecnologia e nei medici che la applicano un mezzo per esercitare un controllo sul processo riproduttivo, un desiderio «maschile» che si presuppone a danno dei desideri «femminili». Questo elemento, a sua volta, richiama e convalida il presupposto della differenziazione in base al genere. In queste formulazioni euro-americane i due genitori, l’uomo e la donna, occupano una posizione diversa nei confronti della genitorialità: un’unione bilanciata è anche una relazione asimmetrica. Il rapporto sessuale, l’atto che, secondo quanto affermato da Schneider* negli anni sessanta, è al cuore del concetto di parentela in America, li definisce entrambi. Di conseguenza, il legame tra atto sessuale e concepimento non è esclusivamente di natura tecnica, ma serve a riprodurre la genitorialità in quanto risultato percettibile di un’unione in cui i due partner sono differenziati in base al genere; viene a ricoprire, cioè, un ruolo concettualmente importante nella procreazione.
L’intervento tecnologico è spesso presentato in modo da lasciare intatto l'apparato concettuale della riproduzione: esso si limita semplicemente a porre rimedio alle condizioni fisiche. Fin tanto che sostanze o persone sono identificabili nella loro azione di rimpiazzare o sostituire altre sostanze o altre persone (naturali), il modello originario di procreazione rimane inalterato. Di conseguenza, lo sperma donato sostituisce lo sperma difettoso o una madre surrogata agisce al posto della madre legale. L’intervento tecnologico stesso potrebbe essere visto come sostitutivo dell’atto sessuale. Secondo questa concezione, i medici attuano semplicemente con i mezzi della scienza quello che altrimenti verrebbe realizzato attraverso il rapporto sessuale. Rendono praticabili condizioni diverse in cui la fecondazione può avere luogo. Il loro ruolo è simile a quello del donatore anonimo: in qualità di esperti in possesso di particolari capacità, 3 Si veda la sintesi di E. Martin, The Woman Reproduction, Boston, Beacon Press, 1987.
6 Schneider, American Kinship, cit.
274
in the Body. A Cultural Analysis of
BISOGNO
DI
PADRI,
BISOGNO
DI
MADRI
medici e dottori possono agire come se fossero dietro alle quinte dei processi che hanno ideato. Le donne che affermano di voler seguire un trattamento contro la sterilità 4/0 scopo di eludere completamente il contatto sessuale mettono in discussione questi compromessi con l’ordine naturale e le loro richieste, negando il sistema di implicite sostituzioni di cui si è parlato, hanno avuto l’effetto (almeno per alcuni) di porre in maggior rilievo il genere della persona che rende possibile la fecondazione assistita. Secondo le mie informazioni, infatti, si tratta
unicamente di medici di sesso maschile, sebbene la questione delle madri vergini sia stata sollevata per la prima volta da una donna. Si sono fatte spesso delle battute sul ruolo «paterno» del medico che ha «fatto venire alla luce» un bambino grazie ai suoi sforzi e alla sua abilità: potremmo prenderle come una sorta di commento culturale sul legame tra la fecondazione assistita dalla tecnologia e il processo naturale della fecondazione che rende automaticamente genitori le persone coinvolte. In presenza del padre legale — che sia il padre genetico o meno — il medico ha la funzione di un sostituto. Nel caso delle madri vergini, invece, la posizione compromettente in cui affermavano di trovarsi alcuni medici causava non poche apprensioni. La richiesta di inseminazione artificiale con seme di donatore allo scopo di eludere il rapporto sessuale voleva dire che ron esisteva un padre legale: il medico non era il sostituto di nessuno e la sua azione non ne suppliva un’altra che avrebbe potuto avere luogo altrimenti. Richieste di questo tipo provocavano inquietudine soprattutto per due motivi, entrambi collegati al genere. Al primo motivo ho appena accennato: le donne non permettevano al medico di pensare che egli stesse sostituendo un altro partner coinvolto nel processo creativo e, quindi, lasciavano intendere un’equazione differente, vale a dire, che egli era l’unico partner sessuale. A questo proposito i medici espressero le loro perplessità, ma su ciò tornerò fra breve. L’altro motivo è implicito: ho il sospetto che simili richieste da parte delle donne rappresentassero un affronto al modello stesso di
legame fra rapporto sessuale e fecondazione che è alla base delle concezioni euro-americane relative alla creazione dei genitori. C'era
un elemento di perversione nel modo in cui le richieste delle donne vennero identificate come una sindrome. Le donne che dichiarano di volere dei figli attraverso l’uso di mezzi tecnologici allo scopo di evitare il rapporto sessuale, non solo rappresentano una minaccia per la paternità (che riporta alla mente 205
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la minaccia, avvertita da alcuni in passato, insita nell’inseminazione artificiale stessa”), ma mettono in evidenza il fatto che la minaccia,
per così dire, viene dalla tecnologia stessa. Le donne sfruttano le possibilità tecnologiche per quello che esse sono realmente in grado di fare — evitare la necessità del rapporto sessuale — e non per il loro valore di sostituzione — come un surrogato del rapporto stesso. Tuttavia, sembrò improprio che le donne desiderassero la «tecnologia» fine a se stessa. Inoltre, si può affermare che, in generale, la forte spinta a tecnologizzare il trattamento della sterilità sia da attribuirsi tanto a coloro che richiedono l'assistenza, quanto ai medici che la dispensano. È interessante chiedersi, a questo punto, per quale ragione le donne, che sono, apparentemente, entusiaste sostenitrici delle nuove
conquiste in campo medico, debbano essere viste come sovvertitrici dell’ordine morale proprio per questo motivo. Ed è questo il primo quesito che intendo affrontare. Il bisogno di un padre
I partecipanti al convegno sulla sindrome delle madri vergini, che si tenne al Royal London Hospital nel 1991, non concorderebbero su questo elemento di perversione che alcuni hanno letto nelle loro intenzioni: essi avevano semplicemente attirato l’attenzione su un preciso modello di richieste avanzate alle cliniche per la sterilità e, su questa base, avevano per primi identificato la «sindrome». Il convegno si prefiggeva di fornire una valutazione della situazione, allo scopo di contestualizzare lo scalpore suscitato dalla lettera a «The Lancet», che nei media aveva avuto vasta eco.
Sebbene la lettera avesse accennato a «patologie che si nascondono», i partecipanti al convegno concordarono sul fatto che la principale questione clinica fosse quella di stabilire se una «condizione» riconoscibile era o meno alla base dei desideri delle donne. Da questo punto di vista, il problema non era tanto una patologia o una malattia nel senso medico del termine, quanto una questione di scambio di desideri*. («In altre parole, è un desiderio autentico 7 N. Pfeffer, Artificial Insemination, In-Vitro Fertilisation and the Stigma of Infertility, in
M. Stanworth (a cura di), Reproductive Technologies, Cambridge, Polity Press, 1987. 8 R. Silman, comunicazione personale.
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quello che queste donne esprimono, oppure è un bisogno diverso, forse frustrato o represso?»?). Un desiderio autentico di avere figli
era una cosa; ma desiderare figli senza un rapporto sessuale lasciava intendere che queste donne potevano usare il desiderio di avere figli come una copertura per un altro desiderio che non erano in grado di esprimere. Questo, a sua volta, si traduceva in un dilemma per il medico che aveva il ruolo di agevolare la nascita e, quindi, di far venire al mondo dei bambini. Se il desiderio di avere figli non era autentico, la «madre» avrebbe potuto trovarsi di fronte a un esserino sgambettante, vivo e reale, che non aveva mai «veramente» voluto. Tuttavia, mentre l'interesse dei medici e degli assistenti sociali si concentrava su questi problemi di natura decisionale — fino a che punto una clinica doveva rispondere a richieste di questo genere — altri partecipanti al convegno, me compresa, lessero nel fatto stesso che fosse stata identificata una sindrome il tentativo di voler attribuire un significato di perversione e di anormalità a questi desideri. Dopo tutto, non c’era motivo per cui un desiderio di altre cose presentato come desiderio di un figlio dovesse essere manifesto proprio in queste donne e non in altre. Forse, poteva essere vero per chiunque pensasse di voler diventare un genitore (e furono citati casi di donne che avevano richiesto di abortire dopo essere state inseminate artificialmente). E allora perché le motivazioni delle «madri vergini» suscitavano così tante perplessità? Perché il loro scambio di desideri doveva essere espressamente manifesto? È chiaro che era stato fatto un collegamento con la loro insolita situazione sociale e con il modo in cui esse la rappresentavano. L’identificazione della «sindrome» era basata esclusivamente sulle loro affermazioni riguardanti le relazioni. AI di fuori della clinica, l’opinione pubblica era divisa. In effetti, l’intero dibattito nell’area delle tecnologie della riproduzione è costituito da opinioni contrastanti. Alcuni giudicarono subito anormali, se non perverse, le persone affette da sindrome delle madri vergini e videro in loro una sfida all’ordine morale. Una persona
apertamente critica nei confronti delle misure per facilitare l'aborto
si espresse in questi termini'!°: Victoria Gillick accusò le imprese private. Disse: «Il settore privato
9? Lettera ai partecipanti al Convegno, 23 aprile 1991. 10 Cannell, Concepts of Parenthood, cit.
207;
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incrocerebbe gli uomini con gli animali se potesse trovare un mercato per i suoi prodotti. Non è più una questione di moralità. Si tratta solo di vedere chi è disposto a venderti quello che vuoi». E poi si chiese che tipo di donna poteva essere quella che voltava le spalle agli uomini e che sorta di educazione avrebbe dato a suo figlio. «Mi chiedo cosa questa donna dirà a suo figlio degli uomini e che tipo di impressione gli farà — aggiunse —. È da perversi voltare le spalle al modo normale e felice di concepire un figlio in un rapporto reale con un uomo. Questo è un esempio particolare di una mente fuorviata e traviata e dimostra quello che siamo diventati. Siamo una società in cui può succedere di tutto»!!.
La posizione opposta nel dibattito venne illustrata nella medesima rivista da una donna che aveva concepito tramite l’inseminazione da donatore: Lisa Saffron era una single, aveva trentadue anni e un bisogno disperato di avere un figlio. Senza l’inseminazione artificiale non avrebbe mai avuto la possibilità di creare una famiglia... «Deve essere molto peggio per quelle donne che restano incinte perché convinte che l’uomo stia con loro e si assuma le sue responsabilità, quando lui se ne va». Lisa appoggia senza riserve le madri vergini. «Non penso che abbia alcuna importanza che tu abbia avuto o meno un rapporto sessuale per concepire».
Se era l’autenticità del desiderio a porre dei problemi ai medici, ciò accadeva perché essi si vedevano addossare una responsabilità che andava al di là della donna che era venuta da loro. Contribuendo alla nascita di un bambino, erano responsabili della vita di un altro essere umano. Una delle motivazioni che avevano portato al convegno era il bisogno di porre problemi decisionali di questo genere nel contesto della legislazione appena emanata. Le leggi non potevano stabilire direttive per l'idoneità dei genitori, ma potevano sicuramente richiamare l’attenzione sui bisogni del bambino. Nel paragrafo 13 del Human Fertilization and Embriology Act, la legge del 1990, si afferma che: Una donna non potrà usufruire di nessun servizio o trattamento senza che si sia preso in considerazione il benessere del bambino che potrebbe nascere come risultato di quel trattamento (compreso il bisogno di quel bambino di avere un padre) e di qualsiasi altro bambino su cui quella nascita potrebbe avere delle conseguenze [corsivo mio].
11 In «Today», 11 marzo 1991.
12 Ibid.
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Le donne che richiedono la fecondazione assistita senza avere avuto, 0 desiderare di avere, un rapporto sessuale sembrano rifiutare precisamente ciò di cui il bambino ha bisogno, vale a dire la presenza di un padre. È ovvio che questo modo di vedere la questione sottintende una precisa concezione dei due sessi e un determinato modo di metterli a confronto. Il paragrafo della legge sopra citato presuppone che la donna che si sottopone al trattamento sia la madre. Presuppone anche che sia il suo desiderio di avere un figlio a portarla a richiedere un simile servizio. La legge, secondo le informazioni in mio possesso, non prevede i casi in cui un uomo che desideri avere un figlio disponga che una donna si serva delle tecniche di fecondazione
assistita,
negando, nel contempo, qualsiasi significato duraturo alla sua maternità. Per gli euro-americani è inconcepibile che un figlio possa nascere senza madre. Indipendentemente da chi ricopra il ruolo di sostituto della madre nella vita futura del bambino,la realtà del
rapporto madre-figlio è resa evidente anche a causa dell'elemento di fattualità presente nella concezione euro-americana di gestazione e
di nascita. Laddove gli sviluppi delle tecniche riproduttive differenziano e separano i diversi elementi del ruolo della madre, la nuova problematica deriva dalle richieste discordanti di una pluralità di «madri» e non dalla possibilità di bambini «senza madre». Non c’è bisogno di dichiarare esplicitamente il «bisogno di una madre» e le donne, a loro volta, esprimono un desiderio che viene considerato naturale quando affermano di volere dei figli. Rispetto ai padri, invece, si profila un insieme del tutto diverso di
presupposti. La paternità non si fonda sullo stesso tipo di fattualità. L'esistenza di un padre genetico viene dedotta dall’esistenza stessa del bambino, ma l’uomo che è il padre non viene identificato attraverso i processi con cui viene identificata la madre. La definizione stessa di paternità introduce un elemento di incertezza. È una convenzione culturale ritenere che il padre non possa mai «sapere» veramente se il figlio della donna sia anche il suo: il caso deve sempre essere dimostrato. Secondo la legge inglese, è il matrimonio con la madre del bambino a dare efficacia giuridica alla paternità.
Tuttavia, dentro o fuori dal matrimonio, c’è sempre la possibilità che un bambino nasca «senza padre». Per quanto sofisticate siano le tecniche odierne, persino l'identità genetica deve essere dimostrata e, nel caso in cui lo sia, l’inseminazione da donatore ha aggiunto l'ulteriore problema del riconoscimento o meno del padre genetico. 279
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Nel loro commento sulla legislazione inglese in materia, Morgan e
Lee sottolineano che, nel caso in cui, in un matrimonio, l’uomo
neghi alla moglie il proprio consenso a seguire un determinato tipo di trattamento della sterilità quando lei, invece, lo richiede, la legge, di fatto, prevede una categoria di «bambini senza padre». Il caso riguarda l’inseminazione da donatore in cui il donatore del seme, secondo le norme che proteggono l’anonimato del donatore, è già escluso dalla possibilità di essere il padre legale. Anche nel caso di una donazione anonima di ovociti, un bambino non potrebbe mai essere «senza madre» in questo stesso modo. Ciò che intendo sottolineare è che, in determinate circostanze,
non solo possono nascere figli senza padre, ma che per gli euro-americani questa possibilità non rappresenta assolutamente nulla di anomalo. Può creare problemi enormi alla madre o essere causa di angoscia per gli uomini che desiderano venga riconosciuta la loro paternità. Tuttavia, l’idea di un figlio senza padre non provoca un senso di indignazione morale. Anzi, «lo scoprire chi è il proprio padre» può essere trattato, nella narrativa, come una sorta di avventura psicologica. E, mentre per molte donne questo è causa di sofferenza, il padre può, di fatto, piantare in asso i suoi figli in qualsiasi momento dalla nascita in poi, senza essere considerato un mostro innaturale o una minaccia al tessuto della società. Per quanto gravi e svariati possano essere i danni arrecati al bambino — e, a questo proposito, la legge, nel sottolineare l’importanza del benessere del bambino, sottolinea anche il «bisogno» del bambino di avere un padre — egli è semplicemente negligente nel compiere il suo dovere. Le azioni dell’uomo non vengono considerate perverse. Un uomo che abbandona i propri figli nega le implicazioni riproduttive della relazione sessuale che li ha generati. Eppure, il fatto che i figli siano nati da questa relazione non fa del suo andarsene un atto mostruoso. Non vi viene visto nulla di patologico, non più di quanto sia considerato patologico per un uomo avere un rapporto e procreare bambini di cui potrebbe non conoscere mai, o rifiutarsi di riconoscere, l’esistenza. Può semplicemente negare che le conseguenze del rapporto — il bambino — abbiano qualcosa a che fare con lui.
13 D. Morgan-R.G. Lee, Human Fertilisation and Embriology Act 1990: Abortion and
Embryo Research, the New Law, London, Blackstone Press Ltd, 1991.
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È culturalmente accettabile, quindi, che un uomo desideri un rapporto sessuale ma non il figlio che da questo viene prodotto. Nella cosiddetta sindrome delle madri vergini la donna desidera un figlio, ma non il rapporto sessuale che normalmente lo genera. Perché tutto questo scalpore? In effetti, a una prima analisi, la soluzione asessuata alla genitorialità sembrerebbe essere il logico punto d’arrivo di determinati valori inerenti ai sistemi euro-americani di parentela. Mentre la paternità è contingente a legami che devono essere dichiarati o provati, la relazione madre-figlio sembra essere un fatto naturale della vita. Le donne che desiderano essere madri fanno semplicemente quello che è nella loro natura fare. E allora perché questo scalpore quando le donne desiderano negare, prima del concepimento del figlio, il rapporto sessuale la cui conseguenza un uomo può negare senza scalpore alcuno in qualsiasi momento, dopo il concepimento? A mio avviso, il dichiarato «bisogno di un padre» non può essere compreso interamente se considerato soltanto in rapporto ai bisogni del figlio. Si sottintende, in modo molto chiaro, che quello che conta è l'educazione del figlio e tutto ciò che è meglio per lui. Ma si tratta di un riferimento accidentale nel contesto della contingenza culturale altrimenti attribuita alla paternità. Sembra, quindi, che il desiderio delle donne di evitare il rapporto sessuale denunci una questione più generale. Il bisogno di rapporti sessuali
Si rifletta sul modo in cui viene espresso il bisogno che il figlio ha del padre. Quando lo scalpore sulle madri vergini portò alla discussione di un caso di Birmingham alla Camera dei Comuni, il ministro della sanità, secondo quanto riferito dai media", disse che
le cliniche in cui si presentavano donne che non avevano mai avuto rapporti sessuali dovevano mettere al primo posto il bisogno del bambino, vale a dire, il bisogno che il bambino aveva del padre. In altre parole, la madre deve dimostrare che il bambino ha bisogno di un padre. Apparentemente, questo è conforme all’idea che un uomo può 14 In «Daily Express», 12 marzo 1991.
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rivendicare la propria paternità soltanto tramite il matrimonio con la moglie, oppure, al di fuori del matrimonio, tramite la relazione di natura sessuale con la partner. Egli è subordinato al riconoscimento dell’atto sessuale da parte della donna, mentre lei, a questo proposito, non è dipendente da lui nello stesso modo. È quindi culturalmente accettabile che il padre affermi o neghi il bisogno che un figlio ha del padre. Sembrerebbe inaccettabile, da parte della 724dre, togliere all'uomo questa possibilità di scelta. Ma la questione è ancora più complessa. Per alcuni dei partecipanti al dibattito, il nocciolo della questione non sembrava essere il rapporto sessuale con il padre reale del bambino - in effetti, nel contesto del trattamento della sterilità, l’atto
sessuale è abitualmente eluso e l’identità del padre genetico non è necessariamente quella del padre sociale. Ciò che provocò più critiche era l’idea che una madre non avesse mai avuto dei rapporti sessuali, con nessun uomo, o che dicesse esplicitamente che non intendeva averne. È come se richiedesse assistenza nella riproduzione specificamente allo scopo di negare la componente sessuale della procreazione. Inoltre, secondo il modo di vedere di alcune persone,
è il sesso in quanto tale, e non l’eterosessualità, ad avere importanza: l’assistente che inizialmente identificò la sindrome in «The Lancet» arrivò a dire che questa riguardava «donne che vogliono bambini, ma non vogliono un partner, sia questo un uomo o una donna». È l’idea che la donna neghi un rapporto sessuale di qualsiasi tipo che sembra costituire il problema. Secondo la tradizione, per gli euro-americani è opportuno che i bambini crescano nell’ambito di una famiglia e che imparino dai genitori il significato di un rapporto d’amore. Nel contesto della cerchia familiare, il rapporto sessuale tra i genitori è considerato alla base dell’amore coniugale su cui è fondato l’amore familiare. Il sesso è, quindi, un simbolo della naturalità della relazione coniugale, di
cui il bambino è considerato una conseguenza altrettanto naturale. Il rapporto sessuale non è limitato al matrimonio, ma non è questo il punto. Il punto è che, all’interno dell’unione coniugale, il sesso svolge un importante servizio simbolico. Da un lato, risponde a una necessità biologica e, dall'altro, stimola l’amore tra i genitori che è anche l’amore dei genitori per i figli. Se il sesso rappresenta il 5 Jennings, introduzione al Convegno.
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connubio dell’uomo e della donna come coppia, l’idea della loro unione, il rapporto sessuale sta a significare l’importanza della relazione in quanto tale. Questa concezione relazionale del significato del rapporto sessuale è stata citata più volte nei dibattiti pubblici. Saremmo profondamente turbati da qualsiasi elemento che portasse la genitorialità al di fuori del contesto di una relazione fra marito e moglie'‘. Il vescovo di Birmingham, il reverendo Mark Santer, ha affermato: «Il . posto adatto per ricevere il dono di un figlio è all’interno di un rapporto di relazione fra un uomo e una donna che hanno preso un impegno, l’uno nei confronti dell’altro, corpo, mente e anima, per tutta la vita». [Il quotidiano aggiunge:] Questa è, ovviamente, la descrizione di un ideale, ma è un ideale a cui rinunciamo a nostro rischio e pericolo!.
Non si potrebbe formulare più chiaramente l’affermazione che ad essere in questione è il significato simbolico dell’atto sessuale: esso rappresenta l'impegno della coppia e questo impegno viene rappresentato come un ideale. Alla nozione di ideale segue l’altra nozione che, per mantenere intatto il tessuto della società, gli ideali devono essere protetti. Nel quotidiano «Daily Express», si afferma che un medico generico dichiarò che era già negativo il fatto che, in Inghilterra, 750 mila «bambini vittime di divorzi» avessero perso qualsiasi tipo di contatto con i propri genitori; come
si poteva,
quindi, prendere le difese di un genitore che progettava fin dall’inizio che un figlio dovesse essere senza padre? I padri assenti sono tali (si insinuava) per tutta una serie di capricci della fortuna, ma progettare che non ci debba essere un padre mette in discussione l’ideale. Tuttavia, nell’atto di unione di una coppia in termini del loro impegno reciproco, viene a crearsi anche un contro-simbolo: le due parti potrebbero differenziarsi rispetto al grado del loro impegno e, in questo caso, l’impegno degli uomini è convenzionalmente minore di quello delle donne. L’ideale è soprattutto espresso dal desiderio della donna di avere un figlio attraverso il rapporto sessuale. Gli euro-americani ritengono che la procreazione debba avere
luogo nel contesto di un rapporto che, in condizioni normali, è sia coniugale sia sessuale: il partner sociale è anche il partner biologico.
16 Portavoce della Chiesa Cattolica, in «The Times», 12 marzo
1991.
17 In «Daily Express», 12 marzo 1991; in «Daily Telegraph», 12 marzo 1991. 18 12 marzo
1991.
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Quando una donna preclude la possibilità di un rapporto sessuale, sembra negare anche quella sorta di relazione fra partner che sta alla base della vita familiare. Poiché il rapporto sessuale è il simbolo dell’unione dei due partner e rende quell’unione necessaria al concepimento dei figli, gli euro-americani insistono sull’equivalenza formale dei due partner: ognuno dei due, si ritiene, ha un uguale rapporto di relazione con il figlio. Nel contempo, però, uno dei genitori è meno necessario dell'altro — e l'onere di provare che esiste un’unione ricade maggiormente su un partner piuttosto che sull’altro. In breve, le donne sono le custodi dell'ideale. Sono loro che devono dimostrare che la procreazione è un fatto naturale, che devono stabilire la possibilità che il figlio avrà un padre e che, con la loro disponibilità al rapporto sessuale, devono rendere evidente che i bambini sono nati necessa-
riamente da una relazione. Il legame sessuale, in altre parole, sembrerebbe simboleggiare il bisogno di relazioni in quanto tali. Al limite, qualsiasi tipo di relazione — con persone dello stesso sesso o di sesso diverso — è in grado di trasmettere questo messaggio. L’apparente scandalo suscitato dalle donne della sindrome delle madri vergini era dovuto al fatto che sembravano negare la necessità della relazione in quanto tale. Tuttavia, se il «bisogno di un padre» evoca immediatamente la contingenza della paternità nel sistema di parentela euro-americano, il «bisogno di una relazione» fa altrettanto. Non è certo che il bambino verrà a trovarsi in un contesto di relazioni: una casa deve essere «costruita». Il figlio, come i due genitori, può similmente essere contestualizzato, usando le parole di Franklin, come un individuo «senza relazioni». Ho affermato in precedenza che il rapporto sessuale ricopre un ruolo concettuale o simbolico, oltre che tecnico, nella concezione
euro-americana e che questo è dovuto al modo in cui sembra creare un rapporto di relazione fra i genitori. Arriverei ad affermare che, da un certo punto di vista, è il rapporto stesso a creare il genitore. Tuttavia, nel congiungere un uomo e una donna, l’atto sessuale porta alla congiunzione due persone già differenziate in base al genere e in questa differenziazione è compreso il significato che esse danno all’atto stesso. Si dà per scontato che uomini e donne abbiano una prospettiva diversa del loro impegno nella relazione e un confronto è inevitabile. La sindrome delle madri vergini rende esplicito questo elemento. Personalmente, ho il sospetto che il 284
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confronto sia caratteristico della concezione euro-americana di parentela e, per esplorare ulteriormente questo punto, prenderò in considerazione alcuni degli elementi etnografici venuti alla luce nel corso del dibattito.
IL DIBATTITO
SULLE
MADRI
VERGINI
Il dibattito, nella forma in cui esplose in due riviste di antropologia sul finire degli anni sessanta, comprendeva un riesame degli studi etnografici di Malinowski sulle isole Trobriand. Da allora, si è assistito a un germogliare di ricerche sulla Melanesia e gli antropologi ora guardano a queste problematiche in un clima teorico profondamente mutato: dal punto di vista etnografico, essi concordano sul ruolo di procacciatore di cibo svolto dal padre! nei sistemi matrilineari di quelle regioni; dal punto di vista teorico, hanno accettato l’idea che tutto sia «costruito» e ora, forse, non riuscirebbero più a
discutere di quei temi con l’animosità di un tempo. Allora, il dibattito era incentrato sul significato dell’apparente ignoranza della paternità fisiologica osservata nelle Trobriand e su come questa ignoranza dovesse essere interpretata. Ora, potrebbe vertere sulla natura «costruita» della comprensione dei processi naturali. Sebbene abbia accennato agli abitanti delle Trobriand, non è mia intenzione ripetere nei dettagli quelle risultanze etnografiche. Piuttosto, vorrei riflettere sulla situazione delle Trobriand passando sia per il dibattito sulle madri vergini degli anni sessanta sia per la sindrome delle madri vergini degli anni novanta. Nel processo, farò notare come elementi del pensiero euro-americano sulla parentela siano stati utilizzati per spiegare materiale non-occidentale: questo sarà visto nello specifico contesto del dibattito sulle nuove tecnologie riproduttive, che sta smantellando molte delle tradizionali ipotesi euro-americane sul rapporto tra cultura e natura e, in particolar modo, la concezione di parentela come «costruzione» sociale di fatti naturali”.
19 D. Battaglia, «We Feed Our Father»: Paternal Nurture Among the Sabarl of Papua New Guinea, in «American Ethnologist», n. 12, 1985, pp. 427-441. 20 C. Delaney, The Meaning of Paternity and the Virgin Birth Debate, in «Ma», n. 21, 1986, pp. 494-513; M. Strathern, After Nature: English Kinship in the Late Twentieth Century, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.
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La sindrome delle madri vergini comportava esattamente questo sovvertimento di ipotesi. Le questioni sollevate dalle richieste delle donne mettevano in risalto determinati «bisogni» che sono alla base delle relazioni esistenti fra rapporto sessuale, concepimento e presenza del padre nella famiglia, in quanto erano proprio questi bisogni che i desideri delle donne sembravano voler evitare. Se uno era il bisogno di un padre da parte del figlio, l’altro era il bisogno di rapporti sessuali da parte della madre. Entrambi indicano ciò che potrebbe essere più generalmente definito «bisogno di relazioni». Partendo dalla differenza tra i sessi e dalla riproduzione dei figli, partendo, cioè, da processi naturali, gli euro-americani trasformano
in vita sociale tutto il materiale di loro conoscenza, comprese le relazioni che sono, quindi, costruite e create. Che siano in accordo o meno con i processi naturali, la loro manifestazione sociale è sotto il controllo umano. Forse, l'elemento scandaloso delle madri vergini risiedeva nel fatto che esse sembravano fare della tecnologia un mezzo per aggirare questa cruciale attività di costruzione. Da queste osservazioni emerge, in modo evidente, un elemento molto noto e dibattuto dei sistemi euro-americani di parentela. Il rapporto madre-figlio in se stesso non è sufficiente ad esprimere la socialità: è necessaria una terza persona. Questo è il motivo per cui,
secondo questa concezione, le donne da sole non «cultura» o la «società». È un assioma oggetto da critica femminista?! In questa sede, mi limiterò anche la società si presenta come un bisogno e
possono creare la lungo tempo della ad osservare che che questa stessa
formulazione è un manufatto, tra gli altri, della parentela. Quando il
«bisogno della società» o il «bisogno di relazioni» vengono presentati come il bisogno del marito o del padre da parte della moglie o del figlio, allora vengono fatte contemporaneamente due affermazioni diverse. La prima riguarda la posizione inevitabilmente asimmetrica che uomini e donne, in quanto persone sessuate, occupano gli uni nei confronti delle altre; la seconda riguarda l’ipotesi di base che i rapporti, e la società stessa, seguano ai fatti, vale a dire che siano costruiti o imposti o debbano essere creati dagli sforzi umani. Gli elementi primari sono entità naturali: persone già individualizzate e uomini e donne già differenziati.
21 K. Sacks, Sisters and Greenwood Press, 1979.
Wives:
The Past and Future
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of Sexual Equality,
London,
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Ciò che il materiale sulle Trobriand ci aiuta a capire è il modo in cui 47:che gli stessi simboli della relazione nel pensiero euro-americano sulla parentela — rapporto sessuale e paternità — riproducano quei presupposti «senza relazioni» su un mondo naturale i cui elementi primordiali sono individualizzati e differenziati. Stabilire legami attraverso il sesso Ciò che aveva disorientato i primi studiosi rispetto a luoghi come le Trobriand era l’apparente ignoranza del legame fra rapporto sessuale e gravidanza. Fin dall’inizio, il fenomeno venne interpretato come ignoranza del ruolo del padre, non della madre, nella procreazione. Il ruolo della madre fu considerato assiomatico: la questione da discutere era se queste popolazioni sapevano che il padre era necessario. In effetti, il dibattito che seguì, a un certo punto, si
trasformò in un cherchez le père: gli antropologi si misero a cercare il surrogato del padre. In altre parole, se l’uomo non era responsabile
della gravidanza della donna, allora doveva esserlo qualche altra
entità, nel caso delle Trobriand gli spiriti matrilineari. Effettivamente, come Weiner? e altri hanno sottolineato, la coppia riproduttiva nelle Trobriand è costituita da due esseri umani che, però, non
hanno rapporti sessuali: la diade fratello-sorella all’interno del sistema matrilineare. Ma il dibattito venne alimentato dal modello euro-americano di procreazione umana che affondava le sue radici nei fatti naturali. Il modello presupponeva una continuità diretta fra riproduzione sociale, concepimento fisiologico e rapporto sessuale. Uno dei problemi che l’etnografia delle Trobriand aveva posto a Malinowski era che, mentre il rapporto fratello-sorella era apertamente asessuato (e doveva essere visibilmente mantenuto tale da tabù), gli isolani
basavano la vita familiare su un rapporto sessualmente attivo fra persone che avrebbero potuto ragionevolmente essere descritte 2 AB. Weiner, Women of Value, Men of Renown: New Perspectives in Trobriand Exchange, Austin, University of Texas Press, 1976; Id., Sexwality Among the Anthropologists: Reproduction Among the Informants, in F.J.P. Poole e J. Herdt (a cura di), Sexual Antagonisra,
Gender, and Social Change in Papua New Guinea, Social Analysis, edizione speciale, n. 12, 1982; B. Malinowski, The Sexual Life of Savages in North-Western Melanesia, London, Geo Routledge and Sons Ltd, 1929, pp. 176-177, trad. it. La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia occidentale, Milano, Feltrinelli, 1981.
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che, inoltre, erano viste in un
rapporto di relazione con i bambini della casa. In altre parole, vivevano cozze se il ruolo fisiologico del padre fosse «riconosciuto». Leach?® ipotizzò che lo fosse e il suo perfezionamento delle posizioni di Malinowski va ricercato proprio nell’asserzione che le affermazioni di ignoranza fossero dei dogmi per avvalorare le idee sui rapporti fra l'umano e il soprannaturale nella costituzione del sistema matrilineare. L’interesse originale di Malinowski nella posizione apparentemente anomala del padre nelle Trobriand nacque nel contesto dei suoi studi sul «diritto materno», il sistema matrilineare di parentela che egli delineò per queste isole: esso riguardava le basi dell’ordine sociale e il duplice esercizio dell’autorità legale, o giuridica, e dell’ascendente emotivo. Se esisteva una differenza tra il ruolo della madre e il ruolo del padre, e tra la parentela della madre e quella del padre, allora questo aveva a che fare con la differenziazione dei diritti e delle rivendicazioni che le persone avanzavano le une nei confronti delle altre. Il fatto che il diverso ruolo sessuale dei genitori fosse visto come una sorta di punto chiave ci riporta alla concezione euro-americana relativa al modo di conoscere i genitori, e cioè la certezza del ruolo della madre nella procreazione rispetto all’incertezza di quello del padre. Nelle teorie antropologiche inglesi di metà Novecento,
questa nozione venne
trasformata in una prova per
determinare il significato dell’appartenenza ai gruppi di discendenza. Grazie all’intervento di Leach*, il dibattito sulle madri vergini degli anni sessanta venne ad includere un tentativo di sbloccare l’interesse nella differenza tra i generi dalle preoccupazioni degli antropologi inglesi che si occupavano del genere soprattutto per via del suo ruolo giuridico nella formazione dei gruppi di discendenza. Il dibattito finì con l’includere tutta una serie di disquisizioni sull’ignoranza, sul dogma e sulla psicologia, ma era parte del più vasto progetto di Leach introdurre elementi di pensiero «strutturalista» nei modelli di discendenza che, a quel tempo, dominavano gli interessi degli antropologi inglesi nei confronti della parentela”. 2 E.R. Leach, Virgin Birth, in «Proceedings of the Royal Anthropological Institute of
Great Britain and Ireland», 1966, pp. 36-49.
24 Ibid.
% E.R. Leach, Retbinking Anthropology, London, The Athlone Press, 1961.
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Accettò l'autonomia culturale delle contrapposizioni e delle analogie avvertite nel modo in cui erano ripartiti gli attributi dei generi. Se collegò sempre il dogma all’interesse (compresi gruppi di interesse come i gruppi di discendenza), nella sua concezione, tuttavia, il
dogma possiede anche una costruzione interna: le differenze (come quelle fra i generi) erano modellate su altre differenze (come il contrasto fra l'efficacia umana e quella soprannaturale). Secondo entrambi i punti di vista, l'intervento di spiriti ancestrali nella creazione dei discendenti in linea materna delle Trobriand rendeva logica l'esclusione del ruolo del padre dalle teorie del concepimento. Tuttavia, in un senso molto profondo, non si trattava
affatto di esclusione: quel ruolo, infatti, non era mai stato presente. Il padre era «assente» dal concepimento soltanto secondo il punto di vista euro-americano.
Il materiale sulle Trobriand presenta una miriade di elementi che trascendono le tradizionali nozioni euro-americane sulla continuità fra rapporti sessuali, gravidanza e riproduzione umana: si potrebbe quasi affermare che non contiene nulla di simile all’idea euro-americana di «concepimento» come atto di fecondazione. Nelle Trobriand, la coppia riproduttiva è formata dal fratello e dalla sorella; l'impianto dell'embrione avviene per mezzo degli spiriti matrilineari; il rapporto sessuale avviene tra il marito e la moglie. L'elemento importante è che ognuno di questi atti implica una relazione: la relazione duratura fra i membri della stirpe, l’affiliazione del bambino alla propria discendenza ancestrale, la gestione della casa basata sul lavoro congiunto della coppia. Inoltre, la crescita del figlio, che gli euro-americani considerano un processo naturale e spontaneo, nelle Trobriand viene resa possibile dall’azione di procurare il cibo compiuta dall’uomo che ha il rapporto sessuale con la madre del bambino; il rapporto è uno strumento di quel legame fondato sul nutrimento. Nel corso di tutto il dibattito sulle madri vergini, l'assenza del ruolo fisiologico del padre non fu mai interpretata come assenza di una relazione, bensì (da alcuni antropologi) soltanto in termini di
assenza di conoscenza. La separazione del padre delle Trobriand dal processo di fecondazione ha, ovviamente, risvolti estremamente significativi al momento di collocare il figlio nel contesto degli altri rapporti. Tuttavia, se è un dogma culturale che il rapporto sessuale non contribuisca a dare origine inizialmente alla formazione del bambino, allora questa separazione è presunta, non è dovuta a una 289
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PADRI?
mancanza. Il momento iniziale non dipende dal rapporto sessuale”. Eppure, i bambini hanno un padre. I padri delle Trobriand sono estremamente importanti, ma il loro tipo di legame è somatico, piuttosto che genetico. In altre parole, si ritiene che il padre sia responsabile dei lineamenti esteriori del bambino, che egli crea attraverso il rapporto sessuale, prima della nascita e, procurando il nutrimento, dopo la nascita. Il rapporto sessuale non è necessario alla fecondazione, ma è necessario perché la donna dia alla luce un bambino completamente formato. Il padre, non solo «apre la strada», ma si adopera per «imprimere» i suoi lineamenti e per far crescere il feto, un processo che poi continuerà dopo la nascita”. Il padre delle Trobriand è soprattutto un procacciatore di cibo*. Come sostiene Malinowski, il padre nutritore non ha con il bambino lo stesso tipo di «relazione» che hanno con lui i parenti della madre. Egli mantiene lo status di parente acquisito?. E, in effetti, alla fine, tutto il nutrimento che egli procura al bambino deve essere ripagato dai parenti da parte di madre del bambino oppure dal bambino stesso. L’azione di nutrizione del padre, quindi, appartiene letteralmente alla superficie esterna del bambino; la sua essenza interna, come il suo impianto nella madre, deriva interamente dalla madre e dai parenti di lei’. Nelle Trobriand, quindi, la
differenza tra il padre e la madre è resa molto esplicita. Essi vivono un tipo di rapporto che viene creato dal flusso di doni e di ricompense che scorre fra loro. Quando
una persona muore,
il
contributo del padre è finalmente saldato e la persona si unisce soltanto ai propri antenati materni. Che significato ricopre il rapporto sessuale in una situazione di questo tipo? Da un lato, è separato dalla fecondazione e reso manifesto dal nutrimento e dalla formazione dei lineamenti esteriori. Dall'altro, sta a significare un qualche tipo di relazione fra i genitori. Il rapporto che si viene a creare fra i due, tuttavia, presuppone sempre una certa distanza: nella coppia coniugale ognuno dei due partner mantiene la propria distinta identità; ciascuno ha un rapporto molto diverso con il figlio e, in caso di morte, il legame 26 Weiner, Women of Value, cit. 27 Malinowski, The Sexual Life, cit., p. 176. 2 Weiner, Worzen of Value, cit., p. 123.
2 A questo proposito, tuttavia, si veda /bid., p. 124. 30 Si veda la critica di M. Strathern, The Gender of the Gift, Berkeley e Los Angeles, University of California Press, 1988.
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paterno è considerato effimero, mentre il vincolo materno dura nel tempo. I/ rapporto di relazione non è basato sull'idea di unione. Lungi dall'essere uniti, marito e moglie sono perennemente separati. I parenti della moglie sono in debito nei confronti dell’uomo per il nutrimento che egli ha procurato al bambino ed egli rimane (usando le parole di Malinowski) uno «straniero» per i suoi figli. Si tratta, quindi, di una cultura molto esplicita nel differenziare il ruolo materno e il ruolo paterno rispetto alla genitorialità, una cultura che basa su questa differenza il rapporto fra i due partner. Il padre è disgiunto dall’iniziale venire al mondo del membro della società matrilineare; in seguito, il suo legame con il nuovo essere
vivente si basa sull’azione di fornirgli il cibo, ma termina in caso di morte. E le relazioni stesse sono separate le une dalle altre”. Attraverso i doni e azioni di altro genere, gli abitanti delle Trobriand creano deliberatamente delle differenze: tra fratello e sorella, che sono tenuti separati dai tabù sull’interazione; tra padre e figlio, che instaurano un rapporto basato sullo scambio; tra marito e moglie, che sono divisi a livello di identità all’interno del sistema matrilineare. In questo contesto, le regole che si applicano al rapporto sessuale contribuiscono ad incrementare le differenze, separando il ruolo dell’uomo da quello del fratello, il ruolo del fratello da quello della madre. Il marito non è un sostituto del fratello e il rapporto sessuale non lo «unisce» alla moglie. Torniamo ora al ruolo simbolico ricoperto dal rapporto sessuale nelle concezioni euro-americane che si svilupparono nel corso del dibattito sulla sindrome delle madri vergini. Secondo l'opinione di molti, le donne che chiedevano di poter procreare senza avere avuto un rapporto sessuale desideravano una genitorialità senza relazioni: nella critica che seguì, invece, il sesso
venne assunto a simbolo della relazione stessa. Sebbene il rapporto sessuale sia considerato dagli euro-americani il fondamento e la giustificazione del legame coniugale e procreativo, tuttavia, i suoi significati non possono essere circoscritti soltanto ai significati che esso assume all’interno di quel tipo di legame: può essere usato anche per trasmettere delle gratificazioni di natura essenzialmente individuale. È considerato culturalmente accettabile, ad esempio, in 31 Ibid. 32 R. Wagner, Analogic Kinship: A Daribi Example, in «American Ethnologist», n. 4, 1977, pp. 623-642. Si
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termini di supremazia sessuale, essere deliberatamente scelti a spese di altri. Evocare l’importanza del sesso nei riguardi del concepimento e della genitorialità non significa evocare soltanto il calore dell’unione coniugale, ma anche tutta una serie di modi diversi di intendere i desideri naturali. In effetti, è piuttosto ironico che il sesso, che per gli euro-americani è il simbolo di una relazione, sia questo soltanto nel contesto di una relazione. In sé, esso è, per così dire, neutrale rispetto al fatto
che in seguito abbia origine o meno una relazione di un genere o di un altro. Inoltre, come ho detto in precedenza, uomini e donne sono
convenzionalmente differenziati su questo punto: vengono comunemente messe a confronto le circostanze in cui il sesso porta a una relazione duratura (culturalmente attribuite ai desideri delle donne)
e quelle in cui, invece, questo non avviene (culturalmente attribuite ai desideri degli uomini). Nelle Trobriand, le immagini legate al rapporto sessuale possono trovarsi sia in relazioni con implicazioni negative (immagini di ostilità), sia in relazioni con implicazioni positive (immagini di nutrimento). Nella cultura euro-americana, invece, il rapporto sessuale può significare tanto la presenza quanto l'assenza della relazione in quanto tale. Per gli euro-americani, all’interno delle relazioni stabilite dal matrimonio o dalla famiglia, il rapporto sessuale è il simbolo dell’unione dei partner e del loro amore reciproco. Ma esso esiste anche al di fuori di relazioni di questo genere. Se si pensa alla famiglia non come a un insieme di parenti, ma come a una casa con dei beni da amministrare, ad esempio, il sesso può essere usato come uno strumento di potere e di dominio. Se si pensa, invece, al padre e alla madre non come a dei genitori, ma come a degli amanti, allora il
sesso evoca il piacere e la gratificazione che i singoli individui ricercano tanto per se stessi quanto per il loro partner. Queste due dimensioni appaiono anche in contesti estranei alla vita familiare. Il rapporto sessuale può essere trattato come una merce da essere venduta (prostituzione) o imposto come piacere da prendersi senza riguardo alcuno per l’altra persona (stupro). Può essere usato come un'attrazione per vendere prodotti (pubblicità) o come un incitamento alla violenza, personale o fisica (pornografia). In questi casi, lungi dall'essere simbolo di una relazione, viene compiuto ogni sforzo per separare l’atto da qualsiasi significato che possa avere vincoli duraturi. Viene enfatizzato l’individuo come il soggetto della gratificazione. 292
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In breve, per gli euro-americani
DI
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il sesso
è sia solitario, sia
relazionale. Coloro che mossero critiche alle donne che volevano un concepimento senza rapporti sessuali arrivarono alla conclusione che esse desideravano una genitorialità senza relazioni essenzialmente per due motivi: il tradizionale collegamento che, nelle concezioni sulla parentela, unisce il sesso alla procreazione e l’immaginario legato ai due sessi, che fa sì che sia nel ruolo della donna, piuttosto che nel ruolo dell’uomo, dimostrare questo insieme di collegamenti. Per dimostrare questo (per fare, cioè, del rapporto sessuale il fondamento della relazione duratura fra i genitori), la donna deve anche agire, secondo le convenzioni euro-americane, contro determi-
nati e ben precisi fatti naturali, compreso il desiderio del sesso fine a se stesso. Stabilire legami attraverso la paternità
Un’interpretazione diversa del dibattito sulle madri vergini viene avanzata da Delaney”, la quale sostiene che il punto in questione non è tanto l'ignoranza degli abitanti delle Trobriand (e di altri) rispetto alla paternità, quanto l’ignoranza degli antropologi. In altre parole, li accusa di non conoscere la propria cultura. Innanzitutto, non hanno compreso il sottofondo cristiano legato al simbolismo della nascita da una vergine, con le sue idee monogenetiche di creazione. In secondo luogo, hanno ignorato il fatto che le conoscenze in campo genetico sono molto recenti, così come il riconoscimento dei cosiddetti fattori naturali della procreazione, che attribuisco-
no poteri generativi (in contrasto con altri generi di poteri) tanto alla madre quanto al padre. Per i loro interrogativi, sarebbe stato un miglior termine di paragone un modello «occidentale» più vecchio di procreazione. Nelle concezioni più antiche, sostiene Delaney, la paternità non era mai considerata semplicemente la controparte maschile della maternità. «Maternità voleva dire dare alla luce e dare nutrimento. Paternità voleva dire generare»*. Aggiunge che la paternità intesa in questo senso implicava un ruolo creativo primario. Secondo questa
3 Delaney, The Meaning of Paternity, cit. 34 Ibid., p. 495.
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concezione, è irrilevante che il padre sia umano o divino: il padre è iniziatore e creatore e il momento originario è culturalmente inteso come singolare. Questa teoria monogenetica della creazione, ritiene, è esemplificata nella storia cristiana della nascita da una vergine. In questo senso, ovviamente, non si può certo affermare che gli abitanti delle Trobriand posseggano il concetto di paternità. Sottolinea poi che, a differenza di Malinowski, coloro che avevano preso parte al dibattito sulle madri vergini sostenevano una teoria genetica della procreazione e, quindi, un modello duogenetico della genitorialità. Tuttavia, e questo rafforzerebbe la tesi di Delaney, sembra che l’idea monogenetica (più antica, occidentale) di un'unica fonte originaria degli esseri umani sia più vicina alla visione duogenetica (moderna, euro-americana) della procreazione che alle teorie sulle Trobriand. Quando gli euro-americani del ventesimo secolo insistono sul contributo di entrambi i genitori, essi vogliono affermare che esistono due punti originari, ma che ognuno dei due è, per così dire, smgolare. Dal punto di vista degli abitanti delle Trobriand, l'essere umano completo è :/ risultato multiforme delle azioni di molti altri esseri ed è influenzato in modo fisico dalle sue interazioni con gli altri per tutto il corso della sua vita. Nell’impiantare un bambino, lo spirito matrilineare, in realtà, impianta soltanto un’entità matrilineare: nella sua forma pura, un’entità di questo genere non è viva. Acquista vita soltanto grazie al nutrimento paterno e agli sforzi che altre persone sono disposte a compiere. L’essere umano vivente delle Trobriand, quindi, ha genitori che, contribuendo alla sua formazione con caratteristiche alquanto diverse, lo pongono al centro di rapporti alquanto diversi. La teoria duogenetica degli euro-americani moderni, invece, moltiplica semplicemente per due il contributo genitoriale: è come se la persona sia stata generata da due procreatori individuali, così come ha sempre avuto due «parti» nel riconosci-
mento bilaterale della parentela del padre e della parentela della madre. A questo punto, tuttavia, un elemento della sindrome delle madri vergini degli anni novanta ci invita a riflettere sull’asimmetria fra uomo e donna. Ho affermato precedentemente che il padre potrebbe essere introdotto nel dibattito sulla sindrome delle madri vergini come il segno della relazione. Una concezione monogenetica del padre come unico procreatore e creatore implicherebbe che la madre è poco più di una portatrice o di un contenitore (come avviene nell’esempio 294
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della Turchia preso in considerazione da Delaney, che presenta, a suo parere, elementi in comune con la tradizione biblica). Ma supponiamo che l’uomo che crea il figlio sia anche considerato, in un certo senso, il creatore della madre. Egli costituirebbe l'origine dell’atto creativo e, contemporaneamente, avrebbe un rapporto di relazione con la madre: grazie alla sua capacità creativa individuale una relazione verrebbe ad esistere, tanto in una teoria monogenetica, quanto in una teoria duogenetica della procreazione. In quest’ultima, egli non sarebbe l’unico procreatore (genetico), ma il suo «unico atto» sessuale è tutto quello che viene richiesto perché la donna sia fecondata. Queste osservazioni potrebbero sembrare frutto di comune buonsenso, se non fosse per il dibattito sulla sindrome delle madri vergini. In assenza di qualsiasi altro intervento creativo, infatti, il medico si trova nella posizione compromettente di sentirsi l’unico creatore. I medici londinesi, come ebbero a dire in rapporto alla sindrome delle madri vergini, nutrivano la preoccupazione, fonte di grande inquietudine, che il loro ruolo fosse molto simile a un ruolo sessuale. Le donne si presentavano come vergini, ma il senso di fastidio che i medici dimostravano a questo proposito stava ad indicare che il problema si estendeva ben al di là della spiegazione dei tecnicismi che la verginità rendeva difficile. Echeggiando una frase sulle Trobriand, se solo ci fosse stato — ad un certo punto — un uomo (0 persino una donna) ad «aprire la strada», allora il medico che praticava l’inseminazione da donatore non avrebbe avvertito allo stesso modo la propria ingerenza. Così come stavano le cose, essere
il primo a penetrare — per quanto indirettamente — era un’offesa al senso di proprietà sessuale. Nel caso delle Trobriand, l’atto sessuale dell’uomo serve a dare
forma sia al corpo del figlio sia al passaggio attraverso cui il figlio verrà alla luce. Il senso di fastidio dei medici inglesi potrebbe forse
derivare, apparentemente, dalla loro sensazione di imbarazzo sessuale verso la penetrazione del corpo della donna, piuttosto che verso il processo del concepimento. Per quanto riguarda quest’ultimo, infatti, essi si limitavano ad agevolare il processo di fecondazione e di impianto dei gameti, che erano la fonte diretta dell'essenza e
dell’identità future del bambino; personalmente, essi non erano nulla di tutto questo. In altre parole, come il padre delle Trobriand, normalmente il medico che cura la sterilità ricopre il ruolo dell’agente agevolatore. A differenza del padre delle Trobriand, invece, il 295
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medico non si aspetta che la sua azione creerà una relazione duratura con il bambino o sarà la base di un rapporto di relazione con la madre. Tuttavia, se un unico atto sessuale è sufficiente a fecondare una donna, questo potrebbe anche sembrare un atto che prepara la donna alla maternità. A un esame retrospettivo, forse, la sindrome delle madri vergini ci può dire qualcosa sul dibattito sulle madri vergini. Quest'ultimo aveva toccato determinate ipotesi sulla conoscenza (dogmatica) che non furono rese esplicite, ma si trattava di una conoscenza relativa alla maternità e non alla paternità. Probabilmente, uno dei problemi epistemologici posto dalle concezioni sulle Trobriand riguardava l’idea della maternità svincolata dal sesso. Un tempo, la combinazione formata, da un lato, dal processo biologico della madre che dà alla luce e, dall’altro, dal suo concepire attraverso un rapporto sessuale, era alla base delle concezioni euro-americane di parentela. La gravidanza era il segno di un legame di natura sessuale da parte della madre. Non solo questo legame era precedente nel tempo, necessario e dimostrato dalla gravidanza, ma gli euro-americani pensavano che lo sviluppo dell'embrione fosse un processo spontaneo e inevitabile, susseguente al momento del concepimento. Il corpo della madre avrebbe risposto automaticamente al processo di crescita del feto, una volta che questo fosse stato «avviato». Nell’insieme di concetti che circondano le concezioni euro-americane sul concepimento, ci troviamo forse di fronte all’idea che il corpo della madre debba essere preparato per il figlio. Ma la preparazione deve avvenire prima: qualsiasi tipo di rapporto può andare bene. Ciò che preoccupa i medici è l'impianto di un embrione fecondato in un corpo non preparato dal sesso. A mio
avviso,
nella concezione
euro-americana,
è possibile
rilevare, a questo punto, un preciso ruolo sessuale del procreatore, non legato al concepimento vero e proprio. Sembra che non sia solo la formazione del figlio ad essere in questione, ma anche la costituzione della madre. Se così è, il procreatore maschile non solo crea il figlio, da solo oppure, nella teoria duogenetica, attraverso il rapporto con la madre: egli crea anche la madre. In antropologia, nei dibattiti sulla paternità, è una pratica convenzionale confrontare i problemi naturali che le culture devono affrontare nel definire il padre in termini di contrasto con la madre: i processi corporei della donna garantiscono continuità con il figlio, mentre i rapporti del padre con il figlio sono discontinui. Un 296
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esempio è la dissertazione di Houseman sulle diverse interpretazioni della paternità in Camerun, nell’Africa occidentale. Houseman sostiene che la differenza fra i due casi che egli mette a confronto, quello di Beti e quello di Samo, va ricercata nel senso in cui la genitorialità «fisica» e la genitorialità «giuridica» sono o meno differenziate nella madre. Un’assoluta identità fra questi elementi, egli sostiene, è possibile soltanto nel caso della madre. Di conseguenza, è nei suoi confronti che si pone il problema se la genitorialità fisica e la genitorialità giuridica siano prese come elementi distinti oppure identici. Nel caso del padre, un’identità di questo genere non è possibile (i due elementi potrebbero essere collegati, ma questo non può mai ritenersi certo) e, quindi, il problema se ci sia o meno identità o differenza non si pone. Scrive Houseman: Queste limitazioni sono saldamente ancorate in ineluttabili realtà biolo-
giche. Di conseguenza, l'orientamento stesso di queste due figure asimmetriche, oltre al fatto che è la distinzione fra maternità fisica e maternità giuridica e non quella fra paternità fisica e paternità giuridica ad essere la variabile determinata alla base della pertinenza dell’una o dell’altra, deriva dall'evidente asimmetria sessuale di cui ho parlato all’inizio di questa relazione. Come conseguenza della gravidanza e della nascita del figlio, il rapporto fra l'identità sessuale femminile (determinata dagli organi sessuali) e la funzione procreativa materna è potenzialmente continuo, mentre il rapporto
tra l’identità sessuale maschile (determinata dagli organi sessuali) e la funzione paterna è necessariamente discontinuo. In altre parole, un’identità assoluta di genitorialità fisica e giuridica è possibile solo nel caso della maternità”.
Non ho intenzione di soffermarmi sui particolari dei due casi, per quanto affascinanti possano essere, né sull’ossessione degli antropologi per la genitorialità giuridica o la genitorialità fisica. Il punto su cui voglio richiamare l’attenzione è che Houseman basa la potenziale identità dei due ruoli della madre, quello sessuale e quello materno, sulla continuità del processo della gestazione, in un momento in cui tutta l’attenzione è focalizzata sullo sviluppo del figlio. In altre parole, è il figlio a definire la madre: poiché ella porta in sé il corpo che cresce, che ha avuto inizio con il rapporto sessuale e che è destinato a terminare con la nascita, è una madre. L’atto 35 M. Houseman,
Towards a Complex Model of Parenthood:
«American Ethnologist», n. 15, 1988, p. 673.
297
Two African Tales, in
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PADRI?
sessuale precedente, necessario, in questa concezione, al concepimento iniziale del figlio, è in secondo piano rispetto all’inevitabilità di questo modello di sviluppo. È soltanto quando il dibattito sulla sindrome delle madri vergini ipotizza che un embrione in quanto tale sia una fonte incompleta o insufficiente di identità materna — una madre non è tale per il semplice fatto di ospitare un embrione — che si pone il problema del ruolo del rapporto sessuale nel definire la madre. Fin tanto che, secondo la concezione euro-americana, si pensa alla paternità o alla maternità esclusivamente in termini di formazione del figlio, le nuove tecnologie della riproduzione permettono sia al padre sia alla madre di evitare il rapporto sessuale. Le donazioni dell’uovo e dello sperma rendono possibili dei legami materiali senza l'annesso accoppiamento fisico dei genitori. L’embrione unisce, per così dire, ciò che di solito la coppia unisce nel rapporto sessuale, ma è in grado di vivere anche senza questa azione della coppia. Tuttavia, per compren-
dere lo scalpore creato dal caso della sindrome delle madri vergini, non è sufficiente indicare le conseguenze per il futuro bambino. In retrospettiva, ipotizzerei che l’atto sessuale del padre ricopriva una parte importante anche nella concettualizzazione della madre. Forse, per alcuni, era questo il rapporto a rischio. Una «madre asessuata» sarebbe stata allora un affronto culturale molto particolare. IL GENERE
Christine Dole [...] venne a conoscenza della cosiddetta sindrome delle madri vergini quando il fenomeno fece la sua comparsa nei media nel 1991. A quel tempo, aveva discusso la questione insieme al marito ed entrambi «non erano d’accordo» con procedure simili. Christine e Daniel avevano quattro figli; uno dal precedente matrimonio di lei, due dal loro matrimonio attuale e un bambino adottato da una famiglia caraibica, che in un primo tempo avevano ricevuto in affidamento. c.D.: Penso che ogni bambino abbia il diritto ad avere due genitori. Se Dio avesse voluto che i bambini potessero nascere da una persona sola, allora noi saremmo stati in grado di farlo. [...] So che molti bambini non hanno due genitori, ma molte famiglie con un genitore solo hanno contatti con l’altro genitore?*,
36 E. Hirsch, Technologies of Procreation: Kinship in the Age of Assisted Conception, Manchester, Manchester University Press, 1993, pp. 72-73.
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Finora ho parlato del genere in due contesti alquanto diversi. Cercherò di riassumere i punti principali in riferimento alle donne che sono state chiamate madri vergini. La donna delle Trobriand, ovviamente, non è assolutamente una
madre vergine. Sebbene possa essere ravvisata una somiglianza superficiale fra la sua situazione e quella della Vergine Madre della teologia cristiana per quanto riguarda il concepimento spirituale del figlio, sarebbe più appropriato dire che il figlio delle Trobriand non è «concepito». Il suo esistere non dipende né da un atto di fecondazione, né dal desiderio della madre o dei genitori. Al contrario, il figlio si impianta nella donna poiché è lui che desidera nascere”. In questo senso, è già una persona, già animata, ed è
l'intenzione del figlio, e non dei genitori, a motivare l'impianto. Lo sforzo umano entra in gioco in seguito, nell’assicurarne la crescita, lo
sviluppo e la nascita. Se i genitori vogliono che egli appaia nella forma desiderata, sarà di importanza cruciale l’impegno del padre e, allora, quando il bambino verrà alla luce, sul proprio volto potrebbe benissimo avere impressi i lineamenti del padre. In questo caso, dunque, madre e figlio sono già coinvolti in un campo di rapporti: i rapporti esistono già prima che abbia inizio il processo della nascita. Gli spiriti matrilineari sono in attesa di essere impiantati; quando questo è avvenuto, i genitori maschili e femminili — madre/sorella e il marito e il fratello — devono seguire il giusto percorso fino alla nascita. Per fare questo si separano l’uno dall’altro. Il marito si distingue dal fratello a causa dell’attività sessuale con cui contribuisce a nutrire il feto; il fratello diventa il partner specificamente «assente». La moglie si distingue dal marito, come riferisce Malinowski?, tornando alla casa dei genitori (dove abita la
madre) o alla casa del fratello della madre al momento del parto; erano i suoi parenti maschili da parte di madre che, nel passato, la proteggevano con delle lance contro gli stregoni della notte che avrebbero potuto minacciare la venuta al mondo del bambino. Queste pratiche melanesiane si fondano su opposizioni e separazioni. Le persone si separano le une dalle altre ed è il tipo di relazione che esiste fra loro ad influenzare la separazione. La coppia che diventa marito e moglie non forma un’unione, ma, per ognuno
3 Delaney, The Meaning of Paternity, cit., p. 506. 38 Malinowski, The Sexual Life, cit., pp. 193-194.
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dei due membri, fin dall’inizio, viene stabilita l’importanza della differenza che esiste fra loro (ad esempio, attraverso i doni”). In
questo contesto, si può affermare che anche il genere separa le persone le une dalle altre. Gli euro-americani, invece, considerano la differenza fra i due
generi, così come i ruoli fisiologici che si congiungono nella nozione di concepimento, un antecedente. Secondo questa linea di pensiero, i rapporti non sono un inevitabile sfondo alle azioni delle persone, ma devono essere creati attraverso lo sforzo umano. A livello culturale, questo sforzo viene riconosciuto in termini di motivazioni . appropriate e, in particolar modo, nel desiderio che i partner coniugali provano l’uno nei confronti dell’altro e nel loro desiderio di un figlio. Da qui deriva l’importanza del desiderio della futura madre; e da qui deriva anche la concezione euro-americana di «concepimento», in quanto è attraverso lo sforzo umano che si forma il rapporto da cui avrà origine il figlio. Tutto quello che segue sembra avvenire, invece, automaticamente:
la crescita del feto e la sua venuta
al
mondo vengono considerate un processo biologico che segue il proprio corso. La nascita del bambino è inevitabile (eccetto incidenti) e la forma fisica che verrà ad assumere dimostra semplicemente l’unione originale dei gameti nell’ambito del rapporto genetico. In questo sistema di parentela, mentre la biologia segue il suo corso, le relazioni devono essere costantemente costruite. Il rapporto di relazione che ha portato al concepimento potrebbe non essere duraturo: deve essere protetto, quindi, da altri generi di relazioni fra i membri della coppia stessa, come il matrimonio o un suo equivalente. Di conseguenza, il figlio che, senza ombra di dubbio, possiede un padre genetico (chiunque egli fosse, un tempo è esistito), ha, tuttavia, «bisogno» di un padre sociale. Il figlio euro-americano non nasce assiomaticamente in un sistema di relazioni. Sebbene il suo concepimento richieda una relazione, che i suoi lineamenti testimoniano,
in se stesso emerge
come
una persona
individuale che ha «bisogno» di relazioni. In questo contesto, il genere diventa una caratteristica dell’individuo, una della tante usate dagli euro-americani per mettere a
3° F.H. Damon, Muyuw Kinship and the Metamorphosis of Gender Labour, in «Man», n.
18, 1983, pp. 305-326.
300
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confronto le persone. L’interrogativo culturale che necessariamente si pone, a questo punto, è quale tipo di rapporto gli individui possano costruire. Gli euro-americani concettualizzano le relazioni fra individui gia differenziati come un confluire delle diverse parti e, nel caso più estremo di una coppia coniugale, come un’uzione. Come
afferma
Schneider:
«Come
simbolo
di unità, di unicità,
l’amore è l’unione della carne, degli opposti, maschile e femminile, uomo e donna». E aggiunge che il figlio riunisce in una sola persona le diverse essenze di entrambi i genitori. Nella formazione di un rapporto di genitorialità, il desiderio individuale trova nell'amore coniugale la sua più appropriata espressione. Di conseguenza, il genere non porta a una divisione di interessi, bensì a un confronto di
ciò che ognuna delle due parti apporta alla relazione, compreso un impegno nei confronti dell’idea della relazione stessa, una motivazione, per così dire, a stabilire un legame. E qui concludo con un’ultima ipotesi. Se è la necessaria individualità (unicità) del figlio che i genitori euro-americani riproducono, allora, forse, dovremmo riuscire a
capire i pregiudizi nei confronti dell’unicità dell’origine genitoriale — che venga interpretata in senso monogenetico o duogenetico. L’individuo nasce da individui‘. Questo è considerato un fatto naturale e,
nel contempo, un problema che deve essere superato attraverso un sistema
di relazioni.
Una
soluzione,
per così dire, culturale, è
l’immaginare un’asimmetria fra le due parti che formano la relazione: uno dei due partner può essere considerato «più» individuo dell’altro. La linea di divisione verrà fatta in base al genere, sebbene entrambi i partner, sia il «padre» sia la «madre», possano essere in posizione di controllo e imporre all’altro i propri desideri. Per convenzione culturale l’asimmetria si ripete anche nel genere dei desideri stessi: sî presume che sia desiderio dell’uomo il rapporto sessuale, della donna la relazione. E la differenza fra i due desideri, stando a quanto direbbe una qualsiasi persona euro-americana, si
spiega con la differenza nella conformazione di base dei due sessi. E
una differenza che non è necessario costruire, è davanti ai nostri
occhi. Compito della relazione è superare le differenze causate da questa differenza. Le persone sono confrontate rispetto a quello che
40 Schneider, Arzerican Kinship, cit., p. 39. 41 Strathern, After Nature, cit.
301
Li
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ognuna di loro apporta 4 una relazione. Nel contesto della procreazione, il genere contribuisce in maniera sostanziale a questo esercizio euro-americano di confronto: se le relazioni sono basate sul confronto fra le persone, nelle relazioni di procreazione il confronto in base al genere è reso concreto ed evidente dall’atto del rapporto sessuale. Le nuove tecnologie riproduttive hanno alterato questo modello? La pratica della contraccezione ha separato il sesso dalla procreazione, ma non la procreazione dal sesso; quest’obiettivo è stato raggiunto dalle nuove tecniche riproduttive, almeno per quanto riguarda la fecondazione e l’impianto dell'embrione. Ma il dibattito sulla sindrome delle madri vergini indica che, rispetto alla definizione di genitore, esse non hanno certamente separato la procreazione dalle relazioni fra i sessi. Com'era prevedibile, le nozioni intorno al genere nascondono elementi di teoria sociale. E, in questi nuovi dibattiti, riappare una vecchia teoria: l’atto sessuale che prepara la donna alla maternità rende anche evidente il suo «bisogno», e quello del figlio, della società stessa.
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DA UNA GENERAZIONE ALL’ALTRA. ALLA RICERCA DI NUOVI LEGAMI NELL’ERA DELLE TECNOLOGIE RIPRODUTTIVE di Thomas W. Laqueur Strana, una strana cosa è il sangue comune [splankhon] da cui deriviamo. EscHILO, I Sette contro Tebe, 1031-32.
Supponiamo che io abbia un accesso completo ai fatti e una conoscenza completa delle leggi della natura. Niente di tutto questo potrebbe aiutarmi a decidere se una madre surrogata debba tenere o no il suo bambino... Risposta di RICHARD FEYNMAN alla richiesta di entrare a far parte di un «tribunale scientifico».
In risposta alla domanda se avesse avuto o meno delle difficoltà a cedere il bambino che aveva portato in grembo per nove mesi, la signora A., madre surrogata gestante! residente nella California settentrionale, diede questa risposta: Beh, sa, è sempre nella tua mente il fatto che non è il mio bambino. Gli sto solo lasciando usare il mio corpo. Lo sto facendo crescere per qualcuno che non può farlo.
Tre punti sono interessanti in queste affermazioni. Nell’utero della signora A. c’è il bambino, ma nella sua mente c’è qualcos'altro, «il fatto che non è il mio bambino». All’irrefutabile fenomeno fisico 1 Una madre surrogata gestante è una donna che ha stipulato il contratto di portare nel suo grembo un bambino concepito dallo sperma dell’uomo contraente e dall’uovo della donna contraente, oppure di un’altra donna. Si distingue dal caso della madre surrogata «tradizionale» — la Whitehead nel caso di Baby M, ad esempio — in cui, invece, il bambino viene concepito dall’uovo della donna che lo porterà in grembo. L’intervista che segue è stata condotta da Elizabeth Roberts, una studentessa di antropologia della cui tesi, vincitrice di un premio, sono stato relatore. Il materiale etnografico da lei raccolto è di estremo interesse su questo argomento.
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della gestazione si oppone un’idea. (Ma c’è un altro referente nascosto: la «tua» mente potrebbe essere la «mia» mente 0, molto più probabilmente, la mente in generale.) In secondo luogo, «il fatto» non ha antecedenti e funzioni tali nella frase da prefigurare il «che non è il mio bambino» che segue. Non veniamo a sapere quello che ci interessa veramente, vale a dire quali sono le cause di ciò che è nella sua mente. Infine, c'è l’antica metafora della madre come giardiniere, su cui ritornerò tra breve: «Lo sto facendo crescere per qualcuno che non può farlo». Normalmente, i contratti per la maternità surrogata prevedono che la madre surrogata abbia un aborto qualora risulti che il bambino sia minorato, o subisca una «riduzione selettiva» nel caso di crescita di più di un feto. È per un bambino normale che viene stipulato il contratto, e soltanto per uno. La signora A. è personalmente contraria all’aborto, eccetto nei casi di stupro; non abortirebbe, quindi, per nessuna delle ragioni previste dal contratto. Eppure, in questo caso, si dice del tutto disposta ad avere un aborto qualora si verificassero le condizioni che il contratto prevede. Il motivo di questa apparente contraddizione è lo stesso che sta alla base delle affermazioni che ho riportato sopra: il fatto che il bambino cresca nel suo corpo e che, di conseguenza, tutto il processo debba avvenire dentro di lei, non implica assolutamente che sia lei ad avere l'aborto o che il bambino sia suo. Il corpo, in qualsiasi senso si voglia intendere il termine, sembra essere del tutto estraneo al processo. Nei confronti dell’aborto ogni donna dovrebbe avere il diritto di scelta, afferma la signora A., ma,
in questo caso, rispetto a questo aborto e a questo feto, non è lei la donna in questione: Non è mia la responsabilità di prendere questa decisione. E, anche se, personalmente, non interromperei mai volontariamente una gravidanza, essi potrebbero voler terminare la loro. Solo perché è nel mio corpo, non vuol dire che abbia qualcosa a che fare con me. Io la vedo così.
«Solo perché è nel mio corpo, non vuol dire che abbia qualcosa a che fare con me» è un’affermazione sbalorditiva, persino scandalosa. Sembra quasi una parodia del concetto di alienazione del lavoro, ma non è mia intenzione analizzare il problema in questi termini, come faceva Marx con gli innumerevoli esempi ne I/ Capitale, allo scopo di rivelare la natura della produzione borghese e, ora, la sua espansione anche nel campo della riproduzione. Il caso della signora A. 304
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potrebbe anche essere considerato un esempio di distopia femminista, un vero e proprio modello al naturale del Racconto dell’ancella di Margaret Atwood, ma non è nemmeno
in questa prospettiva che
voglio discuterlo. E non intendo accusare volutamente la signora A. di una presa di coscienza fuorviata di ciò che, secondo il contratto, doveva essere ceduto. Infine, non voglio impegolarmi in un dibattito sulla moralità delle diverse tecnologie riproduttive, della maternità surrogata e degli accordi legali e finanziari che queste comportano. Le diverse posizioni su queste problematiche sono state presentate da altri in modo più completo di quanto possa fare io in questa sede. Invece, vorrei prendere l’affermazione della signora A. — singolare come le circostanze da cui ha avuto origine — come punto di partenza per illustrare quanto sia sostanzialmente carica di tensione
e di inquietudine la ricerca di basi per la costruzione di legami. Se l'essere nel corpo di una donna non ha nulla a che fare con lei, viene da chiedersi che cos’altro ne abbia. Una risposta possibile è antica quanto l’Orestea di Eschilo. La tecnologia che ha permesso la fecondazione della signora A. è di annata
molto
recente,
ma
l’analisi da lei fatta, invece,
sembra
echeggiare il famoso discorso di Apollo in difesa di Oreste. No, dichiara il dio, Oreste non avrebbe potuto uccidere la madre se, con
questo termine, si intende una persona con cui egli aveva legami di sangue; né lui né chiunque altro ha una madre in questo senso: «la madre non è genitrice di colui che è chiamato suo figlio, ma soltanto custode della nuova pianta che cresce», «un’estranea». Il sangue su cui si basa la spiegazione della signora A. non è il sangue vero e proprio, il sangue fisico: in questo senso, infatti, è legata al bambino che è in lei, oltre che attraverso il sangue, anche attraverso la carne e tutti i possibili vasi. Se questo non fosse abbastanza evidente secondo il comune buon senso — e, ovviamente, lo è — le ecografie rendono più semplice di quanto non sia mai stato in passato immaginare i legami fra la madre e il bambino che si porta dentro (è pur vero che, come ha dimostrato Rosalind Petchesky, rendono anche più semplice immaginare il bambino come un essere indipendente, un residente temporaneo nell’utero).
Il corpo della signora A. e il feto non hanno nulla a che fare con lei, secondo la sua concezione, poiché il modello di legame da lei richiamato è quello che Freud identifica nel legame fra padre e figlio, non tra madre e figlio; un legame non di natura fisica, ma astratta: «der Triumph der Geistigkeit uber Sinnlichkeit», il nuovo, astratto 305
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Dio degli Ebrei opposto agli antichi dei rapportabili ai sensi. Forse questo è persino ingiusto nei confronti della signora A., la quale, probabilmente, rispetto alla natura dei legami, ha in mente qualche moderna spiegazione di natura genetica, in cui il solo legame corporeo non ha molto valore, ma che, nondimeno, conserva una base materiale sotto il vincolo fra madre e figlio (il legame di un progetto di schemi). Tuttavia, pur ammettendo che la signora A. faccia un grande affidamento su quella minuscola frazione di tutte le coppie di basi del DNA dei suoi gameti che la distinguono dal DNA di tutti gli altri esseri umani, se è vero che abbiamo in comune con le scimmie il 95 per cento del nostro codice genetico, ciò che resta per differenziarci dagli altri membri della nostra stessa specie è decisamente molto poco. Ma la signora A. è riuscita, in un modo o nell’altro, ad isolare il «suo» codice e ad interpretarne l’assenza come la ragione per cui il bambino non è il suo. Forse non è la «conquista (der Sieg) della sensualità da parte dell’intellettualità» di cui parla Freud, ma ci siamo molto vicini. Questo modo di vedere respinge l’immagine dominante del vincolo materno dall’antichità fino ad oggi. Si oppone alla natura corporea di questo vincolo, in relazione alla quale il sacrificio — secondo quanto scritto da Nancy Jay? — o altre pratiche creano la parentela agnatizia. Le motivazioni a favore della signora Whitehead, contro il signor Stern, erano espresse 707 sulla base del suo uguale legame genetico con Baby M, ma sulla base del suo superiore vincolo fisico. Lei aveva portato in grembo il bambino; lui aveva soltanto dato il suo sperma. Finora, ho analizzato un caso moderno, in cui il sangue «vero»,
reale, del presente, non implica un rapporto consanguineo, del tipo «sangue del proprio sangue», con un bambino. Nella storia della paternità è di gran lunga più comune il contrario. In realtà, a me non sembra poi così evidente che il sangue, come nell’espressione «del mio sangue», abbia avuto sempre un significato letterale. Ovviamente, lo sperma era considerato il più nobile distillato di sangue e, quindi, in qualche modo, la sua essenza passava da una generazione all'altra. Ma in nessuna spiegazione classica della procreazione il sangue vero e proprio passa dal padre ai figli attraverso la madre. Nel migliore dei casi, e la tradizione aristotelica negherebbe persino 2 N. Jay, Throughout the Generations Forever: Sacrifice, Religion and Patriarchy, Chicago 1992.
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questo, prendeva parte al concepimento soltanto una rappresentazione del sangue, un po’ di schiuma. A causa di Aristotele, nulla del sangue del padre è passato fisicamente da una generazione all’altra. Quindi, quando, ad esempio, Bolingbroke afferma di essere l’autore dell’esistenza di Hotspur o quando Buckingham dice a Riccardo, in un dramma teatrale tutto imperniato sul potere e sulla discendenza, che lui, Riccardo il gobbo, è il vero erede di suo padre — «la giusta idea di tuo padre, sia nella forma sia nella nobiltà d’animo» — l’asserzione non riguarda il sangue materiale, bensì il sangue inteso come simbolo di parentela legittima, di un prender parte alla carne degli antenati che richiama la corporalità e, nel contempo, la annulla. Quindi, il sangue vero può non contare nulla e il minimo sarguinis pneuma del tipo appropriato può voler dire tutto. Forse, questa mia osservazione non fa altro che reinventare la distinzione molto antica fra parentela e genealogia, fra un sistema culturale di significati e una mappa biologica, una disposizione — se si vuole considerare solo la linea materna — del DNA mitocondriale. Ma se così è, lo scopo è soltanto quello di far crollare una distinzione che, nello stesso tempo, impone la nostra adesione. Il fatto di riconoscersi in un’altra persona sembra essere un fenomeno assurdamente corporeo e, nel contempo,
profondamente culturale. È mia intenzione scrivere una storia delle condizioni del riconoscimento e, in particolare, delle esigenze conflittuali del corpo dell’uomo e del corpo della donna, da un lato, e di quelle della cultura e del corpo, dall’altro, nel costruire legami fra le generazioni. Ho la sensazione che le distinzioni fra legami di sangue e legami non di sangue, fra il «vero» e il «non del tutto vero», fra carne che conta e carne che non
conta, crolleranno in un modo molto simile a quello in cui sono crollate le due interpretazioni del maschile e del femminile in base al sesso. E che, nel contempo, una combinazione di queste categorie avrà come effetto il chiedere a gran voce che vengano di nuovo separate. Il sangue — il legame interno — finirà con il diventare, come il sesso, una categoria limitata e altamente instabile. Partendo dai testi base dell’antichità classica, l'anatomia e la fisiologia del legame sono impregnate del lavoro culturale inerente al legame stesso. Nell’Anzigone di Sofocle, Tiresia parla di un bambino che viene dalle viscere di suo padre, i suoi splankbna?. Non viene solo 3 Sofocle, Antigone, 1066-1067.
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dalla sua capacità generativa, ma dalle sue viscere, dal suo «ventre»
(il termine, ovviamente, si riferisce anche al ventre della madre). E ne I Sette contro Tebe, di Eschilo, la traduzione in un’altra lingua della nozione che i figli nascono dallo splankhon*, comune al padre e
alla madre, rivela la qualità profondamente sfuggevole di ciò da cui
proveniamo: «Strana, una strana cosa è il sangue da cui deriviaMO...».
Purtroppo, mi dispiace dover ammettere che il mio lavoro storico è stato trascurato a favore dell’etnografia, fra banche dello sperma e agenzie per la vendita di ovuli, fra bambini adottati, madri lesbiche e avvocati che rappresentano gli interessi di persone che lottano per stabilire legami eterodossi di parentela. La tentazione di congedare questa etnografia e, in effetti, tutta la questione delle tecnologie riproduttive, come uno spettacolo secondario della politica americana, messo in scena da una stampa ammiccante e sensazionalista è indubbiamente forte. Il numero di casi di bambini, nati
dalle cosiddette madri surrogate — la madre surrogata «tradizionale» o genetica, oppure la molto meno comune madre surrogata gestante o «ospite» — la cui custodia è oggetto di lite, è molto ridotto: soltanto sedici degli stimati cinquemila contratti per maternità surrogate sono stati impugnati; la maggior parte delle almeno duecento «nascite surrogate» che avvengono ogni anno in California passa inosservata al grande pubblico. Non ci sono stati casi di contenzioso giudiziario fra donatrici di ovuli e genitori contraenti, mentre avvengono ormai abitudinariamente ogni anno più di trentamila casi di inseminazione da donatore. Anche l'adozione è molto diffusa e sono comuni gli esempi di bambini che passano dai genitori biologici a quelli adottivi. Le liti per la custodia di bambini sono più frequenti fra lesbiche, ma esse possono essere interpretate come un elemento di gran lunga secondario nel quadro più generale della custodia dei bambini, conseguente al dissolvimento delle relazioni legali o de facto all’interno delle quali questi bambini erano nati. Tuttavia, «The Los Angeles Times» diede alla decisione della Corte suprema della Orange County — in base alla quale veniva data ai genitori genetici la custodia del bambino concepito dal loro uovo e dal loro sperma e negato qualsiasi diritto alla «madre surrogata gestante» — più spazio in prima pagina che non al veto di Bush alla 4 Eschilo, I Sette contro Tebe, 1032.
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proposta di legge sui diritti civili. Nel 1988 il caso di Baby M attirò l’attenzione di tutto il paese; la lesbica dell’Oakland che, in tribunale, quando: le fu chiesto di identificare il padre del suo bambino,
mostrò una pipetta per ungere gli arrosti, divenne una celebrità a livello locale. Baby Jessica, la bambina contesa fra le giurisdizioni del Michigan e dello Iowa e fra gli unici genitori che aveva mai conosciuto
e i suoi veri genitori fu uno
dei maggiori
eventi
giornalistici del 1993. In questo mio contributo intendo riflettere sul perché casi così numericamente insignificanti siano diventati rappresentativi — per
parafrasare Kenneth Burke — di tematiche molto più profonde e politicamente scottanti. Essi sono, a mio avviso, momenti di un dramma culturale che va ben al di là dei quesiti immediati e che attesta questioni molto più ampie: questioni di identità (che, negli Stati Uniti, è spesso interpretata come etnicità), questioni di definizione della soggettività e questioni relative al ruolo del corpo nel delineare la storia del se/f, del self in relazione agli altri e della comunità. Il potere rappresentativo di questi casi insoliti testimonia una crisi della parentela, di quelle teorie che, per citare Marilyn Strathern, mettono in relazione la società con il mondo della natura.
Nell’Occidente postindustriale, le strutture tradizionali della parentela sono sempre più traballanti e, con questa affermazione, intendo riferirmi a un indebolimento delle basi epistemologiche e ontologiche dell’identità, della soggettività e delle relazioni umane. La distinzione fra natura e cultura è, di per se stessa, causa di profonde inquietudini, mentre, nel frattempo, sono crollati i fondamenti sbagliati di un’epistemologia naturalistica che avrebbero dovuto essere evidenti sin dai tempi di Hume, ma che sono pervenuti fino ai nostri tempi per via di un tessuto di finzioni sociali e culturali. In breve, la posizione di forza in cui si viene a trovare la natura, nel momento in cui la biologia molecolare sta generando un nuovo riduzionismo, non è più quella di un tempo. In primo luogo, desidero sottolineare un elemento che, forse, potrebbe sembrare ovvio: la tecnologia ha un'importanza relativamente ridotta in tutto questo scenario, mentre è cruciale la biopolitica della famiglia, dell’aborto, della razza e della preferenza sessuale. Certo, la tecnologia ha la sua rilevanza: la maternità surrogata
gestante è possibile soltanto grazie alla fertilizzazione in vitro; i test di agglutinazione crociata dell’HLA e, probabilmente, nel futuro immediato,
del DNA,
come
prova sia della maternità 309
sia della
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paternità, sono stati resi possibili dai progressi compiuti nei campi dell’immunologia e della biologia molecolare. Nella maggior parte dei casi che esaminerò, tuttavia, — il caso di Baby M è il più famoso —
la tecnologia della fertilizzazione è precisamente quella descritta per la prima volta nella letteratura medica dell'Ottocento dal famoso John Hunter, quando raccolse lo sperma da un’apertura laterale nel pene di un suo paziente — il risultato di un’uretra congenitamente deforme — e lo iniettò nella vagina della moglie. L’inseminazione artificiale di animali è una pratica nota da secoli, probabilmente sin dagli egiziani. L’immaginario legato all’inseminazione da donatore è già fissato in un famoso testo del Cinquecento: «Essi interferiscono con il processo normale della copulazione e del concepimento, procurandosi dello sperma umano e trasferendolo loro stessi». Oppure, «sono in grado di conservare perfettamente lo sperma, così che esso non
perda il suo calore vitale o non possa evaporare così facilmente». I soggetti di queste frasi sono dei demoni femminili che trasferiscono lo sperma umano in demoni maschili, i quali, a loro volta, fecondano donne del tutto (alcune, forse, non del tutto) inconsapevoli.
Per contro, tecnologie palesemente nuove
sono interpretate
secondo antiche concezioni culturali. Quindi, ad esempio, si ritiene
che lo sperma di un uomo di un determinato status, nel momento in cui penetra nel corpo di una donna, vi accampi determinati diritti; come un esploratore in una terra sconosciuta, egli prende possesso e assume per il proprio genitore i diritti e gli obblighi che si confanno al caso. Il giusto tipo di sperma, per qualche motivo, incorpora il bambino nella cultura, di modo che un figlio senza un padre legale è un figlio «naturale», al di fuori delle convenzioni umane. A causa di queste basi patriarcali, vengono compiuti molti sforzi, in campo legale e in campo istituzionale, per «depatriarcalizzare» lo sperma in situazioni in cui o il donatore o il ricevente desiderano fermamente che lo sperma sia libero dal proprio bagaglio culturale. Viene spesa una notevole quantità di energia per mantenere l'anonimato dei donatori di sperma. A causa delle pressioni operate dal movimento dei bambini adottati e da certe organizzazioni femministe, notevole abilità legale è stata rivolta alla messa a punto di un sistema che permetta di rompere l'anonimato una volta che il bambino abbia raggiunto la maggiore età, senza, nel contempo, evocare l’intera panoplia dei diritti e degli obblighi paterni. Il caso della donazione di ovuli è, invece, del tutto diverso. 310
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Poiché non esistono modelli storici di donne le cui sostanze riproduttive sono andate all'avventura, in altre parole, poiché la maternità è stata sempre quasi esclusivamente interpretata come un «portare in grembo» e non come un generare, non c'è una memoria collettiva da superare. Per gli ovuli non ci sono premesse o pregiudizi. Così, quando si visita un’agenzia per l’acquisto di ovuli5, ci si viene a trovare in una sorta di ufficio non meglio identificato, ma piacevole, molto simile a un’agenzia di assicurazioni o di cambio. Ci vengono mostrati cataloghi contenenti descrizioni dettagliate e fotografie di potenziali donatrici. Per ogni donna vengono indicati il nome, l’età, l’indirizzo
ed esibite svariate fotografie accattivanti. Quando feci notare che tutte queste donne sembravano molto attraenti, mi fu detto che ancora non avevo visto nulla: mancava Jennifer, il cui curriculum veniva tenuto fuori dal catalogo perché avrebbe sconvolto il mercato. Tutti avrebbero voluto gli ovuli di una donatrice laureata a Standford, campionessa di atletica e con un passato da modella. Mentre le banche dello sperma escogitano stratagemmi elaborati per mantenere l'anonimato, in questo caso, invece, tutto veniva fatto allo scoperto.
Quando chiesi la spiegazione di questo, mi fu detto che il problema dell’anonimato non si poneva affatto: i clienti compravano gli ovuli e, così facendo, questi diventavano di loro proprietà. La differenza tra lo sperma e gli ovuli, a questo proposito, risiede unicamente nel fatto che, per questi, non esistono presupposti che si oppongono alla mancanza di anonimato: essi non accampano diritti e non comportano obblighi, non colonizzano, non sembrano riprodurre la carne degli 5 Queste agenzie sono in contatto con donne che, per una parcella compresa fra i 2.500 e i 3.000 dollari, sono disposte ad assumere una grande quantità di ormoni, allo scopo di produrre molti ovuli. Sono le forze di mercato — la scarsità di donatrici giapponesi o ebree, ad esempio — a determinare i prezzi, ma è soltanto delle fotografie e delle storie che si trovano nei cataloghi che intendo discutere. Gli ovuli vengono «raccolti» attraverso la vagina e fertilizzati in vitro. Lo zigote risultante viene poi impiantato nella donna che ha comprato l’ovulo, oppure in un’altra donna, una surrogata gestante. Di solito, lo sperma proviene dal partner della donna, ma ci sono casi di donne con un utero perfetto e disfunzioni alle ovaie che, pur non avendo un partner, desiderano una gravidanza. In questi casi, lo sperma può essere ottenuto da una banca dello sperma. L'ufficio particolare in cui mi sono recato si occupa anche di maternità surrogata gestante, ma le due parti dell’affare vengono di solito tenute separate. In altre parole, o la coppia fornisce il proprio ovulo e il proprio sperma e «affitta» una surrogata, oppure compra soltanto gli ovuli e la donna della coppia porta il feto nel suo grembo. Mi è stato detto che il mercato della California settentrionale non è in grado di gestire i costi, circa 70 mila dollari, di un accordo «a tre», secondo il quale gli ovuli di una donna A comprati da una donna B vengono impiantati in una donna C. Apparentemente, a Los Angeles, questa divisione dei lavori è più comune.
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antenati. (L’unica pecca in questo quadro è che, prima di entrare a far parte di un programma di ovodonazione, una donna deve dimostrare di possedere il profilo psicologico appropriato secondo il Minnesota Multiphasic Preference Test. In altre parole, deve dimostrarsi sufficientemente «maschile» da riuscire a donare i propri ovuli senza troppi turbamenti o patemi d’animo. La scarsità di ovuli di donne ebree sembra sia da attribuire non tanto alla debole partecipazione delle donne ebree ai programmi di ovodonazione, quanto al fatto che esse, secondo il Test, sono troppo «femminili» e non adatte).
Mentre le analisi moderne rendono possibili nuove e specifiche determinazioni della discendenza «biologica» e, quindi, modifiche nei codici probatori, e mentre le tecniche riproduttive si sono espanse ben oltre il consueto, artigianale, eterosessuale metodo di concepimento del pene dentro la vagina, i modelli alternativi che sottostanno a ciò che significa essere un genitore, invece, sono cambiati ben poco dai tempi dei greci: essere un genitore vuol dire avere il progetto del figlio, tramandare l'essenza di una stirpe oltre che di una specie, oppure vuole dire recitare la parte del genitore, e compiere quei lavori di natura fisica ed emotiva che vanno dalla gestazione al provvedere al sostentamento. Per dirla in breve, figlio come progetto o figlio come lavoro. La nozione
di maternità
surrogata,
come
hanno
osservato
i
tribunali americani, risale ai tempi di Abramo e Sara, allorché Sara propose ad Abramo che egli entrasse «nella mia serva, così che io possa avere figli tramite lei». Questo esempio molto interessante dimostra che, oltre ad essere una tecnica riproduttiva, la maternità
surrogata è un tipo di maternità che provoca spaccature a livello culturale. Perché, infatti, se è la discendenza patriarcale che conta,
Ismaele (il figlio di Agar) non è considerato l’uguale di Isacco, il figlio di Sara? I testi più recenti, che, secondo Nancy Jay$, danno il sistema patriarcale per scontato, non ravvisano qui alcun problema; secondo altri testi, invece, è necessario il quasi-sacrificio di Isacco
per stabilire l'unicità del suo legame con gli antenati attraverso il padre. La novità dell’attuale politica delle cosiddette tecnologie riproduttive e delle forme alternative di genitorialità, quindi, si fonda su 6 Jay, Throughout the Generations Forever, cit.
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nuove possibilità culturali e sulla distruzione di vecchie verità culturali, e non sulla scienza e sulla tecnologia in sé. Queste verità sono state a lungo considerate, per un motivo o per l’altro, naturali. Ovviamente, ogni società sviluppa i propri complessi modelli di parentela («un sistema coerente di simboli e di significati», nelle parole di David Schneider”); tuttavia, se è vero che siamo noi a fare la nostra storia, è anche vero che non possiamo farla secondo i nostri gusti: è la natura il termine di paragone per eccellenza dei modelli di legami inter-generazionali attraverso le epoche. Questa tensione fra parentela come cultura e parentela come natura è percepibile, ovviamente, in tutti icampi. Si consideri, ad esempio, l’opinione in materia del grande giurista inglese William Blackstone. Da un lato, egli sostiene che non sono necessarie leggi specifiche per costringere i genitori ad occuparsi dei loro figli, poiché la provvidenza ha fatto meglio di qualsiasi legge, instillando nel petto di ognuno dei due genitori quell’insuperabile misura di affetto [...] che né deformità di persona o di mente da parte del genitore o malvagità, ingratitudine o ribellione da parte dei figli possono vincere.
Trascuriamo il fatto che quanto affermato da Blackstone sia palesemente falso, come Nancy Scheper-Hughes* ha dimostrato in modo toccante nel suo recente libro. Per il giurista e i suoi contemporanei, che il padre o, specialmente, la madre si comportassero diversamente voleva dire agire in modo «in-naturale». Ma l’affetto naturale non conta assolutamente nulla quando si tratta di distribuire
il potere;
il giurista invoca
allora la naturalità
del
patriarcato: «una madre in quanto tale non ha diritto ad alcun potere, ma solo a riverenza e rispetto», tranne che, ovviamente, nel caso in cui la madre si ponga al di fuori del sistema patriarcale, il caso, cioè, della madre di figli illegittimi, a cui viene affidata la
custodia e la responsabilità del mantenimento fino a quando il figlio raggiunge l’età di sette anni. Ovviamente, potremmo problematizzare ciò che i giuristi intendono per «naturale» o «innato» in un’era post-lockiana. Il punto cruciale, infatti, è riuscire a capire che cosa si intende quando si ? D.M. Schneider, Arzerican Kinship: A Cultural Account, Chicago, University of Chicago Press, 1980?, p. 8.
8 N. Scheper-Hughes, Death Without Weeping: the Violence of Everyday Life in Brazil, Berkeley e Los Angeles, University of California Press, 1992.
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afferma che «nel padre c’è un diritto innato, riconosciuto dal diritto positivo e non dipendente in alcun modo dalla discrezione del Lord Chancellor, ad agire come custode dei suoi figli». Il fatto che, a metà
Settecento, Lord Hardwicke stabilisse che «il padre è il custode naturale dei figli durante la minorità» o Lord Eldon, agli inizi dell'Ottocento, sostenesse che esiste un «diritto legale naturale del padre», vuol forse dire che questa qualità della natura ci sfugge? In effetti, Blackstone ci informa che «l'impero del padre continua persino dopo la sua morte»: il Padre, come il Re, sembra avere due corpi, uno dei quali è eterno. Ma poi, intorno al 1840, leggiamo in un testo giuridico che l’assemblea legislativa «concordava con l’opinione che questi diritti [della madre] venivano meno a ciò che il sentimento raturale e l’opinione pubblica richiedevano». Ebbe così inizio quella rivoluzione nel diritto familiare che, tra il 1800 e il 1900, rovesciò gli antichi presupposti: ora era la madre, e non il padre, ad essere considerata, per natura, l’appropriata custode di un figlio. La naturalità dei rapporti familiari — e, più in generale, del modo in cui erano stati fissati i rapporti di relazione — era da tempo sotto accusa. Si potrebbe affermare che i crescenti riferimenti alla biologia della differenza fra i sessi — alla strumentalità del corpo — nella teoria politica liberale, da Hobbes fino a Rousseau e a tutto l’Ottocento, fossero una risposta al crollo di un ordine familiare che affondava le sue radici in una natura di ordine più alto, e cioè nella rivelazione o nella metafisica. Si sostenne così che l’allattamento al seno era nella natura delle donne in quanto madri, a tal punto che, come
ha
recentemente fatto notare Londa Schiebinger?, la capacità di allattare divenne la caratteristica essenziale della classe filogenetica a cui appartiene l’essere umano. Per contro, non allattare venne considerato in-naturale (a questo proposito, Rousseau è un classico), una delle cause delle cosiddette «malattie della civiltà». Quindi, alla distruzione di un determinato tipo di natura, la «natura» dell’ordine divino, fece seguito l’entrata in campo di un altro tipo di natura. Nella cultura popolare, un crollo normativo della famiglia naturale era avvenuto molto prima dell’avvento delle tecniche riproduttive. Il tema della madre nubile, che causò così tanto scalpore lo scorso anno, quando l’allora vicepresidente Quayle attaccò Murphy Brown nel corso dell'omonimo show televisivo, Ò
9 ae: ress, :
Nature's Body: Gender in the Making of Modern Science, Boston, Beacon
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risale per lo meno alle telenovela della metà degli anni sessanta, come As the World Turns, ad esempio, mentre Mary Jo in Designing Women
e, più recentemente,
Carla in Cheers, Maddie Hayes in
Moonlighting e Susannah in Thirtysomething sono tutte madri non sposate. E, ovviamente, si potrebbe risalire alla letteratura popolare dell'Ottocento, al romanzo, per incontrare Hetty Sorel in Adam Bede, di George Eliot, e la madre di Oliver Twist (la differenza è che,
nel ventesimo secolo, alle madri nubili è consentito sopravvivere). Inoltre, c'è un folto gruppo di programmi televisivi che riguarda i casi di paternità fuori dalla norma. In My wo Dads un’adolescente viene allevata da due uomini che si rifiutano fermamente di sapere chi, fra i due, sia il «vero» padre. Dopo un litigio, si sottopongono al cosiddetto test della paternità, ma, quando il giudice che vive al piano di sopra, una donna ebrea, fa la sua comparsa per comunicare i risultati, essi si rifiutano di ascoltarla. In un altro show, una ragazza e
la madre vivono sulla terra, mentre la creatura spaziale che ha generato la ragazza appare periodicamente come un triangolo di cristallo. Un tasso di divorzi sempre crescente che, dopo il 1945, ha portato per la prima volta la separazione legale a superare la morte come causa della fine di un matrimonio, ha, com’era ovvio, creato il
contesto adatto per frequenti riflessioni su ciò che costituisce la
genitorialità. Inoltre, le richieste del pubblico perché vengano riconosciuti i rapporti fra gay e fra lesbiche e le palesemente nuove relazioni familiari che seguono a queste unioni hanno enormemente ampliato i confini della «maternità» e della «paternità». Nessuno di questi sviluppi, tranne l’ultimo, è nuovo. Presi nel loro complesso, tuttavia, producono un nuovo contesto per le considerazioni sulla formazione dei legami. In questo spazio, sgombrato, così sembra, da un ordine familiare normativo, apparentemente naturale, fanno il loro ingresso nuove pratiche, nuovi modi di costruire le comunità o nuovi ruoli per pratiche vecchie. Questioni di importanza fondamentale, come l'aborto, trovano qui il loro posto. Il dibattito avviene tra due parti che reciprocamente non si capiscono. Una parte, che si dice a favore della «scelta», potrebbe essere interpretata come il punto di vista di chi vuole liberare il corpo della donna dalla natura, cioè dal corso naturale della gravidanza. Si ipotizza che, sebbene la maternità sia 10 A questo proposito si veda Brave New Families di Judith Stacy.
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naturale, porre termine alla gravidanza non sia un’azione in-naturale,
bensì l’azione di chi intende disporre liberamente del proprio corpo. L’altra parte, che si dice a favore della «vita», si prefigge di creare, attraverso la retorica (l’apostrofe, ad esempio) e attraverso la scienza,
un’immagine del feto come di un essere facilmente identificabile come umano e, di conseguenza, protetto dai precetti che si oppongono all’appropriazione della vita altrui, sanciti dal diritto naturale e, ovviamente, dal diritto positivo. L’identificazione delle caratteristiche dell'essere umano viene spinta sempre più indietro, fino al luogo di origine della vita, al punto che, secondo questa concezione, l’uovo
fertilizzato è, per natura, qualcosa di simile a una persona. E in questo contesto che la decisione di una corte del Tennessee, in base alla quale un marito poteva impedire alla moglie che l’aveva lasciato di usare un uovo fertilizzato appartenente ad entrambi, venne vista come una vittoria per la parte a favore della scelta: uno zigote, in questo caso, venne considerato dalla corte come non avente diritti, contrariamente alla visione secondo cui, invece, i «non-nati» godono, in realtà, di alcuni, se non di tutti, dei diritti dei «già-nati».
Le restanti osservazioni sono dedicate al modo in cui la crisi della natura e le sue ipotetiche conseguenze vengono rappresentate in due casi giudiziari che mettono a fuoco le ansietà e le profonde spaccature della società americana: il caso della maternità surrogata e il caso di famiglie con genitori dello stesso sesso (quest’ultimo caso fa parte del molto più ampio dibattito sull’adozione, sia in relazione alla segretezza che tradizionalmente circonda i genitori genetici, sia come alternativa alle tecniche riproduttive per le donne che desiderano avere bambini). La maternità surrogata invase la scena americana con il caso di
Baby M, uno dei maggiori eventi di cronaca del 1989. I fatti sono noti. Il signor Stern, figlio di sopravvissuti all’olocausto, vuole disperatamente assicurare la sopravvivenza di una famiglia che è stata quasi completamente distrutta, per mezzo di un «figlio naturale». La moglie, signora Stern, è una biochimica che non ha potuto, 0 non ha voluto, avere figli, in quanto sofferente di sclerosi multipla allo stadio iniziale. Attraverso un mediatore, gli Stern fecero un contratto con Mary Beth Whitehead, un’operaia abbastanza povera, il cui matrimonio era considerato piuttosto traballante: secondo questo contratto, la Whitehead acconsentiva a portare nel proprio grembo un bambino concepito nel suo corpo con lo sperma del signor Stern e a rinunciare, dopo la nascita, a ogni diritto su di lui. 316
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Gli Stern avrebbero allora adottato il bambino, che sarebbe «appartenuto» completamente alla coppia che aveva stipulato il contratto. Per questo lavoro la Whitehead doveva ricevere 10 mila dollari. La donna, però, si rifiutò di cedere il bambino e gli Stern procedettero per vie legali per far rispettare quello che il loro avvocato interpretò come un normale contratto. La Corte di prima istanza del New Jersey concordò con l’avvocato degli Stern e considerò valido il contratto: 10 mila dollari per la gravidanza, cioè per il lavoro, il cui prodotto era il bambino (le leggi contro la schiavitù vietano la vendita di bambini). La Corte suprema del New Jersey annullò questa decisione: reputò che sia il signor Stern sia la signora Whitehead erano genitori; che la custodia dovesse essere affidata all'uomo, sulla base del «miglior interesse per il bambino» e che la Whitehead dovesse avere il diritto di far visita al bambino, come una delle parti in un qualsiasi accordo di divorzio. Prima di tornare al verdetto vorrei delineare i contorni del dibattito che fece seguito al caso che, innanzi tutto, portò in primo piano apprensioni di tipo classista e di genere. Un uomo abbastanza ricco aveva fatto un contratto con una donna abbastanza povera, una sorta di sineddoche della distribuzione secondo il genere della ricchezza e del reddito e, in realtà, della condizione normale di gran parte della vita economica americana. Nel contesto della rivoluzione operata da Reagan, si profilava grave la questione di che cosa si potesse vendere e per quanto. Quando l'assemblea legislativa della California discusse la legislazione sulla maternità surrogata, questo punto venne esplicitamente sottolineato. Dice il legislatore: C'è qualcosa di ripugnante nell’offrire 50 mila dollari a una donna per fare qualcosa che non vorrebbe fare ed è anche ripugnante non compensarla adeguatamente.
L’ovvia constatazione che, di solito, è il corpo ad essere venduto nel mercato del lavoro e che in molti, molti casi le persone, per avere dei soldi, fanno quello che normalmente non vorrebbero fare, non vale solo per la prostituzione, ma anche per la maternità surrogata, che rivela nei nudi dettagli gli sgradevoli, ma certamente non inediti, dilemmi morali del capitalismo. Tuttavia, più interessanti sono i dibattiti che si incentrano sul
corpo della donna e sulle rivendicazioni che, su questa base, possono venire avanzate. Gli avvocati della signora Whitehead — Rich, O'Brien, Corea, ad esempio — sostennero che il giudice in materia 317
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non aveva tenuto conto del lavoro compiuto da lei, del suo fare da madre in utero, del suo intimo legame fisico con il bambino. Certo, aveva riconosciuto che la donna aveva portato il bambino nel suo
grembo per nove mesi, ma, nella sentenza, aveva dimostrato di considerare la madre alla stregua di un semplice contenitore. Come
nel Racconto dell’ancella di Margaret Atwood o nei dibattiti sull’incriminazione di una tossicodipendente incinta in Florida, accusata di avere dato della droga a un minorenne, il giudice, sostennero gli avvocati, aveva radicalmente frainteso i diritti morali del soggetto concreto. I sostenitori della signora Whitehead intendevano capovolgere la valutazione della natura che il giudice aveva dato. Quindi, il «progetto» di Stern, cioè il suo sperma, venne disprezzato; le intenzioni della
Whitehead, cioè la sua iniziale e ponderata decisione di cedere il bambino, non vennero tenute in alcun conto. Invece, la rivendicazione era
di marca palesemente lockiana: il lavoro fisico della gestazione e della nascita faceva del bambino il suo bambino. I progetti della signora Stern — le speranze che aveva posto nel bambino, il suo preparare la culla — non avevano la minima importanza. In un certo senso, la Corte suprema del New Jersey assegnò una vittoria altisonante a quella che ritengo sia una nozione molto antica e storicamente ambivalente della maternità e delle sue basi nella natura. Nessuno degli avvocati, per quanto io sappia, sostenne la rivendicazione della signora Whitehead sulla base del suo legame genetico: si trattava, cioè, del suo uovo. Essi ribaltarono semplicemente le valenze
aristoteliche e affermarono che i suoi diritti discendevano tutti da un legame di natura fisica. È inutile dire che i suoi avvocati furono identificati con una visione essenzialista della categoria «donna», in opposizione a una visione performativa o costruttivista. Stern fondava i suoi diritti sugli antiquati fondamenti aristotelici di «progetto», ma questi diritti non erano tenuti in nessun conto dai difensori più energici della Whitehead, che fondava i suoi diritti sulla materia. E la signora Stern non aveva nessun diritto. Ovviamente, il «progetto» non si trova sempre nella posizione di forza in cui si è trovato nel caso del signor Stern. Se il marito della signora Whitehead avesse rivendicato dei diritti sul bambino, il risultato avrebbe potuto essere diverso. I diritti del signor Stern avrebbero potuto benissimo scontrarsi con la vecchia dottrina, recentemente avallata nel caso giudiziario che opponeva Michael H. a Gerald D., secondo cui un bambino nato all’interno di un matrimo318
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nio è /pso facto il figlio «naturale» del padre, anche se i fatti a conoscenza testimoniano il contrario.
Viste le moderne tecniche, era solo una questione di tempo prima che il caso che opponeva i coniugi Calvert e Anna Johnson, nell’Orange County, finalmente deciso quest'anno dalla Corte suprema della California, traducesse, nella realtà, quello che molti pensavano fosse il principio teorico sottostante all’episodio di Baby M. Il caso, a mio avviso, problematizza in modo evidente le argomentazioni essenzialiste che si rifanno alla natura, avanzate per la maternità della signora Whitehead. I fatti sono i seguenti: Crispina Calvert, una donna originaria delle Filippine, subì l'asportazione dell’utero per un caso di fibroma apparentemente intrattabile; le sue ovaie erano intatte. Crispina e il marito iniziarono allora a prendere in considerazione la possibilità di ricorrere alla maternità surrogata. Anna Johnson, una donna di colore che, a volte, percepiva l’assistenza statale perché disoccupata, venne a conoscenza della loro situazione da una collega e si offrì di portare nel suo grembo il loro bambino. Il 15 gennaio 1990 si concluse l'affare: Crispina e il marito Mark, di origine inglese, firmarono un contratto con la Johnson, nel quale si stipulava che quest’ultima acconsentiva a portare nel suo grembo un embrione concepito in vitro dall’uovo e dallo sperma dei Calvert per la cifra di 10 mila dollari, oltre alle spese per le cure mediche. Il denaro doveva essere pagato a rate, l’ultima delle quali sei settimane dopo la nascita. Il 19 gennaio venne impiantato lo zigote e cominciò la gravidanza «di» Anna Johnson. A giugno, tre mesi prima della data prevista per il parto, diverse incomprensioni, rancori di classe e, forse, tensioni
razziali nascoste provocarono una crisi. La Johnson ritenne che i Calvert non avessero fatto abbastanza per garantirle una polizza d’assicurazione e che non le avessero dato sufficiente appoggio quando aveva avuto minacce d’aborto; i Calvert, da parte loro, erano
turbati per il fatto che la Johnson avesse taciuto che alcune delle sue precedenti gravidanze si erano concluse con un aborto. La donna chiese il pagamento anticipato di quello che le era ancora dovuto, motivando la richiesta con il fatto che doveva cambiare casa e non aveva i soldi per la caparra di un nuovo appartamento e l’installazione del telefono:
11 In questo caso, la corte sostenne che il padre adultero non poteva rivendicare alcun diritto sulla sua progenie rispetto ai diritti del legittimo marito della madre.
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Non sono in grado di tornare a lavorare fino alla nascita del bambino: le entrate sono scarse, non prendo abbastanza di assistenza da mettere insieme il denaro per l’affitto anticipato e la caparra per la casa, non ho i soldi per farmi attaccare il telefono. Non penso che vogliate che vostro figlio corra dei rischi, vivendo sulla strada. Finora mi sono occupata io del bene di questo bambino, è troppo chiedervi che ora vi occupiate voi di tutti e due?
Non è chiaro se la gravidanza avesse effettivamente provocato la disoccupazione della Johnson; non ci sono dubbi, invece, sità di risorse dei protagonisti del dramma. Dopo questo avere dei soldi, la Johnson inviò una richiesta e quindi una cui toni non sono molto diversi da quelli che potrebbero nel caso di un affare andato in fumo:
sulla diverappello per minaccia, i essere usati
Mancano solo due mesi e, una volta che il bambino è nato, io sarò libera da questo affare. Ma, vedete, la cosa può finire in due modi. Uno, mi pagate in anticipo l’intera somma, così io non sarò costretta a vivere per la strada, 0,
due, potete sognarvi di darmi una mano ma, chiamatela rottura di contratto, non avrete il bambino! [corsivo nel testo] Non vorrei arrivare a dover fare questo, non dopo esser arrivata fin qui, ma anche voi vorreste una mano d’aiuto se non aveste un posto dove andare e doveste pensare a voi stessi, al vostro bambino [che è anche il] barzbino di qualcun altro!!! [corsivo nel ali Aiutatemi a trovare un altro posto e a sistemarmi prima che nasca il ambino.
E poi la minaccia: Questa è l’ultima lettera che riceverete da me. La prossima che vi arriverà sarà dei miei avvocati, a meno che non vi facciate sentire per posta alla fine della settimana. 28 luglio 1990
Le parti finirono in tribunale per stabilire la genitorialità del bambino. Nonostante il suo chiaro ed energico riferimento al «bambino di qualcun altro», la Johnson giocò l’unica carta possibile. Lei e i suoi difensori, sulle stesse basi usate da Apollo contro la madre di Oreste, sostennero che il bambino era suo, poiché era lei che aveva
compiuto il lavoro di produrlo. In un contratto per la maternità surrogata, è proprio il lavoro ciò che viene venduto, alienato. «Quanto vengo pagata per i/ 7250 tempo e la mia energia?» [corsivo mio] è la domanda che viene posta in un opuscolo informativo per potenziali madri surrogate. E il lavoro non dà diritto al prodotto che da esso deriva, né in un’industria né nella storia della maternità. Ma i sostenitori della Johnson rovesciarono 320
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questo principio: è il lavoro che conta. Come afferma uno psichiatra membro di un'associazione nazionale contro la maternità surrogata: È lei la madre, perché è lei che ha portato questo bambino nel suo grembo e l’ha fatto nascere. Quello che la rende madre è il lavoro [corsivo mio] fisico ed emotivo da lei compiuto nel nutrire il feto e nel farlo crescere. È il suo corpo che porta ossigeno al bambino, che elimina i suoi rifiuti, che lo protegge dai batteri e dagli agenti esterni.
In questa definizione di maternità non c’è posto per nessuna rivendicazione di legami storici, per nessuna base su cui proiettare il mondo degli antenati. La maternità, come nel caso di Baby M, viene interpretata come una condizione concreta, del momento presente. In questo caso, tuttavia, il giudice in materia, con una sentenza
che venne poi confermata dalla Corte suprema della California, stabilì che il lavoro fisico non creava la genitorialità e fondò il suo verdetto su una valutazione di progetto — di causa efficiente, nel senso aristotelico — del tutto nuova e neutra rispetto al genere, conferente i diritti sia della maternità sia della paternità (è vero che Aristotele non avrebbe accettato due cause efficienti, ma...). Quindi, il bambino divenne una persona e non un’altra: Christopher Michael e non, come l’aveva chiamato la Johnson, Matthew. Qualsiasi cosa la Johnson avesse fatto, molto probabilmente la decisione finale non sarebbe cambiata. Da quanto ebbe ad affermare, tuttavia, sembrò che anche lei non tenesse in alcun conto il lavoro fisico, il tradizionale fondamento della maternità, mentre sembrò privilegiare qualcosa di molto meno consistente. Come la signora A., con cui ho iniziato, Anna Johnson disse che l’amore e il sentimento
di un legame potevano veramente essere trasferiti — uso questo
termine nel suo significato psicanalitico — soltanto in qualcosa che rappresentava continuità storica, presumibilmente in quelle parti del pool genetico che appartenevano a lei. In un'intervista alla stampa la
Johnson ammise: Se fosse stato il mio uovo sarebbe stato tutto molto diverso. Ma, così come è avvenuto [fertilizzazione in vitro], non ha nessun legame con me. C’è stato un distacco dal bambino sin dal primo giorno.
Ovviamente, la frase «se fosse stato il mio uovo» potrebbe semplicemente essere un altro modo di dire «se avessi pensato di poter tenere il bambino», cosicché il distacco di cui la Johnson parla deve essere interpretato come il misericordioso adeguamento della DZA
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ragione a una brutale realtà e non all'assenza del legame genetico stesso. Questa assenza, tuttavia, sembra rendere molto più facile il compito di attenuare il processo di identificazione. I geni, affermò il giudice, «mettono in moto lo sviluppo umano». Il legame della nascita è temporaneo; il legame dei geni è per la lunga distanza: «L’ereditarietà può essere la base del legame fra due individui per tutta la durata della loro vita... Noi vogliamo sapere chi è venuto prima di noi e chi verrà dopo». Così, paradossalmente, il crollo del modello patriarcale, secondo cui la storia della persona viene trasmessa attraverso il padre, ebbe come risultato il primo caso nella storia umana in cui la donna che ha dato alla luce un bambino non è la madre. In California, questa conclusione è il risultato di una definizione chiaramente liberale della genitorialità, espressa nello Uniform Parentage Act del 1975”. Uno degli scopi principali di questa legge era l’abolizione della distinzione fra bambini legittimi e bambini illegittimi; in essa venivano elencati i modi consueti di stabilire la genitorialità, con l'aggiunta di nuovi test scientifici, neutri rispetto al genere. Per quanto riguarda la prassi, stabiliva che «le disposizioni di questa parte, applicabili alla relazione fra padre e figlio, saranno applicabili anche alla madre». Essere il padre naturale ed essere la madre naturale significa esattamente la stessa cosa, vale a dire essere la fonte di metà del materiale genetico del figlio. La Corte, quindi, interpretò il paragrafo 7003.1 — «tra un figlio e una madre naturale, essa [la relazione genitore-figlio] può essere stabilita in base al fatto che la donna ha dato alla luce il figlio» — come non applicabile al caso di Anna Johnson”. Lei non era la madre naturale, nel senso, neutro rispetto al genere, in cui Mark
Calvert era il padre naturale e Crispina Calvert la madre naturale: nella tipizzazione dell’HLA «per ogni incongruenza osservata, la combinazione dei fenotipi avviene con frequenza irrilevante quando 12 In Inghilterra la legge è molto diversa. La Commissione Warnock suggerì la norma (che poi il parlamento convertì in legge) che la madre gestante fosse la madre e che il padre e «l’altra» madre fossero su un piede di assoluta parità, sia l’uno nei confronti dell’altra sia rispetto alla madre gestante, per quanto riguardava la custodia, le visite ai bambini e gli altri diritti.
13 Lascerò da parte, in questo caso, il tipo di domanda che una persona molto realista potrebbe fare: il giudice sarebbe arrivato a questa interpretazione se Anna Johnson fosse stata
bianca, più ricca o più istruita? Si ha la precisa sensazione che, in qualche modo, doveva essere
trovata un’interpretazione legale per impedire che un bambino bianco con una potenziale casa della classe media fosse assegnato a una madre nera e povera.
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la donna sottoposta al test è la madre e con una frequenza maggiore quando non è la madre [in questo caso, Anna Johnson]». Ci troviamo così di fronte a una situazione del tutto particolare dal punto di vista politico: il Consiglio nazionale dei vescovi, diversi gruppi fondamentalisti cristiani, l'American Civil Liberties Union (un gruppo di avvocati che si occupa delle cause per la violazione dei diritti civili) e il National Organization of Women appoggiano il valore del lavoro fisico, mentre agenzie per la maternità surrogata e giudici con pregiudizi di classe appoggiano una visione della storia dell’individuo come essere proveniente in ugual misura da ognuno dei due genitori. Non pretendo, ovviamente, di avere analizzato a fondo tutto ciò che è veramente in gioco in questi casi. Il denaro — quesiti relativi a ciò che si può e non si può vendere, questioni che vanno al di là della maternità surrogata fino a toccare, da un lato, la vendita di parti del corpo e, dall’altro, la prostituzione e la pornografia — è un elemento centrale in questo dibattito e io l'ho del tutto ignorato, ma credo di aver fornito prove sufficienti per indicare quanto sia sempre stato pieno di tensione il significato dell’espressione «carne della mia carne» e come le tecnologie moderne ripetano vecchie ambiguità in nuovi contesti.
Finora, in questo mio contributo, questioni riguardanti le emozioni, le comunità e la politica dell'identità hanno avuto una parte secondaria, ma è mia intenzione esaminare ora queste problematiche nel contesto del dibattito sulle madri lesbiche. Da un certo punto di vista, la nozione stessa di una comunità lesbica alla base di un nucleo familiare rappresenta il trionfo della cultura sulla natura. Una relazione fra lesbiche non è la configurazione «naturale in cui avere bambini. Ma, nello stesso tempo, i bambini sono considerati (come
lo sono anche più in generale) la base per immaginare l’esistenza dell’io e della comunità nel tempo. La biologia è stata conquistata negli interessi di un gruppo che, attraverso la lotta politica e lo sviluppo culturale, ha preso coscienza di sé: Ora che siamo venute fuori, all’aperto, e stiamo meglio con noi stesse,
possiamo avere bambini. Siamo degne di avere una famiglia, del rispetto di avere una famiglia.
Dare origine a famiglie di questo tipo implica, in molti casi, una ridefinizione dei diritti dello sperma e, in campo legale, sono state prese misure perché esso venga svincolato dal patriarcato. In una 325
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banca dello sperma, chiesi a una donna per quale motivo affrontasse spese considerevoli — 8 cc di sperma congelato in glicerina tamponata e garantiti per 180 giorni costano 116 dollari — per comprare qualcosa che, probabilmente, poteva avere gratis da un amico. «In realtà, costa meno pagarlo — disse —. E poi, non ha storia». In breve, il denaro ha, nei confronti della paternità, la stessa funzione che aveva nel vecchio regime nello stabilire i rapporti di relazione; il denaro, allora come adesso, è il grande risolutore a livello sociale. Sono in corso delle pratiche per spersonalizzare ulteriormente lo sperma e renderlo di proprietà della futura coppia. Nei casi di donazioni informali, cioè non professionali, di solito è un intermediario a trasportare lo sperma, spesso in un barattolo poco profondo e con l’apertura larga, del tipo che comunemente contiene cibo per bambini o carciofi marinati. A un’intermediaria che svolge regolarmente que-
sta funzione, piace mettere il barattolo in una calza, e poi fra le gambe, mentre guida. In generale, più mediata è la relazione fra il donatore di sperma e la ricevente, più moderate sono le rivendicazioni dei padri e più forti quelle delle madri. In Californa, la legge tratta soltanto dei casi di donazioni anonime a banche dello sperma; nella pratica, un medico può spersonalizzare lo sperma mediando il suo passaggio dal donatore all’utente. Il punto è che nella genitorialità lesbica, in linea di principio, la connessione emotiva e culturale dovrebbe prendere il posto della biologia. Il DNA dello sperma non è tenuto in alcun conto, sistematicamente.
Ma, come tutto ciò che viene represso, la biologia ritorna. Se lo sperma non è stato sufficientemente liberato della sua paternità, i padri rivendicano i loro diritti. Un gay che aveva inizialmente rinunciato a questi diritti, pur continuando ad avere rapporti con la coppia di lesbiche a cui aveva donato il proprio sperma, cambiò idea quando sostenne di avere visto «l’intera storia della mia famiglia negli occhi del bambino». E la corte appoggiò questo suo modo di identificarsi. Nei casi di scioglimento di una coppia, al momento di stabilire i diritti della maternità, la legge, di fatto, sancisce, una lotta deplorevolmente impari fra la biologia e le emozioni”. Michelle G. e Nancy S. 14 Oltre a questo, vanno aggiunte le spese per l’iscrizione iniziale, per le lezioni sul come imparare ad effettuare l’autoinseminazione, per i controlli medici e per la spedizione, qualora
richiesta.
5 Se i matrimoni fra gay e fra lesbiche fossero riconosciuti legalmente, il genitore «non-biologico» potrebbe adottare il bambino al quale non è legato da rapporti di sangue e, quindi, godere degli stessi diritti del genitore biologico.
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iniziarono a vivere insieme nell’agosto del 1969. Nel giugno del 1980 nacque la loro figlia «K»; quattro anni dopo ebbero un figlio, «S». Michelle inseminò Nancy con una pipetta per ungere gli arrosti, in modo che potesse concepire entrambi i bambini; Michelle è registrata sui loro certificati di nascita come il padre ed è il suo nome, quello del «padre», che è stato dato ai bambini. (In molte coppie di lesbiche, i bambini chiamano entrambi i genitori «mamma»; in altre coppie, il genitore che ha effettuato l’inseminazione viene considerato il padre e viene festeggiato il giorno della festa del papà, anche se, nella realtà, non viene chiamato «papà». Non ho le informazioni etnografiche necessarie per conoscere la frequenza dei diversi modi di rivolgersi ai genitori).
Nel gennaio del 1985, il «matrimonio» di Michelle e di Nancy terminò; esse concordarono un complicato sistema di visite, in base al quale ognuno dei due bambini avrebbe trascorso cinque giorni nella casa di ognuno dei due genitori, ma avrebbe trascorso quattro giorni insieme all’altro bambino nell’una o nell’altra casa. Tre anni dopo, Nancy cercò di cambiare questo accordo, in modo che i bambini trascorressero insieme il 50 per cento del loro tempo, alternativamente, con l’uno o con l’altro dei «genitori». Michelle si oppose a questi cambiamenti e Nancy intentò una causa per farsi riconoscere unica custode di entrambi i bambini. In una lite che scosse la comunità lesbica di San Francisco, il caso finalmente si concluse con la vittoria
completa della madre «biologica». Indipendentemente da quali fossero le intenzioni o le disposizioni delle due donne, la corte ritenne che la madre naturale dovesse avere il pieno diritto di custodia dei bambini e che la madre «emotiva» potesse rivendicare dei diritti soltanto se questi non erano contrari agli interessi della madre naturale. Due sono state le reazioni a questa decisione. La prima è stata di profondo risentimento. In un nuovo mondo impegnato a costruire classi diverse di legami e di relazioni è curioso, per non dire altro, che vengano fatte valere le pretese della biologia e l’esclusione della cultura. La posizione di Nancy sembrò ad alcuni del tutto antitetica rispetto a ciò per cui le comunità di gay e di lesbiche si erano sempre battute. D'altro canto, ci sono altre voci che parlano a favore della biologia, in qualunque modo la si voglia interpretare. Innanzi tutto, le associazioni di donne che hanno subìto maltrattamenti all’interno di una relazione eterosessuale si oppongono decisamente all’estensione dei diritti genitoriali, in quanto ogni ampliamento della definizione di 325
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genitore concederebbe a un partner abusivo, non legato biologicamente al bambino, degli appigli per ulteriori contatti e manovre legali. In secondo luogo, a partire dal 1982, ha fatto sentire la sua presenza il forte movimento dei bambini adottati, che asserisce il diritto di conoscere la verità tanto sulla maternità biologica quanto sulla paternità biologica: viene sostenuta la tesi emotivamente toccante della continuità del potere dell’«immaginario» del sangue, e solo del sangue. Quindi, viene opposto un vero e proprio fondamentali smo alla concezione che «tutte le strade debbano essere aperte [compresa la donazione anonima di sperma e il cedere anonimamente bambini per l’adozione]», che stiamo felicemente «espandendo e ricreando il significato di famiglia»!. Un’associazione, fondata da uno dei figli di madri coreane mandati a migliaia negli Stati Uniti per essere adottati, definisce la cancellazione del sangue come «il rapimento legalizzato della propria storia e della propria eredità genetica». Voci: la biologia è «l’elemento di base della nostra esistenza»; «non siamo noi a scegliere di essere tagliati fuori da metà del nostro patrimonio ereditario»; abbiamo «pieno diritto all’eredità genetica»; «dal punto di vista di un bambino», se tu non sai chi sono i tuoi genitori, «non ti senti vero. Vai alla deriva». Concluderò con un’altra voce, quella di un bambino adottato, forse non inquietante come quella con cui ho iniziato, ma sempre, tuttavia, profondamente misteriosa. C'è un posto, nella mente di ogni persona, per il padre con cui condivide i propri geni; c'è un posto, nella mente di ogni persona, per la madre che li ha messi al mondo e con cui condivide i propri geni. Nessuna ideologia o legge eliminerà quel posto, quel vuoto.
Nonostante l’evidente senso della geografia, di un posto fisico, la parola cruciale è «mente». La mia sensazione è che la storia della maternità e, sicuramente, della paternità, sia una storia delle possibilità di ciò che Melanie Klein ha chiamato «identificazione proiettiva» di !6 Su questo argomento, i sentimenti sono così forti che il più importante quotidiano per gay e lesbiche di San Francisco, diretto da un ex-bambino adottato, non permette l'inserzione di annunci per la donazione anonima di sperma. La Banca dello Sperma della California, dove ho condotto il mio lavoro sul campo, è praticamente al bando, a dispetto del fatto che la sua direttrice sia un’attivista lesbica molto nota, che sia la banca ad avere redatto il questionario più completo in base al quale è possibile ricavare la storia del donatore e che permetta il rilascio del nome del donatore quando il bambino ha compiuto diciotto anni.
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sguardi e di atteggiamenti materni, di immagini di sangue, di carne e di latte, come se fossero lo schermo analitico su cui si realizza il legame d’amore.
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Finito di stampare nel mese di gennaio 1995 per conto di Marsilio Editori® in Venezia dalla Grafiche TPM s.r.l., Padova
GIOVANNA FIUME insegna storia moderna alla facoltà di scienze politiche dell’Università di Palermo. Ha pubblicato: La crisi sociale della Sicilia del 1848 (Messina 1980), Bande armate in Sicilia. Violenza e
organizzazione del potere (Palermo 1984), Suicidio per mafia (Palermo 1986), Oxore e storia nelle società mediterranee (a cura, Palermo 1989), La vecchia dell'aceto. Un processo per veneficio nella Palermo di fine Settecento (Palermo 1990). Fa parte della Società Italiana delle Storiche e della direzione di «Quaderni Storici».
Saggi di Valeria Andò, Gianna Pomata, Giovanna Fiume, Emily Martin, Marina d’Amelia, Giulia Calvi, Maria Fubini Leuzzi, Marilena Modica, Giorgia Alessi, Nancy Triolo, Marilyn Strathern e Thomas W. Laqueur.
lire 48.000
088831"76145‘