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Italian Pages 288 [304] Year 2009
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ORERIA
Se io ne avessi avuta l’autorità, li avrei sterminati a milioni! [...] Li avrei sterminati tutti questi liberali, generali, rivoluzionari e donnette dissolute. Avrei fatto un bel mucchio e gli avrei dato fuoco! Se si irrigasse la terra di sangue e la si concimasse con le ceneri, sì che ci sarebbero dei buoni raccolti! I contadini sazi eleggerebbero delle autorità degne di loro. L’uomo è un animale e ha bisogno di pascoli ricchi e di campi fecondi. Le città andrebbero distrutte. E tutto il superfluo, tutto ciò che impedisce di vivere con semplicità, come vivono le capre e i galli, tutto questo vada pure al diavolo!
M aksim G o r ’ kij (1 8 68-1936), considerato il padre del realismo socialista, nella su a opera (racconti, romanzi, drammi: celebre Bassifondi, anche noto com e L’albergo dei poveri) ha sem pre avuto com e costante la denuncia della miseria, dell’ignoranza, della tirannia.
PROGETTO GRAFICO: LUCA ZANINI DESIGN E COMUNICAZIONE IN COPERTINA: STRADA AFFOLLATA IN RUSSIA NEI PRIMI ANNI DEL ‘ 900 IMMAGINE CORBIS
Euro 1 6,00
LETTERATURE UTET
Negli anni della Russia prerivoluzionaria, un orfano, un ragazzo che oggi ci sarebbe automatico definire almeno parzialmente “disadattato”, dalla campagna si trasferisce in città (M osca) d a uno zio. E qui entra in contatto con l’ambiente dei rivoluzionari. Straordinaria la rappresentazione dell’evoluzione psicologica e affettiva che lo porta a trovarsi nel campo avverso, a diventare un infiltrato, un informatore della polizia. Come pure straordinaria la rappresentazione di una Mosca mai descritta così sordida nei suoi interni: bottegucce miserande, abitazioni gelide, uffici e commissariati squallidi. E anche i rivoluzionari sono presentati con toni non certo eroici e mitizzanti: figure di poco rilievo, come pure di poco rilievo sono i loro oppositori, “spie” avide e pavide. Viene d a chiedersi se non è proprio questa assenza di retorica rivoluzionaria che ha reso questo straordinario libro un oggetto misterioso, quasi oscurato dalla critica ufficiale che di Gor' kij ha sempre preferito esaltare le opere più “ortodosse”.
Questo ebook è stato realizzato e condiviso per celebrare il Centenario della Rivoluzione russa 1917-2017
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Maksim G or’kij
Storia di un uomo inutile
Traduzione di Francesca Biagini Prefazione di Alessandro Barbero
UTET
UTET Libreria - Torino © 2009 UTET S.p.A. Titolo originale: M. Gor’kij, Polnoe sobranie solinenij. Chudoiestvennye proizvedenija v dvadcati pjati tomach. Povesti 1907-1909, tom devjatyj, Moskva: IzdateTstvo “Nauka” (1971)
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di ripro duzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. Finito di stampare nel mese di aprile 2009, da Print Duemila Albairate (MI), per conto della UTET Libreria
Ristampe:
0 1 2009
2 3 2010
4 5 2011
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2012
8 9 2013
Indice
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Prefazione
di Alessandro Barbero 3
Capitolo I
17 33
Capitolo II Capitolo III
49 63
Capitolo IV
73
Capitolo VI
87 IOI
Capitolo VII Capitolo V ili
117
Capitolo IX
137 143
Capitolo XI
157 167 177 185 199
Capitolo V
Capitolo X Capitolo XII Capitolo XIII Capitolo XIV Capitolo XV
207
Capitolo XVI Capitolo XVII
217
Capitolo XVIII
V ili
229 243 257 275
Indice
Capitolo XIX Capitolo XX Capitolo XXI Capitolo XXII
Prefazione
Il 28 novembre 1908 il «New York Times» pubblicò la recensione di un romanzo appena tradotto dal russo. L’autore, Maksim Gor’kij, era ben noto in America, do ve aveva soggiornato da poco senza nascondere il suo disappunto per quel che vedeva (« a disappointed visi tor among us»). Il recensore avverte che non si tratta d’un libro per lettori schizzinosi: Gor’kij illumina d’una luce cruda dettagli « che i nostri scrittori, più civiliz zati, sono stati addestrati a considerare troppo orribili o troppo intimi » per finire sulla pagina stampata, e il let tore dovrà stringere i denti e fors’anche tapparsi il naso per arrivare alla fine. Ma dopo tutto, conclude l’artico lista con un sospiro di sollievo, questa è la Russia, «e quando un paese è così malato come la Russia è inevi tabile che qualunque rappresentazione realistica della vi ta in quel paese risulti offensiva». Tanto basti per chi crede alla favola secondo cui la Rus sia degli zar era un paese prospero e felice e la rivoluzio ne d ’Ottobre ne avrebbe interrotto brutalmente il cam mino verso la modernità. Ma il lettore italiano non si faccia troppe fantasie, perché il menù che appariva im mangiabile nei puritani Stati Uniti d’inizio Novecento non risulta più così scandaloso un secolo dopo. Certo, c’è qualche morto ammazzato, ripetuti pestaggi, sesso sordido e clandestino: niente di più di quel che si trova
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Prefazione
ogni giorno sui nostri quotidiani. In compenso quel se colo che ci separa dall’onesto recensore americano per mette di ritrovare nella Storia d i un uomo inutile risvol ti ben più inquietanti, perché in questo libro scritto dieci anni prima della grande rivoluzione aleggiano premo nizioni soprannaturali di quello che doveva avvenire in Russia nel corso del Novecento. All’inizio l’atmosfera è quella di tanti romanzi russi fin desicele, che descrivono con compiacimento masochisti co lo squallore della vita provinciale, la grettezza della gente, la meschinità delle opinioni. Il protagonista Evsej nasce in campagna, ma non è la campagna immersa nei ritmi della natura che vagheggiavano fino a ieri gli scrittori russi della scuola contadina, persuasi che fosse stato il regime sovietico a distruggere una millenaria ci viltà. La campagna russa che Gor’kij descrive nel 1908 è un luogo tragico, immerso nella superstizione e nell’al colismo, dove l’unica risorsa, a parte la bottiglia, è fare a botte. La città in cui Evsej, rimasto orfano, è spedito a fare il commesso in un negozio di libri usati non è me no triste: alloggetti soffocanti, odore di chiuso e di cat tiva cucina, finestre mai spalancate, botteghe umide e polverose, gente sempre stanca, bagnata di pioggia e in zaccherata di fango, e anche qui le botte: i ragazzini più grandi picchiano i piccoli, i padroni picchiano gli ap prendisti, e naturalmente picchia la polizia, nei semin terrati del commissariato. Ma il romanzo si distacca all’improvviso da queste atmo sfere tradizionali e s’invola in una dimensione inattesa. Attraverso un colpo di scena che non riveleremo Evsej cambia lavoro, ritrovandosi prima impiegato in quello stesso commissariato e poi aggregato all’occhiuta squa dra di spie che qui come in qualunque altra città della Russia sorveglia la popolazione, alla ricerca di sovversi vi e rivoluzionari, studenti contestatori e operai malcon
Prefazione
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tenti, tutti sospettati d’essere in realtà al soldo dello spio naggio giapponese, inglese o tedesco: l’atmosfera gene rale infatti è di paranoia, e richiamerebbe i momenti più cupi dello stalinismo se non fosse che qui siamo ancora ai tempi dello zar. C ’è di tutto, fra le spie della polizia segreta il cui mestie re è fare amicizia con la gente e poi tradirla e sbatterla in galera: chi è finito lì per caso e tira a campare e chi cre de davvero d ’essere in prima linea per difendere la San ta Russia dai suoi nemici. Qualcuno, come il vecchio Ka piton Ivanovič, ex ufficiale dell’esercito, accorgendosi che più sovversivi si arrestano più ne saltano fuori comincia a chiedersi se non ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema: « Gli insetti proliferano perché in casa è umido. Così non li elimini, bisogna asciugare la casa», discorso che pe raltro gli basterà per essere a sua volta prontamente ar restato. E c’è il febbrile e fanatico Saša, poliziotto figlio di contadini, allevato a pidocchi e pane nero, e sicuro che la colpa di tutto è dei signori, dei nobili, dei generali, di tutti quelli che vivono in belle case, mangiano cibo sa no, portano biancheria pulita e si riempiono la bocca par lando di uguaglianza: sono loro i traditori, e verrà il gior no in cui i superiori autorizzeranno ad ammazzarli tutti. È nell’ambiguità di personaggi come Saša che G or’kij si rivela magicamente profetico. Saša è al tempo stesso il poliziotto proletario di Pasolini carico di odio per gli studentelli che giocano alla rivoluzione, e un Pol Pot in er ba che nella stanzetta maleodorante sogna il bagno di sangue rigeneratore: « Se io ne avessi avuto l’autorità, li avrei sterminati a milioni!... Li avrei sterminati tutti que sti liberali, generali, rivoluzionari e donnette dissolute. Avrei fatto un bel mucchio e gli avrei dato fuoco! Se si irrigasse la terra di sangue e la si concimasse con le ce neri, sì che ci sarebbero dei buoni raccolti! I contadini sazi eleggerebbero delle autorità degne di loro. L ’uomo
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Prefazione
è un animale e ha bisogno di pascoli ricchi e di campi fecondi. Le città andrebbero distrutte. E tutto il super fluo, tutto ciò che impedisce di vivere con semplicità, co me vivono le capre e i galli, tutto questo vada pure al dia volo!» Il dato cruciale è che personaggi come questi, in cui ba lena già tutta la tragedia del Novecento delle ideologie, non spuntano fra gli operai e i rivoluzionari, descritti da Gor’kij con convenzionale ottimismo, bensì fra i po liziotti. Sono i loro discorsi esagitati, le giustificazioni contorte che danno alle proprie azioni, il sospetto para noico che avvelena la loro esistenza, ad evocare ai nostri occhi di posteri il futuro della Russia, l’involuzione de gli ideali rivoluzionari, la tragedia dello stalinismo. Mol te pagine di questo romanzo e molti discorsi di questi po liziotti si potrebbero proporre a un lettore non avvertito facendogli credere che l’azione si svolge nell’Unione So vietica del 1938, e non ci troverebbe niente che lo avver ta dell’inganno. La Storia d i un uomo inutile è profetica anche nella sua descrizione di un mondo dove l’infelicità collettiva ha sempre la meglio sugli sforzi individuali. Molto prima del socialismo realizzato, i russi di G or’kij non hanno nessuna speranza nella possibilità di salvezza dell’indi viduo: «T i prenderanno, ti porteranno dove vogliono e faranno di te ciò che desiderano, è tutta qui la vita!» si sente dire il giovane Evsej dalla prima donna che gli di mostra un po’ di affetto. La seconda lezione, che segue logicamente la prima, è quella impartita dall’ufficiale di polizia che dopo averlo arrestato e tenuto a lungo in cel la gli offre di liberarlo purché d’ora in poi lavori per lui: « da oggi sarai tu stesso a far incarcerare le persone, pro prio nel posto da cui sei appena uscito e in altre stanzucce altrettanto confortevoli ». Per l’individuo la salvez za consiste soltanto nello stare dalla parte di quelli che
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arrestano, anziché di quelli che vengono arrestati; e an che i rivoluzionari credono di battersi per la libertà, ma in realtà desiderano tutt’altro, come spiega lucidamen te un superiore di Evsej: «Le persone che ci interessano hanno tutti le stesse abitudini: non credono in dio, non vanno in chiesa, si vestono male, ma hanno modi edu cati. Leggono molti libri, fanno tardi la notte... Parlano anche della povertà del popolo», ma in realtà ciò che vogliono è « ristabilire la schiavitù per mezzo del socia lismo, ottenendo così per se stessi la più assoluta libertà». Ma Gor’kij è indovino anche nel profetizzare che i rus si sapranno essere un grande popolo soltanto nei mo menti d’emergenza, ogni volta che l’incendio minaccerà di divorarli. Un’intuizione che compare fin dai primi ca pitoli del romanzo, quando Evsej ancora bambino si ac corge che l’unico momento in cui la gente del villaggio anziché litigare e ubriacarsi lavora con allegria, e sa di mostrarsi generosa e altruista, è proprio quando scop pia un incendio. Quel giorno tutti avevano trovato nel lo sforzo collettivo una ragione di vita, «e tutto era perfetto, come in un sogno». Non avrei mai creduto che queste persone ne fossero capaci, pensa Evsej: « Se potes sero vivere sempre così, se bruciasse sempre!» Ma l’in cendio non può durare in eterno: alla fine sulle ceneri del vecchio sistema ne sorge uno nuovo, e per i singoli in dividui il risultato è sempre lo stesso. Anche qui l’ulti ma parola, la più spaventosamente profetica, spetta a Saša, il poliziotto contadino che sogna di sterminare tut ti i signori, ma sa fin troppo bene che cosa succederà al la brava gente che ha creduto all’utopia: « Il nuovo si stema di governo li distruggerà: le persone tranquille creperanno di fame e i ribelli marciranno in prigione». Così scriveva Maksim Gor’kij nel 1908, probabilmente senza sapere di aver già capito tutto. Alessandro Barbero
Capitolo I
Quando Evsej Klimkov aveva quattro anni, suo padre fu ucciso da un guardaboschi. Quando ne compì sette per se la madre: morì improvvisamente nei campi, al tempo del raccolto, in modo tanto inatteso che Evsej, quando la vide morta, non si spaventò neppure. Lo zio Pëtr, un fabbro, posata la mano sulla testa del ragazzo, disse: «Che cosa faremo?». Evsej si rincantucciò in un angolo, vicino alla panca su cui giaceva il corpo della madre, e con un filo di voce ri spose: «Non lo so...». Il fabbro, asciugatosi il viso sudato con la manica della camicia, tacque a lungo, poi pian piano allontanò il nipote. «Eh, povero vecchietto!». Da quel giorno il ragazzo cominciarono a chiamarlo Vecchietto. Gli si addiceva: era basso per la sua età, si muoveva in modo fiacco e parlava con voce flebile. Sul vi so scarno sporgeva triste il naso adunco, ammiccavano timorosi i tondi occhi scialbi e i radi capelli gialli cresce vano a ciuffi. I ragazzini a scuola ridevano di lui e lo pic chiavano, il suo viso da civetta chissà perché irritava i bam bini sani e vitali. Per questo se ne stava in disparte e viveva solo, sempre rannicchiato e timoroso in qualche angolo o cantuccio buio, dal quale, con gli occhi perennemente
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spalancati, scrutava le persone senza essere notato. Quan do gli occhi si affaticavano, li chiudeva e sedeva a lungo nell’oscurità, dondolando adagio il corpo gracile e legge ro. Cercava di passare inosservato anche a casa dello zio, ma non era semplice: bisognava infatti pranzare e cenare insieme agli altri, e a tavola Jakov, il figlio minore del fab bro, grasso e rubicondo, cercava in tutti i modi di punzec chiarlo o di farlo ridere con delle smorfie, facendogli la lin gua, tirandogli qualche calcio sotto il tavolo e dandogli i pizzicotti. Farlo ridere era impossibile, ma spesso Evsej sus sultava dal dolore, il suo viso giallastro s’ingrigiva, spalan cava gli occhi e il cucchiaio gli tremava in mano. «Che cos’hai, Vecchietto?» chiedeva lo zio Pëtr. «È Jakov che mi...» senza lamentarsi spiegava il ragaz zo con voce ferma. Se lo zio Pëtr dava uno scappellotto a Jakov o gli tira va i capelli, la zia A gaf ja, protendendo in avanti le lab bra tuonava incollerita: «Eh, eh, spione...». Poi Jakov lo scovava da qualche parte e gliele dava a lungo e di santa ragione. Evsej prendeva le percosse co me qualcosa di inevitabile: non gli conveniva lamentarsi di Jakov, perché le botte che lo zio Pëtr avrebbe dato al fi glio venivano poi restituite dalla zia AgaPja al nipote con gli interessi e in modo ben più doloroso. Per questo, quando vedeva che il cugino si accingeva a picchiarlo, il Vecchietto si buttava a terra e si raggomitolava più che poteva, stringendo le ginocchia al ventre, riparandosi il viso e la testa con le braccia e abbandonando i fianchi e la schiena ai pugni. Quanto più pazientemente Evsej sopportava le percosse, tanto più Jakov si infiammava, e se talvolta Evsej scoppiava in lacrime, il cugino gridava continuando a prenderlo a calci: «Piangi, lurido verme!». Un giorno Evsej trovò un ferro di cavallo e lo regalò
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a Jakov, tanto glielo avrebbe sottratto comunque. Inte nerito dal regalo, Jakov gli chiese: «Ti ho fatto male prima?». «Sì!» rispose Evsej. Jakov, dopo averci riflettuto un attimo, si grattò la te sta e disse: «Non fa niente, passerà!». E se ne andò. Ma la sua parola aveva toccato l’animo di Evsej, che ripete speranzoso con un filo di voce: «Passerà...». Una volta, vedendo che le contadine in pellegrinag gio si sfregavano delicatamente le gambe affaticate con l’ortica, provò anche lui a strofinarsi i fianchi percossi da Jakov e gli parve che l’ortica lenisse notevolmente il do lore. Da quel giorno, dopo le botte, disinfettava sempre le parti livide con le foglie lanuginose della pianta malvagia che tutti odiavano. Studiava con scarso profitto, arrivava a scuola pieno di paura che lo picchiassero e ne usciva maltrattato e rancoroso. Il suo terrore di essere trattato male era talmente evi dente che suscitava in tutti l’irrefrenabile desiderio di prenderlo a cazzotti. Poi si scoprì che Evsej aveva una voce da contralto e il maestro lo prese nel coro della parrocchia. Così trascor reva meno tempo a casa ma, in compenso, alle prove in contrava più spesso i compagni di scuola, che in quanto a botte non erano da meno di Jakov. La vecchia chiesa di legno gli piaceva: i suoi innume revoli angoli bui gli facevano venire voglia di sbirciare con tinuamente nel loro silenzio tiepido e accogliente. Si aspet tava in cuor suo di trovarvi qualcosa di bello e inusuale che lo avrebbe preso tra le braccia e stretto dolcemente a sé per raccontargli una storia, come faceva sua madre. Le icone erano nere per il fumo sedimentatosi nel corso
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degli anni e i sacri volti, benevoli e austeri, ricordavano tutti allo stesso modo il viso scuro dello zio Pëtr. Ma nella parte della chiesa un tempo destinata ai pec catori pentiti si trovava un quadro raffigurante un santo che afferrava un demonio e lo colpiva. Il santo era scuro, alto, nerboruto e con le braccia lunghe, mentre il diavo lo era un esseruncolo tutto rosso e smilzo, simile a un ca pretto. All’inizio Evsej non guardava neppure il diavolo, desiderava perfino sputargli addosso, poi cominciò a pro vare pena per il povero demonietto e, quando attorno non c’era nessuno, accarezzava piano piano il musetto capri no del maligno, contratto dalla paura e dal dolore. Nacque così nel ragazzo, per la prima volta, il senti mento della pietà. La chiesa gli piaceva anche perché tutte le persone, per fino i più chiassosi e gli attaccabrighe, divenivano docili e silenziosi. Il tono di voce alto spaventava Evsej, che sfuggiva ai visi concitati e alle grida, perché una volta, nel giorno di mercato, aveva visto gli uomini dapprima parlare forte, poi cominciare a gridare e a darsi spintoni, fino a che un tale, dopo avere afferrato un paletto e averlo agitato in aria, aveva sferrato un colpo. Allora era risuonato un urlo stra ziante, un grido, e molti si erano buttati a correre, trasci nando a terra il Vecchietto, che era caduto con il viso su una pozzanghera. Quando d’un tratto si era risollevato, si era visto venire incontro un uomo gigantesco che agi tava le mani e al posto del volto aveva una chiazza tremo lante di un rosso accecante. La scena era stata talmente spaventosa che Evsej, dopo aver lanciato un grido, era co me sprofondato in un buco nero. Era stato necessario spruzzarlo con dell’acqua per farlo tornare in sé. Aveva paura anche degli ubriachi, in ciascuno dei quali, come era solita dirgli la madre, si annida un demone. Il Vec chietto immaginava questo demone irsuto come un riccio
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e umido come una rana, fulvo e con gli occhi verdastri. Credeva che entrasse dentro la pancia e che là si agitasse, cosicché la persona diveniva rabbiosa. In chiesa c’erano molte altre cose belle. Oltre alla pa ce, al silenzio e alla dolce oscurità, a Evsej piaceva il can to. Quando cantava a memoria, senza guardare lo sparti to, stringeva forte gli occhi e, fondendo la sua voce all’onda comune delle altre, in modo che non si distinguesse, era come se si nascondesse tutto in un luogo accogliente, co me se si addormentasse dolcemente. E in questo stato di dormiveglia aveva sempre l’impressione di galleggiare via da quella vita verso un’altra, tenera e tranquilla. Cominciò a coltivare un sogno, che una volta confes sò allo zio: « È possibile vivere in modo da andare ovunque e ve dere tutto, senza che nessuno mi veda?». «Come l’uomo invisibile?» chiese il fabbro. E dopo aver riflettuto un po’, rispose: «Direi proprio di no». Dacché tutto il villaggio aveva cominciato a chiama re Evsej Vecchietto, lo zio Pétr lo chiamava « orfano ». Per sona particolare in tutto, il fabbro non incuteva paura neanche da ubriaco: si sfilava semplicemente il cappello, camminava per strada sventolandolo, cantava canzoni con voce malinconica, sorrideva, scuoteva la testa, e le lacri me gli scorrevano dagli occhi più copiose che a una per sona sobria. A Evsej sembrava che lo zio fosse l’uomo più buono e intelligente del villaggio, che con lui si potesse parlare di tutto: sorrideva spesso, pur non ridendo quasi mai, e parlava senza fretta, con voce bassa e seria. Talvol ta nella bottega parlava come tra sé, senza prestare atten zione al nipote o dimenticandolo, cosa che Evsej amava in modo particolare. Nei suoi discorsi litigava sempre con qualcuno e cercava di convincerlo: « Dannata carogna, - bofonchiava senza arrabbiarsi e
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senza gridare - bestia insaziabile. Forse non lavoro? Ec co, mi si sono seccati gli occhi, presto sarò cieco, cosa de vo fare ancora? Stramaledetta sorte, vita infernale senza gioia né onore!». Era come se il padrino intonasse delle canzoni, e a Evsej pareva che il fabbro riuscisse a vedere colui a cui stava parlando. Una volta il ragazzo gli domandò: «Con chi parli?». «Con chi parlo?» ripetè il fabbro, senza rivolgergli lo sguardo, e poi sorridendo rispose: «Con la mia stessa idiozia parlo». Ma erano rare le occasioni in cui Evsej riusciva a con versare con il padrino; nella bottega c’era sempre qualcu no di estraneo. Spesso Jakov girava intorno come una trot tola, coprendo i colpi del martello e il crepitio dei carboni nella fucina con le sue grida acute e in sua presenza Evsej non osava neppure gettare uno sguardo allo zio. La bottega del fabbro si trovava sull’orlo di un picco lo dirupo, sul fondo del quale, tra i cespugli dei salici, Evsej trascorreva tutto il suo tempo libero in primave ra, estate e autunno. Nel dirupo c’era pace come in chie sa, cinguettavano gli uccelli, ronzavano le api e i bom bi. Il ragazzo sedeva là, dondolandosi e pensando a qualcosa con gli occhi serrati, oppure vagava per i cespu gli porgendo l’orecchio al rumore della bottega e quan do sentiva che lo zio era solo, quatto quatto strisciava da lui. «Allora, orfano?» lo accoglieva il fabbro, socchiuden do gli occhi umidi di lacrime. Una volta Evsej gli domandò: «Le forze del male di notte entrano in chiesa?». Dopo aver pensato un po’, il fabbro rispose: « E perché non dovrebbero, si infilano dappertutto, per loro è facile...».
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Il ragazzo sollevò le spalle e con gli occhi sgranati e indagatori scrutò tutti gli angoli bui della bottega. «Non devi aver paura di quei diavoli!» lo incoraggiò lo zio. Evsej sospirò e rispose sottovoce: «Io non ho paura». «Non ti fanno niente!» gli spiegò sicuro il fabbro, asciu gandosi gli occhi con le dita nere. Allora Evsej domandò: «E Dio invece?». «Cosa c’entra Dio?». «Perché lascia entrare i diavoli in chiesa?». « Cosa deve fare? Non è mica il custode delle chiese...». «Non abita lì?». «Chi, Dio? E che bisogno ha! Lui, orfano mio, può sta re ovunque. La chiesa è per le persone». «E le persone a cosa servono?». «Beh, le persone, dunque... insomma, per tutto! Sen za persone non si può fare nulla, eh sì...». «È per Dio che esistono?». Il fabbro guardò il nipote di sottecchi e dopo aver esi tato un po’ rispose: «Certo». Poi si pulì le mani nel grembiule e, guardando il fuo co nella fucina, disse: «Io non so queste cose, orfano. Dovresti chiedere al maestro, oppure al pope». Evsej, asciugatosi il naso con la manica della camicia, rispose: «M i fanno paura». « Faresti meglio a lasciar perdere questi discorsi —gli suggerì con aria seria lo zio Pëtr. —Sei giovane tu, diver titi, stai in salute. La vita è delle persone sane: se non sei in forze, non puoi lavorare e quindi non puoi stare al mon do. Eccoti tutta la nostra saggezza, e di cosa ha bisogno Dio, beh, questo non lo sappiamo ».
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Azzittitosi, si mise a pensare senza staccare gli occhi dal fuoco, poi continuò in tono serio e distaccato: « Da un lato, non so niente, dall’altro, non capisco! Co me si suol dire: “Tutte le cose, Signore, hai creato con grande saggezza”». Guardò la fucina e, notato il ragazzo nell’angolo, disse: «Cosa ti rannicchi? Ti dico vai, divertiti!». E quando Evsej se ne andò timidamente, il fabbro ag giunse alle sue spalle: « Roba che ti va una scintilla in un occhio e diventi orbo. Poi cosa ce ne facciamo di un orbo?». Quando era in vita, la madre era solita raccontare a Evsej delle fiabe nelle sere d’inverno, quando la tormen ta, scuotendo le pareti dell’isbà, correva per il tetto e stri sciava in ogni angolo, come in cerca di qualcosa, si infi lava nel camino e ululava lamentosamente frangendosi in suoni dissonanti. La mamma parlava con la voce bas sa e assonnata, che talvolta si spezzava e si confondeva, e ripeteva molte volte la stessa parola. Al ragazzo sembrava che tutte le cose che raccontava, la madre le vedesse nel l’oscurità, in modo indistinto. Le conversazioni con lo zio Pëtr ricordavano a Evsej le fiabe della madre; anche il fabbro, evidentemente, ve deva nel fuoco della fucina i diavoli e Dio e tutto l’orro re della vita umana, ed era questo che lo faceva piangere costantemente. Evsej ascoltava i suoi discorsi, che gli si im primevano nella memoria senza sforzo, gli riempivano il cuore di un terribile fremito di attesa e vi rafforzavano la speranza che un giorno avrebbe visto qualcosa di diverso dalla vita del villaggio, dai contadini ubriachi, dalle don ne irose e dai ragazzini chiassosi, qualcosa di tenero e se rio, come la funzione in chiesa. I vicini di casa del fabbro avevano una bambina cieca di nome Tanja. Evsej aveva fatto amicizia con lei e la por tava a passeggiare per il villaggio, l’aiutava con premura
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a scendere per il dirupo e intanto le raccontava qualcosa sottovoce, sgranando intimorito gli occhi acquosi. La lo ro amicizia era stata notata in paese ed era gradita a tutti, ma un giorno la madre della ragazza cieca andò a lamen tarsi dallo zio Pëtr. Sosteneva che Evsej con i suoi discor si aveva spaventato Tanja che ora non voleva rimanere so la, piangeva, dormiva male e nel sonno si agitava, scalciava e gridava. « Che cosa le abbia messo in testa non si capisce, ma ora non fa che farfugliare di diavoli, che il cielo è nero e ha dei buchi attraverso i quali si vede ardere il fuoco do ve i diavoli fanno le capriole e stuzzicano le persone. È mai possibile raccontare delle cose del genere a una bimba?». «Vieni un po’ qua!» disse zio Pëtr al nipote. Evsej gli si avvicinò in silenzio da un cantuccio e il fabbro, posatagli sulla testa la mano pesante e ruvida, gli chiese: «Hai detto queste cose?». «Sì». «Perché?». « Non lo so ». Il fabbro, senza togliere la mano, allontanò la testa del ragazzo e, guardandolo negli occhi, disse serio: «Il cielo è forse nero?». Evsej borbottò sottovoce: «E di che colore, se no, se non vede». «Chi?». «La piccola Tanja». «È vero!» disse il fabbro e, dopo aver pensato un po’, domandò: «E il fuoco è nero? Questo perché te lo sei inventato?». Il ragazzo restò in silenzio, con gli occhi bassi. « Su, dillo, magari non le buscherai! Perché vai in gi ro a dire queste sciocchezze?». «M i fa compassione» rispose Evsej con un fil di voce.
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Il fabbro lo scostò delicatamente e disse: «Non osare mai più parlare con lei, hai capito? Mai più. Tu, Praskov’ja, non ti preoccupare, la tronchiamo questa amicizia». « Bisognerebbe dargliele di santa ragione! —disse la ma dre della ragazza cieca - Mia figlia era tranquilla, non da va fastidio a nessuno e ora non si può lasciarla sola un mo mento». Quando Praskov’ja se ne andò, il fabbro in silenzio prese Evsej per il braccio, lo portò nel cortile e gli chiese: « Ora mi vuoi spiegare perché hai spaventato quella ra gazzina?». La voce dello zio era bassa ma severa. Evsej si impaurì e balbettando cominciò a giustificarsi velocemente: « Io non l’ho spaventata, l’ho detto solo così, perché lei si lamenta sempre, dice che vede solo nero e che io invece ve do tutto. Allora ho cominciato a dirle che tutto è nero, per ché non fosse invidiosa. Non l’ho spaventata per niente». Singhiozzò, sentendosi trattato ingiustamente. Lo zio Pétr si mise a ridere piano. « Stupido che non sei altro! Se usassi la testa. Sono so lo tre anni che non vede, non è mica nata cieca, è stato il vaiolo. Quindi, se lo ricorda di che colore sono le cose. Quanto sei sciocco!». «N on sono sciocco, mi ha creduto!» obiettò Evsej asciugandosi gli occhi. «Va be’. Comunque non devi vederla più, hai capito?». «Sì». « E piangi pure, non è niente, crederanno che ti ho pic chiato». Il fabbro gli diede una piccola spinta sulla spalla e ri dacchiando aggiunse: «Che furfanti che siamo, io e te!». Allora il ragazzino affondò la testa sul suo fianco e con voce tremante domandò:
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«Perché tutti mi maltrattano?». «Non lo so, orfano» rispose lo zio dopo averci pensa to un po’. Le offese cominciarono a provocare al ragazzo un pia cere pungente e in lui iniziò a maturare confusamente la convinzione di non essere come tutti gli altri e che pro prio per questo lo maltrattavano. Il villaggio si trovava su un’altura. Al di là del fiume si estendeva la palude fangosa. D ’estate, dopo i giorni di calura, dal pantano si alzava una foschia soffocante di co lore lilla e dal boschetto spuntava nel cielo la luna rossa. La palude esalava sul villaggio il suo putrido respiro, river sava sulle persone nugoli di zanzare, l’aria gemeva, pian geva per il loro tedioso ronzare e l’avido affaccendarsi, mentre la gente si grattava a sangue, misera e stizzita. Di notte per la palude erravano tremolanti dei fuochi azzurri, si diceva fossero le anime in pena dei peccatori. Le persone sospiravano afflitte e ne avevano pietà, pur non avendo mai provato compassione l’uno per l’altro. Ma potevano anche vivere in letizia e armonia. Evsej una volta se ne accorse. Una notte, quando al ricco Veretennikov andò in fiamme il fienile, il ragazzo corse nell’orto, si arrampicò su un salice e si mise a osservare l’incendio. Gli sembrava che in cielo si contorcesse il corpo fles sibile e alato di uno spaventoso uccello nero fumo con il becco di fuoco. Con la rossa testa abbagliante chinata ver so terra, l’uccello dagli aguzzi denti di fuoco strappava avi do la paglia e rosicchiava il legno. Il suo corpo di fumo, muovendosi, turbinava nel cielo nero, cadeva sul villag gio, serpeggiava sui tetti delle isbe per poi sollevarsi leg gero e vaporoso senza staccare da terra la ardente testa ros sa, spalancando sempre di più il becco feroce. Di fronte al fuoco tutte le persone parevano piccole e scure. Spruzzavano acqua, conficcavano nella fiamma
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lunghe aste strappando dai denti spietati i covoni arden ti e calpestandoli con i piedi, tossivano, sbuffavano e star nutivano, asfissiati dal fumo denso. Gridavano, ululava no, fondendo le loro voci con il fischio e l’urlo delle fiamme e incalzavano il fuoco sempre di più, circondan do la testa rossa in un anello nero e brulicante, come strin gendogli un cappio al collo. Il cerchio si spezzava qua e là, ma subito lo riannodavano e lo serravano ancora più saldo e stretto; il fuoco si dimenava ferocemente, salta va, il suo corpo si dilatava, si gonfiava, contorcendosi co me un serpente e cercando di staccare da terra la testa stretta nella morsa delle persone; poi, ormai stanco e pri vo di forze, cadeva tetro sui fienili vicini, strisciava per gli orti, si dissolveva debole e lacero. «Forza, tutti insieme!» gridavano le persone incorag giandosi l’un l’altro. «Presto, dell’acqua!» risuonavano le voci delle donne. Le donne formavano una catena dall’incendio fino al fiume, una accanto all’altra, estranee o familiari che fosse ro, amiche o nemiche, e per le loro mani passavano in cessantemente i secchi con l’acqua. «Più in fretta, donne! Più in fretta, care!». Era un piacere e una gioia osservare la lotta di quella vita così bella e armoniosa contro il fuoco. Tutti si inco raggiavano a vicenda e si complimentavano con gli altri per la loro agilità e forza, litigavano affettuosamente, le grida erano benevole: sembrava che con il fuoco tutti con siderassero gli altri buoni e che le persone si apprezzasse ro l’un l’altra. E quando alla fine le fiamme furono vinte, si fecero allegri. Si misero a intonare canzoni, a ridere, a vantarsi del proprio lavoro davanti agli altri, a scherzare. Gli anziani si procurarono la vodka e bevvero un po’ per tirarsi su, mentre la gioventù fece baldoria per strada qua si fino al mattino e tutto era perfetto, come in un sogno. Evsej non udì un solo grido malevolo, non notò un
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solo volto incollerito; per tutto il tempo dell’incendio nes suno aveva pianto per il dolore e l’umiliazione, nessuno aveva urlato selvaggiamente per la rabbia, pronto a com mettere un delitto. Il giorno dopo disse allo zio Pëtr: «Come è stato bello ieri!». «SI, orfano, proprio bello! Un altro po’ e il fuoco avrebbe divorato metà del villaggio». « Parlo delle persone! - spiegò il ragazzo - Di come si davano da fare in armonia. Se potessero vivere sempre cosi, se bruciasse sempre!». Il fabbro ci pensò su e chiese meravigliato: « Quindi, vuol dire che devono esserci sempre gli in cendi?». E, guardando severo Evsej disse, minacciandolo con il dito: «Tu, genietto, stai attento a non provocare un guaio! Ma guarda un po’, gli piacciono gli incendi!».
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Capitolo II
Quando Evsej ebbe finito di andare a scuola il fabbro gli disse: « Ora dove ti sistemeremo? Qui non servi a nulla. Og gi vado a comprare il mantice, orfano, ti porto in città». «Proprio tu mi porti?» chiese Evsej. «Sì. Ti dispiace lasciare il villaggio?». «N o, mi dispiace lasciare te». Il fabbro ficcò nella fucina un pezzo di ferro e siste mando i carboni con le pinze rispose pensoso: « Per me non c’è da dispiacersi, io sono un uomo, uno come tanti nel villaggio». «T u sei meglio di tutti!» disse piano Evsej. Lo zio Petr forse non udì le sue parole, perché non ri spose nulla, estrasse dal fuoco il ferro rovente, socchiuse gli occhi e cominciò a batterlo facendo volare le scintille rosse. Poi si fermò di scatto, abbassò lentamente la mano con il martello e sorridendo disse: «Bisogna insegnarti qualcosa». Evsej si fece tutto orecchi aspettando gli insegnamenti dello zio. Ma il fabbro mise di nuovo il ferro nel fuoco, si asciugò le lacrime sulle guance e guardando nella fucina si dimenticò del nipote. Arrivò un uomo con un cerchione da riparare. Evsej scese nel dirupo, si sedette tra i cespugli e vi rimase fino al tramonto del sole, aspettando che lo zio re stasse solo nella bottega, ma non accadde.
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Il giorno della partenza dal villaggio si cancellò dalla memoria del ragazzo; ricordava solo che quando erano usciti nel campo era buio e si stava stranamente stretti, il carro sobbalzava forte e ai lati si ergevano scuri alberi im mobili. Ma più si allontanavano, più la terra diventava va sta e luminosa. Lo zio durante tutto il tragitto aveva un aspetto cupo e alle domande rispondeva malvolentieri, brevemente e confusamente. Viaggiarono tutto il giorno e si fermarono a dormire in un piccolo villaggio. Durante la notte qualcuno suonò la fisarmonica a lungo e con maestria, una donna pian geva e a tratti una voce incollerita gridava: «Silenzio!». Poi imprecava. Ripartirono che era ancora notte. Due cani li accom pagnarono, guaendo correvano nell’oscurità intorno al carro, e quando uscirono dal villaggio, nella foresta, a si nistra della strada, sentirono echeggiare il lugubre e lamen toso verso del tarabuso. «Voglia Dio che sia di buon augurio!» borbottò il fabbro. Evsej si addormentò e si svegliò che lo zio lo stava pic chiettando leggermente sulle gambe con il manico della frusta. «Guarda, orfano, ehi!». Agli occhi addormentati del ragazzo la città apparve come un enorme campo di grano saraceno; fìtta, variopin ta, si estendeva senza fine, in mezzo spuntavano come fio ri gialli le cupole d’oro delle chiese e le strade la solcava no come pieghe scure. « Oh!» esclamò Evsej dopo aver guardato con attenzione. La città, facendosi più grande, diventava sempre più va riopinta. Verde, rossa, grigia, oro, brillava tutta, riflettendo i raggi del sole sui vetri delle infinite finestre e sulle cupole d’oro delle chiese. Accendeva nel cuore l’attesa di qualcosa
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di straordinario. In ginocchio, Evsej stava aggrappato con la mano alla spalla dello zio e guardava fisso in avanti, men tre il fabbro gli diceva: « Stammi a sentire, nella vita fai quello che devi fare e poi mettiti da parte. Diffida delle persone intraprenden ti, su dieci, uno forse ce la fa, gli altri nove ci rimettono la pelle». Parlava esitando, come se lui stesso dubitasse di dire ciò che era giusto. Evsej lo ascoltava attento e serio, in at tesa di sentire dei consigli speciali per difendersi dai pe ricoli della sua nuova vita. Il fabbro prese fiato e continuò con tono più fermo e sicuro: «A me, orfano, una volta per poco non mi hanno fru stato a sangue nel distretto rurale. Allora ero fidanzato, mi dovevo sposare e loro cosa fanno, mi volevano frustare! Tanto a loro cosa cambia, non pensano agli affari degli al tri. Un’altra volta ho scritto una denuncia al governatore e in tutta risposta mi hanno tenuto tre mesi e mezzo in prigione, più le botte. Che botte ho dovuto sopportare, sputavo persino sangue e gli occhi è da allora che mi la crimano. Una guardia, un tipo coi capelli rossicci, non tanto alto, non faceva altro che darmi dei colpi sulla te sta con un qualche arnese». « Beh, —disse piano Evsej —questo non me lo raccon tare». « E allora che cosa ti devo dire? —esclamò zio Pëtr sor ridendo - Non c’è niente, orfano, da dire». Evsej abbassò tristemente il capo. Gli venivano incontro delle case isolate, sudice, av volte da odori pesanti, che parevano attirare il cavallo e il carro con i viaggiatori sempre più dentro le loro reti in tricate. Sui tetti rossi e verdi sporgevano come verruche i comignoli, dai quali si alzava un fumo grigio e azzurro gnolo. Altre ciminiere spuntavano direttamente da terra;
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mostruosamente alte e sporche, emanavano un fumo den so e nero. La terra, indurita per il continuo passaggio, sem brava impregnata di fumo grasso; da ogni parte, fenden do l’aria, si insinuavano rumori pesanti e lugubri e il ferro rimbombava, rombava, fischiava, tuonava rabbioso. Lo zio disse: « Questa non è ancora la città, queste sono le fabbriche». Si addentrarono nell’ampia strada, delimitata da case di legno. Dipinte in vari colori, malmesse e tozze, aveva no un aspetto tranquillo e accogliente. Particolarmente belle erano le case con il giardino che, come cinte da grem biuli verdi, apparivano curate e allegre. « Siamo ormai arrivati! —disse il fabbro facendo vol tare il cavallo in un vicolo stretto —Tu, orfano, non ave re paura». Fermò il cavallo presso il portone aperto di una gran de casa, saltò a terra ed entrò nel cortile. L’edificio era vec chio, pendeva tutto da un lato, sotto le piccole finestre scu re sporgevano le travi. Nel grande cortile sudicio c’erano molte carrozze, quattro uomini intorno a un cavallo bian co lo esortavano con spinte e forti grida. Uno di questi, grasso, calvo, con una grande barba gialla e il viso roseo, visto zio Pëtr, spalancò le braccia e gridò: «Ah!». Nella stanza angusta e buia bevevano il tè e il calvo rideva e gridava talmente forte da far risuonare le stovi glie sul tavolo. L’aria era viziata, c’era un forte odore di pane caldo. Evsej aveva sonno e guardava continuamen te verso un angolo dove, dietro la sudicia zanzariera, c’e ra un letto ampio con una gran quantità di cuscini. Vo lavano molti mosconi neri, che gli sbattevano sulla fronte, gli si arrampicavano per il viso e gli solleticava no fastidiosamente la pelle sudata. Evsej però non osa va scacciarli. «T e la troviamo noi una sistemazione! —gli gridò il
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calvo, annuendo allegramente con la testa. - Natal’ja! Hai mandato a chiamare Matvej Matveič Raspopov?». Una donna florida, dalle sopracciglia nere, con la boc ca piccola e il seno turgido rispose: «Quante volte me lo vuoi chiedere ancora?». «Pëtr, amico mio, guarda Natal’ja, è appetitosa come un frutto maturo!» gridò in modo assordante il calvo. Lo zio Pëtr, ridacchiando piano, aveva come paura di guardare la donna, mentre lei, porgendo a Evsej una fo caccia di segala bollente con la ricotta, gli disse: «Mangia ancora! In città bisogna mangiare molto». Evsej si sentiva talmente sazio da non poterne più, ma non aveva il coraggio di rifiutare e masticava rassegnato tutto ciò che gli davano. «Mangia!» gridava il calvo e raccontava a zio Pëtr: «È proprio una fortuna. Solo una settimana fa l’ha in vestito un cavallo, il ragazzino! Stava andando alla trat toria a prendere l’acqua bollente e all’improvviso...». Senza che nessuno se ne accorgesse e senza fare rumo re apparve un altro uomo, sempre calvo ma piccolo, ma gro, con gli occhiali scuri sul grosso naso e con un lungo ciuffo di peli bianchi sul mento. «Qual è il problema, gente?» domandò senza alzare la voce. Il padrone si alzò di scatto dalla sedia, emise un gri do e cominciò a ridere e Evsej si spaventò. L’uomo aveva chiamato i padroni di casa e lo zio Pëtr «gente», come per distinguersi da loro. Non si sedette neppure alla tavola e poi allontanò ulteriormente la sua sedia dal fabbro, guardandosi intorno e muovendo len tamente il dolio scarno e sottile. Sulla testa, poco più in al to della fronte sopra all’occhio destro, aveva un grosso boz zo e il piccolo orecchio aguzzo aderiva strettamente al cranio, come nel tentativo di nascondersi sotto la corta frangia di capelli bianchi. Era grigio, come fosse impol verato. Evsej, senza farsi notare, cercava di scorgerne gli
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occhi da sotto gli occhiali, ma non ci riusciva e questo lo inquietava. Il calvo padrone di casa gridò: «Capisci, è un orfano!». «Questo è un bel vantaggio!» osservò l’uomo con il bozzo. Sedeva appoggiandosi con le piccole mani scure al le ginocchia appuntite, parlava poco e talvolta Evsej gli sentiva usare delle parole strane. Alla fine disse: «E con questo la faccenda è conclusa». Lo zio Pëtr si mosse con fatica sulla sedia. « Eccoti a destinazione, orfano. E questo è il tuo pa drone». L’uomo con il bozzo in testa guardò Evsej attraverso gli occhiali neri e disse: «Mi chiamo Matvej Matveič Raspopov». Si voltò, prese un bicchiere di tè, lo bevve senza fare rumore, si alzò e, fatto un inchino, uscì in silenzio. Poi Evsej e lo zio sedettero nel cortile, all’ombra vici no alle stalle e il fabbro parlò con prudenza, come sondan do con le parole qualcosa di incomprensibile per lui. «Starai senz’altro bene con lui. È un vecchietto, or mai quello che doveva fare l’ha fatto, i peccati che pote va commettere li ha commessi, vive per mangiare un pez zetto di pane, brontola e fa le fusa come un gatto ben nutrito». «E non è uno stregone?» chiese il ragazzo. « Ma cosa dici! Nelle città, direi, non ce ne sono di stre goni». Ma dopo averci pensato un po’ il fabbro aggiunse: « Comunque a te non cambia niente. Anche uno stre gone è una persona. Ecco invece cosa devi sapere. La città è pericolosa, ecco cosa fa alle persone: la moglie di un ta le è andata in pellegrinaggio, e lui ora al suo posto ha mes so la cuoca e se la spassa. Ma il vecchio non ti darà mai
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un esempio del genere. È questo che dico, che con lui sta rai bene. Vivrai alle sue spalle come dietro a un cespu glio, starai seduto a sbirciare». «E quando morirà?» chiese Evsej spaventato. «Speriamo non succeda presto. Ungiti la testa con il grasso, che non sporgano i ciuffi ». Lo zio ordinò a Evsej di congedarsi con i padroni di ca sa e lo condusse in città. Evsej guardava tutto con gli oc chi spalancati come una civetta e si stringeva allo zio. I rumori delle porte dei negozi che sbattevano e delle car rucole che stridevano, il crepitio delle carrozze e il gran fra casso dei carri, le grida dei commercianti e lo scalpiccio e il calpestio dei piedi si univano e si confondevano in una nube polverosa e soffocante. Le persone camminavano ve loci, come temendo di arrivare in ritardo, attraversavano la strada di corsa, passando rasenti ai musi dei cavalli. Il movimento incessante affaticava gli occhi e il ragazzo, che a tratti li chiudeva, inciampava e diceva allo zio: «Cammina più in fretta!». Aveva voglia di arrivare da qualche parte, in un ango lo dove non ci fossero tanto rumore, confusione e caldo. Alla fine spuntarono su una piccola piazza, in un angu sto cerchio di vecchie case, che si reggevano tenacemente e strettamente Luna all’altra. Al centro della piazza c’era una fontana, per terra le ombre erano umide e i rumori qui erano più attutiti, più calmi. « Guarda —disse Evsej —qui non ci sono steccati in torno alle case». Il fabbro sospirò e rispose: « Leggi le insegne, dov’è la bottega di Matvej Matveevič Raspopov?». Raggiunsero il centro della piazza, si fermarono presso la fontana e Evsej, guardandosi attorno, cominciò a muo vere leggermente le labbra. Le insegne erano molte, ricopri vano ogni edificio, erano variegate come i rattoppi nelle
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vesti di un mendicante. Quando su una di esse il ragazzo vi de il cognome che cercavano, fu percorso da un brivido freddo e, senza dire niente allo zio, si mise a esaminare at tentamente l’insegna. Piccola, corrosa dalla ruggine, era col locata sopra una porta che conduceva da qualche parte in basso, in un buco scuro, e davanti alla porta sul marciapie de c’era una fossa recintata su due lati da una bassa infer riata. L’edificio dove si trovava la bottega era di tre piani, di colore giallo sudicio, con l’intonaco scalcinato. La faccia ta ricordava il volto di una persona miope, astuta e ostile. Scesero i cinque gradini di pietra che conducevano al la porta, il fabbro si tolse il berretto e diede una cauta oc chiata alla bottega. «Entrate!» risuonò chiara una voce. Il padrone sedeva dietro al tavolo vicino alla finestra e stava bevendo il tè. Sulla testa portava un berrettino ne ro di seta senza la visiera. « Prendi una sedia, buon uomo, siediti, prendi un po’ di tè. Ragazzo, passami un bicchiere, ecco, là, sulla men sola». Il padrone tese la mano verso il fondo scuro della bot tega, Evsej guardò in quella direzione, ma non vide nes suno. Allora il padrone si rivolse a lui: «Allora, che aspetti? Dico a te, non sei forse un ragaz zo tu?». «Non si è ancora abituato!» disse piano lo zio Pètr. Il vecchio agitò di nuovo la mano. « Il secondo ripiano a destra. Il padrone va capito al vo lo, questa è la regola». Il fabbro sospirò. Evsej trovò a tastoni nell’oscurità il recipiente e senza indugio, inciampando fra i libri ammuc chiati per terra, passò il bicchiere al padrone. «Mettilo sul tavolo. E il piattino?». «Beh, com’è, hai dimenticato il piattino?» esclamò lo zio Pëtr.
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«Ci vorrà del tempo per insegnargli! —disse il padrone, gettando uno sguardo altezzoso al fabbro —Ora, ragazzo, fai il giro della bottega e memorizza dove stanno le cose». Evsej senti come se nel suo corpo si fosse introdotto qualcosa di autoritario che lo faceva muovere imperiosa mente dovunque volesse. Si contrasse, ritirò la testa nelle spalle e aguzzando gli occhi si mise a esaminare la botte ga, ubbidendo alle parole del padrone. Era freddo e buio. La bottega, stretta e lunga come una tomba, era piena zep pa di ripiani, sui quali erano stipati i libri. Anche sul pa vimento erano sparsi mucchi di libri che sulla parete in fon do alla bottega si alzavano a formare un ammasso alto quasi fino al soffitto. Oltre ai libri Evsej trovò solo una scala, un ombrello, delle galosce e un vaso bianco con il manico rot to. C ’era molta polvere, dalla quale proveniva con tutta probabilità il forte odore che pervadeva la stanza. « Sono un uomo tranquillo e solitario, e se il ragazzo mi accontenta, lo renderò felice. Ho vissuto tutta la vita in modo onesto e retto, la disonestà non la perdono e se mi accorgo di qualcosa, lo riferisco subito alla giustizia. Perché oggigiorno processano anche in giovane età, per questo hanno costruito una prigione apposta, l’hanno chiamata “Casa di correzione per criminali in giovane età”, per ladruncoli insomma». Le sue parole, grigie e cantilenanti, avvolgevano stret tamente Evsej e suscitavano in lui un desiderio ansioso di accontentare al più presto il vecchio, di piacergli. «Saluta, il ragazzo ha da fare». Lo zio Pëtr sospirò e si alzò. « Beh, orfano... ecco, dunque, ti saluto! Dai retta al pa drone. Non ti vorrà male, perché dovrebbe? Stai su con la vita!». «Va be’» disse Evsej. «Si dice “va bene” e non “va be’ ”!» lo corresse il pa drone.
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«Va bene!» ripetè in fretta Evsej. «Allora addio!» disse il fabbro posandogli sulla spalla la mano ruvida e, dopo aver scosso il nipote, se ne andò come se di colpo si fosse spaventato di qualcosa. Evsej sussultò, stretto da una gelida tristezza, fece un passo verso la porta e fermò con aria interrogativa gli oc chi tondi sul volto giallo del padrone. Il vecchio attorcigliò con le dita la ciocca grigia sul mento, guardandolo dall’al to al basso, e al ragazzo sembrò di riuscire a vedere dietro agli occhiali i grandi occhi neri spenti. Restarono così per alcuni secondi, come aspettandosi qualcosa l’uno dall’al tro, e il petto del ragazzo si riempì di un terrore folle e fi nora sconosciuto. Ma il vecchio prese un libro da uno scaf fale e, indicando con un dito la copertina, chiese: «Che numero è questo?». «1873» rispose Evsej, chinando la testa verso il basso. «Bene». Il padrone toccò con il dito scarno il mento di Evsej. «Guardami!». Il ragazzo raddrizzò il collo e borbottò frettolosamen te chiudendo gli occhi: « Mio buon signore, sarò sempre ubbidiente » e si im mobilizzo senza vedere nulla. «Vieni qui». Il vecchio era seduto sulla sedia, con le palme delle ma ni premute sulle ginocchia. Si tolse il cappello e si asciugò la testa calva con un fazzoletto. Attraverso gli occhiali che gli erano scesi sulla punta del naso, guardava il viso di Evsej. Ora aveva due paia di occhi; quelli veri erano piccoli, immobili di color grigio scuro e con le palpebre arrossate. «T i hanno picchiato spesso?». «Sì» disse piano Evsej. «Chi?». «Gli altri ragazzi».
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Il padrone si sistemò gli occhiali sul naso, si morse le labbra scure e disse: «Anche qui i ragazzini sono attaccabrighe, stanne alla larga, hai capito?». « SI ».
« Devi temerli! Sono monelli e ladruncoli. Sappi che io non ti insegnerò nulla di male. Io sono una persona one sta, mi devi voler bene. Se mi vorrai bene, con me sarai fe lice. Hai capito?».
«SI». Il volto del padrone riassunse l’espressione di prima. Prese Evsej per un braccio e lo condusse in fondo alla bot tega dicendo: «Vedi, ecco i libri. Su ciascuno è posto l’anno, sono dodici per anno. Mettili in ordine. Come si fa?». Evsej ci pensò un po’ e rispose timidamente: «Non lo so». « E io non te lo dico. Sei istruito e devi arrivarci da solo». La voce secca e piatta era come se desse delle sferzate al ragazzo, che, trattenendo le lacrime, si mise a slegare i pacchi. E ogni volta che un libro cadeva rumorosamente sul pavimento, sussultando girava la testa. Il padrone se deva al tavolo e scriveva. La penna scricchiolava debol mente. Oltre la porta balenavano veloci delle gambe, le lo ro ombre cadevano nella bottega saltando qua e là. Dagli occhi di Evsej cominciarono a scorrere le lacrime una do po l’altra. Il ragazzo si spaventò e si asciugò velocemente il viso con le maniche polverose e, pieno di un oscuro ti more, si mise a sistemare i libri. All’inizio era difficile, ma dopo qualche minuto cominciò subito a sprofondare nel lo stato di torpore a lui ben noto, nel vuoto abituale che lo invadeva dopo le botte e gli insulti, quando sedeva solo in qualche angolo buio. Con gli occhi coglieva la ci fra dell’anno e il nome del mese e metteva i libri in fila
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meccanicamente; seduto sul pavimento dondolava il cor po a ritmo regolare e sprofondava sempre di più in quel la voragine di semicosciente negazione della realtà. E co me sempre accadeva in quei momenti, nel suo profondo ardeva una vaga speranza, si accendeva l’attesa di qualco sa d’altro, qualcosa di diverso da ciò che lo circondava. Talvolta nella memoria avvampava la dolce parola «pas serà», che gli abbracciava tiepida il cuore con la promes sa di qualcosa di straordinario. Allora, senza accorgersene, le mani del ragazzo cominciavano a muoversi più veloce mente e non si accorgeva più dello scorrere del tempo. «Ecco, vedi, hai capito come bisogna fare!». Evsej sussultò, non aveva sentito che il vecchio si era avvicinato e, dopo aver dato un’occhiata al suo lavoro, chiese: «Così?». «Certo. Vuoi del tè?». «N o». «Devi dire: “grazie” o “vi ringrazio, ma non lo voglio”. - disse il padrone —Continua a lavorare». E se ne andò. Evsej lo seguì con lo sguardo e vide che nella bottega c’era una persona anziana senza barba né baf fi, con un cappello tondo spostato sulla nuca e con un bastone in mano. Sedeva vicino alla tavola disponendo de gli oggetti neri e bianchi. Quando Evsej si mise di nuovo al lavoro cominciarono a risuonare le esclamazioni inter mittenti dell’ospite e del padrone: «Torre». «Scacco alla regina!». Nella bottega scendeva stancamente il rumore della strada, dentro al quale, come rane nella palude, gracida vano quelle parole strane. « Cosa fanno?» pensò il ragazzo spaventato e sospirò in silenzio, sentendosi invaso da molte sensazioni nuove, diverse però da quelle timidamente attese. La polvere gli
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solleticava il naso e gli occhi, gli scricchiolava sotto i den ti. Gli vennero in mente le parole che lo zio aveva detto sul vecchio: «Vivrai alle sue spalle come dietro a un cespuglio». Si stava facendo buio. « Scacco matto!» gridò in tono cupo l’ospite e il padro ne, dopo aver fatto schioccare la lingua, gridò forte: «Ragazzo, è ora di chiudere la bottega!». Il vecchio viveva in due piccole stanze al piano di so pra, nello stesso edificio in cui si trovava la bottega. Nel la prima stanza vicino alla finestra c’era un grande baule e un armadio. « Dormirai qui » disse il padrone. Le due finestre della seconda stanza davano sulla stra da, si vedeva la distesa di lievi increspature formate dai tet ti e al di sopra il cielo rosa. In un angolo, davanti alle ico ne, tremava la fiammella di una lampada di vetro azzurro, nell’altro angolo c’era un letto con sopra una coperta ros sa. Alle pareti erano appesi vistosi ritratti di generali e del lo zar. La stanza era piccola ma pulita e c’era lo stesso odo re della chiesa. In piedi sulla porta, Evsej osservava l’abitazione del pa drone che era accanto a lui e gli stava dicendo: «Fai attenzione a come sono disposte le cose, che tut to sia sempre così com’è!». Attaccato al muro c’erano un ampio divano nero e un tavolo tondo e intorno al tavolo tre sedie, sempre nere. Questo angolo della casa aveva un aspetto triste e sinistro. Entrò una donna alta, dal viso bianco e gli occhi ovi ni, che domandò con voce bassa e melodiosa: «Servo la cena?». «Sì, servite pure, Raisa Pëtrovna». « C ’è un ragazzo nuovo?». «Sì, si chiama Evsej». La donna uscì.
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«Chiudi la porta!» disse il vecchio, e dopo che Evsej l’ebbe fatto, continuò, abbassando la voce: «E la padrona dell’appartamento, da lei prendo in af fitto le stanze con il pranzo e la cena, chiaro?». «Sì». «E tu hai un solo padrone, me. Hai capito?». «Sì» rispose Evsej. «Quindi, devi ubbidire solo a me. Vai in cucina, lavati». Mentre si lavava, Evsej cercava di esaminare inosser vato la padrona dell’appartamento. La donna preparava la cena da servire, disponendo su un grande vassoio piat ti, coltelli e pane. Il suo ampio viso tondo, con le soprac ciglia sottili, sembrava buono. I capelli scuri ben pettina ti, gli occhi fermi e il naso largo facevano supporre al ragazzo: «Dev’essere buona». Accortosi che, serrando strettamente le labbra rosse, anche lei lo stava spiando, si confuse e versò l’acqua sul pavimento. «Asciuga! - disse senza arrabbiarsi - Lo straccio è sot to la sedia». Quando entrò nella stanza, il vecchio lo osservò e gli chiese: « Cosa ti ha detto?». Ma Evsej non fece in tempo a rispondergli che la don na entrò con il vassoio, lo appoggiò sul tavolo e disse: « Bene, io esco ». «Va bene» rispose il padrone. Sollevò la mano, si lisciò i capelli sulla tempia con le dita lunghe e uscì. Si sedettero a tavola. Il padrone mangiava senza fret ta, biascicando rumorosamente, e a tratti respirava affa ticato. Quando cominciarono a mangiare la carne arrosti ta tagliata fine, disse a Evsej:
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«Vedi che cibo buono? Io mangio sempre bene». Dopo cena ordinò a Evsej di portare in cucina le sto viglie, gli insegnò ad accendere la lampada e poi disse: «Ora dormi. Nell’armadio c’è un panno di feltro, un cuscino e una coperta. Sono per te. Domani ti compro dei bei vestiti. Vai!». Quando, stremato per le forti sensazioni, il ragazzo si distese, il padrone andò da lui e disse: «C i stai bene?». Il baule era duro, ma Evsej rispose: «Sto bene». «Se hai caldo, apri la finestra». Evsej lo fece immediatamente. La finestra dava sul tet to della casa vicina, su cui c’erano quattro camini, tutti uguali. Guardò le stelle con gli occhi malinconici di una timida bestiola imprigionata in una gabbia, ma le stelle non dissero nulla al suo cuore. Si lasciò cadere sul baule, si avvolse con la coperta fin sopra alla testa e serrò gli oc chi. Quando si sentì soffocare, tirò fuori la testa e, senza aprire gli occhi, si mise in ascolto. Nella stanza del pa drone risuonò una voce secca e nitida: «Tu che abiti al riparo dell’Altissimo e dimori all’om bra dell’Onnipotente...». Evsej capì che il vecchio stava leggendo il salterio e por gendo attentamente l’orecchio al suono delle parole note ma incomprensibili di re David, il ragazzo si addormentò.
Capitolo III
La sua vita trascorreva tranquilla e regolare. Faceva di tut to per piacere al padrone, perché sentiva e capiva che gli conveniva, ma aveva sempre un atteggiamento di sospet tosa prudenza, completamente privo di affetto. La paura delle persone generava in lui il desiderio di compiacerle ed era pronto a prestare qualsiasi servizio pur di non essere oggetto della loro aggressività. La costante attesa di un pe ricolo gli aveva fatto sviluppare un acuto senso di osser vazione, facoltà accresciuta ulteriormente dalla sfiducia verso gli altri. Osservava attentamente la strana vita domestica, ma non la capiva: dalle cantine al tetto la casa era piena zeppa di persone che armeggiavano da mattina a sera come for miche in un formicaio. Qui la gente lavorava di più che nel villaggio e le liti erano più gravi e accese. Vivevano in modo frenetico, rumoroso e concitato, a volte pareva che le persone volessero finire il più presto possibile tutto il loro lavoro, che aspettassero la festa, desiderando di arrivarvi li beri, ben puliti e tranquilli, con una gioia serena. Il cuore del ragazzo si fermava e vi pulsava silenziosa la domanda: «Passerà anche questa?». Ma la festa non arrivava. Le persone si innervosivano a vicenda, imprecavano, a volte facevano a botte e quasi ogni giorno ognuno diceva cattiverie sul conto dell’altro. Al mattino il padrone usciva per andare alla bottega,
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mentre Evsej rimaneva nell’appartamento a mettere in or dine le camere. Non appena finito, si lavava, andava alla trattoria a prendere l’acqua bollente e poi alla bottega, dove prendeva il tè del mattino con il padrone. E quasi sempre il vecchio gli domandava: «Allora?». «Niente». «Non basta!» diceva il padrone. Ma una volta Evsej rispose in modo diverso: « Oggi l’orologiaio ha detto alla cuoca del pellicciaio che voi comprate roba rubata». Lo disse in modo inatteso anche per sé e, tutto preso da un tremito di paura, abbassò immediatamente la testa. Il vecchio rise silenziosamente. Poi con voce fredda e strascicata scandì le parole: «Che carogna!». Le sue labbra scure e secche tremarono. «Grazie per avermelo detto, grazie!». Da allora Evsej si mise ad ascoltare attentamente i di scorsi degli altri e tutto ciò che sentiva lo riferiva subito al padrone con voce bassa e guardandolo dritto in viso. Qualche giorno dopo, mentre sistemava la stanza, trovò per terra una banconota da un rublo sgualcita e quando prendendo il tè il vecchio gli chiese: «Allora?» lui rispose. «Ecco, ho trovato un rublo». «M a bene, tu hai trovato un rublo e io un tesoro!» disse il padrone ridacchiando. Un’altra volta Evsej raccolse vicino all’entrata della bottega venti copechi e li diede di nuovo al padrone. Il vecchio abbassò gli occhiali sulla punta del naso e sfregan do la moneta con le dita guardò in silenzio il viso del ra gazzo per qualche secondo. « Secondo la legge —cominciò pensoso —un terzo di quanto trovato, sei copechi, appartiene a te».
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Tacque, sospirò, e disse, lasciando cadere la moneta nella tasca del gilet: «Però, sei un ragazzo strano». E i sei copechi non glieli diede. Evsej Klimkov era silenzioso e passava spesso inosser vato ma, quando veniva notato, aveva un atteggiamento servile. Quasi senza attirare l’attenzione delle persone, li osservava con lo sguardo assente dei suoi occhi da civet ta, sguardo che non rimaneva nella memoria di quelli che lo incontravano. Fin dai primi giorni l’aveva fortemente colpito la si lenziosa e mite Raisa Pëtrovna. Ogni sera indossava un frusciarne vestito scuro e un cappello nero e se ne andava chissà dove; al mattino, quando lui riassettava le stanze, ancora dormiva. La vedeva solo di sera, prima di cena, e neppure tutti i giorni; la sua vita gli sembrava misteriosa e tutta la sua persona, silenziosa, con il viso pallido e gli occhi fissi, destava in lui vaghi richiami a qualcosa di straordinario. Senza rendersene conto si convinse che lei viveva meglio di tutti e sapeva più di tutti e cominciò a ma turare verso quella donna un sentimento positivo ma con fuso. Di giorno in giorno gli appariva sempre più bella. Una volta si svegliò all’alba, andò in cucina a prende re da bere e improvvisamente sentì che qualcuno stava aprendo la porta dell’ingresso. Spaventato, si precipitò nel la sua stanza, si stese, si coprì con la coperta, cercando di appiattirsi il più possibile sul baule e, dopo un minuto, sporse l’orecchio e sentì dalla cucina dei passi pesanti, il fruscio del vestito e la voce di Raisa Pëtrovna. «Ah, voi però!» disse lei. Evsej si alzò, si avvicinò cauto alla porta e sbirciò in cu cina. La donna mite sedeva presso la finestra e si stava to gliendo il cappello. Il suo viso sembrava più bianco del so lito e dagli occhi scorrevano copiose le lacrime. Il suo grande corpo dondolava, le mani si muovevano lentamente.
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«Vi conosco, io», disse scrollando la testa e si alzò sul le gambe, appoggiandosi al davanzale. Nella stanza del padrone il letto scricchiolò. Evsej si precipitò sul baule, si stese e si nascose di nuovo sotto le coperte. «L ’avranno trattata male!» pensò, e le sue lacrime lo rallegrarono perché rendevano quella donna docile, con una vita notturna e segreta, più vicina a lui. Qualcuno gli strisciò accanto con passo furtivo. Evsej alzò la testa e saltò su di scatto, colpito da un grido acu to e furioso: «Vattene!». Dalla cucina ricurvo uscì veloce il padrone in tenuta da notte, si fermò e disse a Evsej con un sibilo: «Dormi, dormi, che cos’hai? Dormi!». La mattina alla bottega il vecchio domandò: «Ti sei spaventato questa notte?». «Sì». «H a bevuto, a volte le capita». E aggiunse severo: «Comunque sappi che è una donna estremamente furba. Non parla, ma è cattiva. È una peccatrice, suona il pianoforte. Lo sai come si chiama una donna che suona il pianoforte? E sai cos’è una casa di tolleranza?». Evsej lo aveva sentito dai discorsi dei pellicciai e dei ve trai nel cortile, ma, desiderando saperne di più, rispose: «No, non lo so». Il vecchio glielo spiegò in modo molto esplicito, con foga. A tratti sputava per terra e corrugava il viso per espri mere ripugnanza verso una cosa tanto spregevole. Evsej guardava il vecchio e, chissà perché, il suo disgu sto gli sembrava simulato. Credeva invece a tutto ciò che il padrone aveva raccontato sulla casa di tolleranza. Ogni cosa che il vecchio diceva sulla donna aumentava il senso di diffidenza del ragazzo verso il padrone.
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Oltre che da Raisa la curiosità di Evsej era attratta dal l’apprendista del vetraio, Anatolij, un ragazzino esile, con i capelli arruffati e il naso alfinsù, impregnato di odore di olio, sempre allegro. Aveva la voce alta e a Evsej piace va sentire le grida melodiose e allegre del ragazzo: «È ora di miontare i vietri!». Fu lui il primo a rivolgere la parola a Evsej. Questi stava spazzando la scala quando improvvisamente dal bas so sentì risuonare una domanda: «Ehi, tu, scimunito, di che governatorato sei?». «Sono di qui!» rispose Evsej. « E io sono del governatorato di Kostroma. Quanti an ni hai?». «Tredici». «Anch’io. Andiamo?». «Dove?». «Al fiume, a fare il bagno». «Io devo andare alla bottega». «Oggi è domenica». «È lo stesso». «Beh, allora peggio per te!». E il vetraio scomparve, senza che Evsej si offendesse per le sue imprecazioni. Girava tutto il giorno per la città con la cassa piena di vetri, ritornava a casa quasi sempre nel momento in cui stavano chiudendo la bottega e per tutta la sera dal corti le giungevano instancabili la sua voce, le risa, i fischi e il canto. Lo sgridavano tutti, ma a tutti piaceva passare il tempo con lui e ridevano delle sue birichinate. Evsej era stupito dall’audacia con cui il ragazzino spettinato e con il naso all’insti si rivolgeva agli adulti, provava un senso di invidia quando vedeva le ricamatrici in oro che corre vano per il cortile, inseguendo l’allegro monello e, in fine, era spinto verso il giovane vetraio da un forte senso di ammirazione. Ora, quando sprofondava nei suoi
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sogni confusi di una vita tranquilla e serena, vi inseriva an che il ragazzo ribelle e spettinato. Dopo cena Evsej chie deva al padrone: «Posso andare in cortile?». Il vecchio gli dava il permesso di malavoglia. Dopo aver sceso velocemente la scala, Evsej si sedeva da qualche parte nell’ombra e da li osservava Anatolij. Il cortile era piccolo ed era circondato da ogni lato dagli al ti muri delle case; vicino ai muri erano ammucchiate cian frusaglie di ogni tipo sulle quali stavano seduti per ripo sare artigiani e artigiane, mentre al centro del cortile Anatolij dava spettacolo. «Il pellicciaio Zvorykin va in chiesa!» urlava. E Evsej sbalordito vedeva davanti a sé il piccolo pel licciaio grasso con il labbro inferiore pendulo e i tristi oc chi socchiusi. Gonfiando la pancia e inclinando la testa di lato, Anatolij a piccoli passi ma in modo chiaramente svogliato arrivava fino al portone, mentre il pubblico lo accompagnava con risate e grida di approvazione. «Zvorykin esce dalla trattoria!» proclamava il ragazzo e si lanciava per il cortile, dondolando fiacco le braccia e le gambe, stralunando ottusamente gli occhi e rilascian do le labbra in modo buffo e ripugnante. Si fermava, si batteva con le mani sul petto e diceva con voce sibilante: «Si-ignore, ma quanto sono contento! Di-io mio, co me sta bene e come se la gode il tuo servo Iakov Ivanyc, Signore! Oh, che bestia quel vetraio Kuzin, è odiato da Dio e dagli uomini! Oh Signore!». Il pubblico si sbellicava, ma Evsej non rideva. Era op presso da un sentimento complesso di meraviglia e invi dia; l’attesa delle nuove trovate di Anatolij si fondeva in lui con il desiderio di vedere quel ragazzo spaventato e maltrattato. Lo indispettiva e non gli piaceva il fatto che il vetraio imitasse le persone senza farle apparire perico lose, ma solo ridicole.
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«Arriva il vetraio Kuzin!» gridò Anatolij. E subito davanti a Evsej si levò un uomo scarno, dal viso rosso, sempre mezzo ubriaco, con una fulva barba biforcuta e le maniche della camicia sudicia rimboccate. Appoggiata la mano destra sul pettorale del grembiule, lisciandosi lentamente la barba con la sinistra, burbero e accigliato, mentre si avvicinava lentamente con lo sguar do torvo, stridette con voce rauca e isterica: « Bestemmi ancora, eretico? Ti devo sentire ancora per molto, eh? Che ti venga un colpo, razza di un disgraziato!». «Stecchin Raspopov!» annunciò Anatolij. Allora accanto a Evsej, spostando le gambe senza fare rumore, scivolò la figura piatta e appuntita del padrone. Muoveva il naso in modo buffo, come fiutando qualco sa, annuendo in fretta con la testa e agitando la piccola mano ogni tanto si tirava la barba. In questa immagine c’era qualcosa di pietoso e buffo: il risentimento di Evsej aumentava, sapeva bene che il suo padrone non era così come lo raffigurava il piccolo vetraio. Finita l’imitazione dei padroni, Anatolij si accingeva a fare il verso a qualcuno del pubblico. Instancabile, tril lava con la sua voce acuta fino a tarda notte, suscitando risate bonarie. Una volta la persona di cui si prendeva gio co si mise a rincorrerlo e cominciò un rumoroso insegui mento. Evsej sospirava invidioso. Quando notava Klimkov, Anatolij lo trascinava per la mano al centro del cortile e lo presentava al pubblico: «Eccolo, lo strambo! Il cugino moccioso di Stecchin Raspopov!» e facendo girare l’esile figura del ragazzo da tutte le parti, pronunciava parole strane e buffe sul suo pa drone, su Raisa Pëtrovna e sullo stesso Evsej. «Lasciami!» gli diceva a voce bassa il ragazzo, cercan do di strappare la mano dalla stretta del vetraio, ma lo ascoltava attentamente desiderando e sforzandosi di ca pire le allusioni di cui percepiva la malignità. Se Evsej si
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dimenava con forza, il pubblico, di solito le donne, dice vano fiaccamente ad Anatolij: «Lascialo!». Il loro intervento per qualche motivo era sempre spia cevole per Evsej; Anatolij invece veniva preso dalla stiz za, cominciava a spingerlo e a dargli dei pizzicotti, inci tandolo a fare a botte. Alcuni degli uomini dicevano: «Picchiatevi allora, vediamo chi è più forte!». Le donne replicavano: «Non fatelo!». E di nuovo Evsej sentiva in queste parole qualcosa di spiacevole. Finiva sempre che Anatolij spingeva da parte Evsej con aria sprezzante. «Razza di scimunito!». Una volta, al mattino, dopo una di queste scene Evsej incontrò Anatolij nel cortile con una cassa di vetri e di colpo, senza volerlo, gli disse: «Perché mi prendi in giro?». Il vetraio lo guardò e chiese: «Qual è il problema?». Evsej non seppe rispondere. «Vuoi fare a botte? —domandò di nuovo Anatolij — Andiamo nel magazzino!». Parlava con voce calma e sicura. «N o, non voglio fare a botte» rispose piano Evsej. « Non è proprio il caso, ti batterei! —disse il vetraio e aggiunse sicuro —È chiaro che ti batto!». Evsej sospirò, non riusciva a comprendere il compor tamento del ragazzo e desiderando capire, domandò una seconda volta a voce bassa: «Ti chiedo, ma perché mi prendi in giro?». Anatolij dovette sentirsi a disagio perché strinse gli oc chi vispi, ridacchiò e improvvisamente gridò stizzito: «M a va’ al diavolo! Quanto hai da scocciare? Vedrai come te le dò!».
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Evsej corse nella bottega e per tutto il giorno sentì nel cuore il bruciore dell’umiliazione immeritata. Questo non bastava a scalfire l’attrazione che il ragazzo esercitava su di lui, ma lo costringeva ad andarsene via dal cortile non ap pena Anatolij lo notava. Così allontanò il vetraio anche dal mondo della sua fantasia. Poco dopo questo tentativo fallito di avvicinarsi al ra gazzo, una notte delle voci provenienti dalla stanza del pa drone lo svegliarono. Si mise in ascolto, c’era Raisa. Vol le accertarsene, si alzò in silenzio, si avvicinò alla porta ben chiusa e accostò l’occhio al buco della serratura. Dapprima il suo sguardo assonnato si fermò sulla fiam ma di una candela e rimase accecato. Poi vide sul divano nero il grande corpo formoso della donna. Questa giace va a pancia in su, impudente, e, raccoltasi i capelli sul pet to, li acconciava lentamente in una treccia con le lunghe dita. Il candido corpo della donna, sul quale tremavano i riflessi della fiamma, pulito, chiaro, sembrava leggero co me una nuvola. Era molto bello. La donna stava dicendo qualcosa, ma Evsej non distingueva le parole, sentiva so lo la voce melodiosa, stanca e lamentevole. Il padrone ve stito per la notte, seduto su una sedia accanto al divano, versava del vino in un bicchiere, la sua mano tremava e tremava anche la ciocca di peli canuti che aveva sul men to. Si era tolto gli occhiali, il suo volto era ripugnante. « Sì, sì - diceva - ma guardala!». Evsej si allontanò dalla porta, si stese sul letto e pensò: «Si sono sposati». Gli dispiaceva per Raisa, perché era andata a sposare una persona che parlava male di lei? E doveva essere mol to freddo a stare nudi sul divano di pelle. Gli balenò un brutto pensiero, ma poiché confermava le parole del vec chio su Raisa, Evsej lo scacciò impaurito. La sera dopo Raisa come sempre portò la cena e disse con la solita voce:
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« Io esco ». E il padrone le parlò con il tono secco e sprezzante di sempre. Evsej pensò di essersi sognato la donna impuden te della sera prima. Inaspettatamente e inopportunamente venne lo zio Pëtr. Era incanutito, si era coperto di rughe ed era diven tato più basso di statura. « Divento cieco, orfano! —diceva, inghiottendo rumo rosamente il tè dal piattino e sorridendo con gli occhi umi di —Lavorare non posso già più e mi toccherà andare a chiedere l’elemosina. Jakov non c’è modo di farlo rigar dritto, vuole venire in città. Se glielo proibisco, fuggirà. È fatto così...». Era faticoso ascoltare tutto quello che diceva il fab bro. Lo zio guardava con aria colpevole, e Evsej si senti va a disagio, si vergognava di lui davanti al padrone. Men tre lo zio si accingeva a partire, Evsej di nascosto gli ficcò in mano tre rubli e lo congedò volentieri. La bottega del libraio cominciò gradualmente a susci tare nel ragazzo sospetti inquietanti: sembrava una tom ba, piena zeppa com’era di vecchi libri. Erano tutti logo ri, spiegazzati, ed emanavano un forte odore di marcio e di fradicio. Li compravano in pochi e ciò non stupiva Ev sej, ma l’atteggiamento del padrone verso i clienti e ver so i libri stuzzicava sempre di più la sua curiosità. Succedeva così: il vecchio prendeva in mano un libro, ne sfogliava con cautela le vecchie pagine, con le dita scu re lisciava la rilegatura, sorrideva silenzioso, annuendo con il capo, e in quei momenti sembrava che accarezzasse qual cosa di vivo, che ci giocasse come fosse un gattino. Quan do leggeva, un po’ come faceva lo zio Pëtr con il fuoco del la fucina, bofonchiava intrattenendo con il libro una conversazione silenziosa, le labbra tremavano con fare can zonatorio e, annuendo con il capo, borbottava: « Bene, bene —ma guarda! Ah, ecco! Che insolenza! No, no, questo non accadrà!».
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Queste strane esclamazioni volte a contraddire chissà chi meravigliavano Evsej e lo spaventavano, poiché allu devano alla segreta doppiezza della vita del vecchio. «Tu i libri non leggerli! - disse una volta il padrone - 1 libri sono una depravazione, il frutto della depravazione del la mente. Trattano di tutto, confondono, turbano. Una vol ta c’erano dei buoni libri di storia, racconti di gente tran quilla sui fatti passati. Ora qualsiasi libro vuole metter a nudo la persona, che invece deve tenere nascoste le pro prie faccende, sia della carne che dello spirito, per difen dersi dal demone della curiosità che priva della fede. I libri non sono dannosi per l’uomo solo durante la vecchiaia». Evsej memorizzò queste parole che, sebbene per lui in comprensibili, confermavano la sensazione di segretezza suscitata in lui dai comportamenti del padrone. Quando vendeva un libro era come se il vecchio annu sasse il cliente: gli parlava in modo inusuale, ora a voce troppo alta e in modo affrettato ora abbassando la voce fino a un bisbiglio; i suoi occhiali scuri erano puntati fis si sul viso del cliente. Spesso, accomiatato uno studente che aveva appena acquistato un libro, gli sogghignava al le spalle e una volta minacciò con il dito una persona di schiena che se ne stava andando, un bel giovane, di pic cola statura, con i baffetti neri sul viso bianco. Erano so prattutto gli studenti a comprare i libri, ma talvolta ve nivano degli anziani, che rovistavano a lungo tra i libri e mercanteggiavano tenacemente il prezzo. Quasi ogni gior no passava dalla bottega un uomo con la bombetta e con un largo naso foruncoloso sulla faccia rasata, piatta e gras sa. Si chiamava Dorimedont Lukič, portava nella mano destra un grosso anello d’oro e, quando giocava a scacchi con il padrone, soffiava forte con il naso e si tirava il lo bo dell’orecchio con la mano sinistra. Spesso portava an che dei libri e dei pacchi di carta; il padrone li prendeva, annuiva con il capo in segno di approvazione, rideva
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silenziosamente e li nascondeva nel cassetto del tavolo o li metteva in un angolo, sulla mensola alle sue spalle. Evsej non aveva mai visto il suo padrone pagare per quei li bri, anche se li vendeva. Durante un certo periodo cominciò a passare dalla bot tega più spesso degli altri clienti noti uno studente alto, dagli occhi azzurri e i baffi fulvi, con il cappello con la vi siera spostato sulla nuca, che lasciava scoperta un’ampia fronte bianca. Parlava con una voce profonda e compra va sempre molte vecchie riviste. Una volta il padrone gli propose uno dei libri portati da Dorimedont e mentre lo studente lo sfogliava in si lenzio, il vecchio gli raccontava qualcosa bisbigliando fret tolosamente. « Interessante! —esclamò lo studente ridacchiando — Eh, vecchio tentatore! Non avete paura a tenere questo materiale sovversivo, eh?». Il padrone sospirò e rispose: « Quando si è scoperta la verità assoluta, bisogna soste nerla con tutte le forze». Bisbigliarono a lungo e alla fine lo studente disse: «Segnatevi il mio indirizzo». Il vecchio lo appuntò su un foglietto e quando venne Dorimedont a domandare: « Che c’è di nuovo, Matveevič?» il padrone gli porse il foglietto e disse ridacchiando: «Ecco la novità». «Vediamo... Ah, Nikodim Archengel’skij —lesse Dori medont —interessante. Vedremo chi è questo Nikodim!». E dopo un po’ di tempo, mentre giocavano a scacchi, comunicò al padrone: «Questo Nikodim si è rivelato proprio un pesce gros so! Gli hanno trovato un bel po’ di tutto». « Rendimi i miei libri » disse il padrone muovendo una pedina. «Certamente!».
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Lo studente dagli occhi azzurri non si presentò più. Scomparve anche l’individuo di bassa statura con i baffi neri. Tutto ciò alimentava la diffidenza del ragazzo, face va pensare a dei segreti e a dei misteri. I libri non suscitavano il suo interesse; aveva provato a leggerli, ma non riusciva mai a concentrare i suoi pen sieri sul libro. Già ingombri di tutto ciò che osservava si perdevano nelle inezie, si offuscavano e svanivano, evapo rando come uno zampillo d’acqua su una pietra in una giornata torrida. Quando lavorava e si muoveva non riusciva a pensa re, era come se il movimento interrompesse la rete dei suoi pensieri; il ragazzo faceva il suo lavoro senza fretta, in mo do diligente e preciso, come una macchina, ma non ci metteva niente di suo. Quando invece era libero e sedeva immobile, una pia cevole sensazione si impossessava di lui, come se volasse in una nebbia trasparente che avvolgeva la vita e addolci va tutto, trasformando la rumorosa realtà in un tranquil lo dormiveglia. In questo stato d’animo i giorni passavano veloci e in distinti. La vita esteriore era piatta e monotona; il cervel lo, senza accorgersene, si imbrattava con la polvere ap piccicosa della quotidianità. Klimkov girava di rado per la città, non gli piaceva. II movimento continuo gli stancava gli occhi, il rumo re gli riempiva la testa di una nebbia pesante e offuscan te; la città era simile al mostro delle fiabe, che digrignava cento bocche avide e mugghiava con centinaia di fauci in saziabili. Al mattino, quando puliva la stanza del padrone, spor geva la testa fuori dalla finestra, guardava il fondo della strada stretta e lunga e vedeva sempre le stesse persone: sa peva cosa avrebbe fatto ognuno di loro dopo un’ora e do mani, sempre. I ragazzi di bottega li conosceva tutti e non
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gli piacevano, erano pericolosi con le loro monellerie. Cia scuno sembrava inchiodato al suo lavoro, come un cane alla catena. Talvolta balenava o risuonava qualcosa di nuo vo, ma era difficile accorgersene in quelhenorme massa di avvenimenti abituali e spiacevoli. Anche le chiese della città non gli piacevano, erano troppo luminose e c’era un odore soffocante di incenso e di unguento. Evsej non sopportava gli odori forti, gli fa cevano girare la testa. Talvolta nei giorni di festa il padrone chiudeva la bot tega e portava Evsej in giro per la città. Camminavano a lungo e lentamente, il vecchio gli mostrava le case delle persone ricche e conosciute e gli raccontava la loro sto ria. I suoi racconti erano pieni di cifre, donne scappate dai mariti, morti e funerali. Ne parlava in modo solenne, fred do e biasimando ogni cosa. Solo quando raccontava del la morte di qualcuno, il vecchio si animava, come se le questioni di morte fossero le più profonde e interessanti della terra. Dopo queste passeggiate portava Evsej a bere il tè in una trattoria dove c’era una pianola meccanica e dove tut ti conoscevano il vecchio e lo trattavano con timoroso ri spetto. Evsej, stanco, nel fragore e nel baccano della mu sica, avvolto da una nuvola di odori forti, cadeva in un torpore simile al dormiveglia. Ma una volta il padrone lo portò in un edificio dove era raccolta una quantità infinita di cose belle, armi me ravigliose, vestiti di broccato e di seta; nell’animo del ra gazzo si risvegliò di colpo il ricordo delle fiabe della ma dre e in lui di nuovo palpitò una lieta speranza. Camminò a lungo per le stanze, sbattendo le palpebre sbigottito, e quando tornarono a casa chiese al padrone: «D i chi è tutta quella roba?». «Dello stato, dello zar!» spiegò solennemente il vec chio.
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Il ragazzo domandò allora: «E chi portava quei mantelli e quelle sciabole?». «Gli zar, i boiari, gli uomini di corte». «Ora non ci sono più?». «Come no, ci sono. Non se ne può fare a meno. Solo che adesso non si vestono cosi ». «E perché no?». « Per spendere meno. Un tempo la Russia era ricca, ma ora è stata saccheggiata da genti estranee, ebrei, polacchi, tedeschi...». Parlò a lungo del fatto che nessuno ama la Russia, tut ti la derubano e le augurano ogni male. Quando parlava molto, Evsej cessava di credergli e di capirlo. Ma comun que domandò: «E io appartengo allo zar?». « Come no, da noi tutto è dello zar. Il mondo appar tiene a Dio e la Rus’ è dello zar». Davanti agli occhi di Evsej cominciarono a turbinare in un variopinto girotondo persone belle e statuarie con i loro splendidi abiti; apparve un’altra vita, favolosa. Quando andava a dormire, questa vita restava con lui: si immaginava con addosso un mantello azzurro ornato di oro, con degli stivali di marocchino rosso e vedeva Raisa vestita di broccato, decorato con pietre preziose. «Dunque passerà questa vita misera!» pensò. Questo pensiero suscitò di nuovo in lui la speranza in un futuro diverso. Da dietro la porta suonò fredda la voce del padrone: « Perché le genti congiurano e anche gli angeli hanno intenzioni maligne...».
Capitolo IV
Quando dopo aver chiuso la bottega uscì con il padrone nel cortile, li accolsero le grida sonore e agitate di Anatolij: «Non lo farò mai più, signore! Lo giuro!». Evsej sussultò e senza volerlo, con voce silenziosamen te trionfante, disse: «Ah-a...». Gli piaceva sentire le grida di paura e di dolore pro venienti dal petto dell’allegro ragazzino amato da tutti, co sì chiese al padrone: «Posso restare nel cortile?». «Dobbiamo cenare. Anzi, vengo anch’io a vedere come si educa un ragazzaccio». Dietro al terrazzino d’ingresso della casa si era raduna to un pubblico di persone in piedi vicino alle porte del magazzino nel quale risuonavano pesanti schiaffi bagnati e la voce singhiozzante di Anatolij: « Pietà, non è colpa mia! Dio, non lo farò più, lascia mi! Per amor di Dio...». L’orologiaio Jakubov accendendosi una sigaretta disse: «Ben gli sta!». La ricamatrice d’oro strabica, Zina, appoggiava l’opi nione dell’orologiaio alto e giallognolo: «Magari così starà più calmo, non aveva pace nessu no nel cortile». E il padrone chiese a Evsej:
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«Dicono che è bravissimo a imitare le persone». «M a che! —rispose la cuoca del pellicciaio. —Quella peste si prende gioco di tutti». Nel magazzino risuonò un brusio sordo, come se sul le vecchie assi del pavimento trascinassero da una parte al l’altra un sacco pieno di qualcosa di morbido; si diffonde va la voce ansante e rauca di Kuzin e, sempre meno acute e frequenti, le grida di Anatolij: «Ahia... aiutatemi... Dio mio!». Le parole cominciarono a confondersi in un lamento sottile e strozzato. Evsej sussultò, ricordando il dolore cau sato dalle botte. Il chiacchiericcio dei presenti destò in lui un sentimento confuso: era spaventoso trovarsi in mez zo a delle persone che fino a ieri ammiravano volentieri e allegramente il ragazzo vivace e ora stavano a guardare compiaciuti mentre lo picchiavano. Ora, tuttavia, queste persone, incollerite e stanche per il gran lavoro, gli sem bravano più comprensibili, era convinto che nessuno di loro fingesse e che osservassero il supplizio del ragazzo con sincera curiosità. Gli dispiaceva un po’ per Anatolij e al lo stesso tempo provava piacere nel sentire i suoi gemiti. Gli balenò un pensiero: « Ora sarà più calmo e diventeremo amici ». Improvvisamente apparve il pellicciaio, l’apprendista Nikolaj, piccolo, scuro, riccio, con le braccia lunghe. In solente come sempre, senza rispetto per nessuno, si fece largo tra la gente, entrò nel magazzino e per due volte rim bombò la sua voce: «Smettila! Vattene!». Tutti indietreggiarono dalle porte. Kuzin si precipitò fuori dal magazzino, si sedette a terra, si afferrò la testa con le mani, e, dopo aver sgranato gli occhi, si mise a ululare con voce rauca: «Aiuto!». «Dai, allontaniamoci dal peccato!» disse il padrone.
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Evsej si spostò in un angolo verso il terrazzino d’entrata e rimase in piedi a osservare. Uscì Nikolaj. Sulle sue braccia era adagiato il corpo sofferente del ragazzo. Lo mise a terra, si raddrizzò e gridò: «Donne, dell’acqua, carogne!». Zina e la cuoca si misero a correre. Il vetraio Kuzin gettando il capo all’indietro ansimò in modo sordo: «Aiuto, presto!». Nikolaj si girò verso di lui, lo colpì con un calcio al pet to e lo fece cadere sulla schiena, poi cominciò a urlare, schizzando fuoco dal bianco dei suoi occhi neri: « Carogne! Uccidono un bambino e per voi è come una commedia! Spacco il muso a tutti!». Da ogni parte gli risposero con degli insulti, ma nes suno osò awicinarglisi. «Andiamo!» disse il padrone, prendendo Evsej per ma no. Si avviarono e videro Kuzin che tutto curvo correva in silenzio verso il portone. Quando il ragazzo rimase solo, sentì che in lui era spa rita l’invidia verso Anatolij e aguzzando il suo cervello fiac co si spiegò quello che era accaduto: era solo un’impres sione che il divertente Anatolij fosse amato, in realtà non era così. A tutti piace fare a botte, guardare la gente che si prende a pugni, a tutti piace essere crudeli. Nikolaj ha preso le difese di Anatolij perché gli piace picchiare Kuzin e lo fa quasi tutti i giorni di festa. Coraggioso e forte com’è, può picchiare qualsiasi persona in questo pa lazzo, e lui, invece, lo picchia la polizia. Quindi, che tu sia calmo o sveglio, comunque ti maltratteranno e percuo teranno. Passò qualche giorno e nel cortile cominciarono a di re che l’apprendista del vetraio, mandato all’ospedale, era diventato matto. Allora Evsej si ricordò di come ardeva no gli occhi del ragazzo durante le sue rappresentazioni,
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com’erano bruschi i suoi movimenti, come il viso cambia va espressione velocemente e cominciò a pensare impau rito che forse Anatolij era sempre stato pazzo. Poi si di menticò di lui. Nelle notti di autunno i rumori intermittenti della pioggia sul tetto sotto la sua finestra gli impedivano di dor mire e gli riempivano il cuore di inquietudine. In una di quelle notti udì il grido arrabbiato del padrone: «Carogna!». Raisa controbatteva, come sempre, a voce bassa e can tilenante: «Non posso permettervi, Marvej Matveevič...». «Infame! Con tutti i soldi che ti pago?». La porta della camera del padrone non era chiusa e le voci risuonavano chiare. Una pioggia fine cantava silen ziosamente fuori dalla finestra una canzone lamentosa. Il vento strisciava sul tetto, come un enorme uccello senza rifugio, estenuato per il cattivo tempo, e sospirava sfioran do leggermente con le ali bagnate i vetri della finestra. Il ragazzo si sedette sul letto, si abbracciò le ginocchia e per corso dai brividi rimase in ascolto: «Ridammi i venticinque rubli, ladra!». «Non lo nego. Dorimedont Lukič mi ha dato...». «Ah! Vedi allora, canaglia!». «No, permettetemi, quando voi mi chiedeste di tene re d’occhio il signor...». La porta si chiuse, ma anche attraverso la parete si sen tiva il vecchio che gridava: « Ricordati, vile, che sei nelle mie mani! E se io mi ac corgo che hai una tresca con Dorimedont...». La voce della donna, calda e modulata, serpeggiava in torno alle parole rabbiose del vecchio e le cancellava dal la memoria di Evsej. Raisa aveva ragione: per Evsej ne erano prova la cal ma di lei e tutto quello che lui sentiva verso la donna.
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Evsej aveva già quindici anni, la sua attrazione verso la bella e mite Raisa Petrovna cominciava a complicarsi con un sentimento ansiosamente piacevole. Nei pochi minu ti in cui la incontrava, la guardava in viso con un senso segreto di pudica felicità; lei gli parlava con dolcezza e ciò suscitava nel suo petto una agitata riconoscenza che lo attirava a lei ancora più potentemente. Già quando viveva nel villaggio conosceva la cruda verità sui rapporti tra uomini e donne; la città aveva tin to questa verità di fango senza però che Evsej ne fosse stato macchiato: timoroso, non osava credere a quello che dicevano sulle donne, e quei discorsi non gli susci tavano tentazioni, ma una spaventosa repulsione. Ora, seduto sul letto, Evsej ricordava i dolci sorrisi e le pa role affettuose di Raisa. Assorbito da questi pensieri, non fece in tempo a stendersi che si aprì la porta della camera del padrone e si trovò davanti lei, mezza svesti ta, con i capelli sparsi e una mano premuta sul petto. Evsej si spaventò e rimase immobile, ma la donna lo mi nacciò con un dito, sorridendo, e se ne andò nella sua stanza. Al mattino, mentre stava spazzando il pavimento del la cucina, vide Raisa sulla porta della sua stanza e si rad drizzò davanti a lei con la scopa in mano. «Vuoi bere il caffè con me?» domandò lei. Confuso e raggiante Evsej rispose: «Non mi sono ancora lavato, arrivo subito!». Pochi minuti dopo sedeva al tavolo nella sua stanza, senza vedere altro se non il suo viso bianco con le soprac ciglia sottili e gli occhi buoni che gli sorridevano umidi. «Ti piaccio?» domandò. «Sì!» rispose il ragazzo. «Perché?». «Perché siete buona e bella». Rispose sognante. Gli sembrava strano sentire quelle
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domande, quegli occhi dovevano sapere tutto quello che stava accadendo nella sua anima. «E a Matvej Matveevič vuoi bene?» chiese lentamen te e sottovoce Raisa. «N o» rispose semplicemente Evsej. «Davvero? Ma lui ti vuole bene, me lo ha detto lui stesso». «N o» ripete il ragazzo, dondolando la testa. Lei sol levò le sopracciglia e gli si avvicinò un poco chiedendo: «Non ti fidi di me?». «D i voi sì, ma del padrone no, per niente...». «Come mai? Come mai?» domandò due volte veloce e silenziosa awicinandoglisi ancora di più. Il caldo rag gio del suo sguardo penetrò nel cuore del ragazzo risve gliandovi dei pensieri, che questi non esitò a riferire alla donna: «H o paura di lui. Ho paura di tutti, fuorché di voi». «Perché?». «Maltrattano anche voi, ho visto che piangevate. Non stavate piangendo perché avevate bevuto, io lo so. Io ca pisco molto, solo che non riesco a capire tutto insieme. Io vedo ogni singola cosa fino al più piccolo dettaglio, tan te cose diverse e le capisco tutte, ma cosa me ne faccio? I conti non tornano. Oltre a questa, ci deve essere un’altra vita...». «Che cosa dici?» chiese Raisa meravigliata. Si guarda rono in silenzio per qualche secondo, il cuore del ragaz zo batteva forte, le guance gli si coprirono di rosso per la vergogna. «Beh, ora vai! —disse piano Raisa alzandosi —Vai, se no domanderà perché sei stato qui così a lungo. Non dir gli che sei stato da me, va bene?». «Sì».
Se ne andò colmo del dolce suono di quella voce me lodiosa, scaldato dallo sguardo premuroso e tutto il gior
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no nella sua memoria risuonarono le parole della donna, avvolgendogli il cuore di una gioia serena. Quella giornata fu stranamente lunga. Sui tetti delle case e sulla piazza stava sospesa immobile una nube gri gia, era come se il giorno stanco si fosse impigliato in quel la massa plumbea e non passasse mai. Verso sera alla bot tega vennero dei clienti, uno un po’ gobbo, magro, con dei bei baffi brizzolati, l’altro con la barba rossa e gli oc chiali. Entrambi rovistarono a lungo e attentamente tra i libri, il magro fischiando piano tutto il tempo con i baffi che vibravano, il rosso invece parlava con il padrone. Evsej sistemava i libri che avevano scelto in una fila, con il dorso rivolto verso l’alto, e ascoltava di nascosto le parole del vecchio Raspopov. Sapeva in anticipo tutto quel che avrebbe detto il pa drone, sapeva come lo avrebbe detto, e, per vincere la noia causata dall’attesa della serata, giocava a prevederlo. « Comperate per una biblioteca?» chiese con voce sua dente il vecchietto. «Per la biblioteca della società dei maestri di scuola» rispose il rosso e domandò: «Perché me lo domandate?». « Ora gli farà dei complimenti!» pensò Evsej del padro ne e non si sbagliò. «Voi scegliete con grande competenza, è un piacere ve dere apprezzati i libri per il loro giusto valore». «È un piacere?». «Ora sorriderà» pensò Evsej. « Come no! —disse il vecchio sorridendo gentilmente. — A questa merce ci si affeziona, cominci ad amarla, del re sto non è legna, ma un prodotto dell’ingegno. E quando si vede che anche il cliente lo apprezza, fa piacere. Di so lito abbiamo clienti bizzarri, che vengono e chiedono: “C ’è un qualche libro interessante?”. Per loro non fa dif ferenza, cercano lo svago, il giocattolino, ma non le cose
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utili. Altre volte invece arrivano e all’improvviso chiedo no dei libri proibiti». «Come proibiti?» chiese il rosso socchiudendo gli oc chietti piccoli. «Stampati all’estero o in Russia clandestinamente». «E si possono comperare?». «Ora parlerà sottovoce!» pensò Evsej ricordandosi dei modi del vecchio. Fissando gli occhiali sul volto del rosso, il padrone dis se quasi in un sussurro: «E perché no? A volte si comprano intere biblioteche e, beh, dentro vi si trova un po’ di tutto». «Ne avete adesso di questi libri?». «Ce n’è qualcuno». «Mostratemeli dunque!» chiese il rosso. «Vi chiedo solo di tenervelo per voi. Sapete, non lo fac cio per interesse, ma per accontentare i clienti. Si cerca di rendere un buon servizio». Il signore un po’ curvo smise di fischiare, si sistemò gli occhiali e esaminò attentamente il vecchio. Quel giorno il padrone aveva un’aria particolarmente disgustosa per Evsej, che sin dal mattino lo osservava con una rabbia triste. Ora che il vecchio si era allontanato con il rosso in un angolo della bottega per mostrargli i libri, il ragazzo all’improvviso disse sussurrando al cliente un po’ gobbo: «Non comprate quei libri». Lo disse e rabbrividì per la gran paura. Da sotto gli occhiali gettarono uno sguardo sul suo viso due occhi chia ri socchiusi. «Perché?». Dopo qualche secondo, con grande sforzo, Evsej ri spose: «Non lo so». Il cliente si sistemò di nuovo gli occhiali, si allontanò
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da lui e si mise a fischiare più forte, guardando il vecchio di sottecchi. Poi, con un brusco movimento della testa all’indietro, si raddrizzò improvvisamente, si fece più al to, si lisciò i baffi bianchi, senza fretta, si avvicinò al suo compagno, gli prese dalle mani un libro, gli diede un’oc chiata e lo gettò sul tavolo. Evsej lo osservava, aspettando si tremende conseguenze. Ma l’uomo un po’ gobbo sfiorò il braccio del compagno e disse semplicemente e con calma: «Andiamo». «E i libri?» esclamò il rosso. «Andiamo». Il rosso lo guardò, poi si rivolse verso il padrone; i suoi occhietti piccoli cominciarono ad ammiccare senza posa e si allontanò verso la porta che dava sulla strada. «Non li volete?» chiese Matvej Matveeevič Raspopov. Evsej capì dalla voce, che il vecchio era sorpreso. « No » rispose il cliente, guardando fisso il volto del pa drone. Questo si contrasse, indietreggiò, agitò il braccio e improvvisamente si mise a parlare con un tono di voce alto e innaturale che Evsej non gli conosceva: «Padronissimi! Tuttavia, scusate, io non capisco...». « Che cosa non capite?» domandò il gobbo, con un sorrisetto ironico. «Avete frugato per due ore, avete mercanteggiato e di punto in bianco... perché?» gridò agitato il vecchio. « Se non altro perché mi sono ricordato del vostro brut to muso. Non siete ancora crepato?». Il gobbo pronunciò queste parole lentamente, a voce bassa, scandendole e uscì dalla bottega senza fretta, con passi pesanti che continuavano a echeggiare. Il vecchio lo seguì con lo sguardo per un minuto, poi partì sparato, correndo a piccoli passi verso Evsej e, pre solo per la spalla, disse in un veloce sussurro: « Seguilo, scopri dove abita, vai! Senza farti vedere, hai capito, sbrigati!».
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Se il vecchio non lo avesse tenuto in piedi, Evsej sareb be caduto. Le parole del vecchio risuonarono secche den tro al suo petto, come un fagiolo secco dentro a una sca tola vuota. «Cosa hai da tremare, imbecille?». Sentendo che la mano del padrone gli lasciava la spal la, Evsej corse verso la porta. «Fermati!». Si arrestò paralizzato da quel grido. «Dov’è che vai? Non saresti in grado». Evsej si cacciò nel suo angolo. Era la prima volta che vedeva il padrone così arrabbiato. Capiva che nella sua rabbia c’era molta paura, un sentimento che conosceva fin troppo bene e, nonostante che lui stesso fosse terrorizza to, gli piaceva vedere il vecchio così agitato. Questi, piccolo e coperto di polvere, andava e veniva per la bottega come un topo preso in trappola. Si avvici nava correndo alla porta, metteva la testa fuori allungan do il collo, tornava di nuovo nella bottega, si tastava smar rito con le mani prive di forza, bofonchiava e sbuffava, agitando il capo in modo che gli occhiali gli saltavano sul la faccia: «Ah, vigliacco! Sì, vigliacco, guarda che sono vivo!». E gridò a Evsej: «Chiudi la bottega!». Entrando nella sua stanza, il vecchio si fece il segno del la croce e si buttò pesantemente sul nero divano. Il suo volto sempre liscio era ora coperto di rughe, la sua faccia si era raggrinzita e gli abiti parevano ora ampi e cascanti sul suo corpo agitato. « D i’ alla padrona di casa che mi dia della vodka al pe peroncino, un bicchiere grande». Quando Evsej portò la vodka, il padrone si alzò, la bev ve in un sol fiato e con la bocca spalancata, dopo aver guar dato a lungo il volto di Evsej, domandò:
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«Capisci che mi ha insultato?». «Sì» disse Evsej. Il vecchio sollevò la mano, alzò in silenzio il dito mi naccioso e continuò con voce rotta: «M a io lo conosco...». Toltosi il berretto nero si sfregò con le mani la testa pe lata, esaminò la stanza, si toccò di nuovo la testa con le mani e si stese sul divano. Raisa portò la cena e mentre disponeva i piatti sul ta volo chiese: «Siete stanco?». «M i sento male, ho la febbre. Datemi ancora della vodka. Sedetevi con noi, è ancora presto perché ve ne an diate». Parlava in fretta, dando ordini. Quando Raisa si sedet te, il vecchio sollevò gli occhiali e la guardò in modo so spettoso. Mentre mangiava sollevò improvvisamente il cuc chiaio e disse: «Non ho fame». E chinata la testa sul piatto tacque a lungo. Evsej cer cava insistentemente di capire cosa fosse successo nella bottega. Era come se inaspettatamente avesse acceso un fiammifero e dalla sua fiamma esigua d’improvviso fosse divampato qualcosa di ardente e per poco non lo avesse bruciato con il suo fuoco malvagio. Era come se le persone fossero legate da dei fili invisi bili e bastasse toccarne uno per caso per far contrarre e adi rare un uomo. All’improvviso il vecchio domandò con voce bassa e sospettosa guardando Evsej: «E tu a cosa pensi?». Evsej si alzò confuso: «Non penso». «Beh, vattene, finisci di cenare e vattene!».
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Per far dispetto al padrone, Evsej incominciò a sparec chiare la tavola con tutta calma. Allora il vecchio gridò stridulo: «Vattene, ti dico! Scemo!». Evsej uscì, si sedette sul baule, lasciò la porta legger mente aperta per sentire cosa avrebbe detto il padrone. «Cosa fai lì seduto?». Si voltò. Sporgendo la testa nella porta, il padrone lo guardò. «Vai a letto, dormi!». La porta si chiuse del tutto, Evsej si svestì e andò a let to. Le parole secche del vecchio frusciavano dietro la porta come foglie autunnali. Talvolta il vecchio si adirava, urla va e questo impediva a Evsej sia di pensare che di dormire. Al mattino Raisa lo chiamò di nuovo da lei e, quan do si fu seduto, gli chiese sorridendo: «Cosa è successo ieri nella bottega?». Evsej glielo raccontò dettagliatamente; Raisa rise, sod disfatta e felice, ma all’improvviso socchiuse gli occhi e domandò sottovoce: «Hai capito chi è il tuo padrone?». «N o». «Un agente della polizia segreta» bisbigliò e i suoi oc chi si spalancarono spaventati. Evsej taceva. Allora la donna si alzò, gli si avvicinò e accarezzandogli la testa cominciò a dire tenera e pensosa: « Come sei, non capisci mai niente. Di cosa parlavi l’al tro giorno? Che c’è un’altra vita?». La domanda gli diede coraggio, aveva molta voglia di parlare di queste cose. Guardandola negli occhi con lo sguardo vacuo dei ciechi, cominciò a raccontare: « C ’è un’altra vita, se no da dove verrebbero le favole? E non solo le favole». La donna ridendo gli scompigliò i capelli con le sue di ta tiepide:
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«Che sciocchino che sei!». E con voce seria, perfino severa disse: «Ti prenderanno, ti porteranno dove vogliono e faran no di te ciò che desiderano, è tutta qui la vita!». Evsej annuì in silenzio, condividendo le parole di Rai sa. Quest’ultima sospirò, guardò dalla finestra e, quando si voltò nuovamente verso Evsej, il suo viso lo stupì: era rosso e gli occhi si erano fatti più piccoli e scuri. La don na disse con voce sorda e pigra: « Se tu fossi più intelligente, che so, più sveglio, io forse ti avrei fatto delle confidenze. Ma così come sei non ti si può dire nulla. E il tuo padrone, è da strozzare. Va, riferiscigli pure quello che ti ho detto, tanto gli riferisci tutto ». Evsej si alzò dalla sedia, colmo di offesa e si mise a bor bottare: «Non dirò mai nulla di voi. Io vi voglio molto bene e se anche voi lo strozzaste per me sarebbe lo stesso! Ecco quanto vi voglio bene». Si avviò mesto verso la porta, ma le mani della donna come delle calde ali bianche lo afferrarono e lo fecero vol tare indietro. « Ci sei rimasto male? —disse —Perdonami. Se tu sa pessi che demonio è quell’uomo! Lo odio! Accidenti...». Dopo averlo stretto forte al suo petto, baciò due vol te il ragazzo. «M i vuoi così tanto bene?». « Sì » mormorò Evsej, sentendosi vorticare in un turbi ne ardente di sconosciuta felicità. Ridendo e accarezzandolo la donna disse: «Ah, ragazzino mio...». Quando scese la scala, Evsej sorrideva. Gli girava la testa, il suo corpo era pieno di un dolce languore, cam minava piano e con attenzione, come se temesse di rove sciare la calda felicità che gli colmava il cuore. «Perché sei rimasto di sopra così a lungo?» chiese il padrone.
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Evsej lo guardò, ma vide davanti a sé una macchia con fusa senza forma. «H o mal di testa!» rispose lentamente. «Anche io, e allora? Raisa si è alzata?». «Sì». «Ti ha detto qualcosa?». «Sì». «Che cosa?» chiese velocemente il vecchio. Fu come se la domanda avesse dato una sferzata in vi so a Evsej, che si accorse di aver parlato troppo e disse: «H a detto che spazzo male la cucina». Poco dopo Evsej sentì l’esclamazione silenziosa e mo notona del vecchio: «Quella è una donna pericolosa! Sì, sì... Ti strappa le informazioni di bocca, ti costringe a dirle quello che non devi».
Capitolo V
I giorni cominciarono a scorrere come una folla frettolo sa e disordinata, come se conducessero a qualcosa di gioio so, ma che ogni giorno si faceva sempre più inquietante. Il vecchio era divenuto tetro, silenzioso, si guardava in torno in modo strano, e accendendosi improvvisamente gridava, si adirava, ululava con l’urlo inquieto di un cane malato. Si lamentava della sua salute, aveva la nausea, duran te il pranzo annusava sospettoso il cibo, con le dita tre manti sminuzzava il pane in piccole briciole, guardava il tè e la vodka controluce. Alla sera sempre più spesso in sultava Raisa, minacciando di ucciderla. La donna rispon deva alle grida con tranquillità e dolcezza, cosicché l’amo re di Evsej verso di lei cresceva, mentre si accumulava un fastidioso odio verso il padrone: «Pensi che non capisca cosa stai macchinando, infa me? —gridava il vecchio con voce lamentosa e cattiva — Perché sto male? Con che cosa mi stai avvelenando?». « Ma cosa dite, ma cosa dite! —gli faceva eco la calma voce della donna - 1 vostri mali vengono dalla vecchiaia ». «Balle!». «E anche dalla paura». «Taci, maledetta!». «È ora che pensiate alla morte». «Ah-ah, è questo che vuoi, allora? Scordatelo! Non ci
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contare. Non sono solo io a sapere quello che hai com messo! L’ho raccontato anche a Dorimedont, si! Cosa?». E riprese a ululare con voce alta e piagnucolosa. « Io lo so che lui è il tuo amante! E lui che ti ha istiga to ad avvelenarmi. Credi che tra le sue braccia per te sarà più facile? Ti sbagli, non sarà così!». A notte fonda durante una di queste scenate Raisa uscì dalla stanza del vecchio con una candela in mano, semi vestita, bianca e formosa; camminava come nel sonno, on deggiando, trascinando incerta i piedi scalzi sul pavimen to, con gli occhi semichiusi, e con le dita della mano destra, allungata in avanti, che si muovevano convulsa mente afferrando l’aria. La fiamma della candela pende va verso il suo petto, la piccola lingua rossa e fumosa toc cava quasi la camicia, rischiarando le labbra aperte e stanche e facendo risplendere i denti. Quando la donna passò davanti a Evsej, senza notar lo, egli si diresse involontariamente verso di lei, si avvicinò alla porta della cucina, diede un’occhiata e rimase inorri dito: posata la candela sul tavolo, la donna teneva in ma no un grande coltello da cucina e provava con un dito quanto era affilata la lama. Chinata la testa, si sfiorò con le mani il collo pieno, vicino all’orecchio, cercando qual cosa con le lunghe dita, poi, dopo aver tirato un profon do sospiro, appoggiò piano il coltello sul tavolo, e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Evsej afferrò lo stipite, la donna sussultò, si girò per il fruscio e bisbigliando incollerita gli domandò: «Cosa vuoi?». Evsej rispose ansando: «Morirà presto, perché farsi del male!». «Sh!» lo fermò Raisa e dopo aver toccato Evsej come per appoggiarsi a lui, ritornò nella stanza del vecchio. Ben presto Raspopov già non riusciva ad alzarsi dal let to, la sua voce si faceva sempre più debole e rauca, il voi-
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to era divenuto nero, il collo spossato non reggeva la te sta e il ciuffo di peli bianchi sul mento sporgeva strana mente all’insù. Veniva a visitarlo il dottore e ogni volta che Raisa dava al malato la medicina, questo diceva con un rantolo: «E con il veleno, vero?». «Se non la volete, la butto via» rispondeva la donna sottovoce. «No, no, lascia... Domani chiamo la polizia, lo chie derò a loro con che cosa mi stai avvelenando». Evsej stava in piedi vicino alla porta socchiusa, acco stando alla fessura ora l’occhio ora l’orecchio, meraviglia to quasi fino alle lacrime dalla pazienza di Raisa e nel suo petto cresceva in modo incontenibile la compassione per lei e un acuto desiderio che il vecchio morisse. Il letto scricchiolava e vibrava sottile il rumore del cuc chiaio contro il vetro del bicchiere. «Mescola, mescola, carogna!» brontolava il padrone. «Mettimi sul divano!» ordinò una volta. Raisa lo prese in braccio e lo portò con facilità, come fosse un bambino. La sua testa gialla giaceva sulla spalla rosea della donna, le gambe secche e scure ciondolavano fiacche, impigliandosi nelle bianche sottane. « Dio mio! - cominciò a piagnucolare il vecchio, di stendendosi sulfampio divano —Signore, perché hai mes so il tuo schiavo nelle mani di questi scellerati? I miei pec cati sono forse più gravi dei loro, Signore mio?». Ansimò, cominciò a rantolare e continuò con voce si bilante: «Vattene tu! Ne avevi già avvelenato uno, ti ho salva to dai lavori forzati e ora è il mio turno, eh! Scordatelo!». Raisa si spostò lentamente da una parte e Evsej vide il piccolo corpo rinsecchito del padrone: la sua pancia si gonfiava e si abbassava, le gambe si contorcevano, sul vol to grigio le labbra si incurvavano spasmodicamente, le
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apriva e le chiudeva inghiottendo avidamente l’aria, e vi passava sopra la lingua sottile, mostrando il cavo nero del la bocca. La fronte e le guance, umide di sudore, brilla vano, i piccoli occhi parevano ora più grandi e profondi, e seguivano incessantemente Raisa. «Non ho nessuno! Non ho una persona cara al mon do. Non ho un amico fedele, cosa ho fatto di male? Oh Signore!». La voce del vecchio stridette e si ruppe. «Tu, depravata! Giura davanti all’icona che non mi stai avvelenando ». Raisa si girò verso l’angolo dove stava l’icona e si fece il segno della croce. «Non ci credo, non ci credo!» borbottò il vecchio, af ferrandosi il petto e graffiando la biancheria e lo schiena le del divano. «Bevete, dunque, vi farà bene!» disse Raisa di colpo, quasi gridando. « Bene? —ripetè il vecchio —Cara, ho solo te al mon do, te! Ti do tutto quello che ho! Raisa, mia cara...». Tendeva verso di lei la mano ossuta e la chiamava a sé muovendo le dita nerastre. «Ah, ne ho abbastanza, maledetto!» proferì con voce soffocata Raisa. Strappato il cuscino da sotto la testa del vecchio, glielo lanciò sul volto, gli si lasciò cadere sopra con tutto il corpo e si mise a borbottare. «Vai al diavolo! Va’... Va’...». Evsej sentì un rantolo, dei colpi sordi, capiva che Rai sa stava schiacciando e soffocando il vecchio e che il pa drone sbatteva le gambe sul divano. Non sentiva né pietà né paura, ma desiderava che tutto finisse al più presto e per questo si chiuse gli occhi e le orecchie con le palme delle mani. Il dolore al fianco causatogli dalla porta della camera del padrone che si era aperta di colpo, lo costrinse a bai-
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zare in piedi. Ritta davanti a lui stava Raisa e si aggiusta va i capelli tutti sparsi sulle spalle. «Beh, hai visto?» chiese severa. «Sì» disse Evsej annuendo e si avvicinò a Raisa. «Ecco, ora denunciami alla polizia». Si voltò e se ne andò in camera, lasciando la porta aper ta. Evsej rimase sulla soglia, cercando di non guardare il divano, poi chiese in un sussurro: «È proprio morto?». « Sì » rispose la donna in modo categorico. Allora Evsej girò il capo e con occhi indifferenti os servò il piccolo corpo del padrone, incollato al divano ne ro, piatto, rinsecchito. Lo guardò, guardò Raisa e tirò un sospiro di sollievo. Nell’angolo, vicino al letto, l’orologio a pendolo batté un colpo, poi un altro; la donna sussultò due volte, si av vicinò, con un incerto movimento della mano fermò le oscillazioni zoppicanti del pendolo e si sedette sul letto. Con i gomiti appoggiati alle ginocchia si strinse la testa tra le palme delle mani, i suoi capelli si sparsero di nuovo co prendo le mani e chiudendo il viso con un velo dalla tra ma fìtta e scura. Toccando appena il pavimento con le dita dei piedi scalzi, per timore di rompere il silenzio solenne, Evsej si avvicinò a Raisa, guardando la sua spalla nuda e disse sot tovoce: «Gli sta bene!». «Apri la finestra! - ordinò severa Raisa - Aspetta. Hai paura?». «No!». «Come no? Pauroso come sei...». «Con voi non ho paura». «Apri la finestra!». Il freddo della notte irruppe nella stanza e si diffuse tutto intorno spegnendo il fuoco della lampada. Dalle
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pareti schizzarono via le ombre. La donna fece un movimen to della testa, gettando i capelli oltre le spalle, si raddrizzò, guardò Evsej con gli occhi enormi e disse sconcertata: « Perché mi rovino cosi? È tutta la vita che cado di ba ratro in baratro, sempre più in basso». Evsej si alzò di nuovo in piedi accanto a lei, entrambi tacquero a lungo. Poi lei lo cinse alla vita con il morbido braccio e, stringendolo a sé, domandò piano: «Ascoltami bene, lo dirai a qualcuno?». «N o» rispose il ragazzo dopo aver chiuso gli occhi. «Mai? A nessuno?» pronunciò pensierosa la donna. «Mai!» ripetè il ragazzo sottovoce, ma in modo fermo. La donna si alzò, si guardò intorno e osservò con to no pratico: «Vestiti, fa freddo! Bisogna riassettare un po’ la stan za. Va’ a vestirti!». Quando ritornò, vide che il cadavere del padrone era stato ricoperto fin sopra la testa con una coperta e Raisa era rimasta come prima, mezza svestita, con le spalle nu de; questo fatto lo commosse. Senza fretta sistemarono la stanza e Evsej sentiva che nella stretta camera lo scom piglio silenzioso della notte lo legava saldamente alla don na che conosceva il sentimento della paura. Cercava di te nersi vicino a lei, evitando di guardare il cadavere del padrone. Albeggiava. « Ora vai, vai a letto, dormi —ordinò la donna. —Pre sto ti verrò a svegliare » e, dopo aver toccato il suo letto, disse: «Ah, come è duro». Quando il ragazzo si fu coricato, Raisa si sedette ac canto al suo fianco e, accarezzandogli piano la testa con la morbida palma della mano, disse sottovoce: «Ti faranno delle domande; tu non sai niente, di’ che dormivi, che non hai visto niente».
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Con calma e chiarezza lo istruì su cosa dire e la sua dol cezza risvegliò in lui il ricordo della madre. Si sentiva be ne, sorrideva. «Anche Dorimedont è un agente della polizia segre ta. —si sentì dire con una dolce voce cantilenante —Stai molto attento. Se ti farà parlare, gli dirò che sapevi tutto e che mi hai aiutato in tutto, così metteranno in prigio ne anche te ». E, sorridendo pure, ripetè: «In prigione e poi, ai lavori forzati... Hai capito?». «Sì!» rispose piano e con gioia Evsej, guardando il viso della donna con gli occhi che gli si chiudevano dal sonno. «Ti stai addormentando? Beh, dormi! - sentì il ragaz zo semiaddormentato, grato e felice. —Ti dimenticherai tut to quello che ho detto? Quanto sei deboluccio... dormi!». Si addormentò. Ma presto fu svegliato da una voce severa: «Alzati, ragazzo! Ehi, ragazzo!». Evsej trasalì con tutto il corpo e allungò le braccia in avanti. Vicino al suo letto stava in piedi Dorimedont con il bastone in mano. « Cosa dormi, eh? Ti è morto il padrone e tu dormi! Nel giorno della morte del proprio benefattore bisogna piangere, non dormire. Vestiti!». Il volto piatto e brufoloso dell’agente di polizia era severo, le sue parole tenevano imperiosamente in pugno Evsej e lo conducevano come le redini di un cavallo mansueto. « Corri alla polizia. Ecco un biglietto con un messag gio da consegnargli!». Evsej si vestì fiaccamente, uscì di casa e sforzandosi di tenere gli occhi più aperti che poteva, si mise a correre lun go il marciapiede, urtando i passanti. « Se lo seppellissero al più presto! —pensava agitato e confuso —Dorimedont la spaventerà e lei gli racconterà tutto. Allora metteranno in prigione anche me».
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Quando ritornò a casa c’era già un funzionario di po lizia dalla barba nera e un vecchio canuto con una lunga finanziera e Dorimedont parlava al poliziotto con voce im periosa: «Avete sentito, Ivan Ivanovič, cosa dice il dottore? Cancro! Eh... Ecco il ragazzo. Ehi, ragazzo, vai, porta una mezza dozzina di birre, sbrigati!». Raisa in cucina preparava il caffè e cuoceva una frit tata. Aveva le maniche rimboccate fin sopra ai gomiti, le braccia bianche si muovevano agili e veloci. « Quando torni, ti do da bere il caffè!» promise la don na a Evsej sorridendo. Il ragazzo corse tutto il giorno fino a sera, perdendosi nel trambusto, senza avere il tempo di accorgersi cosa sta va succedendo in casa, ma sentendo che per Raisa tutto stava andando per il verso giusto. Quel giorno era più bel la del solito e tutti la guardavano con piacere. Ma la sera, quando Evsej, quasi febbricitante per la stanchezza, giaceva sul letto, con la bocca amara e impa stata, senti che Dorimendont stava dicendo severo e im perioso a Raisa: «Non si può perderlo d’occhio, hai capito? È sciocco». Poi Dorimedont e Raisa entrarono nella stanza di Evsej, l’agente tese la mano con aria solenne e disse re spirando rumorosamente: «Alzati! Dimmi un po’, come farai ora a vivere?». «Non lo so...». «Non lo sai? Allora chi è che lo sa?». Gli occhi dell’agente segreto si gonfiarono, le guance e il naso gli si fecero paonazzi, respirava accaldato e in mo do rumoroso, e assomigliava a una stufa ardente ben ca rica di legna. «Vivrai con noi, con me!» comunicò affettuosa Raisa. « Sì, vivrai da noi e io ti troverò un buon posto ». Evsej taceva.
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«Beh, cosa c’è?». «Niente...» disse Evsej dopo un po’. «Devi ringraziare, sciocco!» chiarì Dorimedont con aria condiscendente. Evsej sentiva che i piccoli occhietti grigi, quasi fossero chiodi, lo fissavano saldamente a qualcosa di ineluttabile. «Saremo per te meglio di una famiglia!» disse Dorime dont uscendo e lasciò dietro di sé un pesante odore di birra, sudore e grasso. Evsej aprì la finestra, si mise ad ascoltare il brontolio e l’affaccendarsi della città che si stava addormentando. Poi si coricò. Fissava le tenebre con occhi spaventati, vi vedeva muoversi lentamente come macchie nere le li brerie e i bauli, mentre le pareti, a malapena visibili, flut tuavano, e tutto questo lo opprimeva con una paura im placabile, come se lo schiacciasse in un angolo in modo ineluttabile e soffocante. Nella stanza di Raisa l’agente di polizia farfugliava con fusamente: «Non è niente! Passerà! Ah, ti ci abituerai!». Evsej ficcò la testa sotto al cuscino, ma dopo un minu to, sentendosi soffocare, si alzò di scatto. Davanti a lui ba lenarono le gambe secche e scure del padrone, si accese ro i suoi piccoli occhietti, rossi e malati. Lanciò un grido acuto, si mise a correre, allungando le braccia in avanti, spinse la porta di Raisa e mugolò piano: «H o paura!». Nella stanza si mossero di scatto due grossi corpi bian chi, uno di questi impaurito e arrabbiato ruggì: «Vattene via!». Evsej cadde sulle ginocchia e si rannicchiò sul pavi mento vicino alle gambe dei due, come una lucertola im paurita, lanciando dei piccoli urli: «H o paura!». Poi i giorni furono riempiti dall’affaccendarsi per i
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funerali e dal trasferimento di Raisa nell’appartamento di Dorimedont. Evsej correva di qua e di là senza pensa re, come un uccellino, in una nube scura di paura, e solo a tratti, come uno dei fuochi azzurri della palude, gli si ac cendeva il timido pensiero: «Che ne sarà di me?». Questo interrogativo gli faceva bruciare il cuore di ma linconia, suscitandogli il desiderio di fuggire da qualche par te e nascondersi, ma dovunque andasse incontrava gli oc chi penetranti di Dorimedont e sentiva la sua voce sorda: «Muoviti, ragazzo!». Questo ordine risuonava dentro Evsej, lo spingeva da una parte all’altra; correva per giorni interi, ma la sera, stanco e vuoto, si addormentava di un sonno nero e pe sante, pieno di sogni terribili.
Capitolo VI
Evsej si risvegliò da quella vita in un angolo buio di una grande stanza dal soffitto basso, seduto a un tavolo rico perto da una tela cerata sporca. Davanti a lui uno spesso libro coperto di scritte e alcuni fogli di carta a righe puli ti, nella sua mano una penna che tremava. Evsej non riu sciva a capire cosa dovesse farne di tutto questo e si guar dava intorno smarrito. Nella stanza c’erano molti tavoli dietro ai quali a grup pi di due e di quattro sedevano varie persone: scambian dosi poche parole, stanchi e nervosi, erano tutti presi dallo scrivere e fumavano molto. Il fumo acre e azzurrognolo flut tuava verso le finestre e dalla strada gli si riversava contro, in modo fastidioso e ininterrotto, un rumore assordante. Una gran quantità di mosche volavano in cerchio sopra al le teste, si arrampicavano in modo sconclusionato sugli an nunci appesi alle pareti, sui tavoli, andavano a sbattere con tro i vetri, e nel loro affaccendarsi erano simili agli uomini che riempivano quello stanzino lurido e soffocante. Alle porte c’erano delle guardie di polizia, entravano varie per sone, si inchinavano umilmente, sorridevano remissive e so spiravano. Risuonava il loro parlottìo affrettato e lamen toso, interrotto dai richiami severi dei funzionari. Allungando il collo sopra al tavolo, Evsej osservava gli impiegati, sperando di trovare qualcuno che potesse aiu tarlo. Si era svegliato in lui l’istinto di autodifesa, che gli
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faceva raccogliere tutti i sentimenti che aveva soffocato e tutti i pensieri sconnessi in un unico desiderio: adattarsi il prima possibile a quel luogo e a quelle persone per pas sare inosservato. Tutti gli impiegati, giovani e vecchi, avevano qualco sa in comune: di aspetto sciupato e logoro, si irritavano sempre e con facilità, urlavano, mostrando i denti e agi tando le braccia. Molti erano anziani e molti calvi, alcu ni erano fulvi e due canuti: uno con i capelli lunghi, al to, con grandi baffi, simile a un sacerdote al quale avessero rasato la barba; l’altro dal viso rubicondo, con un’enor me barba e la testa pelata. Era stato lui a far sedere Evsej nell’angolo, a mettergli davanti un libro e, picchiettandovi sopra con un dito, a ordinargli di trascrivere qualcosa. Ora di fronte a questo vecchio stava una donna an ziana, tutta vestita di nero, che cantilenava lamentosa: «Mio buon signore...». «Non mi disturbate!» gridò il vecchio senza neppure guardarla. Certe persone si lamentavano, chiedevano, si giustifi cavano, parlando con tono remissivo e piagnucoloso, al tri di tanto in tanto gli gridavano contro in tono irritato, canzonatorio e stanco. Frusciava la carta, scricchiolavano le penne, e attraverso tutto questo rumore trapelava il pianto silenzioso di una ragazza. «Aleksej! —chiamò a voce alta il vecchio dalla barba bianca —Porta via questa donna!». I suoi occhi si fermarono su Klimkov, gli si avvicinò in fretta e gli chiese sorpreso: «E tu, perché non scrivi?». Evsej tacque, abbassando il capo. « Ma bene, ci hanno insignito ancora di un altro scemo!» disse il vecchio alzando le spalle, e se ne andò gridando: «Ehi, Zarubin!».
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Un giovinetto secco e mingherlino con i riccioli neri sulla piccola testa, con la fronte bassa e gli occhietti vi spi, si sedette accanto a Evsej e, dandogli una gomitata sul fianco, chiese a mezza voce: «Qual è il problema?». «Non capisco...» disse Klimkov spaventato. Da qualche parte dentro al ragazzino, come provenen do dalla sua pancia, risuonò sordo: «Uh!». «Ti insegno io e tu mi darai mezzo rublo quando ri ceverai la paga, va bene?». «Va bene». Il morettino gli mostrò cosa bisognava copiare dal li bro e poi fu come se in lui qualcosa si spezzasse di nuovo: «Uh!». Scomparve scivolando agile tra i tavoli, camminando cur vo, con i gomiti stretti ai fianchi, le mani al petto, girando di qua e di là la testina arruffata e con gli occhietti vicini che scintillavano. Evsej, dopo averlo accompagnato con lo sguardo, tutto compunto intinse la penna nell’inchiostro, cominciò a scrivere e presto si abbandonò al solito e piace vole oblio rispetto a tutto ciò che lo circondava, si congelò in quel lavoro insensato e in esso perdette la sua paura. Si abituò in fretta al nuovo posto. Meccanicamente di ligente, sempre pronto a servire chiunque per toglierselo di torno il prima possibile, si sottometteva a tutti in mo do ubbidiente e si nascondeva lesto dietro al suo lavoro dalla fredda curiosità e dalle feroci uscite dei suoi com pagni d’ufficio. Silenzioso e discreto, si era creato nel suo angolo un’esistenza invisibile e viveva senza capire il sen so dei giorni che passavano vari e rumorosi davanti ai suoi occhi tondi e vuoti. Sentiva le lamentele, i gemiti, le grida di spavento, le voci severe degli ufficiali di polizia, il mormorio irritato e le beffe malevole degli impiegati. Spesso le persone
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venivano colpite in volto, spinte fuori dalla porta, non di rado scorreva del sangue; a volte i poliziotti conduce vano lì degli individui legati con delle corde, malmena ti, che gemevano orrendamente. I ladri sorridevano a tut ti, come fossero buoni conoscenti, anche le prostitute sorridevano insinuanti, tutte si aggiustavano il vestito sempre con lo stesso movimento della mano. Quelli che erano senza documenti tacevano mesti e accigliati, guar dando di traverso; i sorvegliati politici arrivavano fieri, di scutevano, urlavano e non dicevano mai a nessuno salve o arrivederci, affrontando tutti con un atteggiamento di tranquillo disprezzo o manifesta ostilità. In ufficio par lavano molto di loro, quasi sempre canzonandoli, talvol ta malignamente, ma sotto agli scherni e alla cattiveria Evsej sentiva un segreto interesse e un certo timore re verenziale per delle persone che si erano mantenute in dipendenti. Più di tutti suscitavano l’interesse degli impiegati gli agenti della polizia politica, persone con fisionomie inaf ferrabili, taciturni e severi. Di loro dicevano con grande invidia, che guadagnavano molto e con paura raccontava no che a queste persone tutto era noto e accessibile; il loro potere sulla vita della gente era immenso, erano in grado di mettere qualsiasi persona in una condizione tale che, ovun que fosse andata, sarebbe finita sicuramente in prigione. Senza accorgersene Klimkov accumulò esperienza e, anche se la sua mente debole e maldestra non gli consen tiva di organizzare tali conoscenze in un tutto armonico, queste, sotto il carico del loro peso, si organizzavano da sé, acuivano la sua curiosità e talvolta suggerivano a Evsej dei pensieri che lo spaventavano. Intorno nessuno provava compassione per gli altri e anche Evsej non provava pietà per le persone: gli sembrava che tutti dissimulassero, anche quando chi era stato picchia to si lamentava e gemeva. Vedeva negli occhi di ciascuno
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una misteriosa diffidenza e più di una volta il suo orecchio aveva colto, sussurrata, una promessa minacciosa: « Pazientate, la festa verrà anche per noi ». La sera, quando restava seduto nella grande stanza qua si solo e ricordava le impressioni del giorno, tutto gli sem brava inutile, irreale e incomprensibile. Gli pareva che tut ti sapessero che bisogna vivere in modo tranquillo, senza ostilità, ma per qualche motivo nessuno voleva dire alle persone il segreto di quell’altra vita, nessuno si fidava degli altri, tutti mentivano, invitando così gli altri alla menzogna. Vi era un’evidente rabbia generale verso la vita, tutti si lamentavano di quanto fosse pesante, ciascu no guardava all’altro come a un pericoloso nemico, e in ciascuno l’insoddisfazione per la vita era accompagnata da una forte diffidenza verso gli uomini. Talvolta Evsej veniva preso da una noia greve e spos sante, le sue dita divenivano fiacche, metteva da parte la penna e, appoggiando la testa sul tavolo, guardava a lun go immobile nell’oscurità fumosa della stanza, cercando di trovare qualcosa nella profondità della sua anima. Il suo superiore, un vecchio dalla barba rasata, gli gri dava: «Klimkov! Dormi?». Evsej afferrava la penna e sospirando si diceva: «Passerà...». Ma non riusciva a capire se ci credesse ancora in quel la frase o se non ci credesse già più e stesse solo cercando di consolarsi. A casa la situazione era più pesante e noiosa che al l’ufficio della direzione di polizia. Al mattino Raisa, semivestita, con il viso sciupato e gli occhi spenti, serviva il caffè in silenzio. Nella sua stan za tossiva e scatarrava Dorimedont; ora la sua voce sorda risuonava ancora più forte e autoritaria di prima. A pran zo e a cena mangiava facendo rumore, si leccava le labbra,
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tirando fuori tutta la lingua grande e spessa, mugugnava osservando avidamente il cibo prima di cominciare a man giarlo. Le sue guance rosse coperte di pustole erano luci de, i suoi occhietti grigi strisciavano sul viso di Evsej co me due piccoli insetti facendogli sentire sulla pelle un solletico sgradevole. « Io, caro mio —diceva —conosco le difficoltà della vi ta, ne ho viste di tutti i colori! Tu invece sei stato fortu nato fin da subito, ti ho sistemato con il lavoro e ti spin gerò più in alto possibile...». Mentre parlava dondolava il corpo pesante e la sedia scricchiolava lamentosamente sotto di lui. Evsej sentiva che quelfuomo poteva costringerlo a fare tutto ciò che vo leva. A volte l’agente di polizia annunciava borioso e sup ponente: « Oggi ho ricevuto di nuovo i ringraziamenti di Filipp Filippovič. Mi ha dato persino la mano...». Una volta a cena tirandosi leggermente il lobo del l’orecchio raccontò: « Ero seduto a un ristorante e ho visto un uomo che mangiava una polpetta, guardandosi continuamente intorno e controllando spesso l’orologio. Devi sapere, Evsej, che una persona onesta e tranquilla non si guarda in giro, non gli interessano gli altri, non sa che ora è. So no solo gli agenti della polizia segreta e i criminali che os servano la gente. Naturalmente, io ho notato questo si gnore. Poi è arrivato il treno dalla campagna ed è comparso al ristorante un altro signore, con i capelli scu ri e la barbetta, evidentemente un ebreo, con due piccoli fiori all’occhiello, uno rosso e uno bianco. Era un segno! Ho visto che si salutavano con gli occhi. Ah! —ho pensa to. Quello moro ha chiesto di mangiare, ha bevuto del l’acqua di seltz e se ne è andato, e quello che era già li, sen za fretta, lo ha seguito... E io dietro di loro...». Gonfiò le guance ed espirò con forza in faccia a Evsej
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il suo alito saturo di odore di carne e birra. Evsej barcol lò leggermente sulla sedia, e l’agente segreto scoppiò a ri dere, poi ruttò rumorosamente e continuò, tenendo al zato il suo grosso dito: « Li ho tenuti d’occhio per un mese e ventitré giorni, eh! Alla fine riferisco che ho per le mani delle persone so spette. Proseguo. Chi erano? Il castano chiaro che man giava la polpetta ha detto “non è affar vostro”. L’ebreo ha dato il suo vero nome. Insieme a loro hanno preso an che una donna, è già la terza volta che la beccano. Siamo andati in vari altri posti, ne abbiamo presi tanti, come fun ghi, ma era tutta marmaglia già conosciuta. Ci ero rima sto male, ma ieri all’improvviso il castano ha detto il suo nome, salta fuori che è un pesce grosso, un signore fug gito dalla Siberia, ah! A fine anno riceverò un premio!». Raisa mentre ascoltava guardava da qualche parte attra verso la testa dell’agente segreto e masticava lentamente una crosta di pane, staccandone a morsi dei piccoli pezzettini. «Catturateli pure, ma quelli non spariranno!» disse la donna pigramente. L’agente ridacchiò e rispose con aria di importanza: «Tu non capisci la politica, per questo dici delle scioc chezze, cara mia! Questa gente non vogliamo affatto ster minarla definitivamente: sono come delle scintille che ci devono indicare il punto esatto da dove parte il fuoco. Lo dice Filipp Lilippovič che è della polizia politica e per di più ebreo, ah! È un gioco molto sottile...». Lo sguardo di Evsej vagava annoiato per la piccola stan za quadrata; le pareti erano rivestite di carta da parati gial la, ovunque erano appesi ritratti di zar, generali, donne sve stite, che ricordavano le piaghe e gli ascessi sulla pelle di un malato. I mobili erano attaccati stretti stretti alle pareti, co me ad evitare le persone, c’era odore di vodka e di cibo cal do e grasso. Una lampada ardeva sotto un paralume ver de, dal quale si proiettavano sui volti ombre immobili.
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L’agente allungò il braccio attraverso il tavolo e tirò Evsej per i capelli. «Devi ascoltare quando parlo...». Picchiava spesso Klimkov, e per quanto non molto do lorose, le sue percosse lo umiliavano in modo particola re, come se non lo colpissero in viso, ma nell’anima. Gli piaceva molto colpirlo sulla testa con l’anello, piegava il dito e lo batteva con il pesante anello in modo tale da pro durre uno strano suono, uno schiocco secco. E ogni vol ta che Evsej riceveva un colpo, Raisa, muovendo le soprac ciglia, diceva con sufficienza: «Basta, Dorimedont Lukič, non va bene!». «Ah! Cosa hai paura che si rompa? Bisognerà pure in segnargli!». Raisa dimagriva, sotto agli occhi le erano comparse le occhiaie, il suo sguardo si era fatto ancora più fisso e ine spressivo. Nelle sere in cui l’agente non era in casa man dava Evsej a prendere la vodka, la mandava giù a piccoli bicchierini e poi raccontava qualcosa con la sua voce mo notona, in modo confuso e incomprensibile, fermandosi spesso e sospirando. Il suo grosso corpo si andava disfacendo, la donna slac ciava lentamente bottone per bottone, scioglieva i lacci e, mezza svestita, si buttava scomposta sulla poltrona, stra boccando come la pasta troppo lievitata. « Mi annoio! - diceva, ciondolando la testa —Mi an noio! Se almeno tu fossi più bello o più grande, mi terre sti allegra. Ah, quanto sei inutile!». Evsej chinava la testa in silenzio, il suo cuore si riem piva del gelo bruciante dell’umiliazione. « Beh, cos’è che ti ammosci, che ti abbatti? —sentiva le sue avvilenti lamentele - Agli altri della tua età piacciono già da un pezzo le ragazze, loro sì che se la spassano». Certe volte, dopo che aveva bevuto la vodka, lo at tirava a sé e gli faceva delle moine, suscitando in lui un
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sentimento complesso di paura, vergogna e acuta ma ti morosa curiosità. Serrava gli occhi, abbandonandosi alle sue braccia spudorate e rozze, in modo indolente, debo le, anemico, schiacciato dallo spossante presentimento di qualcosa di terribile. «Va’ a dormire! Eh, Dio mio!» esclamava, respingen dolo disgustata. Lui se ne andava nell’ingresso dove dor miva, e interiormente si allontanava sempre più, perden do un po’ il sentimento tiepido e indistinto che provava per lei. Steso sul letto, colmo di un senso di umiliazione e di un’acuta e sgradevole eccitazione, sentiva Raisa che cantava con la sua voce profonda e suadente una canzo ne malinconica, sempre la stessa, e il vetro della bottiglia che tintinnava, sbattendo contro il bicchierino. Ma una volta, a notte fonda, quando sui vetri della fi nestra accanto al letto di Evsej sferzavano fischiando i sot tili rivoli di pioggia autunnale, Raisa riuscì a suscitare nel ragazzo il sentimento che voleva. « Ecco! - diceva, ridacchiando ubriaca - Ora sei il mio amante! Hai visto che bello, eh?». Evsej era in piedi vicino al letto, ansante, con un tre more alle gambe e al petto, e guardava il corpo morbido e grande e il viso largo, deformato dal ghigno. Ormai non si vergognava più, ma il suo cuore, stretto da un triste sen so di perdita, era pietrificato per l’umiliazione, e per qual che motivo gli veniva da piangere. Taceva, sentendo di spiaciuto che questa donna estranea non la voleva più, non gli piaceva e che tutti i sentimenti buoni e affettuosi che serbava per lei nel suo cuore, di colpo erano stati inghiot titi dal corpo bramoso della donna e in esso erano spari ti senza lasciare traccia, come una tardiva goccia di piog gia in una torbida pozzanghera. « Lo fregheremo Dorimedont io e te, sporcaccione, vie ni qua!». Evsej, non osando rifiutare, le si avvicinò. Ma ormai la
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donna non poteva più sopraffare la repulsione che pro vava per lei. Cercò a lungo di sedurlo con le sue moine, ri dendo di lui in modo umiliante, poi, dopo aver respinto bruscamente da sé il suo corpo ossuto, imprecò e se ne andò. Quando Evsej rimase solo, pensò disperato: « Ora me la farà pagare, questa non me la perdonerà! Sono rovinato...». Guardò dalla finestra, nell’oscurità tremava e sbatte va qualcosa di informe e spaventato; piangeva, strillava, sferzava sui vetri, picchiava alle pareti e saltava sul tetto. Piano piano si fece strada in lui, tentandolo, un cau to pensiero: «E se io dico che ha soffocato il vecchio?». Questa domanda spaventò Evsej che per molto tempo non riuscì a respingerla. «Lei mi rovinerà in ogni caso!» si rispose da solo, ma l’interrogativo comunque rimaneva incessantemente da vanti a lui e lo attirava in una direzione sconosciuta. Al mattino gli sembrò che Raisa avesse dimenticato le tristi violenze notturne. Pigra e indifferente gli diede il caffè, del pane e, come sempre, indisposta per i postumi dell’alcol, non accennò, né con una parola, né con lo sguar do, al mutato atteggiamento di lui nei suoi confronti. Evsej andò a lavorare più tranquillo; da quel giorno co minciò a fermarsi alle lezioni serali e ritornava a casa len tamente, per ritardare il momento dell’arrivo. Se rima neva da solo con la donna era in difficoltà e temeva di parlare con lei, per paura che Raisa si ricordasse di quel la notte in cui aveva distrutto il sentimento di Evsej nei suoi confronti, gracile, ma a lui molto caro. Più spesso degli altri insieme a lui rimanevano in ufficio alle lezioni serali Jakov Zarubin e il superiore di Evsej, Kapiton Ivanovič Reusov, un uomo dai baffi bian chi che tutti dietro le spalle chiamavano Piffero.
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Il suo volto rasato era ricoperto da una fitta rete di pic cole venuzze rosse e se da lontano sembrava rubicondo, da vicino pareva fosse stato frustato con una verga sottile. Sot to le sopracciglia canute e le palpebre abbassate per la stan chezza brillavano incolleriti gli occhi tristi; parlava in mo do burbero e fumava continuamente delle grosse sigarette gialle con il bocchino di cartone e sopra la sua grande te sta bianca fluttuava sempre una nuvola azzurrognola, che lo rendeva riconoscibile in mezzo alle altre persone. «Che gran signore!» disse una volta Evsej a Zarubin. «È un mentecatto! —rispose Jakov, il morettino —È stato quasi un anno in manicomio ». Evsej vedeva che ogni tanto Piffero tirava fuori dalla tasca della sua lunga giacca grigia un piccolo libretto ne ro, lo avvicinava al viso e bofonchiava qualcosa sottovo ce, muovendo i baffi. «Che cos’è un libro di preghiere?». «Non lo so». Il viso scuro di Zarubin ebbe un tremito convulso, gli si accesero gli occhietti, si curvò verso Evsej e bisbigliò ani matamente: «Dalle ragazze ci vai?». «No...». « Uh! Andiamoci insieme, dai! Possiamo andarci sen za pagare, servono solo venticinque copechi per un paio di birre. Se diciamo che siamo della direzione di polizia, ci fanno entrare e ci danno anche le ragazze senza paga re. Hanno paura di noi funzionari di polizia!». E poi a voce ancora più bassa, ma con maggiore ar dore e ingordigia, continuò: « E che ragazze ci sono! Grosse e calde come delle co perte di piume. Sono la cosa più bella che ci sia, le ragaz ze, credimi! Ce ne sono persino di quelle che ti accarez zano come una madre». «E tu ce l’hai la madre?».
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« Sì, però abito da mia zia. Mia madre è una carogna. E la mantenuta del macellaio. Non ci vado a trovarla, il macellaio non vuole. Una volta sono arrivato e mi ha cac ciato un tale calcio nel sedere che uh!». Le piccole orecchie da topo di Zarubin sussultavano, negli occhi stretti le pupille erano rivolte stranamente ver so la fronte. Con un moto convulso delle dita si pizzica va la peluria sul labbro superiore e fremeva tutto dall’ec citazione. «Perché sei così silenzioso? Bisogna essere più corag giosi, se no ti ammazzano di lavoro. Anch’io all’inizio ave vo paura e tutti mi mettevano i piedi in testa. Vuoi di ventare mio amico per sempre?». A Evsej il ragazzo non piaceva, lo insospettiva con la sua smania, ma gli disse: «Va bene». « Dammi la mano! Ecco fatto. Domani andiamo dal le ragazze». «Io non vengo». Piffero, che si era avvicinato senza che se ne accorges sero, domandò con la sua voce burbera: «Beh, chi ha incominciato?». «Non stiamo bisticciando» rispose Zarubin, immuso nito e irriverente. « Bugiardo! —disse Piffero —Tu, Klimkov, non ti fare mettere sotto da lui, hai capito?». «Sì!» rispose Evsej, alzandosi in piedi davanti a lui. E si sentì attratto verso quella persona da un senso di rispettosa curiosità. Una volta, come al solito in modo per lui inaspetta to, trovò il coraggio di mettersi a parlare con Piffero. « Kapiton Ivanovič...». «Che c’è?». «Vorrei chiedervi, se permettete, perché le persone vivono così male».
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Il vecchio sollevò le pesanti sopracciglia e, guardando Klimkov in viso, domandò a sua volta: «E a te cosa importa?». Evsej si confuse, la domanda del vecchio si ergeva da vanti a lui con tutta la forza della sua semplicità. «A-ha!» disse sottovoce il vecchio. Poi corrugò la fron te, estrasse dalla tasca il libretto nero e, picchiettandoci so pra il dito, disse: «L ’hai letto il Vangelo?». «Sì». «L ’hai capito?». « No » rispose Evsej timidamente. « Leggilo ancora. —Muovendo i baffi, il vecchio nasco se il libro in tasca - È un libro adatto ai bambini, ai puri di cuore». Bofonchiava affettuosamente ed Evsej avrebbe volu to chiedergli ancora qualcosa, ma non riusciva a formu lare le domande e il vecchio si mise a fumare una sigaretta, venne avviluppato dal fumo e, probabilmente, si dimen ticò del suo interlocutore. Klimkov si allontanò cautamen te; la sua attrazione verso Piffero aumentò e pensò: «Magari potessi stare seduto più vicino a lui». E questo divenne il suo sogno. Il sogno di Jakov Zarubin, invece, era questo: «Sai cosa, Klimkov, - diceva in un sussurro concitato - proviamo a entrare tra gli agenti di polizia politica. Ah, quella sì che sarebbe una nuova vita per noi, eh!». Evsej restava in silenzio, gli agenti della polizia politi ca lo spaventavano con i loro occhi severi e il segreto che circondava i loro oscuri affari.
Capitolo VII
Una notte Dorimedont rientrò tardi con gli abiti laceri, senza cappello e bastone e con il viso pesto e sanguinante. Il suo corpo pesante tremava, le lacrime scorrevano sul vol to tumefatto, singhiozzava e ripeteva con voce sorda: «Bisogna trasferirsi in un’altra città...». Mentre Raisa gli asciugava in silenzio il viso con un asciugamano bagnato di acqua e vodka, egli sussultava e gemeva: « Piano... Quegli animali, come picchiavano! Con i ba stoni, uh!». Evsej, togliendo gli stivali all’agente di polizia, ascoltava compiaciuto i suoi gemiti, guardava le lacrime e il sangue. « Chiederò il trasferimento in un’altra città, qui mi uc cideranno». « Io, non vengo!» disse la donna in modo insolitamen te fermo. «Taci, non irritare ulteriormente un malato!» esclamò con voce piagnucolante Dorimedont. La mattina seguente, Evsej capì dal volto tirato di Rai sa e dalla forte irritazione dell’agente, che non si erano riappacificati. A cena ricominciarono a discutere. Dori medont imprecava, il suo viso gonfio e violaceo metteva spavento, aveva il braccio destro appeso al collo e agitava il sinistro in modo minaccioso. Raisa, pallida e tranquil la, spalancando gli occhi tondi, seguiva i movimenti del
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suo braccio sinistro e ripeteva caparbia e laconica quasi le stesse identiche parole: «Non vengo». «E perché, dunque?». «Non voglio». «No, io dico che verrai!». «Non vengo». «Vedremo! Ti sei forse dimenticata chi sei?». «Non mi importa». Dopo cena l’agente si avvolse il viso con una sciarpa e se ne andò da qualche parte. Raisa mandò Evsej a pren dere la vodka e quando il ragazzo ne portò una bottiglia insieme a un’altra di un liquore scuro, la donna versò un po’ di entrambi in una tazza da tè, ne bevve tutto il con tenuto e rimase a lungo in piedi con gli occhi chiusi, sfre gandosi la gola con la palma della mano. Poi chiese, ac cennando con la testa alla bottiglia: «Vuoi? Bevi, tanto ti metterai a bere lo stesso!». Evsej guardò le sue labbra flaccide, gli occhi velati e, ricordando com’era solo poco tempo prima, provò per lei tristezza e pietà. « Eh, —disse la donna pensosa —se si potesse campare con la coscienza pulita...». Ebbe un movimento convulso delle labbra, si versò di nuovo la vodka e gliela offrì: «Bevi!». Scosse la testa in segno di rifiuto: « Fifone. Hai una vita dura, questo lo capisco, ma perché continui a vivere, questo proprio non lo so. Che senso ha?». « Cosi! - rispose Evsej accigliato —E cosa dovrei fare?». Raisa lo guardò e gli disse con voce carezzevole: «Penso che ti impiccherai...». Evsej sospirò risentito e si sistemò più saldamente sul la sedia. La donna cominciò a camminare pigra e silenziosa per
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la stanza, si fermò davanti allo specchio e guardò il suo volto a lungo e senza battere ciglio. Si tastò con le mani il collo bianco e pieno, un brivido le corse sulle spalle, le braccia caddero pesantemente lungo il corpo, e comin ciò di nuovo a camminare per la stanza, ancheggiando. Si mise a canticchiare qualcosa con le labbra chiuse, il suo canto ricordava il lamento di una persona con il mal di denti. Sul tavolo ardeva una lampada coperta da un paralu me verde, dalla finestra, nel cielo sgombro, brillava il glo bo rotondo della luna e sembrava verde anch’esso, im mobile, come le ombre nella stanza, e pareva promettere sventure. «Vado a letto!» disse Evsej alzandosi dalla sedia. La donna non rispose e non lo guardò neppure. Allora il ra gazzo fece un passo verso la porta e ripete piano: «Vado a dormire». «C ’è qualcuno che ti trattiene? Va’!». Evsej capiva che la donna stava male per la nausea e voleva dirle qualcosa. Fermandosi sulla porta, domandò: «Non vi serve niente?». Dopo aver gettato al suo viso uno sguardo con gli oc chi annebbiati, gli rispose sottovoce: «Vai al diavolo!». Durante la notte Klimkov fu svegliato bruscamente da Dorimedont: «Dov’è Raisa? Non lo sai? Razza d’imbecille!». Se ne andò nella stanza, poi sporse la testa dalla porta e chiese severo: «Che cosa ha fatto ieri sera?». «Niente». « Ha bevuto la vodka?». «Sì». «Ah, che sgualdrina!». Il vecchio si prese l’orecchio e scomparve.
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La lampada tintinnò e si spense. L’agente imprecò e incominciò ad accendere dei fiammiferi, che, dopo aver rotto le tenebre per qualche istante, svanivano. Finalmen te dalla stanza accanto si allungò verso il letto di Evsej un pallido raggio di luce; il ragazzo tremava per lo spavento ed era come se stesse cercando non si sa bene cosa nello stretto ingresso. Apparve di nuovo Dorimedont. Aveva un occhio co perto da una tumescenza, mentre con l’altro, lucido e in quieto, esaminò rapidamente le pareti della stanza e si fermò sul viso di Evsej. «Non ha detto niente?». «No...». Evsej si sollevò sul letto. «Non ti alzare, non ti alzare! —disse Dorimedont e si sedette ai piedi del letto di Evsej - Se tu avessi un anno di più - cominciò sussurrando in un tono stranamente af fettuoso —ti sistemerei nella polizia politica. È un otti mo posto! Lo stipendio non è alto, ma se sei bravo, ci so no degli ottimi premi. Raisa è bella, vero?». «Sì» convenne Evsej. L’agente ridacchiò in modo strano, toccò con la ma no sinistra la fasciatura sulla testa e si tastò l’orecchio. « Eh, le donne, di loro non si è mai sazi. È la donna l’origine della tentazione e del peccato. Dove è andata?». «Io, non lo so» rispose piano Evsej, cominciando a provare una paura indistinta. « L’amante non ce l’ha... Tu, Evsej, non aver fretta con le donne! Costano care». Pesante, corpulento, avvolto di stracci, dondolava da vanti agli occhi di Evsej e sembrava fosse sul punto di ca dere in pezzi. La sua voce inespressiva suonava inquieta e la mano destra tastava la testa e il petto. «Me la sono fatta con molte! - disse, scrutando sospet toso gli angoli oscuri della stanza - È una faccenda snervan-
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te, meglio lasciar perdere. Altri dicono che le carte sono me glio, ma poi anche loro non riescono a vivere senza don ne. E neanche la caccia ti salva dalle donne, niente ti salva! ». Al mattino Klimkov vide l’agente che dormiva vesti to sul divano, con la lampada ancora accesa. La stanza era piena di fuliggine e c’era un forte odore di cherosene. Dorimedont russava, spalancando la grande bocca e con il braccio sano che pendeva sul pavimento: il suo aspetto era pietoso e ripugnante. Albeggiava, dalla finestra faceva capolino un pallido pezzetto di cielo, nella stanza si spargevano le mosche che ronzavano, agitandosi sullo sfondo grigio della finestra. Oltre all’odore del cherosene, l’appartamento era avvol to anche da un altro odore, denso e preoccupante. Dopo aver spento la lampada, Evsej, con una fretta in spiegabile, si lavò, si vestì e andò all’ufficio. Là, verso mezzogiorno, Zarubin gli gridò ad alta voce: « Ehi, Klimkov, Raisa Fialkovskaja è l’amante di Dorimedont Lukin, il tuo padrone di casa?». «Perché?» chiese rapido Evsej. «Si è uccisa con un coltello!». Evsej si alzò in piedi, colpito alla schiena da una acu ta fitta di paura. « L’hanno appena trovata nella rimessa, andiamo a ve dere!». «No, io non vengo!» disse Evsej, lasciandosi cadere sul la sedia. Zarubin se ne andò di corsa e, passando, annunciava agli altri impiegati: «L ’avevo detto io, è l’amante di Lukin ». Gridava la parola «amante» a voce particolarmente al ta, con gusto. Evsej lo seguì con lo sguardo, con gli occhi sbarrati, e davanti a lui ondeggiava nell’aria la testa di Rai sa, dalla quale si riversavano a fiumi i capelli pesanti e folti. «C os’è, non vai a pranzo?» gli chiese Piffero.
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In ufficio non era rimasto quasi nessuno. Evsej sospirò e rispose: «La mia padrona di casa si è uccisa». «Eh, sì! Beh, vieni, vieni alla trattoria». Non appena Piffero si mosse, Evsej saltò su e lo afferrò per una manica: «Prendetemi con voi!». « Dove?». «Del tutto prendetemi!». Piffero si chinò su di lui. «Cosa vuol dire del tutto?». «D a voi, a vivere con voi, per sempre». «Andiamo a pranzo». Alla trattoria un canarino fischiava senza sosta con vo ce acuta, il vecchio mangiava in silenzio delle patate ar rosto, mentre Evsej non riusciva a mandar giù niente e, trepidante, guardava il volto di Piffero con aria interro gativa. «Allora, ti piacerebbe vivere con me? Beh, vieni...». Quando Evsej udì queste parole, si sentì di colpo co me se lo avessero salvato da una vita terribile. Rincuora tosi, disse riconoscente: «Vi luciderò sempre gli stivali!». Piffero tirò fuori da sotto il tavolo la lunga gamba con lo stivale consunto e dopo averlo guardato disse: « Non ce n’è bisogno. E la tua padrona di casa, era una bella donna?». Gli occhi del vecchio lo guardavano affettuosamente e sembravano chiedere: «D i’ la verità». «Nonio so...» disse Evsej abbassando la testa e per la pri ma volta sentì che quelle parole le diceva troppo spesso. «Uhm, - proferì Piffero —uhm!». «N on so niente! - disse Evsej, sentendo tristemente quanto era scontento di se stesso, poi d’improvviso si fe ce coraggio —Vedo molte cose, ma non ne capisco il sen so. Deve esserci un’altra vita».
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«U n’altra vita?» ripetè Piffero strizzando gli occhi. «Si, cosi non va». Piffero si mise a ridere sommessamente, poi picchiò col coltello sul tavolo e gridò al cameriere: « Una bottiglia di birra! - Allora, così non va? Curioso ». Piffero cominciò a bere la birra in silenzio. Quando ritornarono alla direzione di polizia vi tro varono Dorimedont che aspettava Evsej. Aveva le fascia ture tutte in disordine e un occhio iniettato di sangue, si avvicinò veloce a Evsej e gli chiese furtivamente: «Hai sentito di Raisa? E stato l’alcol, te lo giuro!». « Io là non ci torno! —disse Evsej —Vado a vivere con Kapiton Ivanovič». Dorimedont cominciò di colpo ad agitarsi e, guardan dosi intorno sospettoso, sussurrò: « Senti bene, non ci sta con la testa, lo tengono qui per pietà. Può essere persino pericoloso, fai attenzione con lui!». Evsej si aspettava che l’agente l’avrebbe sgridato e, sor preso dal suo bisbigliare, lo ascoltava attentamente. «Me ne vado da questa città, addio! Parlerò di te al mio capo e quando avrà bisogno di una persona, si ricorderan no di te, stai tranquillo!». L’agente continuò a sussurrare a lungo e frettolosa mente, con l’occhio che correva sospettoso da ogni par te, e, quando si apriva la porta, balzava sulla sedia, come se stesse per fuggire. Emanava l’odore di una qualche po mata medicamentosa e sembrava a un tratto diventato me no corpulento, più basso e che avesse perso tutta la sua arroganza. «Addio! — disse, posando la mano sulla spalla di Evsej. - Stai sempre in guardia e non fidarti delle per sone, tanto più delle donne. Dà il giusto valore al dena ro. Compra con l’argento, metti da parte l’oro, non disde gnare il rame e difenditi con il ferro, dice un proverbio cosacco. Io sono cosacco, eh!».
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Evsej l’ascoltava malvolentieri e annoiato, non crede va a una sola delle parole dell’agente e, come sempre, lo temeva. Quando se ne fu andato si senti meglio e si mise a lavorare di buona lena, cercando cosi di sfuggire al ricor do di Raisa e a tutti i cattivi pensieri. Quel giorno qualcosa dentro di lui cambiò, si mosse, sentiva che stava per iniziare una nuova vita e con lo sguar do seguiva di sottecchi Piffero, curvo sul proprio tavolo in una nuvola di fumo grigio. E, senza volerlo, pensò: «Come fanno presto le cose a succedere! Nel giro di un attimo si è uccisa!». Alla sera, mentre camminava per strada accanto a Pif fero, si accorse che quasi tutti guardavano il vecchio e tal volta si fermavano perfino per osservarlo meglio. Piffero camminava lentamente, ma a grandi passi, il suo corpo ondeggiava, inclinandosi in avanti e anche la te sta pendeva in avanti come quella di una gru. Incurvan dosi, mise le mani dietro la schiena, mentre i lembi della giacca, separandosi, cominciarono a battergli sui fianchi come due ali spezzate. Agli occhi di Klimkov, l’attenzione rivolta dalle perso ne conferiva al vecchio ancora più importanza. «Come ti chiami?». «Evsej». « Ioann è un bel nome! - osservò il vecchio, aggiustan dosi con il lungo braccio il cappello sgualcito —Io avevo un figlio che si chiamava Ioann ». «E dov’è ora?». «Questo non ti riguarda» rispose il vecchio tranquil lo. E dopo qualche passo aggiunse con lo stesso tono: «Se si dice “avevo”, significa che non c’è più! Non c’è già più...». Protese in avanti il labbro inferiore, lo grattò con il mi gnolo e disse a voce bassa: «Vedremo chi avrà la meglio!».
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Poi girò il collo da un lato, inclinò la testa e, guardan do Evsej negli occhi, disse con aria d’importanza, alzan do il dito in aria davanti a sé: «Oggi viene a trovarmi un amico. Ho un amico, uno solo! Tutto quello che diciamo o che facciamo non ti ri guarda. Io non so quello che sai o quello che fai tu e non voglio saperlo. Così devi fare anche tu. Senza meno». Evsej annuì in silenzio. « Questa regola è valida in generale, applicala a tutti. Nessuno sa niente di te e tu non sai niente degli altri. La rovina degli uomini è la conoscenza disseminata dal dia volo. Beato è chi non sa. Chiaro?». Evsej ascoltava attentamente lanciando delle occhiate al volto del vecchio. Questi se ne accorse e mormorò: «Vedo che in te c’è qualcosa di umano». E aggiunse: «Anche i cani hanno qualcosa di umano». Attraverso una stretta scala di legno si arrampicarono fino a un sottotetto opprimente, buio e con un forte odo re di polvere. Piffero diede i fiammiferi a Evsej e gli ordinò di fare un po’ di luce, poi, quasi completamente ripiega to su se stesso, cercò a lungo di aprire la porta, ricoperta da una tela cerata lacera e da un panno di feltro logoro. Mentre Evsej illuminava, i fiammiferi gli bruciavano la pel le delle dita. Il vecchio viveva in una stanza bianca, lunga e stretta, il cui soffitto era simile al coperchio di una tomba. Di fronte alla porta un’ampia finestra illuminava la stanza di una luce fioca, nell’angolo a sinistra dell’ingresso c’era una piccola stufa, lungo la parete sinistra era disposto il letto e di fronte ad esso era collocato un divano rosso sfonda to. C ’era un forte odore di canfora e di erbe essiccate. II vecchio aprì la finestra e inspirò rumorosamente: « Si sta bene quando l’aria è pulita! - disse - Dormi rai sul divano. Come ti chiami, Aleksej?».
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« Evsej ». Prese la lampada dal tavolo, la sollevò e indicò il mu ro con un dito: «Ecco mio figlio, Ioann ». In una stretta cornice bianca, indistinguibile dal mu ro, era appeso un ritratto, eseguito con sottili tratti di ma tita: un volto giovane, con la fronte alta, il naso affilato e le labbra serrate caparbiamente. La lampada tremò in mano al vecchio, il paralume sbattè sul vetro diffondendo nella stanza un suono som messo e lamentoso. « Ioann! - ripetè il vecchio, appoggiando la lampada sul tavolo —Il nome di una persona ha un grande signifi cato ». Sporse la testa fuori dalla finestra, inspirò rumoro samente una boccata di aria fredda e, senza voltarsi verso Evsej, gli ordinò di preparare il samovar. Arrivò un gobbo, si tolse in silenzio il cappello di pa glia e, sventolandoselo in faccia, disse con una bella voce di petto: «Che afa, nonostante sia già autunno!». «Ah, eccolo!» replicò Piffero. Si misero a parlare pia no, in piedi vicino alla finestra. Evsej capì che parlavano di lui, ma non riusciva a capire niente. Si sedettero a ta vola, Piffero cominciò a versare il tè. Evsej quatto quat to, senza farsi vedere, cercava di esaminare l’ospite. Anche lui aveva il viso rasato, violaceo, con la bocca grande e le labbra sottili. Gli occhi scuri erano infossati nelle orbite sotto la fronte spaziosa e piatta, la testa, completamente calva, era grande e spigolosa. Continuava a tamburellare piano sul tavolo con le lunghe dita. «Suvvia, leggi!» disse Piffero. Il gobbo tirò fuori dalla tasca della giacca un fascio di carte e lo aprì. «Tralascio i titoli».
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Si schiari la gola, strinse gli occhi e cominciò a leggere: «“Noi sottoscritti, persone a tutti sconosciute e già di una certa età, ci prostriamo ora umilmente ai vostri pie di con questa triste denuncia, proveniente dal profondo dei nostri cuori, che, pur distrutti dalla vita, non hanno perso la nobile fede nella misericordia e nella saggezza di Vostra Maestà...” . Va bene?». «Continua!» disse Piffero. «“Per noi Voi siete il padre del popolo, la fonte di ogni saggezza e l’unica forza sulla terra, capace...”». «Meglio mettere “potente”» notò Piffero. «Aspetta: “la sola forza sulla terra capace di stabilire e consolidare in Russia la giustizia”. Qui bisogna mettere, per formulare bene, ancora una qualche parola, ma non so quale...». « Devi prestare più attenzione alle parole! —disse Pif fero in modo severo, ma a voce bassa - Ricordati che ogni persona le capisce a modo suo». Il gobbo gli gettò uno sguardo e si sistemò gli occhiali. «Sì... “La grande Russia sta andando in rovina, acca dono cose incredibili, vengono commessi crimini orren di. Le persone sono oppresse dalle sofferenze della mise ria e della povertà, i cuori sono inaspriti dall’invidia, l’uomo russo, mite e paziente, soccombe e al suo posto sta nascendo una stirpe di uomini-lupo, predatori spietati, di un’ingordigia feroce, senza cuore. La fede è scomparsa, og gi i popoli si allontanano dalla sua sacra fortezza, e da ogni parte gli uomini perversi si accaniscono sugli indifesi, li incantano con la loro furbizia diabolica, attirandoli sulla strada del crimine in contrasto a tutte le tue leggi, oh Si gnore della nostra vita”». «Signore della nostra vita... ma non è mica un vesco vo! —borbottò Piffero - Bisogna cambiare. E bisogna dir lo chiaramente: “Tra le persone comincia a diffondersi un forte malcontento verso la vita, per questo tu, eletto da Dio...”».
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Il gobbo scosse la testa in segno di disaccordo. «Noi possiamo indicare la via da seguire, ma non ab biamo il diritto di consigliare». « Chi è il nostro nemico e come si chiama? Ateo, socia lista e rivoluzionario, ha un nome triplice. Distruttore del la famiglia, ladro dei nostri figli, precursore dell’Anticristo». «Io e te non crediamo nell’Anticristo» disse piano il lo stesso! Parliamo a nome di migliaia di persone che credono nell’Anticristo. Dobbiamo indicare la radi ce del male. Dove la vediamo? Nelle prediche che invita no alla distruzione». «Questo lo sa già». « E chi è che gli dice la verità? I suoi figli non sono sta ti presi nella morsa della follia. Su cosa si fonda la dottri na dei rivoluzionari? Sulla povertà generale e sul malcon tento che essa genera. E noi dobbiamo dire chiaramente allo zar: “Tu sei il Padre del popolo, sei ricco, dai al tuo popolo le ricchezze che hai accumulato, in questo modo reciderai la radice del male e la tua mano salverà tutti”». Il gobbo tese la bocca a formare una fessura lunga e stretta e disse: «Così andiamo a finire ai lavori forzati». Poi guardò il viso di Evsej e quello del padrone di casa. Klimkov ascoltava la lettura e la conversazione come fossero una favola, e sentiva che le parole gli entravano in testa e gli si imprimevano per sempre nella memoria. Con la bocca semiaperta, guardava con gli occhi sgranati ora l’uno ora l’altro e, perfino quando lo sguardo scuro del gobbo si posò sul suo volto, non batté ciglio, tanto era incantato da ciò che stava accadendo. «Però - disse il vecchio —cosi non va bene». «Che hai, Klimkov?» chiese cupo Piffero. A Evsej si era seccata la gola e dopo un po’ rispose: «Sto ascoltando».
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E di colpo capì dai loro volti che non si fidavano di lui, che lo temevano. Si alzò dalla sedia e cominciò a dire, im pappinandosi: «Non lo dirò a nessuno! Permettetemi di ascoltare, del resto ve l’ho detto, Kapiton Ivanovič, che in qualche mo do bisogna cambiare tutto». «Vedi? —proferì Piffero stizzito, indicando Evsej con il dito - Che cos’è? Non è altro che un ragazzetto, eppu re... eppure anche lui dice che abbiamo bisogno di una vi ta diversa. Ecco da dove prendono la loro forza gli altri!». «Beh, sì...» convenne il gobbo. Evsej si intimidì. Piffero, aggrottando severo le soprac ciglia, disse, chinandosi verso di lui: « Perché tu lo sappia, stiamo scrivendo una lettera al lo zar, gli chiediamo di prendere misure severissime con tro le persone sorvegliate dalla polizia per aver commes so crimini politici sovversivi, capisci?». « Capisco » rispose Klimkov. « Queste persone —continuò lentamente il gobbo scan dendo le parole —sono agenti di stati stranieri, soprattut to inglesi, e vengono pagati con ingenti somme di dena ro per far sì che il popolo russo si ribelli contro l’autorità e indebolisca il nostro stato. Gli inglesi ne hanno biso gno per impedirci di strappargli l’India». Parlavano a Evsej uno dopo l’altro: quando uno s’in terrompeva, l’altro seguitava. Il ragazzo li ascoltava, cer cando di fissare bene nella memoria i loro sapienti discor si ma, non essendo avvezzo a un tale lavorio del cervello, si sentiva come ubriaco. Gli sembrava di essere sul punto di capire qualcosa di grandioso che avrebbe chiarito il sen so di tutta la sua vita, di tutti gli uomini e di tutte le loro sventure. Provava una gioia indicibile nel rendersi conto che due persone intelligenti parlavano con lui come con un adulto e fu colto da un forte senso di gratitudine e di rispetto per quei due individui, che, pur così poveri e mal
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vestiti, progettavano con tanto fervore una vita migliore. Presto, però, la sua testa si fece pesante, come se fosse stata riempita di piombo e, schiacciato da una fastidiosa sensazio ne di pienezza nel petto, senza volerlo chiuse gli occhi: «Va a dormire!» disse Piffero. Ubbidiente, Klimkov si alzò, si svestì con movimenti accorti e si stese sul divano. Dalla finestra penetrava l’aria umida, tiepida e fragran te della notte autunnale, nel cielo nero scintillavano mi gliaia di stelle luminose che sembravano volare sempre più in alto. La fiamma della lampada traballava e saliva anch’essa verso l’alto. I due uomini, curvi uno verso l’altro, parlavano con tono basso e solenne. Intorno, tutto era eccezionale e misterioso, ed Evsej si sentiva piacevolmen te sospinto verso una vita diversa e più giusta.
Capitolo V ili
Già dopo aver vissuto qualche giorno insieme a Kapiton Ivanovič, Klimkov senti che in lui era avvenuto un cam biamento importante. Mentre prima, quando si rivolge va ai soldati in servizio presso la direzione di polizia, par lava sottovoce e con tono di rispetto, quel giorno chiamò a sé con voce severa il vecchio Butenko e gli disse irritato: «Nel mio calamaio ci sono di nuovo le mosche!». Il vecchio soldato, tutto ricoperto di croci e medaglie, si mise a spiegare con tono indifferente e in modo pro lisso: « I calamai sono in tutto trentaquattro e le mosche so no migliaia. Quando hanno sete, si infilano nell’inchio stro. Cosa possiamo farci?». Nel gabinetto davanti allo specchio Evsej analizzò at tentamente il suo viso grigio, spigoloso, con il piccolo na so aguzzo e le labbra sottili. Cercò sul labbro superiore qualche traccia dei baffi e osservò a lungo i suoi occhi ac quosi e insicuri. « È ora di farsi tagliare i capelli! - decise non riuscen do a pettinare i radi ciuffi di colore chiaro —Ed è ora che incominci a portare i colletti inamidati, ho il collo trop po sottile». La sera stessa si andò a tagliare i capelli, comprò due colletti e si sentì ancora di più un uomo. Piffero lo trattava con cura e bonarietà, ma spesso nei
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suoi occhi brillava un sorriso canzonatorio, che suscitava in Klimkov imbarazzo e soggezione. Quando veniva il gobbo, il volto del vecchio si faceva preoccupato, la sua voce diveniva severa e a quasi tutti i discorsi dell’amico obiettava parlando a scatti: « Non è questo. Non è così. La tua testa è come un cat tivo fucile, disperde i pensieri da tutte le parti, invece bi sogna sparare in modo che la carica colpisca il bersaglio, senza deviare». Il vecchio scuotendo la testa pesante rispose: «Per far bene ci vuole del tempo». «Se il tempo passa, il nemico si rafforza». «Ah, tra l’altro, ho visto un uomo —disse una volta il gobbo —che è venuto a vivere non lontano da me. Alto, con la barba a punta, tiene gli occhi socchiusi e cammi na veloce. Ho chiesto al portinaio dove lavora. Mi ha det to che è venuto a cercare un posto. Ho appena scritto una lettera alla polizia segreta, guardate!». Piffero lo interruppe fendendo l’aria con un ampio movimento del braccio. « E che importanza ha! Gli insetti proliferano perché in casa è umido. Così non li elimini, bisogna asciugare la casa. Io sono un soldato —disse battendosi con il dito sul petto —ero al comando di un’intera compagnia e so qua le deve essere l’assetto nella vita. Bisogna che tutti cono scano a menadito lo statuto, le leggi, è questo che crea l’u nanimità. Che cosa impedisce alle persone di conoscere le leggi? La povertà. E l’ignoranza, che non è altro che una conseguenza della povertà. Allora, perché lo zar non lot ta contro la miseria? È proprio lì che si trovano le radici della follia umana e dell’ostilità verso la sua persona!». Evsej ascoltava avidamente le parole del vecchio e si convinceva sempre di più: l’origine di tutte le umane sven ture è la miseria. Era chiaro. E da essa che derivano l’in vidia, la cattiveria, la crudeltà, da essa vengono l’avidità e
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la paura della vita che accomuna tutti gli uomini. Il pro getto di Piffero era semplice e intelligente: lo zar è ricco, il popolo è povero, se lo zar darà tutte le sue ricchezze al popolo, tutti saranno sazi e onesti! L’atteggiamento di Klimkov verso le persone cambiò; pur rimanendo servile come prima, ora cominciava a guar dare tutti con aria condiscendente, con gli occhi di uno che ha capito il segreto della vita ed è in grado di indica re qual è la strada che porta alla pace e alla tranquillità. E, sentendo il desiderio impellente di vantarsi della sua saggezza, una volta mentre era a pranzo alla trattoria con Jakov Zarubin, gli espose tutto ciò che aveva udito dal vec chio e dal suo amico gobbo. Gli occhietti stretti di Zarubin si accesero, cominciò a dimenarsi, si arruffò i capelli piantandovi dentro le di ta di entrambe le mani ed esclamò a mezza voce: « È giusto, per Dio! E che diavolo, insomma! Lo zar possiede migliaia di milioni e noi qui moriamo di fame. Ma chi te lo ha spiegato?». «Nessuno! — disse fermo Evsej — L’ho pensato io stesso». «No, di’ la verità! Dove lo hai sentito?». «Ti dico che l’ho pensato da solo!». Jakov lo scrutò compiaciuto. «Se è così, allora non sei stupido. Comunque io non ti credo». Evsej ci rimase male. «Non mi importa nulla, peggio per te». Jakov per qualche motivo scoppiò a ridere, fregando si forte le mani. Dopo due giorni al tavolo di Evsej giunsero il vice commissario di polizia e un signore dagli occhi grigi, con la testa tonda ben rasata e il viso giallo e malinconico. «Tu, Klimkov, vieni alla sezione di polizia politica!» disse il vicecommissario con voce bassa e sinistra.
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Evsej si alzò dalla sedia, ma gli tremavano le gambe e dovette sedersi di nuovo. Quello con la testa rasata aprì il cassetto del tavolo e prese tutte le carte. Sfinito, senza capire nulla, Klimkov si ritrovò in una stanza semibuia vicino a un tavolo coperto da un panno verde. Un’onda di paura si sollevava e si abbassava nel suo petto, il pavimento gli fluttuava instabile sotto i piedi e le pareti della stanza, avvolta da una verde penombra, gli giravano lentamente intorno. Sopra al tavolo si ergeva un volto bianco, incorniciato da una folta barba nera, sul qua le scintillavano le lenti blu degli occhiali. Evsej guardava fisso quelle lenti, quelle tenebre bluastre senza fondo, che lo attiravano e sembravano volergli succhiare tutto il san gue dalle vene. Raccontò di Piffero e del suo amico gob bo in modo dettagliato e coerente, sentendo come di strapparsi lentamente una pellicola che gli avvolgeva il cuore. Una voce alta e acuta lo interruppe: «Dunque, secondo questi due somari, è sua Maestà Imperiale il responsabile di tutto?». L’uomo dagli occhiali blu allungò lentamente il brac cio, prese la cornetta del telefono e chiese con aria can zonatoria: « Belkin, siete voi? Sì, mio caro, date disposizioni, af finché stasera vengano perquisiti e arrestati due delinquen ti: l’impiegato della direzione di polizia Kapiton Ivanovič Reusov e il funzionario del Ministero delle finanze Anton Drjagin. Beh sì, certo...». Evsej si aggrappò con la mano al bordo del tavolo. «Ecco!» —disse l’uomo dalla barba nera. Poi si abban donò indietro sullo schienale della poltrona, si lisciò la bar ba con entrambe le mani, giocherellò con la matita, la appoggiò sul tavolo e infilò le mani nelle tasche dei pan taloni. Dopo un silenzio lungo e angosciante domandò, scandendo severamente le parole:
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«E di te, cosa devo farne?». «Perdonatemi!» implorò in un sussurro Evsej. « Uhm, Klimkov - disse senza rispondere l’uomo dal la barba nera —Questo cognome mi sembra di averlo già sentito...». «Perdonatemi...» ripetè Evsej. «Ti senti molto colpevole?».
«Sì». «Bene, e di cosa sei colpevole?». Klimkov tacque. L’uomo dalla barba nera stava sedu to così comodamente e tranquillamente che sembrava non avrebbe mai lasciato andare Evsej da quella stanza. «Non lo sai?» chiese, e suggerì: «Prova a pensarci...». Allora Evsej riempì il petto di quanta più aria potè e cominciò a raccontare di Raisa e di come aveva soffocato il vecchio Raspopov. Poi riferì di quando si era trasferito da Dorimedont. « Dorimedont Lukin? —disse l’uomo dagli occhiali blu, sbadigliando indifferente. —Ah-a, ecco perché ho già sen tito il tuo cognome!». Si alzò, si avvicinò a Evsej, gli sollevò il mento con un dito, lo guardò in faccia per qualche secondo e poi suonò il campanello. Pestando pesantemente i piedi, comparve sulla porta un ragazzone butterato, dalle mani enormi, che, dopo aver disteso le dita rosse, le agitò in modo spaventoso e guardò Evsej. «Portalo via!». Klimkov voleva buttarsi in ginocchio e aveva già pie gato le gambe, ma il ragazzo lo afferrò da sotto un’ascel la e lo trascinò con sé giù per una scala di pietra. «Cos’è, delinquentello, ti sei preso paura? - disse, spin gendo Evsej attraverso una porticina —Non sei altro che uno stupido moccioso e hai il coraggio di ribellarti con tro l’imperatore?».
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Le sue parole abbatterono definitivamente Evsej. Dopo che la porta fu chiusa con un pesante fragore di ferro, il ragazzo si sedette sul pavimento, si abbracciò le ginocchia e chinò la testa. Su di lui si riversò il silen zio, e gli pareva che a momenti sarebbe morto. Si alzò di scatto dal pavimento e, come un topo in trappola, si mi se a correre silenziosamente per la stanza, agitando le brac cia. A tentoni trovò una branda con sopra una coperta ru vida, corse verso la porta, la toccò, poi si accorse che sul muro di fronte c’era una piccola finestra quadrata e vi si precipitò. La finestra si trovava sotto terra e dava su una buca chiusa in alto da una grossa grata di ferro, attraver so la quale cadevano fiocchi di neve che scivolavano sui vetri sudici. Klimkov senza fare rumore ritornò verso la porta, vi appoggiò sopra la fronte e sussurrò mesto: «Perdonatemi... Lasciatemi andare...». Poi si lasciò cadere di nuovo a terra e, in preda alla di sperazione, perse conoscenza. I giorni e le notti passarono lentamente, alternandosi come strisce nere e grigie e rendendo Evsej sempre più de bole e spossato. Le ore, trascinandosi nel silenzio muto, erano foriere di cattivi presentimenti e il loro scorrere len to e tormentoso non dava segno di volersi concludere. Nell’animo di Evsej tutto si era quietato, intorpidito, non riusciva a pensare e quando camminava cercava di non fa re rumore. II decimo giorno lo riportarono davanti all’uomo da gli occhiali blu e all’individuo dagli occhi grigi che l’ave va condotto lì, alla sezione della polizia politica. «Si sta male là, vero Klimkov?» gli chiese l’uomo dal la barba scura, facendo schioccare il labbro inferiore ros so e carnoso. La sua voce acuta usciva stranamente a sin ghiozzi, come se dentro di sé stesse ridendo. La luce elettrica si rifletteva sulle lenti blu degli occhiali, dalle qua li ricadeva con potenti raggi sul petto vuoto di Evsej, riem-
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piendolo di una servile determinazione a fare tutto il necessano pur di attraversare il prima possibile quei giorni melmosi che lo risucchiavano nelle tenebre e minaccia vano di condurlo alla follia. «Lasciatemi andare!» implorò piano. « Sì, ti lascio andare. E ti dirò di più, ti prendo in ser vizio e da oggi sarai tu stesso a far incarcerare le persone, proprio nel posto da cui sei appena uscito e in altre stanzucce altrettanto confortevoli». Si mise a ridere facendo schioccare il labbro. « È stato il povero Dorimedont Lukin a chiedermi di prenderti e, in ricordo della sua onestà in servizio, ti do il posto. Guadagnerai venticinque rubli al mese, per ora». Evsej si inchinò in silenzio. « Pëtr Pëtrovic sarà il tuo superiore e il tuo insegnan te, tu devi eseguire ogni suo ordine, hai capito?». E aggiunse: «Il ragazzo vivrà con voi?». « Sì » rispose a voce inaspettatamente alta l’uomo da gli occhi grigi. «Bene». Poi, rivolgendosi di nuovo a Evsej, l’uomo dalla barba nera cominciò a parlargli con voce più dolce, confortan dolo e facendogli delle promesse, mentre Evsej cercava di memorizzare tutte le sue parole e con gli occhi sbarra ti seguiva i pesanti movimenti delle labbra rosse sotto ai baffi. « Ricordati, da ora in poi tu difenderai la sacra perso na dello zar dagli attentati alla sua vita e alla sua divina au torità. Chiaro?». «Vi ringrazio umilmente!» disse piano Evsej. Pëtr Pëtrovic sollevò la testa e disse: «Gli spiegherò tutto io, ora devo andare». «Andate, andate. Va’, Klimkov. Fai il tuo dovere e sarai contento. Ma non dimenticare che hai preso parte
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all’omicidio del libraio Matvej Matveevič Raspopov, l’hai confessato tu stesso e io ho messo a verbale la tua deposi zione, capisci?». Filipp Filippovič fece un cenno con il capo e la sua bar ba immobile, quasi fosse intagliata nel legno, ondeggiò leggermente; poi tese a Evsej la mano bianca e paffuta con gli anelli d’oro nelle dita corte. Evsej chiuse gli occhi e indietreggiò. « Che fifone che sei, ragazzo mio! - esclamò Filipp Filippovič con voce acuta e con una risatina squillante —Ora non devi più temere niente e nessuno, ora sei un servo del lo zar e puoi stare tranquillo. Ora cammini su un terre no solido, capisci?». Quando Evsej uscì in strada, gli mancò il respiro, bar collò e stava per cadere. Pëtr sollevò il bavero del cappot to, si guardò intorno, chiamò una vettura con un cenno della mano e disse a voce bassa: «Tu, vieni da me». Evsej gli rivolse uno sguardo fugace e per poco non lan ciò un grido: sulla faccia liscia e rasata di Pëtr erano spun tati improvvisamente due piccoli baffi chiari. « Beh, cosa fai a bocca aperta?» chiese cupo e irritato il poliziotto, notando lo stupore di Klimkov. Evsej ab bassò la testa, sforzandosi, nonostante la curiosità, di non guardare il volto del nuovo padrone del suo destino. E quello, sempre in silenzio, calcolava qualcosa sulle dita, piegandole una dopo l’altra, aggrottava le sopracci glia, si mordeva le labbra e di tanto in tanto diceva irrita to al vetturino: «Su, più in fretta!». Cadeva una neve mista a pioggia, faceva freddo e a Ev sej sembrava che la carrozza scendesse veloce da una ripi da montagna in un burrone nero e fangoso. Si fermaro no vicino a una grande casa di tre piani. Qua e là, nelle tre file di finestre cieche o spente, brillava qualche vetro,
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rischiarato da una luce gialla. Dal tetto rivoli d’acqua co lavano a singhiozzo. «Sali!» ordinò Pëtr, che ora era di nuovo senza baffi. Arrivarono in cima a una scala e attraversarono un lun go corridoio con delle porte bianche. Evsej pensò che si trattasse di una prigione, ma fu subito rincuorato da un denso odore di cipolla arrosto e di lucido da scarpe, che non si addiceva all’idea di carcere. Pëtr aprì in fretta una delle porte bianche, illuminò la stanza accendendo due lampade elettriche, guardò at tentamente in tutti gli angoli e, mentre si toglieva il cap potto, disse in tono secco e frettoloso: «Ti chiederanno chi sei, devi rispondere che sei mio cugino venuto da Carskoe Selo a cercarsi un lavoro, ba da bene di non confonderti». Il suo volto era preoccupato, gli occhi erano seri, par lava a frasi tronche e le sue labbra sottili si torcevano con tinuamente e fremevano. Pëtr suonò il campanello, aprì la porta, sporse la testa nel corridoio e gridò: «Porta il samovar per preparare il tè!». Evsej si guardava tristemente intorno, in piedi in un angolo della stanza, e aspettava qualcosa intontito. « Spogliati, siediti. Dormirai nella stanza accanto a que sta» disse l’agente di polizia segreta, aprendo in fretta il ta volo da gioco. Estrasse dalla tasca un taccuino, un mazzo di carte e, distribuendole in quattro mucchi, continuò, senza guardare Klimkov. « Capisci bene che il nostro lavoro deve rimanere se greto. Dobbiamo nasconderci, altrimenti ci uccidono, co me è successo a Dorimedont Lukin ». «È stato ucciso?» chiese pian piano Evsej. «Eh, sì» rispose Pëtr indifferente. Asciugandosi la fronte osservava le carte che aveva di stribuito. «Milleduecentoquattordicesima mano. Io ho l’asso e il sette di cuori, la donna di fiori...».
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Appuntò qualcosa sul taccuino e, senza sollevare la te sta, continuò a parlare con due diversi toni di voce: in mo do indistinto e preoccupato quando contava le carte e in modo secco, chiaro e frettoloso, quando spiegava a Evsej. I rivoluzionari sono nemici dello zar e di Dio - dieci di quadri, tre e fante di picche —si sono venduti ai tede schi per rovinare la Russia. Noi russi abbiamo comincia to a produrre tutto da soli e i tedeschi - re, cinque e no ve, e che diavolo! E la sedicesima coincidenza! Di colpo si fece più allegro, i suoi occhi brillarono e il suo viso assunse un’espressione mite e soddisfatta. «Che cosa stavo dicendo?» chiese a Evsej, lanciando gli un’occhiata. «Dei tedeschi». «Ah, i tedeschi, avidi nemici del popolo russo, voglio no conquistarci, vorrebbero che noi comprassimo da lo ro qualsiasi merce dandogli in cambio il nostro pane, i tedeschi non ce l’hanno il pane —la donna di quadri, be ne! Due di cuori, dieci di fiori... Dieci?». Socchiudendo gli occhi guardò il soffitto, sospirò e si mise a mescolare le carte. « In generale, tutti gli stranieri, invidiosi della ricchez za e della forza russe, —duecentoquindicesima mano —vo gliono sobillare una rivolta nel nostro paese, rovesciare lo zar e - tre assi... uhm! —e mettere al suo posto i loro capi a regnare su di noi, per derubarci e condurci alla ro vina. Non vorrai che questo succeda, vero?». « No » —disse Evsej, senza capirci niente, mentre segui va inebetito i rapidi movimenti delle sue dita. « Nessuno lo vuole —disse Pëtr sovrappensiero, sten dendo di nuovo le carte e accarezzandosi la guancia con aria preoccupata - È per questo che devi lottare contro gli agenti mandati dagli stranieri, i rivoluzionari, per difendere la libertà della Russia, l’autorità e la vita del so vrano, ecco tutto. Come si fa, lo vedrai in seguito. Però
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devi stare sveglio, impara a eseguire ciò che ti viene ordi nato. I nostri devono avere occhi anche dietro la nuca, altrimenti ti colpiscono ben bene sia da davanti che da die tro —asso di picche, sette di quadri, dieci di picche». Bussarono alla porta. «Apri!» ordinò Pëtr. Entrò un ragazzo dai capelli fulvi e ricci con un vassoio e un samovar. « Ivan, questo è mio cugino, starà qui, preparagli la camera qui accanto». «È venuto il Signor Cižov» disse piano Ivan. «H a bevuto?». «Un pochino... Voleva salire». «Prepara il tè, Evsej! —disse l’agente, quando il do mestico se ne fu andato - Versa pure, bevi! Quanto ti da vano al comando di polizia?». «Nove rubli». «Soldi non ne hai?». «No». «Bisogna procurartene e farti cucire un altro vestito, non puoi portare sempre lo stesso. Devi prestare attenzio ne a ogni cosa, senza che nessuno ti...». Si mise di nuovo a borbottare, contando le carte, men tre Evsej, versando silenziosamente il tè, cercava di rac capezzarsi tra le strane impressioni ricevute in quella gior nata, ma si sentiva male e non riusciva. Aveva i brividi, gli tremavano le mani, aveva voglia di stendersi in un an golo, chiudere gli occhi e rimanere li, immobile, per mol to tempo. Gli risuonavano in testa in modo sconnesso le parole che aveva sentito. «D i cosa sei colpevole, dunque?» —chiedeva la voce acuta di Filipp Filippovič. Si sentì picchiare forte alla porta dal corridoio. Pëtr alzò la testa. «Sei tu, Saša?».
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Da dietro la porta una voce incollerita rispose»: «Forza, apri!». Quando Evsej apri la porta, gli si levò davanti, bar collante sulle lunghe gambe, un uomo alto con i baffi ne ri. Le punte di questi scendevano fino al mento e i peli do vevano essere molto ruvidi, poiché ciascuno sporgeva separatamente. Scoprendo la testa pelata, si tolse il cap pello, lo gettò sul letto e si strofinò forte il viso con le pal me delle mani. «Hai il cappello bagnato e me lo butti sul letto?» notò Pëtr. « Ma che vada al diavolo, il tuo letto! » disse l’ospite con voce nasale. «Evsej, appendi il cappotto». L’ospite si sedette su una sedia, distese le lunghe gam be, accese una sigaretta e chiese: «Cosa diavolo è Evsej?». «Mio cugino». «Siamo tutti parenti, quando abbiamo bisogno di qualcosa. Ce l’hai della vodka?». Pëtr ordinò a Klimkov di chiedere una bottiglia di vodka e degli antipasti. Evsej ubbidì e si sedette a tavola in modo che l’ospite non vedesse il suo viso, nascosto dal samovar. «Come va, baro?» domandò accennando con il capo alle carte. Pëtr si alzò di scatto dalla sedia e cominciò a parlare animatamente: «H o scoperto il segreto, l’ho scoperto!». «L ’hai scoperto?» chiese l’ospite e, scuotendo il capo, scandì lentamente: «Im-be-cil-le!». Pëtr afferrò il taccuino e continuò in un bisbiglio feb brile, picchiettandovi sopra con il dito: «Ascolta, Saša! Sono arrivato già alla sedicesima co in-
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cidenza, capisci? E ho fatto solo milleduecentoquattordici mani. Ora le carte si ripetono sempre più spesso. Bisogna fare duemilasettecentoquattro mani, capisci: cinquantadue moltiplicato per cinquantadue. Poi bisogna ri fare ogni mano tredici volte, in base al numero di carte che ci sono per ciascun seme, ossia trentacinquemilacentocinquantadue volte. Infine bisogna ripetere queste ma ni quattro volte, quant’è il numero dei semi, ovvero centoquarantamilaseicentootto volte ». «Eh, imbecille!» scandi l’ospite con voce nasale, scuo tendo la testa, e le labbra gli si contrassero. « Perché, Saša, perché, spiegamelo! - esclamò piano Pétr - In questo modo alla fine io saprò tutte le possibili combinazioni delle carte, pensaci! Guardando le mie car te, - si avvicinò il taccuino al viso e cominciò a contare ra pidamente —l’asso di picche, il sette di quadri e il dieci di fiori, —saprò che gli altri hanno: uno, il re di cuori e il cinque e il nove di quadri; l’altro, l’asso e il sette di cuori e la donna di fiori; il terzo una donna di quadri, il due di cuori e il dieci di fiori!». Gli tremavano le mani, le tempie erano lucide per il su dore, il suo volto si era fatto più mite e gentile. Klimkov, osservando da dietro il samovar, vedeva i grandi occhi ap pannati di Saša, con le venuzze rosse sul bianco degli oc chi, il grosso naso che sembrava gonfio e sulla pelle gialla della fronte una rete di foruncoli, disposta come una coroncina da una tempia all’altra. Emanava un odore pungente e sgradevole. Pétr, stringendosi al petto il taccuino e gesti colando in aria con una mano, bisbigliava entusiasta: « Presto giocherò senza perdere mai. Centinaia di mi gliaia, milioni di rubli mi attendono! E senza barare af fatto! Io so, so e basta! È tutto legale!». Si colpì così forte con il pugno sul petto, che comin ciò a tossire, poi, lasciatosi cadere sulla sedia, si mise a ri dere piano.
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« Perché non portano la vodka?» chiese Saša cupo, get tando sul pavimento il mozzicone di sigaretta. «Evsej, va a dire...» - cominciò frettoloso Pëtr, ma su bito bussarono alla porta. «Ti sei rimesso a bere?» chiese Pëtr, sorridendo. Saša allungò la mano verso la bottiglia. «No, non ancora. Ecco, adesso ricomincio a bere». «Lo sai che ti fa male con la malattia che hai». « La vodka fa male anche ai sani, la vodka e le fanta sticherie. Tu, ad esempio, ti ridurrai ben presto come un idiota». «Non credo proprio, sta’ tranquillo». « Conosco la matematica, lo vedo che sei un babbeo ». « Ciascuno la capisce a modo suo » rispose Pëtr scon tento. «Taci!» disse Saša, vuotò lentamente tutto il conte nuto del bicchierino, addentò una fetta di pane e se ne ver sò un altro. « Oggi —cominciò, chinando la testa e appoggiando le braccia piegate sulle ginocchia - ho parlato di nuovo con il generale. Gli ho proposto: “Datemi dei soldi, io mi procu ro le persone, apro un circolo letterario e vi catturo tutti i più grossi mascalzoni”. Quel porco ha gonfiato le guance, ha dilatato il pancione e ha affermato: “Direi che so me glio io cosa e come si deve fare». Lui sa tutto! Ma che la sua amante ha ballato nuda davanti a von Ruzen, non lo sa, e non sa neppure che sua figlia si è procurata un aborto!». Vuotò un altro bicchierino di vodka e se ne versò an cora. «Sono tutti dei farabutti, così non si vive. Mosè ordinò di sgozzare ventitremila malati di sifilide. Allora la popo lazione non era numerosa, nota bene! Se io ne avessi avu ta l’autorità, li avrei sterminati a milioni!». «E te per primo?». Saša, senza rispondere, disse con voce nasale, come de lirando:
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« Li avrei sterminati tutti questi liberali, generali, ri voluzionari e donnette dissolute. Avrei fatto un bel muc chio e gli avrei dato fuoco! Se si irrigasse la terra di san gue e la si concimasse con le ceneri, si che ci sarebbero dei buoni raccolti! I contadini sazi eleggerebbero delle au torità degne di loro. L’uomo è un animale e ha bisogno di pascoli ricchi e di campi fecondi. Le città andrebbero distrutte. E tutto il superfluo, tutto ciò che impedisce di vivere con semplicità, come vivono le capre e i galli, tut to questo vada pure al diavolo!». Era come se queste parole viscide e spregevoli si in collassero al cuore di Evsej, soffocandolo, e mentre le ascoltava crescevano in lui l’ansia e la paura. « E se poi un bel giorno mi venissero a prendere e mi chiedessero cosa ha detto? Potrebbe fingere apposta con me per poi farmi arrestare». Ebbe un brivido, cominciò ad agitarsi sulla sedia e chiese piano a Pëtr: «Posso andare?». «E dove?». «A dormire». «Va’». «Va’ pure al diavolo!» disse Saša per congedare Evsej.
Capitolo IX
Senza accendere la luce della sua camera Klimkov si spo gliò in silenzio, al buio trovò il letto a tentoni, si coricò e si avvolse stretto nelle lenzuola fredde e umide. Non vo leva vedere e sentire niente, desiderava solo raggomito larsi per diventare piccolo e invisibile. Nella sua memo ria echeggiava la voce nasale di Saša. A Evsej sembrava di sentire il suo odore, di vedere la rossa coroncina di fo runcoli sulla sua fronte giallastra. E in effetti, da qualche parte attraverso il muro al suo fianco, gli giungevano gri da furiose: « Io stesso sono un contadino, io so di cosa ce bisogno». Pur non volendo, Evsej ascoltava con grande attenzio ne e, in preda alla paura, frugava nella sua memoria per cercare di capire chi gli ricordava queU’uomo perfido. Era freddo e buio. Al di là dei vetri della finestra oscil lavano dei torbidi riflessi di luce scomparendo e poi riap parendo. Si sentiva un leggero fruscio, il vento laceva bat tere le pesanti gocce di pioggia contro la finestra. «Se potessi andare in convento!» pensò Klimkov scon solato. E di colpo si ricordò di Dio, a cui ormai non pensava quasi più, poiché in città raramente se ne pronunciava il nome. Nella sua anima, sempre colma di paure e rancori, di solito non c’era posto per la speranza nella grazia divi na, ma questa, comparendo ora all’improvviso, di colpo
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aveva riempito il suo cuore di un grande calore, soffocan do la pesante e cupa disperazione. D ’un balzo scese dal let to, si mise in ginocchio e, stringendo forte le mani al pet to, senza parlare, si volse verso un angolo scuro della stanza, chiuse gli occhi e aspettò, tendendo le orecchie al battito del suo cuore. Ma era troppo stanco e il freddo gli penetrava nella pelle come centinaia di spilli, facen dolo tremare con tutto il corpo. Klimkov si coricò di nuo vo sul letto. Quando si svegliò, vide che nell’angolo ver so il quale la sera aveva rivolto la sua muta preghiera, non c’era nessuna icona. C ’erano invece due quadri: nel pri mo un cacciatore con una piuma verde sul cappello bacia va una florida ragazza, mentre nell’altro era rappresenta ta una donna dai capelli biondi con il petto nudo e un fiore in mano. Sospirò, si vestì, si lavò, guardò la sua stanza con aria indifferente, si sedette presso la finestra e incominciò a os servare la strada. I marciapiedi, il lastricato, le case, tutto era sudicio. I cavalli procedevano lenti, scrollando la testa, alla guida sedevano i vetturini bagnati fradici e anch’essi scrollavano tutto il corpo, snodati come mario nette. Le persone si affrettavano come sempre verso qual che luogo, ma oggi, così infreddolite e inzaccherate di fango, sembravano meno minacciose del solito. Aveva fame, ma non sapendo se avesse il diritto di do mandare un po’ di pane e di tè restò seduto immobile co me una pietra, fino a quando non sentì bussare sul muro. Entrò nella stanza di Pëtr fermandosi sulla porta. L’agente, steso sul letto, gli domandò: «Hai già bevuto il tè? Chiedilo!». Scese dal letto e si mise a guardare le dita dei suoi pie di nudi, muovendole. «Adesso ci prendiamo un bel tè e usciamo —disse sba digliando. —Io ti indicherò una persona e tu dovrai tener la d’occhio. Dove va lui, vai anche tu, capito? E ti segni
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l’orario in cui entra in una certa casa e quanto ci rimane. Fa’ anche in modo di sapere a casa di chi è andato. Se poi il padrone di casa esce dall’edificio, oppure il nostro uo mo si incontra per strada con un’altra persona, presta at tenzione all’aspetto dell’altro. E poi... no, non puoi impa rare tutto subito». Osservò Klimkov, fischiettò piano, e girando il volto dall’altra parte continuò con voce indolente: «Ah, quelle cose che Saša ha blaterato ieri, che non ti salti in mente di raccontarle in giro, stai ben attento! Saša è ammalato, beve, ma è potente. Tu non sei in grado di torcergli un capello, ma lui può rovinarti per sempre, ri cordati! È stato studente e conosce il movimento rivolu zionario alla perfezione, è stato addirittura in prigione! E adesso guadagna cento rubli al mese». Il volto assonnato e flaccido di Pëtr si incupì. Mentre si vestiva diceva con voce burbera e lamentosa: « Il nostro lavoro non è uno scherzo. Se si potesse pren dere subito le persone per il collo, allora sì. Ma bisogna stare dietro a ognuno per un centinaio di verste e anche di più». Il giorno innanzi, nonostante tutte le preoccupazio ni, Pëtr era sembrato a Klimkov una persona interessan te e svelta, ma ora parlava con grande sforzo, si muoveva di malavoglia e gli cadeva tutto dalle mani. Per questo Klimkov si fece coraggio e chiese: «Bisogna stare in strada tutto il giorno?». «A volte anche di notte, a trenta gradi sotto zero. Il no stro mestiere l’ha inventato un diavoletto perfido». « E quando saranno stati tutti catturati?» chiese di nuo vo Evsej. «Chi?». «I nemici...». « Si dice i rivoluzionari o i prigionieri politici. E molto
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difficile che io e te riusciamo a prenderli tutti, pare che na scano due alla volta». Mentre bevevano il tè, Pëtr tirò fuori il suo taccuino, 10 guardò e d’un tratto si animò, si alzò di scatto dalla se dia e si mise a distribuire in fretta le carte e a contare: « Milleduecentosedicesima mano. Ho: il tre di picche, 11 sette di cuori e l’asso di quadri...». Prima di uscire indossò il cappotto nero e un cappel lo di astrakan, prese la borsa e, assumendo Paria di un fun zionario, disse in tono severo: « Per strada non camminarmi vicino e non mi rivol gere la parola. Io entrerò in un palazzo e tu proseguirai fino a dove sta il portinaio e gli dirai che devi aspettare Ti mofeev. Io arriverò presto». Temendo di perdere Pëtr nella folla dei passanti, Evsej gli camminava subito dietro, senza staccare gli occhi dalla sua figura, ma improvvisamente Pëtr scomparve. Klimkov perse la testa e si lanciò in avanti; si fermò, ad dossandosi al palo di un lampione: di fronte si ergeva un grande palazzo con le inferriate alle finestre del piano ter ra e i vetri scuri. Attraverso un ingresso stretto si intrave deva una corte deserta e scura, rivestita da grandi lastre di pietra. Klimkov, avendo paura di entrare, poggiava in quieto ora su un piede ora sull’altro, guardandosi intorno. Dalla corte uscì a passi veloci un uomo con un lungo soprabito, un berretto calcato sulla fronte e una barbetta ros sa e, strizzando l’occhio grigio a Evsej, gli disse sottovoce: «C om ’è che non sei entrato dal portinaio?». «Vi ho perso di vista!» ammise Evsej. «M i hai perso di vista? Sta attento che per questo ti possono anche cacciare a pedate. Ascolta, a tre edifici da qui c’è la sede dell’amministrazione provinciale. Da lì uscirà una persona, si chiama Dmitrij Il’ič Kurnosov, ri cordati! Andiamo, ti faccio vedere chi è». Qualche minuto dopo Klimkov, come un cagnolino,
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camminava veloce sul marciapiede, pedinando un uomo con un cappotto logoro e un cappello nero sgualcito. L’uo mo era imponente e robusto, camminava in fretta, agitan do con ampi movimenti il bastone, che batteva con for za sull’asfalto. Da sotto il cappello gli scendevano sulla nuca e sulle orecchie i capelli ricci e neri, leggermente briz zolati. Raramente Evsej provava un sentimento di pietà per le persone, ma in quel momento, per qualche motivo, ciò accadde. Tutto sudato per l’agitazione, passò in fretta, a piccoli passi, sull’altro lato della strada, corse in avanti, at traversò di nuovo la strada e si trovò faccia a faccia con l’uomo. Davanti a lui balenò un volto scuro, con la bar ba, le sopracciglia folte e gli occhi blu che sorridevano di strattamente. L’uomo stava canticchiando qualcosa, op pure parlava da solo, perché le sue labbra si muovevano. Klimkov si fermò, si asciugò il viso sudato con le pal me delle mani e poi lo segui con il dorso curvo e lo sguar do a terra, sollevando gli occhi solo di rado. «Non è più giovane —pensò —si vede che è povero. E la povertà la fonte di ogni male». Si ricordò di Piffero ed ebbe un brivido. «M i ammazzerà di botte» pensò. Ma senti che, oltre alla paura, provava anche compas sione per Piffero. Il pesante rumore della strada gli infastidiva le orec chie, e camminando si imbrattava con gli schizzi di fan go melmoso e freddo. Klimkov si sentì triste e solo e si ricordò di Raisa. Provava il desiderio di svoltare in qual che vicolo e allontanarsi da quella strada. La persona che stava pedinando si fermò vicino a un terrazzino d’ingresso, premette un campanello, si tol se il cappello, se lo sventolò in faccia e poi se lo gettò di nuovo sul capo. In piedi a pochi passi di distanza, vici no a un paracarro, Evsej guardava malinconico il volto
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dell’uomo, sentendo forte il bisogno di dirgli qualcosa. L’uomo lo notò, corrugò il viso e si girò. Evsej abbassò la testa confuso. « Sei della polizia segreta?» domandò una voce bassa e un po’ rauca. Era di un uomo alto e dai capelli rossi, con un grembiule sudicio e una scopa in mano. «SI!» sussurrò Evsej e in quello stesso istante pensò: «Non dovevo ammetterlo». «Ancora uno nuovo! —notò il portinaio. —Pedinate sempre Kurnosov?». « Sì ». « Uhm. D i’ al tuo capo che stamattina ha ricevuto un ospite dalla stazione, con delle valigie, per la precisione tre. Non l’hanno ancora registrato alla polizia, hanno tempo ven tiquattro ore. È piccolino, di bell’aspetto, con i baffetti». Il portiere tacque, diede qualche spazzata al marciapie de, schizzando di fango gli stivali e i pantaloni di Evsej, poi si fermò e osservò: « Da qui ti si vede. Anche loro non sono degli imbe cilli, sanno riconoscere uno dei vostri. Se stessi almeno sot to l’atrio, eh!». Evsej si spostò ubbidiente verso il portone. Improvvisamente, dall’altra parte della strada vide Jakov Zarubin. Con il bastone in mano, una bombetta ne ra inclinata sull’orecchio, il cappotto nuovo e i guanti, Jakov camminava sorridendo sul marciapiede, ammiccan do con gli occhi come una donna di strada sicura della propria bellezza. « Salve! —disse guardandosi intorno —Sono venuto a darti il cambio. Tu vai alla trattoria di Somov, in via del Cigno e là chiedi di Nikolaj Pavlov». «M a cos’è, anche tu sei nella polizia segreta?» do mandò Evsej. «Sono entrato dieci giorni prima di te, perché?». Evsej vide che il suo volto olivastro era raggiante.
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«Sei stato tu a denunciarmi?». «E tu hai fatto il nome di Piffero?» replicò Zarubin. Dopo averci pensato un po’, Evsej disse in tono cupo: «Io l’ho nominato dopo di te. L’avevo detto solo a te». «E Piffero solo a te, eh!». Jakov si mise a ridere e diede a Evsej un colpo sulla spalla. «Va’, fa’ presto, pesce lesso!». E, agitando il piccolo bastone, gli si avviò accanto. « Questo è un buon lavoro, è evidente. Si può vivere da gran signore, passeggi, guardi. Ecco, vedi che bell’abi tino che ho?». Presto si congedò da Evsej, ritornando indietro di fret ta, e Klimkov, seguendolo con uno sguardo ostile, comin ciò a riflettere. Considerava Jakov una persona vuota, lo riteneva inferiore a lui, e lo seccava vederlo tutto vestito elegante e pieno di sé. «Mi ha denunciato. Se io ho fatto il nome di Piffero, è stato per paura, ma lui, che motivo aveva?». E, minacciando Jakov, esclamò mentalmente: «Aspetta un po’, poi lo vedremo chi è il migliore tra noi due!». Quando alla trattoria chiese di Nikolaj Ivanovié, gli indicarono una scala che saliva; una volta arrivato, si fermò davanti a una porta ad ascoltare la voce di Pëtr. «Le carte in gioco sono cinquantadue. In città, nella mia circoscrizione, ci sono migliaia di persone e ne co nosco solo un centinaio. So chi abita con chi, dove lavo rano. Ma, come sai, le persone cambiano, le carte invece sono sempre le stesse». Oltre a Pëtr e a Saša nella stanza c’era anche una ter za persona. Alto, slanciato, stava in piedi presso la fine stra leggendo il giornale e quando Evsej entrò non si mos se di un filo. « Che razza di muso ridicolo! —con queste parole Saša
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accolse Evsej, fissandolo in volto con il suo sguardo per fido. - Bisogna rifargli i connotati, avete sentito Ma idakov?». L’uomo che leggeva il giornale girò la testa, osservò Ev sej con i grandi occhi chiari e disse: « Sì, è vero ». Eccitato e con i capelli scarmigliati, Pëtr chiedeva a Evsej cosa aveva visto e intanto si puliva i denti con una penna d’oca. Sul tavolo c’erano gli avanzi del pranzo e l’o dore di grasso e di cavoli, stuzzicando le narici di Evsej, gli stimolava ulteriormente l’appetito. Stava in piedi davan ti a Pëtr e con voce impassibile gli riferiva quello che ave va detto il portiere. Già dalle prime parole del racconto, Maklakov incrociò le mani in cui reggeva ancora il gior nale dietro la schiena e, inclinando il capo in avanti, si mi se ad ascoltare attentamente, muovendo leggermente i baf fi chiari. Anche in testa aveva i capelli stranamente bianchi, come argentati; la fronte corrugata, gli occhi tran quilli, i movimenti sicuri del suo corpo forte, ben mo dellato dall’abito di buona fattura e la potente voce da bas so distinguevano nettamente Maklakov da Saša e Pëtr. « Le valigie le ha portate in casa il portiere stesso?» chie se a Evsej. «Non me lo ha detto». «Vuol dire che non le ha portate lui, altrimenti l’avreb be detto se erano pesanti o leggere. Le hanno portate lo ro!» osservò Maklakov. E aggiunse: « Probabilmente si tratta di testi proibiti. Dev’essere l’ultimo numero stampato ». « Bisogna ordinare di eseguire subito una perquisizio ne! —proferì Saša e imprecò rabbiosamente, come minac ciando qualcuno con il pugno - Mi serve una tipografia. Procuratemi dei caratteri, ragazzi, e io stesso metterò su una tipografia, troverò dei somari ai quali darò tutto il ne cessario e poi li acciufferemo tutti e riceveremo una bella ricompensa».
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«Mica male come piano!» esclamò Pëtr. Maklakov guardò Evsej e gli chiese: «Avete pranzato?». «No». Klimkov indicò il tavolo con un cenno del capo e Pë tr ordinò: «Mangia, sbrigati!». « Perché poi gli date gli avanzi?» domandò calmo Ma klakov, si avvicinò alla porta, l’aprì e gridò: «Ehi, un pranzo!». « Perché non provi - disse con la sua voce nasale Saša a Pëtr - a convincere quell’idiota di Afanasev a darci la tipografia che è stata confiscata l’anno scorso». Maklakov li guardava e si arricciava i baffi in silenzio. Portarono il pranzo e insieme al cameriere entrò nel la stanza un uomo grasso, un po’ butterato e di aspetto modesto. Rivolse a tutti un sorriso benevolo e disse: « Questa sera nella sala di Cistov ci sarà un banchetto di rivoluzionari. Tre dei nostri saranno là in veste di ca merieri, tra gli altri, voi, mio caro Pëtr». «Ancora io! —gridò Pëtr, e il suo viso si ricoprì di mac chie, sembrò invecchiato, si inasprì —In due mesi è la ter za volta che devo fare la parte del cameriere. Scusatemi, ma mi oppongo!». «Non è a me che dovete dirlo». « Solov’ëv, perché il cameriere lo fanno sempre fare a me?». «T i viene bene» disse Saša ridacchiando. « Ma se siete in tre a farlo stasera! - ripetè Solov’ëv so spirando —Vi andrebbe della birra?». « Ecco, vedete, Maklakov —cominciò Saša —nessuno dei nostri vuole lavorare seriamente, con passione, men tre l’attività dei rivoluzionari prospera. Banchetti, riu nioni, valanghe di libri e propaganda sfrenata anche nelle fabbriche».
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Maklakov restava in silenzio, senza guardarlo. Cominciò a parlare il grasso Solov’ev, sottovoce e sor ridendo benevolmente: « Invece io oggi alla stazione ho preso una ragazza con dei libri. Già questa estate alla dacia l’avevo notata, ma avevo pensato: fai pure, tesoruccio! Oggi invece, mentre passeggiavo per la stazione senza un obiettivo particola re, l’ho vista arrivare con una valigetta. Mi sono avvici nato e le ho chiesto gentilmente di venire a scambiare due parole con me. Ha sussultato, è sbiancata e ha nascosto la valigetta dietro alla schiena. Ah, ho pensato, ci è casca to il mio sciocco tesorino! Insomma, poi l’hanno portata nella guardiola, hanno aperto la valigetta e ci hanno tro vato l’ultimo numero di «Liberazione» e ogni altro ge nere di quelle dannose porcherie. Hanno condotto la ra gazza alla sezione di polizia segreta, cos’altro si poteva fare! Se non si prendono i pesci grossi, si mangiano i pescioli ni. Per strada ha girato il visetto dall’altra parte, con le guance infuocate e le lacrimucce negli occhi. Però non di ceva una parola. Le ho chiesto: « Siete comoda, signori na?» Non mi ha risposto». Solov’ev si mise a ridacchiare piano e il suo volto but terato si ricopri di una tremolante ragnatela di rughe. « Chi è la ragazza? » chiese Maklakov. «La figlia del dottor Melichov». «Ah! - pronunciò lentamente Sasa - Io lo conosco». « E una persona seria, è stato insignito dell’ordine di Vladimir e della croce di Sant’Anna» disse Solov’ëv. « Lo conosco —ripetè Saša —è un ciarlatano come tut ti gli altri medici, ha cercato di curarmi». « Ora come ora solo il Signore potrebbe guarirvi. - dis se in tono affettuoso Solov’ëv - Presto la vostra salute se ne andrà in pezzi ». «Andate al diavolo! - gridò Saša - Cos’è che state qui ad aspettare, Maklakov?».
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«Che abbia finito di mangiare». «Ehi, tu, ingoia più in fretta!» gridò Saša a Klimkov. Mentre pranzava Klimkov ascoltava attentamente i di scorsi e, senza farsi vedere, osservava le persone, notando con piacere che tutti loro, eccetto Saša, non erano peggio ri o più tremendi di tanti altri. Fu preso dal desiderio di ingraziarseli, desiderava ren dersi necessario agli altri. Posò il coltello e la forchetta, si pulì in fretta le labbra con il tovagliolo sudicio e disse: « Sono pronto ». La porta si spalancò, un uomo vispo e scarmigliato en trò di colpo nella stanza e bisbigliò: «Silenzio!». Sporse la testa nel corridoio, si mise in ascolto, poi, soc chiudendo accuratamente la porta, domandò: «Non si chiude? Dov’è la chiave?». Si guardò intorno e sospirando disse: «Grazie al cielo!». « Ehi, testone, - disse Saša sprezzante con la sua voce nasale - allora, cosa è mai successo? Ti volevano picchia re di nuovo?». L’uomo si precipitò verso di lui e, ansando, gesticolan do, asciugandosi il sudore sul volto, cominciò a borbot tare a mezza voce: «Caspita se volevano! Certo, volevano uccidermi con un martello. Erano in due, mi hanno seguito dalla pri gione, è proprio così! Ero stato nell’orario di visita, sono uscito e i due mi aspettavano in piedi vicino al portone. E uno aveva in tasca un martello ». «Non era per caso una rivoltella?» chiese Solov’ëv, al lungando il collo. «Un martello, ti dico!». «L ’hai visto?» s’informò Saša sogghignando. «Ah, vuoi che non lo sappia! Hanno deciso di usare un martello. Per non fare rumore, un colpo e via».
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Si sistemò la cravatta, si allacciò i bottoni, si frugò nel le tasche e si lisciò i capelli ricci e sudati; muoveva le brac cia talmente in fretta, che sembrava dovessero staccarsi dal corpo da un momento all’altro. Il viso grigiastro e ossuto era ricoperto di sudore, gli occhi scuri correvano in tutte le direzioni, a tratti socchiusi, a tratti spalancati, poi di col po, con autentico orrore, si fissarono sul volto di Evsej. L’uomo indietreggiò fino alla porta come per nasconder si e chiese con voce rauca: «E quello chi è?». Maklakov gli si avvicinò e lo prese per un braccio: « Calmatevi, Elizar, è uno dei nostri ». «Voi lo conoscete?». « Bestia! —risuonò l’irosa esclamazione di Saša —Ti de vi curare». «Vi hanno forse spinto sotto la carrozza della diligen za, a voi? No! Aspettate, allora, prima di prendervela con gli altri». «Vedete, Makalkov» cominciò a dire Saša, ma l’uomo continuò in preda a una violenta eccitazione. « Siete stato aggredito di notte da degli sconosciuti? Eh! Intendetemi bene, degli sconosciuti! Di persone come quelle, a me sconosciute, ce ne sono centinaia di migliaia in città. Sono ovunque, e io sono solo uno». Cominciò a risuonare la voce tenera e tranquillizzan te di Solov’ev che però fu subito sommersa da un nuovo sfogo improvviso di quell’uomo distrutto. Nell’aria si era diffusa un’atmosfera di terrore e Klimkov cominciò su bito ad agitarsi: naufragò nel bisbiglio di quei discorsi in quietanti, fu accecato dai movimenti del corpo sfasciato, dal balenio delle braccia terrorizzate e si aspettava che da un momento all’altro una cosa enorme e nera avrebbe fat to irruzione dalla porta e avrebbe invaso la stanza schiac ciando tutti. «È ora di andare!» disse Maklakov sfiorandogli la spalla.
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In strada, seduto in carrozza, Evsej mormorò cupo: «Non sono adatto a questo lavoro». «Perché?» chiese Maklakov. «H o paura». «Ti passerà!». «Non passa proprio un bel nulla!» disse in fretta Evsej. «Ora basta» obiettò calmo Maklakov. In strada era freddo e umido, c’era fango ed era buio. I riflessi delle luci si proiettavano sul fango, smorzati dal la gente e dai cavalli che ne calpestavano le macchie do rate. Evsej, guardando fisso in avanti senza pensare, senti va che Maklakov osservava il suo viso. «Vi abituerete, —disse Maklakov —ma se avete la pos sibilità di cambiare lavoro, fatelo subito. L’avete?». «No». La spia si mosse appena, ma non disse una parola. Ave va gli occhi semichiusi, respirava con il naso facendo vi brare i peli sottili dei baffi. Nell’aria echeggiavano i gravi rintocchi della campa na, dolci e carezzevoli. Una nube pesante copriva la città con la sua cortina fitta e scura e il canto malinconico del bronzo non saliva verso il cielo, ma strisciava tristemente sopra i tetti delle case. « Domani è domenica! —disse Maklakov a bassa voce —Voi ci andate in chiesa?». «No!» rispose Evsej. « Perché?». «Non so, così...». « Io ci vado. Mi piacciono le funzioni mattutine. Ci so no i coristi che cantano e il sole penetra attraverso le fi nestre. È bello». Le semplici parole di Maklakov rincuorarono Evsej e gli venne voglia di parlare di sé. « Che bello cantare! - cominciò - Da piccolino cantavo
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in chiesa, al villaggio da noi. Quando si canta, non si sa più dove si è, è come se non si esistesse più». «Siamo arrivati!» disse Maklakov. Evsej sospirò osservando tristemente il lungo edificio della stazione. Gli apparve davanti agli occhi come all’improwiso, interrompendo la strada di colpo. Giunti alla banchina, sulla quale si era raccolta molta gente, si fermarono e si appoggiarono al muro. Maklakov socchiuse le palpebre come se si fosse assopito. Gli spe roni dei gendarmi tintinnavano e si udiva la risata giova ne e sonora di una donna slanciata, dagli occhi neri, con il viso olivastro. «Tenete a mente quella donna che sta ridendo e il vec chio accanto a lei. —sussurrò Maklakov scandendo le pa role - Si chiama Sara Lourier, fa la levatrice e alloggia in via Sadovaja numero sette. È stata in prigione e al confi no. È una donna molto furba. Anche il vecchio è un ex deportato, un giornalista». Improvvisamente, come spaventato da qualcuno, con un rapido movimento del braccio si abbassò il cappello sulla fronte e continuò a voce ancora più bassa: « Quello alto, con il cappotto nero e il cappello di pe lo, con i capelli fulvi, lo vedete?». Evsej annui. « È lo scrittore Mironov. E stato in prigione quattro volte in città diverse». Un serpente nero di ferro, con un corno sulla testa e tre occhi infuocati, tuonando con il suo enorme corpo me tallico, fischiò, strisciò in fretta verso la stazione, si fermò e si mise a sibilare malignamente, riempiendo Faria del suo denso fiato bianco. Quel soffio umido e rovente colpì il volto di Klimkov e davanti ai suoi occhi cominciarono ad affaccendarsi le nere figure delle persone. Era la prima volta che Evsej vedeva da vicino quella massa di ferro, che gli sembrava un essere vivo, dotato di
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sensibilità e che attirava imperiosamente la sua attenzio ne, suscitando in lui un terribile e atroce presentimento. Nella sua mente gli occhi di fuoco, rotondi e sfolgoranti, brillavano in modo accecante e minaccioso, le grandi ruo te rosse giravano vorticosamente e la leva di acciaio brilla va, abbassandosi e sollevandosi come un enorme coltello. Si udì un’esclamazione sommessa di Maklakov: «Cosa?» chiese Evsej. «Niente» rispose l’agente stizzito. Le guance gli si im porporarono e si morse le labbra. Dal suo sguardo Evsej capì che stava osservando lo scrittore. Questi, senza fret ta, giocherellando con un baffo, camminava accanto a un uomo anziano tarchiato con il cappotto sbottonato e un copricapo estivo sulla grossa testa. L’uomo appena arri vato rideva forte e alzando verso l’alto il volto rosso e bar buto, gridava. «Stavo viaggiando ed ecco che...». Lo scrittore si tolse il cappello per fare un inchino a un passante, scoprendo i capelli tagliati corti, la fronte alta, gli zigomi sporgenti, il naso largo e gli occhi stretti. A Klimkov il suo volto sembrò rozzo e sgradevole, i grandi baffi rossi gli conferivano un aspetto severo e militaresco. « Muoviamoci! —disse Maklakov —Probabilmente an dranno via insieme. Dobbiamo essere molto accorti, quel lo che è arrivato è una persona assai sveglia ed esperta». Per strada fermò un vetturino e gli disse: «Segui quella carrozza!». Tacque a lungo, con la schiena curva e dondolando il corpo. Poi borbottò piano: «L ’anno scorso d estate sono stato da lui durante una perquisizione». «Dallo scrittore?» chiese Evsej. «Sì. Cocchiere, prosegui oltre!» ordinò in fretta Mak lakov, notando che la carrozza davanti si era fermata. Un minuto dopo scese dalla carrozza, infilò i soldi in
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mano al cocchiere, disse a Evsej: «Aspettate!» e scompar ve nell’umida oscurità. Si sentiva la sua voce: « Scusate, questa è la casa di Jakovlev?». Un voce rispose sorda: «No, di Percev». Appoggiato allo steccato, Evsej contava i lenti passi di Maklakov e pensava: «È tutto qui seguire le persone!». La spia ritornò e disse con voce scontenta: « Qui non abbiamo più niente da fare. Domani mat tina indosserete un altro abito e sorveglierete questa casa». Si mise a camminare lungo la strada mentre nelle orec chie di Klimkov risuonava, come il rullio di un tambu ro, la sua parlata veloce. « Memorizzate i volti, gli abiti e il modo di cammina re delle persone che entreranno in quell’appartamento. Le persone sembrano tutte uguali, ma ognuno ha qualcosa di particolare, voi dovete imparare a cogliere subito questa peculiarità, negli occhi, nella voce, nel modo di tenere le mani quando cammina o di togliersi il cappello per salu tare. Questo mestiere richiede innanzitutto una buona memoria». Evsej sentiva che l’agente di polizia gli parlava con ce lata ostilità. «Voi avete un viso troppo particolare, soprattutto gli occhi, non va bene, non potete andare in giro senza una maschera, senza far niente. Fisicamente e in generale so migliate a un venditore ambulante, dovete procurarvi una cassetta di merce, aghi, spilli, fettucce, nastri e ogni ge nere di minuteria. Dirò che vi diano una cassetta e della merce, allora potrete introdurvi in cucina, fare conoscen za con la servitù». Si azzittì, si tolse la barba e la nascose in tasca, si si stemò il cappello e rallentò il passo: «La servitù è sempre pronta a giocare qualche tiro spia cevole al padrone, è facile farla parlare. Soprattutto le don
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ne: cuoche, bambinaie, cameriere. Amano i pettegolezzi. Ma ora basta, mi sono congelato! —concluse i suoi inse gnamenti cambiando tono di voce - Andiamo in trattoria ». « Io non ho denaro ». «Sciocchezze!». Alla trattoria con voce severa da gran signore chiese: «Un bel bicchiere di cognac e un paio di birre. Voi prendete del cognac?». «No, io non bevo» rispose Evsej confuso. «E un bene!». La spia guardò attentamente il volto di Klimkov, si sistemò i baffi, chiuse gli occhi per un minuto e stirò tut to il corpo tanto da far scricchiolare le ossa. Solo dopo che ebbe bevuto il cognac, riprese a parlare a mezza voce: « Ed è un bene anche che siate così silenzioso. A cosa pensate, eh?». Evsej abbassò il capo e rispose: «A me stesso». «A cosa in particolare?». Gli occhi di Maklakov avevano una luce dolce e Evsej rispose con sincerità: «Penso che forse farei meglio a entrare in convento». «Credete in Dio?». Dopo averci pensato un po’, Evsej disse come scusan dosi: «Ci credo. Solo che io non sono fatto per Dio, ma per me stesso. Cosa posso fare io per Dio?». «Forza, beviamo». Klimkov si fece coraggio e bevve un bicchiere di birra fredda e amara, che gli diede i brividi, poi, dopo essersi passato la lingua sulle labbra, disse: «Venite picchiati spesso?». «Io? E chi mi picchierebbe?» affermò l’agente offeso e stupito. «Non voi, le spie in generale».
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«Si dice agenti segreti, non spie. —lo corresse Maklakov ridacchiando - Io non sono mai stato picchiato». Si impensierì, lasciò cadere le spalle, curvò la schiena e un’ombra gli corse lungo il volto pallido. «Il nostro è un compito ingrato, le persone hanno un’opinione piuttosto cattiva di noi. —proferì piano e im provvisamente, allargando il volto in un sorriso, si chinò verso Evsej —In cinque anni, solo una volta ho visto un atteggiamento umano nei miei confronti. Accadde con Mironov. Andai da lui con i gendarmi, in uniforme da ser gente di polizia; non stavo bene, avevo la febbre, mi reg gevo a malapena sulle gambe. Ci accolse in maniera edu cata, anche se era come un po’ confuso, ridacchiava. Alto, con le braccia lunghe e i baffi come quelli di un gatto. Ve niva con noi di stanza in stanza, dando a tutti del voi e se per caso urtava qualcuno, si scusava. Eravamo tutti a disagio intorno a lui: il colonnello, il procuratore e noi pezzi piccoli. È un uomo conosciuto da tutti, pubblica no i suoi ritratti sui giornali, è molto noto anche all’este ro, e noi siamo andati a casa sua di notte, c’era quasi da vergognarsi. Vidi che mi guardava, poi mi venne vicino e disse: “Fareste meglio a sedervi, non state bene, si vede. Sedetevi!” Con queste parole mi ha lasciato sgomento. Mi sono seduto. E pensavo: “Vattene!” E lui: “Volete una me dicina?” Tutti tacevano, nessuno guardava né me, né lui». Maklakov si mise a ridere sommessamente. « Mi diede del chinino dentro a un’ostia, lo masticai. In bocca avevo un sapore amaro insopportabile, nell’ani mo un tumulto. Sentivo che se mi fossi alzato in piedi sa rei caduto. A quel punto si intromise il colonnello, che mi ordinò di tornare in sezione e così, tra l’altro, ebbe fine an che la perquisizione. Il procuratore gli disse: “Vi devo ar restare”. “Allora arrestatemi! Ciascuno fa quello che può”. Disse solo così, con un sorriso». Il racconto piacque a Evsej, si sentiva come trattato te neramente e ardeva dal desiderio di piacere a Maklakov.
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«È una buona persona!» pensò convinto dell’agente. Questi sospirò, ordinò un altro bicchiere di cognac, lo bevve lentamente e di colpo il suo viso si fece scavato, più magro, e lasciò cadere il capo sul tavolo. Evsej avrebbe voluto dire qualcosa, in testa gli si agi tavano furiosamente molte parole, che però non riusci vano a organizzarsi in un discorso chiaro e comprensibi le. Alla fine, dopo molti sforzi, Evsej riuscì a formulare una domanda: «Anche lui lavora per i nostri nemici?». «Chi?» chiese l’investigatore, alzando a malapena il capo. «Quello scrittore». «Quali nostri nemici?». Evsej si confuse. L’agente lo guardava con le labbra aperte in un’espressione disgustata e nella sua voce si sen tiva una nota canzonatoria. Senza attendere la risposta, si alzò, gettò sul tavolo una moneta di argento, gridò: « Se gnate che ho pagato!», indossò il cappello e senza rivol gere la parola a Evsej, si avviò verso la porta. Evsej lo se guì in punta di piedi senza il coraggio di mettersi il cappello. « Domani alle nove trovatevi al vostro posto, vi daran no il cambio alle dodici!» gli disse Maklakov una volta che furono già fuori dalla trattoria e, infilate le mani nelle ta sche del cappotto, scomparve. «Non mi ha neanche salutato!» pensò Evsej amareg giato, camminando per la strada deserta. Si sentiva male, il buio lo circondava da ogni parte, era freddo, dalla bocca gli arrivava al petto il sapore amaro e vischioso della birra, il cuore gli batteva in modo irrego lare e in testa gli mulinavano, come pesanti fiocchi di ne ve autunnale, vaghi pensieri. « Ecco concluso il mio primo giorno di servizio. Se po tessi entrare nelle grazie di qualcuno...».
Capitolo X
Durante la notte Evsej sognò che suo cugino Jakov gli si sedeva sul petto, lo prendeva per la gola e lo soffocava. Si svegliò e sentì nella stanza accanto la voce secca e irritata di Pëtr: « Me ne infischio dello stato e di tutte queste scioc chezze!». Si sentì la risata di una donna, poi risuonò una voce sottile: «Sh! Non urlare!». «Non ho tempo di stare a distinguere chi ha ragione e chi ha torto, non sono uno scemo. Sono giovane, devo vivere. Quel vigliacco mi vuole dare lezioni sull’assoluti smo e io per quattro volte ho dovuto fare il cameriere e correre a destra e a manca per quelle canaglie; mi fanno male le gambe, mi duole la schiena a forza di inchinar mi. Se ti sta tanto a cuore l’assolutismo, allora non lesi nare sul denaro, perché io non sacrifico la mia dignità per due soldi, andate pure al diavolo!». Qualche ora dopo Evsej sedeva sul paracarro di fronte alla casa di Percev. Camminò a lungo avanti e indietro sul la strada davanti al palazzo: ne contò le finestre, ne mi surò con i passi la lunghezza, esaminò in dettaglio la gri gia facciata logorata dal tempo e infine, ormai stanco, si sedette di nuovo sul paracarro. Ma non potè riposarsi a lun go: dal portone uscì lo scrittore con un cappotto buttato
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sulle spalle, senza galosce, con il cappello storto, e si mise ad attraversare la strada andando dritto verso di lui. «Adesso mi rompe il muso!» pensò Evsej, guardando il volto severo e le rosse sopracciglia accigliate. Cercò di alzarsi in piedi per andarsene, ma, pietrificato per la pau ra, non ci riuscì. «Perché state seduto qui?» risuonò una voce incolle rita. «Così...». «Andatevene via!». «Non posso...». « Eccovi una lettera, andate e consegnatela a chi vi ha mandato qui». I grandi occhi azzurri lo fissavano con aria imperiosa e a Evsej mancavano le forze per disubbidire a quello sguardo. Girò il capo da una parte e mormorò: «N-non ho il permesso di accettare nulla da voi. E nep pure di parlarvi». Lo scrittore sorrise in modo arcigno e infilò una bu sta in mano a Evsej. Klimkov se ne andò, stringendo la busta sul petto con la mano destra, come qualcosa di terribile che minaccia va imprevedibili disgrazie. Le dita gli dolevano come per il freddo e in testa gli batteva insistentemente il pensiero spaventoso: «Ora cosa sarà di me?». Ma improvvisamente si accorse che la busta non era chiusa, rimase stupito, si fermò, si guardò intorno, estras se velocemente la lettera e lesse: «Levatemi di torno questo imbecille. Mironov ». Evsej tirò un sospirò di sollievo. « Devo consegnarla a Maklakov, mi darà una bella sgri data». La paura era scomparsa, ma lo rattristava il pensiero che ancora una volta non era riuscito ad accontentare l’agente segreto che gli piaceva tanto.
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Trovo Maklakov che stava pranzando in compagnia di un ometto strabico vestito di nero. «Vi presento Klimkov. Questo è Krasavin». Evsej infilò la mano in tasca per prendere la lettera e disse smarrito: «La situazione ha preso una piega tale che...». Maklakov allungò il braccio verso di lui. «Me lo racconterete dopo!». Aveva il viso stanco, gli occhi appannati e i capelli, bianchi e dritti, erano arruffati. «Ieri deve aver bevuto!» pensò Evsej. «No, Timofej Vasil’evič - disse l’uomo strabico in to no freddo e convinto - E inutile. Ogni cosa ha i suoi la ti piacevoli se la si fa con passione». Maklakov gli gettò uno sguardo e vuotò d’un fiato un grosso bicchiere di vodka. « Sono persone e anche noi siamo persone, ma questo non vuol dire nulla». Lo strabico si accorse che Evsej stava fissando i suoi oc chi storti e si mise degli occhiali con la montatura di tar taruga. Si muoveva in modo agile e leggero, come un gat to nero, aveva i denti piccoli e aguzzi, il naso dritto e sottile e mentre parlava le sue orecchie rosee si spostavano da tut te le parti. Con le dita storte continuava ad arrotolare ra pidamente la mollica di pane formando delle palline che disponeva sul bordo del piatto. «È un collaboratore?» chiese, accennando con il capo a Evsej. «Sì». Krasavin annuì e, pizzicandosi un sottile baffo nero, cominciò adagio: «Certamente, Timofej Vasil’evie, non si può deviare il corso della sorte umana, le leggi del Signore Iddio fan no crescere i bambini e morire i vecchi, ma tutto questo non ci riguarda, noi abbiamo ricevuto un compito, ci è
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stato ordinato di catturare chi infrange l’ordine e le leg gi, niente di più. E un mestiere difficile, bisogna usare la testa, ma se vogliamo fare un paragone, è come andare a caccia». Maklakov si alzò da tavola, si spostò in un angolo e fece cenno a Evsej di awicinarglisi. «Allora?». Evsej gli diede la busta. L’agente lesse la lettera, guardò meravigliato il volto di Evsej, la rilesse di nuovo e chiese: «E questa da dove viene?». Evsej confuso rispose a mezza voce: «Me l’ha data lui stesso, è sceso in strada». Aspettandosi una sgridata o uno schiaffo, piegò il col lo, ma udì una risata sommessa e rialzò cautamente il ca po. L’agente guardava la busta, con un largo sorriso sulle labbra e con gli occhi illuminati d’allegria. «Siete proprio una sagoma! —gli disse - Non fatene parola con nessuno!». « Posso congratularmi per la riuscita di un’operazio ne?» chiese Krasavin. « Sì. —disse Maklakov - Anche se i giapponesi ci han no comunque dato una bella mazzata, mio caro Gavril!» esclamò allegramente, fregandosi le mani. « La tua allegria a questo riguardo non la capisco pro prio! - disse Krasavin muovendo le orecchie - Se anche ci servirà di lezione, per dirlo con le parole di molti, co munque è stato versato del sangue russo ed è stata messa in evidenza una grossa debolezza». «E di chi è la colpa?». « Dei giapponesi. Cosa cercano? Ogni stato deve vi vere nei suoi confini». Si misero a discutere, ma Evsej, rincuorato dall’atteg giamento di Maklakov, non li ascoltava. Guardava il vol to dell’agente e pensava a come sarebbe stato bello vivere con lui invece che con Pëtr, che ce l’aveva con i superio
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ri e avrebbe potuto essere arrestato come era accaduto a Piffero. Krasavin se ne andò. Maklakov estrasse la lettera, la rilesse di nuovo e scoppiò a ridere guardando Evsej. «Allora non fatene parola con nessuno! E uscito in stra da lui in persona?». «SI, è uscito e mi ha detto: “Vattene via!”». Evsej sorrise con aria colpevole. L’agente socchiuse gli occhi, guardò verso la finestra e disse lentamente: « Dovete vestirvi da venditore ambulante, ve l’avevo detto. Per oggi siete libero, non ho incarichi per voi. Ar rivederci ». Gli tese la mano, Evsej la strinse con gratitudine e se ne andò felice.
Capitolo XI
Qualche settimana dopo cominciò a sentirsi più a suo agio. Ogni mattina, vestito con abiti caldi e comodi, con la cassetta di minuteria sul petto, si recava in una delle trat torie dove si riunivano le spie, al comando di polizia o nel l’appartamento di un compagno di lavoro, dove gli affi davano compiti semplici e chiari: entrare in una casa, fare conoscenza con la servitù, indagare su come vivevano i pa droni. Allora andava e, la prima volta, cercava di corrom pere una serva con uno sconto sulla merce o con dei pic coli regali, poi con accortezza cercava di farsi dire quello che gli avevano ordinato di scoprire. Quando sentiva che le prove raccolte erano insufficienti, le arricchiva di testa sua, inventandosi la parte mancante secondo il piano che gli aveva descritto il vecchio, grasso e gentile Solov’ev. «Le persone che ci interessano —diceva sdolcinato c compiaciuto - hanno tutti le stesse abitudini: non cridono in Dio, non vanno in chiesa, si vestono male, ma hanno modi educati. Leggono molti libri, fanno tarili la notte, invitano spesso degli ospiti, ma bevono poco vino e non giocano a carte. Parlano degli stati e dei governi stra nieri, del socialismo rivoluzionario e della libertà dei po poli. Parlano anche della povertà del popolo e della neces sità di farlo rivoltare contro il nostro imperatore, di abbattere il governo, di occupare le più alte cariche e di
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ristabilire la schiavitù per mezzo del socialismo, ottenen do cosi per se stessi la più assoluta libertà». La voce affettuosa della spia si spezzò ed egli tossì e sospirò rumorosamente. « Libertà! Naturalmente tutti la vogliono e la amano, ma se voi la deste a me, forse diventerei il più scellerato del mondo! Neppure a un bambino si può dare la libertà assoluta; anche i padri della Chiesa, pur essendo pieni di divina virtù, erano soggetti alle tentazioni della carne e commettevano i peggiori peccati. Non è alla libertà, ma alla paura che è legata la vita delle persone: la sottomis sione alle leggi è indispensabile per l’uomo. E infatti i ri voluzionari rifiutano le leggi. Si dividono in due partiti: uno vuole distruggere subito con bombe e altri metodi estremi i ministri e le persone fedeli allo zar, l’altro vuole aspettare, fare prima una rivolta generale e solo dopo giu stiziare tutti». Solov’ëv pensieroso rivolse gli occhi verso l’alto e, do po qualche momento di silenzio, continuò: « Per noi è difficile capire la loro politica, può anche es sere che in qualche aspetto ci vedano giusto, ma questi so no ideali pericolosi, noi eseguiamo la volontà dello zar, unto del Signore, è lui che risponde per noi davanti a Dio e noi dobbiamo fare quello che ci viene ordinato. E per conquistare la fiducia dei rivoluzionari bisogna lamentar si: “La vita è così dura per i poveri, la polizia ci umilia e non ci sono leggi che ci difendano”. Sebbene siano per sone di tendenze efferate, sono degli ingenui e a questo ti po di amo abboccano sempre. Con la loro servitù, però, tieni sempre un comportamento accorto, anche i loro do mestici non sono scemi. Ove necessario concedi la mer ce a prezzi ridotti, affinché ti si affezionino, ma stai sem pre attento ai sospetti. “Cos’è mai questo? Vende la merce per poco ed è così curioso, fa tante domande...”. La cosa migliore è che tu ti faccia delle fidanzate, una di quelle
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donnette pettorute tutto pepe, e con lei ogni cosa andrà a meraviglia. Ti cucirà delle camicie e ti inviterà a dor mire e tutto quello che le chiederai la tua dolce topolina con il suo fiuto te lo procurerà, lo verrà a sapere. Con le donne si arriva lontano!». Quest’uomo grassoccio con le mani pelose, le labbra carnose e la pelle butterata parlava delle donne più spes so degli altri. Abbassava la voce gentile fino a un sussur ro, gli sudava il collo, agitava le gambe e gli occhi scuri, privi di ciglia e sopracciglia, sembravano riempirsi di un liquido caldo e unto. Evsej, che aveva un odorato fine, tro vava che Solov’ev emanasse sempre un odore di carne gras sa, bollente e avariata. Quando Evsej lavorava alla polizia aveva sentito par lare delle spie come di persone che sono a conoscenza di tutto, hanno in pugno ogni cosa e hanno amici e colla boratori ovunque. Dicevano anche che le spie potrebbe ro catturare subito tutti gli individui pericolosi, ma non lo fanno per non privarsi del lavoro futuro. Quando en trano nella polizia politica, devono giurare di non avere pietà di nessuno, si trattasse pure della loro madre, del loro padre o del loro fratello, e di non dire mai una pa rola sulla causa segreta che hanno promesso di servire per tutta la vita». Evsej si aspettava di trovare delle figure severe, gli sem brava che avrebbero dovuto parlare poco e fare discorsi in comprensibili alla gente semplice e che ciascuno di essi do vesse essere dotato della straordinaria perspicacia di uno stregone che sa leggere nel pensiero delle persone. Ora, osservandoli, vedeva chiaramente che questi in dividui non avevano nulla di speciale e secondo lui non erano né peggiori né più pericolosi degli altri. Pareva che vivessero in maggiore armonia rispetto alle altre persone, si raccontavano apertamente dei loro errori e insuccessi, spesso ridevano di loro stessi e tutti con lo stesso zelo, ma
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con un diverso grado di rabbia, parlavano male dei pro pri capi. Si sentiva che erano uniti da un forte legame, che ave vano cura l’uno dell’altro e quando a volte accadeva che qualcuno arrivasse in ritardo o non venisse agli appunta menti, tutti erano presi da una sincera preoccupazione per lui e mandavano Evsej, Zarubin o qualcun altro del folto gruppo di collaboratori a cercarli. Saltava agli occhi co me la maggior parte di queste persone non erano avide di denaro ed erano pronte a dividere i loro soldi con un compagno che avesse perso a carte o che avesse dissipato i propri averi. Erano tutti amanti dei giochi d’azzardo, era no attratti dai trucchi con le carte e invidiavano l’abilità dei bari. Si raccontavano con invidia le gozzoviglie dei loro ca pi, descrivevano dettagliatamente l’aspetto fisico delle lo ro donne dissolute e discutevano animatamente delle pos sibili diverse posizioni erotiche. La maggior parte erano scapoli, quasi tutti giovani, e per loro le donne erano un po’ come la vodka, li tranquillizzavano, li facevano addor mentare e distrarre dalle ansie del duro lavoro. Quasi tut ti avevano in tasca delle fotografie sconce e guardandole dicevano delle porcherie che suscitavano in Evsej talvol ta un’acuta e inebriante curiosità, talvolta sfiducia e disgu sto. Sapeva che alcuni di loro avevano rapporti omoses suali, molti erano rimasti contagiati da misteriose malattie e tutti bevevano abbondantemente, mescolando la vodka con la birra, la birra con il cognac e cercando sempre di ubriacarsi il più in fretta possibile. Erano pochi quelli che adempievano alla loro funzio ne con l’entusiasmo del cacciatore, che si vantavano del la loro abilità e che si dipingevano come degli eroi; la mag gior parte svolgeva il proprio lavoro in modo meccanico e annoiato. Quando parlavano delle persone che stavano sorveglian
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do quasi fossero bestie feroci, non esprimevano quasi mai quell’odio furioso che ribolliva nei discorsi di Saša. Tra gli altri si distingueva Mel’nikov, un uomo pesante e irsuto con la voce bassa e profonda, che camminava in modo stra no, piegando il collo, e i suoi occhi scuri sembravano sem pre in trepida attesa. Parlava poco, ma a Evsej sembrava che quell’uomo fosse impegnato instancabilmente in pensieri terribili. Krasavin invece spiccava per la sua fredda perfi dia e Solov’ëv per il dolce piacere con cui parlava dei pe staggi, degli avvenimenti di sangue e delle donne. Fra i giovani più di tutti si affannava Jakov Zarubin. Sempre indaffarato, assillava tutti con le sue domande, ascoltava i discorsi sui rivoluzionari, aggrottava le soprac ciglia contrariato e si appuntava qualcosa in un piccolo taccuino. Si sforzava di entrare nelle grazie degli agenti se greti, ma era chiaramente inviso a tutti e il suo taccuino era guardato con sospetto. La maggior parte degli agenti parlava dei rivoluziona ri con indifferenza, come di persone che sono venute a noia; talvolta con tono canzonatorio, come di individui buffi e bislacchi; a tratti con irritazione, come di un bam bino che combina dei guai e merita una punizione. Evsej cominciò a pensare che tutti i rivoluzionari fossero per sone vuote, poco serie, che non sapessero neppure loro co sa volevano e che non facessero altro che seminare zizza nia e disordine nella vita. Una volta Evsej chiese a Pëtr: «Voi affermate che i rivoluzionari sono venduti ai te deschi, ma ora in giro ci sono voci diverse». «E quali sarebbero queste voci?» chiese Pëtr irritato. « Che siano dei poveracci e degli stupidi e nessuno par la dei tedeschi». « Ma va’ al diavolo! Che cosa ti cambia? Fai ciò che ti viene ordinato, tu sei dei nostri e a noi devi ubbidire». Klimkov cercava di tenersi il più lontano possibile da
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Saša, il suo odore di iodoformio e la voce nasale e ma levola gli ripugnavano e il viso torvo del malato lo im pauriva. « Carogne! —gridava Saša criticando i superiori - Gua dagnano dei milioni e a noi danno due soldi, mentre spen dono centinaia di migliaia di rubli per le donnine e per i vari signori che a sentir loro lavorerebbero nelle alte sfe re. Ma sappiatelo, idioti, la rivoluzione non è fatta dal l’alta società, né dalla nobiltà, la rivoluzione nasce dal bas so, dalla terra, dal popolo. Datemi cinque milioni e tra un mese vi solleverò una rivoluzione in piazza, la porterò al la luce dagli angoli oscuri». Formulava sempre progetti terribili per lo sterminio totale delle persone pericolose. Il suo volto si faceva gri gio, gli occhi rossi si offuscavano in modo strano e dalla bocca uscivano schizzi di saliva. Si vedeva che tutti, pur disgustati, lo temevano. Il solo Maklakov rifiutava con tranquillità ogni relazione con lui e quando si salutavano non gli porgeva neppure la mano. Pur deridendo tutti i compagni e dando loro dei cre tini, era evidente che Saša assegnava a Maklakov un po sto speciale: con lui parlava sempre in tono serio, visibil mente più volentieri che con gli altri e non lo ingiuriava neppure alle spalle. Una volta, dopo che Maklakov era uscito senza salu tarlo come d’abitudine, Saša disse: «Gli faccio ribrezzo, al signore. Ne ha il diritto e che diavolo! I suoi antenati vivevano in stanze dal soffitto al to, respiravano aria pura, mangiavano cibo sano e porta vano biancheria pulita. E così anche lui. Io invece sono un contadino, sono nato e sono stato educato come un ani male, nel sudiciume, tra i pidocchi e con il pane nero del le farine di scarto. Il suo sangue è migliore del mio, sì, il sangue e il cervello ». Dopo un istante di silenzio aggiunse cupo, senza no te ironiche nella voce:
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«La gente parla di uguaglianza, idioti! E i nobili sono falsi, sono delle carogne! I nobili professano l’uguaglian za, perché sono un branco di incapaci e da soli non san no fare niente. Sei una persona come me, fai dunque in modo che io possa vivere meglio, eccola la teoria dell’u guaglianza». Mel’nikov, che conduceva le sue indagini tra gli ope rai, gli fece eco cupo: «Sì, sono tutti degli imbroglioni». E abbassando la scura testa arruffata in segno di as senso, strinse forte i pugni irsuti. « Bisogna ucciderli tutti, come i contadini uccidono i ladri di cavalli!» strillava Saša. « Ucciderli mi sembra eccessivo, ma certe volte viene proprio voglia di prenderli a calci questi nobili! - disse l’a gente Cašin, noto giocatore di biliardo, riccio, esile e con il naso aguzzo —Prendiamo ad esempio questo squallido episodio: una settimana fa all’albergo di Kononov stavo giocando con un signore dall’aspetto come familiare, ma, cosa vuoi, penso, i nobili son tutti uguali. Anche lui mi fissava, ma io pensavo: “Guarda pure, non è che mi con sumi”. Gli ho vinto tre rubli e una mezza dozzina di bir re e mentre bevevamo, improvvisamente, si è alzato e si è messo a dire: “Vi ho riconosciuto! Voi siete un agente segreto! Quando ero all’università grazie a voi quattro me si sono dovuto rimanere in prigione, infame!” All’inizio mi sono impaurito, ma poi mi sono subito ripreso d’ani mo e gli ho detto: “In prigione non ci siete stato affatto grazie a me, ma a causa della vostra politica e ciò non mi riguarda. Io invece per quasi un anno ho dovuto corrervi dietro notte e giorno, sole o pioggia che fosse e mi sono buscato anche tredici giorni di ospedale, questa è la ve rità!” Ha anche il coraggio di lamentarsi, quel porco! Si è rimpinzato di cibo tanto che ha le guance come quelle di un pope, porta l’orologio d’oro e sulla cravatta ha una spil la con una pietra preziosa».
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Akim Grochotov, un giovane prestante con il viso pla stico come quello di un attore, osservò: «Ne conosco anch’io di tipi simili. Da giovani fanno il diavolo a quattro, ma quando arrivano gli anni della ma turità, se ne stanno tranquilli con le loro mogli e pur di guadagnarsi da vivere sono pronti a entrare perfino da noi nella polizia segreta. È una legge di natura». «Tra loro ce ne sono di quelli che non sanno fare nul la eccetto la rivoluzione: sono i più pericolosi!» disse Mel’nikov. «Eh si!» esclamò Krasavin risuonando come uno spa ro e muovendo avidamente gli occhi strabici. Una volta Pëtr, dopo aver subito una grossa perdita a carte, preso dalla stanchezza, aveva detto esasperato: «Quando finisce tutta questa tiritera?». Solov’ëv gli aveva lanciato un’occhiata e aveva mosso le grosse labbra. «N on è nostro compito discutere questi argomenti. Il nostro dovere è semplice: prendere una persona sospet ta indicataci dai nostri superiori, o individuata grazie al le nostre capacità, raccogliere informazioni, organizzare i pedinamenti e presentare rapporto ai superiori. Poi loro faranno ciò che credono. Che li spellino pure vivi, la po litica non è afifar nostro! Avevamo in servizio un agente, Griša Sokovinin, anche lui aveva cominciato a mettere in discussione le cose e ha finito col morire di tubercolo si in un ospedale militare». Il più delle volte le conversazioni prendevano questa piega. Vekov, un barbiere sempre vestito all’ultima moda e con colori sgargianti, modesto e silenzioso, annunciava: «Ieri ne hanno arrestati tre». «Che novità!» replicava qualcuno con tono indifferente. Ma Vekov voleva assolutamente raccontare ai com pagni tutto ciò che sapeva, nei suoi occhietti piccoli ar
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deva la scintilla della muta ostinazione e la sua voce ave va un tono interrogativo. « Pare che in via Nikitskaja i signori rivoluzionari stia no organizzando qualcosa, si stanno dando un gran daf fare». « Che stupidi! In quella zona tutti i portinai sono al no stro servizio». «Però - diceva Vekov con circospezione —i portinai si possono corrompere...». «E anche te! Tutti si possono corrompere, è una que stione di prezzo». «Avete sentito ragazzi che ieri Sekacëv ha vinto sette cento rubli?». «Sfido, bara!». «Eh sì, è più che un baro, è un dio!». Vekov si guardava attorno, sorrideva confuso, poi in silenzio si sistemava accuratamente l’abito. Un’altra vol ta affermava: «È comparso un nuovo proclama!». « Ce ne sono a bizzeffe, lo sa il diavolo qual è l’ultimo ». «È molto violento». «L ’hai letto?». «No. Me ne ha parlato Filipp Filippovič che è furioso». « I superiori si infuriano sempre, è una legge di natu ra!» osservò sospirando Grochotov. «Non li legge nessuno questi proclami!». «Li leggono, li leggono, e anche in molti». «E quindi? Anch’io l’ho letto e non mi sono venuti i capelli neri, sono rimasto fulvo così com’ero. Il proble ma non sono i proclami, ma le bombe!». « I proclami non esplodono ». Tuttavia non amavano parlare delle bombe e quasi ogni volta che qualcuno le nominava, cercavano insisten temente di spostare il discorso su altri argomenti. «A Kazan’ hanno rubato gioielli per un valore di qua rantamila rubli!».
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Qualcuno con voce animata e inquieta si informava: «I ladri li hanno presi?». «Li prenderanno!» pronosticava mesto un altro. « Beh, chissà quando accadrà, intanto quelli se la spas sano ». E venivano tutti invasi dalla nebbia dell’invidia, le per sone sprofondavano in sogni di baldorie, giocate d’azzar do e prostitute d’alto bordo. Mel’nikov si interessava più degli altri del corso della guerra e spesso chiedeva a Maklakov, attento lettore di giornali: «Stiamo ancora perdendo?». «Sì». «E qual è motivo? —chiedeva sconcertato Mel’nikov, sgranando gli occhi. —Abbiamo forse pochi uomini?». «È l’ingegno che scarseggia!» replicava secco Ma klakov. «Gli operai sono scontenti, non capiscono. Dicono che i generali si sono venduti». « Questo è sicuro! - s’intrometteva Krasavin —Non so no mica russi —imprecava in malo modo —cosa importa a loro del nostro sangue!». «E sangue a buon mercato!» disse Solov’ev e sorrise in modo strano. In generale parlavano malvolentieri della guerra, come se provassero vergogna l’uno verso l’altro, come se ognu no temesse di pronunciare una qualche parola pericolo sa. Nei giorni della sconfitta tutti bevevano più vodka del solito e, una volta ubriachi, litigavano per delle sciocchez ze. Se durante la conversazione era presente Saša, egli s’in furiava e imprecava: «Esseri degeneri! Non capite niente!». In risposta alcuni gli sorridevano con aria colpevole, altri rimanevano cupi in silenzio e talvolta qualcuno di ceva a mezza voce:
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« Per quaranta rubli al mese non è che si riesce a far molto ». «Bisognerebbe sterminarvi!» mugolò Saša. Molti soffrivano costantemente per la paura delle per cosse e della morte e alcuni, come Elizar Titov, erano co stretti a curarsi da questo terrore in una casa di cura per malattie mentali. « Ieri al circolo stavo giocando - raccontava Pëtr im pacciato - quando a un certo punto ho sentito come una pressione alla nuca e un brivido alla schiena. Mi sono vol tato e ho visto che in un angolo c’era un uomo alto che mi stava squadrando. Non riuscivo a giocare. Mi sono alza to dal tavolo e ho visto che anche lui si muoveva nell’an golo. Sono indietreggiato fino alla scala e sono sceso in fretta nella corte e in strada. Poi però non riuscivo più a muovermi. Mi sembrava di averlo sempre dietro. Ho fer mato con un urlo un vetturino, sono salito sulla carrozza e, seduto di fianco rispetto alla direzione di marcia, guar davo indietro. Improvvisamente quell’uomo mi è appar so davanti e si è messo ad attraversare la strada, proprio davanti al cavallo, può anche darsi che non fosse lui, ma in questi casi non si riesce più a ragionare e io ho lancia to un grido. L’uomo si è fermato e io sono saltato giù dal la carrozza e mi sono messo a correre. Il cocchiere ha co minciato a inseguirmi. Diavolo, come correvo!». «Sono cose che capitano! —disse Grochotov sorriden do - A me è successo una volta di nascondermi in un cor tile, è stato ancora più spaventoso. Mi sono arrampicato sul tetto e sono stato seduto fino all’alba dietro a un ca mino. Homo homini lupus, è una legge di natura!». Una volta Krasavin arrivò pallido e sudato, i suoi oc chi non si muovevano più in tutte le direzioni e si teneva le tempie. Con voce bassa e cupa disse: «Sono stato pedinato». «D a chi?».
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«In generale, ci sono delle persone che mi seguono». Solov’ev provò a tranquillizzarlo: « Ci sono molte persone in città e vanno in giro, mio caro Gavril, ma ciò non significa...». «Sento i passi, sono dietro di me». E per più di due settimane Evsej non vide Krasavin. Le spie avevano con Klimkov un atteggiamento be nevolo e, se anche a volte si burlavano di lui, il loro riso non era offensivo. Quando invece era Evsej che si ramma ricava per i suoi stessi errori, lo consolavano: «Ti ci abituerai, passerà!». Non riusciva a capire quando le spie svolgevano il pro prio lavoro, gli sembrava che trascorressero la maggior par te della giornata nelle trattorie e che a fare le indagini man dassero le persone semplici e umili come lui. Sapeva che oltre a tutti quelli che conosceva c’erano delle altre spie, persone ardite e temerarie, che si mesco lavano ai rivoluzionari ed erano chiamati provocatori. Era no loro che lavoravano più di tutti e che dirigevano tut to. Si trattava di poche persone, molto stimate dai superiori, tuttavia le spie ordinarie li odiavano per la lo ro fierezza e ne erano invidiose. Una volta per strada Grochotov indicò a Evsej una di queste persone. «Guardate, Klimkov!». Sul marciapiede stava passando un uomo alto e robu sto, con i capelli biondi pettinati all’indietro che gli rica devano sulle spalle da sotto al cappello. Aveva il viso lar go e fiero con dei folti baffi. Elegantemente vestito, dava l’impressione di essere un signore ricco e importante. «Avete visto? —disse orgoglioso Grochotov —È bello, vero? È uno dei nostri. Ha denunciato dodici terroristi, ha preparato le bombe insieme a loro per far saltare in aria un ministro. Gli ha insegnato tutto e poi li ha denuncia ti. Ingegnoso, vero?».
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«Certo!» rispose Evsej colpito dall’aspetto autorevole di quell’uomo. « Ecco come sono loro! —continuò Grochotov. - Con quel viso e quell’aspetto fisico potrebbe fare persino il mi nistro. Cosa siamo noi in confronto? I miseri servi di un padrone squattrinato». Pronto a compiacere tutti per uno sguardo tenero e una parola affettuosa, Klimkov correva docilmente da un capo all’altro della città, pedinava, interrogava, riferiva e, se li accontentava, provava una gioia sincera. Lavorava molto, fino allo sfinimento, non aveva tempo neppure per pensare. Maklakov, con la sua aria seria, gli sembrava il miglio re tra tutte le persone che aveva visto fino ad allora. L’a spetto gradevole della giovane spia gli faceva continuamente venire voglia di fargli delle domande e di raccontargli qualcosa di sé. Talvolta gli chiedeva: «Timofej Vasil’evié, quanto guadagnano al mese i ri voluzionari?». Gli occhi chiari di Maklakov si oscuravano un poco e a voce bassa, ma irritata, rispondeva: «Non dire idiozie!».
Capitolo XII
I giorni passavano veloci, affannati e monotoni e a Evsej sembrava che avrebbero continuato a essere così per mol to tempo fino a un lontano futuro, riempiti dal consueto affaccendarsi e dai soliti discorsi. Ma improvvisamente, nel pieno dell’inverno, ci fu uno sconvolgimento e tutto cominciò a vacillare; le persone splancarono gli occhi angosciati, cominciarono ad agita re le mani, a discutere furiosamente, a litigare e a dime narsi smarrite senza procedere d’un passo, come se un col po inatteso le avesse gravemente ferite e accecate. Tutto cominciò quando una sera, tornando alla se zione della polizia segreta con un rapporto urgente sulle sue indagini, Klimkov vi trovò un’atmosfera insolita e in comprensibile. I funzionari, gli agenti, gli scrivani e gli informatori avevano come cambiato faccia: i loro volti era no stranamente diversi dal solito, erano meravigliati e sent brava che gioissero; a tratti parlavano a voce molto bassa e in tono misterioso, a tratti con voce alta e rabbiosa. ( Cor revano in maniera insensata da una stanza all’altra, origlia vano i discorsi degli altri, socchiudevano gli occhi ansio si in modo sospetto, sospiravano scuotendo il capo, poi si fermavano improvvisamente e si mettevano di nuovo a litigare. Pareva che un vortice di paura e sconcerto si spo stasse con ampi cerchi dentro alla stanza, che trasportas se le persone come fossero spazzatura e le ammucchiasse
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per poi spargerle in ogni angolo, facendosi gioco della lo ro impotenza. Klimkov, in piedi in disparte, guardava ine betito questo caos e ascoltava con grande attenzione. Con il collo robusto piegato e la testa allungata in avanti, Mel’nikov afferrava le persone per la spalla con la sua mano irsuta. «Perché mai il popolo ha fatto questo?» risuonava la sua voce bassa e sorda. «Si dice che fossero più di centomila...». «C i sono stati centinaia di morti e di feriti» gridava Solov’ev. E da qualche parte proveniva la voce odiosa e sgrade vole di Saša: «Bisognava prendere subito il pope! Idioti!». Krasavin, con gli occhi strabici che andavano da tutte le parti, camminava con le mani dietro alla schiena e si mordeva le labbra. Evsej si trovò accanto Vekov che, toc candosi i bottoni del gilet, disse a mezza voce: «Mio Dio, ecco che cosa hanno ottenuto, una carne ficina!». «Che cosa è successo?» chiese Evsej sempre sottovoce. Vekov si guardò intorno con circospezione, prese Klimkov per la manica e gli sussurrò: « Ieri a Pietroburgo il popolo si è recato dall’impera tore con un prete, portando in processione delle imma gini sacre, capite, ma non l’hanno lasciato avanzare, han no schierato l’esercito e c’è stata una carneficina». Davanti a loro passò di corsa l’elegante e posato signor Leont’ev, che guardò Vekov attraverso le lenti del suo pin ce-nez e disse: «Dov’è Filipp Filippovič?». Vekov sussultò e lo seguì correndo. Evsej chiuse gli oc chi e al buio cercava di capire il senso di ciò che gli era stato detto. Non gli era difficile immaginarsi una massa di gente in processione per le strade, ma non capiva perché
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le truppe avevano aperto il fuoco, non poteva crederci. L’agitazione degli altri lo contagiava, si sentiva a disagio, nervoso, voleva affaccendarsi insieme a loro, ma non osan do avvicinarsi alle spie che conosceva, si rincantucciava sempre più nel suo angolo. Davanti a lui gli agenti correvano da tutte le parti, pa reva che anche loro cercassero un angolo accogliente per fermarsi e mettere ordine nei pensieri. Maklakov, con le mani affondate nelle tasche, osserva va tutti da sotto le sopracciglia aggrottate. Gli si avvicinò Mel’nikov. «È a causa della guerra?». «Non lo so». «Il popolo che cosa reclamava?». «Una costituzione!» rispose Maklakov. Il burbero agente scosse il capo con disapprovazione: «Non ci credo». Mel’nikov come un orso si girò e se ne andò borbot tando: «Non capisce niente nessuno». Evsej si avvicinò a Maklakov che lo guardò e disse: «Cosa c’è?». «Il rapporto...». Maklakov fece cenno di scacciarlo con la mano: «Oggi non è giorno da rapporti!». «Timofej Vasil’evič, che cos’è una costituzione?». «U n altro sistema di vita» rispose piano la spia. Poi gli si avvicinò di corsa Solov’ev che gli disse, tutto rosso e sudato: «Non hai sentito se dovremo andare in missione a Pie troburgo? Io penso di sì, con un avvenimento del gene re! In fondo si tratta di una rivolta, no? Una vera rivolta. Quanto sangue è stato sparso! Cos’è mai questo?». Nella testa di Evsej giravano lentamente, echeggiando, le parole di Maklakov:
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«Un altro sistema di vita...». Questa frase gli toccava il cuore, suscitandogli un gran de desiderio di penetrarne il significato. Ma intorno tut to girava, si muoveva rapido e continuava a risuonare in sistentemente la voce echeggiante e irritata di Mel’nikov: «Bisogna capire quale popolo. Una cosa è se si tratta degli operai, un’altra se si tratta della popolazione sem plice. Bisogna distinguere!». E Krasavin diceva scandendo le parole: « Se il popolo comincia una rivolta contro l’impera tore, non si può già più parlare di popolo, ma solo di ri belli ». «Aspetta, e se fosse tutto un imbroglio?». «Ehi, diavolaccio! —sussurrò Zarubin, avvicinandosi di corsa a Evsej - Ho fatto centro, vieni che ti racconto!». Klimkov lo seguì in silenzio, ma poi si fermò. «Dove andiamo?». « In una birreria. Sai, c’è una ragazza, Margarita, che conosce una modista nel cui appartamento al sabato leg gono dei libri proibiti, gli studenti e gente del genere». «Io non vengo!» disse Evsej. «Ah, come sei!». Il cuore di Evsej era sempre più avvolto da una quan tità di strane impressioni che gli impedivano di capire co sa stava succedendo. Se ne andò a casa inosservato, por tando con sé il senso di una catastrofe imminente, che, già annidata da qualche parte, protendeva verso di lui le sue braccia ineluttabili, colmandogli sempre più il cuore di paura. Klimkov cercava di camminare nell’ombra, rasen tando le recinzioni, e intanto gli tornavano in mente i volti agitati, le voci concitate, i discorsi sconnessi sulla morte, il sangue e le ampie fosse dove, come fossero im mondizia, gettavano i cadaveri a decine. A casa restò in piedi vicino alla finestra e guardò a lun go la luce gialla del lampione sotto al cui fascio entrava-
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no in fretta delle persone che poi si rituffavano nelle te nebre. Anche nella testa di Evsej si era accesa debolmen te una stretta striscia di luce pallida e timida, attraverso la quale, lenti e maldestri, strisciavano dei cauti pensieri gri gi che cercavano inutilmente di concatenarsi, come un gruppo di persone cieche che tentassero di mettersi in fila. I giorni passavano come in sogno, pieni di racconti ter ribili sul furioso massacro della folla. A Evsej sembrava che quelle giornate strisciassero sulla terra come mostri neri senza occhi, gonfi del sangue divorato, spalancando le enormi fauci e avvelenando l’aria con un odore acre e soffocante. Le persone correvano e cadevano, gridavano e piangevano, mescolando le lacrime al proprio sangue, e venivano distrutti, venivano annientati giovani, vecchi, donne e bambini. E a spingerli in avanti verso lo stermi nio della vita era un’unica forza, una paura impetuosa co me la corrente di un ampio fiume. Tutto questo accadeva in un luogo lontano, in una città sconosciuta per Evsej, tuttavia il ragazzo sapeva che la pau ra esiste dappertutto e la sentiva ovunque intorno a sé. Nessuno capiva ciò che era accaduto, né poteva spie garglielo: davanti alle persone si ergeva un mistero enor me e spaventoso. Le spie da mattina a sera si aggiravano nei loro luoghi di incontro, leggevano i giornali, affolla vano l’ufficio della polizia segreta, discutevano tutti stret ti l’uno all’altro, bevevano vodka e aspettavano impazien temente qualcosa. « C ’è qualcuno che ci possa spiegare la verità?» domai) dava Mel’nikov. Una sera, qualche giorno dopo, mentre erano riuniti nella sezione della polizia segreta, Saša disse brusco: « Basta dire sciocchezze! E tutta opera del Giappone: i giapponesi hanno dato diciotto milioni al pope Gapon per sollevare una rivolta popolare, capite? Hanno fatto ubria care il popolo sulla strada verso il palazzo imperiale,
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i rivoluzionari hanno ordinato di assaltare negozi di al colici!». E con i suoi occhi rossi li abbracciava tutti con lo sguar do come per cercare tra i presenti chi fosse d’accordo. « Pensavano che l’imperatore sarebbe uscito incontro al suo amato popolo e allora loro l’avrebbero potuto uc cidere. È chiaro?». «Già!» gridò Jakov Zarubin e si mise ad appuntare qualcosa sul suo taccuino. « Imbecille! - rispose Saša severo —Non sto parlando con te. Mel’nikov, tu hai capito?». Mel’nikov era seduto in un angolo, si teneva la testa con le mani e si dondolava, come se avesse mal di denti. Senza cambiare posizione disse: «È un inganno!». La sua voce ricadde sorda sul pavi mento come qualcosa di molle e pesante. «Sì, è un inganno!» ripete Saša e ricominciò a parlare in fretta e con coerenza. Talvolta si sfiorava cautamente la fronte, poi, dopo essersi guardato le dita, se le asciuga va sul ginocchio. A Evsej pareva che persino le sue paro le fossero sature di un odore di marcio e, pur compren dendo tutto ciò che la spia diceva, sentiva che il suo discorso non poteva cancellare dal suo cervello i giorni cu pi del trionfo della morte. Tacevano tutti, ogni tanto scuo tevano la testa. Nessuno guardava l’altro e in quel noio so silenzio le parole di Saša fluttuavano per la stanza sui corpi delle persone senza toccare nessuno. «M a se si sapeva che il popolo sarebbe stato inganna to, allora perché uccidere tanta gente?» chiese inaspetta tamente Mel’nikov. « Idiota! —gridò Saša —Se ti dicono che io sono l’aman te di tua moglie e tu ti ubriachi e mi salti addosso con un coltello, io cosa devo fare? Colpirti, anche se tu sei stato ingannato e io non ho colpe». Mel’nikov si alzò in piedi di scatto e ruggì:
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«Smetti di abbaiare, cane!». A quelle parole Evsej trasalì e l’esile e debole Vekov che sedeva accanto a lui sussurrò intimorito: «Per Dio, trattenetelo!». Saša digrignò i denti, infilò la mano in tasca e indie treggiò. Tutti gli altri, ed erano in molti, sedevano in si lenzio, immobili, e aspettavano, seguendo con gli occhi la mano di Saša. Mel’nikov agitò il cappello e, senza fretta, si avviò verso la porta. «Non mi fa paura la tua rivoltella». Dopo che ebbe sbattuto rumorosamente la porta, Vekov si alzò, la chiuse e mentre tornava al suo postò, disse: «Che uomo pericoloso». «Allora, —continuò Saša, estraendo dalla tasca la rivol tella ed esaminandola - domani sin dal mattino ciascu no deve essere al lavoro, mi avete sentito? Tenete presen te che ora ci sarà più da fare, innanzitutto perché una parte dei nostri se ne va a Pietroburgo e poi perché ora tutti dovrete aguzzare gli occhi e le orecchie in modo partico lare. Le persone cominceranno a blaterare di tutto sul con to di questa storia e quegli idioti dei rivoluzionari saran no meno cauti, chiaro?». Il prestante Grochotov sospirò profondamente e disse: «M a allora, se sono coinvolti i giapponesi, ci sono in ballo molti soldi. Questo spiegherebbe tante cose». « Senza spiegazioni è molto difficile trovare un senso » disse qualcuno. «Mostrano tutti un grande interesse per questa rivolta...». Le voci risuonavano fiacche e innaturali. « Bene, ora tutti sapete com’è la questione e che cosa bisogna rispondere alle affermazioni degli imbecilli! —dis se Saša irritato - E se qualche somaro comincia a discu tere, bisogna prenderlo per la collottola, fischiare a un po liziotto e spedirlo al posto di polizia. Là hanno ricevuto istruzioni su come comportarsi con questa gente. Ehi,
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Vekov o qualcun altro, suonate il campanello, che mi por tino dell’acqua di seltz». Jakov Zarubin si precipitò verso il campanello. «Si... —pronunciò lento e pensoso Grochotov —Però sono una forza immensa. Far scendere in piazza centomila persone non è facile». « Sciocchezze, è facile, è un gioco da ragazzi! —lo in terruppe Saša —C ’era un mezzo potente per farli solleva re, c’erano i soldi. Datemi altrettanti soldi e ve lo faccio vedere io come si fa a fare la storia!». Saša imprecò vol garmente, si sollevò un poco sul divano, allungò in avan ti la gialla mano magra con la rivoltella, socchiuse gli oc chi e, mirando al soffitto, esclamò tra i denti, con un sussulto di smania nella voce: «Ve lo farei vedere io...». A Evsej pareva che tutto fosse inutile e vano, come l’ef fetto di rade gocce di pioggia sulla fiamma di un incendio. Tutto quello che stava accadendo non poteva placare la sua paura, né fermare il presentimento di una catastrofe che cresceva in lui piano piano. In quei giorni, senza che se ne accorgesse, il suo atteg giamento verso le persone mutò: aveva scoperto che cer ti uomini possono radunarsi nelle strade a decine di mi gliaia e andare a chiedere aiuto al ricco e potente imperatore e che altri li possono uccidere barbaramente per questo. Si ricordò di tutto quello che diceva Piffero a proposito della miseria del popolo, della ricchezza dell’im peratore ed era certo che sia quelli che scendevano in piaz za che i loro assassini agivano per paura, gli uni spaven tati dalla loro vita misera, gli altri dalla possibilità di diventare poveri. Ma nonostante tutto, queste persone lo stupivano per il loro coraggio disperato e suscitavano in lui un sentimento ancora sconosciuto. Come sempre, quando camminava per strada con la cassetta di mercanzia sul petto, cedeva il passo ai pedoni
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che incrociava scendendo dal marciapiedi sulla strada o schiacciandosi contro le pareti delle case. Tuttavia comin ciò a guardare le persone con più attenzione, con un sen timento simile a un profondo rispetto. I loro volti erano improvvisamente cambiati, erano più espressivi, variega ti, tutti avevano incominciato a rivolgersi l’un l’altro in modo più semplice e cordiale e tutti camminavano con passo più veloce e sicuro.
Capitolo XIII
Evsej si recava spesso in un palazzo dove vivevano un me dico e un giornalista che doveva pedinare. A casa del dot tore lavorava una balia di nome Maša, una donna grassa e florida con gli occhi azzurri sempre allegri. Aveva modi dolci, parlava in fretta e pronunciava alcune parole stra scicando la voce, come se cantasse. Robusta e in salute, con il suo vestito bianco o azzurro sempre pulito, con la collana sul collo nudo e il seno prosperoso, la balia pia ceva a Evsej. La vide circa cinque giorni dopo che Saša aveva spie gato le cause della rivolta. Maša era seduta sul letto nella stanza della cuoca, aveva il viso gonfio e il labbro inferio re che sporgeva in fuori in modo buffo. « Salve —disse stizzita - Non abbiamo bisogno di nien te, puoi andare! Non abbiamo bisogno». «I padroni vi hanno trattata male?» chiese Evsej. Sapeva che non era vero, ma si sentiva costretto dalla sua posizione di venditore a fare proprio quella domanda. Sospirò in modo forzato e aggiunse: «Lavori per loro per una vita e poi...». D ’un tratto l’ossuta cuoca si mise a gridare irritata: «Hanno ucciso suo cognato! E sua sorella l’hanno pre sa a frustate ed è finita in ospedale». «A Pietroburgo?» si informò a voce bassa Evsej. « È ovvio ».
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Maša riempì il petto florido di aria e cominciò a geme re cantilenando: «Dio! Un rilegatore, tranquillo, non beveva, portava a casa quaranta rubli al mese. Hanno picchiato Tanja che sta per partorire! A un amico del marito hanno sparato a una gamba. Hanno ucciso tutti, hanno mutilato tutti, ma ledetti, che non abbiano più un momento di pace!». Gemette a lungo e con rabbia, scarmigliata e inconso labile, poi si gettò sul letto e, affondata la testa nel cusci no, cominciò a singhiozzare in modo sordo, sussultando. « Le è arrivata una lettera dallo zio - diceva la cuoca af faccendandosi avanti e indietro dal tavolo ai fuochi - Ma le cose che scrive! L’ha letta tutta la nostra strada, nessu no riesce a capacitarsi! Il popolo avanzava con le icone, con i santi, c’erano i pope, tutto secondo le regole della cristianità. Andavano dallo zar, a dirgli: “Signore, padre, riduci il numero delle autorità di stato, noi non riusciamo più a vivere con tutti questi capi, e i nostri tributi non bastano per pagar loro gli stipendi, e si sono presi su di noi una libertà senza limiti, per qualsiasi loro necessità spol pano noi”. Stavano facendo tutto in modo onesto, aper tamente, e la polizia lo sapeva, nessuno aveva intenzione di causare guai. Sono partiti, stavano avanzando ed ecco che improvvisamente viene dato ordine di sparare con tro di loro. Li hanno circondati da ogni lato e hanno con tinuato a sparare, li hanno presi a sciabolate e li hanno cal pestati con i cavalli. Pensa, per ben due giorni li hanno picchiati a morte!». La sua voce sgradevole si affievolì fino a un sussurro; si udiva il burro che sfrigolava sul fuoco, l’acqua che co minciava a bollire e gorgogliava furiosamente nella pen tola, e in modo più sordo il rumore prolungato e lamen toso del fuoco insieme ai gemiti di Maša. Evsej si sentiva obbligato a rispondere alle aspre parole della cuoca con del le spiegazioni e aveva voglia di consolare Maša. Fece qual che cauto colpo di tosse e disse senza guardarle in faccia:
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« Dicono che abbiano organizzato tutto i giapponesi...». « Si, e come no! - esclamò ironicamente la cuoca - Cer to, i giapponesi! Li conosciamo, il nostro padrone ci ha già spiegato chi sarebbero questi giapponesi! Vallo a chie dere anche a mio fratello, lo sa pure lui di chi si tratta, sono degli scellerati, altro che giapponesi!». Dai racconti di Mel’nikov Evsej aveva saputo che il fra tello della cuoca, Matvej Zimin, lavorava in una fabbrica di mobili e leggeva libri proibiti e ora, di colpo, gli era venuta voglia di dire che la polizia era a conoscenza della sua attività sovversiva. Ma in quell’istante Maša si alzò di scattò dal letto e, rassettandosi i capelli, si mise a gridare: «Non ci sono giustificazioni, i giapponesi se li sono in ventati!». « Ca-anaglie! —pronunciò lentamente la cuoca —Ieri al mercato facevano non so quale predica sui giapponesi. Un vecchietto, dopo averli ascoltati un po’, ha cominciato lui a dire la sua sul conto dei generali e dei ministri, sen za tanti complimenti! No, il popolo non lo si inganna». Klimkov restava in silenzio con gli occhi rivolti al pa vimento. La voglia di dire alla cuoca che suo fratello era sotto sorveglianza gli era passata. Senza volerlo si era mes so a pensare che tutti coloro che erano stati uccisi aveva no dei parenti, che ora allo stesso modo non capivano co sa era successo e si domandavano l’un l’altro il perché. Pensava: « Piangono e nei loro cuori cresce l’odio per gli assassi ni e per coloro che cercano di giustificare il loro crimine». Sospirò e disse: «Che cosa spaventosa che hanno fatto!». Pensando tra sé e sé: «In fondo anch’io devo difendere i miei superiori». Maša chiuse con un calcio la porta della cucina e Evsej
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rimase solo con la cuoca. Questa, guardando la porta di sbieco, disse burbera: « Si strugge dal dolore quella povera donna, ha perdu to anche il latte, sono già tre giorni che non allatta! Ascol tami, venditore, giovedì della prossima settimana è il suo compleanno, tra l’altro anch’io festeggerò il mio onoma stico, vieni ospite da noi e regalale almeno una bella col lana. Bisogna cercare di consolarla». «Va bene!». Klimkov se ne andò, valutando nei suoi pensieri tut to quello che avevano detto le donne. I discorsi della cuo ca erano troppo animati e chiassosi, si capiva subito che non esprimeva le sue idee, ma quelle di un’altra perso na; il dolore di Maša, invece, non lo toccava. Tuttavia, capiva che queste riflessioni erano inusuali, troppo au daci per della gente comune. Evsej aveva una sua spie gazione: la paura aveva spinto le persone l’una contro l’al tra, allora dei pazzi armati avevano trucidato dei pazzi disarmati. Questa spiegazione, però, non lo tranquilliz zava: vedeva e sentiva che gli uomini si stavano come li berando dalla morsa della paura, cercavano caparbiamen te i colpevoli, li trovavano e li condannavano. Ovunque era comparsa una grande quantità di volantini illegali nei quali i rivoluzionari descrivevano i giorni cruenti di Pie troburgo e se la prendevano con lo zar per convincere il popolo a non fidarsi del governo. Evsej aveva letto di versi di questi volantini e gli parevano scritti in una lin gua incomprensibile, ma sentiva che in quei fogli c’era qualcosa di pericoloso, capace di coinvolgere prepoten temente riempiendo il cuore di un’ansia nuova. Così de cise di non leggerli più. Era stato dato l’ordine tassativo di trovare la tipogra fia in cui venivano stampati i volantini e arrestare le per sone che li diffondevano. Saša si era messo a imprecare e per qualche motivo aveva persino colpito Vekov in viso.
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Filipp Filippovič aveva incominciato a invitare gli agenti la sera e a conversare con loro. Di solito stava seduto in mezzo alla stanza dietro a un tavolo sul quale teneva ap poggiati gli avambracci e allargava le dita lunghe muoven dole piano ma continuamente e toccando ora le matite, ora le penne o le carte; sulle sue dita brillavano delle pie tre di vari colori, da sotto la barba nera spuntava un me daglione giallo. Girava lentamente il collo corto e le len ti azzurrognole e senza fondo dei suoi occhiali si fissavano in successione sui volti delle persone che sedevano tran quille e silenziose vicino alle pareti. Non si alzava quasi mai dalla poltrona, muoveva solo le dita e il collo; il viso grasso sembrava disegnato e la barba pareva incollata. Bianco e paffuto, quando taceva aveva un aspetto che ispi rava fiducia, ma non appena cominciava a risuonare la sua voce sottile e lagnosa, simile allo stridere della lima quan do si arrota una sega di ferro, tutto in lui, la finanziera nera, l’onorificenza, le pietre preziose e la barba, diveni va estraneo e fuori luogo. Talvolta Evsej si immaginava che davanti a sé fosse seduto un fantoccio dentro cui era nascosto un uomo piccolo e rugoso, simile a un diavolet to, e che se qualcuno avesse urlato forte il diavoletto sa rebbe uscito fuori per la paura e sarebbe fuggito via saltan do dalla finestra. Tuttavia, Evsej temeva Filipp Fillipovič e per non at tirare su di sé lo sguardo avido dei suoi occhiali azzurro gnoli, si sedeva il più lontano possibile da lui e per tutto il tempo cercava di rimanere immobile. «Signori! —vibrava nell’aria la voce stridula —Tenete bene a mente le mie parole. Ciascuno di noi deve impe gnare tutto il suo ingegno e la sua anima per combattere il nostro misterioso e astuto nemico. Nella lotta per la vi ta della nostra madre Russia tutti i mezzi sono leciti. I ri voluzionari non si fermano davanti a niente, non li spa venta neanche l’assassinio. Ricordate quanti dei vostri
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compagni sono morti per mano loro. Io non vi sto di cendo di commettere degli omicidi, no, uccidere una per sona è semplice, qualsiasi scemo può farlo. Voi siete dal la parte della legge, contro coloro che la infrangono, non punirli è un reato, bisogna estirparli come le erbacce ve lenose. Siete voi stessi che dovete capire qual è il modo mi gliore e più sicuro per soffocare la rivoluzione nascente. Sono lo zar e la patria che ve lo chiedono». Restò un poco in silenzio guardandosi gli anelli. «Ci mettete poca energia, non amate abbastanza il vo stro lavoro. Per esempio, vi siete lasciati scappare il vec chio rivoluzionario Sajdakov, che, ho saputo, è rimasto tre mesi e mezzo nella nostra città. E poi, non siete ancora riusciti a scoprire la tipografia». Una voce irritata disse: «Senza agenti provocatori è difficile». « Vi prego di non interrompermi! Lo so io cosa è faci le e cosa è difficile. Non siete ancora riusciti a raccogliere degli indizi fondati contro tutta una serie di persone no te per le loro inclinazioni sovversive, non siete riusciti a fornire delle prove per farli arrestare...». «E voi arrestatele senza prove!» disse Pëtr e scoppiò a ridere. « Questi scherzi sono del tutto inopportuni. Sto par lando seriamente. Se le arrestiamo senza prove le dovre mo rilasciare e sarà stato tutto inutile. E vorrei sottoli neare che proprio voi, Pëtr Pëtrovic, è da un pezzo che mi avevate fatto una promessa, ve lo ricordate? Proprio co me voi, Krasavin, che mi avevate detto di esser riuscito a conoscere una persona che avrebbe potuto condurvi fino ai terroristi, beh, allora?». « È un mascalzone, quello, ma voi pazientate, che io il mio compito lo porterò a temine» replicò tranquillo Krasavin. «N on ne dubito, ma chiedo a tutti voi di rendervi
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conto che dobbiamo lavorare con più energia. Dobbiamo fare in fretta!». Parlava a lungo, talvolta un’ora intera, senza mai smet tere, tranquillo, sempre con lo stesso tono di voce e pro nunciava in modo particolare solo le parole “devi” e “do vete”, mettendo due accenti: prima gridava forte “dove...” e poi terminava la parola sommessamente, puntando su tutti i presenti i raggi azzurrognoli del suo sguardo di ve tro. Quella parola era come se afferrasse Esvej per la go la, soffocandolo. Dopo queste conversazioni le spie si dicevano l’un l’altro: «Mica male per essere un ebreo battezzato!». « Da quest’anno gli hanno anche aumentato lo stipen dio di seicento rubli...». Talvolta, al posto di Filipp, era il signor Leont’ev, bel lo ed elegante, a parlare alle spie. Non stava seduto, ma camminava su e giù per la stanza con le mani in tasca, te nendosi riguardosamente a distanza dagli altri, il suo vol to liscio era freddo e altezzoso, le labbra sottili si muove vano di malavoglia, e gli occhi, nascosti sotto le ciglia corrugate, non si vedevano. Da Pietroburgo veniva inve ce il signor Jasnogurskij, piccolo di statura, con le spalle larghe, calvo e con una decorazione sul petto. Aveva una bocca enorme, il volto flaccido, gli occhi pesanti come due piccole pietre e le braccia lunghe. Mentre parlava schioc cava rumorosamente le labbra e sparava continuamente imprecazioni oscene, e a Evsej era rimasta particolarmen te impressa una sua affermazione: « Dicono al popolo che può costruirsi una vita diver sa e migliore. Mentono, ragazzi miei! La vita viene costrui ta dal nostro imperatore e dalla santa chiesa e le persone non hanno la facoltà di cambiare assolutamente nulla». Tutti ripetevano sempre la stessa cosa: bisogna la vorare con più zelo, bisogna essere più svegli, perché i
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rivoluzionari stanno diventando sempre più forti. Talvol ta parlavano degli zar, del fatto che erano intelligenti e ma gnanimi e che erano odiati dagli stranieri perché libera vano gli altri popoli dai gioghi nemici. Avevano affrancato i bulgari e i serbi dal dominio del sultano turco, le popo lazioni dell’Uzbekistan e del Turkmenistan dall’oppres sione dello scià di Persia e i Manciù dall’imperatore ci nese. E questo non piaceva ai Tedeschi, agli Inglesi e ai Giapponesi, che avrebbero voluto sottomettere al loro po tere i popoli liberati dalla Russia, ma sapevano che lo zar non glielo avrebbe permesso. Ecco perché lo detestava no, cercavano in tutti i modi di danneggiarlo e di fomen tare una rivoluzione in Russia. Evsej ascoltava questi discorsi aspettando il momen to in cui avrebbero parlato del popolo russo e avrebbero spiegato perché tutti erano così odiosi e crudeli, perché provavano piacere a tormentarsi a vicenda, vivevano una vita così inquieta e disagiata, perché ovunque ci fossero tanta povertà e paura e da ogni parte si levavano lamenti rabbiosi. Ma nessuno parlava di queste cose. Dopo uno di questi incontri Vekov disse a Evsej men tre camminavano per strada: « Hai sentito che si stanno rafforzando? E inspiegabi le. Ci sono delle persone misteriose che, pur vivendo se gretamente, di colpo cominciano a sconvolgere tutto, fan no, per così dire, vacillare tutta la nostra vita. È difficile immaginarsi da dove venga questa forza». Una volta Mel’nikov, sempre più cupo e silenzioso, di magrito e scarmigliato, colpendosi un ginocchio con il pu gno, si era messo a gridare: «Voglio sapere dove sta la verità!». «C os’è mai questo?» chiese Maklakov irritato. «Che cosa? Ecco che cosa: da quanto posso capire, un’autorità, la nostra, si è indebolita e ora tra il popolo ne sta prendendo piede un’altra. E tutto qui!».
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«E ne è venuto fuori un disastro!» disse ridendo Maklakov. Mel’nikov lo guardò e sospirò. «Non fingere, Timofej Vasil’evič, tu menti, sei un uo mo intelligente, ma menti». I discorsi sui rivoluzionari si depositavano nella testa di Klimkov formando un sottile strato di terreno sul qua le crescevano dei pensieri inquietanti che lo trascinavano misteriosamente verso qualcosa di nuovo.
Capitolo XIV
Mentre si stava recando da Maša per il compleanno si ri cordò improvvisamente: « Oggi conoscerò il falegname, un rivoluzionario...». Arrivò per primo, regalò a Maša una collana azzurra e alla cuoca Anfisa un pettine di corno; le donne, contente dei regali, facevano a gara per offrirgli il tè e il liquore. Maša, curvando graziosamente il collo bianco e pieno, gettava del le occhiate al suo viso sorridendo benevolmente e i suoi occhi gli accarezzavano dolcemente il cuore. Anfisa, versan do il tè, domandava: «Allora, nostro generoso commerciante, quand’è che ci inviterai al tuo matrimonio?». Evsej si confuse ma, cercando di non farlo vedere, si mise a raccontare fiducioso: «Non ho intenzione di sposarmi, è molto difficile». «Difficile? Non fare il modesto. Maša, hai sentito? Di ce che sposarsi è difficile». In risposta alla sonora risata della cuoca, Maša sorri se, guardando Evsej di sottecchi. «Forse la difficoltà la intende a modo suo...». « Sì, la intendo a modo mio! —disse Evsej sollevando la testa —Io, intendo dire che è difficile trovare una per sona con cui vivere come due corpi e un’anima senza aver paura l’uno dell’altra. È difficile fidarsi di qualcuno». Maša gli si sedette accanto, egli guardò di sbieco il suo collo e il petto e sospirò.
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«E se dicessi loro dove lavoro?». Spaventato da questo desiderio, con un rapido sforzo lo represse e, alzando la voce, continuò in fretta: « Se una persona non capisce niente della vita, allora è meglio che rimanga sola». « Ma vivere da soli è dura! - disse Maša e gli versò un bicchiere di liquore —Servitevi!». Evsej aveva voglia di parlare a cuore aperto, vedeva che lo ascoltavano volentieri e questo, insieme ai bicchieri di vino, lo stimolava. Ma arrivò tutta agitata Liza, la came riera del giornalista, che conquistò immediatamente l’at tenzione di Anfisa e Maša. Strabica all’occhio sinistro, au dace, ben pettinata e vestita con gusto, sembrava sfacciata e carina. «Quei selvaggi dei miei padroni oggi hanno invitato degli ospiti e non mi vogliono lasciar andare - disse seden dosi —Beh, no, dico, come volete voi...». «Hanno invitato molti ospiti?» chiese Klimkov an noiato, ricordandosi dei suoi doveri di spia. «Moltissimi! Ma che razza di ospiti sono! Nessuno che mi lasci una moneta, persino a Capodanno ho rimediato solo due rubli e trenta copechi di mancia». «Allora non sono ricchi?» chiese Esvej. «M a cosa vuoi ricchi! Non ce n’è uno che abbia un paio di galosce come si deve». «Chi sono, degli impiegati?». «Fanno mestieri diversi. Uno scrive sul giornale, l’al tro è solo uno studente, ah, ce n’è uno così carino! Ric cio, con le sopracciglia scure e i baffetti, i denti bianchi e regolari, sempre tutto allegro. È tornato da poco dalla Si beria, non fa altro che raccontare della caccia». Evsej guardò Liza e abbassò il capo. Avrebbe voluto dirle: «Smettetela!», ma invece domandò calmo: «Era stato deportato?». «Chi lo sa! Anche i miei padroni sono stati al confino».
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«Al giorno d’oggi chi è che non viene deportato! — esclamò la cuoca - Vivevo da Popov, l’ingegnere. Un uo mo ricco, aveva la sua casa, i suoi cavalli, si stava per spo sare ed ecco che improvvisamente una notte sono arriva ti i gendarmi e zac! l’hanno spedito in Siberia». « Io non giudico i miei padroni! - la interruppe Liza per niente. Sono brave persone, non bestemmiano, non sono avidi. E poi sanno tutto, parlano di tutti». Evsej guardò smarrito il viso rubicondo di Maša e pensò: «Se se ne stesse zitta, quella scema». «Anche i nostri padroni capiscono tutto!» annunciò Maša orgogliosa. «Quando c’è stata la rivolta a Pietroburgo —disse Liza animata - da noi stavano in piedi a parlare tutte le notti». «Beh, anche i nostri venivano da voi!» notò la balia. « C ’erano, c’erano! C ’era moltissima gente. Parlava no, scrivevano dei reclami e uno si è messo persino a pian gere, lo giuro!». «Come si fa a non piangere!» disse la cuoca sospirando. « Si è preso la testa fra le mani e singhiozzava. Diceva: “Povera Russia!”. Gli hanno dato dell’acqua. Ero dispia ciuta per lui e mi sono messa a piangere anch’io». Maša si guardò attorno spaventata. «Signore, se penso alla mia sorellina...». Si alzò e se ne andò nella stanza della cuoca. Le don ne la seguirono con lo sguardo commosso ed Evsej tirò un sospiro di sollievo. Poi contro voglia chiese a Liza, con tono annoiato: «A chi scrivevano i reclami?». « Questo non lo so » rispose Liza. «E Maša è andata a piangere di là» notò la cuoca. Si aprì la porta ed entrò tossendo il fratello della cuoca. «Che freddino!» disse togliendosi dal collo la sciarpa rossa.
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«Dai, bevi subito qualcosa». «Mi ci vuole proprio. Salve e auguri!». Esile, si muoveva con facilità, senza fretta, e nella sua voce c’era qualcosa di serio, che non si accordava con la sua barbetta chiara e il cranio appuntito. Aveva un viso piccolo, magro e umile e grandi occhi castani. «È un rivoluzionario!» si ripete Evsej mentre stringe va la mano del falegname in silenzio. E dichiarò: «È ora che io vada». « Dove? - esclamò la cuoca prendendolo per un brac cio —Ehi, ragazzo, non guastare la compagnia!». Zimin guardò Evsej e disse pensieroso: « Ieri da noi alla fabbrica hanno ricevuto un altro or dine: un salotto, uno studio e una camera da letto. Han no ordinato tutto i militari. Con tutti i soldi che hanno rubato vogliono vivere alla nuova maniera». «Ecco! - pensò Evsej con stizza - Comincia subito, eh Signore!». Senza immaginare a cosa avrebbe portato la sua do manda, chiese al falegname: «D a voi in fabbrica ci sono i rivoluzionari?». Come punto sul vivo, Zimin si volto di scatto verso di lui e lo guardò negli occhi. La cuoca si incupì e disse piano con fare scontento: «Dicono che ora siano dappertutto». « Ma tutto questo lo fanno con cognizione o per stupi dità?» chiese Liza. Klimkov, non reggendo più il pesante sguardo indagatore del falegname, abbassò lentamente la testa. In modo educato ma fermo Zimin si informò: « Perché vi interessa?». «Lo chiedevo così, senza alcun interesse» rispose mo gio Esvej. «Allora perché lo chiedete?». « Così » disse Evsej e dopo qualche secondo aggiunse: «Per educazione».
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Il falegname sorrise. A Evsej pareva che tre paia di occhi lo stessero guar dando in modo severo e sospettoso. Si sentiva a disagio e qualcosa di amaro gli pizzicava in gola. Tornò Maša, sor ridendo con aria colpevole, guardò gli altri e il sorriso le scomparve dal viso. «Cosa avete?». Nella testa di Evsej balenò l’idea: « È perché sono colpevoli ». Si alzò in piedi, barcollò leggermente e cominciò: « L’ho chiesto perché è da tempo che volevo dire a vo stra sorella di voi ». Anche Zimin si alzò, il suo viso si corrugò e si fece gial lognolo. Chiese calmo: «Dire cosa di me?». All’orecchio di Evsej giunse il sottile bisbiglio di Maša: «M a che cosa sta succedendo?». «Io so - disse Evsej, e intanto gli sembrava di alzarsi dal pavimento nell’aria, ondeggiando leggero come una piuma, e di vedere e distinguere tutto con un’incredibile chiarezza —che siete pedinato da un agente della polizia segreta». La cuoca barcollò sulla sedia, esclamando sorpresa e spaventata: «Matvej!». «Lascia fare a me!» disse Zimin, allungando la palma della mano davanti al suo viso per tranquillizzarla. Poi ordinò in modo severo e deciso: « Sapete cosa, ragazzo, è ora che andiate a casa, e an ch’io. Vestitevi». Evsej sorrideva. Continuava a sentirsi vuoto e legge ro, era piacevole. Poi non si ricordò più come se ne era an dato, ma non si dimenticò che tutti tacevano e nessuno gli aveva detto arrivederci. In strada Zimin gli diede una spallata e gli disse a vo ce bassa, ma chiara:
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«Vi chiedo di non andare più da mia sorella». «Vi ho forse fatto un torto?». «Chi siete?». «Sono un venditore». «E come fate a sapere che mi stanno pedinando?». «Me l’ha detto un mio conoscente». «Una spia?». «Sì». «Anche voi siete una spia?». «N o» disse Evsej. Ma guardando il volto di Zimin, pallido e magro, si ri cordò del suono sordo e tranquillo della sua voce e senza sforzo si corresse: «Sì, anch’io». Avanzarono qualche passo in silenzio. «Beh, andatevene!» disse Zimin, fermandosi di col po. Scuoteva la testa in modo strano e la sua voce risuo nava piano. «Andate via!». Evsej si appoggiò con la schiena a uno steccato e guardò il falegname battendo le palpebre. Anche Zimin lo osservava dondolando il braccio destro. « In fondo - disse Evsej disorientato - vi ho detto la ve rità, che siete pedinato ». «E allora?». «Beh, voi vi arrabbiate». II falegname si piegò verso di lui e gli riversò addosso un’onda di parole sibilanti. «Accidenti a voi! Lo so benissimo che mi seguono, e allora? Cos’è, gli affari vanno male? Pensavi di corromper mi e usarmi per denunciare le persone? Razza di canaglia! O volevi metterti in pace la coscienza in questo modo me schino? Vai al diavolo, vai, altrimenti ti spacco il muso!». Evsej si staccò dallo steccato e se ne andò. «Canaglia!», e sentì dietro a sé un verso di disgusto.
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Klimkov si voltò e per la prima volta nella vita insultò una persona con tutta la voce che poteva: «Tu canaglia! Figlio di un cane!». Il falegname non rispose e i suoi passi non si sentiva no. Da qualche parte stava passando una carrozza, sotto ai pattini della slitta scricchiolava la neve e stridevano le pietre. «È tornato indietro dalla sorella» immaginò Klimkov camminando lentamente sul marciapiede. Sputò e si mise a cantare sottovoce: Oh giardino, mio giardino...
E si fermò di nuovo vicino a un lampione, sentendo che doveva calmarsi. « Ecco, cammino e posso cantare. Se mi sente un po liziotto e mi chiede cosa urlo, gli mostrerò il mio docu mento. Mi chiederà scusa. Se si mette a cantare il fale gname, invece, lo spediscono alla stazione di polizia perché non disturbi la quiete». Klimkov sorrise guardando l’oscurità. «Sì, mio caro, tu non ti metterai a cantare». Ma questo non lo tranquillizzava, nel cuore sentiva una profonda tristezza, una saliva schiumosa e amara gli im pastava la bocca e aveva le lacrime agli occhi. Oh giardino, mio giardino oh, mio giardino verde...
Si mise a cantare a squarciagola e chiuse forte gli oc chi. Ma anche questo fu inutile e attraverso le palpebre gli spuntarono delle lacrime secche e pungenti, che gli gela vano la pelle delle guance. «Vetturino!» gridò con tono basso Klimkov, cercando sempre di farsi coraggio. Ma quando si fu seduto sulla slit ta, in lui fu come se esplodessero di colpo una quantità di venuzze estremamente tese, la testa gli crollò sul petto e, dondolando sulla slitta, si mise a borbottare:
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« Mi hanno offeso proprio per bene, sono andati giù pesanti. Grazie! Eh, le cosiddette persone buone, le per sone intelligenti...». Lamentarsi in questo modo era piacevole, gli riempi va il cuore di quella dolcezza inebriante che Evsej aveva provato spesso durante l’infanzia e che lo poneva di fron te alle persone nella posizione di un martire e lo rendeva degno di maggior stima anche ai suoi stessi occhi.
Capitolo XV
Il mattino seguente, steso sul letto, guardava cupo il sof fitto e, ricordandosi dell’accaduto, pensava triste: «No, non bisogna preoccuparsi per le altre persone, ma per se stessi». Questo pensiero gli sembrò strano. «Non è possibile che io faccia del male a me stesso!». Cominciò pigramente a vestirsi, costringendosi a pen sare al compito di quel giorno. Doveva recarsi nel sobbor go delle fabbriche. Splendeva il sole, dai tetti scendeva rumorosamente l’acqua lavando via la neve sporca e le persone passeggia vano svelte e allegre. Nell’aria tiepida aleggiava cantilenan do il dolce suono delle campane di quaresima, gli ampi nastri della melodia soave si innalzavano e volavano via dalla città verso l’orizzonte azzurro pallido. « Se ora potessi andarmene da qualche parte, per i cam pi o nel deserto!» pensava Evsej entrando nelle stradine anguste del sobborgo delle fabbriche. Intorno a lui c’era no delle mura rossicce e sudice, il cielo era imbrattato di fumo, l’aria era satura dell’odore di olio caldo. Intorno tut to era inospitale e la vista dei vani da lavoro di pietra co perti di fuliggine stancava gli occhi. Klimkov andò alla trattoria, si sedette a un tavolo vi cino alla finestra, ordinò un tè e cominciò ad ascoltare i discorsi delle persone. Non ce n’erano molte, solo operai
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che mangiavano e bevevano, scambiandosi pigramente brevi parole; solo da un angolo proveniva incessantemen te una voce giovane: «Pensaci, da dove viene la ricchezza?». Evsej si voltò con stizza. Sentiva spesso dei discorsi sul la ricchezza e provava sempre un senso di annoiata per plessità, percependo in quelle parole solo odio e avidità. Sapeva che erano proprio quelli i discorsi considerati pe ricolosi. « Per lavorare ti danno due soldi e per fare la spesa de vi pagare caro, non è vero? Ogni ricchezza viene ricavata dal denaro che non ci hanno pagato per il nostro lavoro. Facciamo un esempio...». «Come sono tutti avidi!» pensò Evsej. Saziandosi del piacevole calore della riprovazione, non ascoltava e non vedeva già più niente. Improvvisamente sopra al suo orecchio risuonò una voce allegra: «M a chi è, Klimkov?». Alzò la testa di scatto e vide davanti a sé un ragazzo dai capelli ricci, chi era?». Non mi riconosci? Non ti ricordi di tuo cugino Jakov?». Il ragazzo scoppiò a ridere e si sedette al tavolo. La sua risata avvolse Klimkov nella dolce nuvola dei ricordi del la chiesa e del quieto dirupo, dell’incendio e dei discorsi di suo zio fabbro. In silenzio, sorridendo confuso, strinse cautamente la mano del cugino. «Non ti avevo riconosciuto». «H o visto! - esclamò Jakov —Io invece ti ho ricono sciuto subito! Sei rimasto tale e quale. Che lavoro fai?». Klimkov rispondeva con cautela, bisognava capire in che modo quest’incontro poteva metterlo in pericolo. Ma Jakov parlava per due e raccontava del villaggio con una fretta tale, che sembrava dovesse finire il prima possibile. In due minuti gli riferì che il padre era rimasto cieco, la
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madre era sempre ammalata e che lui da tre anni viveva in città e lavorava in fabbrica. « Ecco, la mia vita è tutta qui ». Jakov era ricoperto da dense chiazze di fuliggine che parevano disposte in modo elegante, parlava a voce alta e, sebbene avesse i vestiti strappati, sembrava che fosse ric co. Klimkov lo osservava con piacere, ricordando senza rancore quando quel ragazzo robusto lo picchiava, e allo stesso tempo si domandava intimorito: «Che sia un rivoluzionario?». «Allora, come te la passi?». « E tu?». « Lavorare è faticoso, vivere è semplice. Si lavora così tanto che non resta il tempo per vivere. Il padrone ha tut to il giorno, tutta la vita per sé, mentre tu hai solo pochi minuti. Non c’è il tempo di leggere un libro; andrei a tea tro, ma poi quando dormo? Tu li leggi i libri?». «Io? No». «Certo, non hai tempo. Anche se io ce la faccio co munque. Qui ci sono dei libri che come li prendi in ma no, rimani a bocca aperta, come se stessi abbracciando una tenera amante, davvero. A proposito di donne, come te la passi? Hai successo?». «Non c’è male» disse Evsej. « Io piaccio! Ci sono delle ragazze qui! A teatro ci vai?». « Qualche volta». «A me piace moltissimo. Io colgo ogni occasione, co me se dovessi morire domani. Ah, anche il giardino zoo logico è un altro bel posto». Attraverso lo strato di fuliggine sulle guance di Jakov affiorava il colorito rosso per l’eccitazione, i suoi occhi ardevano e faceva schioccare le labbra come se stesse suc chiando qualcosa di tonificante e rinfrescante. In Evsej co minciava a nascere una certa invidia per quel corpo ro busto e avido. Cominciò testardamente a ripensare a
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quando Jakov lo picchiava con i duri pugni sui fianchi. Ma i discorsi allegri risuonavano senza tregua e le parole e le esclamazioni esultanti volavano intorno a Evsej fi schiando come rondini. Con un sorriso forzato sulle labbra ascoltava e sentiva che si scindeva in due, da una parte voleva ascoltare, ma era a disagio, si vergognava quasi. Girò la testa e di colpo vide dietro alla finestra il volto dell’agente Grochotov. Sul la sua spalla sinistra e sul suo braccio pendevano dei pan taloni laceri, delle camicie sporche e delle giacche. Dopo aver strizzato di nascosto l’occhio a Klimkov, gridò con voce triste: «Vendo e compro vestiti usati...». «Devo andare» disse Evsej, balzando in piedi. « Sei libero domenica? Vieni da me, anzi no, è meglio che venga io da te, dove abiti?». Evsej rimase in silenzio, non voleva che vedesse il suo appartamento. « Beh, che c’è? Vivi con una donna? Che c’è di stra no! Presentamela e via, cosa c’è da vergognarsi, no?». «Vedi, è che non abito da solo...». «Beh, è quello che stavo dicendo». « Sì, ma non abito con una donna, abito con un vec chio». Jakov scoppiò a ridere. « Quanto sei goffo! Come diavolo parli? Certo il vec chio ce lo possiamo risparmiare. Io vivo con due compa gni, anche da me non è comodo incontrarsi. Dai, met tiamoci d’accordo su un posto dove vederci!». Fissarono un incontro, uscirono dalla trattoria e, quan do Jakov salutandolo strinse in modo energico e affettuo so la mano di Klimkov, Evsej si allontanò da lui in fret ta, come se si aspettasse che il cugino tornasse indietro e in qualche modo annullasse quella vigorosa stretta di ma no. Mentre camminava pensava mesto:
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« Questo è il posto migliore, qui si dice si trovi il mag gior numero di rivoluzionari, Jakov mi sarà d’intralcio». La sua anima fu attraversata da un’ombra grigia di acu ta irritazione. «Vestiti usati!» cantilenò dietro di lui Grochotov e bi sbigliò: «Compra una camicia, Klimkov!». Evsej si voltò, prese tra le mani uno straccio e comin ciò a esaminarlo in silenzio e la spia, mentre lodava a gran voce le qualità della merce, gli diceva sussurrando: «Ascolta, hai fatto centro! Quello con i capelli ricci lo ho osservato bene, è un socialista! Tienilo d’occhio, trami te lui si possono scoprire molte cose» e strappandogli dal le mani uno straccio, si mise a gridare con voce stizzita: « Cinque copechi? Per una cosa come questa? Vorrai scherzare, amico, tu mi offendi inutilmente! Va’ per la tua strada, va’!». E continuando a gridare di tanto in tanto, at traversò la strada. «Ecco, adesso sarò sorvegliato anch’io!», pensò Evsej guardando Grochotov da dietro. Quando una spia inesperta riusciva a entrare in con tatto con degli operai, era obbligata a riferirlo immedia tamente al suo superiore, che o gli dava un compagno più esperto con cui lavorare, o entrava lui stesso in con tatto con gli operai, e allora con invidia si diceva di lui: « Si è arruolato tra i provocatori». Un ruolo del genere era considerato pericoloso, ma se si riusciva a denunciare in un sol colpo un intero gruppo di persone, si ricevevano dai superiori delle ricompense in denaro. Per questo tutte le spie non solo «si arruolava no » ben volentieri, ma a volte cercavano addirittura di sof fiarsi l’un l’altro i casi vantaggiosi e spesso, cercando di far si lo sgambetto a vicenda, rovinavano tutto. Più di una volta, dopo che una spia si era infiltrata in un gruppo di operai, era accaduto che questi in modo misterioso erano
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venuti a sapere la sua identità e lo avevano malmenato, a meno che non fosse riuscito a fuggire in tempo. Questo nel loro gergo si chiamava «tendere la trappola al cac ciatore». A Klimkov riusciva difficile credere che Jakov fosse un socialista, ma allo stesso tempo desiderava crederci. L’in vidia suscitata dal cugino sfociava nella rabbia di esserse lo trovato tra i piedi. E gli tornavano alla mente le botte che gli aveva dato durante l’infanzia. La sera riferì a Pëtr del suo incontro. «Beh, allora? - chiese Pëtr irritato - Non lo sai cosa si deve fare? Cosa diavolo vi insegnano a voialtri?». E corse via, scarmigliato, magro e con le occhiaie. «Deve aver perso di nuovo a carte!», pensò seccato Klimkov. Il giorno dopo Saša venne a conoscenza del suo suc cesso e volle sapere tutti i dettagli della faccenda, poi con un sorriso meschino cominciò a dargli dei consigli: « Devi aspettare un po’, poi con cautela gli dici che sei entrato come impiegato in una tipografìa, hai capito? Al lora ti chiederanno se puoi procurar loro dei caratteri di stampa. Tu gli dici di sì, ma con un tono semplice, in mo do che pensino che per te è indifferente procurarglieli o no. Non chiedere a cosa gli servono. Comportati da ton to quale sei. Se fallisci questa impresa, per te saranno guai. Dopo ogni incontro riferiscimi quello che hai sentito ». Evsej davanti a Saša si sentiva come un cagnolino al guinzaglio, guardava il suo volto giallo e foruncoloso e, senza pensare a niente, aspettava che Saša lo lasciasse usci re da quella nuvola di odori disgustosi che gli davano la nausea. Si recò all’appuntamento con Jakov con un profon do senso di vuoto, ma quando vide il cugino con una si garetta tra i denti e il cappello sulle ventitré, gli sorrise ami chevolmente.
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«Come va?» gridò allegro Jakov. « Ho trovato un lavoro » rispose Evsej e immediata mente pensò: «L ’ho detto troppo presto». « Dove?». « In una tipografia, come impiegato ». Jakov fischiò rumorosamente: «In una tipografia? Uhm... Se vuoi ti porto con me da degli amici. E una bella compagnia: ci sono due ra gazze, una modista e una tessitrice, e un meccanico, un ra gazzo che suona la chitarra. Poi ci sono altre due perso ne, sempre molto simpatiche». Parlava in fretta, i suoi occhi sorridevano felici a tut to ciò che vedevano. Fermandosi davanti alle vetrine dei negozi, osservava le cose con lo sguardo di una persona che sa apprezzare e interessarsi di tutto. Indicando a Ev sej delle armi, disse entusiasta: «Che rivoltelle! Sembrano dei giocattoli». Uniformandosi al suo umore Evsej abbracciava le co se con lo sguardo confuso e sorrideva meravigliato, come se vedesse per la prima volta quell’abbondanza di merci belle e invitanti: tessuti sgargianti, libri variopinti e lo scin tillare caotico e accecante dei colori e dei metalli. Gli pia ceva ascoltare la voce di Jakov, i suoi discorsi veloci e pie ni di gioia penetravano facilmente nell’oscuro terreno abbandonato della sua anima. «Sei allegro!» disse soddisfatto. «Sì, molto! Oggi ho imparato a ballare dai cosacchi. In fabbrica ce ne sono una ventina. Hai sentito che da noi volevano fare una rivolta? Ma come, l’hanno scritto anche sui giornali». « E perché volevate ribellarvi?» chiese Evsej, toccato sul vivo dalla semplicità con cui Jakov parlava della rivolta. « Come perché, perché ci maltrattano a noi operai! Co sa altro dovremmo fare?».
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«E i cosacchi come hanno reagito?». « Niente, all’inizio pensavano di essere i nostri capi, poi hanno detto: “Compagni, passateci i volantini”». Jakov interruppe il discorso di colpo, guardò il volto di Evsej, corrugò le sopracciglia e per un po’ continuò a camminare in silenzio. A Evsej invece i volantini aveva no ricordato il suo dovere, il suo volto si coprì di rughe come se stesse male e come cercando di allontanare qual cosa da lui e dal cugino, mormorò: «Li ho letti quei volantini». «Allora?» chiese Jakov rallentando il passo. «Non li capisco». «E tu leggili ancora». «Non mi va». «Non ti interessano?». «No». Camminarono per qualche minuto in silenzio. Jakov fischiettava pensoso, guardando di sfuggita il volto del cu gino. « Hai torto, quei volantini costano cari e tutti coloro che sono prigionieri del lavoro devono leggerli —comin ciò parlando a voce bassa ma con trasporto —Noi, caro mio, siamo prigionieri, ci hanno incatenati al lavoro per tutta la vita, ci hanno reso schiavi dei capitalisti, non è vero forse? E quei volantini liberano il nostro intelletto di esseri umani ». Klimkov accelerò il passo, non aveva voglia di sentire la fluida parlata di Jakov e gli balenò anche l’idea di dir gli: «Per favore, non fare questi discorsi con me». Ma Jakov si interruppe da solo: «Ecco il giardino zoologico». Bevvero una bottiglia di birra al bar mentre ascolta vano la musica dell’orchestra militare. Ogni tanto Jakov dava delle gomitate al fianco di Evsej e gli chiedeva: «Bello, vero?».
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Quando la musica finì Jakov sospirò e osservò: « Quello che stavano suonando è un pezzo del Faust, l’opera. L’ho vista tre volte a teatro, è molto bella! La sto ria è stupida, ma la musica è bellissima. Andiamo a ve dere le scimmie!». Mentre si dirigevano verso la gabbia delle scimmie rac contò a Evsej in modo coinvolgente la storia di Faust e del diavolo, provò anche a intonare qualcosa, ma non gli riu scì e scoppiò a ridere. La musica, il racconto sul teatro, le risate, il chiacchie riccio della folla di gente vestita a festa e il cielo primave rile invaso di sole inebriavano Klimkov. Guardava Jakov e pensava meravigliato: « Com’è coraggioso! Sa tutto e ha la mia stessa età». Klimkov cominciò ad avere l’impressione che il cugi no aprisse in fretta davanti a lui una serie di piccole por te e che da ciascuna si liberassero una luce e un rumore sempre più piacevoli. Si guardava intorno assaporando le nuove sensazioni ma di tanto in tanto gli sembrava di ve der balenare nella folla il volto noto di un compagno di lavoro e spalancava gli occhi inquieto. Si trovavano di fronte alla gabbia delle scimmie e Jakov, con un sorriso benevolo negli occhi, stava dicendo: «Guarda, che cos’hanno di diverso dalle persone? Non è vero? Gli occhi, il muso, che aria intelligente!». Di colpo si azzittì, si mise in ascolto e, dopo aver det to «Aspetta, sono arrivati i nostri amici!», scomparve. Un minuto dopo condusse da Evsej una ragazza e un ragaz zo con un lungo soprabito, esclamando allegro: « E avevate detto che non sareste venuti, bugiardi! Que sto è mio cugino Evsej Klimkov, vi ho già parlato di lui. E questa è Olja, o meglio Ol’ga Konstantinovna. Lui in vece si chiama Aleksej Stepanovič Makarov». A testa bassa, imbarazzato, Klimkov strinse la mano dei nuovi conoscenti senza parlare e intanto pensava:
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« Così rischio di arruolarmi provocatore. Farei meglio ad andarmenene ». Ma non aveva voglia di andare via, si guardò di nuo vo intorno, spinto dal timore di vedere uno dei suoi col leghi spie. Non c’era nessuno. «Non è tanto sfrontato - disse Jakov alla ragazza Non come me che sono un peccatore!». «Non è il caso di vergognarsi, siamo persone sempli ci» disse O l’ga. Era più alta di Evsej di tutta la testa e i capelli chiari, raccolti in cima al capo, la facevano sembra re ancora più alta. Sul pallido viso ovale gli occhi grigio azzurri sorridevano sereni. Il ragazzo con il soprabito lungo aveva un viso buo no, gli occhi dolci, si muoveva lentamente, dondolando con particolare leggerezza il corpo vigoroso. « Dobbiamo continuare ancora molto a vagare come del le anime in pena?» chiese con una morbida voce di basso. «E se ci sedessimo da qualche parte?». Ol’ga, chinato il capo, guardava il viso di Klimkov. «Siete mai venuto qui?». «No, è la prima volta». Camminava accanto a lei cercando chissà perché di sol levare i piedi più che poteva, anche se gli era scomodo. Si sedettero a un tavolino e ordinarono della birra. Jakov scherzava, mentre Makarov, fischiettando piano, osser vava i presenti con le palpebre socchiuse. «Avete degli amici?» chiese Ol’ga. « No, non ho nessuno ». «L ’avevo capito subito che dovevate essere solo!» dis se sorridendo. « Guardate, un agente segreto!» esclamò piano Makarov. Evsej balzò in piedi, poi si risedette in fretta e lanciò un’occhiata a Ol’ga per cercare di vedere se avesse notato il suo scatto involontario di paura. Non riuscì a capire. La ragazza osservava in silenzio e con attenzione la figura
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scura di Mel’nikov: l’investigatore camminava come a fa tica lungo lo stretto passaggio di fronte ai tavoli e con il collo piegato guardava per terra. Le braccia pendevano lungo il corpo come slogate. « Cammina come uno che sta andando alla forca» dis se Jakov sottovoce. «Probabilmente è ubriaco!» osservò Makarov. Per poco Evsej non disse: «No, è sempre così» e co minciò ad agitarsi sulla sedia. Mel’nikov era come una pietra nera che si addentra va nella folla nascondendosi nel suo flusso variopinto. «Avete visto come camminava?» chiese Ol’ga. Evsej alzò il capo e la guardò con attenzione e trepi dazione. « Credo che la solitudine possa spingere una persona debole a qualsiasi cosa». « SI » disse Klimkov a mezza voce, comprendendo qual cosa delle sue parole, e guardando riconoscente il viso del la ragazza, ripetè più forte:
«SI!». «Lo conoscevo circa quattro anni fa» raccontava Makarov. Ora il suo viso si era come allungato di colpo, si era asciugato, si vedevano le ossa, gli occhi erano spa lancati e scuri e guardavano lontano con aria severa. «H a denunciato uno studente che ci dava dei libri da leggere e l’operaio Tichonov. Lo studente è stato depor tato, mentre Tichonov è rimasto un anno in prigione ed è morto di tifo ». «E voi avete paura delle spie?» chiese improvvisamen te Ol’ga a Klimkov. «Perché?» rispose Evsej con voce sorda. « Quando l’avete visto avete sussultato ». Evsej, fregandosi forte la gola e senza guardarla, rispose: «Il fatto è che anch’io lo conosco». «Ah!» pronunciò lentamente Makarov ridacchiando.
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«Zitto, zitto!» esclamò Jakov, strizzando l’occhio. Klimkov, non capendo il senso delle loro esclamazio ni e degli sguardi affettuosi, taceva, temendo di pronun ciare senza volerlo delle parole che avrebbero distrutto l’ansioso ma piacevole stato simile al dormiveglia di quei minuti. In silenzio e dolcemente cominciò ad arrivare la fre sca sera primaverile, attenuando i suoni e i colori, il cielo era imporporato dal tramonto e le trombe suonavano pia no, come pensierose. « Beh —disse Makarov - restiamo qui o andiamo a casa?». Decisero di andare a casa. Per strada Ol’ga chiese a Klimkov: «E voi siete mai stato in prigione?». « Sì » rispose, ma dopo qualche secondo aggiunse: « Per poco ». Presero il tram, poi Evsej si ritrovò in una stanza pic cola, tappezzata da una carta da parati azzurra; si stava stretti e mancava l’aria, e a tratti si sentiva felice, a tratti triste. Makarov suonava la chitarra, cantava delle canzo ni sconosciute, Jakov parlava arditamente di qualsiasi ar gomento possibile, si prendeva gioco dei ricchi, inveiva contro i superiori. Poi cominciò a ballare e riempì tutta la stanza di strilli, di fischi e del rumore dei suoi tacchi. La chitarra risuonava tutt’intorno e Makarov incoraggia va Jakov con parole e grida: «Eh, gente allegra il ciel l’aiuta!». Ol’ga osservava tutto serena e di tanto in tanto sorri dendo domandava a Klimkov: «Si sta bene qui, vero?». Inebriato dalla calma gioia a lui sconosciuta, anche Klimkov sorrideva in risposta. Si era dimenticato di sé e del suo lavoro e solo a tratti, per qualche secondo, senti va dentro delle fastidiose punture, ma prima che la sua
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coscienza riuscisse a tradurle in pensiero, scomparivano, senza lasciare traccia. Solo quando fu a casa si ricordò che era suo dovere consegnare ai gendarmi quelle persone così allegre e, col to da una fredda angoscia, si fermò confuso in mezzo al la stanza. Cominciò a mancargli il respiro, si passò sule labbra la lingua asciutta, si tolse in fretta l’abito, e con addosso la sola biancheria andò a sedersi alla finestra. Do po qualche minuto di stordimento, pensò: «Lo dirò ai ragazzi, lo dirò a Ol’ga». In quel momento si ricordò il grido altezzoso e cru dele del falegname: «Canaglia!». Klimkov scosse il capo scontento. «Le scriverò: “Sta te in guardia!” E le racconterò anche di me». Questo pensiero lo rallegrò, ma un secondo dopo pen sò: «Durante una perquisizione troveranno la mia lette ra, riconosceranno la calligrafia e io sarò finito». Rimase seduto alla finestra quasi fino all’alba. Gli pa reva che il suo corpo si stesse restringendo riempiendosi di pieghe, come un pallone di gomma dal quale sta uscen do l’aria. Dentro, un’angoscia implacabile gli divorava il cuore, fuori lo opprimevano le tenebre piene di volti mi nacciosi tra i quali, come un globo rosso, si distingueva quello di Saša. Klimkov si incurvò, si rannicchiò. Infine cautamente si alzò, si avvicinò al letto e si nascose sotto al le coperte senza fare rumore.
Capitolo XVI
La vita, come un cavallo che sia rimasto fermo a lungo, cominciò a muoversi a balzi, senza più piegarsi allo sfor zo delle persone che volevano dirigerla nel modo crude le e insensato in cui la guidavano prima. Ogni sera nel l’ufficio della polizia segreta si parlava in toni allarmanti dei nuovi segni di agitazione generale che animavano la gente, dei gruppi segreti in cui si organizzavano i con tadini che avevano deciso di prendere le terre ai proprie tari, delle riunioni degli operai che cominciavano a criticare apertamente il governo e della forza dei rivolu zionari che cresceva visibilmente di giorno in giorno. Fi lipp Filippovič affliggeva incessantemente gli agenti con la sua voce sottile che infastidiva le orecchie, ricoprendo tutti di rimproveri per la loro pigrizia, Jasnogurskij schioccava mestamente le labbra e li esortava stringendo si le mani al petto: «Ragazzi miei! Ricordatevi che lo zar non si dimenti ca di chi lo serve!». Ma quando Krasavin gli chiese cupo: « Dunque cosa dobbiamo fare?» cominciò ad agitare le braccia, spalancò in modo strano la bocca nera e profonda, per un po’ non riuscì a dire nulla e poi gridò: « Prendeteli! ». Evsej sentì l’elegante Leont’ev che tossicchiando di ceva a Saša:
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« È evidente che i nostri metodi di lotta ai sovversivi non sono efficaci in questi giorni di follia generale». « Eh sì, un incendio non si può spegnere con uno spu to!» rispose Saša con la sua voce sibilante e una smorfia beffarda sul volto. Tutti si lamentavano, si adiravano, gridavano; Saša tra scinava le sue gambe lunghe ed esclamava con aria di scherno: «C os’è, i rivoluzionari stanno avendo la meglio?». Le spie si affaccendavano giorno e notte, ogni sera con segnavano alla direzione lunghi rapporti sulle loro inda gini e si dicevano a vicenda in tono cupo: « Ma ora come ora tutto questo è davvero necessario?». «Ci metteranno sotto con il lavoro!» disse Pëtr, e pie gando le dita delle mani unite le fece scricchiolare. « Se non ci rimettiamo la pelle, ci tolgono dall’orga nico - gli fece tristemente eco Solov’ëv —Se almeno ci des sero la pensione, voi cosa dite?». «Altro che pensione, ci daranno un cappio da metter ci al collo!» disse tetro Mel’nikov. I colleghi che fino a poco tempo prima Evsej consi derava spaventosi e gli sembravano infallibili, ora turbina vano per le strade della città come foglie secche. Guardava meravigliato le altre persone: semplici e fi duciose si muovevano coraggiose, superando a cuor leg gero ogni ostacolo che incontravano sul loro cammino. Li paragonava alle spie, che di nascosto si trascinavano stan che per strade e palazzi, pedinando gli altri per mandarli in prigione e capiva chiaramente che le spie non crede vano nel loro lavoro. In particolare gli piaceva Ol’ga con la pietà viva e ri soluta che provava verso le persone, gli piaceva quel chiac chierone un po’ spavaldo di Jakov e lo spensierato Aleksej, pronto a dare i suoi quattro soldi e la sua ultima camicia al primo che gliel’avesse chiesta.
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Vedendo che la struttura per la quale aveva lavorato sottomesso fino a quei giorni si andava disfacendo, Evsej cominciò a cercare una strada che gli permettesse di evi tare l’ineluttabilità del tradimento. Fece questo ragiona mento: «Se io continuo a frequentarli, non posso non tradir li. Passarli alla competenza di un altro è ancora peggio. Bi sogna che dica loro tutto. Stanno diventando sempre più forti, dalla loro parte starò meglio». E, lasciandosi trasportare dall’attrazione per quelle per sone per lui nuove, andava da Jakov sempre più spesso, in modo sempre più insistente cercava di organizzare de gli incontri con Ol’ga, e dopo ognuno di questi appun tamenti sottovoce raccontava in dettaglio a Saša ciò che avevano detto e cosa pensavano di fare. Ed era piacevole parlare di loro: ripeteva i loro discorsi con un piacere se greto. «Eh, quanto sei indolente! - diceva Saša con la sua vo ce nasale, irritato e canzonatorio, guardando Klimkov con gli occhi spenti —Spingili tu ad agire. Glielo hai detto che puoi procurargli i caratteri da stampa? Rispondi, idiota!». «No, non glielo ho ancora detto». « Beh, cosa stai lì a cincischiare? Domani devi propor glielo!». Per Klimkov era facile eseguire l’ordine di Saia: Jakov e O l’ga gli avevano già chiesto se poteva procurarsi dei caratteri e lui aveva risposto in modo vago. Il giorno seguente verso sera andando da Ol’ga senti va nel petto quel vuoto scuro che si impadroniva sempre di lui nei momenti di tensione nervosa. La decisione di eseguire quel compito era stata introdotta in lui da una volontà estranea che non aveva bisogno di mettere in dub bio. Questa decisione si accresceva e si espandeva dentro di lui, respingendo tutte le paure, gli imbarazzi e le sim patie.
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Ma quando nella stanza piccola e male illuminata si trovò davanti all’alta figura di Ol’ga e alla sua grande om bra che si proiettava sul muro e gli si muoveva lentamen te incontro, Klimkov si confuse, si intimidì e si fermò in silenzio sulla porta. «Cosa avete? Non vi sentite bene?» disse Ol’ga strin gendogli la mano. Alzò la fiamma della lampada e versando il tè continuò: «Avete un aspetto molto sciupato». A Klimkov venne voglia di concludere quella faccen da al più presto. « Il fatto è questo, mi dicevate che vi servivano dei ca ratteri». «Sì, sono sicura che ce li procurerete». Pronunciò queste parole con semplicità e per Evsej fu come ricevere un colpo. Stupito, si appoggiò allo schiena le della sedia e chiese con voce sorda: «E come fate a saperlo?». «A suo tempo non diceste né sì, né no, e io interpre tai che probabilmente ce li avreste dati». Evsej non capì e, cercando di evitare il suo sguardo, chiese di nuovo: «Perché quindi?». « Probabilmente perché vi considero una persona seria e mi fido di voi». «Non dovete fidarvi!» disse Evsej. « Beh, ora basta. Voglio fidarmi ». «E se vi sbagliaste?». La ragazza si strinse nelle spalle. « È forse possibile non fidarsi di una persona, creden do a priori che sia bugiardo e malvagio?». « Posso farvi avere i caratteri » disse Evsej sospirando. Il compito era stato portato a termine. Ora sedeva a te sta china con le mani strette fortemente tra le ginocchia e ascoltava le parole della ragazza.
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Ol’ga, con i gomiti appoggiati sul tavolo, spiegava a mezza voce quando e come doveva portare ciò che aveva promesso. Ora che aveva compiuto il suo dovere di agen te, dal fondo della sua anima cominciò a salire lentamen te una nausea opprimente e quel sentimento nocivo si diffondeva tormentosamente in lui spaccandogli sempre più il cuore in due. «Avete notato —diceva piano la ragazza —come fan no presto le persone a conoscersi? Tutti cercano degli amici, li trovano e acquisiscono sempre più fiducia e co raggio». Era come se le sue parole gli sorridessero. Non riuscen do a guardare Ol’ga in viso, Klimkov seguiva con gli oc chi la sua ombra sul muro e mentalmente disegnava su di essa gli occhi azzurri, la bocca piccola con le labbra pal lide e il viso un poco stanco, ma dolce e buono. « E se ora le dicessi che è tutto un inganno per rovi narla?» si domandava. «Il falegname Zimin, voi lo conoscete?» le chiese im provvisamente. «No, perché?». Evsej fece un sospiro profondo. «Niente, anche lui è una brava persona». « Se avesse conosciuto il falegname - realizzò lentamen te Klimkov —le avrei detto di chiedere di me a lui. Allo ra forse...». Gli sembrò che la sedia scivolasse sotto di lui e che la nausea stesse per salirgli fino alla bocca. Si raschiò la go la e guardò la stanza piccola e modesta. Alla finestra la lu na spendeva rotonda come la faccia di Jakov, la fiamma della lampada pareva fastidiosa e superflua. « E se ora spegnessi la luce, mi inginocchiassi davanti a lei, le abbracciassi le gambe e le dicessi tutto, mi dareb be una pedata?». Ma questo pensiero non lo frenò. Si alzò pesante dalla
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sedia e protese il braccio verso la lampada, ma il braccio ricadde fiacco, gli tremarono le gambe e barcollò. «Che cosa vi succede?» chiese Ol’ga. Cercando di rispondere Evsej iniziò a gemere piano, si mise in ginocchio e cominciò a stringere il suo vestito con le mani tremanti. La ragazza si appoggiò sulla fronte di Klimkov con una palma della mano ardente e con l’altra mano lo prese per una spalla, ritirò le gambe sotto alla sedia e disse severamente: «No, no! Così non va bene. Non posso. Alzatevi dun que!». Il tepore del corpo di Ol’ga risvegliò in Evsej un for te desiderio che gli faceva percepire le spinte delle sue ma ni come delle carezze conturbanti. «N on è una santa!» gli balenò in testa e cominciò a stringere le ginocchia della ragazza ancora più forte. «Vi dico di alzarvi!» gridò Ol’ga non più con il tono di una richiesta, ma di un ordine. Si rialzò senza riuscire a dire niente. « Cercate di capirmi » borbottò il ragazzo allargando le braccia. «Sì, sì, capisco... Dio mio, sempre il solito problema!» esclamò e, guardandolo in viso, disse severa: «Sono stufa!». Era in piedi vicino alla finestra, tra lei ed Evsej c’era il tavolo. Un freddo sconcerto avvolse il cuore di Klimkov, nel quale bruciava anche un doloroso senso di vergogna. «Non venite più a trovarmi, ve ne prego!». Evsej prese il cappello, si gettò il cappotto sulle spalle e se ne andò chino. Qualche minuto dopo era seduto su una panchina presso il portone di un palazzo e mormorava cercando di fomentare la propria ira: «Sgualdrina!». Ripeteva mentalmente le parole ingiuriose sulla donna,
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cercando di coprire con esse la sua figura alta e slanciata per imbrattarla tutta di fango, oscurandola dalla testa ai piedi. Ma le ingiurie non avevano presa, e sebbene Evsej tentasse testardamente di gonfiare la propria rabbia, sen tiva solo l’umiliazione. Guardava la luna rotonda e solitaria, che si muoveva per il cielo a balzi, come se saltasse, come fosse un gran de pallone luminoso ed Evsej sentiva il rumore silenzio so del suo movimento, simile al battito del cuore. Non gli piaceva quella sfera pallida e malinconica: in tutti i mo menti difficili della sua vita era come se lo osservasse con fredda insistenza. Era tardi ma la città non dormiva an cora e nell’aria c’erano vari suoni. « Prima le notti erano più tranquille » pensò Klimkov. Si alzò e cominciò a camminare senza infilarsi le mani che del cappotto e con il cappello inclinato da un lato. «Va be’, aspetta! —pensò —Li denuncerò e poi chie derò di essere trasferito in un’altra città». Per tre volte portò a Makarov dei pacchi di caratteri, venne a sapere dove si trovava l’appartamento in cui avreb bero allestito la tipografìa ed ebbe l’onore di essere elo giato pubblicamente da Saša: «Bravo, riceverai una ricompensa!». Evsej rimase indifferente alle sue lodi e quando Sa.ša se ne fu andato gli saltò agli occhi il volto magro e affilato di Maklakov. La spia, seduta su un divano in un angolo buio della stanza, guardava il viso di Evsej giocherellati do con i baffi. Nel suo sguardo c’era qualcosa che lo tur bava e Evsej si girò dall’altra parte. «Klimkov, vieni un po’ qui!» chiamò la spia. Klimkov si avvicinò e si sedette sul divano. «È vero che stai facendo arrestare tuo fratello?» chie se Maklakov sottovoce. «Mio cugino...». «Non ti dispiace?».
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«N o». E ricordando le parole che spesso dicevano i superio ri, Evsej le ripete piano: «Per noi, come per i soldati, non esistono né madre, né padre, né fratelli, ma solo nemici dello zar e della patria». « Certamente! » disse Maklakov ridacchiando. Dal tono di voce e dalla risata Klimkov capi che la spia si stava prendendo gioco di lui e ci rimase male. « Può anche darsi che mi dispiaccia, ma quando devo fare il mio dovere onestamente e lealmente...». «Non ho mica detto niente, scemo!». Poi si accese una sigaretta e domandò a Evsej: «Perché rimani qui?». «Cosi, non ho niente da fare». Maklakov gli diede una pacca sul ginocchio e disse: «Quanto sei infelice!». Evsej si alzò. «Timofej Vasil’evič...». «Cosa c’è?». «Ditemi...». «Dirti cosa?». «Non so...». «Beh, neanch’io!». Evsej mormorò in un sussurro: «M i dispiace per mio cugino. E c’è anche una ragaz za tra loro... Sono tutti molto migliori di noi, credetemi!». Anche la spia si alzò in piedi, si stirò e incamminando si verso la porta disse freddo: «M a va’ al diavolo!».
Capitolo XVII
Giunse la notte in cui era stato stabilito di arrestare Ol’ga, Jakov e tutti coloro che erano coinvolti nell’affare della ti pografia. Evsej sapeva che la tipografia si trovava in un giardino, in una costruzione annessa. Lì vivevano Kostja, un uomo grosso con la barba rossa, e sua moglie, grassa e butterata, e Ol’ga era la loro serva. Kostja aveva la testa ra sata e sua moglie aveva il viso grigiastro e gli occhi vacui: ad Evsej sembravano persone fuori di senno, che fossero rimaste per molto tempo in ospedale. «Sono spaventosi!» aveva notato Evsej quando Jakov glieli aveva mostrati nell’appartamento di Makarov. Jakov, che amava vantarsi delle sue conoscenze, scrol lò fiero la testa ricciuta e spiegò con importanza: «Dipende dalla vita difficile che conducono. Lavora no negli scantinati di notte, c’è umidità, manca l’aria. Si riposano solo quando vanno in prigione, con una vita co sì chiunque sarebbe disfatto». A Klimkov venne voglia di vedere Ol’ga per l’ultima volta, così si informò su quali strade percorrevano le per sone arrestate per arrivare alla prigione e andò loro in contro cercando di convincersi che quanto stava accaden do non lo toccava e pensando della ragazza: «Probabilmente si spaventerà, piangerà». Camminava tenendosi nell’ombra come sempre, pro vava a fischiettare spensierato, ma non riusciva a fermare
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il flusso articolato dei suoi ricordi su Ol’ga. Vedeva il suo viso calmo, gli occhi fiduciosi, sentiva la sua voce un po’ rauca e si ricordava delle sue parole: « Sbagliate a parlare così male delle persone, Klimkov. E forse possibile che voi non abbiate mai niente da rim proverarvi?». Mentre la ascoltava, aveva sempre la sensazione che Ol’ga dicesse delle cose giuste. E anche ora non aveva mo tivo per dubitarne, ma provava il puro desiderio di ve derla spaventata e in lacrime. In lontananza si cominciarono a sentire lo scricchio lio delle ruote di una carrozza sulle pietre e il rumore de gli zoccoli dei cavalli. Klimkov si addossò a un portone e restò in attesa. Gli passò davanti una carrozza, la guardò indifferente e vide due volti cupi: la barba bianca del vet turino e i grandi baffi del poliziotto di quartiere che gli se deva accanto. « Ecco, è tutto finito - pensò - e non mi è toccato nem meno vederla». Ma in fondo alla strada cominciò di nuovo a tintin nare una carrozza: andava veloce, si sentivano i colpi del la frusta sul corpo del cavallo e il suo respiro stanco e af fannato. Gli sembrava che quei suoni fossero sospesi in aria immobili e sarebbero rimasti così per sempre. Avvolta in un fazzoletto, Ol’ga sedeva sulla carrozza accanto a un giovane gendarme; di fianco al vetturino spuntava un poliziotto. Gli balenò davanti il viso noto, bianco e buono. Prima ancora di vederlo Evsej capì che Ol’ga era assolutamente tranquilla, non era minimamen te spaventata. Per qualche motivo si rallegrò di colpo e co me rispondendo a un interlocutore spiacevole disse: «Non piangerà!». Chiuse gli occhi e rimase fermo ancora per qualche tempo, poi sentì dei passi, il rumore degli speroni e capì che stavano conducendo in prigione gli uomini arrestati.
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Allora partì di scatto, cercando di non fare rumore con i tacchi, corse veloce lungo la strada, girò l’angolo e, stan co e fradicio di sudore, arrivò a casa. La sera dopo Filipp Filippovič, puntandogli addosso le sue lenti azzurre, gli disse in modo solenne e con la vo ce ancora più stridula del solito: « Mi congratulo con te, Klimkov, per il grosso succes so ottenuto e spero che questa sarà la prima di una lunga serie di grandi imprese». Klimkov poggiava ora su un piede ora sull’altro e pian piano allargò le braccia, come per liberarsi da catene in visibili. Nella stanza c’erano delle spie che ascoltavano in silen zio la voce stridente del loro superiore e guardavano Evsej. Questi sentiva i loro sguardi sulla pelle e si trovava a disagio. Quando Filipp Filippovič ebbe finito di parlare, Ev sej gli chiese a bassa voce se poteva essere trasferito in un’altra città. « Sciocchezze, amico mio! —gli rispose secco —Non ti vergogni a essere cosi codardo? Cos’è mai questo? Hai ot tenuto il tuo primo successo e vuoi scappare via? Lo so io quando è necessario trasferire qualcuno, ora vai!». La ricompensa gli fu consegnata da Saša, che lo chiamò dicendo: «Ehi tu, moccioso! Ecco, prendi». E toccando con la sua mano gialla e sudata le mani di Evsej, vi infilò una banconota e se ne andò. Accorse Jakov Zarubin. «Quanto ti ha dato?». «Venticinque rubli» rispose Klimkov, dispiegando il biglietto con le dita tremanti. «E quante persone hai fatto arrestare?». «Sette».
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Zarubin alzò gli occhi al soffitto e cominciò a borbot tare: «Tre per sette ventuno, poi quattro diviso sette, in tut to fa tre rubli e cinquanta copechi a persona». Fischiò piano e, guardatosi intorno, disse sussurrando: «A Saša ne hanno dati centocinquanta e ha presenta to un conto di sessantatre rubli per le spese sostenute in quell’affare. A noi poveri scemi ci fregano! Allora, cosa aspetti, devi offrirmi qualcosa per festeggiare!». «Andiamo» disse Klimkov, guardando i soldi di sot tecchi senza decidersi a metterli in tasca. Si incamminarono e per strada Zarubin disse con fa re esperto: «Comunque, evidentemente i tuoi tipi erano della gentaglia...». «Perché? - domandò Evsej stizzito - Non erano af fatto della gentaglia». «Ti hanno dato poco! Guarda che io lo so come fun ziona, non mi inganni! Krasavin per aver preso un rivo luzionario ha ricevuto cento rubli qui e altri cento da Pie troburgo. Solov’ev per una signora cospiratrice ha avuto settantacinque rubli. Capisci? E Maklakov? Supponiamo che catturi avvocati, professori, scrittori; la tariffa per que ste persone è speciale». Parlava senza tregua e Klimkov era contento del suo blaterare perché gli impediva di pensare. Arrivarono a una casa di tolleranza. Zarubin con la vo ce chiassosa del frequentatore abituale cominciò a chiede re all’amministratrice alta, magra e curva: «Lidija sta bene? E Kapitolina? Ecco, Evsej, tu fai co noscenza con Kapitolina, è un pezzo di ragazza! Bruto che non sei altro! Ti insegnerà cose che senza di lei neanche in cento anni impareresti mai. Portateci della limonata e del cognac. Prima di tutto, Evsej, bisogna bere del co gnac con la limonata, è una specie di champagne, ti fa im pennare subito!».
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«Per me è indifferente» rispose Klimkov. La casa di tolleranza era di lusso, alle finestre erano ap pese tende sfarzose, i mobili sembravano a Evsej fuori dal comune, le ragazze, tutte ben vestite, erano fiere e inacces sibili e tutto questo lo metteva a disagio. Si rannicchiò in un angolo, cedendo il passo alle ragazze, che gli sfilavano davanti come senza vederlo, sfiorandogli le gambe con le loro gonne. Una massa opprimente di corpi seminudi flut tuava pigra, gli occhi truccati ruotavano incessantemen te nelle orbite. «Sono degli studenti?» chiese una ragazza dai capelli rossi alla sua amica, una brunetta grassa, con il seno alto nudo e un nastro azzurro al collo. Questa le sussurrò qual cosa all’orecchio e la rossa fece una smorfia a Evsej. Klimkov le girò le spalle e disse scontento a Zarubin: «Sanno chi siamo!». « E come no, certo! È per questo che ci fanno entrare a metà prezzo e poi ci fanno uno sconto del venticinque per cento ». Evsej bevve due calici della bevanda dolce e spumeg giante, che però non lo rese più allegro e aumentò la sua indifferenza verso l’ambiente circostante. Al tavolo con loro si sedettero due ragazze: Lidija, al ta e robusta, e la grossa e pesante Kapitolina. Lidija ave va la testa piccola, sproporzionata rispetto al corpo, la fronte bassa, il mento aguzzo e molto sporgente, la boc ca rotonda con i dentini piccoli come quelli di un pesce e gli occhi scuri e furbi. Kapitolina invece sembrava for mata dalla sovrapposizione di sfere di diversa grandezza; anche i suoi occhi sgranati avevano la forma di una sfera ed erano torbidi come quelli di un cieco. Zarubin, scuro e instancabile come una mosca, gira va la testa, muoveva le gambe e con le sue piccole mani olivastre che volavano sopra al tavolo afferrava tutto, ta stava, annusava. Di colpo Evsej sentì che Zarubin gli su scitava un’irritazione forte e cieca.
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« Che carogna! - pensò - Con i miei soldi a me ha da to un mostro e lui se ne è scelta una bella». Si versò un bicchiere di cognac, lo trangugiò e per il bruciore aprì la bocca e strabuzzò gli occhi. «Mica male!» esclamò Jakov. Le ragazze scoppiarono a ridere e per un minuto Evsej rimase sordo e cieco come se dormisse. «Vedi Evsej, Lidija è per me un amico fedele, è buo na e intelligente! —lo svegliò Zarubin tirandolo per una manica - Quando mi sarò guadagnato la benevolenza dei nostri superiori, la porterò via da qui, la sposerò e la sistemerò in una attività commerciale mia. E vero mia cara?». «Vedremo, vedremo» rispose la ragazza, indirizzando gli un’occhiata languida con i suoi occhi untuosi. «E tu, tesoruccio, perché non parli?» chiese Kapitoli na con voce di basso, dando delle pacche sulla spalla di Ev sej con la sua grossa mano. «Lei dà del tu a tutti» notò Jakov. « Per me è lo stesso » disse Evsej senza guardare la ra gazza. Poi, scostandosi da lei, aggiunse: «Però dille che non mi piace e che se ne vada pure». Tutti rimasero in silenzio per qualche secondo. «Andate al diavolo!» disse con voce bassa e tranquilla Kapitolina e, appoggiandosi con la mano sul tavolo, alzò lentamente dalla sedia il corpo pesante. A Evsej dispiacque che non ci fosse rimasta male, la guardò e le disse: «Razza di elefante...». «Oh, che maleducazione!» gridò Lidija dispiaciuta. «Eh sì, Evsej, amico mio, questa è proprio maleduca zione! - ripetè convinto Zarubin - Kapitolina Nikolaev na è una ragazza splendida e tutte le persone assennate la apprezzano». « E a me non importa nulla —disse Evsej - Voglio del la birra».
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« Ehi, portate della birra! —gridò Zarubin —Kapitoli na cara, siate gentile, occupatevi della birra». La ragazza grassa si voltò e, strascicando i piedi sul pa vimento, se ne andò in silenzio. Zarubin, chinandosi ver so Evsej, con voce insinuante e saccente cominciò: «Vedi, Evsej, qui certo siamo in una casa di tolleran za eccetera, ma le ragazze sono persone come me e te, per ché devi umiliarle con una cafonaggine inutile?». «Lasciami stare!» disse Klimkov. Desiderava che intorno ci fosse silenzio, che le ragaz ze smettessero di fluttuare in aria come i tristi brandelli di una nube autunnale e che il pianista rasato con il viso bluastro come quello di un annegato smettesse di battere le dita sui denti gialli del pianoforte, simile alla mascella di un mostro dalla risata forte e stridula. Desiderava che tutti si sedessero in silenzio sulle sedie e vi rimanessero im mobili e che le tende alle finestre non si muovessero in modo così strano come tirate da una mano invisibile e osti le dalla strada. Sperava che sulla soglia comparisse Ol’ga ve stita di bianco; allora si sarebbe alzato, avrebbe fatto il gi ro della stanza e avrebbe colpito in volto ogni persona: che Ol’ga vedesse pure come tutti gli ripugnavano! Sulle sue orecchie si posarono moleste le parole lamen tose di Zarubin: «Siamo venuti per divertirci e tu cominci subito a fa re una scenata». Evsej si scosse, lo guardò in viso con gli occhi torbidi e improvvisamente con fredda lucidità si disse: « E tutta colpa di questo figlio di un cane. Per colpa sua sono finito in questo pasticcio. Tutto a causa sua!». Prese in mano la bottiglia di birra, si versò un bicchie re, lo bevve e, senza appoggiare la bottiglia, si alzò dalla sedia. «I soldi sono miei e non tuoi, carogna!» disse. «E allora? Siamo amici, no...».
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La testa scura, rasata e ispida di Zarubin si rovesciò all’indietro e Evsej vide gli occhietti acuti e lucenti sul vol to scuro con i denti aguzzi. «Tu siediti» disse. Klimkov brandendo la bottiglia la lanciò in faccia a Jakov mirando agli occhi. Il sangue scarlatto cominciò a brillare oleoso, suscitan do in Klimkov una gioia furente. Agitò di nuovo in aria la mano, versandosi addosso la birra. Intorno echeggiò il clamore, cominciarono le grida e tutto si mise a vacilla re, qualcuno piantò le unghie nelle guance di Klimkov, lo afferrarono per le braccia e per le gambe, lo sollevaro no dal pavimento e si misero a trascinarlo. Intanto qual cun altro gli sputava in faccia una bava tiepida e appicci cosa, gli stringeva la gola e gli strappava i capelli. Riprese conoscenza alla stazione di polizia, bagnato, pieno di graffi e con i vestiti stracciati. Si ricordò subito tutto e per la prima volta senza avere paura pensò: «E ora che cosa succederà?». L’impiegato del comando di polizia che lo conosceva gli consigliò di lavarsi la faccia e andare a casa. «Mi processeranno?» chiese Klimkov. «Non lo so» disse il poliziotto e, sospirando, aggiun se invidioso: « È poco probabile, a voi vi trattano con particolare riguardo ». Qualche giorno dopo Evsej fu chiamato da Filipp Filippovič, che gli gridò contro a lungo e con voce stri dula. «Idiota! Tu dovresti dare a tutti l’esempio di come ci si deve comportare e non piantare delle grane! Se vengo a sapere ancora qualcosa di simile su di te, ti metto agli ar resti per un mese, hai capito?». Klimkov si spaventò, chinò il capo e cominciò a vivere pian piano, in silenzio, senza attirare l’attenzione, cercan do di stancarsi il più possibile per non pensare a niente.
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Quando incontrò Jakov Zarubin, vide che aveva sopra all’occhio destro una piccola cicatrice rossa. Questo nuo vo segno sul volto elastico dell’agente gli piaceva e la con sapevolezza di aver trovato in sé la forza e il coraggio per picchiare una persona, aveva accresciuto la sua stima di se stesso. «Perché mi hai colpito?» chiese Jakov. « Così —disse Evsej —ero ubriaco ». «Accidenti, diavolaccio! Eppure lo sai quanto è impor tante la faccia nel nostro mestiere! E tu me la volevi rovi nare!». E Zarubin pretese che Evsej gli offrisse un pranzo so stanzioso.
Capitolo XVIII
Tra le spie si diffuse la voce che anche alcuni ministri si erano lasciati corrompere dai nemici dello zar e della Rus sia e avevano organizzato una congiura per togliere il po tere all’imperatore e sostituire al loro buon vecchio gover no un altro sistema preso dagli stati esteri e dannoso per il popolo russo. Da poco era stato pubblicato un manife sto, simulando che fosse per volontà e con il consenso del lo zar, con il quale si informava il popolo che presto avreb be avuto la libertà di radunarsi in massa dove voleva e di parlare di ciò che gli interessava e di scrivere e stampare sui giornali tutto ciò di cui aveva bisogno. Gli avrebbero dato persino la libertà di non credere in Dio. Filipp Filippovič di nascosto conversava per ore con Krasavin, Saša, Solov’ëv e altri agenti esperti. Da questi incontri ne uscivano tutti accigliati e preoccupati e rispon devano alle domande dei compagni in modo laconico c incomprensibile. Una volta attraverso la porta semiaperta dello studio di Filipp Filippovič la voce di Saša, rotta dall’agitazione, arrivò fino all’ufficio: « Con loro non bisogna parlare della costituzione o di po litica, ma del fatto che il nuovo sistema di governo li distrug gerà: le persone tranquille creperanno di fame e i ribelli mar ciranno in prigione. Chi abbiamo in servizio? Dei dementi, dei degenerati, dei malati mentali, degli animali stupidi!».
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«Lo sa Dio cosa state dicendo!» gridò forte Filipp Filippovič. Poi risuonò la voce triste di Jasnogurskij: «M a che progetto avete? Non riesco a capire, caro mio, quali sono le vostre intenzioni ». Nell’ufficio c’erano Pëtr, Grochotov, Evsej e altre due nuove spie: uno aveva i capelli rossi, il naso adunco, del le grosse lentiggini sul volto e degli occhiali d’oro; l’altro era rasato, calvo, con le guance rosse, il naso largo e una macchia purpurea sul collo vicino all’orecchio sinistro. Ascoltando attentamente il discorso di Saša, si guardava no l’un l’altro con la coda dell’occhio e rimanevano in si lenzio. Pëtr si alzò diverse volte in piedi, si avvicinò alla soglia e infine tossì forte e in quell’istante una mano in visibile chiuse la porta del tutto. La spia calva si tastò cautamente il naso con le grosse dita e chiese a bassa voce: «Chi è che ha definito dei degenerati?». All’inizio nessuno gli rispose, poi Grochotov sospirò rassegnato e disse: « Dice così di tutti ». « Briccone matricolato! - esclamò Pëtr, sorridendo con aria sognante - È tutto marcio e, guardate un po’, diventa sempre più potente. Ecco cosa vuol dire essere istruiti!». Il calvo guardò tutti con i suoi occhi miopi e si informò dubbioso: «M a cos’è, parlava di noi?». « La politica è una faccenda per gente furba, non si fer ma davanti a niente» disse Grochotov. « Se avessi ricevuto un’educazione, mi giocherei le mie carte!» dichiarò Pëtr. Il rosso si dondolava spensierato sulla sedia e sbadiglia va spesso spalancando la bocca. Saša uscì dallo studio rosso in viso e scarmigliato, si fermò vicino alla porta, lanciò un’occhiata a tutti e chie se canzonatorio:
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«Avete origliato?». Gli agenti arrivavano uno dopo l’altro, sudati, impol verati e stanchi e si scambiavano di fretta varie informazio ni. Comparve Maklakov, irritato, accigliato, con lo sguar do acuto e insolente. Stringendo gli occhi entrò in fretta nello studio di Krasavin e sbattè rumorosamente la porta. Saša disse a Pëtr: « Ci sarà uno scambio di posizioni: noi diventeremo una società segreta e loro rimarranno apertamente degli idioti, ecco cosa accadrà! Ehi! —gridò —Che nessuno se ne vada!». Tutti si calmarono e tacquero. Dallo studio usci Jasnogurskij, con le carnose orecchie a sventola che sembrava no appiattirsi verso la nuca, e tutto il suo aspetto sembra va viscido come un pezzo di sapone. Camminando tra la folla delle spie stringeva loro le mani, calmo e gentile an nuiva con il capo e improvvisamente si fermò in un an golo dove cominciò a parlare con voce piagnucolosa: « Fedeli servi dello zar, vi parlo del profondo del mio cuore colmo di dolore. Mi rivolgo a voi, persone ardite, irreprensibili, figli fedeli di vostro padre, lo zar, e vostra madre, la chiesa ortodossa». Ecco che attacca a piangere!» bisbigliò qualcuno vici no a Esvej, ma a Klimkov pareva che Jasnogurskij stesse imprecando brutalmente. «Conoscete già la nuova trovata dei nostri nemici, la loro nefasta iniziativa, avete letto l’annuncio del ministro Bulygin in cui si sostiene che il nostro zar avrebbe espres so il desiderio di rinunciare al potere conferitogli da Dio sulla Russia e sul popolo russo. Tutto questo, miei cari fratelli e compagni, non è altro che il gioco diabolico di persone che hanno venduto la loro anima ai capitalisti stranieri, un nuovo tentativo di distruggere la santa Rus sia. Che cosa sperano di ottenere con questa duma che
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promettono? Quali obiettivi vogliono raggiungere con la costituzione e la libertà?». Le spie gli si raccolsero intorno. «Nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo, guardiamo gli intrighi del diavolo alla luce della verità, af frontiamoli con il nostro semplice intelletto russo e vedre mo come andranno in fumo sotto i nostri occhi. Ecco, ve dete, vogliono togliere allo zar la sua forza divina e la libertà di governare il paese concessegli dall’alto, voglio no organizzare le elezioni perché il popolo mandi allo zar chi vuole e perché queste persone promulghino delle leg gi, riducendo il potere dell’imperatore. Sperano che il no stro popolo, ignorante e ubriaco, si farà corrompere con il vino e con i soldi e manderà allo zar quelli che gli sa ranno indicati dai traditori liberali e dai rivoluzionari e si tratterà di ebrei, polacchi, armeni, tedeschi e altre et nie nemiche della Russia». Klimkov vide che Saša, in piedi dietro a Jasnogurskij, sorrideva con fare canzonatorio, come un demonio, e per non farsi notare dall’agente malato, chinò la testa. « Questo branco di imbroglioni corrotti circonderà il trono solenne del nostro zar e chiuderà i suoi occhi sapien ti riguardo al destino della patria. La Russia verrà messa in mano alle etnie nemiche e agli stranieri: gli ebrei co stituiranno il loro regno, i polacchi il proprio, così pure gli armeni con i georgiani e i lettoni e altri mendicanti che la Russia ha accolto sotto la sua grande ala protettrice. Tutti costituiranno i loro regni e quando noi russi reste remo soli, allora, allora vorrà dire che...». Saša, in piedi vicino a Jasnogurskij, cominciò a bisbi gliargli nell’orecchio. Il vecchio arrabbiato lo cacciò con la mano e si mise a parlare a voce più alta: «Allora su di noi si riverseranno i tedeschi e gli in glesi e ci prenderanno nelle loro avide grinfie. Ci aspet ta la distruzione della Russia, miei cari amici, state at tenti!».
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Dopo aver gridato le ultime parole del discorso rima se in silenzio per un minuto, poi sollevò le braccia sopra alla testa e incominciò di nuovo: « Ma il nostro zar ha dei servi fedeli che difenderanno la sua forza e la sua gloria come cani incorruttibili. Ed ec co che hanno fondato una società per la lotta contro le im prese meschine dei rivoluzionari, contro ogni costituzio ne e qualsiasi altra porcheria dannosa per noi, autentici russi. Fanno parte di questa società conti e principi, cele bri per i loro meriti verso lo zar e la Russia, governatori, devoti alla volontà dell’imperatore e agli insegnamenti dei tempi antichi, e probabilmente perfino gli stessi grandi...». Saša fermò di nuovo Jasnogurski, il vecchio lo ascoltò sino alla fine, si fece rosso in viso, cominciò ad agitare le braccia e di colpo si mise a gridare: « E allora parlate! Cos’è mai questo! Che diritto ave te? Non voglio». Fece uno strano salto e, facendosi largo tra la folla di spie, se ne andò. Ora al suo posto c’era Saša. Alto e un po’ gobbo, allungò la testa in avanti, guardando tutti in silenzio con i suoi occhi rossi e fregandosi le mani. « Beh, avete capito qualcosa?» la sua domanda risuonò secca. «Sì, abbiamo capito» risposero alcune voci basse sparse. «Lo credo» esclamò irrisorio Saša e in modo incredi bilmente chiaro, con astio e forza, incominciò a parlare: «Ascoltate, e che quelli più intelligenti spieghino pu re le mie parole agli sciocchi. I rivoluzionari, i liberali e la nostra nobiltà russa in generale hanno vinto, avete ca pito? Il governo ha deciso di arrendersi alle loro richieste e vuole concedere loro la costituzione. Che cosa significa per voi la costituzione? La morte per fame, perché siete de gli sfaticati e dei fannulloni incapaci di lavorare; per mol ti la prigione, perché diversi di voi se la sono meritata; per altri l’ospedale, il manicomio, perché tra di voi c’è un
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intero gruppo di dementi e mentecatti. Il nuovo sistema di governo, se verrà costituito, vi schiaccerà nel giro di po co tempo. Il dipartimento di polizia sarà soppresso, i re parti della polizia segreta saranno chiusi e voi sarete but tati in strada. Questo vi è chiaro?». Tutti tacevano come impietriti. Klimkov pensò: «Allora me ne andrei da qualche parte...». « Penso che vi sia chiaro » disse Saša e dopo essere ri masto un po’ in silenzio, abbracciò di nuovo tutti con lo sguardo. La rossa coroncina di foruncoli sulla sua fronte si era come propagata per tutto il volto che aveva assun to un colore plumbeo e bluastro. « Questo nuovo sistema non è conveniente per voi, quindi bisogna lottare, capito? Per chi e per quali inte ressi lotterete? Per voi, per i vostri interessi personali, per il vostro diritto a vivere così come avete vissuto sino a ora. È chiaro? Cosa potete fare? Rifletteteci!». Nella aria soffocante della stanza echeggiò improvvi samente un pesante colpo di tosse, come se un enorme petto malato avesse emesso un sospiro iniziando a ranto lare. Una parte degli agenti cominciarono ad andarsene cupi in silenzio, a testa bassa, qualcuno bofonchiava ir ritato. «A cosa servono tutti questi discorsi? Sarebbe meglio se ci aumentassero lo stipendio...». «C i spaventano e basta, ci spaventano sempre!». In un angolo vicino a Saša si erano raccolte una deci na di persone, Evsej si avvicinò pian piano e udì la voce entusiasta di Pëtr: « Ecco come si deve parlare, due più due fa quattro e basta, così è tutto chiaro!». «No, non sono soddisfatto - diceva mellifluo e insi nuante Solov’ev - “Rifletteteci”, ha detto! Cosa vuol dire “rifletteteci”? Ciascuno può pensare a suo modo, sareb be meglio che ci indicassero che cosa fare».
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Krasavin con tono brusco e insolente gridò. «Ci è stato indicato!». « Io non lo capisco » dichiarò tranquillo Maklakov. Voi? —gridò Saša —Mentite, l’avete capito eccome!». «Non è vero». «E io dico che l’avete capito. Il fatto è che siete un co dardo, un nobile, vi conosco!». « Può anche darsi, - disse Maklakov - ma voi sapete forse che cosa volete?». Lo chiese in modo così freddo e serio che Evsej sus sultò e pensò: « Ora Saša lo picchierà». Ma questi con voce bassa e stridula rispose con una do manda: «Io? Se so quello che voglio?». «Sì». «Ve lo dico subito! - gridò Saša alzando minacciosamen te la voce —Io creperò presto, non ho niente da temere, io sono una persona estranea alla vita, io vivo dell’odio per quel le brave persone, davanti alle quali nei vostri pensieri voi vi inginocchiate. Non siete sottomesso? Bugiardo! Voi siete uno schiavo, un’anima servile, un lacchè, per quanto apparteniate a una famiglia nobile, mentre io sono un conta dino, un contadino che ha aperto gli occhi, e, anche se so no stato all’università, non mi lascio corrompere da nulla». Evsej si fece strada a fatica e si fermò accanto ai due che stavano discutendo, cercando di vedere il volto di en trambi. « Conosco il mio nemico: siete voi, i nobili. Voi domi nate anche tra le spie, ovunque provocate disgusto, ovun que siete odiati, uomini e donne, scrittori e agenti. Co nosco anche il mezzo per liquidarvi, lo so, lo vedo cosa bisogna fare con voi per sterminarvi». « Ecco, questo è interessante, molto più dei vostri iste rismi » disse Maklakov mettendo le mani in tasca.
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«Ah vi interessa? Benissimo, ve lo dico subito». Si vedeva che Saša voleva sedersi, oscillava come un pendolo e si guardava intorno, ansimando mentre parla va in fretta e senza pause: « Chi dirige la società? I nobili! Chi ha rovinato l’uo mo, quell’animale tranquillo, facendone un sudicio maia le, una bestia insensata? Voi, i nobili! Quindi, tutto que sto, tutta la vita deve essere ritorta contro di voi, quindi bisogna incidere tutti gli ascessi e annegarvi nel fiume di pus e di vomito delle persone che avete avvelenato, e che siate maledetti! È giunta l’ora della vostra esecuzione, del la vostra fine, tutto quello che avete rovinato ora si rivol ta contro di voi e vi soffoca, vi schiaccia. Avete capito? Sì, ecco che cosa accadrà. In alcune città hanno già provato quanto sono dure le teste dei signori. Lo sapete, vero?». Barcollò leggermente indietro appoggiandosi con la schiena al muro, allungò le braccia in avanti e una risata gli si strozzò la gola. Maklakov guardò le persone che gli stavano vicino e mettendosi a ridere anche lui domandò a voce alta: «Avete capito cosa sta dicendo?». «Si può dire quello che si vuole!» rispose Solov’ëv, ma aggiunse subito: « Quando si è tra la propria gente. Ma sarebbe più in teressante forse sapere se è vero che a Pietroburgo si è co stituita una società segreta e a che scopo ». « Dobbiamo assolutamente scoprirlo! » disse perento riamente Krasavin. « Forse, amici, davvero questa rivoluzione si sta trasfe rendo in un’altra città!» esclamò Pëtr allegro e vivace. «Se in quella società segreta ci sono veramente dei prìncipi - disse pensieroso e sognante Solov’ëv - allora la nostra situazione si dovrebbe sistemare». «In ogni modo tu continuerai ad avere i tuoi venti mila rubli in banca, vecchio demonio!».
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«Potrebbero essere anche trenta, contali di nuovo!» disse Solov’ev e si mise in disparte indispettito. Saša tossiva rauco e sordo, Maklakov lo guardava cupo. «Cosa avete da guardarmi?» gridò Saša a Maklakov. Questi si voltò e se ne andò senza rispondere. Evsej lo segui istintivamente. «Avete capito qualcosa?» chiese Maklakov a Evsej. «Tutto questo non mi piace». «Ah si? E perché?». « È astioso verso tutto, ma di cattiveria ce n’è abbastan za anche senza di lui». « Ecco, —disse Maklakov annuendo con il capo —ce n’è già abbastanza di cattiveria». « E non si riesce a capire niente —continuò Evsej guar dandosi intorno circospetto —ognuno dice una cosa di versa». La spia spolverò pensieroso il cappello con un fazzolet to e, probabilmente, non senti l’affermazione pericolosa. «Beh, arrivederci!» disse. Evsej avrebbe voluto andare con lui, ma la spia si mi se il cappello e arricciandosi un baffo uscì senza guardare Klimkov. In città cresceva in modo impetuoso un’atmosfera stra na, come in un sogno. Le persone avevano abbandonato completamente la paura e sui volti, fino a poco prima piai ti e remissivi, era comparsa in modo chiaro ed evidente un’aria affaccendata. Sembravano tutti dei carpentieri che si accingono a distruggere un vecchio edificio e valutano con fare pratico da dove sia meglio incominciare il lavoro. Quasi ogni giorno nei sobborghi gli operai organizzava no delle riunioni alla luce del sole alle quali partecipavano dei rivoluzionari noti alla polizia e ai servizi segreti. Queste persone criticavano aspramente lo stato di cose e mostrava no che il manifesto del ministro sulla convocazione della du ina era un tentativo fatto dal governo per calmare il popolo
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sconvolto dalle sciagure, per poi ingannarlo come sempre. Per questo i rivoluzionari cercavano di persuadere tutti a non credere a nessuno eccetto che alla propria testa. E una volta quando un ribelle gridò: « Solo il popolo è il vero e legittimo padrone della vita! A lui devono an dare tutta la terra e tutta la libertà!» in risposta si alzò un grido solenne: «Hai ragione, fratello!». Evsej assordato dall’urlo si girò; dietro a lui c’era Mel’nikov. I suoi occhi ardevano, era scuro e scarmigliato e, battendo le mani come fossero le ali di un corvo, gridava: «Hai ragione!». Klimkov stupito lo tirò per un lembo della giacca e sus surrò piano: « Cosa fate? È un socialista che parla, un sorvegliato della polizia!». Mel’nikov battendo le palpebre domandò: «Lui?». E senza aspettare la risposta gridò di nuovo: «Evviva! Hai ragione!». Poi con una cattiveria feroce disse a Evsej: «Levati dai piedi! Che cosa cambia, dice la verità!». Mentre ascoltava questi discorsi nuovi Evsej sorride va timidamente, si guardava intorno smarrito e cercava nella folla intorno a sé una persona con cui si potesse par lare apertamente, ma quando trovava un volto piacevole che gli ispirava fiducia sospirava e pensava: «Se comincio a parlargli, capirà subito che sono un agente». Sentiva che nei loro discorsi i rivoluzionari parlavano spesso della necessità di istituire sulla terra un’altra vita e questo risvegliava in lui i sogni della sua infanzia. Ma sul terreno instabile della sua anima imbrattata da impres sioni meschine e avvelenata dalla paura, la fiducia cresce va debole, come un bambino rachitico con le gambe stor te, gli occhi grandi e lo sguardo perso nel vuoto.
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Evsej credeva alle parole ma non alle persone. Spetta tore spaurito, rimaneva ai margini del flusso senza deside rare di buttarsi nelle sue onde rinfrescanti. Le spie camminavano fiaccamente, erano divenuti co me estranei gli uni agli altri, tacevano cupi e ciascuno guar dava gli occhi del compagno con sospetto, come aspettan dosi qualche pericolo. « E sul conto della società di prìncipi a Pietroburgo non si è saputo più niente?» chiedeva Krasavin quasi ogni giorno. Una volta Pëtr annunciò allegro: « Ragazzi, Saša è stato chiamato a Pietroburgo! Là si stemerà le cose, vedrete!». Vjachirev, una spia con i capelli rossicci e il naso adun co, notò pigramente: «Alla lega del popolo russo è stato accordato il permes so di organizzare una squadra speciale per uccidere i ri voluzionari. Ho deciso di arruolarmi, sono bravo a tirare con la pistola». «Troppo comodo con la pistola, —disse qualcuno — spari e scappi via». «Come parlano di tutto in modo ingenuo!» pensò Ev sej ricordandosi involontariamente di altri discorsi, di O lga e di Makarov, ma respinse questi pensieri indispettito. Quando Sasa tornò da Pietroburgo la sua salute era co me migliorata, nei suoi occhi offuscati brillavano inten samente delle scintille verdi, la sua voce si era fatta meno acuta e tutto il suo corpo si era come raddrizzato, era di ventato più vigoroso. «Cosa faremo?» gli chiese Pëtr. «Lo sapremo presto!» rispose Saša, scoprendo i denti in una smorfia.
Capitolo XIX
Sopravvenne l’autunno, silenzioso e malinconico come sempre, ma le persone non si accorsero del suo arrivo. Se già prima erano arditi e chiassosi, ora uscivano in strada con foga ancora maggiore. Poi arrivarono dei giorni portentosi, terribili come in una fiaba: le persone smisero di lavorare e la vita di tutti i giorni, che aveva tormentato tutti così a lungo con il suo gioco crudele e inutile, si fermò di colpo, si immobi lizzo, come bloccata da una stretta potentissima. Gli ope rai si rifiutavano di dare pane, luce e acqua alla città, la loro sovrana, che per alcune notti rimase al buio, affama ta, assetata, tetra e offesa. In queste cupe notti scure il po polo dei lavoratori andava cantando per le strade con una gioia infantile negli occhi: per la prima volta le persone avevano visto chiaramente la loro forza e si meravigliava no della sua portata, avevano capito il potere che aveva no sulla vita ed esultavano benevole guardando le case oscurate, i macchinari immobili come morti, la polizia eli sorientata, gli ingressi chiusi dei negozi e delle trattorie, i volti spaventati e le figure sottomesse di quelle persone che, non sapendo lavorare, avevano imparato a mangiar molto e si consideravano i migliori della città. In quei gior ni proprio dalle loro mani esauste era stato strappato il potere sulla vita, lasciando loro solo la crudeltà e la fur bizia. Klimkov vedeva che queste persone, abituate a
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comandare, ora si sottomettevano in silenzio alla volontà dei poveri sporchi e affamati, capiva che per i nobili vi vere era diventato difficile, ma che nascondevano il loro dispetto e, mentendo, sorridevano con approvazione agli operai temendoli. Gli sembrava che il passato non sareb be mai più tornato: c’erano dei nuovi padroni che, se era no stati in grado di fermare di colpo il corso della vita, sarebbero sicuramente stati capaci di costruirne una nuo va, più facile e libera per sé, per tutti e anche per lui. Tutto ciò che c’era di vecchio, malvagio e crudele se ne andava dalla città, si scioglieva nell’oscurità, scompa rendovi. Le persone erano diventate visibilmente più buo ne e, sebbene di notte in città non ci fosse la luce, c’era sempre rumore e allegria come di giorno. Ovunque si raccoglievano folle di gente che parlava no animatamente con discorsi liberi e audaci dell’immi nente trionfo della verità, nel quale credevano in modo fervente. I dubbiosi studiavano attentamente i volti nuo vi e cercavano di memorizzare i nuovi discorsi. Spesso tra la folla Klimkov notava delle spie e, non volendo farsi ve dere, si allontanava in fretta. Più spesso degli altri incon trava Mel’nikov. Quell’uomo suscitava in Evsej un inte resse particolare. Intorno a lui si radunava sempre un fitto gruppo di persone e dal centro fluiva come un ruscello scu ro la sua voce densa. «Ecco, guardate! Il popolo ha voluto qualcosa e lo ha ot tenuto; se vuole può prendere tutto nelle sue mani! Ecco la, la nostra forza! Ricordati, popolo, non lasciar andare dal la mano ciò che hai ottenuto, stai attento! Stai in guardia soprattutto dalla furbizia dei nobili, che stiano alla larga, via, e se avranno qualcosa in contrario, picchiali a morte!». Quando Klimkov senti queste parole pensò: « Per questi discorsi arrestavate le persone, quante ne avete arrestate! E ora voi dite queste cose». Dal mattino fino a notte fonda girava tra la folla, tal
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volta aveva una voglia irresistibile di parlare, ma quando sentiva questo desiderio si appartava subito in un vicolo deserto, in un angolo buio. « Se cominci a parlare, ti riconosceranno!» questo pen siero cupo lo minacciava in modo assillante. Una notte, camminando per strada, vide Maklakov. Dopo essersi nascosto in un portone, la spia aveva alzato la testa e guardava la finestra illuminata dell’edificio dal l’altra parte della strada come un cane affamato che aspet ti di elemosinare un boccone. «N on ha abbandonato il suo lavoro!» pensò Evsej e chiese a Maklakov: «Volete che vi dia il cambio Timofej Vasilevič?». «Tu? A me?» esclamò piano la spia, e Klimkov capì che c’era qualcosa che non andava: per la prima volta la spia gli si era rivolto dandogli del tu e aveva una voce strana. «Non c’è bisogno, vai via!» gli disse. Maklakov, dall’aspetto sempre curato e decoroso, era ora scarmigliato: i capelli che portava sempre pettinati die tro alle orecchie con cura e con gusto, erano sparsi sulle tempie e sulla fronte e la sua figura emanava un forte odo re di vodka. «Addio!» disse Evsej togliendosi il cappello e senza fret ta se ne andò. Ma dopo pochi passi dietro di lui risuonò una voce bassa: «Ascolta...». Evsej si voltò e vide che la spia lo aveva raggiunto si lenziosamente e si trovava accanto a lui. «Proseguiamo un po’ insieme». «Deve essere proprio molto ubriaco» pensò Evsej. « Lo sai chi abita in quel palazzo? —chiese Maklakov guardando indietro - Lo scrittore Mironov, te lo ricordi?». «Sì». «C i mancherebbe che non te lo ricordassi, ti ha fatto fare una tale figura da scemo!».
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«Sì» convenne Evsej. Camminavano piano senza fare rumore con i piedi. La stretta stradina era fredda, deserta e silenziosa. «Torniamo indietro!» propose Maklakov. Poi si aggiu stò il cappello, si abbottonò il cappotto e annunciò pen sieroso: « Io, amico mio, me ne vado in Argentina, in America». Klimkov coglieva nelle sue parole una nota di malin conia e di disperazione e anche lui cominciò a sentirsi tri ste e a disagio. «Perché volete andare così lontano?». «È necessario». Si fermò di nuovo davanti alla finestra illuminata e la guardò in silenzio. Sulla facciata nera della casa, la fine stra, come un unico grande occhio, gettava nell’oscurità un quieto raggio di luce che assomigliava a una piccola isola in mezzo a delle acque scure e pesanti. « Quella è la sua finestra, di Mironov —disse piano Maklakov —scrive di notte». Degli uomini venivano incontro cantando a bassa voce: Sarà l’ultima battaglia la battaglia decisiva...
Le parole della canzone avevano un tono pensoso, qua si interrogativo. « Dovremmo passare dall’altra parte della strada» pro pose Evsej sussurrando. « Hai paura? » chiese Maklakov, ma scese per primo dal marciapiede sul fango ghiacciato della via. «Non c’è da avere paura: quelli che cantano le canzo ni sulle battaglie sono persone tranquille, non ci sono bel ve feroci tra loro. Adesso si starebbe bene al caldo, in una trattoria, ma è tutto chiuso! Hanno serrato tutto, amico mio». «Andiamo a casa!» propose Klimkov.
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«A casa? No, grazie». «Senti un po’, ma che razza di spia sei? —chiese d’un tratto Maklakov, colpendolo con il gomito - È un pezzo che ti osservo e hai sempre un’espressione sul volto come se stessi per vomitare». Evsej, felice di avere l’opportunità di parlare di sé aper tamente, si mise a borbottare in fretta: «Io, Timofej Vasil’evič, me ne vado! Sì, appena si si stema tutto io me ne vado. Metterò su una piccola attività e vivrò in pace, da solo». «Che cosa si sistema?». «Questo... La nuova organizzazione della vita. Quan do il popolo avrà preso tutto nelle sue mani». «Eh...», pronunciò lentamente la spia, agitando il brac cio e scoppiò a ridere facendo passare a Evsej la voglia di parlare. L’atmosfera era triste. «Il fatto è questo!» disse a un tratto Maklakov in mo do inaspettatamente brusco e incollerito mentre si stavano avvicinando di nuovo alla casa dove viveva lo scrittore. « Davvero me ne vado per sempre dalla Russia. Però devo consegnare a questo scrittore delle carte. Vedi? Ec co il pacchetto». Agitò in aria davanti al viso di Evsej una scatola bian ca e continuò velocemente: «Io non posso andare da lui. Sono già due giorni che lo osservo per vedere se esce. Ma è ammalato, non può uscire. Altrimenti glielo avrei dato in strada. Per posta non posso spedirglielo, le sue lettere le aprono, alla posta le ru bano e le consegnano a noi alla sezione della polizia poli tica. Ma non posso andare da lui». La spia si strinse il pacchetto al petto e si piegò in avan ti guardando Evsej negli occhi. « In questo pacchetto c’è la mia vita. Ho scritto un rac conto su di me: chi sono e perché. Vorrei che lo leggesse Mironov, perché lui capisce le persone».
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Afferrato Evsej per una spalla con la sua mano forte, la spia lo scrollò e gli ordinò: «Vai tu, consegnagli questo! Direttamente nelle sue mani, a lui in persona. Vai e digli...». Maklakov di colpo si interruppe e rimase un po’ in silenzio, poi continuò: « Un agente della polizia politica vi manda queste car te e vi chiede umilmente di’ proprio così, non ti dimen ticare, vi chiede umilmente di leggerle. Io ti aspetto giù, vai! Ma mi raccomando, non dirgli che io sono qui. É se te lo chiede, digli: “È fuggito, se ne è andato in Argenti na”. Ripetilo!». «Se ne è andato in Argentina...». «Bene, non ti dimenticare! “Vi chiede umilmente”, vai, fai presto!». Spingendo piano Klimkov sulla schiena lo condusse fi no alla porta del palazzo, si mise da parte e si fermò lì a os servare. Evsej, agitato, invaso da un tremito sottile, senza più coscienza della sua volontà schiacciata dai discorsi impe riosi di Maklakov, premette il campanello con il deside rio di allontanarsi quanto prima dalla spia e pronto a in filarsi dentro al palazzo. La porta si aprì, nella striscia di luce comparve un uomo scuro che chiese irritato: «Cosa volete?». « Cerco il signor Mironov, lo scrittore. Devo conse gnargli personalmente una lettera, un pacchetto, per fa vore, è urgente!» disse Evsej imitando senza volerlo il di scorso veloce e sconnesso di Maklakov. Gli si annebbiò la mente, ricordava solo le parole del la spia, bianche e fredde come le ossa di un morto, e quan do sopra alla sua testa echeggiò profonda la frase: «In cosa posso esservi utile?» Evsej rispose con voce distaccata, come un automa: « Un agente delle polizia segreta vi manda queste car te e vi chiede umilmente di leggerle. Se ne è andato in Argentina».
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La parola «Argentina», sconosciuta e strana, confuse Evsej che aggiunse piano: «Che si trova in America». «E dove sono queste carte?». La voce aveva un tono affettuoso. Evsej alzò la testa, riconobbe il volto da soldato dello scrittore con i baffi ros si, estrasse dalla tasca lo spesso pacco e glielo consegnò. «Beh, accomodatevi». Klimkov si sedette e abbassò il capo. Il rumore della carta strappata gli diede un brivido. Senza alzare la testa guardò timoroso lo scrittore che da vanti a lui esaminava il pacchetto muovendo leggermen te i baffi. «Avete detto che è partito?». «Sì». «E anche voi siete un agente?». «Sì» disse piano Evsej. E pensò: «Ora comincerà a insultarmi». «La vostra faccia mi è come familiare». Evsej cercava di non guardarlo, ma sentiva che stava sorridendo. «Sì, mi è familiare» ripetè sospirando. «Anche voi mi avete sorvegliato?». «Una volta, ma mi avete visto dalla finestra, siete usci to in strada e mi avete dato una lettera». «Ah, sì, ora ricordo! Che diavolo, quindi siete voi! Al lora, mi sembra, vi insultai, vero?». Evsej si alzò dalla sedia, lanciò uno sguardo diffiden te al viso divertito e si guardò intorno. «Non fa niente!» disse. Si sentiva terribilmente a disagio mentre ascoltava quella voce un po’ aspramente affettuosa e temeva che lo scrittore lo avrebbe colpito e lo avrebbe cacciato via. «È strano incontrarci di nuovo, vero?».
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« C ’è qualcos’altro che posso fare?» chiese Evsej con fuso. «No. Ma avete un’aria molto stanca. Perché non re state un po’ qui a riposarvi...». «Devo andare». «Come volete. Allora grazie, arrivederci!». Gli tese la grossa mano con le dita coperte da una pe luria rossiccia. Evsej la toccò con cautela e in modo per lui stesso inatteso domandò: «Permettetemi di raccontarvi anche la mia vita». E subito dopo aver scandito queste parole, pensò: « Ecco con chi devo parlare! Se lo stima lo stesso Timofej Vasil’evič, che è così intelligente ed è migliore di tutti gli altri...». Ricordandosi di Maklakov, Evsej guardò dalla finestra e fu colto per un attimo dalla preoccupazione, poi si disse: « Non fa niente, non sarà la prima volta che si congela ». « Beh, raccontate pure se volete. Ma toglietevi alme no il cappotto. Forse volete un po’ di tè? È molto freddo fuori». A Evsej venne voglia di sorridere, ma non se lo con cesse. E qualche minuto dopo, con gli occhi semichiusi, con precisione, con tono monotono e con la stessa voce con cui riferiva alla polizia segreta delle sue indagini, Klimkov stava raccontando allo scrittore del villaggio, del cugino Jakov e dello zio fabbro. Lo scrittore era seduto su uno sgabello ampio e pe sante dietro a un grande tavolo, con una gamba ripiega ta all’indietro. Appoggiato con il gomito al tavolo, si piegò in avanti attorcigliandosi un baffo con un movimento ra pido delle dita. La sua testa rotonda e rasata era illumi nata dalla luce di due candele, i suoi occhi guardavano in modo serio e acuto da qualche parte lontano come attra verso Klimkov.
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«Non mi ascolta» pensò Evsej e alzò un po’ il tono di voce, continuando a osservare la stanza in modo furtivo e a controllare scrupolosamente il volto dello scrittore. La stanza era oscura e tetra. Le mensole stipate di libri, aumentando lo spessore delle pareti, probabilmente non lasciavano penetrare in quella piccola camera i rumori del la strada. Tra le mensole splendevano i vetri opachi delle finestre, oscurati dalle fredde tenebre notturne, e si leva va la stretta macchia bianca della porta. Il tavolo, rico perto da un panno grigio, si trovava al centro della stan za e conferiva un tono grigio scuro a tutto ciò che c’era intorno. Evsej era in un angolo seduto su una sedia rivestita di una pelle liscia e dura. Per qualche motivo stava con la nu ca appoggiata all’alto schienale e per questo scivolava giù. Lo infastidiva la fiamma delle candele; era come se quel le piccole lingue di fuoco giallo tenessero continuamente tra loro una muta conversazione: si piegavano lentamen te una verso l’altra, sussultavano e si raddrizzavano di nuo vo, allungandosi verso l’alto. Lo scrittore cominciò ad arricciarsi il baffo più lenta mente, ma il suo sguardo si allontanava come prima da qualche parte oltre i confini della stanza e tutto questo disturbava Evsej, rendendo i suoi ricordi più frammen tari. Decise di chiudere gli occhi annebbiati e quando fu stretto nell’abbraccio dell’oscurità, fece un lieve sospiro e di colpo si vide come diviso in due persone: una che vi veva e agiva, l’altra che poteva raccontare della prima co me se fosse un estraneo. Le sue parole cominciarono a scorrere più fluide, la voce prese vigore, gli avvenimenti della sua vita si susseguivano uno dopo l’altro con coeren za dispiegandosi come un gomitolo di fili grigi e liberan do la sua anima piccola e gracile dai brandelli sudici e pe santi di ciò che aveva passato. Era bello parlare di sé, Klimkov ascoltava stupito la sua voce, raccontava la verità
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e vedeva chiaramente che non aveva nessuna colpa, in fon do non aveva certo vissuto i suoi giorni come avrebbe vo luto. L’avevano sempre costretto a fare ciò che non gli pia ceva, provava una pena sincera verso se stesso, era quasi sul punto di piangere e compiacersi di sé. Quando lo scrittore gli fece una domanda, Evsej non capi e senza aprire gli occhi disse piano: «Aspettate, vado per ordine». Parlava senza stancarsi e quando arrivò all’incontro con Maklakov si fermò di colpo come davanti a una buca, aprì gli occhi e vide alla finestra lo sguardo spento del matti no autunnale e le fredde e grigie profondità del cielo. Tirò un profondo sospiro, si raddrizzò, si sentì come ripulito interiormente, stranamente leggero, piacevolmente vuo to e il suo cuore era pronto a ricevere sottomesso nuove disposizioni e nuovi soprusi. Lo scrittore si alzò in piedi rumorosamente, alto e ro busto. Strinse le mani, le dita scrocchiarono con un ru more forte e sgradevole e si voltò verso la finestra. «Ora che cosa pensate di fare?» chiese senza guardare Klimkov. Anche Evsej si alzò dalla sedia e ripete sicuro quello che aveva detto a Maklakov: «N on appena sarà stato organizzato un nuovo siste ma di vita, pian piano comincerò a fare il commerciante. Me ne andrò in un’altra città. Ho messo da parte dei sol di, circa centocinquanta rubli». Lo scrittore si girò lentamente verso di lui. «Ah! —disse —Dunque non avete nessun altro desi derio?». Klimkov pensò un po’ e rispose: «N o ».
« E voi credete in questa nuova vita? Pensate che si riu scirà a organizzarla?». «Io non dico niente».
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Si voltò di nuovo verso la finestra, si lisciò i baffi con entrambe le mani e tacque. Evsej, in attesa di qualcosa, stava in piedi immobile, porgendo l’orecchio al vuoto den tro al suo petto. «M a ditemi - domandò lo scrittore a voce bassa, par lando lentamente —non provate pietà per quelle persone che avete denunciato, la ragazza, vostro cugino e i suoi compagni?». Klimkov abbassò il capo e rassettò i lembi della giacca. « In fondo ora avete capito che avevano ragione, no?». «Prima mi dispiaceva, ma ora no». «No? Come mai?». Dopo qualche secondo Klimkov disse a voce bassa: «Beh, sono brave persone che hanno raggiunto il lo ro scopo». « E non vi pareva di star facendo qualcosa di malva gio?» chiese lo scrittore. Evsej sospirò e rispose: « Il mio lavoro non mi piace mica, faccio quello che mi ordinano». Lo scrittore cauto fece un passo verso di lui, poi si spo stò di lato e Klimkov vide la porta da dove era entrato. La notò perché gli occhi dello scrittore la guardavano. «Devo andarmene» pensò. «Volete chiedermi qualcosa?» disse lo scrittore. «N o, me ne vado». «Addio». E Mironov si fece da parte. Camminando in punta di piedi, Evsej uscì nell’ingresso e cominciò a mettersi il cap potto, ma dalla porta della stanza risuonò a bassa voce una domanda: « Sentite, ma perché avete voluto raccontarmi tutto questo di voi?». Stringendo il cappello nelle mani, Evsej dopo aver pen sato un po’ rispose:
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«Timofej Vasil’evič, la persona che mi ha mandato, vi stima molto...». Lo scrittore ridacchiò. «Solo questo?». «M a davvero, perché glielo ho voluto raccontare?» si meravigliò di colpo Klimkov e battendo le palpebre guardò fisso il volto dello scrittore. «Allora, addio!» disse il padrone di casa fregandosi le mani e si scostò dall’ospite. Evsej gli fece un inchino. Quando fu uscito fuori si guardò intorno e in fondo alla strada nella grigia oscurità del mattino notò subito la figura scura di una persona che camminava a testa bassa lungo lo steccato. « Sta aspettando!» pensò Klimkov e contraendosi pen sò: «Mi rimprovererà perché sono rimasto così a lungo». La spia probabilmente udì nel silenzio del mattino l’e co dei passi sul terreno ghiacciato, sollevò la testa e quasi correndo si avviò subito incontro a Evsej. «Glielo hai dato?». «Sì». «Come mai sei rimasto così a lungo? Ti ha parlato?». Maklakov tremava. Afferrò Evsej per un lembo del cappotto e subito lo lasciò, si soffiò sulle dita come se si fosse bruciato e volesse alleviare il dolore e si mise a bat tere i piedi per terra. «Anch’io gli ho raccontato tutta la mia vita» annun ciò Evsej a voce alta. Gli faceva piacere dirlo a Maklakov. «Allora? Non ha chiesto di me?». «H a chiesto se eravate partito». «E cosa gli hai detto?». «Gli ho detto di sì». «Nient’altro?». «Niente». «Beh, andiamo, mi sono congelato».
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E a passo svelto si lanciò in avanti infilando le mani nelle tasche del cappotto e curvando la schiena. «Così gli hai raccontato la tua vita?». «Tutta, dall’inizio a oggi!» rispose Evsej, provando di nuovo una sensazione piacevole che lo sollevava alla stes sa altezza della spia che tanto stimava. «E cosa ti ha detto?». Klimkov non rispose subito, poi disse confuso: «Non ha detto niente». Maklakov si fermò, trattenne Evsej per una manica e con voce bassa e severa gli chiese: «Gli hai dato le mie carte?». «Perquisitemi, Timofej Vasil’evič!» gridò sincero Evsej. « No —disse Maklakov pensoso —Beh, allora addio! Se gui il mio consiglio, te lo do perché ho compassione di te, abbandona questo mestiere il prima possibile, non fa per te, lo capisci tu stesso. Adesso si può ancora andare via, vedi che periodo stiamo vivendo. I morti risorgono, le per sone si fidano l’una dell’altra e in simili momenti posso no perdonare molte cose. Possono perdonare tutto, cre do. E soprattutto stai lontano da Saša, è malato, è fuori di senno, già una volta ti ha costretto a tradire tuo cugi no, bisognerebbe ucciderlo come un lurido cane! Beh, ad dio!». Afferrò la mano di Evsej con le dita fredde e stringen dola forte domandò ancora una volta: «Allora gliele hai date le carte, non ti sei sbagliato, vero?». «Lo giuro, gliele ho date!». «Ti credo. Per qualche giorno non parlare di me al la voro ». «Non ho intenzione di andarci. Ci passerò il venti per lo stipendio». «Più tardi potrai dirglielo». Scomparve in fretta dietro l’angolo. Evsej lo seguì con lo sguardo pensando sospettoso:
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« Probabilmente ha fatto qualcosa contro i superiori e si è spaventato». Il pensiero che non avrebbe più rivisto Maklakov lo rat tristò, ma allo stesso tempo provava piacere nel ricordare quanto era debole, congelato e irrequieto quel giorno la spia, sempre cosi tranquillo e ferreo. Di solito parlava con audacia persino con i superiori, quasi fosse pari a loro, ma, probabilmente, temeva lo scrittore sorvegliato. « E invece a me, una persona da niente, —pensò Evsej camminando solo per strada - che ha paura di tutti, quel lo scrittore non ha messo spavento». E Klimkov, soddisfatto di sé, sorrise. «Non è riuscito a dirmi niente quello scrittore». Di colpo sentì uno strano sentimento, forse di tristezza oppure di umiliazione, e rallentando il passo sprofondò nel le congetture sul motivo di tale stato. E di nuovo pensò: « Sarebbe stato meglio raccontarlo a Ol’ga quella sera...».
Capitolo XX
Verso mezzogiorno lo svegliò il triste Vekov. Con addosso il cappotto e il cappello, stringeva con la mano lo schienale del letto, lo scuoteva e con voce bassa e monotona diceva: «Klimkov, alzatevi, siamo tutti convocati in ufficio! Ehi, Klimkov, hanno proclamato la costituzione, stanno radunando tutti gli agenti dai vari appartamenti, Klimkov, mi sentite?». Le sue parole cadevano come delle grosse gocce di pioggia piene di tristezza, il suo viso era raggrinzito co me se avesse mal di denti e gli occhi, che ammiccavano spesso, sembravano sul punto di piangere. «Cosa è successo?» chiese Evsej saltando giù dal letto. Vekov protendendo tristemente le labbra in avanti disse: «È comparso un manifesto. Là da noi, alla polizia se greta, è una gabbia di matti. Saša è una persona così roz za, è incredibile! Non fa altro che gridare: “Picchiateli, am mazzateli!”. Permettetemi, ma io anche per cinquecento rubli non potrei uccidere un uomo, e qui ci propongono di uccidere per quaranta rubli al mese!». Mentre si infilava i pantaloni, Klimkov chiese pensie roso: «M a chi è che dobbiamo uccidere?». « I rivoluzionari. Ma quali rivoluzionari se secondo il decreto dell’imperatore la rivoluzione è finita? Ci dicono
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di riunire il popolo in strada e di sfilare con le bandiere cantando “Dio protegga lo zar”, l’inno nazionale. Certo, perché non cantare se ci è stata concessa la libertà! Ma ci dicono anche di gridare “Abbasso la costituzione!” Per mettetemi, ma io non capisco. Allora significa che siamo contrari al manifesto e alla volontà dell’imperatore?». La sua voce aveva un tono irritato e di protesta, le gam be si urtavano l’una con l’altra e tutto il suo corpo era mol le, come se gli avessero tolto le ossa. « Io in ufficio non ci vado » disse Klimkóv. «Come non ci andate?». «Si, prima voglio fare un giro per vedere cosa succe de per strada». Vekov sospirò. « Certo, voi siete una persona sola. Ma quando si ha una famiglia, o meglio una moglie che pretende questo, quello e quest’altro, si va anche dove non si vorrebbe. La necessità di sopravvivere costringe le persone persino a camminare su una fune. Quando guardo gli altri mi gira la testa e sento un dolore alla bocca dello stomaco, ma pen so tra me e me: « In fondo, se sarà necessario per tirare avanti, anche tu, Ivan Vekov, salirai sulla fune». Si agitava per la stanza urtando contro il tavolo, le se die, borbottava e gonfiava le guance. Il suo volto piccolo e rubicondo diventava simile a una bolla, gli occhi im percettibili scomparivano e il naso rossastro si nasconde va tra le protuberanze delle guance. La voce afflitta, la fi gura china e le parole disperate suscitavano stizza in Klimkov, che disse ostile: «Presto tutto sarà organizzato in modo diverso, quin di ora non c’è motivo di lamentarsi ». «M a nessuno lo vuole! —esclamò Vekov, agitando le mani e fermandosi di fronte a Evsej - Lo capite?». Evsej, angosciato, si girò sulla sedia per porre qualche
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obiezione, ma non riuscì a trovare le parole e cominciò ad allacciarsi gli stivali sbuffando dal naso. « Saša grida “Picchiateli!”, Vjachirev mostra le rivoltel le e dice “Sparerò dritto in mezzo agli occhi”. Krasavin sta radunando un gruppo di gente equivoca e anche lui non fa altro che parlare di coltelli, carneficine, eccetera. Cašin si accinge a uccidere non so quale studente che gli ha por tato via l’amante. È poi comparso uno nuovo, curvo, che non fa altro che sorridere e ha i denti davanti rotti, un per sonaggio spaventoso. È tutto completamente assurdo!». Abbassò la voce fino a un sussurro e disse con aria mi steriosa: « Ciascuno deve difendere la sua sopravvivenza, que sto è chiaro, ma sarebbe auspicabile farlo senza uccidere. Del resto se noi cercheremo di massacrarli anche noi ver remo massacrati». Vekov ebbe un brivido, inclinò la testa verso la fine stra, si mise in ascolto e sollevata una mano impallidì. «Cosa c’è?» chiese Evsej. Un rumore echeggiante di colpi attutiti e diseguali ri suonava nei vetri come se volesse sfondarli per riversarsi nella stanza. Evsej si alzò in piedi, guardando Vekov con aria ansiosa e interrogativa. Questi, da lontano, protese la mano verso la finestra, probabilmente temendo che lo vedessero dalla strada, aprì un’imposta, si mise rapidamcn te da parte e in quello stesso istante irruppe un fiume ili suoni che circondò le spie, urtò contro la porta, la superò e cominciò a spandersi per il corridoio, imperioso, esul tante e potente. Ma Vekov guardava dalla finestra e rigirando il collo velocemente e continuamente, diceva parlando in modo rapido e sconnesso: « È il popolo, ci sono delle bandiere rosse, una gran quantità di gente, non si contano. Sono di tutte le con dizioni, c’è persino un ufficiale e il pope Uspenskij,
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senza cappello. C ’è anche Mel’nikov, il nostro collega, guardate!». Evsej fece un balzo verso la finestra, guardò giù, dove una folla fitta scorreva riempiendo tutta la strada. Sopra alle teste sventolavano le bandiere, simili a uccelli rossi e Klimkov, assordato dal ribollire della folla, vide nelle pri me file la faccia barbuta di Mel’nikov. Reggeva con en trambe le mani una breve asta agitandola e la bandiera gli avvolgeva la testa come un turbante rosso. Da sotto al cappello uscivano delle ciocche scure di capelli che rica dendo sulla fronte e sulle guance si mescolavano con la barba, e la spia, irsuta come un animale, probabilmente stava gridando, perché aveva la bocca spalancata. «Dove vanno?» mormorò Klimkov voltandosi verso il compagno. «A festeggiare!» rispose questi appoggiando la fronte al vetro. Rimasero entrambi in silenzio lasciando scorrere da vanti ai propri occhi il flusso variegato delle persone, co gliendo con le orecchie tese verso quel mare profondo di rumore le esplosioni fragorose delle diverse grida. « Che potenza! Le persone vivevano tutte ciascuna per proprio conto e di colpo si sono mosse tutte insieme, è un avvenimento straordinario! E Mel’nikov, l’avete visto?». «È sempre stato dalla parte del popolo!» dichiarò Ev sej con voce saccente e si allontanò dalla finestra, senten dosi vigoroso, come rinato. « Ora tutto andrà bene, nessuno vuole più essere coman dato. Ognuno vuole vivere come si deve, calmo, pacifico e in condizioni dignitose» affermava convinto, osservan do nello specchio il suo viso aguzzo. Cercando di intensi ficare la piacevole sensazione di autocompiacimento, pen sò a come avrebbe potuto innalzare la sua posizione agli occhi del compagno e dichiarò con tono misterioso: «Lo sapete? Maklakov è fuggito in America».
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« Ma guarda —rispose la spia con distacco —Beh, lui è scapolo». « Perché l’ho detto?» si rimproverò tra sé Evsej, poi con una leggera ansia e ostilità chiese a Vekov: «Non ditelo a nessuno, per cortesia!». « Di Maklakov? Va bene. Io devo andare alla polizia se greta, voi non venite?». «Incamminiamoci insieme». In strada Vekov a mezza voce affermò con triste irri tazione: « Comunque il popolo è ben stupido! Invece di sfilare con canti e bandiere, se si sentisse già abbastanza forte, do vrebbe esigere dalle autorità l’immediata cessazione di qualsiasi politica, per far si che ci trasformiamo tutti in persone, sia noi che i rivoluzionari. Bisognerebbe ricom pensare chi se lo merita, sia tra i nostri che tra i loro, e annunciare fermamente: la politica non è più ammessa!». E di colpo scomparve girando l’angolo. Per strada il popolo si agitava freneticamente, tutti par lavano a voce alta, i volti sorridevano felici, la cupa sera autunnale ricordava il solenne giorno di Pasqua. Ora in fondo alla strada, oscurata da una cortina di tenebre, ora più vicino, la gente cominciava a cantare, in frammezzando i canti con forti grida: «Evviva la libertà!». E dappertutto echeggiavano delle risate e risuonava no delle voci affettuose. Tutto questo piaceva a Klimkov, che cedeva educatamente il passo a chiunque incontrasse guardandolo con aria di approvazione e con un sorriso compiaciuto. Da dietro l’angolo spuntarono, ridacchiando piano, due persone. Uno urtò Evsej ma subito si strappò il cap pello dal capo ed esclamò: «Oh, scusatemi tanto!». «Non è niente» rispose gentile Klimkov.
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Si trovò di fronte Grochotov. Rasato di fresco e co me spalmato di olio, sorrideva raggiante e i suoi occhiet ti melliflui saltellavano da ogni parte. —■ «Evsej, in che pasticcio ero finito! Se non fosse stato per il mio talento... Vi conoscete? Ti presento Panteleev, anche lui è dei nostri». Grochotov ansimava, parlava sussurrando velocemen te e si asciugava in fretta il sudore dalla fronte. «Senti, camminavo lungo il viale e ho visto una folla di gente con al centro un oratore. Allora mi sono avvici nato e mi sono fermato ad ascoltare. Parlava uno di quel li che, hai presente, non hanno alcun ritegno. Così per fare, ho chiesto al mio vicino, chi era quel genietto. Gli ho detto: “Ha una faccia familiare, non sa come si chiama di cognome?”. Mi ha risposto Zimin. Non appena ha pro nunciato il cognome, due tipi mi hanno subito afferrato sotto braccio. “Signori, c’è una spia!”. Non ho fatto in tempo a dire una parola. Mi sono ritrovato al centro del la folla con un gran silenzio intorno e questi occhi che mi trafiggevano. Ho pensato: “Per me è finita”». « Zimin? » chiese confuso Evsej voltandosi indietro a guardare e accelerando il passo. Grochotov alzò la testa verso il cielo, si fece il segno della croce e continuò ancora più in fretta: « Ma il signore mi ha suggerito cosa fare, mi sono su bito ripreso e ho gridato a gran voce: “Signori, state com mettendo un grosso errore! Non sono una spia, ma un no to imitatore di persone famose e di rumori. Fatemi la cortesia di mettermi alla prova”. Quelli che mi avevano afferrato gridavano: “Non è vero, lo conosciamo!”. Ma io avevo già assunto l’espressione del prefetto e imitando la sua voce ho urlato: “Chi vi ha dato il permesso di riu nirvi?”. Grazie a Dio ho sentito che tutti cominciavano già a ridere. Allora mi sono messo a imitare tutto quello che potevo: il governatore, il rumore di una sega, il verso
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di un maialino, una mosca, e tutti giù a ridere! Perfino quelli che mi tenevano sottobraccio, quei due animali, si sono messi a ridere e mi hanno lasciato andare. E tutti hanno cominciato ad applaudirmi, parola d’onore, an che Panteleev lo può confermare, ha visto tutto!». « È vero!» disse con voce rauca Panteleev, un uomo tar chiato con gli occhiali e un soprabito lungo. «Sì, amico mio, applaudivano! - esclamò entusiasta Grochotov e cominciò a battersi il pugno sul petto stret to e a tossire. —Ora è deciso, ho trovato la mia strada! Farò l’artista, ecco cosa farò! Posso affermare che devo la mia vita all’arte. Non è forse vero? Il popolo quando è rab bioso non scherza!». « Il popolo è diventato credulone —affermò Panteleev con tono strano e pensoso - i cuori si sono fatti fiacchi». «È vero! Ma cosa stanno facendo? —esclamò piano Grochotov e continuò in un sussurro —Ora è tutto allo scoperto, ovunque in prima fila ci sono i sorvegliati, le no stre vecchie conoscenze. Cosa è mai questo?». «Un falegname di cognome Zimin?» chiese di nuovo Evsej. « Zimin Matvej, quello della propaganda nella fabbri ca di mobili di Knop » rispose Panteleev con tono severo e persuasivo. «M a dovrebbe essere in prigione!» disse Evsej contra riato. Grochotov emise un fischio divertito. «In prigione? Non lo sai che dalle prigioni hanno li berato tutti?». «Chi?». «Il popolo, no!». Evsej fece qualche passo in silenzio e poi chiese: «M a perché hanno fatto questo?». « È quello che sto dicendo, non bisognava permetter glielo! —disse Panteleev e i suoi occhiali cominciarono a
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muoversi sul suo largo naso —In che posizione ci trovia mo noi adesso? I nostri superiori non pensano affatto a noi ». «Hanno rilasciato tutti?» chiese Klimkov. «Proprio tutti!». Panteleev continuò rauco e severo, soffiando dalle narici: «Sono già avvenuti diversi incontri molto spiacevoli e perfino pericolosi. Cašin, ad esempio, ha dovuto estrar re la rivoltella perché è stato colpito a un occhio. Era fer mo in piedi, tranquillo, come uno qualunque, e improv visamente gli si è avvicinata una donna e ha gridato a tutti: “Ecco una spia!” E dato che Cašin non sa imitare gli ani mali, gli è toccato difendersi con le armi ». «Arrivederci! —disse Evsej —Io vado a casa». Si avviò passando per i vicoli e quando vedeva venir gli incontro delle persone, passava dall’altra parte della strada e cercava di nascondersi nell’ombra. Aveva il pre sentimento sempre più forte che avrebbe incontrato Jakov, Ol’ga o qualcun altro della loro compagnia. «La città è grande, ci sono molte persone...» cercava di farsi coraggio, ma ogni volta che davanti a lui echeggia vano dei passi, il suo cuore si paralizzava dolorosamente e le gambe tremanti perdevano forza. «Li hanno rilasciati!» —pensava con un triste senso di rabbia —« Li hanno rilasciati senza dirci niente. E io ora che cosa devo fare? C ’è una bella differenza per me se so no in carcere o no!». Era già buio. Davanti al portone del posto di polizia ardeva un lampione solitario. Quando Evsej giunse alla sua altezza, una voce improvvisa gli sussurrò: «Passate dal cortile sul retro!». Evsej si fermò guardando spaventato le tenebre del portone. Era chiuso e vicino a una piccola porta pratica ta in uno dei due pesanti battenti c’era un uomo scuro che, evidentemente, lo stava aspettando.
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«Sbrigatevi!» ordinò seccato. Klimkov si curvò infilandosi nella piccola porta e si av viò per il corridoio buio sotto le volte dell’edificio illu minato da una luce debole che baluginava in fondo al cor tile. Da là gli si avvicinavano strisciando un fruscio di piedi sulle pietre, delle voci basse e un noto suono nasale e ri pugnante. Klimkov si fermò, porse l’orecchio, si voltò si lenzioso e si avviò indietro verso il portone, sollevando le spalle come per nascondere il volto nel bavero del cappot to. Era già arrivato alla porta e stava per bussare, ma que sta si aprì e saltò fuori un uomo che incespicò, lo urtò con un braccio e imprecò: «Chi diavolo siete?». «Klimkov». «Ah! Beh, fatemi strada!». Klimkov si avviò in silenzio nel cortile dove i suoi oc chi ora riuscivano a distinguere molte figure scure. Avvol te nelle tenebre, si innalzavano come dei monticelli ine guali, spostandosi lentamente da un posto all’altro, come dei grossi pesci goffi nell’acqua fredda e scura. Risuonò melliflua la voce soddisfatta di Solov’ev: «Nella mia posizione io non posso fare certe cose. Voi catturerete per me la ragazza, la ragazzina, e io le darò una punizione adeguata». Da qualche parte dietro l’angolo, ininterrotta come l’acqua che cade dal tetto in un giorno di pioggia e mono tona come la lettura del sacrestano in chiesa, la voce di Saša si diffondeva simile al suono di un clarinetto: « Ogni volta che incontrate la gente con le bandiere rosse, picchiateli! E picchiate per primi quelli che tengo no le bandiere, gli altri fuggiranno ». «E se non friggono?». «Avrete le rivoltelle! E se vedete delle persone note, di quelle che a suo tempo avete sorvegliato e che oggi sono state rilasciate dalle prigioni grazie alla prepotenza delle folle sfrenate, sterminatele!».
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«Mi sembra giusto!» esclamò qualcuno. «A loro hanno dato la libertà, ma cosa sarà di noi?» gridò aspro Vjachirev. Evsej se ne andò in un angolo della corte, si appoggiò a una catasta di legna e, guardandosi intorno sconcerta to, continuò ad ascoltare. «Corpo, corpicino, carne di vitellino, carnuccia», le parole insensate di Solov’ev si diffondevano come dense macchie di olio. Delle mura scure di diversa altezza circondavano il cor tile sul quale fluttuavano lentamente le nubi e sulle pare ti dell’edificio rilucevano sparse e fioche delle finestre qua drate. In un angolo, su un basso terrazzino d’ingresso, c’era Saša con il cappotto tutto abbottonato, il bavero sol levato e il cappello spostato sulla nuca. Sopra alla sua te sta dondolava un piccolo lampione, la cui debole fiam ma tremava e produceva fumo, come cercando di consumarsi il prima possibile. Dietro a Saša c’era una por ta nera e delle persone scure erano sedute sui gradini del terrazzino d’ingresso accanto alle sue gambe, mentre una figura alta e grigia era in piedi presso la porta. « Dovete capire che la libertà vi è stata data per com battere!» diceva Saša e intanto aveva messo le mani die tro alla schiena. Si udivano il fruscio delle suole sulle pietre, dei sec chi scatti metallici e di tanto in tanto a bassa voce escla mazioni preoccupate ed esortazioni: «State più attenti!». «Non hanno mica ordinato di caricare le armi!». Stranamente simili le une alle altre, indistinguibili nel le tenebre, delle persone scure e misteriose erano dissemi nate per il cortile. Raccolte in piccoli gruppi, ascoltavano la voce vischiosa di Saša e si dondolavano in silenzio sulle gambe come sospinte da folate di vento. I discorsi di Saia riempivano il petto di Klimkov di una gelida tristezza e di un forte sentimento di odio verso la spia.
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«Vi è stato dato il diritto di intervenire contro i ribel li con le armi, vi è stato affidato il compito di difendere lo zar tradito con ogni mezzo. Vi aspettano delle genero se ricompense. Chi non ha ricevuto la rivoltella?». Echeggiarono alcune esclamazioni sommesse: «Io, io! A me!». Le persone si avvicinarono al terrazzino d’ingresso, Saša si fece da parte, l’uomo grigio si sedette sui talloni. «Non se ne possono avere due?» chiedeva una voce sorda. «A cosa vi servono due?». « Per un compagno ». «Via, avanti un altro». Le note voci delle spie risuonavano più forti, ardite e allegre. Qualcuno, schioccando avidamente le labbra, borbot tava: « Ci sono poche cartucce, ce ne voleva una scatola in tera a testa». « Oggi ho organizzato il lavoro in due comandi di po lizia!» diceva Saša. «Il bello viene domani». Le parole e i suoni scoppiettavano davanti agli occhi di Evsej come scintille, accendendo la speranza in un’im minente vita tranquilla. Sentiva con tutto il corpo che dal le tenebre che lo circondavano e da quelle persone incom beva un forza a lui avversa che lo afferrava di nuovo e lo riportava sulla vecchia strada conducendolo alle solite pau re. Nel suo cuore ribolliva silenzioso l’odio verso Saša, l’o stilità sorda del debole, l’inesorabile desiderio di vendet ta del servo che è stato illuso con delle speranze di libertà. Le persone uscivano di fretta dal cortile, a gruppi di due e di tre, scomparendo sotto l’arco largo che si apri va nel muro. La fiamma sopra alla testa della spia sus sultò, si fece azzurrognola e si spense. Saša saltò giù dal
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terrazzino in una specie di buca dalla quale gridò stizzi to con la sua voce nasale: « Oggi alla sezione della polizia segreta non si sono pre sentati sette agenti; come mai? Molti, pare, pensano che siano arrivate chissà quali feste. Non sopporto la stupidità e neppure l’indolenza. Perciò sappiate che stabilirò delle regole serie, io non sono come Filipp! Chi ha detto di aver visto Mel’nikov sfilare con la bandiera rossa?». « Io l’ho visto ». «Con la bandiera?». «Sì, marciava e gridava: “Libertà!”». Klimkov si avviò verso il portone camminando come sul ghiaccio, come se temesse di cadere, ma la voce vischio sa di Saša lo raggiungeva, riversandogli sulla nuca una or ribile sensazione di freddo. « Quello scemo sarà il primo a colpire, lo conosco! — Saša scoppiò in una risata sottile e sibilante —So come incitarlo, basta dirgli: “Colpisci per il bene del popolo!”. E chi è che ha detto che Maklakov ha lasciato il servizio?». «Sa tutto, quella carogna!» pensò Evsej. « Sono stato io e a me lo ha detto Vekov che l’ha sen tito da Klimkov». «Vekov, Klimkov e Grochotov, eccoli, i parassiti, i de generati e i fannulloni! C ’è qualcuno di loro qui?». «Klimkov» rispose Vjachirev. Saša gridò: «Klimkov!». Evsej protese in avanti il braccio e accelerò il passo, ma gli si piegavano le gambe. Sentì Krasavin che diceva: «Evidentemente, se ne è andato. Fareste meglio a non gridare i cognomi...». «Vi prego di non dirmi quello che devo fare. Presto eliminerò tutti i cognomi e ogni altra sciocchezza simile». Quando Evsej fu uscito dal portone fu avvolto dalla
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consapevolezza della sua condizione di impotenza e di nul lità. Era da molto tempo che non provava questi senti menti con una evidenza così schiacciante, si spaventò del la loro forza e, prostrato sotto il loro peso, provò a farsi coraggio: «Forse si può ancora risolvere tutto... Saša non ce la farà...». Ma non ci credeva neppure lui.
Capitolo XXI
Il giorno dopo non riusciva a decidersi a uscire di casa: ste so sul letto guardava il soffitto e davanti a lui fluttuava il volto plumbeo di Saša con gli occhi torbidi e la coroncina di foruncoli rossi sulla fronte. Quel viso gli faceva ve nire in mente l’infanzia e la luna lugubre che vedeva tra la nebbia sulla palude. Ricordandosi che qualcuno dei suoi compagni sareb be potuto andare da lui, si vestì in fretta, uscì di casa, per corse correndo un po’ di strada, ma subito si sentì stanco e si fermò ad aspettare il tram. Davanti a lui passava un flusso continuo di gente. Evsej sentiva che quel giorno le persone avevano qualcosa di nuovo, un’ansia a lui ben no ta. Si guardavano attorno con sospetto e diffidenza e non si osservavano più l’un l’altro con quegli occhi benevoli che avevano negli ultimi tempi, tenevano la voce bassa e i loro discorsi erano pieni di rabbia, risentimento e tristez za. Parlavano di cose terribili. Vicino a lui si fermarono due passanti e uno dei due, un ometto piccolo, grasso e sbarbato, chiese all’altro: «Quanti morti avete detto che ci sono stati?». «Cinque, e sedici feriti». «Sono stati i cosacchi a sparare?». « Sì, è rimasto ucciso anche un ragazzo, uno studente del ginnasio». Evsej guardò i due e chiese laconicamente:
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«Perché?». L’uomo con una folta barba nera si strinse nelle spal le e rispose di malavoglia e a voce bassa: « Dicono che fossero ubriachi, i cosacchi ». « È stato Saša a organizzare tutto! » disse tra sé Klimkov con convinzione. « E sul ponte Spasskij la folla ha picchiato uno studen te e l’ha gettato in acqua» aggiunse l’uomo senza barba an sando. « Quale folla? » chiese di nuovo Evsej con insistenza. «Non lo so». L’uomo dalla barba nera spiegò: « È da questa mattina che girano per le strade dei pic coli gruppetti di straccioni che con delle bandiere trico lori e dei ritratti dello zar prendono a botte le persone ben vestite». «È opera di Sasa!» ripetè Evsej tra sé. « Dicono che sia tutto organizzato dalle forze dell’or dine e dalla polizia segreta zarista». «È così!» esclamò Evsej, ma serrò immediatamente le labbra, guardò di sbieco l’uomo con la barba nera e deci se di allontanarsi. In quel momento arrivò il tram e i suoi interlocutori si mossero per salirvi. Evsej pensò: «Devo salire anch’io, altrimenti capiranno che sono una spia, perché ho aspettato il tram insieme a loro e poi non l’ho preso». Sul tram le persone sembrarono a Klimkov più tran quille rispetto alla strada. «Almeno qui è chiuso, anche se solo con i vetri» Ev sej diede questa spiegazione al mutato atteggiamento ge nerale e intanto porgeva l’orecchio alla conversazione vi vace dei passeggeri. Un uomo alto, con il viso ossuto, si lamentava allar gando le braccia: «Anch’io amo e onoro l’imperatore, gli sono profon-
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damente grato per il manifesto e sono pronto a inneggia re quanto volete, e sono anche pronto a pregare per gra titudine, ma che senso ha rompere le finestre per patriot tismo e spaccare la faccia alle persone?». « E una barbarie, l’efferatezza di questi giorni! - disse una donna robusta - Ah, questo popolo, quanto sa esse re feroce!». Da un angolo risuonò una voce ferma e sicura: «È tutta opera della polizia!». Tutti tacquero per un minuto. Dall’angolo la voce riprese: « Preparano una controrivoluzione alla russa. Osserva te bene, chi è che comanda le manifestazioni patriottiche? Dei poliziotti travestiti, gli agenti della polizia segreta». Evsej, ascoltando quelle parole con gioia, di nascosto studiava con lo sguardo il volto giovane, scarno e pulito di quella persona con il naso largo, i baffi piccoli e un ciuffo di peli chiari sul mento volitivo. L’uomo stava se duto appoggiandosi con la schiena all’angolo del vagone e con le gambe accavallate, osservava i presenti con lo sguardo acuto dei suoi occhi azzurri e parlava come qual cuno che ha potere sulle parole e sui pensieri, che crede nella loro forza. Indossava una giacca corta e foderata e degli stivali alti e avrebbe avuto l’aspetto di un operaio, se non lo avessero tradito le mani bianche e le rughe sottili sulla fronte. «È travestito!» pensò Evsej. Si mise a seguire con grande attenzione le parole riso lute del giovane biondo osservando i suoi occhi azzurri trasparenti e acuti e convenendo con lui. Ma improvvi samente si contrasse, colto da un forte presentimento, at traverso il vetro distinse accanto al bigliettaio una nuca scura e sporgente, delle spalle chine e una schiena stretta. Il vagone sussultò e la nota figura ondeggiò elastica man tenendosi salda sulle gambe.
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«Jakov Zarubin!». Klimkov guardò allarmato il giovane travestito da ope raio che si era tolto il cappello e, sistemandosi i capelli biondi e ondulati, diceva: «Finché il nostro governo ha in mano i soldati, la po lizia e le spie, non concederà mai al popolo e alla società i loro diritti senza scontri e sangue, ricordiamocelo bene!». «Non è vero, mio caro signore! - gridò l’uomo alto e ossuto —l’imperatore ci ha dato un’intera costituzione, si, ce l’ha data, quindi non osate...». « Ma allora chi è che organizza i pestaggi in strada e chi è che grida «Abbasso la costituzione»? - chiese freddo il giovane —Fareste meglio a guardare i difensori del vecchio sistema, eccoli che passano». Il vagone cominciò a cigolare, a stridere, si fermò e quando il rumore fastidioso prodotto dal suo movimen to cessò, si cominciarono a sentire delle forti grida di agi tazione: «Dio protegga lo zar!». «Evviva!». Dall’angolo della strada di fronte al vagone spuntaro no di corsa un gruppo di ragazzini che si sparsero urlando sul selciato, come se fossero stati gettati dall’alto. Dietro a loro in modo affrettato e disordinato, formando un gros so triangolo nero, comparve sulla strada una folla di gente con le bandiere tricolori. Echeggiavano grida inquiete: «Evviva! Ferma, ragazzi!». «Abbasso la costituzione!». «Non la vogliamo!». «Dio protegga lo zar!». Le persone si accalcavano, cercando di superarsi l’un l’altro, agitavano le braccia, lanciavano in aria i cappelli; davanti a tutti, con la testa china come un bue, procede va Mel’nikov con in mano un pesante bastone con sopra la bandiera nazionale. Guardava per terra, le sue gambe
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si ergevano alte e probabilmente batteva i piedi con gran de forza, perché ad ogni passo il suo corpo sussultava e la testa oscillava. Le sue potenti grida si distinguevano net tamente dal caos disordinato delle urla fiacche e sgomen te per l’abbondanza delle sue esclamazioni. «Rifiutiamo l’inganno!». Dietro di lui, saltellando e girando il collo a destra e a sinistra, scendevano per il selciato delle persone grigie e scure, scarmigliate, sollevavano la testa e le braccia verso l’alto, guardando le finestre dei palazzi, si accalcavano sui marciapiedi, strappavano i cappelli ai passanti, correva no di nuovo verso Mel’nikov, e gridavano, fischiavano, si aggrappavano l’un all’altro, ammucchiandosi, mentre Mel’nikov, sventolando la bandiera, faceva risuonare la sua voce e tuonava come una grossa campana. « Ferma! - ordinò la spia innalzando la bandiera e sol levando il capo —Cantate!». E dalla sua grande bocca proruppe un suono selvag gio e malinconico: «Dio...». Ma in quello stesso momento nell’aria cominciarono a riversarsi, disordinatamente e rapacemente come uno stormo di uccelli affamati, delle grida agitate, che si so vrapponevano alla voce della spia e la coprivano con la loro massa avida e frettolosa: «Evviva l’imperatore! Via i cappelli... Cristiani orto dossi! Abbasso il tradimento!». Sul tram era sceso il silenzio, tutti erano in piedi, sen za cappello, e tacendo pallidi, guardavano la folla che li stringeva nel suo abbraccio sudicio e ondeggiante. Ma l’uomo travestito da operaio non si era tolto il cappello. Evsej guardò il suo volto severo e pensò: «Si dà delle arie». Poi si mise a guardare la strada attraverso il vetro, sol levando un angolo della bocca in un sorriso beffardo. Sen-
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tiva chiaramente la pochezza di quegli uomini che salta vano inquieti da ogni parte, capiva perfettamente che era no spronati da una oscura paura interiore che li spingeva da una parte all’altra e con la quale lottavano inebrian dosi con le loro forti grida per cercare di dimostrare a se stessi di non aver timore di niente. Correvano attorno al vagone come un branco di cani appena liberati dalla ca tena, pieni di una gioia impulsiva, ma non ancora privi della paura abituale. Evidentemente, non riuscivano a de cidersi a percorrere la larga strada luminosa, non erano in grado di formare un solo corpo, si affannavano, sbrai tavano e si guardavano intorno inquieti, nell’attesa di qualcosa. Proprio vicino al tram c’era un ometto magrolino con la barba a punta e un pellicciotto lacero che con gli occhi chiusi, il volto sollevato verso l’alto e spalancando la boc ca affamata dai denti gialli, gridava con voce stridula: «Abbasso! Fermatevi!». La tensione gli faceva scorrere le lacrime sulle guance e la fronte era imperlata di sudore. Quando smetteva di gridare, piegava il collo, si guardava intorno diffidente sol levando le spalle, e, chiudendo di nuovo gli occhi, rico minciava a gridare come se lo stessero picchiando. «Basta!». Evsej vedeva i volti familiari e tetri dei portieri, il mu so baffuto e incollerito del devoto Klimyc, il guardiano del la chiesa, gli occhi affamati degli straccioni adolescenti, le facce stupite degli umili contadini. Tra queste persone spic cavano alcune figure che davano spintoni e impartivano ordini a tutti, riempiendo i corpi ciechi e inerti della folla con le loro pulsioni e con la loro grande rabbia. Jakov Zarubin, che sgusciava tra la folla come una saet ta, raggiunse Mel’nikov e tirandolo per la manica, comin ciò a dirgli qualcosa, indicando con la testa il vagone. Klimkov si voltò in fretta verso l’uomo con il cappello che
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era già in piedi e si stava avvicinando alla porta con il ca po eretto e le sopracciglia corrugate. Evsej si mosse per avvicinarglisi ma Mel’nikov saltò sul vagone sbarrando la porta con il suo grosso corpo e ruggì: «Via il cappello!». L’uomo si voltò di scatto e si avviò verso l’altra usci ta, ma là c’era Zarubin che gridava con voce acuta: « È quello che non si è tolto il cappello! Lo conosco! Costruisce le bombe. Ragazzi, state attenti!». Nella mano di Zarubin brillava una rivoltella, il ragaz zo la agitava in aria come fosse un sasso, con la mano al lungata in avanti. La gente dalla strada si infilava nel tram, mentre i passeggeri del vagone gli si spingevano contro per uscire. Una donna singhiozzò con voce stridula: «Suvvia, cosa aspettate, toglietevi il cappello!». Tutti strillavano, urlavano, si schiacciavano l’un l’al tro e con gli occhi sgranati e inquieti fissavano l’uomo con il cappello. «Andatevene, altrimenti sparo!» disse forte questi an dando verso Zarubin. L’agente fece qualche passo indie tro, ma gli diedero una spinta da dietro la schiena, cadde sulle ginocchia e, appoggiandosi con una mano al pavi mento, allungò l’altro braccio verso l’uomo. Uno sparo echeggiò in modo spaventoso, poi un altro. I vetri tintin narono, nel giro di un secondo tutte le urla cessarono co me congelate, poi una voce ferma disse con disprezzo: «Carogne!». Un terzo sparo fece tremare di nuovo l’aria e i vetri c Zarubin gridò forte: «Ah!». E cadde sbattendo a terra con la fronte, come per in chinarsi ai piedi di qualcuno. La mischia si allentò e il rumore diminuì. Klimkov, av vilito in un angolo, rattrappito su una panca, pensava in differente:
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«Potevo rimanere ucciso io». Si guardò intorno stanco: l’uomo con il cappello era in piedi sul tram, Mel’nikov lo stava raggiungendo pas sando davanti a Evsej e Zarubin giaceva immobile con la faccia rivolta per terra. «Andatevene o vi uccido!» echeggiò la voce con tono alto e secco, ma Mel’nikov scavalcò Jakov, afferrò di lato il giovane biondo e lo gettò sulla strada gridando con vo ce furiosa e selvaggia: «Picchiatelo!». Precipitosamente echeggiarono tre spari, cominciarono a risuonare dei colpi sordi e qualcuno iniziò a lamentarsi co me un bambino con suoni prolungati e cantilenanti: «Ah, la mia gamba!». E un altro gridava con la voce rauca per lo sforzo: «Bisognava colpirlo sulla zucca, ah!». E una voce acuta e isterica squillava entusiasta: «Massacratelo, miei cari, strozzatelo! Sono finiti i tem pi in cui comandavano loro, ora tocca a noi!». Tutte le grida vennero coperte da una forte esclama zione piena di triste disprezzo: «Idioti!». Evsej barcollando si sporse dal tram e vide un mucchio scuro di gente. Con la schiena curva agitando le braccia e le gambe, ansando per lo sforzo, rantolando dalla stan chezza, si accalcavano sulla strada come grossi vermi ir suti, trascinando sulle pietre il corpo pesto e lacero del gio vane biondo, gli sferravano dei calci, pestandogli il volto e il petto, lo afferravano per le gambe e le braccia e lo ti ravano contemporaneamente da varie parti. Seminudo, coperto di sangue, molle come un impasto, sbatteva sul le pietre e a ogni colpo perdeva sempre più le forme di una persona; la gente si affaccendava tutta intorno a lui, e un ometto magro cercava di schiacciargli il cranio pestando lo con un piede e gridava:
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«È arrivato il nostro momento!». Il massacro stava per finire, uno dopo l’altro gli aggres sori lasciavano la strada per salire sul marciapiede, un ra gazzo con la pelle butterata si strofinava le mani sulla pel liccia corta e chiedeva imperioso: «Chi ha preso la rivoltella?». Ora le voci risuonavano stanche, forzate. Ma sul mar ciapiede tra un piccolo gruppo di persone vicino a un lam pione si udì una risata. Una voce irritata cercava di con vincere qualcuno: «T i sbagli, sono stato io il primo! Non appena è ca duto gli ho dato un colpo sul muso con lo stivale». « È stato il cocchiere Michajla ad aggredirlo per primo, poi io...». «Michajla si è preso una pallottola in una gamba». «Se non ha colpito l’osso, allora non è niente». Dopo aver provato il gusto del sangue erano diventa ti più audaci e si guardavano intorno con occhi assetati, con avidità e trepidazione. In mezzo alla strada giaceva uno scuro ammasso infor me, dal quale il sangue colava lentamente negli spazi tra le pietre del selciato. «Ecco come sono!» pensò rassegnato Evsej seguendo i rivoli rossi sulle pietre. Davanti ai suoi occhi nella tre mante nebbia rossa scura apparve il volto irsuto di Mel’ nikov e bassa e stanca risuonò cupa la sua voce: «L ’hanno ucciso». «Sì, in un attimo...». «Anche questa mattina hanno ucciso uno». «Come mai?». «Stava parlando alla folla e Cašin gli ha sparato al ventre». «M a perché?». «Stanno ingannando il popolo. Il manifesto è falso, il popolo non ha ottenuto nulla».
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« È tutto un piano di Saša! disse Evsej piano e con con vinzione. Mel’nikov scrollò il capo, si guardò le grandi mani e con voce strana, come da ubriaco, borbottò: « C ’è sempre qualcuno che imbroglia. Jakov è morto?». Entrò nel vagone, si chinò per sollevare Zarubin e lo posò su un sedile con il volto all’insù. « £ morto. Ecco dov’è stato colpito ». Evsej cercava sul volto di Zarubin la cicatrice che lui stesso gli aveva causato con la bottiglia, ma non riusciva a trovarla. Ora sopra all’occhio destro della spia, nel pun to esatto della cicatrice, c’era un piccolo foro rosso dal qua le Klimkov non riusciva a distogliere lo sguardo. Era co me se risucchiasse su di sé la sua attenzione, suscitando in lui un profondo senso di pietà per Jakov. «Ce l’hai una rivoltella?» gli chiese Mel’nikov. «No».
«Ecco, prendi quella di Jakov». «Non la voglio, a me non serve». « In questo momento serve a tutti! —disse Mel’nikov e la infilò nella tasca del cappotto di Evsej —Ecco, prima c’era il nostro Jakov e adesso non c’è più». «Sono stato io che ho indicato alla morte dove colpir lo!» pensò Evsej, osservando il volto del compagno. Le so pracciglia di Zarubin erano rigidamente corrugate, i baffetti neri erano ritti sul labbro sollevato, sembrava irritato, e ci si poteva aspettare che dalla bocca semiaperta avrebbe co minciato a scorrere fuori un discorso veloce e concitato. «Andiamo!» disse Mel’nikov. «E lui? Come si fa?» chiese Evsej staccando con sfor zo gli occhi da Zarubin. «C i pensa la polizia. Non si possono portare via i ca daveri, è vietato dalla legge. Andiamo da qualche parte per riprenderci. Oggi non ho mangiato. Sono già tre giorni che non riesco a mangiare. E neppure a dormire».
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Fece un sospiro profondo e concluse con cupa indif ferenza: «Dovevano ammazzare me invece di Jakov». «È Saša la rovina di tutto!» pronunciò Evsej tra i denti. Camminavano per strada senza accorgersi di niente e parlavano ciascuno per conto suo con le voci impastate, come ubriachi. «Dove sta la verità?» domandava Mel’nikov proten dendo la mano in avanti come per tastare l’aria. «Ecco, vedi, ne hanno uccisi due» diceva Evsej, affer rando con sforzo un pensiero incontrollabile. « Oggi probabilmente rimarranno uccisi in molti ». Mel’nikov tacque a lungo poi di colpo agitando mi nacciosamente il pugno in aria disse forte e deciso: « Basta! Ho già abbastanza peccati sulla coscienza. Ho uno zio che abita al di là del Volga, un vecchietto molto anziano, tutti gli altri miei parenti sono morti. Andrò da lui. È un apicoltore. Da giovane è stato processato per ché fabbricava soldi falsi». Dopo aver taciuto di nuovo per qualche secondo, la spia si mise a ridere piano: «Che hai?» chiese Evsej risentito. «Mi dimentico tutto, tre anni fa quello zio è morto». Senza accorgersene giunsero alla nota trattoria; Evsej si fermò sulla porta e, dopo aver guardato pensieroso le finestre illuminate, borbottò seccato: «Dell’altra gente, non mi va di entrare». « Continuiamo a camminare, è uguale!» disse Mel’nikov e, prendendolo sottobraccio, lo portò con sé dicendo: «D a solo mi annoio. E poi sono diventato pauroso. Non ho solo paura che mi uccidano se scoprono che so no un agente, ma temo così, in generale». Non andarono nella stanza dove si incontravano i compagni, ma si sedettero in un angolo di una sala comu ne. C ’era molta gente, ma non si notavano degli ubria
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chi, anche se le voci erano forti e scandite e si respirava un’agitazione particolare. Klimkov per abitudine comin ciò a origliare i discorsi altrui, mentre il pensiero di Saša, senza abbandonarlo, gli cresceva silenzioso nella mente stordita dalle impressioni del giorno, ma rinfrescata dal le ondate di odio pungente verso la spia e dalla paura nei suoi confronti. «Mi ucciderà, mi ucciderà...». Mel’nikov beveva la birra di malavoglia, taceva e di tanto in tanto si grattava. Non lontano da loro sedevano a un tavolo tre perso ne, evidentemente dei commessi, giovani, vestiti alla mo da, con delle cravatte variopinte e un modo di parlare particolare. Uno di essi, ricciuto e scuro, parlava con agi tazione, con gli occhi scuri che scintillavano: « Sfruttano la rozzezza di qualche straccione affamato per dimostrarci che la libertà non è possibile a causa di una moltitudine di simili individui selvaggi. Tuttavia, permet tetemi, ma le persone selvagge non sono comparse ieri, so no sempre esistite, e le si faceva rigare dritto, li sapevano frenare con il terrore delle leggi. Perché adesso consento no loro qualsivoglia ferocia e atrocità?». Osservò trionfante la sala e rispose alla sua domanda con fervente convinzione: «Perché vogliono dimostrarci questo: “Volete la li bertà, signori? Eccola, prego! La vostra libertà vuol dire omicidi, rapine e qualsiasi atrocità commessa dalla folla”». «Hai sentito? - disse Evsej —E il piano di Saša». Mel’nikov lo guardò cupo e non rispose. Il ragazzo riccio si alzò dalla sedia e continuò muoven do adagio la mano che reggeva un bicchiere di vino: « Questo è falso e io protesto! La libertà è necessaria alle persone oneste non per soffocarsi a vicenda, ma per ché ciascuno possa difendersi dalla diffusione della violen za della nostra vita senza leggi! La libertà è la dea dell’in
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telletto, e ne hanno già sparso abbastanza del nostro san gue. Io protesto! Evviva la libertà!». Il pubblico si mise a gridare e a battere i piedi. Mel’nikov guardò l’oratore dai capelli ricci e borbottò: «Che idiota!». «No, ha ragione!» replicò Evsej innervosito. «E tu come fai a saperlo?» chiese la spia con aria in differente e si mise a bere la birra a piccoli sorsi. Evsej aveva voglia di dire a quell’uomo robusto che era lui un idiota, una bestia ottusa alla quale padroni furbi e crudeli avevano insegnato a dare la caccia alle persone. Tuttavia, Mel’nikov alzò il capo e, guardando in faccia Klimkov con i suoi occhi scuri spaventosamente straluna ti, cominciò a parlare in un sussurro echeggiante: « È per questo che ho paura, sai che quando ero in pri gione è accaduto un caso...». «Aspetta - disse Evsej —Stai zitto!». Attraverso la massa molle del rumore emergeva vitto riosamente una voce acuta che perforava le orecchie: «Avete sentito? Ha detto “la dea”. Tra l’altro noi russi ce l’abbiamo una nostra dea: la santissima vergine Maria madre di Dio. Ecco cosa dicono quei giovinastri ricciuti!». «Eccolo!». «Silenzio!». «No, permettete! Se c’è la libertà, allora ognuno ha il diritto...». «Avete visto? Loro, i ricciuti, vanno per le strade a pic chiare il popolo che sostiene l’onestà dell’imperatore e insor ge contro il tradimento, e noi russi, cristiani ortodossi, non possiamo neppure aprire bocca. Questa si chiama libertà?». «Faranno a botte - disse Klimkov sussultando - uc cideranno qualcuno. Io me ne vado». «Ah, come sei! Beh, usciamo. Che vadano al diavolo, cosa te ne importa di loro!». Mel’nikov gettò i soldi sul tavolo e si avviò verso l’usci ta a testa bassa, come per nascondere la sua faccia vistosa.
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In strada al freddo e al buio cominciò a parlare con vo ce soffocata: «Quando ero in prigione —a causa di un padrone che avevano strozzato da noi in fabbrica fui arrestato anch’io —mi dicevano: “Andrai ai lavori forzati”. Tutti me lo ri petevano, prima l’investigatore, poi si intromisero i gen darmi per spaventarmi e io ero giovane e non volevo an dare ai lavori forzati. Ero disperato, piangevo». Cominciò a tossire rumorosamente e rallentò il passo. « Una volta è venuto il vice-ispettore della prigione, Aleksej Maksimyc, un buon vecchietto che mi voleva be ne e si affliggeva terribilmente. Diceva: “Eh Ljapin” - Ljapin è il mio vero cognome - “mi dispiace molto per te, amico, come sei sfortunato!”». La sua voce regolare e pensosa si stendeva davanti a Evsej come una striscia morbida e Klimkov la percorreva in discesa come fosse uno stretto sentiero che portava da qualche parte in basso, nelle tenebre, verso una storia tre menda e affascinante. « Un giorno venne da me e mi disse: “Voglio salvarti, Ljapin, perché tu possa vivere una vita dignitosa. Il tuo reato prevede i lavori forzati, ma puoi evitarli. Devi solo giustiziare un uomo. È una persona condannata per assas sinio politico, sarà impiccato per legge, in presenza di un sacerdote, gli daranno la croce da baciare, quindi non ti devi sentire in imbarazzo”. Io gli risposi: “Beh, se ho l’au torizzazione dei superiori e mi sarà perdonato, allora lo impiccherò, l’unica cosa è che non sono capace...”. Mi dis se: “Ti insegneremo noi, abbiamo una persona esperta che è rimasta inferma per una paralisi e non più lavorare” . Insomma, mi spiegarono come fare per tutta la sera, que sto accadde nella cella di isolamento, riempirono un sac co con degli stracci, lo legarono con una corda, gli model larono una specie di collo e me lo facevano impiccare a un gancio per imparare. Al mattino presto, mi diedero da be-
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re una mezza bottiglia di vodka e mi condussero nel cor tile con i soldati armati di fucili. Era stato costruito un pal co con una forca, significava che ci sarebbero stati diver si superiori a osservare. Erano tutti intabarrati, rattrappiti per il freddo, era autunno, novembre. Io salii sul palco e le assi traballarono, scricchiolarono sotto ai miei piedi con uno stridore simile a quello dei denti. Ne fui turbato e dis si: “Datemi ancora della vodka, altrimenti ho paura”. Me la diedero. Poi condussero l’uomo». Mel’nikov ricominciò a tossire in modo sordo, pren dendosi la gola, ed Evsej, stringendosi a lui, cercava di te nere il suo passo e guardava per terra, non osando rivol gere lo sguardo né davanti né di lato. «Vidi che il condannato era giovane, forte, saldo sul le gambe e si accarezzava continuamente i capelli così, dal la fronte verso la nuca. Mi alzai per mettergli la tunica dei condannati e devo averlo urtato o pizzicato, perché mi disse piano, senza passione: “State più attento”. Sì. Il po pe gli porse la croce ma lui gli disse: “Non disturbatevi, non sono credente”. E aveva il viso di una persona che sa tutto quello che c’è dopo la morte, che lo sa con certez za. Lo strangolai alla meno peggio, tremavo tutto, avevo le mani intorpidite, le gambe mi si piegavano, il condan nato mi aveva terrorizzato con la sua calma incrollabile. Sembrava che dominasse la morte». Mel’nikov tacque, si guardò intorno e velocizzò il passo. «E poi?» chiese Evsej in un sussurro. «E poi l’ho strozzato e basta. Solamente che da quel giorno quando vedo o sento che hanno ucciso una per sona mi ricordo di lui. Credo che solo lui sapesse la verità. Per questo non aveva paura. E sapeva anche, e questo è il fatto più importante, che cosa sarebbe successo in futu ro, cosa che nessuno sa. Evsej andiamo a dormire da me, eh? Dai, andiamo, per favore!».
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«Va bene» disse piano Klimkov. Era contento della proposta, adesso non sarebbe potu to andare a casa da solo per le strade buie. Si sentiva stret to, come se gli schiacciassero dolorosamente le ossa, come se non stesse camminando per strada, ma strisciasse sot to la terra che gli comprimeva la schiena, il petto, i fian chi, promettendo di arrivare a una buca profonda e ine luttabile, dove sarebbe presto caduto per volare giù all’infinito in una profondità muta e senza fondo. « Bene! - disse Mel’nikov —Altrimenti da solo mi an noio». Evsej gli suggerì malinconico: «Beh, se tu uccidessi Saša...». «M a va’! —disse Mel’nikov facendo un gesto con la mano —Cosa credi, che ci provi gusto a uccidere? Dopo allora per due volte mi hanno chiesto di impiccare, una donna e uno studente, e io mi sono rifiutato. Se ti capita di impiccarne un altro, invece che da uno sarai persegui tato dal ricordo di due per tutta la vita. Perché quelli poi ti appaiono, i condannati, ritornano!». «Spesso?». « Dipende. E come si fa a proteggersi da loro? Di pre gare Dio non sono capace, e tu?». «Le preghiere me le ricordo». Entrarono in un cortile, camminarono a lungo nella sua profondità inciampando su assi di legno, pietre, im mondizia, poi scesero per una scala. Klimkov si aggrap pava con la mano al muro e gli sembrava che la scala non avesse fine. Quando si ritrovò nell’appartamento della spia e lo osservò alla luce della lampada, rimase colpito dalla quantità di quadri variopinti e di fiori di carta che rico privano quasi interamente le pareti, e di colpo Mel’nikov divenne un estraneo in quella stanza piccola e accogliente con un letto largo nell’angolo dietro a una tenda bianca. « È tutta opera della mia amante —disse svestendosi —
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Se n’è andata, quella sgualdrina, l’ha sedotta un gendar me, un maresciallo. Non ci ho capito nulla, lui era vec chio, canuto, lei giovane, amante degli uomini, eppure se n’è andata! È già la terza che mi abbandona. Dai, an diamo a dormire ». Si stesero l’uno accanto all’altro sullo stesso letto che dondolava sotto Evsej come le onde del mare, abbassan dosi sempre di più e facendogli pietrificare il cuore dalla paura, e nel suo petto si depositavano penosamente le pa role della spia: «Ne ho avuta una che si chiamava Ol’ga...». «Come?». «O l’ga, perché?». «Niente». « Piccola, magra, allegra. A volte mi nascondeva il cap pello o qualche altra cosa e io dicevo: “Ol’ga, dove l’hai messo?” e lei: “Cerca, in fondo sei un investigatore!”. Le piaceva scherzare. Ma era dissoluta, non facevi in tempo a girarti da una parte che era già con un altro. Di picchiar la avevo paura, era così debole. Però le tiravo le trecce, in qualche modo dovevo pur punirla». « Signore! —esclamò piano Klimkov —cosa sarà di me?». Il suo compagno tacque per qualche istante e poi dis se, con voce lenta e sorda: «Anch’io certe volte mi tormento così».
Capitolo XXII
Klimkov si svegliò con una decisione misteriosa che gli stringeva forte il petto come una larga fascia invisibile. Sentiva che le estremità di quella cintura erano tenute da mani tenaci che lo conducevano caparbiamente verso l’ignoto e l’inevitabile. Prestava orecchio a questo desi derio e lo esaminava cauto con la sua mente goffa e timorosa, ma allo stesso tempo non voleva che si preci sasse. Mel’nikov, già lavato e vestito, ma ancora spettinato, era seduto a tavola vicino al samovar, masticava il pane pigramente, come fosse un bue, e diceva: «Dormi bene, tu! Io ho dormicchiato un po’, poi nel cuore della notte mi sono svegliato e di colpo ho visto che di fianco a me c’era un corpo. Mi sono ricordato che Tanja se ne è andata, ma mi sono dimenticato di te. Al lora ho pensato che fosse il condannato, che fosse venu to a scaldarsi un po’». Si mise a ridere in modo sciocco. « Comunque, non sto scherzando, ho acceso un fiam mifero e ti ho guardato. Secondo me non stai bene, hai una faccia azzurrognola, come se...». Mel’nikov si interruppe tossendo, ma Evsej capì la pa rola che voleva dire il compagno e pensò malinconico: «Anche Raisa diceva che mi sarei impiccato!». Questo pensiero lo spaventò perché alludeva chiara mente a ciò che non voleva riconoscere.
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«Che ora è?». «Le dieci passate». «È ancora presto!» commentò silenzioso Evsej. « Sì, è presto » confermò il padrone di casa e tacquero entrambi. Poi Mel’nikov gli propose: «Vieni a vivere con me!». «Non so» rispose Evsej. «Che cosa?». «Cosa succederà» disse Klimkov pensieroso. «Non succederà niente. Tu sei tranquillo, parli poco e anche a me non piace parlare. Se fai una domanda, uno dice una cosa, un altro un’altra e un terzo ancora qualco s’altro, ma andate tutti al diavolo, dico io! Non fate altro che parlare senza capire niente». «Già» disse Evsej tanto per rispondere. « In qualche maniera bisogna agire!» pensava cercando un modo per difendersi e di colpo si decise: « Prima uc ciderò Saša...». E per non pensare a cosa sarebbe accadu to dopo chiese a Mel’nikov: «Dove andiamo?». « In ufficio » rispose indifferente la spia. «Non mi va» dichiarò Evsej in tono secco e deciso. Mel’nikov si grattò sotto alla barba, rimase un po’ in silenzio, scostò i piatti davanti a sé e, appoggiati i gomiti sul tavolo, cominciò a parlare pensieroso e a mezza voce: « Il nostro lavoro si è fatto difficile: tutti si sono messi a protestare, ma chi sono i veri ribelli? Vacci a capire qual cosa!». «Io so chi è il delinquente e il farabutto numero uno» borbottò Klimkov. Mel’nikov cominciò a mettersi il cappotto soffiando forte con il naso e chiese: «Allora abiteremo insieme?». « Sì ».
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« Oggi vai a prendere le tue cose?». «Non lo so». «E stanotte dormirai qui?». «Si». Quando la spia se ne fu andata, Klimkov balzò in pie di, si guardò intorno spaventato e cominciò a tremare sot to ai colpi sferzanti del sospetto. « E se mi ha chiuso qui da fuori ed è andato a riferire tutto a Saša? Ora verranno a prendermi...». Si precipitò alla porta, ma non era chiusa. Allora pen sò, con amarezza, come cercando di convincere qualcuno: « Come si fa a vivere così! Senza fidarsi di nessuno...». Poi rimase a lungo seduto al tavolo, immobile, sfor zandosi con tutto il suo cervello e la sua furbizia di archi tettare per il nemico una trappola che non mettesse in pericolo lui stesso e alla fine progettò un piano. Bisogna va in qualche modo far uscire Saša dall’ufficio della poli zia segreta, camminare di fianco a lui e quando avrebbe ro incontrato una grossa folla di gente gridare: «È una spia, picchiatelo!». Sarebbe dovuto accadere ciò che era avve nuto a Zarubin con l’uomo biondo. Se le persone non avessero colpito Saša così duramente come avevano fatto il giorno precedente con il rivoluzionario travestito, Evsej avrebbe dato loro l’esempio sparando per primo, come aveva fatto Zarubin, ma lui avrebbe colpito Saša. Avrebbe mirato al ventre. Klimkov si sentiva forte, audace e si affrettò, voleva portare a termine l’impresa immediatamente. Ma il ricor do di Zarubin lo turbava, complicando la misera sempli cità del suo progetto. Involontariamente ripete ciò che aveva pensato il giorno prima: «Sono stato io a indicarlo alla morte». Non si rimproverava o incolpava, ma gli pareva che un filo lo legasse alla spia dai capelli scuri e che bisognasse fare qualcosa per rompere quel vincolo.
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«Non gli ho detto addio, e ora come farò a trovarlo?». Indossò il cappotto, con la mano tastò la rivoltella nel la tasca, si rallegrò, sentì di nuovo l’impeto della deter minazione e uscì in strada a passo sicuro. Ma più si avvicinava all’ufficio della polizia segreta, più il senso di vigore diminuiva e si attenuava, svaniva la sen sazione di forza, e quando vide il vicolo stretto e senza usci ta con in fondo il tetro edificio a tre piani, di colpo fu colto dal desiderio implacabile di trovare Zarubin per dir gli addio. «L ’ho trattato male» si disse cercando di trovare una spiegazione al suo desiderio, mentre svoltava in una stra dina laterale e si allontanava dalla sua meta precedente. E allo stesso tempo sentiva in modo confuso che non poteva sfuggire da ciò che gli aveva afferrato il cuore e lo opprimeva attirandolo verso di sé, indicandogli l’unica via d’uscita da quella situazione complicata e tremenda. Il suo obiettivo di quel giorno, la decisione di uccide re Saša, non impediva a quella forza oscura e potente di crescere e invadere il suo cuore. Il progetto di vendetta, tuttavia, era stato ora messo in secondo piano dal desi derio, esploso così improvvisamente, di trovare il corpo della giovane spia. Sforzandosi di ravvivare questo impulso, per paura che sparisse anch’esso, Evsej girò per alcune ore su una carroz za per i vari comandi di polizia chiedendo di Zarubin con fare teso e solerte, e solo la sera venne a sapere dove si tro vava il corpo. Era già tardi per recarsi là e Klimkov andò a casa, segretamente soddisfatto che la giornata fosse passata. Mel’nikov non tornò a dormire. Evsej rimase nel let to da solo tutta la notte cercando di rimanere immobile. Ad ogni movimento la tenda bianca sul letto ondeggia va, l’odore di umidità gli soffiava sul viso e il letto scric chiolava cantilenando. Approfittando del silenzio, nella stanza correvano e strisciavano i sorci e il loro fruscio spez-
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zava la rete sottile dei pensieri su Jakov e Saša. Attraver so questi squarci Evsej vedeva il vuoto mortale in quieta attesa attorno a lui e sentiva una spinta tenace a unire a es so il vuoto della sua anima. Al mattino presto si trovava già nell’angolo di un gran de cortile vicino a un capannone giallo con una croce sul tet to. Un guardiano gobbo e canuto disse aprendo la porta: « Ce ne sono due, uno l’hanno identificato, il secon do no, e ora stanno per seppellirlo, quello non identifi cato...». Poi Evsej vide il volto come incollerito di Zarubin. Si era fatto solo un po’ bluastro, ma non era cambiato. La fe rita nel punto della cicatrice era stata lavata ed era diven tata nera. Il corpo piccolo e agile era nudo e pulito, gia ceva a faccia insù, allungato come una corda e con le braccia scure incrociate sul petto, come se domandasse irritato: «Beh, e allora?». Accanto a lui giaceva un cadavere scuro, tutto lacero e tumefatto, ricoperto di macchie rosse, bluastre e gialle. Qualcuno aveva coperto il suo viso con dei fiori azzurri e bianchi, ma da sotto Evsej vedeva le ossa del cranio, una ciocca di capelli impiastricciati di sangue e il padiglione auricolare strappato. « Questo era impossibile da riconoscere, praticamen te non c’è la testa. Invece l’hanno riconosciuto, ieri sono venute due signorine, che hanno portato questi fiori per coprire questo strazio. L’altro, invece, non si sa chi è». «Io lo so! —disse fermo Evsej —È Jakov Zarubin, la vorava nella polizia segreta». Il guardiano gli diede un’occhiata e scosse la testa in segno di diniego: «No, non è lui. Anche la polizia ci aveva detto che era Zarubin, ma la nostra amministrazione ha chiesto alla po lizia segreta e hanno detto di non conoscerlo».
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«M a io lo conosco bene!» esclamò con voce bassa ma seccata Evsej. «Alla polizia segreta hanno detto che non lo conosco no e che non lavorava da loro ». «Non è vero!» disse Evsej triste e sbigottito. Dal cortile entrarono due ragazzi giovani e uno chie se al guardiano: «Chi è quello non identificato?». « Questo ». Klimkov uscì fuori, allungando una moneta al guar diano e ripetendo con un’esausta caparbietà: «Eppure è Zarubin...». « Come volete! —disse il vecchio agitando la gobba — Tuttavia, se fosse così, lo avrebbero riconosciuto degli al tri, ad esempio ieri è venuto un agente, che pure cercava una persona uccisa e non ha riconosciuto il vostro ami co, ma che motivo aveva per non farlo?». «Quale agente?». «Grosso, calvo, con la voce carezzevole». «Solov’ëv!» intuì Evsej, osservando con sguardo ine betito mentre mettevano il corpo di Zarubin in una bara bianca e disadorna. «Non entra!» mugugnò uno dei due giovani. «Piega quelle gambe, accidenti!». «Il coperchio non si chiude». «Mettilo su un fianco, allora!». «Ragazzi, comportatevi come si deve!» disse calmo il vecchio. Il ragazzo che reggeva la testa del cadavere soffiò con il naso e disse: «È una spia, Fëdor». «Un uomo morto non è nessuno!» li ammonì il gob bo avvicinandosi. I ragazzi tacquero continuando a infilare il corpo scu ro e flessibile nella bara stretta e corta.
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«Idioti, prendete un’altra bara!» esclamò arrabbiato il gobbo. «Tanto è uguale!» disse uno dei due e l’altro aggiunse cupo: «Il signore non è tanto grosso». Evsej usci dal cortile portandosi nel cuore un amaro sentimento di umiliazione per Jakov. E dietro a sé sentì chiaramente il gobbo dire ai giovani che si occupavano del corpo: «Anche qui c’è qualcosa che non torna. Viene e dice di conoscerlo. Forse è lui il colpevole, eh ragazzi?». E quasi contemporaneamente due voci risposero: «Anche lui è una spia, si vede». «E che ce ne importa?». Klimkov saltò veloce su una carrozza e gridò al coc chiere: «Presto!». «Dove andiamo?». Dopo qualche secondo Evsej disse piano: « Sempre dritto ». In testa gli battevano sordi dei pensieri cupi: « Lo sotterrano come fosse un cane. E faranno così an che con me». Di fronte a lui la strada si muoveva, le case sussulta vano oscillando, scintillavano i vetri, passavano rumoro se le persone e tutto gli era estraneo. «Voglio uccidere Saša, ora vado e gli sparo». Lasciata la carrozza, entrò in un ristorante dove Saša andava di rado, meno spesso rispetto agli altri posti, si fermò davanti alla porta della stanza dove si riunivano le spie e si disse: «Appena lo vedo, gli sparo subito». Pian piano, con la mano tremante bussò alla porta e, tastando la rivoltella nella tasca, rimase immobile in una gelida attesa.
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«Chi è?» chiesero da dietro la porta. «Io» disse Evsej. Allora la porta si apri leggermente e dalla fessura ba lenarono l’occhio e il piccolo naso rossiccio di Solov’ev. «Ah! —esclamò meravigliato —girava voce che ti aves sero ucciso». «No, non mi hanno ucciso» ribattè irritato Klimkov togliendosi il cappotto. «Chiudi la porta. Dicevano che eri con Mel’nikov...». Stava masticando accuratamente il prosciutto e questo gli impediva di parlare, le labbra unte proferivano delle parole indifferenti producendo degli schiocchi. «Allora non è vero che eri con Mel’nikov?». «Perché non dovrebbe essere vero?» chiese Evsej. « Beh, tu sei vivo e vegeto, lui invece sta male. L ’ho visto ieri». « Dove?». La spia nominò proprio l’ospedale in cui Evsej era ap pena stato. «E cosa ci faceva là?» si informò distaccato Klimkov. «È una storia incredibile. Lo ha colpito in testa un co sacco con la sciabola e i cavalli l’hanno calpestato. Come e perché sia successo non si sa. Lui è privo di coscienza e il dottore ha detto che non si sarebbe ripreso». Solov’ev si versò un bicchierino di una vodka verdo gnola, la guardò controluce stringendo gli occhi, la bev ve e chiese a Evsej: «Dov’è che ti nascondi?». «Non mi nascondo». Nel corridoio cadde un piatto, Evsej sussultò e ricor dandosi che aveva lasciato la rivoltella nella tasca del cap potto, si alzò in piedi. «Saša è inviperito con te». Negli occhi di Evsej fluttuò il disco rosso e minaccio so della luna circondato da una nuvola di nebbia viola-
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cea e maleodorante, si ricordò la voce nasale e autoritaria e le dita giallastre nelle mani ossute. «Non viene qui?». «Non lo so». Solov’ev aveva il volto lucido, evidentemente era mol to soddisfatto di qualcosa, sorrideva più spesso del solito e nella sua voce risuonava un incurante tono di signorile benevolenza che irritava Evsej. Dei pensieri sconnessi si agitavano nella sua mente an nientandosi l’un l’altro: « Siete tutti delle carogne. Mi dispiace per la morte di Mel’nikov. Invece questo grassone non ha voluto rico noscere Jakov. Perché?». «Avete visto Zarubin?». «Chi è?» chiese Solov’ev sollevando le sopracciglia. «Lo sapete». «Sì, sì, come no, l’ho visto». «E perché non avete detto che lo conoscevate?» chie se severo Evsej. La vecchia spia sollevò la testa calva e chiese sorriden do meravigliato: «Come?». Evsej ripetè la domanda, ma questa volta con tono più gentile. « Questo non è affar tuo, mio caro, sappilo! Siccome la tua stupidità mi muove a compassione, ti dirò che noi non abbiamo bisogno degli imbecilli, non ci curiamo di loro e non li riconosciamo. Non te lo dimenticare mai. Inten dimi bene e tieni a freno la lingua». I piccoli occhi di Solov’ev rilucevano freddi come due monetine d’argento e la voce aveva una nota perfida e crudele. La spia minacciava Evsej con il dito tozzo e grosso e le avide labbra azzurrognole avevano un’espres sione severa e imbronciata, ma tutto ciò non lo spaven tava.
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« È uguale —pensava Evsej —sono tutti della stessa com briccola, bisogna ucciderli tutti!». Con un balzo raggiunse il cappotto, estrasse la rivol tella dalla tasca, puntò la canna verso Solov’ev e gridò con voce strozzata: «E adesso?». Il vecchio ondeggiò, scivolò dalla poltrona sul pavi mento, con una mano afferrò una gamba del tavolo, l’al tra la protese verso Evsej e in un potente sussurro mor morò: «No, non fatelo! Signore mio, non sparate!». Klimkov premeva il dito sul grilletto con forza sem pre maggiore e dallo sforzo si sentiva gelare la testa, gli si drizzavano i capelli. « Devo sposarmi domani. Io vi prometto che...», le pa role vili e pesanti frusciavano nell’aria. Il mento della spia luccicava di unto e il tovagliolo gli tremava sul petto. La rivoltella non sparava, a Evsej faceva male il dito e il terrore che si era impadronito di lui da capo a piedi gli toglieva il respiro. «Vi darò del denaro! —bisbigliò in fretta Solov’ev — Non dirò nulla a nessuno». Klimkov alzò il braccio, tirò la rivoltella in faccia alla spia, agguantò il cappotto e corse via. Lo raggiunsero due deboli grida: «Ahi, ahi!». Queste urla, come due sanguisughe, gli si attaccarono al la nuca, infondendogli la forza frenetica della paura. Lo inseguirono a lungo e gli pareva sempre che die tro a lui si fosse raccolta una folla di gente silenziosa che lo rincorreva senza toccare il terreno con i piedi, tenden do verso il suo collo decine di braccia lunghe come tena glie che gli sfioravano i capelli. La folla si divertiva, si fa ceva gioco di lui scomparendo e riapparendo. Evsej prendeva una carrozza, scendeva, correva per un po’ e poi
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di nuovo saliva su un’altra, ma la folla era sempre lì, in visibile e spaventosa. Si sentì meglio quando vide davanti a sé un muro di alberi scuro e intrecciato e i rami nudi che gli si proten devano incontro. Si tuffò subito in quelfammasso salda mente fissato sul terreno e cominciò a procedere muoven do le braccia come se cercasse di chiudersi strettamente gli alberi alle spalle. Scese in un dirupo e si sedette sulla sab bia fredda, poi si alzò di nuovo e proseguì lungo il burro ne, sudato, con il respiro pesante e ubriaco per la paura. Ben presto si trovò davanti una radura, si mise cautamen te in ascolto e avanzò ancora di qualche passo senza fare ru more. Poi si sporse e vide che dinnanzi a lui si estendeva la striscia rialzata della ferrovia al di là della quale rico minciavano gli alberi, ma più radi e sottili, e attraverso la loro rete si intravedeva il tetto grigio di un edificio. Tornò velocemente sui suoi passi, su, in direzione del dirupo, verso il punto dove la foresta era più fitta e scura. « Mi prenderanno... - la gelida convinzione lo incalza va —Mi prenderanno...». Per il bosco vagava un suono basso e prolungato, che echeggiava da qualche parte vicino, faceva muovere i ra mi sottili, sfiorandoli e facendoli ondeggiare nell’oscurità del dirupo, riempiendo l’aria di un fruscio. Sotto ai pie di crepitava secco il ghiaccio sottile del ruscello: l’acqua era gelata e il ghiaccio copriva come una bianca pellicola le buche grigie e prosciugate. Klimkov si sedette, si chinò, mise in bocca un pezzet to di ghiaccio e balzò subito in piedi, arrampicandosi per il ripido pendio del burrone; si tolse la cintura e le bre telle e cominciò a legarli insieme osservando preoccupa to i rami sopra alla sua testa, e senza pietà pensò tra sé: «Non c’è bisogno che mi tolga il cappotto, più sono pesante, meglio è». Si affrettava, gli tremavano le dita e le spalle gli si sol-
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levavano involontariamente verso l’alto come per nascon dere il collo, e in testa gli martellava il pensiero spaven tato: «Non farò in tempo!». Sfrecciò il treno, gli alberi sibilarono scontenti, la ter ra tremò e tra i rami comparve un vapore bianco. Arrivò un gruppo di cinciallegre. Fischiettando vivaci, balenavano nella rete scura dei rami e il loro affaccendar si frettoloso accelerava i movimenti delle dita fredde e tre manti di Evsej. Lanciata la cintura con cui aveva forma to un cappio su un ramo, Klimkov la tirò verso il basso per vedere se era abbastanza salda. Allora, sempre affret tandosi, cominciò a fare un altro cappio legando le bretel le e quando tutto fu pronto sospirò. «Ora devo pregare». Ma le parole delle preghiere non gli venivano in men te e rimase qualche secondo sovrappensiero. « Raisa sapeva come sarei finito» si ricordò improvvi samente, e infilata la testa nel cappio, disse piano, con sem plicità e senza agitazione: «Nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo...». Spingendo con le gambe sul terreno, fece un saltello verso l’alto e piegò le ginocchia. Si sentiva tirare doloro samente per le orecchie, dentro alla testa sentì un colpo strano; stordito, cadde con tutto il corpo sul terreno du ro, si rivoltò e rotolò giù, aggrappandosi con le mani alle radici degli alberi, sbattendo la testa contro un tronco e perdendo conoscenza. Quando si riebbe si ritrovò seduto nel dirupo: sul suo petto pendevano le bretelle strappate, i pantaloni si era no stracciati e attraverso la stoffa spuntavano tristemente le ginocchia scorticate a sangue. Gli doleva tutto il cor po, soprattutto il collo, ed era come se il freddo gli lace rasse la pelle. Rovesciando la testa all’indietro Evsej guardò il dirupo: là, sotto a un ramo bianco di una betulla, la ein-
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tura ondeggiava in aria come un serpente sottile che lo chiamava a sé. «Non ce la faccio!» pensò Evsej disperato. E dopo aver pianto lacrime di impotenza e di rabbia, si distese con la schiena a terra. Tra le lacrime vide il cielo fo sco e piatto, solcato dai secchi ornamenti dei rami scuri. Rimase disteso a lungo, soffrendo per il dolore e per il freddo, avvolto nel cappotto; davanti ai suoi occhi, sen za che lo volesse, scorreva tutta la sua vita insensata co me una catena di anelli scuri di fumo. Diverse volte i treni, passando davanti al boschetto, lo riempirono di fragore, di nuvole di vapore e di raggi di luce che scivolavano sui tronchi degli alberi, come ta standoli per trovarvi in mezzo qualcosa, e scomparivano frettolosi, veloci, tremanti e freddi. Quando questi raggi trovarono Evsej e lo toccarono, il ragazzo si alzò a fatica sulle gambe e li seguì nel crepu scolo del boschetto. Al margine della macchia si fermò e, appoggiato a un albero, si mise ad aspettare ascoltando i rumori lontani e nervosi della città. Era già sera, il cielo si era scurito, sulla città divampava silenzioso un tramon to opaco. In lontananza echeggiò una specie di ululato, un rom bo; le rotaie cominciarono a vibrare e a risuonare; nell’o scurità correva il treno, ammiccando con i suoi occhi ros si, e le tenebre si richiudevano dietro a esso, facendosi sempre più dense e scure. Evsej affrettandosi come pote va, salì sul terrapieno della ferrovia, si mise in ginocchio, poi si stese su un fianco di traverso al binario con la schie na rivolta al treno, appoggiò il collo su una rotaia e si av volse strettamente la testa con un lembo del cappotto. Per qualche secondo provò sollievo nel sentire il con tatto pungente con il ferro freddo che gli leniva il dolore al collo, ma la rotaia tremava e risuonava in modo sem pre più forte e angosciante e riempiva il corpo di un ge-
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mito sordo, mentre la terra, che pure sussultava con un leggero tremito, cominciò come a muoversi, fluttuando via da sotto al suo corpo, respingendolo da sé. Il treno avanzava lento e pesante, ma già assordante con il suo sferragliare, con i colpi regolari delle ruote sul le giunture delle rotaie; il suo respiro pesante rumoreggia va e spingeva sulla schiena di Klimkov. Tutto intorno a Evsej e dentro di lui tremava, si agitava violentemente stac candolo da terra. Non riuscì più a rimanere in attesa, balzò in piedi e co minciò a correre lungo le rotaie e a gridare con voce alta e stridula: «Farò qualsiasi cosa!». Due fasci di luce rossastra scivolando sul metallo ben levigato delle rotaie avvolsero Evsej e si accesero in mo do ancora più abbagliante. Le due strisce rosse di ferro sembravano incandescenti e scorrevano impetuosamente lungo i fianchi di Evsej dirigendo la sua corsa. «Farò tutto!» strillava agitando le braccia. Qualcosa di duro lo colpì alle spalle: inciampò nelle traverse tra le corde rosse dei binari e un cupo fragore di ferro schiacciò il suo debole lamento.