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Italian Pages 422 [423] Year 2020
Diotima. Studies in Greek Philology
Lavinia Maggi
La critica dei culti nel teatro del V secolo Aristofane interprete di Euripide
ACADEMIA
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Lavinia Maggi
La critica dei culti nel teatro del V secolo Aristofane interprete di Euripide
https://doi.org/10.5771/9783896658142
Diotima. Studies in Greek Philology Edited by Mauro Tulli
Volume 3
Editorial Board Christian Brockmann (Hamburg) | Tiziano Dorandi (Paris) | Michael Erler (Würzburg) | Jürgen Hammerstaedt (Köln) | Philippe Hoffmann (Paris) | Olimpia Imperio (Bari) | Walter Lapini (Genova) | Irmgard Männlein-Robert (Tübingen) | Roberto Nicolai (Roma) | Stefan Schorn (Leuven) | Giuseppe Zanetto (Milano)
https://doi.org/10.5771/9783896658142
Diotima. Studies in Greek Philology
Lavinia Maggi
La critica dei culti nel teatro del V secolo Aristofane interprete di Euripide
ACADEMIA
https://doi.org/10.5771/9783896658142
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© Coverpicture: P. Neckermann -> H 5697
The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the Internet at http://dnb.d-nb.de ISBN
978-3-89665-813-5 (Print) 978-3-89665-814-2 (ePDF)
British Library Cataloguing-in-Publication Data A catalogue record for this book is available from the British Library. ISBN
978-3-89665-813-5 (Print) 978-3-89665-814-2 (ePDF)
Library of Congress Cataloging-in-Publication Data Maggi, Lavinia La critica dei culti nel teatro del V secolo Aristofane interprete di Euripide Lavinia Maggi 422 pp. Includes bibliographic references and index. ISBN
978-3-89665-813-5 (Print) 978-3-89665-814-2 (ePDF) Onlineversion Nomos eLibrary
1st Edition 2020 © Academia Verlag within Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, Germany 2020. Printed and bound in Germany. This work is subject to copyright. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or any information storage or retrieval system, without prior permission in writing from the publishers. Under § 54 of the German Copyright Law where copies are made for other than private use a fee is payable to “Verwertungsgesellschaft Wort”, Munich. No responsibility for loss caused to any individual or organization acting on or refraining from action as a result of the material in this publication can be accepted by Nomos or the author. Visit our website www.academia-verlag.de
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Eleusi
Un generale ha innalzato a Eleusi una torre di cemento e piombo con l’orologio che batte di notte le cifre dei misteri. Dalla sua orbita l’ora fa un vortice volgare, grigio, sulla pietra dove piangeva in cadenza la pagina funebre l’apparenza monotona dei morti. Il duce solitario calpestava Eleusi, i canestri di vimini pieni di simboli robusti, fecondi di ululi umani, mettendo il grifo nelle perle nere, sull’arcata invisibile dell’Ade. Là Eschilo parlava a Ecate lunare: Che c’è di bene, che c’è privo di male? S. Quasimodo, da La terra impareggiabile
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Indice
Prólogo
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Premessa
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Parte I: Capitolo I:
Variazioni sul tema demetriaco e dionisiaco nelle tragedie di Euripide Aristofane e l’‘empietà’ di Euripide
§ 1 Cosmogonie e escatologia: l’‘orfismo’ di Euripide e la critica di Aristofane § 1.1 Tracce orfiche nelle cosmogonie di Euripide § 1.1.1 L’αἰθήρ § 1.1.2 Origini indoeuropee delle cosmogonie greche § 1.1.3 Il Tempo come agente cosmogonico § 1.1.4 Euripide fra misticismo orfico e speculazione filosofica § 1.2 Influenze orfiche sull’escatologia euripidea: l’αἰθήρ e la ψυχή § 1.3 Aristofane e la critica all’orfismo euripideo
23 25 26 26 26 36 39 44 48 54
§ 2 L’ateismo di Euripide: il Bellerofonte e la sua parodia nella Pace di Aristofane
58
§ 3 Euripide e l’‘empietà’ dei sofisti § 3.1 Le Baccanti (vv. 274-285) § 3.2 Il Sisifo (TrGF I 43 F19)
63 65 68
§ 4 La rappresentazione del poeta tragico sulla scena comica: il metodo di Aristofane
70
Capitolo II: L’ispirazione cretese di Euripide: l’Ippolito e i Cretesi
75
§ 1 Da Eleusi all’ἄντρον Ἰδαῖον § 1.1 I Misteri eleusini nel prologo dell’Ippolito § 1.2 Lo scenario metroaco della parodo dell’Ippolito § 1.2.1 La Μήτηρ ὀρεία § 1.2.2 I πρόπολοι della Mήτηρ: Cureti e Coribanti
75 75 80 82 92
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Indice
§ 1.2.3 Pan § 1.2.4 Ecate e Dictinna
95 100
§ 2 Fra l’Ippolito e i Cretesi: il ruolo dei misteri orfico-dionisiaci § 2.1 Fedra e Ippolito fra Dioniso e Orfeo § 2.1.1 Il delirio di Fedra § 2.1.2 Ippolito e Teseo § 2.2 La parodo dei Cretesi di Euripide § 2.3 Ancora sulla Creta euripidea: TrGF 57 F638 e TrGF V.2 F912
105 105 105 117 121
§ 3 Echi orfici nelle Baccanti?
131
Capitolo III: Ancora sulle peculiarità della religiosità euripidea: l’Elena
133
§ 1 Il secondo stasimo dell’Elena (vv. 1301-1368): il problema del suo significato all’interno del dramma
133
§ 2 Lo scenario religioso dello stasimo: Demetra e la Madre degli dei § 2.1 Le relazioni fra lo stasimo euripideo e l’Inno a Demetra § 2.2 Intersezioni fra sfera metroaca e demetriaca nel mondo greco: alcuni esempi § 2.2.1 Il culto dei Cabiri § 2.2.2 I culti di Demetra in Arcadia § 2.3 Demetra e la Madre degli dei in Attica § 2.3.1 Demetra Ἀχαία § 2.3.2 La Μήτηρ ἐν Ἄγρας § 2.3.3 L’episodio del μητραγύρτης e il μητρῷον dell’agorà § 2.4 Il secondo stasimo dell’Elena alla luce della realtà cultuale attica
129
136 136 142 145 148 152 153 154 158 162
§ 3 Analogie fra la religiosità dell’Elena e quella dell’Ifigenia in Tauride
165
§ 4 Un sottotesto orfico nell’Elena? § 4.1 La tradizione orfica relativa al ratto di Persefone § 4.2 Oltre il secondo stasimo: suggestioni orfiche nell’Elena
168 168 175
Capitolo IV: Antiope, Ipsipile, Fenicie, fra dionisismo, orfismo e Misteri eleusini
183
§ 1 L’Antiope: suggestioni orfiche e dionisiache
183
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Indice
§ 2 Ipsipile: un Dioniso ‘orfico’ fra Lesbo, Nemea e Delfi § 2.1 L’Ipsipile e la tradizione precedente su Orfeo e Dioniso § 2.1.1 La trama dell’Ipsipile e la sua interpretazione ‘orfica’ § 2.1.2 La Licurgia di Eschilo § 2.2 La parodo dell’Ipsipile § 2.3 Il canto cosmogonico del coro § 2.4 L’intervento di Anfiarao, sacerdote di Apollo
189 189
§ 3 Le Fenicie e i Misteri eleusini: intersezioni fra religione e politica
223
Conclusioni provvisorie
227
Parte II:
Le forme letterarie della critica religiosa: la risposta di Aristofane a Euripide
Capitolo V: Le Tesmoforiazuse: tragedia euripidea e ‘corruzione’ dei riti tesmoforici § 1 Il prologo della commedia: l’ἀμηχανία di Euripide, la ‘religione’ di Agatone e la teoria della μίμησις § 1.1 Lo scambio di battute fra Euripide e il Parente nei primi versi del prologo (vv. 1-38) § 1.2 Agatone § 1.2.1 Il ‘messaggio’ religioso di Agatone § 1.2.2 Agatone e la ‘Nuova Musica’ § 2 La violazione delle Tesmoforie § 2.1 Lo sfondo religioso della parodo § 2.2 La prima violazione della festa: la parodia del Telefo § 2.3 La seconda violazione della festa: il caso esemplare della parodia dell’Elena
189 192 205 213 217
229 231 235 237 241 241 252 262 265 267 270
§ 3 L’accordo fra Euripide e il coro: la parodia dell’Ifigenia in Tauride e la definitiva corruzione del culto tesmoforico
282
Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
289
§ 1 Il prologo della commedia: allusioni euripidee vs. allusioni eleusine § 1.1 Il travestimento di Dioniso e la sua ‘crisi di identità’ § 1.2 La rappresentazione dell’aldilà nelle Rane § 1.2.1 Beati e peccatori § 1.2.2 Escatologia ritualistica o etica?
293 293 299 299 305
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Indice
§ 1.2.3 Vivi come morti e morti come vivi? § 2 La catabasi: l’identità ateniese di Dioniso fra Antesterie, Misteri di Eleusi e Lenee § 2.1 L’incontro con le rane e le Antesterie § 2.2 Iacco § 2.2.1 Empusa § 2.2.2 L’incontro con gli iniziati § 2.2.3 Analogie fra il coro delle rane e il coro degli iniziati § 2.2.4 Il messaggio escatologico § 2.2.5 Aspetti dionisiaci della parodo § 2.3 Dioniso messo alla prova: fra l’Eracle καρτερός e l’Eracle mangione
308 314 314 325 325 326 329 331 333 338
§ 3 L’agone § 3.1 Due Weltanschauungen a confronto: Eschilo vs. Euripide § 3.1.1 L’insegnamento dei poeti § 3.1.2 Il ‘canone’ dei poeti secondo Eschilo § 3.1.3 Immoralità e religiosità euripidea § 3.2 La sfida dei prologhi § 3.3 La sfida dei cori e delle monodie § 3.4 La salvezza della πόλις
345 345 345 349 352 355 360 368
Conclusioni
377
Appendice Lamine auree: corrispondenze fra le edizioni di Zuntz, Pugliese Carratelli e Bernabé
381
Bibliografia
383
Indice dei principali passi citati
405
Testimonianze figurative
419
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Prólogo
El libro de Lavinia Maggi se sitúa en la feliz intersección de dos tendencias propias de los últimos años de la investigación filológica sobre el mundo clásico. Una es la consideración del trasfondo cultural de las comedias como un objeto de estudio que merece la máxima atención; se trata de una nueva forma de aproximación que se interesa por descubrir tras las producciones de los cómicos, en especial, de Aristófanes, referentes religiosos dionisíacos y propuestas ideológicas complejas que van mucho más allá del simple objetivo de hacer reír al público. La segunda es la superación de las actitudes hipercríticas con respecto al orfismo, que tiene su base en un estudio más matizado de sus textos, en especial, de importantes documentos editados en fechas relativamente recientes, y que ha provocado un considerable progreso en su conocimiento. Ello permite abordar el análisis de huellas de orfismo no tan notorias como las que habitualmente se habían puesto de relieve, pero que se traslucen tras los textos y evocan un contexto coherente, avalado por el supuesto indiscutible de que los autores cómicos contaban con que sus alusiones podían ser entendidas por el público. La autora ha centrado su estudio en el examen del contexto de las comedias de Aristófanes y ha puesto el acento en las complejas relaciones entre el cómico por excelencia, alineado con posiciones netamente conservadoras, y Eurípides, el trágico más abierto a explorar nuevas posibilidades y a caminar por senderos más abiertos. Y lo hace desde una perspectiva amplia, con una metodología compleja, planteada como un diálogo en torno a serios problemas de la religión griega desde posturas ideológicas muy divergentes, pero diálogo al fin y al cabo, en el que Aristófanes muestra en cada momento que su seria confrontación con el autor de tragedias corre pareja con su inequívoca admiración por él. No extraña que Cratino señale incisivamente esa obsesión de Aristófanes con la genial acuñación εὐριπιδαριστοφανίζειν (PCG 342). Ello lleva a Lavinia Maggi a plantearse el complejo problema de la religiosidad de Eurípides, que solo una visión simplista puede definir simplemente como ateísmo. Las páginas del libro nos van desvelando, siempre en el marco de la confrontación de las tesis del trágico con la crítica del cómico, la compleja postura de Eurípides, que se mueve entre muy diversas tendencias, entre las que cabría señalar las dos más importantes: una que lo lleva a estudiar y a reflejar en sus obras propuestas ideológicas claramente surgidas en el ámbito de la física jonia y de la sofística que van desde el cuestionamiento de múltiples creencias aceptadas sin discusión por la religión cívica tradicional hasta el desarrollo de una nueva “religión filosófica” en la que principios físicos como el Éter o personificaciones racio-
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Prólogo
nales como la Inteligencia pugnan por desplazar de su lugar de privilegio a los dioses tradicionales. Otra es la indagación constante de formas religiosas diferentes de la cívica tradicional, y más aptas para satisfacer necesidades íntimas de los seres humanos de las que esta se desentendía. En ellas tiene un especial protagonismo un fenómeno religioso difícil de abordar, entre otros motivos, por la imprecisión de sus fronteras con las de otras formas de religiosidad, pero al que en el estado actual del conocimiento podemos llamar sin complejos Orfismo. La búsqueda del autor trágico de estos nuevos ámbitos religiosos, extáticos, salvíficos, puede llegar a situarlo en los márgenes de la ortodoxia. En el libro se pone claramente de relieve la forma en la que Eurípides se mueve entre el misticismo órfico y la especulación filosófica, de modo semejante al del comentarista del Papiro de Derveni, que también trata de conciliar, a su modo, ambos extremos. En efecto, el orfismo permea en mayor o menor grado algunos otros aspectos relevantes de los intentos de Eurípides por superar la religiosidad tradicional del Ática, sobre todo, en el desplazamiento de la esfera eleusinia a una religiosidad de la Madre, extática, casi diríamos “bárbara”, que se advierten en Hipólito y Cretenses, así como en la Helena, mientras que se percibe una mayor conexión con el orfismo en obras como Antíope, Fenicias y en especial en Hipsípila. El segundo estásimo de la Helena, pasaje que se cuenta entre los más complicados de elucidar en la literatura griega, es abordado minuciosamente por Lavinia Maggi, que desarrolla la propuesta de Kannicht, de interpretarlo en consonancia con el primer estásimo, como dos aproximaciones al problema de la θεία δύναμις, que desembocan en la aceptación irracional de la experiencia religiosa. Ello la lleva a analizar el contraste entre el segundo estásimo y el Himno Homérico a Deméter como versiones radicalmente diferentes del mito del rapto de Perséfone, la posibilidad de un “sottotesto orfico” en la Helena que puede rastrearse en el Papiro de Berlín 13044, testimonios de Clemente, y otros retazos de información, aunque se trata de una cuestión que presenta numerosos problemas. En todo caso parece que puede postularse una tradición ática del rapto, atribuida a Orfeo. Por otra parte, rastrea elementos órficos en la Helena, fuera del II estásimo. En un análisis documentado y minucioso, Lavinia Maggi señala numerosos aspectos del posible influjo del orfismo sobre Eurípides, en la cosmogonía (con análisis detenidos sobre cuestiones como la importancia del αἰθήρ o la presencia de Tiempo como elemento cósmico), nuevos rasgos caracterizadores de Zeus o de la idea de la “muerte como vida”. Pero, como pone de relieve la indagación de la autora, el interés de Eurípides por otras formas de religiosidad lo llevan también a interesarse por el culto de los Cabiros, el de Deméter en Arcadia o el de Agras, que denotan asimismo su fascinación por formas de religiosidad que podríamos calificar casi de “alternativas”. La autora las estudia competentemente y presenta en cada caso un panorama claro y solvente acerca de lo que sabemos sobre cada una de estas manifestaciones.
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Prólogo
Pero como digo, todo este complejo ideológico sobre la religión planteado por Eurípides es examinado en este libro a través de los ojos de Aristófanes, quien se sitúa ante ellos desde una postura asimismo compleja. Naturalmente, su propósito inicial es provocar la risa del público, pero se mueve en un espectro más amplio, que va desde un rechazo superficial de lo que Aristófanes podía considerar como ateísmo en parodias del Belerofontes a una visión más matizada de una religiosidad diversa y no ortodoxa, en Ranas o al rechazo de los aspectos sofísticos del trágico, con lo que demuestra que su crítica lo ha llevado a reflexionar más que superficialmente sobre estos fenómenos. Particular interés tiene en el estudio que se nos presenta el análisis del “método” de Aristófanes para representar al poeta trágico en la escena cómica. Otro aspecto sumamente interesante que se examina en la obra es la relación entre la salvación del teatro y la salvación de la ciudad, que se plantea especialmente en Ranas, cuyo agon pone en contraste dos visiones del mundo, la esquilea, que representaría la ortodoxia de la vieja Atenas y la de Eurípides, el adepto a cultos bárbaros y considerados “peligrosos” por el cómico. También en el estudio de esta comedia la autora realiza un completo análisis de la compleja figura de Dioniso como personaje. Igualmente interesante es el estudio de las Tesmoforiazusas, comedia en la que se critica el realismo euripídeo, personificado cómicamente en la forma negativa de presentar a los mujeres. Complementa este apartado un valioso análisis de la figura de Agatón y de su “mensaje religioso”, tras el cual, la autora, siguiendo una sugerencia de Di Benedetto, considera que puede traslucirse la figura de Orfeo, así como el mensaje religioso de la párodos. Como señala Maggi, Aristófanes vuelve a plantearse en esta obra la salvación de la πόλις a través de la salvación de la tragedia, y lo hace en un contexto marcadamente demetríaco. Otros muchos aspectos son tratados en el libro: las sugestiones órficas y dionisíacas que pueden traslucirse en la tetralogía, Edonis, Basárides, Neaniskoi y el drama satírico Licurgo, en los que se implican episodios fundamentales como la Licurgia, o el castigo de Orfeo por haber favorecido el culto del Sol, cuestión sobre las que se han ofrecido numerosas interpretaciones, a menudo divergentes. En la cuestión se implican otras, como la participación de Orfeo en el culto dionisíaco, el complejo entramado de relaciones entre el héroe y el dios y la derivación “Apolínea” del bardo tracio, que son también analizadas minuciosamente por la autora. Son, pues, muchas y diversas las cuestiones planteadas por Lavinia Maggi en este apasionante libro. En su examen de estos aspectos, muestra un conocimiento profundo de diversas formas de aproximación: la lingüística, que le da oportunidad para aplicar cum mica salis la etimología, a fin de elucidar algunos nombres divinos; la historia (que le da pie a enmarcar los asuntos de las obras teatrales en el contexto de los acontecimientos de la época), y, por supuesto, la literatura, o la
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Prólogo
religión: la filología, en suma, que la faculta para tratar competentemente problemas muy variados: la datación discutida de una obra, las huellas de determinado vocabulario, la relación de los textos con la creación o desarrollo de cultos y otra amplia serie de cuestiones. En especial, su percepción de la ideología órfica y de la forma en que esta se expresa en sus textos, le permite descubrir elementos órficos, no ya claramente manifestados, sino insertos en otras construcciones, permeándolas, con la capacidad que siempre los caracterizó, de ofrecer rasgos ideológicos aprovechables para otros puntos de vista, incluso muy diferentes. Todo ello permite a la autora abordar desde una visión profunda, matizada, un diálogo tan literario como ideológico, tan filosófico como religioso, y, por supuesto, político, entre dos grandes figuras de la literatura universal: Eurípides y Aristófanes. El libro constituye así un punto de referencia necesario en el estudio de ambos autores y en el del principal asunto que constituye el telón de fondo de casi todo lo que se dice: el orfismo. Alberto Bernabé Pajares
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Premessa
Dall’ormai canonico testo di Bowie, Aristophanes: Myth, Ritual and Comedy (1993) emerge la possibilità di indagare lo sfondo cultuale delle commedie di Aristofane non esclusivamente come un materiale esposto alla distorsione comica, ma come un interlocutore con cui la commedia stessa si confronta e dialoga arricchendosi di più profondi significati. Fra i più importanti contributi del testo di Bowie vi è anche quello di superare la prospettiva della ricerca di un unico schema mitico-rituale comune all’intera produzione comica pervenutaci e considerare ogni commedia (in particolare le undici integre di Aristofane) nella sua specificità. Una singola trama comica può essere costruita alla luce di uno o più schemi mitico-cultuali di riferimento che, in virtù dei loro contenuti religiosi o più generalmente culturali, soggiacciono a quella trama stessa. Importanti indagini, in questo senso, sono state condotte da Anton Bierl, Ismene Lada-Richards, Simon Byl, Xavier Riu1 (che ha affrontato in particolare il problema del dionisismo in commedia e quali aspetti della sfuggente personalità del dio emergano dai singoli testi): lo schema cultuale non rappresenta una semplice occasione per suscitare il riso, ma informa di sé la trama comica permeandola profondamente dei suoi significati. Del resto la commedia stessa, come la tragedia, nasce in un contesto cultuale, dionisiaco nello specifico, che rimane un fondamentale referente religioso, agendo nella struttura e nell’articolazione del dramma. Bowie,2 per esemplificare il metodo da lui applicato nello studio della commedia aristofanea, propone un’analisi del Fidelio di Beethoven alla luce dello schema della Passione e della Resurrezione di Gesù Cristo, la cui figura sarebbe da riconoscere nel personaggio di Florestano: come osserva Bowie, se numerosi elementi coincidono (dalla simbologia del pane e del vino alla dinamica prigionia / liberazione interpretabile come morte / resurrezione), si possono individuare anche divergenze, quali per esempio il personaggio stesso di Leonora-Fidelio che grazie alla sua fede riesce a liberare il marito Florestano, benché non sia esattamente la fede, secondo Bowie, a salvare Gesù dalla morte (in ogni caso però è la fede che deve redi-
1 I riferimenti bibliografici degli studi e degli autori qui citati saranno dettagliatamente forniti nel testo e nella bibliografia finale. 2 Cfr. Bowie (1993), 1-3.
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Premessa
mere l’umanità). Tutto questo rappresenterebbe un “codice cristiano” ineludibile per la piena comprensione dell’opera, l’orizzonte culturale di riferimento che non sarebbe potuto sfuggire al pubblico di Beethoven. La questione si fa tuttavia più complessa se consideriamo la religione non solo come un elemento portante intorno a cui si sviluppa la commedia, ma anche come ‘terreno di scontro’, nel senso che il commediografo può esprimere determinati valori religiosi rispetto a altri. L’opera lirica ci offre degli esempi anche per spiegare la possibilità, oggetto specifico della presente indagine, che la religione diventi appunto oggetto di polemica: Richard Wagner, che fa del problema religioso il perno della sua poetica, in particolare per quanto concerne i concetti di fede e redenzione, nel Tannhäuser, andato in scena per la prima volta a Dresda quarant’anni dopo la prima viennese del Fidelio (1805), sembra voler esplicitamente contrapporre due diversi modelli religiosi. Lo smarrimento morale del cavaliere e cantore Heinrich Tannhäuser è rappresentato allegoricamente dal suo soggiorno nella grotta di Venere, dove, abbandonato ai piaceri, dimentica i valori della vita cristiana; eppure, turbato da un sogno in cui ode il suono delle campane, decide di lasciare per sempre la grotta di Venere e di cercare la redenzione. Questa però gli è preclusa: neppure l’amore purissimo della giovane Elisabeth, figlia del landgravio di Turingia (un personaggio dietro cui si cela forse santa Elisabetta di Ungheria) gli permette di liberarsi delle sue ossessioni. Deciso comunque sia a espiare la sua colpa e a pentirsene per sempre, Tannhäuser parte per Roma (“Nach Rom” è il grido trionfale con cui si chiude il secondo atto) per ottenere il perdono purificatore e redentore dal papa. Quest’ultimo, però, mostrando un’inflessibilità quasi incomprensibile, gli nega il perdono e lo condanna di fatto alla dannazione eterna. Tornato in Turingia, Tannhäuser apprende la morte di Elisabeth e, al colmo della disperazione, è ormai rassegnato a far ritorno alla grotta di Venere e riprendere la vita nel peccato, quando un coro di voci celesti gli annuncia la sua redenzione, ottenuta da Elisabeth ormai assunta in cielo. Wolfram von Eschenbach, il cantore che rappresenta l’incrollabile fede, lo annuncia a Tannhäuser: “Dein Engel fleht für dich an Gottes Thron / er wird erhört: – Heinrich, du bist erlöst”. Il cavaliere muore finalmente in pace invocando le preghiere di sant’Elisabetta. Wagner intende chiaramente dimostrare l’inefficacia e la vanità di un apparato religioso quale quello rappresentato dalla Chiesa di Roma, che non sa dare al fedele alcuna risposta e soprattutto alcun messaggio di salvezza. È piuttosto l’autentica purezza, la vera santità della fanciulla Elisabetta a ottenere il perdono per il peccatore, in quanto lei stessa si rivolge direttamente alle potenze celesti, senza alcun intermediario. Alla base di tutto questo si delinea dunque lo scontro fra Chiesa cattolica e Chiesa protestante,
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Premessa
la prima delle quali preclude un autentico contatto fra l’uomo e Dio, l’altra invece lo garantisce e lo valorizza. Poiché Wagner si accingeva a riformare fin dalle fondamenta il teatro lirico, nelle sue strutture e (quando potrà costruire il teatro di Bayreuth) nella sua fruizione, in diretta contrapposizione con il melodramma italiano, non è da escludere che, benché il Tannhäuser sia una delle opere più conservative dal punto di vista formale, la polemica si estendesse anche al modello religioso, quello cattolico-romano, che inevitabilmente rappresentava l’orizzonte religioso di riferimento degli autori d’opera italiani. A questa polemica ‘contemporanea’ fra religiosità germanica e religiosità latina si sovrappone d’altronde in Wagner anche quella fra paganesimo (inteso come una congerie di forze oscure che inducono al peccato) e cristianesimo (inteso nella sua espressione più pura e incontaminata), che costituirà invece uno dei temi centrali del successivo Lohengrin. Approccio analogo è possibile adottare anche nello studio della religione nelle commedie di Aristofane: il problema della rivalità letteraria nel teatro antico è stato oggetto di recenti studi che hanno messo in luce le dinamiche e le modalità dello scontro letterario in ambito comico, ma, per quanto riguarda quello che possiamo a questo punto definire il problema religioso, i commediografi attici antichi sembrano abbastanza concordi (almeno per quello che possiamo ricostruire) nel rifiuto di forme di religiosità straniere, sentite come ‘intruse’ nel pantheon della πόλις. La questione sorge piuttosto nel momento in cui si mette a confronto la commedia con la tragedia, in particolare quella euripidea: il commediografo, autore di τρυγῳδίαι, può porsi allo stesso tempo anche in rivalità con il tragediografo, autore appunto di τραγῳδίαι. La complessa problematica dei rapporti fra Aristofane e Euripide, che ruota intorno al problema dell’apprezzamento o meno dell’uno per l’altro, è affrontata qui nella prospettiva di riconoscere bensì una distanza artistica e ideologica fra i due, ma allo stesso tempo un dialogo piuttosto serrato, in un ambito ben preciso, quello della religione: intendiamo infatti mettere a confronto l’universo religioso di Euripide e di Aristofane in quanto entrambi impegnati nell’interpretazione del loro tempo e portatori di soluzioni e proposte differenti pur all’interno di un dibattito comune. Lo studio sulla religiosità euripidea e quello sulla religiosità aristofanea sono qui condotti parallelamente allo scopo di decodificare, per quanto possibile, l’aspetto specificamente religioso della critica del commediografo al tragediografo (il che ovviamente implica inevitabili intrecci con altre problematiche di carattere stilistico, contenutistico e perfino politico). Il fatto che Aristofane dedichi alla critica della tragedia euripidea due commedie i cui cori sono costituiti da devoti di Demetra (nelle Tesmoforiazuse si tratta di
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Premessa
donne che celebrano le Tesmoforie e nelle Rane di iniziati ai Misteri di Eleusi) induce a pensare che forse proprio il culto di Demetra, così centrale nella vita della πόλις, costituisca il fulcro di tale critica a Euripide. Nelle Tesmoforiazuse e nelle Rane Aristofane offre un’immagine del rivale operando un’attenta selezione nell’ambito della sua produzione, cosicché ne emerga il ritratto di una forza centrifuga rispetto alla πόλις anche e soprattutto dal punto di vista religioso. Presupposto necessario di un’indagine così condotta è la considerazione della critica di Aristofane a Euripide come finalizzata a esprimere contenuti ‘seriamente’ educativi, non come pur raffinatissimo gioco letterario. In questa prospettiva si intende anche superare la rappresentazione aristofanea di Euripide come autore semplicemente ‘ateo’ o da caratterizzare come influenzato dalla filosofia presocratica al punto da esserne condizionato anche nell’approccio con il divino. Euripide sente infatti bensì la religione come problema più profondamente degli altri tragici, ma questo si risolve in una ricerca che lo porta a interessarsi a forme di religiosità che si collocano ai margini del culto ufficiale della πόλις (con l’inclusione in questa ufficialità dei Misteri eleusini stessi, pur nella loro peculiarità), da cui si allontanano non solo contenutisticamente ma anche geograficamente. La possibilità di una tale indagine trae oggi nuova luce dai numerosi studi, condotti soprattutto dalla scuola spagnola che fa capo a Alberto Bernabé, intorno al fenomeno dell’orfismo, che, grazie appunto a questi studiosi, appare ora, pur nella sua irriducibile complessità, caratterizzato anche da elementi e linee di sviluppo unitarie che conferiscono al fenomeno, per quanto limitatamente a alcuni aspetti, un’omogeneità. ‘Dottrine orfiche’ così intese sono riconoscibili nelle tragedie euripidee e, come vedremo, ugualmente riconoscibile è il fatto che entrino nel bersaglio della critica di Aristofane, il quale sembra invece intenzionato a riportare la religione nell’alveo dei culti cittadini. Cercheremo infatti di sottrarre all’analisi della religiosità aristofanea, così come emerge in particolare dalle Rane, quella tendenza, affermata negli studi moderni, a considerarne soprattutto l’aspetto composito, cercando di metterne in luce piuttosto la ferma adesione a un preciso modello religioso di riferimento (in particolare quello offerto dai Misteri di Eleusi), delle cui interazioni con eventuali altri modelli religiosi daremo di volta in volta conto, tenendo ovviamente presente la peculiarità del codice comico. Se dunque la figura di Demetra risulta centrale nello sviluppo di questo lavoro, è inevitabile che, in ambito teatrale, diventi oggetto di scontro anche e soprattutto quella di Dioniso, non a caso protagonista delle Baccanti di Euripide e delle Rane di Aristofane, portate in scena a un anno di distanza l’una dall’altra. Della sfuggente personalità del dio del teatro Euripide e
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Aristofane propongono una definizione diversa, l’una volta a accentuarne il carattere straniero, per molti aspetti lontano dalla realtà cultuale della πόλις, nonché il legame con l’orfismo, l’altra volta a reinserirlo nella dimensione ateniese e a rafforzarne l’identificazione con l’eleusino Iacco e quindi il legame con Demetra. Il binomio ateniese e aristofaneo Iacco-Demetra si contrappone così a quello ‘barbaro’, più volte evocato da Euripide, Dioniso-Madre degli dei. Per lo studio dei culti di Demetra e di Dioniso la nostra ricerca si avvale, fra gli altri, anche dei risultati raggiunti in ambito linguistico da Michael Janda, che ne ha ricostruito le origini indoeuropee (i.e.) alla luce dei paralleli soprattutto vedici. Prenderemo dunque le mosse, nel primo capitolo, dal problema dell’empietà di Euripide, se la si possa connotare davvero come ‘ateismo’ o se non siamo piuttosto di fronte a una religiosità peculiare e problematica intrisa di dottrine, a livello soprattutto cosmologico e escatologico, non ortodosse e influenzate dall’orfismo. Faremo infine alcune osservazioni sul metodo usato da Aristofane nella rappresentazione di Euripide (e di ogni altro poeta), quale Aristofane stesso ci enuncia nel prologo delle Tesmoforiazuse: alla persona dell’autore viene attribuito ciò che emerge dalla sua opera, cosicché, anche a livello religioso, le convinzioni di Euripide, secondo Aristofane, saranno fatalmente quelle dei suoi personaggi. Lo studio dello scenario religioso delle tragedie euripidee si basa dunque principalmente, nel nostro caso, su quei drammi stessi che rientrano nella selezione fatta da Aristofane e che appaiono significativi nella rappresentazione che il commediografo fa del tragediografo: ne risulta un ritratto per molti versi omogeneo, che conferma la volontà di Aristofane di attaccare aspetti realmente rintracciabili nell’arte euripidea e che hanno un peso non trascurabile nel teatro di Euripide anche considerato nel suo complesso. Secondo questo criterio, nel secondo capitolo, analizzeremo le tragedie euripidee che abbiano per oggetto vicende cretesi o collegabili a Creta, quali l’Ippolito e i Cretesi: osserveremo, in particolare nell’Ippolito, un vero e proprio slittamento progressivo dell’asse religioso dalla sfera eleusina a quella metroaca e dionisiaca, strettamente connessa a sua volta con quella orfica. Nel terzo capitolo ci soffermeremo soprattutto sull’Elena e sul suo secondo stasimo, da cui emerge con chiarezza la tendenza euripidea a allontanarsi dalla religiosità attica per reinterpretarla in forme ‘barbare’, come appunto risulta dalla sovrapposizione (di cui cercheremo di argomentare l’eccezionalità in un contesto attico, almeno nella forma elaborata da Euripide) della figura della Madre degli dei e del suo culto frigio a quella di Demetra e del suo culto attico. Indagheremo altresì la possibilità di uno sfondo orfi-
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co nell’Elena, non solo nel secondo stasimo, ma anche in altri momenti del dramma, in particolare in riferimento alla figura di Teonoe. Il quarto capitolo affronterà lo studio di quella che appare una trilogia, costituita da Antiope, Ipsipile e Fenicie: se le prime due tragedie sembrano riproporre il nesso orfismo-dionisismo e, in particolare nell’Ipsipile, i suoi complessi rapporti con la sfera apollinea, lo studio delle Fenicie permetterà invece di considerare la possibilità di un rinnovato interesse di Euripide per la religiosità eleusina, ma nella prospettiva politica del sostegno al ritorno di Alcibiade. Nella seconda parte della ricerca considereremo quindi la forma letteraria e, nello specifico, metateatrale con cui Aristofane sottopone a critica tali ricorrenti tendenze nell’affrontare il problema della religione nelle tragedie di Euripide. Nel V capitolo ci concentreremo in particolare sulle Tesmoforiazuse, andate in scena nel 411, dove sono prese di mira soprattutto tre tragedie, verosimilmente appartenenti a un’unica trilogia del 412, ossia Elena, Andromeda e Ifigenia in Tauride. Analizzeremo innanzitutto il prologo dominato dalla figura del tragediografo Agatone, il quale, nonostante la sua irriducibile ambiguità e il suo apparire costantemente in bilico fra tradizione e innovazione (anche dal punto di vista musicale), fra maschile e femminile, sembra condividere l’orizzonte religioso di Aristofane, imperniato sulle figure delle due dee eleusine e sulle figure divine di Apollo e Artemide. La tragedia ‘moderna’ di Agatone, a causa delle sue intrinseche ambiguità, non sembra tuttavia ancora capace di rappresentare per la città un reale punto di riferimento, cosicché continua a dominare la scena il ‘vecchio’ Euripide, il quale però rivela tutta la sua influenza negativa sulla πόλις e sui suoi culti: come nell’Elena il culto di Demetra viene trasformato e quindi snaturato in un culto metroaco-dionisiaco, così, attraverso la messa in scena di parodie di drammi euripidei, Aristofane proietta sulle Tesmoforie tale tendenza di Euripide a distaccarsi dai culti tradizionali. Nel sesto capitolo infine la nostra analisi verterà sulle Rane: nel 405 a.C., ormai a un passo dalla catastrofe per Atene, Aristofane sente l’esigenza di scrivere una commedia in cui il tema della salvezza della città appaia indissolubilmente legato a quello della salvezza del teatro, il cui dio, infatti, a un anno dalla morte di Euripide, è ancora invaghito della sua arte e intraprende una catabasi per riportarlo sulla terra. Il Dioniso del prologo delle Rane è dunque un Dioniso euripideo, anche dal punto di vista religioso e cultuale e quindi, secondo Aristofane, in crisi di identità; seguendo tuttavia le indicazioni di Eracle e poi dei due cori incontrati nell’Ade, quello delle rane e quello degli iniziati ai Misteri di Eleusi, Dioniso ritrova la sua identità ateniese che si esprime nel suo culto delle Antesterie e nel suo ruolo a Eleusi come Iacco, oltre che ovviamente nell’ambito delle feste drammati-
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che. Il tema eleusino sembra inoltre acquisire una precisa funzione politica: i concetti ‘eleusini’ di perdono, uguaglianza e unità sono evocati dal commediografo nella prospettiva di una rinascita di Atene nel segno della convivenza pacifica e della ricomposizione dei conflitti fra oligarchici e democratici (per questo aspetto in modo non dissimile da Euripide, che, nelle Fenicie, sembrava però piuttosto insistere sul perdono per il ‘traditore’ Alcibiade). Liberatosi progressivamente dell’identità del Dioniso euripideo, straniero, influenzato dalla religiosità orfica e in ultima analisi estraneo alla πόλις, il Dioniso delle Rane, assistendo all’agone poetico fra Eschilo e Euripide, giudicherà finalmente soltanto il primo (non a caso devoto di Demetra e dei suoi Misteri) davvero capace di giovare alla città nella sua prova più difficile. L’analisi del materiale euripideo sottoposto al giudizio di Dioniso nell’agone, tratto dall’Ippolito, dalle tragedie ‘cretesi’, dall’Ipsipile, dall’Ifigenia in Tauride si rivelerà effettivamente piuttosto omogeneo nella definizione della religiosità euripidea secondo quelle tendenze che abbiamo individuato nella prima parte di questa ricerca. Aristofane, per fare emergere le caratteristiche dell’arte di Eschilo e Euripide, sceglie lo strumento dell’‘agone’, che è anche alla base della struttura stessa delle feste drammatiche ateniesi. Nell’agone delle Rane si scontrano due diverse visioni del mondo, di cui la problematica religiosa costituisce senza dubbio un aspetto fondamentale: Eschilo è il poeta dell’ortodossia dei culti cittadini, Euripide è il poeta delle dottrine non ortodosse e dei culti stranieri, che sovvertono la religiosità tradizionale della πόλις. Non diversamente il Tannhäuser di Wagner ha nella gara dei cantori sulla Wartburg il suo momento culminante: i cantori sono chiamati, di fronte al landgravio di Turingia e a sua figlia, a cantare sul tema della “natura dell’amore”. Al sublime canto sull’amore celeste di Wolfram von Eschenbach, che incarna l’ortodossia cristiana, si contrappone l’inno a Venere di Tannhäuser, ancora immerso nel peccato e quindi in una dimensione pagana. Wagner ripropone una sfida poetico-musicale che affonda le sue origini proprio in quella tradizione di cui l’agone delle Rane costituisce una delle massime espressioni: anche Eschilo e Euripide si confrontano sul terreno della religione e la rivendicazione da parte di Eschilo dell’estraneità della sua arte a Afrodite rispetto all’arte euripidea che ha invece nella dea una delle sue principali ispiratrici trova una sorprendente (non troppo in verità, considerando le numerose edizioni di Aristofane presenti nella biblioteca del compositore, conservata nella sua “Haus Wahnfried” a Bayreuth)
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corrispondenza negli argomenti dei cantori che si sfidano nella gara wagneriana sulla Wartburg.3 Un sincero ringraziamento, per la stesura del presente lavoro, va al prof. Giuseppe Zanetto, che mi ha seguito come tutor durante il mio dottorato presso l’Università Statale di Milano, nell’ambito del quale è nato il progetto di questa ricerca. Ringrazio altresì di cuore i proff. Giuseppe Lozza, Maria Patrizia Bologna, Andrea Capra, Stefano Martinelli Tempesta, con cui ho potuto confrontarmi amichevolmente nel corso del mio lavoro, e la prof.ssa Antonietta Porro, che, come membro della mia commissione di dottorato, ha apprezzato e creduto nella mia ricerca. Rivolgo un sincero grazie al prof. Giuseppe Mastromarco, che, durante il mio lavoro, mi ha fornito suggerimenti e utili critiche. Sono infinitamente grata alla prof.ssa Olimpia Imperio, dalla cui accurata lettura del lavoro ho tratto un aiuto fondamentale. Ringrazio inoltre di cuore il prof. Jochen Griesbach, direttore del museo Martin von Wagner di Würzburg, che mi ha permesso di visitare il museo in un momento di chiusura e di pubblicare le foto dei vasi più significativi per la presente ricerca. Devo al prof. Alberto Bernabé la più riconoscente gratitudine per la sua attenta e generosa lettura del testo, che ha arricchito e migliorato con preziosi consigli e accompagnato con la sua introduzione. Rivolgo un profondo ringraziamento al prof. Mauro Tulli, che ha seguito e reso possibile questa pubblicazione e a cui devo la mia formazione scientifica.
3 Avvertiamo qui che i testi di Aristofane e Euripide saranno citati rispettivamente nelle edizioni oxoniensi di Wilson e Diggle e i frammenti dei due autori nelle edizioni di Kassel-Austin e Kannicht. Laddove ci si discosti da questa regola e si scelga di adottare edizioni diverse lo segnaleremo.
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Parte I: Variazioni sul tema demetriaco e dionisiaco nelle tragedie di Euripide
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Capitolo I: Aristofane e l’‘empietà’ di Euripide
La complessa relazione che lega Aristofane a Euripide è stata ampiamente analizzata nelle sue diverse manifestazioni e da diversi punti di vista (già Cratino la metteva in luce con il suo celebre εὐριπιδαριστοφανίζων, fr. 342 PCG): il profondo interesse che il commediografo dimostra di avere nei confronti del tragediografo è stato di volta in volta ricondotto a una feroce contrapposizione così come a una profonda ammirazione.4 Dalla nostra prospettiva intendiamo bensì escludere l’esistenza di una concordanza ideologica fra i due autori, ma non un evidente riconoscimento della grandezza reciproca, come dimostra il dialogo, seppur talora polemico, da essi intrecciato nelle loro opere e di cui cercheremo di ricostruire alcuni frammenti. Intendiamo dunque partire dal presupposto di trovarci di fronte a due autori che, immersi nello stesso clima politico e culturale, fornirono risposte diverse alla crisi del loro tempo. Poiché sembrano in particolare portatori di visioni diverse in ambito religioso, è possibile a nostro avviso riconoscere una precisa critica mossa da Aristofane al problema religioso posto dalle tragedie euripidee. Se è vero che Aristofane offre di Euripide una rappresentazione che per diversi aspetti appare in linea con quella dei σοφισταί suoi contemporanei, ossia quella di un ἀσεβής estraneo alla religiosità tradizionale, cercheremo di individuare lo specifico e particolare significato che Aristofane sembra attribuire all’ἀσέβεια (empietà) di Euripide.
4 Per una ricognizione delle diverse forme in cui Aristofane porta il mondo euripideo all’interno delle sue commedie (attraverso la citazione di singoli versi, la rielaborazione di intere scene tragiche, l’introduzione di Euripide stesso come personaggio sulla scena comica), cf. Gil (2013); per una breve ricostruzione del dibattito nelle sue linee fondamentali rimandiamo a Voelke (2004), 117-120. Fra coloro che vedono tuttora in Aristofane un atteggiamento critico nei confronti della tragedia euripidea segnaliamo Voelke (2004), Saetta Cottone (2016), 11-12, dove la rappresentazione aristofanea di Euripide è interpretata come quella di un poeta comico, o meglio di un poeta tragico che travalica i limiti del suo genere letterario; diversamente, cf. Schwinge (2014), dove si vede in Aristofane, in particolare nelle Tesmoforiazuse, la volontà di omaggiare l’arte tragica di Euripide; sulla stessa linea, cf. Caballero (2010), dove le affinità fra i due poeti sono analizzate nel dettaglio. Una posizione mediana è rappresentata in Gil (2013).
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Capitolo I: Aristofane e l’‘empietà’ di Euripide
§ 1 Cosmogonie e escatologia: l’‘orfismo’ di Euripide e la critica di Aristofane § 1.1 Tracce orfiche nelle cosmogonie di Euripide § 1.1.1 L’αἰθήρ Aristofane indirizza ripetuti attacchi alla presunta ἀσέβεια del tragediografo: Euripide ci appare a più riprese, secondo la rappresentazione aristofanea, incline all’adorazione di ‘nuovi dei’ del tutto distinti da quelli ‘tradizionali’. Si consideri a questo proposito lo scambio di battute fra Eschilo e Euripide in Rane 885-894: al principio dell’agone, Eschilo rivolge significativamente la sua preghiera a Demetra – ascrivendo così a sé il tema eleusino, cruciale nello svolgimento della commedia – come ἡ θρέψασα τὴν ἐμὴν φρένα e dei cui misteri si augura appunto di essere ἄξιος (vv. 886-887), mentre Euripide preferisce evocare altre divinità (definite ironicamente da Dioniso ἴδιοί τινές σου, κόμμα καινόν e ἰδιῶται θεοί, vv. 890-891), fra cui menziona innanzitutto αἰθήρ come βόσκημα (il nutrimento di Euripide è dunque qualcosa di aereo, in contrapposizione con quello ben più consistente di Eschilo, ossia la dea stessa del frumento e dell’agricoltura), seguito da γλώττης στρόφιγξ (“vortice della lingua”) καὶ ξύνεσι καὶ μυκτῆρες ὀσφραντήριοι (“e intelletto e narici dal fiuto sottile”), la cui assistenza è invocata “per confutare discorsi” (vv. 892-894). Aristofane, come vedremo in seguito, stabilisce in realtà spesso, nelle sue commedie, una stretta relazione fra Euripide e αἰθήρ (fino appunto a far assurgere quest’ultimo a divinità tutelare di Euripide): se tale scelta sembra chiaramente riconducibile alla volontà di rappresentare l’inconsistenza della poesia euripidea, fatta di vacui giochi linguistici,5 è pur vero che la ricorrenza del tema dell’αἰθήρ trova un effettivo riscontro nelle tragedie euripidee, in particolare in contesto cosmogonico o, comunque, con una pregnante valenza religiosa.6 Partiremo quindi dalla connotazione religiosa
5 In questo senso si svolge prevalentemente l’analisi di Jay-Robert (2014); sulla distinzione ‘topografica’, in Aristofane e nei suoi contemporanei, fra ἀήρ e αἰθήρ (il quale, tra l’altro, compare in Aristofane solo in citazioni tragiche o in paratragedia), cf. Jay-Robert (2014), 2-4. 6 Per una sintetica rassegna delle ricorrenze di αἰθήρ in Euripide, cf. Saetta Cottone (2016), 167-168; cf. inoltre Peigney (2014), 2, nota 5; si rimanda a Peigney (2014) anche per una peculiare interpretazione del ruolo dell’αἰθήρ in Euripide come metafora della variabilità delle sorti umane, in particolare nell’Elena e nelle Fenicie. Per una breve panoramica sulle cosmogonie euripidee, cf. Mastromarco, Totaro (2006), 439, nota 3.
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§ 1 Cosmogonie e escatologia: l’‘orfismo’ di Euripide e la critica di Aristofane
dell’αἰθήρ in Euripide per provare a individuare, nell’insistito legame Euripide-αἰθήρ stabilito da Aristofane, un primo perno su cui ruoterebbe la critica rivolta dal commediografo al tragediografo in ambito religioso.7 Euripide ci presenta l’Etere come elemento cosmogonico primordiale, per esempio, nel canto di Anfione (di cui ci è rimasto purtroppo solo il verso iniziale) nell’Antiope (TrGF 12 F182a): Αἰθέρα καὶ Γαῖαν πάντων γενέτειραν ἀείδω e in un canto corale (verosimilmente uno stasimo) del Crisippo (TrGF 78 F839): Γαῖα μεγίστη καὶ Διὸς Αἰθήρ, ὁ μὲν ἀνθρώπων καὶ θεῶν γενέτωρ, ἡ δ᾽ ὑγροβόλους σταγόνας νοτίας παραδεξαμένη τίκτει θνητούς, τίκτει βοτάνην φῦλά τε θηρῶν˙ (5) ὅθεν οὐκ ἀδίκως μήτηρ πάντων νενόμισται. χωρεῖ δ᾽ ὀπίσω τὰ μὲν ἐκ γαίας φύντ᾽ εἰς γαῖαν, τὰ δ᾽ ἀπ᾽ αἰθερίου βλαστόντα γονῆς (10) εἰς οὐράνιον πάλιν ἦλθε πόλον˙ θνῄσκει δ᾽ οὐδὲν τῶν γιγνομένων, διακρινόμενον δ᾽ ἄλλο πρὸς ἄλλου μορφὴν ἑτέραν ἀπέδειξεν.8 In questi due passi, fra i quali è possibile ravvisare alcune somiglianze (si osservi la ricorrenza di espressioni come πάντων γενέτειραν, ἀνθρώπων καὶ θεῶν γενέτωρ, μήτηρ πάντων), Αἰθήρ sembra identificato con Οὐρανός (i vv. 9-10 del secondo frammento lo mostrano chiaramente con l’alternanza di
7 Il termine ricorre anche in Nub. 265; 285-286; 570: la commedia, incentrata su una forma di religiosità ‘meteorologica’, prende infatti di mira la distorta devozione di personaggi come i σοφισταί, fra cui Aristofane include sia Socrate sia Euripide; cf. Jay-Robert (2014), 4-7; cf. inoltre avanti, nota 92. 8 “Grandissima Terra e Etere di Zeus, / l’uno genitore di uomini e dei, / l’altra, accogliendo le umide gocce che spandono umidità, genera i mortali, / genera i pascoli e le stirpi degli animali, / per cui non senza ragione / è ritenuta la madre di tutti. / Torna indietro / alla terra ciò che nasce dalla terra, / ciò che fiorisce dal seme etereo / fa ritorno alla volta celeste. / Nulla muore di ciò che nasce, / ma una cosa dividendosi dall’altra assume un’altra forma”.
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Capitolo I: Aristofane e l’‘empietà’ di Euripide
αἰθερίου e οὐράνιον9). Οὐρανός e Γαῖα compaiono anche nell’incipit di un’altra cosmogonia euripidea, quella della Melanippe saggia, (TrGF 44 F484), su cui torneremo anche in seguito: οὐρανός τε γαῖά τ᾽ ἦν μορφὴ μία. Un altro frammento della stessa Melanippe saggia (TrGF 44 F487, per cui cf. avanti) presenta poi un’interessante affinità, individuata da Kannicht nella sua edizione dei frammenti euripidei (cf. TrGF 78 F839, p. 880), con il Διὸς Αἰθήρ del fr. 839 del Crisippo: ὄμνυμι δ᾽ ἱερὸν αἰθέρ᾽, οἴκησιν Διός. La peculiarità di queste cosmogonie rispetto a quella esiodea è evidente non solo nell’interscambiabilità dei termini Οὐρανός e Αἰθήρ (con una progressiva identificazione di quest’ultimo con Ζεύς), due figure ben distinte in Esiodo (cf. Theog. 124-127), ma anche nel fatto che Αἰθήρ/Οὐρανός e Γαῖα siano posti nel principio, laddove Esiodo ha Χάος (cf. Theog. 123). Come si evince dal frammento del Crisippo (l’unico per cui sia possibile una riflessione più approfondita), le invocazioni euripidee a Etere/Cielo e Terra non possono dunque essere considerate esattamente alla stessa stregua della cosmogonia esiodea, che fa risalire più indietro il punto di origine. Se è infatti vero che, come vedremo avanti, Aristofane nelle Tesmoforiazuse sembra alludere alla Melanippe saggia proprio in contesto cosmogonico, bisogna poi anche osservare come nel Crisippo l’individuazione dell’‘origine di tutte le cose’ sia in realtà considerata in una prospettiva escatologica: la Terra e il Cielo sono posti nel principio in quanto rappresentano le due componenti essenziali τῶν γιγνομένων, i quali morendo tornano laddove si sono generati. Ora, poiché l’Etere è detto “padre degli uomini e degli dei” (v. 2) e la Terra “madre”, oltre che dei “mortali”, anche di piante e animali (vv. 3-5), è evidente come solo gli uomini, in quanto partecipi di entrambi, possano, alla morte, subire una scissione fra anima e corpo (v. 12). Benché non possiamo ovviamente formulare ipotesi circa lo sviluppo
9 Il frammento, tramandatoci da numerosi testimoni, presenta una difficoltà testuale (per cui si rimanda all’apparato di Kannicht) relativa all’opportunità di mantenere o meno l’alternanza fra questi due termini. Ha a questo proposito un particolare valore la testimonianza di Lucrezio, che cita il passo euripideo in De rer. nat. II.999-1001 con l’alternanza aether/caelum: cedit item retro, de terra quod fuit ante, / in terras, et quod missumst ex aetheris oris, / id rursum caeli rellatum templa receptant. Cf. del resto il frammento della Melanippe saggia citato subito sotto nel testo.
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§ 1 Cosmogonie e escatologia: l’‘orfismo’ di Euripide e la critica di Aristofane
delle invocazioni della Melanippe e dell’Antiope,10 data l’esiguità dei frammenti, possiamo tuttavia rilevare questa particolare impostazione escatologica almeno nella cosmogonia del Crisippo, in funzione della quale possiamo forse spiegare anche il ruolo del Cielo e della Terra.11 Rispetto a Esiodo dobbiamo infine osservare come, nel Crisippo, Euripide individui nell’Etere l’origine, in particolare, degli dei (nonché di quanto degli uomini è affine al divino – evidentemente l’anima), laddove, nella Teogonia, sia piuttosto la Terra, con la sua unione con il Cielo (figlio a sua volta della Terra, cf. v. 126), a dare avvio al processo teogonico (cf. Theog. 117-118). È opportuno dunque, a questo punto, indagare quale tradizione cosmogonica sia da scorgere nella scelta euripidea di introdurre l’Αἰθήρ nel ruolo di entità primordiale, posta all’origine del processo teogonico.
10 Fra i frammenti appartenenti all’Antiope, specificamente in TrGF 12 F195, torna in realtà il concetto, presente anche nel Crisippo, del ritorno della terra alla terra (ἅπαντα τίκτει χθὼν πάλιν τε λαμβάνει), ma non il corrispettivo relativo all’etere. Dal punto di vista metrico il fr. 182a, un esametro (il che è comunque significativo come tratto ‘epicizzante’ del passo, riconducibile alla tradizione cosmogonica), e il fr. 195, un trimetro giambico, non possono inoltre essere ritenuti appartenenti allo stesso punto della tragedia, sebbene sia possibile ipotizzare che concettualmente fossero associati, come avviene appunto nel fr. 839 del Crisippo. 11 Euripide mostra, in questo passo, anche l’influenza di Eschilo: in un frammento delle Danaidi (TrGF III F44), infatti, Afrodite esalta la sua potenza proprio in relazione alla fecondazione della Terra da parte dell’acqua che scende dal Cielo; è appunto grazie a questa unione (che la dea rappresenta come amorosa) che nascono μήλων τε βοσκὰς καὶ βίον Δημήτριον / δένδρων τ᾽ ὀπώραν (vv. 5-6). Si osservi come Euripide, pur alludendo all’azione fecondatrice delle piogge (ὑγροβόλους σταγόνας / νοτίας παραδεξαμένη, vv. 3-4), trasformi l’originario contesto eschileo – la celebrazione della potenza della natura, che genera il nutrimento per gli uomini – in un contesto non solo cosmogonico, ma anche escatologico. Nell’apparato di Radt sono menzionati altri due frammenti euripidei (oltre a quello del Crisippo) per un confronto con il frammento eschileo: in TrGF V.2 F898 Euripide allude a Eschilo con espliciti richiami lessicali, nonché con la menzione di Afrodite come ‘causa’ dell’amore di Cielo e Terra. In TrGF V.2 F941, dove compare ancora il tema degli “umidi” abbracci, invece Euripide non parla di Οὐρανός (cf. fr. 898), ma di un ἄπειρος Αἰθήρ identificato con Zeus: siamo di fronte all’identificazione non solo di Οὐρανός e Αἰθήρ, ma anche di Αἰθήρ e Zeus. Si osservi inoltre come Lucrezio (un importante testimone anche per il fr. 839 del Crisippo, cf. qui sopra, nota 9), in De rer. nat. I.250 ss., indichi nella fecondazione della terra da parte dell’acqua del cielo la possibilità di sviluppo in generale della vita sulla terra, riecheggiando e, allo stesso tempo, ampliando il discorso eschileo di TrGF F44, ma nominando il Cielo, a differenza di Eschilo e in linea con l’Euripide del fr. 941 e del Crisippo, Pater aether.
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Capitolo I: Aristofane e l’‘empietà’ di Euripide
Una risposta potrebbe venire dalle tradizioni cosmogoniche orfiche12 (del resto, come vedremo avanti, dietro l’escatologia stessa delineata nel frammento del Crisippo potrebbero essere individuate dottrine orfiche), per le quali tuttavia occorre tenere presente che non possono essere ricondotte a un complesso unitario (come del resto tutto ciò che attiene all’orfismo), sia per l’estrema frammentazione della documentazione relativa sia per la datazione molto tarda13 della maggior parte delle testimonianze.14 Eppure, le cosmogonie euripidee sembrano trovare riscontri in più rami di questa complessa tradizione: innanzitutto, la peculiarità euripidea di porre nel principio del processo cosmogonico un elemento celeste (Cielo o Ete-
12 Damascio (De pr. princ. 123-124) ci ricorda tre teogonie orfiche, “eudemia” (su cui cf. avanti, nota 15), “ieronimiana” (cf. Bernabé, PEG, II.1, 80-97) e “rapsodica” (narrata appunto nelle Rapsodie orfiche, per cui cf. Bernabé, PEG, II.1, 97-293). 13 Sull’interesse dei commentatori neoplatonici per i poemi orfici, in particolare le Rapsodie, per la ricostruzione delle quali essi rappresentano per noi i testimoni più importanti, cf. Bernabé (2009), 310-311. 14 Vastissima è la bibliografia sulla questione: cf. West (1983), di cui è stata però messa spesso in discussione l’ottimistica tendenza a riscostruire uno ‘stemma’ delle diverse tradizioni cosmogoniche riconducibili all’orfismo (sull’esistenza di una “Protogonos theogony”, da cui deriverebbero le diverse tradizioni teogoniche orfiche pervenuteci, cf. 110; 264; per una critica a questa ricostruzione, cf. in particolare Brisson (1995), 396 ss.). Sulla relazione fra la teogonia del Papiro di Derveni e quello che sappiamo della teogonia “rapsodica”, cf. Kouremenos, Parássoglou, Tsantsanoglou (2006), 23-25. Cf. inoltre Ricciardelli Apicella (1993), 32 ss. e Bernabé (2009), con un ricchissimo apparato bibliografico in 297, nota 30; 304, nota 52; 308, nota 80; 310, nota 88. Lo studioso spagnolo (cf. pp. 295-296; 303-304) propone in particolare di distinguere due diverse tradizioni orfiche, quella dell’ “uovo cosmico” da cui nasce Eros Protogonos (attestata nella teogonia “ieronimiana”) e quella “della Notte” (attestata nel Papiro di Derveni, per cui Bernabé esclude alcun ruolo di Protogonos, e nella teogonia “eudemia”, che presenterebbero una successione Notte → Cielo e Terra → Oceano e Teti; in questa tradizione si inserirebbero anche il frammento cosmogonico della Melanippe saggia euripidea citato qui sopra e Apoll. Rhod. Arg. I.494 ss.); le Rapsodie riunirebbero entrambe le tradizioni in un’unica narrazione (cf. pp. 295-296). La Notte, comunque sia, sembra essere un elemento compatibile con l’uovo cosmico fin dal V sec. a.C., come dimostrano la parodia cosmogonica negli Uccelli di Aristofane (v. 695) – molto prima, dunque, della composizione delle Rapsodie – e il Papiro di Derveni stesso, dove non si può trascurare la menzione di un πρωτόγονος. Sull’esistenza di una teogonia orfica «antica», corrispondente alla teogonia “eudemia” e attestata appunto negli Uccelli, secondo la quale l’uovo cosmico sarebbe stato generato dalla Notte, e sulla relazione fra questa teogonia e quella delle Rapsodie, cf. precedentemente Brisson (1995), 391-396. Cf. infine Edmonds (2013), 163 ss., che esclude la possibilità di individuare alcunché di unitario nell’ambito del cosiddetto ‘orfismo’ e quindi anche nelle diverse tradizioni cosmogoniche a questo ricondotte.
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re) e la Terra potrebbe essere ricondotta alla teogonia orfica nota come “eudemia”, secondo la quale, come sembra ricostruibile dalla combinazione delle testimonianze di Platone (Tim. 40d) e Aristotele (Arist. Met. 1071b26; 1091b4) – di cui Eudemo era appunto allievo –, alla Notte seguirebbero nel principio appunto Cielo e Terra:15 proprio Platone evoca infatti Cielo e Terra – senza far menzione della Notte – come elementi primigeni, mostrando un accordo (che, come vedremo, non rappresenta un caso isolato, cf. avanti § 1.2) con Euripide. Quanto poi specificamente all’identificazione euripidea di Οὐρανός con Αἰθήρ, questa può trovare le sue origini in un’altra tradizione, ugualmente riconducibile all’orfismo e compatibile cronologicamente con l’epoca di composizione delle tragedie di Euripide, la tradizione cioè conservata nel poema cosmogonico orfico commentato nel Papiro di Derveni. Quest’ultimo ci permette infatti di risalire al V-IV sec. a.C. e di scorgere, nonostante tutti i problemi che tale testimone pone, in un’età prossima a Euripide (così come avviene per le testimonianze platoniche e aristoteliche della teogonia “eudemia”), alcuni significativi dati attestati più ampiamente nella tradizione orfica di epoca successiva. Sembra infatti legittimo individuare qualche continuità fra la teogonia del Papiro di Derveni e quella narrata, secondo quanto possiamo ricostruire dalle nostre testimonianze (perlopiù neoplatoniche), nelle Rapsodie orfiche, un poema orfico in 24 canti, divenuto, a partire dalla sua composizione (le datazioni oscillano fra il I sec. a.C. e il III-IV d.C.), il «poema orfico per eccellenza»:16 in entrambi i casi sarebbe centrale, nel processo cosmogonico, oltre alla presenza di una Notte primordiale, sia la figura di un dio πρωτόγονος, “primo nato”, la cui discendenza, abbastanza in linea con il racconto esiodeo, giungerebbe infine a Zeus,17 sia la scelta di Zeus di inghiottire il dio “primo nato”, sussumendo
15 Sulla “teogonia eudemia”, di cui abbiamo pochissime testimonianze, cf. Ricciardelli Apicella (1993), 35-38; Bernabé, PEG, II.1, 33-42; sulla relazione della teogonia “eudemia” con le testimonianze di Plat. Tim. 40d; Phileb. 66c e Arist. Met. 1071b26; 1091b4; 983b27, cf. Bernabé (2011), 81-94. 16 Cf. Ricciardelli Apicella (1993), 45; per una datazione anteriore al I sec. a.C. propende Bernabé (2009), 311-312. Per una ricostruzione della teogonia “rapsodica”, cf. West (1983), 70-75. 17 Sullo sforzo di adeguamento al modello esiodeo da parte dei poeti orfici (per quanto riguarda in particolare le Rapsodie), cf. West (2009), 279-285. Si osservi come anche il nome di “Metis”, talora attribuito al dio Protogonos (cf. i frr. 140-141 Bernabé dalle Rapsodie), sia ricondotto da West (p. 284) a un’assimilazione al racconto esiodeo dell’inghiottimento di Metis da parte di Zeus (Theog. 886-891).
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in sé tutto il creato per dare inizio a un nuovo processo cosmogonico.18 Dibattuta rimane comunque sia la questione dell’identificazione di tale dio Protogonos nelle due tradizioni – nella teogonia “rapsodica”, dove è chiamato con molti nomi, Phanes, Eros, Metis, perfino Zeus (cf. Bernabé, PEG, II.1, 137-142), appare come una divinità indipendente, laddove nel Papiro di Derveni potrebbe riferirsi direttamente a Urano (cf. qui sopra, nota 14) –, nonché quella della modalità di tale inghiottimento (cf. avanti). L’aspetto per noi interessante è che di questo dio primigenio si sottolinei più volte, nelle nostre testimonianze relative alle Rapsodie, il legame diretto con l’Αἰθήρ (definito πάντων ῥίζωμα in fr. 116 Bernabé): Protogonos si configura come luce che irrompe nell’Αἰθήρ (frr. 122; 123; 126 Bernabé), come “figlio di Αἰθήρ” (frr. 124; 125 Bernabé),19 o anche scaturito dall’uovo cosmico fatto dal Tempo “per mezzo dell’Αἰθήρ”20 (frr. 109-121 Bernabé; sul ruolo cosmogonico del Tempo, cf. avanti § 1.1.3). Il dio “primo nato” è dunque colui che porta in sé il seme degli dei (fr. 140 Bernabé)21 e cui si
18 Cf. Bernabé (2009), 310 sulla presenza, anche nella teogonia “ieronimiana”, dell’inghiottimento di Protogonos da parte di Zeus, sulla base di Dam. De princ. 123 bis, fr. 54 Kern (frr. 86 + 80 Bernabé). Cf. in ogni caso Parker (1995), 488-493, in merito ai punti di contatto fra le nostre tarde notizie sull’orfismo e quelle di età arcaica e classica. 19 Fra i frammenti che attestano la relazione fra Protogonos, la luce e l’Αἰθήρ, è significativa una testimonianza di Giovanni Malala (Chron. IV.89, corrispondente al lemma della Suda Ὀρφεύς), dove si parla di Protogonos come τὸ φῶς ῥῆξαν τὸν Aἰθέρα (fr. 122 Bernabé), con la conseguente fine di una fase in cui era l’oscurità a dominare tutto. Per le connessioni del dio Protogonos (e dell’uovo stesso da cui egli nasce) con la luce e la luminosità cf. ancora frr. 121; 123; 127 Bernabé; sulla contrapposizione fra le tenebre precedenti e la sua apparizione cf. frr. 105; 106; 107 Bernabé. Per l’interpretazione della Notte primordiale delle Rapsodie come «materia» «primordialis, obscura, infinita, aeterna et indigesta in qua nascitur Tempus» (diversa dunque, in quanto tale – cf. avanti, nota 22 –, dalla “prima dea” della teogonia “eudemia”), cf. frr. 103-108 Bernabé. 20 Citiamo qui in particolare il fr. 114 Bernabé: ἔπειτα δ᾽ ἔτευξε μέγας Χρόνος Αἰθέρι δίῳ ὤεον ἀργύφεον, dove il dativo Αἰθέρι δίῳ è interpretabile come un dativo di mezzo. Così intende anche Combés nella sua traduzione del passo di Damascio (De pr. princ. 55, cf. Westerink (1986), 40), da cui il frammento è tratto. D’altronde Damascio, avanti nel suo testo (De pr. princ. 123 bis, p. 162 Westerink), a proposito della teogonia “ieronimiana”, parla del Tempo come padre di Etere, Caos e Erebo e afferma che l’uovo cosmico sia stato generato dal Tempo ἐν τούτοις, ossia appunto Etere, Caos e Erebo: gli elementi dai quali nasce l’uovo sono presentati quindi con un complemento di luogo. 21 πρῶτον δαίμονα σεμνόν / Μῆτιν σπέρμα φέροντα θεῶν κλυτόν, ὅν τε Φάνητα / πρωτόγονον μάκαρες κάλεον κατὰ μακρὸν Ὄλυμπον.
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deve la creazione, in seguito alla sua unione con Notte (fr. 148),22 non solo di Οὐρανός e Γῆ, ma anche del sole, della luna e dell’intero cosmo (frr. 149-164 Bernabé).23 Dopo l’evirazione di Urano da parte del figlio Κρόνος, a sua volta spodestato da Zeus (frr. 226-236 Bernabé) – vicende in linea con il racconto esiodeo –, un momento decisivo del processo cosmogonico orfico è rappresentato, come si è detto, dall’inghiottimento di Protogonos da parte di Zeus (frr. 237-242 Bernabé), il quale, con questo gesto, compiuto su consiglio della Notte, assorbe in sé non solo Protogonos ma tutto l’universo, dando inizio a una nuova cosmogonia.24 Alla luce di queste considerazioni sembra appunto, come si diceva, possibile individuare qualche affinità con la versione del poema orfico commentato nel Papiro di Derveni: nonostante le indubbie difficoltà poste dalla ricostruzione di quest’ultima, infatti, possiamo individuarne la figura centrale in Zeus, la cui conquista del potere avrebbe contemplato anche l’atto di inghiottire il dio “primo nato”, come suggerirebbe il verso αἰδοῖον κατέπινεν,25 ὃς αἰθέρα ἔκθορε πρῶτος (col. XIII.4). Ci troviamo qui tuttavia di fronte a una seria difficoltà interpretativa in merito alla traduzione di αἰδοῖον o come accusativo singolare maschile (in tal caso si tratterebbe di un aggettivo con il significato di “venerabile”) o accusativo neutro singolare (in tal caso si tratterebbe di un sostantivo con il significato di “fallo”). Senza voler qui ripercorrere la tormentata storia esegetica di questo verso, ci limiteremo a rilevare, in merito ai legami della teogonia di Derveni con
22 Sulla complessità del ruolo della Notte nella teogonia “rapsodica”, indicata talora come entità primigenia, talora come concubina, talora come figlia del dio primigenio (cf. per esempio le Argonautiche orfiche, v. 15), cf. fr. 147 Bernabé; sulla questione cf. West (1983), 70. 23 In alcuni frammenti (frr. 163; 164 Bernabé) si parla di una “grotta della Notte” come il luogo dove Protogonos risiede e genera i suoi figli. Per quanto riguarda la creazione degli uomini, sembra che le Rapsodie attribuissero a Protogonos il ruolo di demiurgo di un γένος χρυσοῦν (fr. 159 Bernabé) contrapposto evidentemente a quello creato da Zeus dalle ceneri dei Titani. Sulla relazione fra il mito rapsodico delle “tre razze” di uomini, create rispettivamente da Protogonos, Crono e Zeus, e il mito esiodico delle “cinque razze” (Op. 109-201), cf. West (2009), 285. 24 Come abbiamo visto, infatti, le Rapsodie attestano per Protogonos proprio il nome di Zeus (fr. 141 Bernabé). Tale identificazione di Zeus con il dio “primo nato” è rafforzata dal legame di Zeus stesso con la grotta della Notte (cf. qui sopra, nota 23), dove egli viene appunto nascosto dalla madre Rea per essere salvato dal padre Crono (fr. 209 Bernabé); per la connessione dell’infanzia di Zeus con una grotta, sita a Creta, cf. anche Esiodo, Theog. 483. 25 Si osservi come questo identico verbo ricorra in molte testimonianze relative alla teogonia “rapsodica” proprio in riferimento all’inghiottimento di Protogonos da parte di Zeus (cf. fr. 240 Bernabé).
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la tradizione successiva, l’atto compiuto da Zeus di inghiottire un ‟venerabile” dio (o il suo fallo), messo in relazione con l’Etere.26 Tali legami sono rafforzati dal fatto che in col. XVI.3 si faccia esplicitamente menzione di un ‟venerabile” re Protogonos (questa volta αἰδοῖος è sicuramente attributo), di cui sono messi in risalto il «principio della luminosità» (il commentatore identifica l’αἰδοῖον di col. XIII.4, da lui inteso come “fallo”, con ἥλιος in coll. XIII.7-11; XVI.1; l’elemento luminoso torna anche in col. XIV.1) e la «potenza generativa» (cf. col. XVI.3-6).27 Quanto alla possibile identificazione di Protogonos con Urano, sostenuta da Bernabé,28 se da un lato differenzierebbe la teogonia di Derveni da quella “rapsodica”, dall’altro confermerebbe la stretta relazione fra Cielo e Etere, in linea con quanto abbiamo riscontrato nei frammenti euripidei. La possibilità di individuare qualche legame fra la teogonia di Derveni e la tradizione orfica successiva trova una conferma nel fatto che il papiro ci conservi la più antica versione dell’ “inno a Zeus” orfico (coll. XVII.6; 12; 26 Citiamo i passi dal Papiro di Derveni secondo il testo e la numerazione dell’edizione Kouremenos, Parássoglou, Tsantsanoglou, piuttosto che nella più recente edizione Kotwick, Janko 2017. Secondo la proposta di West (1983), 82-88, sostanzialmente accolta da Kouremenos in Kouremenos, Parássoglou, Tsantsanoglou (2006), 26-28 e da Kotwick, Janko (2017), 207-209, αἰδοῖον sarebbe da intendersi come un attributo (“venerabile”) riferito a Protogonos; cf. inoltre Ricciardelli Apicella (1993), 43-44, nota 78. Per un’interpretazione di αἰδοῖον come “fallo” di Urano, identificato a sua volta con Protogonos stesso (su cui cf. avanti, nota 28), sostenuta in Bernabé (2009), 298-303, cf. Kotwick, Janko (2017), 207-215, dove si affronta nel complesso un’ampia disamina del dibattito sul passo; sulla questione cf. anche Scermino (2011), 62 ss. Quanto al problema relativo all’accusativo αἰθέρα di col. XIII.4, ripercorso in Scermino (2011), 67-74 e, ora, in Kotwick, Janko (2017), 208, riteniamo qui legittimo intendere αἰθέρα come un accusativo di moto a luogo (tra l’altro il Papiro di Derveni stesso, in col. XIV.1, dove il commentatore sembra descrivere la nascita di Crono, ripropone la stessa struttura sintattica): se non si interpreta, con Bernabé, αἰδοῖον come “fallo”, sembra dunque accettabile una traduzione “ingoiò il venerabile, che per primo balzò fuori nell’Etere” (piuttosto che “dall’Etere”, come fanno sia Parássoglou e Tsantsanoglou sia Kotwick). 27 Cf. Scermino (2011), 85-87. 28 Cf. Bernabé (2009), 299-300. Crono, tra l’altro, è esplicitamente detto “generato dal Sole alla Terra” in col. XIV: dato il legame stabilito dal commentatore fra il fallo di Protogonos (così è inteso αἰδοῖον in col. XIII.7-11, cf. qui sopra, nota 26), inghiottito da Zeus, e il Sole, sembrerebbe quindi giustificata l’identificazione fra Urano, tradizionalmente padre di Crono, e Protogonos stesso. Osserviamo infine che il verso Οὐρανὸς Εὐφρονίδης, ὃς πρώτιστος βασίλευσεν (col. XIV.6), citato da Bernabé come prova dell’identificazione di Urano con Protogonos, presenta la stessa struttura sintattica di αἰδοῖον κατέπινεν, ὃς αἰθέρα ἔκθορε πρῶτος (col. XIII.4), riferito senz’altro al dio “primo nato”.
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XVIII.12-13;29 XIX.10), di cui troviamo nelle Rapsodie una versione più recente (fr. 243 Bernabé):30 come si è già accennato, vi si celebra, in seguito all’inghiottimento, da parte di Zeus, del dio “primo nato” e creatore del cosmo, l’identificazione dell’universo stesso con Zeus in un panteistico coincidere del tutto (dei, mare, fiumi, cielo e terra) nella sua figura. D’altra parte il fatto stesso che in un poema orfico più o meno coevo rispetto alle tragedie euripidee, Zeus inghiottisse un dio venerabile (per cui forse è lecita un’identificazione con Οὐρανός), associato all’Αἰθήρ (cf. P. Derv. col. XIII.4), e ne rilevasse il ruolo demiurgico poteva favorire anche quella tendenza ravvisabile in Euripide a identificare Zeus con l’Αἰθήρ in quanto entità primordiale.31 Se il passo dell’Antiope è troppo breve perché si possa indicare fino a che punto Euripide introducesse elementi orfici nella cosmogonia di Anfione, il Crisippo sembra offrire senz’altro spunti maggiori in questo senso: la tendenza euripidea, che ne emerge, a operare una progressiva identificazione fra le tre entità ‘celesti’ (Αἰθήρ / Οὐρανός / Ζεύς) coinvolte nel processo cosmogonico sembra dunque insita nella tradizione orfica stessa,32 dove si riscontra fin dal Papiro di Derveni, sia nelle sezioni appartenenti all’antico poema orfico (si pensi ai versi dell’inno a Zeus di cui si è parlato qui sopra) sia nel commento vero e proprio, il cui autore mostra particolare interesse per le identificazioni fra divinità anche in ambito femminile.33
29 L’espressione Ζεὺς πρῶτος γένετο, citata qui dal commentatore di Derveni, doveva appunto rinsaldare, nel poema orfico, la progressiva identificazione fra Zeus e il dio Protogonos conseguente all’inghiottimento. 30 Sulla questione cf. Parker (1995), 493; Bernabé, PEG, II.1, 44. Ricordiamo qui che l’inno, in una forma ancora diversa, è attestato anche in Ps.-Arist. De mund. 401a25. Per un’analisi della relazione fra le varie versioni dell’inno e della sua evoluzione nel corso del tempo, cf. Bernabé (2009e). 31 Si possono individuare due frammenti euripidei – purtroppo fabulae incertae, il che ne rende ancor più difficilmente ricostruibile il contesto – in cui Euripide esplicitamente identifica Zeus e Αἰθήρ, TrGF V.2 FF 877; 941 (per quest’ultimo cf. qui sopra, nota 11). 32 Cf. Parker (1995), 494: «the practice of making such identifications may have had its origin in Orphic mysticism. More specifically, the Orphic myth of succession in Heaven takes on a new colour if Protogonos and Zeus and Dionysos are in some sense the same god, if Zeus was implicit in Protogonos and Protogonos reincarnated in Dionysos». Sulla figura di Dioniso nella tradizione orfica torneremo avanti in cap. II. 33 Cf. per esempio col. XXII.11-12, dove il commentatore di Derveni attribuisce a una raccolta di Inni di Orfeo (da distinguere dal poema commentato nel papiro; sull’identificazione di tali inni, cf. Kouremenos, Parássoglou, Tsantsanoglou (2006), 254-255) il verso Δημήτηρ Ῥέα Γῆ Μήτηρ Ἑστία Δηιώ, nomi che indicano
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§ 1.1.2 Origini indoeuropee delle cosmogonie greche L’identificazione di Αἰθήρ / Οὐρανός / Zeus sembra d’altra parte avere la sua motivazione profonda nell’origine stessa della tradizione cosmogonica greca, di quanto cioè è comune sia a Esiodo sia all’orfismo: il confronto con paralleli antico-indiani permette di ritenere tale origine indoeuropea (i.e.). La ricostruzione etimologica ha infatti recentemente permesso a Michael Janda di riconoscere nella successione Οὐρανός – Κρόνος – Ζεύς, propria sia della tradizione esiodea sia di quella orfica, la duplicazione del mito cosmogonico indoeuropeo, conservatosi in una forma molto probabilmente più vicina all’originale i.e. nel Rig-Veda: qui la nascita del Cielo e della Terra avviene nella forma di una loro liberazione dalla forza di occlusione Vṛtra, identificata con un drago ucciso dal dio Indra, la cui vittoria dà appunto origine al processo cosmogonico; quest’ultimo riguarda non solo la separazione del Cielo dalla Terra, ma anche la liberazione delle acque e dell’Aurora, ugualmente imprigionate. Secondo l’ipotesi di Janda, il ruolo, che nella tradizione vedica appartiene a Indra, in quella greca sembrerebbe essere attribuito piuttosto a Κρόνος, il quale, evirando Urano, compie lo stesso atto cosmogonico di Indra, ossia la separazione di Cielo e Terra e la liberazione delle divinità che Urano teneva prigioniere nel grembo di Gaia.34
tutti la stessa entità. Sull’identificazione fra Demetra e Rea nella tradizione orfica e sui suoi riscontri in Euripide torneremo avanti in cap. II.2 e III.4. Euripide è un testimone importante anche per l’identificazione fra Demetra e la Terra, cf. Bacch. 275-276 (su cui cf. avanti) e Phoen. 685-686. Eschilo stesso, in Prom. 210, parla di una πολλῶν ὀνομάτων μορφὴ μία rispetto a Θέμις e Γαῖα (cf. Parker (1995), 494): il contesto tuttavia è in questo caso certamente non orfico e il verso eschileo è forse interpretabile con la volontà di Prometeo di attribuire alla giustizia una valenza primordiale (tale è infatti Γαῖα nella Teogonia esiodea, cf. vv. 116 ss.); in ogni caso Eschilo, nelle Bassaridi, doveva offrire una significativa testimonianza del sincretismo orfico, portando in scena un culto, attribuito proprio a Orfeo, del Sole identificato con Apollo (TrGF III, 138-139, su cui cf. avanti, cap. IV.2.1.2). Filodemo, infine, nel De pietate, a proposito del trattato Sugli dei di Crisippo (P.Herc. 1428, coll. IV-VII, pp. 14-17 Henrichs; cf. Henrichs (1974), 29), ci conferma la tendenza orfica alle identificazioni del tipo Zeus / Etere, Rea / Terra, Demetra / Terra, Etere come padre e figlio, Rea come madre e figlia di Zeus, rilevando il tentativo di Crisippo di accordare le dottrine stoiche con quanto “è attribuito a Orfeo e Museo e si trova in Omero, Esiodo, Euripide e altri poeti” (P.Herc. 1428, coll. VI.16VII.3, p. 17 Henrichs; cf. anche P.Herc. 1428 fr. 3.6 ss., su cui torneremo in cap. III.4.1, nota 412). 34 Cf. Janda (2010), 52-70, in particolare 54-55. Al dato mitologico comune Janda aggiunge la possibilità di una comune etimologia, la radice i.e. *(s)ker-, sia per il gr.
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Il cielo vedico, Dyauṣ, nasce come entità separata e distinta dalla Terra in seguito all’atto cosmogonico di Indra, secondo un modello che, come abbiamo visto, ritorna anche nella tradizione greca. Dal punto di vista etimologico, tuttavia, Dyauṣ è imparentato con Ζεύς-Διός, non con Οὐρανός: eppure, confrontando ancora i paralleli vedici, si osserva come il nesso, riferito al Cielo, várṣman- diváḥ, l’ “alto del Cielo” (cf. RV IV.54.4cd), ci presenti unite la radice di Ζεύς-Διός e quella di Οὐρανός (secondo l’etimologia del nome sostenuta da Janda, non essendo stata ancora da tutti abbandonata l’antica etimologia Οὐρανός/Varuṇa). Ipotizzando dunque un comune antenato i.e. *Diēu̯s u̯orsṃnós (“il Cielo in alto”), Janda individua una sua unitaria discendenza in India nella figura di Dyauṣ e una duplice discendenza in Grecia nelle figure di Ζεύς e di Οὐρανός (< *wōranos < *worhano- < *worsano- < *worsṃno-).35 Appare dunque legittimo parlare, per la Grecia, di una duplicazione del mito cosmogonico i.e. in quanto, se le vicende mitiΚρόνος, dalla stessa radice del verbo κείρω, “tagliare”, che per il vedico KAR-, a cui è legato il significato “fare”, un “fare” che, nel contesto cosmogonico della creazione vedica, si configura in realtà come conseguenza di un “tagliare” (Janda considera in proposito i passi in cui nel Rig-Veda il verbo “fare” rientra nel contesto cosmogonico della creazione / liberazione, da parte di Indra, del Cielo dal Vṛtra, ossia RV VI.47.4a; X.104.10c). D’altra parte, gr. κείρω e ved. KAR- potrebbero essere in realtà riconducibili a due radici diverse attestate entrambe in ittito, rispettivamente itt. kuer-zi (da i.e. *kṷer-, per cui cf. LIV, p. 391) e itt. karš-zi (cf. Chantraine, s. v. κείρω, dove si propone il confronto con l’aoristo ἔκερσα), che significano tutte e due “tagliare”: l’ittito conserverebbe due diverse radici i.e. dallo stesso significato, ereditate l’una dal greco l’altra dal sanscrito (e altre lingue). Rimane in ogni caso il dato mitico dell’analogia fra Indra, colui che ‘taglia in due’ il drago creando, dalle due metà, il Cielo e la Terra e liberando le altre divinità imprigionate, e Crono, che, come ci racconta Esiodo (cf. Theog. 154-182, che in questo coincide con quanto è attestato nella tradizione orfica, a quanto sembra, fin dal Papiro di Derveni, cf. Bernabé (2009), 300 ss.), taglia con una falce i genitali del padre Urano, mentre questi si congiunge con Gaia; con questo gesto, Crono, come Indra, non solo separa il Cielo dalla Terra, ma libera anche le divinità che la malvagità di Urano teneva racchiuse nel grembo di Gaia. L’evirazione di Urano è, tra l’altro, secondo il racconto di Esiodo (cf. Theog. 188-200), all’origine della nascita di Afrodite dalla schiuma del mare, che nel Rig-Veda ha il suo corrispettivo nella dea dell’Aurora (uṣás-), liberata anch’essa dall’atto cosmogonico di Indra (per la relazione fra le due divinità, fondata sul sorgere dalle acque, comune a entrambe, cf. Janda (2010), 45-70). 35 Cf. Janda (2010), 48-54. Pugliese Carratelli (1991), 5-15, pur escludendo l’etimologia Οὐρανός / Varuṇa, individuava tuttavia un’analogia nelle funzioni assunte da Varuṇa nell’India vedica e da Οὐρανός nella Grecia orfica di «presidio della verità e ispiratore di rettitudine nella vita morale» (significativa sarebbe in questa prospettiva anche la relazione di Varuṇa con le acque e il fondamentale ruolo dell’acqua come elemento purificatore nella dottrina orfica). D’altronde la figura di
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che relative a Indra e Dyauṣ trovano consistenti paralleli in quelle relative a Crono e Urano, il rapporto fra Zeus e Crono ripropone lo stesso modello, ma con i ruoli invertiti, dato che questa volta è Zeus a dover liberare se stesso e i suoi fratelli dalla tirannia del padre Crono (ritorna infatti anche il motivo delle divinità ‘sorelle’ liberate dalla prigionia in cui, questa volta, le tiene Crono, che inghiotte tutti i suoi figli).36 Le complessità comportate da questo scambio di ruoli in Grecia non ci impediscono d’altra parte di scorgere, in versioni più conservative di quella esiodea, tracce dell’antico schema cosmogonico i.e.: l’atto con cui Zeus racchiude tutto l’universo in sé inghiottendo Protogonos sembra appunto ricostituire quell’unità iniziale del tutto di cui il Cielo e la Terra facevano parte.37 L’alternarsi, al principio delle cosmogonie euripidee che abbiamo analizzato, accanto alla Terra, di una forza cosmogonica primordiale chiamata di volta in volta Οὐρανός (Melanippe saggia), Αἰθήρ (Antiope), Διὸς Αἰθήρ (Crisippo) potrebbe trovare la sua giustificazione, come abbiamo visto, anche in una prospettiva i.e., cioè nella relazione cosmogonica fra le figure di Zeus e Urano. L’Αἰθήρ della tradizione orfica ci appare, a questo punto, come un’ulteriore ipostasi di quell’entità primordiale da cui discendono sia Zeus sia Urano: la contiguità semantica di αἰθήρ e οὐρανός è ben attestata nella cultura greca, fin da Omero: si pensi per esempio all’invocazione di Agamennone a Zeus in Il. II.412 come αἰθέρι ναίων38 oppure alla descrizione di un abete in Il. XIV.288, di cui si dice che δι᾽ ἠέρος αἰθέρ᾽ ἵκανεν, dove si osserva la distinzione fra l’uso di ἀήρ come “aria” e quello di αἰθήρ come Dyauṣ è del tutto scolorita in India e suoi possibili più antichi ruoli possono essere passati a altri dei, in particolare della sua stessa classe. 36 Il parallelismo fra il mito vedico e il mito greco apparirebbe ancora più stretto, se, come sostiene Janda, si potesse identificare in Dyauṣ il padre di Indra (cf. Janda (2010), 52). Sul problema dell’identificazione del padre di Indra in quanto appartenente alla generazione divina arcaica, sconfitta appunto da Indra stesso (secondo un modulo coincidente dunque con quello della tradizione greca), cf. Sani (2002-2003), 317-324. 37 Cf. qui sopra, nota 24. Janda stesso individua nell’atto dell’inghiottire compiuto da Zeus non solo nella tradizione orfica, ma anche in quella esiodea (cf. Theog. 886-891, dove tra l’altro si dice che tale gesto sia stato consigliato a Zeus da Gaia e Urano), in cui Zeus inghiotte appunto Μῆτις (cf. Janda (2010), 61), un’affinità con il motivo dell’imprigionamento delle divinità per opera della forza di ostruzione Vṛtra. 38 L’espressione omerica sembra tra l’altro il diretto antecedente di TrGF 44 F487 dalla Melanippe saggia e di TrGF 12 F223, v. 11 (σοὶ δ᾽ ὃς τὸ λαμπρὸν αἰθέρος ναίεις πέδον) dall’Antiope, entrambe tragedie, come abbiamo visto, dove comparivano passi cosmogonici.
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“cielo”. Del resto i vv. 10-11 del fr. 839 stesso del Crisippo euripideo confermano l’interscambiabilità dei due aggettivi corrispondenti, αἰθερίου / οὐράνιον. Alla luce di quanto fin qui osservato, possiamo attribuire una connotazione cosmogonica anche alle frequenti ricorrenze dell’αἰθήρ nel passo delle Baccanti relativo alla fine di Penteo (vv. 1073; 1078; 1084; 1099): lo confermano sia la rappresentazione cosmica di Dioniso, il quale πρὸς οὐρανὸν / καὶ γαῖαν ἐστήριζε φῶς σεμνοῦ πυρός (vv. 1082-1083; si osservino i riferimenti al cielo e alla terra e al fuoco sacro) sia il fatto che Dioniso collochi Penteo sul ramo di un abete (vv. 1064-1074), definito οὐράνιον (“che tocca il cielo”, v. 1064), dopo averlo piegato ἐς μέλαν πέδον (v. 1065) e poi di nuovo spinto in modo che ἐς ὀρθὸν αἰθέρ᾽ ἐστηρίζετο (v. 1073, dove compare lo stesso verbo usato al v. 1083 per “la luce del sacro fuoco”), un’immagine riconducibile a quella dell’albero del mondo, che divide cielo e terra, ben attestata nella tradizione i.e. (di un tale puntello cosmico si serve appunto Indra per il suo atto cosmogonico successivo alla sconfitta del drago). Rileviamo dunque, ancora una volta, la tendenza di Euripide a alternare la terminologia ‘urania’ e ‘eterea’ in associazione non solo con una dimensione cosmogonica, ma anche con la manifestazione della potenza di un dio che, come vedremo, riveste un ruolo fondamentale nel pantheon orfico.39 § 1.1.3 Il Tempo come agente cosmogonico Le cosmogonie orfiche sembrano ereditare altresì una tradizione mitologica che si distanzia non solo da quella esiodea, ma anche dal mito vedico relativo all’impresa di Indra e all’uccisione del drago: si tratta dell’azione del Tempo, posto al principio del processo cosmogonico sia nella teogonia “ieronimiana” sia in quella “rapsodica”. Nella prima, secondo il resoconto di Damascio (De pr. princ. 123 bis), il Tempo, prole di acqua e fango solidificato e con le sembianze di un δράκων, genera a sua volta Αἰθήρ, Χάος e
39 Sulla ricorrenza delle immagini aeree nelle Baccanti di Euripide, con riferimento anche al loro impiego in relazione all’ “albero cosmico” nel passo commentato qui sopra, cf. Reyes, Ristorto (2014). Per una riflessione sul passo in questione e sul ruolo dell’albero nel mito e nel culto dionisiaco in una prospettiva comparativa i.e., cf. Janda (2010), 134-137 (cf. anche 20 ss. sull’etimologia di Διόνυσος come “colui che muove l’albero”); anche in Ferecide di Siro (cf. qui sotto) si menziona un δένδρον legato alla creazione della terra e dell’oceano (FF 73; 68 Schibli = DK 7 A11; B2), che sembra appunto ricollegarsi all’ “albero del mondo” della tradizione vedica (cf. Janda (2010), 71-89).
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Ἔρεβος (frr. 75-76; 78 Bernabé), nonché, in essi, l’uovo cosmico da cui, come abbiamo visto, nasce il dio Protogonos (frr. 79-80 Bernabé);40 nelle Rapsodie il Tempo, primo agente cosmogonico (il cui aspetto ignoriamo se fosse o meno mostruoso come nella teogonia “ieronimiana”), dà vita, dapprima, a Αἰθήρ e Χάσμα e poi, dall’Αἰθήρ stesso, all’uovo cosmico (frr. 109-121 Bernabé). Eppure, anche per ciò che concerne il Tempo, sembra possibile rintracciare qualche parallelo nell’ambito della cultura i.e.: come già aveva osservato Martin West, il mito cosmogonico orfico da lui ricostruito come “Protogonos theogony” presenta infatti importanti affinità con due inni dell’Atharva-Veda (AV XIX.53-54), in cui troviamo non solo il Tempo (kālá-) come progenitore sia di Cielo che di Terra ma anche un divino demiurgo Prajāpati, di cui West sottolinea, in relazione a Protogonos, le associazioni solari e la forza generativa (il suo nome, traducibile come Pro-geni-potens, rivela la stretta relazione con il greco Protogonos).41 Nell’ambito della tradizione iranica, poi, possiamo menzionare l’eresia zurvanita, che pone Zurvan, il Tempo illimitato, come genitore dei due principi supremi del Bene e del Male: il Tempo, del resto, compare già nell’Avesta recente, Vidēvdāt, Fargard 19.13, menzionato da Ahura Mazdā fra le entità che Zarathuštra deve invocare.42 Sebbene il numero e l’impatto di queste testimonianze nell’ambito delle culture i.e. rendano difficile ricostruire una divinità i.e. legata al Tempo come agente cosmogonico, non possiamo tuttavia del tutto escludere l’esistenza di tradizioni cosmogoniche i.e. diverse, una delle
40 La presenza di Χάος e Αἰθήρ come entità primigenie permetterebbe di individuare ulteriori rimandi alla cosmogonia i.e.: data infatti la contiguità di Αἰθήρ con l’elemento ‘celeste’, si deve osservare che il Χάος (posto anche da Esiodo al principio del processo cosmogonico, cf. Theog. 116-128) può essere ricollegato alla radice i.e. *(s)ĝhah2-, “aprire”, venendo così a corrispondere all’ “apertura” cosmica della forza di occlusione primigenia, provocata, nel mito vedico, dall’uccisione del drago da parte di Indra (cf. Janda (2010), 262-272; sulla connessione di χάος con la radice dei verbi χαίνω, χάσκω, ecc…, cf. già Chantraine, s.v. χάος). 41 Cf. West (1983), 102-106; West (2009), 282. 42 Per un riferimento alla “Time-cosmogoy” iranica, cf. West (1983), 105; discute l’eresia zurvanita anche Brisson (cf. Brisson (1995), 47-50), che sottolinea come, nonostante il ridimensionamento subito, nell’Avesta, dalle divinità diverse da Ahura Mazdā, la figura di Zurvan, attestata fin dal testo fondatore del mazdeismo, possa essere sopravvissuta nella religione popolare fino a ricomparire come divinità principale nell’ambito dell’eresia che da lui prende il nome; Brisson, tuttavia, non mette in collegamento tradizione greca e iranica nell’ambito della comparazione i.e., ma di una possibile influenza del mitraismo sull’orfismo (cf. qui sotto, nota 43).
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quali contemplasse appunto il Tempo e di cui scorgiamo delle tracce nella cultura greca, nella cultura indiana e nella figura dello Zurvan iranico. Il fatto che la figura di Χρόνος sia assente nelle testimonianze più antiche relative alle teogonie orfiche (quale per esempio il Papiro di Derveni) non sembra del resto escludere la possibilità che il Tempo come agente cosmogonico appartenga a una tradizione comunque antica (aperto rimane il problema relativo alla sua origine i.e.), confluita in testi distanti cronologicamente, a cui l’orfismo potrebbe appunto avere attinto:43 il Tempo è infatti annoverato fra le entità primordiali nella cosmogonia, tramandataci solo per scarsi frammenti, di Ferecide di Siro (VI sec. a.C.), il quale, accanto a Χρόνος, menziona, nel principio, anche Ζάς e Χθονίη (F14 Schibli = DK 7 B1).44 Nella prima delle due fasi cosmogoniche che la cosmogonia di Ferecide sembra contemplare,45 il Tempo avrebbe generato dal suo γόνος (“seme”) πῦρ, πνεῦμα e ὕδωρ, distribuiti in cinque μυχοί (“angoli”), destinati a diventare i luoghi di nascita della prima generazione di dei (F60 Schibli = DK 7 A8); la possibile identificazione di uno dei μυχοί con αἰθήρ permetterebbe di giustificare quanto ci attestano Probo e Ermia (FF 65-66 Schibli = DK 7 A9) in merito all’equiparazione di Zeus e αἰθήρ in Ferecide.46 La preminenza di un’entità cosmogonica identificata con il Tempo, da cui sembra 43 Sulla base di una distinzione fra una cosmogonia orfica più antica (attestata appunto nei nostri testimoni più antichi, come gli Uccelli di Aristofane e il Papiro di Derveni), che pone la Notte al principio del processo cosmogonico, e una più recente, che sostituisce la Notte con Il Tempo, attestata nelle Rapsodie e ulteriormente rielaborata nella versione “ieronimiana”, Brisson ipotizza per Χρόνος un ingresso tardo nella tradizione cosmogonica orfica, sotto l’influenza del mitraismo, diffusosi nell’impero romano fra il II e il III sec. d.C. e messo a sua volta in relazione con la tradizione zurvanita iranica (cf. Brisson (1995), 43-51; sulla dipendenza del mitraismo dallo zurvanismo, cf. Widengren (1980), 654-655), per cui cf. qui sopra, nota 42. Brisson riduce tuttavia il valore delle testimonianze arcaiche e classiche, menzionate qui subito sotto nel testo, relative all’azione cosmogonica di Χρόνος (cf. nota 13, p. 401), basando la sua ipotesi su una complessa serie di collegamenti (orfismo-mitraismo-zurvanismo), a cui sembra in realtà difficile far risalire la nascita della tradizione cosmogonica greca che prende le mosse dal Tempo. 44 Sull’attribuzione a Χρόνος di una priorità cronologica su Ζάς, cf. Schibli (1990), 18, nota 10. 45 Cf. Schibli (1990), 14-49. 46 La seconda fase cosmogonica avrebbe avuto poi come protagonisti Ζάς e Χθονίη, divenuta Γῆ in seguito alle nozze con Ζάς (FF 14; 68; 73 Schibli = DK 7 B1-2; A11) e avrebbe visto la lotta fra Κρόνος e Ὀφιονεύς (un mostro, identificabile con un drago, contro cui gli dei ingaggiano una lotta per il potere), riconducibili rispettivamente alla sfera del cielo e dell’oceano, che assume il nome di Ὠγηνός (FF 78-80; 82-83; 73 Schibli = DK 7 B4-5; A11). I nomi di Κρόνος e Ζεύς, appartenenti
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discendere direttamente l’Αἰθήρ, sembra trovare appunto un’eco nelle Rapsodie orfiche.47 Molto significativa, rispetto al problema della presenza del Tempo nelle cosmogonie orfiche circolanti nel V sec., risulta d’altra parte la testimonianza tragica dei due frammenti del Piritoo, che offrono una rielaborazione di elementi presenti anche nella cosmogonia “rapsodica”. Sebbene l’attribuzione di questa tragedia sia tuttora oggetto di discussione, dato che le fonti antiche si dividono fra Crizia e Euripide, possiamo in questa sede rilevare come gli echi orfici riconoscibili in quanto ci è pervenuto di essa potrebbero ricondurre, alla luce delle osservazioni fatte qui sopra, a Euripide. Se inoltre consideriamo che il coro, in questa tragedia, ambientata nell’aldilà, era formato da iniziati ai misteri eleusini (TrGF I 43 F2), troveremmo qui una commistione di elementi orfici e eleusini, non estranea, come vedremo meglio nei capitoli seguenti, a Euripide.48 Riportiamo i frr. 593-594 (cf. TrGF 43 FF 4; 3), forse appartenenti entrambi alla parodo, nell’edizione di Nauck:49 (fr. 593 N2) σὲ τὸν αὐτοφυᾶ ἐν αἰθερίῳ a una seconda fase del processo cosmogonico (come quello di Γῆ per Χθονίη) sembrano in ogni caso doversi riferire alle stesse entità prima designate come Χρόνος e Ζάς: sulla questione onomastica in Ferecide, cf. Schibli (1990), 17, note 8; 9; Janda (2010), 78-79. Per un’indagine sui tratti conservativi della cosmogonia di Ferecide rispetto al modello i.e. quale è ricostruibile dal confronto con il RigVeda, cf. inoltre Janda (2010), 71-89. 47 Per una discussione sulle relazioni fra i poeti orfici e Ferecide, cf. Schibli (1990), 35-38. 48 Sulla possibilità che l’inno del Piritoo riecheggi una tradizione orfico-eleusina, reinterpretata alla luce di dottrine filosofiche come quella anassagorea, cf. Melero (2012), 135-138; appare tuttavia difficile ipotizzare che nell’ambito dell’‘ortodossia’ eleusina, relativa ai riti misterici di Eleusi, possa essere penetrata una tradizione cosmogonica così peculiare che pone il Tempo in una posizione di tale rilievo. Sui legami fra Orfeo e Eleusi, cf. avanti, capp. III e VI. 49 Nauck, a differenza di Snell, che colloca il Piritoo fra le tragedie di Crizia (TrGF 43 FF 4; 3), ritiene vera l’attribuzione della tragedia a Euripide, sulla base delle testimonianze di Ecateo di Abdera (FGrHist 264 F24) e della Vita di Satiro (fr. 37, col. III.16-19 Arrighetti), dove il fr. 593 è citato come esempio dell’influenza di Anassagora su Euripide (cf. inoltre, in età più tarda, Clem. Al. Strom. V.115; Plut. Amat. 18.763f; Stob. II.8.4, III.53.23; Esichio ε 7383, θ 689). Più ambiguo è Ateneo (Deipn. XI.496a), che menziona sia il nome di Euripide sia quello di Crizia; in un’anonima Vita euripidea (cf. I, 3.2 Schwarz) il Piritoo è invece annoverato, insieme con Tenne e Radamanti (le cui ipotesi compaiono come ipotesi di tragedie euripidee rispettivamente in P.Oxy. 2455, fr. 7 Austin e PSI 1286), in una trilogia euripidea spuria. Per una ricostruzione del dibattito sull’attribuzione euripidea, originatosi dal parere negativo di Wilamowitz, cf. Arrighetti (1964), 109; Dihle
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ῥύμβῳ50 πάντων φύσιν ἐμπλέξανθ᾽, ὃν πέρι μὲν φῶς, πέρι δ᾽ ὀρφναία νὺξ αἰολόχρως, ἄκριτός τ᾽ ἄστρων ὄχλος ἐνδελεχῶς ἀμφιχορεύει (fr. 594 N2) ἀκάμας τε χρόνος περί γ᾽ ἀενάῳ ῥεύματι πλήρης φοιτᾷ τίκτων αὐτὸς ἑαυτόν, δίδυμοί τ᾽ ἄρκτοι ταῖς ὠκυπλάνοις πτερύγων ῥιπαῖς τὸν Ἀτλάντειον τηροῦσι πόλον.51 Possiamo qui connotare come ‘orfico’, sulla base dei paralleli offerti dalle cosmogonie “rapsodica” e “ieronimiana”, non solo il fatto che l’elemento “etereo” sia posto alla base della πάντων φύσις, ma anche che il Tempo, che appunto “genera se stesso”, si configuri come un’entità primigenia. Se poi si volesse individuare un raccordo fra i due frammenti, si potrebbe, sempre sulla scorta proprio delle testimonianze orfiche,52 vedere nel personaggio a cui si rivolge il fr. 593 N2, σὲ τὸν αὐτοφυᾶ, il Tempo stesso (del resto αὐτοφυής, “self-existent” secondo la traduzione proposta dal Liddell-Scott, sembra collegarsi proprio al τίκτων αὐτὸς ἑαυτόν del fr. 594 N2), che farebbe appunto scaturire la luce e la notte “intrecciandole” nell’etere (nella teogonia “rapsodica” sono appunto Protogonos, a cui è inscindibilmente legata la luminosità, e la Notte a dare inizio alla creazione in seguito all’opera del Tempo; si ricordi inoltre l’analoga espressione usata da Damascio in De pr. princ.123 bis a proposito dell’azione cosmogonica del Tempo, cf. qui sopra, nota 20).53 Non è dunque forse senza significato che, proprio nella seconda Olimpica di Pindaro, ricca di riferimenti a dottrine che possiamo in-
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(1977), 28-30 e, ora, Melero (2012), 119-133, dove si affronta anche il problema dell’eventuale unità tematica della trilogia Tenne-Radamanti-Piritoo. Cf. Eur. Hel. 1362-1363: ῥόμβου θ᾽ εἱλισσομένα / κύκλιος ἔνοσις αἰθερία, in riferimento a culti in onore di Dioniso e della Grande Madre, su cui torneremo distesamente nel cap. III; sulla relazione fra il passo dell’Elena e il frammento del Piritoo, cf. Peigney (2014), 2-3. “Tu, che, nato da te stesso, hai intrecciato nell’etereo turbine la natura di tutte le cose, intorno al quale la luce, intorno al quale l’oscura notte stellata e l’innumerevole moltitudine delle stelle danzano senza posa. E il Tempo instancabile, pieno, si rivolge intorno in un flusso perenne, generando se stesso, e i due orsi, con gli slanci veloci delle ali, sorvegliano la volta di Atlante”. Cf. Egli (2003), 51-52. Il frammento del Piritoo presenta punti di contatto con l’ἔκφρασις di Eur. Ion. 1143-1158, per cui cf. Hannah (2002), 25-31. Oltre al fatto che anche nel passo dello Ione è il passare del tempo il motivo dominante, occorre qui notare che la successione degli agenti astronomici coinvolti in questo processo è la stessa dei
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terpretare come orfiche,54 troviamo l’espressione Χρόνος ὁ πάντων πατήρ (v. 17).55 § 1.1.4 Euripide fra misticismo orfico e speculazione filosofica Nei frammenti euripidei che abbiamo fin qui analizzato possiamo individuare influenze diverse, fra cui le dottrine orfiche sembrano svolgere un ruolo bensì decisivo, ma non esclusivo. Il commentatore del Papiro di Derveni stesso presenta un retroterra culturale che risente l’influsso di Anassagora, Empedocle e Diogene di Apollonia, alla luce delle cui dottrine egli interpreta appunto il poema cosmogonico orfico: lo Zeus orfico viene in ultima istanza identificato con un αἰθήρ / νοῦς molto vicino alle teorie di Anassagora e Diogene.56 Il primo testimone a darci notizia di un rapporto diretto fra Anassagora e Euripide è Satiro, che, nella sua Vita di Euripide (fr. 37 III.16-19 Arrighet-
due frammenti del Piritoo (il che potrebbe rafforzare l’ipotesi della paternità euripidea di questa tragedia): in entrambi i casi troviamo all’inizio la menzione di un intreccio ἐν αἰθερίῳ ῥύμβῳ / ἐν αἰθέρος κύκλῳ (nel caso di Ion. 1147, si tratta di Οὐρανός, che raduna gli astri – ἀθροίζων ἄστρα), poi, di seguito, di φάος (Ion. 1149), νύξ (Ion. 1150), ἄστρα (Ion. 1151) e, infine, dell’Ἄρκτος (Ion. 1154), al plurale nel fr. 594 N2 del Piritoo. 54 Cf. Graf (1974), 79-92. 55 Per un’analisi dettagliata degli echi orfici in Pindaro, relativi in particolare all’escatologia e concentrati nell’Olimpica II e nei frammenti dei Treni (cf. in particolare frr. 131b e 133 Maehler), cf. Santamaría (2009) (sulla connotazione orfica del Tempo in Pindaro, cf. nello specifico 1163-1164). Sul Tempo come entità primordiale, presente, oltre che nelle teogonie orfiche, anche in Ferecide e, come “ordinatore delle cose”, in Anassimandro (DK 12 B1), cf. Bernabé (2009), 309, nota 85. Sulle ricorrenze di Χρόνος come divinità personificata, spesso legata alla Giustizia, che tutto rivela, nasconde, insegna o appiana, nella letteratura arcaica e classica, cf. Schibli (1990), 29, nota 39; per una ricognizione sulle ricorrenze tragiche di Χρόνος, cf. Melero (2012), 138-140. Riferimenti alla potenza generativa del Tempo, oltre che in questo frammento del Piritoo, sono in Eur. Bell. TrGF 12 F303 (di un Tempo πατήρ si parla anche in Eur. Suppl. 787), per cui cf. avanti, e Arist. Phys. 222b16. 56 Sul rapporto fra il commentatore di Derveni e i φυσικοί del V sec. cf. West (1983), 80-81; Kouremenos, Parássoglou, Tsantsanoglou (2006), 37-38; Janko (1997), 63-66; 87-94 (contro le ipotesi qui avanzate, cf. Egli (2003), 145, nota 3). Sulle fondamentali connessioni fra speculazione filosofica e pensiero religioso nel Papiro di Derveni, cf. Piano (2016), dove si considera anche il ruolo di Euripide come importante mediatore fra l’Attica e la Macedonia, durante il suo soggiorno a Pella.
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ti), ci parla dell’ammirazione del tragediografo per Anassagora, la cui “dottrina del cosmo” troveremmo condensata in alcuni passi cosmogonici euripidei.57 Il testo di Satiro, pur frammentario, ci permette di riconoscere fra questi il già citato fr. 593 N2 (= TrGF 43 F4) dal Piritoo, dove appunto l’ “etereo turbine” in cui si intreccia la “natura di tutte le cose” rimanderebbe alla περιχώρησις anassagorea (DK 59 B12).58 Satiro fa poi seguire a queste considerazioni la citazione di Troiane 884-888 (fr. 37 III.21-29 Arrighetti), dove Ecuba si rivolge a Zeus per mezzo di un’incalzante serie di ipotesi sulla natura del dio: ὦ γῆς ὄχημα κἀπὶ γῆς ἔχων ἕδραν / ὅστις ποτ᾽ εἶ σύ, δυστόπαστος εἰδέναι, / Ζεύς, εἴτ᾽ ἀνάγκη φύσεος εἴτε νοῦς βροτῶν / προσηυξάμην σε.59 Sebbene queste parole riecheggino direttamente l’Agamennone di Eschilo (Ζεύς, ὅστις ποτ᾽ ἐστίν, εἰ τόδ᾽ αὐ- / τῷ φίλον κεκλημένῳ, / τοῦτό νιν προσεννέπω, vv. 160-162),60 Satiro cita questi versi come esempio dell’incertezza di Euripide su τί πότ᾽ ἐστι τὸ προεστηκὸς τῶν οὐρανίων (fr. 37 III.23-26 Arrighetti).61 Si possono poi individuare, per il passo in questione, significativi paralleli anche con la rappresentazione dell’ἀήρ62 offerta sia da Diogene di Apollonia63 sia dal commento contenuto nel Papiro di Derveni (cf. coll. XVII.2-6; XIX.1-4, con-
57 Sulla ricostruzione del testo di Satiro, cf. Arrighetti (1964), 105-110; sulla relazione maestro-allievo fra Anassagora e Euripide nella tradizione biografica, cf. ancora Arrighetti (1964), 106-108; cf. inoltre Lefkowitz (1987), 154-157. Per quanto riguarda la possibilità di interpretare Euripide alla luce delle dottrine di Anassagora, citiamo qui il fr. 910, collocato da Kannicht fra le fabulae incertae, ma spesso ricondotto all’Antiope (cf. TrGF V.2, p. 917), inteso, a partire da Valckenaer, come riferito a Anassagora, nonché Or. 4-10; 982 ss. e un frammento del Fetonte, TrGF 72 F783, che riecheggerebbero la concezione anassagorea del sole come μύδρος (cf. DK 59 A1; 11-12; 20a), per cui cf. Egli (2003), 37-78. 58 Cf. Egli (2003), 49-51. Dopo una lacuna, Satiro sembra citare come anassagoreo anche TrGF V.2 F912, da una non altrimenti identificata tragedia di Euripide (forse i Cretesi, secondo l’ipotesi di Valckenaer). 59 Per le affinità fra questi versi e il fr. TrGF 44 F487 dalla Melanippe saggia, cf. Ostwald (1999), 39-40. 60 Cf. Biehl (1989), 335. 61 Lo scolio al passo è esplicito nello stabilire una relazione netta con la dottrina anassagorea del νοῦς (schol. in Eur. Tr. 884, I, 60 Dindorf); cf. Egli (2003), 88-90. 62 Sulla presenza in Diogene della parola ἀήρ invece che αἰθήρ, cf. Egli (2003), 79. 63 Cf. DK 64 B5 e, per l’espressione euripidea γῆς ὄχημα, DK 64 A16a (per cui cf. altri passi euripidei dove l’αἰθήρ è ciò che sta intorno / fa da sostegno alla terra, TrGF V.2 FF 919; 941; 944); cf. Egli (2003), 84-86.
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gruente appunto con la dottrina di Diogene stesso),64 dove l’ἀήρ è identificato, come l’αἰθήρ euripideo, con Zeus.65 Come dunque nelle Troiane Euripide rilegge un’invocazione tradizionale al dio attraverso la lente delle riflessioni filosofiche a lui contemporanee (l’Ecuba euripidea non si interroga tanto sul nome di Zeus, come nel passo di Eschilo, quanto sulla natura stessa di tale divinità66), così anche i passi che abbiamo ritenuto influenzati dal misticismo orfico appaiono ugualmente aperti a ulteriori problematizzazioni riconducibili alle teorie di Anassagora o Diogene di Apollonia: la pretesa ‘empietà’ euripidea si configurerebbe così in realtà come una continua ricerca intorno alle questioni divine, una ricerca aperta sia a forme di religiosità alternative a quella ‘tradizionale’ (quale poteva essere il misticismo orfico stesso), sia alle più recenti indagini dei φυσικοί, due aspetti spesso strettamente connessi l’uno all’altro. La matrice stessa del pensiero di filosofi come Empedocle, Anassagora e Diogene di Apollonia può d’altra parte essere rintracciata in una dimensione orfico-misterica, come già sottolineava Martin West osservando la relazione fra lo Zeus orfico, che assorbe in sé l’universo, e la “divina Sfera” di Empedocle.67 Una convergenza in Euripide di elementi provenienti dalla speculazione filosofica sulla natura e dal misticismo orfico sembra per esempio ravvisabile nel fr. 484 della Melanippe saggia, dove i testimoni stessi che ce lo tramandano ([Dion. Hal.] Rhet. IX.2.11 e, con altre parole, Diod. Sic. I.7) individuano bensì un influsso delle dottrine di Anassagora (in particolare frr. 59 B1; B17 DK), ma la relazione del secondo verso del frammento (οὐρανός τε γαῖά τ᾽ ἦν μορφὴ μία) con l’orfismo è attestata dalla sua presenza su una coppa di alabastro – di datazione senz’altro tarda (fra il III e il VI sec. d.C.) – insieme con altri tre versi attribuiti da Macrobio a Orfeo (Sat. I.18.12; 23.21) e relativi alla venerazione tributata dall’orfismo al Sole.68 Il frammento in questione potrebbe infatti apparire in sintonia sia con la teogonia “eudemia”, come ipotizzato qui sopra, nel qual caso l’espressione μορφὴ 64 Sulla relazione fra speculazione filosofica, Papiro di Derveni e tragedia euripidea, cf. qui sopra, nota 56. 65 Cf. Egli (2003), 92-94. 66 Sul carattere ‘tradizionale’ delle parole di Ecuba (Tro. 884-888), cf. Lefkowitz (1989), 73-74, che si spinge però fin troppo in questa direzione. 67 Cf. West (1983), 108 (cf. anche qui sopra, nota 56). 68 Cf. Delbrück, Vollgraff (1934), 135 (in generale, 129-136): «the four verses are obviously favourite and admired passages from the sacred hymns sung at the worship of Orphic communities». Sui legami del fr. 484 della Melanippe saggia con l’orfismo cf. Kannicht, TrGF 44 F 484, p. 534; Collard, Cropp, Lee (1995), 269-270 (dove è escluso tuttavia uno specifico carattere orfico del frammento).
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μία si riferirebbe alla Notte da cui nascono Cielo e Terra,69 sia con la dottrina stessa dell’uovo primigenio nato dall’Etere, da cui, secondo la versione confluita nella teogonia “rapsodica” (cf. qui sopra § 1.1.1), sarebbero scaturiti Protogonos e, successivamente, il Cielo e la Terra. La conferma dell’allusione euripidea a una versione del processo cosmogonico orfico sembra poi confermata da Apollonio Rodio (Arg. I.496-498), che appunto a Orfeo fa cantare l’unione primigenia di γαῖα, οὐρανός e θάλαττα come τὸ πρὶν ἐπ᾽ ἀλλήλοισι μιῇ συναρηρότα μορφῇ, divisi poi dall’intervento della discordia. Sebbene il canto di Orfeo nelle Argonautiche non riecheggi direttamente alcuna delle teogonie orfiche note,70 è difficile immaginare che Apollonio non avesse inserito alcun elemento riconoscibile come ‘orfico’ nel canto che attribuisce al divino cantore: può forse essere così interpretata l’espressione μιῇ μορφῇ.71
69 Per l’identificazione della “forma unica” con la Notte, intesa come “forma indistinta della materia cosmogonica”, cf. Bernabé (2009), 293-304 (dove la cosmogonia della Melanippe saggia è infatti inserita fra le “cosmogonie della Notte”, distinte da quelle in cui intervengono l’uovo cosmico e Protogonos). Per la rappresentazione della ‘mescolanza’ primordiale di Cielo e Terra, che avevano una μίαν ἰδέαν, cf. la “piccola cosmologia” di Democrito (DK 68 B5), per cui il testimone del frammento, Diodoro Siculo (I.7.7 = DK 59 A62), cita come parallelo proprio il fr. 484 della Melanippe saggia di Euripide (detto “allievo di Anassagora”). 70 Si osservano piuttosto alcune affinità con la cosmogonia di Ferecide di Siro (di cui in ogni caso bisogna ricordare i punti di contatto con la tradizione orfica, per cui cf. qui sopra), per quanto riguarda la lotta di Crono contro Ofione e la caduta di quest’ultimo nell’Οceano (cf. Arg. I.503-506 e Ferecide FF 78-80; 82-83; 73 Schibli = DK 7 B4-5; A11). 71 Atenagora, in un frammento riconducibile alla teogonia “ieronimiana”, ci presenta la nascita del Cielo e della Terra direttamente dalla divisione in due parti, superiore e inferiore, dell’uovo primigenio, generato dal Tempo (quest’ultimo prende in questa versione il nome di Eracle e ha significativamente – dal punto di vista dei confronti con la cosmogonia vedica e i.e. – l’aspetto di un δράκων): l’uovo cosmico potrebbe essere così interpretato come una “forma unica”, contenente anche il dio Protogonos stesso (cf. frr. 74-80 Bernabé). Sulla relazione fra la versione di Apollonio Rodio e le teogonie orfiche, cf. Ricciardelli Apicella (1993), 35-37; sull’unità primigenia di Cielo e Terra nella tradizione orfica cf. 38; sulle testimonianze della teogonia “ieronimiana”, cf. 39-42; cf. inoltre West (1983), 178 ss..
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§ 1.2 Influenze orfiche sull’escatologia euripidea: l’αἰθήρ e la ψυχή72 La peculiarità delle cosmogonie euripidee non consiste dunque solo nella progressiva identificazione delle entità ‘celesti’ – con una vistosa tendenza a dare all’Etere una netta preminenza – ma anche nella volontà del tragediografo di mettere in rilievo, al principio del processo cosmogonico, come entità primigenie, l’elemento terreno e quello celeste. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, una possibile spiegazione di questa scelta sembra fornita dal fr. 839 del Crisippo, dove, come si è visto (cf. § 1.1.1), Etere e Terra compaiono come i componenti fondamentali dell’intero universo, con la differenza che, mentre Etere è ἀνθρώπων καὶ θεῶν γενέτωρ (v. 2), la Terra è μήτηρ πάντων (v. 7), cioè di piante, animali e uomini (θνητoί, v. 4). Quando dunque, immediatamente dopo, il coro parla della morte come ritorno alla Terra di ciò che nasce dalla Terra e “alla volta celeste” di ciò che nasce dall’Etere, così quindi da attivare un processo di perpetua trasformazione (vv. 11-13), diviene chiaro che per l’uomo, in quanto partecipe sia della Terra sia dell’Etere (v. 10), la morte non è altro che una separazione dei suoi due componenti fondamentali. Questi ultimi sono evidentemente l’anima, immortale e divina (da Etere nascono ἄνθρωποι e θεοί), e il corpo, la parte terrena e mortale dell’uomo (non a caso, come figli della Terra, gli uomini sono chiamati θνητοί). La collocazione di Etere e Terra al principio del processo cosmogonico appare dunque finalizzata a esprimere una determinata visione escatologica. Si tratta in realtà di un tema caro a Euripide, ribadito in più tragedie portate in scena anche a molti anni di distanza l’una dall’altra. Nelle Supplici, per esempio, ai vv. 531-534 Teseo parla della morte come di qualcosa che divide lo πνεῦμα dell’uomo, destinato a tornare da dove proviene, cioè
72 Si sceglie qui di utilizzare, genericamente, il termine ψυχή per designare in contesto escatologico l’anima, intesa come la parte dell’uomo che sopravvive dopo la morte, poiché questo è il termine che più spesso ricorre, con questo significato, anche prima di Platone, nella letteratura arcaica e classica (cf. Claus (1981), 115); occorre tuttavia tenere presente che tale concetto di ‘anima’, negli autori che considereremo, in particolare Euripide, non è espresso univocamente con ψυχή (possiamo trovare per esempio πνεῦμα, da intendere come ‘spirito’); daremo di volta in volta conto dei diversi usi terminologici negli autori citati. Non rientra nella presente indagine la questione della progressiva attribuzione di una dimensione morale all’entità designata come ψυχή (per la quale Platone rappresenta uno snodo cruciale), il cui sviluppo semantico dall’epica omerica fino a Platone è analizzato, in questa prospettiva, in Claus (1981); sul problematico ruolo che in questo percorso rivestirebbero le testimonianze riconducibili all’orfismo, a Pitagora e a Empedocle, cf. Claus (1981), 111-121.
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πρὸς αἰθέρα, dalla parte corporea, che ritornerà invece alla terra; analogo concetto torna ancora in El. 59; Or. 1086-1087; Hel. 1014-1016.73 Benché non si possa negare un certo carattere convenzionale di tali enunciazioni per quel che concerne il ritorno della terra alla terra (cf. anche Aesch. Choeph. 127-128), si deve tuttavia osservare che in questi passi a essere sottolineata è piuttosto la compresenza nell’uomo di una parte mortale, che appartiene alla terra, e una parte divina e immortale, che appartiene invece all’αἰθήρ.74 La peculiarità di questi passi euripidei è confermata dalla difficoltà stessa di trovare paralleli coevi o anteriori,75 al di fuori di un’iscrizione ateniese in onore di un soldato morto a Potidea (IG I2 945.6, 432 a.C.)76 e di una γνώμη attribuita a Epicarmo (fr. 213 PCG):77 qui, in particolare, il riferimento al ritorno della terra alla terra e dello πνεῦμα “in alto”, nonché alla mescolanza e alla separazione degli elementi (συνεκρίθη καὶ διεκρίθη), presenta una strettissima affinità con il fr. 839 del Crisippo euripideo. Eppure non sembra da escludere, nella formazione di questo ricorrente tema euripideo, l’influenza delle credenze orfiche relative alla sopravvivenza dell’anima, distinta dal corpo mortale, dopo la morte dell’individuo. Il concetto della separazione, al momento della morte, di una parte mortale da una parte immortale, destinata di fatto a un’altra vita – evidentemente più autentica –, si lega del resto strettamente a quello, formulato più volte 73 Sui vv. 1014-1016 dell’Elena (su cui torneremo anche in seguito, cap. III.4.2), cf. Assaël (2016), 159-161. La lista potrebbe ancora includere, oltre a un frammento dall’Eretteo (TrGF 24 F370, vv. 71-72), anche diversi frammenti da fabulae incertae, quali TrGF V.2 FF 971 (attribuito da molti, fra cui Wilamowitz, al Fetonte); 1013 (messo da Kannicht in relazione con TrGF 10 F145 dall’Andromeda). L’idea del ritorno della terra alla terra ricorre anche nell’Ipsipile, nella consolazione di Anfiarao a Euridice per la morte del figlio Ofelte (TrGF 71 F757) e nell’Antiope (TrGF 12 F195): in entrambi questi passi Euripide non parla di una sopravvivenza nell’Etere, ma, come vedremo, il contesto in cui sono calati permette di non escludere – specialmente nel caso dell’Ipsipile per cui cf. avanti, cap. IV.2 – anche un significato che vada in quella direzione. 74 Nei passi euripidei citati l’‘anima’ è designata, di volta in volta, come πνεῦμα (Supplici) oppure come νοῦς dotato di una γνώμη ἀθάνατος (Elena), mentre nell’Elettra e nell’Oreste si parla semplicemente dell’etere come sede ultraterrena. Per una disamina delle ricorrenze del termine ψυχή in Euripide (e in generale in tragedia), cf. Claus (1981), 69-85. 75 Nei filosofi presocratici troviamo rappresentazioni somiglianti a quelle euripidee, anche se non tali da rispecchiare esplicitamente questa specifica dottrina (cf. Egli (2003), 94-114; Collard (1975), II, 250-252). 76 Qui troviamo significativamente ψυχή per designare il ritorno della parte immortale dell’uomo all’αἰθήρ. Per ulteriori testimonianze epigrafiche, risalenti al IV sec. a.C., cf. Guthrie (1950), 262-264; Egli (2003), 98-99. 77 Sulla relazione fra Epicarmo e i passi euripidei, cf. Egli (2003), 100-102.
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anch’esso da Euripide (cf. TrGF 74 F816 dal Fenice;78 TrGF 57 F638 dal Poliido;79 TrGF 76-77 F833 dal Frisso80), della “vita come morte” e della “morte come vita”, il cui presupposto sembra appunto essere la dottrina orfica del corpo come ‘prigione’, all’interno della quale l’anima, concluso il ciclo a lei prescritto di reincarnazioni, finisce di scontare una pena primordiale, e di una vita ‘vera’ posta al di fuori di esso.81 Si tratta della stessa visione escatologica che ci offrono alcune delle lamine auree, rinvenute in diverse parti del mondo greco (dall’Italia meridionale alla Tessaglia), riconducibili a un ambito religioso orfico e contenenti una sorta di istruzioni per il viaggio ultramondano dell’iniziato. Al di là del problema dell’omogeneità dell’intero corpus delle lamine, su cui torneremo nel prossimo capitolo, osserviamo qui l’esplicita presenza di tracce della dottrina escatologica in questione, per cui si può citare come esempio il testo delle due lamine di Pelinna (frr. 485-486 Bernabé; fine IV sec. a.C.), che occupano una posizione ‘intermedia’ fra i due gruppi in cui hanno di78 τὸ ζῆν γὰρ ἴσμεν, τοῦ θανεῖν δ᾽ ἀπειρίᾳ / πᾶς τις φοβεῖται φῶς λιπεῖν τόδ᾽ ἡλίου: il passo riecheggia da vicino le parole della nutrice in Hipp. 191-197, come rilevato in Schlesier (2002), 58-70 (cf. avanti, cap. II). 79 τίς δ᾽ οἶδεν εἰ τὸ ζῆν μέν ἐστι κατθανεῖν, / τὸ κατθανεῖν δὲ ζῆν κάτω νομίζεται; 80 τίς δ᾽ οἶδεν εἰ ζῆν τοῦθ᾽ ὃ κέκληται θανεῖν, / τὸ ζῆν δὲ θνῄσκειν ἐστί; †πλὴν ὅμως βροτῶν / νοσοῦσιν οἱ βλέποντες, οἱ δ᾽ ὀλωλότες / οὐδὲν νοσοῦσιν οὐδὲ κέκτηνται κακά. Sulla relazione tra i due frammenti euripidei del Poliido e del Frisso e le testimonianze orfiche, cf. Macías Otero (2009), 1209-1210, dove si rileva come Euripide «plasmi» le dottrine in questione nella forma di una domanda, a dimostrazione del fatto che Euripide non sarebbe un «iniziato», ma piuttosto «un conoscitore» che, preoccupato per la morte, concede a queste credenze «il beneficio del dubbio». Ovviamente occorre una necessaria cautela nell’attribuire all’Euripide storico le battute dei suoi personaggi: tutto quello che possiamo affermare è una tendenza generale, nelle tragedie euripidee, a affrontare problematiche religiose alla luce di dottrine orfiche o interpretabili come tali. La necessità di tenere distinte le parole dei personaggi dalla personalità dell’autore è ribadita infatti con decisione dagli studiosi moderni che si sono occupati della questione della religiosità euripidea: cf. Dihle (1977), 38; Lefkowitz (1989), 79-80 (dove si tende a ridurre, forse eccessivamente, la peculiarità euripidea nella rappresentazione della divinità, sottolineando anche le affinità fra gli dei euripidei e quelli omerici e sofoclei); Ostwald (1999), 42. 81 Tali credenze, comunque sia, non sono attestate solo in ambiente orfico, come dimostrano, oltre a Platone, alcuni frammenti di Empedocle relativi alla metempsicosi (DK 31 B115; 117; 125; 127; 136; 146-147; sulla questione cf. Claus (1981), 114-115) e un frammento di Ferecide di Siro sull’immortalità dell’anima (DK 7 A5). Riferimenti al circolo delle reincarnazioni e alla bipartizione fra corpo mortale anima immortale ricorrono anche in Pindaro (Ol. II.61 ss. e fr. 131b; 133 Maehler), in un contesto però da interpretare forse come influenzato dal misticismo orfico.
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stinto le lamine Zuntz (gruppi A e B) e Pugliese Carratelli (gruppi I e II).82 Riportiamo il testo del fr. 485=486.1-2 Bernabé: νῦν ἔθανε καὶ νῦν ἐγένου, τρισόλβιε, ἄματι δε. εἰπεῖν Φερσεφόναι σ᾽ ὅτι Βχιος αὐτὸς ἔλυσε. Questa escatologia sembrerebbe da ricondurre al mito antropogonico orfico, secondo cui gli uomini sarebbero stati creati da Zeus dalle ceneri dei Titani, inceneriti dal fulmine del dio perché colpevoli di avere smembrato e arrostito il figlio di Zeus e Persefone, Dioniso, poi riportato in vita da Zeus stesso. Poiché sugli uomini graverebbe dunque la colpa atavica dell’assassinio del dio, essi sarebbero condannati, secondo la dottrina orfica, a scontare una pena attraverso un ciclo di rinascite, fino alla definitiva liberazione, al termine di quel ciclo, dell’anima dal corpo e al conseguente raggiungimento di uno status divino, che si configurerebbe come definitiva rinascita (sulla possibilità o meno dell’esistenza di una relazione fra il mito antropogonico orfico e l’escatologia delle lamine, cf. avanti, cap. II.2.1.1). Il passaggio a questa condizione sarebbe reso possibile dalla presenza, nell’uomo, di un’anima immortale, partecipe della stessa natura divina, ossia di una componente ‘celeste’ contrapposta al corpo ‘terreno’.83 Nelle lamine del “gruppo B” Zuntz / “gruppo I” Pugliese Carratelli, infatti, l’iniziato, ormai nell’Aldilà, si presenta alla regina dell’Ade, Persefone, come Γῆς παῖς 82 Sulle analogie e differenze fra le due lamine di Pelinna e i gruppi A e B individuati da Zuntz (la cui edizione ricordiamo che è antecedente alla pubblicazione delle lamine di Pelinna avvenuta nel 1987), cf. Graf (1991), 87-102; Graf (1993), 250-255. Faremo, nel corso del nostro discorso, più volte riferimento, per comodità, ai raggruppamenti individuati da Zuntz e Pugliese Carratelli, pur consapevoli dei problemi che essi comportano: cf. Zuntz (1971), 300 ss.; 358 ss.; Pugliese Carratelli parla invece, sulla base di nuove scoperte, di gruppo I – ampliamento del gruppo B di Zuntz –, quello dei cosiddetti testi “mnemosynii”, caratterizzati dalla presenza appunto del “lago di Mnemosyne”, e gruppo II – ampliamento del gruppo A di Zuntz –, a cui appartengono quelli “non mnemosynii”, dove compaiono altre divinità, fra cui Persefone ha un ruolo predominante (cf. Pugliese Carratelli (2001), 18-29). Le lamine saranno comunque sia citate secondo l’edizione dei frammenti orfici curata da Bernabé. Rimandiamo all’Appendice per la tabella con le corrispondenze numeriche fra le diverse edizioni di Zuntz, Pugliese Carratelli e Bernabé. 83 Per quanto riguarda la questione terminologica relativa all’uso di ψυχή, le lamine presentano tre significative ricorrenze del termine in una lamina turia (fr. 487.1 Bernabé), nella lamina di Ipponio e nella lamina di Entella (frr. 474.4 e 475.6 Bernabé, nello stesso verso, nel nesso ψυχαὶ ψύχονται). Sulla possibile evoluzione semantica di ψυχή in contesti riconducibili all’orfismo e al pitagorismo (fra le testimonianze è inclusa anche l’iscrizione di Potidea commentata qui sopra), cf. Claus (1981), 115-121.
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καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, e proprio in nome di tale discendenza chiede di essere ammesso alla vita ultraterrena di cui si è reso degno.84 L’escatologia delle lamine sembra dunque compatibile con molti aspetti dei frammenti euripidei presi in esame: si pensi per esempio all’affinità del fr. 839 del Crisippo, in cui troviamo gli ἄνθρωποι / θνητοί figli dell’ “Etere di Zeus”, padre sia degli uomini sia degli dei, e della Terra, con la formula delle lamine orfiche Γῆς παῖς καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος. Benché le lamine, pur nella loro varietà, non presuppongano un soggiorno dell’anima in luoghi celesti,85 ma un’ambientazione in un aldilà sotterraneo, è stata avanzata l’ipotesi che esse, in un linguaggio volutamente enigmatico, rappresentino la morte come un ritorno ‘al cielo’: Michael Janda, riproponendo e valorizzando un’ipotesi di Albrecht Dietrich, propone infatti di riconoscere nella dichiarazione del mista delle lamine di Pelinna sopra menzionate ταῦρος εἰς γάλα ἔθορες. / αἶψα εἰς γάλα ἔθορες. / κριὸς εἰς γάλα ἔπεσες, così come nella formula riscontrabile nelle lamine turie ἔριφος ἐς γάλ᾽ ἔπετες (fr. 487.4; […] ἔπετον in 488.10 Bernabé) un riferimento alla Via Lattea e alla trasformazione dell’iniziato in altrettante costellazioni (Toro, Ariete e Capretti). In questa stessa prospettiva potrebbe quindi anche essere interpretata la formula Γῆς παῖς καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, menzionata qui sopra, presente nelle lamine dell’altro gruppo (“gruppo B” Zuntz / “gruppo I” Pugliese Carratelli).86 Il fatto tuttavia che queste formule siano pronunciate di fronte a Persefone (“gruppo A”
84 Cf. frr. 474-483 Bernabé; nella lamina di Petelia (fr. 476.7 Bernabé), in quella di Entella (fr. 475.15 Bernabé) e in quella tessala conservata a Malibu (fr. 484.4 Bernabé) troviamo anche ἐμοὶ γένος οὐράνιον. L’espressione Γῆς παῖς καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος è un netto rimando al v. 106 della Teogonia di Esiodo (cf. Pugliese Carratelli (1974), 120-121), dove però si parla non degli uomini, ma della stirpe degli immortali. Sull’interpretazione della formula “figlio della Terra e del Cielo stellato” sono state avanzate molte ipotesi, per cui si veda Betz (1998), 399-411; Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 39-47. 85 Cf. Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 43, dove si ipotizza, per questa concezione escatologica, un’origine pitagorica (del resto la sua attestazione in un frammento di Epicarmo sembrerebbe rimandare all’Italia meridionale). Avanza alcune riserve in merito, sulla scorta di Burkert, Egli (2003), p. 103, nota 2. Sulla relazione fra orfismo e pitagorismo, cf. Casadesús (2009a). 86 Rimandiamo per l’intera discussione sulla questione a Janda (2005), 325-330. Tale interpretazione dell’escatologia delle lamine, nell’ipotesi di Janda, potrebbe trovare qualche connessione con la tradizione attestata nel ciceroniano Somnium Scipionis (Resp. VI.13-16), dove la rappresentazione della Via Lattea come sede delle anime meritevoli si associa alle teorie sul corpo come ‘prigione’ dell’anima di chiara matrice orfica (cf. qui sotto). Potrebbe inoltre avere qualche valore, per ricostruire una possibile genesi dell’escatologia in questione, una testimonianza di
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Zuntz / “gruppo II” Pugliese Carratelli), con esplicito riferimento a un luogo ὑπὸ γῆν nelle lamine di Pelinna (v. 7), o di fronte a guardiani nella “dimora di Ade” (“gruppo B” Zuntz / “gruppo I” Pugliese Carratelli), crea una evidente difficoltà, non del tutto superabile con un riferimento a un contesto volutamente enigmatico (comprensibile solo agli iniziati) o a più momenti e più luoghi nel percorso di definitiva liberazione dell’anima. L’escatologia orfica sembra prevalentemente ctonia e una dimensione celeste potrebbe essere piuttosto riconducibile all’ambiente pitagorico (cf. qui sopra, nota 85). Proprio a Euripide potremmo forse attribuire un ruolo centrale nell’elaborazione, a livello letterario, nell’Atene del V sec., di tali rappresentazioni lontane dall’escatologia ‘tradizionale’,87 dove con elementi propriamente orfici si integrano suggestioni provenienti da altre dottrine, comunque affini, per diversi aspetti, a quelle orfiche stesse (quali per esempio quelle pitagoriche). Osserviamo qui come Platone, nella sua generale tendenza a rielaborare tradizioni mitiche e religiose diverse, inclusa quella orfica,88 per riadattarle al suo pensiero, mostri spesso un sostanziale accordo con i passi escatologici euripidei: nei dialoghi platonici troviamo infatti sia la concezione dello spazio celeste con il soggiorno delle anime (cf. Tim. 42b; Phaedr. 249a) sia quella di una netta dicotomia fra anima e corpo. Nel Fedro (246a6 ss.), per esempio, Platone insiste sull’appartenenza dell’anima alla dimensione celeste, a cui essa ritorna dopo la morte, e del corpo a quella terrena (cf. Phaedr. 246c3, σῶμα γήϊνον, per cui rimandiamo all’utilizzo dell’aggettivo γεῶδες per definire “ciò che è corporeo” in Phaed. 81c9),89 in un contesto che contiene sia la dottrina della duplice natura dell’uomo sia la rappresentazione di un aldilà celeste. Platone si richiama poi esplicitamente a Euripide, quando, nel Gorgia (493a), fa citare a Socrate proprio il fr. 638 del Poliido in connessione con la dottrina orfica del corpo come tomba dell’anima (attri-
Aristotele (De an. 410b27-30), secondo cui negli scritti orfici si troverebbe la teoria che l’anima entrerebbe nei corpi, provenendo ἐκ τοῦ ὅλου, portata dai venti, attraverso la respirazione. 87 Cf. Egli (2003), 103. 88 Cf. anche qui sopra, § 1.1.1. Per un’ampia ricognizione sull’orfismo in Platone, in particolare riguardo alla dottrina dell’anima, all’escatologia e alla teologia, cf. Casadesús (2009); sulla relazione fra Euripide e Platone nel comune riferimento all’orfismo, si veda il trattamento del mito di Alcesti nella tragedia euripidea e nel Simposio platonico in Assaël (2016). 89 Sulle influenze orfiche nei miti escatologici di Fedone, Fedro, Gorgia, Repubblica, cf. Graf (1974), 84-88; Bernabé (2011), 97-114; 155 ss..
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buita a un uomo κομψός, “siculo o italico”:90 ἡμεῖς τέθναμεν καὶ τὸ μὲν σῶμά ἐστιν ἡμῖν σῆμα), che compare anche nel Cratilo (400c), in un passo dove i “seguaci di Orfeo” sono poi collegati all’etimologia di σῶμα come derivato da σῴζω.91 Platone, insomma, non solo sembra ricollegarsi alla generale rappresentazione euripidea dell’aldilà (incluso lo scenario celeste) e del destino delle anime, ma riconosce anche al tragediografo una diretta connessione con l’orfismo, svolgendo per noi il ruolo di testimone fondamentale di quanto può essere ritenuto propriamente ‘orfico’ nelle allusioni religiose euripidee. § 1.3 Aristofane e la critica all’orfismo euripideo Sulla base delle testimonianze euripidee relative all’Etere e alle sue eventuali associazioni orfiche, possiamo dunque ragionevolmente ipotizzare che la relazione stabilita con tanta forza da Aristofane fra Euripide e l’αἰθήρ nel passo delle Rane da cui siamo partiti, si carichi in realtà di una valenza ben più profonda della semplice associazione alla poesia euripidea di aspetti quali la vacuità contenutistica o una generica ‘empietà’.92 Nel sottolineare il legame stretto fra Euripide e i suoi ‘dei’ (ἴδιοί τινές σου e ἰδιῶται θεοί, vv.
90 Sulla relazione con l’Italia meridionale, in particolare con la riflessione filosofica di Empedocle e dei pitagorici, di motivi escatologici riconducibili all’orfismo, cf. Graf (1974), 79-150. L’affinità concettuale, in un ambito analogo, fra la γνώνη di Epicarmo e i passi di Euripide conferma tale relazione. 91 δοκοῦσι μέντοι μοι μάλιστα θέσθαι οἱ ἀμφὶ Ὀρφέα τοῦτο τὸ ὄνομα, ὡς δίκην διδούσης τῆς ψυχῆς ὧν ἕνεκα δίδωσιν, τοῦτον δὲ περίβολον ἔχειν, ἵνα σῴζηται, δεσμωτηρίου εἰκόνα˙ εἶναι οὖν τῆς ψυχῆς τοῦτο, ὥσπερ αὐτὸ ὀνομάζεται, ἕως ἂν ἐκτείσῃ τὰ ὀφειλόμενα, σῶμα καὶ οὐδὲν δεῖν παράγειν οὐδ᾽ ἓν γράμμα. Anche il legame σῶμα – σῆμα è del resto di ascendenza orfico-pitagorica (cf. Filolao, DK 44 B14). Per un’interpretazione di questi brani platonici relativi alla dottrina del σῶμα – σῆμα, cf. Bernabé (2011), 115-143; sulla connessione fra i passi euripidei e platonici relativi al rapporto morte/vita, corpo/anima, cf. Assaël (2016), 149-152. 92 La rappresentazione comica di Euripide come “devoto dell’Etere” ha forti somiglianze con quella del Socrate delle Nuvole, anch’egli devoto di nuove divinità ‘aeree’ (cf. Nub. 252-253; 264-265; 370-407; 380-381; 423-424; 627), a conferma del legame, in Aristofane, fra empietà e meteorologia (sia Euripide sia Socrate sono entrambi esplicitamente connotati come “atei” rispettivamente in Thesm. 451 e Nub. 247-248 e 367; per il nesso fra ateismo e culto di “nuovi dei”, cf. avanti, nota 111), che si estende anche ai ditirambografi come Cinesia (cf. Av. 1383-1385; Pax 827-837; Ran. 145-153); cf. Imperio (1998), 81-120, nello specifico, 104-105 e, per il nesso più volte stabilito da Aristofane fra Socrate e Euripide (per esempio in Nub. 1369-1372 e Ran. 1491-1499), 115-116; inoltre cf. Mastromarco, Totaro
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889-891) nonché il carattere ‘innovativo’ di tale religione (κόμμα καινόν) – rispetto evidentemente a un’ortodossia religiosa sentita come tradizionale –, Aristofane sembra impegnato a confrontarsi polemicamente con il tragediografo sul terreno religioso, prendendo di mira in particolare, secondo la nostra ipotesi, quanto riecheggiasse dottrine orfiche. Nel prologo delle Tesmoforiazuse (vv. 13-18), infatti, Aristofane inserisce il riferimento all’Αἰθήρ in un contesto cosmogonico, facendo parlare Euripide stesso di ζῷα κινούμενα originatisi da una divisione dell’Etere. Una relazione particolarmente stretta con il frammento cosmogonico, come si è visto, orficheggiante della Melanippe, dove pure non si fa menzione esplicita dell’Etere (è Aristofane stesso a esplicitarlo, forse deducendolo dalla menzione della μορφὴ μία), a differenza che nell’Antiope e nel Crisippo, sembra del resto confermata da precisi rimandi lessicali (il διεχωρίζετο aristofaneo al v. 14 richiama direttamente l’ἐχωρίσθησαν ἀλλήλων δίχα al v. 3 del fr. 484 della Melanippe euripidea). Si consideri inoltre la significatività di questo verso rispetto alla questione dell’intreccio in Euripide di misticismo e speculazione filosofica, data l’incidenza, nella parodia aristofanea, delle dottrine filosofiche che vedevano nella differenziazione degli opposti l’elemento determinante del processo cosmogonico (cf. Anassagora, DK 59 B2; 12; Empedocle, DK 31 A49).93 Che Aristofane intendesse in ogni caso parodiare proprio la Melanippe saggia possiamo dedurlo anche dalla presenza, nelle stesse Tesmoforiazuse (v. 272), di un’esplicita citazione di un altro passo della Melanippe saggia, quando Euripide giura τοίνυν αἰθέρ᾽, οἴκησιν Διός (per cui cf. qui sopra, § 1.1.1). Questo verso doveva apparire a Aristofane in qualche modo rappresentativo della religiosità euripidea, dato che lo troviamo ancora in Rane 100 fra gli esempi di stile euripideo citati da Dioniso, che però riduce comicamente e significativamente οἴκησιν in δωμάτιον: Aristofane può infatti menzionare il verso euripideo in questione, con tutta la forza allusiva in esso contenuta (dato il nesso individuabile in Euripide fra l’αἰθήρ e l’orfismo), dopo l’esplicita parodia delle Tesmoforiazuse, quasi come se ormai
(2006), 646, nota 138. Nella tradizione biografica, del resto, sia Euripide sia Socrate figurano come allievi di Anassagora (cf. D.L. II.45; cf. inoltre Lefkowitz (1987), 154-155) e, secondo Janko (1997), 92-94, la vicinanza del Socrate aristofaneo alle figure appunto di Anassagora, Diogene di Apollonia o Diagora di Melo sarebbe volta a denunciare gli atteggiamenti da ‘nuovi ierofanti’ di questi intellettuali contro l’ortodossia religiosa. Sui reali influssi della filosofia socratica sulle tragedie di Euripide, soprattutto in ambito etico, cf. Egli (2003), 157-185. Sulle metafore ‘aeree’ in commedia cf. infine Wright (2013), 110-116. 93 Cf. Austin, Olson (2004), 56-57.
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quel verso appartenesse al mondo della commedia. Quest’ultimo passo delle Rane è del resto importante anche per un altro aspetto: Dioniso, dovendo dimostrare a Eracle la creatività della poesia euripidea (Euripide come poeta γόνιμος) – un momento importante per comprendere l’ammirazione del dio del teatro per il suo beniamino –, si serve di tre versi euripidei, non casualmente dunque riferiti l’uno al Tempo (χρόνου πόδα, v. 100, che compare sia in un frammento dell’Alessandro, TrGF 3 F42, sia nelle Baccanti, v. 889), l’altro, già menzionato, all’Etere e il terzo (φρένα μὲν οὐκ ἐθέλουσαν ὀμόσαι καθ᾽ ἱερῶν / γλῶτταν δ᾽ ἐπιορκήσασαν ἰδίᾳ τῆς φρενός, vv. 101-102) allo spergiuro di Ippolito in Hipp. 612 (parodiato anche in Thesm. 275-276 e ripreso ancora in Ran. 1471).94 Alla luce di quanto osservato qui sopra in § 1.2 a proposito dell’escatologia orfica, il v. 612 dell’Ippolito appare appunto riferibile a tale concezione dualistica dell’essere umano, fondata su una dicotomia fra anima e corpo (cf. avanti, cap. II.2.1.2): non deve quindi sorprendere che Aristofane includa avanti nelle Rane, per bocca di Eschilo, fra i danni provocati dalla cattiva poesia euripidea, come culmine di una climax di ‘atti immorali’, proprio l’affermazione che “non vivere sia vivere” (i diretti bersagli sembrano essere i due già citati frammenti euripidei, rispettivamente dal Poliido e dal Frisso, fr. 638 e fr. 833). Il concetto viene poi ripreso da Dioniso, nel finale della commedia, per sancire la definitiva sconfitta di Euripide (destinato a rimanere nell’Ade), i cui versi più ‘compromettenti’ vengono infine ritorti da Dioniso contro il loro autore stesso (Ran. 1476-1478): Ευ. ὦ σχέτλιε, περιόψει με δὴ τεθνηκότα; Δι. τίς δ᾽ οἶδεν εἰ τὸ ζῆν μέν ἐστι κατθανεῖν, τὸ πνεῖν δὲ δειπνεῖν, τὸ δὲ καθεύδειν κῴδιον; Significativo è dunque che subito prima il dio del teatro si fosse servito proprio di un’allusione al v. 612 dell’Ippolito, mostrando così il suo ‘progresso’ rispetto alle opinioni da lui espresse nel prologo, per giustificare il suo voltafaccia nei confronti di Euripide (cf. vv. 1469-1471): Ευ. μεμνημένος νυν τῶν θεῶν, οὓς ὤμοσας ἦ μὴν ἀπάξειν μ᾽ οἴκαδ᾽, αἱροῦ τοὺς φίλους. Δι. ἡ γλῶττ᾽ ὀμώμοκ᾽, Αἰσχύλον δ᾽ αἱρήσομαι.
94 Cf. Jay-Robert (2014), 13-14 per un’interpretazione di queste citazioni parodiche in quanto volte a attaccare la tendenza di Euripide a dare concretezza a ciò che ne è privo; eppure è possibile scorgere dietro queste personificazioni prese di mira da Aristofane anche un preciso sfondo religioso.
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Nel finale della commedia Aristofane sembra dunque mostrare la volontà di mettere l’accento proprio sugli aspetti più controversi della religiosità euripidea, quali il frequente avvicinamento a credenze non ‘ortodosse’ riconducibili in ultima istanza all’orfismo: sia le tre citazioni del prologo delle Rane (cf. qui sopra, Mel. sap. fr. 487; Alex. fr. 42 / Bacch. 889; Hipp. 612) sia le due citazioni nel finale della commedia (Hipp. 612; Polyid. fr. 638 / Phrix. fr. 833) potrebbero mostrare una importante connessione appunto in questo senso. D’altra parte, anche in altre commedie, sebbene non specificamente incentrate sulla critica alla tragedia euripidea, come lo sono invece le Tesmoforiazuse e le Rane, Aristofane non manca di prendere di mira Euripide su questo terreno: nella Pace, per esempio, troviamo un diretto riferimento al tema del ritorno dell’anima all’aere (ἀήρ è infatti la parola usata da Aristofane in questo caso), nonché di una sorta di suo catasterismo, dopo la morte: Trigeo, di ritorno dal suo viaggio fino alla dimora degli dei, può affermare la veridicità della dottrina della nostra trasformazione, dopo la morte, in “stelle vaganti per l’aere”, perché ha visto anime di poeti ditirambici volare per raccogliere ἀναβολαί (“preludi”), nonché Ione di Chio divenuto una “stella mattutina” (cf. vv. 827-837). Siamo di fronte a una delle variazioni sul ricorrente tema comico della dimensione aerea e inconsistente dell’intellettuale (cf. qui sopra nota 92), in questo caso con particolare riferimento ai ditirambografi, ampliato però mediante l’allusione a una dottrina escatologica molto cara a Euripide: il tema del volo dell’anima in cielo, forse connesso (più o meno strettamente), come abbiamo osservato, con l’escatologia orfico-pitagorica, si configura come un netto allontanamento di Euripide dalla religiosità tradizionale. Non sorprende dunque che Aristofane ne collochi la parodia in una commedia il cui incipit è interamente costruito sulla falsariga del Bellerofonte, una tragedia in cui si profila il tema dell’ateismo euripideo, su cui ci soffermeremo nel prossimo paragrafo. L’inclinazione di Euripide per le dottrine orfiche potrebbe insomma essere confermata dalla polemica ‘religiosa’ di Aristofane, che sembra dunque scavare a fondo nella questione dell’‘empietà’ euripidea, affrontata in tutte le sue molteplici sfaccettature. D’altro canto la posizione particolare della figura di Orfeo nella religione così come nella cosmologia appare una costante della tradizione antica e moderna, se Giacomo Leopardi, nella sua Storia della astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII, in merito alla «questione della pluralità dei mondi», che «può dirsi la più famosa e la più insolubile di tutte le questioni» (una tesi sostenuta da alcuni dei più grandi ‘eretici’ come Giordano Bruno o Tommaso Campanella), scriveva (cap. II):
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Credesi che Orfeo fosse il primo ad estimar gli astri abitati siccome la nostra terra. Che tal dottrina si leggesse nelle Orfiche, cioè in quegli antichi versi greci attribuiti a Orfeo, lo attestano Plutarco [De plac. phil. II.13], e dietro a lui Eusebio [Praep. Ev. XV.30], Galeno [Hist. philos. cap. 50], e Stobeo [Eclog. phys.], presso il quale dicesi avere Eraclide ed i Pitagorici […] tratta codesta dottrina dalle Orfiche. Proclo [In Tim. IV] ci ha conservati alcuni versi orfici, nei quali si insegna essere la luna abitata [cf. ora frr. 155 e 157 Bernabé]. § 2 L’ateismo di Euripide: il Bellerofonte e la sua parodia nella Pace di Aristofane Se il tema dell’αἰθήρ, in tutte le sue declinazioni, appare funzionale alla caratterizzazione dell’Euripide aristofaneo non come genericamente ἀσεβής, ma come legato anche a uno specifico ambito religioso, quello orfico, non bisogna dimenticare come Aristofane non esiti del resto a accusare Euripide esplicitamente di ateismo. Nelle Tesmoforiazuse, una delle γυναῖκες riunitesi nel Tesmoforio per punire i ripetuti oltraggi di Euripide alle donne afferma che il tragediografo τοὺς ἄνδρας ἀναπέπεικεν οὐκ εἶναι θεούς (v. 451). Tale netta asserzione potrebbe essere riconducibile a un preciso passo euripideo, dal perduto Bellerofonte, dove il protagonista, al colmo della disperazione, giunge appunto a negare l’esistenza degli dei, argomentando la sua convinzione sulla base della contrapposizione fra la prosperità dei tiranni e degli empi e la rovina dei deboli e dei pii (TrGF 18 F286). Aristofane potrebbe aver inteso prendere di mira proprio le parole di Bellerofonte in virtù della loro drasticità, quale non riscontriamo negli altri passi euripidei a noi noti dove si esprimano dubbi di carattere ontologico sugli dei.95 Troviamo del resto una possibile conferma dell’interesse particolare rivolto da Aristofane al Bellerofonte nell’ampia parodia della Pace, che sembra avere un carattere organico rispetto alla struttura della tragedia: Aristofane non ne riprenderebbe infatti soltanto il motivo del volo in cielo dell’eroe (con la differenza che Trigeo, invece che dal cavallo alato Pegaso, si fa tra95 Questa è l’ipotesi di Riedweg (1990), 39-53, in particolare, 39-48. Fra i passi euripidei citati da Riedweg in cui la messa in discussione dell’esistenza degli dei appare meno netta che nel Bellerofonte, menzioniamo qui, oltre a Phil. TrGF 73 F795, in particolare Mel. sap. TrGF 44 F480 (per cui avanti in cap. VI.3.2), che presenta qualche affinità con i vv. 1263-1265 dell’Eracle, dato che in entrambi i casi il tema dell’identità della divinità suprema, nel senso della sua indeterminabilità, è unito a quello genealogico – la discendenza dei protagonisti da Zeus.
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sportare da uno scarabeo),96 ma anche, come già osservava Rau,97 quello dell’indignazione contro Zeus. Sebbene non siano facilmente ricostruibili, sulla base delle testimonianze pervenuteci, né la causa immediata del volo in cielo di Bellerofonte, né le circostanze e i contorni della disperazione che avrebbe spinto l’eroe al folle gesto, l’ordine della parodia della Pace suggerirebbe che il volo in cielo, preceduto dalla dichiarazione di ateismo del fr. 286, dovesse avvenire all’inizio della tragedia. Una conferma di questa ricostruzione verrebbe anche da Ach. 426-429, dove Aristofane, ponendo Bellerofonte sullo stesso piano di Telefo, lo presenta come χωλός, προσαιτῶν, στωμύλος, δεινὸς λέγειν, da cui si dovrebbe dedurre che il Bellerofonte euripideo apparisse per gran parte della tragedia zoppo, cencioso e, allo stesso tempo, abile parlatore:98 il “folle volo” e la successiva caduta sarebbero quindi da collocarsi all’inizio dell’azione drammatica e non da considerarsi come legati soltanto al finale della tragedia e alla morte dell’eroe.99 Quanto alle vicissitudini affrontate dall’eroe, ormai zoppo e lacero, in seguito alla caduta dovuta alla
96 La parodia aristofanea si svolge attraverso un’elaborata trama allusiva, per l’analisi della quale rimandiamo a Rau (1967), 89-97; cf. inoltre Mastromarco (2006), 171-174; Mastromarco (2012), 93-117. Ci limitiamo qui a fare qualche osservazione sulle prime battute del prologo, dove uno dei due servi del protagonista, per fornire la prova della μανία di quest’ultimo – salire in cielo fino a Zeus –, riporta le frasi stesse del padrone, il quale ne dà ulteriori conferme facendo udire la sua voce fuori scena (vv. 62-63): se dapprima il gioco paratragico non è riconducibile direttamente al Bellerofonte (Pax 58; 62-63 riecheggiano, secondo Rau, Soph. Oed. rex 738), è interessante osservare come, nel momento in cui il servo rivela il mezzo scelto dal padrone per realizzare il suo progetto – volare a cavallo di uno scarabeo –, riferendo ancora una volta le parole precise di Trigeo (vv. 76-77), lo fa con una citazione rielaborata proprio dal Bellerofonte di Euripide (TrGF 18 F306): Aristofane sembra voler sottolineare il legame diretto della sua scena comica con la tragedia euripidea nell’elemento di maggiore affinità (il volo sul dorso di una ‘cavalcatura’ alata) con una citazione di ‘secondo grado’ (Euripide > Trigeo > servo). Sulla paratragedia verbale in Pax 54-81, cf. anche Mastromarco (2012), 100-102. 97 Cf. Rau (1967), 90. 98 Potrebbe essere questa un’allusione ironica alle riflessioni di Bellerofonte sulla non esistenza degli dei oppure un riferimento alla sua difesa dalle accuse di Megapente, figlio di Stenebea (su cui cf. avanti). La Pace stessa (vv. 146-148) offre un suggerimento analogo, quando la figlia di Trigeo raccomanda al padre di non cadere; altrimenti, “essendo zoppo” correrebbe il rischio “di offrire a Euripide un λόγος e diventare una tragedia”: da queste parole la caduta e il conseguente divenire zoppo del protagonista apparirebbero come il motivo scatenante della trama della tragedia. 99 Per la ricostruzione della vicenda del Bellerofonte nella storia degli studi rimandiamo a Curnis (2003), 253-274.
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punizione divina, sembrerebbero legate a una vendetta del figlio di Stenebea, Megapente, per la morte della madre: argomento di un’altra tragedia euripidea, la Stenebea, era appunto il fallito tentativo di seduzione di Bellerofonte da parte di Stenebea (poi uccisa dall’eroe o morta per mano di lei stessa).100 Eppure, se è vero che anche la parodia della Pace, come abbiamo detto, indurrebbe a ritenere il volo, nella tragedia euripidea, un elemento incipitario, non possiamo nemmeno trascurare l’efficacia drammatica che avrebbe avuto la rappresentazione di una serie di sventure capitate all’eroe e culminate nella decisione di volare fino al cielo: secondo uno sviluppo del genere, l’eroe, precipitato a terra per il fulmine di Zeus, sarebbe ritornato sulla scena, zoppicante e lacero, solo per morire e ravvedersi, come suggerirebbe il fr. 310 (per cui cf. avanti). Una tale ricostruzione avrebbe anche il vantaggio di spiegare meglio, dal punto di vista drammatico, la morte di Bellerofonte.101 In ogni caso, le dichiarazioni di ateismo contenute nel fr. 286 sembrano precedenti al momento del volo e costituire anzi una delle cause della punizione divina:102 l’eroe deciderebbe di salire al cielo per verificare le cause dell’ingiustizia dilagante fra gli uomini e quindi l’esistenza stessa degli dei. Si profilerebbe così un parallelismo di questo genere: come l’eroe comico Trigeo decide di volare fino a Zeus in atto di sfida, perché incapace di sopportare oltre le sofferenze inflitte dal dio ai greci (vv. 62-63; 107-108), così nella tragedia euripidea sarebbe la constatazione dell’assenza di ogni giustizia in genere a indurre Bellerofonte, al colmo della disperazione, a negare l’esistenza degli dei (fr. 286) e poi a verificarlo compiendo il suo fatale volo.103
100 La possibile presenza della figura di Megapente nell’azione drammatica del Bellerofonte sembra suggerita da TrGF 18 FF 304a; 305; sulla problematica attribuzione del fr. 304a al Bellerofonte euripideo, cf. Carlini (1965), 201-205, a favore dell’appartenenza (sulla stessa linea cf. anche Curnis (2003), 227-231); cf. tuttavia le obiezioni in merito di Collard, Cropp, Lee (1995), 99. 101 In questa direzione si muovono per esempio le ricostruzioni di Pohlenz e Di Gregorio, per un’ampia discussione delle quali rimandiamo a Curnis (2003), 271-274. 102 Altrimenti si dovrebbe ipotizzare che Bellerofonte si mostrasse convinto della non esistenza degli dei anche dopo aver avuto dimostrazione del contrario con la sua caduta da Pegaso, il che comporterebbe forse una caratterizzazione estrema in senso ateistico del personaggio, in contrasto con quanto sembra emergere invece da un altro frammento, il 310. 103 Cf. Riedweg (1990), 48-53. Se Pindaro presenta genericamente il volo di Bellerofonte come un atto di ὕβρις (cf. Isth. VII.44-49), si può anche ipotizzare che tale
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Ritornando alla parodia della Pace, bisogna in ogni caso tenere presente che, nonostante gli atteggiamenti ribelli di Trigeo (vv. 62-63; 107-108), l’eroe comico, deciso a portare fino a Zeus tutta la sua indignazione per lo stato pietoso in cui versano le città greche a causa della guerra, non si spinge oltre nell’intenzione di accusare Zeus di favorire i medi contro i greci (vv. 107-108), senza incorrere, a differenza del suo modello tragico, nell’ateismo. Aristofane sfrutterebbe quindi comicamente (come farà con conseguenze ancor più eclatanti – la sostituzione dell’eroe comico a Zeus – negli Uccelli) il motivo euripideo della sfida a Zeus, ma evocando solo allusivamente l’ateismo di Bellerofonte e incentrando la sua parodia sulla spettacolarità del volo dell’eroe. La sostanza dell’indignazione di Trigeo diventa infatti politica e la sua comica accusa a Zeus di schierarsi dalla parte dei medi trasforma parodicamente la sfida ‘ontologica’ di Bellerofonte in una sfida politica. Aristofane sembra in un certo senso evitare di attribuire a un suo personaggio un netto rifiuto dell’esistenza delle divinità tradizionali; diverso è invece il caso della diretta rappresentazione di Euripide stesso, del quale si dichiara esplicitamente l’ateismo in Thesm. 451. Del resto, non si può non tener conto del fatto che la sfida di Bellerofonte alla divinità si doveva configurare come un estremo atto di ὕβρις punito da Zeus con la caduta dell’eroe dalla groppa di Pegaso, in modo tale che la conclusione della tragedia permettesse di riaffermare la necessità di onorare in ogni caso il supremo potere degli dei. Come ci testimonia Eliano (Nat. anim. V.34), che si serve appunto del paragone della morte di Bellerofonte (rappresentata da Euripide, secondo le parole di Eliano, ἡρωϊκῶς καὶ μεγαλοψύχως) per descrivere la morte del cigno, l’eroe, rivolgendosi alla sua anima, ricordava la sua εὐσέβεια di un tempo (TrGF 18 F310): ἦσθ᾽ εἰς θεοὺς μὲν εὐσεβής, ὅτ᾽ ἦσθ᾽, ἀεί, / ξένοις τ᾽ ἐπήρκεις, οὐδ᾽ ἔκαμνες εἰς
ὕβρις sia dovuta alla disperazione dell’eroe, già afflitto da varie sciagure per la persecuzione di Megapente, figlio di Stenebea, morta per il suo tentativo di sedurre Bellerofonte (cf. qui sopra); il volo in cielo rappresenterebbe dunque il culmine di tale climax di sventure e persecuzioni. Carlini (1965), 201-205, che pure ritiene verosimile inserire il personaggio di Megapente nella tragedia, non individua invece nella sete di vendetta del figlio di Stenebea una relazione diretta con il volo dell’eroe; sulla questione, cf. Riedweg (1990), 50-51.
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φίλους.104 Questi versi attestano che il pentimento finale dell’eroe ristabiliva l’ordine costituito nei rapporti fra l’uomo e la divinità.105 Aristofane, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, prende di mira il complesso rapporto di Euripide con la religiosità tradizionale, mettendo in rilievo tutti i livelli su cui tale rapporto si svolge. Le esplicite accuse di ateismo, come quella di Thesm. 451, basata verosimilmente su un decontestualizzato riferimento al Bellerofonte, rappresentano in realtà il livello più superficiale della questione, mentre dalla menzione degli “dei di nuovo conio” di Rane 889-891 sembra emergere come la messa in discussione euripidea della religiosità tradizionale, nell’interpretazione di Aristofane, sfoci piuttosto in una ricerca di forme di religiosità ‘altre’, sentite come ‘non ortodosse’.106 L’Euripide ‘orfico’, devoto dell’Etere, di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti, e l’Euripide ‘ateo’ appaiono così, nella rappresentazione aristofanea, due facce della stessa medaglia. I richiami a un’ἀσέβεια sfociante nell’ateismo colgono solo un aspetto della religiosità euripidea, quello più vistoso, potremmo dire; la fitta trama allusiva di cui si serve Aristofane per rappresentare il problema in tutta la sua complessità sembra rivolgersi piuttosto a quegli spettatori capaci di riconoscere con consapevolezza tale ampia trama di allusioni e di cogliere in tutta la sua vastità la portata della critica di Aristofane alla tragedia euripidea. 104 Per la traduzione di ὅτ᾽ ἦσθ᾽ ci sono varie ipotesi interpretative, per cui cf. Riedweg (1990), 53, nota 75; nell’edizione di Collard, Cropp, Lee (1995), 111 si propone “while you lived”. Non si può escludere comunque sia, data la ripresa a breve distanza di ἦσθ᾽, che il secondo rafforzi semplicemente il primo, enfatizzandolo: “eri pio verso gli dei, quando lo eri”. 105 Mary Lefkowitz, nel riproporre l’articolo ‘Impiety’ and ‘Atheism’ in Euripides’ Dramas, in Oxford Readings in Classical Studies. Euripides, p. 130, prende in considerazione anche il fr. 286 del Bellerofonte, trascurato nella prima pubblicazione del saggio, valorizzando particolarmente, sulla scorta della lettura di Riedweg, questo ravvedimento finale e individuandovi un forte ridimensionamento dell’impatto delle affermazioni ateistiche del fr. 286. Per un’interpretazione volta invece a sottolineare il carattere problematico del rapporto dell’uomo con la divinità – nel Bellerofonte come in altre tragedie euripidee – cf. Egli (2003), 147-148 (dove vengono messe in luce anche le influenze di Democrito e Prodico sul fr. 286 del Bellerofonte). 106 Il processo a carico di Socrate, come ci viene raccontato da Platone (Ap. 24b-c), presenta infatti la stessa ambiguità: secondo l’atto di accusa di Meleto, infatti, Socrate è colpevole perché θεοὺς οὓς ἡ πόλις νομίζει οὐ νομίζοντα, ἕτερα δὲ δαιμόνια καινά, ma è piuttosto l’ateismo di Socrate a essere in questione, come mette in rilievo Socrate stesso quando costringe Meleto a riconoscere che la vera accusa non consiste in realtà nel credere in divinità differenti, ma nel non credere assolutamente nell’esistenza degli dei (cf. Ap. 26b-c). Sulla questione, cf. Burkert (2010), 558-559.
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Nella Pace stessa troviamo infatti, proprio all’interno della parodia di uno dei più grandi atti di ἀσέβεια del teatro di Euripide, la sfida di Bellerofonte agli dei (sebbene, come abbiamo visto, Aristofane non tiri mai esplicitamente in ballo la questione dell’ateismo dell’eroe), un riferimento alla dottrina, cara a Euripide, del ricongiungimento all’Etere delle anime dei morti (cf. Pax 827-837). A questo proposito possiamo anche segnalare, fra i frammenti pervenutici del Bellerofonte, significativi riferimenti al Tempo, come in TrGF 18 FF 291; 303; in quest’ultimo, in particolare, Χρόνος è rappresentato come colui che rivela δικαίους κανόνας e ἀνθρώπων κακότητας e è definito come οὐδενὸς ἐκφύς: in quanto “non generato da nessuno” il Tempo appare così un elemento primordiale (si ricordi anche, qui sopra, il fr. 594 N2 = TrGF 43 F3 dal Piritoo), in sintonia con quello che abbiamo visto accadere nelle cosmogonie orfiche. Ancora una volta, l’empietà euripidea potrebbe colorarsi di una patina orficheggiante.107 § 3 Euripide e l’‘empietà’ dei sofisti Proprio sulla base di situazioni come quella del finale del Bellerofonte, riproposte altre volte da Euripide (si pensi per esempio all’Ippolito o alle Baccanti),108 in cui troviamo cioè ribadito il potere degli dei nella sua forma ‘tradizionale’, ossia attraverso la punizione dell’ἀσέβεια, Mary Lefkowitz ha
107 Se, seguendo la proposta di Riedweg, consideriamo euripideo anche TrGF II F264, classificato da Snell e Kannicht (a differenza di Nauck) fra gli adespota, troviamo un parallelo molto significativo del frammento ateistico del Bellerofonte (fr. 286), il che confermerebbe anche la genuinità del fr. 264 stesso (come nel fr. 286 del Bellerofonte si ripete per due volte l’asserzione che gli dei non esistono, in questo frammento un’analoga ripetizione ribadisce invece l’esistenza del θεός); cf. Riedweg (1990a), 124-136. Possiamo qui aggiungere in proposito come nel fr. 264 l’esistenza degli dei sia giustificata da un insistito riferimento al Tempo come colui che reca la giusta pena all’ingiustizia umana, un tema – quest’ultimo – presente anch’esso in un frammento del Bellerofonte, il 303. 108 La necessità di rendere in ogni caso onore agli dei, al di là dell’effettiva capacità della ragione umana di comprenderne i disegni, è ribadita esplicitamente da Euripide in una serie di versi ricorrenti più volte nei manoscritti come versi finali delle sue tragedie, ossia Alc. 1159-1163; Med. 1415-1419; Andr. 1284-1288; Hel. 1688-1692; Bacch. 1388-1392. Sul problema della genuinità di questa coda anapestica, cf. Parker (2007), 283-285. Diggle, nella sua edizione delle tragedie di Euripide, li mantiene come genuini solo nell’Alcesti e nell’Andromaca, mentre non sono espunti in Van Looy (1992) e Kannicht (1969), edizioni rispettivamente della Medea e dell’Elena (sulla stessa linea, cf. Amièch (2011), 189). Sulla questione, cf. anche Lefkowitz (1989), 81, a favore della genuinità.
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ipotizzato che siano stati i poeti comici dell’ἀρχαία, primo fra tutti Aristofane, a svolgere un ruolo decisivo nella costruzione di quella fama di ‘ateo’ che Euripide ha nella tradizione esegetica e biografica successiva al V secolo,109 dato che un reale ateismo di Euripide, storicamente documentabile o almeno ricostruibile con certezza a partire dalle sue opere, non sembra verosimile. Per quanto i personaggi euripidei, infatti, possano spingersi, nel colmo della loro sventura, a mettere in discussione l’esistenza stessa degli dei, questi ultimi rivelano sempre, alla fine, di possedere i loro tradizionali poteri.110 Tuttavia, come abbiamo detto, benché le tragedie euripidee non ci offrano certo scenari da Götterdämmerung, ma piuttosto una costante riaffermazione del potere della divinità e della necessità di tributarle il dovuto ossequio, non si può negare che, in esse, la relazione con quanto concerne il divino presenti aspetti problematici. Da quegli stessi finali emerge inoltre un atteggiamento di sfiduciata e rassegnata accettazione della punizione divina (non comprensibile fino in fondo), che poteva forse, con la sua contropartita di disfattismo al livello di vita della πόλις, destare la preoccupazione di Aristofane.111 La problematizzazione della ‘questione del divino’ è comunque sia in Euripide in piena sintonia con il dibattito sorto, intorno a tali argomenti, 109 Cf. Lefkowitz (1987), 162; sull’ateismo di Euripide nella tradizione dossografica, cf. Dihle (1977), 28-29; 35-37, in merito alla presenza di Euripide nelle liste di ἄθεοι compilate in epoca ellenistica e romana (Aet. Plac. I.7.2, Dox. Gr., 298 e Gal. Hist. Phil. 35, Dox. Gr., 617-618). Nonostante che Ostwald (1999), 34-42 ritenga la nozione di ‘ateismo’, intesa come negazione dell’esistenza degli dei, non adattabile in realtà a alcuno dei σοφισταί inclusi nelle liste suddette, sembra in effetti possibile individuare riflessioni non pienamente in linea con l’‘ortodossia’ religiosa del V sec. nei frammenti pervenutici di Prodico (DK 84 B5) e Protagora (DK 80 B4), come anche di Anassagora stesso (DK 59 B12-14; Α1-3, per cui cf. Dihle (1977), 32-33). Sulla discutibile attendibilità storica delle notizie sui processi per ἀσέβεια a carico di Anassagora (Plut. Per. 32.2; D.L. II.12-14, per cui cf. anche Stadter (1989), 298-299) o di Protagora (D.L. IX.54), che sarebbero state elaborate sotto l’influenza di scene tratte da commedie, cf. Lefkowitz (1987), 156-159; possiamo d’altra parte pensare come l’impatto avuto sulla vita politica ateniese dalla vicenda di Socrate (riconosciuta del resto dalla Lefkowitz stessa, cf. p. 160) o da processi come quelli per la mutilazione delle erme e la profanazione dei misteri (anch’essi, di fatto, processi per ἀσέβεια) costituisca un indizio significativo per la ricostruzione di un clima, nell’Atene della seconda metà del V secolo, favorevole a processi di quel genere (cf. Burkert (2010), 549-559). 110 Cf. Lefkowitz (1989), 71-72. Perviene alla stessa conclusione Riedweg a proposito del fr. 286 del Bellerofonte. Per una lettura della religiosità euripidea in linea con la tradizione, cf. ora Calderón Dorda (2015). 111 Sull’‘ateismo’ di Euripide cf. anche Wright (2005), 338-362 (in merito a Elena e Ifigenia in Tauride).
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nella sofistica della seconda metà del V secolo.112 Come nel § 1 abbiamo considerato l’intreccio, in Euripide, di temi appartenenti alla tradizione orfica e dottrine filosofiche coeve, menzioniamo qui alcuni passi euripidei dove appare evidente l’influsso dei dibattiti sorti nell’ambito della sofistica intorno al tema del divino. § 3.1 Le Baccanti (vv. 274-285) Nelle Baccanti, Tiresia, nel tentativo di ricondurre Penteo alla devozione e al rispetto nei confronti degli dei, individua in Demetra, identificata con la Terra (vv. 275-276), colei che “nutre gli uomini nell’ambito delle sostanze secche” (ἐν ξηροῖσιν ἐκτρέφει βροτούς, v. 277) e in Dioniso colui a cui si deve la scoperta, e l’introduzione fra i mortali, dell’ “umida bevanda del grappolo” (βότρυος ὑγρὸν πῶμ᾽ ηὗρε κἀσηνέγκατο / θνητοῖς, vv. 279-280): entrambe le cose vengono definite dal vecchio indovino δύο τὰ πρῶτ᾽ ἐν ἀνθρώποισι (vv. 274-275). Secondo quanto ci attestano Filodemo (De piet., P.Herc. 1428 coll. II.28-III.13, pp. 13-14 Henrichs) e Sesto Empirico (Adv. math. IX.18; 52), Prodico (DK 84 B5) avrebbe parlato di un processo di divinizzazione da parte degli uomini di ciò che “nutre e è utile” (τὰ τρέφοντα καὶ ὠφελοῦντα θεοὺς νενομίσθαι καὶ τετειμῆσθαι). Sesto Empirico (Adv. math. IX.18) menziona come ὠφελοῦντα dapprima ἥλιος, σελήνη, ποταμοί, κρῆναι (ripetuti ancora nella trattazione più sintetica di IX.52), poi ἄρτος, οἶνος, ὕδωρ, πῦρ, identificati rispettivamente con Demetra, Dioniso, Posidone, Estia. La testimonianza di Filodemo sembra attribuire a Prodico – seppure con qualche ambiguità113 – anche l’opinione secondo cui la divinizzazione avrebbe riguardato gli uomini stessi τοὺς εὑρόντας ἢ τροφὰς ἢ
112 Sulla possibilità di riconoscere nelle tragedie di Euripide lo stesso «spirito» di «altri pensatori del suo tempo», cf. Ostwald (1999), 39-40, dove si distingue altresì, nella produzione euripidea, una prima fase, in cui il problema religioso sarebbe posto soprattutto in termini morali (dall’assenza di giustizia nel mondo degli uomini nasce la questione dell’esistenza o meno degli dei; cf. Phil. TrGF 73 F795, Bell. TrGF 18 F286 e Hec. 799-801), da una seconda fase, in cui Euripide avrebbe considerato la questione religiosa in sé e per sé, in una prospettiva ontologica (cf. Tro. 884-888, Mel. sap. TrGF 44 F487, oltre alle Baccanti stesse). 113 Filodemo riporta infatti il pensiero di Prodico indirettamente, attraverso le parole del filosofo stoico Perseo, il quale, nel Περὶ θεῶν, avrebbe ritenuto non inverosimili (ἀπίθανα) τὰ περὶ ‹τοῦ› τὰ τρέφοντα καὶ ὠφελοῦντα θεοὺς νενομίσθαι καὶ τετειμῆσθαι πρῶτον ὑπὸ Προδίκου γεγραμμένα, μετὰ δὲ ταῦτα τοὺς εὑρόντας ἢ τροφὰς ἢ σκέπας ἢ τὰς ἄλλας τέχνας. Le difficoltà interpretative riguardano l’attribuzione o meno a Prodico anche di ciò che segue a μετὰ δὲ ταῦτα. Dato che
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σκέπας ἢ τὰς ἄλλας τέχνας ὡς Δήμητρα καὶ Διόνυσον. Bisogna rilevare che, mentre Filodemo (se accettiamo di riferire quanto dice interamente a Prodico) menziona Demetra e Dioniso come esseri umani divinizzati per le loro ‘scoperte’ (le τέχναι relative al grano e al vino), Sesto sembra attribuire a Prodico la diretta divinizzazione del grano e del vino come Demetra e Dioniso. La Demetra del passo euripideo sembra bensì avvicinarsi a quella di Prodico, ma rimane pur sempre una divinità primordiale (una differenza significativa di Euripide rispetto a Prodico),114 che “nutre gli uomini nell’ambito delle sostanze secche”; quanto Tiresia dice su Dioniso, invece, sembra adattarsi bene a entrambe le testimonianze sulla teologia di Prodico, dato che il dio si configura sia come πρῶτος εὑρετής divinizzato del vino (cf. v. 279-280, dove si deve osservare il richiamo diretto dell’ηὗρε euripideo al τοὺς εὑρόντας di Prodico) sia come vino divinizzato (cf. v. 284, dove è il dio stesso infatti a essere offerto in libagione agli dei).115 Sempre a Prodico, studioso della lingua (cf. Plat. Eut. 277e) e interprete di miti in senso allegorico-razionalistico (cf. Xen. Mem. II.1.21-24), sembra poi da ricondurre l’ampio ricorso di Tiresia all’etimologia come tecnica per indagare le questioni concernenti il divino e fornire quindi una spiegazione del μῦθος sulla nascita di Dioniso (cf. vv. 275-276; 291-297; forse anche il
sintatticamente τοὺς εὑρόντας sembra far parte anch’esso come altro soggetto della frase infinitiva introdotta dal περὶ ‹τοῦ›, evidentemente riferito ai γεγραμμένα di Prodico, sembra che a quest’ultimo debbano essere ricondotte sia la teoria della divinizzazione dei τρέφοντα καὶ ὠφελοῦντα sia quella della divinizzazione degli εὑρόντας. Se Di Benedetto (2004), 338-339 propende per ricondurre a Prodico solo la teoria della divinizzazione delle cose utili agli uomini riferita da Filodemo, Harrison (1990), 196-197, nell’ambito di un confronto fra Lucr. De rer. nat. V.13-21 e Eur. Bacch. 274-280, pur riconoscendo l’ambiguità insita nella formulazione di Filodemo (legato a Lucrezio per il tramite dell’epicureismo), tende a ascrivere a Prodico entrambe le teorie (cf., a conferma di questa posizione, anche Min. Fel. Oct. 21.2); per la bibliografia precedente a sostegno di questa tesi, cf. Henrichs (1976), 15-21. 114 Cf. Ostwald (1999), 43. 115 Di Benedetto, pur con alcune riserve riguardo alla testimonianza di Filodemo (cf. qui sopra, nota 113), riconosce infatti che «la formulazione di Tiresia è contigua a Prodico», benché «non coincidente» (cf. Di Benedetto (2004), 339). Sulla relazione fra l’individuazione di «Ursubstanzen» in Euripide (τὰ πρῶτα, Bacch. 275) e le antiche teorie cosmologiche presocratiche, cf. Egli (2003), 140-141. Meno specifici appaiono invece i riferimenti a culti misterici demetriaci e dionisiaci ravvisati dalla Egli nel discorso di Tiresia (cf. p. 141).
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riferimento alla relazione μαντική / μανιῶδες, vv. 298-299).116 A questo proposito, è per noi interessante notare come tale metodo di indagine sia proprio anche del commentatore del Papiro di Derveni, il cui scopo è appunto quello di svelare la verità nascosta, entro una forma ingannevole, negli antichi miti, come anche nel poema orfico oggetto del suo commento (cf., per esempio, P.Derv. coll. XXIII; XXIV).117 Ora, un’eco orfica potrebbe appunto essere ravvisata, nel racconto di Tiresia, nel fatto che l’ostaggio che Zeus consegna a Era al posto di Dioniso sia un μέρος ἐγκυκλουμένου / αἰθέρος (vv. 292-293). Euripide realizzerebbe così «un’identificazione sul piano cosmologico fra Dioniso e l’αἰθήρ»,118 che, sulla base di quanto abbiamo detto qui sopra (§ 1.1.1) in merito alle cosmogonie orfiche, appare senz’altro significativa, pur tenendo presente che, nel caso di questo passo delle Baccanti, sia un ‘finto’ Dioniso a essere fatto di etere.119 Comunque sia, le parole di Tiresia, pur sorprendenti dal punto di vista dell’ortodossia religiosa, in quanto basate su riferimenti originariamente incardinati in argomentazioni volte a negare l’esistenza delle divinità tradizionali, sembrano piuttosto tendere a dimostrare la necessità di tributare riconoscimento e devozione a quelle stesse divinità, in un tentativo di risolu-
116 Per ulteriori riferimenti a procedimenti analoghi riscontrabili nella riflessione filosofica contemporanea a Euripide, cf. Egli (2003), 144-145; per gli esempi platonici, cf. Di Benedetto (2004), 340-341. 117 Sulla contraddittorietà del personaggio di Tiresia, che dimostrerebbe l’inconciliabilità fra culto dionisiaco e cultura intellettualizzata, cf. Di Benedetto (2004), 99-102; per un’interpretazione del discorso di Tiresia nel senso di una contaminazione reciproca dei riti orfici e dionisiaci, cf. Mirto (2010), 3-23. Data l’origine ‘tradizionale’ del materiale orfico, pur rielaborato successivamente in ambito filosofico e sofistico (cf. qui sopra), siamo di fronte, piuttosto che a una dicotomia orfismo/cultura popolare-tradizionale, a un fenomeno composito in cui tradizione, misticismo e intellettualismo convivono e si influenzano reciprocamente. 118 Cf. Egli (2003), 142. 119 Per la rappresentazione euripidea dell’Etere come ciò che circonda la terra (che ritroviamo anche in Empedocle, in DK 31 B38, v. 4), cf. Tro. 884; TrGF V.2 FF 919; 941 (su cui si veda Egli (2003), 141). Nell’Elena euripidea troviamo invece il tema dell’εἴδωλον: la finta Elena è fatta, per opera di Era, di cielo (οὐρανοῦ ξυνθεῖσ᾽ ἄπο, v. 34), mentre la vera Elena è nascosta ἐν πτυχαῖσιν αἰθέρος (v. 44), con un’alternanza αἰθήρ / οὐρανός (per cui cf. qui sopra, § 1.1.1 a proposito del Crisippo) molto simile a quanto leggiamo in Bacch. 290 (Era intende scacciare Dioniso ἀπ᾽ οὐρανοῦ) e 293 (Zeus crea l’ostaggio con una parte di etere), rispetto a cui possiamo quindi parlare di un’allusione all’Elena, dove, come abbiamo visto nel § 1.2, l’Etere appare anche come sede di quel che resta dell’individuo dopo la morte. Sull’identificazione fra Demetra e la Terra, rimandiamo al passo del Papiro di Derveni commentato qui sopra in nota 33 (cf. Egli (2003), 141).
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zione del conflitto fra νόμος e φύσις:120 nel momento in cui la forza divina presente nei fenomeni naturali appartenenti all’esperienza quotidiana è riconosciuta dall’intelletto, essa richiede infatti una devozione giustificata dalla tradizione e, allo stesso tempo, fondata nella natura delle cose, secondo quanto rivela l’indagine dell’intelletto umano.121 Tiresia così, con un’autorevolezza che garantisce credibilità alle sue parole, senza rinunciare a cercare spiegazioni razionali in merito al tema del divino e senza spingersi a negare l’esistenza degli dei (non viene da lui nemmeno contestata l’attribuzione della paternità di Dioniso a Zeus, cf. vv. 288-291),122 conferma la validità del culto tradizionale. § 3.2 Il Sisifo (TrGF I 43 F19) Un possibile rapporto con la riflessione filosofica di Prodico sembra ravvisabile anche in TrGF I 43 F19, attribuito da Snell a Crizia sulla base della testimonianza di Sesto Empirico (Adv. math. IX.54). Sesto, tuttavia, che non menziona il titolo dell’opera da cui cita i trimetri, non sembra un testimone sufficiente a escludere l’attribuzione degli stessi versi a Euripide, come avviene invece in Ezio, Plac. I.7.2, p. 298 Dox. Gr. Diels, tanto più che la possibilità di considerare il frammento proveniente da un dramma satiresco di Euripide, il Sisifo, è appunto più che verosimile per motivazioni stilistiche e contenutistiche.123
120 Sull’affinità fra le parole di Tiresia e le testimonianze di Sesto e Filodemo relative a Prodico rimandiamo alle considerazioni di Ostwald (1999), 43-44. 121 Così Ostwald (1999), 42-47. Per una diversa lettura delle parole di Tiresia volta a accentuarne la «vanità» nel contesto generale della tragedia e la distanza dall’‘ortodossia dionisiaca’ delle baccanti, cf. Lefkowitz (1989), 74-75. D’altra parte esiste una coincidenza di vedute fra Tiresia e le baccanti, rispetto alla concezione del dionisismo, dato che l’uno e le altre condividono sia il tema del dono del vino “che allontana i dolori” (per le baccanti, cf. i vv. 378-385; 417-428 del primo stasimo) sia quello dell’affermazione della paternità di Zeus, che Tiresia appunto ribadisce, limitandosi a negare l’episodio del neonato cucito nella coscia del padre (cf. vv. 288-291). 122 Per un’interpretazione, invece, dei riferimenti culturali presenti nel discorso di Tiresia (all’orfismo, ai culti misterici di Demetra e Dioniso, alle dottrine sfocianti nell’ateismo dei φυσικοί e dei σοφισταί quali Prodico) come incompatibili fra di loro e finalizzati alla creazione di un «gioco» privo di una «pretesa di verità», cf. Egli (2003), 145-146. 123 Su questa ipotesi e sull’appartenenza del frammento a un dramma satiresco, cf. Dihle (1977), 37-38, che individua notevoli affinità fra le parole di Sisifo e la
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L’‘ateismo’ euripideo si esprimerebbe in ogni caso, in questo frammento, nel modo più esplicito, dato che la concezione di cui Sisifo si fa portatore è quella della religione come uno strumento politico inventato (ἐξευρεῖν, v. 13) da un πυκνός τις καὶ σοφὸς γνώμην ἀνήρ (v. 12) per infondere negli uomini il timore di commettere delitti anche di nascosto (vv. 13-15) e farli uscire dalla vita ferina che conducevano in precedenza (vv. 1-8).124 Poiché a parlare è Sisifo, l’ingannatore per eccellenza, è opportuno, in questo caso più che altrove, usare cautela nel valutare fino a che punto si debbano considerare ‘affidabili’ le sue affermazioni.125 D’altra parte, anch’esse trovano un evidente riscontro, seppure in forma attenuata, in altri passi euripidei126 e, se è vero, come si è già detto, che nessuno di questi passi (o degli altri che abbiamo considerato) ci può dire alcunché sulle reali convinzioni religiose di Euripide,127 bisogna anche riconoscere un’insistita ricorrenza di un approccio problematico alla religione, che, pur con sfumature e con gradazioni diverse, non sembra mai venire meno. Dal frammento del Sisifo non emergono del resto solo posizioni decisamente atee nei confronti della religione tradizionale, ma sembrano affiorare anche altre convinzioni: l’unica entità a cui si riconosce, in qualche modo, una forma di superiorità ‘divina’ appare infatti il Tempo, definito τέκτων σοφός (v. 34) dei fenomeni celesti (vv. 31-33).128 Come abbiamo osservato qui sopra, infatti (cf. § 2), anche in un dramma dal forte impatto ‘ateistico’ come il Bellerofonte, Euripide non rinuncia a caratterizzare il Tempo (TrGF 18 F303) come un’entità primordiale, che riveste un ruolo decisivo nei destini degli uomini.
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ῥῆσις del Ciclope in Eur. Cycl. 316-346. Sul problema dell’attribuzione del frammento del Sisifo, cf. inoltre Davies (1989), 24-28; Egli (2003), 149, nota 3. Sulla relazione del frammento del Sisifo con la concezione della religione come invenzione umana, presente in Democrito (DK 68 B30, dove l’‘invenzione’ di Zeus sembra anche implicare un’identificazione con l’aria) e, come abbiamo visto qui sopra, in Prodico (per cui si può parlare della religione piuttosto come ‘prodotto’ umano), cf. Ostwald (1999), 40-42; Egli (2003), 150-151, dove vengono messi in rilievo anche alcuni elementi anassagorei. Sulla possibilità di ravvisare «tratti parodistici» nell’estremismo della teoria di Sisifo, cf. Egli (2003), 151. Cf. Egli (2003), 151-154, dove si citano Eur. El. 737-744 e Hec. 797-801, dai quali emerge la concezione della devozione verso gli dei come qualcosa di sancito dal νόμος, dalla convenzione; nei versi dell’Elettra si affaccia anche lo stesso tema del φόβος della punizione divina come nel frammento del Sisifo (cf. vv. 13; 37). Cf. qui sopra, nota 80. Per la connessione del Tempo con gli astri, cf. qui sopra, nota 53.
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È tutto questo ricollegabile alle dottrine orfiche (cf. § 1.1) o, quanto meno, all’influenza di teorie cosmogoniche alternative alla tradizione esiodea (Ferecide di Siro, § 1.1.3)? Certamente possiamo osservare come l’insistenza di questi temi in Euripide (o in testi a lui attribuiti) contribuisca a accentuare le peculiarità dell’universo religioso rappresentato nelle sue tragedie. Nel frammento del Sisifo TrGF I 43 F19, inoltre, non può essere trascurato un richiamo diretto a un frammento appartenente alla tradizione orfica: l’incipit (ἦν χρόνος ὅτ᾽ ἦν ἄτακτος ἀνθρώπων βίος / καὶ θηριώδης ἰσχύος θ᾽ ὑπηρέτης) è infatti assai simile a quello di un poema esametrico tramandatoci da Sesto Empirico (Adv. math. II.31 = fr. 641 Bernabé) appunto sotto il nome di Orfeo: ἦν χρόνος ἡνίκα φῶτες ἀπ᾽ ἀλλήλων βίον εἶχον / σαρκοδακῆ, κρείσσων δὲ τὸν ἥττονα φῶτα δάιζεν. Secondo la ricostruzione di Graf, siamo di fronte a opere poetiche appartenenti all’ambito della Kulturgeschichte e sorte nello stesso clima culturale.129 Euripide costruisce dunque ancora una volta un complesso intreccio di riferimenti culturali nel suo tentativo di dare al problema religioso una risposta che, pur orientandosi in questo caso (considerata anche la natura del personaggio che pronuncia i versi in questione) decisamente in direzione di una razionalizzazione della religione tradizionale come invenzione umana, sembra far affiorare anche elementi che evocano altre dimensioni religiose. § 4 La rappresentazione del poeta tragico sulla scena comica: il metodo di Aristofane Se dunque le tragedie euripidee presentano personaggi portatori di messaggi problematici dal punto di vista religioso, occorre ora puntualizzare secondo quale principio Aristofane ponesse sullo stesso piano opera e autore, trasferendo sulla persona di quest’ultimo (Euripide viene portato anche in scena come personaggio comico in tre delle commedie pervenuteci, Acarnesi, Tesmoforiazuse e Rane) l’ἀσέβεια dei protagonisti delle sue tragedie. È in realtà Aristofane stesso a esporci il ‘metodo’ da lui adottato, che consiste nell’attribuire sistematicamente all’autore e alla sua personale Weltanschauung le affermazioni dei suoi personaggi, spesso decontestualizzate dalla circostanza in cui vengono pronunciate e dal generale svolgimento della tragedia. La consapevolezza di una non biunivocità fra autore e personag-
129 Circa un eventuale influsso di Prodico (DK 84 B5) sullo sviluppo di una poesia orfica ateniese volta a celebrare l’introduzione dell’agricoltura e della religione e quindi la fine, per l’uomo, dello stato ferino, cf. Graf (1974), 34-37.
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§ 4 La rappresentazione del poeta tragico sulla scena comica: il metodo di Aristofane
gio, infatti, è bensì valida per la critica moderna ma non per l’esegesi antica e per la commedia in particolare: del resto, nonostante la problematicità di un trasferimento automatico delle parole dei personaggi alla personalità storica del loro autore – e questo appare tanto più vero in quanto a esprimere certe posizioni sono talora personaggi del tutto indegni di fede e credibilità, come Sisifo o il Ciclope –, il generale approccio alla tematica religiosa che emerge dalle tragedie euripidee poteva facilmente, nella trasposizione comica, trasferirsi sulla personalità dell’autore. Aristofane è dunque il primo (sulla base della tradizione pervenutaci) a teorizzare, nelle sue Tesmoforiazuse, per bocca del tragediografo Agatone, il principio secondo cui la φύσις di un autore è riflessa appieno nelle sue opere (cf. vv. 159-170, in particolare 167): ὅμοια γὰρ ποιεῖν ἀνάγκη τῇ φύσει. Il maggior commediografo dell’ἀρχαία enuncia così il metodo da lui stesso adottato nella costruzione della rappresentazione comica di Euripide. Se possiamo dunque riconoscere un ruolo propulsore nella promozione dell’immagine di un Euripide ateo ai poeti comici dell’ἀρχαία, dobbiamo anche ritenere questi ultimi coscienti del loro modo di operare basato sull’attribuzione all’autore dei pensieri e dei sentimenti dei suoi personaggi.130 Occorre bensì rilevare anche che Aristofane stesso ci rivela come tale immediata attribuzione, da lui attuata nell’agone delle Rane, presenti delle ambiguità: sia l’incontro fra Diceopoli e Euripide negli Acarnesi sia quello fra il Parente, Euripide e Agatone nelle Tesmoforiazuse, che al primo evidentemente si richiama (le due scene possono essere ritenute speculari),131 non si limitano a elaborare un’equazione, ma sembrano volerci dimostrare una 130 La critica letteraria aristotelica e, poi, peripatetica avrebbe ereditato e sviluppato tale metodo esegetico, volto a individuare un’immediata corrispondenza fra autore e opera, come è applicata da Aristofane nell’agone delle Rane, oltre che negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse; cf. Arrighetti (1987), 148-159, dove tale principio, ritenuto parte integrante della concezione stessa della poesia, viene ricondotto a Esiodo. Sulla fortuna del principio della corrispondenza fra biografia dell’autore e produzione letteraria, cf. anche Wright (2013), 125. Sulla questione cf. anche la peculiare posizione espressa in Graziosi (2005), 168-174, dove si vede, nella figura del poeta che emerge da ricostruzioni biografiche peripatetiche, un’ «immagine antropomorfica, triviale e spregevole della sua opera». 131 Sulla corrispondenza fra l’aiuto chiesto a Euripide da Diceopoli in nome, in ultima istanza, di Aristofane stesso, accusato da Cleone di aver ingiuriato la città di fronte agli stranieri con la commedia dell’anno precedente, e quello chiesto dal Parente a Agatone in nome di Euripide, accusato anch’egli di ingiuriare, nelle sue tragedie, le donne ateniesi e rivelare le loro malefatte ai mariti, cf. Saetta Cottone (2003), 446-452; 464-469; sulla relazione fra Acarnesi e Tesmoforiazuse a livello di impostazione generale, cf. Saetta Cottone (2016), 7-34; 163-237. Sulle affinità fra il prologo delle Tesmoforiazuse e l’incontro fra Diceopoli e Euripide
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Capitolo I: Aristofane e l’‘empietà’ di Euripide
complessità nei rapporti fra l’autore e la sua opera. Diceopoli, quando Euripide gli appare davanti portato dall’ἐκκύκλημα, commenta così l’aspetto e la postura del tragediografo (vv. 410-413): ἀναβάδην ποιεῖς, ἐξὸν καταβάδην. οὐκ ἐτὸς χωλοὺς ποιεῖς. ἀτὰρ τί τὰ ῥάκι᾽; εἰς τραγῳδίας ἔχεις ἐσθῆτ᾽ ἐλεινήν; οὐκ ἐτὸς πτωχοὺς ποιεῖς. Euripide “non a caso” crea “zoppi” e “pitocchi”, perché compone “con i piedi per aria” (ἀναβάδην) e veste stracci. Eppure, come afferma Diceopoli stesso, gli “sarebbe possibile” comporre καταβάδην: rimane quindi una certa ambiguità nel determinare se sia nella natura di Euripide lo stare a testa in giù e il vestire stracci o se sia frutto piuttosto di una sua volontà di adeguamento al soggetto intorno al quale ruota il suo dramma. Certamente le parole di Diceopoli sanciscono il principio artistico secondo cui, per creare determinati soggetti, bisogna che l’autore si renda in qualche modo simile a essi.132 Il prologo delle Tesmoforiazuse ripropone, esplicitandola, l’ambiguità insita nelle parole di Diceopoli: Agatone, infatti, che compare in scena vestito da donna, giustifica dapprima il suo abbigliamento con la necessità di adeguarsi al soggetto che sta componendo in quel momento, un coro femminile appunto (vv. 148-156): ἐγὼ δὲ τὴν ἐσθῆθ᾽ ἅμα γνώμῃ φορῶ. χρὴ γὰρ ποιητὴν ἄνδρα πρὸς τὰ δράματα ἃ δεῖ ποιεῖν, πρὸς ταῦτα τοὺς τρόπους ἔχειν. αὐτίκα γυναικεῖ᾽ ἢν ποιῇ τις δράματα, μετουσίαν δεῖ τῶν τρόπων τὸ σῶμ᾽ ἔχειν [...]. ἀνδρεῖα δ᾽ ἢν ποιῇ τις, ἐν τῷ σώματι ἔνεσθ᾽ ὑπάρχον τοῦθ᾽. ἃ δ᾽ οὐ κεκτήμεθα, μίμησις133 ἤδη ταῦτα συνθηρεύεται.
negli Acarnesi, cf. Tammaro (2006), 249-255; per un’analisi comparata del ruolo di Euripide negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse, cf. Voelke (2004). 132 Cf. Saetta Cottone (2003), 461. 133 Sulla valenza del termine in questo contesto, che compare qui per la prima volta in relazione al lavoro del poeta, cf. Saetta Cottone (2003), 457-461; Saetta Cottone (2016), 186-189; Given (2007), 38-42; per un ampio apparato bibliografico sulla questione, cf. anche Micalella (2005), 188, nota 4. Sugli sviluppi dell’estetica della μίμησις in Platone, Aristotele e nella filosofia successiva, cf. Halliwell (2002) (sul passo delle Tesmoforiazuse cf. 51, nota 35); Tulli (2013).
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Poi, la sua argomentazione si evolve in una diversa direzione (cambiamento segnato da ἄλλως al v. 159),134 fino all’affermazione contraria che ὅμοια γὰρ ποιεῖν ἀνάγκη τῇ φύσει (v. 167). Fra le diverse interpretazioni che sono state offerte riguardo alla dinamica della corrispondenza autore-opera,135 quale emerge dal discorso di Agatone (e quale già era presente in quello di Diceopoli), conviene piuttosto vedere la rappresentazione di un «campo di tensioni» fra autore e opera, che si influenzano l’un l’altra in maniera quasi circolare.136 D’altro canto vorremmo qui sottolineare come, stando a quanto dice Agatone, la personalità dell’autore finisca in qualche modo per avere il sopravvento (per quanti sforzi di assimilazione egli possa fare): lo dimostra lo sviluppo stesso del suo discorso, che conclude affermando proprio tale priorità della φύσις dell’autore. Aristofane, giocando sulla supposta omosessualità di Agatone, sembra infatti suggerire che il suo travestimento da donna non costituisca per lui un particolare sforzo di assimilazione ai personaggi femminili del suo coro, ma anzi un’espressione della sua vera φύσις.137 Analogo discorso può valere per la ‘scelta’ di Euripide, negli Acarnesi, di stare a testa in giù e vestirsi di stracci. L’agone delle Rane fra Eschilo e Euripide conferma anch’esso la tendenza aristofanea a ricondurre direttamente alla personalità dell’autore le caratteristiche della sua produzione artistica, pur con tutta la complessità insita in tale relazione. Aristofane, attento nel cogliere le trasformazioni culturali in atto nel suo tempo (come del resto lo sono in genere i commediografi dell’ἀρχαία), e quindi anche le relazioni fra la tragedia euripidea e la sofistica contemporanea, adatta a Euripide una rappresentazione comica frequente per il
134 Cf. Paduano (1998), 97. 135 Sulla contraddittorietà insita nelle parole di Agatone, tale da inficiarne la credibilità, cf. Given (2007); Schwinge (2014), 65-77; cf. inoltre Saetta Cottone (2003), 462-464, dove si individua nella contraddizione fra μίμησις e φύσις la contraddittorietà insita nella tragedia, che, a differenza della commedia, finirebbe per dimenticare di essere una finzione; la questione è ulteriormente sviluppata in Saetta Cottone (2016), 12-15; cf. infine Wright (2013), 123-125, dove si interpreta invece il riferimento alla φύσις come una «comical oversimplification». Sull’attribuzione di una maggiore rilevanza, nelle parole di Agatone, alla φύσις del poeta «integrata, in caso di necessità, dalle capacità mimetiche» cf. Micalella (2005), 192. Sul «salto logico» fra i vv. 148-156 e il v. 167 («che fa pensare a una diversa teoria letteraria»), cf. Prato (2001), 182-183. 136 Così in Paduano (1998), 93-101, in particolare 97. 137 Sull’ambivalenza della natura di Agatone come riflesso della sua ambivalenza mimetica (con la conseguente possibilità di individuare una conciliazione della contraddizione), cf. Saetta Cottone (2016), 15.
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Capitolo I: Aristofane e l’‘empietà’ di Euripide
σοφιστής in generale (cf. qui sopra, nota 92), in cui rientra quindi anche il motivo dell’empietà. La caratterizzazione di Euripide come ἀσεβής, anche nella sua forma più estrema di ‘ateo’, propria, come abbiamo visto qui sopra, sia delle Tesmoforiazuse sia, in un certo senso, delle Rane (e che potrebbe affiorare perfino negli Acarnesi dalla sua postura a testa in giù, come di chi veda il mondo da una prospettiva distorta), costituisce infatti uno degli aspetti più eclatanti e più immediati, dal punto di vista dell’effetto comico, per la costruzione di un personaggio Euripide che fosse riconoscibile sia rispetto alle sue tragedie stesse sia, in generale, rispetto a un cliché comune alla rappresentazione comica di σοφισταί in genere. Eppure abbiamo anche osservato come Aristofane sembri percepire che il complesso rapporto di Euripide con il divino non sia limitato a una generica ἀσέβεια sfociante nell’ateismo, ma presenti aspetti diversi, quali la ricerca di forme di religiosità ‘altre’, lontane, talvolta, come vedremo in seguito, anche da un punto di vista geografico, dalla tradizione religiosa, in particolare attica: a tale ricerca Euripide è talora spinto proprio dall’ambientazione ‘esotica’ delle sue tragedie, come per esempio nel caso dei Cretesi o dell’Elena. A nostro parere non abbiamo cioè a che fare soltanto con esagerazioni e semplificazioni comiche, mirate alla costruzione di un Euripide come personaggio di commedia, ma con una riflessione approfondita intorno all’intero fenomeno religioso nelle tragedie euripidee. Prima di indagare le specifiche modalità con cui Aristofane rappresenta (e attacca) la religiosità di Euripide, è tuttavia necessario intraprendere un’indagine degli aspetti religiosi significativi a tale scopo in alcune tragedie euripidee.
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Capitolo II: L’ispirazione cretese di Euripide: l’Ippolito e i Cretesi
§ 1 Da Eleusi all’ἄντρον Ἰδαῖον § 1.1 I Misteri eleusini nel prologo dell’Ippolito Fedra, nell’immaginario di Aristofane, rappresenta l’eroina perversa per eccellenza, il modello stesso dell’ἀσέβεια. Euripide, autore di una tragedia (o meglio, di due tragedie, in quanto la seconda sarebbe stata una versione ‘edulcorata’ e meno scandalosa della medesima vicenda) su Fedra e sul suo amore per il figliastro Ippolito, avrebbe messo in mostra e portato sulla scena / insegnato (παράγειν / διδάσκειν), come rimprovera l’Eschilo aristofaneo a Euripide nell’agone delle Rane, τὸ πονηρόν, invece di nasconderlo (ἀποκρύπτειν) e dire piuttosto χρηστά, come si conviene appunto a un buon διδάσκαλος, una parola in cui il significato legato all’ambito teatrale si sovrappone, in una perfetta fusione, a quello proprio di ‘insegnante’ (vv. 1053-1056).138 Le affermazioni di Eschilo nascono appunto da considerazioni su due delle più celebri πόρναι (v. 1043) del teatro euripideo, Fedra e Stenebea,139 che avrebbero trasmesso solo cattivi modelli alle donne ateniesi. Anche nelle Tesmoforiazuse, una delle donne partecipanti alla festa (sebbene da una diversa prospettiva rispetto a quella di Eschilo) accusa Euripi-
138 Questo termine possiede una carica allusiva particolarmente forte, in quanto vi possiamo scorgere un non troppo velato riferimento all’Ἔρως διδάσκαλος invocato da Fedra nella prima versione dell’Ippolito, il Καλυπτόμενος (cf. TrGF 34 F430), verosimilmente durante la dichiarazione a Ippolito del suo colpevole amore, quindi nel momento in cui maggiormente l’eroina si rivelava una γυνὴ πονηρά, secondo i parametri dell’Eschilo aristofaneo. Piuttosto controversa è la questione se il bersaglio di Aristofane sia, nei versi 1043 ss. delle Rane, il Καλυπτόμενος o lo Στεφανηφόρος: si tende a ritenere il primo, data l’accentuata impudicizia di cui Fedra sembra che desse prova in quella versione. Tuttavia, se è probabile che Aristofane potesse in realtà riferirsi a entrambe le tragedie in questione, è possibile scorgere allusioni più precise, nei vv. 1045 ss., all’Ippolito Στεφανηφόρος; cf. Magnani (2007), 51-53. 139 Su Stenebea e Bellerofonte cf. qui sopra, cap. I.2.
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Capitolo II: L’ispirazione cretese di Euripide: l’Ippolito e i Cretesi
de di andare a cercare “apposta” (ἐπίτηδες) λόγοι in cui ci sia una γυνὴ πονηρά, come Fedra o Melanippe (vv. 546-547).140 Euripide, nell’agone delle Rane, si difende invocando la “verità” (ὄντα λόγον, v. 1052) di ciò che ha composto su Fedra: se dunque per il mito di Stenebea e Bellerofonte sembrano potersi ipotizzare rimaneggiamenti della vicenda da parte di Euripide, quest’ultimo rivendica di essersi attenuto, nel suo Ippolito, a un rigoroso rispetto della tradizione. Il punto in questione non sembra essere tuttavia questo per Eschilo: Euripide avrebbe semplicemente dovuto non trattare quel tema in quanto diseducativo. Eppure non si può certo dire che il teatro eschileo sia privo di donne dalla pessima reputazione, basti pensare a Clitennestra: se Euripide mostra infatti una certa predilezione per la messa in scena di vicende scabrose, egli non è certamente l’unico tragico a averle trattate. D’altra parte, nonostante che non sia certo da escludere una certa tendenza di Euripide a intervenire, più o meno vistosamente, sul mito in modo tale da accentuarne talora un πονηρόν meno percepibile nelle trasposizioni degli altri tragici,141 possiamo comunque sia individuare l’ἀσέβεια (almeno dal punto di vista di Aristofane) delle eroine euripidee, oltre che al livello della loro condotta morale, anche a quello del contesto religioso in cui sono immerse, che appare tale da proporre, spesso, modelli di religiosità lontani da quella che potremmo definire l’‘ortodossia’ attica (seppure con alcune peculiarità, come vedremo in seguito) celebrata invece da Aristofane. La Melanippe euripidea, per esempio, che non sembra nemmeno offrire spunti particolari per parlare di una violazione di qualche codice morale, possiede infatti una σοφία, come abbiamo visto nel precedente capitolo, che sembra sconfinare in una sapienza orfica. È il testo stesso di Aristofane a offrirci tutta una trama di allusioni e citazioni, dalle quali l’ἀσέβεια delle eroine euripidee e, di conseguenza, di Euripide stesso (cf. qui sopra, cap. I.4) emerge in tutta la sua variegatezza. Abbiamo già avuto occasione (cap. I.1.3) di osservare la possibile unità dottrinaria, nel segno 140 Si ricordi l’importanza della parodia della Melanippe saggia nelle Tesmoforiazuse, cf. qui sopra, cap. I.1.3. Sulla possibilità di una parodia dell’Ippolito Καλυπτόμενος in Thesm. 497-501 cf. Cowan (2008), 315-320. 141 La Fedra di Sofocle, che sarebbe posteriore ai due Ippoliti euripidei, benché incentrata sullo stesso mito di questi, avrebbe presentato un dramma costruito assai diversamente, in cui la crisi sarebbe stata provocata cioè da un errore involontario, una ἁμαρτία simile a quella di Deianira nelle Trachinie, come suggerirebbe un frammento (TrGF IV F686) dove si fa riferimento a Teseo creduto morto; la tragedia sofoclea avrebbe dunque rappresentato una nobilitazione e innovazione del mito e della figura di Fedra, dopo le versioni euripidee; cf. Casanova (2007), 19-20.
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§ 1 Da Eleusi all’ἄντρον Ἰδαῖον
dell’orfismo, dei versi euripidei citati da Aristofane in punti, per così dire, ‘strategici’ dello svolgimento delle Rane: fra questi si trovano appunto TrGF 44 F487 dalla Melanippe saggia e il v. 612 dell’Ippolito. Se la Fedra euripidea rappresenta la γυνὴ πονηρά per eccellenza, bisogna dunque anche osservare che la tragedia di cui è il personaggio principale, l’Ippolito (almeno nella versione che ci è pervenuta integra), può essere considerata, in un certo senso, come un ‘manifesto’ di quella problematica religiosità euripidea che abbiamo cominciato a analizzare nel capitolo precedente. Come ha osservato Renate Schlesier,142 infatti, lo scenario religioso costruito da Euripide nell’Ippolito presenta una notevole fusione di elementi demetriaci, dionisiaci e orfici, il cui ruolo sembra assumere un’importanza pari, nello svolgimento della vicenda, a quello delle due divinità dominanti nel dramma, Artemide e Afrodite. Allo stesso tempo, l’asse geografico di tale scenario religioso si sposta lontano da Atene per assumere i contorni di una religiosità cretese legata alla figura di Fedra stessa, figlia di Minosse e Pasifae. Del resto, la scelta stessa di Euripide di ambientare la tragedia a Trezene e non a Atene143 è in questo senso significativa: la morte di Ippolito diventa infatti αἴτιον del culto tributato a Ippolito e all’infelice amore di Fedra per lui dalle fanciulle non ancora sposate nella città di Trezene, culto istituito da Artemide stessa nel finale della tragedia (vv. 1423-1430).144 Indubbiamente diversa è la prospettiva di Sofocle che sembra invece aver ambientato la sua Fedra a Atene, facendo quindi riferimento alla realtà cultuale ateniese (sebbene il culto di Ippolito a Atene non avesse la stessa importanza di quello di Trezene).145 L’operazione di Euripide di porre in secondo piano Atene anche dal punto di vista religioso è del resto evidente fin dal prologo della tragedia,
142 Cf. Schlesier (2002), 51-52. 143 L’ambientazione a Trezene sarebbe comune a entrambi gli Ippoliti euripidei, cf. Kannicht, TrGF V.1, 466. 144 Sul culto trezenio di Ippolito, di cui ci parla, oltre a Euripide, anche Pausania (II.32.1-4), e sulla sua relazione con quello ateniese, cf. Barret (1964), 3-10. 145 Sulla possibilità che Sofocle avesse sfruttato la versione del mito secondo cui Ippolito sarebbe risorto a opera di Asclepio per promuovere il culto del dio a Atene, cf. Gelli (2007), 23-37 (che infatti propone anch’egli per la tragedia sofoclea una datazione successiva a entrambi gli Ippoliti di Euripide sulla base dell’epoca dell’introduzione del culto di Asclepio a Atene, cf. nota 141); del resto l’importanza acquisita da Asclepio nella realtà cultuale ateniese trova conferma nell’introduzione, all’interno delle celebrazioni dei Misteri eleusini, a partire dal 421 a.C., della cerimonia degli Epidauria in suo onore e in commemorazione della sua purificazione (cf. Mylonas (1961), 251).
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Capitolo II: L’ispirazione cretese di Euripide: l’Ippolito e i Cretesi
in cui Afrodite si presenta sulla scena per raccontare come e perché abbia fatto nascere in Fedra l’amore per il figliastro Ippolito. Come mette ancora in rilievo Renate Schlesier,146 il momento dell’innamoramento di Fedra per Ippolito aveva coinciso, secondo quanto riferisce Afrodite, con il culmine di una cerimonia religiosa, e precisamente dei Misteri eleusini (vv. 24-33): ἐλθόντα γάρ νιν Πιτθέως ποτ᾽ ἐκ δόμων σεμνῶν ἐς ὄψιν καὶ τέλη μυστηρίων Πανδίονος γῆν πατρὸς εὐγενὴς δάμαρ ἰδοῦσα Φαίδρα καρδίαν κατέσχετο ἔρωτι δεινῷ τοῖς ἐμοῖς βουλεύμασιν. Καὶ πρὶν μὲν ἐλθεῖν τήνδε γῆν Τροζηνίαν, πέτραν παρ᾽ αὐτὴν Παλλάδος, κατόψιον γῆς τῆσδε, ναὸν Κύπριδος ἐγκαθείσατο, ἐρῶσ᾽ ἔρωτ᾽ ἔκδημον, Ἱππολύτῳ δ᾽ ἔπι τὸ λοιπὸν ὀνομάσουσιν ἱδρῦσθαι θεάν. Come osserva ancora la Schlesier, infatti, i vv. 24-28 non ci informano soltanto dell’iniziazione ai Misteri di Eleusi di Ippolito (a questi infatti non può che riferirsi l’espressione σεμνὰ147 μυστήρια della “terra di Pandione”148), ma anche di quella di Fedra. Se il testo parla della venuta di Ippolito “dalla dimora di Pitteo” (cioè da Trezene) “alla terra di Pandione” (cioè in Attica)149 per “la visione e i riti dei misteri”, lasciando apparentemente nell’indeterminatezza il momento preciso in cui “Fedra fu presa nel cuore da un tremendo amore”, possiamo individuare nei termini legati al “vedere” presenti nei vv. 24-28 una sorta di linea guida, che ci permette di collocare l’innamoramento proprio al culmine dei Misteri di Eleusi, a cui evidentemente avrebbero partecipato entrambi i personaggi. Euripide non poteva parlare esplicitamente di una tale circostanza – il momento più sacro dell’intera celebrazione, avvolto da un’ineludibile segretezza –, ma non esita a alludervi per mezzo di un complesso sistema di risemantizzazioni 146 Cf. Schlesier (2002), 52-53. 147 L’aggettivo σεμνῶν, in forte enjambement se riferito a δόμων, si trova d’altronde in una posizione ambigua, essendo riferibile anche a μυστηρίων, a cui lo avvicinano senz’altro più forti affinità semantiche. 148 Sulla non casualità del riferimento a Pandione, cf. Schlesier (2002), 53, nota 8, dove la studiosa ripercorre inoltre brevemente la discussione precedente sul problema della contemporanea iniziazione di Fedra e Ippolito. 149 Sulla denominazione “terra di Pandione” come riferita all’intera Attica (comprendente quindi anche Eleusi) e non alla sola Atene, cf. ancora Schlesier (2002), 53, nota 8.
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§ 1 Da Eleusi all’ἄντρον Ἰδαῖον
del concetto di “vedere”. Possiamo infatti approfondire le osservazioni della Schlesier, considerando come dal nesso ἐς ὄψιν καὶ τέλη μυστηρίων, riferito a Ippolito e al momento particolare della cerimonia misterica consistente nell’ἐποπτεία, ossia la “visione” (l’ὄψις appunto) degli ἱερά,150 si passi alla menzione di Fedra, “che vede” a sua volta, ἰδοῦσα, Ippolito stesso e, presa dall’amore frutto di quella visione, fondi poi un tempio dedicato a Afrodite, che sarà quindi detta “ἐπὶ Ἱππολύτου”, in un luogo indicato come πέτραν παρ᾽ αὐτὴν Παλλάδος, κατόψιον γῆς τῆσδε (ossia Trezene). All’Attica e al culto eleusino si sostituisce un’altra dimensione cultuale, che guarda verso Trezene e Afrodite: come infatti all’ὄψις degli ἱερά si sostituisce, in un certo senso, per Fedra quella di Ippolito, così il tempio che fonda “guarda” anch’esso (κατόψιος è un derivato di ὄψις, da cui la trafila era partita, composto con κατά) lontano dall’Attica, verso sud (κατα-) e, in particolare, verso Trezene. La fondazione del culto di Afrodite e Ippolito a Atene si ricollega inoltre, in una sorta di Ringkomposition, a quella, annunciata alla fine del
150 Non intendiamo qui soffermarci sulla questione, ancora aperta, dell’identificazione degli ἱερά del culto eleusino, portati in una κίστη da Eleusi a Atene e poi da Atene a Eleusi e dei quali almeno alcuni verosimilmente legati alla suprema rivelazione affidata allo ierofante: benché ci sia un certo consenso intorno all’idea (basata sulla testimonianza di Ippolito, Ref. V.8.39-40) che nei riti di Eleusi dovesse comparire a un certo punto una spiga di grano falciata, più difficile è stabilire se essa facesse o meno parte degli ἱερά, se fosse mostrata agli iniziati nel momento culminante dell’ἐποπτεία (cf. Burkert (1981) 201-202; (1990), 68; (2010), 516-517), o se avesse un diverso ruolo per esempio alla conclusione della ricerca di Kore (cf. Sourvinou-Inwood (2004), 34-37). D’altronde Mylonas sembra propenso a ritenere che gli ἱερά, rivelati agli ἐπόπται dallo ierofante durante l’ἐποπτεία, fossero «small relics from the Mycenaean age» (cf. Mylonas (1961), 273-275); cf. del resto Burkert (2010), 513-514, che, sulla base di un passo di Teofrasto (in Porph. De abst. II.584a), propone di indentificare gli oggetti contenuti nella κίστη con gli antichi strumenti usati per la lavorazione del cereale, ossia pestello e mortaio, con cui, secondo Burkert, il fedele doveva preparare il ciceone. Una conferma di questa ipotesi è stata trovata da Michael Janda (cf. Janda (2000), 54 ss.) nella ricostruzione etimologica del nome di Trittolemo come “colui che pesta il miglio nel mortaio”. Gli ἱερά, intesi come pestello e mortaio, potrebbero comunque sia essere legati, piuttosto che alla preparazione del ciceone, come propongono Burkert e Janda, sulla base del σύνθημα riportato in Clem. Al. Protr. II.21.1, proprio al momento dell’ἐποπτεία e alla suprema rivelazione, consistente appunto nel “mostrare” agli adoratori gli ἱερά, come suggerisce Mylonas (1961), 273 ss., la cui ipotesi relativa a «reliquie» antichissime appare verosimile, soprattutto se si considera che tali reliquie erano venerate come gli oggetti donati dalla dea stessa. Tutto questo non esclude che una spiga di grano potesse essere presente nell’azione rituale in cui erano coinvolti gli ἱερά o che facesse essa stessa parte di questi ultimi.
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dramma, del culto di Ippolito a Trezene: qui infatti, come ci riferisce Pausania (II.32.2), nel recinto di Ippolito si trovava il tempio di Afrodite (speculare a quello ateniese di Afrodite ἐπὶ Ἱππολύτου) Κατασκοπία, un nome che sembra in qualche modo in rapporto, al di là del valore eventualmente diverso assunto da κατά nei due casi, con il κατόψιος di Euripide. Nella scena descritta da Afrodite non assistiamo del resto solo a uno spostamento geografico dell’asse religioso da Demetra e Eleusi a Afrodite e Trezene: i misteri della dea vengono infatti anche ‘violati’, nel loro momento più sacro, dall’intervento di Afrodite, con la trasformazione dell’ὄψις cultuale in ὄψις amorosa. In questo senso possiamo davvero parlare di ἀσέβεια euripidea, in relazione a questo traviamento del culto attico per eccellenza nella sua essenza più profonda.151 § 1.2 Lo scenario metroaco della parodo dell’Ippolito Secondo l’interpretazione della Schlesier, d’altra parte, il modello demetriaco continuerebbe a agire in tutto lo svolgimento del dramma, a partire proprio da questa sovrapposizione di “visione” misterica e “visione” amorosa durante la cerimonia eleusina. Non solo la sofferenza di Fedra sarebbe sia descritta dal coro sia direttamente rappresentata sulla scena in base al modello del dolore di Demetra nell’inno omerico, ma il rapporto fra le due figure di Fedra e Ippolito si svilupperebbe sulla falsariga di quello fra Kore e Ade. Da una parte infatti Fedra, nel suo delirio, rappresenterebbe se stessa come una Kore che però ‘desidera’ di essere rapita da Ade (Ippolito, nel caso specifico), come dimostrerebbero l’appellativo di κούρα rivoltole dal coro (v. 141) e le immagini d’oltretomba dominanti nel delirio della donna (su cui cf. avanti § 2.1.1). Dall’altro lato – in particolare nella seconda parte del dramma – appare Fedra stessa, in quanto artefice della morte di Ippolito, nel ruolo di Ade, mentre il giovane in quello di Kore, come 151 Sulla relazione fra eros e opsis cf. anche il primo stasimo della tragedia (cf. vv. 525-526); la sovrapposizione fra esperienza misterica e esperienza amorosa nell’animo di Fedra è confermata dal fatto che nel seguito della tragedia Fedra serbi il segreto del suo amore proprio come se si trattasse di un segreto misterico (cf. Schlesier (2002), 53). Sulla possibilità di un «parallelo fra misteri sacri e profani», entrambi ἀπόρρητα (l’ὄψις dei Misteri di Demetra anticiperebbe per Ippolito, pur senza prepararlo davvero, il passaggio a quelli di Afrodite) e sull’interpretazione della dicotomia fra nascondere e rivelare l’indicibile in un’ottica misterica, cf. anche Zeitlin (1985), 84-86; 201, note 81-82, dove tuttavia si attribuisce un’assoluta preminenza ai misteri di Afrodite, senza riconoscere nella tragedia una pari incidenza di quelli di Demetra e Dioniso.
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aveva del resto suggerito il suo ingresso in scena, quando lo troviamo cioè intento a raccogliere fiori su un prato.152 Eppure, come già nel prologo abbiamo osservato un allontanamento dalla dimensione religiosa eleusina, analogo movimento può essere individuato nella parodo della tragedia. È innegabile che nell’ingresso in scena di Ippolito il modello eleusino della Kore che raccoglie fiori ignara della sventura che la attende operi ancora fortissimo, così come risulta presente tale modello nella prima coppia strofica della parodo in relazione alla figura di Fedra: ai vv. 135-138 il coro parla infatti del rifiuto del “grano di Demetra” (la dea viene dunque esplicitamente menzionata) da parte di Fedra e quindi di un’astinenza dal cibo che ha una stretta relazione sia con quella di Demetra in h. Cer. 49-50 sia con quella rituale degli iniziati nel corso della celebrazione dei misteri di Eleusi.153 A partire tuttavia dalla seconda coppia strofica il coro enumera le divinità che possono essere ritenute responsabili del presente stato di sofferenza della donna, ritenuta ἔνθεος (v. 141), e precisamente nomina in successione Pan, Ecate, i Coribanti, la Μάτηρ ὀρεία e infine la divinità cretese Dictinna (vv. 142-146). Si tratta in effetti di una vera e propria sostituzione al modello demetriaco di un altro modello, riconducibile a altre realtà religiose e cultuali, in particolare cretesi, come rende evidente la specifica menzione di Dictinna, divinità spesso associata a Artemide, ma indissolubilmente legata a Creta.154 Se dunque nella prima coppia strofica della parodo, in una sorta di continuità con il prologo (che, pure, come abbiamo visto, già metteva in discussione la centralità del culto eleusino), sembrano dominare ancora immagini tratte dalla sfera demetriaca, la seconda coppia sembra piuttosto aprirsi a una dimensione religiosa che pare metroaca e cretese piuttosto che demetriaca e eleusina. Le divinità menzionate dal coro costituiscono infatti un vero e proprio corteggio metroaco, di cui fanno parte, oltre alla Madre Montana, i Coribanti (tra l’altro proprio in relazione al contesto cultuale di Creta), Pan, Ecate e Dictinna.
152 Cf. Schlesier (2002), 53-57. Sullo ‘scambio di ruoli’ fra Ippolito e Fedra cf. anche Zeitlin (1985), 64-67. Sulla relazione fra Ippolito e Kore nella scena del λειμών cf. inoltre Cairns (1997), 60-70 (cf. in particolare 62-63). 153 Sul rapporto fra la vicenda narrata dall’inno omerico e le azioni rituali che si svolgevano durante la celebrazione dei Misteri di Eleusi, cf. Sfameni Gasparro (1986), 59-62. 154 Cf. Jessen, RE s.v. “Dictynna”, 584-588: il santuario della dea, il Dictynnaion, era collocato nella parte occidentale dell’isola, fra Cidonia e Falasarna, ma abbiamo testimonianze di un culto a lei tributato anche in altre aree del mondo greco, sia come divinità indipendente sia identificata con Artemide (cf. avanti, § 1.2.4).
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Si consideri la strofe della seconda coppia strofica della parodo dell’Ippolito (vv. 141-150): † σὺ γὰρ † ἔνθεος, ὦ κούρα, εἴτ᾽ ἐκ Πανὸς εἴθ᾽ Ἑκάτας ἢ σεμνῶν Κορυβάντων φοιτᾷς ἢ ματρὸς ὀρείας; † σὺ δ᾽ † ἀμφὶ τὰν πολύθηρον Δίκτυνναν ἀμπλακίαις ἀνίερος ἀθύτων πελανῶν τρύχῃ; φοιτᾷ γὰρ καὶ διὰ λίμνας χέρσον θ᾽ ὕπερ πελάγους δίναις ἐν νοτίαις ἅλμας. § 1.2.1 La Μήτηρ ὀρεία Il problema dell’identità della figura divina designata di volta in volta nelle fonti con nomi diversi, quali Μήτηρ θεῶν, Μήτηρ ὀρεία o Μεγάλη Μήτηρ, è uno dei più complessi della storia della religione greca: gli studiosi si sono divisi, a partire dall’Ottocento, fra coloro che ritenevano la divinità in questione pienamente greca e coloro che la ritenevano invece importata dal Vicino Oriente, in particolare dalla Frigia.155 Indubbiamente abbiamo a che fare con una divinità per certi versi ambigua, divisa fra un’identità greca e un’identità straniera, come del resto avviene anche per Dioniso (a cui è, come vedremo, frequentemente associata),156 e, per delinearne un ritratto, non si può trascurare né l’influsso orientale né il profondo radicamento della dea nel pantheon greco. I greci, secondo la loro tendenza alla moltiplicazione delle figure divine, che abbiamo osservato nel cap. I a proposito del Cielo, possedevano in effetti numerose divinità riconducibili alla sfera della maternità, quali Gea, Rea, Demetra, Era e, per certi aspetti, Artemide stessa, ma, fra queste, la figura che emerge, nel culto e nelle fonti, quale Μήτηρ θεῶν, è piuttosto
155 Per una ricostruzione della storia degli studi sull’argomento, cf. Xagorari-Gleissner (2008), 8-12. 156 Sulle analogie e differenze della connotazione ‘straniera’ della Madre e di Dioniso, cf. Borgeaud (1996), 54.
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Rea, in quanto madre di Zeus e della generazione divina che succede a quella dei Titani.157 D’altra parte, nella progressiva ‘costruzione’ dell’identità della Madre greca, non può essere trascurato il ruolo rivestito (forse attraverso la mediazione delle città greche della costa ionica158) dalla Matar divinità principale del pantheon frigio, con la conseguenza di connotazioni in senso ‘orientale’ della figura della Madre greca:159 tale relazione particolare sembra trovare una conferma anche nel dato linguistico della notevole affinità, nell’ambito delle lingue i.e., fra il frigio e il greco.160 Il fatto tuttavia che alla Madre greca sia spesso attribuito il titolo di Μήτηρ θεῶν connota tale maternità, a differenza di quello che avviene nel caso della Matar frigia,161 in senso principalmente divino:162 la dea madre per eccellenza tende a identificarsi, in Grecia, con la madre di Zeus, padre, a sua volta, nonché re, di tutti gli dei.163 157 Cf. Roller (1999), 170-171. Non è d’altra parte un caso che la Terra, rappresentata nel Filottete di Sofocle (vv. 391-402) con gli attributi tipici della Madre degli dei, ossia i leoni, sia invocata come μᾶτερ Διός. Sulla ricorrenza del leone nell’iconografia delle divinità femminili greche, cf. avanti. 158 Cf. Roller (1999), 119-141, a favore dell’‘importazione’ della figura della Μήτηρ dal Vicino Oriente. 159 Occorre in ogni caso tenere presente che, se la tendenza predominante appare quella a identificare Madre di Zeus / Madre degli dei / Madre frigia, quest’ultima poteva essere anche sentita affine, a seconda delle diverse tradizioni locali, anche alle altre divinità ‘madri’ del pantheon greco, fra cui, come vedremo (cf. avanti, cap. III.2.2), Demetra stessa – un’identificazione senza dubbio problematica da un punto di vista mitico e cultuale. Sulla relazione fra la Terra e la Madre degli dei, cf. Arrigoni (1982), 29-30; Roller (1999), 169-170. Quanto all’identificazione fra Demetra e la Terra, cf. Eur. Phoen. 685-686 e Bacch. 275-276. 160 Cf. al riguardo Brixhe (1994), 165-178, in particolare, 176-177. Sulla relazione di questa divinità con figure divine ittite e neo-ittite, cf. Roller (1999), 42-53. 161 Sull’iconografia della Matar frigia come volta a esaltare, piuttosto che l’idea della fertilità o della maternità, quella di una dea «madre del mondo naturale», capace di esercitare potere e protezione su di esso, cf. Roller (1999), 114. 162 Una matere teija compare del resto già in età micenea, come dimostra una tavoletta in Lineare B (PY Fr 1202.B); cf. Xagorari-Gleissner (2008), 18; contro la relazione di questa testimonianza con la Madre degli dei di età classica, cf. Roller (1999), 134. 163 Il breve inno omerico dedicato alla Madre (per la cui datazione alla fine del VI sec., cf. Roller (1999), 123), presenta tuttavia la dea come μήτηρ πάντων τε θεῶν πάντων τ᾽ ἀνθρώπων (per cui cf. anche Pindaro, Nem. VI.1 ss.; sulla peculiarità di tale invocazione nell’ambito della religione e dello scenario mitologico greco, cf. Burkert (2010), 346). Si insiste qui dunque su una maternità indicata come universale, che potrebbe avere qualche legame con la Matar frigia; è d’altra parte interessante che la dea sia invocata come Διὸς θυγάτηρ (v. 2), così da stabilire una
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Se sembra dunque legittima la linea interpretativa secondo cui la Μήτηρ greca farebbe fin da principio parte del pantheon greco e sarebbe stata solo successivamente identificata con la dea frigia,164 è comunque sia innegabile la condivisione, da parte di queste divinità ‘madri’, di molteplici elementi, frutto di una comune eredità o di un’influenza dell’una sull’altra. Fra questi elementi comuni, in età classica, riveste per esempio un ruolo preminente il legame con la montagna e con la natura selvaggia:165 il nome della dea frigia, Matar (“Madre”), è talora accompagnato dall’epiteto kubileya (da riferirsi alla sfera montana), laddove il mondo greco166 conosce, oltre alla Μήτηρ θεῶν, anche “Cibele” (non necessariamente identificata con la prima)167 e la Μήτηρ ὀρεία, nome, quest’ultimo, che sembra riflettere una consapevolezza, da parte dei greci, della relazione dell’epiteto kubileya
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relazione con Zeus sulla base di un’inversione (ci si aspetterebbe che la dea fosse la madre e non la figlia di Zeus) che trova un confronto nelle formule verosimilmente i.e. del tipo “padre del padre”, attestate in ambito vedico e riscontrabili in Grecia, secondo l’ipotesi di Lazzeroni (1974), in un controverso passo omerico, Il. I.401-404. Osserviamo infine che la dea viene accomunata, nel canto, alle altre θεαί (v. 6), esattamente come avviene per Artemide nel suo inno (cf. h. Dian. 7), a dimostrazione della vicinanza fra queste due divinità; sulla questione cf. Borgeaud (1996), 28-29. Per il resto la Μήτηρ è presentata sulla base degli elementi che normalmente le sono graditi, nel culto e nell’iconografia (ἰαχή di κρόταλα, τύπανα, βρόμος di αὐλοί, κλαγγή di leoni e lupi e lo scenario naturale di monti e foreste, cf. v. 5). Cf. Borgeaud (1996), 36-39; 46-51, dove, per spiegare la realtà del culto metroaco attico, se ne ricerca l’origine in un’ «antica figura greca», «garante di giustizia» (appartenente allo stesso ambito a cui appartengono la Terra e Themis), alla quale si cercò di sovrapporre una dea straniera. In Robertson (1996) si individua invece nella madre di Zeus l’identità della dea madre greca: se forse Robertson sembra troppo incline a trascurare l’influsso della Matar frigia nello sviluppo del culto metroaco nel mondo greco, è forse troppo sbrigativa, a sua volta, Lynn Roller nell’esprimere un parere negativo sulle sue conclusioni (cf. Roller (1999), 121, nota 2). Cf. infine Xagorari-Gleissner (2008), 97-98, dove si insiste sul carattere «vielfältig» della Madre greca, in cui si riconoscono i tratti delle divinità madri della tarda età del bronzo. Per un’indagine in questo senso sulla dea frigia, cf. Roller (1999), 108-115. Sul nome della dea nel mondo greco, cf. Roller (1999), 122-125. La presenza del nome “Cibele”, nel mondo greco, è testimoniata da un’epigrafe di Locri Epizefiri già per il VII-inizio VI sec. (cf. Guarducci (1970), 133-138). In ambito letterario si osserva, per il VI sec., una certa confusione fra i nomi Κυβέλη e Κυβήβη (su quest’ultimo cf. Roller (1999), 44-53): Semonide (fr. 36 West) avrebbe parlato, secondo Fozio, del κύβηβος come μητραγύρτης (sacerdote itinerante della dea); Ipponatte invece, nel fr. 127 West, menziona nello stesso verso la figlia (κούρη) di Zeus Κυβήβη (cf. qui sopra, nota 163 su Διὸς θυγάτηρ nell’inno omerico alla Μήτηρ) e la tracia Bendis, mentre, nel fr. 156 West, identi-
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con la montagna. Attributi caratteristici di questa dea dello spazio non civilizzato sono quindi i leoni e il timpano, riconducibile alle fiere e al loro ruggito. Eppure, sebbene da questo punto di vista possa essere percepito l’influsso della Matar frigia sulla dea greca, occorre anche osservare come alcuni dei tratti caratteristici della Μήτηρ sembrino radicati nella cultura greca o, quanto meno, nelle culture in genere dell’area egea. Si pensi per esempio alle rappresentazioni minoiche di una figura femminile fiancheggiata da leoni168 o al tipo della πότνια θηρῶν, accompagnata appunto da una coppia di leoni rampanti, attestata, fin dall’VIII-VII sec. a.C., nella ceramica greca, beotica nello specifico:169 tali attestazioni di una πότνια θηρῶν, precedenti a quelle più direttamente riconducibili alla Madre degli dei, risalenti al primo VI sec.,170 dimostrano come figure affini alla madre anatolica fossero già presenti nell’ambito della cultura greca. I leoni stessi, in quanto animali fica una Κυβελίς con Rea (la figura del pantheon greco più stabilmente identificata, a partire dal V sec., con la dea frigia), venerata nella città frigia di Κύβελλα (sarebbe questa la prima attestazione letteraria del nome “Cibele”, nonché dell’identificazione con Rea): sembrerebbe che Ipponatte avesse operato una distinzione fra una Cibele madre di Zeus e una Cibebe figlia di Zeus (Afrodite?); su tali testimonianze, cf. comunque sia Roller (1999), 124-125; per una discussione su altre possibili testimonianze anteriori e posteriori al V sec., cf. Arrigoni (1982), 45, nota 47; 57, nota 117; Lehnus (1979), 120, nota 66. Sulla relazione fra Cibele e Afrodite cf. Näsström (1998), 29-41; sulle associazioni iconografiche e cultuali fra la Madre degli dei e Afrodite, cf. Xagorari-Gleissner (2008), 35-36: non è da escludere forse che il riferimento stesso alla Madre Montana nella parodo dell’Ippolito implichi anche un avvicinamento fra queste due sfere religiose. 168 Cf. Roller (1999), 134-135. 169 Sulle testimonianze relative alla πότνια θηρῶν beotica, cf. Schachter (1981-1994), III, 3; sull’importanza del culto metroaco in Beozia, cf. Schachter (1981-1994), II, 125-142; sul rapporto fra tale culto e la πότνια θηρῶν, cf. Von Rudloff (1999), 41; Roller (1999), 135-136. Poiché la dea del pantheon greco che maggiormente eredita i tratti della πότνια θηρῶν è Artemide (che si sovrappone infatti talora alla dea madre anatolica soprattutto nelle città ioniche, dove Artemide acquisisce appunto un ruolo preminente), sembra quasi che le due dee si trovino in concorrenza nel loro ruolo di signore della natura selvaggia: i rispettivi inni omerici (su cui cf. qui sopra, nota 163 per aspetti di sovrapponibilità delle due figure divine) ci presentano del resto una sottile differenziazione nel fatto che, mentre la “Madre degli dei e degli uomini” sembra mantenere l’aspetto positivo e gioioso del rapporto con gli animali feroci (cf. v. 4), Artemide manifesta piuttosto l’aspetto negativo, in quanto, secondo come ce la presenta l’inno omerico a lei dedicato, la κλαγγὴ θηρῶν di cui risuona la foresta ha un carattere δεινός poiché la dea, in questo caso, è descritta come θηρῶν ὀλέκουσα γενέθλην (vv. 7-10). 170 Sulle prime attestazioni del culto della dea, nella forma di piccole statuette votive, nel mondo greco, ritrovate nelle città ioniche sulla costa occidentale dell’A-
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favoriti dalla dea, risultano essere profondamente radicati nell’iconografia greca, non solo in relazione alla Madre degli dei: possiamo menzionare qui, a titolo di esempio, un’anfora ateniese a figure rosse (480-470 a.C.), conservata al Martin von Wagner Museum di Würzburg, dove compare Atena con uno scudo su cui è raffigurato appunto un leone.171 Quanto al timpano, benché fosse sentito dai greci di età classica come un’importazione cultuale frigia (cf. Eur. Bacch. 58-59), data la sua origine orientale, esso sembra conoscere in realtà solo nel mondo greco un ruolo preminente nel corredo della Madre, assente invece in Frigia.172 Se risulta quanto meno problematico tentare di far risalire alla comune origine i.e. di greci e frigi173 i tratti comuni di queste divinità femminili ‘madri’ dell’area egea, legate allo stesso tempo alla sfera della natura selvaggia, l’ipotesi di una divinità identificabile come ‘madre di dei’ non sembra però illegittima per il mondo i.e. e il postularla permette di dar meglio ragione dell’esistenza del concetto di Μήτηρ θεῶν come originario nel pantheon greco. Il mondo vedico ci offre infatti la possibilità di stabilire almeno un confronto, esterno al mondo egeo, con una figura materna che presenta una strettissima affinità con la Rea greca: si tratta della dea Aditi, madre di un gruppo di divinità ‘antiche’ in quanto precedenti alla generazione di Indra e designate in modo sorprendente attraverso il metronimico āditya;174 fra questi ‘antichi dei’ sono annoverati il Cielo (cf. cap. I.1.1.2) e Varuṇa. Il confronto con Rea, madre di quegli dei che rappresentano in Grecia il corrispettivo del Cielo vedico e di Varuṇa, ossia Zeus, Posidone e
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natolia e sullo sviluppo dell’iconografia greca della dea, cf. Roller (1999), 125-134; sulle prime attestazioni, in particolare, dell’immagine della dea seduta in un ναΐσκος, provenienti dall’Asia Minore e databili al primo VI sec., e sulla diffusione in Grecia di questo modello iconografico non solo per la Madre degli dei, cf. Xagorari-Gleissner (2008), 25-36. Cf. inoltre Roller (1999), 128-131, da cui emerge che all’affermazione dei leoni come compagni della dea nel mondo greco corrisponde una loro decisa sporadicità nel mondo frigio, dove la Madre compare più spesso in compagnia di uccelli rapaci, e che sarebbe stata piuttosto la mediazione lidia a favorire la diffusione del leone nell’iconografia greca; sulla diffusione dell’attributo del leone, nel mondo greco, per numerose divinità femminili, cf. Xagorari-Gleissner (2008), 36-37. Cf. Roller (1999), 136-137; Xagorari-Gleissner (2008), 37-39. Cf. Roller (1999), 43 ss.. L’esistenza stessa di un metronimico ci conferma l’importanza e l’antichità di questa dea; in Grecia non possiamo più apprezzare alcuna traccia di questa fase culturale, in quanto i figli di Rea sono normalmente chiamati secondo il patronimico “Cronidi”.
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Ade appare legittimo.175 Nonostante che l’analisi linguistica non ci permetta di stabilire ulteriori e più forti relazioni, potremmo ipotizzare che la complessa personalità della dea madre greca perpetuasse anche questi tratti di un’antica figura madre i.e.. Per quel che concerne infine l’aspetto cultuale della devozione tributata alla Madre degli dei in Grecia, vi si può rintracciare, nonostante che si tratti di una dea legata allo spazio non civilizzato, almeno in alcune città, fra cui Atene stessa, una rilevante dimensione pubblica (che sembra emergere anche in Frigia):176 è proprio in particolare la presenza di un μητρῷον nell’agorà di Atene, con la funzione di archivio pubblico (su cui torneremo in cap. III), che sembra indurre a dubitare di una piena identificazione della Madre degli dei greca con una divinità straniera e a sostenere l’ipotesi di una divinità originariamente greca,177 divenuta anzi una delle principali divinità nelle πόλεις greche, dotata di feste a lei specificamente dedicate, l’una primaverile (Galaxia)178 e l’altra estiva (Kronia), entrambe attestate per Atene. Del resto, l’eziologia mitica delle feste pubbliche ascrivibili alla Madre degli dei nel mondo greco sarebbe collegabile, in casi significativi, alla
175 La legittimità di questo confronto potrebbe emergere anche da altri più specifici aspetti: Aditi, come la Madre greca, è talora identificata con la Terra, a sottolinearne il carattere di una maternità primigenia; anche l’identificazione con una vacca e la relazione con il latte permettono di stabilire un legame con la Madre greca, venerata appunto nei Galaxia e associata alla dimensione bucolica dell’allevamento (significativo è a questo proposito il confronto con RV IX.69.3). Ricordiamo infine la relazione di Aditi con il Soma (cf. per esempio RV IX.89.1), la bevanda divina che ha una funzione cultuale non dissimile da quella del vino nelle cerimonie dionisiache, il che sembra ricordare la prossimità della Madre greca alla sfera dionisiaca. Per una dettagliata disamina delle testimonianze relative a Aditi, cf. Oberlies (1998-1999), I, 231-234. 176 Per un’interpretazione del culto della Μήτηρ in età arcaica come destinataria di una devozione perlopiù privata (sulla base della dimensione ridotta delle statuette votive) e legata alla dimensione della natura selvaggia (i suoi più antichi santuari, a Deskalopetra, Chio e Focea, del tardo VI-inizio V sec. a.C., sono collocati al di fuori dell’area urbana e consistono in formazioni rocciose naturali), cf. Roller (1999), 137-141; per un’analisi dei luoghi di culto della dea in quanto riconducibili alla tradizione degli Herdhäuser della prima età del ferro, che avevano funzioni sia sacre sia profane, cf. Xagorari-Gleissner (2008), 69-93. 177 Cf. Borgeaud (1996), 36-39; Xagorari-Gleissner (2008), 23-24. 178 Sulle testimonianze relative ai Galaxia a Atene (in verità tutte successive al IV sec. a.C.; cf. al riguardo Xagorari-Gleissner (2008), 61), cf. Robertson (1996), 242, nota 2; sulle caratteristiche della festa in generale, da collegare, a quanto pare, al culto della dea sull’agorà, cf. Robertson (1996), 256-263; Borgeaud (1996), 36.
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nascita e all’allattamento di Zeus e riconducibile quindi direttamente a Rea.179 A partire dalla seconda metà del V sec. dobbiamo comunque sia registrare la crescita, nelle fonti greche, della percezione del carattere straniero della figura della Madre degli dei più o meno in concomitanza con la presenza di testimonianze relative all’affermazione di un culto metroaco misterico, caratterizzato da danze frenetiche e dalle sonorità fragorose di timpani e cembali (riti orgiastici o entusiastici che non sembrano in realtà direttamente riconducibili né alla fase più antica del culto metroaco in Grecia né alla Frigia180). D’altra parte, il sentimento di avversione, ispirato dall’esperienza delle guerre persiane, per tutto ciò che potesse essere considerato ‘orientale’ (e frigio in particolare181), poteva facilmente riversarsi sugli eccessi del culto metroaco, particolarmente esposti, quindi, all’accusa di un’origine straniera per via della diffidenza che potevano ispirare.182 L’ambiguità insita nella figura della Madre degli dei dunque emerge con partico179 Per questa ipotesi, cf. Robertson (1996), 239-241 (benché il nome “Rea” sia pressoché non attestato nel culto, un’importante eccezione è un culto civico di Cos; cf. Robertson (1996), 239). In particolare, sulla festa dei Kronia ricordata da Demostene nella Contro Timocrate (24.26), cf. Robertson (1996), 272-277; 282-286; Xagorari-Gleissner (2008), 61-62 (sulla relazione di questa festa, per Atene, con il santuario di Agrai, sulla sponda dell’Ilisso, cf. avanti, cap. III). I Kronia avevano luogo durante il solstizio d’estate, il periodo di riposo dei lavori agricoli (specialmente quelli connessi alle colture cerealicole), che si intendeva propiziare proprio celebrando, con una festa dal carattere euforico, una dea capace di esercitare uno speciale controllo sulla natura (cf. Apoll. Rhod. Argon. I.1092-1102 sul mito di fondazione del culto metroaco di Cizico), in particolare su pascoli e sorgenti montane, non intaccate dall’aridità estiva; sulla relazione infine fra i Kronia e i Saturnalia romani, cf. Robertson (2010), 63. 180 Cf. Roller (1999), 141. 181 Sull’identificazione fra frigi e troiani, i nemici per eccellenza dei greci, cf. Roller (1999), 168. Quanto all’identificazione dei frigi con i persiani stessi, si pensi all’iconografia del dio persiano Mitra, rappresentato con il caratteristico berretto frigio. 182 Sui culti misterici in onore della Madre degli dei, caratterizzati da rituali entusiastici, cf. Roller (1999), 149-157, dove viene dato particolare rilievo alla testimonianza di un cratere attico a figure rosse ora a Ferrara (ca. 440 a.C., cf. Roller (1999), 151, nota 27; cf. anche l’interpretazione ‘orfica’ di questa scena proposta in Xagorari-Gleissner (2008), 62-63), la cui raffigurazione rispecchierebbe la descrizione dei rituali misterici a cui, secondo Demostene, avrebbe partecipato Eschine (Dem. De cor. 260): qui il fatto stesso che si tratti di un attacco politico è una prova del diffuso atteggiamento negativo nei confronti di questo genere di espressioni religiose, che pure dovevano, allo stesso tempo, aver conosciuto una notevole affermazione. Sull’alterazione mentale incontro a cui andava il fedele durante tali cerimonie, cf. anche Herod. IV.76; Plut. Marc. 20; Hipp. Morb. sacr.
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lare evidenza soprattutto nel V sec., quando si manifestano nelle fonti sia l’identificazione con Rea sia la percezione che essa sia una divinità ‘di importazione’. Del resto Atene, in questo periodo, conosce una vera e propria invasione da parte di dei e dee stranieri o sentiti come tali (Bendis, Attis, Adone, Sabazio), presi spesso di mira proprio sulla scena comica.183 Se non è possibile parlare di una coscienza sempre presente, specialmente nelle fonti letterarie, della distinzione fra una Madre greca e una Madre frigia,184 il culto sembra in ogni caso serbarne traccia, come dimostra un’epigrafe caria, rinvenuta a Iasos (inv. Iasos n. 8364), da cui risulta che a una 4. Euripide, del resto, nella parodo dell’Ippolito, menziona la Μήτηρ ὀρεία come responsabile del disturbo mentale di Fedra, insieme con altre divinità ugualmente legate a disturbi psichici, quali Pan e Ecate e i Coribanti (per cui cf. Von Rudloff (1999), 123-124; Velardi (1989), 73 ss.); d’altra parte Euripide nei suoi riferimenti ai culti metroaci mostra, piuttosto che avversione, reverenza, concordando in questo con Platone, che condivide spesso con Euripide l’interesse per forme di religiosità ‘straniere’ (si pensi in particolare a Ion. 534a; 536c; Crit. 54d, su cui cf. Roller (1999), 156-157). La Madre degli dei può inoltre presentarsi allo stesso tempo come divinità ‘curatrice’, la veste in cui la invoca Pindaro per Ierone infermo nella Pitica III (vv. 77-79); secondo Apollod. Bibl. III.5.1, Dioniso, reso folle da Era, sarebbe stato curato da Rea, in Frigia sul monte Cibelo (si osservi la compiuta identificazione di Rea con la dea frigia). 183 È proprio la commedia a attestarci tali mutamenti nel panorama religioso ateniese: sappiamo infatti di una satira di θεοὶ ξενικοί in Apollofane (Cretesi, fr. 6 PCG, su cui cf. ora Orth, FrC, IX.1, 386-391; si tratta di una lista di divinità straniere quale sembra essere attestata anche per gli Eroi di Aristofane, fr. 325 PCG, e per il fr. 908 da fabula incerta) e Eupoli (Battezzatori, dove sembra che fossero prese di mira pratiche religiose legate alla dea tracia Cotyto, come ci attesterebbe Giovenale in Sat. II.1, con scolio al passo; cf. frr. 76-98 PCG). Aristofane stesso, nelle Stagioni (cf. in particolare frr. 578; 581 PCG), avrebbe rappresentato il processo e la cacciata da Atene di Sabazio e altre divinità straniere (cf. Cic. Leg. II.37; Dodds (1953), xx-xxii, dove vengono discussi anche i frr. 325 e 908 PCG). 184 Pindaro, per esempio, sembra suggerire una distinzione fra la Madre greca e Cibele (cf. avanti nota 211), anche se non in modo del tutto netto, dato che ci presenta sia una δέσποιναν Κυβέλαν ματήρα (fr. 80 Maehler, dall’Inno a Cibele) sia una Μάτηρ Μεγάλα, accompagnata da κρόταλα e τύμπανα (cf. fr. 70b Maehler, dal Dith. II). Cf. Lehnus (1979), 120-121, in favore dell’identificazione della Μήτηρ pindarica con la frigia Cibele in quanto distinta da Rea: la figura metroaca che compare nella Pitica III, nell’Inno a Pan e nel Ditirambo II sarebbe quindi distinta dalla sposa di Crono di Ol. II.12; Nem. XI.1 e fr. 144 Maehler. Bisogna tuttavia osservare che in questi ultimi tre casi il nome Rea compare nell’espressione standardizzata παῖ Ῥέας, senza che la dea sia presentata con una propria individualità, anche cultuale. Nell’Olimpica II, inoltre, sebbene in un passo tormentato filologicamente, si parla di Crono come πατὴρ μέγας (v. 76), un’espressione speculare rispetto alla Μάτηρ Μεγάλα del Dith. II, venendo detto subito dopo πόσις ὁ [...] Ῥέας, definita a sua volta come πάντων [...] ὑπέρτατον ἐχοίσας
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stessa sacerdotessa era affidato il culto di una Θεῶν Μήτηρ e di una distinta Φρυγία Μήτηρ.185 Da questa trae nuova luce un’epigrafe attica, rinvenuta al Pireo (IG II2 4609, tardo IV sec. a.C.),186 in cui due personaggi dedicano un rilievo a ναΐσκος rispettivamente a una Μήτηρ e a una Μήτηρ θεῶν, pur rappresentate con un’unica immagine: poiché il nome del primo dei due dedicanti, Manes, è interpretabile come frigio, troveremmo anche qui una “Madre” frigia distinta da quella greca, designata appunto come “Madre degli dei”.187 Questa testimonianza confermerebbe dunque anche per Atene, come per Iasos, la volontà, nella coscienza religiosa greca (nonché frigia), di tenere distinte due entità divine pur percepite come profondamente affini. Euripide rappresenta invece per noi un testimone importante per quanto riguarda la tendenza alla commistione di elementi frigi e greci: nelle Baccanti porta infatti sulla scena il culto dionisiaco come originario della Frigia e lo pone in strettissima relazione con il culto, anch’esso frigio, della Grande Madre, a cui viene dato anche il nome di Rea: il coro delle baccanti, nella parodo della tragedia, la invoca indistintamente con i nomi di Μάτηρ Μεγάλα (v. 78), Κυβέλα (v. 79) e Μάτηρ Ῥέα (v. 128). Con quest’ultimo nome si riferisce a lei anche Dioniso stesso nel prologo, quando associa in particolare i τύπανα alla Frigia come “indigeni” di quella terra (τἀπιχώρι᾽ ἐν Φρυγῶν πόλει / τύπανα, vv. 58-59) e “invenzione” (v. 59) di lui stesso e della Madre Rea.188 Il coro delle baccanti, tuttavia, nella parodo, colloca l’invenzione dello stesso strumento in un contesto cultuale diverso da quello della Frigia, ossia Creta: dopo un’invocazione al θαλάμευμα Κουρήτων
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θρόνον (v. 77; nonostante i problemi nella tradizione, su ἐχοίσας θρόνον i codici sono concordi): l’iconografia tipica della Madre degli dei la vede appunto seduta su un trono. Pubblicata per la prima volta in Maddoli (2015), da cui l’esistenza di una Madre greca in quanto distinta da una frigia. Cf. Nafissi (2015), 126 ss.. Sulle testimonianze, quale l’epigrafe del Pireo (messa in relazione, in questa prospettiva, con i rilievi della Μήτηρ a doppio ναΐσκος), che sembrano attestare l’esistenza di due distinte divinità ‘madri’, greca e frigia, cf. Borgeaud (1996), 46-51; sulla relazione fra l’epigrafe caria e quella del Pireo e sull’origine rispettivamente frigia e greca dei nomi dei due dedicanti, cf. Nafissi (2015), 127-128. Euripide ci attesta comunque sia anche altrove la condivisione di strumenti musicali da parte di Dioniso e della Madre degli dei: κρόταλα e τύμπανα (associati alla Madre nell’Inno omerico alla Madre degli dei, v. 3, e, nel contesto di una festa dionisiaca, anche nel Ditirambo II di Pindaro, fr. 70b Maehler, per cui cf. avanti, § 2.1.1) sono dionisiaci nel Ciclope (v. 205) e, significativamente definiti βρόμια, metroaci nel secondo stasimo dell’Elena (v. 1308), in un contesto cultuale frigio in cui poi si inserisce anche Dioniso stesso (cf. avanti, cap. III. 2.1).
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ζάθεοί τε Κρήτας Διογενέτορες ἔναυλοι, le baccanti riconoscono nei Coribanti gli autentici inventori del τύπανον, che si preoccupano comunque sia di associare (κέρασαν, v. 127) “al dolce soffio degli auli frigi”. Le baccanti articolano la più sintetica affermazione del dio nel prologo,189 non solo individuando una sorta di priorità del culto metroaco su quello dionisiaco (il passaggio del timpano, che diviene simbolo della realtà cultuale in questione, va dai Coribanti a Rea e da Rea ai Satiri, cf. vv. 129-134), ma anche ponendo Creta sullo stesso piano della Frigia come ‘patria’ del culto metroaco-dionisiaco.190 La relazione della Madre greca con Creta, ribadita con forza sempre da Euripide anche nei Cretesi (TrGF 41 F472, per cui cf. avanti, § 2.2), appare inoltre dimostrata dai ritrovamenti archeologici sull’isola, in particolare quelli relativi al culto cretese della “grotta dell’Ida” presso Cnosso, che sembrano, almeno in parte, confermare i passi euripidei. A questo santuario è infatti legato il mito della nascita e dell’infanzia di Zeus191 e tale eziologia potrebbe essere congruente con quello che possiamo ricostruire per i culti metroaci diffusi in altre parti del mondo greco (cf. qui sopra): ora, collegando gli oggetti rinvenuti nella grotta (timpano, cembali, statue femminili, trono)192 con il mito della nascita e dell’infanzia di Zeus, sembra garantita la conclusione che la divinità principale adorata nell’antro ideo sia pro189 Sulla contraddizione solo apparente fra i due passi, cf. Di Benedetto (2004), 312-313. 190 Si osservi come Pindaro, nell’Olimpica V, associ al culto di Zeus “salvatore”, sia quello olimpico sia quello cretese dell’antro Ideo, una supplica al suono degli “auli lidi”, stabilendo così un legame fra il culto di Zeus (anche quello cretese) e la musica ‘orientale’. 191 Per una disamina delle testimonianze relative alle diverse Διὸς γοναί, cf. Verbruggen (1981), 31-39; Robertson (1996), 253-269. Sembra comunque sia da collegare al culto della Grande Madre sull’isola anche il cosiddetto “Tempio di Rea” di Festo (risalente al VII sec. a.C.), a cui potrebbe infatti appartenere l’epigrafe della Μεγάλη Μάτηρ (IC I, XXIII.3, II sec. a.C.); cf. al riguardo Pugliese Carratelli (2001), 46-48, che stabilisce una relazione fra i riti del tempio di Rea e quelli misterici dell’antro ideo descritti nella parodo dei Cretesi di Euripide; per una diversa ipotesi cf. Cucuzza (1993), 21-27. 192 Alcuni dei ritrovamenti archeologici del sito dell’antro dell’Ida (per la datazione degli oggetti l’arco cronologico si estende dal IX sec. a.C. dei più antichi al VII sec. a.C. dei più recenti, cf. Verbruggen (1981), 72, nota 12) sono rilevanti al fine del riconoscimento di un culto del tipo di quello descritto da Euripide: 1) un timpano in bronzo (VIII sec. ca. a.C., trovato nello spazio antistante l’entrata della grotta) con la raffigurazione di una divinità barbuta, dai tratti orientali, nell’atto di posare il piede sul collo di un toro e sollevare un leone sopra il suo capo, circondata da due esseri alati intenti, a loro volta, a suonare quelli che paiono cembali; 2) statuette in bronzo raffiguranti uomini, donne e animali; 3) di-
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prio la Madre degli dei.193 Senza trascurare, accanto a tutto questo, la presenza della simbologia del leone (cf. nota 192), anch’essa caratteristica del culto metroaco greco, possiamo dunque scorgere in ambito cretese la fase più antica del culto tributato a una dea madre sul continente nei secoli successivi.194 Nella parodo dell’Ippolito, dunque, la menzione della Madre Montana potrebbe essere finalizzata, oltre che all’individuazione di una causa plausibile del disturbo psichico di Fedra (cf. qui sopra, nota 182), anche all’evocazione di uno scenario cretese, la terra d’origine della donna, a cui il culto metroaco era indissolubilmente legato, come ci dimostra Euripide stesso nella parodo delle Baccanti e, come vedremo avanti, nel fr. 472 dei Cretesi. § 1.2.2 I πρόπολοι della Mήτηρ: Cureti e Coribanti Nella parodo dell’Ippolito, troviamo il nesso [ἐκ] σεμνῶν Κορυβάντων […] / ἢ ματρὸς ὀρείας (vv. 143-144): il riferimento ai Coribanti si inserisce pienamente in un contesto metroaco, in quanto si tratta degli abituali πρόπολοι della dea, danzatori in armi appartenenti alla tradizione sulla nascita e l’infanzia di Zeus (cf. Call. h. Jov. 52-54)195 e legati dunque al mito cretese. Euripide è per noi la prima fonte letteraria a menzionarli con il nome di “Cureti” nei Cretesi, in relazione appunto ai culti cretesi dell’Ida e della Madre Montana (cf. TrGF 41 F472, v. 14), pur senza esplicitare il nesso con l’infan-
schi di bronzo, identificabili con cembali; 4) un ambiente sopraelevato all’interno della grotta, dove si trova una formazione rocciosa interpretabile come un trono e dove Marinatos ha rinvenuto una statua arcaica di una dea seduta (l’iconografia caratteristica della Madre degli dei). Per una ricostruzione delle varie campagne di scavo che hanno portato all’identificazione della grotta sul monte Ida e una descrizione dettagliata delle testimonianze archeologiche, cf. Verbruggen (1981), 71-90. 193 Cf. Robertson (1996), 246-253, in particolare 252-253. Già Verbruggen aveva dato per certo il culto, nella grotta, di una divinità maschile, identificabile verosimilmente proprio con lo “Zeus Ideo” di cui ci parla Euripide nei Cretesi, e di una divinità femminile, «forse» proprio la Μήτηρ ὀρεία della stessa testimonianza euripidea, pur preferendo non avanzare ipotesi sulla loro reciproca connessione (cf. Verbruggen (1981), 78; 99). 194 Sulla presenza di una figura metroaca a Creta e sulle sue relazioni con quella affermatasi sul continente, cf. Roller (1999), 134-135; 172-174. 195 Sulla possibilità o meno di una relazione fra la Madre degli dei e una schiera di danzatori in armi anche senza una diretta connessione con l’eziologia della nascita di Zeus, cf. Robertson (1996), 267-269; 299-302.
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zia di Zeus.196 Nelle Baccanti ritornano ancora nello stesso contesto geografico e cultuale (cf. qui sopra), ma, questa volta, sdoppiati nella duplice denominazione di “Cureti” e “Coribanti” (vv. 120-125): ὦ θαλάμευμα Κουρή- / των ζάθεοί τε Κρήτας / Διογενέτορες ἔναυλοι, / ἔνθα τρικόρυθες197 ἄντροις / βυρσότονον κύκλωμα τόδε / μοι Κορύβαντες ηὗρον. Benché “Cureti” e “Coribanti” possano apparire pressoché sinonimi, sembra in realtà talora percepibile nelle fonti una più diretta relazione Cureti / Creta, Coribanti / Asia Minore:198 l’ambiguo rapporto di assimilazione/identificazione che lega la Madre greca a quella frigia sembra insomma riflettersi anche sui πρόπολοι delle due dee.199 Euripide, ancora una volta, 196 In questo passo è in particolare significativo come il coro, dopo essersi definito μύστης di Zeus Ideo e di Zagreo (cf. avanti, § 2.2), si definisca anche Κουρήτων βάκχος, stabilendo così lo stesso legame fra religione cretese e religione bacchica che ritornerà, molti anni dopo, nelle Baccanti (vv. 120-122). Proprio il passo delle Baccanti (sebbene qui il nesso sia Κουρήτων θαλάμευμα) suggerisce infatti di non intervenire sul testo dei Cretesi (καὶ Κουρήτων βάκχος), data anche l’unanimità della tradizione manoscritta del nostro testimone (nello specifico Porfirio, De abst. IV.19): gli editori dei frammenti della tragedia si dividono fra coloro che stampano il testo tradito (Cantarella) e coloro che preferiscono intervenire con la crux (Kannicht, al cui apparato rimandiamo per le varie proposte di emendamento) o con la congettura di Blaydes e Wilamowitz μετὰ Κουρήτων (Collard, Cropp, Lee (1995), 60). 197 Si osservi l’accordo fra la connotazione guerriera dei Coribanti euripidei, “dal triplice elmo” (con la paronomasia Κορύβαντες / τρικόρυθες) e le testimonianze archeologiche del santuario dell’antro Ideo, fra cui figurano anche numerosi scudi in bronzo, nonché punte di lancia e di frecce (cf. Verbruggen (1981), 72-73). 198 Cf. Verbruggen (1981), 37; sui compagni «musicisti» della Madre frigia, cf. Roller (1999), 110. 199 In questo senso possono essere interpretate le notizie che danno i Cureti per frigi o, seppur legati a Creta, li fanno venire dalla Frigia; nella stessa prospettiva possiamo considerare le testimonianze relative a associazioni di Cureti e Coribanti, pur considerati gruppi distinti, a livello cultuale, come avviene per esempio nel culto della Despoina di Lykosoura, in Arcadia (cf. Paus. VIII.37.6), su cui cf. avanti, nota 206. Per un elenco delle numerose testimonianze che legano i Cureti a Creta, cf. Mele (2001), 234-335, dove si rinvia anche alla tradizione che voleva Epimenide stesso come Cureta. Strabone, pur premettendo la difficoltà di individuare, nella letteratura relativa alla questione, precise differenze fra Cureti, Coribanti e altri gruppi simili o assimilati, come Cabiri, Dattili Idei e Telchini (X.3.7), attribuisce i Cureti al culto cretese di Zeus Ideo (cf. X.3.11) e, quanto ai culti frigi della Grande Madre, osserva che i greci chiamano i πρόπολοι della dea “Cureti” (ma distinguendoli da quelli della tradizione cretese), come anche “Coribanti” (cf. X.3.12); sull’associazione dei Coribanti alla Frigia cf. anche Diod. Sic. V.49.2-3. Cf. Strabone X.3.19-21 per altre notizie, fra loro discordanti, sull’identità di Cureti e Coribanti.
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rappresenta per noi un testimone importante di questa complessa tradizione: se dai Cretesi (almeno per quanto possiamo ricostruire dai frammenti pervenutici) con il loro riferimento ai soli Cureti emergerebbe la volontà di una ricostruzione ‘fedele’ della religione locale (cf. avanti § 2.2), le Baccanti mostrerebbero piuttosto una volontà di assimilazione della realtà greca e frigia, in quanto la collocazione dei Coribanti a Creta si unisce all’attribuzione dell’invenzione del τύπανον in modo che si accordi “al soffio dolce degli auli frigi”.200 Tornando dunque all’Ippolito, il riferimento ai Coribanti, seguito dal riferimento a Dictinna (su cui cf. § 1.2.4), – oltre che consentire una più diretta allusione alla sfera dell’alterazione psichica (cf. qui sopra, nota 182) – sembra riflettere una volontà analoga a quella delle Baccanti, ossia, rappresentare un contesto cultuale cretese, ma connotandolo anche sulla base della sua relazione con l’Asia e in particolare con la Frigia e ribadendone così la dimensione ‘straniera’.201 Che i Coribanti in particolare fossero sentiti come particolarmente lontani dalla realtà cultuale greca lo dimostra comunque sia Aristofane stesso, che, nelle Vespe (vv. 8-9), in un contesto evidentemente ironico, associa alla figura del dio frigio Sabazio (per cui cf. qui sopra) uno stato di delirio analogo a quello indotto dai Coribanti: Ξα. ἀλλ᾽ ἦ παραφρονεῖς ἐτεὸν ἢ κορυβαντιᾷς; / Σω. Οὔκ, ἀλλ᾽ ὕπνος μ᾽ ἔχει τις ἐκ Σαβαζίου.202
200 Questo spiegherebbe, almeno in parte, l’apparente contraddizione con quanto dice Dioniso nel prologo (per cui cf. qui sopra, nota 189), dove si parla dei τύπανα come ἐπιχώρια rispetto alla Frigia (vv. 58-59). Il fatto che le baccanti nella parodo spostino invece a Creta l’invenzione del τύπανον trova d’altra parte un sorprendente riscontro archeologico nella presenza, già nell’VIII sec. a.C., di un esemplare nella grotta cretese dell’Ida (cf. qui sopra, nota 192). 201 Che il culto dell’Ida avesse recepito influssi orientali sembra comunque sia confermarlo, per esempio, il «profilo assiro» (cf. Verbruggen (1981), 72) della divinità barbuta rappresentata sul timpano rinvenuto di fronte alla grotta. 202 Similmente si deve interpretare il riferimento ai Coribanti in Lys. 558, dove Lisistrata si serve dell’immagine della loro danza in armi per descrivere come gli uomini di Atene si aggirino per l’agorà durante “il mercato delle pentole e quello degli ortaggi” ξὺν ὅπλοις appunto ὥσπερ Κορύβαντες. L’appartenenza dei Coribanti a una dimensione religiosa straniera rafforza la connotazione in senso negativo e dispregiativo del paragone fatto da Lisistrata.
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§ 1.2.3 Pan Nello scenario metroaco rappresentato nella seconda coppia strofica della parodo dell’Ippolito sono compresi anche Pan e Ecate, citati, come possibile ‘causa’ della malattia di Fedra (la loro presenza si spiega bene, del resto, in un contesto legato a disturbi mentali, particolarmente femminili, cf. qui sopra, nota 182), immediatamente prima dei Coribanti e della Madre Montana, quasi come se preparassero, in una climax, le due figure principali, dal punto di vista cultuale cretese, dell’elenco, appunto la Madre Montana e Dictinna. La tradizione relativa al legame di Pan con la Madre degli dei è infatti ben attestata a livello sia cultuale203 sia letterario. I due inni omerici dedicati alle due divinità ci presentano sfere di influenza comuni a entrambe, quali il paesaggio montano e la caccia delle bestie feroci (anche se nel caso della Madre degli dei non si parla di caccia), sebbene non sia esplicitato alcun collegamento fra di loro. Pindaro, invece, nel frammentario Inno a Pan204 e nella Pitica III, è esplicito su tale collegamento, che colloca però, nel caso della Pitica III, all’interno di una cornice cultuale non immediatamente riconoscibile.205 Nonostante i problemi relativi all’identificazione di questo culto, l’affermazione di Robertson che l’associazione della Madre alla figura di Pan, nella Pitica III, costituirebbe un indizio del carattere «nativo» della Madre in questione, privo di influenze frigie, sembra condivisibile sotto diversi aspetti.206 In particolare, se nelle testimonianze sia archeolo203 Per la Beozia, cf. Schachter (1981-1994), II, 132-137; 139. 204 Pan si presenta qui (come del resto avviene anche nelle raffigurazioni vascolari) come subordinato rispetto a una divinità principale, in questo caso la Grande Madre, di cui è ὀπηδός (fr. 95 Maehler) e κύων (fr. 96 Maehler), per cui Lehnus ipotizza il senso traslato di “servitore, ministro”; cf. Lehnus (1979), 121-122; 157-162. 205 Pindaro si riferirebbe, secondo Robertson (1996), 263-267, al culto della Madre legato a Tebe come una delle sedi delle Διὸς γοναί, da distinguere dal culto dell’anatolica Μήτηρ Δινδυμένη di cui ci parla Pausania (IX.25.3). Il problema maggiore per la localizzazione e la definizione del culto in questione è posto dai vv. 77-79 della Pitica III, dove si parla di un coro di κοῦραι ἐννύχιαι che intonano inni alla Μάτηρ σὺν Πανί in un luogo definito παρ᾽ ἐμὸν πρόθυρον: per ulteriori interpretazioni, cf. Lehnus (1979), 13-17; Schachter (1981-1994), II, 139. 206 Sono a questo proposito significative le associazioni fra Pan e la Madre in Arcadia, terra di elezione del dio (cf. Pindaro, Inno a Pan, F1 Lehnus = fr. 95 Maehler) e allo stesso tempo connessa con la nascita di Zeus (cf. Robertson (1996), 253-256): nell’area intorno a Megalopoli troviamo per esempio il monte Liceo, una delle sedi della nascita e dell’infanzia di Zeus (cf. Call. h. Jov. 10-17; 32-41; Paus. VIII.36.3; 38.2-3), come pure sede di un importante santuario di Pan
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giche sia letterarie sono frequenti le identificazioni fra la Madre frigia e quella greca (cf. qui sopra), è d’altra parte innegabile che il legame della Madre con Pan possa essere considerato una peculiarità della cultura greca,207 a cui Pan appartiene interamente.208 (Paus. VIII.38.5; cf. inoltre Mele (2001), 267, nota 280). Analogamente si registra la presenza di Pan nel culto della Despoina di Lycosoura, in cui si sovrappongono elementi demetriaci e metroaci, come attesta Paus.VIII.37.2; 10-11: le danze mascherate e orgiastiche, caratteristiche di questo culto, rivelano infatti uno stretto rapporto con la sfera animale e sembrano avvicinarlo a una dimensione metroaca piuttosto che demetriaca, come invece l’identificazione della Despoina, a cui il culto è dedicato, con Kore sembrerebbe suggerire. Il legame di Coribanti e Cureti con il culto (cf. Paus. VIII.37.6), nonché la presenza di un altare della Grande Madre di fronte al tempio (cf. Paus. VIII.38.7) e di motivi decorativi come leoni e timpani rimandano alla stessa sfera religiosa (cf. Jost (2004), 157-164). Robertson (1996), 253-255 collega le cerimonia di Lykosoura alla larga diffusione, in Arcadia, di storie relative alla nascita di Zeus. 207 L’associazione Madre-Pan, nell’ambito della cultura greca, potrebbe emergere anche dalla genealogia stessa del dio che Pindaro gli avrebbe attribuito nell’Inno, facendolo figlio di Penelope (cf. F2 Lehnus = fr. 100 Maehler): nonostante l’incertezza dei nostri testimoni sulla paternità, se di Ermes o Apollo, il fatto che concordino sulla maternità di Penelope è senz’altro significativo. La sposa di Odisseo, infatti, al di là di ipotesi paretimologiche (cf. Lehnus (1979), 146-148; per la discussione completa sulle testimonianze in questione cf. 127-149), potrebbe rappresentare un’ipostasi della Grande Madre proprio per le tracce, indissolubilmente legate alla sua figura, di eroina appartenente a una società matriarcale (che ha quindi come punto di riferimento del proprio pantheon una divinità materna), in cui la scelta dello sposo spetta esclusivamente alla donna (si pensi alla prova con l’arco imposta ai proci o l’indovinello stesso posto a Odisseo prima del riconoscimento). Già Vittore Pisani (cf. Pisani (1938), 207) aveva studiato la figura di Penelope in relazione a quella di Draupadī nel Mahābhārata, interpretando il tema della scelta del marito, che lega le due eroine, nell’ottica della sostratistica: ci troveremmo dunque di fronte a quell’eredità indo-mediterranea a cui, seppure da una diversa prospettiva, accenna anche Lehnus parlando di una Penelope πότνια θηρῶν madre del τράγος Pan, che «parrebbe tradurre in storia mitica il motivo religioso “mediterraneo” del rapporto tra la Grande Dea della fertilità e il suo paredro animale» (p. 148). Eppure, come è stato ipotizzato più recentemente, la questione potrebbe essere anche considerata in una prospettiva indoeuropea (cf. Allen (2002), 305-312), sostenuta per esempio dal carattere trifunzionale dei mariti di Draupadī (cf. Polomé (1989), 99-111, non citato da Allen), non ancora riconosciuto però nei proci di Penelope. La coppia Penelope-Pan può essere interpretata come una manifestazione della coppia Grande Madre-Pan, se si tiene conto, come si diceva, del carattere matriarcale della figura di Penelope, inevitabilmente legato a un referente divino di tipo metroaco e riconducibile all’interno di una tradizione i.e. (cf. qui sotto). 208 Pan sembra infatti appartenere all’eredità indoeuropea della cultura greca, come dimostra il confronto con il dio vedico pūṣán-, protettore del bestiame e partico-
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Appare particolarmente significativa, in questa prospettiva, la menzione del nesso Pan-Grande Madre nella parodo degli Uccelli di Aristofane.209 Al coro degli uccelli, in quanto «rappresentanti della φύσις incontaminata»,210 si adatta particolarmente bene un canto in onore di Pan (v. 745) e della Μήτηρ ὀρεία (v. 746). Subito dopo tuttavia ha inizio la ‘corruzione’ della città degli Uccelli, con la sfilata dei personaggi che vogliono renderla sempre più simile all’Atene da cui i due protagonisti sono voluti scappare: il primo di tali corruttori, il sacerdote (che viene infatti scacciato in malo modo da Pistetero, come avverrà anche per il poeta, l’oracolista, ecc…), celebra il suo sacrificio, oltre che per Estia e una triade Apollo-Artemide-Latona, trasformati in uccelli, anche per φρυγίλῳ Σαβαζίῳ καὶ στρουθῷ μεγάλῃ μητρὶ θεῶν καὶ ἀνθρώπων, invocazione che Pistetero completa con le parole δέσποινα Κυβέλη στρουθέ, μῆτερ Κλεοκρίτου (vv. 873-876). Sembra quasi che Aristofane riproponga la coppia della parodo ‘orientalizzandola’, per mettere in rilievo la corruzione della religione ateniese (si osservi come venga messo in rilievo il nome di Cibele con il cambio di persona loquens): a Pan-Madre Montana si sostituisce Sabazio-Grande Madre/Cibele. Potrebbe inoltre profilarsi, nella scena del sacerdote, anche una polemica, intrecciata con la precedente, rispetto al ruolo civico acquisito dalla Madre degli dei nel suo santuario nell’agorà stessa di Atene, contrapposto a quello a lei più consono di divinità della natura selvaggia (per cui cf. avanti, cap. III.2.2). Aristofane si inserisce dunque in una tradizione che sembra riflettersi nelle testimonianze archeologiche, citate qui sopra (cf. § 1.2.1), che sdoppiano la figura della Madre degli dei nella sua identità greca e in quella ‘straniera’: il commediografo sembra infatti voler ribadire l’esistenza di una originaria divinità ‘greca’ (la Madre Montana associata a Pan) esposta però, ormai, nel tardo V sec., alla ‘corruzione’ causata dall’avvento dei nuovi culti provenienti dalla Frigia. Euripide invece ne mette in luce piuttosto il carat-
larmente connesso con il capro (il suo epiteto ajā́śva- significa “che ha i capri per cavalli”). Il confronto è legittimato anche dal punto di vista linguistico: sulla base del dat. πάονι (cf. IG V2 556) si può ricostruire un nom. παών (< *παƒών < *παυσών), riconducibile a un originario i.e. *peh2usōn, dal cui grado zero radicale potrebbe derivare anche pūṣán- (con metatesi della laringale). Nonostante i dubbi di Chantraine (s.v. πάν), si vedano ora Oettinger (1998), 539-548; Oberlies (2000), 380; Beekes, 1149. 209 Sul ruolo di Aristofane nella tradizione relativa a Pan e in particolare sulla relazione, stabilita dal commediografo, nella parodo degli Uccelli, fra Frinico e i canti in onore di Pan e della Madre Montana, cf. Lehnus (1979), 95-96. 210 Cf. Zanetto, Del Corno (2005), 242.
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tere composito ma unitario,211 presentandoci, nella parodo dell’Ippolito, una Madre degli dei che guarda inevitabilmente a Creta e accompagnata allo stesso tempo da un corteggio in cui si fondono i tratti ‘orientali’ dei Coribanti, associabili però anch’essi a Creta, e il tratto ‘greco’ di Pan. Il quadro cultuale delineato da Euripide, nella parodo dell’Ippolito, secondo la nostra interpretazione, si arricchisce infine di un ulteriore elemento, se consideriamo la possibilità di inserire anche Pan all’interno del contesto cretese, proprio in relazione alle vicende mitiche della grotta dell’Ida. Nel corpus di Epimenide troviamo una fusione fra i miti arcadici di Pan e quelli dello Zeus del Liceo, dalla cui unione con Callisto era nato Arcade; ma se Epimenide, da una parte, fa di Pan il figlio di Zeus, nonché il fratello di Arcade, lasciando il dio all’interno del tradizionale ambito arcade212 (fr. 60 Bernabé, II.3 = FGrHist 457 F9), dall’altra, crea un ‘doppio’ cretese di Pan, Aigokeros (il Capricorno), allevato sull’Ida insieme con Zeus dalla capra Aix, e compagno di Zeus nella Titanomachia, nel corso della quale, grazie alla sua invenzione della conchiglia, getta appunto il “timor panico” fra i Titani (fr. 37 Bernabé, II.3 = FGrHist 457 F18).213 La tradizione conservata da Epimenide dimostrerebbe così una presenza di Pan a Creta già nel VI sec. a.C.: questa cronologia potrebbe confermare la datazione alta (età arcaica) di una placchetta di pietra ritrovata a Festo nel 1928, su cui 211 Si osservi come Aristofane sottolinei questa contrapposizione fra divinità greca e divinità frigia utilizzando in entrambi i casi per la Madre l’epiteto “Montana”, ma, nel coro degli uccelli (v. 746), nella sua forma greca ὀρεία, mentre, nella preghiera del sacerdote (vv. 873-876), in quella frigia Κυβέλη (derivato dall’epiteto frigio kubileya). Come ipotizza la Roller, la parola greca ὀρεία poteva essere messa in relazione, paretimologicamente, con il nome “Rea”, un aspetto che forse favorì addirittura originariamente l’identificazione fra le due dee (cf. Roller (1999), 171). Tra l’altro anche il fatto che Cibele (come avviene nell’invocazione dell’inno omerico, cf. qui sopra, nota 163) sia invocata come μήτηρ θεῶν καὶ ἀνθρώπων ne evidenzia un’ulteriore distanza dalla Rea greca, Madre degli dei. I due passi aristofanei riecheggiano inoltre anche i versi pindarici della Pitica III e dell’Inno a Cibele: in Pyth. III.79 la θεά (la Madre associata a Pan) cantata dalle κοῦραι è σεμνά, come nella parodo aristofanea (v. 746) gli uccelli dedicano alla Madre Montana σεμνά [...] χορεύματα. La δέσποινα Κυβέλη invocata dal sacerdote (v. 876) corrisponde invece esattamente alla dea dell’Inno a Cibele di Pindaro (fr. 80 Maehler), dove si tratta ugualmente di μήτηρ θεῶν καὶ ἀνθρώπων, a segnare una distanza dalla Madre degli dei mitologicamente identificabile con la Madre di Zeus. 212 Secondo Pausania (VIII.36.8) le ossa di Arcade, figlio di Callisto, sarebbero state portate dagli abitanti di Mantinea sul monte Menalo, sacro a Pan. 213 Siamo qui di fronte a un ‘declassamento’ della tradizione arcade relativa a Pan, «nell’interesse della teogonia cretese» legata alle vicende dell’Ida; cf. Mele (2001), 266-270.
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è incisa la rappresentazione di una figura maschile semi-animalesca identificabile appunto con Pan (zampe pelose, zoccoli, orecchie e corna caprini, barba).214 Alla metà del V sec. a.C. risalgono invece le attestazioni più antiche di un culto di Pan, insieme con le Ninfe e altre divinità (quali Ermes o Acheloo) a Creta, in particolare nella zona occidentale dell’isola, nella regione di Cidonia: per il sito della grotta di Lera (a cui risalgono le testimoninaze più antiche fra queste), per gli oggetti in essa rinvenuti (fra cui ceramica attica) e per le sue caratteristiche stesse (una grotta con un piccolo lago interno) è stato anzi ipotizzato che potesse trattarsi di un culto importato dall’Attica.215 Pan appare dunque anch’esso inserito in ambito cretese, sia nel contesto del mito della nascita di Zeus sia in un contesto cultuale per cui si possono quanto meno ipotizzare dei legami con la religione attica (si consideri del resto che le Ninfe, a cui Pan è associato nel culto di Lera, sono anch’esse inserite appieno nella mitologia cretese – e non solo – relativa all’infanzia di Zeus).216 Euripide poteva dunque collocarlo a pieno titolo in uno scenario religioso che si configurasse come cretese: se l’ipotesi relativa a un’eventuale fondazione attica del culto cretese di Pan e delle Ninfe fosse corretta, 214 Cf. al riguardo Cucuzza (2009), 301-319. Poiché altri elementi della rappresentazione sono l’ambientazione in una grotta, la presenza del λαγωβόλον come attributo del dio, che rimanda alla sfera di una caccia primitiva, e di sette o otto cerchietti intorno alla figura principale, che sembrano ricordare i piccoli cembali raffigurati sul timpano ritrovato sullo spiazzo antistante l’antro ideo (cf. qui sopra), si può ipotizzare un influsso della stessa tradizione da cui deriva anche l’Aigokeros epimenideo, σύντροφος di Zeus. Nonostante le riserve, riguardo a questa possibilità interpretativa, espresse in Cucuzza (2009), 311-316, le figure, seppur distinte in Epimenide, di Pan e del Capricorno, potrebbero effettivamente aver conosciuto una progressiva identificazione a Creta in favore del più celebre Pan (senza contare che può essere stato Epimenide stesso a operare una distinzione per declassare la tradizione arcade, cf. qui sopra, nota 213). 215 Cf. Melfi (2008), 221-227: l’occasione in cui gli ateniesi avrebbero fondato il culto cretese di Lera potrebbe aver coinciso con l’episodio narrato da Tucidide in II.85.5-6, ossia la spedizione ateniese contro Cidonia, la cui cronologia, riferita al 429 a.C., risulta tra l’altro compatibile con l’Ippolito euripideo. Per quanto riguarda le testimonianze più tarde (II sec. a.C.) relative alla presenza di Pan a Creta segnaliamo un’epigrafe (IC I, XVI.7) ritrovata a Kristà (presso Lato, nella Creta orientale), in una regione «montuosa e deserta», secondo la descrizione della Guarducci, dove Pan viene invocato con l’epiteto Κυφαρισσίτας (legato quindi in particolare al cipresso, per la cui relazione con Creta cf. avanti), perché liberi il dedicante (certo Timone) dalle difficoltà della vita. 216 Per i legami delle Ninfe in generale con la nascita di Zeus, cf. Verbruggen (1981), 45-46.
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in quest’ottica potremmo ancor meglio spiegare la sua presenza, accanto a divinità cretesi o facilmente associabili a Creta, nella parodo dell’Ippolito.217 § 1.2.4 Ecate e Dictinna Il quadro fin qui delineato appare dunque coerente: da Atene e Trezene Euripide, nella parodo, sposta verso Creta lo sfondo religioso del suo dramma, rievocando il culto metroaco cretese (di cui non esita a sottolineare i legami con il Vicino Oriente, che saranno ripresi molti anni dopo nelle Baccanti) con tutte le associazioni che questo poteva legittimare. D’altra parte la menzione di Dictinna, il più chiaro segnale in direzione di Creta, introduce in questo contesto anche un implicito riferimento a Artemide, con cui Dictinna giunge talora a essere perfino identificata.218 Date quindi
217 Una conferma dell’esistenza di un legame fra Pan e Creta è nel secondo stasimo dell’Aiace di Sofocle, dove il coro (composto di marinai di Salamina) invita il dio a scendere dai monti dell’Arcadia per intrecciare Κνώσια ὀρχήματα (vv. 694-700). D’altra parte le danze in questione non sono indicate soltanto come cretesi, ma anche “misie”, secondo la lezione di un papiro ossirinchita (P.Oxy. 1615) conosciuta anche dalla Suda (s.v. νύσια), o “nisie”, secondo la concorde lezione dei codici. La scelta dell’una o dell’altra opzione dipende dalla scelta di privilegiare un’associazione Pan-Madre o Pan-Dioniso, dato che il riferimento a Cnosso consente l’una e l’altra (per i legami di Dioniso con Creta, cf. avanti § 2). Cf. Lehnus (1979), 96-97, a sostegno della lezione “misie”; bisogna tenere d’altronde presente (oltre alla concordanza dei manoscritti) che l’inserimento di Pan in un contesto dionisiaco, evocato da Nisa e da Creta (patrie, tra l’altro, rispettivamente di Dioniso e della sua sposa Arianna), si accorderebbe meglio con l’invocazione, immediatamente successiva a quella di Pan, di Apollo Delio (vv. 703-704): Aristofane (forse perfino rievocando il passo in questione dell’Aiace), nelle Rane, fa celebrare infatti al coro delle rane sia il Νυσήιον Διὸς Διόνυσον (seppure nel contesto ateniese delle Antesterie, vv. 215-217) sia una triade costituita dalle Muse, Pan e Apollo (vv. 229-231); cf. avanti, cap. VI.2.1. 218 Un’esplicita identificazione fra le due dee, nell’Ippolito, emerge ancor più nel quarto stasimo, dove il coro, nel compiangere Ippolito esiliato, non solo associa a Dictinna il santuario trezenio di Artemide presso la Φοιβαία λίμνη (cf. Paus. II.30.7), ma nomina la dea cretese come compagna di caccia di Ippolito (cf. vv. 1126-1133), ribadendo così che anche quest’ultimo è incluso nello sfondo religioso cretese della tragedia (cf. avanti, nota 260). Analoga identificazione è presente nell’Ifigenia in Tauride (v. 127), dove Dictinna è detta παῖς τᾶς Λατοῦς. All’interno di una parodia euripidea Aristofane, nelle Rane, stabilisce anch’egli la stessa relazione di identità (v. 1359, per cui cf. anche schol. vet. in Ran. 1359, p. 151 Chantry, secondo cui “Dictinna” è appunto un epiteto di Artemide), che ri-
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le affinità fra Artemide e la Madre degli dei, soprattutto nel rapporto con la natura selvaggia,219 tale accostamento risulta tutt’altro che improbabile, in particolare se calato in ambito cretese, dove i tratti metroaci di Dictinna dovevano essere ben percepibili.220 La menzione di Ecate può infine essere spiegata quasi come una sorta di simbolico ‘ponte’ fra la Madre e Dictinna:221 Ecate, come Dictinna, ci appare infatti anch’essa nella tradizione mitica come una figura vicina (condivisione di attributi) ma subordinata a Artemide, identificata talora con fanciulle salvate dalla dea, o perfino con la dea stessa.222 Quanto alla presenza di Ecate in contesti metroaci, essa è attestata nel mondo greco e, nell’icono-
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troviamo poi in uno degli Inni orfici (XXXVII.3). Nonostante che nelle fonti (cf. Call. h. Dian. 189 ss.; Diod. Sic. V.76; Paus. II.30.3) le due figure risultino comunque sia talora anche distinte, l’una (Dictinna) come la compagna, seppur subordinata, dell’altra (Artemide), la realtà cultuale ci conferma la possibilità di una loro identificazione, come dimostrano luoghi di culto dedicati a Artemide Dictinna in Laconia, in Focide e infine a Atene, cf. Jessen, RE s.v. “Dictynna”, 585-587. Anche la realtà cultuale ci attesta questo legame, come dimostra l’importanza stessa della figura di Artemide nelle città greche dell’Asia Minore (si pensi a Efeso), in parte riconducibile a un sincretismo con la divinità metroaca asiatica; quanto poi alla possibilità di attribuire al culto di Artemide praticato presso Olimpia un’origine asiatica e metroaca, cf. Robertson (1996), 295-298. Sappiamo infine (cf. Paus. VIII.37.4) che a Lykosoura, sede di un culto affine a quelli metroaci (cf. qui sopra, nota 206), sul lato del trono su cui erano sedute Demetra e la divinità principale, Despoina, era rappresentata, a destra di Demetra, un’Artemide dal marcato carattere ctonio (oltre agli attributi riconducibili alla sfera della caccia, quali pelle di cervo, faretra e cane, una torcia e due serpenti, tenuti dalla dea nelle mani). Cf. Jessen, RE s.v. “Dictynna”, 587. Se consideriamo le notizie che ci parlano dell’unione, in una grotta, fra Pan e Selene (cf. per esempio Verg. Georg. III.392), date le note associazioni di Artemide con la Luna, Pan potrebbe inserirsi anche in un contesto riferito alla figura di Artemide. Tra l’altro la Luna ci riporta ancora a Creta sia attraverso la figura di Pasifae (con la Luna appunto identificata) sia attraverso quella di Epimenide, che, in fr. 33 Bernabé, II.3 (= FGrHist 457 F3), si dichiara appunto “figlio della Luna” (cf. Mele (2001), 241-245). Il rapporto fra Ecate e Artemide ricalca, in parte, quello fra Dictinna e Artemide, dato che Ecate è sia protagonista di vicende mitiche che la vedono nel ruolo di fanciulla salvata dalla dea e poi divinizzata (cf. Von Rudloff (1999), 68-71) sia una sorta di ‘doppio’ della dea stessa, con cui viene talora identificata. Su tale identificazione, caratteristica soprattutto di Atene, a partire dal V sec. (cf. Aesch. Choeph. 676; Eur. Phoen.109-110, dove Ecate diviene figlia di Latona come Dictinna in Iph. Taur. 127; IG I2 310.192-4 del 429-428 a.C), ma non della Ionia, dove le due divinità, entrambe importanti nella pratica cultuale, tendono a restare distinte, cf. Von Rudloff (1999), 49-50; 70-77.
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grafia, soprattutto a Atene fin dal tardo V sec., l’età in cui si fa sentire sempre più forte l’influsso del culto della frigia Cibele sulla religione greca.223 D’altra parte, rispetto alla realtà cultuale attica, bisogna considerare l’importante ruolo di Ecate, risalente almeno all’età arcaica, nel culto eleusino e nella vicenda mitica a questo relativa:224 la sua presenza nello scenario ‘cretese’ della parodo dell’Ippolito sembrerebbe quindi confermare la volontà di Euripide di creare uno scarto rispetto al prologo ‘eleusino’. Nonostante che nella prima coppia strofica della parodo la menzione esplicita, da parte del coro, del nome di Demetra in relazione al cibo da cui Fedra si ostina a astenersi (vv. 135-140) permetta un sicuro collegamento con la dea e il digiuno connesso ai suoi riti, più difficile appare stabilire, come suggerisce invece Renate Schlesier, una relazione fra il ciceone con cui Demetra e i suoi fedeli interrompono il loro proprio digiuno (cf. h. Cer. 206-211; Clem. Al. Protr. II.21.2, per cui cf. qui sopra, nota 150) e i πελανοί 223 Sulle attestazioni figurative ateniesi (a partire dal tardo V sec. a.C.) della relazione fra Ecate e la Madre degli dei seduta all’interno di un ναΐσκος, spesso accompagnata da una figura maschile e una femminile con una o più torce, identificabili con Ermes e Ecate, cf. Reeder (1987), 429-431; Von Rudloff (1999), 80-82; cf. ancora Von Rudloff (1999), 56 sul rilievo ellenistico di Lebadea, in Beozia, che ci presenta una Grande Madre in trono alla presenza di altre undici figure, fra cui sono riconoscibili Demetra e Persefone, Ecate, Dioniso e Pan (sulla comparsa di quest’ultimo anche nei gruppi del tipo ναΐσκος, cf. Reeder (1987), 429-430, nota 13). Sul sempre più forte sincretismo, a partire dall’età ellenistica, delle figure di Cibele / Madre degli dei, Artemide, Demetra e Ecate, cf. ancora Reeder (1987), 429-431. Cf. inoltre Von Rudloff (1999), 48-49; 83-84, sulla presenza di Ecate nei misteri dei “Grandi Dei” di Samotracia, documentata fin dal VI sec. a.C., accanto a una divinità metroaca e a un dio della fertilità, Kadmilos, identificato appunto con Ermes. Cf. infine ancora Von Rudloff (1999), 51-53; 73-74, sulla situazione della Caria, che presenta, rispetto al resto della Ionia e all’Attica, un sorprendente ‘dominio’ di Ecate (benché si tratti di testimonianze risalenti non oltre il IV sec. a.C.), rappresentata, nel fregio del suo tempio di Lagina, sia intenta nella lotta contro i Titani, armata di una torcia, sia come κουροτρόφος del piccolo Zeus. 224 Sulla questione relativa all’effettivo ruolo di Ecate, pur legata alle dee eleusine nella vicenda mitica (cf. h. Cer. 51-58; 438-440), nel santuario e nel culto eleusino, cf. Von Rudloff (1999), 37-39. Per un’interpretazione della statua della “fanciulla in fuga” con una torcia in entrambe le mani, ritrovata a Eleusi nel 1924 e appartenente probabilmente a una composizione pedimentale (480 ca. a.C.), da identificare proprio con Ecate mentre scorta Persefone di ritorno dall’Ade, cf. Edwards (1986), 307-318. Si consideri poi la relazione di Ecate con le dee eleusine quale emerge da un passo frammentario del trattato De pietate di Filodemo (P.Herc. 1088, col. VI.8 ss.), dove si parla di Ecate, in Euripide, come λάτρις, “ministra, serva”, di Demetra (cf. Luppe (1985), 34, che vede nel testo di Filodemo un’interpretazione di h. Cer. 436 ss.).
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(“focacce”), che, secondo il coro, Fedra avrebbe trascurato di offrire in sacrificio a Dictinna, provocando così l’ira della dea e la propria presente malattia (vv. 146-147). Analogo discorso si può fare per il parallelo ipotizzato ancora dalla Schlesier fra le peregrinazioni di Demetra in preda al dolore per il rapimento della figlia (ὥς τ᾽ οἰωνός, ἐπὶ τραφερήν τε καὶ ὑγρὴν / μαιομένη [...]. Ἐννῆμαρ μὲν ἔπειτα κατὰ χθόνα πότνια Δηὼ / στρωφᾶτ᾽ αἰθομένας δαίδας μετὰ χερσὶν ἔχουσα, cf. h. Cer. 43-45; 47-49) e quelle di Dictinna, rievocate nella parodo dell’Ippolito, dove si parla appunto di un φοιτᾶν che avviene διὰ λίμνας, / χέρσον θ᾽ ὕπερ πελάγους / δίναις ἐν νοτίαις ἅλμας (cf. vv. 148-150). In realtà, in entrambi i casi, assistiamo a un ulteriore allontanamento da Demetra e da Eleusi: al κυκεών si sostituiscono i πελανοί di Dictinna;225 alla prevalenza dell’elemento solido nelle peregrinazioni divine (ἐπὶ τραφερήν τε καὶ ὑγρήν e poi ancora κατὰ χθόνα dell’inno omerico) si sostituisce quella dell’elemento liquido (λίμνας,226 πελάγους, δίναις ἐν νοτίαις ἅλμας). Il comportamento di Fedra viene quindi associato dal coro a un preciso contesto cultuale e religioso, attraverso un progressi-
225 L’offerta di focacce rituali a Atene era tra l’altro conosciuta per Artemide Μουνιχία, il cui culto era celebrato nel demo di Munichia, al Pireo, nel mese di Munichione: alla dea veniva offerto, al plenilunio, l’ἀμφιφῶν, una focaccia decorata con fiaccole disposte in cerchio, un tipo di offerta nota anche per Ecate (cf. Athen. Deipn. XIV.53.645ab), la quale è chiamata, tra l’altro, Μουνιχία in un passo delle Argonautiche orfiche (vv. 934-940): le affinità fra Ecate e Artemide Munichia (per cui cf. Reeder (1987), 431, nota 21) sono significative per interpretare (almeno dal punto di vista ateniese) il retroscena cultuale dei πελανοί di Dictinna, l’Artemide cretese, menzionata da Euripide in questo passo proprio insieme con Ecate. È altresì interessante osservare che, nel secondo stasimo dell’Ippolito, il coro parli del viaggio di Fedra da Creta a Atene menzionando le Μουνίχου ἀκταί come il luogo in cui approda la nave che porta la principessa cretese (vv. 758-763). 226 La menzione delle λίμναι sembra introdurre tra l’altro un riferimento alla sfera dionisiaca (che acquisirà sempre maggiore rilievo nel seguito del dramma), in quanto a Atene Dioniso era appunto venerato come Λιμναῖος dal nome del suo santuario ἐν λίμναις. Sul legame fra l’elemento acquatico e la vicenda di Dictinna, cf. le versioni del mito di Call. h. Dian. 189 ss.; Paus. II.30.3 (cf. Jessen, RE s.v. “Dictynna”, 585-586), che presentano analogie con l’αἴτιον tramandato in Paus. II.30.7 per il tempio di Artemide presso la Φοιβαία λίμνη a Trezene (cf. avanti, nota 260).
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vo allontanamento dalla dimensione puramente demetriaca,227 mediato dal personaggio di Dictinna.228 La caratterizzazione cretese dello sfondo religioso della tragedia, che emerge a partire dalla parodo, ci permette di considerare sotto una diversa luce anche l’ingresso in scena di Ippolito: se infatti la devozione totalizzante del figlio di Teseo per Artemide si rispecchia nel riferimento, da parte del coro, alla cretese Dictinna, il mondo religioso di Ippolito, come vedremo, acquisisce nel corso del dramma – dopo la parodo – sempre maggiori punti di contatto con la Creta da cui proviene Fedra.229
227 Cf. Schlesier (2002), 54-55, dove è ricondotto al modello demetriaco anche il coprirsi / scoprirsi il capo da parte di Fedra (cf. Hipp. 133-134; 201-202; 245 ss., per cui cf. h. Cer. 40-44). Sebbene la dinamica del coprirsi / scoprirsi ricorra in entrambi i testi, mentre nel caso di Demetra il gesto in questione è il segnale esteriore, visibile, del dramma avvenuto, in quello di Fedra si tratta piuttosto di ricoprire quanto con lo scoprire sembrava troppo rivelato. 228 Per sottolineare la continuità fra la figura di Demetra e quella della cretese Dictinna, in Schlesier (2002), 54, nota 12, si menziona il fatto che Demetra, nell’inno omerico, si presenti alle figlie di Celeo come originaria di Creta (cf. v. 123). Benché il collegamento sia senz’altro significativo, come lo è, per esempio, il mito della nascita di Pluto, figlio di Demetra e Iasione, a Creta, narrato da Esiodo (Theog. 969-974) e Diodoro Siculo (V.77.1), Euripide, più che sottolineare eventuali connessioni di Demetra con Creta, sembra piuttosto, in seguito al ‘traviamento’ dei Misteri di Eleusi narrato da Afrodite nel prologo, sostituire a Demetra e al suo culto un’altra realtà religiosa. Tra l’altro l’espediente di nascondere la propria identità con lo spacciarsi per cretese è adottato anche da Odisseo in Od. XIX.172 ss.. 229 Osserviamo qui in particolare come la menzione dell’ape (v. 77), nella scena del “prato di Artemide”, nonostante i suoi indubbi legami con il culto di Artemide (le api sono in particolare connesse con il culto efesino di Artemide e μελισσονόμοι erano chiamate, in un perduto dramma di Eschilo – cf. TrGF III F87, versi parodiati dall’Euripide aristofaneo in Ran. 1273-1274 – le sacerdotesse di Artemide), possa implicare un ulteriore riferimento a Creta, dato che le fonti antiche ci parlano di uno Zeus bambino nutrito dalle api in una grotta a Creta (cf. Verbruggen (1981), 41-42). Sull’ape come simbolo di purezza, cf. Cairns (1997), 60, nota 37. Uno scolio pindarico ci attesta comunque sia l’esistenza del titolo μέλιτται anche per le sacerdotesse di Demetra (fr. 158 Maehler).
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§ 2 Fra l’Ippolito e i Cretesi: il ruolo dei misteri orfico-dionisiaci
§ 2 Fra l’Ippolito e i Cretesi: il ruolo dei misteri orfico-dionisiaci § 2.1 Fedra e Ippolito fra Dioniso e Orfeo § 2.1.1 Il delirio di Fedra La religiosità cretese risulta dunque caratterizzata, nella parodo, sulla base delle figure della Madre Montana (con il suo corteggio di figure minori, che ne suggeriscono la duplice identità greca e ‘orientale’) e di Dictinna, che rappresenta il corrispettivo cretese della divinità al centro della devozione di Ippolito, Artemide. Con l’ingresso in scena di Fedra, tuttavia, tale scenario si arricchisce di un ulteriore elemento, quello dionisiaco. Anche soltanto dal punto di vista mitologico non deve sorprendere che l’immaginario mitico e cultuale connesso con questo dio compaia in una vicenda che ha per protagonista la sorella di Arianna. D’altronde, come emerge dallo studio di Renate Schlesier più volte citato, non si tratta soltanto del superficiale ricorso a exempla mitici dionisiaci da parte della nutrice e del coro (a partire dal primo stasimo), ma di un profondo coinvolgimento della protagonista (anzi dei protagonisti, perché la questione riguarda anche Ippolito) nella religiosità dionisiaca.230 D’altra parte, se la Schlesier ipotizza che la tragedia e le relazioni fra i protagonisti siano costruiti sulla base di un amalgama di modelli religiosi (eleusino e dionisiaco), sembra opportuno parlare piuttosto della sovrapposizione, mediata dal riferimento alla religiosità cretese, di un modello (quello metroaco-dionisiaco) a un altro (quello eleusino), che rivela la sua inefficacia nella ‘fallita’ (o ‘traviata’) iniziazione di Fedra, riferita da Afrodite nel prologo del dramma. D’altra parte, Euripide, come vedremo, sembra connotare il tema dionisiaco in senso orfico (connotazione che si fa esplicita con la menzione del nome del cantore tracio al v. 953) secondo un modello cultuale-religioso che incontriamo con una certa frequenza nel teatro euripideo e, in particolare, in contesto cretese. Suggestioni orfiche nello scenario oltremondano del delirio di Fedra Il dialogo fra Fedra e la nutrice, che costituisce il primo episodio, è incentrato su una trama di riferimenti che possono rimandare appunto ai misteri orfico-dionisiaci. Il primo intervento della nutrice, al suo apparire sulla 230 Cf. Schlesier (2002), 58-70.
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scena (v. 176), contiene già un’allusione significativa in questo senso: la donna, di fronte al dolore di Fedra e in generale di tutti i mortali, rileva come tuttavia ὅτι τοῦ ζῆν φίλτερον ἄλλο sia in realtà avvolto da tenebre (σκότος) e che appunto il “rovinoso amore” degli uomini per “qualunque cosa splenda κατὰ γῆν” sia dovuto proprio “all’inesperienza ἄλλου βιότου” e all’assenza di una dimostrazione (ἀπόδειξις) τῶν ὑπὸ γαίας (in opposizione diretta, in fine di verso, a κατὰ γῆν); conclude infatti la nutrice che μύθοις δ᾽ ἄλλως φερόμεσθα (vv. 191-197). Ci troviamo nello stesso contesto misterico, intriso di dottrine orfiche, di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo, relativamente al rapporto fra morte e vita:231 la nutrice contrappone infatti le vane favole alla consapevolezza (che appartiene evidentemente solo agli iniziati) sulle “cose di sotterra” in quanto “altra vita”, ben più desiderabile della presente, fatta solo di dolore.232 Ancora sulla base di quanto precedentemente osservato (cf. cap. I.1.1), potremmo interpretare nello stesso senso anche la menzione, da parte della nutrice (proprio al principio del discorso), del λαμπρὸς αἰθήρ (v. 178), alla cui luce Fedra viene portata a cercare un sollievo alle sue sofferenze. Come emerge anche dall’immediato seguito del dialogo fra i due personaggi, siamo al di là dell’escatologia eleusina, superata da una concezione quale suggeriscono per esempio alcune delle lamine orfico-dionisiache (cf. qui sopra, cap. I.1.2), secondo cui la vera vita è quella raggiunta dopo la morte: se dunque Fedra sostituisce l’ὄψις eleusina con l’ὄψις dell’oggetto amato, conseguendo così un’iniziazione di tutt’altro tipo, ora la vediamo cercare rifugio dalle sue pene amorose in un delirio mistico appartenente a un genere di spiritualità diverso da quello dei misteri di Eleusi. Nel corso del primo scambio dialogico fra Fedra e la nutrice, in dimetri giambici, Euripide ripropone lo stesso quadro di riferimenti religiosi che abbiamo incontrato nella parodo, ma questa volta arricchendolo dell’elemento (orfico-)dionisiaco. Se infatti Fedra, appena entrata in scena, ripren231 Froma Zeitlin non va oltre un collegamento generico fra l’iniziazione ai Misteri eleusini da parte di Ippolito, che si trasformerebbe poi in iniziazione (forzata) ai misteri di Afrodite, e ogni altro riferimento all’ambito misterico presente all’interno del dramma; cf. Zeitlin (1985), 85-86. 232 Che il possesso di tale consapevolezza appartenga, oltre che alla nutrice, anche a Fedra, risulterà chiaro all’ingresso in scena di quest’ultima. D’altra parte la nutrice descrive la presente condizione di Fedra nei termini del disgusto per τὸ παρόν e del desiderio per τὸ ἀπόν (v. 184). Si osservi come la nutrice parli di un ἀπόν, che per Fedra sarebbe φίλτερον (v. 185), come parla dell’aldilà avvolto da tenebre, che definisce anch’esso τοῦ ζῆν φίλτερον (v. 191), quasi che intenda già suggerire che anche Fedra, che pure si trova in una condizione che la nutrice non riesce a spiegare, sia anch’essa iniziata agli stessi misteri.
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de bensì il tema vagamente demetriaco dello scoprirsi / coprirsi il capo (che ritornerà anche avanti, al v. 243, quando Fedra si rende conto di aver svelato troppo del suo segreto),233 il suo delirio si articola poi attraverso la progressiva evocazione di uno scenario d’otretomba, che, come osserva Renate Schlesier, presenta notevoli punti di contatto con quello delineato appunto nelle lamine orfiche, in particolare per quanto riguarda il desiderio di dissetarsi di “acqua pura” (vv. 208-209) e di riposarsi sotto i pioppi su un prato (vv. 201-210); un’interpretazione misterica delle parole pronunciate da Fedra può inoltre dare appieno ragione dell’esclamazione successiva della nutrice, spaventata del fatto che la donna, nel suo delirio, riveli segreti che devono restare noti ai soli iniziati (vv. 212-214): ὦ παῖ, τί θροεῖς; / οὐ μὴ παρ᾽ ὄχλῳ τάδε γηρύσῃ / μανίας ἔποχον ῥίπτουσα λόγον;234 È interessante notare, a nostro avviso, che lo scenario delineato da Fedra è riconducibile a entrambi i gruppi delle lamine, A e B, stabiliti da Zuntz (ampliati poi da Pugliese Carratelli235). Euripide ci permetterebbe di confermare, pur tenendo ferme le differenze indubbiamente presenti nel corpus delle lamine, un’omogeneità di fondo del repertorio a cui chi le redigeva, anche in aree molto distanti del mondo greco, poteva attingere.236 La necessità di dissetarsi a una fonte (elemento decisivo per stabilire un collegamento con le lamine) caratterizza infatti l’escatologia delle lamine del “gruppo B”, in particolare le due lamine di Petelia (fr. 476 Bernabé, prima metà IV sec. a.C.) e di Farsalo (fr. 477 Bernabé, seconda metà IV sec. a.C.).237 Osserviamo tra l’altro che fra le lamine di questo gruppo ve ne so-
233 Si vedano al riguardo le osservazioni fatte qui sopra, alla nota 227. 234 Cf. Schlesier (2002), 58-63. 235 Sulla questione relativa ai diversi raggruppamenti, cf. qui sopra, cap. I.1.2, nota 82. 236 Per un’interpretazione delle lamine volta a sottolineare piuttosto le differenze fra due gruppi distinti, cf. Ferrari (2008), 1-27; 97-112. Per una posizione più incline a metterne in luce le affinità formali e contenutistiche, cf. Tortorelli Ghidini (2000), 31-41 e Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 179-181. Edmonds, invece, coerentemente con la sua interpretazione generale dell’orfismo come un fenomeno culturale piuttosto evanescente nei contenuti e privo di un sistema dottrinario ben preciso (cf. Edmonds (2013), 162), vede nelle lamine il riferimento a un composito repertorio di elementi mitici tradizionali (cf. Edmonds (2004), 108-109; Edmonds (2013), 325-326). Tale linea interpretativa tuttavia tende a sottovalutare eccessivamente gli elementi che conferiscono al corpus delle lamine non solo una coerenza interna, ma anche una specificità rispetto a altre realtà religiose. 237 Nella lamina di Petelia (fr. 476.10 Bernabé) leggiamo καὐτοί [i guardiani del lago di Mnemosyne] σοι [all’iniziato] δώσουσι πιεῖν θείης ἀπὸ κρήνης, mentre la lamina di Farsalo (fr. 477.9 Bernabé) recita ἀλλὰ δότε [i guardiani del lago di
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no alcune (frr. 478-483 Bernabé) non antecedenti al III sec. a.C.238 ma ritrovate significativamente a Creta: queste ultime presentano una versione ‘ridotta’ del testo delle lamine di Petelia e Farsalo (nonché Ipponio e Entella), nel senso che contengono bensì il riferimento alla fonte, ma non sdoppiato (nella versione estesa si parla di una κρήνη ‘cattiva’, vicina a un cipresso, dalla cui acqua occorre astenersi, e una κρήνη ‘buona’, quella della Μνημοσύνης λίμνη), in quanto vi compare un’unica fonte, vicina a un cipresso, questa volta investito di un ruolo positivo.239 D’altra parte Fedra, benché, in armonia con i testi cretesi, parli di una sola fonte, non menziona cipressi ma pioppi, mostrando in questo un accordo, seppur indiretto, per via allusiva, con una delle lamine del “gruppo A” di Zuntz, ritrovata a Turi (Timpone Grande) e databile alla metà del IV sec. a.C., dove si invita il mista a percorrere λειμῶνας ἱερούς (Fedra parla anche di un κομήτης λειμών) e ἄλσεα Φερσεφονείας (fr. 487.6 Bernabé), menzionati anche da Circe in Od. X.510, in riferimento appunto ai boschi all’ingresso dell’Ade, fatti di pioppi e salici.240
Mnemosyne] μοι [all’iniziato] πιέν᾽ ἀπὸ τῆς κρήνης. La lamina di Ipponio (fr. 474 Bernabé), finora la più antica del corpus (fine V sec. a.C.), contiene la stessa indicazione relativa alla necessità di bere τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας (vv. 6; 12; 14; cf. anche i vv. 8; 14; 17 della lamina di Entella, fr. 475 Bernabé, fine IV-inizio III sec. a.C.), laddove la parola κρήνη compare in riferimento alla fonte ‘cattiva’ (fr. 474.1; 5; fr. 475.7). Sulla ricostruzione di un ‘archetipo’ delle quattro lamine di Petelia, Farsalo, Ipponio e Entella, cf. Ferrari (2008), 26-27. 238 Le lamine cretesi trovano comunque sia un importante parallelo della metà IV sec. a.C. in un esemplare trovato in Tessaglia, fr. 484 Bernabé; cf., al riguardo, Ferrari (2008), 21, nota 71. 239 ἀλλὰ πιέ μοι / κράνας αἰειρόω ἐπὶ δεξιά, τῆ κυφάρισσος (fr. 478 Bernabé). Il cipresso, comune alla topografia dell’aldilà delle lamine del “gruppo B” nel loro complesso, ha, nelle fonti antiche, «un legame privilegiato con Creta», tanto da fungere da «sineddoche» di Creta stessa; cf. Ferrari (2008), 6-7. Il ruolo stesso del cipresso, come segnale della fonte da cui si ottiene la salvezza eterna, costituirebbe un indizio, secondo Ferrari (a sua volta in favore di un’opinione di Zuntz e Pugliese Carratelli), dell’anteriorità del testo cretese (nonostante la posteriorità dei supporti su cui è conservato), rielaborato poi con l’introduzione della figura di Mnemosyne. 240 Del resto il delirio di Fedra stesso, con il suo riferimento all’elemento acquatico e a un λειμών dove riposare all’ombra di pioppi, presenta punti di contatto con l’immagine che dell’aldilà, o di luoghi a esso collegati, troviamo nell’epica o nell’innologia omerica: cf., oltre al già citato Od. X.508-512, h. Cer. 1-18 (Persefone viene rapita da Ade mentre raccoglie fiori insieme con le figlie di Oceano su un λειμὼν μαλακός); cf. Schlesier (2002), 56. Possiamo inoltre ricordare l’ἀσφοδελὸς λειμών nella descrizione dell’oltretomba, nel libro XI dell’Odissea (v. 573). Il λειμών compare a sua volta in una lamina rinvenuta a Fere, in Tessaglia (fr. 493
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Siamo dunque di fronte a uno scenario escatologico, i cui elementi costitutivi sono riconducibili al corpus delle lamine prese nel loro complesso: potremmo ipotizzare che, nel V sec. a.C., a Atene, dove finora non sono state rinvenute lamine, i circoli orfici conoscessero (o avessero addirittura elaborato) un repertorio formulare più ampio, di cui le aree periferiche del mondo greco (Tessaglia, Creta, Italia meridionale) mostrano di condividere solo una parte.241 La religiosità orfico-dionisiaca di Fedra Quanto poi alla possibilità di interpretare il delirio mistico di Fedra in un’ottica dionisiaca (secondo l’ipotesi della Schlesier), la presenza di Dioniso si percepisce in effetti chiaramente quando la donna, subito dopo l’interruzione della nutrice (vv. 208-214), prorompe nell’esclamazione πέμπετέ μ᾽ εἰς ὄρος (v. 215), a cui segue uno scenario di caccia montana (vv. 215-222).242 L’immagine di Fedra come ‘menade’ in preda a una frenesia bacchica è inoltre rafforzata dal fatto che sia la nutrice (v. 213) sia Fedra stessa connotino lo stato di questa come μανία (ἐμάνην, v. 241), che Fedra
Bernabé, tardo IV sec. a.C.). Sembra dunque che nell’immaginario greco legato all’oltretomba si possano individuare alcuni tratti comuni a tutta la tradizione letteraria greca al di là delle peculiari credenze di specifici gruppi religiosi; cf. al riguardo Cole (1993), 292-295; Bernabé (2009d), 96 ss.. Quanto ai pioppi, si tenga infine presente che all’ingresso della grotta dell’Ida Teofrasto, in Hist. plant. III.2.6; III.3.4; IV.1.3, colloca un pioppo bianco; sulla relazione fra la rappresentazione dell’aldilà delle lamine del “gruppo B” e il percorso che conduce al santuario dell’Ida, cf. Verbruggen (1981), 90-91, dove si suggerisce una possibile origine cretese dell’intero gruppo. 241 Sulla ricostruzione di uno ἱερὸς λόγος orfico-dionisiaco alla base delle lamine cf. Riedweg (1998); Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 189-190. D’altra parte, come vedremo anche avanti considerando le altre tracce orfico-dionisiache presenti nel dramma euripideo, il fatto che a Atene, nel V sec. a.C., siano attestati tutti (o quasi) gli elementi che costituiscono l’escatologia delle lamine orfiche, disperse nelle aree periferiche del mondo greco e databili a quasi un secolo dopo, ci permette forse di pensare a un ruolo di Atene, geograficamente e culturalmente centrale, come collettrice dei testi misterici orfici, che in Tessaglia, Creta e Italia meridionale troviamo invece in una forma ‘parziale’, non ancora sottoposta a ulteriori rielaborazioni. 242 Cf. Eur. Bacch. 116-119; 217-220; 1235-1237. In un’iscrizione milesia del III o II sec. a.C. le baccanti della città lodano una sacerdotessa per averle condotte εἰς ὄρος; cf. Porres Caballero (2013), 168.
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definisce tuttavia un “male”, da cui è una sofferenza guarire e a cui è preferibile la morte (vv. 247-249). Il legame dell’orfismo con la figura di Dioniso, attestato nelle testimonianze letterarie,243 sembra trovare la sua conferma ancora una volta nelle lamine, sebbene la possibilità di parlare di ambito dionisiaco, per tutte le lamine, sia una questione controversa. Eppure, anche mantenendo l’articolazione del corpus in due principali gruppi distinti, sembra legittimo individuare una continuità fra questi sulla base di due significativi indizi, ossia il nesso μύσται καὶ βάχχοι nell’ultimo verso del testo di Ipponio (riconducibile al “gruppo B” di Zuntz) e il nome Βάκχιος, riferito evidentemente a Dioniso e associato a quello di Persefone, con la funzione di “liberatore”,244 nelle due lamine di Pelinna (frr. 485-486 Bernabé), che, come abbiamo osservato in cap. I.1.2, presentano affinità con entrambi i gruppi;245 quanto alle lamine turie del “gruppo A”, sebbene siano incentrate sulla figura di Persefone, esse contengono l’invocazione, oltre che alla χθονίων βασίλεια, anche a Εὐκλῆς Εὐβουλεύς [identificabili rispettivamente con Ade e Dioniso] καὶ ἀθάνατοι θεοὶ ἄλλοι.246 Come abbiamo anticipato nel precedente capitolo (cf. cap. I.1.2), il Dioniso in questione sarebbe da identificare con il figlio di Zeus e Persefone, 243 Cf. al riguardo un passo erodoteo (II.81), dove si parla di pratiche di sepoltura che concordano con quelle “orfiche e bacchiche, che sono in realtà egiziane e pitagoriche”; è vero che in un importante gruppo di manoscritti (Laur. LXX 3; Rom. Gr. 83; Laur. Conv. Suppr. 207) troviamo una versione abbreviata dove si menzionano solo pratiche “orfiche e pitagoriche”, ma potrebbe essere quest’ultimo un intervento volto a semplificare il testo – senza considerare la possibilità di saute du même au même. 244 Εἰπεῖν Φερσεφόνᾳ σ᾽ ὅτι Βάκχιος αὐτὸς ἔλυσε (v. 2). 245 Se per le lamine di Pelinna appare impossibile negare il collegamento con il mondo dionisiaco, nel caso della lamina di Ipponio la relazione potrebbe essere messa in discussione dalla possibilità di riferire o meno il termine βάχχος a un’iniziazione di tipo dionisiaco: esprime appunto riserve in questo senso Ferrari (cf. Ferrari (2008) 3-5), ma paiono convincenti sia gli studi più recenti che confermano la necessità di collegare βάχχος in quanto nome del devoto / iniziato di Dioniso con l’epiteto Βάκχος / Βάκχιος riferito al dio (cf. Santamaría (2013), 38-57; cf. inoltre Jiménez San Cristóbal (2009b), 46-54 con particolare riferimento all’uso di questi termini in contesti orfici), sia quelli che riconoscono l’indiretta allusione a comportamenti appunto bacchici, nelle attestazioni soprattutto tragiche, dei termini che presentano la base βακχ- (cf. Schlesier (1993), 89-114, in particolare 103-114). 246 Cf. frr. 488.2; 489-490.2 Bernabé, su cui si veda Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 100-105, con un’ampia rassegna relativa alle attestazioni di Εὐβουλεύς in ambito non soltanto orfico, ma anche eleusino (per cui rimandiamo nello specifico a Sfameni Gasparro (1986), 102-110).
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dilaniato dai Titani e successivamente ricomposto e riportato in vita; dalle ceneri dei Titani, fulminati da Zeus, sarebbe nata la stirpe degli uomini, su cui graverebbe quindi la colpa dell’assassinio del dio. Proprio a queste vicende mitiche, nonostante che sia stata messa in discussione la possibilità di associare questi miti all’orfismo, potrebbe essere ricondotta l’escatologia orfica relativa alla necessità per gli uomini di scontare una pena atavica attraverso un ciclo di rinascite e alla morte come liberazione dell’anima dal corpo al termine di quel ciclo e raggiungimento di una vita autentica intesa come acquisizione di uno status divino.247 La possibilità di riconoscere, sullo sfondo di entrambi i gruppi delle lamine, queste dottrine, giustificata proprio dai riferimenti all’ambito dionisiaco menzionati qui sopra, sembra emergere da alcune allusioni: le lamine del “gruppo A” di Zuntz offrono senz’altro gli indizi più cospicui in questo senso,248 ma alcuni elementi potrebbero essere riconoscibili anche nelle la-
247 Il mito in questione era narrato, secondo la ricostruzione in Bernabé (2009b), nelle Rapsodie orfiche, in particolare, nei frr. 280-283; 296-329 Bernabé (cf. anche frr. 36; 39; 59 Bernabé, da una tradizione diversa dalle Rapsodie). Pausania (cf. VIII.37.5 = fr. 39 Bernabé) attribuisce a Onomacrito la composizione di ὄργια sui παθήματα di Dioniso per opera dei Titani, introducendo l’argomento in relazione alla presenza della statua del Titano Anito accanto a quella della Despoina di Lykosoura (per l’ipotesi di un influsso orfico sul culto di Lykosoura, cf. Ferrari, Prauscello (2007), 199-200). Sul mito di Dioniso e i Titani cf. West (1983), 74-75; Burkert (2002), 42; Bernabé (2009b), 591-607, dove si dimostra sia l’antichità di questo mito sia la sua piena appartenenza all’orfismo, ribadita attraverso l’analisi delle testimonianze platoniche in Bernabé (2011), 145-154. Per un’opposta interpretazione, cf. Brisson (1995), 483-497; Edmonds (2013), 304 ss.. 248 Nelle lamine turie frr. 489-490.4 Bernabé l’iniziato si presenta supplice a Persefone dicendo di “aver pagato” la ποινὰν ἔργων ἕνεκα οὔτι δικαων (riecheggiato nel più breve ἄποινος γὰρ ὁ μύστης della lamina di Fere, fr. 493.2 Bernabé); la lamina fr. 488.5 Bernabé si riferisce poi esplicitamente al ciclo di rinascite da cui l’uomo deve liberarsi. Analoga interpretazione vale per il παθὼν τὸ πάθημα τὸ δ᾽ οὔπω πρόσθ᾽ {ε}ἐπεπόνθεις di un’altra lamina turia (fr. 487.3 Bernabé) e per il Βάκχιος αὐτὸς ἔλυσε delle lamine di Pelinna. Sulla rinascita divina dell’anima dopo la morte sono esplicite, oltre alle due lamine di Pelinna, anche le stesse lamine turie frr. 487.4; 488.8 Bernabé; in frr. 489-490.7 Bernabé si parla invece dell’aspirazione a essere mandati ἕδρας ἐς εὐαγέ{ι}ων. A questa concezione religiosa sembrano rimandare anche le lamine rinvenute a Olbia, una delle quali (IOlb. 94a Dubois) reca l’iscrizione βίος θάνατος βίος; cf. Bernabé (2009a), 538 ss.. Quanto all’interpretazione del κεραυνός in frr. 488.4; 489-490.5 Bernabé alla luce del mito dei Titani fulminati da Zeus, cf. Graf (1993), 252-253; per il legame fra Dioniso e il κεραυνός, cf., oltre al mito della nascita di Dioniso da Semele, Pind. fr. 70b.15-16. La speranza oltremondana da parte dell’iniziato può essere dunque vista come una sorta di identificazione con il destino di Dioniso stesso,
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mine “mnemosynie” del “gruppo B”249 (l’associazione fra Persefone e Dioniso è addirittura esplicita nelle lamine di Pelinna). È bensì vero che le lamine non menzionano esplicitamente il mito alla base della loro escatologia (come potrebbe avvenire, del resto, considerando la tipologia dei testi in questione? ), ma appare quanto meno legittimo ipotizzare tale sfondo mitico e dottrinario dietro ai testi conservati in esse, dato che, come osserva Friz Graf, «a solution that gives a coherent picture is more likely to be right, besides being intellectually more satisfactory».250 Sebbene in Euripide non sembri emergere alcun accenno esplicito, nelle tragedie a noi pervenute, di una relazione ‘orfica’ del tipo madre-figlio fra Persefone e Dioniso (quest’ultimo è bensì definito “due volte nato” nell’Ippolito, v. 560, e rappresentato come frutto di una doppia gestazione nelle Baccanti, vv. 519-529,251 ma sempre all’interno del mito tebano della doppia nascita da Semele e dalla coscia di Zeus), non possiamo escludere che Euripide si serva della vicenda tebana, forse più accettabile per un pubblico ateniese e tale, allo stesso tempo, da riprodurre il modello della morte e ri-
morto e ritornato in vita: si pensi alle formule, comuni al gruppo II B di Pugliese Carratelli (lamine turie e lamine di Pelinna), che descrivono il cadere nel latte dell’iniziato defunto in forma di vari animali (toro, ariete e capretto) legati al dio (cf. però al riguardo anche quanto osservato qui sopra, in cap. I.1.2). In fr. 488.7 Bernabé l’immagine è rafforzata da quella dell’immergersi ὑπὸ κόλπον χθονίας βασιλείας (cf. Graf (1993), 245-246; Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 76 ss.). Il legame di Dioniso con l’orfismo è comunque sia confermato dai ritrovamenti delle lamine ossee di Olbia, dove, nelle lamine del gruppo 94 Dubois (fine del V sec. a.C.), sono associati i nomi Διόνυσος e Ὀρφικοί (94a Dubois = fr. 463 Bernabé); cf. Lévêque (2000), 82; Bernabé (2009a), 537-546. 249 Cf. al riguardo Tortorelli Ghidini (2000), 35-38, che ha proposto di interpretare il v. 4 della lamina di Ipponio (riconoscibile anche al v. 6 della lamina di Entella) come il “ritorno in vita” delle anime che si fermano alla prima fonte senza proseguire fino al lago di Mnemosyne e ricadendo così nel ciclo della metempsicosi. La formula stessa che funge da lasciapassare per l’iniziato nelle lamine “mnemosynie”, “sono figlio della Terra e del Cielo stellato”, al di là della presenza di un riferimento all’origine titania degli uomini (cf. qui sopra, cap. I.1.2), ribadisce l’origine divina dell’iniziato, rivendicata anche dagli iniziati delle lamine turie del “gruppo A” (cf. frr. 488.3; 489.3-490.3 Bernabé). 250 Cf. Graf (1993), 254; sulla stessa linea anche Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 66-76. Sull’ipotesi di Edmonds (2013), 304 ss. di ricondurre l’escatologia delle lamine alla vicenda del rapimento di Persefone e a una relazione fra Dioniso e Kore, si vedano le obiezioni espresse in Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 94. 251 Sull’invocazione a Dioniso come Διθύραμβος (v. 526) nel secondo stasimo delle Baccanti, in quanto, secondo l’etimologia popolare, “passato due volte attraverso la porta”, quindi “nato due volte”, cf. Mirto (2010), 7-10.
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nascita del dio (del resto la tradizione orfica stessa sembra aver inglobato anche la nascita di Dioniso da Semele252), portandola all’interno di un sistema di rimandi all’escatologia orfico-dionisiaca. Il delirio di Fedra, dunque, sembra inserirsi in tale sistema, in virtù dei suoi notevoli punti di contatto con la religiosità orfico-dionisiaca delle lamine auree. Dobbiamo invero a questo punto osservare che la μανία rituale dionisiaca, legata al potere del vino e della danza di liberare dagli affanni della vita presente (nonché al fenomeno del ‘menadismo’), tende a essere considerata distinta dalla realtà misterica orfico-dionisiaca, dove il ruolo liberatore di Dioniso si risolverebbe piuttosto in un’ottica escatologica.253 Tuttavia, non solo non dobbiamo escludere intersezioni fra i due fenomeni,254 ma dobbiamo anche considerare la personale rappresentazione che Euripide poteva fornire della religiosità dionisiaca e della sua relazione con credenze interpretabili come ‘orfiche’ (cf. avanti in relazione alle Baccanti). Inoltre, un interessante frammento, relativo a Dioniso in quanto Λύσιος, conservatoci da Olimpiodoro (fr. 350 Bernabé, collocato fra i frammenti delle Rapsodie) e da lui attribuito a Orfeo, spiega che gli uomini, celebrando riti in onore di Dioniso, sperano nella λύσις da προγόνων ἀθεμίστων. Dioniso, in virtù del suo potere su di loro, è infatti capace di liberare dalla sofferenza (πόνων 252 Su Dioniso διμάτωρ (cf. h. Orph. 52.9) nella tradizione orfica, cf. Rudhardt (2002), 484-501. 253 Se Dioniso è il dio Βάκχιος che induce la μανία rituale, è allo stesso tempo anche il dio capace di liberare dalle ansie e dalle angosce della vita di ogni giorno (cf. Eur. Bacch. 280-281; 381; 772; per altri riferimenti cf. ancora Santamaría (2013), 50, nota 74). Nella dimensione orfico-misterica, invece, la liberazione (si ricordi il verbo ἔλυσε delle lamine di Pelinna, cf. qui sopra, nota 248) riguarda il destino oltremondano dell’anima (liberazione dal ciclo delle nascite e dalla pena che grava sugli uomini). Sul duplice valore dell’epiclesi Λύσιος cf. Casadio (1999), 123 ss.. 254 Per l’individuazione di analogie e differenze fra una dimensione religiosa ‘puramente’ dionisiaca e una ‘orfico-dionisiaca’ cf. Jiménez San Cristóbal (2009), 712-727 (sul problema dell’utilizzo delle Baccanti, fatto dalla studiosa, per la ricostruzione dei riti dionisiaci, cf. Porres Caballero (2013), 159-181). Sul rapporto del dionisismo con la dimensione oltremondana, cf. Cole (1993), 276-295, dove si osserva l’assenza di qualsiasi messaggio di tipo escatologico nelle iscrizioni sepolcrali con temi dionisiaci di età imperiale. È in ogni caso prudente non delineare confini troppo netti fra le varie manifestazioni della religiosità dionisiaca: come il vino, elemento caratteristico delle cerimonie dionisiache, è menzionato nelle lamine di Pelinna come τιμή che spetta all’iniziato nell’aldilà, così il legame di Dioniso con la sfera dell’aldilà appare anche in testimonianze non immediatamente riconducibili all’‘orfismo’ (si pensi alla presenza di tiasi dionisiaci nelle rappresentazioni vascolari dell’aldilà caratteristiche dell’Italia meridionale, su cui cf. Cabrera (2013), 488-503, o al caso stesso delle Antesterie ateniesi).
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χαλεπῶν) e dal furore senza freno (ἀπείρονος οἴστρου), conseguenze, possiamo dedurre, di quella colpa atavica. Il legame di Dioniso con la follia sembra dunque rimanere anche in ambito orfico, nel senso di una follia ‘negativa’, associata alla sofferenza e dovuta a colpe originarie che ricadono sugli uomini. Con la parola οἶστρος non a caso Euripide indica in Hipp. 1300 la passione di Fedra per Ippolito e in Bacch. 119 il delirio delle donne tebane che abbandonano telai e spole (οἰστρηθεὶς Διονύσῳ): in entrambi i casi il termine indica quindi un sovvertimento dell’ordine naturale.255 La μανία di Fedra, dionisiaca e erotica allo stesso tempo,256 è infatti un “male” (v. 248) da cui solo la morte, quindi il dio Λύσιος nella sua dimensione escatologica, può liberarla. D’altra parte, poiché, come riconosce lei stessa, porta su di sé la colpa delle donne della sua famiglia, Pasifae e Arianna, colpevole, quest’ultima, contro Dioniso (vv. 337-339, per cui cf. avanti), quella μανία si configura anche come punizione divina, non solo di Afrodite, ma anche di Dioniso stesso,257 come vedremo. L’intenzione euripidea di connotare in senso orfico il dionisismo di Fedra potrebbe infine essere confermata anche dalla rhesis pronunciata da Fedra di fronte alle donne di Trezene e in cui compare la metafora dello “specchio” presentato dal Tempo, “come a una giovane fanciulla”, attraverso il quale si rivela la vera natura degli uomini malvagi (vv. 426-430). Anche escludendo eventuali collegamenti orfici del riferimento a Χρόνος (cf. qui sopra, cap. I.1.1.3),258 dobbiamo registrare l’attestazione dello specchio
255 Sulla relazione del frammento di Olimpiodoro con il mito antropogonico orfico, cf. Graf (1993), 243-244; Bernabé (2011), 151, dove tale relazione è confermata dal parallelo platonico di Leg. 854b, in cui compare il termine οἶστρος. Sul riferimento alle menadi tebane nel passo citato delle Baccanti, cf. anche Reyes, Ristorto (2014), 9-10. 256 Gli exempla dionisiaci con cui il coro dell’Ippolito illustra la potenza di Eros mirano infatti a sottolineare la coincidenza di μανία erotica e dionisiaca: cf. vv. 545-554 (Iole, consegnata da Afrodite a Eracle, viene rappresentata come una “baccante”) e vv. 555-564, dove si parla invece della morte di Semele, causata anch’essa da Afrodite, per opera della βροντὰ ἀμφίπυρος di Zeus (per il legame fra Dioniso e il κεραυνός, cf. qui sopra, nota 248). Semele (citata anche dalla nutrice ai vv. 453-454 come oggetto dell’amore di Zeus e quindi come exemplum della forza di Eros, a cui non sfuggono nemmeno gli dei) è detta in particolare τοκὰς διγόνοιο Βάκχου (vv. 559-560), con un significativo riferimento, dato il contesto che stiamo delineando, alla duplice nascita del dio. Sulla questione cf. Schlesier (2002), 63-70. 257 Sulla ‘follia bacchica’ come punizione che si abbatte su Penteo e sulla sua famiglia, cf. Santamaría (2013), 51-53. 258 Del resto Euripide sembra qui riecheggiare anche un passo pindarico (fr. 159 Maehler), in cui il Tempo è definito ἀνδρῶν δικαίων σωτὴρ ἄριστος.
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nei rituali orfico-dionisiaci, come testimoniano i ritrovamenti di Olbia (V sec. a.C.) e il Papiro di Gurôb (III sec. a.C.):259 il compito di rivelare la verità attribuito da Fedra allo specchio potrebbe infatti accordarsi con un’allusione a una realtà di tipo rituale. L’inserimento di Artemide nello scenario orfico-dionisiaco Euripide, nel momento in cui, per bocca di Fedra, evoca uno scenario di caccia montana, opera poi un’ulteriore associazione non solo con la Μάτηρ ὀρεία della parodo, ma anche con Artemide, esplicitamente invocata da Fedra nel suo delirio (in particolare come Ἄρτεμι Λίμνας, v. 228, il che riconduce direttamente alla Δίκτυννα che si aggira διὰ λίμνας della parodo260). Del resto, nel Ditirambo II (fr. 70b Maehler), Pindaro rappresentava una τελετή dionisiaca celebrata dai “celesti” (vv. 6-7), menzionando fra i partecipanti, oltre alle Naiadi e a frenetici danzatori (vv. 12-14), sia la Μάτηρ Μεγάλα, a cui sono associati i caratteristici strumenti musicali (τύπανα e
259 Sulla menzione dei giocattoli nel rituale (orfico?-)dionisiaco attestato nel Papiro di Gurôb (coll. 29-30), cf. Hordern (2000), 139-140, dove vengono citati come paralleli lo specchio inscritto di Olbia (n. 92 Dubois) e l’associazione del nome di Orfeo e dello specchio in PSI 850 (ca. II-III sec. d.C.); su quest’ultimo cf. Cardin, Ozbeck (2011); Jiménez San Cristóbal (2015a). Sul ruolo dei giocattoli (fra cui appunto lo specchio) come σύμβολα dei misteri di Dioniso in Clem. Al. Protr. II.17-18 e nel Papiro di Gurôb, cf. Tortorelli Ghidini (2000a), 255-263; cf. ora Bernabé, Jiménez San Cristóbal, Two Aspects of the Orphic Papyrological Tradition, in corso di pubblicazione, § 2.7. Sul ruolo dello specchio nell’Ippolito cf., in una diversa prospettiva, Zeitlin (1985), 90-93. 260 Per eventuali connessioni dionisiache della λίμνη (almeno per un pubblico ateniese), cf. qui sopra, nota 226. Bisogna anche segnalare che Pausania (II.30.7) ci parla di un ἄλσος di Artemide presso la Φοιβαία λίμνη, rinominata poi da Saron, lo sventurato cacciatore lì affogato. Si tratta di un modello mitico, tra l’altro, affine a quello di alcune versioni del mito di Dictinna (cf. qui sopra, nota 218). Un collegamento fra la vicenda della cretese Dictinna e quella trezenia di Saron era d’altra parte offerta a Euripide dal culto tributato a Egina (collocata a ridosso dello stesso golfo su cui si affaccia Trezene) a Aphaia, identificata dagli egineti con quella stessa fanciulla Britomarti adorata a Creta come Dictinna e giunta appunto sull’isola nella sua fuga da Minosse (cf. Paus. II.30.3; Ant. Lib. Met. 40). La figura di Ippolito, che, come si ricorderà, muore proprio sulla riva davanti al golfo Saronide (cf. Hipp. 1200), è infatti costruita da Euripide proprio sulla base dell’incontro dei due modelli mitici della cretese Dictinna e del trezenio Saron, incontro mediato dal mito egineta di Britomarti: come Britomarti-Dictinna, Ippolito difende la sua verginità (e per questo riceve, per volere di Artemide, un culto), ma trova la morte laddove era morto a sua volta il cacciatore Saron.
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κρόταλα) e le fiaccole, sia Artemide, definita (vv. 19-21) οἰοπόλας ζεύ- / ξαισ᾽ ἐν ὀργαῖς / βακχίαις φῦλον λεόντων α[ (con proposta di integrazione – Bury –, non accolta però da Maehler, ἀγρότερον Βρομίῳ), espressioni che sottolineano lo strettissimo legame con Dioniso. Si osservi che uno degli elementi tipici del corredo della Madre, i leoni, siano qui attribuiti a Artemide, quasi a sottolineare lo sdoppiamento della figura metroaca e, allo stesso tempo, πότνια θηρῶν in due divinità. La costruzione di uno sfondo religioso in cui si fondano elementi dionisiaci e artemidei sembra inoltre adattarsi particolarmente alla realtà cultuale di Trezene, per cui Pausania (II.31.2) attesta l’esistenza di un santuario di Artemide σώτειρα proprio nell’agorà della città, al quale sarebbe stata legata la vicenda dell’anabasi di Semele dall’Ade per opera di Dioniso, un mito che ci riconduce alla problematica dei rapporti di Dioniso con l’aldilà (anche se non direttamente, a quanto sembra, con le dottrine orfiche).261 Sembra in accordo con il quadro fin qui delineato il fatto che la prima menzione esplicita del nome di Dioniso da parte di Fedra sia in riferimento alla “sventurata” Arianna, Διονύσου δάμαρ (v. 339), il cui tragico destino di morte (che già era stato della madre Pasifae, cf. vv. 337-338) Fedra sente riservato anche per lei: questa versione del mito, attestata nell’Odissea (XI.321-325), vede infatti Arianna, legata a Dioniso ma colpevole dell’amore per Teseo, uccisa da Artemide Διονύσου μαρτυρίῃσι,262 a sancire un legame strettissimo fra le due divinità (in questo caso nel segno della vendetta), quale sembra emergere anche dal culto trezenio di cui ci parla Pausania.
261 Per un’analisi del culto trezenio di Dioniso e delle testimonianze relative all’anabasi di Semele dall’Ade, cf. Casadio (1999), 159-167. Sulle relazioni mitiche e cultuali fra Artemide e Dioniso, cf. Seaford (1988), 124-136. Ulteriori connessioni cultuali fra Dioniso e Artemide emergono poi nei due culti di Corinto (cf. Paus. II.2.6-7) e Sicione (cf. Paus. II.7.5-6), su cui cf. ancora Casadio (1999), 47 ss.. 262 Diodoro Siculo (V.51.4) ci conserva invece una versione secondo cui Dioniso sarebbe apparso in sogno a Teseo per indurlo a abbandonare Arianna, che una volta condotta dal dio εἰς ὄρος sarebbe sparita con lui. L’ambiguità del rapporto fra Dioniso e Teseo emerge del resto anche dalla versione più comune della vicenda relativa a Arianna, secondo cui quest’ultima sarebbe divenuta appunto sposa di Dioniso dopo l’abbandono da parte di Teseo a Nasso: la festa ateniese delle Oscoforie, tenuta nel porto del Falero per la maturazione dell’uva, sarebbe stata istituita da Teseo come ringraziamento alle divinità che lo avevano protetto nel suo viaggio di ritorno da Creta e lo avevano lasciato libero, fra le quali vi erano appunto Arianna e Dioniso (cf. Plut. Tes. XXIII, interpretato da Kerényi (2011), 112-113). Il riferimento, nell’Ippolito, alla versione odissiaca del mito di Arianna e Dioniso è analizzato in Schlesier (2002), 69-70.
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§ 2.1.2 Ippolito e Teseo Il tema della scissione fra anima e corpo, che possiamo ricondurre anch’esso alle dottrine orfiche (cf. qui sopra, cap. I.1.2), emerge nell’Ippolito con una certa insistenza,263 ripreso specularmente sia da Fedra sia da Ippolito, il quale può essere quindi anch’egli incluso nella stessa dimensione religiosa all’interno della quale si muove Fedra. Non solo infatti i due protagonisti del dramma rivendicano entrambi per sé la purezza264 – una purezza rituale (che nel caso di Ippolito assume i contorni di una vera e propria castità), come suggerisce l’aggettivo ἁγνός a cui ricorrono (Fedra: v. 317; riferito a Fedra: v. 138; Ippolito: vv. 102; 1003) –, ma, per rappresentare l’avvenuta perdita di tale purezza, la attribuiscono a una sola parte del loro essere, diviso fra anima e corpo come entità distinte l’una dall’altra. Fedra infatti contrappone le sue χεῖρες ἁγναί al μίασμα della sua φρήν (v. 317). Ippolito, mentre cerca dapprima di sfuggire al giuramento prestato alla nutrice con il celebre v. 612, ἡ γλῶσσ᾽ ὀμώμοχ᾽, ἡ δὲ φρὴν ἀνώμοτος, nel confronto finale con Teseo cerca poi di riconoscere una concordanza fra il suo corpo e la sua anima (significativamente menzionati distintamente), attribuendosi ἁγνὸν δέμας (v. 1003) e παρθένον ψυχήν (v. 1006)265 – da osservare come nel riferirsi alla bellezza di Fedra, poco oltre al v. 1009, Ippolito parli di τὸ τῆσδε σῶμα, collocando quindi quest’ultima, colpevole, solo in una dimensione ‘materiale’.
263 Cf. Schlesier (2002), 71. 264 Cf. le lamine turie del “gruppo A” (frr. 488.1; 489-490.1 Bernabé), dove l’iniziato si presenta con le parole ἔρχομαι ἐκ καθαρῶν καθαρά; cf. al riguardo Schlesier (2002), 60; 64. Sulla purezza come tratto distintivo dell’orfismo insiste anche Edmonds pur all’interno della sua generale interpretazione del fenomeno come non riconducibile a un preciso sistema dottrinario di riferimento (cf. Edmonds (2013), 163; 217 ss., dove vengono citati anche i vv. 951-955 dell’Ippolito euripideo, su cui cf. avanti). 265 Per un’interpretazione dell’espressione παρθένος ψυχή in Hipp. 1006, nell’ottica di un’evoluzione pre-platonica del termine nella letteratura greca, come esempio innovativo e isolato di attribuzione di un «codice morale interno» alla ψυχή, dovuto alla volontà dell’autore di stabilire una connessione con l’orfismo, cf. Claus (1981), 84-85 (cf. 69-85, per una disamina delle ricorrenze del termine ψυχή nella tragedia greca).
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Capitolo II: L’ispirazione cretese di Euripide: l’Ippolito e i Cretesi
Per quanto riguarda specificamente Ippolito, questi, nonostante che nel prologo ci sia presentato come ἐπόπτης eleusino, viene portato anch’egli all’interno di una dimensione orfico-dionisiaca fin dalla scena iniziale del λειμών, in cui il giovane esprime un auspicio assai significativo se considerato alla luce dell’escatologia delle lamine orfiche (in particolare di quelle turie appartenenti al “gruppo A”), rispetto alla concezione della morte come rinascita (cf. cap. I.1.2 e qui sopra, nota 248): τέλος δὲ κάμψαιμ᾽ ὥσπερ ἠρξάμην βίου (v. 87).266 Del resto la morte stessa di Ippolito è fortemente connotata da Euripide in senso dionisiaco, non solo per il fatto che si configura, in un certo senso, come uno σπαραγμός per opera di un toro (v. 1214; si pensi per esempio all’analoga sorte di Dirce nell’Antiope dello stesso Euripide, cf. TrGF 12 F221), ma anche perché vi ritroviamo immagini quali quella dell’ἠχὼ χθόνιος, simile a una βροντὴ Διός, che produce un βαρὺν βρόμον (vv. 1201-1202): questi versi, oltre a riferirsi direttamente alla βροντὰ ἀμφίπυρος relativa alla morte di Semele di cui si parla nel primo stasimo (v. 558),267 suggeriscono e evocano, sottolineandolo con una forte allitterazione, il nome stesso di Dioniso, Βρόμιος.268 Dioniso, connotando, come abbiamo visto, in modo significativo il contesto religioso del dramma, potrebbe condizionare, seppur non agendo in prima persona, la trama dell’Ippolito su un duplice livello, da un lato, in quanto sposo ‘tradito’ di Arianna (secondo la versione del mito a cui si riferisce Fedra), vendicandosi di Teseo (tale vendetta agirebbe quindi in modo complementare e speculare rispetto a quella di Afrodite contro Ippolito) per mezzo della morte di Fedra (preda di una μανία erotica e dionisiaca allo stesso tempo) e, soprattutto, di Ippolito (su cui appone, come si è detto ora, il suo sigillo), dall’altro concedendo a Ippolito, attraverso Artemide, la ricompensa di un culto eroico dopo la morte (cf. vv. 1423-1430),269 in cui si
266 Cf. Schlesier (2002), 67-68. 267 Cf. Schlesier (2002), 69. 268 Per ulteriori elementi interpretabili in senso orfico-dionisiaco in relazione alla morte di Ippolito (quale un possibile riferimento alla ‘colpa titanica’ degli uomini fatto da Ippolito morente ai vv. 1379-1381), cf. Schlesier (2002), 81-85. 269 Sul carattere eroico del culto trezenio di Ippolito, cf. Barret (1964), 3-4; sull’interpretazione di tale culto come un elemento che contribuisce alla costituzione dello sfondo orfico-dionisiaco del dramma, cf. Schlesier (2002), 85-86, sulla base del fatto che la sepoltura dell’iniziato nella cui tomba è stata ritrovata la lamina turia fr. 487 Bernabé suggerirebbe la possibilità di un culto eroico tributato al defunto stesso. Cf. del resto Ferrari (2008), 15-16, nella cui analisi del lacunoso testo conservato nella lamina di Entella (fr. 475 Bernabé) si propone di leggere, al v. 2, la parola ἥρως in riferimento all’iniziato, un uso in accordo non solo con
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sarebbe conservata memoria di Fedra.270 Si osservi come, nel finale, a sancire tali ‘risarcimenti’ sia Artemide, la quale, anche nella versione odissiaca della morte di Arianna, agisce Διονύσου μαρτυρίῃσι (cf. Od. XI.325; si ricordi inoltre la relazione tra Artemide e Dioniso a Trezene, per cui cf. qui sopra). Non è forse un caso infatti che Teseo sia l’unico personaggio a esprimere parole di disprezzo nei confronti del culto orfico-dionisiaco: si tratta, tra l’altro, di una delle più antiche attestazioni, nella letteratura greca, dell’esistenza di culti orfici collegati alla sfera dionisiaca. Si considerino i vv. 950-957: οὐκ ἂν πιθοίμην τοῖσι σοῖς κόμποις ἐγὼ θεοῖσι προσθεὶς ἀμαθίαν φρονεῖν κακῶς. ἤδη νυν αὔχει καὶ δι᾽ ἀψύχου βορᾶς σίτοις καπήλευ᾽ Ὀρφέα τ᾽ ἄνακτ᾽ ἔχων βάκχευε πολλῶν γραμμάτων τιμῶν καπνούς˙ ἐπεὶ γ᾽ ἐλήφθης. τοὺς δὲ τοιούτους ἐγὼ φεύγειν προφωνῶ πᾶσι˙ θηρεύουσι γὰρ σεμνοῖς λόγοισιν, αἰσχρὰ μηχανώμενοι. Alla luce di quanto osservato finora, le parole di Teseo non appaiono solo come un’espressione della scarsa tolleranza a Atene di forme di religiosità ‘non ortodosse’ (cf. per esempio Plat. Resp. 364b-365a), quali potevano essere quelle riconducibili all’orfismo, e quindi come un atto d’accusa generico nei confronti degli atteggiamenti da περισσός…ἀνήρ (v. 948) di Ippolito, ma come un riferimento a pratiche realmente presenti nello sfondo religioso della tragedia, proprio in relazione ai personaggi di Ippolito e Fedra.
il μεθ᾽ ἡρώεσσιν al v. 11 della lamina di Petelia (fr. 476 Bernabé), ma anche con gli ἥροες ἁγνοί del fr. pindarico 133, v. 5 Maehler, sui cui possibili legami con il mito di Dioniso dilaniato dai Titani cf. Graf (1993), 244. 270 Fra i più significativi segnali che ci permettono di identificare Fedra come iniziata ai misteri orfici di Dioniso, secondo l’analisi proposta in Schlesier (2002), 73-76, vi è il fatto che Fedra ricorra a uno scritto con “l’impronta del sigillo d’oro” (v. 862) per riscattare la sua dignità e il suo onore (benché questi tre elementi, morte, oro e tavoletta scritta, ci riconducano alle lamine, bisogna tuttavia considerare che lo scritto di Fedra dice il falso seppur con la pretesa di essere vero). In ogni caso, c’è da aggiungere che la condizione di Fedra, preda di una μανία erotica e dionisiaca allo stesso tempo, in virtù della quale continua bensì a agire da ‘iniziata’, ma come strumento della vendetta e della punizione divina contro Ippolito e Teseo, presenta alcune affinità con la scena delle Baccanti in cui Dioniso ‘inizia’ Penteo ai suoi riti, infondendo in lui la μανία della baccante solo per condurlo alla rovina (vv. 810-846).
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Capitolo II: L’ispirazione cretese di Euripide: l’Ippolito e i Cretesi
È significativo che Ippolito non neghi la sua appartenenza a questa realtà rituale, ma, anzi, rivendichi in qualche modo la sua concezione elitaria della vita: ἐγὼ δ᾽ ἄκομψος εἰς ὄχλον δοῦναι λόγον, / εἰς ἥλικας δὲ κὠλίγους σοφώτερος (vv. 986-987; si ricordino le parole della nutrice ai vv. 212 ss.). Allo stesso tempo, tuttavia, Teseo fornisce una rappresentazione ‘semplificata’ (tale forse da rispecchiare quella corrente nella mentalità comune nell’età di Euripide) dell’orfismo, menzionandone solo le manifestazioni esteriori, ossia le false (dal suo punto di vista) pretese di purezza basate principalmente sull’astinenza dalla carne e sulla fedeltà ai γράμματα di Orfeo, senza cogliere la profondità del sentimento religioso.271 Tra l’altro, se Teseo – per di più vittima egli stesso di un inganno – intende ulteriormente invalidare la credibilità di suo figlio rinfacciando a un cacciatore l’ipocrisia di essere vegetariano, questo non esclude in realtà la possibilità di interpretare la figura di Ippolito alla luce dell’orfismo, ma conferma piuttosto la semplificazione operata da Teseo nella rappresentazione di una religiosità ben più complessa.272 L’eventuale contraddizione trova infatti un importante riscontro nella parodo dei Cretesi euripidei, il cui scenario religioso,
271 Per descrivere la supposta dieta ‘vegetariana’ di Ippolito, il Teseo euripideo si serve del verbo καπηλεύω, legato al sostantivo κάπηλος “piccolo commerciante”. Secondo l’interpretazione di Barret, il verbo implicherebbe il significato negativo di “ingannare per far apparire la merce migliore di quella che è” e tale significato sarebbe appunto quello da individuare nell’espressione usata da Teseo ai vv. 952-953: Ippolito ‘inganna’ con il cibo (σίτοις), in particolare con la sua dieta vegetariana (δι᾽ ἀψύχου βορᾶς), apparendo così, per mezzo di tali pratiche ascetiche, ingannevolmente σώφρων καὶ κακῶν ἀκήρατος (v. 949); cf. Barret (1964), 344; cf. al riguardo anche Bernabé (2016), 188. Sull’importanza poi dei γράμματα nell’orfismo cf. Barret (1964), 345; sul riferimento al fumo di quei γράμματα (v. 954) cf. Schlesier (2002), 78. Sulla rappresentazione dell’orfismo fatta da Teseo, cf. Bernabé (2016), 185-189. 272 A partire da Barret, che escludeva recisamente la possibilità di un Ippolito ‘orfico’ anche sulla base dell’assurdità della rappresentazione di un cacciatore come vegetariano (cf. Barret (1964), 342-343), analoghi problemi sono rilevati in Schlesier (2002), 79-81, sebbene la studiosa individui poi i legami fra Ippolito e Orfeo a un altro livello, e in Edmonds (2013), 217-225. Sulla questione, cf. Macías Otero (2009), 1204-1207. Cf. infine Bernabé (2016), 189-191, dove si considera il discorso di Teseo, al di là del problema dell’essere o meno orfico da parte di Ippolito (cf. p. 190, note 19-20), in generale come un ammonimento agli ateniesi del V sec. contro una setta di ipocriti; tuttavia, come osserva lo studioso, poiché le parole di Teseo si basano sulla falsa accusa di Fedra, questo ne invalida la credibilità e, forse, ci vuol dire Euripide, la cattiva fama stessa diffusa contro queste forme di religiosità. Per una panoramica sui problemi interpretativi del passo, cf. Semenzato (2016), 309-310 (dove si individua in ogni caso una verosimile critica a Teseo piuttosto che a Orfeo).
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ben più preciso, per quanto possiamo ricostruire dal frammento conservatoci da Porfirio (De abst. IV.19 = TrGF 41 F472), presenta ulteriori significativi punti di contatto con la religiosità dell’Ippolito.273 § 2.2 La parodo dei Cretesi di Euripide Φοινικογενοῦς {παῖ τῆς Τυρίας} τέκνον Εὐρώπης καὶ τοῦ μεγάλου Ζηνός, ἀνάσσων Κρήτης ἑκατομπτολιέθρου, ἥκω ζαθέους274 ναοὺς προλιπών, οἷς αὐθιγενὴς τμηθεῖσα δοκὸς (5) Χαλύβῳ πελέκει στεγανοὺς παρέχει καὶ ταυροδέτῳ κόλλῃ κραθεῖσ’ ἀτρεκεῖς ἁρμοὺς κυπαρίσσου. ἁγνὸν δὲ βίον τείνομεν ἐξ οὗ Διὸς Ἰδαίου μύστης γενόμην (10) καὶ {μὴ} νυκτιπόλου Ζαγρέως βροντὰς275 273 Che esistano rimandi precisi fra i Cretesi e l’Ippolito è reso evidente anche soltanto dal toro stesso, giunto dal mare e mandato in entrambi i casi da Posidone (una figura anch’essa di fondamentale importanza nello sviluppo dei due drammi), così da mettere in moto la vicenda dei Cretesi (cf. TrGF 41 T iii a) e concludere quella dell’Ippolito (cf. v. 1169). Dal punto di vista della cronologia delle due tragedie è forse opportuno ipotizzare l’anteriorità dei Cretesi sull’Ippolito, che renderebbe ben più pregnanti i richiami, come quello di Fedra ai vv. 337-338, alla sventurata vicenda della madre Pasifae (cf. Collard, Cropp, Lee (1995), 58). Sulle allusioni a Creta nell’Ippolito, cf. Reckford (1974), 319-328. 274 Si osservi la ricorrenza dell’aggettivo ζάθεος sia nel passo della Teogonia esiodea dove si parla di Licto, la località cretese in cui Gea e Urano mandarono la figlia Rea per il parto, in seguito al quale la dea lasciò il bambino ἄντρῳ ἐν ἠλιβάτῳ, ζαθέης ὑπὸ κεύθεσι γαίης, / Αἰγαίῳ ἐν ὄρει (vv. 483-484), sia in un passo della parodo delle Baccanti, dove si parla dell’invenzione del timpano da parte dei Coribanti cretesi (ζάθεοί τε Κρήτας Διογενέτορες ἔναυλοι, vv. 121-122; cf. qui sopra, § 1.2.1). 275 I codici di Porfirio (tranne quello di Lipsia che ha βροτάς) hanno appunto la lezione βροντάς, per emendare la quale ha riscosso molto successo la congettura di Diels βούτας, corretta poi da Wilamowitz in βούτης (si ricordi che un nesso fra un βουκόλος e un culto dionisiaco è stabilito da Euripide anche nell’Antiope, cf. Collard, Copp, Lee (1995), 70). Per una panoramica sulle edizioni moderne, cf. Cozzoli (2001), 86, dove vengono messe in rilievo, sulla scorta delle osservazioni di Casadio (cf. Casadio (1990), 288-290), le difficoltà che comporta la lezione βούτης e quindi l’opportunità di mantenere la lezione tradita. Cf. invece Magnelli (2009), 130-131, a favore di βούτης. D’altra parte, le connessioni della
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τάς τ᾽ ὠμοφάγους δαῖτας τελέσας μητρί τ᾽ ὀρείᾳ δᾷδας ἀνασχὼν καὶ Κουρήτων βάκχος ἐκλήθην ὁσιωθείς. (15) πάλλευκα δ᾽ ἔχων εἵματα φεύγω γένεσίν τε βροτῶν καὶ νεκροθήκας < > οὐ χριμπτόμενος, τήν τ᾽ ἐμψύχων βρῶσιν ἐδεστῶν πεφύλαγμαι.276 Il frammento sembra esplicitare, riguardo in particolare al culto dell’Ida (cf. v. 10), il complesso di relazioni religiose e cultuali che abbiamo rilevato nell’Ippolito: in evidenza si nota l’associazione dell’elemento ‘bacchico’ (v. 15) e di quello metroaco (v. 13), in modo speculare a quanto emerge dalla lettura combinata della parodo e del primo episodio dell’Ippolito (dove, si ricordi, la prima menzione esplicita del nome di Dioniso è proprio come sposo di Arianna, cf. v. 339, quindi in relazione a vicende cretesi). È vero che al posto del nome di Dioniso troviamo nei Cretesi quello ben più pro-
βροντή con Dioniso (cf. qui sopra, nota 248), oltre che con Zeus, inducono a preferire la lezione tradita, il che implica, per il verso successivo, accettare, come fa la Cozzoli, anche il tradito τάς τ᾽ ὠμοφάγους, evitando la correzione di Bergk, τὰς ὠμοφάγους; sulla questione relativa a δαῖτας/δαίτας cf. ancora Cozzoli (2001), 87. 276 Riportiamo qui eccezionalmente il testo del frammento dei Cretesi, invece che nell’edizione di Kannicht (TrGF 41 F472), in quella di Cozzoli (2001), 79 ss., che ha il merito di evitare di interpretare, ai vv. 5 e 8, gli accusativi traditi δοκούς e ἀτρεκεῖς ἁρμούς come accusativi ‘resultativi’, ipotesi per cui, specialmente nel secondo caso, Kannicht stesso avanza delle riserve (cf. la traduzione, conforme al testo di Kannicht, proposta in Collard, Cropp, Lee 1995). La Cozzoli sceglie tuttavia di stampare fra parentesi, interpretandolo come una glossa, al primo verso, il παῖς τῆς Τυρίας tradito, che, come vedremo in cap. IV.2.2, è forse possibile ritenere genuino. Per la traduzione si consideri quella proposta dalla Cozzoli: “O figlio di Europa, prole di Fenice, / e del grande Zeus, o tu che regni / su Creta dalle cento città, / io qui giungo [o meglio, sono giunto], lasciati i sacri templi, / a cui la trave indigena di cipresso, / tagliata dalla scure dei Calibi / e unita con colla di toro, offre precise giunture di copertura [data la distanza di στεγανούς dal nesso ἀτρεκεῖς ἁρμούς e invece la vicinanza a παρέχει, non è forse da escludere che sia un predicativo “offre come copertura”]. / Pura vita io conduco da quando / divenni iniziato di Zeus Ideo / e, avendo celebrato i tuoni di Zagreo vagante nella notte / e i banchetti di carne cruda / e avendo sollevato le fiaccole in onore della Madre Montana, / essendomi così santificato, / fui chiamato Bacco dei Cureti. / Indossando vesti tutte bianche, dei mortali fuggo le nascite e le sepolture / < > non accostandomi, / e mi astengo dal cibarmi di esseri animati”.
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blematico di Zagreo, sulla cui identificazione con il Dioniso figlio di Zeus e Persefone (esplicita solo a partire da Callimaco, fr. 43, v. 117 Pfeiffer) sono stati sollevati seri dubbi,277 ma sembrano parlare in favore di una tale 277 Un’ampia discussione delle testimonianze relative a “Zagreo” è in Casadio (1990), 286-287; sulla questione cf. anche West (1983), 152-153, dove si rileva che, sebbene il nome non compaia né nei frammenti riconducibili alla narrativa orfica né negli Inni orfici, lo troviamo, dapprima, in Callimaco in riferimento al Dioniso figlio di Zeus e Persefone (così anche nella tradizione lessicografica, per cui cf. fr. 34 Bernabé) e poi in Plutarco (E Delph. 389a), che parla di un Dioniso chiamato Ζαγρεὺς καὶ Νυκτέλιος καὶ Ἰσοδαίτης in relazione al mito del suo dilaniamento. Si osservi come gli altri due epiteti, oltre a Ζαγρεύς, riportati da Plutarco per Dioniso trovino anch’essi un riscontro importante, che potrebbe dipendere da un formulario ripreso dai due autori, nel fr. 472 dei Cretesi: Νυκτέλιος / νυκτιπόλος (v. 11; cf. Casadio (1990), 288), Ἰσοδαίτης / δαῖτας (v. 12). Nonostante che l’etimologia di Ζαγρεύς sia difficile da individuare (siamo forse di fronte a una contrazione dorica di un composto con ἄγρα del tipo, in attico, ζωγρέω, ζωγρεῖον, come ipotizzato da Frisk, cf. Chantraine, s.v. ζάγρη), l’etimologia popolare antica analizzava ζ- = *δι-αγρεύς, “grande cacciatore” (cf. Chantraine, s.v. Ζαγρεύς): considerando che nel frammento dei Cretesi troviamo un altro composto in ζα-, ζάθεος (v. 4), non si può escludere che Euripide intendesse suggerire di leggere il nome come “grande cacciatore” (in Bacch. 1192 Dioniso è del resto invocato come ἀγρεύς). Poiché, a parte la testimonianza di Euripide, che potrebbe inserirsi nel solco del ‘decentramento’ verso Creta di cui abbiamo parlato per l’Ippolito al § 1, non sembrano sussistere particolari elementi per connettere Zagreo a Creta, lo si potrebbe forse ricondurre a Delfi, come sembra suggerire, oltre al contesto del passo di Plutarco, l’invocazione contenuta nel poema epico Alcmeonide (fr. 3 Bernabé, VI sec. a.C.: si tratta della più antica attestazione del nome) alla πότνια Γῆ Ζαγρεῦ τε θεῶν πανυπέρτατε πάντων (cf. West (1983), 153-154): secondo Casadio, Zagreo sarebbe qui il «paredro / figlio della Terra, antica suprema divinità di Delfi», quindi «uno dei tanti nomi dello Zeus catactonio, un avatar (delfico? comunque arcaico) di Ade o Plutone». Eschilo sembrerebbe confermare l’ipotesi con un frammento dagli Egizi (TrGF III F5), in cui avrebbe appunto identificato Zagreo con Plutone; lo stesso Eschilo lo avrebbe d’altra parte identificato anche con il figlio di Ade / Plutone nel Sisifo (TrGF III F228). Già Eschilo rifletterebbe dunque un’oscillazione di questa figura nello status di divinità ctonia principale o subordinata, che in Euripide apparirebbe come compiuta distinzione nel rapporto fra lo Zeus Ideo (una divinità senz’altro dalla forte connotazione ctonia) e Zagreo, ormai identificato con Dioniso. Considerate le forti connessioni con l’aldilà di Dioniso a Delfi (dove esisteva la tomba del dio, da cui le baccanti θυιάδες lo risvegliavano nel corso di una particolare cerimonia, cf. Plut. Is. Os. 365a; Philoch. FGrHist 328 F7, per cui cf. avanti, nota 284), da qui potrebbe essersi originata la sua identificazione con un’antica divinità ctonia. Sulle connessioni del culto delfico di Dioniso con il mito della sua uccisione da parte dei Titani (una relazione stabilita da Tzetze, in schol. in Lyc. Alex. 208, p. 98.6 Scheer = fr. 36 Bernabé, sulla base di Callimaco, fr. 643 Pfeiffer e Euforione, fr. 13 De Cuenca), cf. West (1983), 152-154; Suárez de
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identificazione, oltre alla decisiva presenza del termine βάκχος (v. 15),278 anche le numerose affinità che sono state ravvisate fra il frammento in questione e la parodo delle Baccanti (vv. 64 ss.). Euripide costruisce infatti, in entrambi questi testi, lo scenario religioso cretese, come già osservava Pugliese Carratelli,279 intorno a una triade divina (Zeus-Madre-Dioniso), che presenta tra l’altro una sorprendente affinità con quella documentata per Lesbo da Alceo (fr. 129 Voigt) comprendente Zeus, una dea eolia identificabile bensì con Εra, ma definitα anche πάντων γενέθλαν, quindi una Era dai forti tratti metroaci, e infine Dioniso Κεμήλιος, a cui viene attribuita l’omofagia (ὠμήστας); quest’ultima è caratteristica sia del Dioniso delle Baccanti (cf. v. 139) sia dello Zagreo dei Cretesi (cf. fr. 472, v. 12). Sebbene non ci siano finora elementi che permettano di individuare un culto di Dioniso all’interno del santuario dell’Ida, l’attestazione, in una tavoletta in lineare B (KH Gh 3 Godart, Tzedakis = KH Gq 5 Hallager et alii), dell’esistenza di un santuario di Zeus, dove erano destinatari di μελίσπονδα Zeus stesso e Dioniso, rappresenta un prezioso parallelo del frammento dei Cretesi.280 D’altra parte, la possibilità di attribuire al culto dell’Ida un carattere entusiastico (si ricordi il ritrovamento di timpani e cembali), unita al parallelo offerto dalla triade lesbia, induce quanto meno a ritenere legittimo l’inserimento del dio da parte di Euripide all’interno di quel particolare contesto. La figura di Dioniso appare inoltre legata alle vicende cretesi non solo per quanto riguarda la figura di Arianna (come emerge dall’Ippo-
la Torre (2013), 64-68. Euripide, nei Cretesi, potrebbe forse essere il più antico testimone a attestarci l’esistenza di tali connessioni: il Dioniso dilaniato dai Titani sepolto a Delfi e il figlio di Zeus e Persefone nato, secondo Diod. Sic. V.75, a Creta verrebbero così a coincidere. 278 Si osservi, ai vv. 10 e 15 del frammento, la presenza di entrambi i termini che costituiscono il nesso μύσται καὶ βάχχοι nell’ultimo verso della lamina di Ipponio; cf. Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 52, nota 186. Sulla presenza del termine βάκχος nel frammento dei Cretesi, cf. Bernabé (2016), 202. 279 Cf. Pugliese Carratelli (1976), 464-465; la questione è ulteriormente approfondita in Cozzoli (2001), 9-51 e in Tortorelli Ghidini (2013), 146-147. 280 Cf. Godart, Tzedakis (1991), 129-149. Il ritrovamento è avvenuto a La Canea, nella Creta nord-occidentale, ma un’interessante connessione con il santuario dell’Ida consiste proprio nella tipologia di offerte, ossia libagioni di miele, attestate da Porfirio (De abst. II.20.2-21.1) proprio per i riti cretesi dei Coribanti e che si accordano con l’ἁγνὸς βίος praticato dai misti dell’Ida (cf. Cozzoli (2001), 21). Sul Dioniso cretese di età micenea e sulle altre attestazioni in tavolette in lineare B, cf. Bernabé (2013), 23-37; Tortorelli Ghidini (2013), 146-148. Per una panoramica sulla presenza di Dioniso a Creta, cf. Verbruggen (1981), 119-125.
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lito stesso), ma anche per la tradizione che colloca appunto a Creta la nascita di Dioniso da Zeus e Persefone (cf. Diod. Sic. V.75).281 Quest’ultima notizia costituisce tra l’altro un importante punto di partenza per spiegare il possibile carattere ‘orfico’ della realtà cultuale rappresentata nei Cretesi euripidei (tra l’altro il collegamento fra la nascita di Dioniso e Orfeo è già in Diodoro stesso):282 non solo infatti le lamine orfiche “mnemosynie” ritrovate a Creta (frr. 478-483; 484a Bernabé), risalenti al IIIII sec. a.C., confermano la penetrazione dell’orfismo sull’isola, in siti non troppo lontani dal santuario dell’Ida,283 ma le testimonianze che legano la grotta dell’Ida a personaggi appartenenti alla sfera del misticismo pagano, quali Apollonio di Tiana (Philostr. Vit. Apoll. IV.34.2) e, soprattutto, Pitagora (D. L. VIII.1.3; Porph. Vit. Pythag. 17284), sono ulteriori elementi che si aggiungono allo stesso quadro – senza contare che Diodoro Siculo (V.64.4) parla di Orfeo come μαθητής dei Dattili Idei di Creta e, in conseguenza di questo, come “esportatore” (ἐξενεγκεῖν) di τελεταί e μυστήρια fra i greci.
281 La ricostruzione della figura della dea dell’Aurora indoeuropea è resa possibile dal confronto fra la dea vedica Uṣas e, in ambito greco, una serie di figure femminili fra cui acquistano un particolare rilievo, oltre a Eos, anche Persefone (il cui nome, nella forma attica Περρέφαττα, può essere interpretato come “colei che porta la luce”) e la cretese Pasifae, il cui nome “colei che tutto illumina” corrisponde perfettamente all’epiteto di Eos φαεσίμβροτος; la vicenda mitica di Pasifae, inoltre, presenta significativi contatti con quella dell’Aurora vedica (cf. Janda (2010), 244-250). 282 Per un’ampia disamina degli elementi che permettono di individuare una rappresentazione coerente di un culto orfico nel frammento dei Cretesi, cf. Bernabé (2016), 191-202. 283 Cf. Bernabé (2016), 202, nota 82. Un’altra lamina, rinvenuta a Sfakaki (fr. 494 Bernabé, I sec. a.C.-I sec. d.C.) è invece dedicata a Persefone e Plutone: anche in ambito cretese avremmo dunque sia lamine incentrate sulla figura femminile di Mnemosyne sia una lamina incentrata su quella di Persefone, come avviene nel corpus delle lamine considerate nel suo complesso. 284 La testimonianza di Porfirio sulle cerimonie misteriche a cui avrebbe preso parte Pitagora contiene anche la menzione della “tomba di Zeus”: per le testimonianze relative, a partire da Callimaco (h. Jov. 8-9), che tuttavia contesta una tale credenza, cf. Verbruggen (1981), 55-60; sull’origine di questa tradizione cf. ancora 67-70. Comunque sia, considerando la centralità che la morte e rinascita di Dioniso (di cui ricordano la tomba a Delfi Philoch. FGrHist 328 F7; Din. FGrHist 399 F1) sembrano avere avuto nella religiosità orfica, non è da escludere che l’accentuarsi dei legami del culto dell’Ida con l’orfismo possa aver favorito, in relazione alla divinità principale di quel culto, ossia Zeus, lo sviluppo di credenze relative alla morte e rinascita di quest’ultimo.
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Capitolo II: L’ispirazione cretese di Euripide: l’Ippolito e i Cretesi
Se non è opportuno spingersi a ipotizzare un originario carattere orfico del culto cretese dell’Ida, possiamo tuttavia considerare la possibilità che «in ambienti di una religiosità peculiare il culto mistico285 di Zeus cretese fosse sentito come particolarmente simpatetico».286 Euripide potrebbe essere per noi il primo prezioso testimone di una interpretazione orfica del culto in questione. Le pratiche cultuali che Euripide attribuisce ai misti dell’Ida nei Cretesi presentano infatti caratteristiche significativamente affini all’‘orfismo’ dell’Ippolito: i misti dell’Ida si contraddistinguono per un ἁγνὸς βίος (v. 9), che non solo trova un’eco nel βιοτὰν ἁγιστεύει di Bacch. 74, ma anche nel frequente insistere sull’ἁγνόν nell’Ippolito (per cui cf. qui sopra, § 2.1.2).287 Inoltre le pratiche vegetariane (δι᾽ ἀψύχου βορᾶς / σίτοις καπήλευ᾽, vv. 952-953) ascritte da Teseo a suo figlio, pur cacciatore,288 si rispecchiano nella sovrapposizione, all’interno del culto dell’Ida, di pasti a base di carne cruda e di astinenza da ἐμψύχων βρῶσιν ἐδεστῶν (v. 19).289 La relazione fra le due tragedie in questo senso è resa ancora più stretta dal fatto che in en-
285 Per un’analisi degli elementi che confermerebbero l’esistenza di rituali misterici nella grotta dell’Ida (quali la struttura stessa del santuario o la testimonianza di Porfirio in Vit. Pythag. 17), cf. Verbruggen (1981), 80-81. Per un collegamento fra la religiosità ‘orfica’ cretese e l’epigrafe IC I, XXIII.3, in cui una Grande Madre dà da bere agli iniziati, cf. qui sopra, nota 191: sulla base di alcune affinità fra l’epigrafe in questione e le lamine “mnemosynie” (di cui fanno parte anche quelle cretesi), in Tortorelli Ghidini (2000), 40-41 si ipotizza «un originario rito iniziatico cretese» alla base dell’intero “gruppo B”. 286 Cf. Casadio (1990), 298-300 (in particolare 299), dove si individua anche il contributo della figura di Epimenide alla formazione della cultura misteriosofica ateniese. Si tenga infatti presente il ritrovamento, nella grotta dell’Ida, anche di una lamina aurea con una oscura formula, forse gnostica (cf. IC I, XII.8). 287 Sulla purezza intesa come ‘castità’, caratteristica sia di Ippolito sia delle baccanti dell’omonima tragedia sia dei misti dell’Ida (come sembra potersi evincere dal v. 17 del fr. 472 dei Cretesi), cf. Casadio (1990), 282-283. La purezza degli iniziati dell’Ida consiste inoltre nel fuggire γένεσίν τε βροτῶν καὶ νεκροθήκας, interpretabile come un riferimento alla metempsicosi; cf. Bernabé (2016), 201. 288 La possibilità di interpretare il nome Ζαγρεύς come “grande cacciatore” (forse suggerita da Euripide stesso, cf. qui sopra, nota 277) permetterebbe di individuare un’ulteriore corrispondenza fra Ippolito e lo scenario religioso dell’Ida. 289 Sulla non incompatibilità fra i «banchetti omofagi» e l’astinenza dalla carne nel fr. 472 dei Cretesi, si veda la soluzione linguistica proposta in Casadio (1990), 291-292, che individua nell’omofagia un’azione rituale «verificatasi puntualmente in una data circostanza (ed eventualmente da ripetersi secondo scadenze particolari)», come indicherebbe l’uso dell’aoristo ai vv. 10; 12; 13; 15 (sulla consumazione rituale della carne nelle cerimonie orfico-dionisiache, cf. del resto P.Gurôb col. I.9-14, per cui si veda ora Bernabé, Jiménez San Cristóbal, Two Aspects of the
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trambe troviamo un personaggio che rinfaccia all’altro almeno una di queste due pratiche, opposte e complementari, come segno di falsa devozione: nell’Ippolito è Teseo che accusa Ippolito di essere vegetariano (vv. 950-957), mentre nei Cretesi, come sappiamo da TrGF 41 F472e, vv. 38-39, è Pasifae che rinfaccia a Minosse la sua “omofagia”. Siamo quindi di fronte a una realtà cultuale composita, che eredita la pratica dei riti omofagici, legati alla sfera della caccia e riconducibili alla religiosità dionisiaca, e allo stesso tempo fa proprie istanze di castità e purezza che nell’immaginario ateniese del V sec. contraddistinguevano l’ὀρφικὸς βίος: la figura di Dioniso-Zagreo sembrerebbe costituire il fulcro di tale sistema religioso. Euripide proietta nella dimensione del mito atti rituali, quali i banchetti omofagici probabilmente coronamento di una caccia ‘dionisiaca’, che difficilmente possiamo immaginare in età storica, ma che dovevano rappresentare il presupposto mitico delle più ‘evolute’ pratiche cultuali delle comunità di iniziati a cui Euripide verosimilmente si ispirava. Quanto meno compatibile con la religiosità orfica appare anche la relazione fra culto metroaco e culto dionisiaco: l’importanza assegnata dalla tradizione cosmogonica orfica alla figura di Rea, infatti, esplicitamente identificata in alcune testimonianze con Demetra,290 trova un riscontro, nella realtà cultuale, nel ruolo rivestito da una dea Madre dai diversi appelOrphic Papyrological Tradition, in corso di pubblicazione, §§ 2.4-5, dove si individua la testimonianza di un sacrificio animale, seguito da un banchetto a base verosimilmente di carne però cotta, nelle cerimonie orfiche di iniziazione), mentre nelle pratiche ascetiche (vv. 16-19), per cui è usato il presente, una condotta di vita; per la ricerca di un riscontro delle pratiche ascetiche orfiche nella realtà cultuale, cf. ancora Casadio (1990), 294-297. Su una linea analoga, cf. Cozzoli (2001), 92-93; Bernabé (2016), 198, dove si stabilisce una relazione con Hipp. 950 ss.. Sulle pratiche ascetiche vegetariane attribuite nelle fonti agli orfici (cf. Plat. Leg. 782c sugli ὀρφικοὶ βίοι) e a Pitagora stesso (cf. Plut. Es. carn. 996bc; 997e-998d), e sulle astensioni alimentari in generale nella religione greca, cf. Edmonds (2013), 217-225. Sull’effettiva esistenza dell’omofagia e dello σπαραγμός della vittima sacrificale nella pratica rituale dionisiaca, cf. Porres Caballero (2013), 177-180 (in particolare, 178, nota 117). Se poi consideriamo una testimonianza epigrafica, databile alla fine del V sec. a.C., da Gortina (IC IV, 145), dove si menzionano, come offerte forse a “Zeus Ideo”, allo stesso tempo una vittima animale e offerte collegabili alla sfera della ‘purezza’, avremmo una notevole concordanza con il rituale omofagico alternato alla dieta vegetariana del frammento euripideo; cf. Magnelli (2009), 133-137. 290 Il Papiro di Derveni ci conserva il celebre verso Δημήτηρ Ῥέα Γῆ Μήτηρ Ἑστία Δηιώ (col. XXII.12), che il commentatore assegna agli Inni di Orfeo; allo stesso modo sembra che si debba interpretare il verso citato in col. XXVI.24, in cui si parla dell’amore di Zeus per sua madre, evidentemente Rea identificata con Demetra, dall’unione con la quale nascerà Persefone. Così infatti leggiamo nei frr.
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lativi, come dimostrano due lamine orfiche, una da Turi (fr. 492 Bernabé, IV sec. a.C.), l’altra da Magoula Mati, presso Fere (fr. 495a Bernabé, IV-III sec. a.C.). Nella prima si parla di Persefone come di “Cybelea, figlia di Demetra”, con un’evidente identificazione fra Cibele e Demetra;291 nell’altra il mista prega di “essere inviato nei tiasi degli iniziati” e afferma di “possedere i sacri simboli di Bacco e i riti di Demetra Ctonia e della Madre Montana”.292 Di grande interesse è a questo riguardo anche la testimonianza di P. Gurôb col. I.5-8, dove si invoca la salvezza da parte di Brimo (identificabile con Persefone),293 Demetra-Rea294 e i Cureti. I confini fra le due divinità appaiono dunque abbastanza fragili e, anche laddove Demetra sembri avere una sua identità distinta, come nella lamina di Magoula Mati, appare comunque sia associata alla figura della “Madre Montana” (per un approfondimento della relazione fra queste due figure e della loro identificazione non solo in ambito orfico, cf. avanti, cap. III).
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87-89 Bernabé (forse dalla teogonia “ieronimiana”) e nel fr. 206 Bernabé (dalle Rapsodie, dove il nome Δη-μήτηρ viene attribuito a Rea in quanto Διὸς Μήτηρ). Rea sarebbe intervenuta, in una versione del mito del dilaniamento di Dioniso da parte dei Titani, anche come ‘raccoglitrice’ delle membra del dio (cf. fr. 59 Bernabé); non sembra comunque sia che nella versione delle Rapsodie Rea comparisse con questo ruolo, secondo la ricostruzione proposta in Bernabé (2009), 320. Per un’interpretazione puramente ‘orfica’ di questa lamina, volta a escludere un’eventuale influenza della religiosità eleusina, cf. Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 137-160; sull’importanza di questa lamina (così come del passo citato qui sotto del P.Gurôb) per l’interpretazione ‘orfica’ del frammento dei Cretesi, cf. Bernabé (2016), 198-199. Cf. Bernabé (2008); Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 151-160. Sull’associazione di Demetra e della Madre alla luce di culti come quello della Despoina di Lykosoura o di Ennodia a Fere, cf. Ferrari, Prauscello (2007), 193-202. Si tratta della stessa divinità invocata nella lamina di Fere (fr. 493 Bernabé); cf. Ferrari, Prauscello (2007), 201; Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 155-156; ora Bernabé, Jiménez San Cristóbal, Two Aspects of the Orphic Papyrological Tradition, in corso di pubblicazione, § 2.8. La possibilità di integrare τε, dopo “Rea”, in col. I.6 (nonostante il parere favorevole di Hordern, cf. Hordern (2000), 136), sembra indebolita dalla corrispondenza fra le righe 6 e 7: δημητερ τε ρεα / κουρητες τε ενοπλιοι. Come è indivisibile quest’ultima espressione, così potrebbe esserlo anche la precendente. In Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 155 è proposta infatti la traduzione “Demeter-Rhea”; i due studiosi ribadiscono ora questa interpretazione in Two Aspects of the Orphic Papyrological Tradition, in corso di pubblicazione, § 2.8.
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§ 2.3 Ancora sulla Creta euripidea: TrGF 57 F638 e TrGF V.2 F912 Che Euripide sentisse una speciale connessione fra la religiosità cretese e l’orfismo pare confermato da quello che ci rimane dei frammenti del Poliido, tragedia anch’essa di ambientazione cretese: non è un caso che da qui sia infatti tratta la citazione, bersaglio di Aristofane nelle Rane e collegata esplicitamente da Platone (in Gorgia 493a) con le dottrine ‘orfiche’ (cf. qui sopra, cap. I.1.2). Si tratta di TrGF 57 F638 dal Poliido: τίς δ᾽ οἶδεν εἰ τὸ ζῆν μέν ἐστι κατθανεῖν, / τὸ κατθανεῖν δὲ ζῆν κάτω νομίζεται;295 Vi è poi un altro frammento euripideo, il 912, collocato da Kannicht fra le fabulae incertae, che potrebbe essere ricondotto alla religiosità ‘cretese’; anzi, secondo l’ipotesi di Valckenaer, accolta da Welcker e Mette, ma respinta da Wilamowitz, il frammento in questione potrebbe essere attribuito addirittura ai Cretesi stessi: si tratta di un’invocazione a un dio ctonio, a cui si attribuisce il “potere su tutte le cose” (v. 1), a cui si portano offerte incruenti (χλόην πελανόν τε φέρω, vv. 1-2; si ricordi quanto detto a proposito della parodo dei Cretesi) e a cui infine ci si può rivolgere come Zeus o come Ade, sia in quanto (co-)detentore dello scettro di Zeus (σκῆπτρον τὸ Διὸς μεταχειρίζεις, v. 7) sia in quanto partecipe, con Ade, del “potere sugli ctoni” (χθονίων θ᾽ Ἅιδῃ μετέχεις ἀρχῆς, v. 8). Come riferisce Kannicht nel suo apparato, è più probabile che si tratti di uno Zeus (κατα-)χθόνιος piuttosto che di Zagreo; d’altra parte, come abbiamo visto qui sopra (cf. nota 277), i confini fra queste due figure, almeno in origine, dovevano essere piuttosto labili. Nel caso del fr. 912, siamo comunque sia di fronte a una figura che funge in un certo senso da ‘mediatore’ fra mondo celeste e mondo ctonio, condividendo (si noti l’insistenza del preverbio μετα-) poteri nell’uno e nell’altro con le due divinità principali, Zeus e Ade: Zagreo, identificabile con il Dioniso orfico, potrebbe adattarsi a un simile ritratto. Rima295 La tragedia trattava infatti, a quanto pare, della morte di Glauco figlio di Minosse e di come l’indovino Poliido fosse riuscito a riportarlo in vita (cf. TrGF 57, TT iii; iv a-b). Si osservi come gli stessi versi compaiano anche nel Frisso (TrGF 76-77 F833), una tragedia legata alla famiglia tebana di Dioniso, in particolare alla famiglia di Atamante e Ino, figlia di Cadmo. A Creta doveva essere ambientata anche la tragedia Donne cretesi sempre di Euripide (cf. Kannicht, TrGF 40, pp. 495-496), che metteva verosimilmente in scena le vicende relative al matrimonio fra Aerope e Atreo (entrambi sicuramente presenti come personaggi): non sembra possibile ricostruire dai frammenti lo sfondo religioso del dramma, ma possiamo notare come nella descrizione di un banchetto conservatoci da Ateneo (Deipn. XIV.640b, TrGF 40 F467) si dia ampio risalto a dolci al miele, di cui si dice τῆς ξουθοπτέρου / πελανῷ μελίσσης (vv. 4-5): sul legame delle api e delle offerte di miele con Creta, cf. qui sopra, § 1.2.4.
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ne in ogni caso difficile dire se si tratti proprio dello Zagreo della parodo dei Cretesi,296 dato che (anche se è un’obiezione non insuperabile) in quest’ultima si profila una distinzione fra le figure di Zeus e di (Dioniso-)Zagreo, che nel frammento in questione apparirebbe invece meno netta.297 Bisogna altresì rilevare una congruenza dei vv. 9-13 del fr. 912 con l’escatologia delle lamine orfiche: al dio invocato viene infatti richiesto di mandare ἐς φῶς ψυχὰς ἐνέρων / τοῖς βουλομένοις ἄθλους προμαθεῖν / πόθεν ἔβλαστον, τίς ῥίζα κακῶν, / τίνι δεῖ μακάρων ἐκθυσαμένους / εὑρεῖν μόχθων ἀνάπαυλαν (“alla luce le anime dei morti / a coloro che vogliono apprendere le sofferenze / da dove germogliarono, quale sia la radice dei mali, a quale dei beati bisogna sacrificare / per avere riposo dalle pene”). Osserviamo innanzitutto come l’espressione τοῖς βουλομένοις ἄθλους προμαθεῖν di per sé alluda a un contesto iniziatico e quindi a un sapere riservato a pochi eletti. Quanto al quadro generale delineato, possiamo poi rilevare che, se il raggiungimento della luce da parte delle anime dei morti sembrerebbe ricollegarsi al conseguimento della condizione divina auspicata dagli iniziati delle lamine turie del “gruppo A” (cf. qui sopra, nota 248), il riferimento successivo a “coloro che vogliono sapere prima da dove siano nati” ci ricorda la consapevolezza degli iniziati delle lamine del “gruppo B” di essere “figli della Terra e del Cielo stellato” (cf. frr. 474-484 Bernabé). Gli altri interrogativi sull’origine del male e sugli dei che hanno il potere di liberare dai μόχθοι ci rimanda infine alla dinamica che abbiamo ormai incontrato spesso legata al meccanismo della colpa originaria e della liberazione dalla medesima; il sapere che costoro dovrebbero raggiungere potrebbe essere riferito al percorso iniziatico stesso che deve garantire la conoscenza e la salvezza.298
296 Cantarella, nella sua edizione dei Cretesi, lo inserisce fra i «frammenti di attribuzione infondata» (cf. fr. 10, p. 34). 297 Clemente Alessandrino (Strom. V.11.70.2) cita d’altra parte il passo per dimostrare una consonanza di Euripide con la teologia cristiana, in quanto avrebbe menzionato insieme, seppure oscuramente e inconsapevolmente, “il padre e il figlio”; Cristo sarebbe infatti prefigurato “chiaramente” nei vv. 6-8. Non è comunque sia un caso che il fr. 912 sia citato dalla Vita di Euripide di Satiro nella sezione dedicata all’ἀσέβεια di Euripide (cf. fr. 37 III.9-14 Arrighetti). 298 Sulla presenza di elementi orfici sia nei sacrifici incruenti dei vv. 1-5 sia nell’escatologia dei vv. 6-13, cf. Macías Otero (2009), 1210-1212, dove si propone inoltre di distinguere la divinità invocata nei primi cinque versi del frammento (Zeus o Ade) da quella invocata nei sei successivi (Dioniso-Zagreo): il σοί iniziale e il σύ del v. 6 sarebbero quindi da riferire a figure diverse, anche se il γάρ di v. 6, subito dopo il σύ, crea qualche ostacolo per postulare tale distinzione.
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§ 3 Echi orfici nelle Baccanti?
§ 3 Echi orfici nelle Baccanti? Come abbiamo visto, dunque, Euripide è per noi uno dei più antichi testimoni di quelle intersezioni fra orfismo e dionisismo, ascetismo e μανία bacchica, che, benché risultino in parte anche il frutto di una rielaborazione letteraria come riflesso di una realtà cultuale che si perde nel mito, trovano tuttavia significativi riscontri nella pratica rituale (almeno per quello che possiamo ricostruire).299 Possiamo ravvisare in particolare una certa predisposizione di Euripide a integrare l’escatologia orfica all’interno del culto dionisiaco propriamente detto, come sembra accadere nelle Baccanti, dove dominano appunto le pratiche rituali della caccia e dell’omofagia.300 Sembrano infatti ravvisabili anche nelle Baccanti alcune connessioni con i testi conservati nelle lamine:301 è stato in particolare osservato non solo che il v. 498 insiste sul tema di Dioniso “liberatore” (e nella fattispecie anche poi liberato) con la stessa movenza che troviamo nelle lamine di Pelinna (frr. 485-486.2 Bernabé),302 ma anche che la minaccia stessa di Penteo di custodire il σῶμα del dio εἱρκταῖσι ἔνδον (v. 497), che prepara tale “messaggio salvifico” di Dioniso, potrebbe alludere alla dottrina orfica del σῶμα come ‘tomba’ dell’anima (cf. Plat. Crat. 400c): la vicenda di Dioniso nascosto “nel carcere tenebroso” (cf. v. 549, σκοτίαισι κρυπτὸν εἱρκταῖς) e poi liberatosi potrebbe dunque fungere nel suo complesso da metafora della concezione escatologica orfico-dionisiaca.303
299 Cf. al riguardo Bernabé (2016), 201-202, dove, al di là della rielaborazione euripidea, viene vista nel frammento dei Cretesi un’importante testimonianza della presenza di seguaci dell’orfismo a Atene, a cui Euripide si sarebbe ispirato, nonostante la verosimiglianza dell’esistenza di una realtà cultuale orfica a Creta. 300 Sulla possibilità o meno che nello scempio del corpo di Penteo da parte delle Baccanti possa essere scorta una rievocazione del dilaniamento del dio da parte dei Titani, in virtù di una identificazione progressiva fra il dio e la sua vittima, cf. Janda (2010), 130-146. Si ricordi tuttavia che Clemente Alessandrino, in Protr. XII.119, interpreta il rito dell’omofagia nei misteri dionisiaci come una celebrazione dello σπαραγμός subito da Dioniso da parte delle menadi, a dimostrazione dell’esistenza di una tradizione composita relativa ai πάθη di Dioniso, di cui la versione relativa ai Titani costituisce solo una parte (per una breve discussione sul passo di Clemente, cf. Casadio (1990), 304, nota 49). 301 Per un’interpretazione volta invece a escludere un influsso orfico sulla tragedia, cf. Di Benedetto (2004), 25-35; per una ricostruzione del dibattito, cf. Mirto (2010), 19, nota 31. 302 λύσει μ᾽ ὁ δαίμων αὐτός, ὅταν ἐγὼ θέλω (Baccanti) ~ εἰπεῖν Φερσεφόνᾳ σ᾽ ὅτι Βάκχιος αὐτὸς ἔλυσε (Pelinna). 303 Cf. Gigli Piccardi (2008), 230-244. La studiosa propone di leggere anche nel v. 506, οὐκ οἶσθ᾽ ὅτι ζῇς οὔθ᾽ ὃ δρᾷς οὔθ᾽ ὅστις εἶ, con cui Dioniso nega a Penteo la
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Capitolo II: L’ispirazione cretese di Euripide: l’Ippolito e i Cretesi
Lo scenario religioso euripideo che si presenta spesso in connessione con Creta si mostra dunque piuttosto omogeneo e caratterizzato dalla fusione di elementi dionisiaci e metroaci, nonché dall’influsso di un’escatologia che possiamo interpretare come orfica. Si tratta di una religiosità peculiare, lontana da quella che possiamo definire ortodossa, quanto meno in Attica: l’Ippolito sembra infatti esprimere esplicitamente la sostituzione del modello religioso eleusino, alterato dall’intervento di Afrodite, con forme di religiosità ‘straniere’, che presentano relazioni non solo con Creta, ma anche con il Vicino Oriente (la Frigia in particolare). Queste ultime, nelle Baccanti, verrano infine celebrate come capaci di rispondere alle esigenze religiose più profonde dell’individuo.
consapevolezza della sua identità, un riecheggiamento della domanda posta al mista da parte dei guardiani nelle lamine del “gruppo B” τίς δ᾽ ἐσσί; πῶ δ᾽ ἐσσί; (in questa forma nelle lamine cretesi e in una tessala, frr. 478-484 Bernabé; la domanda è presupposta in frr. 474-477 Bernabé). Quanto alla possibilità di interpretare la “luce del sacro fuoco” fissato da Dioniso “fra cielo e terra” (πρὸς οὐρανὸν καὶ γαῖαν, vv. 1082-1083), prima dello σπαραγμός di Penteo, nella stessa ottica misterica, cf. in particolare pp. 242-243. In questo passo il Dioniso “fra cielo e terra” acquisisce inoltre una dimensione cosmica (in linea con il suo ruolo nelle dottrine orfiche) che trova una notevole concordanza con la rappresentazione della divinità invocata come Zeus / Ade nel fr. euripideo 912 (cf. qui sopra) e che riceve ulteriore conferma dal fatto che il dio abbia collocato Penteo su un albero οὐράνιον, che rievoca l’albero del mondo; cf. al riguardo le osservazioni fatte qui sopra, cap. I.1.1.2.
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Capitolo III: Ancora sulle peculiarità della religiosità euripidea: l’Elena
§ 1 Il secondo stasimo dell’Elena (vv. 1301-1368): il problema del suo significato all’interno del dramma Lo scenario religioso che abbiamo ricostruito per l’Ippolito (e, per quanto possibile, per i Cretesi), dove elementi metroaci e dionisiaci, verosimilmente associati a credenze interpretabili come orfiche, si sovrappongono, e in ultima analisi, si sostituiscono, a quelli demetriaci e eleusini, sembra ravvisabile anche in una tragedia più tarda, l’Elena, andata in scena alle Dionisie del 412 a.C., insieme con l’Andromeda:304 nell’ambito della nostra ricerca, l’Elena risulta particolarmente significativa in quanto oggetto di un’ampia parodia aristofanea nelle Tesmoforiazuse (cf. avanti, cap. V.2.3). Se tuttavia nell’Ippolito abbiamo potuto individuare una certa continuità nei referenti divini attraverso l’intero sviluppo del dramma, nell’Elena solo il secondo stasimo (vv. 1301-1368) sembra collegare l’azione drammatica a una precisa realtà cultuale e religiosa, quella metroaco-dionisiaca. D’altra parte tale collegamento è apparso agli interpreti forzato e superficiale, al punto che lo stasimo in questione è stato a lungo considerato un intermezzo lirico connesso solo debolmente alla vicenda principale del dramma.305 Eppure, considerando il secondo stasimo alla luce del primo (vv. 1107-1164), osserviamo come entrambi siano in realtà finalizzati a rispondere alla stessa domanda, espressa nel primo stasimo nella forma ὅτι θεὸς ἢ μὴ θεὸς ἢ τὸ μέσον (v. 1137): Euripide pone il problema della θεία δύναμις offrendo due risposte diverse e complementari, nel primo caso giungendo a una conclusione aporetica (vv. 1137-1150), nel secondo invece proponendo
304 Cf. schol. in Aristoph. Thesm. 1012, p. 53 Regtuit (sulla rappresentazione dell’Andromeda insieme con l’Elena); schol. vet. in Aristoph. Ran. 53, p. 12 Chantry (sull’anno della rappresentazione dell’Andromeda). Sulla ricostruzione di una trilogia tragica andata in scena nel 412 a.C. e comprendente Elena, Andromeda e Ifigenia in Tauride in quanto accomunate dal loro carattere di “escape-tragedies”, cf. Wright (2005), 43-55 (sull’appartenenza di questi drammi al genere tragico, spesso messa in discussione dalla critica, cf. 6-43). 305 Per una breve discussione su tale filone esegetico, cf. Kannicht (1969), II, 327-328; Cerri (1988), 48-50.
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Capitolo III: Ancora sulle peculiarità della religiosità euripidea: l’Elena
un’accettazione irrazionale dell’esperienza religiosa.306 Quest’ultima si configura infatti come esperienza ‘totale’, in cui forme e figure religiose diverse, quali quelle demetriache, metroache e dionisiache, si fondono in un’unica manifestazione di θεία δύναμις. Troviamo dunque ancora una volta confermata, come abbiamo osservato già nel I capitolo, la tendenza euripidea a conciliare l’indagine critica del fenomeno religioso con la ricerca di una religiosità peculiare, più adatta a soddisfare gli intimi bisogni dell’individuo.307 Come del resto già anticipano le parole del servitore ai vv. 711-721; 752-757, se da un lato la divinità è ποικίλον / καὶ δυστέκμαρτον, “mutevole e oscura” (vv. 711-712), tanto che l’uomo non può fare affidamento nemmeno sugli oracoli (vv. 744-751), dall’altro l’uomo deve garantire agli dei una devozione incondizionata nella celebrazione dei riti, senza l’inutile mediazione degli indovini (vv. 752-757).308 Tale è appunto il messaggio conclusivo che si ricava anche dal secondo stasimo, dove Elena, pur riconosciuta fino a questo punto del dramma vittima di eventi imperscrutabili, viene qui esplicitamente accusata di aver trascurato il culto entusiastico da tributare alla Madre degli dei e a Dioniso.309
306 È questa la lettura proposta da Kannicht in Kannicht (1969), II, 332-333. Sullo scenario di «incertezza totale» aperto dalla seconda strofe del primo stasimo, cf. Cerri (1988), 51-52. 307 Secondo l’interpretazione di Giovanni Cerri proprio l’ «abbandono estatico» e il raggiungimento di un «contatto diretto con il dio attraverso l’invasamento coreomanico», celebrati nel secondo stasimo, fornirebbero la risposta all’incertezza assoluta in cui si trova l’uomo rispetto alla contraddittoria volontà degli dei, constatata appunto nella seconda strofe del primo stasimo (vv. 1140-1143); cf. Cerri (1988), 43-67. 308 L’interpretazione delle parole del servitore proposta da Cerri, volta a sottolineare come esse si integrino perfettamente nella dialettica fra i due stasimi, costituendone, in un certo senso, una sintesi, indebolisce, a mio parere, la scelta di Diggle di espungere gran parte delle battute di questo personaggio (vv. 713-719; 752-757, oltre ai vv. 728-733; 746-748), che appaiono invece di fondamentale importanza per la ricostruzione del messaggio generale del dramma. Sull’opportunità di mantenere il testo tradito e sulla sua relazione con il primo stasimo, cf. Wright (2005), 365-373. 309 Sebbene siano purtroppo corrotti i versi in cui il coro sembra esplicitare in che cosa sia consistita l’effettiva mancanza di Elena (vv. 1353-1354), possiamo essere sicuri, dai successivi vv. 1356-1357, che si tratti in ogni caso di una mancata osservanza del culto in questione: dai vv. 1353-1354 sembra potersi dedurre che Elena abbia compiuto sacrifici non ‘consentiti’ e, sulla base di quanto abbiamo osservato nel cap. II sulle rigide regole imposte agli iniziati dell’Ida nei Cretesi o sul tipo di pratiche religiose attribuite da Teseo a Ippolito nell’omonima tragedia, tali da richiedere la consumazione di carne cruda, unita all’osservanza di un regime vegetariano, potremmo ipotizzare che anche nel secondo stasimo
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§ 1 Il secondo stasimo dell’Elena (vv. 1301-1368)
Il coro attribuisce questo rifiuto all’eccessiva importanza data da Elena alla sua bellezza: μορφᾷ μόνον ηὔχεις (v. 1368)310 è l’ultimo significativo verso dello stasimo. Leggendo la problematica religiosa dell’Elena alla luce di quella, di portata più vasta ma di analogo significato, delle Baccanti, in quanto miti di «resistenza al dionisismo», ci troviamo di fronte a una contrapposizione fra l’immagine ‘tradizionale’ di Elena, preoccupata solo di non scomporre la sua μορφή, e la pratica del menadismo (in cui Euripide sussume, in un’unità inscindibile, culti metroaci e dionisiaci): poiché l’abbandono all’estasi bacchica implica un danneggiamento della bellezza stessa, Elena se ne sottrae venendo però meno a un imprescindibile obbligo religioso.311 Il secondo stasimo risulta dunque integrato appieno nella dinamica del dramma, rispetto alla quale ribadisce la necessità di riconoscere e adorare la θεία δύναμις in ogni sua manifestazione, in quanto la divinità deve essere accettata e venerata senza la pretesa di comprenderla razionalmente. Cercheremo ora di analizzare più nel dettaglio in che cosa consista il modello religioso proposto nel secondo stasimo dell’Elena, suggerendo ulteriori possibili connessioni con l’atmosfera religiosa che pervade l’intero dramma.312
dell’Elena, dove si rimprovera all’eroina di aver trascurato un culto che presenta delle affinità con il complesso metroaco-dionisiaco dei Cretesi, l’‘empietà’ di Elena consista nell’essersi sottratta al rituale omofagico continuando invece a bruciare le vittime (ἐπύρωσας), quindi, piuttosto che nella violazione di un rito, nel rifiuto di una specifica pratica religiosa; cf. Cerri (1988), 64-66. 310 Sui problemi interpretativi che presenta questa espressione, cf. Kannicht (1969), II, 358-359. 311 Per questa interpretazione, cf. Cerri (1988), 58-61, dove si individua un possibile rimando alla resistenza di Elena verso atteggiamenti che possano alterare la sua compostezza ai vv. 543 ss.; inoltre, osserva ancora lo studioso, il coinvolgimento di Afrodite, in quanto dea della bellezza, nello scenario metroaco-dionisiaco del secondo stasimo, vv. 1346-1352, ribadisce la necessità, anche per chi possiede la χάρις nel grado più alto, di abbandonarsi all’ἐνθουσιασμός. 312 La funzionalità del secondo stasimo nel contesto del dramma è stata anche interpretata sulla base di una corrispondenza fra il mito del ratto di Kore e la vicenda della prigionia di Elena in Egitto: cf. Segal (1971), 595-596; Foley (1992), 133-151. Per un’analisi dei punti deboli della lettura della Foley, cf. Wright (2005), 355-356; possiamo qui aggiungere che, se è effettivamente possibile individuare nell’Elena la presenza di alcuni richiami al mito di Kore, occorre tuttavia ricordare che, nel secondo stasimo, la vicenda specifica del ratto e, soprattutto, dell’anodo di Kore è trascurata, in favore della preminenza accordata alla ricerca della figlia da parte di una Demetra identificata con l’asiatica Madre degli dei.
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§ 2 Lo scenario religioso dello stasimo: Demetra e la Madre degli dei § 2.1 Le relazioni fra lo stasimo euripideo e l’Inno a Demetra Ciò che rende il secondo stasimo dell’Elena particolarmente interessante per uno studio della religiosità euripidea è la sovrapposizione della figura della Madre degli dei a quella di Demetra: questo implica che l’αἴτιον mitico del ratto di Kore diventi parte integrante della fondazione del culto metroaco del monte Ida (in Frigia). Nonostante che si possano certamente individuare, nel panorama religioso greco del V sec. a.C., intersezioni fra le varie figure divine riconducibili alla sfera ‘materna’, quali Demetra, Rea, la Madre frigia e la Terra stessa, non si può trascurare la peculiarità dell’operazione culturale compiuta da Euripide, che, nel proporre un determinato modello religioso, attribuisce a quest’ultimo, come αἴτιον mitico, il mito fondatore dei Misteri eleusini stessi; eppure il culto oggetto della celebrazione del coro non è quello attico, ma il culto metroaco frigio, che ha la sua sede sul monte Ida. Se dunque nell’Ippolito Euripide sostituisce progressivamente alla realtà cultuale eleusina uno scenario religioso strettamente legato a Creta, nell’Elena la fusione delle figure di Demetra e della Madre degli dei è in realtà sbilanciata, dal punto di vista cultuale, sul versante metroaco e, ancora una volta, straniero. Dioniso interviene, come nei Cretesi e nelle Baccanti (e come sembra suggerire anche l’Ippolito), in tale contesto con la funzione di potenziare e, in un certo senso, ‘raddoppiare’, la δύναμις sprigionata dagli ὄργια della Madre degli dei. La prima strofe dello stasimo (vv. 1301-1318) descrive la ricerca affannosa della ὀρεία Μάτηρ θεῶν, spinta dal πόθος τᾶς ἀποιχομένας ἀρρήτου κούρας313 (vv. 1306-1307): se l’incipit sembra associare il mito demetriaco del ratto della Kore a una figura metroaca (la Μάτηρ θεῶν, appunto), Euripide sviluppa poi la rappresentazione dei vagabondaggi della dea in modo da rendere sempre più lontana la sua μάτηρ dalla Demetra dell’inno omerico, che agisce qui (almeno nella prima coppia strofica) come modello costantemente rielaborato.314 Osserviamo innanzitutto la prevalenza dell’ele-
313 Sulla possibilità di interpretare questa perifrasi per il nome di Persefone come un diretto riferimento alla realtà cultuale dei Misteri di Eleusi, cf. Cerri (1983), 157. La fusione fra le due figure di Demetra e della Madre degli dei sembra sottolineata, nell’incipit dello stasimo, dall’utilizzo del teonimo metroaco per la madre (ὀρεία Μάτηρ θεῶν) e da questa perifrasi ‘eleusina’ per la figlia. 314 L’espressione stessa πόθος τᾶς ἀποιχομένας ἀρρήτου κούρας (vv. 1306-1307) riecheggia i vv. 201; 304 dell’Inno a Demetra (cf. Kannicht (1969), II, 339). Segnaleremo in seguito eventuali altri passi paralleli significativi per la presente indagi-
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§ 2 Lo scenario religioso dello stasimo: Demetra e la Madre degli dei
mento acquatico nella descrizione dei luoghi in cui si aggira la dea (è comunque sia interessante che la porzione di terraferma attraversata dalla dea siano gli ὑλᾶντα νάπη, “vallate boscose” v. 1303, che ricordano gli ὑλήεντες ἔναυλοι dell’Inno alla Madre degli dei, v. 5315): la menzione dei ποτάμιόν τε χεῦμ᾽ ὑδάτων / βαρύβρομόν τε κῦμ᾽ ἅλιον (vv. 1304-1305), “la corrente fluviale delle acque e l’onda marina dal cupo fremito”, ricordano a loro volta le peregrinazioni di Dictinna nella parodo dell’Ippolito (vv. 148-150),316 in un contesto i cui legami con la sfera metroaca abbiamo sottolineato nel precedente capitolo, dove abbiamo anche rilevato come tale ambientazione marina distingua il passo euripideo (anzi, i passi euripidei, se consideriamo anche lo stasimo dell’Elena) dai vv. 43-47 dell’Inno a Demetra.317
ne; per il resto, rimandiamo al commento di Kannicht. Sulla relazione fra l’Inno a Demetra e lo stasimo euripideo, si veda ora Bernabé (2017), dove si interpreta l’operazione euripidea come una sostituzione della figura della Madre a quella di Demetra, intesa come sostituzione di una religiosità basata sull’estasi e la perdita di identità a una religiosità ‘civica’ e formalizzata, quale era appunto quella eleusina (cf. in particolare p. 132); lo studioso mette altresì in luce i diversi elementi che distanziano sempre più la versione euripidea da quella omerica, fino alla risoluzione della crisi della dea, da cui è addirittura escluso il ritorno di Persefone. 315 Kannicht, che riporta il parallelo, parla infatti di «Wirkungssphäre Kybeles» e mette in relazione l’espressione in questione con l’ὀρεία del v. 1301 (cf. Kannicht (1969), II, 339). 316 φοιτᾷ γὰρ καὶ διὰ λίμνας / χέρσον θ᾽ ὕπερ, πελάγους / δίναις ἐν νοτίαις ἅλμας (cf. qui sopra, II.1.2.4). 317 Sulla differenza di scenario fra l’Inno a Demetra e lo stasimo euripideo, cf. Bernabé (2017), 122-124. Se nel caso della parodo dell’Ippolito il rimando al paesaggio acquatico delle λίμναι trova un riscontro non solo nei miti relativi alla figura di Dictinna, ma anche nella realtà cultuale trezenia, il fatto che esso sia riproposto nell’Elena ci induce a riflettere anche sul contesto specifico dell’Elena considerato complessivamente: qui il mare riveste un fondamentale e duplice ruolo nell’azione drammatica sia come ostacolo (si pensi alla prigionia di Elena in Egitto o al naufragio di Menelao) sia, allo stesso tempo, come ineludibile via di fuga (è grazie all’espediente del finto rito sulla spiaggia che i due protagonisti riescono a sfuggire a Teoclimeno e a intraprendere il loro viaggio in mare); sui vari livelli di significato (anche in contrasto fra di loro) attribuiti al mare in Elena, Ifigenia in Tauride e Andromeda, accomunate, fra le altre cose, dall’ambientazione sulla costa di una terra straniera, cf. Wright (2005), 204-225. Sulle connessioni della Madre degli dei con l’elemento liquido al di fuori di Euripide (cf. per esempio Apoll. Rhod. Arg. I.1092 ss.), cf. Cerri (1988), 64, in particolare nota 49; Verbruggen (1981), 95-99 (sulla presenza di ricche sorgenti sotterranee come elemento determinante per la localizzazione in una caverna di culti legati inizialmente a una figura femminile materna, come quello cretese dell’Ida); Roller (1999), 110-111 (sulla prossimità a sorgenti d’acqua delle immagini della Matar
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L’orientamento metroaco delle peregrinazioni è poi definito, nel seguito della strofe, da due ulteriori elementi (vv. 1308-1311), i κρόταλα βρόμια e il carro trainato da θῆρες (da identificare verosimilmente con i leoni, abituali compagni della dea).318 La ricerca della dea è dunque accompagnata da quell’apparato tradizionalmente associato alla Madre degli dei (cf. cap. II.1.2.1), così da rendere ancor più lontana la rappresentazione euripidea da uno scenario ‘puramente’ demetriaco. Si osservi tra l’altro come venga qui anticipato anche il tema dionisiaco (a sottolinearne la stretta connessione con quello metroaco), dominante nell’antistrofe della seconda coppia strofica, attraverso i due aggettivi βαρύβρομον (v. 1305) e βρόμια (v. 1308), che richiamano direttamente il nome dionisiaco Βρόμιος (cf. v. 1364),319 e l’aggettivo κύκλιος, riferito, nella prima strofe, alle danze alle quali viene sottratta Persefone (vv. 1312-1313),320 mentre, nella seconda antistrofe, al moto circolare del ῥόμβος (una specie di tamburello) nell’ambito del rituale dionisiaco (cf. v. 1363). La seconda strofe è poi incentrata sulla giustificazione mitica degli aspetti entusiastici del culto:321 la dea, raggiunto il monte Ida in Frigia, trova lì finalmente riposo e quiete, per volontà di Zeus, al suono non solo degli inni delle Cariti e delle Muse, ma anche dei τύπανα, la cui invenzione (o quanto meno il primo utilizzo), allo scopo preciso di placare la dea, sembra attribuita a Afrodite (vv. 1338-1349). Euripide segna così un netto distacco dall’inno omerico, spostando l’asse geografico verso Oriente e elaborando la fine del dolore della dea in modo completamente diverso. Benché scelga infatti di utilizzare il nome demetriaco di Δηώ (v. 1343), mantiene lo scenario geografico, cultuale e perfino mitico interamente metroaco: il nome di Demetra risulta così ‘riempito’, dal punto di vista della realtà religiosa corrispondente, di contenuti metroaci.
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frigia); sulla relazione di Demetra con Posidone in alcuni culti arcadi, cf. avanti § 2.2. Sulla costruzione sintattica dei vv. 1308-1311 e sui problemi filologici relativi, cf. Kannicht (1969), II, 340-342. Sull’iconografia di Cibele sul carro trainato da leoni, cf. Arrigoni (1982), 8. Cf. Kannicht (1969), II, 339-340; Bernabé (2017), 119. Cf. Kannicht (1969), II, 341, sulla sostituzione del motivo dell’anthologia di Kore (cf. h. Cer. 6-16; 417-429), da parte di Euripide, con quello della danza (vv. 1312-1313); potremmo interpretare questa scelta quasi come un’anticipazione della conclusione dello stasimo, con la sua celebrazione delle danze orgiastiche dionisiache. Cf. Kannicht (1969), II, 333; Bernabé (2017), 119; 126-128.
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§ 2 Lo scenario religioso dello stasimo: Demetra e la Madre degli dei
Come osservava già Malten,322 è significativo che non si faccia alcuna parola del ricongiungimento della madre e della figlia – così importante nell’eziologia e nel culto eleusino: l’intervento di Zeus mira bensì a placare la dea, ma attraverso l’estasi mistica indotta dalla danza e dalla musica, con un chiaro riferimento al potere ‘curativo’ dell’ἐνθουσιασμός (sul legame di quest’ultimo con i disturbi psichici, cf. qui sopra, cap. II.1.2.1, nota 182). Il momento culminante della scena è infatti costituito dall’invenzione del τύπανον – accompagnata dal dono alla Madre dell’αὐλός (vv. 1349-1351) –,323 il cui suono riesce appunto a far ridere la dea (γέλασεν δὲ θεά, v. 1349): mentre nell’inno omerico i lazzi di Iambe riportano il buonumore in Demetra, senza che però questo rappresenti affatto la soluzione del suo dramma (cf. h. Cer. 202-204), con il riso della Madre euripidea si conclude la vicenda mitica narrata. È inoltre peculiare che sia attribuito a Afrodite il compito di far ridere la Madre con il rivelarle la δύναμις ‘terapeutica’ del timpano e del flauto: sebbene il coinvolgimento di Afrodite nel ratto di Kore sia attestato almeno a livello iconografico,324 qui siamo di fronte piuttosto alla partecipazione della dea al rito di fondazione del culto metroaco. Si ricordi a questo proposito la straniante intrusione di Afrodite nel corso dell’ἐποπτεία eleusina nel prologo dell’Ippolito, dove la dea era analogamente coinvolta in uno slittamento da uno scenario demetriaco (nel prologo appunto, vv. 24-33) a uno metroaco (nella parodo, vv. 141-150) e poi dionisiaco (a partire dal primo episodio, vv. 201-222; 241-249), che presenta notevoli affinità, come abbiamo visto, con la situazione del secondo stasimo dell’Elena. D’altra parte, anche la precedente descrizione delle tragiche conseguenze del dolore della dea per la scomparsa della figlia, descritte nell’antistrofe della prima coppia strofica, seppure strettamente legate alla mitologia eleusina, sono trattate da Euripide secondo una simbologia prevalentemente metroaca in modo coerente con la prima e la seconda strofe. L’inno omerico ci proponeva uno scenario di carestia agricola: i campi non danno più le
322 Cf. Malten (1909), 420; cf. ora al riguardo Bernabé (2017), 124-125. 323 Questi ultimi appaiono strettamente associati in ambito metroaco e dionisiaco anche nel prologo (cf. vv. 55-61) e nella parodo delle Baccanti (cf. vv. 120-134). 324 Cf. LIMC, II, 130, nn. 1367-1371. Del resto, come ha messo in rilievo Cerri (cf. qui sopra § 1), poiché l’immagine della dea della bellezza che suona il timpano rispecchia in positivo il rifiuto di Elena di praticare quello stesso rito, la presenza di Afrodite trova la sua giustificazione nel contesto stesso del dramma.
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messi perché la dea le tiene “nascoste”. Si confrontino ora i vv. 1327-1336b dell’Elena con i vv. 305-313 dell’Inno a Demetra:325 Inno a Demetra, vv. 305-313
Elena, vv. 1327-1336b
αἰνότατον δ᾽ ἐνιαυτὸν ἐπὶ χθόνα πουλυβότειραν ποίησ᾽ ἀνθρώποις καὶ κύντατον, οὐδέ τι γαῖα σπέρμ᾽ ἀνίει˙ κρύπτεν γὰρ ἐϋστέφανος Δημήτηρ. πολλὰ δὲ καμπύλ᾽ ἄροτρα μάτην βόες εἷλκον ἀρούραις, πολλὸν δὲ κρῖ λευκὸν ἐτώσιον ἔμπεσε γαίῃ. καί νύ κε πάμπαν ὄλεσσε γένος μερόπων ἀνθρώπων λιμοῦ ὑπ᾽ ἀργαλέης, γεράων τ᾽ ἐρικυδέα τιμὴν καὶ θυσιῶν ἤμερσεν Ὀλύμπια δώματ᾽ ἔχοντας, εἰ μὴ Ζεὺς ἐνόησεν ἑῷ τ᾽ ἐφράσσατο θυμῷ.326
βροτοῖσι δ᾽ ἄχλοα πεδία γᾶς < > οὐ καρπίζουσ᾽ ἀρότοις, λαῶν δὲ φθείρει γενεάν, ποίμναις δ᾽ οὐχ ἵει θαλερὰς βοσκὰς εὐφύλλων ἑλίκων˙ πόλεων δ᾽ ἀπέλειπε βίος, οὐδ᾽ ἦσαν θεῶν θυσίαι, βωμοῖς δ᾽ ἄφλεκτοι πελανοί ̇ παγὰς δ᾽ ἀμπαύει δροσερὰς λευκῶν ἐκβάλλειν ὑδάτων πένθει παιδὸς ἀλάστῳ.327
325 Abbiamo sottolineato gli elementi che segnano le differenze fra i due brani e evidenziato in grassetto quelli che invece costituiscono dei richiami. Che il modello del passo euripideo siano i vv. 305-313 dell’Inno a Demetra è messo in rilievo in Kannicht (1969), II, 347; la relazione fra i due passi è segnalata anche in Bernabé (2017), 124, dove si osserva come l’estensione del tema della sterilità e della morte dal lavoro agricolo alla totalità della vita sulla terra, anche nei suoi aspetti acquatici, conferisca alla versione euripidea «un aspetto molto arcaico». 326 “[Demetra] apprestò per gli uomini un anno terribile e tremendo per la terra feconda, né la terra produceva alcun seme: lo nascondeva infatti Demetra dalla bella corona. Molte volte invano i buoi tirarono l’aratro ricurvo sui campi, molte volte infruttuoso il bianco orzo cadde sulla terra. E certamente avrebbe annientato la stirpe degli uomini mortali per la fame dolorosa, e privato coloro che abitano le dimore olimpie dello splendido onore di offerte e sacrifici, se Zeus non avesse pensato e meditato nel suo cuore”. 327 Il passo presenterebbe una lacuna dopo il v. 1327 (v. 1327a), individuata da Maas sulla base di un’imperfetta responsione strofica con i corrispondenti vv.
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§ 2 Lo scenario religioso dello stasimo: Demetra e la Madre degli dei
Euripide stabilisce un’immediata relazione fra lo stasimo dell’Elena e l’Inno a Demetra non solo per mezzo di immediati richiami letterali (all’ἀνθρώποις dell’inno omerico risponde la variatio βροτοῖσι), ma anche in virtù della rievocazione del tema agricolo, direttamente legato a Demetra, che domina incontrastato nell’inno omerico e in questo passo in particolare (la dea nasconde lo σπέρμα della terra, i buoi invano tirano l’aratro e infruttuoso cade il “bianco orzo” sulla terra): Euripide parla degli ἄχλοα πεδία,328 ripresi poi nell’espressione οὐ καρπίζουσ᾽ ἀρότοις. Anche le conseguenze relative alla morte per fame degli uomini (Hel. λαῶν δὲ φθείρει γενεάν ~ h. Cer. καί νύ κε πάμπαν ὄλεσσε γένος μερόπων ἀνθρώπων / λιμοῦ ὑπ᾽ ἀργαλέης) sono presenti in entrambi i testi con precisi richiami lessicali e sottili variationes. Pare d’altronde significativo che Euripide, nel confronto serrato dei vv. 1327-1329 con il modello omerico, amplii il suo discorso inserendovi altri ambiti in cui si manifesta l’ira della dea, nello specifico pascoli e sorgenti, che rientrano entrambi nella sfera metroaca piuttosto che demetriaca: non è un caso che Euripide sottolinei tale mutamento riutilizzando bensì l’omerico λευκός, ma trasformandolo da attributo dell’orzo (κρῖ λευκόν) in attributo delle acque (λευκῶν...ὑδάτων). Significativo è forse anche che l’ulteriore danno che deriva dalla carestia, ossia quello dell’assenza dei sacrifici in onore degli dei, comune allo stasimo dell’Elena e 1309-1311 e accettata sia da Kannicht sia da Diggle (il cui testo abbiamo qui riportato): il verso caduto si inserirebbe all’interno del discorso sulle conseguenze, disastrose per gli uomini, della sterilità della terra (vv. 1327-1329). Si osserva tra l’altro un parallelismo concettuale fra i vv. 1327-1329 e i vv. 1330-1332, in quanto i primi descriverebbero le conseguenze della carestia per gli uomini, i secondi per gli animali (speculari sono in particolare i vv. 1329 e 1332, cf. Kannicht (1969), II, 341). Tale ‘vantaggio’ strutturale è comunque sia ottenuto accogliendo la congettura πολέων (= πολλῶν, riferito al ποίμναις precedente, come λαῶν corrisponde a βροτοῖσι) di Musurus, sui cui si vedano i pro e i contro discussi in Kannicht (1969), II, 348. Sebbene la menzione delle città (πόλεων) non sia certo fuori luogo subito prima di quella del culto degli dei, considerato il contesto generale del passo, riferito a uno scenario complessivamente naturale comprendente agricoltura, pascolo e sorgenti (dove i sacrifici agli dei costituiscono tra l’altro un rimando al modello omerico), la presenza della πόλις non sembra concettualmente del tutto giustificata. Presentiamo qui sotto una traduzione italiana sulla base del testo di Diggle: “[La dea] spogli ai mortali i campi della terra non facendoli produrre con l’agricoltura e distrugge la famiglia dei popoli e non lascia agli armenti pascoli fiorenti di volute frondose; e la vita abbandonava le città, né c’erano sacrifici per gli dei, e gli altari mancavano di focacce bruciate; fa cessare alle sorgenti rugiadose le bianche acque, così da non farle più sgorgare, a causa del tremendo dolore per la figlia”. 328 Sulla possibilità che l’aggettivo ἄχλοα alluda all’epiteto demetriaco Χλόη, cf. Kannicht (1969), II, 348.
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Capitolo III: Ancora sulle peculiarità della religiosità euripidea: l’Elena
all’Inno a Demetra, sia descritto da Euripide mediante il puntuale riferimento agli ἄφλεκτοι πελανοί, ossia l’assenza delle focacce da bruciare sugli altari: poiché i πελανοί erano il tratto distintivo dei sacrifici in onore di Dictinna nella parodo dell’Ippolito (ἀθύτων πελάνων, v. 147 – si osservi tra l’altro la relazione lessicale e morfologica fra ἄφλεκτοι e ἀθύτων), dove Euripide sembrava voler costruire uno scenario dalla caratterizzazione metroaca (cf. qui sopra, cap. II.1.2.4), non soprende di trovarli ancora qui nell’Elena, dove appunto l’intenzione dell’autore pare, ancora una volta, di ri-orientare in senso metroaco uno scenario originariamente demetriaco. Sembra dunque profilarsi la rappresentazione di una dea della natura omnicomprensiva, il cui raggio di azione interessa non soltanto l’ambito agricolo, ma quello della produttività della natura in generale: Demetra, con i suoi miti e la sua peculiare identità, viene inglobata all’interno della figura della Madre degli dei, a tutto vantaggio di quest’ultima e, soprattutto, del suo culto. § 2.2 Intersezioni fra sfera metroaca e demetriaca nel mondo greco: alcuni esempi Gli studiosi che si sono occupati di individuare l’origine, nella realtà della pratica cultuale, della scelta euripidea di rappresentare una figura divina in cui si sovrappongono tratti demetriaci e metroaci hanno cercato di valorizzare quelle testimonianze letterarie e iconografiche che suggerissero appunto la possibilità di tale identificazione.329 Tuttavia la possibilità di accettare tale identificazione anche a Atene e in relazione a un culto così marcatamente demetriaco quale quello eleusino appare indubbiamente
329 Questa è per esempio la posizione di Kannicht (cf. Kannicht (1969), II, 327-330) e di Giulia Sfameni Gasparro (cf. Sfameni Gasparro (1978), 1171-1187), la quale in particolare propende per una lettura ‘normalizzante’ dello stasimo euripideo, volta a sottolinearne l’inserimento all’interno di tendenze che attraversano tutta la storia religiosa greca. In una direzione diversa vanno le interpretazioni proposte in Robertson (1996) (dove si sottolinea l’aspetto innovativo del contributo euripideo, pur all’interno di tradizioni preesistenti) e in Cerri (1983), 155-183 (dove si individua il retroscena storico dello stasimo euripideo nell’esistenza di una tensione, nell’Atene del V sec., fra i culti di Demetra e della Madre degli dei). Secondo Bernabé (2017), 129-132, Euripide avrebbe compiuto un’operazione di sostituzione basata su «analogie religiose già esistenti» (le affinità fra la figura metroaca e Demetra, fra lo Iacco eleusino e Dioniso, ecc...) e finalizzata a restituire una «religiosità primitiva», quale emerge anche dalla parodo dei Cretesi o dalle Baccanti.
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più difficile. Se infatti il mondo greco, come abbiamo osservato nel precedente capitolo (cf. II.1.2.1), conosce diverse figure di dee ‘madri’, suscettibili anche di associazioni e assimilazioni,330 le tracce delle connessioni, a Atene, fra mondo metroaco e eleusino, quali la presenza di un altare dedicato a una stirpe eroica eleusina davanti al μητρῷον dell’agorà (cf. Arr. An. III.16.8) e di statuette votive della Madre in trono nel santuario di Eleusi o la coincidenza di elementi del corredo rituale (come il κέρνος)331 o ancora la complessa realtà cultuale del distretto di Agrai (su cui torneremo distesamente in § 2.3.2), non implicano tuttavia, come vedremo avanti, l’identificazione fra la Demetra eleusina e la Madre degli dei, specialmente considerata nella sua connotazione ‘orientale’ (intendendo con ‘orientale’ ciò che era sentito come tale dal punto di vista greco).332
330 Cf. qui sopra, cap. II.1.2.1, nota 159. 331 Per quanto riguarda il culto metroaco, cf. Robertson (1996), 282-286; per quanto riguarda il rituale di Eleusi, cf. Mylonas (1961), 221-223. 332 Cf. Sfameni Gasparro (1978), 1183-1185 e Roller (1999), 174-175, sulle analogie fra Demetra e Madre degli dei a livello iconografico, dove Demetra può condividere alcuni attributi metroaci, come il copricapo del tipo del πόλος e la φιάλη (cf., per esempio, numerose statuette votive, LIMC, IV, 856 ss., nn. 93; 94; 153; 154, e un rilievo votivo, in cui la dea è accompagnata da Kore, ritrovato a Eleusi e conservato al Louvre, inv. 752, LIMC, IV, 865, n. 234, metà del IV sec. a.C.). Il leone stesso è talora associato a Demetra, come per esempio su un’olpe attica a figure nere della collezione Astarita, (inv. 67, ora in Vaticano, LIMC, IV, 864, n. 216, fine VI sec. a.C), dove Demetra e Persefone sono rappresentate con spighe di grano ma accompagnate da un leone, come se alle dee dell’agricoltura fosse qui attribuito anche un dominio sulla sfera animale. Si tratta di un precedente importante del secondo stasimo dell’Elena, benché, nel caso dell’olpe, l’attributo del leone sembri diventare comune alla coppia Madre-Figlia, che, insieme, inglobano un elemento ‘selvaggio’ nella loro sfera agricola: del resto, poiché le dee che elargiscono il grano sono anche quelle che sottraggono gli uomini alla vita ferina, il leone, raffigurato dietro di loro, può anche essere considerato come simbolo di tale stato e quindi interpretato come ‘imprigionato’ e ‘domato’ dalle due spighe incrociate che racchiudono la sua intera figura, l’una inclinata sulla sua testa, l’altra sulla sua coda. Sulla rappresentazione in quanto attestazione di unione di sfera metroaca e demetriaca, cf. Sfameni Gasparro (1978), 1179-1180. Sull’associazione del leone a divinità diverse dalla Madre degli dei, cf. cap. II.1.2.1.
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D’altra parte, la possibilità di commistioni fra ambito demetriaco e metroaco e di identificazioni fra queste due dee ‘madri’, al di là della situazione cultuale specifica dell’Atene del V sec., dipende in larga misura dal periodo storico e dall’area geografica presi in considerazione: per esempio, in epoche fortemente caratterizzate da fenomeni di sincretismo religioso, quali l’età ellenistica e l’età romana imperiale, si osserva una frequente tendenza a associare o identificare Demetra e la Madre degli dei. In alcune aree geografiche, poi, come le colonie greche dell’Asia minore, tali sovrapposizioni si manifestano con notevole continuità nel corso di tutta la storia greca, in virtù del loro ruolo di snodo culturale fra mondo greco e mondo orientale.333 In realtà cultuali greche, diverse da quella ateniese, si osserva infine la presenza di divinità femminili dall’identità sfuggente, riconduci-
333 In questa prospettiva può essere considerata tutta una serie di testimonianze che attestano l’associazione di culto metroaco e demetriaco in Asia Minore – fenomeni che sembrano intensificarsi nel periodo romano imperiale: cf. Graillot (1912), 363-364; per una discussione su ulteriori testimonianze, cf. Sfameni Gasparro (1978), 1185-1186, note 176; 177; 178. Fra queste ricordiamo qui un’iscrizione di Cizico di età romana (I sec. a.C.), con cui il δῆμος concede il permesso di dedicare un ritratto a Cleidice, sacerdotessa τῆς Μητρὸς τῆς Πλακιανῆς καὶ Κόρης καὶ Μητρὸς καὶ Ἀρτέμιδος Μουνιχίας (cf. Hasluck (1910), 264, n. 9; Graillot (1912), 392, nota 4; Farnell (1977), III, 388, nota 55): il fatto che l’una delle due μήτηρες sia menzionata insieme con la Kore suggerisce un riferimento alla coppia Demetra-Persefone, laddove la Μήτηρ ἡ Πλακιανή sembra avere un legame particolare con Artemide Munichia, insieme con la quale compare in un’altra iscrizione da Cizico (CIG, II, n. 3657, per cui cf. Hasluck (1910), 264, n. 8; Farnell (1977), III, 388, nota 55). Considerando le connessioni di Artemide con l’ambito metroaco (cf. qui sopra, cap. II.1.2.4; per Artemide Munichia, cf. in particolare nota 225), si potrebbe ipotizzare una connotazione propriamente metroaca della Μήτηρ di Plakia. Sulla presenza di una doppia Μήτηρ in una stessa dedica, cf. qui sopra, cap. II.1.2.1. In questa località è comunque sia attestata anche un’influenza demetriaca sulla figura di Cibele, come suggeriscono monete bronzee del IV sec. a.C., che presentano su un lato la testa di Cibele e sull’altro un leone su una spiga di grano. Sul sincretismo fra le figure di Demetra, Ecate, Artemide e della Madre degli dei, fin dall’età ellenistica, cf. Reeder (1987). Possiamo infine aggiungere qui, in età tardoantica, la rappresentazione di una sacerdotessa preposta al culto di Demetra e di Cibele in una lamina d’avorio, conservata al Musée de Cluny di Parigi, che reca in alto il nome di Nicomacho, e un altare dedicato dal daduco Archelao fra il 361 e il 387 d.C., che conferma, questa volta proprio a Atene, la tendenza tardoantica a associare culti demetriaci e metroaci: sui lati destro e sinistro dell’altare sono rappresentate rispettivamente le coppie Demetra-Kore e Cibele-Attis e, nell’iscrizione (IG II-III5 13252), leggiamo che Archelao innalzò l’altare a Rea (non più discutibile è ormai l’identificazione con Cibele) e Attis come rendimento di grazie per i taurobolia (di cui iscrisse i κρυπτὰ συνθήματα); costui era d’altronde anche daduco di Kore e cleiduco di Era
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bile a figure divine dai contorni – e dall’origine – non facilmente determinabili: si tratta di culti tributati a antiche divinità madri dall’identità composita, assimilabili, per certi versi, a Demetra e per altri alla Madre degli dei e al tipo della πότνια θηρῶν. Talora vi si osserva bensì una successiva reinterpretazione ‘eleusina’, ma dovuta alla progressiva acquisizione, da parte di quel culto, di un prestigio panellenico. § 2.2.1 Il culto dei Cabiri Nell’ambito dei culti misterici dei Cabiri rileviamo come la figura femminile, dai contorni non definibili, a essi associata abbia favorito la possibilità di interferenze non solo con l’ambito metroaco e demetriaco, ma anche con quello di Afrodite. La religione cabirica (verosimilmente legata al mondo microasiatico) si presenta come un fenomeno complesso, esposto a influenze e sincretismi diversi a seconda del sostrato religioso di una determinata area geografica, a causa del carattere sfuggente dei Cabiri stessi:334 questi ultimi sono identificabili come una coppia di divinità maschili, a cui è frequentemente associata una divinità femminile, alla quale a sua volta sembra talora connessa la figura di un consorte (forse, ma non necessariamente, identificabile con uno dei due Cabiri) e quindi un rituale di tipo ierogamico. A Tebe, sede, insieme con Lemno,335 di uno dei principali e più antichi santuari cabirici,336 i cosiddetti ‘vasi cabirici’ (databili a partire dalla seconda metà del V sec.) ci hanno fornito preziose testimonianze su questo culto: in un celebre vaso (KH 1.106M4a-b, prima metà del IV sec.) sono raffigurati i due Cabiri, identificabili qui con Ermes e Pan, fra i quali può essere quindi ipotizzata una relazione padre-figlio,337 e una dea, con il capo ve-
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(la presenza di quest’ultima in connessione con riti metroaci e demetriaci ritorna tra l’altro anche nell’Elena, cf. avanti). Cf. Cruccas (2014), 248-249. Qui si presenta un’associazione piuttosto stabile nel corso del tempo fra i Cabiri, il mondo della metallurgia (il che implica un legame con Efesto) e la sfera afrodisiaca, connessa a rituali di passaggio (cf. Cruccas (2014), 88-102). Sul culto cabirico tebano, cf. Schachter (1981-1994), II, 88-110; Cruccas (2014), 72-83. Cf. Schachter (1981-1994), II, 88-89; Cruccas sembra propendere per un’interpretazione della relazione in senso omoerotico, da ricollegare a rituali appartenenti alla sfera efebica (cf. Cruccas (2014), 79). Per una rassegna delle raffigurazioni in questione, cf. ancora Schachter (1981-1994), II, 93-96.
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lato, in uno scenario roccioso.338 Data la relazione della Grande Madre e Pan in generale e in Beozia in particolare (cf. qui sopra, cap. II.1.2.3), sembra legittima un’identificazione della figura femminile in senso metroaco, ma, secondo l’αἴτιον del culto riferitoci da Pausania (cf. IX.25.5-6), la τελετή sarebbe stata un dono di Demetra a Prometeo e suo figlio Etneo, appartenenti appunto al popolo dei Cabiri; la relazione del culto in questione con Demetra (di cui si ricordi il ruolo di divinità poliade a Tebe) è tra l’altro rafforzata dall’ἄλσος dedicato a Demetra Καβειραία e alla Kore a soli sette stadi dal santuario dei Cabiri.339 È comunque sia interessante che Pausania introduca il culto tebano come dedicato ai Cabiri e, genericamente, alla Μήτηρ (Paus. IX.25.5), a conferma della personalità sfuggente della figura femminile associata ai Cabiri, come quella dei Cabiri stessi.340 Il santuario dei Grandi Dei di Samotracia, che accrebbe enormemente il suo prestigio e la sua fama soprattutto a partire da Filippo II e Alessandro, presenta una altrettanto articolata rete di associazioni, come dimostrano l’identificazione delle quattro divinità di Samotracia (Ἀξίερος, Ἀξιόκερσα,
338 Per una dettagliata descrizione del vaso, cf. Schachter (1981-1994), II, 90-91. 339 Anche nel culto misterico di Andania, in Messenia (di cui ci parla Pausania in IV.1.8-9), siamo di fronte a un’associazione fra ambito cabirico e demetriaco: come ci attesta la grande legge sacra di Konstandini (IG V1 1390, databile al 92-91 a.C.), titolari del culto erano tre coppie divine, Apollo Κάρνειος-Ermes, Grandi Dei (μεγάλοι θεοί è appunto la forma ellenizzata con cui vennero da un certo punto in poi designati i Cabiri) e Demetra-Ἁγνή. Secondo l’ipotesi di Cruccas (2014), 64, l’influenza del culto demetriaco di Messene (come avvenne del resto nel contesto religioso tebano) favorì forse l’associazione con i Grandi Dei, fino a una completa sovrapposizione all’epoca di Pausania (IV.1.5-6), che parla infatti di “Grandi Dee” adorate nei misteri di Andania, in riferimento alla coppia eleusina Demetra-Kore; a favore di una distinzione di fasi cronologiche nella storia del culto di Andania è anche Sfameni Gasparro (1986), 332-333; sull’evoluzione del culto cabirico in senso eleusino, cf. Schachter (1981-1994), II, 105-106. 340 In un cratere a calice beota di tipo cabirico, (KH 1.110M21, LIMC, IV, 857, n. 110, fine del V sec. a.C.; cf. Schachter (1981-1994), II, 102, nota 4), Demetra, con fiaccole e rami di mirto nelle mani, compare in marcia accompagnata da una gru; la connessione del culto con la sfera animale è tra l’altro confermata dalla coroplastica zoomorfa, fra cui sono da sottolineare venticinque figurine di leoni (oltre a bovini, maialini, capre e galli), il cui legame con la sfera metroaca abbiamo più volte sottolineato. Sulla possibilità di una netta identificazione, da parte di Ovidio (Met. X.681-707), della Madre del culto cabirico tebano con Cibele, cf. Arrigoni (1982), 30-35. È interessante altresì osservare come il racconto ovidiano, incentrato sul tema delle nozze fra Atalanta e Ippomene, si adatti a un rituale che sembra ricorrere nell’ambito dei culti cabirici, quello dello ἱερὸς γάμος (alcune rappresentazioni sui vasi cabirici sembrano infatti rimandare a un rituale di questo genere, cf. Cruccas (2014), 79).
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Ἀξιόκερσος, Κάσμιλος) con Demetra, Persefone, Ade e Ermes341 e l’attestazione di un culto di Venere e Pothus (cf. Plin. Nat. hist. 36.25). La sfera afrodisiaca sembra infatti molto vicina a un rituale che aveva in uno ἱερὸς γάμος il suo momento culminante. D’altra parte, tali nozze sacre, ricondotte, nell’eziologia mitica del culto, a quelle di Cadmo e Armonia (cf. Diod. Sic. V.48.4-50.1), si univano anche a cerimonie di altro tipo, quali la ricerca al buio di una dea (Armonia rapita da Cadmo) da parte dei misti (cf. Eforo, FGrHist 70 F120), nonché danze e cerimonie di tipo coribantico in relazione con le nozze di Cadmo e Armonia.342 Assai diffusa, soprattutto in età ellenistica e romana (ma alcune, seppur scarse fonti, sembrano suggerire la sua ammissibilità già nel V sec. a.C.), è inoltre l’identificazione della coppia cabirica con i Dioscuri:343 questi ultimi, in particolare a Samotracia, dovettero trovare una facile sovrapposizione, nel mito di Cadmo e Armonia, con la coppia dei fratelli di quest’ultima, Iasione e Dardano (i Dioscuri hanno infatti, fra le loro prerogative,
341 Cf. Mnasea, FGrHist 546 F1b. Sulle affinità e differenze rituali fra il culto di Samotracia e il culto eleusino, cf. Clinton (2004), 61-70. 342 Elettra, madre di Armonia, avrebbe portato in dono τὰ τῆς μεγάλης καλουμένης μητρὸς τῶν θεῶν ἱερὰ μετὰ κυμβάλων καὶ τυμπάνων καὶ τῶν ὀργιαζόντων (cf. Diod. Sic. V.49.1). È possibile che danze rituali appartenessero al primo stadio dell’iniziazione, ossia la purificazione del mista, così come il vagare nel buio, da parte dei misti stessi, alla ricerca della dea (cf. Schachter (1981-1994), II, 100, nota 3). La connessione della religione dei Cabiri con la sfera coribantica è del resto attestata anche al di fuori di Samotracia, in virtù della possibile identificazione dei Cabiri - Grandi dei anche con i Coribanti / Cureti; cf. Cruccas (2014), 123-125; per un’eziologia alternativa per il culto di Samotracia collegata direttamente alla Madre degli dei e ai Coribanti, identificati appunto con i Cabiri (come anche in Strabone X.3.19), cf. Diod. Sic. III.55.9. Relazioni con la sfera metroaca affiorano comunque sia in numerosi culti cabirici: oltre a Tebe, Taso (cf. Cruccas (2014), 180-182), Chio (cf. Cruccas (2014), 202), Efeso (cf. Cruccas (2014), 205-207), Eritre (cf. Cruccas (2014), 207), forse Olbia e Cizico (cf. Cruccas (2014), 193-194; 202-203). 343 Numerose sono le attestazioni di tale identificazione, che si manifesta soprattutto a livello iconografico, nella rappresentazione dei Cabiri con il copricapo a punta caratteristico appunto dei Dioscuri, il πῖλος, oppure in forma di stelle. Sovrapposizioni fra Cabiri e Dioscuri sembrano possibili a Andania (per il cui culto, cf. qui sopra, nota 339), così come in uno dei vasi cabirici tebani (KH 1.110M21), dove i Dioscuri apparirebbero sotto forma di due stelle in una scena in cui compaiono una nave e le teste di tre viaggiatori (cf. Schachter (1981-1994), II, 102, nota 4). Per la discussione di ulteriori testimonianze, cf. Cruccas (2014), 193-194; 202-203.
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quella di custodire la sorella Elena).344 I Dioscuri sembrano condividere con i Grandi Dei il ruolo di protettori dei naviganti (l’importanza, nel culto di Samotracia, di aspetti legati alla navigazione è confermata dal ritrovamento, nel santuario dei Grandi Dei, della celebre Nike acefala).345 Il complesso e articolato universo della religione cabirica si presta a interpretazioni diverse a seconda dell’arco cronologico considerato e della localizzazione dei santuari, tanto da apparire un punto di incontro di esperienze e culture religiose diverse: per quanto concerne il nostro interesse, possiamo osservare, accanto a relazioni con il mondo demetriaco e, talora, specificamente eleusino (il rituale cabirico poteva contemplare per esempio, come a Eleusi, sacre rappresentazioni, attestate sia per Tebe346 sia per Samotracia347), interferenze con ulteriori ambiti, quali i rituali metroaci, coribantici, la sfera efebica, afrodisiaca, ecc.. § 2.2.2 I culti di Demetra in Arcadia Possiamo osservare fenomeni altrettanto complessi nei culti demetriaci arcadi di Thelpousa, Phigalia e Lykosoura (per cui cf. qui sopra, cap. II.1.2, note 199; 206; 219). A Thelpousa Demetra era venerata sia come Ἐλευσινία, insieme con la Figlia e Dioniso (cf. Paus. VIII.25.2-3) – con un culto riconducibile quindi allo schema attico –, sia come Ἐρινύς / Λουσία, la cosiddetta Demetra ἐν Ὀγκείῳ dal luogo ove era collocato il suo santuario. Demetra, alla ricerca di Kore, sarebbe stata inseguita da Posidone e, per sfuggirgli, si sarebbe trasformata in cavalla; Posidone, trasformatosi a sua volta in cavallo, l’avrebbe infine raggiunta e dall’unione dei due sarebbero nati la stessa Despoina venerata a Lykosoura e il cavallo Arione (cf. Paus. VIII.25.4-7; il mito, ambientato in Beozia, della nascita del cavallo Arione 344 È questa l’ipotesi avanzata in Clinton (2004), 69 e accolta in Cruccas (2014), 126. 345 Cf. Cruccas (2014), 126-127. 346 Cf. Cruccas (2014), 74-76; 80. La legge sacra di Konstandini (IG V1 1390.24; 68) ci attesta che il rituale misterico comprendeva rappresentazioni sacre con personaggi che interpretavano il ruolo delle divinità anche a Andania, le cui relazioni con Eleusi sono state discusse qui sopra in nota 339. 347 Cf. Cruccas (2014), 110-113. A Samotracia, inoltre, il cosiddetto ἱερόν (appartenente al complesso sud del santuario), una struttura templare con sedili per i fedeli (portico con sala per assemblee, dunque) presenta una notevole affinità, proprio per la rarità di tali strutture, con il τελεστήριον di Eleusi; del resto la ricerca stessa di una divinità al buio da parte del mista, testimoniata per Samotracia, costituisce un altro parallelo con i riti di Eleusi.
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da Demetra Ἐρινύς e Posidone, tramutati entrambi in cavalli, compariva già, pur senza alcuna connessione con Lykosoura, nella Tebaide ciclica, cf. fr. 8 Bernabé, I): secondo tale αἴτιον la dea sarebbe stata detta Ἐρινύς per l’ira dovuta all’aggressione subita da Posidone e Λουσία per la sua successiva pacificazione con un bagno nelle acque del fiume Ladon. Analoga realtà cultuale è quella dell’ἄντρον di Phigalia, dove la dea si sarebbe ritirata, vestita di nero (da qui l’epiclesi Μέλαινα), perché adirata per la forzata ierogamia con Posidone (da cui la nascita della Despoina, ma non del cavallo, a differenza che a Thelpousa), con le conseguenze consuete, ossia sterilità della terra, carestia e fame; Zeus, informato da Pan del luogo del ritiro di Demetra, avrebbe placato la sua ira inviandole le Moire (cf. Paus. VIII.42.1-3). La statua di legno della dea, distrutta da un incendio all’epoca di Pausania, la rappresentava infatti seduta su una roccia, con corpo di donna ma testa di cavallo, da cui crescevano immagini di serpenti e altre bestie, e nelle mani rispettivamente un delfino e una colomba (cf. Paus. VIII.42.4). Gli abitanti di Phigalia tuttavia (cf. ancora Paus. VIII.42.5-13), avrebbero trascurato il culto della dea, provocando così nuovamente la sterilità della terra, e lo avrebbero ripristinato, dopo aver interrogato la Pizia, secondo la tipologia attica della dea agricola che sottrae gli uomini allo stato ferino. La Demetra arcade si presenta dunque bensì, come quella eleusina, caratterizzata dalla relazione con una figlia, la Despoina348 (che a Lykosoura assume lei stessa i tratti della πότνια θηρῶν),349 e dal motivo dell’ira, che la porta a ritirarsi lontano dagli altri dei, ma, allo stesso tempo, la preminenza del motivo ierogamico e, soprattutto, i legami con la sfera animale (l’iconografia di Phigalia offre tra l’altro l’idea di un dominio cosmico esteso alla terra, all’acqua e al cielo), fortissimi in tutti e tre i culti considerati, delineano una figura divina ben più complessa della Demetra attica.350 Non è altresì da trascurare il rapporto privilegiato della dea in questione con l’elemento acquatico, che emerge dal fatto che la figura maschile coinvolta nel suo culto sia il dio delle acque stesso, nonché dal ruolo centrale del fiume
348 A una coppia di Grandi Dee è tributato un importante culto dal carattere locale a Bathos (cf. Paus. VIII.29.1), su cui cf. Jost (2004), 156, mentre in quello delle Grandi Dee di Megalopoli l’influsso eleusino sembra tanto forte da indurre Pausania a parlare di τῶν Ἐλευσῖνί [...] μιμήματα (cf. Paus. VIII.31.7; cf. ancora Jost (2004), 151-154). 349 Cf. Paus. VIII.37.8-9; Sfameni Gasparro (1986), 327-330; Jost (2004), 157-164. 350 Si ricordi tra l’altro come, nell’iconografia frigia, la Matar sia assai frequentemente rappresentata con l’attributo dell’uccello predatore (cf. Roller (1999), 109).
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nel culto di Thelpousa; l’antro di Phigalia – un luogo di culto esso stesso anomalo per un culto demetriaco – era tra l’altro situato al centro di un boschetto di querce e presso una sorgente di acqua fredda (cf. Paus. VIII.42.12). Sebbene si tratti di elementi in gran parte appartenenti anche all’identità della Madre degli dei, come conferma la presenza di Pan, compagno privilegiato della Madre (cf. qui sopra, cap. II.1.2.3), non si possono ritenere semplicemente metroaci i culti in questione e, d’altro canto, la figura divina che emerge dai culti arcadi sembra anteriore alla specializzazione di Demetra come dea dell’agricoltura: vi si individuano infatti sia aspetti, quali il dominio sugli animali e la relazione con il paesaggio montano, comuni, in ambito i.e., almeno alla Matar frigia, sia tratti riconducibili direttamente all’eredità i.e. stessa di Demetra. Del resto, come osserva Michael Janda, i nomi di Demetra e Posidone, in particolare nella loro forma dorica Δαμάτηρ e Ποτει-δᾶς, potrebbero essere interpretabili rispettivamente come “Madre Dā” e “Sposo / Signore di Dā”: poiché δα- sarebbe appunto da ricondurre al nome radicale i.e. *dáh2-, “acqua”, Demetra e Posidone351 diverrebbero così la “Madre Acqua” e lo “Sposo dell’Acqua”. In ogni caso, il RigVeda ci offrirebbe, nella prospettiva di ricostruzione i.e., ancora una volta significativi termini di confronto per entrambe queste figure divine: il dio Varuṇa è infatti designato come dā́nunas352 páti- (cf. I.136.3, con Mitra), perfettamente corrispondente al nome greco di Posidone, mentre le acque liberate da Indra con l’uccisione di Vṛtra sono invocate come “madri” (cf. VIII.89.4).353 La possibilità di sviluppo di un’originaria ‘Madre Acqua / Madre delle acque’ i.e. come dea dell’agricoltura sarebbe poi suggerita ancora da un passo del Rig-Veda (X.43.7), dove vengono messi in duplice relazione sia lo scorrere del Soma nel corpo di Indra con quello delle acque nell’Indo e nel mare sia la potenza del dio che deriva dal sacrificio del Soma con quella della pioggia che fa crescere il grano. L’Arcadia ci offre dunque uno scenario religioso complesso, dove, accanto alla presenza di successive influenze del modello eleusino (si pensi all’elemento della ricerca della Kore, che si giustappone alla vicenda ierogamica e alla nascita della Despoina sia a Thelpousa sia a Phigalia, il cui culto
351 Cf. Janda (2010), 61-64. 352 Il nome i.e. *dáh2nu-, “acqua”, attestato, oltre che in antico indiano dā́nu-, anche nell’avestico recente dānu- e nel nome celtico del Danubio (cf. gall.-lat. Dānuuius) – oltre che in altri nomi fluviali –, è appunto un’espansione del nome radicale *dáh2-. 353 Sulla presenza, anche in ambito avestico, della concezione delle acque come ‘madri’, cf. Janda (2010), 63.
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appare infatti, nel racconto di Pausania, articolato in due fasi distinte),354 è forse possibile cogliere tracce di una religiosità più antica, caratterizzata dall’assenza di confini netti fra figure divine distinte:355 se nel precedente capitolo abbiamo parlato della possibilità di rintracciare una divinità ‘madre’ in ambito i.e. servendoci del parallelo vedico della dea Aditi (cf. qui sopra, cap. II.1.2.1), ora, alla luce delle testimonianze relative ai culti arcadici, possiamo trovare ulteriori elementi riconducibili a un’antica divinità i.e. ‘Madre delle acque’ specializzatasi in Grecia nella figura di Demetra come dea agricola, ma che poté anche, in determinati contesti, svilupparsi secondo la fisionomia di πότνια θηρῶν, come avvenne per Artemide e la Madre degli dei, oltre che per la Matar frigia.356 Risulta in questo contesto significativo il parallelo offerto, in ambito iranico, dalla dea avestica Anāhitā, divinità fluviale e, più in generale, acquatica, riguardo alla quale è stata recentemente riconsiderata la possibilità di una parentela etimologica con la Aditi vedica, in quanto entrambi i nomi esprimono il concetto della libertà dai legami.357 Data la qualità di ‘madre’ di Aditi – madre in particolare di Varuṇa, il dio delle acque – potrebbe dunque profilarsi, anche per questa via, almeno in ambito indo-iranico – una divinità madre e allo stes354 Cf. Jost (2004), 151-155. Quanto al carattere misterico di alcuni dei culti demetriaci arcadici (per esempio a Lykosoura o a Pheneos), appare difficile stabilire, come osserva Giulia Sfameni Gasparro a proposito di Lykosoura, se si tratti di un elemento originario o di un’acquisizione ulteriore, dovuta all’influsso di Eleusi (cf. Sfameni Gasparro (1986), 330). D’altra parte la descrizione che ci offre Pausania (cf. VIII.15.2-3) dei misteri di Demetra Κιδαρία a Pheneos ci rivela uno scenario peculiare, assai diverso da quello eleusino, di cui fanno parte la danza (la κίδαρις, appunto), la lettura di libri sacri e una cerimonia in cui il sacerdote, con la maschera di Demetra Κιδαρία stessa, evocava forze ctonie. Si noti che danza e mascheramento giocavano un ruolo centrale anche nel culto cabirico tebano, le cui connessioni con Demetra abbiamo considerato qui sopra. 355 Secondo Giulia Sfameni Gasparro non sarebbe legittimo parlare, per la Demetra arcade, di uno sviluppo da dea della natura selvaggia e degli animali a dea agricola (sebbene il resoconto di Pausania sul culto di Phigalia sembri suggerire proprio uno sviluppo con fasi distinte), ma di uno scenario in cui Demetra si presenta con aspetti diversi («complementari piuttosto che rigidamente alternativi»), tutti ugualmente appartenenti alla sua personalità (cf. Sfameni Gasparro (1986), 324-325). 356 Il secondo membro del nome della divinità di Lykosoura, δέσποινα, “signora della casa”, è tra l’altro un femminile corrispondente di ποσι-, mentre il primo è assonante con δα- (quasi che quest’ultimo fosse stato sostituito): sembrerebbe dunque che nel nome della figlia si sia cercato di chiarire il nome del padre e della madre, il cui significato era ormai andato perduto. 357 Cf. Kellens (2002-2003), 317-326. Si fa il nome di Anaïtis in quanto identificata alla Madre degli dei in Asia Minore anche in Borgeaud (1996), 189-190, nota 31.
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so tempo legata alla sfera acquatica. Quanto a un’eventuale relazione con la sfera degli animali, possiamo comunque sia rilevare almeno il fatto che la dea Anāhitā sia rappresentata vestita di una pelliccia. § 2.3 Demetra e la Madre degli dei in Attica L’analisi della relazione fra Demetra e la Madre degli dei si presenta, come abbiamo detto qui sopra, particolarmente delicata nel contesto dell’Atene di età classica: qui assistiamo bensì alla sempre più grande diffusione di culti stranieri, che accentuarono gli aspetti di alterità di una figura pur radicata nel pantheon greco come la Madre degli dei (cf. qui sopra, cap. II.1.2.1) ma, allo stesso tempo, troviamo anche la sede del più importante culto di Demetra, la cui identità doveva essere preservata anche contro quelle trasformazioni religiose in atto. Tra l’altro, nella seconda metà del V sec., il culto eleusino appare insidiato nella sua inviolabilità da altri fattori, ugualmente destabilizzanti: lo scandalo della parodia dei Misteri che coinvolse Alcibiade nel 415 a.C. (cf. Thuc. VI.27-29, oltre ai due discorsi di Andocide Sul suo ritorno e Sui Misteri) e la sospensione, dovuta all’occupazione di Decelea, della processione da Atene a Eleusi (ripristinata poi con atto propagandistico da Alcibiade stesso nel 408 o 407 a.C., cf. Xen. Hell. I.4.20; Plut. Alc. 34) sono altrettante spie delle ripercussioni in ambito religioso dell’instabilità e delle incertezze politiche di questa fase storica.358 Se la celebrazione euripidea, nel secondo stasimo dell’Elena, di un culto senz’altro non eleusino per mezzo però di un’αἴτιον a questo indissolubilmente legato appare dunque riconducibile all’interno di questo quadro, occorre d’altra parte chiedersi se siamo di fronte a un’innovazione euripidea o a uno sfondo religioso che possa trovare qualche riscontro nell’Attica della seconda metà del V sec.: a quanto pare, come vedremo, le testimonianze relative alle possibili associazioni fra sfera metroaca e sfera demetriaca in tale contesto storico attestano l’esistenza di situazioni bensì controverse nel rapporto fra le due divinità in questione, ma non tali da suggerire il
358 Nell’ottica del nostro discorso è particolarmente interessante l’ipotesi che la partecipazione di Alcibiade ai culti orgiastici della dea trace Kotyto, presa di mira da Eupoli nei Battezzatori, avesse favorito, in qualche modo, l’accusa relativa alla parodia dei Misteri (cf. De Romilly (2010), 85), consistente (potremmo ancora ipotizzare) in una contaminazione fra i due culti. Sulla questione si veda in generale De Romilly (2010), 81-87. Sulla relazione fra lo scandalo della parodia dei Misteri e il successivo ripristino della processione eleusina, cf. Prandi (1999), 49-56, con ulteriori indicazioni bibliografiche.
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riconoscimento ufficiale di un’esplicita identificazione fra Demetra e la Madre degli dei a livello cultuale. § 2.3.1 Demetra Ἀχαία L’operazione euripidea potrebbe forse avere qualche relazione con il culto ateniese di Demetra Ἀχαία, che uno scolio agli Acarnesi (schol. in Ach. v. 708a, p. 94 Wilson; cf. anche Olson (2002), 254-255) ci descrive caratterizzato dalla presenza di uno κτύπος τῶν κυμβάλων καὶ τυμπάνων durante la ricerca di Kore. D’altra parte, stando a quanto ci riferisce Erodoto (V.61), gli ὄργια di Demetra Ἀχαία avrebbero rappresentato una peculiarità nel panorama cultuale attico: sarebbero stati infatti fondati a Atene dagli esuli di Gefira, costretti a fuggire dalla Beozia, e gli ateniesi non avrebbero preso parte a questi riti, definiti dallo storiografo “diversi dagli altri”.359 Se dunque Euripide avesse davvero inteso alludere a tale realtà religiosa, accentuandone le affinità con il culto metroaco, avrebbe comunque sia offerto una rappresentazione ‘anomala’ (anch’essa straniera, peraltro) del culto di Demetra, tutt’altro che congruente con l’ortodossia eleusina.360 359 Non è da escludere che il culto di Demetra Ἀχαία, fondato da genti originarie della Beozia, abbia qualche relazione con la Demetra χαλκόκροτος menzionata da Pindaro nell’Istmica VII (vv. 3-5): il contesto è tra l’altro quello di un’invocazione a Tebe come patria di Dioniso, definito appunto πάρεδρος di Demetra χαλκόκροτος. Lo scolio al passo (sch. in Isth. 7, v. 3a, III, 261 Drachmann) ci informa infatti di un culto demetriaco caratterizzato da ἐπικτυποῦντα κύμβαλα, uso rituale ricondotto alla ricerca della figlia da parte della dea. Le affinità lessicali stesse con lo scolio agli Acarnesi ci permettono di riconoscere il riferimento a uno stesso complesso rituale, verosimilmente beotico. Benché in Sfameni Gasparro (1978), 1173-1174 si propenda per riferire a Eleusi le testimonianze degli scoliasti di Pindaro e Aristofane, il passo erodoteo e il contesto tebano dell’Istmica VII sembrano suggerire piuttosto un’origine non attica del culto in questione. Sulla possibilità, più che verosimile, di una commistione fra la Demetra dell’Istmica VII e la sfera metroaca, cf. ancora Sfameni Gasparro (1978), 1174-1175. 360 Lo scolio aristofaneo si riferisce a un passo controverso degli Acarnesi (vv. 708-709), in cui il coro inveisce contro i giovani oratori che trascinano in tribunale i vecchi inermi incapaci di reagire alle loro “parole ben tornite” (v. 686) e fa l’esempio del vecchio Tucidide, sopraffatto in tribunale da tale Evatlo, chiamato, ai vv. 703 e 707, “deserto scitico” e “arciere”, con riferimento alla sua presunta origine scitica; eppure, continua il coro, “per Demetra, quando Tucidide era Tucidide, non avrebbe tollerato facilmente Achaia stessa, ma avrebbe steso a terra dieci Evatli e avrebbe sovrastato con urla e grida tremila arcieri e avrebbe circondato di frecce i parenti del padre di colui” (vv. 708-712). Benché la lezione dei manoscritti, αὐτὴν τὴν Ἀχαιάν, che la Suda (α 4679) permette di correggere in
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§ 2.3.2 La Μήτηρ ἐν Ἄγρας La possibilità di individuare, nella religione attica del V sec., altre possibili commistioni fra mondo metroaco e demetriaco sembra essere fornita in particolare dal complesso di culti praticati nel distretto di Agrai, situato nella parte sud-orientale della città, al di là dell’Ilisso, in un’area indubbiamente ‘sacra’, ricca di culti e santuari.361 Qui venivano celebrati, nel mese di Antesterione (febbraio-marzo), i cosiddetti “Piccoli Misteri”, riti purificatori di preparazione ai Grandi Misteri di Eleusi, celebrati a loro volta nel mese di Boedromione (settembre-ottobre). Poiché abbiamo attestazioni (risalenti al V sec. a.C.) relative all’esistenza di un μητρῷον nell’area e al culto di una Μήτηρ (cf. avanti, note 366 e 368), è stato ipotizzato che in tale santuario avessero luogo le celebrazioni dei Piccoli Misteri, in virtù di una identificazione fra Demetra e la Madre degli dei.362 Le testimonianze in nostro Ἀχαίαν, appaia problematica (obscurum, secondo Wilson; sulle varie proposte di emendamento, cf. Olson (2002), 254-255), considerando l’invocazione a Demetra immediatamente precedente, potrebbe proprio trattarsi di quella stessa Demetra Achaia di cui ci parlano Erodoto e, del resto, anche lo scolio al passo: Aristofane infatti cala il riferimento in un contesto di strepito acustico (l’eloquenza del giovane oratore confrontata con le grida di cui era capace Tucidide da giovane), che si adatta bene a un culto che, a giudicare dalle testimonianze, doveva essere assai rumoroso; poiché inoltre coloro su cui Tucidide avrebbe avuto la meglio se fosse stato ancora giovane sono degli stranieri (Evatlo e i suoi parenti, tremila arcieri sciti), il paragone con una dea ‘straniera’, seppure accolta e accettata a Atene (come appunto la famiglia di Evatlo) sembrerebbe tutt’altro che inappropriato. 361 La collocazione del distretto di Agrai al di là dell’Ilisso è deducibile da un passo del Fedro platonico (229c) e, ancor più nettamente, da un passo di Pausania (I.19.6), sebbene non ne sia altrettanto chiaramente definibile l’estensione (cf. Marchiandi in Greco e all. (2010-), II, 486). 362 Per il dibattito sulla questione, con bibliografia relativa, cf. Marchiandi in Greco e all. (2010-), II, 487-488. Secondo l’ipotesi più radicale, proposta in Simon (1983), 26-27 (e accolta anche in Kannicht (1969), II, 332, in Reeder (1987), 431 e in Allan (2004), 143), i Piccoli Misteri sarebbero i misteri di Rea-Madre degli dei; in un precedente articolo (cf. Simon (1966)), la studiosa attribuiva anzi la centralità del culto al Dioniso orfico, figlio di Zeus e Persefone, associato alla Madre Rea, come si sostiene ora in Valdés Guía, Martínez Nieto (2005), 51-52, sulla base dell’identificazione fra la Demetra di Agrai e la Madre Rea (lo scolio platonico chiamato a sostegno dell’ipotesi, schol. in Pl. Gorg. 497c, n. 331, p. 244 Cufalo, tuttavia, sembra riferirsi piuttosto ai Misteri di Eleusi confondendoli con quelli metroaci; cf. Clem. Al. Protr. II.15.1-3 per l’origine di tale confusione). In ogni caso, il rituale ricostruito per Agrai dalla Valdés Guía appare eccessivamente complesso e frammentato. Sulla pelike di San Pietroburgo (inv. 1792, LIMC, II, 130, n. 1371, per il lato A, e 997, n. 456, per il lato B, del IV sec. a.C.)
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possesso sui Piccoli Misteri ci parlano tuttavia piuttosto del loro carattere preparatorio rispetto ai Grandi Misteri, nonché di una preminenza in essi di Persefone rispetto a Demetra e di rituali incentrati sulle purificazioni.363 I ritrovamenti stessi nella zona dell’Ilisso sono perfettamente congruenti con la tipica iconografia eleusina, con Demetra seduta e Kore, presso di lei, stante, e non permettono di ipotizzare, per Demetra (e per il suo culto) una fisionomia diversa da quella della dea dei Grandi Misteri.364
come testimonianza per l’interpretazione orfico-dionisiaca dei Misteri di Agrai, sostenuta in Simon (1966), cf. le confutazioni in Graf (1974), 66-78, secondo cui, nei due lati del vaso, si avrebbe la rappresentazione di fatti cultuali distinti, su un lato i Misteri di Eleusi e sull’altro i misteri dionisiaci. Quanto infine alla testimonianza di Stefano di Bisanzio sulla relazione di Dioniso con i Piccoli Misteri (s.v. Ἄγραι, μίμημα τῶν περὶ τὸν Διόνυσον), poiché Sfefano parla di “imitazione” e non di identità, potremmo trovarci di fronte a somiglianze rituali (per esempio, la possibile presenza, nel rituale di Agrai, del λίκνον, il vaglio per il grano, secondo la raffigurazione dell’urna Lovatelli, dato il legame che anche Dioniso sembra avere con esso; cf. LIMC, III, 426, n. 29; l’epiteto λικνίτης è attestato in Plut. Is. Osir. 365a; Verg. Georg. I.166). Sulla questione cf. Mylonas (1961), 239-243, dove si escludono connessioni metroache o dionisiache a Agrai. 363 Sulla preminenza della Figlia sulla Madre nei Misteri di Agrai, cf. Duride di Samo, FGrHist 76 F13; schol. rec. in Aristoph. Plut. v. 845.2, p. 222 Chantry; Hipp. Ref. V.8.43 e, per l’iconografia, cf. la tavoletta di Ninnion (per cui cf. Mylonas (1961), 239 ss.; cf. tuttavia Simon (1966), 86-91); in Graf (1974), 75-78 si esclude invece la particolare relazione di Persefone, rispetto a Demetra, con i Misteri di Agrai. Sul carattere preliminare dei Piccoli Misteri, cf. Plat. Gorg. 497c con scolio al passo (n. 331, p. 244 Cufalo), Plut. Demetr. 26; Clem. Al. Strom. IV.1.3.1; V.11.71.1-2; Hipp. Ref. V.8.43; schol. rec. in Aristoph. Plut. v. 845.1, p. 222 Chantry. Sul ruolo centrale in essi delle purificazioni (con abluzioni nelle acque dell’Ilisso), cf. Polyaen. Strat. V.17.1; Max. Tyr. II.1.g-h; schol. vet. in Aristoph. Plut. v. 845f, p. 142 Chantry; Himer. Or. 47.4. Sulla tradizione relativa all’istituzione dei Piccoli Misteri come legata all’iniziazione di Eracle in quanto primo straniero, cf. schol. rec. in Aristoph. Plut. v. 845.1, p. 222 Chantry; sulla tradizione relativa alla necessità di purificarlo dall’uccisione dei centauri, cf. Diod. Sic. IV.14.3, anche se, secondo il medesimo Diod. Sic. IV.25.1, Eracle sarebbe stato iniziato ai Misteri di Eleusi da Museo, figlio di Orfeo, per recarsi nell’Ade a prendere Cerbero. 364 Cf. Marchiandi in Greco e all. (2010-), II, 488-489. Fra le testimonianze in questione, databili fra l’età classica e la prima età romana, menzioniamo qui un frammento di rilievo marmoreo (420 ca. a.C.), che raffigura due figure femminili di cui quella stante pone una mano sulla spalla di quella seduta (sembra ravvisabile il nome di Demetra sull’anta destra, LIMC, IV, 867-868, n. 273), e un rilievo della metà del V sec., dedicato da un gruppo di lavandai alle Ninfe (IG II2 2934), raffigurate insieme con Ermes, Pan, Acheloo e, nel registro inferiore, Demetra e Persefone. Poiché Platone ci attesta l’esistenza di un santuario delle Ninfe e di Acheloo sulle rive dell’Ilisso (cf. Phaedr. 230b-c; 258e; 259c; 262d), per la cui localizzazione sembra verosimile la zona a nord-ovest della collina dell’Ar-
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Quanto alle testimonianze relative al μητρῷον, sembra comunque sia problematica la loro connessione con Demetra e i Piccoli Misteri, se teniamo presente non solo la menzione, nelle fonti, di uno specifico Δήμητρος ἱερόν per Agrai, che può quindi essere ritenuto diverso dal μητρῷον,365 ma anche la possibilità di ricostruire per il μητρῷον un contesto cultuale specifico, ossia quello dei Kronia, legati verosimilmente al Κρόνιον τέμενος, collocato nei pressi del μητρῷον stesso.366 Se così fosse, saremmo in ogni caso
detto, nei pressi dello Stadio, da cui appunto proviene il rilievo, potrebbe non essere improbabile l’identificazione del Δήμητρος ἱερόν (cf. qui sotto, nota 365) con il filare di otto blocchi di poros rinvenuti nel braccio meridionale del fiume (cf. Marchiandi in Greco e all. (2010-), II, 480-482; 488-489). Cf. invece Delivorrias (1969), 7-15 per l’identificazione del santuario di Demetra con il “tempio ionico dell’Ilisso” (cf. tuttavia anche Delivorrias (1974), 168-169); sulla questione cf. Marchiandi, Savelli in Greco e all. (2010-), II, 490-494. 365 Per una rassegna delle testimonianze relative, cf. Sfameni Gasparro (1978), 1184 (la studiosa mostra tra l’altro un grande scetticismo verso le ipotesi di un’identificazione fra Demetra e la Madre degli dei a Agrai). Segnaliamo qui in particolare Suda s.v. Ἄγρα: Δήμητρος ἱερὸν ἔξω τῆς πόλεως πρὸς τῷ Ἰλισσῷ. Per una discussione sull’identificazione del Δήμητρος ἱερὸν, cf. qui sopra, nota 364. 366 Poiché sappiamo che Clidemo, che ci attesta appunto l’esistenza di un μητρῷον a Agrai, identificava anche la Madre degli dei con Rea (FGrHist 323 F25) e abbiamo anche notizia, in quest’area, sia di un Κρόνιον τέμενος, che si sarebbe esteso dall’Olympieion (collocato fra le pendici meridionali dell’acropoli e l’Ilisso) fino al μητρῷον (cf. Lex. rhet., Anecd. Gr., 273.20 Bekker, s.v. Κρόνιον τέμενος˙ τὸ παρὰ τὸ νῦν Ὀλύμπιον μέχρι τοῦ μητρῴου τοῦ ἐν Ἄγρᾳ, dove Ἄγρᾳ è congettura di Wachsmuth per il geograficamente impossibile ἀγορᾷ), sia di un ναός di Crono e Rea all’interno del peribolo dello stesso Olympieion (cf. Paus. I.18.7), sembra verosimile l’ipotesi di Robertson, secondo cui il culto locale della Madre sarebbe da associare alla festa dei Kronia (in onore, secondo Fozio, della Madre degli dei, evidentemente identificata con Rea, e Crono; cf. Robertson (1996), 275; per ulteriori testimonianze sui Kronia, cf. Robertson (1996), 270-274; per Olimpia in particolare, cf. Robertson (2010), 78-83). Sulla localizzazione del μητρῷον sulla sponda meridionale dell’Ilisso (dove si trovava appunto Agrai), all’altezza del punto in cui, sull’altra sponda, è situato l’Olympieion (e fin dove si estendeva il Κρόνιον τέμενος), cf. Robertson (1996), 275-277; poiché una delle localizzazioni proposte per il μητρῷον di Agrai è nell’area della chiesa di Hag. Fotini (cf. Marchiandi in Greco e all. (2010-), II, 489), sulla sponda meridionale dell’Ilisso, proprio davanti all’Olympieion, un’ulteriore conferma potrebbe derivare dalla presenza, presso la chiesa, di una grotta sacra a Pan (cf. Marchiandi, Mercuri in Greco e all. (2010-), II, 485-486; per il legame del dio con la Madre degli dei, cf. qui sopra, cap. II.1.2.3). Quanto all’identificazione del μητρῷον con il ναός di Crono e Rea, proposta ancora da Robertson, cf. le critiche avanzate da Marchiandi in Greco e all. (2010-), II, 487. Non è viceversa da escludere che il ναός di Crono e Rea, con il Κρόνιον τέμενος, e il μητρῷον fossero due edifici di-
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di fronte a un culto metroaco inseribile nella tradizione mitica e cultuale greca, non interpretabile come ‘straniero’. La possibilità di ricostruire un culto metroaco a Agrai permetterebbe dunque l’identificazione della Μήτηρ ἐν Ἄγρας, attestata nelle nostre fonti, con la Madre degli dei, a cui era appunto dedicato il μητρῷον. Anche se le testimonianze epigrafiche che indicano i Piccoli Misteri come τὰ ἐν Ἄγραισι μυστήρια (IG I3 386.146) o τὰ πρὸς Ἄγραν μυστήρια (IG II2 1231.11; 661.9-10; 847.22-23) o τὰ ἐν Ἄγρας,367 designazioni analoghe a quella di Μήτηρ ἐν Ἄγρας, potrebbero indurci a identificare quest’ultima piuttosto con Demetra, risulterebbe forse difficile ipotizzare la presenza, nell’area dell’Ilisso, di una Μήτηρ θεῶν e una Μήτηρ ἐν Ἄγρας come designazioni di personaggi distinti. A questo si aggiunga che la menzione di Demetra come Μήτηρ tout court, senza menzione di Kore (cf. invece le testimonianze riportate qui sopra, nota 333) appare problematica, tanto più che le fonti iconografiche rinvenute nel sito archeologico di Agrai ci mostrano la coppia eleusina con Demetra seduta e, accanto a lei, Kore in piedi (cf. qui sopra, nota 364), e alcune delle fonti letterarie addirittura una preminenza di Kore nei Misteri di Agrai (cf. qui sopra, nota 363). La denominazione ἐν Ἄγρας potrebbe piuttosto avere la funzione di distinguere la Μήτηρ θεῶν venerata sull’Ilisso da quella venerata sull’agorà (per cui cf. avanti, § 2.3.3).368
stinti (il ναός potrebbe anzi essere più antico, cf. Filocoro, FGrHist 328 F97), legati però dall’identificazione della Madre degli dei con Rea. Cf. al riguardo Roberston (2010), 69-83 (in particolare 79-80), dove viene messa in luce l’affinità fra il complesso di edifici nell’area dell’Ilisso (Olympieion - ναός di Crono e Rea - Κρόνιον τέμενος - μητρῷον) con quello di Olimpia nella parte nord-occidentale dell’Altis, dove troviamo, in un’area dominata dal culto di Zeus Olimpio, un preesistente culto della Madre degli dei ai piedi del monte Kronion, sul suo lato meridionale. 367 Cf. Synag. Lex., Anecd. Gr., 326.24 Bekker, dove l’espressione è equiparata a ἐν Ἀσκληπιοῦ. 368 Quanto alle fonti epigrafiche in cui compare la Μήτηρ ἐν Ἄγρας, il calendario di sacrifici IG I3 234.5 (dove tuttavia Ἄγρας è un’integrazione) e le epigrafi IG I3 369.91 (426/5-423/2 a.C.) e IG I3 383.50 (429/8 a.C) ci presentano tale Μήτηρ insieme con molte altre divinità, fra cui alcune affini alla sfera metroaca, quali Artemide, ricordata anche in relazione al suo culto di Agrai, come Agrotera (cf. IG I3 234.5 – senza Agrotera –; IG I3 369.79; IG I3 383.155-156), Dioniso (cf. IG I3 234.17; IG I3 369.81; IG I3 383.66) e Ermes e Artemide Ecate, spesso compagni della Madre degli dei nell’iconografia (cf. IG I3 383.125-127; cf. cap. II.1.2.4, nota 223). Se a questo aggiungiamo la presenza, sia in IG I3 369.68 sia in IG I3 383.143, di Bendis, divinità straniera, originaria della Tracia, vicina sia a Artemide sia alla Madre degli dei, avremmo un altro suggerimento in favore dell’identi-
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Alla luce delle nostre considerazioni, non sembrano in ogni caso esserci elementi sufficienti per parlare di un’unica divinità ‘madre’ dai tratti demetriaci e metroaci al tempo stesso adorata in un santuario sulle sponde dell’Ilisso e ancor meno per connotare tale realtà cultuale come ‘non-greca’ o ‘orientale’.369 § 2.3.3 L’episodio del μητραγύρτης e il μητρῷον dell’agorà Se davvero i Piccoli Misteri presupponessero un’identificazione del tutto acquisita fra Demetra e la Madre degli dei, risulterebbe incomprensibile, e addirittura assurda, una notizia tramandataci sia da Fozio (s.v. μητραγύρτης) sia dall’imperatore Giuliano (Or. V.159a), secondo cui gli ateniesi avrebbero ucciso e gettato nel βάραθρον un μητραγύρτης frigio (sacerdote itinerante della Madre degli dei) giunto a “iniziare” le donne (cf. Fozio), con l’accusa di essere un τὰ θεῖα καινοτομοῦντα (cf. Giuliano). Secondo uno scolio al Pluto di Aristofane (schol. vet. in Plut. 431, p. 85 Chantry), il μητραγύρτης sarebbe stato giustiziato ὡς μεμηνότα, ἐπειδὴ προέλεγεν ὅτι ἔρχεται ἡ μήτηρ εἰς ἐπιζήτησιν τῆς κόρης (cf. anche Suda, s.v. βάραθρον):370 secondo questa versione, la sua empietà sarebbe consistita dunque nell’identificazione della dea frigia (a individuare la quale è qui riservata la sem-
ficazione della Μήτηρ ἐν Ἄγρας con la Madre degli dei. Quanto alla possibilità di una differenziazione, nell’indicazione della Μήτηρ θεῶν, fra Μήτηρ senza altra specificazione per il culto sull’agorà e Μήτηρ ἐν Ἄγρας per il culto di Agrai, cf. infine IG I3 138.11-12 (precedente al 434 a.C., relativamente a un tributo da versare a Apollo), dove, in un contesto in cui si parla di uomini scelti dalla βουλή per la gestione delle ricchezze della Μήτηρ, si può ipotizzare un riferimento al legame fra μητρῷον e βουλευτήριον proprio dell’agorà (cf. avanti); per l’interpretazione di questa epigrafe, cf. tuttavia Robertson (1996), 274. 369 È stata avanzata anche l’ipotesi che il culto di Rea avesse avuto sede a Agrai fino al 429 a.C., quando sarebbe stato spostato sull’agorà e a Agrai verosimilmente il μητρῷον stesso avrebbe cominciato a ospitare le celebrazioni dei Piccoli Misteri di Demetra e Persefone; cf. Xagorari-Gleissner (2008), 124-125 (si veda tuttavia la datazione delle iscrizioni relative alla Μήτηρ ἐν Ἄγρας, difficilmente riferibili a Demetra, come abbiamo visto in nota 368). 370 Giuliano, invece, individua la causa della morte del frigio nel fatto che gli ateniesi non avrebbero compreso che la dea di cui il frigio era sacerdote fosse ἡ παρ᾽ αὐτοῖς τιμωμένη Δηὼ καὶ Ῥέα καὶ Δημήτηρ: Giuliano, dunque, sebbene attesti anch’egli che si trattava di una questione di identificazioni, sembra ritenere già presente in Attica il culto di una Deo-Rea-Demetra, che gli ateniesi non avrebbero riconosciuto nella Madre degli dei. Non è da escludere che una tale figura sia in realtà da ricercare nell’ambito della cultura orfica (cf. avanti, § 4).
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plice denominazione μήτηρ) con Demetra e, quindi, indirettamente, nella violazione dei Misteri di quest’ultima. L’uccisione del sacerdote avrebbe provocato l’ira (μῆνις) della dea, con conseguente ἀκαρπία (secondo lo scolio a Aristofane, sulla base del parallelo demetriaco) o λοιμός (secondo Fozio), per por fine alla quale, secondo il responso dell’oracolo di Delfi, essi avrebbero costruito (o, più precisamente, ristrutturato, cf. qui sotto, nota 373) il βουλευτήριον, consacrato alla Μήτηρ, dove avrebbero sepolto il μητραγύρτης e innalzato per lui una statua.371 Se trattassimo questo aneddoto come un fatto storico, dovremmo ritenere la consacrazione del μητρῷον nella sede del βουλευτήριον dovuta alla necessità di ‘risarcire’ la Madre adirata per l’uccisione del suo sacerdote. Sebbene risulti difficile verificare quest’ultima circostanza, possiamo comunque sia ricostruire dalle nostre fonti che nel tardo V sec. a.C. sull’agorà di Atene l’edificio noto come “antico βουλευτήριον” (ristrutturato in seguito all’invasione persiana, dopo il 460 ca. a.C.), veniva designato come μητρῷον e era utilizzato (data la costruzione di una nuova sede per le riunioni della βουλή, fra il 415 e il 406 a.C.) come archivio di stato; all’interno era stata portata una statua della dea commissionata (o poco prima o dopo il 430 a.C.), secondo le nostre fonti, a Fidia (Arr. Per. 9; Paus. I.3.5) o a Agoracrito (Plin. Nat. hist. 36.17).372 Nonostante i pareri discordanti relativi alla cronologia della presenza della Madre degli dei sull’agorà di Atene (se addirittura antecedente al V sec.), possiamo tuttavia parlare, nella seconda metà del V sec., di un cambiamento (evocato dall’aneddoto stesso del μητραγύρτης, in ogni sua versione) dello status della dea sull’agorà, consistente nell’acquisizione di un ruolo civico di maggiore importanza.373 371 Cf. Roller (1996), 306-310; Roller (1999), 163-169, dove viene negata all’aneddoto attendibilità storica; la Roller parte dal presupposto che la Madre degli dei fosse in ogni caso una divinità di origine straniera, pur integrata, a partire dal VI sec., nel pantheon greco. 372 Per la cronologia qui riportata, cf. Borgeaud (1996), 33-34; Roller (1999), 162-163; Xagorari-Gleissner (2008), 105-106. 373 Secondo quanto emerge dalle fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche (cf. Wycherley (1957), 150 ss.), il μητρῷον di cui si parla nell’aneddoto del μητραγύρτης sarebbe da identificare con l’ “antico βουλευτήριον”, adibito, oltre appunto che a μητρῷον, anche a archivio di stato quando fu costruito un “nuovo βουλευτήριον” per le riunioni della βουλή. Gli studiosi tuttavia si dividono circa la cronologia del culto metroaco sull’agorà: coloro che ritengono la Madre degli dei una divinità di origine straniera propendono per l’introduzione del culto o almeno all’inizio del V sec. a.C. (all’indomani delle riforme clisteniche) nella sede del cosiddetto “antico βουλευτήριον”, poi ristrutturato intorno al 460 a.C., in seguito alle distruzioni della seconda guerra persiana, e usato come archivio di stato (il culto in questione avrebbe quindi avuto un ruolo civico accettato e con-
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Come abbiamo osservato nel precedente capitolo (cf. qui sopra in cap. II.1.2.1), se appare in ogni caso problematico ipotizzare che a Atene fosse stato attribuito il ruolo di custode dell’archivio di stato a una divinità sentita come straniera, occorre tuttavia anche ricordare che la Madre degli dei aveva un’identità ambigua, in bilico fra il mondo greco e quello orientale e che tale ambiguità doveva essere sentita con maggiore forza in seguito alle guerre persiane e al diffondersi, specialmente a livello di devozione privata, di culti metroaci dal carattere misterico e entusiastico. Da questa tensione fra la divinità ‘civica’ che aveva la sua sede nell’agorà e la divinità straniera, frigia, sentita come affine (se non, talora, identica) a quella, sembra appunto scaturire l’aneddoto del μητραγύρτης, il quale, qualora non lo si ritenga storicamente attendibile e quindi non si consideri il μητρῷον dell’agorà come sorto per placare l’ira della dea, attesta in ogni caso l’acuirsi di un sentimento di diffidenza nei confronti del culto metroaco. Inoltre, tale diffidenza poteva essere accresciuta da tentativi di identificazione fra la Madre e Demetra, quali emergono dalla versione dell’aneddoto tramandata dallo scolio al Pluto. Comunque sia, occorre rilevare che nessuna delle fonti che tramandano l’aneddoto parla della fondazione di un nuovo culto (anche lo scolio al Pluto menziona semplicemente sacrifici in onore della dea), ma tutte insistono piuttosto sul riconoscimento pubblico della Madre come custode delle leggi e dei documenti ufficiali della πόλις. A Atene dunque, almeno nel tardo
tinuo fin dal VI-V sec., anche in virtù dei privilegiati rapporti di Atene con la Ionia, cf. Roller (1996), 307-308; Roller (1999), 162), o nell’ultimo quarto del V sec., quando, con la costruzione del “nuovo βουλευτήριον”, i locali del βουλευτήριον preesistente sarebbero stati utilizzati per la celebrazione dei nuovi riti portati in Attica dal μητραγύρτης (cf. Cerri (1983), 168-176). Per una ricostruzione delle diverse ipotesi avanzate sulla questione, cf. Borgeaud (1996), 34-35, dove si propende per l’idea che la Madre degli dei sia stata bensì venerata nell’edificio noto come “antico βουλευτήριον” solo a partire dalla fine del V sec., ma che non si trattasse per questo di una divinità straniera; su questa linea è anche Xagorari-Gleissner (2008), 90; 105-107 (sulla cui ipotesi cf. qui sopra, nota 369); cf. inoltre 23; 70, sulla collocazione della tomba del μητραγύρτης non sull’agorà, ma sul lato sud-occidentale della Pnice. Comunque sia, per quanto riguarda le motivazioni dell’attribuzione alla Madre degli dei di un significativo ruolo civico nell’agorà, qualora non lo si consideri dovuto all’uccisione del μητραγύρτης, si è pensato o a un’antica tradizione che faceva di una divinità ‘madre’ la garante della giustizia, poi rivalorizzata con la ristrutturazione dell’ “antico βουλευτήριον” come μητρῷον (su questa linea, cf. Borgeaud (1996), 35-45) o a motivazioni politiche, legate al particolare rapporto di Atene con le città ioniche, presso le quali il culto metroaco rivestiva una grande importanza (cf. Roller (1999), 162).
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V sec., quando abbiamo la certezza della collocazione del μητρῷον nella sede dell’ “antico βουλευτήριον”, non si era inteso istituire nuovi riti metroaci di origine frigia o basati su un sincretismo fra elementi frigi e eleusini (le nostre fonti non fanno menzione di un ‘risarcimento’ alla Madre che ne contemplasse l’identificazione con Demetra),374 ma piuttosto ribadire, in una delle sedi civiche più importanti, ossia il βουλευτήριον divenuto archivio di stato, il culto della greca Μήτηρ θεῶν in quanto, verosimilmente, identificata con Rea (analogo appare del resto il contesto ricostruibile anche per il culto di Agrai), come suggeriscono uno scolio a Eschine (Ctesiph. 187) e Arriano (Per. 9), che individuano appunto Rea come la titolare del μητρῷον ateniese.375 La tradizione relativa alla morte del sacerdote frigio esprimerebbe dunque la tensione fra il rilevante status assunto dalla Madre all’interno del pantheon cittadino e l’accentuarsi, nel tardo V sec., degli aspetti più controversi di una dea dalla natura non pienamente definita, insieme greca e orientale (cf. qui sopra, cap. II.1.2.1). Inoltre, benché non sembrino sussistere elementi sufficienti per ipotizzare un’identificazione cultuale fra le due dee neanche per il μητρῷον dell’agorà, il ruolo pubblico della Madre come custode delle leggi poteva implicare qualche associazione con Demetra, la dea θεσμοφόρος (“legislatrice” appunto) per eccellenza,376 così da costituire un’insidia al culto demetriaco ufficiale, già minacciato, alla fine del V sec., da più episodi di profanazione (per cui cf. qui sopra): il ruolo civico della ‘selvaggia’ Madre degli dei poteva quindi essere sentito, nel tardo V
374 Quest’ultima è l’ipotesi avanzata in Cerri (1983), 167-168, secondo cui il «rituale misterico sull’agorà» sarebbe stato dedicato al ratto della Kore e si sarebbe distinto da quello eleusino per l’associazione-identificazione di Demetra con la Madre degli dei. Abbiamo tuttavia notizie, seppure più tarde rispetto al periodo che stiamo considerando, relative alla celebrazione dei Galaxia in connessione con il μητρῷον dell’agorà: cf. Theophr. Char. XXI.11 e un’iscrizione efebica, del II sec. a.C. (IG II2 1011.13), su cui si veda Wyncherley (1957), 157 ss.; sulle testimonianze relative ai Galaxia o a questi riconducibili anche al di fuori di Atene, cf. Robertson (1996), 242-245. 375 Cf., in questo senso, Xagorari-Gleissner (2008), 22-23. Possiamo qui aggiungere che, sulla base dell’ipotesi di una continuità Madre degli dei - Aditi e ‘Figlio’ (Zeus o Posidone) - Varuṇa, essendo quest’ultimo in India il protettore dello ṛtá-, ossia la “legge” in quanto “verità”, risulterebbe a maggior ragione giustificato il ruolo assunto dalla Madre degli dei sull’agorà di Atene. 376 Sull’affinità fra la Madre degli dei come custode delle leggi e Demetra θεσμοφόρος, cf. Roller (1996), 313.
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sec., anche in competizione con quello della ‘civilizzatrice’ Demetra,377 una rivalità di cui è serbata una traccia nella versione dell’uccisione del μητραγύρτης secondo lo scolio al Pluto. Questa ricostruzione potrebbe dunque dar ragione delle fonti, come le diverse versioni della vicenda del μητραγύρτης (sia che lo si consideri un αἴτιον storicamente attendibile sia che lo si consideri una rielaborazione aneddotica volta a spiegare determinate dinamiche storico-religiose proprie dell’Atene del tardo V secolo) che attestano il clima di crescente diffidenza verso la figura della Madre degli dei in quanto dovuta all’identificazione con la frigia Cibele e, allo stesso tempo, a una relazione controversa con Demetra: il secondo stasimo dell’Elena affronta a sua volta queste stesse questioni religiose, presentandole nella prospettiva della sovrapposizione di diversi piani religiosi. § 2.4 Il secondo stasimo dell’Elena alla luce della realtà cultuale attica Il secondo stasimo dell’Elena di Euripide presenta alcune significative affinità con l’aneddoto del μητραγύρτης (tanto che, se non lo si considerasse storico, si potrebbe quasi pensare che si fosse originato proprio dalla tragedia euripidea), in particolare il fatto che l’individuazione dell’origine delle sventure di Elena nel suo rifiuto di praticare un culto metroaco che identificasse tra l’altro le figure della Madre degli dei e di Demetra si rispecchia in quello degli ateniesi (con conseguenti sciagure) di riconoscere il culto di cui il μητραγύρτης era sacerdote. Non è improbabile dunque che Euripide intendesse così entrare in un dibattito contemporaneo, esplicitando la sua posizione in merito, evidentemente favorevole non solo al nuovo ruolo assunto dalla Madre sull’agorà, ma anche all’identificazione sia fra la Madre greca e quella frigia sia, in modo ancor più controverso, con Demetra.378 377 Per una riflessione sulla contrapposizione fra il culto metroaco, legato alla sfera montana e selvaggia e mirante al raggiungimento dell’estasi mistica mediante la musica e la danza, e quello demetriaco, legato all’avvento dell’agricoltura e quindi della civiltà, cf. Cerri (1983), 157-159. 378 Cf. Roller (1996), 318-319, dove l’autrice individua precise corrispondenze fra l’aneddoto del μητραγύρτης e, piuttosto, le Baccanti, in quanto basati entrambi sul modello del «resistence-myth», per cui cf. 314-318. Borgeaud stabilisce invece una più diretta relazione fra la rivalorizzazione del culto della Μήτηρ sull’agorà e il secondo stasimo dell’Elena euripidea: il fatto che Euripide ci rappresenti una divinità adirata, con cui Elena deve riconciliarsi, identificata sia con la straniera Madre anatolica sia con Demetra rifletterebbe infatti la situazione vissuta da Atene, che, dopo il disastro della spedizione in Sicilia, cercava di conciliarsi, at-
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Anche l’Elena, come abbiamo già osservato a proposito dell’Ippolito, dei Cretesi e delle Baccanti, conferma dunque la tendenza, in Euripide, a ricercare una religiosità ‘straniera’, tale da rappresentare una forma di alterità rispetto al culto attico tradizionale: nell’Elena, infatti, non solo la figura di Demetra viene quasi assorbita da quella della Madre degli dei,379 ma il culto di cui si intende celebrare la potenza è indubbiamente orientale, in quanto l’αἴτιον di fondazione dei riti della Madre è legato alle “alture nevose delle Ninfe Idee”, dove appunto il dolore della dea viene infine placato dal suono del timpano e del flauto. Non deve quindi sorprendere, a questo punto, la presenza dell’associazione allo scenario metroaco di quello dionisiaco, ricondotto evidentemente alla stessa origine orientale (vv. 1358-1365).380 Euripide, infatti, che già aveva rappresentato questo binomio, nell’Ippolito e nei Cretesi, nel contesto cretese (anch’esso considerato straniero) e lo riproporrà ancora, nelle Baccanti (in particolare nella parodo), ribadendone la duplice appartenenza cretese e traverso il suo culto sull’agorà, un’antica dea di giustizia e allo stesso tempo recuperare il mondo asiatico, rappresentato dalle città della costa ionica (cf. Borgeaud (1996), 39-45, dove tra l’altro si individua un parallelo dello stasimo euripideo nella figura della Demetra arcade, per cui cf. qui sopra, § 2.2.2). D’altra parte il modo euripideo di presentare le cose sembra essere solo una (e non la più ortodossa) delle possibili risposte a una problematica religiosa assai dibattuta e controversa, come attesta l’aneddoto stesso del μητραγύρτης. 379 Tra l’altro, se consideriamo la tragedia nel suo complesso e non solo il secondo stasimo, Euripide sembra rafforzare ulteriormente la presenza della figura di Demetra dietro a quella della Madre degli dei con la scelta stessa di inserire tale problematica religiosa in un contesto relativo alle vicende di Elena e dei Dioscuri, che compaiono appunto come dei ex machina nel finale della tragedia: un suggerimento in questo senso potrebbe venire dalla testimonianza del calendario di sacrifici di Torico (SEG, XXXIII, n. 147.36-38), che, pur senza alcuna identificazione fra figura metroaca e demetriaca, attesta però anche nel culto l’esistenza di una relazione fra i due Ἄνακες (così erano chiamati i Dioscuri a Atene; cf. Cic. Nat. deor. III. 53; sul culto dei Dioscuri a Atene, cf. Cruccas (2014), 150-151), Elena, Zeus e appunto Demetra Χλοία (la stessa a cui Euripide sembra alludere nel secondo stasimo dell’Elena, al v. 1327, cf. qui sopra, nota 328), per i quali sono stabiliti sacrifici nel mese di Elafebolione. 380 La potenza dionisiaca si manifesta attraverso tutta una serie di oggetti e azioni rituali: “le vesti variopinte di pelli di cerbiatto” (vv. 1358-1359), “le foglie d’edera intrecciate ai sacri narteci” (vv. 1360-1361, dove la κισσοῦ χλόα non può non rimandare agli ἄχλοα πεδία di v. 1327), “l’eterea vibrazione del rombo che si avvolge circolare” e “la chioma baccheggiante in onore di Bromio” (vv. 1362-1365); l’elenco si conclude con la menzione delle παννυχίδες θεᾶς, i riti notturni della dea, manifestazione della stessa potenza che emana dai riti dionisiaci, sentiti come un’unità inscindibile con quelli metroaci. Sui rimandi letterali fra i vv. 1358-1365 e le sezioni precedenti dello stasimo, cf. qui sopra, § 2.1; cf. inoltre Kannicht (1969), II, 356-357.
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orientale (vengono menzionate fin dal prologo sia la Lidia sia la Frigia, cf., per esempio, Bacch. 13-14), lo inserisce anche nel secondo stasimo dell’Elena. Del resto, pochi anni prima (nel 415 a.C.), in un canto corale del Palamede (TrGF 52 F586), ci offre, allo stesso modo, un’ambientazione medio-orientale, con lo stesso Monte Ida menzionato nello stasimo dell’Elena:381 †οὐ σὰν† Διονύσου †κομᾶνος ἀν᾽ Ἴδαν τέρπεται σὺν ματρὶ φίλᾳ τυμπάνων ἰάκχοις.382 Non è un caso che sia il Palemede sia l’Elena siano oggetto di due parodie contigue nelle Tesmoforiazuse di Aristofane (cf. avanti, cap. V). D’altra parte nell’Elena il carattere straniero dei culti celebrati è doppiamente sottolineato dall’ambientazione stessa del dramma, in Egitto, che svolge un ruolo decisivo proprio nella prospettiva religiosa adottata da Euripide: esiste infatti un filone storiografico, almeno a partire dal V sec., che riconduce appunto all’Egitto l’origine dei culti greci, in particolare quelli di Dioniso e Demetra (assimilati a Iside e Osiride), come ci attestano sia
381 Per un’ipotesi di ricostruzione della tragedia, cf. Collard, Cropp, Gibert (2004), 92-96; cf. inoltre 96 sulla possibile appartenenza del Palamede a una trilogia, andata in scena nel 415, comprendente Palamede, Alessandro e Troiane. È significativo, se davvero si trattasse di un’unica trilogia, che proprio all’Alessandro possiamo attribuire un frammento di sole due parole, ἄρρητος κόρη (TrGF 3 F63), riferito chiaramente a Persefone: se nel Palamede troviamo, come nell’Elena, l’associazione Dioniso-Madre degli dei nel contesto frigio dell’Ida, così nell’Alessandro, la cui ambientazione doveva essere la stessa del Palamede, si parlava di Persefone alludendo al suo culto misterico. Sulla relazione fra il secondo stasimo dell’Elena e il frammento del Palamede, cf. Kannicht (1969), II, 331; Sfameni Gasparro (1978), 1161. 382 “Di Dioniso […] sull’Ida, con la madre cara, si diletta degli strepiti dei timpani”. Fra le molteplici proposte di lettura della parte corrotta del passo, ci sembrano interessanti le congetture di Radt e Meineke: οὐ σὺν Διονύσῳ / κοινὰν ὅς ἀν᾽ Ἴδαν. La menzione dei timpani, nonché l’ambientazione sull’Ida, ci permette di identificare la “madre cara” con Cibele piuttosto che Semele: non è improbabile tuttavia che Euripide intendesse stabilire una relazione più stretta fra Dioniso e la Madre degli dei, al di là delle sole affinità cultuali, giocando forse su una sovrapposizione con la figura di Semele. Sia in Sfameni Gasparro (1978), 1161 sia in Kannicht (1969), II, 331 si individua la stessa concezione religiosa dell’Elena e del Palamede alla base della Semele di Diogene di Atene, dove, al titolo dionisiaco, si associa un frammento che descrive un corteggio di donne frigie devote di Cibele, accompagnato dal suono di timpani, rombi e cimbali (TrGF 45 F1) – si osservi che vi segue immediatamente la menzione di un culto femminile di Artemide.
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§ 3 Analogie fra la religiosità dell’Elena e quella dell’Ifigenia in Tauride
Erodoto (II.171), che ritiene che siano state le Danaidi a portare le Tesmoforie nel Peloponneso dall’Egitto, sia Diodoro Siculo, che in I.29 attribuisce a Eretteo, di origine egizia (sic!), l’importazione in Attica dall’Egitto dei riti eleusini di Demetra,383 mentre in I.96-98 ascrive a Orfeo l’introduzione, sempre dall’Egitto, dei misteri di Demetra e Dioniso (ossia Iside e Osiride).384 Nel dramma, dunque, Euripide opererebbe un doppio straniamento rispetto al culto demetriaco, non solo sovrapponendo alla figura di Demetra quella della Madre frigia e stravolgendo il senso stesso del rituale demetriaco, ma anche ambientando il dramma in Egitto, che ‘contendeva’ all’Attica l’origine stessa di Demetra e del suo culto. § 3 Analogie fra la religiosità dell’Elena e quella dell’Ifigenia in Tauride Se consideriamo la possibilità che Elena, Ifigenia in Tauride e Andromeda costituissero una trilogia,385 acquista ancora più interesse il fatto che Euripide compia, nell’Ifigenia in Tauride, un’operazione analoga, dal punto di vista religioso, a quella che abbiamo riconosciuto nell’Elena: nell’Ifigenia, gli αἴτια di due culti attici dedicati a Artemide, quello di Halai e quello di Brauron, sono ricondotti infatti alla selvaggia terra dei Tauri e ai loro cruenti sacrifici umani (per cui cf. anche Herod. IV.103).386 Nel finale della tragedia, infatti, Atena stessa appare ex machina a autorizzare il trasferimen-
383 La notizia di Diodoro permette di collocare all’interno di un contesto polemico la propaganda attica relativa all’autoctonia di Eretteo (sul mito della nascita di Eretteo dalla Terra, cf. Eratosth. Cat. XIII; Amelesagora, FGrHist 330 F1; Lact. Div. inst. I.17; Ag. Civ. D. XVIII.12; Serv. Comm. Georg. I.205; III.113; Fulg. Myth. II.11; Apollod. Bibl. III.14.6; Et. M. s.v. Ἐρεχθεύς). 384 Sulla possibilità che le versioni di Diodoro Siculo siano manifestazioni di tendenze storiografiche anti-attiche contrapposte all’attidografia del III sec. a.C., incline a celebrare l’Attica come patria della cultura, cf. Graf (1974), 22-26. In ogni caso Erodoto ci attesta fin dal V sec. a.C. tentativi di ricercare al di fuori del mondo greco, in Egitto in particolare, l’origine dei culti e delle tradizioni religiose diffuse in Grecia. 385 Sarebbero accomunate, fra le altre cose, dagli scenari ‘barbari’; sulla questione cf. Wright (2005), 148 ss.. Inoltre, fra i due canti corali di Iph. Taur. 1089-1152 (secondo stasimo, parodiato anche nell’agone delle Rane, cf. avanti, cap. VI.3.3) e di Hel. 1451-1511 (terzo stasimo) sono individuate precise analogie (fra le altre cose, la ricorrenza del motivo dell’etere) in Amièch (2014). 386 Per una rassegna bibliografica sui culti attici di Artemide nell’Ifigenia in Tauride, cf. Wright (2005), 353, nota 47; cf. inoltre 356-362 per una discussione sul ruolo della religione nel dramma. Wright, inserendo il discorso sui rituali all’interno di una più vasta interpretazione delle “escape-tragedies” come volte a mettere in
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to dell’ἄγαλμα dell’Artemide taurica (alla Tauride appunto sarebbe da ricondurre l’epiteto di Ταυροπόλος, secondo le parole dell’Atena euripidea, ai vv. 1456-1457, mentre siamo verosimilmente di fronte a una delle manifestazioni di Artemide come “signora degli animali”) in Attica e a imporre a Oreste e Ifigenia di istituire i due culti, che risulterebbero così accomunati dalle vicende dei figli di Agamennone (vv. 1446-1467).387 Sebbene non si possa distinguere fino a che punto Euripide si sia servito di materiale tradizionale preesistente e in che misura abbia invece introdotto sue innovazioni,388 possiamo tuttavia parlare, ancora una volta, di una sua tendenza a stabilire strette relazioni (addirittura di dipendenza) fra culti attici e culti stradiscussione ogni forma di certezza, non solo in ambito religioso (cf. pp. 360-362), sottolinea altresì la volontà, sia nell’Ifigenia sia nell’Elena, di superare i confini e la dicotomia fra greci e barbari, non solo in fatto di religione, ma anche, più in generale, di cultura (cf. pp. 178-202). Cf. anche Sourwinou-Inwood (1997), 171-175, dove si analizzano i riferimenti dell’Ifigenia in Tauride alla realtà cultuale attica come funzionali a mettere in rilievo la loro connessione con il culto taurico della dea: l’operazione euripidea sarebbe finalizzata a esplorare gli aspetti oscuri del culto greco, quale quello rappresentato dai sacrifici umani, centrale per determinare l’aspetto ‘selvaggio’ di Artemide; sull’ambiguità del testo euripideo in merito a quest’ultima questione, cf. ancora Wright (2005), 186-191. 387 Sull’importanza, in questa prospettiva, del ruolo di Atena, cf. Sourwinou-Inwood (1997), 174-175. Atena viene menzionata tra l’altro da Ifigenia, nella parodo, come soggetto della tela che, se fosse libera, potrebbe tessere nella sua casa di Argo (vv. 209-224, dove si insiste anche sulla relazione metaforica fra tessitura e composizione poetica, cf. ἱστοῖς ἐν καλλιφθόγγοις): l’immagine in questione, insieme con Pallade, conterrebbe però anche i Titani, il che potrebbe far pensare al mito dello σπαραγμός di Dioniso, in una delle cui versioni Atena salva il cuore del dio risparmiato dai Titani (cf. fr. 314 Bernabé). Questa eventuale allusione a un mito orfico si adatterebbe all’aggettivo πρωτόγονος con cui poco sopra Ifigenia si riferisce a se stessa (come πρωτόγονον θάλος, v. 209). Si tratta solo di vaghi suggerimenti, che potrebbero tuttavia avere qualche significato alla luce di un possibile sottotesto orfico nell’Elena stessa (cf. avanti, § 4). 388 Secondo Wolff (1992), 313, nota 11, infatti, sarebbe invenzione euripidea l’etimologia che connette Ταυροπόλος con la terra dei Tauri; sulla questione delle fonti di Euripide in generale per l’Elena e l’Ifigenia in Tauride, cf. Wright (2005), 56 ss.; dalla tragedia sembra comunque sia emergere la volontà di Euripide di ripercorrere una tradizione che mettesse in luce gli aspetti problematici dei culti in questione, nonché l’ambiguità della figura divina di Artemide. Sulla presenza, nella storiografia successiva a Euripide, di entrambe le spiegazioni dell’epiteto Ταυροπόλος, connesso sia con i tori sia con i Tauri, cf. Wright (2005), 312, nota 315. Sulla problematica attribuzione di un’origine barbara a un culto pur cruento (tale da rievocare un sacrificio umano) come quello artemideo di Halai, cf. Lloyd-Jones (1983), 96; Wolff (1992), 308-319. Occorre peraltro tenere presente anche la fortuna del modello eziologico proposto da Euripide nell’Ifigenia in
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§ 3 Analogie fra la religiosità dell’Elena e quella dell’Ifigenia in Tauride
nieri. Si consideri inoltre che Euripide, all’interno della cornice del suo dramma, inserisce l’αἴτιον mitico delle Antesterie (vv. 947-960): Oreste, nelle sue peregrinazioni, in fuga dalle Erinni, si ferma a Atene, dove il matricida riceve bensì ospitalità, ma nell’isolamento e nel silenzio. La festa delle Antesterie, in particolare il giorno dei Boccali (Χόες), chiamato anche μιαρὰ ἡμέρα, rievoca appunto l’ospitalità offerta a Oreste con una gara di bevute caratterizzata dal silenzioso isolamento dei partecipanti.389 In seguito, perseguitato ancora dalle Erinni, Oreste avrebbe ricevuto da Febo l’ordine di andare a prendere nella Tauride l’ἄγαλμα di Artemide per portarlo a Atene: osserviamo quindi una continuità fra il culto ateniese di Dioniso e quello taurico (o presunto tale) di Artemide, poi trapiantato a Atene, data dalla vicenda di Oreste, le cui peregrinazioni in Oriente sono appunto aperte e chiuse dall’istituzione di due culti ateniesi, le Antesterie e quello di Artemide Ταυροπόλος, idealmente collegati.390 Rispetto alla vicenda portata in scena da Eschilo nelle Eumenidi, quindi, nella tragedia euripidea riscontriamo il fallimento del giudizio dell’Areopago ateniese, che, lungi dal porre fine alle peregrinazioni di Oreste, rappresenta invece il punto di par-
Tauride in età romana (il culto stesso di Diana Nemorensis presso Aricia, fra gli altri, era ricondotto, secondo il commento di Servio a Aen. VI.136-138, al furto della statua dell’Artemide taurica da parte di Oreste e Ifigenia); cf. Hall (2013), 135-157. Non sorprende dunque che, come ci riferisce Pausania (III.16.7), Sparta e Atene, rispettivamente per i culti di Artemide Orthia e Brauronia, si contendessero, appunto in età romana, l’originario ἄγαλμα taurico, mentre è possibile ipotizzare che, nell’Atene del V sec., la versione euripidea, destinata a tanta popolarità, si presentasse ancora come controversa. Del resto, se quanto riporta Igino (Fab. 121) può davvero essere collegato al Crise di Sofocle, quest’ultimo avrebbe posto il furto dell’Artemide taurica da parte di Oreste e Ifigenia all’origine del culto miceneo e non ateniese di Artemide. 389 Sui riti delle Antesterie, cf. Burkert (1981), 158-177; Burkert (2010), 437-444. Per le testimonianze relative al legame di Oreste con le Antesterie, cf. Burkert (1981), 273, nota 40; quanto alla cronologia, sebbene la testimonianza di Aesch. Eum. 448-52; 474 ss. sia in contrasto con tale αἴτιον, quest’ultimo potrebbe comunque sia essere anteriore a Euripide (cf. qui sotto, nota 393). 390 Osserva infatti Wolff: «The Choes aition evokes Athens in a barbarian land and so suggests, as does the transfer of a Taurian goddess to Attica, that barbarian things are also a dimension of the Greek world, that the “other” is also part of the “self”» (cf. Wolff (1992), 329). Occorre ancora notare, con Wolff (pp. 325-326), come Oreste, nel suo racconto, introduca il rituale della festa dei Choes in modo davvero inusuale, κλύω δ᾽ Ἀθηναίοισι τἀμὰ δυστυχῆ / τελετὴν γενέσθαι (vv. 958-959), mostrando un’eccezionale consapevolezza eziologica.
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tenza per la nuova prova del viaggio in Tauride (vv. 961-978).391 Euripide, dunque, che sembra tra l’altro volutamente intenzionato a trascurare la presenza di Dioniso stesso392 e dei miti che collegano le Antesterie all’avvento di Dioniso in Attica,393 non solo sottrae anche alle istituzioni ateniesi (il simbolo del processo di civilizzazione insito nella nascita della πόλις) la preminenza nella soluzione della vicenda, ma con questo crea anche il presupposto per trasferire in una terra barbara l’espiazione di Oreste e quindi l’origine stessa dei culti collegati, direttamente o indirettamente, alla sua colpa. § 4 Un sottotesto orfico nell’Elena? § 4.1 La tradizione orfica relativa al ratto di Persefone Sebbene, per quanto riguarda l’Attica del V sec.,394 non si possa parlare di tendenza comune e diffusa nelle fonti all’identificazione di Demetra con la Madre degli dei né dell’esistenza di una loro vera e propria identificazione a livello cultuale, possiamo tuttavia percepire almeno gli echi, nel tardo V sec., di un dibattito sulla questione: Euripide è per noi un testimone di
391 Sul fallimento dell’Areopago e la differenza dalla versione eschilea, cf. ancora Wolff (1992), 328-329, dove si sottolinea anche come sia legato al tema del ‘fallimento’ dell’Areopago, e quindi delle istituzioni della πόλις, anche il fatto che il culto importato da Oreste dalla Tauride non avrà sede nel centro cittadino, ma πρὸς ἐσχάτοις / ὅροισι. 392 Dioniso non viene infatti mai menzionato, in quanto divinità titolare del culto, se non al v. 953 (Βακχίου / μέτρημα), come personificazione del vino; sull’identificazione fra il dio e la bevanda rituale (analogamente a quello che avviene, nell’India vedica, con la figura del dio Soma), cf. Burkert (1981), 164-165. 393 Per il mito del soggiorno di Dioniso in Attica presso un ospite locale, cf. Burkert (1981), 474, nota 46; l’identificazione di tale ospite con Icario e sua figlia Erigone, protagonista dell’Erigone di Eratostene (da cui dipendono gli autori successivi), potrebbe essere anteriore all’età dei nostri testimoni: si veda infatti l’indagine sull’origine delle Antesterie, a partire dall’analisi linguistica dei nomi dei protagonisti dei miti eziologici – Icario, Erigone, Oreste – , in un’ottica di ricostruzione i.e., in Janda (2010), 200-208. 394 Cf. Cerri (1983), 159. Abbiamo visto qui sopra (§ 2.2), del resto, come attestazioni di una sovrapposizione delle due divinità si riscontrino soprattutto in ambiti geografici e cronologici distanti dall’Atene classica e come sia, in ogni caso, opportuno distinguere fenomeni di identificazione, quale quello offerto dallo stasimo euripideo, da eventuali associazioni o scambi di attributi, a livello cultuale o iconografico.
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§ 4 Un sottotesto orfico nell’Elena?
fondamentale importanza, ma non il solo. Filodemo, nel De pietate (P.Herc. 1428, fr. 3.20-23), ci tramanda infatti la notizia che il ditirambografo Melanippide (fr. 764 Page), attivo fra la prima e la seconda metà del V sec.,395 avesse equiparato Demetra alla Madre degli dei.396 Trattandosi d’altra parte di un autore di ditirambi, ricordato da Aristotele (Rhet. III.9) per la composizione di ἀναβολαί e attaccato dal comico Ferecrate nel Χείρων (fr. 155 PCG) come primo corruttore della musica (nell’elenco dei ‘corruttori’ fatto dalla Musa è seguito da Cinesia, Frinide e Timoteo di Mileto), e considerando la stretta connessione, nell’ambito della poesia ditirambica, fra innovazioni religiose e musicali,397 è più probabile pensare, anche per Melanippide, a una rappresentazione ‘non ortodossa’ delle figure divine in questione.398 Se dunque appare legittimo interpretare il secondo stasimo dell’Elena come espressione di tendenze religiose non ‘ufficiali’, ma comun395 Melanippide di Melo, la cui eccellenza nell’ambito della poesia ditirambica è attestata da Senofonte (Mem. I.4.3), morì alla corte di Perdicca di Macedonia (cf. Suda s.v. Μελανιππίδης). 396 Μελανιππίδης δὲ Δήμητρα καὶ Μητέρα θεῶν φησιν μίαν ὑπάρχειν. 397 Csapo individua in particolare, sia nella “nuova musica” del ditirambo sia nei brani lirici delle tragedie euripidee più tarde, una volontà di «(ri-)creare una musica autenticamente dionisiaca»; la conseguenza sarebbe stata, tuttavia, secondo Csapo, una rappresentazione sempre più ‘orientalizzante’ di Dioniso e del suo culto, in quanto dio legato alla musica e alla danza orgiastica (cf. Csapo (1999-2000), 425-426). L’accentuazione dei tratti stranieri nella figura di Dioniso appare in sintonia con l’interpretazione in chiave ‘asiatica’ del mito di Demetra e del culto a questo relativo, mediante una sovrapposizione con la frigia Cibele. Quanto allo stretto legame fra i poeti del nuovo ditirambo e Euripide, questo emerge anche dalle rappresentazioni comiche dell’uno e degli altri, accusati di inconsistenza, insieme stilistica e contenutistica, e empietà (cf. qui sopra, cap. I.1.3, nota 92; inoltre Imperio (1998), 81-120). 398 Viene talora annoverato (cf. Kannicht (1969), II, 330; Sfameni Gasparro (1978), 1171-1172) fra le testimonianze relative all’identificazione fra Demetra e la Madre degli dei l’Inno di Epidauro alla Madre degli dei (IG IV2 131 = fr. 935 Page). Tuttavia, sebbene possiamo osservare alcuni motivi presenti anche nella vicenda di Demetra (ira, allontanamento e peregrinazioni della dea, intervento conciliatore di Zeus), non si profila alcuna identificazione fra le due dee e, soprattutto, a differenza di quanto avviene nell’Elena di Euripide, alcun riferimento al ratto di Persefone come causa dell’ira: la Madre sembra piuttosto interessata a rivendicare, di fronte a Zeus, la sua parte di potere sul mondo, in particolare metà del cielo, metà della terra e un terzo del mare (cf. Pizzocaro (1991), 240-243; sulla cronologia del testo, forse da ricondurre al IV sec. a.C., come pensava già Page nella sua edizione, cf. ancora Pizzocaro (1991), 234-240). Sulle analogie fra le richieste della Madre degli dei e la rappresentazione esiodea di Ecate nella Teogonia (vv. 411-415), cf. Pizzocaro (1991), 240; 242 (cf. qui sopra, cap. II.1.2.4 sulla relazione fra Ecate e l’ambito metroaco). L’Inno di Epidauro riflette una tradi-
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que sia oggetto di dibattito nell’Atene del V sec., alla luce di quanto abbiamo osservato nei capitoli precedenti sulla religiosità euripidea, ci possiamo chiedere se non si abbia a che fare, anche in questo caso, con una possibile interferenza con l’orfismo. Risale al 1909 l’ipotesi di Malten,399 secondo cui lo stasimo euripideo avrebbe avuto a modello un carmen veterrimum (così Kern, OF, 116) attribuito a Orfeo e relativo al ratto di Persefone. È tuttavia operazione ardua identificare i frammenti a esso riconducibili: Malten cercava di ricostruire la più antica versione orfica del ratto di Persefone mettendo a confronto lo stasimo euripideo con il trattato contenuto nel Papiro di Berlino 13044 (III sec. a.C.), dove appunto troviamo un commento a un poema sul ratto di Persefone attribuito a Orfeo.400 Ulteriori tasselli per la ricostruzione del carme in questione potrebbero venire dalle testimonianze di Clemente Alessandrino (Protr. II.17.1; II.20.1-21.1) e di Pausania (I.14.1-3),401 che ci permettono di individuare nelle figure di Dysaules e Baubo402 la coppia di autoctoni eleusini che ospitarono Demetra (la figura di Baubo tra l’altro compendia in sé quelle di Metanira e Iambe della tradizione omerica): questi ultimi, umili allevatori (ben diversi quindi dalla coppia regale, composta da Celeo e Metanira, dell’inno omerico), e i loro tre figli Trittolemo, Eumolpo e Eubuleo, avrebbe-
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zione mitica che, benché risenta dello stasimo euripideo (cf. soprattutto vv. 5-8), esprime piuttosto una rivendicazione della propria autorità da parte della Madre degli dei; cf. Pizzocaro (1991), 248-249, che ravvisa nel dialogo fra Zeus e la Madre il profilarsi di uno scontro fra concezione matriarcale e patriarcale della società. Si potrebbe quindi pensare a una sottostante identificazione della dea con Rea piuttosto che con Demetra e alla rappresentazione di uno scontro fra divinità di vecchia e nuova generazione. Cf. Malten (1909), 417-446. Malten includeva fra le testimonianze relative a questa tradizione anche la lamina di Turi fr. 492 Bernabé (IV sec. a.C.), dove Persefone è detta “Cybelea, figlia di Demetra”, interpretandola appunto come una testimonianza degli influssi orfici sul culto demetriaco in Italia Meridionale; cf. tuttavia Zuntz (1971), 352-354 per una messa in discussione dell’esistenza di una relazione fra il ratto di Kore e questa lamina, sulla cui interpretazione, in chiave piuttosto orfico-dionisiaca, si veda ora Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 137-160. Pausania, in I.14.3, si mostra però scettico sulla reale paternità di Orfeo riguardo alle vicende mitiche che riferisce. Di Dysaules e Baubo come coppia autoctona, pur senza menzione di Orfeo, ci parla anche, nel IV sec. a.C., Asclepiade di Tragilo (FGrHist 12 F4), che attribuisce loro due figlie, Protogone e Misa (per le eventuali relazioni con l’orfismo, cf. Graf (2009), 685); Palefato (FGrHist 44 F1), nello stesso periodo, ci informa dell’ospitalità concessa da Dysaules e dalla moglie a Demetra.
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ro ospitato Demetra e, in particolare, Trittolemo e Eubuleo avrebbero svelato alla dea le circostanze del ratto della figlia, ricevendo in ricompensa il dono delle tecniche agricole (cf. Paus. I.14.3). Da Clemente (II.17.1) sappiamo infatti che il porcaro Eubuleo, presente al ratto, avrebbe perso i suoi maiali nel χάσμα apertosi nel suolo all’apparire di Ade: da qui, continua Clemente, deriva appunto la cerimonia del μεγαρίζειν (consistente nel riempire μέγαρα sotterranei di maialini) delle Tesmoforie.403 Quest’ultima sembra dunque avere un legame privilegiato con il ramo della tradizione demetriaca orfica legato alla vicenda del ratto di Kore e alla conseguente nascita dell’agricoltura (cf. avanti nel testo).404 Come osservava già Malten, siamo di fronte a una tradizione diversa da quella omerica e contraddistinta da elementi quali l’ambientazione ‘rustica’, la presenza della figura di Baubo, il dono dell’agricoltura agli abitanti di Eleusi con il conseguente passaggio degli uomini da uno stato semi-ferino o, in ogni caso, pre-agricolo alla civiltà.405 Il poema attribuito a Orfeo parafrasato e commentato nel Papiro di Berlino mostra in effetti anch’esso notevoli punti di contatto con questa tradizione; tuttavia i pur scarsi versi di quel poema citati dal commentatore rivelano coincidenze con quelli dell’omerico Inno a Demetra. Fra le numero403 Sulla cerimonia in questione e sull’eziologia relativa il nostro testimone principale è uno scolio lucianeo, per cui cf. schol. Luc. Dial. meretr. 2.1, p. 275.23 Rabe. 404 Tale legame è attestato anche dalle Argonautiche orfiche (vv. 26-27), che attribuiscono a Orfeo la narrazione del μέγα πένθος di Demetra e di “come ella fosse Θεσμοφόρος”. Sulla questione, cf. Sfameni Gasparro (1986), 169-175; cf. inoltre Graf (2009), 686-687, dove il poema demetriaco di Orfeo è messo in relazione tanto con i Misteri di Eleusi quanto con le Tesmoforie. 405 Cf. al riguardo anche Graf (1974), in particolare 151-181; Graf (2009), 671-687. Che l’inno demetriaco orfico fosse incentrato sulla nascita dell’agricoltura e fosse quindi funzionale alla propaganda di Atene come benefattrice dell’umanità sembra in accordo con il ricorrere del tema del duplice dono di Demetra a Atene, agricoltura (καρποί) e Misteri (τελετή), per cui si veda in particolare Isocrate, Pan. 28 (pur non facendo il nome di Orfeo, Isocrate definisce i καρποί come οἳ τοῦ μὴ θηριωδῶς ζῆν ἡμᾶς αἴτιοι γεγόνασιν); cf. Graf (1974), 158-162; Graf (2009), 673; cf. anche 684, nota 58. Per quanto riguarda la circolazione del poema orfico, dal punto di vista cronologico, potremmo risalire, considerando anche l’insistenza nella ceramica attica del V sec. del motivo del dono del grano a Trittolemo, almeno alla metà del V sec. a.C. (secondo l’ipotesi proposta in Malten (1909), 442, al tardo VI sec., durante la tirannide di Pisistrato). Il materiale in esso contenuto e la sua versione più antica sembrerebbero in ogni caso anteriori; cf. qui sotto, nota 406. Del resto, sulla centralità di Trittolemo all’interno del pantheon eleusino come risalente all’eredità i.e. dei Misteri, cf. Janda (2000), 17-45. Sulla tradizione orfica connessa con il dono dell’agricoltura, cf. inoltre Sfameni Gasparro (1986), 161-169.
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se e divergenti ipotesi che sono state avanzate in merito alla questione, citiamo quella recentemente sostenuta e argomentata da Bruno Currie, secondo cui il poema del Papiro di Berlino conserverebbe l’autentica tradizione attica (riflettendo un preciso poema di riferimento, qualora non sia esso stesso l’antico testo in questione) relativa alla nascita del culto demetriaco nella regione, che l’inno omerico avrebbe innovato e riadattato, pur continuando a alludervi.406 Questa prospettiva rivela una particolare coerenza con la presente argomentazione, permettendo di postulare l’esistenza di un’antica tradizione propriamente attica relativa al culto demetriaco (riconducibile forse a un unico poema, di cui è rimasta appunto testimonianza in Clemente, Pausania e nel Papiro di Berlino407) e legata al nome di Orfeo, non tanto perché espressione di una religiosità ‘orfica’ (intesa in tutte le sue peculiarità escatologiche, teologiche e rituali), ma in quanto il nome del primo poeta della ‘letteratura’ greca, precedente a Omero, sarebbe stato per essa garanzia di antichità e autenticità.
406 Cf. Currie (2016), 79-104 (dove tuttavia non viene particolarmente approfondita la questione dello stasimo euripideo, cf. 83): dopo una ricostruzione del dibattito sulla questione (pp. 80-84), vengono dettagliatamente analizzate le incongruenze interne alla versione dell’inno omerico, quale per esempio il significato della permanenza stessa di Demetra a Eleusi (nella versione ‘orfica’ essa è giustificata dal fatto che siano gli eleusini a svelare a Demetra la verità sul ratto della figlia), che troverebbero appunto spiegazione nella volontà di riadattare un poema attico precedente, interessato a celebrare la nascita dell’agricoltura in Attica e quindi il ruolo civilizzatore di quest’ultima (cf. del resto anche Richardson (1974), 78-86, in particolare 84-85, per l’ipotesi che le versioni ‘orfiche’ del ratto di Kore conservassero la tradizione eleusina locale, precedente a quella omerica). L’inno omerico presenterebbe infatti precise allusioni testuali al poema ‘orfico’ del Papiro di Berlino. Non è però detto, come osserva Currie, che quest’ultimo, pur riflettendo una versione più antica, non sia esso stesso successivo all’inno omerico e ne sia a sua volta influenzato. Per una diversa ipotesi sul rapporto del poema ‘orfico’ con l’inno omerico, cf. Graf (2009), 684. Per una lettura volta a sottolineare piuttosto le differenze della versione del ratto narrata nel papiro da quella omerica e le analogie con le altre versioni del mito (presentate come concorrenti seppure reciprocamente correlate), quella “siciliana”, quella euripidea (in questo caso le analogie si limitano al ruolo di Atena e Artemide) e soprattutto quella ‘orfica’ di Clemente e Pausania, cf. Jiménez San Cristóbal (2015). 407 Cf. Bernabé, PEG, II.1, 310-311. Cf., per una diversa ricostruzione, Kern, OF, 116.
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Lo stasimo dell’Elena segnerebbe invece un distacco da questa antica tradizione:408 nonostante infatti alcune corrispondenze (per esempio il ruolo attivo di Atena e Artemide, presenti al ratto e pronte a difendere Kore, per cui cf. Hel. 1315-1316 e fr. 389 Bernabé,409 o l’enfasi posta da Euripide sulla μῆνις di Demetra, v. 1355410), si può osservare una differenza sostanziale, ossia l’identificazione di Demetra con la Madre degli dei. Benché questo elemento possa essere senz’altro ritenuto come una marca di ‘orfismo’ nel brano euripideo, in quanto ricorrente, in effetti, nella tradizione letteraria orfica (nonché nelle ripercussioni di quest’ultima sulla realtà cultuale),411 come per esempio nel verso, tratto da una raccolta di Inni orfici, citato nel Papiro di Derveni, Δημήτηρ Ῥέα Γῆ Μήτηρ Ἑστία Δηιώ (col. XXII.12),412 il commentatore del Papiro di Berlino afferma esplicitamente che ὁ Ὀρφεὺς
408 L’esistenza di una stretta affinità fra lo stasimo euripideo e il poema del Papiro di Berlino, ipotizzata in Malten (1909), è stata ripetutamente negata negli studi successivi, cf. Kannicht (1969), II, 343; Graf (1974), 154-158; Sfameni Gasparro (1978), 1175-1179; Cerri (1983), 186, nota 10. 409 Cf. Malten (1909), 421-423. Per una panoramica delle testimonianze letterarie e iconografiche relative a una connessione di Atena e Artemide con il ratto di Kore, nonché un’analisi dei versi euripidei in questione, cf. Kannicht (1969), II, 342-344; sulle attestazioni di tale connessione nella tradizione orfica, cf. anche Onorato (2008), 35-38; sulla relazione di questo episodio con la tradizione dell’inno omerico, cf. Currie (2016), 93-96. 410 È possibile che il verso iniziale del poema commentato nel Papiro di Berlino fosse proprio quel μῆνιν ἄειδε, θεά, Δημήτερος ἀγλαοκάρπου, conservato dallo Pseudo-Giustino (Coh. Gr. 17.1 = fr. 386 Bernabé), che permette uno stretto parallelo fra il ratto di Briseide e quello di Kore; cf. Graf (2009), 680; sulle analogie di questo poema con la tradizione omerica, cf. qui sopra, nota 406. 411 Cf. Sfameni Gasparro (1978), 1175-1179, secondo cui le identificazioni, in ambito orfico, fra Demetra e Rea sarebbero indipendenti dalla tendenza, ravvisabile nella religione greca in generale, a identificare ambito metroaco e demetriaco, intendendo il primo come afferente alla figura della dea frigia ellenizzata Cibele. Tuttavia non possiamo scindere eventuali speculazioni filosofiche sull’identità di Rea e Demetra dalle ripercussioni sulla realtà cultuale: la Rea-Demetra della tradizione teogonica orfica (cf. frr. 87-89; 206 Bernabé) non appare infatti distinta dalla Madre degli dei, soprattutto a livello cultuale, come emerge sia dal Papiro di Gurôb (cf. col. II.6-7, dove Demetra-Rea viene associata alle figure dei “Cureti in armi”, che, insieme con i Coribanti, sono caratteristici del corteggio metroaco, cf. qui sopra, cap. II.1.2.2) sia dalla lamina di Turi, dove l’identificazione riguarda la figura metroaca in quanto Cibele (per cui cf. qui sopra, nota 400). 412 Sull’identificazione di tali inni, da distinguere dal poema commentato nel papiro, cf. Kouremenos, Parássoglou, Tsantsanoglou (2006), 254. Questi stessi inni sembrano citati anche da Filodemo nel De pietate (P.Herc. 1428 fr. 3.6 ss.), in riferimento alle identificazioni delle divinità femminili, quali Terra, Demetra,
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δὲ Διὸς ἀδελφὴν [riferendosi evidentemente a Demetra] παραδέδωκεν, οἱ δὲ [non ulteriormente specificati, distinti in ogni caso da Orfeo stesso] μητέρα,413 accusando tra l’altro tali autori di empietà (fr. 387 Bernabé). Inoltre la centralità data al tema dell’agricoltura civilizzatrice nella tradizione di Pausania, Clemente e del Papiro mal si concilia con lo scenario selvaggio e montano connesso con la figura della Madre degli dei, caratteristico invece dello stasimo euripideo. La letteratura trasmessa sotto il nome di Orfeo presenterebbe insomma una netta differenziazione in merito alla figura di Demetra: possiamo individuare, in quella maggiormente legata alla tradizione attica e, a quanto appare ipotizzabile, confluita poi (seppure con significative rielaborazioni) nell’inno omerico, il mantenimento della specificità della figura di Demetra, rispetto a tendenze meno ‘ortodosse’ e inclini piuttosto all’identificazione di Demetra con le altre divinità ‘madri’ del pantheon greco.414 Non sorprende, alla luce di quanto emerso dai capitoli precedenti, che Euripide Rea, Estia, Era (cf. Henrichs (1975), 17-19; Obbink (1994); Burkert (2002a), 116-117, dove vengono messi in luce gli atticismi presenti nel verso citato nel Papiro di Derveni, che permetterebbero di individuare l’origine dell’opera da cui è tratto all’interno dei circoli orfici ateniesi). Ricordiamo che Filodemo, nella sezione del De pietate dedicata alla critica della filosofia stoica, individua altresì nella teoria di Crisippo che tutto sia Αἰθήρ, “che è insieme padre e figlio”, e che Rea sia allo stesso tempo madre e figlia di Zeus un tentativo di accordare le dottrine stoiche con quanto “è attribuito a Omero e Museo e si trova in Omero, Esiodo, Euripide e altri poeti” (P.Herc. 1428, coll. V-VI, pp. 15-17 Henrichs; cf. Henrichs (1974), 29). 413 Come già notava Richardson (1974), 83. 414 Le Argonautiche orfiche sembrano serbare traccia di tale differenziazione quando, nel principio, sono menzionati come oggetti del canto, che si pretende essere di Orfeo, τιτθείαν τε Ζηνός, ὀρεσσιδρόμου τε λατρείαν / Μητρός, ἅ τ᾽ ἐν Κυβέλοις ὄρεσιν μητίσατο κούρην / Φερσεφόνην περὶ πατρὸς ἀμαιμακέτου Κρονίωνος […] Δήμητρός τε πλάνην καὶ Φερσεφόνης μέγα πένθος, / Θεσμοφόρος θ᾽ ὡς ἦν (vv. 21-27). È significativo come il riferimento all’infanzia di Zeus sia immediatamente seguito dalla menzione del “culto della Madre che corre per i monti”, come per suggerire l’identificazione con Rea, madre di Zeus, e dalle meditazioni della dea “sulla figlia Persefone in merito al padre” di questa (Zeus), un’allusione, verosimilmente, al mito della trasformazione di Persefone in serpente per sfuggire a Zeus. Questo complesso mitico sembra afferire a una tradizione diversa da quella, confluita anch’essa nell’orfismo, ricordata più sotto e relativa al ratto di Persefone e alle peregrinazioni di Demetra Θεσμοφόρος (si osservi come il nome “Demetra” compaia solo in questo secondo caso). Troviamo quindi un’ulteriore conferma di un’eterogeneità nella tradizione orfica relativa a Demetra, talora più vicina alla divinità venerata nel culto eleusino e tesmoforico, talora identificata con tutte le altre ‘dee madri’ del pantheon greco, come avviene per esempio nel verso citato nel Papiro di Derveni. Bernabé, infatti, nella sua raccol-
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si ritrovasse in piena sintonia con queste ultime e, pur affrontando quello che pure era il mito eleusino per eccellenza, ossia il ratto di Kore, ne offrisse una lettura alternativa all’‘ortodossia’ attica.415 Non possiamo comunque sia sapere fino a che punto le dottrine orfiche a cui possiamo ricondurre la concezione di una Demetra / Rea / Madre degli dei come un tutt’uno fossero implicate nel dibattito relativo ai rapporti fra queste figure divine quale si profila nell’Atene della metà del V sec.; possiamo in ogni caso riconoscere tali figure sullo sfondo della vicenda del μητραγύρτης secondo la versione dell’imperatore Giuliano (Or. V.159a, forse in parte influenzata dallo stasimo euripideo), dove infatti non solo troviamo la μῆνις della dea riferita al rifiuto del suo culto (cf. μῆνις τῆς θεοῦ [provocata dalla morte del suo sacerdote] καὶ θεραπεία τῆς μήνιδος, così come, nello stasimo dell’Elena, la μῆνις della Madre è scatenata dal fatto che Elena rifugga il suo culto), ma anche l’identificazione della dea del μητραγύρτης con una divinità venerata παρ᾽ αὐτοῖς come Δηώ καὶ Ῥέα καὶ Δημήτηρ. Sembra questa quasi una citazione ‘ridotta’ del verso del Papiro di Derveni: la divinità straniera non riconosciuta dagli ateniesi altri non sarebbe stata che la grande ‘dea madre’ degli orfici.416 § 4.2 Oltre il secondo stasimo: suggestioni orfiche nell’Elena Eventuali influenze orfiche presenti nello stasimo possono del resto trovare dei riscontri non solo nel resto della produzione euripidea, ma anche all’interno dell’Elena stessa. Se consideriamo infatti la trama dell’Elena come
ta di frammenti orfici, distingue quelli identificabili come «Orphici de Proserpina raptu et redditione carminis (an carminum?) fragmenta cum fabula in P.Berol. servata haud incongruentia» (frr. 386-397), dall’ «Hymnus in Cererem in P. Derveni servatus» (fr. 398). 415 Cf. Bernabé (2017), 133 sulla presenza di elementi orfici nello stasimo euripideo (cf., oltre alla «tendenza all’identificazione degli dei», anche l’ «esplorazione di elementi estatici», in virtù del ruolo che non solo Dioniso, ma anche la Madre Montana stessa riveste nel culto orfico, come è attestato per esempio nella lamina di Fere, fr. 495a Bernabé); lo studioso sottolinea altresì come la chiave di lettura orfica non sia l’unica adattabile al testo in questione. 416 Nel caso di Giuliano, il sincretismo religioso riflette una tendenza del tardo-paganesimo e allo stesso tempo risponde al disegno religioso di unire tutte le diverse religioni pagane (cf. Ugenti (1992), 56). La letteratura tardoantica ci testimonia inoltre l’interesse per gli scritti orfici: elementi riconducibili alle versioni orfiche del ratto di Persefone sono introdotti per esempio nel De raptu Proserpinae da Claudiano (cf. Onorato (2008), 28-40).
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costruita sulla base di un’antitesi fondamentale, quella fra apparenza (o illusione) e realtà, dalle cui diramazioni si sviluppano altre opposizioni (morte / vita; spirito / corpo; moralità esteriore fondata sull’azione e in particolare sulla gloria bellica / moralità interiore, ecc…), attivate appunto dall’εἴδωλον di Elena,417 possiamo osservare come Menelao appartenga alla sfera dell’apparenza (crede che l’εἴδωλον sia la vera Elena, crede nella gloria conquistata a Troia e, in ultima istanza, nella morte, come dimostra la sua volontà di uscire dalla situazione disperata in cui si trovano lui e la moglie ricorrendo alla violenza e quindi alla morte, cf. vv. 947-995, dove si noti, al v. 969, l’invocazione a Ade), mentre Elena si faccia portatrice di un’istanza di verità e di vita, dimostrando il carattere illusorio della Weltanschauung di Menelao. Proponendogli, come via di uscita dalla tirannia di Teoclimeno, di fingersi morto, Elena dimostra infatti come l’apparenza della morte possa essere in realtà la via per la vera vita (vv. 1050-1052; 1289-1290; dinamiche analoghe si possono riscontrare nell’Ifigenia in Tauride, per cui cf. qui sotto, nota 432).418 Di tale struttura contrappositiva il nesso fra apparenza e morte, in quanto appartenenti alla medesima dimensione ontologica, risulta particolarmente significativo se messo in relazione con quanto emerge da altri passi euripidei (si pensi ai frr. TrGF 57 F638 del Poliido o TrGF 76-77 F833 del Frisso). Euripide sembra dunque alludere anche nell’Elena, attraverso la peripezia della finta morte proposta a Menelao, al carattere illusorio della morte e al suo coincidere con la vera vita, che si configura in ultima analisi come rinascita. Tali concezioni possono essere identificate con dottrine riconducibili all’orfismo (cf. qui sopra, cap. I.1.2).419
417 Cf. Segal (1971), 553-614; su una linea analoga si pone anche Wright (2005), seppure con una lettura tendente a accentuare la volontà euripidea di mettere in discussione, mediante il meccanismo delle antitesi, ogni certezza per desumerne la sostanziale inconoscibilità della realtà da parte dell’uomo (sulla debolezza dei sensi nell’Elena, cf. Peigney (2014), 7, nota 46). Si vedano comunque sia le osservazioni di Segal sugli aspetti problematici del finale della tragedia (cf. pp. 604-610). Sulle implicanze metateatrali dell’εἴδωλον dell’Elena, come invito a accettare la finzione teatrale, cf. Saetta Cottone (2016), 38-39. 418 Cf. Segal (1971), 564; 582. 419 Segal insiste piuttosto, nell’individuazione dello sfondo mitico-religioso della tragedia, sul mito di Persefone in quanto figura legata alla rinascita e alla ciclicità della natura e della vita (cf. Segal (1971), 592-600). D’altronde abbiamo visto qui sopra come il tema del ritorno di Persefone dall’Ade sia del tutto trascurato da Euripide, laddove invece la riflessione sul rapporto fra la vita e la morte è affidato alla figura di Teonoe, che non sembra avere a che fare con una religiosità di tipo eleusino.
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Il richiamo alle dottrine orfiche sembra ancor più esplicito nella figura di Teonoe, che incarna appunto i valori non solo della giustizia a della moralità interiore, ma anche quelli della vita e dell’immortalità contro la violenza, la ricerca della gloria, la morte, di cui è portatore Menelao (come anche Teoclimeno):420 l’universo intellettuale e religioso rappresentato da Teonoe può infatti essere interpretato come ‘orfico’, soprattutto per quel che concerne l’escatologia (in particolare la credenza dell’immortalità dopo la morte) e il tema della purezza fisica (Teonoe condivide con un altro personaggio euripideo, ossia Ippolito, la difesa della propria verginità) e spirituale allo stesso tempo. Quando infatti la vergine, sorella di Teoclimeno, giustifica la sua disponibilità a aiutare Elena e Menelao sulla base di un principio di giustizia, chiama in causa ricompense e punizioni ultraterrene (vv. 1013-1016): καὶ γὰρ τίσις τῶνδ᾽ ἐστὶ τοῖς τε νερτέροις καὶ τοῖς ἄνωθεν πᾶσιν ἀνθρώποις˙ ὁ νοῦς τῶν κατθανόντων ζῇ μὲν οὔ, γνώμην δ᾽ ἔχει ἀθάνατον εἰς ἀθάνατον αἰθέρ᾽ ἐμπεσών.421 Il brano in questione presenta numerosi problemi esegetici: senz’altro è da mettere in relazione con altri passi euripidei (e non solo, cf. qui sopra, cap. I.1.2), in cui troviamo l’enunciazione dell’esistenza, nell’essere umano, di una dicotomia anima / corpo, che, alla morte dell’individuo, torneranno ciascuna alla sua sede naturale, il cielo e la terra. Qui tuttavia Euripide propone una dottrina ancora più raffinata, secondo cui non sarebbe la sede del pensiero (ὁ νοῦς) a sopravvivere, ma piuttosto la sua facoltà intellettiva, la γνώμη,422 e tale sopravvivenza è collocata nell’ “etere immortale”. Troviamo punti di contatto non solo con la riflessione filosofica contemporanea,423 ma anche con
420 Sulla centralità, nella struttura del dramma, della figura di Teonoe cf. Segal (1971), 583-600. 421 “E infatti c’è una punizione per queste cose sia per quelli di laggiù [i morti] sia per tutti gli uomini di quassù [i vivi]: la mente dei morti non vive più, ma ha un’intelligenza immortale una volta che sia caduta nell’etere immortale”. Sui versi in questione si veda Kannicht (1969), II, 259-262 e Wright (2005), 263-266, dove si sottolinea la specificità del concetto ivi espresso, nonostante alcuni legami con le riflessioni filosofiche contemporanee (cf. inoltre qui sotto nel testo), nonché la difficoltà di integrarlo nel contesto del dramma. 422 Si ricordi del resto il risalto dato, nelle parole del servitore, al concetto di γνώμη come unica guida dell’uomo (dato che gli oracoli sono inaffidabili) nei suoi rapporti con la divinità: γνώμη δ᾽ ἀρίστη μάντις ἥ τ᾽ εὐβουλία (v. 757). 423 Diogene di Apollonia DK 64 B4-5; Anassagora, DK 59 B12; Hipp. Carn. 2; cf. Egli (2003), 104-110.
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l’orfismo, per quel che concerne sia l’esistenza di una componente “immortale” nell’uomo (si osservi, nel v. 1016, l’insistenza sull’aggettivo ἀθάνατος)424 sia l’insistenza sui concetti, entrambi cruciali nell’escatologia orfica, di “pena” (τίσις) e di “giustizia”.425 Elena, a sua volta, facendo proprie le dottrine di Teonoe, può parlare di un aldilà affine a quello evocato da Teonoe ai vv. 1013-1016: a Teoclimeno, che ritiene vano “ciò che riguarda i morti” (si parla del finto funerale di Menelao), Elena risponde † [così stampa Diggle] ἔστιν τι κἀκεῖ κἀνθάδ᾽ ὧν ἐγὼ λέγω† (v. 1422): si tratta di una frase ambigua, che allude comunque sia a una forma di sopravvivenza dopo la morte (nonché, forse, a una scissione dell’individuo, κἀκεῖ κἀνθάδε).426 Teonoe, inoltre, entra sulla scena per compiere un rituale, caratterizzato dall’uso di fiaccole (vv. 865-870): queste ultime, portate dalle ancelle, hanno il compito di purificare con lo zolfo “i recessi dell’etere” (αἰθέρος μυχούς), perché la sacerdotessa possa ricevere “il puro soffio del cielo” (πνεῦμα καθαρὸν οὐρανοῦ), e, allo stesso tempo, di mondare il suolo con la fiamma 424 Cf. cap. I.1.2 per la discussione sulla collocazione dell’aldilà, nei passi euripidei in questione, nell’etere. 425 Teonoe, poco prima dei versi riportati qui sopra, afferma infatti ἔνεστι δ᾽ ἱερὸν τῆς δίκης ἐμοὶ μέγα / ἐν τῇ φύσει, vv. 1002-1003. Le lamine orfiche insistono sul tema della pena che l’uomo deve scontare (cf. le lamine turie frr. 489-490.4 Bernabé e la lamina di Fere, fr. 493 Bernabé; concezioni analoghe riecheggiano nelle lamine turie frr. 487.3; 488.5 Bernabé), dove la pena in questione può essere interpretata come riferita al ciclo di rinascite a cui il mista viene finalmente sottratto (cf. qui sopra, cap. I.1.2 e II.2.1). Cf. inoltre Pindaro, frr. 131b (prigionia dell’anima immortale nel corpo); 133 (la “pena di un antico dolore” sembra consistere nel ciclo delle rinascite, per cui cf. Empedocle, DK 31 B115; 146-147); 129-131a-130 Maehler (aldilà bipartito fra regioni dei beati e regioni dei peccatori); Ol. II.53-77 (alla metempsicosi, da cui pure l’uomo deve liberarsi, si associa qui la nozione di pena e ricompensa nell’aldilà). Ricordiamo anche i passi platonici dedicati al tema della metempsicosi e dell’aldilà come luogo di giudizio (cf. Bernabé (2011), 155 ss.): Men. 81b; Phaedr. 248c ss.; Resp. 363c-364e; Gorg. 525b ss. (le pene sono presupposte per gli ingiusti sia nell’Ade sia sulla terra, come nelle parole di Teonoe ai vv. 1013-1016); Phaed. 113d. Sull’escatologia orfica in quanto fondata su una dicotomia ‘morale’ e sui rapporti fra le dottrine escatologiche pindariche e quelle platoniche (per quanto di esse è interpretabile come ‘orfico’), cf. Graf 1974, pp. 79-150, in particolare 83-98 e avanti, cap. VI.1.2.2; sulla centralità dei concetti di “purezza” e “giustizia” nell’orfismo, cf. Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 190-191. Sulla relazione fra etica, escatologia e salvezza nel personaggio di Teonoe in quanto riscontrabile anche, per esempio, nel Papiro di Derveni, cf. Piano (2016), 299. 426 Cf. Segal (1971), 589-590; 600-604, sulla relazione fra le figure di Teonoe e Elena, con una discussione dei passi che la rendono esplicita. Cf. inoltre Segal (1971), 592-593, secondo cui il riferimento costante della religiosità a cui fanno appello Teonoe e Elena sarebbe Proteo (la cui tomba è il fulcro dell’intero dramma).
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purificatrice (καθαρσίῳ φλογί), se mai lo avesse contaminato qualcuno “con piede impuro” (ποδὶ ἀνοσίῳ). Al di là dell’insistenza sul tema della purificazione, che di per sé non sarebbe sufficiente per parlare di orfismo (cf. qui sopra, cap. II.2.1-2), occorre sottolineare la presenza di quella dicotomia cielo / terra, spirituale / corporeo alla base della dottrina escatologica che verrà enunciata poco dopo dalla stessa Teonoe: il fuoco permette di entrare in contatto con la purezza del cielo (in quanto appunto purificato) e evitare il contatto con le sozzure della terra. Elena, a sua volta, nelle parole che rivolge subito dopo a Teonoe per convincerla a prestarle aiuto contro Teoclimeno, si richiama ancora a questi concetti (vv. 906-907): κοινὸς γάρ ἐστιν οὐρανὸς πᾶσιν βροτοῖς / καὶ γαῖ’ [...]: la concezione dell’uomo come fusione di questi due elementi, riscontrabile nella dottrina orfica (cf. qui sopra, cap. I.1.2), è esplicitata da Elena, quasi a chiarimento delle mistiche parole della vergine egiziana. È significativo che a Teonoe sia riservato anche il compito di rivelare a Elena come finalmente Era, che la ha perseguitata fino a quel punto, non le sia più avversa e che sia piuttosto Afrodite sua nemica. D’altronde Teonoe non sembra temerla troppo e ritiene di agire secondo giustizia aiutando Elena, secondo il volere di Era e pregando Afrodite di esserle benigna (vv. 1005-1007; 1025-1027). Il rapporto fra queste due dee, apparentemente divise a causa del giudizio di Paride, finisce per essere in realtà di ‘collaborazione’ nei riguardi di Elena: è Afrodite che ne minaccia per prima la virtù promettendola come ricompensa a Paride e è Era che, con l’inganno dell’εἴδωλον,427 ne completa la
427 L’εἴδωλον di Elena, inoltre, in quanto fatto di αἰθήρ (così si dice al al v. 584, laddove nel prologo, al v. 34, Elena aveva parlato di οὐρανός; al v. 44 comunque sia Elena riferisce come sia stata avvolta nell’etere da Ermes per essere portata in Egitto), conferisce a quest’ultimo un ruolo determinante nelle dinamiche dell’azione portata in scena: tale centralità dell’αἰθήρ, che potremmo eventualmente collegare, come abbiamo visto in cap. I.1.1.1, a scenari cosmogonici orfici, non riguarda solo l’Elena, ma anche le altre due tragedie indicate da Wright come parte della possibile trilogia a cui apparteneva l’Elena, ossia Ifigenia in Tauride e Andromeda (per cui cf. avanti, nota 432), dove ugualmente troviamo frequenti menzioni dell’etere, per esempio in riferimento allo spazio in cui si spostano i personaggi; per una rassegna dei passi in questione, cf. Wright (2005), 265-266, nota 147. Secondo Segal (1971), 590-591, l’etere, nell’Elena, da apparire inizialmente come strumento di vendetta di una dea, acquisisce via via una connotazione decisamente positiva: non solo infatti il colpevole εἴδωλον si ricongiunge infine con le regioni più pure lasciando Elena finalmente innocente (vv. 605; 1219), ma viene a più riprese sottolineata la sua appartenenza alla sfera della purezza e della sacralità nel rito di Teonoe (v. 768), in quello dionisiaco (v. 1363) e nell’invocazione del coro ai Dioscuri nel terzo stasimo (vv. 1496-1499). Sul ruolo delle immagini aeree nella relazione fra le parole dello
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rovina; entrambe infine non si opporranno al suo ritorno in patria con Menelao.428 Le figure di Afrodite e, soprattutto, di Era, evocata ripetutamente come la causa delle sciagure dell’eroina (cf. vv. 586; 610; 674; 708-710), dominano lo scenario religioso del dramma fino al secondo stasimo. Qui fa invece la sua comparsa la Madre degli dei nel ruolo di ‘divinità offesa’, la cui μῆνις si è abbattuta su Elena, quasi che compendiasse in sé non soltanto le figure della Grande Madre frigia e di Demetra, ma anche quella di Era stessa: se consideriamo infatti come Euripide guardi alle dottrine orfiche anche attraverso la lente delle speculazioni filosofiche a lui contemporanee (lo abbiamo visto ancora qui sopra a proposito dell’escatologia dell’Elena; cf. inoltre cap. I.1.1.4), non sorprende che alla base del sistema religioso della tragedia potesse esserci una divinità concepita come Δημήτηρ Ῥέα Γῆ Μήτηρ Ἑστία Δηιώ e tale da includere anche Era. Ce lo conferma del resto il commentatore stesso del Papiro di Derveni, che interpreta appunto un poema teogonico orfico alla luce delle teorie cosmologiche presocratiche429 (cf. col. XXII.7-12): Γῆ δὲ καὶ Μήτηρ καὶ Ῥέα καὶ Ἥρη ἡ αὐτή. ἐκλήθη δὲ Γῆ μὲν νόμῳ, Μήτηρ δ᾽ ὅτι ἐκ ταύτης πάντα γ[ίν]εται, Γῆ καὶ Γαῖα κατὰ [γ]λῶσσαν ἑκάστοις. Δημήτηρ [δὲ] ὠνομάσθη ὥσπερ ἡ Γῆ Μήτηρ, ἐξ ἀμφοτέρων ἓ[ν] ὄνομα˙ τὸ αὐτὸ γὰρ ἦν. – ἔστι δὲ καὶ ἐν τοῖς Ὕμνοις εἰρ[η]μένον˙ “Δημήτηρ [Ῥ]έα Γῆ Μήτηρ Ἑστία Δηιώ{ι}” [etc…]. La tendenza, insita nella speculazione filosofico-religiosa afferente all’orfismo, a individuare grandi principi divini che racchiudano in sé più figure divine riconducibili a un’unità di fondo (si pensi, sul versante maschile, a Protogonos-Zeus-Dioniso, per cui cf. cap. I.1.1.1.) si rivela appieno nella figura femminile che è insieme madre – perfino nonna (Gaia, appunto) – e moglie di Zeus. Quanto a Afrodite, che, nel commentario conservato nel Papiro di Derveni, sembra presentata come un’ulteriore manifestazione di Ζεύς-Νοῦς-Ἀήρ, insieme con Peitho e Armonia (col. XXI.5-7),430 osserviaschiavo ai vv. 711-715 (sulla variabilità delle sorti umane) e quelle di Teonoe (sulla giustizia e la pietà), cf. Peigney (2014), 4-9. 428 È del resto sempre Teonoe a mostrare l’ambiguo e reciproco opporsi dei voleri di Era e Afrodite (cf. vv. 880-891), fino all’auspicio di una loro ‘collaborazione’ (cf. vv. 1005-1007; 1025-1027; lo stesso concetto è ripreso da Elena nella sua preghiera, vv. 1093-1106). 429 Sul rapporto fra il testo conservato nel Papiro di Derveni e le speculazioni filosofiche presocratiche, cf. qui sopra, cap. I.1.1.4, nota 56. 430 Sul passo in questione si veda Kouremenos, Parássoglou, Tsantsanoglou (2006), 247-251.
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mo come essa svolga un ruolo ambiguo nella tragedia euripidea, in quanto solo apparentemente contrapposta a Era, come abbiamo visto, e, nel secondo stasimo, incaricata da Zeus di placare la collera della Madre degli dei e quindi coinvolta appieno nel rituale metroaco. Si ricordi del resto anche la commistione di sfera metroaca e afrodisiaca (oltre alla presenza della figura di Armonia) nel culto cabirico (cf. qui sopra, § 2.2.1).431 Possiamo dunque individuare un’omogeneità di fondo nel sistema religioso sottostante all’Elena di Euripide, all’interno del quale la peculiare rappresentazione di Demetra come Madre degli dei trova la sua piena giustificazione. In questa tragedia, infatti, Euripide ribadisce ancora una volta la sua inclinazione verso la ricerca di forme di religiosità ‘altre’, che si esprime bensì nella preferenza accordata a culti ‘stranieri’ (evidente nella giustapposizione o, potremmo dire, sostituzione del rituale metroaco-dionisiaco ‘frigio’ a quello demetriaco attico, a partire però da un’eziologia, almeno in parte, comune), ma intrecciati con concezioni religiose e filosofiche che risentono dell’influenza delle dottrine orfiche. Si tratta di uno scenario che ricorre in Euripide con una certa regolarità e che sembra, almeno per quanto riguarda il controverso rapporto fra culti attici e culti stranieri, comune anche all’Ifigenia in Tauride (cf. qui sopra, § 3).432 431 Sulla relazione fra Afrodite e la sfera metroaca, cf. in generale cap. II.1.2.1, nota 167. 432 Se consideriamo la possibilità di eventuali riferimenti a dottrine orfiche nelle altre tragedie della trilogia del 412, ossia Ifigenia in Tauride e Andromeda (cf. qui sopra, § 3), non possiamo parlare di una sistematicità paragonabile a quella ipotizzata nell’Elena. Eppure Wright individua nei vv. 770-771 dell’Ifigenia in Tauride un possibile richiamo alla concezione orfica della vita / non vita, particolarmente caro a Euripide: la lettera per Oreste consegnata da Ifigenia a Pilade comincia infatti con le parole ἡ ᾽ν Αὐλίδι σφαγεῖσ᾽ ἐπιστέλλει τάδε / ζῶσ᾽ Ἰφιγένεια, τοῖς ἐκεῖ δ᾽ οὐ ζῶσ᾽ ἔτι (cf. Wright (2005), 292-293). A questo potremmo forse aggiungere il rituale funebre compiuto da Ifigenia, al principio della tragedia, in onore di un morto, Oreste, che in realtà morto non è (cf. vv. 156-166): la sorella versa in sua memoria offerte che consistono in latte, vino (per designare il quale è esplicitamente fatto il nome di Dioniso), miele (vv. 163-165). Poiché si tratta però di una morte che non è morte, potremmo essere forse vicini al rituale evocato nelle lamine di Pelinna, dove latte e vino sono calati in un contesto di morte e rinascita (frr. 485-486 Bernabé, per cui cf. Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 76-89). Sulla relazione delle api e del miele con i concetti di morte e rinascita secondo le dottrine orfiche, cf. la bougonia del IV libro delle Georgiche (che si conclude, non a caso, con il mito di Orfeo). Per quel che concerne l’Andromeda, citiamo, seppur con qualche riserva, la proposta interpretativa avanzata in Assaël (2014), dove la vicenda di Andromeda legata a uno scoglio in attesa di una salvezza che viene dall’etere (Perseo) è letta in chiave allegorica (sulla falsariga del mito della caverna della Repubblica): l’anima, imprigionata nel
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Capitolo III: Ancora sulle peculiarità della religiosità euripidea: l’Elena
Vedremo ora come aspetti decisivi del mondo religioso dell’Elena ricorrano anche in una trilogia di poco successiva, ossia quella comprendente Ipsipile, Antiope e Fenicie.
corpo, attende la liberazione in una dimensione eterea. Effettivamente possiamo individuare singoli e specifici elementi, seppur slegati, che potrebbero aver senso in un contesto ‘orfico’: cf. TrGF 10 F114 (cf. Pagano (2010), 101-113), un’invocazione alla Νὺξ ἱερά, che conduce il suo carro sul “dorso stellato dell’etere sacro”, con un’associazione di νύξ e αἰθήρ (un elemento ricorrente nel dramma, come dimostra la parodia aristofanea nelle Tesmoforiazuse, cf. cap. V) non priva di senso in relazione alle cosmogonie orfiche (cf. qui sopra, cap. I.1.1.1). Se inoltre davvero l’Andromeda si fosse conclusa con l’annuncio del catasterismo della principessa (così in Pagano (2010), 20-21; 235-237; cf. TrGF 10 TT iii a; iii b), potremmo stabilire forse una relazione con quanto abbiamo osservato in cap. I.1.2 a proposito delle lamine orfiche. Cf. infine TrGF 10 F146, dove c’è traccia di una libagione di latte e vino (sulla difficile ricostruzione del contesto, cf. ancora Pagano (2010), 179-182).
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Capitolo IV: Antiope, Ipsipile, Fenicie, fra dionisismo, orfismo e Misteri eleusini
§ 1 L’Antiope: suggestioni orfiche e dionisiache Lo scolio al v. 53 delle Rane (schol. vet. in Aristoph. Ran. 53a, p. 12 Chantry) ci offre le coordinate cronologiche per la datazione dell’Ipsipile: lo scoliasta si domanda perché il πόθος di Euripide sia scatenato in Dioniso dalla lettura di una tragedia come l’Andromeda, messa in scena diversi anni prima rispetto alle Rane (412 a. C.), e non da tragedie più recenti, come l’Ipsipile, l’Antiope o le Fenicie, per cui si profila quindi una datazione fra il 411 e il 408 a.C..433 La possibilità che queste tre tragedie appartengano in effetti a un’unica trilogia è assai verosimile, dato il consistente numero di temi comuni a tutte e tre, quali il legame con le vicende tebane, il motivo della coppia di fratelli con attitudini diverse (Anfione-Zeto, Euneo-Toante,434 Eteocle-Polinice) e, dal punto di vista religioso, il dionisismo, che troverà poi di lì a poco nelle Baccanti la sua espressione più completa.435 Sebbene, dato lo stato frammentario in cui ci è pervenuta l’Antiope,436 risulti difficile individuare in che modo vi fosse precisamente connotato il
433 Per una disamina dei pro e i contro relativi a ciascuna possibile datazione, cf. Collard, Cropp, Gibert (2004), 183; 269; cf. inoltre le osservazioni di Kannicht in merito allo scolio aristofaneo in TrGF 12 (Antiope) T ii e TrGF 71 T ii (Ipsipile). Comunque sia, come vedremo nell’ultimo capitolo, è appunto l’Ipsipile una delle tragedie euripidee maggiormente prese di mira nelle Rane, ben più dell’Andromeda. 434 In queste due coppie, in particolare, l’una costituita dai figli di Ipsipile, l’altra dai figli di Antiope, un personaggio è dedito alla musica e alla poesia, l’altro alla vita pratica – intesa come attività bellica e politica. 435 Per una rassegna bibliografica sulla questione relativa alla possibilità o meno di individuare una trilogia Antiope-Ipsipile-Fenicie e quindi di attribuire o meno una datazione bassa all’Antiope, cf. Hardie (2012), 153, nota 45; Castellaneta (2017), 22-23 e in particolare, in favore dell’ipotesi della trilogia, cf. Collard, Cropp, Gibert (2004), 169; Rubatto (1998), 49-50; per una ricostruzione degli studi a sostegno di questa ipotesi, cf. Castellaneta (2017), 23, nota 19. Sulle relazioni strutturali e tematiche fra Antiope e Ipsipile, cf. ancora Castellaneta (2017), 21-24. 436 Per una proposta di ricostruzione del dramma, cf. Rubatto (1997), 73-84; López Cruces (2011), 460-480; per un’ampia rassegna bibliografica sulla questione, cf. Castellaneta (2017), 16-17, nota 3.
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Capitolo IV: Antiope, Ipsipile, Fenicie, fra dionisismo, orfismo e Misteri eleusini
culto dionisiaco, pur presente nel dramma,437 le connessioni dionisiache della tragedia sono percepibili fin dalla sua ambientazione, ossia la caverna del βουκόλος,438 presso cui Antiope partorisce e abbandona i suoi figli (cf. Pausania, I.38.9), che sembra configurarsi appunto come luogo di culto di Dioniso (cf. TrGF 12 F203). Da alcune testimonianze439 sembra poi potersi evincere che la persecutrice di Antiope, Dirce, fosse rappresentata come devota del dio e accompagnata da una schiera di baccanti: proprio come nelle Baccanti, dunque, dove la punizione di Dioniso si scaglia contro vittime divenute ormai seguaci del suo culto (Penteo e Agave), troveremmo anche nell’Antiope le ingiustizie commesse dalla ‘baccante’ Dirce contro Antiope punite con un supplizio ‘dionisiaco’, in questo caso lo σπαραγμός a opera di un toro (simbolo evidentemente di Dioniso stesso), come ci attesta TrGF 12 F221. Il sito di Eleutere, dove si trova la caverna, ha poi ha un’importanza cultuale determinante anche rispetto alle Dionisie cittadine: nel 9 di Elafebolione, infatti, la cerimonia della eisagogé, durante la quale la statua in legno di Dioniso veniva portata in processione dal suo tempio sul fianco meridionale dell’acropoli fino all’Accademia (sulla strada per Eleutere), doveva commemorare proprio l’introduzione del dio Dioniso dalla beotica Eleutere in Attica.440 La tragedia euripidea andava dunque a toccare un tipo di 437 Per cui cf. Zeitlin (1993), 173 ss.; per un’analisi dello sfondo dionisiaco come caratterizzante l’intera tragedia, cf. López Cruces (2011), 460-470. 438 Sulla possibilità che il personaggio del βουκόλος possa essere interpretato come una figura legata al culto del dio, cf. Collard, Cropp, Lee (1995), 70; per un elenco delle testimonianze relative alla figura del βουκόλος come sacerdote orfico, cf. Jiménez San Cristóbal (2009a), 772, nota 9. Cf. inoltre López Cruces (2011), 461, nota 5, sul rilevante simbolo dionisiaco presente nella caverna e menzionato nel fr. 203, ossia lo στῦλος εὐίου θεοῦ ornato di edera. 439 Cf. in particolare il racconto di Igino, Fab. 8, forse riconducibile alla tragedia euripidea; potrebbe riferirsi alla partecipazione di Dirce a una cerimonia bacchica anche un frammento dell’Antiopa di Pacuvio (fr. XII Ribbeck = TrGF 12 T vi b). Quanto a P.Oxy. 3317, attribuito all’Antigone da Kannicht, è inserito invece in Collard, Cropp, Gibert (2004), 282 fra i frammenti dell’Antiope, poiché, sebbene sia incerta l’identità dei parlanti, potrebbe trattarsi di un dialogo fra Anfione e Dirce (ai vv. 7-8 uno dei due interlocutori rinfaccia all’altro l’impropria appropriazione dei simboli del dio, quale la nebride); in favore dell’attribuzione del frammento all’Antiope, cf. anche López Cruces (2011), 469-481 (con un’ampia rassegna bibliografica sulla questione dell’attribuzione, cf. pp. 470-471, note 43; 45), dove lo si interpreta come parte della scena in cui Antiope ordinerebbe ai suoi due figli (che non saprebbe ancora però essere tali) di uccidere Dirce. Sulla questione, cf. ancora Collard, Cropp, Gibert (2004), 311 e infine Carrara (2009), 328-329. 440 Cf. Csapo, Slater (1994), 104; 110; López Cruces (2011), 461, nota 3.
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§ 1 L’Antiope: suggestioni orfiche e dionisiache
religiosità che si relazionava direttamente con l’essenza cultuale più profonda del teatro attico e, allo stesso tempo, celebrando la potenza della lira di Anfione, capace di erigere le mura stesse di Tebe, ribadiva il ruolo civile della poesia nella vita della πόλις (cf. TrGF 12 F223, vv. 84-89). Per quanto riguarda i contenuti della poesia ‘civile’ di Anfione, abbiamo tuttavia soltanto un piccolo indizio, l’incipit in esametri di quello che doveva essere un carme cosmogonico: Αἰθέρα καὶ Γαῖαν πάντων γενέτειραν ἀείδω (TrGF 12 F182a). Come abbiamo visto nel cap. I.1.1.1., la ricorrenza dell’Etere in Euripide, in contesto cosmogonico, non è insolita: si pensi al fr. 839 del Crisippo, dove, oltre alla Terra, viene chiamato in causa il Διὸς Αἰθήρ; l’associazione dell’Etere a Zeus è presente del resto anche nell’Antiope stessa, in TrGF 12 F223, v. 11, dove Anfione si rivolge a Zeus come ὃς τὸ λαμπρὸν αἰθέρος ναίεις πέδον.441 L’aspetto interessante di questi passi, come già abbiamo avuto modo di osservare, non consisterebbe tanto nel fatto che Zeus sia associato all’Etere (Zeus è rappresentato come ‘abitatore dell’Etere’ anche in Omero), ma piuttosto nell’identificazione dell’Etere come entità cosmogonica posta accanto a Gaia: sono infatti testi quali le Rapsodie orfiche e il Papiro di Derveni a presentarci esempi di cosmogonie in cui abbiamo un dio Πρωτόγονος “figlio dell’Etere”, “scaturito dall’Etere” o “balzato fuori nell’Etere” e in cui Zeus, conseguentemente all’inghiottimento del dio Πρωτόγονος stesso (o del suo fallo), diviene l’artefice di una seconda creazione (per la discussione relativa alla figura di Protogonos, identificabile forse con Urano, nel Papiro di Derveni, cf. qui sopra, cap. I.1.1.1). L’incipit del canto di Anfione potrebbe quindi essere interpretato anche come un’ulteriore, seppur labile, testimonianza dell’interesse di Euripide per le dottrine orfiche. L’Antiope presenterebbe inoltre, ancora una volta, il tema dionisiaco (Anfione442 e Zeto, cresciuti nella grotta del βουκόλος sacra a
441 Cf. invece l’incipit della cosmogonia della Melanippe saggia (TrGF 44 F484), dove si parla di Οὐρανός e Γαῖα; il frammento 487 della stessa Melanippe saggia presenta però un’affinità sia con il Διὸς Αἰθήρ del Crisippo (TrGF 78 F839) sia con lo ὃς τὸ λαμπρὸν αἰθέρος ναίεις πέδον dell’Antiope (TrGF 12 F223, v. 11): ὄμνυμι δ᾽ ἱερὸν αἰθέρ᾽, οἴκησιν Διός. 442 Per un’analisi degli elementi dionisiaci nella rappresentazione di Anfione, cf. Di Benedetto (2005), 99-100: qui vengono menzionati come significativi i frammenti TrGF 12 F183, che contiene un attacco da parte di Zeto alla Musa di Anfione, per cui cf. sia Bacch. 234 e 236 sia Bacch. 260, in quanto la presentazione della Musa di Anfione da parte di Zeto richiama l’introduzione dei riti da parte dello Straniero (come segnalato dallo stesso verbo εἰσάγω, cf. anche ἐσφέρω in Bacch. 256; 353; 650) – potremmo qui aggiungere che, qualora le novità introdotte da Anfione fossero davvero da interpretare in senso anche religioso, sareb-
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Dioniso, sono anche artefici del supplizio ‘dionisiaco’ di Dirce) connesso con quello orfico.443 Si consideri inoltre che Ermes, apparendo ex machina nel finale, descrive l’opera della lira di Anfione come capace di smuovere pietre e alberi (TrGF 12 F223, vv. 86-88), una raffigurazione, caratteristica di Orfeo, che trova un riscontro nel secondo stasimo delle Baccanti (vv. 560-564), dove si dice che appunto la cetra di Orfeo, sull’Olimpo, “radunava con le sue musiche alberi e fiere selvagge” (sembra del resto profilarsi in generale fra le due tragedie un richiamo rispetto alla connessione di orfismo e dionisismo).444 Insistiti, fra i frammenti pervenutici della tragedia, sono i riferimenti al Tempo. Abbiamo considerato in cap. I.1.1.3 il Tempo come entità primordiale in una parte della tradizione cosmogonica orfica: sebbene l’immagine del Tempo ‘rivelatore’ e ‘portatore di giustizia’ sia tutt’altro che insolito nella letteratura greca e in particolare in tragedia,445 il suo ricorrere frequente nell’Antiope (TrGF 12 FF 222; 223, vv. 54-55; 101-102), unito allo scenario cosmogonico che emerge dal canto di Anfione, potrebbe costituire quanto meno un duplice indizio della presenza di allusioni orfiche nel dramma.
be forse legittimo pensare proprio al culto dionisiaco secondo la reinterpretazione orfica –, e TrGF 12 F185, per cui cf. Bacch. 235 ss.; 353; 980, per quanto riguarda l’analogia fra l’effeminatezza di Anfione e quella di Dioniso (un Dioniso effeminato compare già negli Edoni di Eschilo, TrGF III F61, cf. avanti, § 2.1.2). Sulla connotazione dionisiaca di Anfione, cf. anche López Cruces (2011), 463-464. 443 Cf. Di Benedetto (2005), 102, dove, in merito alla connotazione orfica di Anfione, si menziona anche la ‘dichiarazione di poetica’ di quest’ultimo in TrGF 12 F202, il cui nesso ᾄδοιμι καὶ λέγοιμί τι rievocherebbe Alcesti 357, dove Admeto lamenta di non possedere γλῶσσα καὶ μέλος di Orfeo. Sull’importanza dell’unione di canto e λόγος (inteso come capacità persuasiva) nel canto di Orfeo (per cui cf. anche Aesch. Ag. 1629-1630; Eur. Iph. Aul. 1211-1213), cf. Macías Otero (2009), 1191-1194; Semenzato (2016), 303-305. Sulla fortuna del motivo del canto ammaliatore di Anfione nella letteratura greco-latina, cf. Castellaneta (2017), 18, nota 5. 444 In Di Benedetto (2005), 102-104 si riconosce bensì, per l’Antiope, una contiguità, nella figura di Anfione, fra dionisismo e «area culturale orfica» (p. 100), ma si vede, all’opposto, nelle Baccanti, l’abbandono della cultura elitaria orfica e il conseguente recupero dei valori tradizionali (cf. Di Benedetto (2004), 31-35). In realtà, come abbiamo visto anche nei capitoli precedenti, Euripide sembra cercare spesso di congiungere mondo orfico e dionisiaco e, sebbene le Baccanti non siano forse la tragedia dove questo appaia con più evidenza, non vi sembrano in realtà emergere tracce di conflitti fra Orfeo e Dioniso. 445 Cf. alcuni passi dall’Orestea di Eschilo, quali Ag. 250-252; Choeph. 935; in Euripide ricorre anche altrove, cf. qui sopra, cap. I.1.1.3; Collard, Cropp, Gibert (2004), 318.
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Inoltre, in TrGF 12 F192, Χρόνος è annoverato da Anfione fra le fontes (cf. Kannicht) della sua arte, insieme con il θεῶν πνεῦμα e l’ἔρως ὑμνῳδίας: il Tempo diventa così il principio da cui scaturisce la poesia, quasi a creare una sovrapposizione fra la nascita di questa e del mondo (del resto uno dei temi principali della tragedia sembra appunto la celebrazione del potere della poesia). Se il ‘soffio divino’ che ispira il poeta è un concetto tradizionale, risalente a Esiodo (cf. Theog. 31),446 il riferimento all’ἔρως ὑμνῳδίας consente un ulteriore parallelismo fra nascita del mondo e nascita della poesia: Eros compare infatti fra le divinità primordiali non solo in Esiodo (Theog. 120), ma anche, con un ruolo cosmogonico ben più importante, nella tradizione orfica, laddove è identificato con Protogonos (cf. qui sopra, cap. I.1.1.1 e qui sotto, § 2.3). L’altra concezione interpretabile come ‘orfica’, presente nel fr. 839 del Crisippo (e frequente in generale in Euripide, cf. qui sopra, capp. I.1.2; II.2.1; III.4.2), ossia la distinzione nell’uomo di una componente terrena – il corpo – e una componente eterea – l’anima – destinate a dividersi dopo la morte, potrebbe forse essere rintracciata anch’essa nell’Antiope, in particolare in TrGF 12 F195: il frammento ἅπαντα τίκτει χθὼν πάλιν τε λαμβάνει contiene bensì solo il riferimento all’aspetto più ‘tradizionale’ della morte, ossia il ritorno alla terra, ma tale frammento e l’incipit della cosmogonia di Anfione (fr. 182a), anche se non appartenenti allo stesso punto della tragedia (l’uno è un esametro, l’altro un trimetro giambico), possono essere legittimamente intesi come concettualmente associati, in modo analogo a quanto avviene appunto nel fr. 839 del Crisippo, dove si afferma che, essendo la Terra e l’Etere le due entità cosmogoniche principali, anche nell’uomo troviamo riuniti questi due stessi principi, destinati però a dividersi con la morte dell’individuo. Se infine è vera l’attribuzione del fr. 910 a questa tragedia,447 fra i temi della poesia di Anfione dovremmo annoverare anche l’indagine filosofica intorno al φύσεως κόσμος: ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνῃ μήτ᾽ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ᾽ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως
446 Per ulteriori riferimenti letterari rimandiamo al commento di Kannicht al fr. 192 (p. 292). 447 Rifiutata da Kannicht; cf. invece Collard, Cropp, Gibert (2004), 296; l’attribuzione all’Antiope è di Wecklein.
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κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ᾽ αἰσχρῶν ἔργων μελέτημα προσίζει.448 Se dunque l’‘orfismo’ di Anfione si fosse davvero configurato anche come un’indagine di tipo filosofico sulla natura, come emerge da questo frammento,449 saremmo di fronte, tenendo conto delle suggestioni orfiche rintracciabili negli altri frammenti dell’Antiope, a un’ulteriore dimostrazione di quella stretta relazione fra dottrine orfiche e filosofia, riscontrabile anche altrove in Euripide (cf. qui sopra, cap. I.1.1.4; cap. III.4.2).450
448 “Beato è colui che possiede la conoscenza che viene dall’indagine, né tende al danno dei cittadini né a azioni ingiuste, ma contempla l’ordine che non invecchia della natura immortale, come si sia formato e da dove venga e come. A tali uomini mai si unisce il pensiero di turpi azioni”. Cf., su questi versi, Di Benedetto (2005), 102-104. 449 Sulla relazione di questo frammento con espressioni presenti negli scritti dei presocratici, cf. Collard, Cropp, Gibert (2004), 325. Secondo una testimonianza di Ezio sarebbe stato Pitagora il primo a chiamare τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κόσμον ἐκ τῆς ἐν αὐτῷ τάξεως (DK 14 A21; cf. però Diogene Laerzio, in VIII.48 = DK 28 A44); a Pitagora ricondurrebbe del resto anche il termine ἱστορία, secondo Eraclito, che attribuisce appunto a Pitagora la pratica della ἱστορία (cf. DK 22 B129). Il passo è stato inteso, a partire da Valckenaer, come riferito a Anassagora (DK 59 A30). 450 Si osservi inoltre come il termine ὄλβιος sia legato alla verità acquisita attraverso l’iniziazione misterica (soprattutto in ambito eleusino, cf. Pind. fr. 137 Maehler; Soph. TrGF IV F837; h. Cer. 480) e come tale acquisizione implichi l’impossibilità di fare il male e danneggiare il prossimo, un concetto che riporta anch’esso alla necessaria purezza degli iniziati. L’aggettivo ὄλβιος, oltre che in Empedocle (DK 31 B132), ricorre anche nelle lamine orfiche, dove è strettamente legato all’espiazione, da parte dell’iniziato, delle “azioni ingiuste” e, quindi, al suo raggiungimento di uno stato di purezza (cf. tre lamine turie, frr. 488.3, 8; 489-490.3 Bernabé e le due lamine di Pelinna, frr. 485.1, 7; 486.1 Bernabé). Cf. al riguardo avanti, cap. VI.2.2.4.
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§ 2 Ipsipile: un Dioniso ‘orfico’ fra Lesbo, Nemea e Delfi
§ 2 Ipsipile: un Dioniso ‘orfico’ fra Lesbo, Nemea e Delfi § 2.1 L’Ipsipile e la tradizione precedente su Orfeo e Dioniso § 2.1.1 La trama dell’Ipsipile e la sua interpretazione ‘orfica’ La protagonista del dramma, Ipsipile, è la figlia del re di Lemno, Toante, uno dei figli di Arianna e Dioniso. Stando a quanto possiamo leggere in TrGF 71 F752a, il prologo della tragedia (verosimilmente recitato da Ipsipile stessa), che si apriva tra l’altro con il nome di Dioniso e la celebrazione del suo culto estatico sul Parnaso “insieme con le fanciulle di Delfi” (TrGF 71 F752),451 doveva appunto contenere notizie sulla famiglia e sulla nascita di Ipsipile: grazie all’Epitome di Apollodoro (I.9) e alla Biblioteca di Diodoro Siculo (V.79.1-2), possiamo ricostruire i nomi dei quattro figli di Dioniso, nonché di due delle isole che furono loro donate,452 ossia Στάφυλος, Πεπάρηθος, Οἰνοπίων re di Chio e infine Toante, re di Lemno e padre di Ipsipile.453 L’analisi lessicale dei nomi dei figli di Dioniso e Arianna ci permette di interpretarli, in almeno tre casi, come ‘nomi parlanti’, connessi alla sfera del vino e della coltivazione della vite: Στάφυλος è ovviamente collegato a σταφυλίς, “grappolo d’uva” (tra l’altro, Eliano, Var. hist. III.41, menziona un epiteto σταφυλίτης per Dioniso); Πεπάρηθος presenta un’interessante connessione con il nome di un’isola (l’odierna Skopelos), nota per le sue vigne e i suoi vini (cf. Soph. Phil. 548-549);454 Οἰνοπίων è facilmente interpretabile come “bevitore di vino”.455 Il carattere dionisiaco del dramma è infine confermato dal fatto che Dioniso stesso compaia nel finale come
451 Διόνυσος, ὃς θύρσοισι καὶ νεβρῶν δοραῖς / καθαπτὸς ἐν πεύκῃσι Παρνασσὸν κάτα / πηδᾷ χορεύων παρθένοις σὺν Δελφίσιν. 452 Per una disamina della tradizione relativa ai figli di Dioniso e Arianna, cf. Collard, Cropp, Gibert (2004), 227. 453 Secondo la tradizione conservata da Diodoro Siculo, Radamanti, fratello di Minosse e zio di Arianna, avrebbe donato Chio a Enopio, Lemno a Toante e Pepareto a Stafilo; Pepareto è dunque ricordata come isola, non come persona, a differenza che nell’Epitome di Apollodoro. Si tenga inoltre presente che, nella versione di Diodoro, soltanto Enopio è figlio di Arianna e Dioniso, mentre Stafilo e Toante compaiono fra τῶν […] ἄλλων τῶν περὶ αὐτὸν ἡγεμόνων, dove con αὐτόν ci si riferisce a Radamanti, fratello di Minosse e zio di Arianna. Stafilo, nella Vita di Teseo di Plutarco (20.2), è ricordato invece come figlio di Teseo. 454 Cf. Collard, Cropp, Gibert (2004), 227. 455 Si tratta di una parola tra l’altro vicina all’οἰνοπίπης (οἶνος + ὀπιπεύω, che “sospira per il vino”) o οἰνοπότις di Aristoph. Thesm. 393 (la prima lezione è quella dello scolio e della Suda, la seconda quella del Ravennate).
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deus ex machina (TrGF 71 F759a) per porre fine alle sofferenze della nipote e dei due figli che la donna ha avuto da Giasone, Euneo e Toante (chiamato come il nonno).456 La tragedia si sarebbe conclusa dunque nel segno di Dioniso, così come, in una sorta di struttura circolare, si era aperta: Διόνυσος è infatti, nell’invocazione verosimilmente di Ipsipile, la prima parola del dramma, come Dioniso sembra essere l’ultimo personaggio a prendere la parola. L’antefatto della tragedia euripidea è identificabile con l’incontro di Ipsipile con Giasone, al momento dello sbarco degli Argonauti a Lemno. Giasone porta poi con sé nella Colchide i due figli avuti da Ipsipile, mentre quest’ultima, in seguito alle tragiche vicende che coinvolgono Lemno (il massacro degli uomini da parte delle donne, fra le quali Ipsipile soltanto si rifiuta di uccidere il vecchio padre Toante, cf. TrGF 71 F759a, v. 1673), è costretta a fuggire fino a Nemea, dove diventa schiava di Licurgo, sacerdote di Zeus, e di sua moglie Euridice, che le affida la cura del figlioletto Ofelte.457 La complessità della trama dell’Ipsipile consiste appunto nell’intreccio fra diversi filoni mitologici: durante la schiavitù di Ipsipile a Nemea giunge l’esercito degli argivi in marcia contro Tebe e, proprio per dissetare i soldati, su richiesta del sacerdote di Apollo, Anfiarao, Ipsipile lascia un istante il piccolo Ofelte causandone così involontariamente la morte per il morso di un serpente. La figura di Anfiarao rappresenta, in un certo senso, l’elemento di connessione fra il mito della guerra fra Argo e Tebe e quello di Ipsipile e del viaggio della nave Argo (quasi con un gioco sulla doppia accezione del nome ‘Argo’): a lui è infatti affidato il compito di salvare Ipsipile dalle ire di Euridice (decretando tra l’altro la nascita dei giochi Nemei in onore di Ofelte, cf. TrGF 71 F757, vv. 886 ss.) e di assistere al riconoscimento fra Ipsipile e i suoi due figli, giunti anch’essi a Nemea, che concorreva al definitivo recupero, da parte di Ipsipile, del suo ruolo sociale come legittima sovrana di Lesbo (cf. TrGF 71 F759a, vv. 1584-1589). Dopo la scena del riconoscimento (reso forse possibile da simboli dionisiaci, cf. TrGF 71 F759a, v. 1632), Euneo racconta alla madre ritrovata di essere stato condotto in Tracia, insieme con il fratello, dopo la morte del pa-
456 Sulle figure dei due figli di Ipsipile come creazione euripidea (Il. VII.469 conosce solo Euneo come re di Lemno), cf. Castellaneta, Euneo e la ‘musa asiatica’ di Euripide: per una restituzione dell’epigramma di Cizico AP 3.10, in corso di stampa. 457 Fra le testimonianze relative alla storia di Ipsipile sono importanti il racconto che Ipsipile fa a Adrasto (in una situazione analoga a quella della tragedia euripidea, cioè dopo avere offerto da bere all’armata argiva in marcia contro Tebe) nella Tebaide di Stazio (V.29 ss.) e la rielaborazione del mito nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (I.611 ss.).
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§ 2 Ipsipile: un Dioniso ‘orfico’ fra Lesbo, Nemea e Delfi
dre, da uno dei compagni di questi, il poeta Orfeo (TrGF 71 F 759a, vv. 1616-1623): Ὀρφεύς με καὶ τόνδ᾽ ἤγαγ᾽ εἰς Θρῄκης τόπον. [...] μοῦσάν με κιθάρας Ἀσιάδος διδάσκεται, τοῦτ[ο]ν δ᾽ ἐς Ἄρεως ὅπλ᾽ ἐκόσμησεν μάχης.458 Walter Burkert ha proposto infatti di ricostruire lo scenario religioso dell’Ipsipile come ‘orfico-dionisiaco’, ricollegandolo alle reali pratiche religiose dell’Atene del tardo V secolo e mettendo in luce la scelta (a quanto pare, un’innovazione) euripidea di fare di Orfeo l’‘educatore’ dei discendenti di Dioniso sia nell’arte poetica sia in quella militare: tale scelta non solo permette di connotare il dionisismo dell’Ipsipile in senso ‘orfico’, ma, attraverso la figura di Euneo, getta, per così dire, un ponte con l’Atene contemporanea, dove alla famiglia degli Euneidi, che vantavano appunto la discendenza da Euneo, era riservato il sacerdozio di Dioniso Melpomenos, in virtù della loro eccellenza nella citarodia. Come ipotizzava già Wilamowitz (cf. TrGF 71 F759a, vv. 1619-1623), Dioniso, nella sua apparizione conclusiva, avrebbe esplicitato il futuro ruolo di Euneo come fondatore degli Euneidi, attribuendo così alla tragedia una funzione eziologica rispetto al suo stesso culto come Melpomenos. L’Ipsipile ci permetterebbe quindi di scorgere un influsso orfico su questo culto dionisiaco ateniese.459 Gli elementi orfici, come vedremo, agiscono sul dramma a più livelli, dal ruolo rivestito da Orfeo stesso (seppure compaia solo, a quanto pare, attraverso i racconti degli altri personaggi) nella vicenda personale di Ipsipile e dei suoi figli a allusioni di carattere dottrinario, cultuale e cosmogonico alla religiosità e alla poesia orfica (cf. avanti). L’orfismo dell’Ipsipile risulta d’altra parte indissolubilmente legato al dionisismo, come emerge esplicitamente dalla discendenza stessa della protagonista.460 Analizzeremo quindi nel dettaglio lo sfondo orfico-dionisiaco dell’Ipsipile, estendendo la rifles458 Sull’importanza del fr. 759a come testimonianza della tradizione che legava la famiglia degli Euneidi di Atene alle figure di Orfeo e Dioniso, cf. Burkert (2002a), 112 ss.; sul ruolo di Orfeo come educatore, cf. Macías Otero (2009), 1188-1189. 459 Cf. Burkert (2002a), 112-119; Cassio (2000), 99-105. Sul culto di Dioniso Melpomenos e sulla sua relazione con l’Ipsipile, cf. Hardie (2012), 163-169; Hardie ravvisa tra l’altro (p. 173) un’allusione non troppo velata all’epiteto Melpomenos nella κίθαρις μελπομένα con cui Ipsipile si riferisce alla cetra di Orfeo e al suo ruolo sulla nave Argo (TrGF 71 F752g, vv. 10-12). 460 Anche la vicenda del piccolo Ofelte, secondo A. Hardie, sembra rievocare con specifiche allusioni (fra cui la menzione di uno specchio, per cui cf. avanti,
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sione alla rappresentazione eschilea, nella Licurgia, di un analogo scenario religioso. § 2.1.2 La Licurgia di Eschilo Poiché la cura che Orfeo si prende dei figli di Ipsipile, come riferisce Euneo alla fine della tragedia, sembra esaltare la devozione del poeta per la figura divina di Dioniso, il riferimento alle “donne degli Edoni”, pur presente nella tragedia (cf. TrGF 71 F759a: si tratta di una nota a margine del testo, Ἠδωνίσι Θρᾳκίαις e, sotto, Πάγγαιον ὄρος τῆς Θρᾴκης), difficilmente poteva implicare quello alla morte di Orfeo per mano delle baccanti di Tracia (cf. le Bassaridi, qui sotto), ma soltanto alla vicenda dei rapporti fra Dioniso e Licurgo re degli Edoni, colpevole di aver perseguitato il dio e il suo culto (su cui cf. avanti). D’altra parte non possono nemmeno essere trascurati i rapporti delle tragedie dionisiache di Euripide (comprese, ovviamente, le successive Baccanti) con la tetralogia di Eschilo, non pervenutaci, composta appunto da Edoni, Bassaridi, Neaniskoi e il dramma satiresco Licurgo (cf. qui sopra, nota 442). Gli Edoni sarebbero in particolare da considerare il modello delle Baccanti: Dioniso, giunto in Tracia, presso gli Edoni, dall’Oriente,461 per portarvi il suo ‘nuovo’ culto, si trovava a fronteggiare l’opposizione del re Licurgo. Secondo la traccia fornita da Apollodoro (Bibl. III.5.1), il dramma avrebbe messo in scena l’imprigionamento delle baccanti da parte di Licurgo e la loro successiva liberazione a opera di Dioniso, che, reso pazzo il re, lo avrebbe indotto a uccidere il figlio; su ordine del dio, gli Edoni stessi avrebbero legato infine Licurgo sul monte Pangeo, dove cavalli imbizzarriti lo avrebbero sottoposto allo σπαραγμός.462 § 2.2) la passione del Dioniso orfico, dalla morte ‘violenta’ alla divinizzazione; osserviamo qui che nel caso di Ofelte si tratta dell’attribuzione di un culto eroico come dedicatario dei giochi Nemei – del resto, nella lamina di Petelia, più volte citata, il mista si unisce, dopo la morte, agli “altri eroi” (cf. fr. 476.11 Bernabé). Tale interpretazione renderebbe altresì coerente, nel segno di Dioniso, la relazione fra i due miti eziologici del dramma, la fondazione dei giochi Nemei e del culto di Dioniso Melpomenos; cf. Hardie (2012), 171-173. 461 La connotazione orientale di Dioniso sembra emergere dal frammento TrGF III F59, in cui si parla (evidentemente in riferimento all’abbigliamento del tiaso dionisiaco) di χιτῶνας βασσάρας τε [due termini pressoché sinonimi, stando ai lessici antichi] Λυδίας ποδήρεις [lunghi fino ai piedi]. 462 Cf. West (1983a), 63, dove si ritengono pertinenti alla trama tragica, oltre alla follia di Licurgo e alla conseguente morte del piccolo Driante, anche la prigio-
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Quanto alle Bassaridi, le nostre informazioni sono ancora più scarse: la testimonianza più importante è quella dei Catasterismi di Eratostene (cap. 24, cf. TrGF III, 138-139), che ci parla di un conflitto fra Dioniso e Orfeo (e a cui fa probabilmente riferimento anche Nietzsche quando, nella Nascita della tragedia, paragona la condanna a morte di Socrate a quella di Orfeo sbranato dalle menadi, nell’ambito della sua, pur discutibile, contrapposizione fra ‘irragionevolezza’ eschilea e ‘socratismo estetico’ euripideo463). Quest’ultimo, pur dovendo la sua fama a Dioniso (ὑφ᾽ οὗ [Dioniso] ἦν δεδοξασμένος), dopo essere disceso nell’Ade per recuperare la sposa Euridice e aver visto “le cose di laggiù” (διὰ τὴν γυναῖκα εἰς Ἅιδου καταβὰς καὶ ἰδὼν τὰ ἐκεῖ οἷα ἦν), avrebbe cessato di adorare Dioniso e avrebbe celebrato invece il Sole, identificato con Apollo, come massima divinità (τὸν μὲν Διόνυσον οὐκέτι ἐτίμα, ὑφ᾽ οὗ ἦν δεδοξασμένος, τὸν δὲ Ἥλιον μέγιστον τῶν θεῶν ἐνόμισεν, ὃν καὶ Ἀπόλλωνα προσηγόρευσεν); attiratosi così l’ira di Dioniso, sarebbe stato fatto a brani, “come dice il poeta Eschilo”, dalle Bassaridi mandate dal dio. Se possiamo sicuramente ricondurre a Eschilo la morte di Orfeo, dovuta all’ira del dio, per mano delle baccanti di Tracia, sussistono molti dubbi in merito all’origine eschilea delle altre notizie fornite da Eratostene.464 nia e la liberazione delle baccanti. West riconduce invece a altri filoni narrativi, alternativi a Eschilo, sia la morte di Licurgo sul Pangeo sia la fuga di Dioniso in mare, dove il dio si rifugia per sfuggire alle persecuzioni di Licurgo (particolare riferito da Apollodoro, presente anche in Il. VI.135 ss.). Eppure non si può escludere che la rocambolesca fuga di Dioniso fosse narrata per esempio da un messaggero: poiché infatti nel racconto di Apollodoro il momento in cui Dioniso si mette in salvo in mare e quello in cui le sue seguaci vegono imprigionate appaiono strettamente collegati (sintatticamente per mezzo di un δέ), è verosimile ipotizzare che fossero presenti entrambi nell’originaria trama eschilea. 463 Cf. Nietzsche (1967), 119. 464 La versione più ampia della storia della costellazione della Lira è conservata in due manoscritti (Vat. gr. 1087 = T e Marc. gr. 444 = R, che sembra dipendere dal primo), che contengono particolari omessi invece nella versione vulgata dei Catasterismi, quali la menzione della discesa nell’Ade διὰ τὴν γυναῖκα, la visione di τὰ ἐκεῖ e il dettaglio relativo alla fama di Orfeo dovuta a Dioniso. Tali informazioni aggiuntive sono però confluite nella tradizione latina di Arato (sul testo dei Catasterismi e sulle sue relazioni con il materiale latino riconducibile a Arato, cf. West (1983a), 64-65; TrGF III, 138-139), che sembra appunto confermare il legame dell’ira di Dioniso non solo con la tragedia di Eschilo, ma anche con l’ingratitudine di Orfeo verso il dio. Quest’ultima rimane un dato costante fin dai più antichi scholia Basileensia (l’apparato scoliastico relativo alla traduzione dei Phainomena attribuita a Germanico, la quale, per il passo in questione, fornisce la versione più ampia: qui cum ob coniugis Eurydices desiderium ad inferos descendisset et quae ibi essent animadvertisset, neglegentius Liberum colere coe-
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Sono state avanzate diverse ipotesi sulla questione: secondo la proposta di West, Orfeo, da seguace di Dioniso negli Edoni, sarebbe divenuto poi ‘apostata’ del culto dionisiaco nelle Bassaridi (le verità di cui il cantore tracio sarebbe venuto a conoscenza nell’Ade, nella sua catabasi alla ricerca della sposa, lo avrebbero indotto a volgersi a un nuovo culto solare, che sarebbe da ricondurre alla tradizione orfica sorta nell’ambito del pitagorismo).465 Per ovviare al problema, insito in questa ricostruzione, della rappresentazione da parte di Eschilo di un Dioniso falso e bugiardo, portatore di un messaggio ingannevole e uccisore dell’innocente Orfeo, reo soltanto di aver smascherato la falsità del dio, Di Marco466 ha ipotizzato un Orfeo adoratore, fin dal principio della tetralogia, di un dio solare inscrivibile all’interno della religione preesistente in Tracia (piuttosto che del pitagorismo)467 e incorso quindi nell’ira di Dioniso alla stessa stregua di Licurgo, in quanto oppositore del suo culto; al termine della trilogia avrebbe copit [l’espressione suggerisce una precedente devozione per Dioniso] solemque Apollinem dixit esse [...]. Liber indignatus misit bacchas, ut Aeschylus scribit, quae eum membratim discerpsere; cf. schol. Basil. in Germ. p. 84.6 ss. Breysig), fino alla versione del cosiddetto “Arato latino” (un corpus formatosi nell’VIII secolo e derivante da uno precedente, ora perduto, risalente al IV sec. d.C.; cf. Le Bourdellès 1985). Quanto al mito della catabasi di Orfeo, sia gli altomedievali scholia Sangermanensia (appartenenti al corpus della cosiddetta Arati Latini Retractatio, cf. p. 151.19 ss. Breysig) sia i successivi scholia Strozziana in Germanicum (che recepiscono la tradizione precedente, compresi i più antichi scholia Basileensia, cf. p. 151.9 ss. Breysig) menzionano sempre l’abbandono da parte di Orfeo del culto di Dioniso a favore di quello del Sole o di Apollo e, pur non soffermandosi sulla catabasi di Orfeo in quanto elemento qualificante della vicenda, ne danno comunque sia notizia. Se fosse dunque vero che la precedente devozione di Orfeo per Dioniso e la catabasi del poeta in quanto origine della sua ingratitudine verso il dio fossero frutto di un’interpolazione (cf. Di Marco (1993), 124), seppure antica, nel testo di Eratostene, si dovrebbe ritenere (possibilità comunque sia non inverosimile) la tradizione relativa a Arato, tutto sommato abbastanza coerente al suo interno, dipendente da un testo interpolato di Eratostene (tra l’altro attestato, come si è detto, in due soli manoscritti Vaticani, T e R, forse dipendenti l’uno dall’altro) invece che da quello genuino. 465 Cf. West (1983a), 64-70. Sulla possibilità che fossero noti a Eschilo poemi orfici, composti nell’ambito del pitagorismo ‘apollineo’ e relativi a una catabasi di Orfeo, cf. West (1983a), 67-69; Seaford (2005), 602-606; Tortorelli Ghidini (2013), 155-156. Tale tradizione (a cui possono essere ricondotte le notizie di poemi intitolati Catabasi nell’Ade e Cratere, cf. Clem. Al. Strom. I.131) potrebbe essere riflessa nel passo plutarcheo Ser. num. vind. 566c; cf. tuttavia il diverso parere di Di Marco (1993), 119-120. 466 Cf. Di Marco (1993), 121 ss.. 467 Cf. Di Marco (1993), 129-131, dove si sottolinea il «posto di rilievo» occupato dal culto del Sole presso alcune tribù tracie, una devozione che Sofocle, nel Te-
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munque sia avuto luogo una riappacificazione, nel segno di Orfeo, fra Apollo e Dioniso, che avrebbe appunto accettato di diventare il dio di quei riti non cruenti, in opposizione a quello dionisiaco dello σπαραγμός, di cui Orfeo in vita era stato il sacerdote.468 Se risulta difficile spiegare come l’Orfeo adoratore di Elio-Apollo, oppositore di Dioniso e vittima della sua collera, potesse diventare il fondatore dei culti orfici in un nuovo quadro cultuale prevalentemente dionisiaco, incentrato sulla colpa originaria dello σπαραγμός di Dioniso stesso da parte dei Titani, non si può tuttavia nemmeno negare l’effettiva difficoltà di supporre che Eschilo abbia offerto una rappresentazione di Dioniso come dio bugiardo, che Orfeo avrebbe smascherato e sarebbe stato per questo ingiustamente punito dalla collera del dio. Eppure, ritenendo appartenente alla tragedia eschilea il motivo della discesa di Orfeo nell’Ade alla ricerca di Euridice, diventerebbe centrale, nella relazione fra Orfeo e Dioniso, l’esito dell’impresa di Orfeo, che, secondo la tradizione successiva, sarebbe stato fallimentare: le allusioni più vicine a Eschilo alla catabasi del poeta in cerca della sposa sono nell’Alcesti di Euripide (vv. 357 ss.), dove l’esito non è menzionato, e nel Simposio di Platone (179b-d), che esplicitamente parla di un fallimento. In ogni caso, entrambi questi autori contano sulla conoscenza, da parte del loro pubblico, di un mito ben noto, forse proprio attraverso l’originaria versione eschilea.469 “Le cose viste nell’Ade”, di cui fa menzione Eratostene, potrebbero così essere
reo, ci conferma che fosse nota a Atene (TrGF IV F582, su cui cf. anche West (1983a, 67-68, dove però la religiosità di Orfeo è considerata come frutto di una «rivelazione personale», priva di reali agganci con i culti degli Edoni). Sul legame della tradizione relativa a Orfeo in generale con i culti traci, cf. De Simone (2016), 182-184. 468 Cf. Di Marco (1993), 150-152. In favore di una riconciliazione finale fra Orfeo, Dioniso e Apollo, cf. anche Macías Otero (2009), 1200-1202, dove si propende però, sulla linea di West, per vedere nell’apostasia di Orfeo l’origine del suo contrasto con Dioniso. 469 Sulle ampie corrispondenze fra la tragedia euripidea e il Simposio platonico, cf. Assaël (2016). L’ipotesi dell’appartenenza dell’episodio della catabasi di Orfeo alle Bassaridi si scontrerebbe, secondo Di Marco (1993), 121, note 48-49, con la posteriorità, rispetto a Eschilo, della nascita del mito della catabasi di Orfeo; l’attestazione stessa del nome “Euridice” per la sposa di Orfeo sarebbe tra l’altro ancor più tarda (I sec. a.C., test. 986 Bernabé). Non è però forse un caso che il nome Euridice compaia proprio nell’Ipsipile euripidea come madre di un bambino morto per il morso di un serpente (cf. avanti); sulla sposa di Orfeo, cf. testt. 978-999 Bernabé. Quanto poi all’antichità del mito della catabasi fallimentare di Orfeo, un bassorilievo attico della seconda metà del V sec. a.C. (conservato in due copie romane a Parigi e a Napoli), ci permette di individuare una rappresen-
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inserite nel contesto del mito che vede Orfeo incapace, per la sua umana debolezza, di riportare in vita la sposa. Assumendo questa prospettiva, sarebbe legittimo ipotizzare una possibile critica di Eschilo al messaggio salvifico della religiosità orfico-dionisiaca espressa, piuttosto che in un attacco diretto a Dioniso come ‘dio falso e bugiardo’, indirettamente, nella rappresentazione dell’incapacità di Orfeo di garantire la vita dopo la morte (come invece prometterebbero le dottrine a lui ascritte).470
tazione del definitivo distacco di Orfeo da Euridice nell’Ade (per cui, cf. Olmos (2009), 171-173); cf. al riguardo Bernabé (2011), 25-31. Tale testimonianza iconografica sembra pressoché coeva a quella letteraria dell’Alcesti di Euripide (438 a.C.), vv. 357 ss. (prima attestazione letteraria della catabasi di Orfeo), dove Admeto lamenta di non possedere “la lingua e il canto di Orfeo” così da “incantare” Persefone e Ade e sottrarre la sposa al regno dei morti: data la testimonianza del bassorilievo sulla versione fallimentare della catabasi, potremmo attribuire la scelta di Euripide, in linea con il suo atteggiamento spesso ‘critico’ verso la tradizione, di tacere l’esito negativo (il discorso di Admeto sembra anzi alludere al contrario; cf. al riguardo Semenzato (2016), 312-313), pur noto, della catabasi di Orfeo alla necessità di evitare che l’incapacità di Orfeo di riportare in vita la sposa suggerisse la sua incapacità di garantire la vita dopo la morte. Platone dal canto suo, nel Simposio (179b-d), mette a confronto coloro che sono e coloro che non sono capaci di morire per la persona amata, per esempio Alcesti e Orfeo, accusando quest’ultimo di essere penetrato vivo nell’Ade perché non abbastanza coraggioso da morire per amore e per questo condannato dagli dei a portare via con sé soltanto il φάσμα della donna amata. Nulla dunque induce a escludere che sia il bassorilievo sia Euripide e Platone si rifacessero a una stessa tradizione precedente, che poteva avere proprio in Eschilo un punto di riferimento. Sulla questione, cf. Macías Otero (2009), 1189-1194, secondo cui sarebbe esistita, nell’Atene del V-IV sec., una nota e diffusa versione del mito della fallimentare catabasi di Orfeo alla ricerca della sposa, nota a Euripide e Platone (non viene però fatto il nome di Eschilo); Tortorelli Ghidini (2013), 153-154. 470 Proclo (cf. Comm. in Plat. Remp. I, 174.30-175.3 Kroll) mette direttamente in relazione la nascita del μῦθος dello σπαραγμός di Orfeo, la stessa morte inflitta dai Titani a Dioniso, con il fatto che Orfeo fosse l’ἡγεμών delle sue τελεταί, senza però menzionare le baccanti come autrici: la tradizione dello σπαραγμός di Orfeo sembrerebbe dunque sorta per assimilare il profeta al suo dio. Nella tragedia eschilea, però, tale assimilazione è resa più complessa dal fatto che è Dioniso stesso a volere quella morte per Orfeo: poiché infatti lo σπαραγμός animale caratteristico del rito dionisiaco non sembra essere privo di legami con la necessità di rievocare ritualmente quegli stessi πάθη del dio, come emerge, nelle Baccanti, dal sacrificio di Penteo, che si configura come un ‘doppio’ di Dioniso (sull’identità fra divinità e vittima sacrificale non solo nelle Baccanti ma in generale nelle culture i.e., cf. Janda (2010), 133-146), possiamo ipotizzare, nel contesto delle Bassaridi, che Orfeo muoia della stessa morte di Dioniso o perché il dio intende infliggere a Orfeo gli stessi suoi πάθη, ormai trascurati dal cantore come oggetto di culto, o, nella prospettiva di un’eventuale sottostante critica di Eschilo al com-
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Potrebbe forse, a questo punto, essere formulata anche un’eventuale ipotesi sulla giustificazione drammatica del volgersi di Orfeo a un culto solare, ossia come volontà di opposizione alle forze infere e ctonie, ‘colpevoli’ di trattenere la sposa.471 Snodi centrali della trama delle Bassaridi eschilee, secondo questa ipotesi di ricostruzione, sarebbero dunque l’iniziale devozione di Orfeo per Dioniso, messa in crisi dal fallimentare esito della catabasi del poeta alla ricerca della sposa e quindi tramutatasi in devozione per Elio-Apollo, con conseguente ira e vendetta di Dioniso. La partecipazione di Orfeo al culto dionisiaco Potremmo trovare una possibile conferma della partecipazione di Orfeo, in una prima fase dello sviluppo drammatico, al culto dionisiaco in Strabone (X.3.16), che ci tramanda appunto uno dei più ampi frammenti degli Edoni di Eschilo (TrGF III F57), introducendolo così: τούτοις [τοῖς Φρυγιακοῖς] δ᾽ ἔοικε καὶ τὰ παρὰ τοῖς Θρᾳξί, τά τε Κοτύτεια καὶ τὰ Βενδίδεια, παρ᾽ οἷς καὶ τὰ Ὀρφικὰ τὴν καταρχὴν ἔσχε. Il testo prosegue con la citazione di un verso anapestico degli Edoni, riferito appunto al culto della tracia Kotyto (σεμνᾶς Κοτυτοῦς ὄργι᾽ ἔχοντες), a cui Strabone dice che, nella tragedia di Eschilo, facesse seguito “immediatamente” (εὐθέως) la menzione del corteggio dionisiaco. La successiva citazione eschilea ci presenta infatti due personaggi (maschili), uno dei quali suona i βόμβυκες (flauti dalla tonalità bassa), emettendo suoni descritti come μανίας ἐπαγωγὸν ὁμοκλάν (“grido apportatore di follia”), mentre l’altro χαλκοδέτοις κοτύλαις ὀτοβεῖ (“strepita con cembali di bronzo”); il quadro è completato da un altro gruppo di versi, dove si parla di “mimi” che imitano, nascosti, il muggito dei tori e del diffondersi del suono del timpano, plesso cultuale orfico-dionisiaco, perché Orfeo deve scontare la stessa morte da lui attribuita nei suoi poemi a un dio immortale (cf. Isocr. Bus. 38-39; sulla relazione fra Dioniso e la morte, cf. avanti, nota 486). Le Bassaridi eschilee presentavano d’altronde, a differenza delle Baccanti euripidee, l’interferenza del culto apollineo, che poteva configurarsi come un modello religioso alternativo rispetto a quello orfico-dionisiaco. Sull’affinità fra le morti di Dioniso e Orfeo si vedano, in una diversa prospettiva, Di Marco (1993), 134; Tortorelli Ghidini (2013), 154. 471 Dobbiamo inoltre tenere presente che la catabasi di Orfeo rievoca e si contrappone allo stesso tempo a quella, coronata invece da successo, di Dioniso nell’Ade per recuperare Semele: Diodoro Siculo dice esplicitamente, a proposito della discesa agli inferi di Orfeo alla ricerca della sposa, παραπλησίως τῷ Διονύσῳ.
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paragonato a un tuono sotterraneo. Sono tutti motivi (flauti, cembali, timpani, tori, tuoni) dionisiaci, che, secondo Strabone, Eschilo avrebbe associato al culto tracio della dea Kotyto: è verosimile ipotizzare, dunque, che Dioniso trovasse bensì in Tracia l’opposizione di Licurgo, ma non degli adoratori di Kotyto, che avrebbero anzi trovato delle affinità con il nuovo culto portato dal dio (si tratta di un contesto affine a quello dei riti di Dioniso e della Madre degli dei ricondotti alla Frigia e, in generale, all’Asia Minore; cf. qui sopra, cap. II.1.2.1).472 Dall’altro lato, la menzione da parte di Strabone della nascita dei riti orfici “presso i traci”473 è messa direttamente in relazione con lo scenario, affine a quello metroaco-dionisiaco frigio, dei culti di Kotyto e Dioniso: non è quindi forse da escludere che negli Edoni Orfeo comparisse appunto come seguace di Dioniso e membro del suo tiaso. Al v. 7 del fr. 57, citato da Strabone, leggiamo infatti ψαλμὸς δ᾽ ἀλαλάζει: l’evocazione del suono di uno strumento a corde (tale è appunto lo ψαλμός, cf. Liddell-Scott, s.v.), emesso nel frastuono di flauti, cembali e timpani, potrebbe appunto riferirsi alla presenza di Orfeo.474
472 Strabone ricorre infatti a questi passi degli Edoni di Eschilo (dove si ricordi che Dioniso aveva una connotazione orientale) appunto per esemplificare la somiglianza fra culti traci e frigi e questi ultimi, come leggiamo in X.3.15, sono appunto quelli in onore di Bacco e Cibele. 473 In Di Marco (1993), 151-152 si considera la testimonianza di Strabone come una prova del fatto che Eschilo, al termine della trilogia tragica, celebrasse la fondazione dei riti orfici: Strabone, che si accinge a citare alcuni passi della Licurgia – in particolare degli Edoni –, menzionerebbe la nascita in Tracia di quei riti sulla base di quanto messo in scena da Eschilo stesso. I riti orfici potrebbero d’altronde profilarsi, piuttosto che – o prima che –, secondo l’ipotesi di Di Marco, nella riconciliazione, successiva alla morte di Orfeo, fra Dioniso e Apollo, nella rappresentazione di Orfeo come seguace di Dioniso offerta da Eschilo negli Edoni (la tragedia stessa citata da Strabone). 474 Negli Edoni (TrGF III F60), il μουσόμαντις di cui un non identificato personaggio chiede l’identità potrebbe essere allora proprio Orfeo, indicato come “profeta delle Muse” e sottoposto, insieme con gli altri seguaci di Dioniso, alla persecuzione di Licurgo (così West (1983a), 69; cf. inoltre Di Marco (1993), 131-133). Aristofane, che negli Uccelli (v. 276) evoca infatti questo verso eschileo (cf. schol. in Av. 276b, p. 49 Holwerda), indicando come ὁ μουσόμαντις ἄτοπος ὄρνις ὀροβάτης uno degli uccelli membri del coro (tra l’altro il nome dell’uccello, Medo, suggerisce una connotazione orientale), potrebbe, data la presenza, negli Uccelli, di echi orfici nella cosmogonia cantata dal coro (vv. 689 ss., per cui cf. avanti), alludere appunto a Orfeo – un Orfeo senz’altro dionisiaco, come dimostra l’aggettivo ὀροβάτης. Inoltre, un’ulteriore conferma che il μουσόμαντις eschileo si riferisca alla presenza di Orfeo, potrebbe venire da Eratostene (Cat. 24), il quale, riguardo allo σπαραγμός di Orfeo, afferma che le Muse avrebbero ricomposto
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Lo sfondo dionisiaco della catabasi e della successiva morte di Orfeo L’associazione fra la fallimentare anabasi di Euridice e la morte di Orfeo per mano delle baccanti, in associazione quindi con il tema dionisiaco, ricorre anche in Virgilio (Georg. IV.456 ss.) e Ovidio (Met. X.1 ss.; XI.1 ss.): sebbene entrambi gli autori latini insistano sul motivo del rifiuto delle donne in genere da parte del poeta, come se la partecipazione ai misteri di Bacco di quelle che causano la sua morte fosse una coincidenza (cf. Verg. Georg. 520-522),475 in Ovidio sembra profilarsi anche l’originario conflitto eschileo fra Apollo e Dioniso, scatenato appunto, secondo la testimonianza di Eratostene, dall’abbandono, da parte di Orfeo, dopo la morte di Euridice, del culto dionisiaco in favore di quello apollineo. In Met. XI.7-18 è infatti netta la contrapposizione fra i simboli apollinei propri di Orfeo (chiamato addirittura vates Apollineus), quali la cetra e la lira, e quelli dionisiaci (il tirso, che funge anche da arma, i timpani e le urla selvagge) delle baccanti, che sembrano ingaggiare per così dire una lotta, religiosa e musicale allo stesso tempo, contro il poeta. Orfeo adoratore di Apollo In ogni caso, per comprendere la scelta di Eschilo di fare di Orfeo un adoratore di Elio-Apollo, occorre tenere presente, oltre alle pratiche religiose esistenti nella realtà cultuale della Tracia, l’importante ruolo rivestito dalla Luce e dal Sole nelle dottrine orfiche. Innanzitutto ricordiamo quanto detto qui sopra in cap. I.1.1.1, ossia che il dio Protogonos, nelle teogonie orfiche, si configura innanzitutto come luce che irrompe nelle tenebre.476
il corpo straziato del divino cantore per dargli degna sepoltura. Comunque sia, sulla reale presenza di strumenti a corda nei riti della Madre Frigia o in ogni caso riconducibili all’ambito metroaco, cf. De Simone (2016), 113-114. 475 Sulle attestazioni relative alla morte di Orfeo per mano di donne tracie, cf. West (1983a), 66-67, dove si ritiene un’innovazione di Eschilo il fatto che queste donne fossero seguaci di Dioniso. 476 Cf. Rapsodie, frr. 121; 123; 125; 126; 127; 136 Bernabé (in quest’ultimo il dio è inoltre dotato di “ali dorate”, un elemento che compare anche nella teogonia “ieronimiana”, cf. fr. 80 Bernabé). Il dio “primo nato” ha poi molti nomi, fra cui Phanes (legato all’idea dell’apparizione luminosa, cf. frr. 80-81 Bernabé dalla teogonia “ieroniminana” e i frr. 121 ss. Bernabé dalle Rapsodie), Eros (frr. 141; 144 Bernabé) e Bromio (fr. 141 Bernabé), ossia Dioniso stesso. Il Sole rivestirebbe un ruolo centrale anche nella teogonia di Derveni; cf. Brisson (2003), 19-29.
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Le lamine orfiche ci offrirebbero poi il riflesso cultuale di tali dottrine: il testo di una lamina di Turi (fr. 492 Bernabé, IV-III sec. a.C.), interpretabile come un ‘sunto’ delle dottrine cosmologiche e escatologiche orfiche,477 permetterebbe infatti di associare il ricorrente tema della luce, del sole e del fuoco (vv. 2; 6; 7; 8) a Dioniso, il quale sarebbe da identificare con il Phanes menzionato al v. 3 (Dioniso risulterebbe altrimenti l’unico non nominato fra tutte le divinità del pantheon orfico, Protogonos, Zeus, Demetra-Terra, Persefone). Suggeriamo la possibilità di un riscontro iconografico di questa interpretazione nel celeberrimo “cratere dell’Oltretomba” conservato alle Antikensammlungen di Monaco di Baviera, datato al 330 a. C. (n. 3297, cf. LIMC, IV, 385-386, n. 132): al centro della scena è un ναΐσκος, che simboleggia il palazzo di Ade, all’interno del quale vediamo il re e la regina dei morti (l’uno seduto e l’altra in piedi); all’esterno, Orfeo, riconoscibile dall’abbigliamento orientaleggiante, suona la cetra come per ‘persuadere’ i sovrani inferi a accogliere una famiglia di iniziati che lo segue;478 circondano la scena centrale immagini relative ai supplizi dell’oltretomba (Tantalo e Sisifo) e alla fatica di Eracle, disceso nell’Ade per catturare Cerbero. Sul collo del vaso è raffigurato il Sole, sul suo cocchio, nell’atto di inseguire la Luna: la relazione di Orfeo con la dimensione solare della luce è quindi un elemento portante dell’intera struttura compositiva. Se però consideriamo la scena rappresentata sull’altro lato, troviamo anche qui una struttura architettonica, all’interno della quale si trova il defunto servito da un πρόπολος; sul collo, questa volta, c’è Dioniso, seduto, incoronato dalla Nike alata.479 Considerando il vaso nel suo complesso, dunque, Dioniso e il Sole rappresentano, in un contesto intriso di elementi orfici, due facce della stessa medaglia, accomunati dalla loro capacità di vincere sulla mor-
477 Cf. Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 137-149. 478 All’orfismo sembrano riconducibili anche i tre ‘giudici’ dell’oltretomba, che siedono, al di fuori del palazzo, sul lato destro della scena (sulla loro identificazione come Radamanti, Trittolemo e Eaco, cf. LIMC, I, 311-312, n. 3); sulla questione dei giudici nell’aldilà orfico, cf. avanti, cap. VI.2.3, nota 792. 479 Osserviamo inoltre, nella parte inferiore della scena principale, dove è rappresentato Eracle nell’atto di condur via Cerbero, la presenza di due figure femminili, l’una sulla sinistra, intenta a sferzare Sisifo condannato al suo supplizio, l’altra sulla destra, che tende minacciosa le fiaccole che ha nelle mani in direzione di Eracle: i due personaggi, identificabili con delle Erinni, indossano una tunica corta, una sorta di stivali da caccia e una pelle maculata di leopardo. Si tratta dunque di un abbigliamento dionisiaco, che non è infrequente nelle raffigurazioni delle Erinni (cf. Lada-Richards (1999), 181-182), e che, in questo caso, si arricchisce di ulteriori significati, data la presenza di Orfeo nella parte superiore della scena e di Dioniso stesso sul lato opposto del vaso.
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te.480 Benché dunque il legame di Dioniso con la sfera solare sia esplicitamente attestato nella letteratura orfica a partire al più presto dall’età tardoellenistica,481 l’interpretazione riportata qui sopra della lamina di Turi e del cratere di Monaco ci permette di risalire al tardo IV sec. a.C.. Quanto alla figura di Apollo, che è senz’altro legata a Orfeo, di cui compare come padre in una versione della biografia del cantore nota già a Pindaro (cf. Pyth. IV.176-177),482 essa consente un’associazione con la luce e con il Sole senz’altro più immediata,483 sebbene la sua presenza nella realtà cultuale orfica sia più problematica di quella di Dioniso.484 È comunque sia lecito ritenere che, nel corso della sua evoluzione, l’orfismo abbia riela480 Per un’interpretazione del vaso volta a metterne in luce le connessioni con la religiosità orfica, cf. Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 288-290 (sulla presenza di Nike nella ceramica apula in contesti relativi all’aldilà, cf. 203); Olmos (2009), 168-170. 481 Diodoro Siculo (I.11), a proposito di Osiride, identificato a sua volta con il Sole, cita appunto un verso di Orfeo, in cui “Dioniso” e “Phanes” compaiono come nomi di Osiride. Macrobio ci conferma questa sovrapposizione in Sat I.18.6 ss., dove si parla della sostanziale identità del Sole, Apollo e Dioniso; Macrobio sostiene che, sulla base dell’identificazione fra il Sole e Apollo e di quella fra Dioniso e Apollo (a dimostrazione della quale vengono menzionati i culti del Parnaso, della Tracia e i frammenti di Euripide e Eschilo citati qui sotto in nota 487), anche il Sole e Dioniso risultano essere la stessa divinità (cf. Sat. I.18.7). Tale identità è provata da Macrobio con il ricorso a alcuni versi tratti da un Inno al Sole attribuito a Orfeo (cf. Sat. I.18.12; 17-18; I.23.21-22; per le testimonianze complete relative all’inno, cf. frr. 538-545 Bernabé). In West (1983), 206; 253 si ritiene che le citazioni di Macrobio, che pure attinge a fonti neoplatoniche, e il verso di Diodoro si riferiscano allo stesso inno tardo-ellenistico; sulla questione cf. Delbrück, Vollgraff (1934), 134; Suárez de la Torre (2013), 66; sulla datazione dell’Inno al Sole cf. in generale Bernabé, PEG, II.2, 112. 482 Sulle caratteristiche apollinee di Orfeo, cf. Suárez de la Torre (2013), 67. 483 L’identificazione di Apollo con il Sole è implicita in due passi eschilei (Sept. 859; Supp. 213-14) e esplicita nel Fetonte di Euripide (TrGF 72 F781, vv. 224-225); in ambito orfico, oltre che da Eschilo, è attestata da Proclo in Theol. plat. VI.12 (fr. 323 Bernabé) e da Damascio in Comm. Plat. Phaed. 1.14 (fr. 322 Bernabé), secondo cui il Sole πολλὴν ἔχει πρὸς τὸν Διόνυσον κοινωνίαν διὰ μέσου τοῦ Ἀπόλλωνος κατ᾽ Ὀρφέα. Inoltre il proemio delle Rapsodie si apriva con un’invocazione a Apollo (fr. 102 Bernabé, v. 1), seguita da un’invocazione al Sole (v. 3), evidentemente assimilato al primo. Sull’assimilazione di Apollo al Sole, cf. Seaford (2005), 603-604. 484 I ritrovamenti archeologici a Olbia pontica ci hanno permesso di ricostruire un contesto religioso in cui convivevano culti orfico-dionisiaci, apollinei e metroaci. Le tavolette ossee risalenti al V sec. a.C., oltre a offrirci la più antica attestazione di una connessione fra orfismo e dionisismo, come avviene nella tavoletta n. 94 Dubois, presentano anche uno scenario apollineo nella tavoletta n. 93 (affine per materiale, contenuto e epoca alla tavoletta n. 94), mostrando altresì, for-
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borato e conciliato con sempre maggiore chiarezza tendenze religiose, presenti al suo interno, diverse ma accomunate fra di loro (teologia solare, dionisismo, relazione con la sfera di Apollo e delle Muse), manifestatesi fin da epoca molto antica. In questa prospettiva possiamo interpretare il fatto che l’orfismo si sia appropriato (almeno a partire da un certo momento), anche della connessione fra Apollo e Dioniso nell’ambito del contesto cultuale delfico: secondo Clemente Alessandrino (Protr. II.18.1-2),485 infatti, Zeus avrebbe consegnato a Apollo il corpo smembrato di Dioniso perché fosse sepolto sul Parnaso. Tzetze (schol. in Lyc. Alex. 208 p. 98.6 Scheer = fr. 36 Bernabé, per cui cf. cap. II.2.2, nota 277), racconta come i Titani, dopo aver ucciso Dioniso, lo abbiano gettato in un λέβης e lo abbiano poi collocato accanto al tripode delfico: Apollo avrebbe poi raccolto e ricomposto il corpo di Dioniso.486 se, un riferimento alla Madre degli dei, il cui culto sul Mar Nero è attestato fin dal VI sec., anche in connessione con Apollo Iatros (cf., oltre a Herod. IV.76, Lévȇque (2000), 83-86; Cruccas (2014), 193-194). Apollo compare anche più tardi, in un’iscrizione del IV sec. incisa su un vaso attico a figure nere, rinvenuto anch’esso a Olbia (n. 95 Dubois). Per un’interpretazione ‘orfica’ dei documenti apollinei di Olbia, collegati a comunità devote a Dioniso o a Apollo (come anche alle divinità ‘madri’, quali la Madre degli dei e Letò), cf. Lévȇque (2000), 89-90; Tortorelli Ghidini (2013), 152-153; Suárez de la Torre (2013), 68-70. Maggiore cautela è invece mostrata in Bernabé (2009a), 544-545, dove si parla di «una religiosità simile, benché a quanto pare non orfica, ma relazionata con quella». 485 Si tratta di una testimonianza forse riconducibile alle Rapsodie (cf. frr. 321-322 Bernabé). 486 Pausania (X.4.3; 32.7) e Plutarco (Prim. frig. 953c-d) ci informano sui culti celebrati sul Parnaso, con danze estatiche, da donne attiche e delfiche, le θυιάδες, che μαίνονται in onore di Apollo e Dioniso (cf. Paus. X.32.7); Plutarco (Is. Os. 365a) ci parla anche della credenza che a Delfi fossero conservati, nel santuario di Apollo, i resti di Dioniso, e di una cerimonia, compiuta dalle θυιάδες, consistente nel risveglio di Dioniso Λικνίτης. Sull’esistenza di una tomba di Dioniso a Delfi, attestata a partire dal IV sec., cf. Filocoro di Atene (FGrHist 328 F7b) e Dinarco di Delo (FGrHist 399 F1), che collega la persecuzione di Licurgo e la morte di Dioniso a Delfi (sul possibile rapporto della tradizione della tomba di Dioniso a Delfi con la figura di Zagreo, cf. qui sopra, cap. II.2.2, nota 277; sulle feste delfiche, Herois e Charilla, collegate rispettivamente all’ἀναγωγή di Semele e alla commemorazione del suicidio per impiccagione di Charilla, in cui pure erano coinvolte le θυιάδες, cf. Plut., Quaest. Gr. 293c-f). In ogni caso rimane un aspetto determinante dell’identità dionisiaca in generale, come già notava Kerényi, la capacità di sopravvivere o di rinascere (Dioniso è infatti il dio “dalle due nascite”) e le numerose reinterpretazioni del complesso rapporto del dio con la morte, quale la catabasi stessa del dio per sottrarre Semele all’Ade (cf. Plut. Quaest. Gr. 293c-f; Plut. Ser. num. vind. 566a; Diod. IV.25.4; Paus. II.31.2; 37.5; Apollod. Bibl.
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La figura di Orfeo, poeta appartenente alla sfera apollinea e allo stesso tempo profeta di un messaggio salvifico legato a Dioniso, si trova dunque all’incrocio di tradizioni mitiche e religiose differenti, che la letteratura orfica cerca, a partire almeno da un certo momento, di conciliare: uno dei principali punti di contatto fra Apollo e Dioniso sembra costituito dalla centralità della luce e del Sole nella teologia orfica. Eschilo, con la Licurgia, sembra farsi interprete del conflitto fra queste due facce di Orfeo e dell’orfismo, trovando una soluzione, almeno per quello che riusciamo a ricostruire, nell’accentuazione dell’appartenenza di Orfeo alla dimensione poetica di Apollo e delle Muse. Quanto allo sviluppo dell’azione teatrale e alla possibilità di una riconciliazione fra Dioniso e Apollo, forse con riferimento al contesto cultuale della Tracia, per cui sono infatti attestati sia un culto solare sia un culto oracolare di Dioniso (un Dioniso, dunque, con prerogative mantiche, da lui condivise con Apollo anche a Delfi), non sembra da escludere che avesse luogo, se non nelle Bassaridi, almeno al termine della trilogia tragica.487 Appare invece più difficile, sulla base delle nostre testimonianze, formulare ipotesi in merito a un’eventuale postuma riconcilia-
III.5.3) o la sua fuga in mare durante la persecuzione di Licurgo in Il. VI.135 ss. (la morte del dio ricompare invece nella versione di Dinarco; sull’elemento marino come segno del passaggio all’aldilà, cf. Daraki (1985), 34 ss.; cf. inoltre il rituale argivo in onore di Dioniso βουγενής, che veniva chiamato dall’acqua al suono di trombe, descritto in Plut. Is. Os. 364f e discusso in Lada-Richards (1999), 79), appaiono piuttosto dovute alla difficoltà per la religione greca di accettare l’idea della morte di un dio immortale; cf. Burkert (2010), 532; sul tabù della relazione fra gli dei e la morte nella Grecia classica, cf. Sandin (2008). L’orfismo sembra appunto sfruttare la figura di Dioniso, proprio in quanto dio capace di morire e risorgere, come perno della sua concezione cosmologica e escatologica: benché sia dunque difficile dire se il Dioniso che risorge a Delfi dipenda dall’influenza orfica o se sia l’orfismo a essere influenzato da culti preesistenti (cf. Suárez de la Torre (2013), 66), si potrebbe forse propendere per la seconda ipotesi. 487 Sull’argomento dei Neaniskoi, cf. West (1983a), 70 (relativo a un’organizzazione efebica dedita al culto di Apollo); Di Marco (1993), 151 (relativo alla nascita di riti orfici). Se ipotizziamo che gli Edoni sancissero l’affermazione del culto dionisiaco in Tracia, le Bassaridi segnassero una crisi fra Dioniso e Apollo e i Neaniskoi presentassero la nascita di quel culto solare evocato, per la Tracia, anche nel Tereo sofocleo, potremmo ricostruire uno scenario religioso affine a quello di Delfi e del Parnaso, dove troviamo una compresenza e, in un certo senso, una complementarità dei culti di Dioniso e Apollo (cf. Suárez de la Torre (2013), 64-65; Burkert (2010), 419-420; cf. anche qui sopra, nota 484): il Dioniso tracio appare per esempio, come quello delfico (per cui Soph. Ant. 1126-1130; Eur. Ion. 550-553; 714-718; 1122-1128), dotato di poteri mantici (cf. Herod. VII.111; ‘Eur.’ Rhes. 972-973; Eur. Hec. 1267). Del resto poiché anche nel prologo delle Eumeni-
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zione fra Dioniso e Orfeo, la cui grandezza poetica (come dimostra il mito stesso del catasterismo della lira narrato da Eratostene – al di là della sua presenza o meno nella tragedia eschilea) doveva in ogni caso ricevere qualche riconoscimento anche in tradizioni che accogliessero il motivo della punizione inflitta da Dioniso a Orfeo. Euripide, trovandosi a fare i conti con il modello eschileo, dove, forse per la prima volta (cf. qui sopra) veniva portata in scena la morte di Orfeo per mano delle seguaci di Dioniso, sembrerebbe quasi volervisi opporre, non solo con il motivo di Orfeo ‘educatore’ in Tracia dei nipoti del dio, ma anche, come vedremo avanti, introducendo nella trama dei rapporti fra Orfeo e Dioniso anche la figura del sacerdote di Apollo Anfiarao. Se le ipotesi fatte qui sopra in merito alla trama delle Bassaridi sono corrette, Euripide renderebbe ancor più esplicito il suo riferimento ‘polemico’ alla Licurgia con la vicenda del piccolo Ofelte: questi, morto per il morso di un serpente (TrGF 71 F754a) come la sposa di Orfeo, è a sua volta figlio proprio di un’Euridice (e di un Licurgo). La morte del bambino è tra l’altro l’elemento che mette in moto la crisi del dramma, esattamente come poteva avvenire nelle Bassaridi con la morte di Euridice (sulla figura di Ofelte, cf. anche qui sopra, nota 460).488 di (vv. 24-25, da mettere forse in relazione con l’adespoto TrGF II F291), la vittoria di Dioniso sul suo oppositore Penteo viene collegata alla figura di Apollo e all’affermarsi del culto dionisiaco a Delfi, siamo indotti a ipotizzare qualcosa di analogo anche per la Licurgia, dove antagonisti del dio erano invece Licurgo e, successivamente, Orfeo. Quanto al frammento eschileo da fabula incerta TrGF III F341, ὁ κισσεὺς Ἀπόλλων, ὁ βακχειόμαντις, è stato attribuito sia agli Edoni (in quanto rappresentazione di un Orfeo con attributi apollinei e dionisiaci; cf. Tortorelli Ghidini (1993), 156) sia alle Bassaridi (come appartenente a un’antifona in cui Orfeo e le bassaridi contrappongono le loro invocazioni rispettivamente a Apollo e a Dioniso; cf. West (1983a), 70 e in precedenza Nauck) sia ai Neaniskoi (in quanto prova dell’avvenuta conciliazione, al termine della trilogia tragica, fra le due divinità; cf. Di Marco (1993), 133-134). In Macr. Sat. I.18.6, dove è tramandato il frammento eschileo, quest’ultimo viene collegato a un frammento del Licimnio di Euripide (TrGF 43 F477), δέσποτα φιλόδαφνε Βάκχε παιὰν Ἄπολλον εὔλυρε (qui sembra piuttosto Dioniso a essere inglobato nella figura di Apollo dato che gli epiteti attinenti all’alloro, alla guarigione e alla lira pertengono a quest’ultimo), benché l’assenza del contesto ci impedisca di formulare ipotesi più precise in merito. 488 Se accettiamo l’ipotesi che nelle Bassaridi Eschilo parlasse di una fallimentare catabasi di Orfeo, Euripide si sarebbe opposto a questa versione forse già nell’Alcesti, evocando la figura di Orfeo nel contesto di un mito incentrato sulla morte di una sposa (cf. qui sopra, nota 469), ma, significativamente, concluso con il ritorno in vita della sposa stessa. Allo stesso tempo, poiché l’Orfeo dell’Alcesti presenta notevoli caratteristiche apollinee (cf. vv. 962-972), Euripide sembrerebbe an-
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§ 2.2 La parodo dell’Ipsipile La connessione fra orfismo e dionisismo non sembra essere soltanto un elemento costitutivo della struttura dell’Ipsipile, ma emerge anche in singoli punti del dramma come per esempio nella parodo, in cui il confronto fra la protagonista e il coro si trasforma in un incontro fra suggestioni orfiche e dionisiache, sullo sfondo di un dialogo che vede contrapporsi i due principali filoni mitologici del dramma, le vicende lemnie della nave Argo e l’impresa degli argivi contro Tebe.489 La parodo si apre significativamente con una riflessione di Ipsipile, intenta a badare il piccolo Ofelte, sull’opportunità di un certo tipo di canto (cf. TrGF 71 F752f, vv. 8-14): ΥΨ. ἰδοὺ κτύπος ὅδε κορτάλων
οὐ τάδε πήνας, οὐ τάδε κερκίδος ἱστοτόνου παραμύθια Λήμνια Μοῦσα θέλει με κρέκειν, ὅτι δ᾽ εἰς ὕπνον ἢ χάριν ἢ θεραπεύματα πρόσφορα π]αιδὶ πρέπει νεαρῷ, τάδε μελῳδὸς αὐδῶ. Nonostante che siano state avanzate critiche al riguardo, il passo potrebbe essere interpretabile come se significasse “Ecco, questo è lo strepito delle nacchere. < > Non questi canti lemni, sollievo della tessitura, della spola tesa sul telaio, la Musa vuole che io intessa, ma qualunque cosa si adatti a un tenero bambino, per il suo sonno o per il suo piacere o per la sua cura, questo canto con voce melodiosa”, che ci restituirebbe l’immagine di un’Ipsipile che vorrebbe sottrarsi a quello che la Musa vuole che lei canti, ossia musiche infantili accompagnate da nacchere: per quanto possa apparire anomala una tale rappresentazione, dato che Ipsipile svolge qui la funzione di poeta,490 la parodia che Aristofane fa di questa scena nell’agone delle cora legato, sulla scia di Eschilo, a una concezione apollinea dell’orfismo, laddove, nei drammi successivi (a partire, per quello che possiamo ricostruire, dall’Ippolito e forse anche dai Cretesi), l’orfismo euripideo assume sempre più una connotazione dionisiaca. 489 Battezzato parla infatti, a proposito della trama dell’Ipsipile, di un vero e proprio agone metaletterario: Euripide infatti, attraverso i suoi personaggi, sembra invitare a riflettere sulla commistione del tema argonautico e di quello argivo nel dramma, sottolineandone la novità della struttura (cf. Battezzato (2005), 190-197). 490 Come osserva Battezzato, con un piccolo intervento sul testo (Λήμνι᾽ ἃ) si otterrebbe invece il più ortodosso senso “non sono questi [il suono delle nacchere] i
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Rane, come ha osservato Di Marco,491 offre qualche sostegno in questo senso. L’Eschilo aristofaneo, infatti, nella sezione dell’agone dedicata alle parti liriche (su cui cf. avanti, cap. VI.3.3), elabora un pastiche euripideo ricco di citazioni dall’Ipsipile (vv. 1309-1323) e incapsula questa complessa parodia in un contesto molto particolare, presentandola cioè come ispirata dalla Musa di Euripide (vv. 1305-1307), detta ἡ τοῖς ὀστράκοις / αὕτη κροτοῦσα: come osservavano già gli scoli (cf. schol. vet. in Aristoph. Ran. 1305c, p. 147 Chantry), siamo qui davanti a una netta allusione alla ‘monodia delle nacchere’ dell’Ipsipile, i cui κόρταλα492 corrispondono ai “cocci” suonati dalla Musa di Euripide nelle Rane (si osservi l’utilizzo da parte di Aristofane del termine ὄστρακα e, allo stesso tempo, la paronomasia κροτοῦσα / κρόταλα). Euripide non ha bisogno della lira, dice Eschilo, perché i suoi canti sono fatti per l’accompagnamento degli ὄστρακα. La parodia di Aristofane della Musa di Euripide come “la donna che suona i cocci” (una Musa, quindi, evidentemente minore, adatta ai bambini) avrebbe molta più forza se prendesse di mira un passo euripideo ‘problematico’ e insolito, che, al momento della sua rappresentazione, doveva aver destato scalpore, cioè l’evocazione di una Musa che chiede al suo poeta – Ipsipile nello specifico – di suonare le nacchere per far addormentare o far divertire un bambino.493 canti lemni […] che la Musa vuole che io canti, ma ecc...”. La Musa richiederebbe a Ipsipile un certo canto, tale da evocare l’isola di Lemno e le sue vicende, ma le dure circostanze della schiavitù obbligano Ipsipile a far divertire un bambino piccolo con musiche adatte a lui. D’altra parte, sebbene questa soluzione presenti dei vantaggi (oltre alla rappresentazione più ‘ortodossa’ della Musa abbiamo anche i tre τάδε che si riferirebbero tutti allo κτύπος ὅδε κορτάλων), dal punto di vista grammaticale richiederebbe, piuttosto che l’indicativo θέλει, un ἄν +, per esempio, ottativo o imperfetto. Non sembra inoltre necessario, per riferire τάδε al canto relativo alle vicende di Lemno, come ritiene ancora Battezzato, immaginare che i τάδε Λήμνια fossero menzionati necessariamente nella lacuna: Ipsipile, infatti, fin dal suo ingresso in scena, verosimilmente nel prologo, sembra insistere sul tema delle sue vicende passate relative a Lemno e al viaggio degli argonauti (cf. la menzione delle Simplegadi al fr. 752b, v. 5 e, forse, qualche riferimento in seguito all’incontro con Euneo e Toante, che Ipsipile non sa ancora essere i suoi figli, ma che dovevano aver rievocato quelle vicende alla sua memoria, cf. frr. 752c-f); cf. Battezzato (2005), 182-189 (la cui interpretazione è accolta anche in Hardie (2012), 154-157; 169-171). In favore del testo tradito cf. invece Di Marco (2009), 137. 491 Cf. Di Marco (2009), 135-141. 492 O κρόταλα, secondo la forma più comune; κόρταλα è congettura di Maas metri causa. 493 Tra l’altro il Dioniso aristofaneo commenta l’arrivo della Musa di Euripide con le parole αὕτη ποθ᾽ ἡ Μοῦσ᾽ οὐκ ἐλεσβίαζεν, οὔ. Al di là del possibile significato osceno ravvisabile nella frase, dobbiamo riconoscere che Dioniso nega subito la
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§ 2 Ipsipile: un Dioniso ‘orfico’ fra Lesbo, Nemea e Delfi
Non dobbiamo inoltre escludere che i κρόταλα abbiano, nel contesto della parodo dell’Ipsipile, un preciso significato rituale e che costituiscano in particolare un rimando al culto della Madre degli dei. Considerando quindi il tema dionisiaco dominante nel prologo, con l’incipit della parodo l’Ipsipile riproporrebbe l’ormai noto binomio euripideo Dioniso-Madre degli dei: nel secondo stasimo dell’Elena (v. 1308) avevamo già incontrato i κρόταλα [...] βρόμια494 come strumenti propri della Madre degli dei e ricordiamo che quest’ultima e il suo culto vengono poi da Euripide posti in strettissima connessione, nella seconda antistrofe dello stesso stasimo (vv. 1353 ss.), proprio con l’ἐνθουσιασμός dionisiaco (l’aggettivo βρόμια stesso anticipa tale connessione).495 L’interpretazione ‘rituale’ dei κρόταλα trova forse una conferma nel fatto che subito prima di essi, Ipsipile menzioni anche uno specchio (cf. TrGF 71 F752f, v. 3; il contesto non è tuttavia ben ricostruibile): come abbiamo già avuto modo di osservare (cf. qui sopra, capp. II.2.1.1 e II.2.2), il Papiro di Gurôb descrive infatti un rituale orfico-dionisiaco in cui compare, fra gli oggetti sacri, appunto uno specchio (col. I.30) e, a conferma
possibilità di una relazione fra la figura appena entrata in scena e Lesbo, in quanto la Musa, nella parodia di Aristofane, allontanerebbe il canto di Ipsipile dalla patria di Terpandro e della lirica citarodica (cf. Del Corno (2006), 235), come la Musa del testo stesso euripideo allontanava il canto di Ipsipile da una materia ‘alta’, adatta al suono della cetra, quale appunto quella argonautica. A favore di questa interpretazione dell’intervento di Dioniso, che rivelerebbe il carattere ‘degradato’ della Musa euripidea, cf. Di Marco (2009), 123-135 (cf. 127-131 per una dettagliata discussione sulle precedenti proposte interpretative della battuta in questione). Sull’importanza della figura della Musa nella parodo dell’Ipsipile si insiste in Hardie (2012) (cf. in particolare 153-183): la rappresentazione della Musa di Ipsipile, secondo Hardie tutt’altro che ‘degradata’ dalle nacchere ma legata alla sfera ‘alta’ della citarodia e dei temi epici (sebbene una Musa che inviti a suonare le nacchere risulti tutt’altro che incompatibile con gli scenari religiosi così frequenti in Euripide, cf. qui sotto), segnerebbe l’inizio di un processo che porterà all’attribuzione a Melpomene del ruolo di Musa della tragedia (il nome della dea sarebbe tra l’altro evocato, secondo Hardie, in quel κίθαρις μελπομένα in TrGF 71 F752g, vv. 10-12, per cui cf. qui sopra, nota 459); significativo risulterebbe anche, in questo contesto, l’esplicito riferimento al nome di “Calliope”, unica citazione del nome di una Musa in tutto il corpus tragico pervenutoci. Una conferma della sempre maggiore consapevolezza rispetto alla figura di una Musa tragica e dionisiaca verrebbe poi da Aristofane, non solo dalla parodia del passo delle Rane qui sopra citato, ma anche dalla rappresentazione di Agatone nelle Tesmoforiazuse (su cui torneremo più ampiamente in cap. V.1.2), a cui il commediografo associa l’immagine del “tiaso delle Muse”; cf. Hardie (2012), 144-149. 494 Per l’associazione dei κρόταλα al culto della Grande Madre, cf. qui sopra, capp. II.1.2.1 (cf. in particolare nota 188) e III.2.1. 495 Sul carattere dionisiaco dei κρόταλα dell’Ipsipile, cf. Battezzato (2005), 198.
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della connessione della sfera dionisiaca con quella metroaca, vi vengono annoverati, fra le divinità coinvolte nel culto, anche Demetra-Rea e i Cureti (col. I.6-7). Ipsipile sembra comunque sia frapporre piuttosto una distanza fra sé e i κρόταλα che, nella sua condizione servile, deve suonare, quasi che non riuscisse a vedere come la figura del suo avo Dioniso, da quelli evocata, potesse avere qualche influenza benefica sul suo stato. Il coro (TrGF 71 F752f, vv. 15-40) risponde a Ipsipile invitandola a abbandonare gli argomenti che è solita cantare, ossia le imprese degli argonauti sulle tracce del vello d’oro e le vicende dell’isola di Lemno, per rivolgersi invece al suo presente, ossia il λειμών di Nemea, dove sono giunti gli argivi (dei cui ὅπλα risplende tutta la piana di Argo), guidati da Adrasto, in marcia contro Tebe, designata dal coro con una perifrasi, ἐπὶ τὸ τᾶς κιθάρας ἔρυμα, / τᾶς Ἀμφιονίας ἔργον.496 Il coro associa dunque all’argomento che propone uno specifico tipo di musica, quello della κιθάρα di Anfione, alludendo, con il riferimento a uno dei protagonisti della tragedia che verosimilmente aveva preceduto l’Ipsipile, a quell’associazione fra orfismo e dionisismo propria appunto (sulla base di quanto detto in § 1) del personaggio di Anfione nell’Antiope e esortando così, in un certo senso, la protagonista a non rinnegare la sua origine ‘dionisiaca’. Il coro non sembra tuttavia riuscire, nonostante questo suggerimento, a risolvere il dissidio, sentito da Ipsipile, fra i κρόταλα metroaco-dionisiaci che lei, pur nipote di Dioniso, si sente ‘costretta’ a suonare dalla sua condizione servile, e il canto argonautico della cetra. Ipsipile del resto accoglie, almeno in parte, nella sua risposta, il suggerimento musicale del coro: fra gli argonauti la principessa lemnia ricorda infatti, subito dopo Peleo, Orfeo stesso con le parole Ἀσιὰς ἔλεγον ἰήιον / Θρῇσσ᾽ ἐβόα κίθαρις (TrGF 71 F752g, vv. 9-10).497 Tuttavia, se alla cetra di Anfione si collega così idealmente quella di Orfeo (coerentemente con
496 Seguendo la lettura metaletteraria proposta da Battezzato, il coro indica qui – proponendolo come oggetto di narrazione poetica – l’altro nucleo mitologico intorno a cui si dipana la trama del dramma: anche se introdotti come argomenti contrapposti, il viaggio degli argonauti e la spedizione degli argivi contro Tebe appaiono inestricabilmente intrecciati proprio nella struttura metaletteraria della parodo, così come diventerà esplicito nello svolgimento dell’azione drammatica; cf. Battezzato (2005), 190-194. 497 Su questo riferimento all’eccezionale potere della musica di Orfeo come guida in qualunque percorso della vita, cf. Semenzato (2016), 300-302. Il papiro P.Oxy. 852, che ci ha conservato ampie parti del testo dell’Ipsipile, ha κίθαρις Ὀρφέως: sia Collard, Cropp, Gibert sia Kannicht espungono metri causa Ὀρφέως, sulla base della proposta di Mette, accolta da Diggle (rimandiamo all’apparato di Kannicht, p. 751, per la discussione della questione). Sebbene dunque dobbia-
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quanto emerge dai frammenti dell’Antiope),498 Ipsipile rimane legata solo al ‘suo’ tema argonautico, a cui appartiene appunto la figura di Orfeo, continuando a respingere la musica più propriamente dionisiaca. Occorre a questo punto, come ulteriore prova della trama di relazioni fra orfismo e dionisismo che corre attraverso la parodo, soffermarci sul problema della connotazione orientale della musica di Orfeo, la cui cetra è “tracia” e allo stesso tempo “asiatica”,499 come viene ribadito anche da Euneo, nel finale della tragedia, quando indica nella μοῦσα κιθάρας Ἀσιάδος l’oggetto dell’insegnamento a lui impartito da Orfeo (TrGF 71 F759a, v. 1622). Se è verosimile che Euripide si riferisca alla scuola citarodica fondata a Sparta da Terpandro di Lesbo (VII sec. a.C.), inventore o, quanto meno, autore della diffusione in Grecia della cetra a sette corde, dovuta verosimilmente all’influenza della cultura musicale asiatica su Lesbo (da qui il nome κιθάρα Ἀσιάς),500 occorre anche tenere presente che la connotazione ‘orientale’ della κιθάρα di Orfeo non segnala nell’Ipsipile solo un generico collemo considerare il nome di Orfeo una glossa, è chiaro che si alluda proprio a lui non solo con l’aggettivo Θρῇσσα, ma anche, nei versi che seguono (vv. 11-14), con il riferimento al compito della “cetra tracia” di dare il ritmo ai movimenti dei rematori, un’immagine che, nella tradizione successiva relativa al viaggio degli argonauti, rimane legata al personaggio di Orfeo (cf. Apoll. Rhod. Arg. I.536-541; Stat. Theb. V.342-345). 498 Si parla invece di «contrapposizione» in Battezzato (2005), 192. 499 Kannicht stampa nella sua edizione Ἀσιὰς ἔλεγον, dove ἔλεγον è congettura di Wilamowitz per il tradito ἔλεγεν; in Bond (1963), come anche in Collard, Cropp, Gibert (2004), leggiamo invece il testo secondo la correzione di Beazley, Ἀσιάδ᾽ ἔλεγον (sulla questione cf. Collard, Cropp, Gibert (2004), 234): in quest’ultimo caso si tratterebbe del “canto asiatico” cantato appunto dalla “cetra di Tracia”. Secondo la lezione stampata da Kannicht, Ἀσιάς si riferirebbe al soggetto della frase Θρῇσσ᾽ [...] κίθαρις, come ulteriore attributo, a sottolineare con maggiore forza il carattere asiatico, nonché, allo stesso tempo, tracio e quindi ‘orfico’ della cetra in questione. 500 Sull’origine orientale della κιθάρα e, allo stesso tempo, sulla sua individuazione, da parte dei greci, come strumento musicale autoctono per eccellenza, cf. De Simone (2016), 46-51, che ricorda anche la κιθάρα Ἀσιάς euripidea. Sulla questione relativa alla genesi dell’espressione κιθάρα Ἀσιάς e alla problematica origine dello strumento in questione, se lidia o lesbia, cf. Castellaneta, Euneo e la ‘musa asiatica’ di Euripide: per una restituzione dell’epigramma di Cizico AP 3.10, in corso di stampa (cf. in particolare nota 27), dove si rileva anche che tale espressione sembra essere attestata proprio in Euripide come primo testimone: cf., oltre all’Ipsipile, Cycl. 443-444, dove Euripide suggerisce un altro possibile punto di incontro fra il mondo dionisiaco e l’Ἀσιὰς κιθάρα, quando fa menzionare quest’ultima dal coro dei Satiri come qualcosa di particolarmente “dolce” (cf. ancora Collard, Cropp, Gibert (2004), 234), e, seppur in un passo di difficile ricostruzione, Eretteo, TrGF 24 F370; proprio da Euripide deriverebbe quindi all’espres-
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gamento con la scuola musicale di Lesbo,501 ma acquisisce un forte potere evocativo in relazione anche al tema del dionisismo (le cui connessioni con l’Oriente sono indiscutibili e a cui possono essere ricondotti già i κρόταλα suonati da Ipsipile).502 La funzione di ‘tramite’ fra Asia e Grecia, rivestita storicamente da Terpandro, si riflette infatti, nella tragedia, in Orfeo e nel suo allievo, quell’Euneo pronipote di Dioniso e originario di Lemno (un’isola anch’essa vicina alla costa dell’Asia Minore e situata poco a più a nord di Lesbo), capostipite degli Euneidi di Atene, celebri citaredi e sacerdoti di Dioniso Melpomenos. Non è tuttavia facile definire, storicamente (almeno all’altezza cronologica di Euripide), in che forma dal punto di vista cultuale e in che tipo di musica si esprimesse la dimensione orfico-dionisiaca – di per sé in ogni caso percepibile come ‘straniera’–, in cui Euripide sembra voler collocare gli Euneidi: sebbene sussistano perplessità al riguardo, non possiamo del tutto escludere, dato che abbiamo a che fare con il tardo Euripide, che si trattasse di un ‘dionisismo musicale’ influenzato dalla ‘Nuova Musica’ (tanto più che l’Ipsipile viene parodiata nelle Rane in un contesto in cui si intende prendere di mira appunto la ‘Nuova Musica’, cf. avanti, cap. VI.3.3).503 sione una fortuna tale da diventare materia della parodia aristofanea, in Thesm. 120-122, proprio di Eretteo, TrGF 24 F370 (cf. ancora Castellaneta, nota 26), su cui ci soffermeremo più distesamente in cap. V.1.2.2. 501 Si ricordi in ogni caso la tradizione che vuole i resti di Orfeo stesso traslati a Lesbo da parte delle Muse (attestata negli scoli agli Aratea di Germanico, schol. Basil. in Germ. p. 84.13 Breysig; schol. Strozz. in Germ. p. 152.3 Breysig, benché in entrambi i casi Breysig stampi una crux prima di Lesbiis montibus); Proclo ci parla della testa di Orfeo portata a Lesbo in seguito allo σπαραγμός del cantore (cf. Comm. in Plat. Remp. I, 174.28-30). Dalla t. 53b Gostoli sappiamo che la lira di Orfeo, gettata in mare dopo la sua morte e giunta a Lesbo, sarebbe stata lì consegnata a Terpandro stesso. Su Terpandro come ‘imitatore’ di Orfeo nella musica, cf. t. 31 Gostoli. 502 Sul carattere prodigioso, dovuto anche a un esotismo orientale di per sé misterioso, che rimanda quindi direttamente a Dioniso, della musica di Orfeo, cf. Semenzato (2016), 300-302; 305-307, in relazione appunto ai frr. 752g, v. 10 e 759a, v. 1622 dell’Ipsipile. 503 Sulla connessione fra dionisismo e ‘Nuova Musica’, cf. Csapo (1999-2000); sul carattere ‘asiatico’ della musica degli Euneidi nell’Atene del V sec., cf. Burkert (2002a), 115-116, dove si menziona inoltre una significativa allusione parodica a un nomos di Terpandro negli Euneidi di Cratino (frr. 71-72 PCG). Inoltre Timoteo, nei Persiani (fr. 791 Page, vv. 221-231 = t. 46 Gostoli), mette direttamente in relazione Orfeo e Terpandro di Lesbo come se fossero il successore l’uno dell’altro, appropriandosi così, nell’ambito della nuova ditirambografia, delle loro figure (cf. Gostoli (1990), pp. XL-XLII; De Simone (2016), 179-182). Per un’interpretazione della κιθάρα Ἀσιάς come riconducibile all’antica tradizione delle har-
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Possiamo infine individuare un altro possibile indizio, seppur meno esplicito, della volontà euripidea di mettere in relazione, nella parodo, orfismo e dionisismo: il coro e Ipsipile, dopo essersi confrontati sull’opportunità di affrontare temi legati alla spedizione degli argonauti o degli argivi contro Tebe, propongono ognuno exempla mitici, più o meno adatti a rappresentare i casi di Ipsipile.504 Il coro ricorda per prima la vicenda di Europa (TrGF 71 F752g, vv. 18-27), amata da Zeus e costretta a lasciare la patria, ma riportata dai figli (come effettivamente avverrà a Ipsipile) a una condizione di ricchezza e prosperità, stabilendo così un legame fra la vicenda di Ipsipile e la tradizione cretese, reso ancor più forte dal fatto che la discendenza di Dioniso sia in realtà proprio di origine cretese (Europa è infatti madre di Minosse, padre, a sua volta, di Arianna).505 Sembra in particolare possibile individuare, nei vv. 19-27 della parodo dell’Ipsipile (ἐπὶ κυμάτων / πόλιν καὶ πατρίους δόμου[ς / Φοινίκας Τυρία παῖς / Εὐρώπα λιποῦσ᾽ ἐπέβα / Διοτρόφον Κρήταν ἱεράν / Κουρήτων τροφὸν ἀνδρῶν, / ἃ τέκνων ἀρότοισ[ι]ν / τρισσοῖς ἔλιπεν κρά[τος / χώρας τ᾽ ὄλβιον ἀρχάν), una citazione pressoché letterale dell’incipit della parodo dei Cretesi (TrGF 41 F472, vv. 1-2: Φοινικογενοῦς παῖ τῆς Τυρίας τέκνον Εὐρώπης / καὶ τοῦ μεγάλου Ζηνός, ἀνάσσων / Κρήτης ἑκατομπτολιέθρου506). Poiché Euripide ci presenta nei Cretesi un coro di misti identificabili come orfico-dionisiaci (cf.
moniai frigie o lidie nella musica greca e, in ogni caso, dell’attività musicale degli Euneidi (inseriti nell’ambito dell’orfismo attico) come ‘tradizionale’, cf. Cassio (2000), in particolare 105-110. Sulla questione della citarodia virtuosistica (emula dell’αὐλός e caratteristica della ‘Nuova Musica’) e allo stesso tempo sacrale (Euneidi e culto di Dioniso Melpomenos) in relazione con un contesto tragico, cf. Hardie (2012), 173-176. 504 Come osserva Battezzato, nessuno degli exempla citati (Europa, Io, Procri) si adatta perfettamente alla tragedia euripidea, di cui però si vuole sottolineare così la novità della struttura narrativa, capace di prendere direzioni impreviste (cf. Battezzato (2005), 194-197). 505 Si ricordi il ruolo attribuito da Diodoro Siculo (cf. qui sopra, nota 453) a Radamanti, fratello di Minosse, nelle vicende dei figli di Dioniso e Arianna. Del resto, sebbene in un’anonima Vita euripidea (cf. I, 3 Schwartz) sia annoverata fra le opere spurie di Euripide una trilogia comprendente Tenne, Radamanti, Piritoo, alcune fonti ricordano come euripidea anche una tragedia dal titolo Radamanti (l’ipotesi di Radamanti è conservata come euripidea in PSI 1286; cf. inoltre Strab. VIII.3.31; Stob. II.8.12; IV.20.61). 506 Il frammento dei Cretesi si apre con parole, che, nonostante alcune proposte di espunzione, giustamente rifiutate da Cantarella (cf. Cantarella (1964), 63-64, a cui si rinvia per una ricostruzione della questione) proprio sulla base del confronto con il parallelo dell’Ipsipile, di cui si presentano piuttosto quasi come il modello, possono essere ritenute genuine.
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cap. II.2.2), nonché devoti della Madre montana (cf. anche quanto detto qui sopra sui κρόταλα), il richiamo a Creta, per il tramite letterario dei Cretesi stessi, potrebbe rafforzare la connotazione dello sfondo dionisiaco dell’Ipsipile in senso orfico. Del resto, subito dopo aver ricordato un altro mito che ha per protagonista un’eroina esule (v. 28), vittima delle conseguenze dell’amore di Zeus, Io (vv. 28-31), il coro conforta Ipsipile con la speranza che possa salvarla appunto “il padre di suo padre”, ossia Dioniso,507 dimostrando la non casualità del riferimento a Creta rispetto al tema dionisiaco.508 Tuttavia, benché Ipsipile accolga ancora il suggerimento del coro (come aveva fatto pochi versi prima evocando la cetra di Orfeo sulla scia di quella di Anfione) e citi anche lei un mito legato a Creta, quello di Procri,509 lo fa in negativo, concludendo che i suoi πάθεα siano in realtà fuori dalla portata di γόος, μέλος o κιθάρας μοῦσα, incapaci, “pur con l’aiuto di Calliope” (per cui cf. qui sopra, nota 493), di esprimere i suoi πόνοι (TrGF 71 F752h, vv. 1-9): se il coro sembra dunque, in una ricca e fitta trama di riferimenti mitici e letterari (all’interno dell’opera di Euripide stesso), intuire la possibilità di una conciliazione dei diversi temi e filoni che compongono il dramma, alla fine della parodo Ipsipile mostra di rimanere ‘intrappolata’ nel suo passato legato alla saga argonautica, senza riuscire a vedere davvero né come esso possa collegarsi, nel mito e nella poesia, alla sua presente e disperata condizione,510 né come il suo legame con Dioniso possa modificare il corso delle sue vicende.
507 Possiamo leggere molto poco dei versi in cui il coro invitava Ipsipile a aver fiducia in Dioniso: per una proposta di ricostruzione, cf. Battezzato (2005), 191-192. 508 Sulla relazione, nell’Ipsipile, fra i riferimenti a Creta e il tema orfico-dionisiaco, cf. anche Hardie (2012), 171-172. 509 Sul mito di Procri nell’Ipsipile, cf. Battezzato (2005), 195-196, a cui rimandiamo anche per una discussione delle fonti che ci parlano di un incontro a Creta fra Procri, sposa adultera di Cefalo, e Minosse. 510 Nemmeno Calliope, la madre stessa di Orfeo (cf. frr. 902-906 Bernabé) potrebbe aiutare Ipsipile a esprimere i suoi πόνοι. Pur respingendo questa interpretazione, Battezzato osserva che l’incapacità della Musa di esprimere le sofferenze di Ipsipile potrebbe riprendere il tema iniziale del contrasto fra Ipsipile e la Musa (cf. Battezzato (2005), 198). Appare comunque sia congruente che la Musa, che, secondo Ipsipile, non può ispirare un canto, accompagnato dalla κιθάρα (adatta invece al racconto della saga argonautica), sui patimenti presenti della donna, la induca, appunto nel presente, a suonare i κρόταλα. Tuttavia è Ipsipile stessa a non rendersi conto dell’unità di fondo fra i diversi temi mitici, all’incrocio dei quali si pone la sua storia, e le loro diverse espressioni musicali.
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Il ruolo che Euripide assegna a Orfeo alla fine del dramma, come educatore dei figli di Ipsipile, nonché pronipoti di Dioniso, suggella dunque il nesso orfico-dionisiaco anticipato nella parodo. Nell’Ipsipile non solo si intrecciano il filone argonautico e quello argivo, ma trovano anche una conciliazione, a livello sia mitico sia religioso sia poetico-musicale, quello orfico e quello dionisaco (strettamente legati, a loro volta, agli altri due), come viene indicato già nella parodo non da ultimo per il tramite di un ‘suggerimento’ metaletterario. § 2.3 Il canto cosmogonico del coro Il compito di esplicitare in che cosa consista, dal punto di vista teologico, l’unione, nel dramma, di orfismo e dionisismo, è affidato al coro: alcuni frammenti di uno stasimo della tragedia, anche se di difficile interpretazione, ci permettono infatti di individuare elementi riconducibili all’orfismo associati a Dioniso (TrGF 71 F758a). Questi versi sono stati, nella storia degli studi sull’argomento, sempre considerati fra le più antiche testimonianze di una teogonia orfica,511 essendo gli elementi comuni con quanto sappiamo delle teogonie orfiche successive infatti davvero sorprendenti: se i resti della prima strofe, in cui sono riconoscibili solo poche parole significative (ἀνά τ’ αἰθέρ-, βότρυς, λιβάνου), sembrano riferirsi a un miracolo di Dioniso, l’antistrofe, seppure in modo assai frammentario, ci offre uno scenario cosmogonico (vv. 1103-1108): ὦ πότνια θεῶ[ν .]αος ἄσκοπον [ .]έρι πρωτόγονο[ .]θελ᾽ Ἔρως ὅτε νυ[ .]ντετραφη τότε[ .].α θεῶν γένο[ς Le numerose proposte di integrazione che sono state avanzate512 permettono, con diversi gradi di certezza (non possiamo formulare ipotesi precise in merito ai rapporti sintattici), di scorgere la presenza di un dio Protogonos, “primo nato” dall’Etere, identificato con Eros (vv. 1105-1106) e, verosimilmente, capostipite del θεῶν γένο[ς (v. 1108): saremmo di fronte a uno
511 Cf. Macías Otero (2009), 1207-1208. 512 Per cui rimandiamo all’apparato di Kannicht; cf. anche Collard, Cropp, Gibert (2004), 250-252.
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scenario attestato, in questi termini, solo nelle cosmogonie orfiche posteriori (cf. qui sopra, cap. I.1.1.1).513 Inoltre, l’elemento luminoso, che, in questi testi, risulta essere parte integrante della figura di Protogonos (cf. qui sopra, § 2.1) potrebbe affiorare, con un’espressione ossimorica, nel presumibile αος ἄσκοπον del v. 1104.514 Quanto alla figura femminile invocata al principio come πότνια θεῶ[ν, la Notte potrebbe rappresentare una verosimile candidata,515 dato che la sua presenza al principio del processo cosmogonico, nella tradizione orfica, è attestata fin dalla teogonia “eudemia” (fr. 20 Bernabé); la Notte è invocata tra l’altro da un coro euripideo come πότνια, πότνια anche nell’Oreste (v. 174). Tracce del termine νύξ (il caso non è ricostruibile) sembrano inoltre visibili al v. 1106, seguite da tracce, a quanto pare, del verbo τρέφω (v. 1107, ἐτράφη), il cui soggetto potrebbe essere il θεῶν γένο[ς dell’ultimo verso: sebbene i rapporti sintattici non siano più ricostruibili, possiamo osservare come la vicinanza della Notte al verbo τρέφω ricordi la Νύξ definita τροφός nel Papiro di Derveni (col. X.11).516 Ricordiamo altresì come Euripide, nell’Elettra, proprio laddove la
513 Ricordiamo la presenza del dio Protogonos, nato dall’Etere, nella teogonia di Derveni, in quella “ieronimiana” e in quella “rapsodica”; in quest’ultima, inoltre, Protogonos non solo è chiamato, fra gli altri nomi, anche Eros (fr. 141 Bernabé), ma è anche detto πρῶτον δαίμονα σεμνόν / Μῆτιν σπέρμα φέροντα θεῶν κλυτόν, ὅν τε Φάνητα / πρωτόγονον μάκαρες κάλεον κατὰ μακρὸν Ὄλυμπον (fr. 140 Bernabé). Siamo molto vicini alle tracce leggibili nello stasimo euripideo. 514 Leggiamo φάος secondo la proposta di integrazione di Grenfell e Hunt sulla base del significativo parallelo di Phoen. 809. L’aggettivo ἄσκοπον, “invisibile”, ma anche “incomprensibile”, “incredibile”, potrebbe inoltre ben adattarsi alla luce in questo contesto, se confrontiamo il fr. 123 Bernabé dalle Rapsodie dove, nonostante alcune difficoltà interpretative (per cui rimandiamo all’apparato di Bernabé), di Protogonos si dice che non sia stato visto “con gli occhi” da nessuno se non dalla “sola sacra Notte” (vv. 1-2) e che lui stesso sia un φέγγος ἄελπτον, “bagliore inatteso” (v. 3). 515 A favore di questa identificazione è Macías Otero (2009), 1208. 516 Sul fondamentale ruolo cosmogonico della Notte nella tradizione orfica, dal Papiro di Derveni, che ce la presenta con una funzione profetica e oracolare (col. XI.1; 10), alle Rapsodie, dove troviamo la Notte al principio, come massa oscura e indefinita e sempre qualificata come θεῶν τροφός e dotata di virtù profetiche (frr. 112; 113 Bernabé), ma anche replicata in un succedersi di “Notti” (Notte sia come figlia e sposa di Protogonos sia, nelle fasi successive del processo cosmogonico, come protettrice, nella sua grotta, del piccolo Zeus e, in accordo con le sue virtù profetiche, sua consigliera), cf. Bernabé (2009), 295; 312-313; 315. Si potrebbe comunque sia ipotizzare anche un’identificazione della πότνια θεῶν con la Madre degli dei, le cui connessioni con Dioniso si adatterebbero bene al contesto generale della tragedia: Rea-Madre degli dei è designata con l’epiteto
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protagonista parla dell’αἰθήρ come la sede ultraterrena dove si trova suo padre (v. 59), invochi la “Notte nera” come χρυσέων ἄστρων τροφός (v. 54). Secondo la classificazione delle cosmogonie orfiche fatta da Bernabé,517 la cosmogonia dell’Ipsipile si richiamerebbe alla stessa tradizione orfica a cui fa capo anche la parodia cosmogonica degli Uccelli di Aristofane (vv. 690-702): nonostante che siano state avanzate diverse riserve sul carattere orfico di quest’ultimo passo,518 la nascita di un Eros dalle ali d’oro, connotato come elemento luminoso (Ἔρως ὁ ποθεινός, / στίλβων νῶτον πτερύγοιν χρυσαῖν, εἰκὼς ἀνεμώκεσι δίναις, vv. 696-697), che irrompe nelle tenebre da un uovo generato dalla Notte μελανόπτερος (cf. v. 695, le ali nere si contrappongono a quelle d’oro di Eros), così come la presenza della Notte stessa, sembrerebbero riconducibili alla tradizione orfica.519 La figura alata e luminosa di Eros, nonché la presenza dell’uovo primordiale, che ricorrono nelle testimonianze relative alle teogonie “ieronimiana” (frr. 79-80) e “rapsodica” (frr. 109-121; 136 Bernabé),520 sono qui evidentemente sfruttate da Aristofane a scopo parodico, dato che la cosmogonia in questione intende dar ragione della nascita della stirpe degli uccelli. I punti di contatto del testo di Aristofane con quello ricostruibile di Euripide sono notevoli, dall’identificazione del “primo nato” con Eros al legame di questo con Notte; il θεῶν γένο[ς euripideo si riflette inoltre nel γένος ἀθανάτων di Aristofane, a cui Eros dà vita “mescolando tutte le cose” (v. 700). È verosimile che entrambi gli autori si rifacciano a una cosmogonia orfica coeva nota al pubblico del V sec.. Nonostante la difficoltà di indivi-
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πότνια quasi esclusivamente (cf. però Call. h. Jov. 28) nella tradizione orfica, in particolare nei pur tardi Inni Orfici, cf. XIV.1 (πότνα Ῥέα, detta subito dopo “figlia del multiforme Protogono”); XXVII.2; 11. Cf. Bernabé (2009), 296. Cf. Bernabé (2009c), 1219. Cf. Bernabé (2009c), 1219-1222. Sull’evoluzione della rappresentazione di Eros nella tradizione cosmogonica orfica, cf. ancora Bernabé (2009c), 1221. Se appare esiodeo l’incipit della teogonia degli Uccelli, che pone al principio del processo (vv. 693) quattro elementi, ossia Caos, Notte, Erebo, Tartaro (Caos e Tartaro compaiono, insieme con Gaia e Eros, in Hes. Theog. 116-120), il fatto che sia la Notte a generare l’uovo sembra conferirle una preminenza sugli altri esseri primordiali, vicina a quella che ha nella tradizione orfica. Anche nella teogonia “ieronimiana”, dove pure non compare la Notte, dal Tempo, prima della formazione dell’uovo, nascono Etere, Erebo, Caos (frr. 78-79 Bernabé). In Bernabé (2009c), 1221 si individua una corrispondenza lessicale fra lo στίλβων aristofaneo e l’ἀπέστιλβε del fr. 123-124 Bernabé delle Rapsodie.
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Capitolo IV: Antiope, Ipsipile, Fenicie, fra dionisismo, orfismo e Misteri eleusini
duare un tale testo con esattezza,521 è in ogni caso verosimile che fosse caratterizzato da una successione Notte-uovo-Protogonos/Eros (se e quali fossero eventuali altri passaggi non possiamo saperlo): il fatto che nell’Ipsipile, stando a quel poco che possiamo leggere, non ci siano tracce dell’uovo, se supponiamo che esso fosse invece presente nella cosmogonia orfica di riferimento (la parodia di Aristofane avrebbe altrimenti un impatto comico molto minore), potrebbe forse spiegarsi come una volontà di distanziarsi da Aristofane, che, alcuni anni prima (415 a.C.), si era servito proprio di quell’elemento, mettendolo però in ridicolo con chiaro intento parodico.522 Avremmo qui un esempio del confronto / scontro fra Aristofane e Euripide su queste tematiche (su cui cf. avanti, capp. V-VI). La coppia strofica successiva, nello stasimo dell’Ipsipile, torna a Dioniso (aspetto anch’esso in linea con le teogonie orfiche): nel fr. 758b leggiamo il nome Βρόμιος al v. 3 (ma è difficile stabilire il possibile contesto), nonché tracce di una possibile descrizione del corredo rituale delle baccanti (ναρ]θηκα, v. 6). Osserviamo infine che la caratterizzazione orfica di Dioniso potrebbe trovare un sostegno anche qui, al v. 10, nell’evocazione del cipresso, κυ]παρισσόροφον, “con il tetto di cipresso”, riferito probabilmente a un ambiente in cui si adora Dioniso: ricordiamo infatti il parallelo della descrizione del tempio in cui si riuniscono i misti del coro dei Cretesi, αὐθιγενὴς τμηθεῖσα δοκὸς / Χαλύβῳ πελέκει στεγανοὺς παρέχει / καὶ ταυροδέτῳ κόλλῃ κραθεῖσ’ / ἀτρεκεῖς ἁρμοὺς κυπαρίσσου.523 È forse possibile scorgere inoltre nell’οὐχὶ θιγ[ al v. 15 del fr. 758b dell’Ipsipile l’indizio di un’astensione rituale che riconduce ancora ai Cretesi (TrGF 41 F472, vv. 16-20, cf. qui sopra, cap. II.2.2).524
521 Sulla tradizione cosmogonica orfica, cf. qui sopra, cap. I.1.1.1, nota 14. Il passo degli Uccelli, messo a confronto con il frammento dell’Ipsipile, sembra comunque sia suggerire l’esistenza di una cosmogonia orfica circolante nell’Atene del V sec., in cui comparissero sia la Notte sia l’uovo cosmico sia il dio Protogonos stesso. 522 Sulla relazione del fr. 484 della Melanippe saggia con le dottrine cosmogoniche orfiche, cf. qui sopra, cap. I.1.1.4. 523 Citiamo ancora il testo (cf. cap. II.2.2), nell’edizione di Adele T. Cozzoli; cf. comunque sia TrGF 41 F472, vv. 5-8. 524 Così Collard, Cropp, Gibert (2004), 251-252, a cui rimandiamo per un dettagliato commento del frammento.
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§ 2.4 L’intervento di Anfiarao, sacerdote di Apollo Se Apollo si configurava, nelle Bassaridi di Eschilo, come la causa della discordia fra Dioniso e Orfeo, il sacerdote di Apollo Anfiarao, giunto a Nemea con le schiere argive al comando di Adrasto, rappresenta invece, nell’Ipsipile, l’elemento che garantisce, fin dal principio, l’unità all’interno dell’articolata struttura del dramma sia dal punto di vista drammaturgico sia dal punto di vista religioso (cf. qui sopra, § 2.1.1). Anfiarao, indiretta causa della morte di Ofelte in quanto ‘colpevole’ di aver distratto Ipsipile con la sua richiesta di dissetare i soldati, parla in difesa della donna contro le accuse di Euridice salvandola così dalla morte; allo stesso tempo, assistendo al ricongiungimento fra Ipsipile e i suoi due figli, svolge anche la funzione di ‘collegamento’ fra i due filoni mitologici che si intrecciano nel dramma. Anfiarao rende esplicita tale connessione quando spiega a Ipsipile di averla salvata, ricambiando il servigio prestato da lei, ἐς παῖδε σώ (TrGF 71 F759a, v. 1586), “per i tuoi figli”, nel senso che, serbando in vita la madre, ha permesso la riunione con i figli. Inoltre, Anfiarao, che ribadisce di essere portatore di verità, in quanto parla in nome di Apollo (TrGF 71 F757, vv. 889-890), opera per la salvezza della nipote di Dioniso, anticipando l’apparizione stessa del dio nel finale del dramma, quasi che fosse un suo strumento: dal punto di vista religioso, quindi, Apollo, attraverso il suo sacerdote, costituisce qui con Dioniso un’unità inscindibile;525 di tale unità partecipa d’altronde anche Orfeo, la cui connessione con il mondo dionisiaco è, come abbiamo visto, un Leitmotiv dell’intera tragedia. Il ricongiungimento di Ipsipile con i suoi figli conferma inoltre, metaletterariamente, l’unità del tema argonautico-orfico, di cui Ipsipile si era fatta portatrice nella parodo, con quello dionisiaco, dato che l’ἀναγνώρισις avviene nel ‘segno di Dioniso’: in TrGF 71 F759a, v. 1632 si parla del Θόαντος οἰνωπὸν βότρυν, con la funzione verosimilmente di segno di riconoscimento (si ricordi come Ipsipile, nella parodo, mostrasse quanto meno sfiducia nei confronti di Dioniso).526 La figura di Euneo, allievo di Orfeo, discendente di Dioniso e capostipite degli addetti al culto di Dioniso Melpomenos, è la personificazione stessa di questa unità.
525 Sulla relazione, che si delinea nell’Ipsipile, fra Dioniso, in particolare nella sua qualità di Melpomenos, secondo il culto ateniese, e Apollo, a livello sia religioso sia musicale, e sul legame di entrambi con le Muse, cf. Hardie (2012), 163-168; 174. 526 Cf. Collard, Cropp, Gibert (2004), 256.
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Se teniamo dunque presente che la tragedia si apre con uno scenario cultuale dionisiaco di ambientazione delfica, sul Parnaso precisamente (TrGF 71 F752), è interessante che quello stesso Dioniso delfico, associato a Apollo, sia connotato, nello svolgimento del dramma, anche in senso orfico: potremmo avere dunque nell’Ipsipile una delle prime attestazioni dell’interpretazione ‘orfica’ del dionisimo delfico, di cui abbiamo parlato qui sopra (cf. § 2.1.2, in fine), nonché di uno stadio avanzato del processo di associazione / assimilazione, ancora problematico nelle Bassaridi (almeno per quello che riusciamo a ricostruire), fra Dioniso e Apollo nell’orfismo. Alla luce di queste considerazioni, non è forse un caso che il “cratere dell’Oltretomba” di Monaco, che sembra presentare un’associazione fra Dioniso e il Sole, sia stato ritrovato in una tomba a Canosa insieme con un altro cratere coevo (conservato anch’esso alle Antikensammlungen di Monaco) raffigurante scene riconducibili alla Medea di Euripide: non possiamo quindi escludere allusioni euripidee anche nel “cratere dell’Oltretomba”.527 Occorre comunque sia rilevare che il personaggio di Anfiarao non sembra, per quello che possiamo ricostruire del dramma, esprimere esplicitamente credenze che possano essere ricondotte all’orfismo, ma fare riferimento a una tradizione letteraria e religiosa ‘ortodossa’. Eppure, nella consolazione che rivolge a Euridice per la morte di Ofelte, nonostante le immagini e i temi tradizionali del discorso, che ribadisce la necessità di accettare la legge naturale per cui ai morti succedono i vivi in un ciclo continuo e per cui la terra ritorna alla terra, possiamo forse scorgere un’allusione a un’escatologia ‘non ortodossa’ (TrGF 71 F757, vv. 920-926): ΑΜΦ. ἃ δ᾽ αὖ παραινῶ, ταῦτά μοι δέξαι, γύναι. ἔφυ μὲν οὐδεὶς ὅστις οὐ πονεῖ βροτῶν˙ θάπτει τε τέκνα χἄτερα κτᾶται νέα αὐτός τε θνῄσκει˙ καὶ τάδ᾽ ἄχθονται βροτοὶ εἰς γῆν φέροντες γῆν. ἀναγκαίως δ᾽ ἔχει βίον θερίζειν ὥστε κάρπιμον στάχυν, καὶ τὸν μὲν εἶναι, τὸν δὲ μή˙ τί ταῦτα δεῖ στένειν ἅπερ δεῖ κατὰ φύσιν διεκπερᾶν; L’idea del ritorno della terra alla terra, di per sé non problematica (cf. Aesch. Choeph. 127-128), è, come abbiamo visto,528 molto frequente in Euripide, ma spesso calata in un contesto che afferma la suddivisione dell’in527 Una relazione di Dioniso con la sfera luminosa emerge a più riprese anche nelle Baccanti euripidee (cf. vv. 608; 630-31); cf. al riguardo Seaford (2005), 604. 528 Per le testimonianze euripidee in questione, cf. qui sopra, cap. I.1.2. Si ricordi in particolare (cf. qui sopra, § 1) che esso compare anche nell’Antiope (TrGF 12
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dividuo fra una componente terrena e una celeste/eterea e l’identificazione della morte come l’acquisizione di un’altra forma. Il pubblico di Euripide, in questa tarda tragedia, poteva quindi verosimilmente aspettarsi che, dopo εἰς γῆν φέροντες γῆν, si parlasse della sorte dell’anima immortale ricongiunta all’etere, ma Anfiarao sostituisce, come secondo aspetto del doppio destino dell’individuo, all’immagine del ritorno all’etere quella della mietitura di una spiga; quest’ultima però, in quanto fruttifera, finisce per identificarsi, letta in controluce rispetto agli altri passi euripidei (nonché dello sfondo religioso dell’intero dramma), in un segno di vera vita. L’immagine del “mietere la vita” (βίον θερίζειν) come una “spiga fruttifera” (κάρπιμον στάχυν), che segue immediatamente quella del riportare la terra alla terra, può infatti implicare che la morte sia una trasformazione, come la spiga recisa dà il chicco di grano e poi la farina, in un’altra vita. L’intuizione di Burkert, che individua nel κάρπιμος στάχυς un inevitabile rimando al mondo eleusino,529 può essere ulteriormente confermata dalla possibilità di riconoscere, in questo passo, una diretta allusione di Euripide alla sua tragedia ‘eleusina’, le Supplici, dove ai vv. 30-31 si descrive così la piana di Eleusi: πρὸς τόνδε σηκόν, ἔνθα πρῶτα φαίνεται / φρίξας ὑπὲρ γῆς τῆσδε κάρπιμος στάχυς, con riferimento al dono dell’agricoltura agli uomini da parte di Demetra attraverso la figura di Trittolemo.530 Eppure nell’Ipsipile, dominata com’è dalla religiosità orfico-dionisiaca, eventuali immagini ‘eleusine’ come quella individuata da Burkert appaiono piuttosto ‘subordinate’ e funzionali a esprimere dottrine e valori che vanno al di là di Eleusi.531 Del resto bisogna tenere presente che le Supplici stesse, pur nel loro scenario eleusino, contengono appunto uno dei passi euripidei (vv. F195), costituendo un significativo punto di contatto con l’Ipsipile, forse non disgiunto da un analogo contesto ricco di suggestioni orfiche. 529 Cf. Burkert (2002a), 119; il rimando in questione sarebbe rafforzato, secondo lo studioso, dal ruolo della protagonista stessa della tragedia, balia del piccolo Ofelte, come Demetra per Demofonte in h. Cer. 256-267. Nella tradizione eleusina ‘orfica’, tra l’altro, come sembra emergere dal commento conservato in P.Berol. 13044 (per cui cf. qui sopra, cap. III.4.1), il piccolo Demofonte trovava infine la morte per mano di Demetra stessa. 530 Su queste tematiche all’interno della tradizione eleusina legata al nome di Orfeo, cf. qui sopra, cap. III.4.1. 531 Non è forse senza significato che, come ci riferisce Pausania (I.2.5), la casa privata dove aveva avuto luogo l’empia parodia eleusina fosse, al tempo del periegeta, un luogo sacro a Dioniso Melpomenos: benché non possiamo sapere se tale consacrazione sia stata immediatamente successiva al processo sulla profanazione dei Misteri (eventualmente in seguito a acquisto da parte di o donazione agli Euneidi stessi) e quindi collegabile cronologicamente all’Ipsipile (cf. al riguardo Burkert (2002a), 117-118; Hardie (2012), 163-164; 169), appare quanto meno le-
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531-534, per cui cf. qui sopra, cap. I.1.2) in cui si fa riferimento alla divisione dell’individuo, dopo la morte, fra una parte terrena e una parte celeste – il che indurrebbe ulteriormente a interpretare in questo senso anche il frammento in questione dell’Ipsipile. Una situazione analoga a quella delle Supplici potrebbe profilarsi anche nell’Eretteo, dove la tematica eleusina, consistente nella narrazione eziologica dell’arrivo degli Eumolpidi a Atene (tra l’altro, proprio dalla Tracia), è accompagnata da rimandi a una visione escatologica distante da Eleusi: Atena stessa, infatti, apparendo ex machina, nel discorso in cui ‘assegna’ ai discendenti di Eumolpo (cf. TrGF 24 F370, vv. 100 ss.) il sacerdozio eleusino, afferma (vv. 71-72): ψυχαὶ μὲν οὖν τῶνδ᾽ οὐ βεβᾶσ᾽ [Ἅιδ]ην πάρα / εἰς δ᾽ αἰθέρ᾽ αὐτῶν πνεῦμ᾽ ἐγὼ κατῴκισα.532 Possiamo dunque trovare ulteriormente confermata, come già nei capitoli precedenti, la tendenza di Euripide a aprire la religione attica, e quella eleusina in particolare, al confronto con altri culti e dottrine (di cui talora viene sottolineata l’origine straniera, asiatica o comunque sia ‘barbara’), in senso prevalentemente orfico-dionisiaco, nonostante la presenza di richiami eleusini e, potremmo dire, della ‘benedizione’ di Apollo.533 gittimo mettere in relazione tutto questo con lo sfondo religioso della tragedia euripidea, in cui si individua appunto una sorta di conciliazione dell’elemento eleusino, in posizione subordinata, con quello orfico-dionisiaco, nonché la verosimile celebrazione della nascita della stirpe dei sacerdoti di Dioniso Melpomenos stesso. Euripide, in ogni caso, sebbene non possiamo dire in quale misura concorde con le decisioni politiche coeve, sembra proporre ancora una volta forme di religiosità che rappresentino un superamento di quella eleusina, dalla cui profanazione, del resto, il susseguirsi degli eventi menzionati qui sopra potrebbe aver preso l’avvio. 532 Per una ricostruzione del dramma, cf. Collard, Cropp, Lee (1995), 148-155; Sonnino (2010). 533 Poiché i culti orfico-dionisiaci non erano praticati da sacerdoti riconosciuti come tali dalla πόλις (non possiamo infatti sapere in che cosa davvero consistesse e fino a che punto sia da ritenere ‘ufficiale’ la connotazione orfica attribuita da Euripide, nell’Ipsipile, agli Euneidi in quanto sacerdoti di Dioniso Melpomenos), ma verosimilmente da comunità private e ristrette, è difficile individuare un riscontro vero e proprio, nella realtà cultuale ateniese del V sec., che fungesse da modello per Euripide. Burkert (cf. Burkert (2002a), 116) menziona per esempio, in connessione con l’orfismo, il culto gentilizio dei Licomidi di Flia, demo dell’Attica (ricordato già in Malten (1909), 427-428), sulla base della testimonianza di Pausania, che ci parla di ἔπη di Orfeo, nello specifico un inno a Eros (si pensi allo stasimo dell’Ipsipile commentato qui sopra), cantati dai Licomidi durante le celebrazioni dei loro δρώμενα (cf. IX.27.2; 30.12 = fr. 531 Bernabé) e di βωμοί, a Flia (e Mirrino) dedicati a Apollo Διονυσοδότης, Artemide Σελασφόρος, Dioniso Ἄνθιος, le ninfe Ismenidi e la Terra, chiamata Μεγάλη θεός
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Possiamo trovare qualche indizio a sostegno di questa interpretazione nello Ione, tragedia di sicura ambientazione delfica, dove Euripide sottolinea l’importanza della componente dionisiaca nei culti del Parnaso: se infatti Ione, al suo ingresso in scena, e così il coro, nella parodo e nel primo stasimo, cantano la gloria di Apollo delfico (la prima divinità a cui Ione si rivolge è il Sole, cf. vv. 82-85), nell’epodo del secondo stasimo sono invocate le “creste montane della roccia del Parnaso”, dove Bacco “levando fiaccole fiammeggianti”, danza νυκτιπόλοις ἅμα σὺν Βάκχαις (vv. 714-717).534 Il terzo stasimo problematizza poi ulteriormente lo scenario religioso del dramma: il coro, invocando Εἰνοδία (identificata con Persefone)535 come θύγατερ Δάματρος, ἃ τῶν / νυκτιπόλων ἐφόδων ἀνάσσεις (vv. 1048 ss., dove
(cf. I.31.4); compatibili con la religiosità orfica apparirebbero sia l’associazione di Dioniso con un Apollo “che dona Dioniso” (un riferimento forse al ruolo di raccogliere i resti di Dioniso che Apollo ha in una parte della tradizione orfica? Cf. qui sopra, § 2.1.2) sia la figura di una Grande Dea identificata con la Terra (cf. Bernabé, PEG, I, 104; cf. anche Hipp. Ref. V.20.4-5 = fr. 532 Bernabé). Nello stesso passo il periegeta riferisce inoltre di un altro ναός di Flia con altari in onore di Atena, Zeus Κτήσιος, Demetra e Kore Πρωτογόνη, un gruppo divino che, sebbene rimandi a Eleusi (cf. del resto Paus. I.22.7; IV.1.5 sull’esistenza di un inno a Demetra, scritto da Museo per i Licomidi), poteva prestarsi anch’esso a una contestualizzazione orfica, considerato l’epiteto di Kore. Se Pausania ci restituisse un quadro cultuale valido per l’Atene del V sec. (cf. Malten (1909), 427), troveremmo elementi eleusini, dionisiaci e apollinei all’interno di un contesto orfico coevo alle tragedie euripidee. Sulle testimonianze dell’orfismo attico, cf. anche Cassio (2000), 100-105. 534 È significativo che l’aggettivo νυκτιπόλος sia lo stesso usato nel fr. 472 (v. 11) dei Cretesi per lo Zagreo dell’antro dell’Ida: abbiamo infatti visto qui sopra (cf. capp. II.2.2, nota 277; IV.2.1.2) come, nella tradizione orfica, rivestano una notevole importanza sia Delfi sia Creta e come la figura di Zagreo appartenga a entrambe. 535 Proprio a Nemea, dove è ambientata l’Ipsipile, è stato ritrovato un blocco di marmo, databile al V sec. a.C., con l’iscrizione ΕΦΟΔΙΑΙ (IG IV 484), che potrebbe provenire da un recinto sacro a Artemide o a Ecate (sulla possibilità di riferire “Enodia” a Ecate, Persefone e Artemide, cf. Jessen, RE, V.2, s.v. “Enodia”, 2634-2635): la realtà cultuale di Nemea ci potrebbe dare così un indizio relativo alla presenza della devozione verso una divinità ctonia, che si adatterebbe bene allo scenario religioso del dramma (cf. Miller (1990), 72; del resto, l’ἄλσος sacro a Zeus menzionato in TrGF 71 F752h, vv. 10-14 è congruente con il reale ‘bosco sacro’ di Nemea, per cui cf. Miller (1990), 157 ss.). La ricostruzione di uno sfondo orfico nell’Ipsipile e le possibili allusioni orfiche presenti nello Ione, con cui Enodia è associata, potrebbero trovare poi un riscontro nella realtà cultuale della Tessaglia: a Fere sono per esempio attestati il culto di una “Enodia”, che avrebbe poi subito una progressiva identificazione con Ecate (cf. Von Rudloff (1999), 45-46; 116-117), e, coerentemente con tale scenario ctonio, tracce orfiche, come
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l’aggettivo νυκτιπόλος funge da collegamento con lo stasimo precedente), le chiede di mandare a effetto il piano omicida contro chi minaccia la casa di Eretteo;536 se però quel piano fallirà, Creusa preferirà togliersi la vita (vv. 1066-1067): πάθεσι πάθεα δ᾽ ἐξανύτουσ᾽ εἰς ἄλλας βιότου κάτεισι μορφάς. La morte è descritta come passaggio “a altre forme di vita” (sia nel senso della dottrina escatologica della morte come vita vera sia, dato il plurale, nel senso di un’allusione alla metempsicosi); l’espressione “avendo portato a compimento i patimenti con patimenti” (dove il suicidio è un patimento che pone fine alla vita intesa come patimento), con il poliptoto πάθεσι πάθεα, richiama decisamente una delle lamine turie (fr. 487.3-4 Bernabé, metà del IV sec. a.C.): παθὼν τὸ πάθημα τὸ δ᾽ οὔπω πρόσθ᾽ ἐπεπόνθεις˙ / θεὸς ἐγένου ἐξ ἀνθρώπου. Ritornano qui la concezione della morte come passaggio a una vita migliore e della vita come pena da scontare.537 La rappresentazione dei riti notturni eleusini, in onore della Κόρη e della Μήτηρ, su cui è incentrata la seconda strofe (vv. 1074-1089), appare dunque in certo senso ‘turbata’ dalla trama di riferimenti all’interno dei quali è collocata: religione ufficiale della πόλις e credenze non ortodosse (abbiamo visto tra l’altro come questa non ortodossia possa connotarsi anche in senso spaziale, come straniera) trovano ancora una volta, in una tragedia euripidea, un punto di incontro.
dimostrano le lamine auree fr. 493 Bernabé (in cui è invocata Brimo, identificabile con Enodia, Persefone o Ecate, cf. Bernabé, Jiménez San Cristóbal (2008), 155-156; Ferrari, Prauscello (2007), 200-201) e fr. 495a Bernabé (in cui sono menzionati i riti di Demetra Ctonia e della Madre Montana, cf. Ferrari, Prauscello (2007), 193-202). 536 Creusa, la madre di Ione, è appunto una delle figlie di Eretteo / Erittonio, che viene infatti frequentemente evocato nel dramma e la cui storia sembra fungere da modello per quella di Ione stesso, erede della casa di Eretteo (cf. Loraux (1990), 168-206). Sull’importanza della componente dionisiaca nella costruzione del personaggio di Ione, cf. Zeitlin (1993), 147-182, in particolare, 164-182. 537 Questa lamina turia in particolare presenta un notevole ricorso al lessico della tradizione letteraria e del linguaggio poetico (si pensi anche all’espressione φάος Ἀελίοιο, v. 1, che indica semplicemente ‘la vita sulla terra’, o all’omerico ἄλσεα Φερσεφονείας, v. 6), cosicché non possiamo escludere che ci troviamo di fronte a una voluta ripresa del testo euripideo; d’altra parte potrebbe essere stato invece Euripide a attingere a un formulario rituale.
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§ 3 Le Fenicie e i Misteri eleusini: intersezioni fra religione e politica
§ 3 Le Fenicie e i Misteri eleusini: intersezioni fra religione e politica La rappresentazione della figura di Teseo nelle Supplici euripidee è stata interpretata come quella di un leader capace di guidare il corso della politica della πόλις e appianarne i contrasti fra le varie classi sociali (vv. 245-246; 349-353; 393-395), una figura necessaria al corretto funzionamento del sistema democratico. Euripide, scrivendo in un periodo in cui, dopo la guerra archidamica, emergono le figure dei demagoghi, che dilaniano ancor più il tessuto sociale e politico della πόλις, sembra quindi costruire l’immagine di un capo politico carismatico che rispecchi piuttosto l’ideologia periclea.538 L’ambientazione stessa della tragedia a Eleusi sembra fare tutt’uno con la riflessione politica in essa contenuta, come se la πόλις stessa si fondasse sui valori propri della religiosità eleusina (abbiamo visto però qui sopra come Euripide non rinunci, nemmeno in questo caso, a inserire in tale contesto dottrine in realtà estranee a Eleusi). Se per le Supplici si pensa a una datazione piuttosto alta (forse il 422 a.C.), è interessante il fatto che in un dramma invece senz’altro tardo (databile fra il 411 e il 408 a.C.), le Fenicie, molto probabilmente il terzo dramma della trilogia che abbiamo ipotizzato comprendente Antiope e Ipsipile, ritornino temi presenti già nelle Supplici, associati anche in questo caso a allusioni eleusine. Secondo un’interessante lettura delle Fenicie, infatti, Euripide adombrerebbe nel personaggio di Polinice la figura storica di Alcibiade, unendo così la sua voce alla propaganda a favore del ritorno di Alcibiade.539 La regia dell’operazione politica di cui la tragedia è una manifestazione letteraria sarebbe da ricondurre a Trasibulo, il quale, promotore, nel 403 a.C., alla fine della guerra civile, di una politica amnistiale, improntata ai valori del μὴ μνησικακεῖν (cf. Xen. Hell. II.4.43), impostava su questa linea la sua condotta politica già in occasione dei fatti di Samo del 412-411 a.C..540 Quando Alcibiade, costretto a lasciare Sparta, nell’inverno del 412-11 a.C., riprese i contatti con Atene per ottenere di essere richiamato in patria, incontrata l’ostilità dei Quattrocento, trovò appunto un sostegno nei democratici di stanza a Samo, in particolare nella figura di Trasibulo, nella cui prospettiva il ritorno di Alcibiade in patria, oltre a rappresenta-
538 Per questa interpretazione delle Supplici cf. Cerri (2004), 95-125, dove i passi qui sopra citati della tragedia vengono messi a confronto con le affermazioni di Tucidide sulla democrazia periclea (II.59-65). 539 Cf. Bearzot (1997), 29-52 (in particolare 33-36); Bearzot (1999), 29-47. 540 Quando cioè Trasibulo pacificò Samo, in seguito alla rivolta antidemocratica, esercitando il perdono e affermando un concetto di concordia civile basato sulla solidarietà fra tutte le componenti del corpo cittadino (cf. Thuc. VIII.73-75).
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Capitolo IV: Antiope, Ipsipile, Fenicie, fra dionisismo, orfismo e Misteri eleusini
re una garanzia di salvezza per la città, era pienamente in linea con quei valori di perdono e concordia a cui si ispirava il suo agire.541 Trasibulo, d’altronde, fondava la sua innovativa politica, volta al perdono e alla riconciliazione, sui valori tradizionali della democrazia ateniese, fra cui rivestivano un ruolo centrale «i contenuti fortemente umanitari e solidaristici della religiosità eleusina».542 È pur vero che c’è un’ambiguità di fondo nell’applicazione di questi principi al caso di Alcibiade: questi infatti, che si era fatto nemico della patria per vendetta, rappresentava in realtà l’opposto rispetto alla linea politica proposta da Trasibulo.543 Alcibiade, inoltre, doveva la sua disgrazia proprio a un affronto nei confronti di quello stesso culto nel nome dei cui valori si sosteneva la necessità del suo rientro in patria, tant’è vero che, rientrato a Atene, cercò di riscattare lo scandalo del 415 a.C., relativo alla profanazione dei Misteri eleusini, assumendosi la responsabilità di garantire la processione eleusina, impedita dall’occupazione di Decelea (413 a.C.; cf. Xen. Hell. I.4.20; Plut. Alc. 34).544 Tutto questo trova un notevole riscontro nelle Fenicie di Euripide, la cui convinzione circa la necessità di un leader carismatico, che garantisse il corretto funzionamento della democrazia, espressa nelle Supplici, si adatta bene alla sua adesione alla ‘campagna’ in favore del ritorno di Alcibiade:545 in Polinice, esule ingiustamente scacciato dalla patria, che le muove guerra per desiderio di tornarvi, si rispecchia appunto il personaggio storico di Alcibiade come ci è rappresentato da Tucidide.546 Portatrice delle istanze trasibulee e eleusine è d’altra parte Giocasta, che si fa appunto interprete di valori che mirino a superare la difesa del diritto del singolo (a cui sono comunque sia ancora legati sia Polinice sia Alcibiade, benché ‘vittime’ di 541 Cf. Thuc. VIII.81-82; sull’impegno di Trasibulo a favore del ritorno e della piena riabilitazione di Alcibiade, cf. Bearzot (1997), 37-42. 542 Cf. Bearzot (1997), 44-45; sull’ispirazione eleusina della politica amnistiale, cf. Bearzot (1997), 45, nota 53. 543 Cf. Bearzot (1997), 51-52; Bearzot (1999), 36-37. 544 Cf. Bearzot (1999), 37-38; cf. qui sopra, cap. III.2.3. Se davvero Ipsipile e Fenicie appartenevano alla stessa trilogia (cf. qui sopra, nota 435), risulterebbe non senza significato la possibilità che entrambe le tragedie fossero in qualche modo legate alla figura di Alcibiade: l’Ipsipile proporrebbe, in seguito alla profanazione dei Misteri, un superamento dell’ortodossia eleusina, dal punto vista cultuale e religioso (cf. qui sopra, nota 531), laddove le Fenicie, nella prospettiva di una ricomposizione dei contrasti politici e religiosi, invocherebbero il perdono per il ‘traditore’, in nome di valori politici ispirati all’‘ideologia eleusina’ stessa. 545 Sui rapporti, non sempre lineari, fra Euripide e Alcibiade, cf. Bearzot (1997), 32; Bearzot (1999), 32, nota 13. 546 Cf. Bearzot (1997), 33-36, dove si mettono, nello specifico, in relazione Thuc. VI.92.2-4 e Phoen. 433-434; 491-493.
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un’ingiustizia) in favore di un’etica del perdono e del superamento dei conflitti.547 Rispecchierebbe in particolare direttamente il μὴ μνησικακεῖν trasibuleo l’invito rivolto da Giocasta a Eteocle prima del colloquio con Polinice: κακῶν δὲ τῶν πρὶν μηδενὸς μνείαν ἔχειν (v. 464).548 A tale invito Giocasta dà tra l’altro una precisa valenza religiosa, come emerge subito dopo ai vv. 467-468, dove la regina assegna addirittura a un dio il ruolo di διαλλακτής: κριτὴς δέ τις / θεῶν γένοιτο καὶ διαλλακτὴς κακῶν.549 In questa prospettiva si spiega quindi chiaramente l’invocazione del coro alle dee di Eleusi “portatrici di fiaccola” (vv. 681-689),550 che segue all’episodio in cui Giocasta tenta invano di portare avanti un’azione mediatrice.551 Il tema del ‘perdono’ dei colpevoli, se non all’interno della stessa città, piuttosto in un’ottica panellenica, era affrontato del resto anche nelle Supplici, in particolare nella relazione fra Adrasto e Teseo: quest’ultimo esita infatti da principio nell’offrire il suo aiuto ai supplici argivi, perché li ritiene colpevoli di aver portato una guerra ingiusta e empia contro Tebe; Adrasto riconosce bensì il suo errore, ma implora Teseo di avere ugualmente pietà per lui e il suo popolo (vv. 253-256): οὔτοι δικαστήν εἱλόμην ἐμῶν κακῶν οὐδ᾽, εἴ τι πράξας μὴ καλῶς εὑρίσκομαι, τούτων κολαστὴν κἀπιτιμητήν, ἄναξ, ἀλλ᾽ ὡς ὀναίμην. Adrasto conclude la sua preghiera invocando a testimonio (vv. 260-261) la Terra, Demetra portatrice di fiaccola e la luce del sole. Come Giocasta assegna a “qualche dio” il giudizio dei mali (κριτὴς [...] κακῶν) e implora i suoi figli di obliare i mali passati, Adrasto non invoca né il giudizio né la
547 A Giocasta è infatti affidata la promozione di valori democratici tali da garantire una concorde convivenza, ai quali si richiama spesso Trasibulo nelle nostre fonti storiche, ossia l’ἰσότης (cf. vv. 528 ss., dove la parola è ripetuta in forte anafora ai vv. 536 e 542), l’ὁμόνοια in quanto contrapposta all’ἔρις (v. 351), la σωτηρία in quanto contrapposta alla tirannide (vv. 549 ss.); cf. Bearzot (1999), 38-44. Giocasta si fa dunque interprete della necessità della σύμβασις (“accordo”, v. 85) e della διαλλαγή (“riconciliazione”), un termine, quest’ultimo, che appartiene tra l’altro al lessico amnistiale del 403 a.C.; cf. ancora Bearzot (1997), 43. 548 Cf. Bearzot (1997), 43. 549 Cf. Bearzot (1999), 38-39; di valori analoghi è portatore anche Meneceo, su cui cf. ivi, 44-47. 550 Tra l’altro Demetra è qui identificata con la Terra, πάντων ἄνασσα, πάντων τροφός (v. 686): ancora una volta Euripide ci propone un riferimento eleusino, se non problematico, quanto meno peculiare. 551 Cf. Bearzot (1999), 37.
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Capitolo IV: Antiope, Ipsipile, Fenicie, fra dionisismo, orfismo e Misteri eleusini
punizione di Teseo “per i suoi mali” (cf. in particolare δικαστήν […] ἐμῶν κακῶν), ma soltanto di ricevere da lui del bene (ὡς ὀναίμην), in nome degli dei, fra cui menziona anch’egli Demetra. I due passi sembrano dunque richiamarsi esplicitamente.552 Il possibile richiamo, dunque, con precise allusioni, delle Fenicie alle Supplici è giustificato dal fatto che in queste ultime Euripide aveva già trattato il tema del perdono in relazione al contesto religioso di Eleusi. D’altra parte, nelle Supplici, come abbiamo detto, la rappresentazione di una πόλις perfettamente democratica al suo interno e allo stesso tempo giusta nei suoi rapporti con gli stranieri (in questo caso i supplici argivi) è resa possibile da un leader di stampo pericleo, che sappia indirizzare per il meglio le scelte dei suoi concittadini; le Fenicie, a loro volta, intendono promuovere il ritorno in patria di un personaggio che sia appunto capace di rivestire questo ruolo nella città. Nelle Fenicie Euripide ricorrerebbe dunque ai contenuti tradizionali della religiosità eleusina, pur così spesso da lui stesso ‘manipolata’ perché si aprisse a istanze religiose di origine straniera e/o portatrici di messaggi teologici e escatologici non ‘ortodossi’ (come abbiamo visto anche riguardo alle Supplici),553 con uno scopo politico ben preciso, quello di appoggiare il rientro in patria di un personaggio carismatico, ma discusso, su cui pendeva l’accusa della profanazione di quello stesso culto eleusino, in nome della salvezza della πόλις, nonché della concordia e dell’uguaglianza fra i cittadini. È d’altronde interessante che quegli stessi contenuti ‘eleusini’, in una fase anteriore al dibattito sorto fra il 412 e il 408 a.C. sul ritorno di Alcibiade, siano impiegati da Euripide già nelle Supplici, ancora una volta per esprimere un messaggio politico che, da una parte, affermi il perdono dei colpevoli (in questo caso stranieri), dall’altra celebri l’armonia, l’equilibrio e l’uguaglianza di una democrazia guidata da un personaggio autorevole capace di mediare e appianare i conflitti interni e gestire al meglio le relazioni con l’esterno.554
552 Anche nelle Supplici compare inoltre la parola σύμβασις (v. 739), su cui cf. qui sopra, nota 547, in riferimento al tentativo di Eteocle di proporre un accordo, il rifiuto del quale Adrasto stesso riconosce come causa della sua rovina. 553 Già inoltre nell’Ippolito, la cui controversa religiosità abbiamo esaminato in cap. II, troviamo il tema del perdono, incarnato dal personaggio di Ippolito (vv. 1448 ss.), associato alla religiosità eleusina, in quanto, come sappiamo, Ippolito è appunto un iniziato ai Misteri di Eleusi; cf. al riguardo Lodigiani (1999), 458-478. 554 Giocasta poi, nelle Fenicie, parla dell’uguaglianza come di un valore panellenico, che regoli le relazioni fra le πόλεις e gli alleati (cf. vv. 536-538).
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Conclusioni provvisorie
Conclusioni provvisorie I drammi euripidei ci presentano dunque uno sfondo religioso complesso, da cui emerge una ricerca inquieta e problematica rivolta spesso verso forme di religiosità ‘diverse’ da quella che nell’Atene del V sec. a.C. poteva essere percepita come ‘ortodossia’, ma tali da arricchire e perfino trasformare quest’ultima con nuovi contenuti: abbiamo visto come alla religiosità più tradizionale si intreccino e sovrappongano culti ‘stranieri’, quali quello dionisiaco, esoticamente connotato, e metroaco, oppure culti e dottrine orfiche. La peculiarità di tali culti è infatti connotata non solo in senso più propriamente rituale e ideologico, ma anche in senso geografico: si pensi all’origine orientale, o percepita come tale, dei culti bacchici e metroaci, ma anche a quell’orfismo le cui attestazioni più direttamente riconducibili alla realtà rituale – le lamine d’oro – si collocano nelle ‘aree laterali’, ‘seriori’ o meno esposte del mondo greco (Creta, Tessaglia, Mar Nero, Italia meridionale, dove è opportuno rilevare che, se la colonia ateniese di Turi ci offre numerose e importanti testimonianze, esse sono invece assenti a Atene). Insieme con tutto questo abbiamo osservato, dall’altro lato, la tendenza a superare la religiosità tradizionale dell’Attica e, in particolare, a reinterpretare il complesso mitico-rituale eleusino, a cui Euripide attribuisce nuovi significati e contenuti fino a trasformarlo in qualcosa di completamente diverso, come accade nel secondo stasimo dell’Elena. Fin qui abbiamo dunque cercato di delineare linee di sviluppo coerenti nella rappresentazione della religione e del culto restituita dalle tragedie euripidee prese in esame, per cui non appare opportuno parlare di ‘ateismo’, ma piuttosto di una problematizzazione della questione religiosa (talora mediata anche dalla riflessione filosofica coeva, cf. cap. I), che si risolve appunto nell’interesse per dottrine e credenze ‘non ortodosse’; nei prossimi due capitoli vedremo come nelle due commedie aristofanee in cui Euripide è uno dei personaggi principali, ossia Tesmoforiazuse e Rane, Aristofane interpreti il mondo religioso di Euripide e lo critichi contrapponendogli il suo punto di vista, non solo in fatto di religione ma anche in ciò per cui quest’ultima interferisce con la politica e il modo di concepire e fare teatro. La selezione delle tragedie euripidee analizzate con maggiore approfondimento nella prima parte di questa ricerca (Ippolito, Cretesi, Elena, Ifigenia in Tauride, Antiope, Ipsipile) si spiega, piuttosto che in funzione di uno studio completo sulla religiosità di Euripide, proprio alla luce della necessità di interpretare le parodie e le allusioni aristofanee (in particolare nelle Tesmoforiazuse e nelle Rane) nella prospettiva della ricostruzione di una critica dei culti nel teatro nel V secolo.
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Parte II: Le forme letterarie della critica religiosa: la risposta di Aristofane a Euripide
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Capitolo V: Le Tesmoforiazuse: tragedia euripidea e ‘corruzione’ dei riti tesmoforici
Nel 411 a.C., l’anno dopo la presentazione, agli agoni tragici del 412, della trilogia di cui facevano parte Elena, Andromeda e, probabilmente, Ifigenia in Tauride (cf. qui sopra cap. III), Aristofane porta in scena (forse alle Grandi Dionisie, laddove la Lisistrata, lo stesso anno, sarebbe stata presentata alle Lenee) le Tesmoforiazuse: con questa commedia Aristofane passa, per così dire, al vaglio l’arte euripidea, mettendone in luce non solo il modo degradato di fare tragedia che grazie a Euripide si sarebbe affermato, ma anche l’insidioso contenuto religioso veicolato da quei drammi. Fin dalla parodia euripidea degli Acarnesi (425 a.C.), dove troviamo un Euripide rappresentato a testa in giù (cf. vv. 407-489), Aristofane si era del resto posto il problema dei protagonisti dei drammi euripidei, πτωχοί (cf. vv. 412-413, ma tutta la scena è incentrata sulla rievocazione degli ‘eroi straccioni’ di Euripide) e allo stesso tempo “loquaci e abili parlatori” (cf. v. 429): Euripide, infatti, richiesto da Diceopoli di prestargli gli stracci di Telefo, esprime con nettezza la relazione diretta fra gli ‘stracci’ e gli espedienti retorici con le parole δώσω˙ πυκνῇ γὰρ λεπτὰ μηχανᾷ φρενί (v. 445, “te li darò, visto che escogiti espedienti sottili con mente acuta”), a cui infatti Diceopoli esclama οἷον ἤδη ῥηματίων ἐμπίμπλαμαι (v. 447, “come sono già pieno di paroline!”). Allo stesso modo fino alle Rane Euripide rimarrà, oltre che il poeta ‘filosofo’ del λογισμός e della σκέψις (cf. Ran. 973-974; cf. anche vv. 954-958), il poeta ‘realistico’ degli οἰκεῖα πράγματα (cf. Ran. 959-960), capace appunto di portare tale ‘svilimento’ del mito alle conseguenze estreme, ossia riducendone in stracci gli eroi (cf. Ran. 1063-1064, dove Eschilo accusa Euripide di aver vestito i re di cenci perché “destassero compassione”). D’altra parte, dagli Acarnesi alle Rane, la critica di Aristofane a Euripide si arricchisce e si fa più complessa: il realismo euripideo si configura infatti con nettezza, proprio nelle Tesmoforiazuse, come problema morale, in quanto veicolo di modelli sbagliati capaci di corrompere definitivamente la società. 555 L’Eschilo aristofaneo enuncerà con precisione nell’agone delle Rane il pericolo insito nel realismo euripideo, che, per portare in scena la
555 Sulla rappresentazione di Euripide come ‘poeta comico’, che trae ispirazione dalla realtà, rimanendo però eccessivamente artificioso e estraneo alle questioni politiche più serie, e sul riferimento agli Acarnesi come modello diretto (la relazio-
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Capitolo V: Le Tesmoforiazuse: tragedia euripidea e ‘corruzione’ dei riti tesmoforici
‘verità’, tralascia quei χρηστά per mezzo dei quali la tragedia può svolgere appieno la sua funzione paideutica (cf. Ran. 1052-1056). Nelle Tesmoforiazuse il problema è posto, per così dire, alla rovescia: le donne, per bocca della Prima oratrice nell’assemblea, intendono processare Euripide perché colpevole di avere messo in piazza tutte le loro malefatte, con il terribile risultato di rendere i mariti più guardinghi e attenti rispetto alle loro mogli (vv. 381-432). Si tratta ovviamente di un paradosso comico, di cui Aristofane si serve per manifestare, appunto comicamente, la sua critica al realismo euripideo: Euripide, lungi dal rendere un servizio alla comunità svelando agli uomini le colpe delle donne, si limita a rispecchiare la società senza offrirle alcun modello positivo di riferimento, cosicché, denuncia Aristofane, il mondo è destinato a rimanere identico al teatro che lo rappresenta. Del resto, nell’ottica metateatrale della commedia antica, per cui, per dirla con Lionel Abel, il mondo è teatro e il teatro è mondo, Aristofane (a buon diritto, in quanto commediografo), nel momento in cui si confronta con la tragedia e, nello specifico, quella euripidea, fa della sua scena lo specchio di un mondo di cui fa precisamente parte anche quel ‘cattivo’ teatro tragico venuto meno alla sua funzione educatrice.556 ne Aristofane-Diceopoli rifletterebbe quella Euripide-Parente) nella prima parte delle Tesmoforiazuse, cf. Saetta Cottone (2010), 201 ss.; Saetta Cottone (2016), 7-12; 207-211; sulla stessa linea, cf. anche Voelke (2004). Sulla relazione fra gli Acarnesi e le Tesmoforiazuse, e sui rispettivi prologhi in particolare, cf. qui sopra, cap. I.4. 556 Sul problema della convinzione o meno, da parte di Aristofane, della reale utilità sociale della poesia e di quella drammatica in particolare, cf. ora la recente analisi di Wright (2013), 17-24, dove si tende a vedere nella diffusa e accettata concezione della poesia come fonte di insegnamento uno dei bersagli o, quanto meno, degli oggetti di derisione sfruttati comicamente dalla commedia di Aristofane. Tuttavia, il fatto che il commediografo affronti con ironia, come il suo genere letterario richiede, determinati argomenti, operando semplificazioni e perfino banalizzazioni, non significa che la sua poesia non abbia alcun contenuto da trasmettere, se non lo scherzo più o meno finalizzato alla messa in discussione di luoghi comuni. L’aspetto paideutico della poesia tragica e comica e il suo inscindibile legame con la vita della πόλις, su cui i cittadini-spettatori vengono invitati a riflettere, non sono una semplice communis opinio ma segnano tutta la produzione drammatica pervenutaci del V sec. a.C. e Aristofane, come ogni poeta suo contemporaneo, non è un Callimaco che pratica l’arte per l’arte, ma un artista del tutto immerso nella sua πόλις, sua fonte di ispirazione e allo stesso tempo sua destinataria: il suo messaggio, necessariamente mascherato e perfino distorto dalla forma comica, giungeva ai suoi contemporanei, capaci di decodificarlo e contestualizzarlo, senz’altro meglio di quanto non arrivi a noi, che siamo invece, a nostra volta, perfettamente in grado di capire, per esempio, quali siano i contenuti ‘seri’, di carattere politico, sociale o culturale, che si nascondono die-
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Capitolo V: Le Tesmoforiazuse: tragedia euripidea e ‘corruzione’ dei riti tesmoforici
Il problema morale della tragedia euripidea, prepotentemente portato da Aristofane all’attenzione dei suoi spettatori, appare comunque sia inscindibilmente unito a quello religioso: non è un caso che la seconda donna che prende la parola nell’assemblea tenuta dalle donne durante le Tesmoforie, aggiunga alle accuse fatte dalla Prima oratrice il venir meno della fede negli dei, per cui una povera venditrice di corone di mirto non riesce più a lavorare perché Euripide τοὺς ἄνδρας ἀναπέπεικεν οὐκ εἶναι θεούς (v. 451), dove è altamente probabile che Aristofane si riferisca espressamente alla celebre dichiarazione di ateismo del Bellerofonte (cf. qui sopra, cap. I.2).557 Il messaggio dis-educativo euripideo, che agisce dunque tanto nell’ambito morale quanto in quello religioso (un binomio, che, come vedremo nel prossimo capitolo, è riproposto da Aristofane, negli stessi termini, nelle Rane), per quanto riguarda quest’ultimo, è identificato qui da Aristofane con una vera e propria forma di ateismo. Come abbiamo visto nel I capitolo, se, effettivamente, alcuni passi di Euripide, in particolare decontestualizzati, si prestano a questa interpretazione, la messa in discussione dell’esistenza degli dei è soltanto la manifestazione estrema di un atteggiamento critico rispetto alla religione, rintracciabile in gran parte della produzione euripidea, che, come abbiamo cercato di dimostrare nei capp. II, III e IV, sembra trovare una proposta di soluzione lontano dalla religiosità ufficiale e tradizionale della πόλις. Vedremo ora come Aristofane elabori strategie drammatiche per mettere in ridicolo lo ‘stravolto’ mondo religioso euripideo nel suo complesso: a questo proposito, fra le numerose commedie aristofanee (comprese quelle giunteci frammentarie, il cui contesto non è più ricostruibile) che rendono testimonianza di quell’εὐριπιδαριστοφανίζειν (cf. fr. 342 PCG) con cui Cratino prendeva di mira l’‘ossessione’ di Aristofane verso la poesia euripidea, dobbiamo intanto osservare che sia le Tesmoforiazuse sia le Rane, entrambe strutturalmente concepite come una grande pagina di critica al teatro e a quello euripideo in particolare, presentano una notevole affinità nello tro le battute, anche le più dissacranti, dei nostri comici contemporanei. La tragedia, così come la commedia, di età classica, operando ciascuna secondo le leggi del genere, danno entrambe il loro specifico contributo alla crescita culturale e al miglioramento della πόλις, con la fondamentale differenza che la commedia, con la sua libertà nella rottura dell’illusione drammatica, può ‘criticare’ la tragedia che non assolva o assolva ‘male’ al suo dovere. 557 Per una diversa interpretazione del ruolo della seconda oratrice, come ‘vedova allegra’, il cui mestiere sarebbe da ricondurre all’immagine di Stenebea (evocata ai vv. 400-401) che intesse corone pensando a Bellerofonte (nessuna implicazione religiosa sarebbe quindi da scorgere nelle sue parole), cf. Saetta Cottone (2016), 21-22; 218-223.
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Capitolo V: Le Tesmoforiazuse: tragedia euripidea e ‘corruzione’ dei riti tesmoforici
sfondo religioso, costituito dal culto di Demetra, quello tesmoforico in un caso e quello eleusino nell’altro. Non possiamo infatti escludere, alla luce di quello che abbiamo considerato nei capitoli precedenti, che Aristofane abbia voluto contrapporre la solidità del più sacro dei culti attici, quello appunto tributato alla dea Demetra, alle stravaganti ‘divagazioni’ euripidee, che proprio di quel culto sembrano offrire rielaborazioni e reinterpretazioni. Non è un caso che le Tesmoforiazuse vadano in scena nel 411 a.C., all’indomani dell’Elena, dove Euripide aveva sfruttato l’αἴτιον mitico del culto eleusino e tesmoforico per l’affermazione della potenza del culto frigio della Madre degli dei, di fatto sostituendo quello con questo. Aristofane si rende conto che il messaggio religioso euripideo non consiste nella semplice negazione dell’esistenza degli dei, affermata da qualche personaggio nel culmine della disperazione, poi per questo severamente punito, mettendo quindi piuttosto direttamente a confronto il suo Euripide con i culti tradizionali di Atene, nei confronti dei quali la tragedia euripidea costituisce un’insidia – e tanto più la costituisce proprio nel momento in cui, negli anni terribili fra il 411 e il 405 a.C. (dal colpo di stato oligarchico all’inutile vittoria della Arginuse), la πόλις aveva quanto mai bisogno di attaccarsi alle sue tradizioni, culturali e religiose, che la avevano resa grande: si ricordi infatti che Erodoto, nel cap. 65 dell’VIII libro, racconta come fosse stata una grande nube sollevatasi da Eleusi sulla pianura Triasia, accompagnata da una voce che gridava la mistica invocazione a Iacco, a annunciare all’esercito di Serse, prima della battaglia di Salamina, la sconfitta, manifestandosi come il soccorso portato dalle divinità eleusine alla città di Atene.558 La convinzione di una connessione stretta fra salvezza della πόλις e culto eleusino appare dunque, a chi lo voglia osservare, un dato di fatto fin dalla seconda guerra persiana. Se le Tesmoforiazuse pongono in un certo senso le basi di quella che sarà la riflessione sul teatro, nonché sul modello religioso che dovrebbe essergli di riferimento, sviluppata nelle Rane, bisogna anche osservare che nella commedia del 411 a Aristofane sembra interessare principalmente mettere in ridicolo gli aspetti stilistici, morali e religiosi più controversi dell’arte euripidea e mostrarne la capacità di corrompere la città, laddove le Rane sembrano piuttosto incentrate sul risanamento del teatro e della città al tempo stesso. La corruttibilità della società ateniese è rappresentata ‘maschilisticamente’ da Aristofane, nelle Tesmoforiazuse, attraverso le donne, che non solo, pur dichiarandosi nemiche di Euripide, rappresentano il frutto stesso
558 Sulla relazione fra questo passo erodoteo e le Nuvole di Aristofane, cf. Byl (2000), 150-153.
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§ 1 Il prologo della commedia
del degrado morale indotto dalle sue tragedie, ma, riunite come sono per la celebrazione di una festa demetriaca di fondamentale importanza per la città, in quanto finalizzata a propiziare la fertilità, sembrano subire una progressiva influenza, anche dal punto di vista religioso, del modello euripideo. A differenza delle Rane, così, le Tesmoforiazuse, basate sulla parodia sistematica della tragedia euripidea, non indicano al teatro e alla città una possibile via da seguire in positivo, cosicché lo spettatore rimane infine, per così dire, disorientato. Se per esempio, nel prologo delle Rane, Eracle spiega a Dioniso la via da percorrere indicandogli chiaramente come meta del viaggio l’incontro con gli iniziati ai Misteri di Eleusi, in quello delle Tesmoforiazuse, che presenta notevoli affinità strutturali con le Rane (anche lì due personaggi si recano alla porta di un terzo personaggio per ricevere da lui un aiuto nella presente difficoltà – nello specifico la necessità che qualcuno si introduca travestito da donna nel Tesmoforio a parlare in favore di Euripide), il tragediografo Agatone, a cui si rivolgono Euripide e il suo Parente (κηδεστής, “parente acquisito”), è portatore di un messaggio dal significato più ambiguo. § 1 Il prologo della commedia: l’ἀμηχανία di Euripide, la ‘religione’ di Agatone e la teoria della μίμησις La trilogia tragica portata in scena da Euripide nel 412 a.C. (Elena, Andromeda e, forse, Ifigenia in Tauride, le “escape-tragedies”) costituisce la fonte principale a cui attinge Aristofane, l’anno successivo, per costruire il suo attacco a Euripide nelle Tesmoforiazuse. Sia l’Elena sia l’Ifigenia in Tauride sembrano profondamente influenzate dalla filosofia gorgiana e, di conseguenza, dalla rappresentazione della realtà come qualcosa di illusorio che non può essere colta dai nostri sensi né espressa dal nostro λόγος; il mito stesso, come consegnato dalla tradizione, si rivela contraddittorio e incapace di fornire all’uomo una risposta adeguata ai suoi dubbi (cf. il celebre frammento DK 82 B3). Il risultato è un totale abbandono dell’uomo in balia dell’ἀμηχανία e dell’incertezza su ciò che lo circonda.559 Euripide in 559 Sulla proposta di lettura delle “escape-tragedies” (anche se per l’Andromeda è più difficile formulare ipotesi precise) come incentrate sul tema del rapporto fra realtà e illusione, affrontato da Euripide sulla falsariga della riflessione filosofica di Gorgia, cf. Wright (2005), 270-278; per un’analisi di tale rappresentazione contraddittoria e confusa della realtà in queste tragedie, cf. ancora Wright (2005), 280-337. La lettura nichilistica di Wright può essere tuttavia temperata dall’apertura di Euripide verso ‘forme di sapere’ che in qualche modo superino
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realtà non sembra del tutto escludere la possibilità di trovare risposte all’impasse in cui si trovano i personaggi delle sue “escape-tragedies”: nell’Elena infatti la religiosità incarnata dalla profetessa egizia Teonoe560 o quella che emerge dal secondo stasimo rappresentano tentativi di scorgere qualche verità a cui credere e sottrarsi così al dramma dell’incomprensione. L’Ifigenia in Tauride stessa sembra suggerire un modello di religiosità a cui l’uomo si possa finalmente affidare nella re-interpretazione ‘barbara’ dei culti attici. Sulla scia della recente proposta di Clements possiamo comunque sia vedere nelle Tesmoforiazuse la parodia e, allo stesso tempo, la critica alla passiva ἀμηχανία in cui la tragedia euripidea ridurrebbe gli spettatori-cittadini annullandone ogni senso critico: le prime battute del prologo, infatti, rivelerebbero proprio la volontà di Aristofane di mettere gli spettatori di fronte allo stato contraddittorio in cui finiscono inevitabilmente per cadere Euripide stesso e, con lui, coloro che si lasciano trascinare dalla sua retorica –
le apparenze (cf. avanti nel testo): è significativo infatti che l’incertezza di Menelao circa l’identità della donna che afferma di essere Elena sia risolta, in un certo senso, dal μῦθος dello schiavo, che riferisce la sparizione πρὸς αἰθέρος πτυχάς dell’εἴδωλον, che si rivela essere opera delle Ἥρας μηχαναί (vv. 605-621). Tale μῦθος sembra peraltro avere qualche relazione con il μῦθος cosmogonico di cui si serve l’Euripide aristofaneo nel prologo delle Tesmoforiazuse per cercare di uscire dal suo stesso involuto ragionamento sulla mutua esclusività dell’udire e del vedere (vv. 14-18): anche qui Euripide, senza riuscire a chiarire in realtà alcunché, ma anzi peggiorando la situazione (cf. avanti nel testo), ricorre all’αἰθήρ e al concetto di μηχανή (v. 16) – in questo caso è l’αἰθήρ stesso l’autore della μηχανή. Per una lettura metateatrale dell’εἴδωλον dell’Elena come invito a accettare la finzione teatrale in quanto forma di conoscenza, cf. Saetta Cottone (2016), 38-39; sull’insistenza sul tema dell’apparenza e sul carattere essenzialmente metateatrale dell’Elena, in particolare del personaggio di Menelao, consapevole di essere tale, ossia un eroe in stracci sul modello di Telefo e, soprattutto, del Diceopoli aristofaneo, cf. Zuckerberg (2016), 214-220. 560 Per un’interpretazione dei vv. 1013-1016 dell’Elena come disgiunti dal resto della tragedia, cf. Wright (2005), 263-266; d’altra parte cf. Clements (2014), 163-172, in particolare 166-167, dove, pur nel contesto di una sostanziale accettazione della lettura proposta da Wright, viene visto in Teonoe l’unico personaggio «distinguished positively», in quanto «has proved not only to be the sole sure conduit to reality, but also one who will deceive others in accordance with justice». Cf. qui sopra, cap. III.4.2, sulla possibile relazione delle dottrine di Teonoe con l’orfismo, a cui può essere ricondotto del resto anche il tema dell’αἰθήρ stesso: possiamo qui osservare come il μῦθος rivelatore dello schiavo di Menelao, relativo al ricongiungimento dell’εἴδωλον all’αἰθήρ (cf. qui sopra, nota 559), trovi una significativa corrispondenza con le parole di Teonoe sulla γνώμη ἀθάνατος che, alla morte dell’individuo, si getta εἰς ἀθάνατον αἰθέρα (vv. 1015-1016).
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ruolo che, sulla scena, è svolto dal Parente. Si profilerebbe inoltre sullo sfondo, sempre secondo Clements, una rappresentazione di Euripide e del suo Parente basata su quella degli “uomini dalla doppia testa” di Parmenide, trascinati sul sentiero della δόξα, che conduce a confondere essere e non-essere e quindi a affermare che “le cose che sono non sono”.561 § 1.1 Lo scambio di battute fra Euripide e il Parente nei primi versi del prologo (vv. 1-38) Nei primi dieci versi del prologo il Parente sottopone Euripide a un vero e proprio ἔλεγχος sui concetti di ἀκούειν e ὁρᾶν, scaturito dal fraintendimento da parte del Parente stesso delle parole con cui Euripide si rifiuta di spiegargli dove siano diretti: ἀλλ᾽ οὐκ ἀκούειν δεῖ σε πάνθ᾽ ὅσ᾽ αὐτίκα / ὄψει παρεστώς (vv. 5-6). Il Parente, che intende questo discorso come se si trattasse di un divieto di ascoltare in genere, induce Euripide a definire il nonascoltare “vedere” (v. 7) e l’ascoltare “non-vedere” (v. 8), rendendo così le due attività (vedere e ascoltare) reciprocamente esclusive. Euripide, confondendo quindi essere e non-essere, riduce se stesso e chi lo ascolta nella condizione, come conclude appunto il Parente, di non dovere né ascoltare né vedere (v. 10). I δίκρανοι parmenidei (cf. DK 28 B6, v. 5), che ritengono essere e non-essere la stessa cosa, sono appunto coloro che vagano senza meta κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε (“sordi e ciechi”). Euripide, messo di fronte a tale paradosso, è costretto, ‘platonicamente’, a rinunciare al λόγος per ricorrere al μῦθος, un μῦθος cosmologico, mirante a dimostrare la necessità di distinguere l’occhio dall’orecchio sulla base della loro origine ‘cosmogonica’.562 Poiché lo sguardo di Aristofane sulla tragedia euripidea ne include anche la peculiare proposta religiosa, il μῦθος cosmogonico dell’Euripide aristofaneo diventa l’occasione per prendere appunto di mira quelle cosmogonie ‘orficheggianti’, care a Euripide (cf. qui sopra, cap. I.1), quale quella conservata nel fr. 484 della Melanippe saggia, intrise di elementi tratti dalle
561 Se le “escape-tragedies” mostrano uno stretto legame con le teorie gorgiane, che, a loro volta, partivano dalle premesse eleatiche (nonché empedoclee) per poi rifiutarle, il prologo delle Tesmoforiazuse si servirebbe a sua volta delle premesse parmenidee per metterle in ridicolo; cf. Clements (2014), 46-48. 562 Per l’analisi dettagliata, in questa prospettiva, dei primi dieci versi del prologo, cf. Clements (2014), 12-27; 53-86. Sulle influenze gorgiane e empedoclee nelle parole di Euripide, cf. Saetta Cottone (2016), 166. Per un’analisi del prologo con particolare attenzione alla ricorrenza delle immagini riconducibili all’αἰθήρ, cf. Jay-Robert (2014), 4-6.
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speculazioni filosofiche presocratiche (l’orfismo stesso, del resto, presenta al suo interno tali influssi, cf. qui sopra, cap. I.1.1.4).563 Nel passo aristofaneo si fondono dunque (come doveva del resto già avvenire negli ‘originali’ euripidei) influenze riconducibili a Empedocle (cf. in particolare frr. DK 31 B49; 62; 73; 84; 86; 87), ma anche a Orfeo: a quest’ultimo potrebbe per esempio rimandare la preminenza accordata all’Etere, posto al principio del processo cosmogonico, e al Sole, chiamato in causa come modello dell’occhio umano (abbiamo visto come alcune versioni cosmogoniche orfiche presentino infatti una stretta associazione fra l’Etere e la luce divina di Protogonos, che qui Aristofane riproporrebbe comicamente in questa rappresentazione del Sole come modello usato dall’Etere per la creazione dell’occhio umano).564 La validità del μῦθος tuttavia è messa in discussione già dal risultato dell’ἔλεγχος immediatamente precedente, ossia l’affermazione dell’impossi563 Per una rassegna bibliografica relativa alle interpretazioni della cosmogonia euripidea delle Tesmoforiazuse, se in essa sia da ravvisare una vera e propria parodia di passi euripidei (quali il fr. 484 della Melanippe saggia) o piuttosto una caricatura del cosmo empedocleo (cf. al riguardo, in particolare, Saetta Cottone (2016), 167-168), nonché influenze di altri presocratici (Parmenide, Anassagora, Diogene di Apollonia, Democrito), cf. Clements (2014), 25-26, nota 29. In ogni caso questi aspetti, come abbiamo detto, non si escludono affatto l’un l’altro. 564 L’Euripide aristofaneo utilizza a questo proposito un’espressione particolare (vv. 16-17): ἐμηχανήσατο / ὀφθαλμὸν ἀντίμιμον ἡλίου τροχῷ. L’utilizzo dell’aggettivo ἀντίμιμος, qui alla sua prima attestazione, che indica una “stretta imitazione”, non può non essere messo in relazione con la successiva teoria della μίμησις, posta poco dopo da Agatone alla base della poesia drammatica (sulle implicazioni, in ambito teatrale, dell’aggettivo in questione, in connessione con le parole di Agatone, cf. Saetta Cottone (2016), 168): si osservi come all’elevata consapevolezza teatrale di Agatone (cf. avanti) Aristofane contrapponga le stravaganti teorie mimetiche di Euripide. Il nesso τοῦ ἡλίου ἀντίμιμον compare inoltre nel fr. XIII dei Catasterismi di Eratostene, in riferimento alla costruzione del carro, a imitazione del carro del Sole, per opera di Eretteo; poiché subito dopo Eratostene riferisce la notizia della nascita di Eretteo dalla Terra, sotto forma di serpente, direttamente a Euripide, si è pensato che anche quell’ἀντίμιμον ἡλίου potesse essere euripideo (sulla questione cf. Clements (2014), 26, nota 31), benché nel testo di Eratostene il materiale tratto da Euripide sembri limitato a quanto riguarda la γένεσις di Eretteo (cf. TrGF V.2 F925, fra gli incerta euripidei). D’altra parte, anche se si può verosimilmente pensare a una ripresa nei Catasterismi del passo di Aristofane (cf. Prato (2001), 143, nota 17), non è nemmeno da escludere, poiché, avanti, nel canto di Agatone (v. 120), figura una meglio documentata ripresa euripidea proprio dall’Eretteo, che Aristofane abbia parodiato questa stessa tragedia già nelle prime battute del prologo: in tal caso, nel fr. 925, da considerarsi appartenente all’Eretteo, dovrebbe essere incluso anche l’episodio della costruzione del carro e l’espressione τοῦ ἡλίου ἀντίμιμον.
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bilità di ascoltare e vedere contemporaneamente:565 la narrazione del μῦθος da parte di Euripide ha il solo effetto di far precisare al Parente che proprio a causa dell’imbuto (χοάνη) che formerebbe l’orecchio lui non possa né ascoltare né vedere, perché appunto le due cose si escludono necessariamente l’un l’altra – una devastante conclusione in un contesto teatrale.566 Anche quelle dottrine ‘orficheggianti’ tanto care a Euripide vengono così private della loro reale possibilità di offrire qualche risposta affidabile.567 Il seguito della scena ci mostra il Parente, prima attivamente impegnato nell’ἔλεγχος, ormai del tutto ‘vittima’ della ‘logica’ euripidea:568 quando infatti Euripide, giunto a destinazione davanti alla porta di Agatone, richia565 Cf. Clements (2014), 75-86. 566 Sulle conseguenze, in ambito teatrale, delle affermazioni di Euripide, cf. Saetta Cottone (2016), 166. Clements riconosce in questi versi la «drammatizzazione comica» del fr. B8, vv. 50-61 di Parmenide, dove troviamo l’esposizione dell’errore dei mortali che perseguono il cammino della δόξα, consistente proprio nella costruzione di una «cosmologia dualistica», basata su μορφαί ontologicamente distinte l’una dall’altra (si osservi la corrispondenza del χωρὶς ἀπ᾽ ἀλλήλων al principio del v. 56 del frammento parmenideo con il χωρὶς γὰρ αὐτοῖν al principio del v. 11 delle Tesmoforiazuse) e tali da implicare una confusione di essere e non-essere (cf. Clements (2014), 80-83). Il concetto stesso di φύσις, a cui si appella Euripide al v. 11, è inoltre anch’esso ingannevole, in una prospettiva parmenidea, in quanto associato alla «dottrina mortale del divenire» (cf. ancora Clements (2014), 76). 567 Euripide sembra proporre nell’Elena una possibile via d’uscita dallo stato di confusione in cui si trovano i personaggi (laddove per esempio non riescono a distinguere ciò che è da ciò che non è, cf. qui sopra, nota 559), fra l’altro, come si è detto, con le dottrine di Teonoe, anch’esse in qualche modo legate all’orfismo (vv. 1013-1016, cf. qui sopra, nota 560) e basate appunto sulla distinzione, nell’uomo, di una componente mortale e di una componente immortale, destinate a separarsi al momento della morte: se Euripide sembra attribuire un valore ‘positivo’, in termini epistemologici, a tali dottrine, Aristofane, qui, sembra ridurre all’assurdo e al paradosso questa tendenza euripidea a cercare ‘rifugio’ in tali forme di σοφία. 568 Il Parente, ai vv. 20-21, dopo aver ‘compreso’, sulla base del μῦθος di Euripide, perché non possa né ascoltare né vedere, afferma di “avere piacere” in tali apprendimenti (ἥδομαί γε τουτὶ προσμαθών) e di trovare σοφαί compagnie come appunto quella di Euripide. Nell’agone delle Rane, Dioniso, nel momento di maggiore incertezza fra Eschilo e Euripide, arriva appunto alla conclusione (v. 1413) che l’uno – Eschilo – sia σοφός, mentre l’altro – Euripide – “gli piaccia” (τῷ δ᾽ ἥδομαι): Dioniso, alla fine della commedia, raggiunge infatti una maggiore consapevolezza di quella che non possa avere il Parente – per giunta di Euripide – al principio delle Tesmoforiazuse: mentre il dio del teatro è capace di distinguere in che cosa consista la vera σοφία di un tragediografo, che sappia giovare alla città, il Parente scambia invece per σοφία l’ingannevole sapere di cui fa mostra Euripide.
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ma il Parente prima a un positivo “vedere la porticina” (v. 26) e poi a “tacere” (v. 27), questi risponde con un σιωπῶ τὸ θύριον (v. 27) che, in virtù dell’interpretazione del verbo come causativo, sembra mettere in crisi l’intera comunicazione, dato che il Parente, in seguito al successivo ordine di Euripide di “ascoltare” (v. 28), ribadisce un improbabile ἀκούω καὶ σιωπῶ τὸ θύριον (v. 28), che rivela la contraddittorietà di “ascoltare” la porticina e allo stesso tempo “farla tacere”.569 Se insomma nella produzione euripidea si osserva una generale tendenza al realismo, inteso come svilimento del mito, di cui Aristofane mette in luce, come abbiamo detto qui sopra, sia nelle Tesmoforiazuse sia nelle Rane, il potenziale ‘pericoloso’ in termini di ruolo paideutico della poesia, le “escape-tragedies” propongono invece la sfida epistemologica relativa alla non apprensibilità della realtà, che Aristofane, invitando i suoi spettatori a non cadere vittima dei ‘discorsi sottili’ euripidei, sottopone a una feroce parodia (dati i suoi effetti ugualmente perniciosi). Lungi infatti dal diventare “sordo e cieco” il θεατής – che è allo stesso tempo un cittadino impegnato anche a prendere decisioni sulla vita della πόλις – deve avere orecchie e occhi vigili per essere in grado di discernere il ‘vero’: il parmenideo invito a percorrere la via dell’essere, nell’epistemologia della commedia aristofanea, non può che fondarsi, dato che ci troviamo a teatro, sull’uso corretto dell’udito e della vista.570 Il ‘vero’, inoltre, per quel che concerne in particolare la religione, non può risiedere in un improbabile e ingannevole misticismo di matrice straniera (come nel caso della sacerdotessa Teonoe), ma nelle
569 Poiché tuttavia il valore causativo, qui particolarmente adatto al contesto, è per σιωπάω scarsamente attestato (e in ogni caso al medio, cf. Pol. XVIII.46.4), occorre ipotizzare, secondo Clements, che esso sia da ricondurre a un costrutto «ricercato», basato sull’analogia con verbi di suono quali κτυπέω, ἄχω, ψοφέω (quest’ultimo, osserva Clements, è attestato in questo senso proprio con θύραν come oggetto, per esempio in Men. Dysk. 689-90 – a cui possiamo aggiungere qui anche Perikeir. 126 – nel senso di “batto la porta” = “faccio risuonare la porta”); cf. Clements (2014), 97-103. 570 Cf. Clements (2014), 156-157; 160-161; 185-194, per un’interpretazione complessiva delle Tesmoforiazuse come un invito di Aristofane alla consapevolezza critica degli spettatori, la cui capacità di leggere correttamente l’illusione drammatica permetterebbe appunto loro di non cadere vittime dell’inganno della tragedia euripidea (nel seguito della commedia gli spettatori sono infatti chiamati a riconoscere e a comprendere le parodie euripidee). Aristofane, richiamando i suoi spettatori all’uso critico dei sensi, non si riferisce del resto solo al teatro, ma si allarga anche alla politica, in quanto il pessimismo epistemologico euripideo non può non comportare anche la distruzione della capacità di partecipazione attiva alla vita della πόλις. Sull’attacco al carattere ingannevole della performance tragica nelle Tesmoforiazuse, cf. Saetta Cottone (2016), 38-40.
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credenze che sono patrimonio comune dei cittadini dell’Attica: non è forse un caso che il culmine della rivelazione, e quindi della conoscenza necessaria per completare l’iniziazione, sia costituito nei Misteri di Eleusi dall’ascolto dei λεγόμενα571 e soprattutto dalla visione (ἐποπτεία) degli oggetti sacri (ἀκούειν + ὁρᾶν). Raggiungere il grado finale dell’iniziazione, a Eleusi, significa diventare ἐπόπτης, ossia ‘avere visto, contemplato’. L’ambientazione demetriaca della commedia, seppure incentrata sui riti femminili tesmoforici, del resto non può non comportare anche qualche richiamo al massimo culto attico in onore di Demetra: all’apparire sulla scena di Agatone, subito dopo lo scambio di battute fra Euripide e il Parente, scorgeremo infatti anche qualche riferimento alla realtà cultuale specificamente eleusina. § 1.2 Agatone § 1.2.1 Il ‘messaggio’ religioso di Agatone Agatone, da cui Euripide si aspetta un così fondamentale aiuto, viene fatto entrare in scena da Aristofane secondo il modello delle epifanie divine (l’annuncio del suo arrivo da parte dello schiavo rafforza ulteriormente questa impressione):572 il giovane tragediografo, nello stallo intellettuale in cui sono intrappolati Euripide e il Parente, appare in effetti portatore di un messaggio di ‘verità’, i cui contenuti tuttavia non appaiono così nettamente decifrabili. Eppure l’ambiguità stessa della sua figura, uomo e donna allo stesso tempo, che si riversa sul suo canto, se da un lato sembrerebbe quasi rafforzare l’ἀμηχανία dominante nei dialoghi precedenti, potrebbe anche, dall’altro lato, trovare una sua spiegazione all’interno di quella ‘teoria della μίμησις’ che costituisce il contributo principale di Agatone. La ‘verità’ di Agatone, relativa appunto al teatro, è comunque sia connotata anche in senso religioso: dopo avere rappresentato l’incapacità del teatro euripideo di comunicare (dato che parla a sordi e ciechi), Aristofane si serve di Agato-
571 Cf. Mylonas (1961), 272-273 sui λεγόμενα come «brief comments accompanying the dromena», ossia formule rituali finalizzate a rendere chiaro agli iniziati il δρᾶμα μυστικόν in cui consistevano i δρώμενα eleusini. 572 Sul dibattito relativo alla possibilità di assimilare o meno Agatone a una figura divina (nel secondo caso il ‘comico’ scaturirebbe appunto dalla mancata epifania di una vera divinità), cf. Bierl (2009), 140, nota 144.
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ne per riflettere sul teatro in generale e sui suoi possibili referenti religiosi e cultuali.573 Agatone si esibisce, appena entrato in scena, in un canto (vv. 101-129) con cui si espone all’immediata ‘critica’ del Parente, il quale tuttavia, piuttosto che entrare nel merito del brano appena eseguito, osserva l’abbigliamento di Agatone e gli oggetti che il tragediografo ha con sé (vv. 136-140): coerentemente con il modo di ragionare per opposti appreso da Euripide, il Parente individua un “disordine” (τάραξις), che cerca di organizzare per coppie binarie sul modello dell’opposizione maschile / femminile (βάρβιτος / κροκωτός, λύρα / κεκρύφαλος, λήκυθος / στρόφιον, κάτροπτον / ξίφος).574 Agatone stesso rivela però al Parente come tale τάραξις sia soltanto il frutto di un’illusione teatrale in quanto il poeta, nel momento in cui si accinge a comporre, deve far proprio, mediante l’ “imitazione” (μίμησις), ciò che non possiede direttamente, come per esempio i τρόποι femminili.575 Aristofane svela quindi, attraverso il personaggio di Agatone, la dimensione illusoria del teatro e, nello specifico, del teatro tragico (alla commedia appartiene infatti piuttosto una dimensione metateatrale) e ricorda così, allo stesso tempo, agli spettatori che la manipolazione della realtà operata da Euripide, i cui ragionamenti binari e contraddittori conducono alla confusione, si svolge in effetti all’interno di un mondo fittizio, da tenere distinto dalla realtà. Eppure, al di là dell’illusione creata dal tragediografo, si profila qui l’esistenza di una realtà, che, secondo quanto dice Agatone, interviene direttamente nella creazione artistica: la realtà interagisce infatti con l’arte sia in
573 Sulla possibilità di considerare anche la figura di Agatone in una prospettiva parmenidea, cf. Clements (2014), 130-139: Parmenide, in DK 28 B12, rappresenta infatti la cosmologia fondata sul dualismo della δόξα come opera di una δαίμων ἣ πάντα κυβερνᾷ, che causa l’ἄρσενι θῆλυ μιγῆν, quasi il rovescio della medaglia della dea della Verità che compare al principio del poema. Tale divinità della δόξα è dunque l’artefice della μίξις degli opposti e di quel divenire, che i mortali credono reale e per cui cadono invece in uno stato di ἀμηχανία. Allo stesso modo Agatone, rappresentato da Aristofane come donna e uomo allo stesso tempo, incarna «the processes at the very heart of the generation of this illusory world». 574 Per una discussione sulle considerazioni del Parente ai vv. 136-140 come una parodia del ragionamento binario per coppie di opposti che si escludono reciprocamente, cf. Clements (2014), 138, nota 252. Per un’interpretazione delle considerazioni del Parente su Agatone come riconducibili alla reazione dell’ordinary man, cf. Sissa (2012), 49-57, in particolare 55-57. 575 Sulla μίμησις dell’Agatone aristofaneo, intesa come “rispecchiamento” di sé e dell’altro da sé e sulla possibilità di una relazione di tale concetto di μίμησις con quello formulato da Platone nel III libro della Repubblica, cf. Tulli (2013), in particolare 316-317.
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quanto oggetto di imitazione sia in quanto φύσις del poeta (v. 167). Quest’ultima, in particolare, per quanto appaia anch’essa per certi versi ‘costruita’ (al v. 172 Agatone parla infatti dell’opportunità di “prendersi cura di se stessi”), mantiene una sua stabilità (“Frinico era bello e quindi erano belli anche i suoi drammi”, cf. vv. 165-166) e costituisce anzi una necessità rispetto al risultato finale (due volte viene ripetuto da Agatone il fondamentale concetto di ἀνάγκη, vv. 167; 172).576 Agatone, ripercorrendo il procedimento che è alla base della nascita di una tragedia, individua insomma in esso un progressivo incontro fra illusione / artificio e realtà (cf. qui sopra, cap. I.4). Poiché esiste una realtà di riferimento al di fuori dell’illusione creata dal teatro, lo spettatore, consapevole del carattere illusorio dello spettacolo teatrale, non deve considerare altrettanto illusoria la realtà che interagisce con il prodotto artistico.577 576 Sulla concezione ‘costruttivista’ della φύσις nelle parole di Agatone, cf. Given (2007), 40-42; Clements (2014), 141-142. Sulla possibilità o meno di individuarvi una contraddizione o di attribuire loro qualche validità, cf. qui sopra, cap. I.4, in particolare nota 135. Il problematico commento di Euripide a queste ultime parole di Agatone (vv. 173-174), con cui sembra ribadire un’affinità fra Agatone e se stesso, almeno in gioventù, è stato variamente interpretato (per una discussione, cf. Micalella 2005). Riteniamo qui (si tratta solo di un’ipotesi) che il fatto che Euripide attribuisca alla propria arte, nel passato, il rispetto della φύσις (pur nel suo complesso rapporto con la μίμησις, come la intende Agatone) potrebbe segnalare una distanza fra un Euripide ‘realistico’ (quello che rappresenta le donne così come sono) e l’Euripide attuale delle “escape-tragedies”. Rimane comunque sia il comico contrasto fra la bellezza ‘naturale’ che Agatone ascrive a sé e l’Euripide creatore di personaggi straccioni degli Acarnesi (cf. qui sopra, cap. I.4), rievocati infatti nella seguente parodia del Telefo (cf. avanti). 577 Sulla denuncia aristofanea, attraverso la μίμησις di Agatone, del carattere fittizio dello spettacolo tragico, con particolare insistenza sulla relazione poeta-attore, cf. Saetta Cottone (2010). Cf. inoltre Clements (2014), 144-145, secondo cui Aristofane, attraverso il personaggio di Agatone, sposterebbe l’illusione di cui gli uomini sono vittime dal piano della δόξα (forse dovremmo dire delle δόξαι, considerato il significato di “opinioni” che ha la parola in Parmenide) a quello del teatro: se il mondo della tragedia è quello ingannevole di una para-δόξα percepita passivamente, la commedia ha il compito di svelare la ‘realtà’ (sul carattere metateatrale della commedia, cf. anche Saetta Cottone (2016), 14). D’altra parte, nonostante che la commedia abbia senz’altro rispetto alla tragedia il privilegio di essere metateatrale e possa quindi svelare l’illusione che è alla base del teatro in generale, l’intervento di Agatone sembra mirare piuttosto alla rivelazione del ‘perverso’ rapporto fra illusione e realtà nella tragedia euripidea in particolare: dell’ἀμηχανία è infatti vittima chi, confondendo passivamente l’artificio teatrale con la realtà, si lascia convincere da un modo di ragionare come quello indotto dal teatro euripideo, che rappresenta la realtà stessa come inconoscibile e illusoria.
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D’altra parte non possiamo non accorgerci di come Aristofane renda manifesta un’ambiguità di fondo nella figura di Agatone, consistente nel fatto che, mentre questi rivendica il carattere mimetico e quindi ‘artificiale’ della sua femminilità, rimane l’impressione che egli abbia una reale tendenza all’effeminatezza, per cui gli riesca particolarmente facile l’immedesimazione in personaggi femminili. Del resto, l’ambiguità della personalità reale di Agatone finisce per riflettersi sul suo canto, dove, per esempio, i versi 123-125 sembrano un’evidente spia della non del tutto risolta identità del loro autore: σέβομαι Λατώ τ᾽ ἄνασσαν / κίθαρίν τε ματέρ᾽ ὕμνων / ἄρσενι βοᾷ δόκιμον.578 L’attribuzione di un “grido maschio” alla “madre degli inni” appare l’unica scelta possibile di un poeta che non ha ancora fatto pienamente chiarezza su se stesso. Aristofane sembra quasi invitarci a riflettere anche sul fatto che soltanto percependo, in tutta la sua complessità, la realtà che è dietro l’illusione teatrale potremo comprendere appieno l’una e l’altra. Comunque sia, se l’Euripide delle “escape-tragedies” tende a negare alla realtà qualsiasi apprensibilità e finisce quindi per rifugiarsi in improbabili dottrine misticheggianti o in forme ‘straniere’ di religiosità, per cui del resto mostra interesse ben prima della trilogia tragica del 412 a.C., Agatone, più capace – almeno a livello teorico, tenendo conto delle osservazioni fatte – di distinguere l’illusione del teatro dalla realtà, che non sembra mettere in discussione nella sua esistenza e conoscibilità, sembra allo stesso tempo portatore di un messaggio religioso più ortodosso. Sono state avanzate numerose ipotesi circa la maschera divina indossata da Agatone, che è stato di volta in volta identificato con Afrodite (data la forte connotazione erotica connessa al personaggio) o con Persefone.579 D’altra parte, considerando il canto da lui stesso composto al suo ingresso in scena (di fatto un dialogo
578 Sulla duplice «perversione» della performance di Agatone quale emerge dall’invocazione a Latona in associazione con la cetra asiatica (“maschio grido” emesso dalla “madre degli inni” e modello del canto monodico con accompagnamento della cetra riferito qui al canto corale e alla danza di una collettività), cf. Bierl (2009), 143-144. 579 Interpretando il personaggio aristofaneo di Agatone sulla falsariga della “dea della δόξα” parmenidea, artefice della μίξις dei generi e quindi del nascere e del divenire, Clements individua un parallelismo con il ruolo di Afrodite, in quanto «creatrice dell’Eros», nella «costituzione del mondo fenomenico» (cf. Clements (2014), 133). Secondo l’analisi delle Tesmoforiazuse proposta in Bowie (1993), 205-227, dove si individua nella commedia il modello del mito del ratto di Persefone e della conseguente ricerca di Demetra, il ruolo di Persefone sarebbe svolto dal Parente, tenuto prigioniero dalle donne nel Tesmoforio, e quello di Demetra da Euripide (cf. 214-215); per una discussione sulla relazione PersefoneAgatone, cf. Clements (2014), 128, nota 230.
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fra corifea e coro, dove entrambe le parti sono recitate da Agatone stesso), osserviamo non solo una possibile tradizionale ambientazione troiana (cf. avanti, nota 587), ma anche un sistema religioso di riferimento che si articola fra le figure delle “due dee Ctonie” – Demetra e Kore – e la triade apollinea composta da Apollo, Artemide e Latona, con Apollo in posizione dominante (dopo l’invocazione alle dee Ctonie, v. 101, il dio, in una sorta di Ringkomposition, apre e chiude la successiva invocazione alla triade che a lui fa capo, cf. vv. 107 e 128).580 Agatone sembra dunque presentarsi come una figura ‘apollinea’, impegnato a celebrare la grandezza del dio e del tipo di musica che alla sua figura pertiene, quella della κίθαρις (v. 124). Se attribuiamo dunque a questo canto ‘corale’ (da immaginare collocato in una fase precedente a una vera e propria messa in scena, quella della composizione) il valore di προοίμιον, come è stato ipotizzato,581 possiamo dire che la commedia, dopo una sorta di ‘anti-preludio’ euripideo senza via d’uscita, abbia un nuovo inizio, come si conviene, in onore del dio patrono della musica e dell’arte. Inoltre, l’ulteriore associazione di Apollo alle due dee Ctonie (madre / figlia, come Latona / Apollo e Artemide) si configura come pertinente al contesto specifico del dramma in cui ci troviamo immersi, ossia le Tesmoforiazuse, ambientate nel corso di una festa dedicata appunto alle due dee Ctonie: il tributo di Agatone è dunque rivolto sia al dio dell’arte in generale sia alle dee che sono coinvolte nel contesto specifico della commedia aristofanea.582 Possiamo inoltre provare a individuare una motivazione più profonda del riferimento a Demetra e Persefone, se consideriamo l’altro e
580 Nega invece qualunque «afflato religioso» al testo Prato (2001), 169. Sulla centralità della figura di Apollo nel canto di Agatone e sulle affinità fra quest’ultimo e l’Inno omerico a Apollo (cf. in particolare vv. 189-206), anche per quanto riguarda il corteggio del dio, che compare in entrambi i testi come capo-coro (in Aristofane di un coro di Grazie, v. 122 – ma si ricordi anche il tiaso delle Muse in visita presso Agatone, per cui cf. v. 41 –; in Omero di un coro di Muse, Grazie e Ore, nonché altre divinità), cf. Bierl (2009), 146-148. 581 Come Tucidide (III.104.3-4) ci attesta il nome di προοίμιον per l’Inno a Apollo, così anche il canto di Agatone funziona da preludio che prepara l’ingresso in scena del coro delle donne che celebrano le Tesmoforie (cf. Bierl (2009), 147; diversamente da quanto da noi argomentato qui sopra nel testo, ricordiamo che Bierl interpreta Agatone come un’immagine distorta del poeta Aristofane, in quanto se quest’ultimo a sua volta guida e dirige la sua compagnia di coro e attori reali, il coro di Agatone è immaginario). 582 Sull’invocazione a Demetra e Kore, con cui si apre il canto di Agatone, come ‘aggancio’ al contesto religioso della commedia e al successivo coro delle donne che celebrano le Tesmoforie, cf. Bierl (2009), 142.
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più importante culto loro dedicato, quello dei Misteri eleusini.583 Nella gerarchia del sacerdozio eleusino, infatti, le due cariche principali erano quelle dello ierofante e del daduco (“portatore di fiaccola”) e quest’ultima, in particolare, era appannaggio della famiglia ateniese dei Kerykes. Abbiamo qualche testimonianza sull’abbigliamento del daduco come molto sontuoso, nonché caratterizzato da una certa effeminatezza: Plutarco (Arist. 5.6) ci racconta che, dopo la battaglia di Maratona, un barbaro aveva scambiato il daduco Callia per un re proprio διὰ τὴν κόμην καὶ τὸ στρόφιον, suggerendo quindi che l’aspetto della seconda più alta carica eleusina non dovesse essere troppo dissimile da come vestivano i nobili nell’impero persiano.584 In particolare occorre sottolineare lo στρόφιον come elemento caratteristico dell’abbigliamento di Callia e che proprio lo στρόφιον sia uno degli oggetti che Agatone ha con sé (v. 139).585 Sappiamo infine che i membri della famiglia dei Kerykes, da cui appunto provenivano i daduchi, officiavano anche nel servizio di Apollo Pizio a Delo,586 quasi che rappresentassero un ponte fra l’Attica e uno dei principali culti del mondo ionico.
583 Una connotazione eleusina della Demetra invocata da Agatone è suggerita in particolare dalla rappresentazione dello schiavo che prepara l’ingresso in scena di Agatone come ἱεροκῆρυξ (cf. Bierl (2009), 142), l’araldo a cui nelle cerimonie eleusine spettava il compito di intimare il silenzio (cf. infatti Thesm. 39 ss.); sui sacerdozi di Eleusi, cf. Mylonas (1961), 229-237. 584 A conferma della spettacolarità dell’abbigliamento dei sacerdoti eleusini, ricordiamo che Ateneo (Deipn. I.39 = TrGF III T 103), nell’attribuire a Eschilo l’‘invenzione’ di abiti – per la scena – particolarmente sontuosi, ne afferma l’ “emulazione” da parte dello ierofante e del daduco (καὶ Αἰσχύλος δὲ οὐ μόνον ἐξεῦρε τὴν τῆς στολῆς εὐπρέπειαν καὶ σεμνότητα, ἣν ζηλώσαντες οἱ ἱεροφάνται καὶ δᾳδοῦχοι ἀμφιέννυνται [...]). 585 Anche se i sacerdoti portavano lo στρόφιον verosimilmente intorno alla testa, mentre le donne intorno al petto, sembrando quindi profilarsi una differenza fra i due oggetti, la parola utilizzata è la stessa e lo spettro delle possibilità in una messa in scena non escludono né l’una né l’altra alternativa. Del resto non possiamo sapere con certezza nemmeno se Agatone indossasse davvero tutti gli oggetti che il Parente menziona o se questi fossero presenti sulla scena in altro modo, per esempio sparsi sulla κλινίς menzionata al v. 261: poiché infatti, quando ha luogo il travestimento del Parente da donna (vv. 249 ss.), questi indossa appunto gli indumenti menzionati poco prima in relazione a Agatone, nel primo caso dovremmo immaginare che Agatone avesse tutto doppio o che si spogliasse per porgere i suoi abiti e accessori al Parente (per una riflessione su quello che effettivamente Agatone avesse indosso, se per esempio fosse più simile a una donna ‘contemporanea’ o a un poeta come Anacreonte, e sulla dinamica del travestimento del Parente sulla scena, cf. Muecke (1982), 49-50). 586 Sui rapporti particolari dei Kerykes non solo con il santuario di Apollo a Delo, ma anche con quello di Delfi, cf. Foucart (1975), 157.
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Agatone sembra dunque ancorato a una tradizione religiosa tutt’altro che anomala, ma, anzi, considerevolmente legata alla realtà del culto attico.587 Il Parente di Euripide, d’altronde, pur intrappolato nella sua logica binaria e quindi nella sua generale ἀμηχανία di fronte all’aspetto e al canto di Agatone, introduce un ulteriore spunto interpretativo, che complica e allo stesso tempo arricchisce il quadro fin qui delineato: Agatone gli appare infatti come al re Licurgo appariva Dioniso (il cui nome non viene comunque sia fatto esplicitamente) κατ᾽ Αἰσχύλον / ἐκ τῆς Λυκουργείας (vv. 134-135), dove appunto, negli Edoni in particolare, Licurgo attaccava pesantemente l’aspetto femminile del dio con parole irriverenti, ποδαπὸς ὁ γύννις; τίς πάτρα; τίς ἡ στολή; (v. 136).588 Il Parente, dunque, se da una parte suggerisce di affrontare il problema dell’aspetto femminile di Agatone in un’ottica ‘dionisiaca’, dal-
587 Un preciso riferimento al culto attico sembra anche l’epiteto ἀγροτέρα per designare Artemide (v. 115), venerata appunto come ἀγροτέρα nel distretto ateniese di Agra, proprio dove si svolgevano le cerimonie preliminari dei Misteri di Eleusi, i Piccoli Misteri di Agrai (cf. qui sopra, cap. III.2.3.2). La giustapposizione, nel canto di Agatone, fra Troia e Atene (nonostante l’aperta questione della deducibilità dell’ambientazione troiana del canto di Agatone, cf. Muecke (1982), 46) e fra le rispettive divinità più rappresentative (triade apollinea / coppia Madre e Figlia) potrebbe del resto anche spiegarsi in un’ottica politica, con particolare riguardo alla situazione di Atene nel 411 a.C., l’anno del colpo di stato oligarchico. Se consideriamo i versi 101-103 del canto di Agatone (ἱερὰν χθονίαιν / δεξάμεναι λαμπάδα, κοῦραι, ξὺν ἐλευθέρᾳ / πατρίδι χορεύσασθε βοάν), osserviamo infatti come la caratteristica fiaccola del rito demetriaco sembri collocare la scena a Atene, identificabile appunto con quella “patria libera” in cui il seguito del canto sembra farci riconoscere Troia libera dall’assedio acheo (cf. v. 110). Poiché però Troia è in realtà soltanto vittima di un δόλος, esattamente come Atene, che nel 411 a.C. si illude soltanto di essere libera, il fatto che Aristofane affidi tali richiami alla realtà politica di Atene a Agatone (per riferimenti a pericoli antidemocratici cf. anche i vv. 337-339 pronunciati dal coro comico vero e proprio – un ulteriore elemento che permette di vedere nel canto di Agatone un’anticipazione dei temi principali della commedia) sembra rivelare una contrapposizione fra Agatone e Euripide (come l’autore che induce un annullamento del senso critico negli spettatori) anche rispetto alla consapevolezza politica, oltre che teatrale. Alla luce di tutto questo appare inutile (cf. infatti Austin, Olson (2004), 90), oltre che di grave nocumento per la profondità del testo, accogliere, come fa Wilson, la congettura di Wecklein πραπίδι (“mente, animo”) per il tradito πατρίδι. 588 Ampio è il dibattito in merito a che cosa vi sia di effettivamente riconducibile a Eschilo ai vv. 134-140: rimandiamo all’apparato di Radt in TrGF III F61 per una panoramica sulle proposte avanzate. Sicura sembra l’attribuzione agli Edoni delle parole ποδαπὸς ὁ γύννις, secondo l’indicazione dello scoliasta, ma non possiamo escludere che Aristofane abbia qui sviluppato e arricchito di ulteriori elementi, funzionali al particolare contesto delle Tesmoforiazuse, l’idea di una con-
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l’altra, vittima delle sue nette contrapposizioni (maschile/femminile) senza uscita, non riesce a comprendere, proprio come il Licurgo eschileo, la complessa personalità di Dioniso e, quindi, del teatro stesso, di cui Dioniso è appunto il dio: gli oggetti che Agatone ha con sé, in cui il Parente individua solo una τάραξις (vv. 136-140), hanno per esempio una loro ragion d’essere in virtù delle necessità imposte dall’arte e dalla sua potenza mimetica, sfuggendo alla logica binaria a cui il Parente vorrebbe adeguarli: ciò che il poeta indossa, come afferma lui stesso, è funzionale alla composizione della sua poesia.589 trapposizione confusa e poco chiara di maschile e femminile già presente nel testo eschileo; sull’eventuale stupore destato dal contrasto, negli Edoni di Eschilo, fra attributi guerrieri – lo scudo – e attributi pacifici – la coppa di vino – di Dioniso, cf. ancora Radt, TrGF III F61a. 589 Nella coppia στρόφιον / λήκυθος l’elemento ‘maschile’ e quello ‘femminile’ non sono facilmente distinguibili (motivo stesso, forse, dell’accoppiamento), dato il duplice significato sia dello στρόφιον (indumento femminile ma anche la benda sacra indossata dai sacerdoti, cf. qui sopra, nonché Liddell-Scott, s.v.) sia del λήκυθος (contenitore dell’unguento per gli atleti ma anche boccetta per il profumo usata dalle donne, cf. Liddell-Scott, s.v); sull’opposizione στρόφιον / λήκυθος esclusivamente in termini femminile / maschile, cf. Austin, Olson (2004), 102. Ambigua è anche l’opposizione κροκωτός / βάρβιτος (contrasto fra un abito femminile e uno strumento musicale): infatti il βάρβιτος, legato alla scuola musicale di Lesbo, si adatta alla figura della poetessa-donna per eccellenza, Saffo, cf. il celebre vaso del pittore di Brygos, conservato alle Antikensammlungen di Monaco di Baviera, n. 2416, ca. 470 a.C., dove Saffo ma anche Alceo hanno entrambi un βάρβιτος fra le mani (sul βάρβιτος e i suoi impieghi, prevalentemente privati e simposiali, cf. McIntosh Snyder 1972); del resto Agatone menziona proprio Alceo (v. 162) fra i suoi poeti di riferimento, insieme con Anacreonte, anch’egli poeta φιλοβάρβιτος (cf. Liddell-Scott, s.v. φιλοβάρβιτος); sulla questione cf. avanti, § 1.2.2. Quanto al κροκωτός, al di là o meno della possibilità che fosse presente negli Edoni (esso compare nel fr. 18 Ribbeck3 del Licurgo di Nevio, ma nel fr. 59 degli Edoni si parla di χιτῶνας βασσάρας τε Λυδίας, i quali, in quanto “Λυδίας”, avevano comunque una connotazione orientale), poteva rappresentare, come oggetto di lusso e ‘mollezza’ (cf. Austin; Olson (2004), 102), l’‘Oriente’: il coro dei Persiani nell’omonima tragedia invoca infatti l’ombra di Dario, sottolineando dell’aspetto del re la κροκόβαπτος εὔμαρις (una tipica calzatura orientale) e la tiara (vv. 660-661). Anche il κεκρύφαλος (una ‘cuffia’ per contenere i capelli, cf. Austin, Olson (2004), 102), che suggerisce che Agatone avesse i capelli lunghi, può rimandare a una connotazione orientale dell’aspetto del tragediografo. Del resto, abbiamo ricordato qui sopra l’episodio in cui il daduco dei Misteri di Eleusi, Callia, “per la sua chioma e per il suo στρόφιον” viene scambiato per un principe orientale. La λύρα, infine (in coppia con il precedente), appare in stretta connessione con la celebrazione di Apollo e con quella della κίθαρις presenti nel canto (vv. 107-113; 123-125). L’abbigliamento di Agatone si presta dunque a associazioni molteplici, che superano il sistema binario per coppie secche di op-
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Considerando poi il rapporto per certi aspetti conflittuale – non possiamo sapere se e in che modo risolto – fra Apollo e Dioniso, che la Licurgia metteva in scena, almeno nelle Bassaridi (cf. qui sopra, cap. IV.2.1.2), sembra quasi che il Parente intenda spostare l’asse della religiosità di Agatone da Apollo a Dioniso.590 A questo punto il giovane tragediografo, spiegando al Parente che quanto in lui c’è di femminile è dovuto a un processo di μίμησις, ossia alla necessità, per un poeta che si accinga a scrivere un ‘dramma femminile’, di far propri i τρόποι delle donne, fa bensì sua la rappresentazione ‘dionisiaca’ proposta dal Parente, ma, attraverso il richiamo al carattere illusorio del mondo costruito dal tragediografo che la teoria della μίμησις implica, chiarendone il significato (in realtà non colto dal Parente) nel senso della relazione con Dioniso in quanto dio del teatro:591 nella dimensione dell’illusione teatrale si ‘smontano’ infatti le vane contrapposizioni di stampo euripideo. D’altra parte Agatone, pur riconoscendosi appartenente alla sfera del dio degli agoni drammatici, non rinuncia al modello religioso apollineo: alla proposta dionisiaca del Parente, che evoca il culto di Dioniso nei suoi aspetti più controversi e ‘barbari’ (nonché all’interno di un più ampio quadro di rapporti con l’orfismo, per cui cf. qui sotto), secondo la rappresentazione che doveva essere offerta dagli Edoni di Eschilo, Agatone risponde ri-
posti. Sulla possibilità di riconoscere anche riferimenti dionisiaci, cf. Lada-Richards (1999), 33-36, dove sono ricondotti a Dioniso la veste lunga, il copricapo femminile, il βάρβιτος, lo specchio (su cui cf. qui sopra, cap. II.2.1 e IV.2.2) e la spada (la quale comunque sembra anche rimandare allo scenario troiano, quindi bellico). Sul superamento, nel personaggio di Agatone, in virtù dell’identificazione con il dio del teatro, dell’opposizione femminile/maschile, cf. Saetta Cottone (2016), 12-15; 186-187. 590 Quasi a rafforzare il riferimento alla Licurgia eschilea, il Parente, subito prima di citare il nome di Eschilo, si rivolge a Agatone come ὦ νεανίσκε e sappiamo appunto che la Licurgia era composta anche dai Neaniskoi (la possibilità di questo nesso è accennata, seppure senza essere approfondita, anche in Austin, Olson (2004), 102). Data l’impossibilità di ricostruire l’argomento dei Neaniskoi, non possiamo cogliere il significato di questa probabile allusione: se, secondo l’ipotesi di West (cf. qui sopra, cap. IV.2.1.2), i Neaniskoi erano davvero incentrati sul culto di Apollo, potremmo leggere il richiamo a questa tragedia come una spia della difficoltà del Parente di adattare il modello dionisiaco, alla luce del quale vorrebbe leggere la figura di Agatone, a quello apollineo. 591 Sulla duplice natura del canto corale, insieme coro delle fanciulle troiane liberate dall’assedio greco e un coro ‘comico’, cf. Bierl (2009), 142-143.
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chiamandosi alla personalità del dio del teatro e conciliandola allo stesso tempo con l’appartenenza alla sfera apollinea.592 Possiamo infine considerare la possibilità di individuare sullo sfondo dell’Agatone aristofaneo, secondo la proposta di Di Benedetto, la figura di Orfeo, come autorizza a fare il riferimento alla Licurgia. Il canto di Agatone presenterebbe infatti diversi indizi che conducono a Orfeo, in particolare all’Orfeo delle Bassaridi di Eschilo, quali la devozione per Apollo, la preminenza data alla κίθαρις, l’evocazione del tema delle Muse (cf. vv. 107; 112-113, su cui cf. qui sopra, cap. IV.2.2, nota 493),593 il cui legame con Orfeo è altrettanto forte che con Apollo.594 D’altra parte Agatone, nonostante il collegamento fra la figura di Orfeo e il culto dionisiaco suggerito dal Pa-
592 Non possiamo ovviamente sapere se e in che misura la Licurgia di Eschilo affrontasse il problema dell’identità di Dioniso come dio del teatro, maestro dell’illusione, analogamente a quanto avverrà per esempio nelle Baccanti di Euripide. Agatone sembra in ogni caso suggerire di proiettare la relazione fra Apollo e Dioniso in ambito ‘artistico’, ossia fra i due dei patroni rispettivamente della musica e del teatro (cf. Bierl (2009), 143). 593 Al v. 107 il termine μούσᾳ, restituito al dativo da congettura e accolto dagli editori più recenti (cf. Prato; Austin, Olson; Wilson), ha il significato traslato di “canto”, così come i vv. 112-113 sono relativi alla celebrazione poetica del dio ἐν εὐμούσοισι τιμαῖς (cf. la traduzione in Mastromarco, Totaro (2006), 449, “tu che nelle celebrazioni poetiche esibisci il sacro premio”; cf. al riguardo Austin, Olson (2004), 92-93; Bierl (2009), 143, nota 155). In merito al composto εὔμουσος dobbiamo altresì osservare che, prima del periodo romano, compare solo in Euripide, nell’Ifigenia in Tauride (v. 145; cf. Prato (2001), 172; Austin, Olson (2004), 95); se quindi davvero quest’ultima fosse una delle tre tragedie del 412 parodiate nelle Tesmoforiazuse (cf. avanti), questi versi di Agatone / Aristofane apparirebbero un’esplicita allusione ‘polemica’ ai versi euripidei, confermata dall’analogia strutturale fra i due passi: come in Euripide abbiamo un dialogo fra Ifigenia e coro, che per primo prende la parola invocando la figlia di Latona come Δίκτυννα οὐρεία, un’Artemide doppiamente straniera (cretese e titolare di un culto barbaro, sul Mar Nero), così il canto di Agatone, anch’esso un dialogo fra corifea e coro (cf. Mastromarco, Totaro (2006), 449, nota 17), presenta un’invocazione a Artemide, ma con un epiteto attico, ἀγροτέρα (v. 115, cf. qui sopra, nota 587). Agatone ‘risponderebbe’ dunque a Euripide partendo anch’egli da un tema ‘troiano’, ma orientandolo in una dimensione attica e, dal punto di vista musicale, esaltando il carattere ‘melodioso’ del suo canto, che, lungi dall’essere “privo di lira” (l’aggettivo εὔμουσος compare infatti in Euripide preceduto da negazione, in un contesto in cui si sottolinea il carattere musicalmente spoglio del canto di Ifigenia, οὐκ εὔμουσος e ἄλυρος, vv. 145-146), celebra anzi la cetra alla stessa stregua di una divinità (cf. v. 124). 594 Cf. Di Benedetto (2005), 101. Le parole pronunciate dal servo di Agatone per annunciare l’ingresso del padrone sulla scena presentano dal canto loro ulteriori tratti ‘orfici’ nella rappresentazione del tragediografo, dalla sua ‘intimità’ con le
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rente con la citazione degli Edoni, come abbiamo detto qui sopra, sembra ricondurre la sua relazione con Dioniso solo all’interno del contesto del teatro, ribadendo anche l’appartenenza di Orfeo alla sfera apollinea con un diretto richiamo alla trama delle Bassaridi stesse: Agatone rifiuta infatti nettamente di introdursi nell’assemblea femminile a parlare in favore di Euripide, quasi che temesse di fare appunto la fine di Orfeo dilaniato dalle baccanti.595 Alla luce di queste osservazioni è significativo che Agatone, per rifiutare a Euripide il suo aiuto (cf. v. 194), si serva proprio di celebri parole euripidee, quelle con cui il padre di Admeto, nell’Alcesti, rifiuta di morire al posto del figlio (cf. Alc. 691): χαίρεις ὁρῶν φῶς, πατέρα δ᾽ οὐ χαίρειν δοκεῖς; Si tratta infatti di una tragedia in cui Euripide, a differenza di quanto avverrà nei drammi successivi, si mostra ancora molto vicino alla rappresentazione di un Orfeo ‘apollineo’ (cf. qui sopra, cap. IV.2.1.2). Il riferimento all’Alcesti, reso esplicito da questa citazione, si estende del resto in questa scena all’accettazione da parte del Parente di ‘sacrificarsi’ per Euripide, recandosi a parlare in sua difesa di fronte alle donne: il “Parente acquisito” / Alcesti ac-
Muse, il cui θίασος è in visita presso la dimora del poeta (vv. 40-42), alla rappresentazione della mansuetudine a cui la musica di Agatone riduce gli πτηνῶν γένη e i θηρῶν ἀγρίων πόδες (vv. 45-46). Osserviamo ancora che Agatone, per comporre la sua musica, deve uscire πρὸς τὸν ἥλιον (v. 69): nella testimonianza di Eratostene sulla trama delle Bassaridi eschilee, Orfeo, una volta convertitosi al culto solare, si recava appunto a assistere allo spettacolo del sorgere del Sole. Sulla Licurgia eschilea, cf. qui sopra cap. IV.2.1.2. 595 Cf. Di Benedetto (2005), 101. Di Benedetto collega la rappresentazione di Agatone come Orfeo al dialogo iniziale fra Euripide e il Parente, incentrato sul tema del non udire / non vedere e su una para-cosmogonia che pone l’Etere al principio (per cui Di Benedetto propone un diretto confronto con l’incipit della cosmogonia di Anfione nell’Antiope euripidea, cf. qui sopra, cap. IV.1), entrambi elementi connessi con l’orfismo. Quanto all’ipotesi di Di Benedetto che, con il riferimento alle Bassaridi, Aristofane prenda le distanze dalla versione eschilea ormai superata di uno scontro violento fra Dioniso e Orfeo, possiamo osservare che, mentre il Parente sembra richiamarsi agli Edoni per ‘trasformare’ Agatone in un ‘Dioniso orfico’ (sui rapporti fra Orfeo e Dioniso negli Edoni, cf. qui sopra, cap. IV.2.1.2), come lo incontriamo nei Cretesi, nell’Ippolito e, forse, perfino nell’Elena di Euripide, Agatone ‘sfugge’ in realtà a questa rappresentazione riconoscendosi in Dioniso in quanto dio del teatro e, semmai, in un Orfeo non sacerdote di Dioniso ma poeta seguace di Apollo, che teme di essere dilaniato dalle ‘baccanti’. Ricordiamo tra l’altro l’assenza nelle parole di Agatone di espliciti riferimenti all’αἰθήρ, che compare solo nelle parole del suo servo (v. 43) e nella risposta parodica del Parente (v. 51): del resto la figura del servo di Agatone pare indubbiamente più caricata, dal punto di vista comico, rispetto a quella del padrone e le due figure non paiono perfettamente sovrapponibili.
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cetta di fare per Euripide / Admeto quello che Agatone, nel ruolo del padre di Admeto, aveva rifiutato di fare.596 Aristofane, dunque, sembra cercare di tenere distinta la figura di Orfeo in quanto ‘divino cantore’ legato alla sfera apollinea dal suo ruolo di ‘fondatore’ di culti misterici, lontani dalla religiosità tradizionale della πόλις, incentrati su una particolare versione e interpretazione delle vicende e dei miti relativi a Dioniso. Il problema dell’identità, e di quella cultuale in particolare, di Dioniso viene tuttavia lasciato tutto sommato insoluto: per questo occorrerà aspettare le Rane. § 1.2.2 Agatone e la ‘Nuova Musica’ L’Agatone aristofaneo, nonostante la sua maggiore consapevolezza, rispetto a Euripide, circa il corretto rapporto fra la dimensione reale del mondo e quella illusoria del teatro, e il suo più saldo legame con la religione tradizionale e con la realtà cultuale attica, appare bensì vicino a quelle moderne tendenze musicali che classifichiamo in genere sotto l’etichetta di ‘Nuova Musica’, spesso oggetto, insieme con i suoi rappresentanti, in particolare i ‘nuovi ditirambografi’,597 di feroci parodie da parte di Aristofane.598 La rappresentazione di Agatone, in ogni caso, il cui canto risulta per molti versi problematico dal punto di vista metrico,599 è in realtà più complessa e, secondo la nostra interpretazione, oscillante fra tradizione e innovazione.
596 Cf. al riguardo Saetta Cottone (2016), 193. Al di là della menzione specifica di Orfeo, è stata individuata nell’Alcesti una più ampia insistenza sulla relazione fra morte e vita (sullo sfondo religioso orfico dell’Alcesti, pur considerato secondo una troppo estesa sovrapposizione fra escatologia orfica e eleusina, cf. Assaël (2016); Markantonatos (2013), 131-159), in cui abbiamo più volte ravvisato una spia dell’interesse euripideo per le dottrine orfiche; leggendo l’Alcesti in questa prospettiva, il riferimento alla tragedia acquisirebbe un valore particolare accanto all’iniziale cosmogonia e alla parodia del fr. 487 della Melanippe saggia e del v. 612 dell’Ippolito (cf. Thesm. 272; 275-276, per cui cf. avanti, § 2). 597 Sulla relazione fra ‘Nuova Musica’ e ‘Nuovo Ditirambo’, cf. Csapo (1999-2000), 415 ss.. 598 Cf. Imperio (1998), 75 ss.. 599 È molto tormentata la storia dell’analisi metrica del canto di Agatone: per una rassegna delle varie interpretazioni, cf. Nieddu (2008-2009), 245, nota 25; per un’analisi mirante a ridimensionare l’eccezionalità della metrica di questo brano, cf. Parker (1996), 402; cf. invece Prato (2001), 346 sulle peculiarità metriche del brano.
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Potrebbe essere ricondotta alla ‘Nuova Musica’600 la presenza, per esempio, di ionici soluti, che compaiono infatti anche nella parodia del canto del ditirambografo Cinesia negli Uccelli (vv. 1372; 1376).601 I vv. 120-122 (da inserire, forse, come vedremo, su uno sfondo parodico euripideo) appaiono comunque sia i più problematici, dal punto di vista sia del contenuto sia della metrica, e influenzati verosimilmente dalle nuove tendenze musicali: Λατώ τε κρούματά τ᾽ Ἀσιάδος ποδὶ παράρυθμ᾽ εὔρυθμα Φρυγίων διὰ νεύματα602 Χαρίτων. L’espressione ossimorica παράρυθμ᾽ εὔρυθμα, da riferire ai κρούματα, ossia ai “suoni ottenuti pizzicando le corde della cetra”, riferita dagli interpreti a suoni ‘talora in accordo, talora in disaccordo’ con i movimenti della danza (ποδί) oppure ‘in accordo discordante’ con la danza (tali che, nonostante il disaccordo fra suoni e danza, il risultato finale appaia armonioso),603 presenta un’indubbia difficoltà metrica, la più macroscopica del brano. Eppure tale arditezza risponde comunque a una specifica esigenza mi-
600 Si ricordino qui i macroscopici fenomeni tipici della ‘Nuova Musica’ parodiati da Aristofane, in relazione alle monodie e ai canti corali di Euripide, nell’agone delle Rane, vv. 1309 ss.. 601 Per quanto riguarda la questione dei ritmi ionici e del ricorso alle soluzioni nel canto di Agatone, cf. Parker (1996), 402 (che circoscrive il fenomeno degli ionici soluti al solo v. 122); Prato (2001), 346 (che aggiunge anche i vv. 110; 113; 121); è difficile capire se le soluzioni fossero finalizzate a una specifica parodia dei canti di Agatone (solo un’ipotesi per Parker, ma cf. invece Prato (2001), 346, a favore dell’intento parodico). Sull’influenza della ‘Nuova Musica’ sul canto di Cinesia, cf. Pöhlmann (2017), 196-197; 201. 602 Il Ravennate ha la lezione διανέυματα, che, fra gli editori moderni, è serbata da Prato (Del Corno traduce “note delle Grazie di Frigia”, come apposizione di κρούματα), che la ritiene un ἅπαξ funzionale alla parodia dei διπλᾶ ὀνόματα dei ditirambografi (cf. Prato (2001), 175). Sia Austin e Olson sia Wilson stampano invece il testo secondo la condivisibile congettura di Fritzsche, che libera il campo da problemi di rarità di attestazione e attribuisce alle Grazie il verosimile ruolo di dare il ritmo ai danzatori “per mezzo di cenni del capo”. 603 Trad. Del Corno: “E [celebrando] Latona e i toni d’Asia di ritmo contrario armonioso, note [secondo il testo tradito dal Ravennate, διανεύματα] delle Grazie di Frigia”; trad. Mastromarco, Totaro (cf. anche p. 450, nota 18): “E [celebrando] Latona e i tocchi della cetra d’Asia che discordano e concordano con il ritmo del piede, al cenno delle Cariti di Frigia”. Secondo la spiegazione fornita in Austin, Olson (2004), 94-95, “keeping time with the dance against the rhythm by the aid of nods of the Phrygian Graces”. Cf. tuttavia Prato (2001), 174, dove si preferisce l’interpretazione di ποδί come “piede metrico”.
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metica rispetto al contenuto, senza configurarsi come una stravaganza fine a se stessa: qui ci limitiamo a osservare come l’accordo e il disaccordo si rifletta in una sequenza metrica che presenta un’alternanza di ritmi ascendenti e discendenti (1 lunga + 2 brevi / 2 brevi + 1 lunga), dalla sillaba -δος alla sillaba -νεύ, incastonati all’interno di due cola analoghi (-ματά τ᾽ Ἀσιάe -ματα Χαρίτων, interpretabili come due ionici soluti).604 Il fatto poi che la danza, data l’assenza del coro, non avesse effettivamente luogo sulla scena doveva dare a questa struttura metrica l’aspetto di una ‘sperimentazione’ non del tutto compiuta. Per il v. 120 è attestata poi, dall’Etymologicum Magnum, una parodia dell’Eretteo di Euripide (TrGF 24 F370): benché nel testo euripideo sia ricostruibile un contesto in cui si tratta di musica e strumenti musicali (vv. 8-9), in particolare di “aulo libico” (Λίβυος ἀχάεντος λωτοῦ) e cetra (κιθαρίδος βοαῖς), le parole che secondo il lessicografo sarebbero oggetto di parodia, ossia Ἀσιάδος κρούματα, non sono riconoscibili; potrebbe forse essere integrata sulla base del testo aristofaneo la lacuna segnalata da Kannicht al v. 9, dopo κιθαρίδος βοαῖς (di ca. 13 lettere).605 In ogni caso, il richiamo lessicale, quale che fosse, poteva essere inserito all’interno di una parodia più ampia: poiché il coro euripideo è cantato da vecchi ateniesi che auspicano la partecipazione di una νέα παρθένος al loro coro (cf. vv. 10-11), tale situazione si adatta bene al contesto aristofaneo, in cui il femmineo Agatone, dopo aver cantato il suo brano, viene appunto ‘insidiato’ da una coppia di vecchi, composta da Euripide e dal Parente; la ripresa lessicale euripidea da parte del giovane tragediografo scatterebbe così in questo contesto più ampio procurato dalla vista dei due personaggi che lo aspettano fuori casa.606
604 Sulla possibilità di scandire come lunga la prima sillaba di Ἀσιάδος, cf. Prato (2001), 345; cf. invece Parker (1996), 404; Austin, Olson (2004), 89. Sull’interpretazione ionica di questi versi, accolta da Prato, cf. la discussione in Parker (1996), 404-405. C’è invece accordo sulla diversa quantità sillabica nella sequenza -ρυθμ- in παράρυθμ᾽ εὔρυθμα, a sottolineare ulteriormente l’idea dell’accordo / disaccordo. 605 Questa è la proposta di ricostruzione, in Sonnino (2010), 197; 338-340, per la lacuna dopo βοαῖς: υντ[όνοις Ἀσι]άδος [πο]δί, ossia “i suoni acuti della cetra asiatica che tengon dietro al passo della danza”. In questo caso, l’Agatone aristofaneo risponderebbe a Euripide con l’immagine ‘più ardita’ del passo di danza che non concorda, invece, con i suoni della cetra (cf. qui sopra nel testo), i quali invece tengono il ritmo (εὔρυθμα) grazie ai cenni delle Grazie di Frigia. 606 Inoltre, alla luce di quanto abbiamo detto qui sopra sulla ‘religiosità’ del canto di Agatone, non è forse un caso che Aristofane prenda di mira una tragedia in cui Euripide affrontava in modo per alcuni aspetti peculiare questioni connesse
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Anche se non possiamo sapere con esattezza quale fosse la pointe della parodia aristofanea dell’Eretteo sul versante musicale, il riferimento comune sarebbe (con l’integrazione al testo euripideo) a quella “κίθαρις asiatica”, la cui invenzione si faceva risalire a Terpandro di Lesbo e che, con l’affermarsi delle tendenze della ‘Nuova Musica’, aveva visto aumentare le sue corde fino a undici.607 Se Agatone la colloca in un contesto apollineo, tanto da celebrarla accanto alla divina madre di Apollo e Artemide, Euripide insiste invece altrove sulla sua pertinenza alla sfera dionisaca, come nel Ciclope (vv. 443-444) e nell’Ipsipile (cf. TrGF 71 F752g, vv. 9-10; F759a, v. 1622,608 per cui cf. qui sopra, cap. IV.2.2; del resto il Parente di Euripide suggerisce appunto un’interpretazione dionisiaca della figura di Agatone). Euripide mostra infatti, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, una predilezione per il dionisismo (anche nelle tragedie precedenti alle Baccanti) nei suoi aspetti più lontani dalla ‘religiosità’ ufficiale e, soprattutto nelle tragedie più tarde, per quel tipo di musica entusiastica a quello connessa e verosimilmente caratteristica della ‘nuova ditirambografia’ (come confermerebbe la tendenza della ‘Nuova Musica’ a cercare in una sorta di revival dionisiaco il suo canale di diffusione privilegiato609). Due delle tragedie di argomento troiano parodiate nelle Tesmoforiazuse, ossia il Palamede e l’Elena, dimostrano tale predilezione euripidea connettendo direttamente l’ambientazione ‘frigia’ (o meglio, genericamente ‘esotica’, se si considera anche l’Egitto dell’Elena) ai culti metroaci e dionisiaci. Eppure non possiamo dire che Agatone sia esclusivamente rappresentato come ‘innovatore’:610 se è innegabile infatti la presenza di arditezze metriche, Agatone sembra anche cercare di innovare rimanendo all’interno della
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al culto eleusino (cf. cap. IV.2.4). Se poi ricordiamo quanto detto qui sopra sulla possibile reminiscenza dell’Ifigenia in Tauride nell’uso dell’aggettivo εὔμουσος e il particolare contrasto con il contesto del canto euripideo (cf. qui sopra, nota 593), si spiega ancor meglio anche la parodia dell’Eretteo. Cf. Hagel (2010), 444. Comunque sia, sulla non necessaria e non immediata relazione della nozione di Ἀσιάς (riferita alla κιθάρα) con la ‘Nuova Musica’, anche nel passo dell’Eretteo stesso, cf. Cassio (2000), 105-110. Per una discussione relativa alla “cetra asiatica” nell’Ipsipile rimandiamo al cap. IV.2.2; osserviamo qui che, data la datazione certamente successiva dell’Ipsipile, non è da escludere che l’insistenza in questa tragedia sul tema della “cetra asiatica” rimandi direttamente al prologo delle Tesmoforiazuse (cf. avanti). Cf., a questo proposito, Csapo (1999-2000), 417 ss.. La critica, a partire almeno da Rau (cf. Rau (1967), 105 ss.) ha spesso considerato il canto di Agatone alla luce dei suoi effetti musicali, osservando una dicotomia fra l’aspetto linguistico, generalmente tradizionale, e quello ‘musicale’, aperto invece alle innovazioni (per una panoramica su tale tendenza esegetica, cf. Nieddu (2008-2009), 246-247). La parodia del taglio linguistico di Agatone e della sua
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tradizione, senza cioè snaturarla del tutto.611 Non è forse un caso che i suoi modelli poetici e musicali di riferimento non siano certamente ‘moderni’ (vv. 160-165), ma appartengano alla fase ‘arcaica’ della tragedia e della melica monodica e corale, ionica e eolica, Frinico, Ibico, Alceo, Anacreonte:612
eventuale ‘audacia’ in ambito musicale non sembra comunque sia avere gli effetti negativi che comunica per esempio nelle Rane la parodia della musica di Euripide, dove la ‘Nuova Musica’, più visibilmente parodiata (vv. 1309 ss., su cui cf. qui sopra, nota 600), si accompagna alla tendenza euripidea alla trivialità, alla riduzione del mito alla quotidianità, nonché a modelli di religiosità discutibili (cf. avanti, cap. VI). Se Eschilo censura nella musica di Euripide le “dodici posizioni” di Cirene (1327-1328), il Parente paragona Agatone, al suo ingresso in scena, alla stessa celebre cortigiana; il Parente tuttavia, come sappiamo, non ha capito alcunché di Agatone (v. 98), tant’è vero che nelle Rane Aristofane ci dice che la vera Cirene è proprio Euripide. 611 Il canto di Agatone si caratterizza per la presenza di anacreontici (dimetri ionici anaclastici), fra cui Parker (come anche Austin e Olson) include i vv. 107; 117; 118 e 123, in quanto «variazione dell’anacreontico» (attestato sia in Anacreonte sia in Eschilo, cf. Parker (1996), 402, oltre che in Pindaro) – Prato preferisce infatti parlare di ionico + epitrito II. Tenendo presente l’interpretazione dell’anacreontico come un enoplio «ionizzato», potremmo quindi considerare i vv. 107; 117; 118 e 123 a loro volta come forme ioniche di enopli, la cui associazione con gli epitriti è attestata in Pindaro (cf. Pyth. IV.1-14, dove al v. 7 compare un anacreontico, mentre nelle strofe successive l’enoplio assume proprio la stessa forma dei versi aristofanei in questione), Bacchilide (cf. Ep. V) e in Eschilo (cf. Prom. 526-35; 536-44, dove sono alternati in responsione il doppio epitrito all’anacreontico); cf. Gentili (1962), 116-125; 132. I versi 107; 117; 118 e 123 sembrano comunque sia avere la funzione, in un amalgama coerente, di ‘ponte’ fra i dimetri trocaici (vv. 105; 111; 112), avendone lo stesso ritmo nella loro seconda parte, e i metri ionici. Nella parte finale del canto di Agatone c’è invece una prevalenza di ritmi dattilici (vv. 126-128), dove possiamo scandire i vv. 126-127, con Prato (p. 346), come alcmani: Ibico, uno dei poeti di riferimento di Agatone, in un carme di argomento troiano, associa due alcmani all’hemiepes maschile e a un enoplio (fr. 282 Page, vv. 23-26); Eschilo, in Pers. 115-139, inserisce ritmi cretici, trocaici e dattilici dopo una serie di ionici (cf. qui sotto, nota 615). Alla predilezione di Agatone per la lirica monodica lesbia possiamo infine ricondurre i metri coriambici (vv. 106; 110; 113; 119; 125), per cui cf. Parker (1996), 403; Austin, Olson (2004), 88-89; per una diversa lettura, Prato (2001), 346. Il nesso considerato da Prato cretico + coriambo ai vv. 106; 119; 125 è sempre tale che il cretico ha il terzo piede soluto: si tratta cioè di un peone, il metro del peana, come se Agatone intendesse rifuggire il cretico, non appartenente al repertorio eolico e ionico, evocando, allo stesso tempo, Apollo. 612 Agatone sembra in particolare legato anche nell’aspetto a Anacreonte, come dimostrerebbe l’iconografia vascolare di quest’ultimo, cf. McIntosh Snyder (1974). Tuttavia, sulla questione degli arcaismi nella ‘Nuova Musica’ come possibile «copertura» delle innovazioni, cf. Cassio (2000), 110, nota 41.
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fin dai Banchettanti, nell’agone della commedia, il figlio recalcitrante alla παιδεία tradizionale era sottoposto alla prova di recitare uno scolio di Alceo e di Anacreonte (fr. 235 PCG),613 poiché appunto il canto simposiale e la musica tradizionale a questo associata non interessava più ai giovani intellettuali; si ricordi la scena analoga fra Strepsiade e Fidippide in Nub. 1353 ss., dove il poeta oggetto di disprezzo da parte di Fidippide, evocato dal padre come simbolo di un costume simposiale ormai perduto, è Simonide. La metrica del canto intende evocare senza dubbio un’ambientazione ‘orientale’ (in virtù di quella μίμησις di cui Agatone fornisce subito dopo la spiegazione), ma con effetti che potrebbero andare al di là dell’immediata rappresentazione di un Oriente effeminato, percepita dal Parente di Euripide.614 Nonostante il suo ‘virtuosismo’ metrico, infatti, Agatone sembra porsi, per certi aspetti, sulla scia di Eschilo, che, per esempio, nei Persiani si serve bensì degli ionici per creare una sorta di couleur locale, ma il contesto, come ben dimostra la parodo (vv. 65-139), è quello del presentimento di lutti e sciagure, a cui seguirà infatti la notizia di una tremenda sconfitta, subita dall’impero allora più potente – una situazione non dissimile da quella della guerra di Troia stessa.615 Gli ionici di Agatone si inseriscono dunque in questa tradizione, che ci permette di ampliare lo stereotipo del613 Sul frammento in questione, cf. Cassio (1977), 78-79; la presenza del βάρβιτος fra gli accessori di Agatone conferma la sua predilezione per contesti simposiali (cf. qui sopra, nota 589). 614 Gli interpreti tendono comunque sia a mettere in luce l’effetto di effeminatezza e languore che i ritmi ionici dovevano comunicare: cf., per esempio, Prato (2001), 169-170; Mastromarco, Totaro (2006), 449-450; Nieddu (2008-2009), 245-246; ora, Saetta Cottone (2016), 181-182. Sulla relazione della ‘Nuova Musica’ con Dioniso e l’Oriente, cf. Csapo (1999-2000), 422-424. 615 Erodoto stesso (I.3) pone in diretta relazione le guerre persiane con la guerra di Troia. Ricordiamo inoltre che, se la parodo è nei Persiani il brano più ricco di ionici, il coro canta in ionici anche all’apparizione del fantasma di Dario, per esprimere rispetto e timore di fronte al re (vv. 694-695; 700-701), così come in ionici parla Serse (vv. 950-953; 962-965) quando descrive la tremenda vittoria degli “ioni” sui persiani a Salamina (due volte Ἰάων è ripetuto in forte anafora a inizio di verso e seguito dal nome di Ἄρης stesso nei vv. 950-952; il v. 951-952 è interpretabile come enoplio + ionico, con il nome di Ἄρης nella parte finale dell’enoplio). Gli ionici descrivono dunque sia i persiani, un popolo sottomesso a un re, non libero, ma allo stesso tempo potente e terribile in guerra, sia gli ioni, la cui vittoria è dovuta, dal punto di vista dei persiani, al sostegno di Ares. Nelle Coefore gli ionici (nella forma di anacreontici) compaiono nel compianto funebre di Agamennone (cf. vv. 327-330; 357-360) con lo scopo sia di ‘minacciare’ la vendetta reclamata da chi muore per il danno di qualcuno sia di descrivere la figura di Agamennone, la cui gloria in vita si perpetua anche nell’aldilà. Eschilo ricorre infine agli ionici nell’esodo delle Supplici (cf. vv. 1018-1061): l’argomento
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lo ionico come ritmo languido, effeminato, in quanto, ricreando l’ambientazione orientale della guerra di Troia, ne lasciano allo stesso tempo intuire la tragica fine. L’aspetto effeminato dello ionico è del resto controbilanciato da Agatone per mezzo di enopli, epitriti e ritmi dattilici (cf. qui sopra, nota 611), che potrebbero avere una relazione con lo sfondo ‘bellico’ del canto, cioè il canto di gioia delle fanciulle troiane per la fine di una guerra, che in realtà non è finita (se di questo si tratta). Non sembra nemmeno che allo ionico possa essere attribuito in questo caso un necessario e esclusivo potere evocativo rispetto alla religiosità dionisiaca (cf. qui sotto, nota 623; Eschilo, nelle Supplici, sembrerebbe suggerire piuttosto un’associazione apollinea, cf. qui sopra, nota 615): Agatone non sembra interessato a rappresentare un ‘Oriente frigio’ patria di una religiosità quale poteva essere quella dei culti ‘orientali’ di Dioniso o della Grande Madre,616 mentre con le allusioni a Troia del suo canto sembra piuttosto cogliere l’occasione per parlare di Atene, delle due dee Ctonie, così importanti nella vita religiosa della πόλις, e della loro connessione con il culto apollineo. La predominanza stessa del tema apollineo ‘attutisce’ la possibile connotazione dionisiaca dei ritmi ‘orientali’ e di eventuali concessioni alle tendenze della ‘Nuova Musica’.617 Quanto al riferimento all’armonia frigia, riconosciuto nella menzione delle Grazie di Frigia dallo scolio al passo, non possiamo essere del tutto certi
‘femminile’ della tragedia potrebbe qui davvero far pensare alla connotazione ‘effeminata’ dello ionico, anche se si tratta di protagoniste che rifiutano il ruolo di moglie; è poi significativo che con il metro ionico Eschilo esprima la massima delfica apollinea, τὰ θεῶν μηδὲν ἀγάζειν (v. 1061). 616 Cf. invece Austin, Olson (2004), 95. 617 La differenza fra ‘compostezza’ della musica apollinea e ‘frenesia’ di quella dionisiaca è senz’altro un’errata semplificazione, date le frequenti intersezioni fra i due ambiti, anche nel contesto cultuale delfico stesso; d’altra parte, la connotazione dionisiaca della ‘Nuova Musica’ poté favorire, almeno in una prima fase, questa contrapposizione: Euripide, per esempio, nell’Eracle, sembra fare una distinzione fra il canto apollineo, accompagnato dalla κιθάρα, per la celebrazione delle fatiche di Eracle (vv. 348 ss.) e la descrizione della follia di Eracle, per la cui rappresentazione si serve di un immaginario (anche musicale) dionisiaco (vv. 878-895), sebbene i due mondi sembrino trovare un punto di incontro nel secondo stasimo (vv. 674 ss.); cf. anche Csapo (1999-2000), 419. La maggiore resistenza della musica associata al culto e alla figura di Apollo emergerebbe comunque sia da un papiro ellenistico (DAGM, n. 20, del 128-127 a.C.) contenente la musica del Peana Delfico di Ateneo, di cui colpisce come la prima sezione, in onore di Apollo, evochi melodie arcaiche, mentre la seconda, marcatamente ditirambica e dionisiaca, sia caratterizzata dalle rapide modulazioni tipiche della ‘Nuova Musica’; cf. Hagel (2010), 281-283.
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che il canto di Agatone fosse stato composto secondo l’armonia frigia (anche perché nel testo stesso di Aristofane non sembra trattarsi di ἁρμονία cioè di “connessione” della sequenza melodica, ma di fatti di ritmo). Del resto, nonostante gli indubbi collegamenti fra armonia frigia e dionisismo (nonché metroacismo) e fra quest’ultimo e la ‘Nuova Musica’, è opportuno anche considerare la particolare interpretazione fornita da Platone in Resp. 399b-c appunto sull’armonia frigia, che, pur tendenzialmente associata a eccessi entusiastici,618 viene rappresentata come “pacifica” in quanto μίμημα di chi agisce σωφρόνως τε καὶ μετρίως ἐν πᾶσι τούτοις. Occorre dunque rilevare che in questo passo del III libro della Repubblica (un libro che senz’altro deve molto alla ‘teoria della μίμησις’ dell’Agatone aristofaneo, cf. qui sopra, nota 575) Platone possa avere subito l’influenza anche della peculiare ‘compostezza’ delle “Grazie frigie” di quello stesso Agatone. Forse non è dunque nemmeno sorprendente che Platone escluda dal suo stato ideale il flauto, tradizionalmente connesso con l’armonia frigia, e accetti λύρα e κιθάρα, definiti τοῦ Ἀπόλλωνος ὄργανα (Resp. III.399d-e): non è improbabile una relazione con la celebrazione della κίθαρις, elevata al rango divino, fatta da Agatone nel suo canto.619 Agatone, dunque, nel complesso, per certi versi ancorato, nella rappresentazione di Aristofane, alla tradizione, dal punto di vista religioso e poetico-musicale, ma, allo stesso tempo, sensibile alle innovazioni,620 proprio per tale ‘oscillazione’ fra legami con il passato e nuove tendenze risulta una
618 Cf. Gostoli (1995), 137-141 (per la relazione fra armonia frigia e culto dionisiaco e metroaco, cf., per esempio, Eur. Bacch. 155-159; Ps.-Plut. Mus. 1137d; Arist. Pol. 1342a32-b2). 619 Sul problema dell’armonia frigia in Platone, cf. Gostoli (1995), 133-144; sulla divinizzazione della cetra, nel canto di Agatone, come parodia del primato assunto dalla musica sulla parola nelle nuove tendenze poetiche, cf. Nieddu (2008-2009), 247-248. Eppure Agatone potrebbe ricorrere alla celebrazione della cetra per ribadire il carattere apollineo del suo canto, lasciando per così dire sullo sfondo l’αὐλός dionisiaco, pur evocato da quel κῶμος al v. 104, nonché dalle “Grazie frigie” stesse (la chiave caratteristica del flauto è infatti quella frigia, cf. Hagel (2010), 283); sul ‘composto dionisismo’ di Anacreonte, modello di Agatone, cf. Gostoli (1995), 138-139. Quanto all’introduzione dell’armonia frigia in tragedia, che risalirebbe a Sofocle (quindi a una fase precedente a quella dello sperimentalismo dei ‘nuovi ditirambografi’), cf. Mastromarco, Totaro (2006), 451, nota 19). La divinizzazione della cetra potrebbe altresì rimandare al mito del catasterismo della cetra di Orfeo (cf. qui sopra, cap. IV.2.1.2). 620 Il Parente, subito prima che Agatone entri in scena, si chiede come sarà il suo canto: μύρμηκος ἀτραπούς, ἢ τί διαμινυρίζεται; (“[canterà] le vie della formica o in tono flebile? ”), con un’alternativa fra un canto secondo le nuove tendenze (per la metafora della formica cf. anche Ferecrate, fr. 155 PCG riguardo alla mu-
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figura ancora non ben definita (la sua ambiguità sessuale simboleggiando tutto questo), che non può quindi rappresentare per la πόλις la salda guida culturale di cui questa avrebbe bisogno.621 Non è forse un caso che Eschilo, che nelle Rane risulterà il solo a poter assumere questo ruolo, appaia qui sica di Timoteo; su tali immagini in riferimento alla ‘Nuova Musica’, cf. Hagel (2010), 269-270) o un canto languido (per μινύρομαι cf. Aristoph. Eccl. 877 ss., riguardo a canti d’amore alla maniera “ionica”). Dopo il canto, che il Parente ne abbia ricavato un’impressione di vicinanza del giovane Agatone al mondo degli intellettuali ‘effeminati’, che potevano mostrare un’apertura allo sperimentalismo non solo linguistico ma anche musicale, emerge in quell’ὦ κατάπυγον con cui gli si rivolge (v. 200) e che compare anche nella parabasi delle Nuvole (v. 529) per designare, in contrapposizione con il fratello σώφρων, il co-protagonista dei Banchettanti, un personaggio appartenente alla cerchia dei sofisti e contrario all’antica παιδεία ateniese. Eppure non bisogna dimenticare che tale interpretazione della figura di Agatone è quella del Parente di Euripide, influenzato dalla pessima παιδεία euripidea: Agatone, che pone Alceo e Anacreonte fra i suoi poeti di riferimento, è in realtà una figura non sovrapponibile al Fidippide delle Nuvole dopo il ‘trattamento’ del φροντιστήριον o al καταπύγων stesso dei Banchettanti e non riducibile a uno stereotipo preciso. Inoltre all’audacia musicale del suo canto corrisponde un’ispirazione religiosa pienamente inscrivibile negli schemi della religiosità attica tradizionale. È d’altra parte possibile che le tendenze innovative del giovane Agatone (che tra l’altro dovette essere allievo di Gorgia) abbiano in seguito avuto il sopravvento: sulla questione dell’introduzione o meno da parte di Agatone in tragedia del genus chromaticum (su cui cf. Hagel (2010), 446 ss.), cf. Austin, Olson (2004), 87-88; Mastromarco, Totaro (2006), 451, nota 19. 621 Aristofane parla di Agatone anche nelle cosiddette Tesmoforiazuse seconde, successive alle Tesmoforiazuse, dove il tragediografo veniva preso in giro per le sue “antitesi rasate” (fr. 341 PCG), con un doppio riferimento a una caratteristica del suo stile ricercato e alla sua effeminatezza (per il rasoio, cf. anche Thesm. 215 ss.). Il contesto della commedia non è purtroppo più ricostruibile (forse più ampio spazio dovevano avere le effettive fasi in cui si svolgeva la festa e in particolare l’alternanza fra digiuno del secondo giorno e banchetto del terzo giorno, cf. frr. 333-334); il tema femminile doveva essere anche qui ovviamente preponderante (cf. fr. 332, con un lungo elenco di oggetti tipici dell’abbigliamento delle donne, fra cui ξυρόν, κάτοπτρον, v. 1, στρόφιον, v. 4, e κεκρύφαλος, v. 6, compaiono anche nel ‘guardaroba’ di Agatone delle Tesmoforiazuse prime), ma non sappiamo in che modo fosse connesso con la figura di Agatone né se questi comparisse fra i personaggi della commedia. La parodia euripidea era invece forse più organica, come dimostrerebbero quello che sappiamo del prologo, recitato da una divinità alla maniera di Euripide (Καλλιγένεια, connessa a Demetra, cf. fr. 331), e un frammento con la parodia del nome di Anfione con evidente riferimento all’Antiope euripidea (fr. 342, per cui cf. Carrière (2000), 219). Date le peculiarità religiose e forse anche musicali di questa tragedia (cf. cap. IV.1), non sorprenderebbe una specifica parodia di Aristofane. Agatone compare infine anche in un frammento da una fabula incerta (fr. 592 PCG): è significativo che al tragediogra-
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sullo sfondo del dialogo fra Agatone e Euripide, proprio in relazione alla figura del dio del teatro. Euripide dovette essere in ogni caso molto influenzato dalle problematiche affrontate da Aristofane in questo prologo: l’irriso tragediografo sembra infatti quasi rispondere al commediografo – in un certo senso accettando la rappresentazione di Aristofane, secondo un meccanismo che incontriamo altrove nelle questioni di rivalità letteraria –622 nelle di poco successive Antiope e Ipsipile (per cui cf. qui sopra, cap. IV; sulla parodia dell’Antiope nelle Tesmoforiazuse seconde, cf. nota 621), dove viene affermata e ribadita la connessione fra orfismo e dionisismo (‘approvata’ anche da Apollo), con i suoi riflessi in ambito musicale, verosimilmente secondo le tendenze della ‘Nuova Musica’ (si ricordi, nell’Ipsipile, la storia degli Euneidi). Nelle ancora più tarde Baccanti, Euripide approfondisce ulteriormente tale rappresentazione del dionisismo, insistendo in particolare sulla sua origine orientale (nonché cretese) e sulla sua connessione con il culto metroaco:623 se la fo sia ricondotta l’espressione πεύκας φωσφόρους, che, forse, potrebbe implicare qualche richiamo demetriaco. 622 Che gli autori teatrali, almeno per la commedia, nel presentare al pubblico le loro produzioni, indossassero essi stessi una maschera cucita loro addosso dai rivali è un fatto accettato nella critica: cf. Wright (2013), 10-16, in particolare 12-13 (dove si mette per esempio in rilievo che nel fr. 488 PCG, dall’Accampamento delle donne, Aristofane sfrutti la fama della sua ‘ossessione’ per Euripide e se ne ‘giustifichi’ ribadendo la superiorità del suo intelletto, analogamente a quanto fa Cratino nella Damigiana con la sua fama di ubriacone, dovuta in gran parte proprio a Aristofane); sulla questione della rivalità in ambito comico, cf. ancora Bakola (2008), 1-29. Gli Acarnesi di Aristofane ripropongono d’altra parte lo stesso meccanismo a partire dal confronto fra generi rivali più che fra poeti che praticano lo stesso genere letterario, cf. Zanetto (2006), 307-323. La vicenda letteraria che coinvolge Aristofane e Euripide conosce poi dopo gli Acarnesi ulteriori sviluppi, in cui i due autori, ognuno secondo le leggi del proprio genere, rispondono l’uno all’altro basando una parte importante della propria identità poetica stessa nella relazione con il ‘rivale’: cf. per esempio Zuckerberg (2016), sulla relazione fra Telefo, Acarnesi e Elena in merito al tema dell’eroe vestito di stracci. 623 Non è un caso che le Baccanti siano la tragedia in assoluto più ricca di ionici, che evocano bensì, come nel canto di Agatone, un’ambientazione orientale, ma anche una dimensione religiosa assolutamente dionisiaca e metroaca (i metri ionici, associati a metri eolici, dominano nella parodo, vv. 64-169; nel primo stasimo, vv. 370-432; nel secondo stasimo, vv. 519-575). Aristofane si servirà degli ionici nella parodo delle Rane (vv. 324-335; 340-353), nell’invocazione a Iacco, quasi a volersi ricollegare al Dioniso delle Baccanti euripidee, ma allo stesso tempo contrapporvisi, associando immediatamente Dioniso a un contesto ben diverso da quello ‘orientale’ euripideo, ossia quello ateniese della processione eleusina.
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scena della vestizione di Penteo da baccante (vv. 810-846), in una sorta di «paracommedia», si basa su quella del Parente di Euripide da donna (vv. 213-265) – in entrambi i casi si tratta poi della violazione di un culto, quello dionisiaco da una parte e quello demetriaco dall’altra –,624 è significativo che Euripide ascriva a Dioniso il ruolo che Aristofane aveva attribuito a lui stesso (artefice della μηχανή e del travestimento del personaggio-vittima), quasi come per rivendicare per sé una corretta (almeno dal suo punto di vista) interpretazione della figura del dio del teatro, soprattutto a livello religioso.625 § 2 La violazione delle Tesmoforie Poiché, come abbiamo detto, Agatone si rifiuta di soccorrere Euripide – rifiutandosi di violare le cerimonie sacre a cui solo le donne hanno accesso – il Parente accetta di travestirsi da donna e di recarsi nel Tesmoforio per perorare la causa di Euripide: Agatone fornisce bensì il materiale per il travestimento, ma senza partecipare in altro modo a un’azione drammatica che è interamente euripidea. La bassa qualità del risultato finale della trasformazione del Parente in donna è la spia, a nostro parere, dell’incapacità teatrale di Euripide stesso: mentre la mimesi di Agatone è talmente ben riuscita da indurre il Parente a paragonarlo a Cirene, per se stesso il Parente non trova altro raffronto che Clistene (v. 235), cioè non una vera donna, ma un noto omosessuale.626 Se la partecipazione del Parente ai riti tesmoforici rappresenta già di per sé un atto di empietà nei confronti dei riti di Demetra, Aristofane approfondisce l’estraneità di Euripide rispetto al culto demetriaco nel corso dei vari tentativi fatti da lui stesso e dal Parente di sottrarsi all’ira delle donne dopo la scoperta, da parte di queste ultime, del travestimento del Parente. Allo stesso tempo le donne, sebbene riunite per partecipare ai sacri riti, ri-
624 Secondo l’analisi di Cerri, sulla scorta di un’intuizione di Di Benedetto, cf. Cerri (2011), 99-116. 625 Sulle corrispondenze strutturali fra Tesmoforiazuse e Baccanti, cf. Saetta Cottone (2010) (dove si riconosce nelle Baccanti la volontà di Euripide di rispondere metateatralmente alle accuse di Aristofane riguardo all’incapacità della tragedia euripidea di dar vita a un «universo d’illusione»); Zuckerberg (2016), 204, nota 22. 626 Cf. Sissa (2012), 52-53. Per un’interpretazione del fallimento della μίμησις euripidea in quanto messa in atto dal Parente, che contravviene alle indicazioni di Euripide, cf. Voelke (2004), 132-133; Saetta Cottone (2016), 25-27; 34-37. Per una diversa lettura, cf. Schwinge (2014).
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velano, con il procedere della commedia, sempre più la loro ‘corruzione’, anche rispetto alle cerimonie stesse a loro riservate. Con l’ultima trilogia tragica, andata in scena nel 412 a.C., Euripide aveva esplorato l’illusorietà della realtà e la sua non-apprensibilità per l’uomo, ma quello che rimproverano le donne a Euripide è proprio la sua eccessiva aderenza alla realtà, nei suoi aspetti peggiori: le loro accuse sono infatti rivolte a drammi precedenti al 412 (cf. per esempio la menzione di Fedra e Melanippe al v. 547, su cui cf. qui sotto). In entrambi i casi, del resto, il modo di Euripide di trasporre la realtà sulla scena (la sua μίμησις) risulta dis-educativo, in quanto o porta gli uomini a essere “ciechi e sordi” (come avviene con la trilogia del 412, dove infatti non compaiono donne ‘corrotte’, ma anzi Elena, la γυνὴ πονηρά per eccellenza, viene liberata dalle sue colpe) o riproduce modelli di comportamento negativi. Tali modelli non riguardano solo la morale, ma anche la religione – i due aspetti sono ovviamente legati: se la Prima donna che prende la parola contro Euripide (vv. 383-432) insiste sul fatto che il tragediografo denunci i reali crimini domestici delle donne, rendendo così gli uomini più guardinghi nelle loro case, la Seconda donna (vv. 443-458) accusa invece Euripide di “aver persuaso gli uomini che gli dei non esistano” (v. 451), facendo così diminuire le pratiche di devozione (anche in questo caso il punto di vista è quello comicamente utilitaristico di una donna che non riesce più a vendere corone di mirto627). Si osservi tuttavia che questo secondo discorso di accusa è impostato in modo diverso dal precedente: non si tratta infatti di svelare oscenità della vita quotidiana, ma di persuadere di qualcosa di falso, in particolare sul piano religioso, appunto che gli dei non esistano. È in fondo proprio questo il problema principale ravvisabile nelle “escape-tragedies” del 412 e messo in rilievo nelle prime battute del prologo, un contenuto conoscitivo e religioso fallace. Notiamo inoltre che i due discorsi sono legati, nonostante la differenza di impostazione, da un esplicito riferimento alla vicenda di Stenebea e Bellerofonte, a cui allude sia la Prima donna con la “menzione dell’ospite corinzio”, cioè Bellerofonte (vv. 401-406) sia la Seconda con il riferimento alla dichiarazione di ateismo del medesimo nel fr. 286 del Belle-
627 Considerando l’incidenza della religiosità cretese nelle tragedie euripidee, fino all’Ifigenia in Tauride, dove Artemide è invocata appunto come Δίκτυνν᾽ οὐρεία (v. 127), è interessante osservare che a Dictinna sia attribuito il rifiuto del mirto nel suo culto (alla dea, infatti, nella sua fuga da Minosse, sarebbe rimasta impigliata la veste in un ramo di mirto, cf. Call. h. Dian. 201-203); cf. Jessen, RE s.v. “Diktynna”, 585-586.
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rofonte (per cui cf. qui sopra, cap. I.2).628 È dunque legittimo leggere i due ‘atti d’accusa’ l’uno alla luce dell’altro, riconoscendo in entrambi la denuncia da parte di Aristofane dell’incapacità di Euripide di adempiere correttamente al suo ruolo paideutico: come abbiamo detto al principio di questo capitolo, infatti, le donne stesse che lo accusano di denunciare le loro malefatte non sono altro che il risultato di tale pessima παιδεία; anche da Euripide dipende la corruzione morale delle donne, nonché l’abbandono della religiosità tradizionale nella πόλις. Il nome di Fedra ricorre nella maldestra difesa del Parente (v. 497), nonché nella risposta che gli rivolge la Prima donna con l’intento di tornare a accusare Euripide (v. 547): oltre alla fama e notorietà dell’Ippolito, vale la pena ricordare, per valutare l’insistenza su questa tragedia in questo contesto, la particolare ‘empietà’ dell’amore di Fedra per Ippolito, che, come abbiamo visto, assume la forma di una vera e propria violazione dell’ἐποπτεία stessa dei Misteri di Eleusi.629 Il riferimento al personaggio di Melanippe potrebbe poi collegarsi direttamente alla para-cosmogonia euripidea del prologo (cf. qui sopra, § 1) e quindi alle tendenze orficheggianti della religiosità euripidea.630 Un’esplicita citazione dell’Ippolito e della Melanippe saggia compare comunque sia già al termine del prologo, quando il Parente chiede a Euripide di giurare che, se il piano non funzionasse, userebbe ogni τέχνη per salvarlo: Euripide giura con le parole del fr. 487 della Melanippe saggia (ὄμνυμι τοίνυν αἰθέρ᾽, οἴκησιν Διός, v. 272), a cui il Parente reagisce citando alla rovescia (e vanificandone così il contenuto) il celebre verso 612 dell’Ippolito (μέμνησο τοίνυν ταῦθ᾽, ὅτι ἡ φρὴν ὤμοσεν / ἡ γλῶττα δ᾽ οὐκ ὀμώμοκ᾽, οὐδ᾽ ὥρκωσ᾽ ἐγώ, vv. 275-276). Abbiamo già preso in esame la possibilità di scorgere uno sfondo orfico dietro entrambi questi versi (cf. qui sopra, cap. I.1.3): considerando che tali versi ricompaiono entrambi ai vv. 100-102 del prologo delle Rane, potremmo attribuire questa conti-
628 Il primo riferimento è alla Stenebea (TrGF 61 F664), mentre il secondo al Bellerofonte, due tragedie unite fra di loro dall’argomento. Per una diversa analisi del senso dell’intervento della Seconda oratrice, cf. qui sopra, nota 557. 629 La menzione di Fedra nella difesa di Euripide da parte del Parente (vv. 497-501) implica, secondo Cowan (cf. Cowan (2008), 315-320), una più ampia parodia euripidea, di cui è una spia quell’ἐγκεκαλυμμένον / τὸν μοιχόν ai vv. 500-501, che sembrerebbe rimandare direttamente al titolo della prima versione dell’Ippolito, quella in cui Fedra doveva tenere un comportamento ben più riprovevole che nella seconda versione della tragedia (cf. qui sopra, cap. II.1.1). 630 Abbiamo fin qui considerato le allusioni esplicite a determinati drammi (Bellerofonte, Stenebea, Ippolito, Melanippe saggia); per altri possibili, ma soltanto impliciti riferimenti nel discorso di accusa della Prima donna e nella successiva risposta del Parente, cf. Cowan (2008), 319-320.
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§ 2 La violazione delle Tesmoforie
nuità alla volontà, da parte di Aristofane, di sviluppare una precisa e ben riconoscibile critica religiosa a Euripide. Vedremo ora più nel dettaglio come la commedia di Aristofane mostri l’influenza negativa della tragedia euripidea sul piano religioso, specificamente rispetto al culto demetriaco, e come appunto le donne, con il procedere della commedia, rivelino sempre di più il loro adeguamento alla ‘corrotta’ e ‘traviata’ religiosità euripidea.631 § 2.1 Lo sfondo religioso della parodo Le partecipanti alle Tesmoforie, che appaiono fin dalle loro accuse stesse a Euripide così ‘degne allieve’ della παιδεία del tragediografo, al loro ingresso in scena, con la parodo (vv. 295-371),632 esprimono tuttavia sentimenti religiosi del tutto in accordo con la religiosità tradizionale attica, riproponendo nella loro preghiera l’associazione fra divinità tesmoforiche (vv. 295-297)633 e ‘triade apollinea’ (vv. 315-316; 320-321), intorno alla quale si articolava il
631 Per l’individuazione, nelle Tesmoforiazuse, di una corrispondenza fra significato della festa che fa da sfondo alla commedia e parodia della tragedia euripidea (se le tragedie anti-femminili di Euripide appaiono in corrispondenza con le Tesmoforie in quanto mondo rovesciato, in cui le donne si isolano paralizzando la fertilità della città, seppur per favorire la fertilità stessa per l’anno successivo, la commedia avrebbe il compito di riportare la normalità), cf. Bowie (1993), 226-227; cf. invece il diverso parere di Sommerstein (2001), 10. Possiamo d’altro canto considerare il rapporto fra Euripide e le donne rispetto alla religione anche nel senso di una cattiva influenza dell’uno sulle altre: la corruzione dei personaggi euripidei va infatti al di là dell’astinenza rituale tesmoforica, nella direzione di un vero e proprio sovvertimento morale e religioso, a cui le donne sono propense a adeguarsi. Sulle diverse posizioni assunte dai critici circa la relazione fra la commedia e il culto, cf. Auffarth (2007), 387-409; Saetta Cottone (2016), 15-16 con un’ulteriore analisi del ruolo del culto tesmoforico nella commedia. 632 Per un’analisi della parodo delle Tesmoforiazuse, cf. Bierl (2009), 149-171. Sulla fusione di contesto politico e religioso nella parodo delle Tesmoforiazuse, individuata da Bowie, cf. anche Habash (1997), 25-31; Prato (2001), 217-219; Saetta Cottone (2016), 200-206; cf. anche 17-19 per l’interpretazione del coro comico come formato da eroine euripidee, Fedre e Stenebee, «degradate». 633 La Donna Araldo introduce la parodo con queste parole (vv. 295 ss.): εὐφημία ἔστω, εὐφημία ἔστω. εὔχεσθε ταῖν Θεσμοφόροιν {τῇ Δημήτρῃ καὶ τῇ Κόρῃ} καὶ τῷ Πλούτῳ καὶ τῇ Καλλιγενείᾳ καὶ τῇ Κουροτρόφῳ {τῇ Γῇ} καὶ τῷ Ἑρμῇ καὶ Χάρισιν. Per l’analisi delle relazioni interne a questo gruppo di divinità e la loro connessione con le Tesmoforie, cf. Bierl (2009), 153-154; in particolare, sull’associazione della Terra, di Ermes, delle Grazie e di Pluto a un contesto demetriaco, cf. 154, nota 183. Possiamo a questo proposito ricordare un calendario di sacrifi-
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canto di Agatone. Le donne ampliano qui la loro preghiera alla divinità poliade di Atene (vv. 317-319) e, significativamente, a Posidone (vv. 322-324), con riferimento alla contesa fra le due divinità per il possesso dell’Attica (prima ancora che venga menzionato Posidone, Atene è infatti definita πόλις περιμάχητος, vv. 318-319). Le divinità invocate non solo delineano uno scenario perfettamente congruente con la religiosità tradizionale dell’Attica, ma si inseriscono anche in un contesto musicale che esclude qualunque tipo di legame con le innovazioni musicali: sulla base di quanto abbiamo osservato qui sopra (cf. § 1.2.2), cioè che la musica associata a Apollo rappresentasse una sorta di baluardo della tradizione e della ‘vecchia maniera’, possiamo interpretare in questo senso l’insistenza del coro sul motivo della ‘cetra di Apollo’, che compare sia nell’epiteto del dio (χρυσολύρα, v. 315) sia in un’invocazione specifica allo strumento stesso (χρυσέα δὲ φόρμιγξ / ἰαχήσειεν ἐπ᾽ εὐχαῖς / ἡμετέραις, vv. 327-329), che rimanda al canto di Agatone (dove compare ugualmente l’aggettivo χρύσεος, ma riferito all’arco di Apollo). È notevole d'altronde che per il suono di tale cetra si dica che ἰαχήσειεν, che sembra delineare una presenza dionisiaca sullo sfondo, ma inserita anch’essa in un complesso cultuale attico con un rimando ai Misteri di Eleusi:634 se nelle Rane Aristofane svilupperà appunto decisamente in tal senso il problema dell’identità cultuale di Dioniso, nelle Tesmoforiazuse la sua figura appare però più sfuggente e di difficile definizione. La prospettiva della critica al ‘diseducativo’ teatro euripideo, che Aristofane assume in tutta la commedia, sembra ostacolare una rappresentazione positiva, anche dal punto di vista religioso, del dio del teatro, di cui, come abbiamo visto, Euripide delinea, fin dai Cretesi, una raffigurazione per certi aspetti controversa. Si direbbe che la parodo, come anche il prologo, nasconda Dioniso dietro un immaginario prevalentemente apollineo (la Donna Araldo al termine della sua preghiera introduttiva alle Tesmofore e alle divinità a queste associate grida tre volte ἰὴ παιών, quasi a invitare il coro a cantare in onore di Apollo635). È del resto significativo, in questa prospettiva, che quanto
ci datato al 480-460 a.C. dove troviamo, a breve distanza l’una dall’altra (nonostante lo stato molto frammentario dell’iscrizione), la menzione della Κουροτρόφος, delle Grazie e di Artemide (cf. IG I3 234.9-15), mentre subito prima, alle righe 3-5, sono ricordati Ζεὺς Μιλίχιος e la Μήτηρ ἐν Ἄγρας (sulla cui identificazione, cf. qui sopra, cap. III.2.3.2), riconducibili entrambi ai culti praticati nel distretto di Agrai. 634 «The Apollonian sound must here ring out in an almost Dionysiac fashion; the verb thus reminds one of the cry of iakkhos at the Eleusinian procession»; cf. Bierl (2009), 163. 635 Sui possibili significati del “peana” in questo contesto, cf. Bierl (2009), 157-158.
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§ 2 La violazione delle Tesmoforie
nella parodo potrebbe alludere al culto dionisiaco nelle sue diverse manifestazioni, come per esempio l’ὀρειβασία (cf. vv. 320; 326), sia mediato da Artemide e dalle Ninfe, compagne abituali di quest’ultima, e appaia quindi inglobato in una dimensione apollinea.636 Rispetto al canto di Agatone, infine, dove alla rappresentazione di Apollo in un contesto probabilmente troiano sono associati riferimenti all’armonia frigia (cf. qui sopra, § 1.2.2; qui, invece, le Grazie invocate dalla Donna Araldo al v. 300 non sono più “frigie”), nella parodo, Apollo è il dio di Delo (v. 315, il santuario dove appunto officiavano anche i Kerykes eleusini, cf. qui sopra § 1.2.1) e sono quindi assenti allusioni a culti o musiche ‘straniere’.637 § 2.2 La prima violazione della festa: la parodia del Telefo Lo scenario, appena ricostruito, ricco di riferimenti alle tradizioni religiose e, più in generale, culturali della πόλις, è tuttavia subito incrinato dalle ac-
636 Sulle connessioni dionisiache delle Ninfe ὀρείπλαγκτοι (v. 326), del verbo ἰαχέω (v. 328), nonché, eventualmente (ma mancano dirette associazioni in tal senso, se non la comune pertinenza alla sfera della μανία), dell’aggettivo οἰστροδόνητος (v. 324), cf. Bierl (2009), 162-163. 637 Sull’assenza di riferimenti alla “danza circolare” del coro, in contrasto con il canto successivo ai vv. 947-1000, in quanto sarebbero risultati incongrui rispetto al contesto ‘civico’, cf. Bierl (2009), 153; 161; 172; sulla connessione della danza di Ninfe, Nereidi e delfini alla sfera dionisiaca, cf. Bierl (2009), 162, nota 214, ma anche alle tendenze del ‘Nuovo Ditirambo’, cf. Csapo (1999-2000), 420-422. Il contesto in cui compaiono le Ninfe nella parodo delle Tesmoforiazuse non sembra comunque sia così marcato come nel coro successivo ai vv. 947-1000 (cf. avanti, nota 667). Sulle influenze del ‘Nuovo Ditirambo’ nella metrica del canto, cf. Zimmermann (1987), I, 114-115; cf. invece Prato (2001), 347-348. Le scelte metriche marcate (annoverate da Zimmermann fra le innovazioni metriche), del resto, presentano un legame preciso rispetto al contesto: strutture come quelle del v. 316 (peone + coriambo) o del v. 328 (ionico isolato; cf. però Parker (1996), 408; Prato (2001), 347 come baccheo + adonio) sembrano infatti definire la figura divina specificamente invocata: il peone + coriambo, per esempio, è riferito a Apollo (cf. qui sopra, nota 611); il v. 328 (ἰαχήσειεν ἐπ᾽ εὐχαῖς), interpretato da Zimmermann come un dimetro ionico, farebbe da mediatore fra la φόρμιγξ, uno strumento apollineo, e il riferimento dionisiaco (ἰαχήσειεν; cf. qui sopra, note 623; 634). Sembra dunque che nella parodo, come già nel canto di Agatone, le novità musicali, non vistose, siano piuttosto piegate all’espressione di sentimenti religiosi tradizionali (cf. infatti Zimmermann, 115), come se le donne, pur mostrando già i segni di quella ‘corruzione’ che risulterà evidente a partire dalla parodia del Telefo, fossero ancora legate ai valori tradizionali.
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cuse stesse che le donne rivolgono a Euripide e con cui esse si mostrano così simili ai personaggi euripidei. La prima grande scena di paratragedia, relativa al Telefo euripideo (vv. 689-764),638 che permette tra l’altro a Aristofane di ricollegarsi direttamente agli Acarnesi, dove appunto la parodia euripidea era incentrata su questa tragedia (vv. 430 ss.),639 rivela l’aperta violazione del ‘digiuno’ del secondo giorno della festa: la ‘bambina’, che il Parente prende in ostaggio (chiamandola significativamente ἡ κόρη (v. 733) – un’eco demetriaca che accresce lo straniamento religioso640), come faceva appunto Telefo con il piccolo Oreste nella tragedia di Euripide, non è altro che un otre di vino (vv. 730-738).641 La festa demetriaca si trasforma empia-
638 Cf. Clements (2014), 144-158, in particolare, 145-149, secondo cui, se il prologo ci mostra il mondo della tragedia come il mondo ingannatore di una para-doxa acquisita passivamente, attribuendo invece alla commedia il compito di rivelare la realtà, il resto delle Tesmoforiazuse consisterebbe in una dimostrazione di tutto questo, rivolgendo «un implicito invito» al pubblico «a impegnarsi criticamente nei processi del teatro» e a fare nuovamente esperienza della «finta realtà» delle costruzioni euripidee. 639 Sul ruolo metateatrale del Telefo nelle Tesmoforiazuse (dal discorso del Parente all’assemblea, vv. 466 ss., alla scena dell’ostaggio, vv. 692 ss.), interpretate come para-commedia degli Acarnesi stessi, e sulle differenze fra l’utilizzo del Telefo in questi ultimi e nelle Tesmoforiazuse, cf. Saetta Cottone (2016), 25-30; 223-232; 248-256. Se consideriamo il ‘dialogo’ a distanza fra Acarnesi e Elena sul tema del Telefo (cf. Zuckerberg 2016), si spiega coerentemente, data la diretta dipendenza delle Tesmoforiazuse dall’Elena (cf. avanti), la ripresa, nelle Tesmoforiazuse, di scene e temi degli Acarnesi (cf. qui sopra, nota 555), inclusa la parodia del Telefo, segno di un dialogo serrato fra i due poeti. 640 Per l’individuazione del significato demetriaco della parola κόρη, cf. Saetta Cottone (2016), 253. 641 Il Parente, resosi conto dell’inganno delle donne, prorompe in un’invettiva contro queste ultime come ποτίσταται / κἀκ παντὸς ὑμεῖς μηχανώμεναι πιεῖν (vv. 735-736). Poiché la Prima oratrice, nell’assemblea, aveva accusato Euripide di rappresentare le donne come οἰνοπίπας (v. 393), la scena della parodia del Telefo è una conferma di come le donne rispecchino la tragedia euripidea, allo stesso tempo come fonte di ispirazione e come risultato della sua cattiva παιδεία. Osserviamo inoltre che il tema del vino è collegato da Aristofane a quello delle Antesterie (vv. 746-747), le quali, se nelle Rane rappresentano un momento fondamentale della ‘ricostruzione’ dell’identità ateniese di Dioniso (cf. cap. VI), qui appaiono del tutto decontestualizzate, inserite all’interno di un momento di digiuno rituale da cui il vino dovrebbe essere bandito. Aristofane potrebbe perfino alludere all’improbabile scelta fatta da Euripide nell’Ifigenia in Tauride di legare le Antesterie a un culto ‘barbaro’ di Artemide, importato dalla Tauride (cf. qui sopra, cap. III.3); del resto si fa esplicito riferimento alla festa dei “Boccali” (v. 746), la cui istituzione, nell’Ifigenia in Tauride, avviene appunto prima della partenza di Oreste per la Tauride.
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mente (si tratta della violazione del digiuno rituale) in una festa para-dionisiaca, con l’assunzione, da parte delle donne che celebrano le Tesmoforie, di comportamenti da baccanti.642 Se il secondo stasimo dell’Elena, con il suo rimprovero all’eroina di essersi sottratta al ruolo di baccante, trasformava il culto demetriaco in un culto metroaco ‘orientale’, quasi identificato, a sua volta, con il culto bacchico, possiamo leggere in questa luce anche la violazione del rito tesmoforico che emerge dalla parodia del Telefo, come se Aristofane intendesse rivelare in anticipo (rispetto alla successiva parodia delle “escape-tragedies”) la tendenza delle donne a ‘tradire’ la religiosità demetriaca per diventare seguaci di un Dioniso ‘euripideo’. Il Parente, ormai prigioniero delle donne, ricorre poi a una nuova μηχανή tratta da un’altra tragedia euripidea di argomento troiano (come il Telefo e l’Elena), il Palamede (vv. 769-775), in un frammento del quale, nonostante che ci sia preclusa una reale possibilità di ricostruzione dello sfondo religioso del dramma, troviamo ancora il binomio cultuale Dioniso-Madre degli dei (cf. TrGF 52 F586, su cui si vedano le considerazioni fatte qui sopra in cap. III.2.4 in riferimento all’evocazione dello stesso culto, presentato come una necessità a cui nessun mortale può sottrarsi, nel secondo stasimo dell’Elena). Si osservi a questo punto la contrapposizione fra la Troia (se di essa si tratta) apollinea che emerge dal canto di Agatone e lo scenario cultuale che fa da sfondo alle vicende troiane – o connesse alla guerra di Troia – in Euripide. Il Parente, per mandare il messaggio con la richiesta di aiuto, dovrebbe utilizzare la pala di un remo, come Eace nella tragedia euripidea: poiché, in mancanza di esso, deve ricorrere a degli ex-voto (vv. 773-775), assistiamo al primo stravolgimento di oggetti attinenti al culto demetriaco operato nel contesto di una parodia euripidea, come avverrà più ampiamente nella scena ispirata all’Elena.
642 Su tale trasformazione, analizzata in un’ottica metateatrale, cf. Saetta Cottone (2016), 29. L’influenza delle Tesmoforiazuse sulle Baccanti euripidee (cf. qui sopra, § 1.2.2) non si limita solo al rapporto fra il travestimento del Parente e quello di Penteo, ma anche alla scena in cui il Parente, in modo analogo a Penteo (cf. Bacch. 1084-1147), viene attaccato dalle tesmoforianti; cf. Cerri (2011), 103-105, dove si menzionano ulteriori elementi comuni, fra cui rientra la sezione finale (vv. 987 ss.) del canto corale in Thesm. 947-1000, incentrata sulla figura di Dioniso proprio in riferimento al contesto cultuale del Citerone e su cui ritorneremo avanti.
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§ 2.3 La seconda violazione della festa: il caso esemplare della parodia dell’Elena Il problema religioso della critica di Aristofane a Euripide emerge infatti, con maggiore forza, nella successiva μηχανή a cui ricorre il Parente, “imitando” (v. 850) appunto l’Elena. Da questo momento in poi le tragedie che interagiscono con la trama comica sono solo le più recenti, Elena, Andromeda e Ifigenia in Tauride, quelle, appunto, la cui problematicità epistemica e religiosa sembra essere alla base del progetto stesso delle Tesmoforiazuse aristofanee come occasione di parodia e, allo stesso tempo, critica al teatro euripideo nel suo complesso. Il Parente, infatti, constatata l’inutilità del Palamede643 per trarsi dai guai, ricorre alla καινὴ Ἑλένη (v. 850), la cui ‘novità’, oltre che riferibile alla vicina data di rappresentazione (solo l’anno precedente) e alla peculiare trattazione del mito,644 potrebbe forse avere anche qualche risvolto religioso. Come nel caso della parodia del Telefo e del Palamede, infatti, anche qui è coinvolto direttamente il contesto della festa delle Tesmoforie e il luogo (il Tesmoforio) in cui si svolgono le cerimonie sacre, con la fondamentale differenza che, da questo momento in poi, Euripide interviene in prima persona nelle μηχαναί tratte dalle sue tragedie stesse.645 Se nella precedente scena ispirata al Telefo le donne accettano di recitare i ruoli imposti dal ‘copione’ euripideo (la madre della ‘bambina’ presa in ostaggio si comporta con l’opportuna angoscia richiesta dalla situazione tragica, sebbene il suo scopo sia solo quello di nascondere l’otre di vino), le parodie dell’Elena e dell’Andromeda sono costruite appunto sul rifiuto delle
643 Il Palamede viene definito dal Parente stesso ψυχρός, “insulso, insipido” (v. 848), un termine divenuto poi ‘tecnico’ nella critica letteraria e, a questo riguardo, definito da Teofrasto (cf. la testimonianza di Demetr. De eloc. II.114) “ciò che va oltre gli opportuni mezzi espressivi”: lo troviamo, per esempio, nella forma ὑπόψυχρος, nell’anonimo Commento medioplatonico (una datazione verosimile è fra il I e il II sec. d.C.) al Teeteto di Platone, dove è usato (P.Berol. 9782, col. III.30) dall’autore per definire la scarsa qualità di un prologo alternativo del Teeteto, che circolava nell’antichità e di cui non è rimasta traccia nella nostra tradizione manoscritta. 644 Cf. Austin, Olson (2004), 278; Wright (2013), 157-158; Saetta Cottone (2016), 268-269. 645 Sul fatto che Euripide accetti di intervenire in soccorso del Parente solo nel momento in cui quest’ultimo smette di recitare ruoli maschili (Telefo nell’omonimo dramma e Eace nel Palamede) e, coerentemente con il suo travestimento femminile (v. 851), accetti la parte prima di Elena e poi di Andromeda, cf. Bierl (2009), 224.
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donne di partecipare all’‘illusione’ tragica euripidea e, di conseguenza, sulla sistematica decostruzione dell’artificio tragico, messo a diretto confronto con la ‘realtà’ della rappresentazione comica, che, proprio in virtù della sua coscienza di sé, ha potere demistificante.646 Quelle stesse donne così profondamente influenzate, come abbiamo detto, dai drammi euripidei ‘realistici’ si rivelano ora – almeno inizialmente – non disposte a accettare l’inverosimile manipolazione della realtà attuata da Euripide nelle “escape-tragedies” – rifiutandosi, in un certo senso, di diventare “sorde e cieche” come il Parente nel prologo della commedia. La strenua difesa della ‘realtà’ (quella demistificante della rappresentazione comica) da parte di Critilla, la donna che ha il compito di fare la guardia al Parente, contro l’illusione euripidea ha d’altra parte, nel caso specifico della parodia dell’Elena, anche un preciso significato religioso.647 Poiché infatti in questa tragedia il culto e il mito demetriaco sono non solo reinterpretati in senso metroaco-dionisiaco, con il conseguente trasferimento nel contesto geografico frigio, ma anche intrisi di credenze e dottrine che riecheggiano l’orfismo (si pensi al personaggio di Teonoe, cf. qui sopra, cap. III.4.2), risulterebbe ancora più coerente la scelta di Aristofane di insistere sul carattere illusorio e artificioso dell’Elena.
646 Sulla funzione metateatrale della paratragedia nell’architettura delle Tesmoforiazuse, cf. Saetta Cottone (2003), 466-469; Saetta Cottone (2016), 34-41 (la commedia rivela l’eccessiva artificiosità delle μηχαναί euripidee, che non riescono a far credere agli spettatori che quello che accade sulla scena sia la realtà); Clements (2014), per cui cf. qui sopra § 1 e nota 638 (paratragedia come strumento con cui Aristofane mette i suoi spettatori di fronte al mondo illusorio costruito da Euripide, per sottrarli all’ἀμηχανία e richiamarli alla consapevolezza critica della realtà); Wright (2013), 156-162 (parodia aristofanea dell’Elena come «riproduzione» del generale atteggiamento di dubbio dei personaggi euripidei). Un’altra prospettiva da cui è stata analizzata la relazione fra Tesmoforiazuse e tragedia euripidea è quella rituale: cf. Bierl (2009), 220-244 (cf. anche la posizione di Bowie, qui sopra, nota 631), secondo cui il Parente, regredito a uno stato intermedio fra condizione femminile e maschile (‘efebico’), attraverso il percorso iniziatico del “rito di passaggio”, recupererebbe infine il suo stato iniziale (sulla condizione liminare fra fanciullezza e età adulta delle eroine di Elena e Andromeda, cf. Foley (1992), 144-146), sulla falsariga dello sviluppo delle Tesmoforie stesse. Sull’interazione fra trame tragiche e comiche nelle Tesmoforiazuse, cf. infine Quijada Sagredo (2012). 647 Se inoltre Critilla fosse davvero identificabile (così nell’edizione di Wilson) con la donna che, nella precedente assemblea, prende la parola per accusare Euripide di ateismo, questo apparirebbe pienamente congruente con l’avversione alla religiosità euripidea che emerge nei suoi interventi durante la parodia dell’Elena; sulla questione, cf. Saetta Cottone (2016), 256-257.
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Non appena il Parente comincia a recitare alcune battute del prologo della tragedia (in particolare, Hel. 1-3), Critilla cerca dapprima di richiamarlo alla ‘realtà’ (vv. 855-861), poi si limita a interrompere la declamazione del Parente con battute da βωμολόχος (vv. 865; 868). All’ingresso in scena di Euripide nei panni di Menelao, Critilla inizia sistematicamente a contrapporre a ogni riferimento alla scena tragica da parte del Parente-Elena, interrogato da Euripide-Menelao, una ‘correzione’ secondo la ‘realtà’ della scena comica: in particolare il Parente, nelle sue risposte alle domande di Euripide, viene ‘corretto’ per quanto riguarda il Tesmoforio,648 scambiato per il palazzo di Proteo in Egitto (vv. 874-880), e per l’altare del tempio, scambiato per la tomba di Proteo (vv. 886-888).649 Euripide, che proprio nell’Elena aveva così profondamente travisato il significato del mito di Demetra e Kore, alla base sia dei Misteri di Eleusi sia delle Tesmoforie,650 facendone l’αἴτιον di un culto metroaco orientale, viene comicamente rappresentato da Aristofane come incapace di riconoscere il tempio stesso delle due dee, dove si svolgono i loro riti: con questo stratagemma metateatrale Aristofane rivela dunque l’aspetto religioso della ‘mistificazione’ euripidea.651 648 Sulla possibilità che le Tesmoforie non fossero amministrate dalla πόλις centrale, ma dai singoli demi in cui la festa veniva celebrata e che l’Eleusinion di età classica coincidesse con il sito delle Tesmoforie amministrate dalle donne del demo di Melite, cf. Clinton (1996), 111-125; sulla rappresentazione aristofanea alla luce di questa ricostruzione basata su fonti epigrafiche e archeologiche, cf. 120. Nell’ipotesi più diffusa, invece, di un’organizzazione centrale delle Tesmoforie, le principali proposte per l’ubicazione del santuario sono relative alla Pnice (sulla base di Aristofane stesso, Thesm. 83; 89; 277-278; 880) o all’Eleusinion urbano; cf. Di Cesare in Greco e all. (2010-), II, 345-346. 649 Per un’interpretazione dell’indignazione di Critilla come derisione di una convenzione teatrale, dato il relativamente frequente ricorso dei tragediografi all’altare di scena come tomba, cf. Austin, Olson (2004), 286; cf. al riguardo anche Wright (2013), 161. D’altra parte, la reazione di Critilla sembra andare al di là del mero gioco metateatrale sugli espedienti scenici dei drammaturghi per assumere una forte connotazione religiosa. Quanto all’eventuale comicità dell’Elena, che Aristofane qui prenderebbe di mira (cf. Bowie (1993), 218 ss.), si veda Wright (2013), 208, nota 76. 650 Secondo Giulia Sfameni Gasparro, «lo schema generale del mito demetriaco» risulta essere stato, al di là di varianti e adattamenti a contesti particolari, «il comune parametro di un’ampia e varia serie di culti, dai mysteria di Eleusi ai Thesmophoria […]» (cf. Sfameni Gasparro (1986), 340-346, in particolare, 345). 651 Per un’analisi dettagliata dell’intreccio fra testo euripideo e testo aristofaneo, cf. Nieddu (2003); Austin, Olson (2004), 280-292. Aristofane non rinuncia comunque sia a inserire, all’interno della scena, un verso tratto da un altro autore, come il fr. 493 dal Peleo di Sofocle, al v. 870 (cf. Austin, Olson (2004), 283; Wright
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Comunque sia, Critilla non si rende conto, se non alla fine della scena (vv. 920-922), che anche Euripide è in realtà un πανοῦργος in combutta con il Parente, come se l’inganno, almeno da parte di Euripide, da principio funzionasse e fosse solo la compromessa figura del Parente a renderlo inefficace.652 Chiedendo infatti al Parente τί, ὦ κακόδαιμον, ἐξαπατᾷς αὖ τὸν ξένον; (v. 892), Critilla riconosce a Euripide il ruolo che Menelao ha nell’Elena, quello di ξένος. Anche di fronte alle καιναί “escape-tragedies”, le donne appaiono dunque ‘vulnerabili’ rispetto alla capacità che ha Euripide di ingannare. Critilla riesce comunque sia poi a accorgersi delle reali intenzioni di Euripide e commenta la scena dell’Elena che i due hanno appena finito di recitare con le parole οὐκ ἐτὸς πάλαι / ᾐγυπτιάζετ᾽ (vv. 921-922):653 con il “fare gli egiziani” viene presa di mira la scelta di Euripide di rendere ‘barbari’ (nel caso dell’Elena egiziani) i miti e i culti greci, in particolare il culto demetriaco (si osservi anche la netta contrapposizione fra l’Egitto e il Tesmoforio ai vv. 878-880), che nell’Elena subisce un ‘doppio straniamento’ dovuto sia alla sovrapposizione della figura della Madre frigia a quella di Demetra sia all’ambientazione del dramma in Egitto, che ‘contendeva’ all’Attica l’origine dei culti demetriaci (cf. qui sopra in cap. III.2.4).654 Rispetto al legame fra Orfeo e l’Egitto, rileviamo inoltre come il fatto che venga direttamente chiamata in causa da Aristofane anche la figura di Teonoe non sia forse casuale, alla luce di quanto abbiamo detto qui sopra in cap. III.4.2 sulla peculiare connotazione religiosa di Teonoe, interpretabile anche in senso orfico, poiché Critilla si rifiuta di recitare il ruolo di
(2013), 160), con cui si conclude la prima sezione della parodia dell’Elena, corrispondente in un certo senso al prologo di questa, da cui proviene infatti la gran parte delle battute del Parente (cf. vv. 855-857; 859-862; 864-866; 868). L’‘intrusione’ segna inoltre l’ingresso in scena di Euripide, per la prima volta come salvatore del Parente, nei panni di Menelao (v. 871), quasi che Aristofane volesse segnalare l’importanza del momento con il ricorso a un verso non di Euripide, che è l’oggetto di derisione, ma di Sofocle. Si consideri poi che le prime parole di Euripide sono quelle pronunciate da Teucro, cf. Thesm. 871 = Hel. 68, in cui sembra messo in ridicolo anche il carattere ripetitivo della tragedia, costruita sul modulo dell’arrivo dello straniero – prima Teucro, poi Menelao – che si deve confrontare con la straniante figura di Elena. 652 Cf. qui sopra, nota 626; sull’inefficacia di questa messa in scena, cf. Bierl (2009), 226. 653 L’insistenza sul motivo dell’ambientazione egiziana è notevole in tutta la scena aristofanea (vv. 855-857; 878); cf. Wright (2013), 158. 654 Cf. Herod. II.171; Diod. Sic. I.96-98; Clem. Al. Protr. II.13.5, dove si attribuisce l’origine egiziana e l’importazione in Grecia da parte di Melampo alle “feste di Deò” (non sembra che Clemente faccia una precisa distinzione fra Misteri di Eleusi e Tesmoforie); sulla questione, cf. Sfameni Gasparro (1986), 196-201.
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Teonoe e di farsi quindi complice (come appunto Teonoe con Elena e Menelao) di Euripide e del Parente (vv. 897-899).655 Aristofane, mediante lo strumento metatetrale del rifiuto di Critilla di interpretare Teonoe, critica dunque le tendenze orficheggianti di Euripide (come già nel prologo della commedia, cf. § 1), che nell’Elena in particolare sembrano esprimersi bensì in un’escatologia che sostiene la netta separazione del corpo dall’anima con la conseguente immortalità di quest’ultima, ma anche nell’identificazione – certamente difficile da accettare dal punto di vista della religione tradizionale attica – di Demetra con la Madre degli dei.656 Eppure, se Critilla mostra una resistenza a cadere nella trappola di Euripide, le donne, come era già emerso dalla scena dell’assemblea e della successiva parodia del Telefo, si rivelano in realtà tendenzialmente disposte a lasciarsi influenzare da Euripide, come se questi, anche con le καιναί “escape-tragedies”, fosse ormai riuscito a far breccia nel modo di pensare e nel sentire religioso delle donne di Atene: nel canto corale che segue la parodia
655 Il Parente assume esplicitamente il ruolo di Elena ai vv. 890-891, abbandonando quello della portiera; Euripide ‘suggerisce’ allora di trasferire quest’ultimo su Critilla, che definisce γραῦς, come la portiera nell’Elena (v. 896), ma il Parente, identificandola con Teonoe, fa convergere su Critilla anche l’altro personaggio femminile della tragedia, tenendo per sé il ruolo di Elena (cf. Austin, Olson (2004), 287). È inoltre significativo che Critilla rivendichi di essere “Critilla figlia di Antiteo del demo di Gargetto” (v. 898; così la traduzione di Prato; ma cf. Austin, Olson (2004), 288 dove il genitivo Ἀντιθέου è interpretato come “moglie di Antiteo”): Antiteo compare fra i nomi dei membri di un tiaso di Eracle (IG II2 2343, 402-403 a.C.) insieme con un Anfiteo. Il tiaso è stato messo in relazione con i Banchettanti di Aristofane e, nello specifico, questi due affiliati con i personaggi nominati rispettivamente in Thesm. 898 e Ach. 46 ss.. L’Anfiteo degli Acarnesi rivendica per sé il compito di stipulare la pace con gli spartani in virtù della sua discendenza eleusina, addirittura da Demetra e Trittolemo. Se dunque davvero, secondo l’ipotesi di Dow (cf. Dow (1969), 234-235; sulla questione cf. anche Welsh (1983), 51-55; Austin, Olson (2004), 288), i due personaggi aristofanei, Anfiteo e Antiteo, fossero fratelli e potessimo attribuire a entrambi, come suggeriscono gli Acarnesi, qualche attinenza con la religiosità eleusina, Critilla ribadirebbe qui ulteriormente il suo legame con Demetra. 656 D’altra parte, la figura di Orfeo, come emergerà con più chiarezza nelle Rane (cf. avanti, cap. VI), viene in un certo senso fatta propria da Aristofane (che sembra quasi sottrarla così a Euripide) grazie alla mediazione della tradizione orfica cosiddetta ‘eleusina’, a cui è stato riconosciuto il ruolo di «veicolo della propaganda ateniese», dato che faceva appunto degli abitanti dell’Attica i primi destinatari del dono civilizzatore di Demetra (cf. qui sopra, cap. III.4.1). Tale complesso cultuale si contrappone senz’altro allo scenario religioso ‘barbaro’ dell’Elena, intriso a sua volta di orfismo, e alla sua enfasi sui culti entusiastici orientali, legati alla sfera della spontaneità della natura selvaggia.
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dell’Elena, infatti, sebbene aperto a numerose interpretazioni, possono essere rintracciati indizi riconducibili al modello religioso che Euripide propone nel secondo stasimo dell’Elena. La relazione fra i due brani corali è giustificata innanzitutto strutturalmente dal fatto non solo che il canto delle Tesmoforiazuse segua immediatamente proprio la parodia dell’Elena, ma anche che tale parodia si concluda con l’ingresso in scena del Pritane, l’autorità cittadina venuta a sancire la condanna del Parente (vv. 929 ss.) esattamente come, nel dramma di Euripide, il secondo stasimo segue l’episodio in cui compare per la prima volta in scena Teoclimeno, il ‘tiranno straniero’. Inoltre, una forte affinità consiste nella potente rappresentazione di uno scenario dionisiaco in conclusione sia del secondo stasimo dell’Elena (vv. 1353-1368), dove esso è concepito quasi come una prosecuzione del precedente scenario metroaco, sia del canto delle tesmoforianti (riguardo alla scena della parodia del Telefo abbiamo potuto osservare l’inclinazione delle donne a trasformarsi da ‘tesmoforianti’ in ‘baccanti’; ora vediamo pienamente realizzata tale inclinazione); accanto a questa significativa analogia contenutistica, possiamo infine ravvisare precisi riferimenti linguistici e metrici. La prima sezione del canto (vv. 947-968) è interamente dedicata al tema della danza, che il coro, con notevole insistenza, connota come “circolare” (cf. vv. 954, εἰς κύκλον; 958, κυκλοῦσαν ὄμμα; 968, εὐκύκλου χορείας). Come abbiamo rilevato più volte, la vorticosa danza circolare è caratteristica del ‘Nuovo Ditirambo’, da cui Euripide è senz’altro influenzato soprattutto nella sua produzione più tarda,657 e Aristofane non manca talora di prendere di mira gli autori dei κύκλιοι χοροί, come avviene in Nub. 333 o Ran. 366.658 Anche il secondo stasimo dell’Elena insiste appunto sul motivo della ‘danza circolare’, dove l’aggettivo κύκλιος ricorre in riferimento sia alle danze alle quali viene sottratta Persefone (vv. 1312-1313), sia al moto circolare del ῥόμβος nell’ambito del rituale dionisiaco. Se consideriamo che a tali forme di danze venga solo implicitamente alluso nel canto di Agatone e
657 Cf. Csapo (1999-2000), 419-424. D’altra parte, cf. Bierl (2009), 99-106, in particolare 104, nota 46 sull’appartenenza del κύκλιος χορός alla sfera rituale, oltre che a situazioni teatrali in cui si intende rappresentare l’accerchiamento di un criminale (cf. Aesch. Eum. 321-396, direttamente rievocata in Thesm. 659 ss.). 658 In questo secondo caso, tra l’altro, Aristofane si scaglia contro l’empietà di un ditirambografo, proprio come avviene nei suoi attacchi a Euripide: del resto, l’identificazione non del tutto ortodossa fra Demetra e la Madre degli dei, oltre che nel secondo stasimo dell’Elena, è attestata con sicurezza, nelle fonti letterarie coeve, solo nel ditirambografo Melanippide, fr. 764 Page (cf. qui sopra, cap. III.4.1).
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nella parodo, non è senza significato che esse divengano invece protagoniste in un passo che sembra porsi in diretto rapporto di dipendenza con il secondo stasimo dell’Elena di Euripide. Il carattere particolarmente frenetico della danza è indicato dal coro con l’espressione χορομανεῖ τρόπῳ (vv. 961-962), che anticipa, connotando la danza come μανία, la scena dionisiaca finale.659 Come nella parodo, al principio del canto si ribadisce che le celebrazioni sono in onore degli ὄργια σεμνά delle “due sacre dee” (v. 948), poi si passa a onorare il γένος Ὀλυμπίων θεῶν (v. 960), riconfermando il posto di rilievo assegnato a Apollo Εὐλύρας (v. 969, per cui cf. l’epiteto χρυσολύρας al v. 315 della parodo)660 e Artemide τοξοφόρος (vv. 970-971): il coro, esplicitando metateatralmente la sua qualità di coro comico, invoca il “Lungisaettante” perché conceda la vittoria (v. 972), ma, a differenza che nel canto di Agatone e nella parodo, il tema apollineo, anche dal punto di vista musicale, non è ulteriormente sviluppato, come se le donne che compongono il coro intendessero ora esprimere la volontà di superare tale dimensione. Del resto il coro, nel cominciare la sua celebrazione della stirpe degli “Olimpi”, descrive la sua danza come ἔργον καινόν (v. 967): non è improbabile che Aristofane intendesse segnalare la trasformazione, insieme musicale e religiosa, di queste Tesmoforie in una festa in onore di Dioniso (la danza, senza cessare di essere circolare, potrebbe avere acquisito un’accentuata connotazione entusiastica, come suggerisce quel χορομανεῖ τρόπῳ con cui si invita a rendere omaggio agli Olimpi, vv. 960-962).661 Prima di celebrare Dioniso stesso da ‘baccanti’, le donne invocano altresì, dopo Apollo e Artemide, un’altra divinità strettamente connessa alle Tesmoforie, in virtù della relazione di queste ultime con la sfera matrimonia-
659 Per un’analisi dell’autorappresentazione della danza del coro nella prima sezione del canto (vv. 947-968), cf. Bierl (2009), 94-106; sull’espressione χορομανεῖ τρόπῳ come anticipazione della μανία dionisiaca finale, cf. 101-102. 660 Si osservi che l’epiteto Εὐλύρας compare anche in Euripide, sempre riferito a Apollo, in Alc. 570: il coro sembrerebbe mostrare un avvicinamento a Euripide anche nella scelta degli epiteti. 661 Per una riflessione sui possibili significati da attribuire all’ἔργον καινόν, cf. Bierl (2009), 102-106; 107-108; condivisibile è l’opinione di Bierl stesso, secondo cui il καινόν al v. 967 non indichi alcuna interruzione o cambiamento rispetto alla danza circolare descritta nei versi precedenti, che si protrae almeno fino all’altezza del v. 968 e probabilmente fino alla fine del canto, se κύκλῳ al v. 999, riferito all’edera, è un’iterazione allusiva alle precedenti descrizioni della danza. Ricordiamo qui che l’Elena stessa era stata definita καινή (v. 850).
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le, ossia Era (vv. 973-976).662 Se tuttavia teniamo presente la centralità della figura di Era nell’Elena di Euripide, la sua menzione in questo punto della commedia acquisisce un significato che non è solamente rituale, ma anche metateatrale, funzionale a indurre una riflessione sulla particolare connotazione dell’Era euripidea, la quale, diretta antagonista e persecutrice (almeno fino a un certo punto della vicenda) dell’eroina, riveste nella tragedia un ruolo ambiguo rispetto alla ‘custodia’ del matrimonio; inoltre, poiché nel secondo stasimo è indicata nella Madre degli dei la responsabile dei patimenti di Elena, Euripide sembrerebbe perfino suggerire un’identificazione, non del tutto estranea a influenze orfiche, di Era con la Madre degli dei (cf. qui sopra, cap. III.4.2). Appare dunque legittimo scorgere tale rappresentazione euripidea dietro l’invocazione ai vv. 973-976 delle Tesmoforiazuse (tanto che in quel κλῇδας / γάμου φυλάττει riferito a Era potrebbe essere percepita una sfumatura ironica) e quindi la figura stessa della mai nominata Madre degli dei sullo sfondo. Non a caso, subito dopo la sposa di Zeus, vengono nominati Ermes νόμιος, Pan e le Ninfe (vv. 977-981), divinità tutte riconducibili alla sfera metroaca (cf. qui sopra, cap. II.1.2). L’ambito pastorale stesso, evocato dall’epiteto di Ermes e dalla figura di Pan, ha nella Madre degli dei una delle sue ‘sovrintendenti’.663 Il Dioniso chiamato a partecipare e a guidare la danza del coro (vv. 985-1000) è infatti il dio dell’ὀρειβασία, ambientata in questo caso, come nelle successive Baccanti euripidee, sul Citerone (vv. 995-998). Sebbene tale celebrazione di Dioniso sia interpretabile come un diretto riferimento alla 662 Cf. Bierl (2009), 110-112, sulla connessione di Apollo, Artemide e Era con i cori femminili in contesti cultuali. 663 Del resto, come osserva Bierl, i vv. 977-981 segnano il passaggio a uno scenario montano e selvaggio (le Ninfe compaiono infatti già nella parodo come ὀρείπλαγκτοι, v. 326), tale da preparare l’immediatamente successiva festa dionisiaca; cf. Bierl (2009), 111-116, dove si sottolineano altresì le numerose interrelazioni fra le diverse divinità invocate. Quanto alla relazione di queste divinità con Demetra, cf. Bierl (2009), 115-116. Osserviamo inoltre che Ermes compare anche nell’invocazione della Donna Araldo alle divinità ‘tesmoforiche’, precedente alla parodo (vv. 295-300). Riferimenti specifici al rito tesmoforico nel canto corale in questione sono rintracciabili ai vv. 949-952 (derisione di un pittore in relazione al digiuno, a cui questi sarebbe abituato; la volontà di attaccare gli uomini è negata però ai vv. 963-965, quasi a segnalare la fine di un determinato passaggio rituale. Il digiuno è rievocato ancora al v. 984). La possibilità di individuare connessioni anche con il mito e il culto di Demetra dimostra che Aristofane sta qui optando per un avvicinamento progressivo – e non del tutto compiuto, anche alla fine della commedia – fra il suo coro comico e l’universo religioso e musicale di Euripide.
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figura del dio del teatro e al contesto cultuale degli agoni drammatici,664 l’accentuazione dell’elemento selvaggio relativo al suo culto segna piuttosto un netto distacco dalla realtà cittadina, in cui sono immerse sia le Tesmoforie sia le Grandi Dionisie (o le Lenee stesse): a differenza di quanto avviene nella parodo, dove politica e religione appaiono intrecciate l’una all’altra, qui assistiamo a una vera e propria evasione dalla vita della πόλις. Se saranno le Baccanti la tragedia euripidea dedicata, più delle altre pervenuteci (o di cui possiamo ricostruire la trama), allo sviluppo di questi temi,665 Euripide insisteva anche nell’Elena su tale aspetto della religiosità dionisiaca, proposta come modello religioso di riferimento in associazione con il culto metroaco, specificamente connesso alla sfera della natura selvaggia. Del resto, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, Euripide aveva sviluppato questi temi fin dalla parodo dei Cretesi e dell’Ippolito, dove la raffigurazione di uno scenario metroaco si animava di figure, oltre a quella della Madre Montana stessa, quali i Coribanti, Pan, Ecate, Dictinna (cf. qui sopra, cap. II.1.2).666 Anche in questo canto delle Tesmoforiazuse dominano, inoltre, come nel secondo stasimo dell’Elena (cf. vv. 1308-1309; 1347; 1351), in uno scenario ‘montano’, la musica fragorosa delle percussioni, evocata dai verbi
664 Bierl vede nel ditirambo in onore di Dioniso che chiude il canto (vv. 985-1000) un preciso riferimento alla realtà del contesto cultuale degli agoni drammatici (cf. Bierl (2009), 118-125); sul legame del brano con la dimensione paratragica della commedia, cf. Saetta Cottone (2016), 282; sulla progressiva trasformazione delle Tesmoforie in una festa dionisiaca cf. anche Habash (1997), 32-40. 665 Cerri interpreta infatti le Tesmoforiazuse in generale e questo canto in particolare nella prospettiva ‘para-comica’ delle Baccanti (cf. qui sopra, nota 642), anche se, come abbiamo visto, non è illegittimo proporne una lettura para-tragica retrospettiva rispetto all’Elena. 666 Ricordiamo che Pan figura anche nella parodo dell’Elena (vv. 171 ss.), in contesto montano, nel ruolo di aggressore di ninfe (vv. 186-189), una scena che in un certo senso anticipa lo stasimo che narra del dolore della Madre Montana per il ratto della figlia. Quanto a Ecate, nel corso del primo dialogo dell’Elena fra Elena e Menelao, quest’ultimo implora Ecate φωσφόρος perché gli mandi “fantasmi benigni”, mentre Elena risponde di non essere una πρόπολος di Enodia, cioè di Ecate (vv. 569-570). Aristofane riprende e rielabora spunti tratti dall’Elena decontestualizzandoli o ricontestualizzandoli: così anche Ecate, appunto, una divinità sulla cui venerabilità si insiste anche nelle Rane (v. 366), dove le statue della dea sono imbrattate da un ditirambografo (“autore di cori ciclici”) – verosimilmente Cinesia –, è invocata da Critilla con lo stesso epiteto di φωσφόρος (Thesm. 858) ‘contro’ il Parente appena questi comincia a declamare i versi iniziali dell’Elena.
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συγκτυπεῖται (v. 995) e βρέμονται (v. 998b).667 Si confrontino dunque i seguenti versi: Elena, vv. 1330-1331 ποίμναις δ᾽ οὐχ ἵει θαλερὰς βοσκὰς εὐφύλλων ἑλίκων Elena, vv. 1360-1363 κισσοῦ τε στεφθεῖσα χλόα νάρθηκας εἰς ἱεροὺς ῥόμβου θ᾽ εἱλισσομένα κύκλιος ἔνοσις αἰθερία
Tesmoforiazuse, vv. 995-1000 ἀμφὶ δὲ συγκτυπεῖται Κιθαιρώνιος ἠχώ, μελάμφυλλά τ᾽ ὄρη δάσκια πετρώδεις τε νάπαι βρέμονται˙ κύκλῳ δὲ περί σε κισσὸς εὐπέταλος ἕλικι θάλλει.
I rimandi lessicali al secondo stasimo dell’Elena appaiono precisi: i vv. 995-1000 delle Tesmoforiazuse rappresentano il risuonare del Citerone, dei “monti ombrosi dallo scuro fogliame” (μελάμφυλλά τ᾽ ὄρη / δάσκια) e delle “valli petrose” e si concludono con l’immagine dell’ “edera dalle belle foglie” che fiorisce (θάλλει) intorno a Dioniso (περί σε) “in cerchio” (κύκλῳ) “con la sua voluta” (ἕλικι). Nello stasimo di Euripide sono “fiorenti di volute dalle belle foglie” (θαλερὰς εὐφύλλων ἑλίκων) i pascoli che la Madre degli dei abbandona, addolorata per la perdita della figlia; l’edera compare invece, nella sezione dionisiaca dello stasimo, “intrecciata ai sacri narteci” (κισσοῦ τε στεφθεῖσα χλόα / νάρθηκας εἰς ἱερούς) e associata all’immagine dell’ “eterea scossa del rombo”, definita appunto “ciclica” (κύκλιος) e “volteggiante” (εἱλισσομένα). Tra l’altro il lessico delle volute, particolarmente frequente nell’ultimo Euripide, diventerà nell’agone delle Rane uno dei principali bersagli dell’Eschilo aristofaneo (cf. Ran. 1321, βότρυος ἕλικα; 1314; 1348). Aristofane sembra aver ‘condensato’, in questi versi, immagini euripidee dionisiache e metroache – queste ultime in particolare tratte dalla sezione relativa ai pascoli, che sembrano quindi ricollegarsi direttamente all’Ermes νόμιος –, riproponendo così, dopo aver anch’egli preso le mosse dall’invocazione alle “due sacre dee” (v. 948, per cui cf. Hel. 1302, Μάτηρ, e
667 Ai vv. 992-993 vengono esplicitamente indicati i “monti” come sede dei canti e delle danze delle Ninfe, di cui Bacco si dovrebbe rallegrare; ai vv. 995-998 sono menzionati, oltre al Citerone, generici μελάμφυλλα [...] ὄρη e πετρώδεις [...] νάπαι. Analogo è il lessico euripideo, relativo al carattere boscoso e roccioso dei luoghi: in Hel. 1303 si parla di ὑλᾶντα νάπη e al v. 1326 di πέτρινα δρία πολυνιφέα (“boschetti rocciosi pieni di neve”); anche nel testo euripideo compaiono inoltre le Ninfe in questo scenario (la Madre degli dei attraversa infatti le χιονοθρέμμονας Ἰδαιᾶν Νυμφᾶν σκοπιάς, “le alture che nutrono la neve delle Ninfe Idee”, cf. vv. 1323-1324).
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1307, κούρας), la progressiva sostituzione del culto metroaco-dionisiaco a quello demetriaco, a cui assistiamo nel secondo stasimo dell’Elena.668 Sembra possibile individuare anche un richiamo metrico fra i due testi: in Euripide domina il dimetro coriambico nelle sue diverse forme anaclastiche, fra cui si inseriscono gliconei e ferecratei;669 gli ultimi due versi della seconda coppia strofica (vv. 1351-1352; 1367-1368) sono interpretabili come ferecratei acefali. Il canto aristofaneo, nonostante la sua complessa struttura metrica,670 nella sezione ‘dionisiaca’ (vv. 985-1000), costituita da una mesodo (vv. 985-989) e da una coppia strofica (vv. 990-994 / 995-1000), presenta, nella prima, una prevalenza di ritmi giambici, fra cui si distingue un aristofanio (v. 988b), che anticipa il «forte elemento coriambico» della coppia strofica successiva, dove la significativa presenza della coppia incipitaria aristofanio + ferecrateo (vv. 990671-991 / 995-996), sembra quasi rispondere, variandola, ai due ferecratei conclusivi dell’Elena (il rimando è reso più forte dall’isolamento del ferecrateo nel contesto metrico).672 668 Vi sono anche alcuni elementi che collegano direttamente il canto corale in questione al precedente canto di Agatone, di cui quindi, in un certo senso, qui si sviluppa, accentuandola, quell’interpretazione dionisiaca proposta dal Parente di Euripide (cf. qui sopra, § 1.2.1): l’εὐρύθμῳ ποδί al v. 985 rimanda al ποδὶ παράρυθμ᾽ εὔρυθμα [...] di Agatone (v. 121, su cui cf. qui sopra, § 1.2.2); ai vv. 988-989, il coro si propone di cantare Dioniso κώμοις φιλοχόροισι e la parola κῶμος compare appunto al v. 104 del canto di Agatone, seppure riferita, subito dopo, a un contesto apollineo. 669 Cf. Kannicht (1969), II, 336. Sulla relazione fra ritmi gliconici (compreso il ferecrateo) e dimetri coriambici, in quanto entrambi contengono, seppur in posizioni diverse, un nucleo coriambico, cf. Martinelli (1997), 115. 670 Cf. Parker (1996), 426 ss.; Prato (2001), 352-353. 671 Ricordiamo che il v. 990 è corrotto e rimandiamo per i dettagli all’apparato di Prato e Wilson (quest’ultimo stampa il testo, condivisibilmente, secondo la congettura di Enger, Διὸς σύ). 672 Cf. Parker (1996), 434-436; cf. qui sopra, nota 669. Aggiungiamo che il terzultimo verso della seconda e ultima coppia strofica del secondo stasimo dell’Elena, precedente ai due ferecratei acefali, è interpretabile come emiasclepiadeo II (ancora quindi in chiave coriambica); a questo potrebbe rispondere, secondo la scansione proposta in Prato (2001), 353, il terzo verso della coppia strofica che conclude il canto aristofaneo (vv. 992 / 997, anche se Prato adotta una diversa numerazione), interpretabile come emiasclepiadeo I (in Parker (1996), 434-435 si preferisce parlare di «versione tronca del precedente ferecrateo»): l’incipit dell’ultima coppia strofica del canto in Aristofane presenterebbe quindi una struttura analoga, seppur rovesciata, a quella dello stasimo euripideo. Osserviamo inoltre, secondo la scansione proposta in Parker (1996), un’ulteriore presenza di un aristofanio, come nella mesodo, ai vv. 993b / 998b. Per quanto riguarda il canto aristofaneo fino al v. 985, con cui inizia la ‘sezione dionisiaca’, nonostante le difficoltà interpretative rilevate già dal Wilamowitz, osserviamo una prevalen-
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Aristofane sottolinea insomma ancora una volta, e con maggiore forza, la capacità di Euripide di influire ‘negativamente’ sul suo pubblico, anche dal punto di vista religioso, indirizzandolo verso forme di religiosità di origine straniera, che finiscono per sovrapporsi ai culti tradizionali di Atene e dell’Attica: celebrare Dioniso ‘alla maniera di Euripide nell’Elena’ significava infatti alludere anche alla sostituzione, presente in quella tragedia (una tendenza peraltro dimostrata fin dall’Ippolito), del culto demetriaco con quello della Madre degli dei (che non viene però mai esplicitamente menzionata da Aristofane).673 Con la trasformazione delle tesmoforianti in baccanti, sul modello proposto da Euripide nell’Elena, e il conseguente allontanamento da una religiosità profondamente integrata con la vita della πόλις (quali in Attica sono i culti demetriaci) in favore di un’evasione verso spazi selvaggi e forme rituali straniere (quali sono i culti ‘orientali’ di Dioniso e della Madre degli dei), Aristofane mette in scena dunque le potenzialità ‘corruttrici’, rispetto alle tradizioni della πόλις, della poesia di Euripide. Del resto, abbiamo considerato qui sopra (cf. § 1) come l’invito che Aristofane rivolge ai suoi spettatori a non diventare “sordi e ciechi” e a fare uso del loro senso critico abbia anche un inevitabile risvolto politico.674 za di ritmi trocaici e giambici (cf. Parker, 428 ss; Prato, 352-353). Notevole è comunque sia l’inserimento (osservato anche in Parker (1996), 432), ai vv. 972-973, di due ferecratei acefali o reiziani, con cui il coro prega il “Lungisettante” di concedergli la vittoria: poiché, come abbiamo visto, i ferecratei sono qui poi associati alla figura di Dioniso, possiamo dire che anche Apollo, a differenza di quello che avveniva nei canti corali precedenti, è in un certo senso inglobato all’interno di una dimensione ‘dionisiaca’ (nell’antistrofe, i versi corrispondenti, vv. 980-981, menzionano invece la danza del coro, ταῖς ἡμετέραισι / χαρέντα χορείαις, che pochi versi dopo acquisirà una definitiva connotazione bacchica; la μανία della danza è peraltro già menzionata ai vv. 961-962). 673 Se ricordiamo poi il preminente ma controverso ruolo assunto dalla Madre degli dei a Atene in ambito politico (cf. qui sopra, cap. III.2.3.3), assume senz’altro un significato particolare, alla luce di quanto abbiamo appena detto, il fatto che Aristofane intrecci, nella parodo della commedia, piano rituale e piano politico e faccia sì che le prime divinità invocate dalla Donna Araldo siano proprio le due dee Tesmofore. 674 Anche nella Lisistrata, portata in scena, a quanto pare, lo stesso anno delle Tesmoforiazuse (verosimilmente alle Lenee), ricorrono molti temi che abbiamo finora incontrato: Lisistrata, per esempio, si lamenta fin dal principio del fatto che le donne, benché chiamate a deliberare οὐ περὶ φαύλου πράγματος (v. 14), stiano ancora nelle loro case, laddove invece le strade sarebbero state ingombre di τύμπανα se si fosse trattato di un Βακχεῖον o di una festa per Pan, per Afrodite Coliade o per la Genetillide (vv. 1-3; per le Genetillidi, cf. anche Thesm. 130), identificando così le forme cultuali entusiastiche con lo strepito dei loro stru-
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§ 3 L’accordo fra Euripide e il coro: la parodia dell’Ifigenia in Tauride e la definitiva corruzione del culto tesmoforico Alla luce di questo avvicinamento, favorito dalle “escape-tragedies” (dove non a caso troviamo una rappresentazione ‘positiva’ delle donne, compresa Elena, la γυνὴ πονηρά per eccellenza), fra il coro e Euripide, la successiva parodia dell’Andromeda non vede la partecipazione attiva del coro, che però il Parente-Andromeda cerca di coinvolgere in un rinnovato clima di amicizia (cf. v. 1015, φίλαι παρθένοι, φίλαι);675 d’altra parte nessuna delle donne interviene nemmeno a contrastare la μηχανή di Euripide; questa volta è infatti l’Arciere scita, il nuovo guardiano del Parente, a svolgere un ruolo analogo a quello di Critilla nella precedente parodia dell’Elena, anche se con una differenza importante: mentre i richiami di Critilla erano finalizzati principalmente a contrapporre la ‘realtà’ cultuale del Tesmoforio e della festa di Demetra allo scenario egizio dell’Elena, l’Arciere si limita a rile-
menti musicali e utilizzandole come termine di confronto ‘negativo’ di attività rituali tipicamente femminili. Gli uomini in armi per l’agorà, definiti μαινόμενοι, sono poi paragonati da Lisistrata, ancora in negativo, ai Coribanti (vv. 555-558). Nei due cori conclusivi, quello ateniese e quello spartano, rileviamo infine che, mentre il primo invoca divinità senza particolari connotazioni cultuali (vv. 1279-1290), il coro spartano appare molto più ancorato alla realtà mitica e cultuale di Sparta (con forti riflessi anche dal punto di vista linguistico), in quanto si riferisce esplicitamente al “dio di Amicle” (Apollo), a Atena Χαλκίοικος (Atena compare significativamente fra le divinità spartane) e ai due Dioscuri (vv. 1296-1301). In quest’ultimo coro, infine, a guidare la danza delle fanciulle che danzano lungo l’Eurota, paragonate a baccanti “che brandiscono il tirso”, è chiamata Elena stessa, paragonata a sua volta, con un altro riferimento dionisiaco, a una cerbiatta (vv. 1306-1319): se la danza di Elena insieme con altre fanciulle rimanda al terzo stasimo dell’omonima tragedia, dove si parla delle danze delle Leucippidi “sulle rive del fiume” (alla cui menzione in Hel. 1465-1468 sembra rispondere quella dei Dioscuri, loro sposi, in Lys. 1300), la rappresentazione dionisiaca di Elena rimanda piuttosto al secondo stasimo. La commedia si apre e si chiude dunque con un riferimento ai riti delle baccanti, collocati gli uni a Atene, gli altri a Sparta, sullo sfondo di una parodia euripidea. Quanto al tema di ‘Euripide nemico delle donne’, questo compare anche in Lys. 283-284; 368-369. 675 Cf. Bierl (2009), 234-235. Bierl osserva altresì che, nella parodia dell’Andromeda, ritorna il tema delle νύμφαι (un vero e proprio Leitmotiv della commedia a partire dalla parodo), alla cui condizione le donne devono ritornare per il breve periodo della festa delle Tesmoforie, condizione che il Parente ora mostra di condividere con le donne. La parodia della scena di Eco, in particolare (vv. 1056-1096), si spiega proprio rispetto allo status di νύμφαι che pertiene sia alle donne sia al Parente.
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§ 3 L’accordo fra Euripide e il coro
vare la ‘stravaganza’ dell’atteggiamento di Euripide-Perseo, che si presenta sulla scena ‘follemente innamorato’ del Parente-Andromeda, sulla cui assenza di attrattive l’Arciere riesce a attuare la sua unica forma di rottura dell’illusione drammatica (cf. vv. 1099-1135): per il suo essere straniero e quindi ‘estraneo’ alla dialettica, tutta attica, della commedia, non riesce a ‘correggere’ il travisamento del contesto tesmoforico da parte di Euripide e, nonostante che si accorga che il Parente è un uomo, sostanzialmente diventa partecipe della finzione, riproposta ora da Euripide nel contesto comico, del dramma euripideo.676 Allo stesso tempo, d’altra parte, l’Arciere, proprio per la sua origine straniera, si rivela particolarmente adatto a partecipare attivamente alla messa in scena delle “escape-tragedies”, tutte caratterizzate dall’ambientazione ‘barbara’ (con la conseguente ‘barbarizzazione’ anche dei modelli religiosi di riferimento). Per quanto riguarda la parodia dell’Andromeda, risulta difficile, dato lo stato frammentario in cui ci è giunta la tragedia, formulare ipotesi precise riguardo alla parodia religiosa. Tuttavia, accogliendo, seppur con la necessaria cautela, l’ipotesi di interpretare l’Andromeda come un dramma dalla forte connotazione mistica, e orfica in particolare, dove la prigionia della fanciulla sarebbe identificabile con quella dell’anima nel corpo, che attende la liberazione da parte di Perseo nell’immensità dell’αἰθήρ (su tale escatologia, cf. qui sopra, cap. I.1.2),677 troveremmo confermata, ancora una volta, la volontà di Aristofane di prendere di mira una specifica dimensione religiosa, tanto più che proprio in questa scena risulta insistente la ricorrenza di riferimenti all’αἰθήρ (vv. 1050; 1068; 1099).678 Esito fortunato ha comunque sia l’ultima μηχανή di Euripide, che prevede il travestimento di Euripide stesso da vecchia mezzana e la presenza di una giovane danzatrice, la quale, distraendo lo scita, renda possibile la liberazione del Parente. La scena è stata interpretata come l’abbandono, da parte di Euripide, delle risorse tragiche per ricorrere a un tipico espediente da
676 Per una dettagliata analisi della parodia dell’Andromeda (vv. 1009-1135), cf. Mastromarco (2008), 177-188; Saetta Cottone (2016), 283-296. 677 Cf. Assaël (2014), per cui rimandiamo a cap. III.4.2, nota 432. Considerando l’ampio spazio riservato da Aristofane alla parodia del dialogo fra Eco e Andromeda (vv. 1056 ss.), segnaliamo che in Assaël (2014), 5-6, si vede in Eco una forma di conoscenza ingannevole (cf. Plat. Resp. 515b), che Andromeda intenderebbe superare per avere «accesso alla verità dell’essere»; a questo proposito viene anche stabilito un confronto con l’εἴδωλον dell’Elena. 678 Sui riferimenti all’αἰθήρ in questa scena, cf. Jay-Robert (2014), 5.
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Capitolo V: Le Tesmoforiazuse: tragedia euripidea e ‘corruzione’ dei riti tesmoforici
commedia (travestirsi da vecchia mezzana in compagnia di una giovane danzatrice) – quasi da commedia νέα.679 La struttura della scena, tuttavia, come è stato osservato,680 ricalca quella dell’Ifigenia in Tauride di Euripide (l’ipotesi della cui appartenenza a un’unica trilogia tragica comprendente Elena, Andromeda e Ifigenia in Tauride troverebbe quindi un ulteriore sostegno) con i ruoli così distribuiti: Euripide-Artemide (Ἀρτεμισία è infatti il nome che Euripide si attribuisce, v. 1200), Parente/danzatrice-Ifigenia, Arciere scita-Toante (entrambi infatti sono provenienti dal Mar Nero). Eventuali incongruenze sono facilmente superabili: è bensì vero che non è Artemide a salvare Ifigenia da Toante, ma la dea appare comunque sia come ‘salvatrice’ di Ifigenia in tutto il dramma. Quanto all’identificazione fra la danzatrice e Ifigenia (la danzatrice condivide questa identificazione con il Parente in quanto ha il compito di sostituire quest’ultimo nell’attenzione dello scita), il nome Ἐλάφιον (“piccola cerbiatta”, v. 1172) rimanda direttamente all’animale in cui Ifigenia è trasformata da Artemide sulle spiagge di Aulide (la cerva-danzatrice sostituisce dunque il Parente-Ifigenia). Wright nota altresì che le grida dell’Arciere per aver perso Ἀρταμουξία (= Ἀρτεμισία secondo la sua pronuncia barbara, cf. vv. 1216-1225) rievocano il furto della statua di Artemide ai danni di Toante; come poi il coro, nell’Ifigenia, ritarda l’inseguimento di Toante con un inganno (cf. Iph. Taur. 1293-1301), così nelle Tesmoforiazuse il coro si prende gioco dell’Arciere per favorire la fuga di Euripide (vv. 1218 ss.). L’intera μηχανή è in questo caso incentrata sulla figura dell’Arciere scita, che proviene appunto da quelle regioni sul Mar Nero dove è ambientata la tragedia euripidea. Quest’ultima ha fra le sue tematiche principali la stretta
679 Cf. Bowie (1993), 224-225; cf. anche Saetta Cottone (2003), 468-469 (a cui si deve il paragone con la commedia νέα), dove, benché non si parli di superiorità della commedia sulla tragedia come in Bowie, si accetta l’idea di un Euripide che, in quanto incapace di fare il suo mestiere di poeta tragico, deve infine trasformarsi in poeta comico; per un ulteriore approfondimento, cf. Saetta Cottone (2016), 40-41; 298 ss.; su un’analoga linea, cf. Voelke (2004), 132-134. Cf. invece Bierl (2009), 238-241, per un’interpretazione della scena finale della commedia come il compimento dell’iniziazione. 680 Cf. Wright (2005), 51-52 (sulla scia di un’ipotesi avanzata in Bobrick (1991), 67-75); Clements (2014), 151-153, che osserva in particolare come il successo della μηχανή ispirata all’Ifigenia in Tauride, questa volta non esplicitamente dichiarata, a differenza di quanto accade con le parodie di Palamede, Elena e Andromeda, non provi tanto la necessità dell’abbandono della tragedia per la commedia, ma riveli che il pubblico, esattamente come l’Arciere, è sempre disposto a lasciarsi ingannare dalla finzione tragica, senza nemmeno rendersi conto di essere ingannato.
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§ 3 L’accordo fra Euripide e il coro
relazione di dipendenza del culto attico di Artemide a Brauron e quello di Artemide Ταυροπόλος con il culto ‘barbaro’ dell’Artemide taurica: giocando sul motivo dell’Arciere ‘barbaro’ Aristofane sembra appunto prendere di mira proprio quell’aspetto così determinante, anche per i suoi riflessi religiosi, del dramma euripideo.681 Si tenga infine presente che la liberazione del Parente e l’inganno ai danni dell’Arciere è reso possibile dalla complicità del coro: quest’ultimo, assente durante la parodia dell’Andromeda, torna in scena per il suo ultimo intervento lirico (vv. 1136-1159), che consiste in un’invocazione all’epifania sacra delle dee protettrici di Atene, Pallade e le due dee Tesmofore, innalzate anch’esse al ruolo di divinità poliadi. Sembrerebbe quasi che fosse ripristinato un ‘ortodosso’ contesto cultuale demetriaco, e, con questo, fosse sancito un ritorno alla dimensione civica della religione,682 in diretto contrasto con l’evasione montana del canto precedente. Con il messaggio finale del coro, che ribadisce, come nella parodo, la sua avversione alla tirannide e il suo auspicio per la pace (vv. 1143-1147), nonché, dal punto di vista religioso, la necessità di una stretta associazione di Atena e Demetra nel
681 Tanto più che un possibile riferimento al culto di Artemide Brauronia sembra attraversare tutta la commedia, come per esempio il κροκωτός, la veste rituale indossata dalle giovani che partecipavano ai riti del tempio di Brauron; cf. Bierl (2009), 223; 228-229, dove i riferimenti al culto di Artemide sono collocati nel quadro di un’interpretazione generale della commedia alla luce dei riti di passaggio femminili. Il coro delle donne nella Lisistrata, nell’elencare le ‘tappe’ rituali che scandivano il passaggio, nella vita della donna, dall’infanzia all’età adulta, menziona anche il rito di Brauron, segnalato da due elementi, il κροκωτός, appunto, e l’ἄρκτος (v. 645). È inoltre interessante notare che, pochi versi dopo (v. 675), come esempio di audacia femminile, viene ricordata la principessa caria “Artemisia”, che combatté valorosamente in mare nella flotta persiana durante la spedizione di Serse (cf. Herod. VIII.87-88): è assai probabile che l’Euripide aristofaneo scelga questo nome, nella scena finale delle Tesmoforiazuse, per alludere sia all’Artemide dell’Ifigenia in Tauride (una tragedia tra l’altro dove sono centrali il mare e la navigazione) sia, allo stesso tempo (come suggeriscono i due passi della Lisistrata), a Artemisia e alle sue navi (cf. Prato (2001), 337; Austin, Olson (2004), 345-346). Euripide ordina tra l’altro, poco prima della scena finale delle Tesmoforiazuse (cf. v. 1175), alla flautista che lo accompagna di suonare un περσικόν, un “motivo persiano”: in tutto questo è forse ravvisabile un ulteriore attacco all’esterofilia del tragediografo (il coro stesso nella parodo, fra le possibili colpe contro le donne e più in generale contro la πόλις, annoverava infatti “il mandare emissari a Euripide e ai medi”, associati in tal modo come destinatari di messaggi, cf. vv. 336-337). 682 Atena è definita in una prospettiva civica come ἣ πόλιν ἡμετέραν ἔχει / καὶ κράτος φανερὸν μόνη / κλῃδοῦχός τε καλεῖται (vv. 1140-1142); Era, nel canto corale precedente, è detta colei che κλῇδας / γάμου φυλάττει (vv. 975-976).
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Capitolo V: Le Tesmoforiazuse: tragedia euripidea e ‘corruzione’ dei riti tesmoforici
quadro della religiosità ufficiale della πόλις, Aristofane si riappropria dunque per qualche momento del suo coro comico, prima di trasformarlo nel complice di Euripide, alla cui influenza le donne di Atene si sono rivelate assai sensibili in tutto lo sviluppo della commedia. Appunto il patto stipulato fra Euripide e le donne ribadisce piuttosto la pericolosa forza dell’illusione e dell’inganno della tragedia euripidea: qui sono rappresentate solo le donne come sue vittime, ma (come dimostra la parabasi, vv. 785 ss., dove le colpe delle donne vengono ridimensionate alla luce di quelle ben più gravi degli uomini), essa agisce su tutti gli spettatoricittadini. Tra l’altro, significativamente, mentre accettano di credere che il tragediografo non parlerà più, in futuro, male di loro (vv. 1165-1169), le donne chiedono a Euripide di “persuadere il barbaro” (v. 1170-1171): se infatti loro stesse sono state “persuase”, vogliono ora assistere all’ultima μηχανή ai danni del ‘barbaro’, che non è invece in grado di comprendere le finezze euripidee (vv. 1128-1132).683 Le donne riconoscono dunque a Euripide una straordinaria capacità persuasiva e allo stesso tempo mostrano di assistere volentieri alle sue messe in scena: nelle Rane invece proprio la Persuasione, troppo leggera, farà perdere Euripide nello scontro (la pesa dei versi sulla bilancia) con Eschilo (v. 1391). Il fatto che l’invocazione del coro all’epifania delle dee Tesmofore si ‘materializzi’ con l’apparizione sulla scena di Euripide travestito da vecchia mezzana – la Madre – e di una giovane danzatrice – la Figlia –, interpretabili come la versione svilita e degradata della coppia divina adorata nelle Tesmoforie e nei Misteri di Eleusi684 (considerando poi che l’epifania invocata dal coro include anche Atena e che Euripide si presenta in scena accompagnato, oltre che da una danzatrice, da una flautista, la corrispondenza numerica fra l’invocazione del coro e l’epifania successiva risulta ancora più precisa), dimostra dunque quali siano, qualora si ceda alla persuasione euripidea, le disperate condizioni in cui si riduce il culto demetriaco, uno dei più sacri e importanti della πόλις (a cui, lo ripetiamo, è associata la fi-
683 Cf. vv. 1170-1171: τὰ μὲν παρ᾽ ἡμῖν ἴσθι σοι πεπεισμένα˙ / τὸν βάρβαρον δὲ τοῦτον αὐτὸς πεῖθε σύ. Appare ancor più sconcertante la prontezza del coro a ‘credere’ a Euripide se si considera che quest’ultimo è il poeta che giustifica lo spergiuro, in Hypp. 612, parodiato appunto ai vv. 275-276. 684 Cf. Bowie (1993), 216, dove si rileva anche che l’idea stessa del patto fra Euripide e le donne riecheggia quella del patto fra Demetra e Ade, sancito dalla volontà di Zeus, in merito alla sorte di Persefone.
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§ 3 L’accordo fra Euripide e il coro
gura di Atena stessa), l’unico in grado di salvare la città nelle fasi più critiche della sua storia.685 Non è un caso che nel 405 a.C., alla vigilia della definitiva disfatta di Atene, nelle Rane, Aristofane si ponga nuovamente il problema della salvezza della πόλις in quanto dipendente da quello della salvezza del teatro e lo affronti all’interno di un contesto religioso marcatamente eleusino, al quale viene anche ricondotto il dio del teatro stesso.
685 Abbiamo ricordato qui sopra l’episodio narrato da Erodoto (cf. VIII. 65) sull’intervento delle divinità eleusine in soccorso di Atene prima della battaglia di Salamina. Il 411 a.C. rappresenta per Atene un anno altrettanto drammatico, quello del colpo di stato oligarchico: frequenti sono infatti i moniti del coro contro chi ambisce alla tirannide (cf. vv. 338-339; 1144). Cf. al riguardo anche Vickers (1989), 41-65, secondo cui le Tesmoforiazuse sarebbero attraversate da una critica alla propaganda relativa al ritorno in patria di Alcibiade, che Euripide avrebbe invece sostenuto nell’Andromeda e nell’Elena (cf. qui sopra, cap. IV.3 sulla presenza di tale propaganda nelle Fenicie), nel cui secondo stasimo potrebbe essere perfino rintracciato appunto un riferimento a Alcibiade, ossia a quella Demetra da lui offesa con la parodia dei Misteri di Eleusi, e a quella Madre degli dei venerata a Magnesia sul Meandro, dove Alcibiade si era rifugiato nel 411. In questa prospettiva, possiamo ipotizzare che Euripide, indebolendo la figura di Demetra e del suo culto attico in favore della religiosità metroaca, in qualche modo ‘riducesse’ il peso della colpa di Alcibiade. Le osservazioni di Vickers richiedono tuttavia la posticipazione della data delle Tesmoforiazuse al 410, al fine di consentire l’individuazione di allusioni agli eventi dell’autunno del 411 nella commedia; numerose obiezioni alla tesi di Vickers, a partire dalla posticipazione della data, sono avanzate in Bierl (2009), 245-246.
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Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
Con le Tesmoforiazuse, secondo l’analisi che abbiamo proposto nel capitolo precedente, Aristofane porta i scena gli effetti ‘negativi’ della poesia euripidea a livello di sentimenti religiosi, rappresentando i culti demetriaci – in particolare le Tesmoforie, ma la commedia presenta anche qualche riferimento ai Misteri di Eleusi –, strettamente connessi con la dimensione civica della πόλις, non solo come progressivamente sostituiti da un altro tipo di religiosità, che potremmo definire entusiastica e orientata verso il “monte” – il mondo selvaggio posto al di là dei confini della città –, oltre che influenzata da culti percepibili come stranieri (tali apparivano alcuni aspetti dell’universo cultuale dionisiaco, come emerge per esempio dalle Baccanti), ma, nella scena finale della commedia, l’essenza stessa dei riti di Demetra e Persefone come traviata e ridotta a una volgare mascherata. Abbiamo inoltre considerato, nelle Tesmoforiazuse, una notevole insistenza sul tema di Apollo, che, nella sua qualità, in un certo senso, di garante della tradizione sia in ambito musicale sia religioso, si presta a associazioni sia con la sfera demetriaca sia con quella dionisiaca, tenendo conto, in questo secondo caso, a proposito della figura di Agatone, come l’evocazione della figura di Apollo sembri quasi temperare gli aspetti più sfuggenti e problematici della personalità dionisiaca. Euripide sembra rispondere a questa rappresentazione aristofanea con le successive Antiope, Ipsipile (cf. qui sopra, cap. IV.1-2) e, infine, Baccanti (cap. II.3)686 proprio con l’accentuare e raffinare il suo ritratto di un Dioniso non solo appartenente a una dimensione religiosa straniera, che ha le sue origini in Oriente e a Creta e di cui fanno parte anche i riti della Grande
686 Non ci soffermeremo, nel presente lavoro, sul dettaglio di uno specifico confronto fra Baccanti e Rane, che richiederebbe una trattazione a sé stante (cf., per esempio, per una serie di spunti interessanti, Corbato (1990); Caballero (2010), 35-36): nostro obiettivo resta piuttosto quello di spiegare via via le diverse citazioni, parodie e allusioni alle tragedie euripidee nelle Rane, come in precedenza nelle Tesmoforiazuse, nell’ambito della critica religiosa di Aristofane a Euripide. Partiremo comunque sia dal presupposto che le Baccanti offrano una rappresentazione del dionisismo ‘secondo Euripide’ immediatamente antecedente a quella delle Rane, che intendono quindi contrapporre una rappresentazione alternativa.
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Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
Madre, ma, per quanto possiamo ricostruire, connotato altresì sulla base di quelle influenze orfiche (percepibili soprattutto nell’Ipsipile) nei cui riguardi Euripide sembra mostrare un certo interesse in tutto il corso della sua attività di tragediografo. Apollo stesso, nella figura del suo sacerdote Anfiarao, sembra chiamato in causa semplicemente a favorire e ratificare il disegno di Dioniso (cf. qui sopra, cap. IV.2.4). Nel 405 a.C., all’indomani della battaglia delle Arginuse, in un momento fra i più drammatici della storia di Atene, lacerata inoltre da fazioni interne (si pensi alla condanna a morte dei generali vittoriosi alle Arginuse), Aristofane individua la salvezza della πόλις in quella del teatro, che mostra anch’esso, dopo la morte di Euripide, un’inarrestabile decadenza (a partire, s’intende, dal presupposto di un ruolo paideutico del teatro stesso, cf. qui sopra, cap. V, nota 556). È dunque Dioniso, il dio del teatro in persona, a porsi il problema della salvezza della città e dei suoi agoni drammatici e a trovare, inizialmente, la soluzione nel ritorno di Euripide dall’Ade. La figura di Dioniso, nelle Rane, è stata oggetto di numerose interpretazioni e discussioni: possiamo innanzitutto distinguere una linea esegetica che riconosce un’evoluzione nel personaggio, il quale attraverserebbe un ‘percorso iniziatico’ finalizzato alla ricostruzione della sua identità (compromessa all’inizio della commedia) o all’affermazione di uno specifico aspetto di quell’identità;687 a questa si contrappone la posizione di coloro che individuano invece una generale uniformità nella rappresentazione di Dioniso, pur considerandola da diversi punti di vista.688
687 Per un riepilogo degli studi riconducibili a questa linea interpretativa, risalente a Segal (1961), cf. Lada-Richards (1999), 45 ss.; la studiosa, accogliendo l’ipotesi del ‘percorso iniziatico’, propone in particolare, come punto di arrivo di tale processo, la reintegrazione di Dioniso nella comunità civica della πόλις, verso cui vengono così riorientati gli aspetti più ‘selvaggi’ della personalità del dio (cf. in particolare, 121-122). Appare tuttavia eccessivamente generalizzante la tendenza della Lada-Richards a identificare la rappresentazione dell’iniziazione dionisiaca delle Baccanti con la ‘tragedia’ e quella delle Rane con la ‘commedia’ in generale: è forse più prudente limitarsi a distinguere una concezione euripidea da una aristofanea in merito alla figura di Dioniso e dei suoi culti. Cf. anche Biles (2011), 211-219, dove si si individua bensì una continuità nella rappresentazione della competenza critica di Dioniso rispetto al teatro, ma anche un’evoluzione nella scelta finale di Eschilo, dettata dalla necessità di un ‘ritorno all’antico’ appresa durante la catabasi. 688 Contro l’ipotesi di un’interpretazione della commedia alla luce di uno schema iniziatico, cf. Edmonds (2004), 115-117, il quale però interpreta – forse in modo eccessivamente sbrigativo – il personaggio di Dioniso come «an undignified buffoon» dall’inizio alla fine della commedia; cf. inoltre Scullion (2014) (in quest’ultimo caso, siamo nell’ambito di un filone di studi in cui si nega alla comme-
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Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
È comunque sia innegabile, a mio parere, che un’evoluzione, seppure comicamente connotata, sia ravvisabile nella raffigurazione del Dioniso delle Rane: per esempio, per quanto si consideri ingiustificata e estemporanea (il che poi, come vedremo in seguito, non è del tutto condivisibile) la scelta finale di ricondurre dall’Ade Eschilo invece che Euripide, per cui il dio aveva mostrato fin dal prologo un’assoluta predilezione, questo rappresenta senza dubbio un cambiamento rispetto al proposito iniziale.689 Non sembra anzi determinante nemmeno che il contenuto – fatalmente presentato con ovvi intenti comici – del consiglio finale di Eschilo alla città sia davvero realizzabile, ma piuttosto che sia attribuito a Eschilo, in virtù della saggezza ‘arcaica’ di cui si fa portatore, il ruolo di consigliere efficace per la città. Dioniso, sebbene riconosca fino all’ultimo a Euripide abilità poetica e capacità di “piacere” allo spettatore, si rende conto come il suo ex-beniamino non sia in realtà, a discapito di queste qualità, in grado di “salvare” la città. Del resto, questa raffigurazione di Euripide presenta una notevole contidia in genere la possibilità di esprimere alcun ‘serio’ contenuto riconducibile alla religiosità tradizionale; sulla questione, cf. anche la bibliografia in Caballero (2010), 12, nota 25). Contro l’idea di uno sviluppo nella figura di Dioniso, cf. inoltre Riu (1999), 115-129, dove si individua l’elemento di continuità nelle Rane nell’ «inversione», propria della figura di Dioniso, che presenterebbe qui le sue solite caratteristiche distorte comicamente (cf. tuttavia 134-139: la commedia in quanto genere letterario, nelle parti liriche, messa in relazione con vari rituali dionisiaci e con i Misteri di Eleusi, troverebbe una sua «definizione» come una τελετή capace di salvare e liberare la città); sull’‘unità nella multiformità’ della figura di Dioniso nelle Rane, in quanto essenzialmente dio del teatro, cf. Caballero (2010), 12-16; cf. al riguardo anche Jay-Robert (2002), 19-23 e Massenzio (1995), 91-97 (sulla scorta dell’interpretazione, proposta in Brelich (1975), del ruolo della religione in commedia come sottoposta anch’essa a un necessario rovesciamento, si parla in quest’ultimo di Dioniso come un dio «degradato», coerente con il contesto comico). 689 Sulle ambiguità dell’agone delle Rane e della sua conclusione, cf. Bowie (1993), 244-253; sul carattere del tutto ingiustificato della vittoria di Eschilo, cf. Riu (1999), 123-128; Bierl (2013), 374. Cf. invece Lada-Richards (1999), 217-223, dove si sostiene la coerenza della vittoria di Eschilo con i temi sviluppati nella commedia; cf. anche Biles (2011), 233-256. Sono sulla stessa linea, pur escludendo alcuna particolare trasformazione di Dioniso nel corso della commedia e, per di più, sottolineando l’affinità e perfino l’ammirazione fra Aristofane e Euripide, Gil (2013), 101-106 (Eschilo supera Euripide dal punto di vista politico e morale, ma non da quello stilistico); Caballero (2010), 19-37 (Eschilo viene scelto sulla base di considerazioni pratiche: il momento storico richiede un poeta ‘d’azione’, piuttosto che un poeta portato a sottili discussioni). Cf. infine Santamaría (2015), 133-134, dove si vede in Eschilo un nuovo ‘Teseo’ riportato sulla terra da Dioniso ‘fuori programma’ (come Eracle aveva salvato Teseo durante la sua catabasi per la cattura di Cerbero).
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Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
nuità con quella delle Tesmoforiazuse: Euripide è capace bensì di “persuadere” e trarre dalla sua parte il coro delle donne (che fin dal principio di questa commedia mostrano di essere state notevolmente influenzate dalla παιδεία euripidea), ma allo stesso tempo ‘snaturando’ i culti della πόλις. È infatti il messaggio politico e religioso della tragedia euripidea a essere messo in questione, non tanto la δεξιότης del tragediografo, che, con le sue sottigliezze, riesce (almeno apparentemente) a tener testa perfino a Eschilo: è del resto innegabile l’importanza dell’impatto di Euripide sulla poesia drammatica, che Aristofane gli riconosce sia nelle Tesmoforiazuse sia nelle Rane. Poiché tuttavia i valori trasmessi dal teatro euripideo minacciano (grazie alla qualità stessa di quel teatro) per certi versi l’integrità sociale, politica e religiosa della πόλις, Dioniso, che concepisce nel prologo delle Rane una passione quasi amorosa per Euripide (πόθος, v. 53), deve superare tale prospettiva e valutare appunto il pericolo insito in quella poesia pur superiore a tutto il resto della produzione contemporanea. La realtà di un’evoluzione a proposito del Dioniso delle Rane (appoggiata da diversi segnali nel corso della commedia, oltre alla scelta finale di Eschilo al posto di Euripide), può dunque essere sostenuta nel senso di una ricerca e della conseguente conquista di migliori criteri con cui giudicare la poesia nel contesto più ampio della vita della πόλις. D’altra parte il conseguimento di tali criteri passa anche attraverso una ricollocazione della figura di Dioniso all’interno di tale dimensione civica stessa, punto d’arrivo, appunto, del ‘percorso iniziatico’ di Dioniso (cf. qui sopra, nota 687). Ora, il punto di partenza dell’evoluzione in questione, che consideriamo qui soprattutto in una prospettiva religiosa, può essere ritenuto proprio il Dioniso che emerge dalle rappresentazioni euripidee del dio, rispetto alle quali la raffigurazione aristofanea di Dioniso sembra porsi in un rapporto dialettico, anzi di contrapposizione (al Dioniso di Euripide, dunque, piuttosto che al Dioniso in generale ‘tragico’, cf. qui sopra, nota 687). D’altra parte, un Dioniso ‘appassionato’ di Euripide, quale appare il personaggio comico del dio nel prologo delle Rane, non può che essere un Dioniso connotato anche dal punto di vista religioso in senso euripideo: se, come abbiamo visto nella prima parte della presente ricerca, Euripide mostra una certa tendenza a accentuare l’aspetto straniero, ‘barbaro’ del dio, quindi la sua lontananza dal contesto religioso di Atene, collocandolo talora all’interno della cornice misterica delle credenze riconducibili all’orfismo, l’operazione di Aristofane, nelle Rane, dunque, può essere interpretata anche nel senso di una rielaborazione dell’identità del dio, cruciale appunto per la definizione dell’identità del teatro, nell’ambito dei culti ateniesi in cui
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§ 1 Il prologo della commedia: allusioni euripidee vs. allusioni eleusine
Dioniso è coinvolto, ossia le Antesterie e i Misteri di Eleusi;690 è proprio in virtù di questo ‘ritorno a Atene’ che il dio può essere in grado di identificare il poeta realmente adatto a garantirne la salvezza, che non può essere ovviamente chi, per esempio nell’Elena, aveva trasformato il culto di Demetra in quello frigio della Madre degli dei. Discuteremo ora i punti salienti della commedia rispetto al problema dell’evoluzione di Dioniso nei termini in cui lo abbiamo appena posto. § 1 Il prologo della commedia: allusioni euripidee vs. allusioni eleusine § 1.1 Il travestimento di Dioniso e la sua ‘crisi di identità’ Il prologo delle Rane è costruito secondo uno schema del tutto analogo a quello delle Tesmoforiazuse,691 a segnalare la volontà dell’autore di stabilire un ideale dialogo fra le due commedie. Le Rane, in particolare, approfondiscono, con opportuni rimandi, l’identificazione (pur problematica), di Agatone con Dioniso in quanto dio del teatro: Agatone infatti riusciva a giustificare il suo travestimento da donna e gli accessori presenti sulla sua kline con la necessità di una μίμησις rispetto alle esigenze della sua composizione poetica; abbiamo visto qui sopra (cf. cap. V.1.2) come Agatone fosse riuscito a realizzare pienamente l’adesione dei suoi τρόποι (“modi”, “condotta”) al soggetto da lui portato in scena, tanto che il Parente, rimanendo chiuso a una comprensione del significato, nella sua complessità, dell’abbigliamento di Agatone, ha una reazione bensì di stupore (mescolanza di attributi maschili e femminili), ma anche di ammirazione per la dolcezza invero ‘femminile’ che il giovane tragediografo riesce a comunicare (cf. Thesm. 130-131), come appunto un canto di fanciulle, quale quello da lui appena eseguito, richiede. Dioniso, dal canto suo, compare in scena, nelle Rane, con indosso un κροκωτός (proprio come Agatone, cf. Thesm. 138) e i coturni, nonché con i caratteristici attributi di Eracle, ossia clava e pelle di leone: si ripropone anche qui l’opposizione femminile / maschile, ma il ‘maschile’, questa volta, si identifica specificamente con l’‘eracleo’. Il ‘dramma’ che Dioniso intende
690 La particolare relazione del Dioniso delle Rane con i culti di Atene è sottolineata anche da Bierl (2013), 372. 691 Sulle affinità fra i due prologhi, relativamente alla presenza, in entrambi, di elementi discordanti nell’abbigliamento di Agatone, paragonato dal Parente a Dioniso, e di Dioniso stesso, cf. Lada-Richards (1999), 32-36.
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mettere in scena è infatti una catabasi di Eracle nell’Ade finalizzata a riportare (invece che Cerbero) Euripide sulla terra:692 a differenza però di Agatone rispetto al suo canto, Dioniso non sembra in realtà davvero capace di compiere una perfetta μίμησις rispetto a Eracle. Lo rileva Eracle stesso, alla cui porta Dioniso va a bussare per avere informazioni sulla via da percorrere per raggiungere l’Ade: non solo infatti Eracle paragona il modo di Dioniso di bussare alla porta con quello dei Centauri (ὡς κενταυρικῶς / ἐνήλαθ᾽ ὅστις, vv. 38-39), quelle creature semiferine stesse contro cui, nelle sue imprese, è solito combattere, ma, di fronte al bizzarro travestimento di Dioniso, “non riesce a trattenere le risa” (v. 45). Sebbene infatti Dioniso ritenga di essere riuscito a “spaventare” il fratello (v. 41), come da Eracle appunto ci si aspetterebbe, Eracle è invece soltanto divertito: allo stesso modo del Parente di Euripide nelle Tesmoforiazuse, anche lui non individua il senso della buffa mascherata che ha di fronte e, con un’espressione simile a quelle usate dal Parente in Thesm. 136-140, si domanda: τίς ὁ νοῦς; τί κόθορνος καὶ ῥόπαλον ξυνηλθέτην; (Ran. 47). Se però il Parente, con il suo ragionamento binario, non riusciva a comprendere la complessità dell’abbigliamento di Agatone, Eracle sembra cogliere davvero un’inadeguatezza e un’inconciliabilità di fondo nell’abbigliamento di questo Dioniso ‘appassionato di Euripide’.693 Dioniso, infatti, in quanto dio del teatro, è consapevole, almeno teoricamente, della necessità del processo imitativo del teatro stesso: parla esplicitamente di μίμησις (cf. v. 109, κατὰ σὴν [di Eracle] μίμησιν) a proposito del suo travestimento da Eracle, proprio come Agato-
692 Per un’indagine di tutte le possibili fonti, a partire da quelle omeriche, della catabasi delle Rane, cf. Santamaría (2015). 693 Sul carattere ‘liminale’ dell’abbigliamento di Dioniso (uomo-donna-bestia, cf., riguardo in particolare alla λεοντῆ, Bowie (1993), 237) e sull’avvicinamento di Dioniso, in questo senso, al personaggio mitico di Eracle, che anch’egli partecipa di condizioni oscillanti fra l’umano, il divino, il ferino e, talora, perfino il femminile (sul rapporto fra Eracle e le donne, cf. Padilla (1998), 25), cf. LadaRichards (1999), 17-44; la vera e propria ricomposizione di ‘eracleo’ e ‘dionisiaco’ avverrebbe però, in un’armonia priva di contraddizioni, solo nell’agone della commedia (cf. pp. 42-43), dove la studiosa (pp. 274-278) individua collegamenti fra le posizioni sostenute da Eschilo e alcuni aspetti della personalità di Eracle, legati all’educazione arcaica, fondata sulla ginnastica e sull’esaltazione della virilità, dei giovani in quanto futuri cittadini e opliti. Sebbene lo sfondo mitico della relazione fra Eracle e Dioniso presenti effettivamente interconnessioni, occorre comunque sia ricordare che il percorso di avvicinamento di Dioniso a Eracle può essere visto come orientato, più che verso aspetti generali della loro identità, verso gli specifici valori letterari e religiosi che Eracle rappresenta nelle Rane e in altri passi aristofanei, dove l’eroe risulta già portatore di un determinato messaggio politico e culturale, ormai noto e consolidato (cf. avanti).
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ne in Thesm. 156, ma non riesce a essere credibile nella sua imitazione. Quello che sembra mancargli in particolare è la capacità di far propri i τρόποι di Eracle: Agatone, in Thesm. 148-150, stabilisce infatti la necessità di un adeguamento dell’ἐσθής e dei τρόποι alla γνώμη; poco dopo inoltre suggerisce che tale processo imitativo sia ‘favorito’, nel suo esito, dalla φύσις dell’imitatore (cf. qui sopra, cap. I.4; V.1.2.1). La risata di Eracle dimostra che Dioniso non riesce assolutamente a imitare e a far proprie né la capacità di Eracle di incutere il terrore né, come vedremo negli episodi della sua catabasi (cf. avanti, § 2.3), il suo coraggio.694 Tale inadeguatezza potrebbe essere spiegata non solo sulla base del fatto che a Dioniso difetti il coraggio, per una sua naturale disposizione alla ‘codardia’ (tale era appunto la rappresentazione di Dioniso tradizionale in commedia, e non solo)695 – dunque per un problema di φύσις, esprimendosi nei termini di Agatone –, ma anche perché un Dioniso ammiratore di Euripide, che fa quindi suo l’universo culturale della tragedia euripidea, non può che essere incapace di rapportarsi ai valori che Eracle, almeno secondo l’interpretazione di Aristofane, rappresenta: Eracle è infatti messo in diretto rapporto con quella ἀρχαία παιδεία legata all’esaltazione della virilità, della forza fisica esercitata nelle palestre, nonché a una concezione ‘arcaica’ della poesia e della musica, come emerge nelle parole del Discorso Migliore delle Nuvole (vv. 961 ss.), che rivendica di avere educato i “maratonomachi” (v. 986) e menziona appunto Eracle fra gli exempla positivi (v. 1050). Molti di questi temi ritorneranno nell’agone delle Rane fra gli argomenti che Eschilo fa propri in opposizione alla παιδεία euripidea. L’ὀργή di Eracle è del resto il termine di paragone di cui si serve Aristofane per rappresentare se stesso nella sua lotta contro Cleone nella parabasi delle Vespe (v. 1030) e della Pace (v. 752). Non è quindi un caso che Eracle si mostri nelle Rane decisamente avverso alla poesia di Euripide, definendola κόβαλα (“ciance”, v. 104) e anticipando così la vittoria finale di Eschilo. Aristofane porta dunque sulla scena un dio del teatro che ha bensì buone intenzioni e una certa capacità di giudizio rispetto al teatro stesso, ma che, dati i suoi ‘cattivi’ punti di riferimento letterari e culturali, appare in ultima analisi sostanzialmente confuso e incapace di dare attuazione a
694 Sull’auto-consapevolezza che mostra Dioniso in Ran. 108-109, cf. Lada-Richards (1999), 160 ss.; cf. tuttavia 164-172, per una diversa interpretazione dell’incompatibilità fra abbigliamento e temperamento ‘eraclei’ nell’imitazione di Eracle da parte di Dioniso. 695 Così doveva essere rappresentato Dioniso nel Dionisalessandro di Cratino; cf. Lada-Richards (1999), 171-172; Dioniso appare comunque sia timoroso fin da Il. VI.135-137; cf. al riguardo Caballero (2010), 13.
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quelle pur buone intenzioni stesse – e non solo per quanto riguarda l’imitazione di Eracle. Nelle prime battute del prologo, per esempio, troviamo bensì Dioniso impegnato in una discussione metateatrale con il suo servo Xantia sull’opportunità o meno di pronunciare battute troppo abusate nelle commedie contemporanee, ma, mentre Xantia propone determinate battute, senza di fatto pronunciarle, soltanto connotandole con aggettivi (Εἴπω τι τῶν εἰωθότων, ἕτερον ἀστεῖόν τι, τὸ πάνυ γέλοιον, rispettivamente vv. 1; 5-6), è Dioniso, che pure mostra disgusto verso quel tipo di bassa comicità, a esplicitare le battute incriminate, interpretando così lui stesso la parte del tipico servo volgare ‘da commedia’ (vv. 3; 5);696 neppure quando Xantia infine si decide a dire davvero qualcosa di scurrile (εἰ μὴ καθαιρήσει τις, ἀποπαρδήσομαι; v. 10), Dioniso non si esime dal commentarlo con il ricorso a un’immagine riferita a un’altra funzione corporea (μὴ δῆθ᾽, ἱκετεύω, πλήν γ᾽ ὅταν μέλλω ᾽ξεμεῖν, v. 11).697 696 Su tali ambiguità della scena iniziale della commedia, cf. Lada-Richards (1999), 322-323, dove si vede il Dioniso del prologo come incapace di districarsi dalle «manifestazioni popolari» della commedia, laddove nell’agone troverebbe il modo di innalzare la commedia stessa in una «più sublime dimensione»; d’altra parte Dioniso, poiché già nel dialogo con Eracle nel prologo si occupa di temi tragici e quindi ‘seri’, si dimostra fin da subito capace di allontanarsi dal mero φορτικόν delle battute iniziali, pur continuando a dimostrare una confusione analoga a quella mostrata nel parlare di temi comici (Dioniso disprezza i giovani tragediografi contemporanei, senza rendersi conto che Euripide, anche se superiore a tutti loro, ha dato l’avvio all’attuale crisi della tragedia). 697 Sulla competenza teatrale manifestata da Dioniso fin dalle prime battute della commedia, cf. Biles (2011), 212-219 (interessanti sono in particolare le riflessioni di Biles (p. 215), sulla decisione di Dioniso riguardo a Iofonte, figlio di Sofocle, vv. 73-79). Biles sottolinea inoltre anche il forte legame che rivela Dioniso con la dimensione civica della πόλις fin dal prologo (cf., per esempio, vv. 16-17; 92-95; su una linea analoga, cf. Riu (1999), 131-132, dove si mettono in luce i condivisibili giudizi di Dioniso su commediografi e tragediografi contemporanei), a differenza di quanto sostenuto in Lada-Richards (1999), 218-219; sulla distanza di Dioniso dalla πόλις nel prologo, cf. anche Edmonds (2004), 120-123. Le osservazioni di Biles appaiono convincenti e attenuano l’interpretazione, offerta dalla Lada-Richards, del Dioniso del prologo come intrappolato in una concezione individualistica della poesia e allo stesso tempo come appartenente a una ‘condizione liminale’ fra mondo civilizzato e mondo selvaggio (cf. qui sopra, nota 693): Dioniso è fin dal prologo inserito, in quanto dio del teatro, nel contesto della πόλις e dei suoi agoni drammatici, ma i suoi criteri, inficiati dalla sua prospettiva euripidea, sono errati e la sua stessa identità religiosa di Dioniso ‘euripideo’ lo pone in una relazione problematica con la πόλις; cf. al riguardo, oltre Biles, Jay-Robert (2002), 20 (sull’appartenenza di Dioniso, fin dal principio, alla società ateniese, delle cui sorti si preoccupa); Caballero (2010), 13-14 (sulla competenza del dio in fatto di questioni teatrali).
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Dioniso, incapace di svolgere in modo pienamente coerente il suo ruolo di dio e quindi giudice del teatro, conferma dunque la sua confusione, che a questo punto possiamo definire anche identitaria, nel momento in cui si tratta di presentarsi al pubblico (vv. 21-24): εἶτ᾽ οὐχ ὕβρις ταῦτ᾽ ἐστὶ καὶ πολλὴ τρυφή [con riferimento a Xantia, che si lamenta dei bagagli], ὅτ᾽ ἐγὼ μὲν ὢν Διόνυσος, υἱὸς Σταμνίου, αὐτὸς βαδίζω καὶ πονῶ, τοῦτον δ᾽ ὀχῶ, ἵνα μὴ ταλαιπωροῖτο μηδ᾽ ἄχθος φέροι; In questo “Dioniso, figlio di Boccale”,698 possiamo forse già scorgere una prima connotazione euripidea del Dioniso che abbiamo di fronte: nel prologo dell’Ipsipile,699 infatti, come sembra emergere da TrGF 71 F752a, Ipsipile narrava verosimilmente la sua genealogia, ricordando i nomi dei quattro figli di Dioniso e delle isole che furono loro donate: Σταφ[υλ Πεπαρ.....[ τούτων συδε . [ ὥραις γε...ονγ[ Ἥρας . εδοιδ . [ Διονυσο..νολ[ τρίτος Διονυ[σ Χίου παρα[ οι ντατ[ Λῆμνον . [
698 Sulle possibili interpretazioni di questa auto-presentazione di Dioniso, cf. LadaRichards (1999), 14-15. 699 La parodia dell’Ipsipile, in quanto tragedia incentrata su una particolare interpretazione della figura mitica e cultuale di Dioniso (cf. qui sopra, cap. IV.2) acquista ancora più importanza, come vedremo avanti, nell’agone delle Rane (al di là della ‘superficiale’ lettura dello scolio al v. 53, schol. vet. in Arist. Ran. 53a, p. 12 Chantry, dove lo scoliasta si domanda perché il πόθος di Euripide sia scatenato in Dioniso dalla lettura di una tragedia come l’Andromeda, messa in scena diversi anni prima rispetto alle Rane, e non da tragedie più recenti, come l’Ipsipile, l’Antiope o le Fenicie). È intanto senz’altro significativo che un’allusione a questa tragedia possa essere ravvisata proprio in relazione all’identità di Dioniso. A conferma della rilevanza dell’Ipsipile nelle parodie euripidee di Aristofane, ricordiamo le Λήμνιαι, uno dei cui frammenti (fr. 373 PCG) parla appunto di “Toante, padre di Ipsipile” come colui che regna a Lemno.
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Come abbiamo osservato qui sopra in cap. IV.2.1.1, possiamo riconoscere in questi versi le tracce dei nomi dei figli di Arianna e Dioniso, Στάφυλος, Πεπάρηθος, Οἰνοπίων re di Chio (nonché Toante, re di Lemno), ‘nomi parlanti’, connessi alla sfera del vino e della coltivazione della vite. Il passo delle Rane dunque ci mostra la reinterpretazione comica della discendenza di Dioniso secondo l’Ipsipile euripidea: Dioniso viene trasformato nel figlio di “Boccale” (Σταμνίας, ου nome proprio ricavato da στάμνος, “boccale”). Aristofane sposta sul ‘padre’ di Dioniso il gioco dei nomi parlanti dei figli, richiamandosi verosimilmente ai versi dell’Ipsipile. Aristofane sembra insomma rendere manifesta la confusione del dio, emersa subito prima nel dialogo con il servo e confermata poco dopo dalla sua incapacità di attuare un’efficace μίμησις di Eracle, inventando per lui una ‘nuova’ paternità, presentata come – comicamente – nobilitante per mezzo di un’allusione a una genealogia dionisiaca euripidea. Del resto, il Dioniso aristofaneo rivendicherà la sua discendenza da Zeus, recuperando quindi la sua vera identità, quando, alla fine del suo percorso ‘iniziatico’, si accingerà, in quanto dio del teatro, a far da giudice alla sfida fra Eschilo e Euripide: ἀθάνατος εἶναί φημι, Διόνυσος Διός (v. 631). Il Dioniso dell’Ipsipile, del resto, presenta una probabile caratterizzazione orfica (cf. qui sopra, cap. IV.2), con cui Aristofane, nella rappresentazione del suo Dioniso, si trova a fare i conti e che intende evidentemente superare per offrirgli un’identità maggiormente in sintonia con i culti della πόλις. Quando Dioniso finalmente esplicita, nel suo dialogo con Eracle, la motivazione del suo viaggio e, quindi, del suo abbigliamento, spiega la sua intenzione di recuperare Euripide dall’Ade come dettata da un desiderio descritto secondo un lessico che sconfina nell’amoroso: πόθος (v. 53), ἵμερος (v. 59). Tra l’altro la lettura700 della tragedia che lo ha stimolato è proprio l’Andromeda, la menzione della quale si spiega sia con l’importanza del tema amoroso in questa tragedia sia con un eventuale diretto collegamento con le Tesmoforiazuse, dove l’Andromeda è oggetto dell’ultima esplicita (considerando implicite le allusioni all’Ifigenia in Tauride nel finale) parodia euripidea (proprio come il Telefo costituisce un ideale ponte fra Acarnesi e Tesmoforiazuse). Euripide si configura dunque, fin dal principio della commedia, come un poeta capace di persuadere e conquistare lo spettatore suscitando in lui una “passione” che ne inibisce sostanzialmente la capacità di giudizio (un ritratto che trova ancora una volta una corrispondenza con
700 Sulla circolazione libraria nell’Atene del V sec. e sulla possibilità o meno di fruizione della poesia drammatica al di fuori del contesto rituale degli agoni drammatici, cf. Mastromarco (2006), 137-191; Nieddu (2003), 81-85.
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quello degli Acarnesi, dove Diceopoli riteneva il travestimento euripideo da Telefo il più adatto a persuadere i suoi concittadini); fino alla fine dell’agone, infatti, Dioniso non rinuncerà a dire che Euripide “gli piace” (cf. v. 1413). Il dio del teatro offre poi a Eracle un saggio di versi di Euripide che ne confermino la qualità di poeta γόνιμος (v. 96): come abbiamo argomentato qui sopra in cap. I.1.3, si tratta di scelte forse orientate verso quelle peculiarità della religiosità euripidea riconducibili all’orfismo (come suggeriscono i temi dell’Etere, del Tempo e della scissione fra anima e corpo). Come le Tesmoforiazuse si aprivano con una cosmogonia euripidea ispirata verosimilmente a quella della Melanippe saggia, ripresa poco oltre, in Thesm. 272, con il giuramento di Euripide τοίνυν αἰθέρ᾽, οἴκησιν Διός, tratto dalla stessa tragedia, Dioniso cita a sua volta quest’ultimo verso in Ran. 100 (con δωμάτιον al posto di οἴκησιν) fra i suoi esempi di stile euripideo, fra cui compare anche il χρόνου πόδα di Bacch. 889 e la storpiatura dello spergiuro di Ippolito in Hipp. 612, ugualmente parodiato in Thesm. 275-276. È altresì significativo che Dioniso risponda al disgusto di Eracle di fronte a tali citazioni confermando che queste cose gli piacciano μἀλλὰ πλεῖν ἢ μαίνομαι, “alla follia” (v. 103): Aristofane sembra riproporre quell’associazione di ‘orfismo’ e ‘dionisismo’ – considerando la μανία nella sua accezione ‘dionisiaca’701 – offerta da Euripide fino alle tarde Baccanti. § 1.2 La rappresentazione dell’aldilà nelle Rane § 1.2.1 Beati e peccatori Come abbiamo anticipato qui sopra, le Rane presentano uno sfondo religioso che si configura essenzialmente e esplicitamente come riferito ai Misteri di Eleusi,702 con i quali si relaziona, fin dal prologo della commedia, la figura di Eracle: se dunque Dioniso rivela progressivamente i suoi referenti culturali e religiosi, mediati dalla tragedia euripidea, Eracle gli con-
701 Sugli elementi propriamente ‘dionisiaci’ nel prologo delle Rane (fra cui viene annoverata anche la μανία menzionata ai vv. 43; 103) cf. Lada-Richards (1999), 41-43; Riu (1999), 115-119. 702 Sull’indubitabile sfondo eleusino dell’intera commedia, cf. Bowie (1993), 228-229; cf. inoltre Sells (2012), dove si offre una lettura dell’intera commedia in connessione con il culto di Eleusi, il quale si presta a svolgere tale ruolo anche in virtù di un’intrinseca teatralità (si pensi al δρᾶμα μυστικόν messo verosimilmente in scena durante le celebrazioni).
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trappone la sua dimensione culturale, non solo stilisticamente estranea alle ‘raffinatezze’ euripidee, ma anche orientata, dal punto di vista religioso, verso Demetra e i Misteri di Eleusi e, dal punto di vista poetico, verso Eschilo. La riaffermazione del culto eleusino nella sua valenza religiosa, ma anche politica, appare dunque coerentemente rivolta contro l’autore che fin dall’Ippolito aveva offerto una rappresentazione distorta dei riti misterici di Demetra, giungendo, nell’Elena, a sovrapporvi il culto frigio della Madre degli dei e mostrando un generale interesse per credenze e dottrine poste ai margini dell’ortodossia. Per quanto riguarda la connotazione eleusina di Eracle, è la tradizione mitica stessa relativa all’eroe a stabilire tale legame, in virtù della sua iniziazione come “primo straniero” (talora connessa nelle fonti a necessità di purificazione e alla fondazione dei Piccoli Misteri).703 Non è dunque un caso che la prima divinità che Eracle invoca di fronte alla ‘mascherata’ di Dioniso sia proprio Demetra (v. 42, μὰ τὴν Δήμητρα).704 Eracle poi, richiesto da Dioniso di fornirgli delle indicazioni precise su come raggiungere l’aldilà (in virtù della sua esperienza in occasione della cattura di Cerbero), dopo avere suggerito vie rapide, coincidenti di fatto con il suicidio, si decide a fornirgli una descrizione dell'oltretomba, dove distingue il fango e lo sterco (εἶτα βόρβορον πολὺν / καὶ σκῶρ ἀείνων, vv. 145-146) in cui sono immersi i ‘peccatori’705 dalla beatitudine che circonda una specifica categoria di persone (vv. 154-157): ἐντεῦθεν αὐλῶν τίς σε περίεισιν πνοή, ὄψει τε φῶς κάλλιστον ὥσπερ ἐνθάδε, καὶ μυρρινῶνας καὶ θιάσους εὐδαίμονας ἀνδρῶν γυναικῶν καὶ κρότον χειρῶν πολύν.
703 Cf. qui sopra, cap. III.2.3.2, nota 363; sulla relazione fra l’iniziazione di Eracle ai Misteri di Eleusi e la sua catabasi per catturare Cerbero, a imitazione della quale Dioniso concepisce la sua propria catabasi (questo implica che anche Dioniso, dunque, debba essere iniziato, per portare a buon fine la sua impresa), cf. Graf (1974), 142-146; Bowie (1993), 235-236; Santamaría (2015), 120-121. 704 Per una diversa interpretazione dell’apostrofe a Demetra, inusitata per un uomo, cf. Del Corno (2006), 158-159. 705 Cf. Ran. 145-151: si tratta di reati gravi, quali le offese all’ospite (che torneranno anche nella parodo come esempio di colpevolezza, cf. avanti), truffe ai danni dei ragazzi di cui ci si è approfittati, percosse ai genitori, giuramenti falsi, conclusi da un ‘oltraggio all’arte’, ossia “essersi ricopiati una ῥῆσις di Morsimo”. A quest’ultimo proposito il dio del teatro aggiunge ai colpevoli “chi ha imparato la pirrica di Cinesia” (v. 153), mostrando ancora una volta di essere capace di dare giudizi condivisibili su poeti che sono frequenti bersagli aristofanei (cf. qui sopra, nota 697).
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Coloro che possono godere di tutto questo sono i μεμυημένοι, che (come risulterà ancora più chiaro dalla parodo, per cui cf. avanti, § 2.2)706 sono gli iniziati ai Misteri eleusini di Demetra e Persefone. Gli echi dionisiaci presenti in questa descrizione707 anticipano la rappresentazione metateatrale del coro nella parodo, ricca anch’essa di riferimenti dionisiaci, che sembrano appunto funzionali a definire il coro allo stesso tempo nel contesto dei Misteri di Eleusi e in quello dionisiaco delle Lenee, nella cui cornice viene rappresentata la commedia;708 l’ὥσπερ ἐνθάδε stesso di Eracle potrebbe avere una valenza metateatrale in questo senso.709 Nelle immagini escatologiche di cui Aristofane si serve, nel prologo (e nella parodo, su cui torneremo avanti), per rappresentare le beatitudini e le pene nell’aldilà, sono state invero individuate possibili somiglianze con testi che presentano influssi orfici: le immagini aristofanee della luce (vv. 155; 454-455) e dei mirteti / il bosco in fiore (vv. 156; 441, se di “bosco” si tratta o non piuttosto di una “radura” o simili, cf. qui sotto, nota 712), a cui si aggiunge, nella parodo, l’insistenza sul tema del “prato fiorito” (vv. 326; 351; 372-374; 448-449; sull’importanza del λειμών nelle immagini orfiche dell’aldilà, cf. anche qui sopra, cap. II.2.1.1) e, per i peccatori, del fango, dello sterco (vv. 145-146) e dello σκότος (“oscurità”, v. 273) sono state messe in relazione con i frr. 129-130 Maehler da un threnos di Pindaro, nonché con le lamine orfiche e i miti escatologici di Platone, in particolare del Gorgia (523a ss.) e, soprattutto, del Fedro (248c ss.).710
706 Tra l’altro Xantia, carico di bagagli e stanco di non essere preso in considerazione, commenta così la menzione dei μεμυημένοι da parte di Eracle: “Per Zeus, io sono proprio l'asino ai misteri” (v. 159). Questo verso si spiegherebbe appunto immaginando che Xantia (il quale, nella discussione ‘sofistica’ dei vv. 25-32, s’impigliava in uno scambio di ruoli fra lui e l’asino) si stia qui paragonando alle bestie da soma di cui si servivano i fedeli in viaggio per Eleusi durante la festa dei misteri e «che erano naturalmente escluse dai benefici derivanti dal vivere l'esperienza iniziatica» (cf. Mastromarco, Totaro (2006), 578-579, nota 32). 707 Sulla connotazione dionisiaca dei θίασοι (v. 156 e poi, nella parodo, v. 327), cf. Bowie (1993), 233; Biles (2011), 224, dove vengono ricondotti alla realtà dionisiaca degli agoni drammatici anche i flauti e il “battere delle mani”. 708 Sulla doppia identificazione del coro delle Rane come coro degli iniziati ai Misteri di Eleusi e, in una prospettiva metateatrale, come coro dionisiaco che agisce nel contesto degli agoni lenaici, cf. Biles (2011), 224-228. Cf. anche Riu (1999), 135-139, sulla connessione fra commedia e culti misterici, per cui cf. qui sopra, note 687-688. 709 Cf. Biles (2011), 224. 710 Cf. Graf (1974), 79 ss.; sulla relazione, in particolare, con il frammento pindarico, cf. 79-88. Per quanto riguarda Pindaro osserviamo che i frammenti in questione non presentano immagini di per sé riconducibili specificamente all’orfi-
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Per quanto riguarda la rappresentazione della beatitudine nell’aldilà, siamo a mio parere di fronte a un repertorio comune a cui Aristofane sembra attingere senza però offrirne una connotazione specifica in senso orfico: rimangono esclusi dallo scenario aristofaneo riferimenti alla metempsicosi, così come a momenti del viaggio nell’aldilà precisamente identificabili secondo la descrizione delle lamine orfiche (per esempio la presenza di una κρήνη a cui dissetarsi o del cipresso bianco),711 cosicché rimane riconoscibile la matrice fondamentalmente eleusina del suo scenario religioso. Per quanto riguarda in particolare il λειμών fiorito in ambito escatologico o mistico, la sua presenza – solo per citare alcuni esempi – anche nelle lami-
smo; è piuttosto altrove (Olimpica II; frr. 131b; 133 Maehler) che Pindaro affronta temi escatologici interpretabili come orfici, quali la liberazione da una colpa primigenia, la metempsicosi, la netta separazione dell’anima dal corpo; cf. al riguardo Santamaría (2009), in particolare 1169-1174, dove la lettura in senso orfico dei frr. 129-130 Maehler prende più forza dall’associazione del fr. 131a, di cui si ritiene probabile l’appartenenza allo stesso threnos. Per quel che concerne poi le analogie fra le Rane e il celebre frammento plutarcheo fr. 178 (dove viene stabilito un confronto fra l’esperienza della morte e quella dell’iniziazione nelle τελεταὶ μεγάλαι, un’espressione che ha fatto pensare appunto a Eleusi: dapprima un vagare spossante nel buio, seguito da φρίκη, τρόμος, ἱδρώς, θάμβος; compaiono poi un φῶς τι θαυμάσιον e τόποι καθαροὶ καὶ λειμῶνες, caratterizzati da voci, danze e sacre visioni), la loro relazione è strettissima per la presenza, nella catabasi di Dioniso, sia di momenti in cui il dio e il suo servo vagano nel buio terrorizzati da orribili visioni (cf. avanti, § 2) sia del successivo incontro con la luce e i prati dove cantano e danzano gli iniziati. Tuttavia bisogna tenere conto del fatto che Plutarco, nel testo in questione, intenda principalmente descrivere l’ascesa dell’anima liberata, con la morte, dai vincoli del corpo, in un contesto generale, quindi, che presenta profonde influenze platoniche (cf. Graf (1974), 131-139); cf. comunque sia Mylonas (1961), 264 ss., dove si esclude invece ogni relazione del frammento plutarcheo con le cerimonie eleusine. 711 Cf. al riguardo in particolare Santamaría (2015), 122-125, dove si menziona, come parallelo, la lamina di Farsalo (fr. 477 Bernabé): qui compaiono sia la κρήνη (v. 1) sia la λευκὴ κυπάρισσος (v. 2), che non risultano a mio avviso sufficienti per rappresentare un parallelo diretto della λίμνη (v. 137), del φῶς κάλλιστον (v. 155) e dei μυρρινῶνες (v. 156) aristofanei; per quanto riguarda il riferimento alla Μνημοσύνης λίμνη delle lamine orfiche del “gruppo B”, inclusa quella di Farsalo (v. 4), questa non sembra direttamente riferibile alla λίμνη μεγάλη di Ran. 137, che rappresenta semplicemente il luogo dove avviene il traghettamento sulla barca di Caronte (e che scopriremo poi abitato dalle rane, cf. avanti, § 2.1). Osserviamo infine che il riferimento alla lamina di Ipponio (fr. 474 Bernabé) come parallelo della battuta di Eracle in Ran. 161 si presenta problematico e, in ogni caso, rovesciato: se Eracle parla di individui che “spiegheranno” (φράσουσι, v. 161) a Dioniso, i guardiani della lamina “interrogheranno” (εἰρήσονται, v. 8) il mista.
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ne orfiche (fr. 487.6 Bernabé), così come nel fr. 129 di Pindaro (v. 3) o, secondo quanto ci dice schol. vet. in Aristoph. Ran. 344, p. 57 Chantry, in un frammento di Sofocle, forse dal Trittolemo (TrGF IV F891), ci conferma che ci troviamo di fronte a un’immagine generica di ‘beatitudine’, che necessita di ulteriori elementi per essere ricondotta a un determinato contesto religioso.712 Possiamo anzi ipotizzare che nel complesso panorama religioso del tardo V sec., dove le diverse religioni misteriche (comprese quelle provenienti dall’Oriente), anche in ‘concorrenza’ fra di loro, proponevano diverse vie alla salvezza, si fosse ormai sviluppato un immaginario escatologico ‘eleusino’, di cui non possiamo definire con esattezza i contorni ma in cui possiamo includere l’autorevole contributo di Aristofane stesso, che attingeva allo stesso repertorio di formule e immagini diffuso per esempio nella letteratura orfica, ma anche in generale in quella relativa alle catabasi degli eroi quali Eracle o Teseo.713 Menzioniamo inoltre l’idea del banchetto nell’aldilà, di cui ci parla anche Platone (che sfrutta le tradizionali immagini escatologiche per piegarle di volta in volta alle sue specifiche esigenze) nella Repubblica (363c-e), attribuendo a Museo e a “suo figlio” 714 un λόγος sul συμπόσιον τῶν ὁσίων nell’Ade (oltre che, all’opposto, πηλός e pene per ἀνόσιοι e ἄδικοι), riconducibile a complessi dottrinari orfico-dionisiaci, come suggerisce l’idea stessa del “simposio” e dell’ “ebbrezza” nell’aldilà. È interessante osservare come Aristofane, nelle Rane, abbia un atteggiamento ambiguo rispetto a tale forma di ricompensa ultraterrena, dato che, se, attraverso le parole di Eracle 712 Cf. al riguardo Sommerstein (2012), 119, dove si attribuisce anche a ἄλσος (v. 441), sulla scorta di un uso del primo Sofocle, un significato analogo a λειμών, “level expanse”; la presenza di alberi (cf. qui sopra, nota 711) che possano connotare il luogo come un bosco non è del resto implicata nemmeno dal riferimento ai μυρρινῶνες (v. 156) nel prologo, essendo il mirto un arbusto. 713 Sulla questione cf. in generale Graf (2009), 687-696; Santamaría (2015), in particolare 118-122. 714 Riguardo al “figlio di Museo”, tradizionalmente identificato con Eumolpo, primo ierofante e quindi personalità spiccatamente eleusina (sulle connessioni di Museo e Eumolpo con Eleusi e l’orfismo, cf. Graf (1974), 8-22), potremmo vedere in Platone una testimonianza di quella commistione fra temi eleusini e orfici di cui abbiamo parlato qui sopra in merito alla rappresentazione dell’aldilà (Museo è del resto ancora menzionato, in relazione alla possibilità di liberarsi dai castighi nell’aldilà per mezzo di sacrifici e purificazioni, questa volta insieme con Orfeo, sempre in Resp. 364e); cf. tuttavia Bernabé (2011), 36, dove si esclude l’identificazione del figlio di Museo con Eumolpo, interpretando l’espressione come ironica e finalizzata a segnare un distacco, da parte di Platone, da questo tipo di credenze.
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(vv. 154-157), affronta la descrizione del locus amoenus (mirteti, luce, musica) senza alcun tipo di ridicolizzazione ai danni dei ‘beati’, associa invece il “banchetto nell’aldilà”, come vedremo meglio avanti, alla ‘debolezza’ di Dioniso e alla sua incapacità di recitare il ruolo di Eracle se non come ‘mangione’ (cf. vv. 503-511).715 Quanto infine alla rappresentazione, fatta da Eracle, delle pene nell’aldilà (vv. 145-153), non sembra essere immediatamente riconducibile, a quanto pare, all’escatologia eleusina: Aristofane sposta del resto proprio sull’immagine dei peccatori immersi nel fango e nello sterco il momento comico della sua ‘escatologia’, inserendo fra gli ingiusti anche “chi si è ricopiato una tirata di Morsimo” o “ha imparato la pirrica di Cinesia”. Ancora più significativamente quando, dopo aver attraversato la λίμνη dell’Ade, Dioniso chiede a Xantia se abbia visto, oltre a σκότος e βόρβορος (v. 273), anche i “parricidi” e gli “spergiuri” (vv. 274-275), Xantia gli domanda a sua volta “tu no?” e Dioniso risponde “di vederli ancora”, riferendosi evidentemente agli spettatori stessi. Il gioco metateatrale getta così una nuova luce su quegli ‘ingiusti’, che sono in realtà sulla terra piuttosto che immersi nel fango nell’Ade (cf. avanti, § 1.2.3).716 Peraltro che i Misteri di Eleusi promettessero nell’aldilà una forma di beatitudine per gli iniziati e una permanenza nell’oscurità (ζόφος) – che in questa contrapposizione si configura quindi come ‘condanna’ – per i non iniziati, è un dato di fatto fin dall’Inno a Demetra (vv. 480-482): ὄλβιος, ὃς τάδ᾽ ὄπωπεν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων˙ ὃς δ᾽ ἀτελὴς ἱερῶν, ὃς τ᾽ ἄμμορος, οὔ ποθ᾽ ὁμοίων αἶσαν ἔχει φθίμενός περ ὑπὸ ζόφῳ εὐρώεντι.717 Non stupisce di conseguenza che si sia cercata, almeno a partire da un certo momento (le Rane sono per noi il testo più antico in questo senso), anche una rappresentazione visuale di tali destini ultraterreni. Del resto, che nell’Ade esistessero peccatori mitici condannati a pene gravose (χαλέπ᾽ 715 Quanto al riferimento all’odore χοιρείων κρεῶν che Xantia e Dioniso sentono durante la parodo (vv. 337-339), si tratta di un rimando alla realtà cultuale eleusina e al sacrificio dei maialini, quindi al diretto referente cultuale della parodo stessa, senza che questo implichi direttamente una beatitudine consistente in un simposio e nell’ebbrezza. 716 Su quest’ultimo passo cf. anche la lettura proposta in Edmonds (2004), 137. 717 Il passo è riportato anche in Janda (2010), 231 come uno dei testimoni di ὄλβος / ὄλβιος in contesto escatologico, che appartiene, secondo Janda, alla terminologia escatologica già di livello i.e.: ὄλβος corrisponderebbe infatti al vedico svargá-, “paradiso”, ma trasparentemente “via al sole”, per cui cf. Pindaro, fr. 133 Maehler, ἐς τὸν ὕπερθεν ἅλιον.
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o κρατέρ᾽ ἄλγεα) ce lo testimonia anche l’Odissea, a proposito di Tantalo e Sisifo (cf. XI.582-600).718 È l’orfismo che può avere ulteriormente sviluppato questa nozione comunque propria dell’escatologia greca. § 1.2.2 Escatologia ritualistica o etica? Come emerge dai versi appena citati dell’Inno a Demetra, l’ἐποπτεία dava accesso alla condizione di ὄλβιος dopo la morte, mentre l’ἀτελής “si sarebbe consumato nell’umida tenebra”: siamo di fronte a un’escatologia ritualistica, nel senso che è l’iniziazione a garantire una non meglio specificata beatitudine, laddove la non partecipazione agli ἱερά ‘condanna’ alle tenebre, quindi a una condizione non dissimile da quella delle ombre nell’aldilà omerico. 719 Nelle Rane, tuttavia, come abbiamo visto qui sopra, Eracle parla esplicitamente di pene consistenti nell’immersione nel fango e nello sterco per chi si sia macchiato di qualche grave colpa (vv. 145-153, cf. anche vv. 273-276):720 secondo Fritz Graf, Aristofane – e in questo è ancora una volta il nostro testimone più antico – opererebbe una sovrapposizione fra la dicotomia ritualistica caratteristica di Eleusi e quella etica propria invece dell’escatologia orfica.721
718 Sull’influenza di Omero e Esiodo sulle rappresentazioni delle beatitudini e delle pene nell’aldilà nella letteratura successiva, cf. Graf (1974), 103-107. Osserviamo inoltre che è Platone stesso a mettere in relazione, nel Gorgia (525e), la propria rappresentazione delle pene degli spergiuri e degli ingiusti nell’Ade (cf. 525a) con quella omerica di Tantalo, Sisifo e Tizio. Platone, in ogni caso, sottolinea come le gravi colpe per cui si viene puniti nell’Ade siano commesse soprattutto da tiranni e potenti e si tratti quindi di colpe ‘politiche’ (cf. 525e): la dimensione etica in Platone ha dunque la stessa connotazione politica che ha in Aristofane. 719 Cf. Graf (1974), 79-83. 720 Aristofane, nel menzionare fra gli esempi dei peccatori, per ben due volte, gli spergiuri (vv. 150 e 275), mostra in ogni caso un’affinità con Plat. Gorg. 525a, così come con Pindaro, Ol. II.65-67, dove è attribuita, in positivo, ai giusti la capacità di mantenere i giuramenti (cf. anche Plat. Resp. 363d). 721 Cf. Pindaro, fr. 133 Maehler; Ol. II (cf. in particolare vv. 53-77); si ricordino anche le parole di Teonoe nell’Elena di Euripide e il suo insistere sul tema della δίκη, cf. qui sopra, cap. III.4.2. Se a Orfeo veniva esplicitamente attribuita la distinzione fra τὰς δὲ τῶν ἀσεβῶν ἐν Ἄιδου τιμωρίας καὶ τοὺς τῶν εὐσεβῶν λειμῶνας (cf. Diod. Sic. I.96.5; sotto il nome di Orfeo – forse dalle Rapsodie – sono inoltre tramandati sei esametri, fr. 340 Bernabé, che ribadiscono lo stesso principio, cf. Graf (2009), 689-690), è peraltro fortissimo nell’orfismo il legame fra giustizia e purezza rituale, per cui cf. Jiménez San Cristóbal (2005), 351-361; Bernabé (2011), 189-204; cf. avanti nel testo. Platone, dal canto suo, ci rivela una
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In realtà non è forse opportuno parlare in termini di una troppo netta distinzione fra principi etici e rituali nelle religioni misteriche del mondo greco: nell’orfismo, infatti, come abbiamo visto nei capitoli precedenti anche a proposito delle lamine orfiche (cf. qui sopra, capp. I.1.2; II.2.1-2), è senz’altro determinante la dimensione della purificazione rituale che dà accesso alla condizione di iniziato,722 così come in ambito eleusino troviamo i miti relativi all’iniziazione di Eracle (per cui cf. qui sopra), dove si ribadisce la necessità della purezza morale per il mista (in assenza di questo requisito occorre sottoporsi a apposite purificazioni). Si tratta quindi, semmai, dell’accentuazione di un aspetto piuttosto che un altro. Aristofane nelle Rane, in particolare nella parodo (vv. 451-456, per cui cf. qui sotto), afferma appunto anche per il mista eleusino il legame inscindibile di giustizia e iniziazione: tale scelta può essere interpretata, più che come una generica sovrapposizione di influssi religiosi diversi, come una specifica volontà di esaltare la dimensione civica e politica dei Misteri in quanto elemento aggregante per la πόλις;723 in questa prospettiva si comprende che il proble-
ormai compiuta sovrapposizione di piani affrontando questi temi prevalentemente secondo una concezione etica delle pene e delle ricompense nell’aldilà (cf. Gorg. 523a ss.; Phaedr. 248c ss.; Phaed. 110b ss., con la precisazione qui sopra, nota 718), ma talora introducendo anche il principio della necessità dell’iniziazione (Gorg. 493b-c; Phaed. 69c); nella Repubblica, a proposito del λόγος di “Museo e di suo figlio” (cf. qui sopra), si parla di ὅσιοι, da una parte, e ἀνόσιοι e ἄδικοι dall’altra: la dimensione della giustizia è quindi inscindibile da quella religiosa della santità, che rimanda appunto a un contesto iniziatico (dal punto di vista di Platone, del resto, la ‘vera’ iniziazione è quella filosofica, tanto che molto spesso Socrate presenta il suo ‘insegnamento’ dialettico servendosi di un lessico ‘misterico’, anche con precise allusioni ai Misteri di Eleusi, cf. Gorg. 497c: per una rassegna completa dei passi, cf. Bonazzi (2010), 31, nota 27). 722 Platone mostra un certo disprezzo, nella Repubblica, per quegli ἀγύρται καὶ μάντεις itineranti, che si servono degli scritti di Orfeo e Museo per convincere i ricchi a fare sacrifici e a sottoporsi a incantesimi, purificazioni per liberarsi dalle colpe e dalle ingiustizie e sfuggire così alle pene eterne, attestandoci l’esistenza di una importante componente ritualistica nelle pratiche religiose di coloro che facevano appello all’autorità di Orfeo e Museo e, allo stesso tempo, sanzionando questo ‘basso’ utilizzo degli scritti orfici da parte dei ciarlatani che vendono la salvezza eterna garantita da sacrifici e purificazioni, ma disgiunta da una vita vissuta secondo giustizia. Sul rapporto fra purezza rituale e giustizia nell’orfismo, cf. qui sopra, nota 721. 723 Dell’importanza della religiosità eleusina nella storia di Atene, dall’intervento provvidenziale delle due dee e di Iacco prima della battaglia di Salamina (cf. Herod. VIII.65) alla condanna di Alcibiade per la parodia dei Misteri, abbiamo avuto modo di parlare qui sopra (cf. capp. III.2.3.3; V introd.); quanto alla presenza
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ma dell’iniziazione non potesse essere disgiunto da quello della giustizia.724 Aristofane, inoltre, si doveva verosimilmente confrontare con una tradizione che accusava esplicitamente l’escatologia eleusina di favorire l’iniziazione rispetto alla giusta remunerazione che dovrebbe spettare a chi vive secondo giustizia (cf. in questo senso l’aneddoto relativo a Diogene il Cinico, riportato in D.L. VI.39, argomento fatto proprio anche da Plutarco in Aud. poet. 21f). È forse proprio alla luce di tali dibattiti in materia religiosa che dobbiamo leggere le affermazioni, prima, di Eracle e, poi, più esplicitamente, del coro degli iniziati nella parodo: se Eracle parla di un aldilà bipartito fra ingiusti e “iniziati”, senza ulteriori connotazioni, il coro esplicita e definisce il concetto di iniziazione facendone un tutt’uno con quello di giustizia (vv. 454-459): μόνοις γὰρ ἡμῖν ἥλιος καὶ φέγγος ἱερόν ἐστιν, ὅσοι μεμυήμεθ᾽ εὐσεβῆ τε διήγομεν τρόπον περὶ τοὺς ξένους καὶ τοὺς ἰδιώτας. Quest’ultimo esplicito riferimento al τρόπος εὐσεβής verso “stranieri” e “concittadini” si ricollega direttamente all’elenco delle ingiustizie punite nell’Ade fatto da Eracle, che vi annovera appunto quella commessa da chi ξένον [...] ἠδίκησε πώποτε (v. 147). Aristofane dunque ‘difende’ in un certo senso il concetto di iniziazione, in ambito eleusino, sottraendolo però a eventuali contrapposizioni con una dimensione propriamente etica.725
di uno sfondo eleusino nelle proposte politiche amnistiali di Trasibulo, cf. qui sopra, cap. IV.3. Sul fondamentale ruolo dei Misteri di Eleusi nella realtà storica, politica e sociale della πόλις, cf. Edmonds (2004), 117-120. 724 Secondo Graf la piena integrazione di elementi ‘eleusini’ e elementi ‘orfici’ nelle rappresentazioni dell’aldilà, a partire almeno dal IV sec., si articolerebbe in più passaggi: il punto di arrivo di questo processo sarebbe la trasformazione di Trittolemo in giudice dei morti insieme con Radamanti e Eaco, cf. Graf (1974), 121-126; cf. inoltre Edmonds (2004), 142, nota 94. Sulla questione del giudizio delle anime nell’aldilà, cf. avanti. 725 Del resto Aristofane stesso sembra scherzare sulla credenza, evidentemente diffusa anche a livello popolare, che l’iniziazione garantisse ipso facto la beatitudine nell’aldilà: in Pax 374-375, infatti, Trigeo, di fronte alla prospettiva di una condanna a morte, esprime la volontà di essere “iniziato ai misteri”.
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§ 1.2.3 Vivi come morti e morti come vivi? Eracle, nel descrivere il luogo di soggiorno degli iniziati nell’aldilà, parla di una “luce bellissima” ὥσπερ ἐνθάδε, “come qui”, suggerendo quindi una continuità, per l’iniziato, della vita anche dopo la morte, in un luogo che possiede le stesse bellezze della terra e soprattutto di Atene (su ὥσπερ ἐνθάδε cf. anche qui sopra). L’intera commedia, come è stato più volte messo in rilievo,726 è del resto costruita sulla base di una continua inversione fra ‘mondo dei vivi’ e ‘mondo dei morti’: è Dioniso stesso a informarsi per primo dell’aldilà come se si trattasse di una città straniera (vv. 108-115); la sua catabasi rivelerà poi un oltretomba specchio di Atene, nel male e nel bene, dove si trovano cioè personaggi come Cleone e, allo stesso tempo, i valori positivi di un mondo che non esiste più, rappresentati da Eschilo e dagli iniziati ai Misteri di Eleusi.727 Aristofane sembra dunque giocare sul tema orfico della vita come morte e morte come vita, esplicitamente ascritto nella commedia ai cattivi insegnamenti di Euripide (vv. 1082; 1476-1478), rovesciandone però l’ingannevole messaggio, per rappresentare invece la crisi politica, religiosa e morale della città: i valori positivi su cui si fonda la πόλις, fra cui la religiosità eleusina, sembrano ormai ‘morti’, ma sono i soli che in realtà ne garantirebbero la sopravvivenza (quell’ὥσπερ ἐνθάδε ricorda che in fondo la “luce bellissima” splende ancora a Atene e, con essa, una speranza di salvezza della città); ugualmente, lo stato di presente e ‘vitale’ corruzione in cui essa versa al presente si identifica in ultima istanza con la morte stessa. La parodo, che intende verosimilmente evocare la processione da Atene a Eleusi in occasione della celebrazione dei Grandi Misteri, trasferendo nell’Ade una cerimonia reale dell’Atene storica, sembra appunto suggerire il rischio che quel momento cultuale di fondamentale importanza per la πόλις appartenga solo al mondo dei morti, da quando l’occupazione di De-
726 Cf. Lada-Richards (1999); Edmonds (2004), 11; 123-124; 137; 148-149; Santamaría (2015), 118. 727 Sul tema della ‘morte’ politica e letteraria di Atene nel 405 a.C., contrapposta all’oltretomba, che «preserves the memory of the city’s glorious past untouched by decay», cf. Lada-Richards (1999), 56: Aristofane, ricorrendo al gioco dell’inversione fra mondo dei morti e mondo dei vivi, denuncia così ai suoi θεαταίπολίται le infelici condizioni in cui versa la città, ormai dunque ‘morta’ anche dal punto di vista, possiamo aggiungere qui, religioso, dato che perfino la celebrazione stessa dei Misteri è a rischio.
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celea (413 a. C.) aveva reso necessaria la sospensione della processione.728 Gli iniziati, a loro volta, nella sezione della parodo dedicata agli σκώμματα (vv. 416 ss.), per indicare gli abitanti di Atene, si servono dell’espressione ἐν τοῖς ἄνω νεκροῖσι (v. 420): questi ultimi si identificano in ultima istanza con i ‘peccatori’ ai danni della comunità (vv. 416-421),729 con coloro quindi, come specificato poco prima nella sezione anapestica, che badano solo al proprio interesse (vv. 359-360) e che, come il coro proclama due volte, sono esclusi “dai nostri cori” (vv. 354 e 370).730 L’Atene del 405 a.C., che ha ormai smarrito la sua religiosità più autentica e con essa il senso della giustizia, somiglia insomma a quei morti ‘senza speranza’ destinati al fango e all’oscurità, che Aristofane, operando forse anche qualche forzatura rispetto all’escatologia specificamente eleusina, introduce nel suo oltretomba proprio per identificarli, come abbiamo visto qui sopra, con i suoi θεαταίπολίται stessi; i veri “spergiuri” e “parricidi”, che Dioniso asserisce di vede728 Cf. Graf (1974), 48-51, dove, riguardo al dibattito (per cui cf. avanti, § 2.2) relativo alla possibilità o meno di identificare la parodo delle Rane con la processione da Atene a Eleusi in occasione della celebrazione dei Grandi Misteri, si argomenta (come Wilamowitz e Segal) che tale identificazione, lungi dall’apparire inverosimile a causa della sospensione della processione stessa, risulta giustificata dalla volontà di Aristofane di mostrare qualcosa la cui sopravvivenza la guerra aveva messo in pericolo. Ricordiamo qui che la processione, sospesa dal 413 a.C., era stata ripristinata da Alcibiade nel 408 o 407, quasi come atto di ammenda per la parodia dei Misteri del 415 a.C (cf. qui sopra, cap. IV.3). 729 Siamo nella sezione della parodo in cui il coro prende di mira singoli personaggi di Atene frequentemente oggetto di derisione in commedia (cf. Mastromarco, Totaro (2006), 603-604, note 67-69), evocando forse quei γεφυρισμοί che avevano luogo durante la processione eleusina al momento dell’attraversamento del Cefiso (per cui cf. Mylonas (1961), 252-258); contro tale relazione con il rituale sul Cefiso cf. Edmonds (2004), 126, nota 36; sulla questione cf. Riu (1999), 136, dove si sottolinea il legame di tali σκώμματα con feste dionisiache quali le Lenee e le Antesterie – si tenga comunque sia presente che la parodo, dominata dalle invocazioni a Iacco e a Demetra, si presenta decisamente come ‘eleusina’. Edmonds (cf. pp. 143-144) osserva, dal canto suo, l’insistenza sul tema funebre nella rappresentazione di questi personaggi: Archedemo è demagogo “fra i morti di lassù” (v. 420), mentre il figlio di Clistene si aggira fra le tombe (v. 423). Plutone dichiara infatti alla fine della commedia (vv. 1504-1513) di voler portare “sottoterra” tutti i politici dannosi per la città. 730 Cf. Edmonds (2004), 138-147. Sono gli stessi soggetti di cui si parla anche nella parabasi, quei politici avidi e perfino ‘barbari’, come Cleofonte (vv. 679 ss.); sulla relazione fra i temi della parabasi e quelli della parodo, cf. Edmonds (2004), 144-146, dove si sottolinea anche l’aspetto destabilizzante della presunta origine barbara di politici come Cleofonte; si veda a questo proposito Bowie (1993), 240, sulla relazione fra l’esclusione dei politici barbari dalla comunità dei veri cittadini e quella dei non parlanti greco dall’iniziazione ai Misteri di Eleusi.
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re non solo nell’aldilà, ma soprattutto fra il pubblico del suo teatro (vv. 274-276), sono in realtà coloro che agiscono ai danni della comunità (così come coloro che lo accettano), i “morti di quassù” (come dice il coro al v. 420). Il paradigma della sorte migliore riservata agli iniziati nell’aldilà serve infatti a Aristofane a distinguere la comunità ideale dei veri ateniesi che agiscono per il bene e l’unità della πόλις, ormai solo un ricordo vivo nell’oltretomba, dai politici avidi e corrotti, degni della pena del fango e dell’oscurità, che conducono la città alla rovina e alla morte.731 In contrasto con quanto avviene nelle lamine orfiche (e, potremmo dire, con quanto sostenuto da Euripide), Aristofane, con la sua comica inversione di piani, rivendica piuttosto la necessità di un modello religioso che permetta di agire attivamente e positivamente nella πόλις (e che non consideri quindi la vita come la morte), oltre a garantire speranze migliori per l’aldilà.732 Se infatti Euripide, come abbiamo rilevato nei capitoli precedenti, anche in merito alle questioni escatologiche, mostra la tendenza a allontanarsi dall’‘ortodossia’ con la conseguente rinuncia alla realtà733 e il rifugio in un misticismo intriso di suggestioni orfiche, che presenta la morte come
731 Sull’inversione comica del piano della morte e di quello della vita come funzionale a ridefinire i confini sociali e politici della πόλις, cf. Edmonds (2004), 142-143, dove si sottolinea che nella parodo gli «impuri» non sono quelli che hanno commesso omicidi o altri gravi crimini, «come nei Misteri di Eleusi», ma coloro che «rompono l’unità di Atene» perseguendo solo il profitto personale, anche se poco oltre Edmonds riconosce piuttosto un’assimilazione delle due categorie. Si potrebbe piuttosto dire, d’altra parte, che Aristofane, facendo appello alla fondamentale valenza civica dei Misteri di Eleusi e offrendo loro dunque anche un ruolo politico, interpreti, nella parodo, l’essere ‘spergiuro’ e ‘parricida’ nella prospettiva della πόλις: chi reca danno alla comunità dei cittadini è così l’ingiusto (il ‘parricida’ appunto) per eccellenza e, necessariamente, un non iniziato. 732 Sulla differenza della confusione aristofanea fra mondo dei morti e mondo dei vivi rispetto alle lamine orfiche, cf. Edmonds (2004), 112, che preferisce sottolineare come, mentre le lamine «make use of the difference between the worlds of the living and the dead to mark the difference between the valutation of the deceased in life within society and her true worth in the ideal, divine realm», Aristofane «comically blurs the dichotomy between the worlds and then recreates it in his own terms». 733 Si pensi alla ‘filosofia’ espressa a più riprese dal coro delle Baccanti e definita da Vincenzo Di Benedetto una del «vivere giorno per giorno», che indica nel vino (Bacch. 421-424) il sollievo e l'oblio delle sofferenze della vita; cf. Di Benedetto (1971), 273-274 e 285. La celebrazione della ‘fuga al monte’ nel suo complesso, nelle Baccanti, implica del resto la fuga dalle difficili e precarie condizioni della vita nella πόλις. Abbiamo visto qui sopra (cf. cap. V.2.3) come già nelle Tesmoforiazuse Aristofane sembri quasi voler contrapporre la dimensione civica delle sue
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la vera vita e la vita come la morte (accusa che gli viene esplicitamente rivolta, come si è detto, ai vv. 1082; 1476-1478), Aristofane, nella sua prospettiva fortemente ancorata alla realtà politica, ribadisce la necessità di una critica alle condizioni della città, per salvarla dal suo presente stato di crisi: la “salvezza” non consiste nell’attesa di una morte che si configura come la vera vita, ma nel perseguire la giustizia e il bene comune, garantiti dalla religiosità tradizionale, unica speranza di salvezza (la vita, appunto) nel presente storico di Atene, oltre che di un benessere ultraterreno (che in un certo senso si configura come una prosecuzione degli aspetti migliori della vita stessa, quale la celebrazione dei riti). Del resto la rappresentazione dell’Ade come popolato di osterie e banchetti può essere considerata come una messa in ridicolo di quelle credenze che scambiavano appunto la vita con la morte e la morte con la vita: è infatti proprio il Dioniso ‘euripideo’ a operare per primo tali inversioni informandosi comicamente su osterie, taverne, ecc….734
Tesmoforie a quella montana e selvaggia dei culti metroaco-dionisiaci celebrati da Euripide. 734 Le Rane non sono l’unica commedia in cui Aristofane affronta il tema del viaggio nell’aldilà in connessione con problematiche poetiche: ricordiamo il Geritade (Γηρυτάδης), per cui cf. PCG, introd. al Γηρυτάδης, p. 101; Carrière (2000), 209, in particolare il fr. 156 PCG grazie a cui conosciamo i nomi dei rappresentanti di ciascuna τέχνη, Sannirione per la commedia, Meleto per la tragedia e Cinesia per i ditirambi: costoro vengono definiti ἁϊδοφοῖται, ossia “frequentatori dell’Ade” (vv. 4-6). Esichio glossa la parola (α 1793) attribuendole il significato di “magro, esile, vicino a morire”, una rappresentazione frequente dell’intellettuale (cf. Imperio (1998), 83 ss.). D’altra parte non possiamo escludere un gioco sull’inversione fra mondo dei morti e mondi dei vivi, come nelle Rane, in base al quale Aristofane rappresentasse la poesia dei vivi come quella di ‘morti’, quindi ‘frequentatori dell’Ade’, laddove la vera e grande poesia di Atene è ormai un fatto del passato, che ‘vive’ soltanto nel regno dei morti. È tra l’altro significativo che i versi in questione si aprano con una citazione euripidea (il primo verso dell’Ecuba): laddove si parla di decadente poesia ‘moderna’ Euripide, anche se superiore agli squallidi personaggi che compongono la delegazione, in qualche modo è chiamato in causa. Anche nei Friggitori (Ταγηνισταί) abbiamo ancora a che fare con una catabasi, sviluppata questa volta (cf. frr. 504 e 520 PCG) secondo il modello, assai diffuso in commedia, della rappresentazione dell’Ade come il paese di cuccagna (cf. per esempio i Minatori di Ferecrate; per un elenco dettagliato, cf. Carrière (2000), 230-232); su questa commedia come parodia delle dottrine che prospettavano la felicità dopo la morte, cf. Pellegrino (2000), 141-154; 143, nota 4. Comunque sia, come si sottolinea opportunamente in Graf (1974), 82-83, la beatitudine dei misti delle Rane è ben diversa da quella dei Friggitori o delle altre commedie che trattavano l’aldilà come il paese di cuccagna: la menzione del banchetto costituisce nelle Rane un momento distinto dall’intervento
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L’attribuzione ai Misteri eleusini di un ruolo politico di tale rilievo è del resto perfettamente in accordo con quanto è emerso dagli studi condotti sull’azione politica di Trasibulo, incentrata sul principio dell’uguaglianza fra i cittadini e del μὴ μνησικακεῖν, in cui sono stati rintracciati significativi echi eleusini (cf. qui sopra, cap. IV.3): sembra quindi da ricondurre all’‘ideologia’ eleusina l’invito aristofaneo a tenere una condotta politica volta alla ricerca dell’unità e del bene comune della πόλις.735 Si può a questo punto concludere che Aristofane, nelle Rane, scelga di connotare in senso decisamente eleusino il messaggio religioso e politico della sua commedia proprio per il significato che quel culto aveva nella storia e nella vita della πόλις. Si è spesso parlato, da parte di diversi studiosi, di una fusione, pur all’interno di una cornice prevalentemente eleusina, sia nelle Rane nel loro complesso sia nella parodo in particolare, di elementi tratti da altri culti, orfici e dionisiaci nello specifico.736 Eppure l’ipotesi di una generica sovrapposizione di diversi culti misterici rischia di sottrarre alla commedia la sua specifica identità anche in contrapposizione all’universo religioso e culturale euripideo, che ancora una volta, dopo le Tesmoforiazudel coro degli iniziati, la cui beatitudine è da intendersi in una prospettiva ‘religiosa’. 735 Sull’esistenza di uno sfondo religioso eleusino comune a Aristofane e a Trasibulo, cf. Ferrari (2000), 47-52, dove si osserva che Aristofane, prima degli eventi che condussero alla fine della guerra civile, dove trovò attuazione la politica amnistiale di Trasibulo, esprime, nella parabasi, concetti propri di quella politica (vv. 686-705; un’apertura universalistica all’uguaglianza, che abbraccia anche gli stranieri, emerge fin dalla parodo, vv. 454-459). D’altra parte, già il dibattito per il ritorno in patria di Alcibiade, precedente alle Rane stesse e ispirato da Trasibulo, dovette essere dominato dai concetti ‘eleusini’ del perdono e dell’uguaglianza (cf. qui sopra, cap. IV.3): Aristofane risponderebbe nelle Rane anche a quel dibattito, rivendicando la necessità di dimostrare per gli oligarchici la stessa indulgenza dimostrata verso un democratico. Sui reali (e perniciosi, considerando l’affermazione del regime dei Trenta) effetti politici dell’invito di Aristofane a perdonare gli oligarchici, cf. Edmonds (2004), 157-158. 736 Cf. Bowie (1993), 229-234; Lada-Richards (1999), 45-122 (dove ogni passaggio della catabasi di Dioniso è interpretato alla luce di un modello iniziatico valido a prescindere per ogni rituale di iniziazione e ricondotto a diversi contesti religiosi, dai riti efebici di iniziazione ai culti orfici e dionisiaci); Biles (2011), 222-223. Troviamo un analogo approccio in Bernabé (2009c), dove si passano in rassegna gli elementi riconducibili, nelle testimonianze della commedia antica, alle cosmogonie, alle pratiche rituali e all’escatologia orfica (cf. in particolare pp. 1225-1232); per quest’ultimo aspetto le Rane sono ritenute un testimone fondamentale, dove religiosità eleusina e orfico-pitagorica sarebbero trattate quasi come la stessa cosa allo scopo di provocare le risa attraverso la distorsione comica.
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se, Aristofane decide di sottoporre a giudizio. La scelta stessa di introdurre in questo contesto eleusino temi e immagini (soprattutto a livello escatologico) che ricorrono per esempio nella letteratura orfica o influenzata dall’orfismo non sembra comportare in realtà, come abbiamo visto, significative forzature rispetto al mondo eleusino, anzi appare pienamente coerente con il quadro generale. Aristofane, piuttosto che aderire a dottrine orfiche, quali la dottrina della metempsicosi o l’idea della prigionia dell’anima nel corpo (che, come abbiamo visto, affiorano invece in Euripide), sembra assumere alcuni elementi presenti in quella tradizione ma perfettamente inseribili all’interno del culto che intende celebrare e funzionali specificamente alla finalità con cui intende celebrarlo, ossia nell’ottica civica della salvezza della πόλις. Riguardo alla catabasi di Dioniso e poi dell’agone, avremo modo di considerare come Aristofane sviluppi ulteriormente la rappresentazione del suo modello religioso di riferimento, anche in contrapposizione a forme di religiosità diverse. Non dobbiamo infatti essere tratti in inganno dal fatto che oggi le diverse vie alla salvezza nell’aldilà offerte dai culti misterici diffusi nel mondo greco in età classica appaiano sovrapponibili e nelle immagini e nelle formule: come ci insegna il confronto con quanto avviene per esempio nel Cristianesimo, le differenze dottrinali fra le singole Chiese, che possono apparire talora minimali, hanno comportato di converso tremende scissioni e sanguinosi conflitti. Sebbene non sia prudente applicare all’Atene del V sec. il modello delle guerre di religione, appare comunque sia evidente che Aristofane celebri nelle Rane la via ateniese alla ‘salvezza’, sia per il teatro sia per la πόλις, quella offerta cioè dai Misteri di Eleusi, che comportava una prospettiva ultraterrena, ma anche una concreta speranza per la condizione storica di Atene nel 405 a.C., in virtù della fondamentale dimensione civica dei Misteri stessi. Rileviamo infine, in merito al prologo, come il ‘tema eleusino’ della commedia emerga in relazione alla figura di Eracle, particolarmente adatto a tale scopo in virtù non solo di quello che l’eroe rappresenta nel teatro aristofaneo pervenutoci, ma anche della sua tradizione mitica stessa. Il culto di Demetra a Eleusi costituisce poi un ulteriore legame fra Eracle e Eschilo: la lontananza dell’‘eleusino’ Eracle (dal punto di vista non solo poetico, quindi, ma anche religioso) dal mondo euripideo appare infatti in altrettanto forte accordo con la vicinanza a Eschilo, nativo, a quanto pare, di
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Eleusi (cf. TrGF III T 8d),737 il quale, al principio dell’agone, invoca proprio Demetra pregandola di “essere degno dei suoi Misteri” (cf. Ran. 886-887). È stato a questo proposito osservato che ci sia tuttavia un’ombra sulla coerenza della connotazione eleusina di Eschilo (con il rischio di trovarsi di fronte a un’effettiva ‘inspiegabilità’, o quanto meno ambiguità, della sua vittoria nonché del parteggiare per lui del coro degli iniziati), ossia l’accusa al tragediografo, tramandata da alcune fonti,738 di avere rivelato quanto, dei Misteri di Eleusi, era coperto dal segreto; 739 Eschilo, secondo Aristotele, si sarebbe difeso dicendo di non sapere che si trattasse di ἀπόρρητα. D’altra parte, se la notizia è da considerarsi attendibile, Aristofane sembrerebbe piuttosto voler scagionare Eschilo da quell’accusa, considerata l’operazione stessa complessiva da lui condotta nelle Rane: Aristofane, sebbene più cauto di quanto – forse – non fosse stato Eschilo,740 incentrando un’intera commedia su tematiche connesse con i Misteri di Eleusi e quindi ponendosi nel costante rischio di rivelare più del dovuto, dimostra così la possibilità stessa di fare poesia sugli ἀπόρρητα senza però tradirli. Aristofane, esponendo seppur cautamente se stesso, in un certo senso scagiona così anche Eschilo. § 2 La catabasi: l’identità ateniese di Dioniso fra Antesterie, Misteri di Eleusi e Lenee § 2.1 L’incontro con le rane e le Antesterie La catabasi di Dioniso si articola in più momenti che tratteremo qui in due sezioni distinte, ossia l’incontro con i due cori della commedia, quello delle rane e quello degli iniziati ai Misteri di Eleusi, e l’incontro con altri abi737 Cf. Lada-Richards (1999), 253, riguardo ai legami di Eschilo con Eleusi, per la menzione della testimonianza di Ateneo, di cui abbiamo parlato qui sopra (cf. cap. V.1.2.1), relativa all’abbigliamento di daduchi e ierofanti, che sarebbe stato ispirato dall’abbigliamento dei personaggi eschilei. 738 Fra cui spicca Aristotele, Eth. Nich. 1111a9, per cui cf. TrGF III T 93. 739 Cf. Bowie (1993), 246; Mylonas (1961), 224-229. Sulla questione cf. anche LadaRichards (1999), 253-254, che risulta tuttavia un po’ elusiva sulla motivazione della rappresentazione ‘eleusina’ di Eschilo (pur ribadita con forza) nonostante le accuse di empietà. 740 Cf. Mylonas (1961), 224-229, dove si osserva che Aristofane dedica la sua attenzione soprattutto alla πομπή in onore di Iacco, quindi alla parte pubblica della cerimonia misterica, laddove Eschilo avrebbe rivelato dettagli degli ἀπόρρητα veri e propri.
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tanti dell’Ade (il portiere e il servo del palazzo di Plutone, le ostesse), che sottopongono Dioniso a ‘prove’ in cui il dio del teatro si confronta con la sua capacità o meno di recitare la parte che lui stesso si è scelto, quella di Eracle. Tali prove, che calano Dioniso in vere e proprie scene metateatrali, con una funzione analoga a quella delle parodie euripidee nelle Tesmoforiazuse, costringono Dioniso, prima ancora della grande prova dell’agone (dove Dioniso, come giudice, è investito di una pesante responsabilità), a mettere a frutto quanto appreso nei suoi precedenti incontri con i due cori. Il Dioniso ‘euripideo’ del prologo, come abbiamo detto, è lontano da Atene e dal contesto cultuale ateniese proprio a causa della sua stessa appartenenza all’universo culturale di Euripide, il cui Dioniso, dall’Ippolito alle Baccanti, è un dio straniero (frigio, lidio, cretese), destinatario di un culto che si svolge lontano dagli spazi della πόλις, nonché legato al misticismo orfico; inoltre la compagna con cui Dioniso quasi condivide lo stesso complesso rituale è anch’essa connotata come straniera (appartenente sia al mondo orientale sia a quello cretese), quella Madre degli Dei interamente sovrapposta, anzi sostituita, alla Demetra eleusina. Perché il teatro, e con esso, di conseguenza, la πόλις, possa essere rigenerato, occorre che il suo dio ritrovi la propria identità dentro la πόλις stessa: se le Tesmoforiazuse mostravano la capacità del teatro di Euripide di ‘traviare’ i costumi morali e religiosi delle donne di Atene, partendo appunto dal problema del culto di Demetra nella sua declinazione ‘femminile’, ossia le Tesmoforie, le Rane sottopongono il teatro, nella figura del suo dio, alla ricerca della sua vera identità cultuale ‘ateniese’ (con i valori culturali e politici che questa comporta), ancora una volta in relazione alla figura di Demetra. Quest’ultima infatti, spesso trasformata e reinterpretata nelle tragedie euripidee, riprende in Aristofane la sua centralità proprio in virtù del fondamentale ruolo civico del suo culto. Aristofane ripropone, nella sua ‘corretta’ forma ateniese, il binomio Dioniso - dea madre presentato da Euripide nella sua forma orientale o cretese. Non appena giunto alla λίμνη μεγάλη dell’oltretomba, di cui gli aveva parlato Eracle (vv. 137-138), Dioniso deve attraversarla remando lui stesso sulla barca di Caronte, un fatto che di per sé, come è stato opportunamente messo in rilievo, segna un reinserimento di Dioniso nella comunità della πόλις: se nel prologo infatti il dio parlava di se stesso come impegnato a leggere l’Andromeda “sulla nave” (con riferimento alla battaglia delle Arginuse, cf. vv. 52-53), un passaggio necessario per tornare a essere un vero ‘ateniese’ consiste per Dioniso appunto nel ricoprire un ruolo coerente con quelli richiesti da una potenza marittima e navale come Atene, ossia il rematore. Gli uomini ‘educati’ dalla poesia di Eschilo, come rivendica orgo-
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gliosamente il tragediografo nell’agone, erano infatti obbedienti e solerti rematori (cf. vv. 1071-1073).741 Per quanto riguarda poi il lato specificamente religioso di tale reinserimento, non è poi un caso che Aristofane identifichi la λίμνη dell’aldilà con il santuario ateniese di Dioniso ἐν λίμναις, dove aveva luogo la festa attica più antica in onore di Dioniso, le Antesterie (cf. Thuc. II.15.4):742 la palude è infatti popolata da quelle stesse rane che danno il titolo alla commedia e che si presentano, fin dal principio del loro canto (vv. 209-267), introdotto dal celebre βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ, strettamente connesse al contesto cultuale delle Antesterie (vv. 211-219a): λιμναῖα κρηνῶν τέκνα, ξύναυλον ὕμνων βοὰν φθεγξώμεθ᾽, εὔγηρυν ἐμὰν ἀοιδάν, κοὰξ κοάξ, ἣν ἀμφὶ Νυσήιον Διὸς Διόνυσον ἐν Λίμναισιν ἰαχήσαμεν, ἡνίχ᾽ ὁ κραιπαλόκωμος τοῖς ἱεροῖσι Χύτροις χωρεῖ κατ᾽ ἐμὸν τέμενος λαῶν ὄχλος. L’identificazione fra la λίμνη dell’oltretomba e il santuario ateniese, esplicitata da quel κατ᾽ ἐμὸν τέμενος, è del resto giustificata da quell’aspetto delle Antesterie, che le rendeva simili a una festa dei morti, sulla base della credenza che nei giorni della festa (11-13 Antesterione) i morti, attirati dall’o-
741 Cf. Lada-Richards (1999), 69-70 e, soprattutto, Edmonds (2004), 126-134, dove questo aspetto è preso in considerazione in modo particolare. Del resto, a questa rappresentazione di Dioniso rematore corrispondono le raffigurazioni vascolari dell’arrivo di Dioniso a Atene su carri navali, imbarcazioni munite di ruote, per cui cf. Kerényi (2011), 159-171, dove però si sospende il giudizio sulla realtà cultuale di riferimento; sulla relazione fra Dioniso e l’acqua cf. Daraki (1985), 34 ss. e, in una prospettiva comparativa i.e., Janda (2000), 258-260. Ricordiamo infine le testimonianze relative a una commedia Διόνυσος ναυαγός, dove Aristofane dimostra di sfruttare ancora l’immagine di un Dioniso in mare (cf. frr. 277 ss. PCG). 742 Per una discussione sulle fonti e le testimonianze relative all’ubicazione del santuario, verosimilmente nella valle dell’Ilisso, e alle cerimonie che avevano luogo nei tre giorni della festa (Πιθοιγία, Χόες, Χύτροι), cf. Di Cesare in Greco e all. (2010-), II, 423 ss..
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dore del vino emanato dai πίθοι aperti, ritornassero sulla terra, per esserne poi riscacciati al grido θύραζε, Κῆρες, οὐκέτ᾽ Ἀνθεστήρια.743 La relazione fra mondo dei morti e mondo dei vivi che si stabiliva nei giorni delle Antesterie giustifica dunque appieno il ruolo di passaggio che ha la λίμνη nella catabasi di Dioniso, che viene così collocata in un preciso contesto cultuale ateniese.744 Nel contesto di una commedia che drammatizza il rapporto fra Dioniso e la πόλις, la giornata dei Χύτροι, in cui il vino veniva appunto travasato nelle giare, ricordata dalle rane nel loro canto, e le Antesterie nel loro complesso rappresentano inoltre, come è stato osservato, un passaggio fondamentale nella «wine domestication», in quanto la bevanda ‘selvaggia’ viene mescolata con acqua e quindi ‘civilizzata’, come se Dioniso stesso perdesse la sua connotazione selvaggia per essere integrato nella πόλις.745 È dunque inevitabile che l’identità civica e ateniese nello specifico di Dioniso sia definita in primo luogo in relazione alle Antesterie. Le rane del santuario ἐν λίμναις sono infatti le prime a rivelare la vera identità di Dioniso come Νυσήιος / Διὸς Διόνυσος (seguito subito dopo da ἐν / Λίμναισιν), il quale invece, all’inizio della commedia, come sappiamo, si era presentato come “figlio di Boccale” (cf. qui sopra, § 1.1). Si osservi che “Nisa” (evocata qui dall’epiteto Νυσήιος) compare anche in un frammento di Sofocle, TrGF IV
743 Cf. Kerényi (2011), 278 ss.; Burkert (2010), 437-444. 744 Sulla relazione fra le commedie aristofanee e le Antesterie, cf. Bierl (2013), 377-380, soprattutto in merito alla possibilità di vedere nelle Antesterie il temporaneo ritorno al caos primordiale e quindi la transizione all’ordine, in una sorta di ri-attualizzazione delle origini della civiltà: questo modello agirebbe negli Acarnesi, nelle Vespe, nella Pace, negli Uccelli e nel Pluto. Per quanto riguarda le Rane, Bierl parla di un Dioniso che discende nell’aldilà per riportare sulla terra l’antico e caotico potere di Eschilo. Poiché tuttavia quest’ultimo dovrebbe portare piuttosto l’ordine che il disordine nella travagliata Atene, dobbiamo osservare come il ‘ritorno alle origini’ si configuri nelle Rane come ripristino di una ‘civiltà arcaica e incorrotta’ piuttosto che come caos primordiale e indistinto (cf. Jay-Robert (2002), 21, sulla nascita di un ‘nuovo ordine’ alla fine delle Rane). Del resto la possibilità di individuare in ambito germanico e, soprattutto, vedico elementi riportabili alle radici i.e. di questa festa dionisiaca (cf. Janda (2010), 182-208), ci permette di individuare un legame fra il Dioniso delle Antesterie e il culto di Indra (cf. 188), il quale è infatti il fondatore del nuovo ordine, che segna la fine del potere della vecchia generazione divina. 745 Cf. Lada-Richards (1999), 125-128. Ricordiamo anche le analoghe osservazioni in Seaford (1988), 124-128 in merito alla cerimonia dello ἱερὸς γάμος, sempre durante le Antesterie, fra la moglie dell’arconte βασιλεύς e Dioniso.
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F959 come μαῖα di Iacco, identificato evidentemente con Dioniso,746 laddove le rane, per descrivere il loro canto in onore di Dioniso, si servono del verbo ἰαχέω,747 che, in questo caso, considerato il successivo canto del coro degli iniziati in onore di Iacco, ha un valore decisamente pregnante (suggerito anche dal legame con il frammento sofocleo) nello stabilire una diretta relazione fra il Dioniso delle Antesterie e il Dioniso-Iacco dei Misteri di Eleusi: la forza di tale relazione sta nella definizione dell’identità ateniese di Dioniso. Tra l’altro le Antesterie e i Misteri, nella fase preliminare di questi ultimi che aveva luogo a Agrai, sono strettamente accomunati dal calendario, in quanto entrambe le feste (Antesterie e Piccoli Misteri) si svolgevano appunto nel mese di Antesterione. Che per Aristofane l’associazione del culto di Demetra e di Dioniso sia di fondamentale importanza per la religiosità della πόλις, e quindi del messaggio religioso della poesia drammatica stessa, lo dimostra un passo delle Nuvole dove la descrizione che fa il coro748 della “terra di Cecrope” come terra di templi, statue, processioni e banchetti si apre e si chiude, rispettivamente, con la menzione dei Misteri di Eleusi ([…] οὗ σέβας ἀρρήτων ἱερῶν, ἵνα μυστοδόκος δόμος / ἐν τελεταῖς ἁγίαις ἀναδείκνυται, vv. 302-304) e delle Grandi Dionisie (ἦρί τ᾽ ἐπερχομένῳ Βρομία χάρις / εὐκελάδων τε χορῶν ἐρεθίσματα / καὶ μοῦσα βαρύβρομος αὐλῶν, vv. 311-12), a dimostrazione della necessità, sentita da Aristofane, di una stretta associazione fra Demetra e Dioniso, anche per la definizione dell’identità di quest’ultimo come dio attico del teatro. Si noti come il flauto compaia qui in un contesto cultuale dionisiaco, proprio come le rane definiscono lα loro ὕμνων βοάν appunto ξύναυλον, “accompagnata dal flauto”.749 Dioniso tuttavia non comprende il canto delle rane, né d’altra parte loro possono riconoscerlo, perché questi, sia per il suo travestimento da Eracle sia per la sua ‘infatuazione’ euripidea, non è ancora tornato a essere il ‘loro’
746 Con Νυσήιος / Διὸς Διόνυσος Aristofane intende forse precisare l’etimologia del nome del dio; sulla possibilità che Nysa rappresenti un’etimologia plausibile di Διόνυσος in ambito i.e., cf. Janda (2010), 167-173. 747 Come si osserva in Edmonds (2004), 133, nota 58. 748 Sulla cui relazione con Demetra e Persefone, cf. Byl (2000), 150-153. 749 Anche in Pax 530-532, dove si parla di ciò di cui odora la Pace: Διονυσίων, / αὐλῶν, τραγῳδῶν, Σοφοκλέους μελῶν, κιχλῶν, / ἐπυλλίων Εὐριπίδου. Qui si intende celebrare la possibilità stessa, garantita dalla Pace, di avere degli agoni drammatici, al di là della critica al singolo tragediografo: il fatto che si possano ascoltare i “versetti di Euripide” è positivo di per sé.
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dio venerato alle Antesterie.750 Ha inizio così un vero e proprio duello canoro fra Dioniso e le rane, a colpi di βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ, con cui Aristofane rappresenta le asperità del percorso attraverso il quale deve necessariamente passare Dioniso per recuperare la sua identità ateniese (vv. 221-228). Le rane costituiscono del resto un momento cruciale nello svolgimento della commedia: innanzitutto, oltre a collocarsi al principio della catabasi, segnano il primo momento del reinserimento, seppur conflittuale, di Dioniso nel contesto religioso di Atene; in secondo luogo forniscono un’indicazione fondamentale non solo dal punto di vista religioso, ma anche musicale, offrendo cioè al Dioniso euripideo una necessaria ‘lezione di musica’. Nella seconda sezione del loro canto, infatti, dopo il primo scontro con Dioniso, affaticato dal remare e infastidito dai βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ, le rane descrivono se stesse in rapporto con la musica (vv. 229-233/4): ἐμὲ γὰρ ἔστερξαν εὔλυροί τε Μοῦσαι καὶ κεροβάτας Πὰν ὁ καλαμόφθογγα παίζων˙ προσεπιτέρπεται δ᾽ ὁ φορμικτὰς Ἀπόλλων, ἕνεκα δόνακος, ὃν ὑπολύριον ἔνυδρον ἐν λίμναις τρέφω. Le rane si relazionano qui a un altro gruppo di divinità, le Muse, Pan e Apollo, ciascuna associata a uno specifico strumento musicale, rispettivamente la λύρα, il κάλαμος e la φόρμιγξ. Se lo strumento con cui le rane ‘dionisiache’ del tempio ἐν λίμναις (menzionato ancora al v. 233/4) accompagnano direttamente il loro canto è dunque il flauto, quest’ultimo si ‘accorda’, in un certo senso, con la musica della lira, della zampogna e della cetra di ‘ambito’ apollineo.751 Abbiamo osservato più volte, nel corso di questa ricerca, come il complesso e sfuggente carattere della religiosità dionisiaca possa definirsi anche sulla base di associazioni con altre divinità: se Euripide insiste sul binomio Dioniso-Madre degli dei, accentuando il carattere ‘straniero’ di entrambe le divinità, Aristofane, come abbiamo visto, tende a rafforzare i legami ‘ateniesi’ di Dioniso, quali quelli con Demetra. La relazione con Apollo è altrettanto importante, come forse avveniva nella Licurgia di Eschilo
750 Cf. Del Corno (2006), 169, dove, in un senso un po’ diverso, si parla di un dio non riconosciuto perché «infatuato delle nuove mode artistiche» e quindi non identificabile con il «vero dio». 751 Ricordiamo qui la possibilità di individuare un gruppo divino costituito dalle figure di Pan, Dioniso e Apollo nel secondo stasimo dell’Aiace di Sofocle (vv. 694-703) – si tratterebbe dunque di una seconda reminiscenza sofoclea nel canto delle rane –, di cui abbiamo parlato in cap. II.1.2.3, nota 217 (sulla figura di Pan cf. cap. II.1.2.3).
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(cf. qui sopra, cap. IV.2.1.2), nella definizione della figura di Dioniso nel senso di un controllo degli aspetti più selvaggi della personalità e del culto dionisiaco (si osservi come nella parabasi delle Nuvole il coro invochi Dioniso nell’ambito del suo culto delfico, dopo la menzione di Apollo, Artemide e Atena, cf. vv. 595-605). Analogo discorso può essere fatto per la musica ‘dionisiaca’ rispetto a una sfera musicale più propriamente ‘apollinea’, come abbiamo visto qui sopra (cf. cap. V.1-2) a proposito sia del canto di Agatone sia della successiva parodo, nelle Tesmoforiazuse, dove Aristofane tende a privilegiare l’immagine della κίθαρις (v. 124) e della χρυσέα φόρμιγξ (v. 327), riconducibili alla sfera di Apollo χρυσολύρας (v. 315). Il flauto appare infatti, nelle commedie e nei frammenti aristofanei pervenutici, uno strumento ambiguo: talora compare nel contesto gioioso del banchetto e del simposio,752 talora, invece, evoca rumori sgradevoli e sconfinanti nel baccano,753 oppure culti stranieri, come quello del frigio Sabazio, chiamato lui stesso αὐλητήρ (cf. fr. 578 PCG dalle Stagioni).754 La lira e la cetra, invece, seppure passibili di corruzione anch’esse nelle mani di giovani influenzati dalla ‘Nuova Musica’ (come sembra emergere dal fr. 232 PCG dai Banchettanti, cf. cap. V.1.2.2), tendono piuttosto a identificarsi con l’istruzione elementare, ossia con le basi stesse del sapere,755 oltre che, come abbiamo visto qui sopra, con la sfera apollinea. Nelle Rane, dunque, il valore musicale positivo del flauto appare in un certo senso garantito dall’essere calato in un determinato contesto cultuale, ossia le Antesterie, poste in relazione sia con il culto di Apollo sia, proprio attraverso il flauto, con i Misteri di Eleusi stessi (sono infatti sempre i flauti a accompagnare le danze degli iniziati nell’aldilà, secondo la descrizione di Eracle, cf. v. 154). Del resto, ai tre strumenti dei vv. 229 ss. (il κάλαμος di Pan, la φόρμιγξ di Apollo e la λύρα delle Muse, plurale) deve appunto essere aggiunto l’αὐλός che accompagna il coro delle rane (plurale anch’esso) per comporre un in-
752 Ricordiamo qui sia i passi in cui è menzionato direttamente il flauto sia quelli in cui si parla di flautiste: Ach. 752; Eccl. 891; Vesp. 1219; 1368-9; 1477; Ran. 513. 753 Cf. Ach. 551; 554 (flauti e flautisti rumorosi); 860-871 (sgradevoli flautisti di Tebe; sulla rappresentazione negativa del suono dei flauti in questo passo, cf. Moore 2017); Pax 952 (altra menzione di un flautista tebano). 754 Abbiamo parlato della generale avversione della commedia, e di quella aristofanea in particolare, per le divinità straniere i cui culti imperversavano nell’Atene del tardo V sec. nel cap. II (cf. soprattutto nota 183, per una breve discussione sui frammenti più significativi, fra cui quelli delle Stagioni). 755 La famiglia lessicale di κίθαρις compare infatti in Nub. 964; 1357 (qui con particolare riferimento all’ἀρχαία παίδευσις, cf. v. 1355); Vesp. 959; 989; per λύρα cf. Eq. 990; cf. al riguardo cap. V.1.2.2.
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sieme di due coppie (due fiati e due strumenti a corda), secondo rapporti strutturati. Attraverso l’immagine della cetra di Apollo e della zampogna di Pan Aristofane sembra inoltre, allo stesso tempo, offrire una rappresentazione della musica nella sua forma più arcaica e, per mezzo delle rane, sembra anzi attingere l’origine stessa della musica: poiché sono le rane a “nutrire” (τρέφω) la “canna” (δόναξ) da cui si origina una parte componente della lira (il ponte), ma, per analogia, tutti gli strumenti musicali,756 esse rappresentano una musica ‘primordiale’ e incorrotta, gradita alle Muse, Apollo e Pan.757 D’altra parte, considerando che le rane in questione hanno sede nelle λίμναι ateniesi sacre a Dioniso, Atene stessa e le sue canne lacustri diventano la culla di una musica comune a Dioniso e a Apollo allo stesso tempo. Con tale immagine di una musica primordiale ‘dionisiaca’, allo stesso tempo autoctona rispetto all’Attica (si ricordi l’importanza dell’autoctonia a Atene) e associata alla musica “di cui ha gioia Apollo citaredo”, Aristofane
756 È Aristofane stesso a suggerirci tale analogia designando con καλαμόφθογγα (v. 230) le musiche di Pan: poiché il κάλαμος, che designa per sineddoche la zampogna, è propriamente la “canna” e pressoché suo sinonimo è δόναξ (quest’ultima è una “canna più piccola”, cf. Liddell-Scott, s.v.), anche se nel canto delle rane si riconduce il δόναξ soltanto alla lira, il riferimento stesso al κάλαμος ci ricorda che anche gli strumenti a fiato ugualmente menzionati (zampogna e flauto: καλαμίνην σύριγγα e καλαμίνους αὐλούς, secondo come si esprime Aristofane nei frr. 150, dal Geras, e 738 PCG, da fabula incerta) hanno la stessa origine. Ricordiamo infine che il verbo δονέω “agitare”, dalla cui alterazione risulterebbe, secondo Chantraine (s.v. δόναξ), per etimologia popolare, δόναξ stesso, ha appunto anche il significato di “mormorare” in riferimento agli strumenti musicali: cf. a questo proposito il v. 30 della Pitica X di Pindaro, λυρᾶν τε βοαὶ καναχαί τ᾽ αὐλῶν δονέονται, dove a suonare ‘agitandosi come canne’ sono lire e flauti. 757 Analoghe riflessioni possono essere fatte per i canti degli uccelli nell’omonima commedia, dove il flauto, suonato dalla flautista Procne, è invocato dal coro subito prima degli anapesti (vv. 682-683); le divinità in cui si identificano gli uccelli sono anche qui Apollo (vv. 716; 722) e le Muse (v. 724); i loro canti e danze sono in onore di Pan, ma anche della Madre Montana (vv. 745-746): abbiamo visto qui sopra (cf. cap. II.1.2.3) come la ‘natura incontaminata’ degli Uccelli, il cui aspetto selvaggio è accentuato dalla presenza della Madre Montana stessa, sia più ambigua che nelle Rane, dato il rischio corso da Nubicuculia, in tutta la seconda parte della commedia, di assomigliare sempre più all’Atene da cui sono scappati i protagonisti (la Madre Montana si trasforma al v. 876 nella barbara Κυβέλη madre di un personaggio deriso anche in Ran. 1437, tra l’altro per mezzo di Euripide). Del resto, negli Uccelli (v. 749), si dice che a trarre ispirazione da quei loro suoni ‘naturali’ fu Frinico, da cui Eschilo prenderà, nell’agone (Ran. 1298-1300), le distanze; sulla relazione fra questi due passi delle Rane e degli Uccelli, cf. Di Marco (2011), 53-58.
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sembra in un certo senso contrapporsi alla versione euripidea della nascita ‘barbara’ degli strumenti musicali dionisiaci, il flauto e il timpano (si osservi come le percussioni siano invece assenti nella rappresentazione aristofanea): nel secondo stasimo dell’Elena, infatti, il βαρύβρομος αὐλός (cf. μοῦσα βαρύβρομος αὐλῶν in Nub. 312) è consegnato da Afrodite (si tratta quindi in un certo senso di un atto di nascita del flauto stesso) alla Madre degli dei, in Frigia, come strumento proprio del suo culto (vv. 1350-1352), che, come sappiamo, in quello stesso stasimo è sostanzialmente identificato con quello dionisiaco; nelle Baccanti poi il coro riferisce la nascita, a Creta, del timpano, inventato dai Coribanti, in modo che si accordasse al suono dei “flauti frigi” (vv. 127-128), per accompagnare il culto di Dioniso e della Madre Rea (vv. 123-125). Aristofane invece riconduce a Atene la più autentica origine della musica, anche nella sua declinazione ‘dionisiaca’, che, lontano dallo strepito dei culti cretesi e orientali, può trovare una più stretta relazione con quella della zampogna di Pan e della cetra di Apollo.758 Le rane introducono dunque per prime, esplicitamente, il tema arcaizzante che sarà poi personificato nella figura di Eschilo: come osserva infatti Biles, si possono individuare diretti richiami stilistici fra il canto delle rane e la poesia di Eschilo (arcaismi, composti, registro elevato), il più macroscopico dei quali è la corrispondenza fra il βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ delle rane e il φλαττοθραττοφλαττοθρατ finalizzato all’imitazione del suono della cetra nella parodia che fa Euripide dei canti di Eschilo (vv. 1286; 1288; 1290; 1292; 1295; cf. avanti, § 3.3, in particolare nota 837).759 Se, come è stato ipotizza-
758 Tucidide (II.15.4) ricorda come appartenenti al nucleo originario di Atene l’acropoli e la parte meridionale della città (la zona dell’Ilisso dunque), dove si trovava un’alta concentrazione di santuari, quali l’Olympieion (il tempio di Zeus Olimpio), il Pythion, il santuario della Terra e quello di Dioniso ἐν Λίμναις, che appunto segnalavano, insieme con i templi dell’acropoli, i più antichi insediamenti della città. È legittimo dunque ritenere che il tempio di Dioniso e quello di Apollo Pitico, che permettono di attingere, secondo Tucidide, la religiosità più antica della πόλις, si trovassero entrambi nella stessa zona di Atene, a sud della città, nella valle dell’Ilisso, forse non troppo lontani l’uno dall’altro (sull’ubicazione del tempio di Apollo Πύθιος cf. Marchiandi in Greco e all. (2010-), II, 433-434). Si osservi altresì che nel canto delle rane è menzionato, come in Tucidide, anche Zeus (v. 246). Il passo tucidideo si accorda dunque con la rappresentazione aristofanea di un ritorno alle origini della religiosità attica, che veda uniti Dioniso e Apollo. 759 Cf. Biles (2011), 228-231. A proposito del coro delle rane, Biles parla infatti di «antiquated poetic landscape (p. 228) […] where music and song emanate from the water in a primordial form» (p. 230). Fra gli elementi ‘arcaizzanti’ del coro
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to,760 è possibile scorgere nel βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ il nome stesso delle rane, βάτραχοι, con l’iniziale sequenza consonantica (β[α]τρ) abbreviata in βρ- e la sorda aspirata velare privata dell’aspirazione (χ > κ), osserviamo qui che in φλαττοθραττοφλαττοθρατ troviamo gli stessi suoni della parola βάτραχοι con lo stesso genere di variazioni, mediate però, ora, da βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ: nell’onomatopea di Eschilo scompare infatti la velare di βάτραχοι, ma compare la dentale, anche nella sua forma aspirata (τ e θ); come aspirata troviamo la labiale (significativamente è mantenuto il nesso labiale + liquida: βρ > φλ); le vocali della parola βάτραχοι sono mantenute in entrambi i casi. Considerando che il φλαττοθραττοφλαττοθρατ è tuttavia pronunciato da Euripide, con intento denigratorio nei confronti di Eschilo, tale distanziamento fonetico dal canto delle rane acquisisce, in questa prospettiva, un più pregnante significato, relativo appunto alla mediazione euripidea.761 Eppure sono stati anche notati significativi legami con il secondo stasimo dell’Ifigenia in Tauride (per cui cf. qui sopra, cap. III.3):762 qui infatti il coro
Biles menziona anche il fatto stesso che si tratti di un coro teriomorfo, come suggerisce Eq. 520-523. 760 Cf. Maggi (2017), 48. L’appartenenza delle rane alla dimensione ctonia, che si esprime tra le altre cose nella loro associazione, sempre in ambito indiano, con il dio Varuṇa (cf. Kuiper (1979), 7), ci riporta, anche in India, sorprendentemente alla commedia, dato che, secondo l’intuizione di Kuiper (cf. in particolare pp. 198 ss., dove si individua nell’origine da un δρώμενον religioso la principale affinità fra dramma greco e dramma indiano), il dio Varuṇa si identifica, nel dramma indiano di età classica, con la figura comica del Vidūṣaka. 761 Criticata infatti da Dioniso (vv. 1296-1297); cf. Di Marco (2011), 44 ss.. Alla luce di tutto questo risulta difficile, a mio parere, parlare di parodia del ‘Nuovo Ditirambo’ a proposito del canto delle rane, come pure è stato proposto (per la bibliografia relativa, cf. Ford (2011), 351, nota 31), data la patina arcaizzante che caratterizza l’intero brano e che possiamo interpretare come una celebrazione delle origini incorrotte della poesia e della musica (nonché come un’importante anticipazione della figura di Eschilo). Per una ricostruzione del dibattito sul coro in questione, cf. Caballero (2010), 15-16; sull’evocazione, da parte delle rane, dei cori comici ‘primitivi’, cf. Sells (2012), 90; sul carattere ‘naturale’ della musica prodotta dalle rane, cf. Ford (2011), 351; sulla relazione fra il verso delle rane e le πορδαί, cf. Di Marco (2015); sulle rane come ‘mostri’ dell’oltretomba, cf. Santamaría (2015), 128. Cf. inoltre Andrisano (2010), a cui rimandiamo anche per una ricostruzione della controversia sulla presenza o no in scena del coro delle rane, in cui la studiosa prende posizione a favore di una loro presenza in scena, in una danza animalesca e scomposta, che potrebbe adattarsi alle tendenze del ‘Nuovo Ditirambo’; sulla linea di un’interpretazione parodica (in particolare dei canti popolari di rematura) del coro delle rane, cf. Rocconi (2007). 762 Cf. Andrisano (2010), 27-31; sulla questione cf. anche Edmonds (2004), 132, nota 54.
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descrive la λίμνη sull’isola di Delo come εἱλίσσουσαν ὕδωρ / κύκλιον, ἔνθα κύκνος μελῳ- / δὸς Μούσας θεραπεύει (vv. 1103-1105);763 nella strofe successiva è rappresentato poi il viaggio verso Atene di Ifigenia su una nave argiva, i cui rematori saranno accompagnati dal Πανὸς οὐρείου κάλαμος (v. 1126) e da Febo ὁ μάντις ἔχων / κέλαδον ἑπτατόνου λύρας (vv. 1128-1129). Le strette affinità lessicali e situazionali (accompagnamento di rematori) potrebbero legittimare dunque l’interpretazione del canto delle rane come una parodia euripidea.764 D’altra parte occorre ricordare che l’Ifigenia in Tauride ha come Leitmotiv il tema eziologico, sviluppato sulla base dell’idea di una contaminazione fra culti attici e culti barbari, con il coinvolgimento delle Antesterie stesse: a queste viene in particolare sottratto il carattere ‘espiatorio’ della bevuta solitaria di Oreste (e con essa il ruolo ‘civilizzatore’ di Atene rispetto alla vicenda della casa degli Atridi), dato che la vera espiazione dell’eroe si consuma piuttosto in una terra barbara. Se dunque è possibile parlare di allusioni all’Ifigenia, lo è piuttosto in contrasto con la situazione euripidea:765 Aristofane celebra infatti le Antesterie restituendo la centralità a Atene per mezzo della rappresentazione stessa di uno dei suoi più antichi e sacri luoghi di culto. La presenza di Apollo, a cui è gradito il canto delle Muse, potrebbe spiegarsi, in questa prospettiva, anche alla luce della relazione fra la vicenda di Oreste, protetto appunto da Apollo, e le Antesterie. Infine, poiché Euripide,
763 Si pensi ai βατράχων κύκνων θαυμαστά (Ran. 207) con cui Caronte prepara Dioniso al canto delle rane. 764 I vv. 1103-1105, con la presenza del verbo εἱλίσσω, sono poi caratteristici di quello stile euripideo che sarà ampiamente parodiato nell’agone (cf. avanti, § 3.3) anche per mezzo dell’Ifigenia in Tauride, laddove nel canto delle Rane non si va oltre allusioni a elementi mitici e lessicali non connotati come specificamente euripidei. Se in Andrisano (2010), 17, nota 35 (cf. qui sopra, nota 761) si stabilisce una relazione fra i lecizi del canto delle rane (a partire da βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ) e Euripide, la cui predilezione per questo verso è presa di mira da Eschilo nell’agone, dobbiamo tuttavia tenere presente che il lecizio, individuabile spesso nella seconda parte del trimetro euripideo (dopo la cesura pentemimere), è in realtà l’arma di cui serve Eschilo per ‘smascherare’ la ripetitività ritmica e la trivialità concettuale dei prologhi euripidei. 765 Segnaliamo qui che una delle testimonianze sulla rivelazione degli ἄρρητα dei Misteri di Eleusi da parte di Eschilo menzioni in particolare la tetralogia composta da Arcieri, Sacerdotesse, Ifigenia, Sisifo (cf. TrGF III T 93b2-3): la difficoltà di verificare appieno l’attendibilità della notizia relativa a questi titoli e di ricostruire la trama delle tragedie rende pressoché impossibile stabilire un collegamento con le Rane e con le frequenti citazioni, nella commedia, dell’Ifigenia in Tauride di Euripide. Se davvero Eschilo nell’Ifigenia aveva fatto qualche allusione, fin troppo precisa, ai Misteri di Eleusi, possiamo comunque sia immaginare riferimenti alla realtà cultuale ateniese.
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nell’Ifigenia in Tauride, non menziona esplicitamente Dioniso riguardo all’eziologia delle Antesterie, possiamo spingerci a ipotizzare che il fatto che le rane non riconoscano Dioniso nel rematore che attraversa la loro λίμνη alluda anche all’apparente assenza di relazioni fra un ‘Dioniso euripideo’ e le Antesterie. § 2.2 Iacco § 2.2.1 Empusa Prima dell’incontro con il coro degli iniziati, che completa la rappresentazione aristofanea di Dioniso come dio ‘ateniese’, Dioniso e Xantia (che ha camminato intorno alla λίμνη), coerentemente con le indicazioni di Eracle, si imbattono negli ὄφεις καὶ θηρί᾽ [...] μυρία / δεινότατα (vv. 143-144). In realtà si tratta di un unico mostro (θηρίον μέγα, v. 288) che cambia continuamente aspetto, trasformandosi di volta in volta in βοῦς, ὀρεύς, γυνή, κύων (vv. 290-292). Il parallelo del fr. 515 dei Friggitori (cf. qui sopra, nota 734) ci permette di individuare in Empusa una manifestazione spaventosa di Ecate, diffusa verosimilmente soprattutto a livello di credenze popolari.766 Ora, la presenza di Ecate ben si colloca in ambito eleusino (cf. qui sopra, cap. II.1.2.4, nota 224), almeno a livello mitologico, sebbene non sia facile individuare in questa scena delle Rane l’evocazione di un preciso momento rituale.767 In ogni caso sembra legittimo parlare di Ecate-Empusa come di una figura di mediazione, che ha il ruolo di introdurre Dioniso ver-
766 La concordanza fra il passo delle Rane e quello dei Friggitori è rafforzata dal fatto che in questi ultimi Empusa venga descritta σπείρας ὄφεων εἱλιξαμένη e che nelle Rane Eracle menzioni appunto gli ὄφεις fra i mostri dell’Ade; sul contributo degli scholia vetera alle Rane nell’identificazione di Empusa con Ecate, anche sulla base del fr. 115 dei Friggitori, cf. Perrone (2006), 176-177, dove si sottolinea anche il possibile legame di Ecate-Empusa con il contesto eleusino (cf. qui sotto, nota 767). Per ulteriori interpretazioni della scena di Empusa, cf. Lada-Richards (1999), 71-72; 90-94; Andrisano (2010), 13-14 (con bibliografia precedente); Santamaría (2015), 128-129. Originale è l’analisi proposta in Heil (2000), 53-58, dove si vede nella successione dei diversi aspetti assunti da Empusa l’evoluzione stessa (verso la decadenza) della tragedia greca. 767 Cf. al riguardo Brown (1991), 41-50, dove si ipotizza una relazione fra il fr. 178 di Plutarco (cf. qui sopra, nota 710), in cui si ricordano τὰ δεινὰ πάντα, che provocano terrore in coloro che si sottopongono all’iniziazione, e l’incontro fra Dioniso e Empusa come riferiti entrambi alla prima fase del percorso iniziatico nel Telesterion. Una conferma in questo senso verrebbe, secondo Brown, anche da un passo di
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so la ‘rivelazione’ rappresentata dal coro degli iniziati ai Misteri di Eleusi, con una funzione, quindi, per certi versi analoga a quella che ha Ecate nell’Inno a Demetra, dove appunto, dapprima, informa Demetra di avere inteso “un grido” (vv. 51-58), poi assume l’incarico di πρόπολος καὶ ὀπάων di Persefone (vv. 438-440). È interessante osservare che Dioniso, ancora terrorizzato dall’incontro con il mostro, commenti (vv. 309-311): οἴμοι, πόθεν μοι τὰ κακὰ ταυτὶ προσέπεσεν; / τίν᾽ αἰτιάσομαι θεῶν μ᾽ ἀπολλύναι, / αἰθέρα Διὸς δωμάτιον ἢ χρόνου πόδα; La ripresa dei due versi euripidei citati nel prologo come esempio della ‘fertilità’ di Euripide (cf. qui sopra, § 1.1 e cap. I.1.3) ci dimostra qui che effettivamente Dioniso interpreta l’Etere e il Tempo come due divinità, che rivestono un particolare ruolo in un preciso sistema religioso (per esempio, in ambito orfico, quello di entità cosmogoniche). § 2.2.2 L’incontro con gli iniziati Dopo l’incontro con Empusa, Dioniso si trova finalmente davanti, secondo le indicazioni di Eracle, il coro degli iniziati ai Misteri di Eleusi, il punto d’arrivo del suo percorso attraverso i culti ateniesi in suo onore: il modello sulla base del quale Aristofane costruisce la parodo della commedia sembra infatti da identificare proprio con la processione dei Grandi Misteri da Ate-
Luciano (cf. Cat. 22) dove il ciabattino Micillo, menzionando l’iniziazione ai Misteri di Eleusi, chiede al filosofo Cinisco se non gli paia che quanto incontrano nell’Ade sia ὅμοια τοῖς ἐκεῖ; Cinisco risponde appunto di sì, in particolare per quanto riguarda δᾳδουχοῦσά τις, identificata con un’ “Erinni”. Quest’ultimo è un personaggio (come suggeriscono anche le fiaccole) sovrapponibile a EmpusaEcate. Sebbene non possiamo escludere una diretta dipendenza del passo di Luciano da quello di Aristofane, è quanto meno lecito pensare che il riferimento alla realtà cultuale non sia frutto di una rielaborazione di tipo puramente letterario. Quanto alle giuste riserve (basate sui dati forniti dall’archeologia) di Mylonas sulla possibilità che nel Telesterion fosse ‘messa in scena’ una catabasi, ciò non esclude, come ipotizza Brown (cf. p. 49, nota 38), che gli iniziandi dovessero affrontare «some sort of female monster», eventualmente in un’esperienza solo acustica (come suggerisce il fatto che Dioniso non veda direttamente il mostro). La presenza di Empusa fra i δαίμονες presenti nell’Ade potrebbe essere attestata anche in ambito orfico, sulla base di un passo del Papiro di Derveni, col. VI.3 (su cui si veda la nuova proposta di lettura in Piano (2016), 81), secondo l’interpretazione di Johnston (1999), 130-139; Betegh (2004), 89, nota 45. Sulla possibilità di comparare Empousa con la daēnā- iranica, cf. Álvarez Pedrosa (2009), 1008.
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ne a Eleusi (19 Boedromione),768 come dimostra, fra le altre cose, il fatto che il coro aristofaneo faccia Iacco oggetto delle sue invocazioni e celebrazioni. Nonostante sia ampiamente dibattuta la questione relativa all’identificazione originaria di Iacco con Dioniso in ambito eleusino,769 essa sembra presuppo-
768 A favore di una ricostruzione «fedele» della processione eleusina nella parodo delle Rane, cf. Graf (1974), 40-50, (con la discussione sul dibattito precedente); da LadaRichards (1999), 98-102 (benché nell’ottica di una fusione di elementi tratti da diversi contesti rituali) gli iniziati sono senz’altro ricondotti ai Misteri di Eleusi; sulla compresenza, nella parodo, di Misteri eleusini e feste drammatiche dionisiache, cf. Biles (2011), 223-224; Sells (2012), 84-86; in Perrone (2006), 142-154, nonostante il riconoscimento della centralità del culto eleusino, si parla di presenza di «elementi diversi», tali da «creare un generale e composito effetto di sacralità». Segnaliamo infine a parte la proposta, basata su una forse eccessiva ricerca di verosimiglianza rispetto alla topografia ateniese, di vedere nella processione della parodo una relazione con i Piccoli Misteri di Agrai, cf. Hooker (1960); Guarducci (1982). 769 Il problema si pone nei termini di una parentela originaria o di una distinzione originaria, nonché di un eventuale influsso o meno dei culti dionisiaci sui Misteri di Eleusi. A favore di una distinzione delle due figure, sottoposte solo successivamente a un processo di identificazione, cf. Mylonas (1961), 237-239; Sfameni Gasparro (1986), 114-118 (Iacco come semplice ‘personificazione’ del grido mistico degli iniziati, nonché espressione della componente entusiastica del culto); Ford (2011), 345-346. Per un’analisi della personalità divina di Iacco e della natura dei suoi legami con Dioniso, cf. Graf (1974), 40-66: pur escludendo anch’egli un influsso dei culti di Dioniso su Eleusi, Graf ritiene che «l’apparente forma dionisiaca di Iacco appartenga da sempre al suo essere e che sia riflesso di un’esperienza vissuta nel rito della processione, quella di un’eccitazione che raggiungeva uno stato estatico» (pp. 53-54); Graf sottolinea altresì la dipendenza del nome ‘Iacco’ dal grido cultuale ἴακχος, anche se senza parlare di ‘personificazione’ del grido rituale stesso (pp. 56-57); quanto infine all’identificazione con Dioniso, la ritiene fondata su basi rituali (Iacco avrebbe rinunciato alla sua individualità per diventare la Spielform eleusina di Dioniso, pp. 65-66). Per un approccio alla questione favorevole all’identificazione originaria di Iacco con Dioniso, cf. Jiménez San Cristóbal (2013), 278-282. Nella prospettiva di un’analisi linguistica del pantheon eleusino volta a individuarne le origini i.e., cf. Janda (2000), 558-596, dove si vede nei Misteri di Eleusi una delle forme in cui si perpetua in Grecia il mito cosmogonico i.e., conservatosi in ambito vedico nella vicenda della liberazione delle acque e delle vacche-Aurore da parte di Indra: Dioniso e Trittolemo erediterebbero appunto, come risulterebbe dall’analisi etimologica dei loro nomi, il ruolo del dio i.e. assunto in India dal vedico Indra. Benché Janda non stabilisca alcuna relazione fra Iacco e Dioniso, non possiamo non tenere conto del fatto che il ‘dionisismo’ di Iacco perpetui, in ambito eleusino, quei tratti entusiastici (legati per esempio all’ubriacatura) che appartengono sia a Indra sia a Dioniso.
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sta nelle Rane,770 dove il contesto appare quello di una rappresentazione di Dioniso nella sua veste ‘ateniese’, ossia come il dio degli agoni drammatici, delle Antesterie e come lo Iacco dei Misteri di Eleusi, accolto, appunto nella figura di Iacco, nel più sacro dei culti attici (quello i cui profondi valori, che fanno appello all’unità, al perdono e all’uguaglianza, possono davvero salvare la città), perché trovasse un reale e pieno inserimento nella πόλις. Alla coppia ‘selvaggia’ e ‘barbara’ allo stesso tempo Dioniso - Madre degli dei celebrata da Euripide Aristofane contrappone, come abbiamo detto qui sopra, la versione attica, Iacco (→ Dioniso) - Demetra. Il quinto stasimo dell’Antigone di Sofocle è il più significativo esempio, precedente alle Rane, di una celebrazione di Dioniso alla luce di una piena identificazione con Iacco (per cui cf. anche qui sopra il fr. 959 di Sofocle): sebbene il contesto sia ovviamente quello tebano (vv. 1130-1145, per il legame particolare di Dioniso con Tebe), Dioniso viene celebrato principalmente nell’ambito del suo culto delfico sul Parnaso (vv. 1126-1130; 1140-1152), ma l’ultimo nome con cui viene invocato (v. 1152) è proprio τὸν ταμίαν Ἴακχον, “il dispensatore Iacco”, che può essere interpretato come una chiusura, in una sorta di Ringkomposition, rispetto all’incipit dello stasimo, in cui, dopo l’accenno a Zeus e a Semele (vv. 1115-1118), vengono indicate le ‘sedi’ del dio, ossia Italia, Eleusi e infine Tebe (vv. 1119-1122), come se la menzione conclusiva di Iacco rievocasse quella incipitaria di Eleusi, dove il dio assume l’identità, appunto, di Iacco.771 Sofocle ci presenta quindi un quadro cultuale in cui Dioniso si trova inserito all’interno di una ‘rete’ di relazioni con altre figure divine, fra cui spiccano Demetra (citata direttamente al v. 1120) e Apollo (indirettamente evocato dall’ambientazione delfica – è dal Parnaso infatti che Dioniso viene chiamato a Tebe), del tutto analogamente a quanto accade nelle Rane, seppure in queste ultime con una progressiva accentuazione della dimensione cultuale attica, da-
770 Cf. Lada-Richards (1999), 102; Biles (2011), 223-224 (Iacco è visto qui come «a counterpart of Dionysos and Dionysiac Celebration»); Jiménez San Cristóbal (2013), 280-281. 771 La menzione dell’Italia può forse essere associata a quella di Eleusi, data l’importanza del culto di Demetra e Persefone, oltre che in Sicilia, anche in Magna Grecia (Locri, Oria); d’altra parte non possiamo escludere un riferimento a quell’ambito cultuale da cui derivano per esempio le lamine orfiche, dove le figure eleusine stesse sono talora reinterpretate in funzione di un diverso messaggio religioso e escatologico: cf. infatti Lada-Richards (1999), 4-5; Jiménez San Cristóbal (2013), 278; 283. Del resto le allusioni di Aristofane a Sofocle, come vedremo anche avanti, denotano bensì, per certi versi, un’affinità, ma mostrano anche una volontà di differenziazione e un più deciso orientamento verso la dimensione cultuale propriamente attica.
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to che, se il canto delle rane celebra il binomio Dioniso-Apollo, quello degli iniziati celebra poi la triade Demetra-Kore-Iacco. La possibilità che Aristofane alluda a Sofocle, osservata a proposito del canto delle rane (cf. qui sopra, § 2.1) si fa qui ancora più forte,772 come risulterà anche nel seguito di questa analisi.773 § 2.2.3 Analogie fra il coro delle rane e il coro degli iniziati Le comuni allusioni a Sofocle non rappresentano l’unico punto di contatto fra il coro delle rane e quello degli iniziati:774 il fatto che questi ultimi celebrino Iacco senza rendersi conto che lo straniero davanti a loro sia proprio
772 Per il diretto richiamo lessicale fra Ant. 1146-1147 e Ran. 342 (in entrambi i casi Iacco è rappresentato come ἀστήρ), cf. Bowie (1993), 233; Lada-Richards (1999), 102; Jiménez San Cristóbal (2013), 280-281. Sul passo sofocleo, messo in relazione con la parodo delle Rane, cf. anche Ford (2011), 347-348. 773 Sofocle non è il solo autore a offrirci una testimonianza letteraria di tale identificazione precedente alle Rane: Euripide stesso, infatti, in Bacch. 725 rappresenta le menadi che invocano Iacco, grido che fa sì che “tutto il monte baccheggi” (v. 726). Aristofane, mantenendo Iacco nel contesto attico, dove probabilmente il nome si era originato, si contrappone ancora a Euripide e alla sua rappresentazione ‘selvaggia’ e ‘montana’ del culto dionisiaco. Come si osserva in Lada-Richards (1999), 102, tuttavia, anche la rappresentazione sofoclea è relativa a una «wild pannychis» montana da contrapporre al rito delle Rane («the civic Eleusinian pannychis»). Eppure non è da trascurare sia il diretto riferimento eleusino dello stasimo sofocleo sia il fatto che Dioniso sia invocato a recare beneficio a una città (Tebe nello specifico); il legame con il culto delfico di Apollo appare inoltre un forte deterrente rispetto alla rappresentazione degli aspetti selvaggi del culto di Dioniso. Il fatto che quest’ultimo compaia associato sia a Apollo sia alle dee di Eleusi anche nel terzo stasimo dello Ione di Euripide (vv. 1074-1084), d’altra parte, come abbiamo visto qui sopra (cf. cap. IV.2.4), si scontra con peculiarità, anche a livello escatologico, che, in quello stasimo, possono far pensare a contesti diversi da quello propriamente eleusino (il nome di Iacco in ogni caso non compare, sostituito da τὸν πολύυμνον θεόν (vv. 1074-1075). In Euripide compaiono comunque sia relativamente spesso riferimenti a ἴακχον / ἰακχέω, in contesti propriamente dionisiaci, con accompagnamento di timpani (cf. Cycl. 69; fr. 586, v. 4 dal Palamede, in associazione alla Madre degli dei) o con significato più generico (cf. Phoen. 1295; Tro. 1230). 774 Sulla possibile relazione fra il κοὰξ κοάξ delle Rane con il grido rituale Ἴακχ᾽ ὦ Ἴακχε delle medesime, cf. Ford (2011), 352-355 (dove si traggono tuttavia, a partire da questa interessante relazione, conclusioni non condivisibili, dal nostro punto di vista, e difficilmente coerenti con il contesto della commedia, sulla religiosità di Aristofane).
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il ‘loro’ dio775 riproduce per esempio la stessa situazione verificatasi durante il canto delle rane, dato che Dioniso, profondamente influenzato com’è dalla religiosità euripidea (nonché, tra l’altro, travestito da Eracle), guarda ancora dall’esterno le celebrazioni in suo onore della πόλις, la quale, a sua volta, non può riconoscerlo. Il profondo legame fra il coro delle rane e il coro degli iniziati, che possono dunque essere letti in continuità l’uno rispetto all’altro, si osserva inoltre nel fatto che, in intreccio con una delle allusioni sofoclee, l’invocazione a Iacco del coro degli iniziati è anticipata in quello ἰαχήσαμεν delle rane (v. 217), come ancora i vv. 454-456 del coro degli iniziati: μόνοις γὰρ ἡμῖν ἥλιος καὶ φέγγος ἱερόν ἐστιν, ὅσοι μεμυήμεθ᾽ [...] presentano una continuità con i vv. 242-244, dove le rane mostrano anch’esse un legame particolare con il sole: [...] εὐηλίοις ἐν ἁμέραισιν ἡλάμεσθα διὰ κυπείρου καὶ φλέω [...]. Nei giorni di pioggia, invece, le rane si immergono ἐν βυθῷ (v. 247) continuando la danza ἔνυδρον “sott’acqua”: se gli iniziati nell’Ade continuano a godere della luce “come qui” (secondo le parole di Eracle nel prologo), perché “solo nostro è il sole e la sacra luce”, così le rane danzano nelle giornate di sole e continuano a farlo quando piove, sul fondo dell’acqua, come se per loro, anche laggiù, splendesse ancora il sole. Un ulteriore punto di contatto fra i due cori potrebbe essere rintracciato, a livello linguistico, nella parentela fra λίμνη, l’ambientazione del coro delle rane, e λειμών, l’elemento spaziale che più frequentemente viene menzionato dagli iniziati per descrivere l’ambientazione delle loro danze (cf. vv. 326; 344; 373-374;
775 La circostanza che gli iniziati delle Rane non riconoscano nel Dioniso che hanno di fronte (però travestito da Eracle) lo Iacco che invocano è stata addotta fra le prove in favore della non piena sovrapponibilità delle figure di Iacco e Dioniso (cf. Sfameni Gasparro (1986), 114-118), ma questa lettura non tiene conto della coerenza letteraria della commedia, basata sulla progressiva ri-acquisizione da parte di Dioniso della sua identità ateniese.
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448-449), che suggerisce un’affinità originaria fra le immagini escatologiche e cultuali che Aristofane sta qui evocando.776 § 2.2.4 Il messaggio escatologico I vv. 454-456 del coro degli iniziati sono significativi, come abbiamo osservato qui sopra in § 1.2.1, proprio per l’immagine di continuità fra vita e morte che trasmettono: gli iniziati ai Misteri trovano nell’aldilà una beatitudine che perpetua i sacri riti da loro celebrati in vita. Si confrontino in particolare con i seguenti frammenti di Sofocle e Pindaro: Soph. TrGF IV F837 (forse dal Trittolemo, secondo Welcker): ὡς τρὶς ὄλβιοι κεῖνοι βροτῶν, οἳ ταῦτα δερχθέντες τέλη μόλωσ᾽ ἐς Ἅιδου˙ τοῖσδε γὰρ μόνοις ἐκεῖ ζῆν ἔστι, τοῖς δ᾽ ἄλλοισι πάντ᾽ ἐκεῖ κακά. Pind. fr. 137 Maehler: ὄλβιος ὅστις ἰδὼν κεῖν᾽ εἶσ᾽ ὑπὸ χθόν᾽ ˙ οἶδε μὲν βίου τελευτάν, οἶδεν δὲ διόσδοτον ἀρχάν. Sia Sofocle sia Pindaro rielaborano i vv. 480-482 dell’Inno a Demetra, che abbiamo citato qui sopra (cf. § 1.2.1): entrambi riprendono infatti l’ὄλβιος omerico iniziale e la messa in rilievo del “vedere” (Pindaro più fedelmente, 776 Cf. Chantraine, s.v. λειμών. In Janda (2010), 184 ss. si riconduce questa famiglia lessicale, a partire dal confronto fra λίμνη e il vedico nimná- “che si dirige verso il basso” (discusso anche da Chantraine, seppure con qualche dubbio), alla radice i.e.*nei- + suffisso primario *-men- “profondità”, che permette quindi di individuare un fondo mitico e rituale risalente all’età i.e. comune alle Antesterie, il cui santuario è appunto ἐν λίμναις, e a loro paralleli sia nel culto di Indra sia in ambito germanico (Odino visita il Niflhel, la “profondità nascosta” per visitare una profetessa morta). Più scettico è Beekes (s. v. λειμών) sulla possibilità di identificare una parentela linguistica al di fuori dell’ambito greco. Comunque sia, il λειμών del mito eleusino, qui immagine escatologica di beatitudine, corrisponde, proprio come la λίμνη che attraversa Dioniso, al passaggio nelle profondità dell’Ade in quanto sede del rapimento di Persefone (cf. h. Cer. 7). Quanto alla rappresentazione del sole nell’oscurità e quindi nell’aldilà nell’ambito del misticismo ario, cf. Kuiper (1983), 83 ss.. Ricordiamo infine, a proposito della tradizione relativa al sole nell’aldilà nell’escatologia greca, la trama delle Bassaridi di Eschilo, che probabilmente mettevano in scena la conversione di Orfeo a un culto solare successiva alla sua catabasi (cf. qui sopra, cap. IV.2.1.2).
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con quell’ἰδών, ripreso da οἶδεν, che rimanda all’ὄλβιος, ὃς τάδ᾽ ὄπωπεν dell’inno, mentre Sofocle con un’altra forma verbale, δερχθέντες); Sofocle inoltre mantiene anche la distinzione fra beatitudine degli iniziati e i κακά (generici, senza riferimento a specifiche pene) che attendono i non iniziati. Aristofane sembra a sua volta rievocare direttamente Sofocle con quell’enfatico μόνοις γὰρ ἡμῖν (cf. il sofocleo τοῖσδε γὰρ μόνοις): tuttavia, mentre Sofocle si spinge a parlare di “vita” (ζῆν) nell’aldilà, in Aristofane il soggetto della frase che ha per dativo ἡμῖν è ἥλιος καὶ φέγγος ἱερόν. Gli iniziati, dopo avere parlato, nella sezione degli σκώμματα, dei “morti di lassù” (v. 420), esitano ora a definire la loro propria condizione come ‘vita’: inizia qui dunque quella ridefinizione dei confini fra morte e vita, che sarà ulteriormente sviluppata nell’agone (cf. qui sopra § 1.2). La vita vera è quella sulla terra, per quanto possa riprodursi, per esempio con la celebrazione dei riti, nell’aldilà, dove gli iniziati possono appunto continuare a godere della luce del sole (si ricordi il “come qui” di Eracle), in contrapposizione alle tenebre in cui sono avvolti tutti gli altri. Aristofane, dunque, per la sua particolare esigenza di stabilire una distanza, nello specifico da Euripide, in merito a credenze da considerare ai margini della religiosità della πόλις (la morte come la vera vita e la vita come la vera morte), preferisce, al di fuori di specifiche esigenze comiche,777 presentare il messaggio pur salvifico dei Misteri di Eleusi in termini quanto più possibile (stiamo pur sempre parlando di ‘sole nell’aldilà’) vicini all’ortodossia, laddove Sofocle, non direttamente coinvolto in un dibattito religioso, non aveva particolari riserve a descrivere enfaticamente come “vita” la condizione degli iniziati nell’aldilà, rispetto a quella degli “altri”, anch’egli, comunque sia, verosimilmente, intendendola come continuazione rispetto alla vita sulla terra.778
777 È il coro stesso del resto a affermare che dirà πολλὰ μὲν γελοῖα […], πολλὰ δὲ σπουδαῖα (vv. 389-390); sulla dialettica fra serietà e scherzo nella commedia aristofanea, cf. Lauriola (2010), dove appunto viene presa in considerazione la componente impegnata della poesia aristofanea. 778 Poiché Pindaro mostra, in alcuni specifici testi, di accogliere concezioni escatologiche riconducibili all’orfismo (cf. Santamaría (2009) e qui sopra, nota 710), esse potrebbero avere influito anche sulla sua rappresentazione di altri ambiti cultuali, come appunto quello eleusino (a cui allude quell’ἰδὼν ἐκεῖνα riferibile all’ἐποπτεία): non sorprende quindi trovarvi affinità con espressioni che abbiamo trovato in ambito orfico, relative per esempio alla coincidenza fra fine della vita e suo inizio, in quanto condizione privilegiata che permette all’uomo di diventare dio: cf., per esempio, le due lamine di Pelinna, che abbiamo più volte citato, νῦν ἔθανες καὶ νῦν ἐγένου, τρισόλβιε [presente anche nel frammento sofocleo 837, citato qui sopra, a dimostrazione dell’esistenza di un formulario comune] ἄματι τῷδε. / εἰπεῖν Φερσεφόνᾳ σ᾽ ὅτι Βάκχιος αὐτὸς ἔλυσε (frr. 485-486.1-2
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§ 2.2.5 Aspetti dionisiaci della parodo È stato talora sottolineato lo specifico carattere dionisiaco del canto degli iniziati: alcuni aspetti, nella rappresentazione della gioiosa processione eleusina, rievocherebbero per esempio le Baccanti di Euripide.779 Oltre al riferimento a se stessi come ὅσιοι θιασῶται (v. 327), infatti, gli iniziati descrivono la loro danza in termini che appaiono reminiscenti dell’ἐνθουσιασμός bacchico, come ai vv. 328-335: [sogg. Iacco] πολύκαρπον μὲν τινάσσων περὶ κρατὶ σῷ βρύοντα στέφανον μύρτων, θρασεῖ δ᾽ ἐγκατακρούων ποδὶ τὴν ἀκόλαστον φιλοπαίγμονα τιμήν, Χαρίτων780 πλεῖστον ἔχουσαν μέρος, ἁγνήν, ἱερὰν ὁσίοις μύσταις χορείαν. Iacco è rappresentato inoltre capace di ringiovanire i vecchi, scrollando loro di dosso le “pene” e i “lunghi anni” (vv. 345-348), con un’immagine che ricorda appunto quella di Cadmo e Tiresia nelle Baccanti (vv. 187-194). Eppure c’è una differenza sostanziale, data dal diverso contesto religioso in cui il dio esercita le sue prerogative: Iacco-Dioniso, la cui corona πολύκαρπον rimanda direttamente al titolo attribuito poco oltre a Demetra stessa, τὴν καρποφόρον βασίλειαν (v. 383/4) e si inserisce quindi appieno nel contesto
Bernabé). Osserviamo tuttavia che, nel fr. 137, Pindaro parla di βίος solo in riferimento alla morte, lasciando la parola ἀρχή, più indeterminata, per designare la sorte nell’aldilà. Sul contesto eleusino del fr. 137 Maehler, cf. Santamaría (2009), 1181. 779 Cf. Bowie (1993), 233-234. Bowie, fra tali affinità con le Baccanti, menziona anche la presenza degli ionici nella parodo aristofanea (vv. 324-335; 340-353); eppure Aristofane, mediante il ricorso agli ionici, sembra piuttosto contrapporsi al Dioniso delle Baccanti associando immediatamente Dioniso a un contesto totalmente diverso. Tra l’altro gli ionici delle Rane, minoritari rispetto al preponderante ritmo giambico della parodo, si configurano come una breve e, per così dire, fugace allusione (cf. qui sopra, cap. V.1.2.2, nota 623). 780 Ricordiamo (cf. qui sopra, cap. V.1.2.2) che le Grazie compaiono anche nel canto di Agatone nelle Tesmoforiazuse, anche in quel caso legate alla descrizione dell’aspetto ritmico della danza (vv. 120-122): se nel canto di Agatone, di ambientazione forse troiana, si parlava di “Grazie di Frigia”, qui nelle Rane le Grazie sono calate in un contesto cultuale ateniese e non hanno bisogno di attributi geografici. Rafforza il legame fra questi due passi la presenza del dativo ποδί, che anche nelle Rane possiamo tradurre come “ritmo”.
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agricolo del culto eleusino,781 è l’inventore del μέλος ἑορτῆς / ἥδιστον (vv. 399-400) e di quella umile ma gioiosa danza (vv. 404-408, dove l’abbigliamento degli iniziati è descritto come fatto di stracci), che ἄνευ πόνου (v. 402), permette di compiere una πολλὴν ὁδόν (v. 402), che conduce “alla dea” (v. 401, πρὸς τὴν θεόν). La sfrenatezza dionisiaca è dunque ricondotta nella dimensione civica del culto eleusino, in particolare a quel momento rituale che la prevedeva, ossia la processione guidata da Iacco, in modo che appaia in un certo senso ‘controllata’ e ‘regolamentata’.782 Fra la prima parte della parodo (vv. 323-353), dove si concentrano le immagini dionisiache e le reminiscenze delle Baccanti, e il seguito, dove la figura di Iacco è decisamente inserita nel contesto eleusino in associazione a Demetra, si inserisce una sezione anapestica (vv. 354-371): qui Aristofane collega per la prima volta il tema eleusino della commedia a istanze politiche (cf. qui sopra, § 1.2.3), a cui è peraltro anteposta una rappresentazione dei non iniziati che devono ἐξίστασθαι τοῖς ἡμετέροισι χοροῖσιν (v. 354) non solo secondo categorie politiche, ma anche ‘poetiche’. Costoro sono infatti identificabili con (vv. 355-358) ὅστις ἄπειρος τοιῶνδε λόγων ἢ γνώμην μὴ καθαρεύει ἢ γενναίων ὄργια Μουσῶν μήτ᾽ εἶδεν μήτ᾽ ἐχόρευσεν, μηδὲ Κρατίνου τοῦ ταυροφάγου γλώττης Βακχεῖ᾽ ἐτελέσθη ἢ βωμολόχοις ἔπεσιν χαίρει μὴ ᾽ν καιρῷ τοῦτο ποιούντων.
781 Iacco è inoltre invocato dal coro (Ἴακχε πολυτίμητε, v. 397/8) con lo stesso epiteto con cui Xantia, durante la parodo, invoca Persefone (ὦ πότνια πολυτίμητε Δήμητρος κόρη, v. 336). Già al v. 324 comunque sia il coro, direttamente o indirettamente, attribuisce a Iacco questa epitetazione: nell’edizione di Wilson leggiamo Ἴακχ᾽ ὦ πολυτίμητ᾽ ἐν ἕδραις ἐνθάδε ναίων secondo la congettura di Reisig, laddove Del Corno, accogliendo la congettura di Hermann, stampa Ἴακχ᾽ ὦ πολυτίμοις ἐν ἕδραις ἐνθάδε ναίων, serbando la maggiore complessità testuale suggerita dalla lezione πολυτιμήτοις (che presenta una difficoltà metrica) dei manoscritti. 782 Differentemente da Bowie, che sottolinea l’influenza del culto dionisiaco nella parodo delle Rane, cf. Graf (1974), 53-57, dove si mette in luce il carattere entusiastico, e quindi dionisiaco, proprio, fin dall’origine, della processione eleusina e quindi della figura di Iacco. Aristofane in effetti non si limita a una singola menzione di nome di Iacco, come troviamo in altri testi coevi (cf. qui sopra, nota 773), ma rappresenta un vero e proprio inno cultuale dedicato a Iacco, il cui nome è sistematicamente ripetuto, d’altra parte, con esplicito riferimento a un preciso contesto, che la menzione di Demetra conferma. La facoltà stessa del dio di ‘far ringiovanire’ e ‘non far sentire la fatica’ è ricondotta alla situazione ritualmente determinata della “lunga strada” da Atene a Eleusi (vv. 401-402).
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Segue poi la menzione di chi assume comportamenti dannosi per la πόλις, elenco di azioni riprovevoli (cf. qui sopra, § 1.2.1) concluso da due casi che, in una sorta di composizione circolare, riportano alle colpe in ambito poetico e teatrale, a dimostrazione del legame indissolubile, nella πόλις, fra politica, religione, poesia e teatro (vv. 366-368): ἢ κατατιλᾷ τῶν Ἑκαταίων783 κυκλίοισι χοροῖσιν ὑπᾴδων, ἢ τοὺς μισθοὺς τῶν ποιητῶν ῥήτωρ ὢν εἶτ᾽ ἀποτρώγει, κωμῳδηθεὶς ἐν ταῖς πατρίοις τελεταῖς ταῖς τοῦ Διονύσου. Si osservi qui la forza dell’attributo πάτριοι per indicare le τελεταί in onore di Dioniso, cioè gli agoni drammatici, Dionisie e soprattutto Lenee (nel cui contesto sono appunto portate in scena le Rane), a sottolineare in qualche modo una forma di contrapposizione con tipologie di dionisismo altre e ‘straniere’, quali potevano essere quelle celebrate nelle recenti Baccanti di Euripide: si tratta qui di un dionisismo perfettamente integrato nella πόλις per mezzo di strette relazioni con altri culti, che compongono, per così dire, l’ossatura e l’identità religiosa di Atene e dell’Attica.784 Al contesto misterico eleusino, a cui sembra appartenere una terminologia come ὄργια, ἐτελέσθη, τελεταῖς, si sovrappone dunque una dimensione dionisiaca (Βακχεῖ᾽ ἐτελέσθη, ἐν ταῖς πατρίοις τελεταῖς ταῖς τοῦ Διονύσου), 783 Per un’interpretazione del riferimento alle statue di Ecate imbrattate da Cinesia come un forte richiamo all’identità eleusina del coro, cf. Biles (2011), 226: la figura di Ecate appare una sorta di Leitmotiv nelle Rane, spesso come oggetto sinistro o sottoposto a oltraggi di cui l’empio sarà chiamato a pagare il fio. In virtù dei suoi legami con le oscure forze ctonie l’oltraggio a Ecate rappresenta la forma più temibile e gravida di conseguenze dell’empietà: se al Dioniso del prologo la dea, nella sua veste più minacciosa, si manifesta come la multiforme e terrificante Empusa (cf. qui sopra, § 2.2.1), Aristofane la chiama di nuovo in causa in riferimento all’empietà di Cinesia e poi, nell’agone, a quella di Euripide (cf. avanti, § 3.3). Sulle due menzioni di Cinesia, in Ran. 152-153; 366, entrambe collegate a atti empi, come anticipazioni di temi trattati nell’agone, cf. LadaRichards (1999), 228-230. 784 L’espressione ἐν ταῖς πατρίοις τελεταῖς ταῖς τοῦ Διονύσου può suggerire un richiamo alle Baccanti euripidee (vv. 200-203), dove Tiresia, pur nel contesto generale di una tragedia in cui viene sottolineata con insistenza la ‘novità’ di Dioniso e del suo culto (vv. 59; 214; 219; 226; 272; 354-5; 467; 650), parla di πατρίους παραδοχάς: Aristofane sostituisce a quella tradizione dionisiaca celebrata nelle Baccanti il contenuto davvero “patrio” della tradizione dionisiaca ateniese rappresentato dalle feste drammatiche. Dobbiamo la segnalazione di questi passi e la riflessione sull’oscillazione di Dioniso fra i due poli di novità e tradizione nelle Baccanti e nelle Rane al prof. Andrea Capra e alla sua relazione ΚΑΙΝΟΣ (e affini). Il pubblico e l’originalità della commedia, presentata nell’ambito del convegno milanese Per un lessico della commedia greca (2-3 febbraio 2016).
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che si rivela essere quella degli agoni drammatici stessi (Κρατίνου τοῦ ταυροφάγου γλώττης, βωμολόχοις ἔπεσιν, κωμῳδηθείς),785 con cui Aristofane chiude il cerchio della rappresentazione del dionisismo a Atene, iniziata nel canto delle rane. Poiché a parlare è un coro comico non stupisce che sia dato in particolare rilievo alla commedia: Aristofane sembra tracciarne una breve storia, dalla fase più arcaica dominata dalla figura di un Cratino quasi identificato con Dioniso stesso al riferimento alle controversie fra commediografi e politici intolleranti di essere derisi in commedia, che ricorda da vicino le personali vicende di Aristofane con Cleone riferite negli Acarnesi.786 Con l’incapsulare il riferimento metateatrale alle feste drammatiche all’interno del contesto della processione eleusina, Aristofane stabilisce così un collegamento fortissimo fra le varie manifestazioni del culto di Dioniso a Atene (Antesterie, Lenee, Dionisie) e i Misteri Eleusini, che sembrerebbe avere una giustificazione anche diacronica in un’ottica comparativa di ricostruzione i.e..787 In ogni caso è specialmente al culto demetriaco di Eleusi che viene affidato il ruolo principale nella definizione della religiosità della
785 Sull’integrazione di elementi dionisiaci (intesi come riferiti agli agoni drammatici) e eleusini nella parodo, cf. Lada-Richards (1999), 223-231; cf. Biles (2011), 224-228 (il momento di maggiore integrazione fra sfondo rituale eleusino e sfondo rituale dionisiaco è individuato da Biles nella πρόρρησις, la sezione anapestica ai vv. 354-371, sulla cui interpretazione come «relocated parabasis» cf. la rassegna bibliografica in Biles (2011), 224, nota 60). 786 Sull’ipotesi che l’epiteto ταυροφάγος rimandi ai riti omofagici in onore di Dioniso-Zagreo, cf. Bowie (1993), 234. È tuttavia possibile che la sua presenza qui sia funzionale, oltre che a sottolineare la relazione fra Dioniso e il toro (per cui cf. Burkert (2010), 161-162), a richiamare forme rituali arcaiche, manifestazioni di un dionisismo quasi primitivo: se infatti, come opportunamente si ipotizza in Biles (2011), 228-233, fin dal canto delle rane il coro della commedia reindirizza Dioniso verso quella poesia arcaica e quindi verso la scelta di Eschilo (la figura di Cratino anticipa quella di Eschilo per diversi aspetti, cf. ancora Biles (2011), 232), è anche vero che la commedia ha ormai nella figura di Aristofane il suo massimo esponente, legato, a differenza della tragedia contemporanea, alle tradizioni della πόλις, ma allo stesso tempo operante nel presente (cf. la breve storia della commedia tracciata in Eq. 517-550, culminante in Aristofane stesso). Si osservi infine in ταυροφάγος il possibile richiamo a Sofocle, che lo riferisce a Dioniso nella perduta Tyro (cf. TrGF IV F668); Sofocle, del resto, rappresenta proprio Iacco come βούκερως (cf. TrGF IV F959). Sulle interpretazioni antiche relative a Cratino ταυροφάγος, cf. Perrone (2006), 191-193. 787 Cf. Janda (2000), 268- 296, dove, attraverso l’analisi linguistica, sono individuate parentele fra le varie manifestazioni del culto dionisiaco (Antesterie, Lenee, Dionisie), i Misteri di Eleusi e il culto vedico di Indra: all’origine di questi fenomeni religiosi si individuerebbe il mito cosmogonico i.e., conservato in India in una
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πόλις, all’interno della quale si inserisce anche il dionisismo: le dee di Eleusi, Kore (dietro l’epiteto Σώτειρα, al v. 378, è verosimile che si debba scorgere appunto lei)788 e Demetra sono infatti invocate, subito dopo gli anapesti, con il duplice compito di salvare la città (vv. 378-383) e il teatro (vv. 384-393).789 Demetra in particolare, “la signora dei sacri riti” (ἁγνῶν ὀργίων ἄνασσα), è chiamata a salvare “il suo coro”, perché possa scherzare e danzare tutto il giorno in sicurezza (ἀσφαλῶς), con riferimento ai pericoli che la città sta correndo nella celebrazione dei riti stessi della dea (si ricordi la sospensione della processione a causa della presa di Decelea), e allo stesso tempo, come coro comico di questa commedia, perché ottenga la vittoria dicendo πολλὰ μὲν γελοῖα […], πολλὰ δὲ σπουδαῖα. Aristofane pone la sua dichiarazione di poetica e il suo coro sotto la protezione di Demetra, la cui autorità è così estesa anche alla dimensione teatrale (per cui non a caso si richiede un’ἑτέραν ὕμνων ἰδέαν, v. 383), propriamente dionisiaca, in virtù del ruolo dei suoi Misteri non solo nell’identità religiosa della πόλις, ma anche come garanti della sua coesione sociale e politica. Dioniso stesso può infatti svolgere appieno il suo compito di dio del teatro nella sua veste eleusina di Iacco: come riferisce uno degli scholia vetera al v. 479 (cf. 479c790), infatti, il daduco (una figura dunque indubbiamente eleusina) “negli agoni lenaici di Dioniso” pronunciava la formula κάλει θεόν (cf. καλεῖτε θεόν, v. 479), a cui gli ascoltatori dovevano rispondere Σεμελήιε Ἴακχε πλουτοδότα. Appare dunque giustificato anche dal contesto rituale all’interno del quale la commedia venne messa in scena – gli agoni lenaici appunto – il richiamo di Aristofane alla posizione preminente occupata dai Misteri di Eleusi in generale nel panorama religioso attico e in particolare nella definizione della sfuggente personalità di Dioniso.791 Non è dunque un caso che il tema politico della salvezza della πόλις sia esplicitamente associato a quello letterario, dopo quanto si è visto ai vv. 355-568, nella sezione della parodo dedicata a Soteira / Kore e a Demetra (vv. 378-393): Dioniso mostrerà di avere appreso questa lezione alla fine dell’a-
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forma più arcaica, ma sottoposto in Grecia a numerose trasformazioni e diramazioni in ambiti cultuali fra loro apparentemente distinti (cf. anche qui sopra, nota 769). Cf. Perrone (2006), 151. Sull’importanza di questi versi nell’ottica della «shifting choral perspective» fra Misteri di Eleusi e festa drammatica dionisiaca, cf. Biles (2011), 227-228 (cf. anche qui sopra, nota 785). Cf. Perrone (2006), 203-204. Cf. Graf (1974), 65-66, dove si sottolinea che anche alle Dionisie la relazione fra Dioniso, Demetra e Kore poteva essere talora sbilanciata a favore di queste ultime.
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gone. Comunque sia possiamo individuare già un momento, nel corso della parodo, in cui Dioniso rivela di aver finalmente iniziato a recuperare la sua identità ateniese: il coro, prima degli σκώμματα, invita per tre volte Iacco a unirsi alla sua danza con le parole Ἴακχε φιλοχορευτά, συμπρόπεμπέ με (vv. 403; 408; 413); subito dopo il terzo invito, Dioniso risponde ἐγὼ δ᾽ ἀεί πως φιλακόλουθός εἰμι (v. 414): mentre gli iniziati invocano chi li “scorti”, Dioniso mostra inclinazione a “seguire”, ma la ripetizione del composto con φιλο- come primo membro e l’enfasi sull’ἐγώ suggerisce un primo e significativo auto-riconoscimento di Dioniso nella figura dello Iacco eleusino. § 2.3 Dioniso messo alla prova: fra l’Eracle καρτερός e l’Eracle mangione Gli incontri successivi che fanno Dioniso e Xantia, ormai giunti di fronte alla porta di Plutone (indicata dagli iniziati stessi, che confermano anche in questo modo il loro fondamentale ruolo di guida anticipato da Eracle), possono essere interpretati come una serie di ‘prove’ a cui Dioniso viene sottoposto prima di assumere, in quanto dio del teatro, il compito di giudicare la contesa fra Eschilo e Euripide. Tali prove si articolano in quattro scene: nella prima (vv. 464-502) un personaggio generalmente identificato con Eaco,792 nel ruolo di portinaio, scambiando Dioniso per Eracle, lo mi-
792 Benché sia il Ravennate sia il Parisino Regio 2712 presentino la nota personae Αἰακός, il Veneto Marciano 474 indica per il personaggio soltanto Θεράπων; se a questo si aggiunge l’incertezza degli scoli circa l’identificazione con Eaco (cf. la discussione in Perrone (2006), 201), si comprende la scelta di Dover di congetturare un θυρωρός; Del Corno accetta l’identificazione tradizionale, così come Wilson, seppur con qualche dubbio. La questione è ricostruita in Edmonds (2004), 148, nota 116, dove si propende per lasciare indeterminato il nome di questo personaggio. In Platone Eaco è nominato fra i giudici dell’Ade (cf. Ap. 41a; Gorg. 523a) insieme con Minosse e Radamanti, nel contesto del giudizio delle anime nell’aldilà; sulla relazione di quest’ultimo con la tradizione orfica, cf. Graf (1974), 107-120, relazione messa recentemente in discussione da Bernabé in un articolo dal titolo Judges in Hades from Homer to Plato (in corso di stampa), dove si esclude una specifica presenza del giudizio delle anime nelle testimonianze orfiche più antiche (per esempio, la lamina di Ipponio) e si riconduce tale credenza a dottrine sviluppatesi in Italia meridionale (l’articolo prende altresì in esame le testimonianze platoniche al riguardo). In ogni caso, Aristofane, benché si appropri in parte della dottrina relativa a pene e ricompense nell’aldilà, non fa menzione di giudici e il personaggio di Eaco, sebbene, se è lui, in qualche modo sottoponga Dioniso e Xantia alla pena delle frustate, non è mai associato al giudizio delle anime. Il suo ruolo è piuttosto quello di portinaio, di
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naccia di sottoporlo alle peggiori torture per punirlo del furto di Cerbero; nella seconda (vv. 503-548) uno dei servi (o delle serve)793 di Persefone invita Dioniso a un banchetto all’interno del palazzo con toni ben diversi da quelli del portinaio. Dioniso, prontissimo a disfarsi della clava e della pelle di leone di fronte alle minacce di Eaco, costringe invece Xantia a restituirgliele di fronte alla prospettiva di un banchetto. Nella terza scena (vv. 549-604), tuttavia, Dioniso-Eracle è nuovamente aggredito, questa volta dalle ostesse che accusano l’eroe di avere loro trafugato un’enorme quantità di cibo, minacciando ora di rivolgersi a Cleone per processarlo. Al ritorno di Eaco sulla scena, Dioniso rifiuta nuovamente l’identità di Eracle, affermando di essere Dioniso in persona, ma viene ugualmente sottoposto, insieme con Xantia, alle frustate. Eaco, infine, non riuscendo a decidere quale sia la vera identità dei personaggi che ha di fronte, si rimette al giudizio di Plutone (vv. 605-674). Secondo l’analisi di Ismene Lada-Richards, queste scene corrisponderebbero a altrettante fasi nel percorso di integrazione di Dioniso nella πόλις, configurandosi come «initiatory ordeals», 794 il cui modello religioso di riferimento sarebbe soprattutto quello orfico-dionisiaco, poiché ciò di cui Eaco minaccia Dioniso è quello stesso σπαραγμός a cui il dio bambino sarebbe stato sottoposto dai Titani (vv. 469-478).795 Dal punto di vista poi del percorso di Dioniso verso l’acquisizione di un’identità civica, le scene in questione rappresenterebbero, secondo la studiosa, un progressivo allontanamento di Dioniso, ormai sulla ‘retta via’, dalla dimensione ‘selvaggia’ estranea alla πόλις: come la cattura di Cerbero da parte di Eracle (vv. 465-469), interpretata secondo lo schema dello scontro a corpo a corpo a mani nude fra uomo e bestia, rifletterebbe uno stato ancora semi-ferino a cui Dioniso ora mostrerebbe di volersi sottrarre, analogo discorso varrebbe per il suo reiterato rifiuto di interpretare un Eracle che le ostesse rappresentano come βία incontrollata e incivile, noncurante di ogni legge della guardiano di Cerbero, nello specifico (v. 469). Se vogliamo sostenere l’identificazione, questa può sussistere in relazione alla tradizione che fa di Eaco il πάρεδρος di Ade e Persefone, come avviene per esempio in Isocrate 9.15. Quanto a Dioniso, questi rivestirà, nel finale della commedia, il ruolo di giudice nell’agone fra Eschilo e Euripide, nel contesto che più gli si addice, quello del teatro e del ruolo di quest’ultimo nella vita della città. 793 Wilson segnala nel suo apparato l’incertezza se si tratti di θεράπων o θεράπαινα, optando per quest’ultima; nell’edizione di Del Corno compare come οἰκέτης. 794 Le minacce di Eaco e la loro successiva effettiva realizzazione come frustate rientrerebbero nel modello del “rito di passaggio”; cf. Lada-Richards (1999), 70-78. 795 Cf. Lada-Richards (1999), 94-98; sulla relazione fra il mito orfico dello σπαραγμός di Dioniso e le minacce di Eaco, cf. anche Riu (1999), 120.
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ξενία. L’unica circostanza in cui Dioniso accetta di interpretare il ruolo di Eracle è infatti quella conviviale del banchetto nel palazzo di Plutone: il simposio rappresenta una delle massime espressioni della ‘vita civile’ regolamentata dalla πόλις, in cui Dioniso intenderebbe finalmente integrarsi.796 Questa interpretazione, senz’altro capace di dar ragione di quasi tutti i passaggi in cui si articolano queste scene, difetta tuttavia per la mancata presa in considerazione dell’invece necessaria prospettiva metateatrale: Dioniso, ricondotto dal coro delle rane e degli iniziati alla sua identità ateniese, deve ora dimostrare di essere capace anche e soprattutto di essere il dio del teatro. I personaggi che incontra possono infatti essere visti come altrettanti personaggi di commedia, che, portandolo all’interno di ‘scene comiche’, lo costringono a mettersi alla prova come interprete di commedia, laddove l’agone sarà incentrato sulla sua qualità di giudice di tragedia.797 L’incipit della commedia, dedicato alla discussione sulle cattive condizioni in cui versa il teatro comico contemporaneo (cf. qui sopra, § 1.1), giudicato secondo buone intenzioni che Dioniso non sa però realizzare, era appunto incentrato sul cattivo gusto delle battute a doppio senso sui bisogni intestinali: rispetto al prologo Dioniso, defecando sulla scena in risposta alle minacce di Eaco, rende ancora più greve la sua immedesimazione in un personaggio comico, passando, per così dire, dalle parole ai fatti. Eppure occorre osservare un mutamento rispetto al prologo, poiché quel volgare espediente appare in questa scena rifunzionalizzato: con il suo ἐγκέχοδα˙ κάλει θεόν (v. 479) Dioniso ‘commenta’ infatti la rappresentazione del suo σπαραγμός, quasi volesse prendere le distanze dai referenti religiosi orficodionisiaci delle minacce di Eaco. Allo stesso tempo però Dioniso, per evitare la tortura descrittagli da Eaco, rifiuta di recitare il ruolo di Eracle proprio nel momento in cui gli si richiede 796 Cf. Lada-Richards (1999), 173-215. 797 D’altra parte i due aspetti si intersecano, considerando per esempio il generale tono paratragico delle parole di Eaco al suo primo apparire in scena, dove gli scoli ci permettono di riconoscere alcune citazioni del Teseo di Euripide (cf. vv. 471-473, per cui cf. Perrone (2006), 201-203; maggiori dubbi sulla presenza di una specifica parodia euripidea sono espressi, sulla scorta di Rau e Kannicht, in Mastromarco, Totaro (2006), 606), nonché, secondo le osservazioni in LadaRichards (1999), 190-191, un’allusione alla morte di Eracle nelle Trachinie di Sofocle (cf. in particolare la relazione fra Ran. 474 e Trach. 777-778). Viceversa, nell’agone, sebbene si tratti di giudicare la tragedia, Dioniso «intensifica e consolida i suoi legami con la Commedia», intesa come capace di elevarsi di tono e di argomento; cf. Lada-Richards (1999), 321-325.
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di essere καρτερός, ossia di interpretare il personaggio dell’eroe nel suo aspetto più nobile di vincitore sui mostri, aspetto a cui Aristofane era ricorso, nella parabasi delle Vespe (vv. 1030-1037) e della Pace (vv. 752-759), per rappresentare la sua propria lotta contro Cleone.798 Il rifiuto da parte di Dioniso di essere Eracle καρτερός lo farà così precipitare in un’altra situazione da ‘bassa’ commedia, quella ben più squallida di recitare il ruolo di Eracle ‘mangione’. Le parole di Eaco possono dunque essere lette su due piani diversi seppure intrecciati fra di loro: da una parte come un invito a Dioniso a far proprio il coraggio di Eracle, cosa di cui il dio non si rivela capace, e, allo stesso tempo, a un livello più profondo, come allusione allo σπαραγμός di Dioniso, che diventa così il segnale del passaggio a una serie di scene da ‘bassa’ commedia. La scena immediatamente successiva, dove appunto Dioniso-Eracle viene invitato a partecipare a un lauto banchetto, insiste sul motivo comico, più volte censurato da Aristofane come appartenente anch’esso a quel tipo deprecabile di comicità φορτική (“da facchini”), della rappresentazione di Eracle come ‘ingordo mangione’.799 Il fatto che Dioniso pretenda che Xantia gli renda il costume da Eracle solo nel momento in cui si tratta di man798 Cf. Lada-Richards (1999), 176-179, dove si insiste sul tema della violenza selvaggia di Eracle, forza bruta priva di astuzia e intelligenza, che, in quanto estranea alla dimensione civica della πόλις, non può che essere rifiutata da un Dioniso che si avvia a integrarsi pienamente nella comunità dei cittadini. Occorre tuttavia osservare che Eaco non sembra insistere tanto sulla forza quanto sulla fulmineità della cattura di Cerbero (cf. Del Corno (2006), 183), senza soffermarsi nello specifico sull’immagine della lotta a corpo a corpo: cf. v. 468, dove la rapidità del tutto è sottolineata dall’accumulo dei participi con i due soli verbi finiti ἀπῇξας e ᾤχου); Eaco conclude il suo breve racconto con le parole ὃν ἐγὼ ᾽φύλαττον (v. 469). Il fatto che Eaco metta l’accento su quel “che io stesso custodivo” implica tra l’altro che Eracle, oltre che con la forza, abbia compiuto la sua impresa facendo uso dell’astuzia per aggirare la sorveglianza del portinaio. Eracle, nelle sue imprese, infatti, alterna normalmente smisurata forza e astuzia odissiaca: anche l’aspetto più selvaggio del suo modo di combattere non deve far dimenticare che egli resta sempre, proprio in virtù di quelle lotte, ‘eroe civilizzatore’ (un ruolo che, nella tradizione attica, Eracle divide con Teseo e non è infatti un caso che in questi versi gli scoli segnalino citazioni dal Teseo di Euripide, cf. qui sopra, nota 797). 799 Che per Aristofane tale svilimento dell’eroe in commedia fosse censurabile lo dimostra l’insistenza con cui in Vesp. 60 menziona fra “gli scherzi rubati a Megara” “Eracle defraudato della cena” e in Pax 741 fra le buffonerie volgari di cui Aristofane stesso avrebbe epurato la scena comica gli “Eracli impastatori e perennemente affamati”. Tali ‘censure’ sono tanto più significative in quanto nella parabasi di queste due commedie Eracle è il modello mitico di Aristofane stesso nella sua lotta contro Cleone.
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giare dimostra nuovamente come il dio del teatro non sia ancora pienamente capace di recitare in una ‘buona’ commedia.800 È tuttavia significativo, nella prospettiva della presente analisi, che il successivo, reiterato rifiuto del costume di Eracle avvenga laddove la ‘girandola’ di situazioni comiche in cui Dioniso e il suo servo vengono calati tocca il suo punto più basso: il violento furto di cibo di cui due ostesse accusano Eracle si configura senz’altro come uno di quei τόποι comici relativi appunto al personaggio di Eracle ‘mangione’, gli effetti della cui voracità smisurata sono qui esagerati e portati alle estreme conseguenze. Per sottolineare ulteriormente lo squallore della situazione, le ostesse invocano come loro rispettivi patroni Cleone e Iperbolo (vv. 569-570), la cui pessima condotta in vita li rende degni di far parte di una tale scena. Anche qui ritorna il motivo dello σπαραγμός (ἵν᾽ αὐτὸν ἐπιτρίψωμεν, v. 571), calato appieno in un contesto φορτικός e ulteriormente ridicolizzato da Aristofane con l’auspicio di una delle due ostesse, immediatamente dopo le tremende minacce di morte, che Cleone “quereli” Eracle (cf. vv. 577-578).801 Se è ancora la viltà a indurre Dioniso a abbandonare nuovamente il costume di Eracle, questa volta il suo rifiuto appare anche come rifiuto dell’estremo svilimento del genere comico, nonché di quel mito dello σπαραγμός, in cui evidentemente non si vuole riconoscere. Quando ritorna
800 Per l’interpretazione del banchetto a cui il servo o la serva di Persefone invita Dioniso come basato sul modello del banchetto sacrificale e, allo stesso tempo, del simposio, cf. Lada-Richards (1999), 200-215. Che si debba considerare censurabile il comportamento di Dioniso nel pretendere che Xantia gli renda il costume da Eracle solo di fronte alla prospettiva di un banchetto è sottolineato dal coro, che lo paragona a Teramene (v. 541, su cui cf. Mastromarco, Totaro (2006), 612-613, nota 84), l’opportunista per eccellenza, il cui soprannome di “Coturno” si adatta tra l’altro all’abbigliamento di Dioniso, che indossa appunto dei coturni. Il fatto tuttavia che Dioniso rifiuti di interpretare il ruolo di ‘Eracle mangione’ quando il τόπος viene ulteriormente degradato nel volgare furto di cibo della scena successiva è senz’altro interpretabile come un segnale metateatrale del suo progressivo miglioramento nella capacità di valutare le rappresentazioni teatrali e agire all’interno di esse. 801 Le ostesse definiscono il comportamento di Eracle con le parole μαίνεσθαι δοκῶν (v. 564): la μανία connota qui la distruzione e l’abbandono di ogni forma di civiltà; non possiamo non pensare a una μανία dionisiaca, come avviene nell’Eracle di Euripide, dove la follia omicida dell’eroe viene descritta mediante il ricorso a immagini dionisiache (cf. vv. 878-895). Se dunque Dioniso nel prologo afferma di amare la poesia di Euripide μἀλλὰ πλεῖν ἢ μαίνομαι (v. 103), la volgare scena delle ostesse con Eracle mangione protagonista costituisce la sede più adeguata, sempre secondo un meccanismo di tipo metateatrale, all’evocazione di una μανία dionisiaca secondo la concezione euripidea.
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§ 2 La catabasi: l’identità ateniese di Dioniso fra Antesterie, Misteri di Eleusi e Lenee
sulla scena Eaco per sottoporre Eracle-Xantia alla pena per il furto di Cerbero, Dioniso ostenta tranquillità nella convinzione di essere ormai fuori pericolo, ma Xantia, da vero servus callidus, propone a Eaco di sottoporre il suo ‘servo’ Dioniso a una sorta di ordalia per giudicare la reale colpevolezza del padrone: ancora una volta si prospetta per Dioniso uno σπαραγμός (vv. 618-622), ma, questa volta, il dio risponde rivendicando di essere appunto ἀθάνατος (vv. 629; 631).802 Dioniso contrappone dunque esplicitamente la sua qualità di “immortale” alla possibilità di essere ‘fatto a pezzi’ e riconosce finalmente la sua vera identità (v. 631), ἀθάνατος εἶναί φημι, Διόνυσος Διός, usando le stesse parole con cui le rane lo invocavano nel loro canto (cf. v. 216, Διὸς Διόνυσον): Aristofane distingue nettamente l’identità del suo Dioniso, calata nel contesto cultuale di Atene, da quelle dottrine lontane dall’ortodossia che ne raccontavano la morte per σπαραγμός e poi la successiva rinascita.803 802 Cf. al riguardo Santamaría (2015), 131-132, dove, sulla scorta di un’osservazione di Edmonds, si menziona, per il «test d’identità» di Dioniso, il parallelo delle lamine orfiche sia per l’affermazione di immortalità del dio (cf. frr. 488-490.3 Bernabé) sia per la decisione di Eaco di consultare Ade e Persefone circa l’immortalità o meno del presunto Dioniso (vv. 671-672, per cui si rimanda alla lamina di Ipponio, fr. 474.13 Bernabé). Osserviamo tuttavia non solo lo svilimento del test di identità a una scena di bastonate (una delle forme più degradate di commedia secondo Aristofane, cf. avanti, nota 804), ma anche come l’affermazione di immortalità da parte di Dioniso si inserisca all’interno di uno specifico percorso inerente alla commedia stessa, che vede il ‘ritorno’ del dio all’interno di un sistema religioso di riferimento – quello eleusino – di cui fanno parte anche Ade e Persefone: se l’incontro con gli iniziati e l’auto-riconoscimento rappresentano due tappe fondamentali, il pieno recupero dell’identità del dio si avrà solo con la definitiva scelta di Eschilo al termine dell’agone. 803 Sulla possibilità che l’evocazione del mito dello σπαραγμός di Dioniso sia da ricondurre alle Lenee stesse, una delle cui formule rituali è esplicitamente citata al v. 479 (cf. qui sopra, § 2.2.5), cf. Lada-Richards (1999), 94-97. Questa ipotesi sarebbe giustificata dal fatto che un ληναΐζοντας, riferito ai poeti che partecipavano agli agoni lenaici in un passo del Protrettico di Clemente Alessandrino (I.2.2), sia spiegato dallo scoliasta con la menzione di una ἀγροικικὴ ᾠδὴ ἐπὶ τῷ ληνῷ ᾀδομένη relativa appunto allo σπαραγμός di Dioniso. D’altra parte non è detto che le Lenee, celebrate nel mese di Gamelione (gennaio-febbraio), mantenessero nel V sec. a.C. un eventuale originario legame con la vendemmia e con il momento della pigiatura dell’uva interpretato come uno σπαραγμός del dio (se mai tale legame ci fu). Le testimonianze iconografiche (citate dalla Lada-Richards), in cui Dioniso compare sotto forma di maschera (cf. LIMC, III, 426-427, nn. 29-43) non necessariamente rappresentano il suo corpo smembrato. In ogni caso, sebbene non possiamo escludere un mito dionisiaco di morte e resurrezione del dio all’origine di feste come le Lenee o le Antesterie stesse, non possiamo essere certi che in età classica il significato di tali feste fosse così percepito. Sul ‘tabù della morte’ relativo alla divinità in età classica, cf. Sandin (2008).
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Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
Dioniso non riesce a evitare le frustate, in una comica gara di resistenza con il suo servo Xantia per dimostrare chi dei due sia capace di sopportarle meglio e sia quindi il vero dio, e che Dioniso prenda delle frustate nel momento in cui interpreta la parte di uno schiavo è certo coerente, dal punto di vista comico; d’altra parte, il suo essere degradato in una condizione servile trova anche una rispondenza nei modelli divini e religiosi che la commedia presenta come positivi: sia Eracle sia Demetra (strettamente legati fin dal prologo, cf. qui sopra, § 1.2.1) si trovano infatti nella loro vicenda mitica a ‘servire’ padroni a loro ovviamente inferiori.804 Come Eracle, inoltre, è finalmente costretto a tirare fuori quel coraggio di cui si era dimostrato privo fin dall’inizio della commedia. Se dunque affrontare il supplizio di uno schiavo avvicina Dioniso a quegli stessi modelli che si identificano come punti di riferimento religiosi e culturali del teatro e della πόλις, il modo in cui riesce a far fronte al supplizio in questione è degno del dio del teatro: a ogni esclamazione di dolore (“per Apollo”, v. 659; “per Posidone”, v. 664) che gli strappa Eaco, Dioniso riesce a collegare una citazione letteraria, la prima da Ipponatte, come afferma lui stesso, la seconda da Sofocle (dal Laocoonte, TrGF IV F371).805 Sembra che Dioniso, dunque, sia a questo punto sulla via del pieno recupero della sua identità all’interno della πόλις e dei suoi culti, in particolare come dio del teatro. È interessante osservare il fatto che Dioniso ricorra a una citazione proprio di Sofocle – piuttosto che dell’amato Euripide –, quello stesso Sofocle le cui reminiscenze ricorrono come abbiamo visto sia nel canto delle rane sia nella parodo, quasi a segnalare un accordo fra Dioniso e i cori della commedia.
804 Nella parabasi della Pace, subito dopo la menzione degli “Eracli impastatori e affamati” (cf. qui sopra, nota 799), Aristofane ricorda, fra gli esempi di bassa comicità, anche “gli schiavi fuggitivi, ingannatori e bastonati”, oggetto di battute triviali da parte dei compagni di schiavitù (vv. 743-747). Con la scena delle frustate Aristofane insiste dunque sul motivo del φορτικόν dominante nella scena delle ostesse, ma, allo stesso tempo, lo rifunzionalizza, trasformandolo da occasione di battute volgari fra schiavi in una sorta di ‘prova iniziatica’, che dimostri la sua capacità di rientrare appieno nel suo ruolo di dio del teatro. Sulla possibile allusione alle Baccanti di Euripide in questa scena, cf. Lada-Richards (1999), 315-321; su Demetra, degradata al ruolo di vecchia schiava, come «prototype initiand», 97-98. 805 Sui problemi filologici connessi con queste due citazioni, cf. Mastromarco, Totaro (2006), 624-625, note 100-101; sulla citazione al v. 659, cf. Bossi (2003), 27-31.
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§ 3 L’agone
§ 3 L’agone806 § 3.1 Due Weltanschauungen a confronto: Eschilo vs. Euripide § 3.1.1 L’insegnamento dei poeti Nel corso dei capitoli precedenti abbiamo più volte ricordato come il fulcro dell’agone delle Rane fra Eschilo e Euripide consista nella contrapposizione fra due diversi modi di concepire l’utilità civica della poesia nell’ambito della πόλις: Euripide conviene bensì con Eschilo che compito del poeta sia rendere migliori i cittadini (vv. 1009-1010), ma dal suo punto di vista tale miglioramento consiste nel volgere la loro attenzione sui temi ‘privati’, relativi all’οἶκος, che rendono possibile, in virtù della loro vicinanza allo spettatore (gli eroi stessi del mito sono rappresentati come personaggi comuni), lo sviluppo di capacità sottili di ragionamento (λογισμός) e analisi (σκέψις, cf. vv. 959-979).807 Dal punto di vista religioso, questo comporta la ricerca di forme di religiosità a loro volta ‘private’, connotabili talora come ‘straniere’ e in ogni caso lontane dall’ortodossia e dai culti ufficiali della πόλις (anche nelle loro forme più individualistiche, come i Misteri di Eleusi). La critica alla poesia euripidea da parte di Eschilo si rivolge così alle dannose conseguenze di questa concezione della tragedia, che si risolvono nello straniamento progressivo del cittadino dalla vita comunitaria della πόλις. Come abbiamo osservato a proposito del prologo delle Tesmoforiazu806 Al termine della scena delle frustate inizia la parabasi, incentrata su temi politici affrontati in una prospettiva verosimilmente influenzata dai valori della religiosità eleusina (cf. qui sopra, § 1.2.3), a cui segue un dialogo fra uno schiavo di Plutone e Xantia, che definitivamente ritorna alla sua condizione servile (vv. 738-813). Nella parabasi il coro afferma la necessità di riconoscere la cittadinanza agli schiavi che abbiano combattuto alle Arginuse (vv. 693-696), il che è congruente con l’apertura dei Misteri di Eleusi anche agli schiavi, ma, allo stesso tempo, invita, in nome di quella stessa ideologia eleusina, a non dimenticare i cittadini συγγενεῖς, lasciandoli nell’ἀτιμία (vv. 697-702). Quello che occorre innanzitutto preservare è dunque la comunità dei cittadini συγγενεῖς, che si riconoscono nella πόλις e nelle sue tradizioni; l’emancipazione degli schiavi si rende opportuna nel momento in cui essi abbiano dimostrato di essere capaci di servire la πόλις nei momenti di crisi. Sul problema dei rapporti fra padroni e schiavi nelle Rane alla luce degli eventi connessi con la battaglia delle Arginuse, cf. anche Edmonds (2004), 154-156. 807 Nella convinzione che il poeta sia per i suoi concittadini come il διδάσκαλος per i bambini, Euripide menziona fra i suoi allievi Teramene (v. 967), la cui connotazione negativa è quindi confermata e giustifica l’interpretazione offerta qui sopra del v. 541 (cf. qui sopra, nota 800).
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Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
se (cf. qui sopra, cap. V.1.1), i sottili ragionamenti euripidei (specialmente a partire dalle “escape-tragedies”), piuttosto che sviluppare il senso critico, hanno come risultato quello di rendere gli spettatori “sordi e ciechi”: nelle Rane questo concetto è rielaborato da Eschilo, in una più ampia prospettiva civica, come abbandono delle palestre da parte dei giovani, ormai interessati solo alla vuota chiacchiera, e come disobbedienza dei marinai verso i superiori (vv. 1069-1073), quindi come disinteresse generale verso il bene comune. Eschilo contrappone a tale disastrosa παιδεία la sua arte orientata invece proprio verso la πόλις:808 l’insistenza sul tema della guerra, al di là della necessaria esagerazione comica, è qui infatti funzionale a esprimere l’ideologia che si identifica con il passato glorioso di Atene, celebrato nei Persiani, che quasi si confonde con l’ispirazione omerica di tragedie come i Mirmidoni.809 La rappresentazione di Eschilo come il poeta delle guerre persiane significa avvicinarlo ulteriormente, dal punto di vista religioso, sia alla figura di Eracle sia alla religiosità eleusina: se infatti alla vittoria di Salamina era legato l’intervento provvidenziale delle divinità di Eleusi (cf. qui sopra, nota 723), quella di Maratona sarebbe stata conquistata nel segno di Eracle (cf. Herod. V.108.1; 116.1; Paus. I.15.3). Non a caso Eschilo invoca Demetra stessa (vv. 886-887), prima di iniziare l’agone, in accordo con la prospettiva civica della sua poesia, laddove Euripide si rivolge a ἰδιῶται θεοί (v. 891), il cui carattere ‘privato’ si riflette nella tendenza della sua poesia a allontanarsi dalla πόλις e dalle sue tradizioni (sulle preghiere prima dell’inizio dell’agone, cf. qui sopra, cap. I.1.1.1). 808 Sulla contrapposizione, nelle Rane, fra Eschilo, ispiratore della coesione civica di Atene, e Euripide, interessato piuttosto al mondo privato dell’οἶκος, cf. LadaRichards (1999), 221-233. Per una riflessione sulla fortuna, nella tradizione della critica letteraria antica, della rappresentazione che le Rane fanno di Euripide come il poeta degli οἰκεῖα πράγματα, cf. Hunter (2009), 17-22; 29-36. 809 Il tema omerico è associato alla figura di Eschilo sia per mezzo di paragoni di quest’ultimo a eroi omerici, come per esempio Achille (v. 911), sia per mezzo di insistiti riferimenti a tragedie eschilee il cui argomento sia connesso alla guerra di Troia o semplicemente a eroi omerici (vv. 928; 1041; 1264; 1269-70; 1276; 1284-85; 1289; 1294, con citazioni tratte, laddove siano riconoscibili i drammi di provenienza, soprattutto da Mirmidoni e Agamennone). Per una riflessione sulla rappresentazione dei personaggi eschilei secondo l’ideale eroico e individualistico omerico e, allo stesso tempo, lo spirito collettivo della πόλις, cf. LadaRichards (1999), 303-307. Sul significato del paradigma omerico nella poesia di Eschilo secondo l’interpretazione di Aristofane, cf. Hunter (2009), 28-29, a cui rimandiamo per una spiegazione del motivo per cui Eschilo sembri ignorare la riflessione critica precedente sull’‘indecenza’ di Omero, che invece Eschilo rinfaccia a Euripide (cf. vv. 1053-1055).
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§ 3 L’agone
A rafforzare la connotazione eleusina della figura di Eschilo810 vi è anche il suo accordo con il coro degli iniziati, che, per esempio, anticipa esplicitamente l’ideale omerico incarnato da Eschilo ricorrendo due volte (vv. 719; 728) all’espressione καλοί τε κἀγαθοί per indicare quei cittadini ‘messi da parte’ dalla πόλις. Il coro identifica tali cittadini con i χρηστοί (v. 735) e coerentemente definisce χρηστὰ [...] διδάσκειν (vv. 686-687) il suo compito nei confronti della πόλις: ugualmente Eschilo non solo è il poeta dei χρηστοί, suoi estimatori e ‘allievi’ allo stesso tempo (vv. 783; 1011), ma si richiama costantemente alla necessità di χρηστὰ διδάσκειν (vv. 1035, riferito a Omero, diretto modello di Eschilo; 1054-1056; 1062), dove il verbo oscilla sempre fra il significato di “mettere in scena” e “insegnare”.811 Infine, come il coro stabiliva nella parodo la necessità di una sovrapposizione fra cul-
810 Il carattere eleusino di Eschilo emerge anche dal modo in cui Dioniso gli si rivolge al v. 851, ὦ πολυτίμητ᾽ Αἰσχύλε, con lo stesso epiteto che incontriamo nella parodo riferito a Iacco e a Persefone. Per l’ipotesi che la descrizione dei prologhi di Eschilo fatta da Euripide (vv. 911-920), con personaggi silenti e velati, a imitazione del contegno dimesso e sofferente di Demetra stessa secondo l’Inno a Demetra (vv. 194-201), rimandi al rituale eleusino della thronosis, cf. Bowie (1993), 247-248; sebbene sussistano dubbi sull’esistenza di tale rituale a Eleusi (per cui infatti non è attestato un rito con questa denominazione), è comunque sia possibile una relazione fra i personaggi di Eschilo nei prologhi e quella di Demetra nell’inno. Bowie (cf. pp. 248-249) parla d’altra parte della possibilità di vedere anche nella drammaturgia euripidea, in particolare per quel che concerne l’apertura ‘democratica’ della tragedia euripidea a donne, schiavi, vecchi e fanciulle, un riferimento all’egualitarismo eleusino. Abbiamo visto tuttavia qui sopra (cf. nota 806) che questo concetto, se applicato alla πόλις, garantisce fra i cittadini un’uguaglianza che solo in casi particolari può essere estesa agli schiavi: non è un caso che Dioniso consigli a Euripide di non fare appello alla democrazia per giustificare tali innovazioni (vv. 951-952), mettendo ovviamente in luce il malinteso – da quel punto di vista – concetto della democrazia in Euripide (su questo cf. anche Mastromarco, Totaro (2006), 652, nota 152) e il cattivo uso, dannoso addirittura per la πόλις, di un egualitarismo eventualmente riconducibile a Eleusi. 811 Per un’approfondita analisi sulle convergenze ideologiche e i precisi rimandi lessicali fra gli interventi di Eschilo (o la rappresentazione che di lui offrono il coro e Euripide) e quelli del coro (sia quello delle rane sia quello degli iniziati), cf. Biles (2011), 240-255 (sul ruolo educativo del poeta, il tema dei χρηστά e, riguardo alla comune religiosità eleusina di Eschilo e del coro, l’enfasi di Eschilo sull’essere ἄξιος degli ὄργια di Demetra e quindi vincitore dell’agone, v. 887, che richiama la preghiera del coro, sempre a Demetra, per la vittoria, “dopo aver fatto scherzi e beffe τῆς σῆς ἑορτῆς ἀξίως”, vv. 391-393). Inoltre, osserviamo qui che i richiami del coro e di Dioniso (l’accordo di quest’ultimo con il coro conferisce tra l’altro dignità al suo ruolo di arbitro dell’agone) a Eschilo a frenare la sua ὀργή (vv. 844; 856; 998) trovano un riscontro in quelli che il coro stesso rivolge
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Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
to eleusino e contesto dionisiaco degli agoni drammatici (cf. qui sopra, § 2.2), Eschilo è sia il poeta devoto di Demetra, a cui si raccomanda prima di affrontare un agone che possiamo appunto definire ‘drammatico’, sia il Βακχεῖος ἄναξ (v. 1259), il poeta invasato da una μανία dionisiaca (vv. 816-817; cf. in generale i vv. 814-825, dove la rappresentazione di Eschilo, culminante nella metafora del leone, è tutta costruita secondo immagini dionisiache): quest’ultima, come manifestazione propria del dionisismo, trova così nelle Rane la sua definizione più propria nell’ambito teatrale grazie alla figura di Eschilo.812 agli spettatori-cittadini a deporre la loro ὀργή nei confronti di quei cittadini che, pur colpevoli e per questo condannati all’ἀτίμία, meritano comunque sia il perdono in virtù di tutti i servigi da loro resi in passato alla πόλις (v. 700): l’ὀργή in entrambi i casi è piuttosto un ‘giusto sdegno’ che nasce da nobili sentimenti, ma che, nella prospettiva eleusina delle Rane, è opportuno placare per il bene comune. Che l’ὀργή rappresenti in ogni caso un ‘nobile sentimento’ lo dimostrano due passi della parabasi delle Vespe, dove Aristofane ascrive non solo a sé una Ἡρακλέους ὀργή (v. 1030) per descrivere la sua lotta contro Cleone, ma anche una analoga ὀργή al cittadino ateniese al tempo delle guerre persiane (v. 1083): l’ὀργή è dunque quella giusta collera che si rivolge contro coloro che recano danno alla πόλις, come Cleone, i persiani e Euripide stesso. Sulla concordanza (anche a livello formale e perfino metrico) fra le parole di Eschilo e le riflessioni che Aristofane dedica alla propria concezione della poesia, finalizzata innanzitutto al bene della πόλις, nelle parabasi delle sue commedie, cf. Biles (2011), 244-248); sulla ‘componente seria’ della commedia aristofanea quale si esprime nelle riflessioni di poetica sul teatro tragico, cf. Lauriola (2010), 115-141. 812 Il dionisismo di Eschilo consisterebbe principalmente nella sua capacità di alienare da sé lo spettatore, l’esplicita accusa che Euripide gli rivolge ai vv. 961-962, dove a Eschilo viene appunto imputato di “parlare in modo roboante” (κομπολακέω), “impedendo di ragionare” (ἀπὸ τοῦ φρονεῖν ἀποσπάω), e di “sbalordire gli spettatori” (ἐκπλήττω) “portando in scena Cicni e Memnoni dai finimenti sonanti”; Euripide contrappone a tutto questo la propria arte basata bensì sugli οἰκεῖα πράγματα, ma da intendere come sovvertimento dei costumi nell’ambito dell’οἶκος (cf. l’accusa di Eschilo ai vv. 1050 ss.), che corrisponde in ultima analisi al disordine sociale indotto dalla faccia più ‘selvaggia’ di Dioniso; cf. Lada-Richards (1999), 234-247; 257-278). La rappresentazione di Eschilo come Βακχεῖος ἄναξ va comunque sia intesa come la manifestazione del dionisismo nella sua forma più alta all’interno dei culti della πόλις, ossia quelle feste drammatiche in cui l’alienazione dionisiaca trova la sua espressione civica per eccellenza: questo non significa ottenebrare i sensi degli spettatori conducendoli nel vicolo cieco delle sottigliezze euripidee, ma trasmettere, grazie a un’esperienza teatrale totalmente coinvolgente, quei valori capaci di formare davvero i cittadini. Lo spettatore della tragedia eschilea deve lasciarsi trascinare dalla forza dello spettacolo in modo non dissimile da come i misti eleusini affrontavano l’esperienza nel Telesterion, che includeva forse anche un δρᾶμα μυστικόν (cf. Sourvinou-Inwood (2004), 29-33; Sells (2012), 86). Sulla critica di Euripide ai ‘parolo-
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§ 3 L’agone
§ 3.1.2 Il ‘canone’ dei poeti secondo Eschilo La poesia di Eschilo è posta da Aristofane come il punto d’arrivo di una tradizione poetica che affonda le sue radici nel mito e a cui appartengono Orfeo, Museo, Omero e Esiodo, accomunati dal fatto di essersi rivelati ὠφέλιμοι per l’umanità. In particolare, l’oggetto dell’insegnamento di Orfeo è espresso in questi termini (vv. 1030-1032): ταῦτα γὰρ ἄνδρας χρὴ ποιητὰς ἀσκεῖν. σκέψαι γὰρ ἀπ᾽ ἀρχῆς ὡς ὠφέλιμοι τῶν ποιητῶν οἱ γενναῖοι γεγένηνται. Ὀρφεὺς μὲν γὰρ τελετάς θ᾽ ἡμῖν κατέδειξε φόνων τ᾽ ἀπέχεσθαι.813
ni’ di Eschilo “sconosciuti agli spettatori” (vv. 923-938) come segno di una supposta ambiguità di Eschilo rispetto al culto eleusino (ai non parlanti greco era precluso l’accesso ai Misteri), cf. Bowie (1993), 246-247. Eschilo tuttavia non solo riesce a difendersi rinfacciando a Euripide la sua “ignoranza” (v. 933) e facendo appello alla necessità di adeguare il linguaggio all’altezza del soggetto, ma rivendica la sua ispirazione ‘persiana’ con tutto ciò che di mimetico essa comporta, ricordando come i Persiani fossero finalizzati a “insegnare [agli ateniesi, s’intende] a desiderare sempre la vittoria sui nemici” (vv. 1026-1027). 813 Per il ‘canone’ dei poeti secondo Eschilo cf. Plat. Ap. 41a-c, dove Socrate menziona gli stessi quattro poeti come ‘compagni’ con cui chi muore può avere l’occasione di condividere la sorte migliore nell’aldilà, in un discorso finalizzato a contrapporre l’ingiustizia sulla terra al giudizio vero dopo la morte, espresso dai giudici Minosse, Radamanti, Eaco e Trittolemo. Se la presenza dei poeti del ‘canone’ rimanda alle Rane, è evidente che il contesto platonico mira a rappresentare la morte come un bene superiore alla vita. Il ‘canone’ aristofaneo ricompare, ma con importanti modifiche, anche nell’Ars poetica (vv. 391-407) di Orazio, dove l’elenco dei poeti ‘civilizzatori’ comprende Orfeo, Anfione, Omero e Tirteo, suddivisi in due coppie, l’una incentrata sul binomio dolcezza-forza civilizzatrice della poesia (Orfeo-Anfione), l’altra sul ruolo della poesia nell’eccitare gli spiriti guerreschi (Omero-Tirteo). Sulla congruenza della rappresentazione oraziana di Orfeo con quella aristofanea (sacer interpresque deorum e poeta civilizzatore, che pose fine alle caedes e al victus foedus, cf. i φόνοι aristofanei), cf. Graf (1974), 34-36; cf. al riguardo anche Hunter (2009), 50-51. Se d’altra parte Aristofane associa a Orfeo la figura di Museo, più direttamente legata a Eleusi, Orazio, che ricorda anche il potere della poesia di Orfeo di placare le belve, fa seguire alla menzione di Orfeo quella di Anfione, che riuscì a smuovere i sassi per costruire le mura di Tebe, recependo dunque bensì Aristofane ma anche Euripide (sull’Antiope, cf. qui sopra, cap. IV.1); cf. al riguardo Hunter (2009), 51. Se teniamo presente la possibilità che l’Anfione euripideo fosse espressione di una religiosità orfico-dionisiaca (cf. qui sopra, cap. IV.1), si spiega perché Aristofane lo escluda dal suo elenco, volto piuttosto a rafforzare i legami di Orfeo con Eleusi. Sulla possibilità di scorgere nell’agone delle Rane una parodia dell’agone dell’Antiope fra i fratelli Zeto e Anfione, corrispondenti, rispettivamente, a Eschilo e Euripide, cf. Rubatto (1998), 49-54.
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Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
Se le τελεταί che immediatamente sono da ricondurre a Orfeo fossero quei culti orfico-dionisiaci che abbiamo ritenuto oggetto di interesse specifico soprattutto delle tragedie di Euripide, dovremmo qui ricondurre quella particolare religiosità anche all’eleusino Eschilo. D’altra parte, secondo la verosimile ipotesi di Fritz Graf, è molto probabile, dato lo sfondo coerentemente eleusino delle Rane, ipotizzare qui un’allusione a quel poema orfico, sorto però in ambito eleusino, in cui la vicenda del ratto di Persefone e della ricerca di Demetra era messa in relazione con il dono dell’agricoltura a Trittolemo e quindi con la fine per gli uomini di una vita ferina (caratterizzata perfino dal cannibalismo; da qui la fine dei φόνοι, ossia dei delitti e, in generale, dello spargimento di sangue814). Le τελεταί in questione potrebbero quindi essere identificate con i Misteri eleusini stessi:815 non è un caso che Aristofane usi il verbo καταδείκνυμι, riecheggiando il δεῖξε […] δρησμοσύνην […] ἱερῶν dell’Inno a Demetra (vv. 474-476), che ha per soggetto Demetra stessa; il preverbio κατα- sembra infatti implicare in qualche modo una mediazione, quella appunto del poeta (mediatore negativo è invece Euripide nelle parole di Eschilo, v. 1079), rispetto al verbo semplice
814 Sebbene il riferimento ai φόνοι possa essere ricondotto al divieto di spargimento di sangue delle vittime sacrificali per consumarle e quindi a pratiche connesse con l’orfismo (cf. Bernabé (2009c), 1232), possiamo anche riconoscere nell’espressione dell’Eschilo aristofaneo un più generale riferimento al processo di civilizzazione, anche a livello alimentare, portato dall’agricoltura. Orazio, in Ars poet. 391-392, riecheggiando il passo delle Rane, parla infatti di un Orfeo che silvestres homines […] caedibus et victu foedo deterruit, dove quel victu foedo, quasi esplicativo di caedibus, sembra far pensare, piuttosto che allo specifico divieto orfico del sacrificio animale e del conseguente consumo di carne, alla fine di pratiche alimentari primitive e precedenti all’introduzione dell’agricoltura (consumo di carne cruda, cannibalismo, ecc…). 815 Cf. cap. III.4.1 per una discussione sui frammenti riconducibili a questo poema orfico-eleusino. Secondo Graf (1974), 162-165, ci troveremmo di fronte a «una tradizione orfica che va al di là di Eleusi, ma che è nettamente da dividere da quella degli inni orfici», secondo cui Persefone è la madre di Dioniso-Zagreo: il contributo fondamentale apportato dalla prima sarebbe consistito nel diffondere una versione del mito demetriaco in cui si trattava principalmente della gratitudine della dea per i servigi dei figli del suo ospite, Dysaules, Trittolemo e Eubuleo, che consentì all’umanità di ricevere il dono del grano. Questa versione del mito, volta a valorizzare Eleusi e, conseguentemente, Atene come sede della nascita dell’agricoltura e quindi della civiltà, non sembra aver comportato l’inserimento in quella tradizione di quel complesso di dottrine legate piuttosto alla sfera del culto orfico-dionisiaco.
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della versione omerica.816 Una conferma del fatto che la rappresentazione aristofanea di Orfeo sia appunto determinata dalla ‘propaganda’ attica relativa alla nascita dell’agricoltura e all’istituzione dei Misteri di Eleusi sembra suggerita dai nomi stessi che seguono quello di Orfeo, ossia Museo, la cui relazione con Eleusi è ampiamente attestata,817 e Esiodo, a cui si attribuisce l’avere insegnato (sempre κατέδειξε) le tecniche agricole, possibili soltanto grazie all’uscita degli uomini dallo stato ferino, dovuta alla poesia di Orfeo, il cui tema ‘civilizzatore’ si ricollega così alla poesia esiodea. D’altra parte, Eschilo è anche l’autore che con la Licurgia aveva portato in scena un tragico contrasto fra Dioniso e Orfeo, riportando quest’ultimo, a quanto pare, entro la sfera di influenza apollinea (cf. qui sopra, cap. IV.2.1.2): la trilogia in questione era incentrata verosimilmente su una profonda riflessione sul dionisismo, rappresentato nei suoi aspetti più selvaggi 816 L’espressione τελετὰς καταδεῖξαι (che Graf osserva come abbia progressivamente acquisito il valore di «espressione tecnica per l’istituzione di un culto») si adatta bene a Eleusi, poiché il ‘vedere’ in quanto risultato di un ‘mostrare’ rappresenta in quel culto il momento centrale della rivelazione, cf. Graf (1974), 28-33; a conferma del rapporto fra il passo aristofaneo e l’istituzione dei Misteri di Eleusi vengono menzionati inoltre da Graf altri due testi, l’orazione Contro Aristogitone (di cui è messa in discussione la paternità demostenica) e i vv. 941-945 del Reso (pseudo-)euripideo. Nel primo la definizione di Orfeo come ὁ τὰς ἁγιωτάτας ἡμῖν καταδείξας (25.11) riecheggia direttamente Aristofane (v. 1032) e sarebbe da riferire ai Misteri di Eleusi in virtù del superlativo ἁγιωτάτας (forse ancor più significativo è in questo senso il dativo ἡμῖν, se questo si riferisce a “noi ateniesi”). Nel secondo, la Musa, madre di Reso, accusa Atena di avere favorito l’assassino del figlio, nonostante che Orfeo, cugino di quest’ultimo, si fosse rivelato benemerito nei confronti di Atene per la fondazione dei Misteri: il verbo usato, δείκνυμι (μυστηρίων τε τῶν ἀπορρήτων φανὰς / ἔδειξεν), sembra rafforzare il legame con il passo dell’inno omerico. Si profila dunque a Atene il tentativo di appropriarsi della figura di Orfeo come autorità poetica garante del principale culto misterico attico e quindi dei due principali doni della dea, l’agricoltura e le sacre τελεταί (su questa rappresentazione di Demetra nella ‘propaganda’ attica, cf. per esempio Isocr. Pan. 28; inoltre qui sopra, cap. III.4.1), secondo una tradizione in parte divergente da quella che voleva il cantore tracio all’origine dell’istituzione in particolare dei riti relativi a Dioniso; Diodoro Siculo, poi, fondendo le diverse tradizioni, lo rappresenta associato sostanzialmente a ogni culto misterico (cf. I.23.2; I.96.2-4; V.75.4; V.77.3). Per una raccolta delle testimonianze che legano la figura di Orfeo ai Misteri di Eleusi, cf. tt. nn. 510-518 Bernabé. 817 Cf. Graf (1974), 16-20. Menzioniamo qui anche Diod. Sic. IV.25.1 e, ancora più significativamente, il passo del Reso citato qui sopra (nota 816), dove la Musa fa seguire al nome di Orfeo, poeta benemerito di Atene in quanto ‘fondatore’ dei Misteri di Eleusi, proprio quello di Museo, definito addirittura σεμνὸν πολίτην (v. 946), la cui sacralità per Atene, di cui è reso addirittura cittadino, deriva ovviamente dal suo legame con i Misteri.
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che culminavano nell’assassinio, per mano delle bassaridi, di Orfeo stesso. Non è inoltre da escludere che proprio all’intervento di Apollo fosse dovuto un processo di civilizzazione del culto dionisiaco.818 Possiamo quindi ipotizzare che, sullo sfondo della menzione di Orfeo, sia da scorgere anche questo scenario, coerente, se poniamo così la questione, con l’evoluzione ‘civica’ del Dioniso aristofaneo. § 3.1.3 Immoralità e religiosità euripidea Se dunque i valori politici, sociali e religiosi della πόλις trovano la loro massima espressione in Eschilo, la poesia di Euripide sembra piuttosto mettere a repentaglio l’unità della città e favorirne così la disgregazione. Abbiamo rilevato qui sopra come la riduzione del mito a οἰκεῖα πράγματα e l’istigazione alla σκέψις e al λογισμός siano in questo senso decisivi. D’altra parte anche la concezione religiosa di Euripide, che, come abbiamo visto nel cap. I, è per Aristofane un problema più ampio che una questione di mero ateismo e negazione delle divinità tradizionali, agisce come forza distruttiva e disgregante. Considereremo ora i passaggi dell’agone in cui il problema specificamente religioso della tragedia euripidea sembra emergere con più forza. Come abbiamo rilevato riguardo alla parodo delle Tesmoforiazuse (cf. qui sopra, cap. V.2), il tema della corruzione dei costumi e quello della corruzione della religione, indotte dalla tragedia euripidea, sono strettamente connessi: nelle Rane Eschilo riproduce lo stesso modello di analisi quando si rivolge a Euripide, prima dell’inizio dell’agone, con le parole ὦ Κρητικὰς μὲν συλλέγων μονῳδίας, / γάμους δ᾽ ἀνοσίους εἰσφέρων εἰς τὴν τέχνην (vv. 849-850). La poesia di Euripide è quindi fin da subito associata a un contesto straniero, cretese, che implica la corruzione della musica (μονῳδίας) e dei costumi (γάμους ἀνοσίους, con rifermento a personaggi come Pasifae o Fedra stessa819). Poiché tale corruzione è connotata in senso religioso dall’aggettivo ἀνοσίους, non è difficile immaginare qui presa di
818 Del resto, nelle Eumenidi, è proprio la figura di Apollo che rende possibile il passaggio da una fase primitiva, matriarcale, dominata dalle Erinni, alla civiltà, garantita dalla πόλις e dalle sue istituzioni in cui le Erinni trovano il loro posto come Eumenidi. 819 Forse anche a Aerope delle Donne di Creta: gli scholia vetera (cf. schol. vet. in Aristoph. Ran. 850a, p. 113 Chantry) individuano infatti nel nesso Κρητικὰς μονῳδίας e γάμους ἀνοσίους riferimenti alle due tragedie cretesi di Euripide (Cretesi e Donne di Creta); cf. Mastromarco, Totaro (2006), 642, nota 129.
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mira anche la religiosità peculiare che fa da sfondo alle tragedie euripidee di ambientazione cretese, di cui i culti orfico-dionisiaci rappresentano senza dubbio un aspetto importante (cf. qui sopra, cap. II), in un intreccio fra immoralità e religiosità ‘straniera’.820 Nella sezione dell’agone dedicata alle parti liriche, Eschilo insisterà ancora sulle tragedie cretesi di Euripide, con riferimenti espliciti agli aspetti religiosi (cf. avanti, § 3.3). Eschilo affronta poi la questione dell’immoralità delle eroine euripidee, quali Fedra o Stenebea, giustificata da Euripide in nome del ‘realismo’ (v. 1049),821 attribuendone invece la causa alla troppo ingombrante presenza di Afrodite (vv. 1043-1047): l’incidenza del tema amoroso nei drammi di Euripide è uno dei segnali più chiari di quel ripiegamento verso la dimensione privata che favorisce il disgregamento della πόλις, ripercuotendosi allo stesso tempo sull’οἶκος stesso, in quanto porta con sé la corruzione dei costumi. Anche in questo caso, d’altra parte, la corruzione provocata da Afrodite si configura come problema religioso: nel prologo dell’Ippolito (cf. qui sopra, cap. II.1.1) Afrodite racconta di essere intervenuta a trasformare l’ἐποπτεία eleusina stessa in una ἐποπτεία amorosa, sovvertendo così il culto di Eleusi, che infatti, nel corso della tragedia, viene progressivamente sostituito, come referente religioso dei protagonisti, da forme di religiosità metroacodionisiache, in cui possiamo riconoscere anche elementi orfici. L’assurgere di Fedra a caso emblematico dell’influenza negativa di Afrodite evoca dunque anche la problematica religiosa dell’Ippolito in generale, che coinvolge Misteri di Eleusi, culto metroaco e culti orfico-dionisiaci.822 Il fatto poi che Eschilo affermi con decisione (e gli viene riconosciuto da Euripide stesso) che nei suoi drammi Afrodite sia del tutto assente (v. 1045) sembra invece quasi ricordare la descrizione di Demetra, al suo arrivo a Eleusi, nell’inno omerico (vv. 101-102), dove è rappresentata come una vecchia “priva dei doni di Afrodite che ama le corone”.
820 Nelle Baccanti stesse viene ricondotto a Creta il culto dionisiaco e abbiamo visto qui sopra (cf. § 2.1) come sia strettamente legata a tale culto cretese di Dioniso e della Madre degli dei anche una determinata tipologia di musica. 821 L’espressione con cui Euripide giustifica la legittimità di mettere in scena il λόγος di Fedra è che sia ὤν, “veritiero”, ma anche “appartenente alla tradizione”; cf. Hunter (2009), 26. 822 Possiamo osservare un intervento improprio di Afrodite in Euripide anche nel secondo stasimo dell’Elena, dove una trasfigurata Demetra, ormai identificata con la frigia Madre degli dei, è indotta a ridere non da Iambe, come nel mito eleusino, ma da Afrodite stessa (cf. qui sopra, cap. III.2.1). Sulla contrapposizione fra Eschilo, poeta ispirato da Demetra, e Euripide, poeta ispirato da Afrodite, cf. inoltre Lada-Richards (1999), 261.
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Eschilo conclude il suo attacco additando l’immoralità e l’empietà dei personaggi di Euripide come le dirette cause della decadenza della πόλις, ormai piena βωμολόχων δημοπιθήκων / ἐξαπατώντων τὸν δῆμον (vv. 10771088): ποίων δὲ κακῶν οὐκ αἴτιός ἐστ᾽; οὐ προαγωγοὺς κατέδειξ᾽ οὗτος, καὶ τικτούσας ἐν τοῖς ἱεροῖς, καὶ μειγνυμένας τοῖσιν ἀδελφοῖς,823 καὶ φασκούσας οὐ ζῆν τὸ ζῆν; κᾆτ᾽ ἐκ τούτων ἡ πόλις ἡμῶν ὑπογραμματέων ἀνεμεστώθη καὶ βωμολόχων δημοπιθήκων ἐξαπατώντων τὸν δῆμον ἀεί, λαμπάδα δ᾽ οὐδεὶς οἷός τε φέρειν ὑπ᾽ ἀγυμνασίας ἔτι νυνί. Il culmine della climax di atti immorali delle eroine euripidee è un’affermazione, attribuita anch’essa a personaggi femminili, che “vivere non sia vivere”: il discorso sull’immoralità si rivela ancora come discorso sull’empietà (segnalato già prima dalla menzione dei “templi”). Diretti riferimenti di questa affermazione sulla vita come non vita sembrano essere due frammenti euripidei, rispettivamente dal Poliido (fr. 638)824 e dal Frisso (fr. 833),825 su cui siamo ormai tornati più volte e a proposito dei quali qui vale la pena ricordare le rispettive ambientazioni cretese e tessala, che rendono quanto meno verosimile un’allusione a dottrine orfiche (cf. qui sopra, 823 Il riferimento è evidentemente a tragedie come l’Ippolito (in particolare alla figura della nutrice), l’Auge (dove la protagonista, sedotta da Eracle, partoriva il figlio, Telefo, nel tempio di cui era sacerdotessa), l’Eolo (l’amore fra i due fratelli Macareo e Canace è ricordato anche in Nub. 1371-1372 e evocato ancora nelle Rane, sempre da Eschilo, al v. 850). Cf. Mastromarco, Totaro (2006), 642, nota 129; 664-665, nota 177. 824 Τίς δ᾽ οἶδεν εἰ τὸ ζῆν μέν ἐστι κατθανεῖν, / τὸ κατθανεῖν δὲ ζῆν κάτω νομίζεται; Non è senza motivo che Aristofane abbia dedicato al Poliido di Euripide un’intera commedia, intitolata appunto Poliido, di cui ci sono pervenuti solo pochi frammenti (frr. 468-476 PCG), fra cui uno (fr. 468) invita a non temere la morte poiché tutti debbono sopportarla. Il tema del rapporto fra morte e vita doveva evidentemente avere una parte significativa nella parodia aristofanea, sebbene il verso in questione contenga una massima piuttosto comune sul timore della morte. 825 Τίς δ᾽ οἶδεν εἰ ζῆν τοῦθ᾽ ὃ κέκληται θανεῖν, / τὸ ζῆν δὲ θνῄσκειν ἐστί; †πλὴν ὅμως βροτῶν / νοσοῦσιν οἱ βλέποντες, οἱ δ᾽ ὀλωλότες / οὐδὲν νοσοῦσιν οὐδὲ κέκτηνται κακά.
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capp. I.1.2; II.2 e qui avanti).826 Il concetto della “vita che non è vita”, che sembra infatti da ricondursi alla dottrina orfica del corpo come ‘prigione’, all’interno della quale l’anima sconta una pena primordiale, e di una vita vera posta al di fuori di esso, viene qui esplicitato per la prima volta nella commedia e ricondotto direttamente a Euripide; se fino a questo punto abbiamo osservato una voluta tendenza a giocare e a confondere la morte e la vita, Aristofane qui, per bocca di Eschilo, ne ridefinisce i confini: se esistono speranze di un benessere ultraterreno per gli iniziati ai Misteri di Eleusi, questo non significa pensare che “vivere sia non vivere”, secondo una concezione (significativamente viene citata solo la prima parte della battuta euripidea, cf. note 824-825) che ovviamente implica piuttosto uno straniamento del cittadino, ripiegato su se stesso, dalla vita della comunità. Che a Eschilo sia in particolare assegnato il compito di riportare di nuovo ‘ordine’ nei concetti di vita e morte si evince anche da due affermazioni del tragediografo, volte a definire la sua presente condizione nell’aldilà indiscutibilmente come morte e il passato sulla terra come vita: prima del principio dell’agone infatti Eschilo dichiara di essere svantaggiato rispetto a Euripide poiché la sua poesia “non è morta con lui” (e non si trova quindi con lui nell’Ade), mentre quella di Euripide lo ha seguito, cosicché sarà, anche da morto, a sua disposizione per affrontare l’agone (vv. 868-870). Analogamente, nel lamentare la presente decadenza della πόλις e dei suoi πολῖται, Eschilo rammenta la loro disciplina e obbedienza (soprattutto militare) di “quando era in vita” (ἡνίκ᾽ ἐγὼ ᾽ζων, v. 1072). § 3.2 La sfida dei prologhi La selezione dei prologhi fatta da Euripide stesso per fronteggiare gli assalti di Eschilo è tale da rivelare una certa coerenza, dal punto di vista ovviamente di Aristofane, nella definizione e quindi nella critica della religiosità 826 Rimandiamo in particolare al cap. I.1.2 per una discussione su questi passi euripidei e altri a questi affini e sulle connessioni delle dottrine in essi contenute con l’orfismo. Aristofane, attribuendo alle ‘eroine’ euripidee l’affermazione οὐ ζῆν τὸ ζῆν sembra sì rievocare da vicino i frammenti del Frisso o del Poliido, ma potrebbe anche includere altri passi euripidei aperti a interpretazioni analoghe, come per esempio quello dell’Ipsipile in TrGrF 71 F757, vv. 920-926, di cui abbiamo parlato qui sopra in cap. IV.2.4, dove troviamo l’immagine della “spiga fruttifera” per evocare la vita dopo la morte. Benché a parlare, nell’Ipsipile, sia un personaggio maschile e non femminile, la tragedia prende tuttavia il suo titolo dall’eroina Ipsipile, cosicché può essere giustificato il φασκούσας aristofaneo, come se a parlare fosse il titolo femminile della tragedia.
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euripidea: se infatti l’analisi dei prologhi di Eschilo da parte di Euripide è incentrata soprattutto su argomenti di carattere formale, più sostanziali appaiono le riserve di Eschilo nei confronti del rivale.827 Dopo avere messo in rilievo l’assenza di ὀρθοέπεια nel prologo dell’Antigone euripidea (TrGF 11 FF157-158),828 dimostrando a Euripide di essere capace di sfidarlo sul suo stesso ‘sofistico’ terreno (vv. 1182-1195), Eschilo afferma di riuscire a “distruggere” i prologhi di Euripide ἀπὸ ληκυθίου (v. 1200). Mediante infatti l’arma del lecizio (ληκύθιον ἀπώλεσεν, dal v. 1208) Aristofane costruisce l’intera ‘critica’ da parte di Eschilo ai prologhi euripidei, di cui sottolinea così una monotonia (l’inserimento costante del dimetro trocaico catalettico), ma anche, con quell’esempio che, al di là dell’aspetto puramente metrico, dice quel che dice, contrassegnando un costante ‘svilimento’ di personaggi e situazioni orientati verso un ‘quotidiano’ “perse la boccetta” (anche la scelta del diminutivo dovendo essere interpretata in quest’ottica).829 Nel momento del confronto fra le parti liriche Eschilo adotterà la stessa strategia. Se dunque in questo consiste l’aspetto più vistoso di tali parodie euripidee, non dobbiamo trascurare anche la trama allusiva sottostante e i messaggi che questa comunica. È infatti significativo che il primo prologo della serie sottoposta al trattamento ληκύθιον ἀπώλεσεν, la cui precisa attribuzione costituisce un problema filologico fin da Aristarco,830 inizi con la menzione di Αἴγυπτος, fratello di Danao (vv. 1206-1208): il nome Αἴγυπτος è indubbiamente evocativo, da un punto di vista cultuale, come abbiamo considerato a proposito dell’ambientazione dell’Elena in Egitto (cf. qui sopra, cap. III.2.4), per quanto riguarda la pretesa origine egizia dei culti greci, fra cui i Misteri Eleusini stessi: Euripide, con questa citazione, si colloca da sé al di fuori dell’Attica, anche da un punto di vista religioso. Il tragediografo propone poi il prologo dell’Ipsipile, tragedia significativa per l’illustrazione delle sue tendenze religiose (cf. qui sopra, cap. IV.2); non a caso abbiamo potuto scorgerne un’allusione, nelle Rane, già nel prologo
827 Cf. Hunter (2009), 50. 828 Cf. Hunter (2009), 22-23. 829 Sulla questione cf. Mastromarco, Totaro (2006), 674, nota 192; Caballero (2010), 23-24, nota 59; Gil (2013), 94-95 (con particolare attenzione al possibile significato osceno dell’espressione); per un’interpretazione di ληκύθιον ἀπώλεσεν come segnale della banalizzazione e riduzione del mito a quotidianità in Euripide, cf. Hunter (2009), 19. 830 Dato il dibattito sulla sua appartenenza all’Archelao, Kannicht colloca il frammento fra quelli di fabulae incertae, TrGF V.2 F846; cf. al riguardo Mastromarco, Totaro (2006), 674, nota 191.
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(cf. qui sopra, § 1.1) e ne considereremo fra breve l’importanza nella sezione dedicata alle parti liriche. La citazione del prologo dell’Ipsipile dimostra infatti non solo la volontà di Aristofane di richiamarsi a una tragedia recente, ma anche di menzionare, davanti al dio del teatro come giudice, il Dioniso euripideo così come era rappresentato in una tragedia dove il tema dionisiaco si fondeva così strettamente con quello orfico:831 Rane, vv. 1211-1213 ΕΥ. «Διόνυσος, ὃς θύρσοισι καὶ νεβρῶν δοραῖς καθαπτὸς ἐν πεύκαισι Παρνασσὸν κάτα πηδᾷ χορεύων» – ΑΙ. ληκύθιον ἀπώλεσεν.
TrGF 71 F 752 Διόνυσος, ὃς θύρσοισι καὶ νεβρῶν δοραῖς καθαπτὸς ἐν πεύκῃσι Παρνασσὸν κάτα πηδᾷ χορεύων παρθένοις σὺν Δελφίσιν.
Si osservi come il legame di Dioniso con il santuario di Delfi ribadito dal παρθένοις σὺν Δελφίσιν di Euripide sia invece cassato dal ληκύθιον ἀπώλεσεν soprascritto dell’Eschilo aristofaneo, quasi a voler cancellare la relazione, affermata invece nell’Ipsipile (si ricordi anche il ruolo della figura di Anfiarao nella tragedia, cf. cap. IV.2.4), del Dioniso euripideo con il mondo religioso e allo stesso tempo musicale e poetico (cancellandone quindi, in un certo senso, l’autorità stessa come dio del teatro) simboleggiato da Apollo, mantenendo soltanto gli attributi del suo culto entusiastico, nebridi e tirsi, celebrati da Euripide anche nelle Baccanti (cf. vv. 23-25), nonché il contesto montano del Parnaso, non ulteriormente sviluppato. Si ricordi invece l’armonia fra le due divinità celebrata dalle rane aristofanee nel loro canto, nel contesto ateniese delle Antesterie. Aristofane non rinuncia dunque a sottolineare una seconda volta, con il rimando all’Ipsipile e alla centralità del tema dionisiaco in quella tragedia, l’importanza della questione religiosa nella sua critica a Euripide. In questa prospettiva è significativo anche il successivo prologo della Stenebea (vv. 1217-1219, cf. TrGF 61 F661), il cui dannoso messaggio morale (ricordato ai vv. 1043; 1049) è, come sappiamo, nell’ottica aristofanea indissolubilmente legato al problema religioso. La citazione successiva del prologo del
831 L’incipit dell’Ipsipile tra l’altro mostra importanti affinità con alcuni versi della parabasi delle Nuvole (vv. 603-606, per cui cf. Kannicht, TrGF 71 F752, p. 743), precedente alla tragedia euripidea: Παρνασσίαν θ᾽ ὃς κατέχων / πέτραν σὺν πεύκαις σελαγεῖ / βάκχαις Δελφίσιν ἐμπρέπων / κωμαστὴς Διόνυσος, dove l’invocazione a Dioniso segue quelle a Apollo, Artemide e Atena.
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Frisso (vv. 1225-1226, cf. TrGF 77 F819) ci riporta di nuovo a quella problematica, connotata ancora una volta in senso orfico, così importante nelle Rane, relativa al rapporto fra morte e vita, dato che proprio al Frisso (oltre che al Poliido) allude l’οὐ ζῆν τὸ ζῆν rinfacciato da Eschilo a Euripide al v. 1082. Osserviamo inoltre, a proposito del Frisso, che ci troviamo di fronte a una tragedia, che, in entrambe le sue versioni,832 prendeva le mosse dal danneggiamento di una semina da parte delle donne su istigazione di Ino, convinte appunto da quest’ultima a bruciare il grano da seminare (cf. TrGF 76 T ii a-b; 77 T ii a-b): Ino, figlia di Cadmo e sorella di Semele, una volta scoperte le sue macchinazioni, finalizzate alla condanna a morte di Frisso, il figlio del re di Tessaglia Atamante, come offerta agli dei per por fine alla carestia (su suggerimento di un oracolo delfico anch’esso manipolato, cf. Ig. Fab. 2), viene salvata dalla punizione del re da Dioniso, che riversa la sua ira su Frisso e la sorella Elle, resi folli e costretti a errare senza meta; salvati dalla madre Nefele, vengono portati nella Colchide da un ariete dal vello d’oro. Troviamo dunque qui Dioniso associato a un contesto agricolo ‘sovvertito’ e ‘perverso’ e posto quindi in diretta opposizione alla sfera di pertinenza di Demetra (analogo sovvertimento sembra inoltre verificarsi nella sfera di pertinenza di Apollo, quella oracolare). Il contesto della Tessaglia rende inoltre verosimili allusioni a dottrine orfiche, come quella suggerita dal fr. 833, data la provenienza tessala di numerose lamine auree.833 L’ambientazione tessala del Frisso – già di per sé ‘laterale’ – è per di più in-
832 Il prologo appartiene al rifacimento della tragedia da parte di Euripide (cf. Mastromarco, Totaro (2006), 676, nota 195; sulla doppia redazione della tragedia, cf. Kannicht, TrGF V.2, p. 856); quanto al fr. 833, a cui allude il v. 1082, Kannicht sospende il giudizio sull’attribuzione al Frisso I o al Frisso II. Quest’ultimo sembrerebbe più probabile per coerenza con la successiva citazione del prologo. Dobbiamo comunque sia osservare che per tre dei prologhi euripidei di questa serie, Archelao (se di questa tragedia si tratta), Frisso e Melanippe (per cui cf. avanti nel testo), abbiamo a che fare con la possibilità di una doppia redazione (nel caso del Frisso, per cui è attestato con certezza il rifacimento, si tratta dell’intera tragedia). È quindi possibile che Aristofane intenda anche giocare sulla necessità per Euripide di ritornare più volte sulle sue tragedie, talora costretto da eventuali problemi religiosi (questo sembra per esempio il caso della Melanippe, per cui l’esistenza di una diversa prima versione è particolarmente importante anche per l’interpretazione del passo aristofaneo; cf. avanti nel testo). 833 Quali quelle di Pelinna, Magoula Mati, Farsalo, nonché la lamina tessala conservata a Malibu (su cui cf. qui sopra, cap. I.1.2, nota 84). A questo proposito risulta interessante anche l’ambientazione tessala del Fenice euripideo, il cui fr. TrGF 74 F816 contiene un’interrogazione sull’inspiegabile attaccamento dei mortali alla vita, dovuto in realtà soltanto all’ἀπειρία della morte.
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corniciata da un incipit dove si parla della “Sidonia città” (TrGF 77 F819), e da un finale caratterizzato da una fuga nella Colchide (TrGF 77 T ii a-b), segnalando quell’allontanamento geografico della tragedia euripidea introdotto, in questa serie di citazioni delle Rane, dal nome Αἴγυπτος (cf. qui sopra) e proseguito dalla citazione del prologo dell’Ifigenia in Tauride ai vv. 1232-1233: quest’ultima permette di aggiungere un ulteriore tassello a questa ‘selezione’ di tragedie a cui possiamo attribuire peculiarità religiose, in quanto in essa l’eziologia di importanti culti attici era messa in relazione con un contesto religioso ‘barbaro’ (cf. qui sopra, cap. III.3). Dopo la citazione del Meleagro (vv. 1240-1241, cf. TrGF 46 F516), che non è tuttavia tratta dal prologo della tragedia,834 troviamo, in chiusura della serie, l’incipit della Melanippe saggia (v. 1244), che sembra rimandare al tema dell’identità di Zeus: Ζεύς, ὡς λέλεκται τῆς ἀληθείας ὕπο. Nonostante che sia stata messa in dubbio (a partire da Wilamowitz) l’affidabilità della testimonianza di Plutarco (cf. Amator. 756b) sulla doppia redazione del prologo della Melanippe, il cui originario Ζεὺς ὅστις ὁ Ζεύς, οὐ γὰρ οἶδα πλὴν λόγῳ (TrGF 44 F480) sarebbe stato cambiato dall’autore in Ζεύς, ὡς
834 Cf. Mastromarco, Totaro (2006), 677, nota 198. A proposito dei versi del Meleagro è interessante osservare la presenza della parola στάχυς (forse il motivo stesso della scelta di questi versi invece di quelli propriamente incipitari; cf. la ricorrenza della parola nell’Ipsipile, cap. IV.2.4): nel Meleagro la vicenda doveva prendere le mosse dal sacrificio delle primizie agli dei da parte di Eneo, il quale tuttavia, commessa la colpa di dimenticare Artemide, ne subisce la vendetta nella forma del terribile cinghiale caledonio devastatore (cf. TrGF 46 T iii c). Se dunque, anche qui, sebbene in una forma meno vistosa rispetto al Frisso, abbiamo a che fare con una colpa commessa nella sfera agricola, i frammenti del Meleagro pervenutici offrono utili termini di confronto rispetto alle Rane in quanto molti di essi sono incentrati sulla dicotomia morte / vita, tenebre / luce: cf. TrGF 46 FF 524; 532; 533 (in quest’ultimo, ai vv. 3-4, ἐγὼ μὲν οὖν γεγῶσα τηλικήδ᾽ ὅμως / ἀπέπτυσ᾽ αὐτὸ [σκότος] κοὔποτ᾽ εὔχομαι θανεῖν, si profila una sorta di ambizione all’immortalità che ribalta la dicotomia precedente); 534. Da questi frammenti sembra emergere, nonostante un’apparente volontà di distinzione fra morte e vita (fr. 532), la possibilità di una confusione dei due piani: da una parte si considerano entrambe “male” (fr. 534), dall’altra ci si augura di poter eludere la morte (fr. 533); inoltre Afrodite, ossia il piacere in quanto contrapposto alla moderazione (σωφρονεῖν), è presentata come “amica delle tenebre” (fr. 524), ma anche la luce è definita nel fr. 533 come τερπνόν. Osserviamo infine la ricorrenza, nei frammenti pervenutici, dell’opposizione χρηστός / πονηρός (cf. TrGF 46 F520; per il solo χρηστός, frr. 518.3; 529.1; per il solo πονηρός, cf. frr. 527.3, dove è però implicita la contrapposizione, e 528.2), particolarmente significativa nel contesto delle Rane (cf. qui sopra, § 3.1.1).
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λέλεκται τῆς ἀληθείας ὕπο [ecc...] (TrGF 44 F481),835 non si può trascurare, se invece si ritiene vera la versione di Plutarco, il forte impatto della menzione del prologo della Melanippe saggia e delle conseguenti associazioni che esso poteva rievocare in merito appunto al problema dell’identità di Zeus. Per completare le scarse informazioni ricostruibili sulla religiosità della Melanippe, occorre ricordare che anche questa tragedia presentava, a quanto sembra, richiami alle dottrine orfiche (cf. qui sopra, cap. I.1.1.1). Possiamo quindi concludere che il ‘problema di Zeus’ (o quanto meno la menzione problematica del dio) adombrato nel prologo della Melanippe saggia si configuri come il necessario culmine della tendenza religiosa della tragedia euripidea a allontanarsi, anche geograficamente, come abbiamo visto nei prologhi precedenti, dall’ortodossia e dalla tradizione attica. Se consideriamo poi la qualità di γυνὴ πονηρά di Melanippe, menzionata come exemplum negativo insieme con Fedra nelle Tesmoforiazuse (v. 547), dovuta forse anche al suo essere σοφή e quindi incline ai quei ‘ragionamenti sottili’ caratteristici di Euripide (cf. Ran. 971-979), troviamo qui riassunti tutti gli aspetti negativi, evocati dai prologhi precedenti, dell’approccio problematico di Euripide al tema religioso: dall’evasione verso dottrine non ortodosse alla nefasta tendenza alla σκέψις, con le conseguenze che tutto questo implica sul piano morale (particolarmente significativo in questo senso è la citazione del prologo della Stenebea). § 3.3 La sfida dei cori e delle monodie Per quanto riguarda la sezione successiva dell’agone, in cui i due contendenti sono chiamati a dare un saggio, in forma ovviamente parodica, delle parti
835 Cf. Mastromarco, Totaro (2006), 678, nota 199; Kannicht, TrGF 44 F480, p. 530. Tra l’altro il ληκύθιον ἀπώλεσεν della frase come completata comicamente da Dioniso con il solito ritornello (v. 1245) rende impossibile capire che cosa sia “narrato secondo verità”, così da lasciare in sospeso e in un certo senso problematizzato questo Zeus euripideo, che, se davvero il fr. 481 fosse un rifacimento del fr. 480, tornerebbe in qualche modo nella sua prima veste. Con questo, tale citazione nelle Rane acquisterebbe un significato pregnante, in quanto risulterebbe finalizzata alla rappresentazione delle ‘distorsioni’ religiose euripidee, in particolare rispetto a una tragedia, come la Melanippe saggia (citata anche nel prologo della commedia, per il tema dell’αἰθήρ; cf. cap. I.1.3), dove l’affacciarsi di motivi legati all’orfismo apparirebbe in sintonia con la messa in discussione dell’identità ‘tradizionale’ di Zeus. Si consideri infine che la versione data da Plutarco come ‘censurata’ presenta significativi punti di contatto con Tro. 884-888 (per cui cf. qui sopra, cap. I.1.1.4).
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liriche delle tragedie del rivale, possiamo condurre anche in questo caso un’analisi che tenga conto delle citazioni che compongono questi pastiches letterari in quanto veicoli di messaggi anche religiosi. Nella sua parodia dei cori eschilei, Euripide insiste ancora sul tema omerico con citazioni dai Mirmidoni (vv. 1264-1265) e dall’Agamennone (vv. 1276; 1284-85; 1289),836 ma quello che è interessante osservare in questa sede sono i significativi richiami al contesto cultuale e religioso delle Rane stesse. Abbiamo rilevato qui sopra (cf. § 2.1) come Euripide attribuisca a Eschilo quel refrain onomatopeico φλαττοθραττοφλαττοθρατ, che ha significativi legami fonetici proprio con il verso delle rane aristofanee.837 Inoltre, subito dopo la citazione iliadica dai Mirmidoni, troviamo un verso dai perduti Psicagoghi (TrGF III F273, per cui è ricostruibile il contesto odissiaco della νέκυια), che richiama proprio l’incipit del canto delle rane: l’eschileo Ἑρμᾶν μὲν πρόγονον τίομεν γένος οἱ περὶ λίμναν (v. 1266) corrisponde al λιμναῖα κρηνῶν τέκνα (v. 211) di Aristofane.838 In entrambi i casi troviamo infatti una λίμνη che rappresenta il luogo di passaggio fra mondo dei vivi e mondo dei morti, dato che nella tragedia eschilea gli psicagoghi in questione sono appunto ‘evocatori delle anime’ dall’Ade (cf. lo stesso significato di ψυχαγωγός, riferito ai lamenti che hanno permesso l’apparizione dell’ombra di Dario, in Pers. 687): alla luce di questi richiami fra il coro delle rane e questo pastiche letterario tratto da tragedie eschilee, possiamo suggerire che le rane aristofanee, anticipando con il loro βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ i cori di Eschilo, svolgano in un certo senso il ruolo di ‘psicagoghe’ rispetto all’apparizione di Eschilo stesso. Osserviamo inoltre che, durante la sfida dei prologhi, Euripide sottopone a critica il prologo delle Coefore (vv. 1126-1128), che inizia appunto con un’invocazione allo stesso Ermes della citazione dagli Psicagoghi, nelle Coefore detto esplicitamente “ctonio” (cf. vv. 1126; 1138): al commento buffonesco di Dioniso (v. 1149), Eschilo risponde (v. 1150) Διόνυσε, πίνεις οἶνον
836 Cf. Mastromarco, Totaro (2006), 679-681, note 201-203; Totaro (2010). 837 Questa onomatopea, che intende imitare il suono della cetra, colloca l’arte di Eschilo nella dimensione ‘arcaica’ dei κιθαρῳδικοὶ νόμοι (v. 1283), presi ovviamente di mira dall’innovatore Euripide, a cui Eschilo rinfaccerà infatti di scrivere musica da suonare con miseri cocci (cf. avanti); su questa questione e sul problema esegetico relativo al commento di Dioniso ai μέλη di Eschilo (vv. 1296-1297), in cui si ravvisa una critica non tanto a Eschilo quanto all’esecuzione di Euripide, cf. Di Marco (2011), 37-53; 59-61. 838 Possiamo altresì considerare che, se le rane celebrano se stesse come “nutrici” della canna da cui nasce una parte componente della lira, proprio a Ermes era attribuita l’invenzione di questo strumento, come leggiamo nell’inno omerico (h. Merc. 39-51).
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οὐκ ἀνθοσμίαν.839 Non possiamo del tutto escludere che i ‘fiori’ evocati da ἀνθοσμίαν possano alludere proprio alle Antesterie: Eschilo rimprovererebbe così Dioniso, colpevole di esprimere commenti fuori luogo, di non essere il vero dio delle Antesterie, di non bere cioè ‘vino che profuma di fiori’, e quindi di non essere il Dioniso delle feste ateniesi in suo onore. Eschilo commenta infine la presentazione dei suoi brani lirici da parte di Euripide rivendicandone l’originalità e allo stesso tempo la bellezza e sostenendo di non averli “colti” dallo “stesso λειμών sacro alle Muse di Frinico” (v. 1299-1300): l’immagine del λειμών (sulla cui valenza escatologica cf. qui sopra, § 2.1), seppure mediata dalla figura di Frinico (a cui si suppone appartenere un diverso prato), si trova così anch’essa associata a Eschilo, al quale è così attribuito un altro forte legame con il coro degli iniziati, che appunto su λειμῶνες celebrano i loro riti.840 Completamente diverso è lo scenario dei due pezzi lirici ‘composti’ da Eschilo con materiale euripideo, l’uno come esempio di un canto corale (vv. 1309-1322), l’altro di una monodia (1331-1363). Sebbene si tratti, anche qui, di un pastiche letterario, l’intenzione dell’Eschilo aristofaneo sembra quella di connotare come ‘altro’ e, in generale, ‘straniero’ lo sfondo religioso dei canti euripidei: non è infatti un caso che si attinga, come sembra, soprattutto a tre tragedie, Ifigenia in Tauride (vv. 1309-1310; 1331-1337), Ipsipile (vv. 1309-1322) e Cretesi (vv. 1355-1363). L’immagine conclusiva che Aristofane ci lascia della poesia euripidea passa dunque soprattutto attraverso opere la cui religiosità si colloca lontano da Atene non solo da un punto di vista geografico, ma anche ‘dottrinario’ e rituale. Trattandosi della parodia di brani lirici, non sorprende che il problema religioso si fonda con quello musicale: Eschilo infatti presenta la Musa ispiratrice dei canti di Euripide come priva di lira e come ἡ τοῖς ὀστράκοις / αὕτη κροτοῦσα (vv. 1305-1306): come già detto qui sopra, in cap. IV.2.2, siamo di fronte a un’esplicita allusione alla Musa che nell’Ipsipile costringe la protagonista a suonare dei κρόταλα per far dormire il piccolo Ofelte (il canto che segue è del resto ricco di citazioni proprio dall’Ipsipile): Eschilo, custode dell’antica tradizione della citarodia, insiste così sullo svilimento non
839 Sull’espressione, posta fra le immagini simposiali dell’agone, cf. Lada-Richards (1999), 138-142. 840 Sulla relazione fra Eschilo, le Muse e l’immagine del λειμών, cf. Biles (2011), 232, dove tuttavia non ci si sofferma sul fatto che l’espressione λειμῶνα Μουσῶν ἱερόν sia riferita in realtà a Frinico; sulla menzione di Frinico come rappresentante di un modo di fare poesia ‘rustico’, superato da Eschilo, cf. Di Marco (2011), 53-59.
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solo del mito, ma anche della musica da parte del suo antagonista.841 Se inoltre davvero nell’Ipsipile, in relazione con la figura di Orfeo, si celebrava la citarodia praticata dalla famiglia ateniese degli Euneidi, dalla forte connotazione ‘dionisiaca’, forse, nel tardo V sec., non estranea alle influenze della ‘Nuova Musica’ (cf. qui sopra, cap. IV.2.2) – la critica alla quale è infatti esplicita nel canto successivo –, è possibile che l’Eschilo aristofaneo intendesse anche attaccare, portando l’accento sulle ‘vili’ nacchere, la ‘traviata’ citarodia contemporanea, a quelle sostanzialmente affine.842 Allo stesso tempo, ipotizzando che i κρόταλα avessero, già nel contesto della parodo dell’Ipsipile, un preciso significato rituale e costituissero un rimando al culto della Madre degli dei, con un collegamento al tema dionisiaco del prologo e la riproposizione dell’ormai noto binomio euripideo Dioniso - Madre degli dei (cf. qui sopra, cap. IV.2.2), possiamo scorgere nuovamente, nella figura di questa insolita Musa, un sottotesto che prendesse di mira la religiosità euripidea.843 In Ran. 1309-1322 l’Eschilo aristofaneo sembra, del resto, riassumere l’intera Ipsipile (seppure all’interno di un pastiche con allusioni a altre tragedie),844 a dimostrazione della rilevanza di questa tragedia a ogni livello (incluso quello religioso) nella definizione dell’arte euripidea:
841 Cf. Di Marco (2009), 123-126. Cf. ancora qui sopra, cap. IV.2.2 (cf. in particolare nota 493), per il commento di Dioniso all’arrivo della Musa di Euripide (v. 1308). 842 Sulla connessione di Orfeo con un ambito apollineo o dionisiaco, cf. qui sopra, cap. V.1.2. Se in Di Marco (2009), 139-141 si sottolinea il degradante contrasto, che Aristofane appunto intenderebbe parodiare, fra la costrizione di Ipsipile, nella tragedia, a suonare le nacchere, e il suo essere madre dell’ «archegeta della citarodia orfica a Atene», si considererà d’altra parte il fatto che Aristofane potrebbe qui prendere di mira proprio quella ‘moderna’ musica dionisiaca, rappresentata forse all’epoca anche dagli Euneidi stessi e celebrata da Euripide nell’Ipsipile, all’interno di un quadro musicale in cui coerentemente (almeno dal punto di vista di Aristofane) una Musa può anche suonare nacchere. 843 Osserviamo inoltre che, come i κρόταλα dell’Ipsipile compaiono al principio di una parodo in cui agli interventi del coro si alternano quelli della protagonista, anche l’Eschilo aristofaneo pone in successione due brani che si suppongono composti l’uno per coro, l’altro per voce singola. 844 Cf. Borthwick (1994).
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Rane, vv. 1309-1322 ΑΙ. ἀλκυόνες, αἳ παρ᾽ ἀενάοις θαλάσσης κύμασι στωμύλλετε, τέγγουσαι νοτίοις πτερῶν ῥανίσι χρόα δροσιζόμεναι˙ αἵ θ᾽ ὑπωρόφιοι κατὰ γωνίας εἱειειειειειλίσσετε δακτύλοις φάλαγγες ἱστότονα πηνίσματα, κερκίδος ἀοιδοῦ μελέτας, ἵν᾽ ὁ φίλαυλος ἔπαλλε δελφὶς πρῴραις κυανεμβόλοις μαντεῖα καὶ σταδίους, οἰνάνθας γάνος ἀμπέλου, βότρυος ἕλικα παυσίπονον. περίβαλ᾽, ὦ τέκνον, ὠλένας.
TrGF 71 F752f, vv. 8-14 ΥΨ. ἰδοὺ κτύπος ὅδε κορτάλων
οὐ τάδε πήνας, οὐ τάδε κερκίδος ἱστοτόνου παραμύθια Λήμνια Μοῦσα θέλει με κρέκειν, ὅτι δ᾽ εἰς ὕπνον ἢ χάριν ἢ θεραπεύματα πρόσφορα π]αιδὶ πρέπει νεαρῷ, τάδε μελῳδὸς αὐδῶ. [...] vv. 25-28 ΧΟ. (rivolto a Ipsipile) [...] μναμοσύνα δέ σοι τᾶς ἀγχιάλοιο Λήμνου, τὰν Αἰγαῖος ἑλί[σ]σων κυμοτύπος ἀχεῖ; TrGF 71 F 765 οἰνάνθα τρέφει τὸν ἱερὸν βότρυν TrGF 71 F 765a ΥΨ. Περίβαλλ᾽, ὦ τέκνον, ὠλένας.
Fino a Ran. 1316 sono riconoscibili richiami precisi, anche lessicali (evidenziati nel testo in grassetto) alla parodo della tragedia: non solo infatti troviamo riuniti il motivo del mare e quello del lavoro al telaio (che nell’Ipsipile si identificano con la nostalgia della patria perduta), ma anche l’associazione della “spola” (κερκίς) a uno strumento musicale. Ai vv. 1319-1322 possiamo invece riconoscere allusioni ai tre temi centrali sui cui è costruita l’intera tragedia, gli “oracoli”, che rimandano alla figura di Anfiarao, gli “stadi”, che rimandano alla fondazione dei giochi Nemei in onore del piccolo Ofelte, e il “grappolo d’uva”; la climax si conclude infine con un preciso riferimento al fondamentale motivo del riconoscimento fra madre e figli (περίβαλ᾽, ὦ τέκνον, ὠλένας, v. 1322), come se si trattasse di una sorta di piccolo riassunto della tragedia stessa.845 845 Borthwick, a cui si deve l’analisi qui presentata, individua nei tre riferimenti, μαντεῖα καὶ σταδίους, / οἰνάνθας γάνος ἀμπέλου (vv. 1319-1320), i tre diversi «recognition motifs» dell’Ipsipile, come vengono interpretati anche nella tradizione mitografica successiva a Aristofane: secondo la versione tramandata dall’Antologia Palatina – III.10 – i due fratelli si sarebbero fatti riconoscere dalla madre τὴν χρυσῆν δεικνύντες ἄμπελον, ὅπερ ἦν αὐτοῖς τοῦ γένους σύμβολον; secondo la ver-
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È significativo in ogni caso che Aristofane metta ancora in luce il motivo dionisiaco dell’Ipsipile (vv. 1320-1321, οἰνάνθας γάνος ἀμπέλου / βότρυος ἕλικα παυσίπονον), che si ricollega quindi direttamente al tipo di musica evocata dai κρόταλα. Inoltre, come abbiamo osservato a proposito di Thesm. 985-1000 (cf. cap. V.2.3), compare anche qui, sempre in un contesto dionisiaco, la famiglia lessicale, prediletta in particolare dall’ultimo Euripide, a cui appartengono εἱλίσσω, ἕλιξ (vv. 1314; 1321). Con tali immagini è tra l’altro possibile che Aristofane intendesse prendere di mira le tendenze della ‘Nuova Musica’ (come suggerisce la variazione sulla prima sillaba di εἱειειειειειλίσσετε) e il suo revival dionisiaco, testimoniato nelle ultime tragedie euripidee.846 L’elemento acquatico, indubbiamente legato alla figura di Dioniso, nelle Rane si presenta invece soprattutto come λίμνη, come dimostra il canto delle rane:847 non a caso la λίμνη compare, nell’agone della commedia, in un verso di Eschilo (cf. qui sopra), laddove il tema acquatico dominante nel sione della seconda ipotesi alle Nemee di Pindaro (cf. schol. in Pind., III, 219-220 Drachmann) la causa dell’agnizione sarebbe la profezia di Anfiarao, mentre, secondo Ig. Fab. 273.6, la vittoria dei due fratelli alle corse; cf. Borthwick (1994), 33. Benché sembri tuttavia difficile che nella tragedia il riconoscimento avesse luogo attraverso tutte e tre queste strade e sia forse più verosimile un riconoscimento per mezzo di un oggetto, quale per esempio il grappolo d’uva (cf. infatti la celebrazione del βότρυς come σῆμα in TrGF 71 F758a; cf. inoltre, nel corso della scena del riconoscimento – TrGF 71 F759a, v. 1632 –, il riferimento a un Θόαντος οἰνωπὸν βότρυν), resta il fatto che i tre temi in questione sono comunque sia tutti presenti nella tragedia, al di là del momento del riconoscimento in sé. 846 Su εἱειειειειειλίσσετε, cf. Borthwick (1994), 30-31; Csapo (1999-2000), 401 ss.; sui κρόταλα e il movimento circolare evocato dal verbo ἑλίσσω, nella monodia di Ipsipile, come richiami a danze cultuali dionisiache, cf. ancora 418 ss.. In tale dionisismo connesso con la ‘Nuova Musica’ rientrerebbe anche l’immagine, tratta dall’Elettra, del salto del delfino φίλαυλος (vv. 1317-1318) che rafforza in ogni caso i segnali dionisiaci presenti nel brano; cf. Csapo (1999-2000), 422. Sull’associazione di immagini marine e immagini attinenti alla sfera del vino in Ran. 1317-1321 in quanto appartenente al motivo dionisiaco del «symposium at sea», quale è rappresentato sulla celeberrima coppa di Exechias conservata alle Antikensammlungen di Monaco di Baviera, nonché nell’Inno a Dioniso (cf. in particolare I.35-54), cf. Lada-Richards (1999), 150-151. Tra l’altro la ricorrenza in quest’ultimo di termini quali ἄμπελος (v. 39), βότρυες (v. 40), εἱλίσσετο (v. 40, riferito all’edera) nel giro di due versi, potrebbe suggerire, date le incertezze sulla datazione dell’inno (le ipotesi si spingono fino all’età ellenistica), perfino una reminiscenza del passo euripideggiante di Aristofane. 847 Quando Dioniso nel prologo afferma di aver partecipato alla battaglia navale delle Arginuse (vv. 48 ss.), offre in realtà un’immagine distorta di tale partecipazione (e quindi del suo rapporto con il mare), in cui racconta di essersi impe-
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canto corale euripideo è piuttosto il mare, protagonista di tragedie come Elena, Ifigenia in Tauride e l’Ipsipile stessa. Il mare segna infatti in Euripide una distanza, percepita perfino come invalicabile, dalla patria perduta848 e può dunque assurgere, in Aristofane, a simbolo di un ‘altrove’ rispetto, in ultima istanza, a Atene stessa. I primi due versi (vv. 1309-1310) della sezione fin qui commentata sembrano appunto alludere all’immagine degli alcioni dell’Ifigenia in Tauride (cf. vv. 1089-1093),849 una tragedia particolarmente significativa da questo punto di vista. Fin qui abbiamo dunque riconosciuto un ampio ricorso all’Ipsipile, di cui vengono messi in rilievo i forti legami con la figura di Dioniso, il quale, come sappiamo, proprio in quella tragedia sembra che avesse una connotazione particolare, influenzata dalla religiosità orfica: anche a quel particolare dionisismo dunque si allude nella parodia dei cori euripidei. Eschilo prosegue quindi il suo canto ‘alla maniera di Euripide’ con un esempio di monodia. Ciò che caratterizza in generale questi versi (vv. 1331-1363) è lo svilimento della tragedia a quotidianità:850 una terribile visione notturna non annuncia niente più che il furto di un gallo da parte di una certa Glice, la cui casa chi canta intende perquisire. Se dunque l’invocazione alla Notte (ὦ Νυκτὸς κελαινοφαὴς ὄρφνα), che invia il δύστανον ὄνειρον (vv. 1331-1337), sembra riecheggiare le tremende visioni di Ifigenia nell’Ifigenia in Tauride (vv. 150-152) o di Ecuba nell’omonima tragedia (dove appunto troviamo, ai vv. 68-72, un’invocazione alla Notte),851 l’apparizione in questione si risolve nei versi successivi appunto in un ‘quadretto’ quotidiano. Dopo l’invocazione , al v. 1341, al πόντιε δαῖμον, che costituisce un collegamento rispetto all’ambientazione marina del canto corale, la scena prosegue con Eschilo che inizia a delineare uno scenario montano e selvaggio, introdotto dalle figure delle Νύμφαι ὀρεσσίγονοι (v. 1344b), che, con la immediatamente successiva invocazione alla schiava Μανία (v. 1345), sembrano d’altra parte riportarci al contesto dionisiaco precedente (sulle Ninfe
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gnato soprattutto nella lettura dell’Andromeda di Euripide (senza considerare il doppio senso osceno dell’espressione ἐπεβάτευον Κλεισθένει, v. 48). Sul significato del mare in Elena, Ifigenia in Tauride e Andromeda, cf. Wright (2005), 204 ss.; nell’Ipsipile l’eroina si trova in Grecia, a Nemea, non in una terra barbara, ma il mare in ogni caso la divide da Lemno, sua patria. Sulla questione cf. Mastromarco, Totaro (2006), 683, nota 209. Si osservi che per gli alcioni Aristofane usa il verbo στωμύλλω e che parole appartenenti alla stessa famiglia lessicale compaiono in riferimento sia ai giovani tragediografi di ultima generazione (v. 92) sia a Euripide stesso (vv. 841; 1069). Cf. Mastromarco, Totaro (2006), 685, nota 213. Cf. Mastromarco, Totaro (2006), 685-686, nota 214.
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montane come segnali dionisiaci, cf. qui sopra, cap. V.2.3, nota 667). L’elemento che conferisce una sorta di unità alla monodia, dal punto di vista dei referenti divini, compare tuttavia nella parte finale (vv. 1356-1363), con l’invocazione ὦ Κρῆτες, Ἴδας τέκνα (v. 1356a), un verso da ricondurre appunto ai Cretesi.852 Quello che è comunque sia importante sottolineare qui è l’ambientazione cretese del canto, che permette di stabilire un legame rispetto al precedente riferimento all’Ipsipile proprio nel segno di quella religiosità orfico-dionisiaca che, nelle tragedie euripidee, si delinea talora proprio sullo sfondo religioso cretese (cf. capp. II e IV). Le due divinità che dovrebbero aiutare chi canta a raggiungere la casa di Glice per perquisirla sono infatti Dictinna853 e Ecate: entrambe compaiono nella parodo dell’Ippolito (vv. 142; 146) nell’ambito di un contesto metroaco ricondotto evidentemente a Creta (cf. qui sopra, cap. II.1.2), la cui religiosità (intrisa anche di una componente orfico-dionisiaca) connota la tragedia nel suo complesso: Rane, vv. 1359-1363854 ἅμα δὲ Δίκτυννα παῖς ἁ καλά, τὰς κυνίσκας ἔχουσ᾽ ἐλθέτω διὰ δόμων πανταχῇ, σὺ δ᾽, ὦ Διός, διπύρους ἀνέχουσα λαμπάδας ὀξυτάτας χεροῖν Ἑκάτα, παράφηνον εἰς Γλύκης, ὅπως ἂν εἰσελθοῦσα φωράσω.
Ippolito, vv. 141-147 †σὺ γὰρ† ἔνθεος, ὦ κούρα, εἴτ᾽ ἐκ Πανὸς εἴθ᾽ Ἑκάτας ἢ σεμνῶν Κορυβάντων φοιτᾷς ἢ ματρὸς ὀρείας; †σὺ δ᾽† ἀμφὶ τὰν πολύθηρον Δίκτυνναν ἀμπλακίαις ἀνίερος ἀθύτων πελανῶν τρύχῃ;
L’estraneità di Euripide rispetto a Atene e ai suoi culti, che trova nell’ispirazione cretese, in particolare dal punto di vista religioso, una delle sue espressioni più significative, è poi segnalata proprio dalla figura di Ecate, la cui rappresentazione ‘eleusina’ con le due fiaccole nelle mani ha un effetto straniante, dato il contesto in cui è calata: è del resto caratteristica di Euripide, come sappiamo, la decontestualizzazione e reinterpretazione, secon-
852 Benché non possiamo dire con esattezza a quale punto della tragedia; cf. TrGF 41 F472f, con il commento di Kannicht sulla questione. 853 Osserviamo qui che Dictinna compare anche in Vesp. 368, dove il suo nome è messo in relazione con δίκτυον, “rete”, che Filocleone si risolve a rodere per liberarsi: poiché si tratta di una μηχανή, è interessante che la dea cretese sia chiamata in causa laddove occorre escogitare appunto delle μηχαναί, che sono caratteristiche della drammaturgia euripidea (cf., per esempio, Thesm. 87; 765). 854 Sulla relazione di questi versi con la monodia di Icaro nei Cretesi euripidei, cf. Kannicht, TrGF 41 F472g, p. 516.
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do diversi paradigmi religiosi, di figure appartenenti alla religiosità tradizionale dell’Attica. § 3.4 La salvezza della πόλις Dioniso, esasperato dai canti, ricorre, per la decisione che spera definitiva, alla prova della bilancia:855 i versi dei poeti vengono ‘pesati’ in una scena che ripropone comicamente la psicostasia iliadica. Eschilo vince su Euripide in virtù del peso ‘materiale’ dei concetti che sottopone alla pesatura: dapprima contrappone infatti al ‘volo’ della nave Argo (Med. 1), il fiume Spercheo e i pascoli di buoi (dal Filottete, TrGF III F249), riportando la poesia dunque a una dimensione di concretezza (vv. 1382-1383). Poi all’euripideo οὐκ ἔστι Πειθοῦς ἱερὸν ἄλλο πλὴν λόγος (dall’Antigone, TrGF 11 F170) risponde con un verso della Niobe (TrGF III F161), μόνος θεῶν γὰρ Θάνατος οὐ δώρων ἐρᾷ (vv. 1391-1392):856 quella necessità di ridefinire, secondo l’ortodossia, i confini fra vita e morte, confusi da Euripide, che ricorre con frequenza negli interventi di Eschilo (cf. qui sopra, § 3.1.3), si esprime qui con particolare forza, in quanto la Morte, con il suo carattere inappellabile (“non ama i doni”) si rivela ora in tutta la sua gravità e, ovviamente, in netta contrapposizione con la vita.857 Analogamente, nella terza prova (vv. 1402-1403), Euripide capisce di dover trovare qualcosa di materialmente più pesante (σιδηροβριθές τ᾽ ἔλαβε δεξιᾷ ξύλον, dal Meleagro, TrGF 46 F531), ma Eschilo insiste ancora sul tema della morte: questa volta si tratta di accumulare “cadavere su cadavere” (dal Glauco Potnieo, TrGF III F38), per contrapporre a Euripide ‘oggetti pesanti’, ma il motivo della scelta di Eschilo deve essere ancora ricondotto alla gravità della Morte, la cui valutazione non può basarsi sui λόγοι euripidei, che possono indurre a credere che la morte altro non sia che la vita vera. Dioniso riconosce a questo punto (v. 1413) a un poeta la σοφία, all’altro la capacità di piacere (τῷ δ᾽ ἥδομαι): tali giudizi potrebbero adattarsi sia a Euripide sia a Eschilo (ai vv. 916-917, 1028-1029 Dioniso ricorda infatti di avere provato piacere di fronte ai silenzi dei prologhi eschilei o di fronte al 855 Su questa scena, cf. Mastromarco, Totaro (2006), 688-689, nota 221. 856 Notevole in particolare è che il frammento eschileo si concluda (v. 4) con il riferimento proprio alla Persuasione, che “si tiene lontana solo dalla Morte fra gli dei”. 857 Si tratta di un concetto caro a Eschilo, come emerge anche in Pers. 839-842, dove l’ombra di Dario si congeda dai πρέσβεις ricordando loro di trarre dalla vita, anche nelle sventure, l’ἡδονή, poiché τοῖς θανοῦσι πλοῦτος οὐδὲν ὠφελεῖ.
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compianto sulla morte di Dario858), ma sembra più coerente con l’impostazione generale che verso Euripide Dioniso mantenga un apprezzamento personale basato sul piacere, laddove a Eschilo debba essere attribuita una sapienza – una σοφία comunque sia non sofistica alla Euripide – che sappia andare oltre il gradimento del singolo. Che di questo Dioniso possa già cominciare a essere consapevole, lo mostra del resto il prosieguo immediato dell’azione, quando il dio propone ai due sfidanti di consigliare alla città τι χρηστόν (v. 1421, l’importanza di questa parola nel lessico dell’Eschilo aristofaneo, per cui cf. § 3.1.1, anticipa in un certo senso l’esito della prova): Dioniso manifesta infatti a questo punto la piena coscienza dell’indissolubile legame fra salvezza della città e prosecuzione della sua vita teatrale (vv. 1418-1419), da lui appreso ascoltando il canto del coro degli iniziati (cf. vv. 378-393; cf. anche i vv. 686-687 della parabasi che presentano lo stesso lessico usato da Dioniso ai vv. 1420-1421)859. Evidentemente non può che essere Eschilo l’autore capace di esprimere lo spirito civico necessario nel difficile momento che sta vivendo Atene. A Euripide viene comunque sia concessa la possibilità di dare alla città un buon consiglio sul ‘problema di Alcibiade’: alla luce di quanto abbiamo osservato qui sopra in cap. IV.3 sull’impegno di Euripide, in particolare nelle Fenicie, in favore del ritorno a Atene dello stratego, sorprende in un certo senso la sua netta condanna del discusso personaggio (vv. 1427-1429), a cui si rimprovera la tendenza a perseguire l’interesse personale anche a danno della città. L’affinità con le parole del coro nella parodo ai vv. 359-360, piuttosto che complicare la situazione e mettere Euripide in una luce positiva, si configura come un ‘estremo’ tentativo del tragediografo di dimostrarsi σοφός (in particolare se Dioniso, al v. 1413, per esempio con un gesto,860 esplicitava che il σοφός fosse Eschilo) manifestando un parere in accordo con il coro degli iniziati, ma in contraddizione con le sue note posizioni relativamente a Alcibiade: tale operazione sottrae così ipso facto validità e affidabilità al parere espresso da Euripide. Più cauto si dimostra inve858 Si osservi però che il verbo usato in entrambi i casi è χαίρω, laddove Dioniso al v. 1413 dice ἥδομαι. 859 Cf. Biles (2011), 250-251, dove si rileva il tentativo di Dioniso di presentare tale scopo come quello originario del suo viaggio, come effettivamente il prologo, secondo Biles, suggerirebbe. Tuttavia è bensì vero che fin dal prologo Dioniso è consapevole della decadenza del teatro in una prospettiva civica, ma soltanto ora mostra di intendere il tema del teatro come intrecciato a quello della salvezza della πόλις: ἵν᾽ ἡ πόλις σωθεῖσα τοὺς χοροὺς ἄγῃ, “perché la città salvata celebri i suoi cori” (v. 1419), dove la salvezza della città è il presupposto della prosecuzione della vita artistica. 860 Cf. Mastromarco, Totaro (2006), 692-693, nota 227.
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ce Eschilo, che, pur mettendo in guardia dalla pericolosità di un personaggio come Alcibiade, suggerisce di adattarsi ai suoi costumi (vv. 1431-1432). Se davvero possiamo individuare l’ideologia eleusina trasibulea all’origine della propaganda per il ritorno di Alcibiade fin dal 412-411 a.C., Euripide verrebbe dunque meno anche a quei principi ‘eleusini’ di perdono e uguaglianza da lui stesso fatti propri nelle Fenicie, ma evidentemente non sentiti con particolare convinzione (almeno secondo l’interpretazione di Aristofane). Eschilo invece, data la gravissima crisi in cui versa Atene, non esclude che si possa accogliere nuovamente Alcibiade, secondo appunto l’etica eleusina del perdono (Alcibiade del resto aveva intanto fatto ammenda verso le dee di Eleusi garantendo lo svolgimento della processione eleusina). Allo stesso tempo tuttavia Eschilo invita alla prudenza nei confronti del discusso personaggio, riguardo al quale si dice che οὐ χρὴ λέοντος σκύμνον ἐν πόλει τρέφειν (v. 1431a): la metafora del cucciolo di leone ricorre anche nelle Supplici di Euripide (vv. 1222-1223), dove Atena, nel suo discorso finale, afferma che gli argivi saranno un giorno per i tebani come ἐκτεθραμμένοι / σκύμνοι λεόντων, πόλεος ἐκπορθήτορες. Eschilo, servendosi delle parole di Euripide stesso, sottolinea l’invalidità della posizione del rivale. Ricordiamo inoltre che l’allusione alle Supplici si rivela particolarmente significativa in questo contesto dato che questa tragedia presenta notevoli affinità con la tematica delle Fenicie, direttamente coinvolte nel dibattito per il ritorno di Alcibiade (cf. qui sopra, cap. IV.3).861 Al v. 1434, Dioniso sembra riconoscere al consiglio di Eschilo la σοφία (il che ci conforta per l’esegesi del v. 1413) e a quello di Euripide la chiarezza (Euripide rivendica di essere σαφής rispetto a Eschilo fin dal principio dell’agone, cf. v. 927), cosicché ha bisogno di un’ultima prova relativa proprio alla τῆς πόλεως σωτηρία (v. 1436). Scegliendo a questo punto, poiché il testo presenta fin dall’antichità un serio problema filologico, di seguire le edizioni di Dover e Del Corno (che adottano a loro volta la proposta di Dörrie), possiamo ritenere probabile, dato che ormai occorre dimostrare che Euripide non ha in realtà alcunché né di sensato né di utile da dire e le sue μηχαναί sono poco più che trucchi di bassa commedia (non a caso Dio-
861 Considerando il contesto eleusino delle Supplici, non privo di aspetti controversi, soprattutto dal punto di vista escatologico, possiamo ipotizzare che sullo sfondo di questa allusione si proietti anche il riferimento al modo spregiudicato o quanto meno problematico di Euripide di affrontare il tema della religiosità eleusina, sia nelle Supplici, sia nelle Fenicie, dove il tema eleusino del ‘perdono del traditore’ è sfruttato a fini politici, pur senza una convinzione profonda, secondo Aristofane, data la posizione che l’Euripide aristofaneo assume in questo punto dell’agone.
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niso lo apostrofa come Palamede, al v. 1451, con riferimento a una tragedia ricca di μηχαναί, cf. Thesm. 765 ss.), che, dopo il maldestro tentativo di esprimere un parere su Alcibiade in accordo con il coro (vv. 1427-1429), Euripide ripieghi – e non vada oltre – su un discorso buffonesco privo di senso (dove tra l’altro, ancora una volta, è evocato un comico scenario marino, vv. 1437-1441). Alla battuta su Cefisofonte (vv. 1451-1453, da collocare senz’altro dopo il v. 1441) seguirebbero quindi i vv. 1454-1462, in cui Eschilo si informa, trattando un tema a lui caro, dei rapporti di Atene con πονηροί (si osservi l’espressione τοῖς πονηροῖς δ᾽ ἥδεται; al v. 1456, dove il verbo ἥδομαι è associato appunto ai πονηροί) e χρηστοί, per proseguire, ai vv. 1442-1450, con il suo primo consiglio, che, sebbene oscuro come suo costume (Dioniso lo invita a parlare σαφέστερον al v. 1445, il che sarebbe insolito se l’interlocutore fosse Euripide), si esprime in reale accordo con il coro sulla necessità di cambiare, come potremmo dire in termini moderni, ‘classe dirigente’ (vv. 1446-1448, per cui cf. vv. 718-737, la celebre metafora del conio nella parabasi).862 Seguirebbe poi il secondo consiglio di Eschilo (vv. 1463-1465), sul considerare la terra dei nemici come propria e la pro-
862 Per una dettagliata ricostruzione della questione filologica relativa ai vv. 1437-1465 del finale delle Rane, cf. Sommerstein (1996), 286-288; Sonnino (1999), 65-86. In particolare, sullo spostamento dei vv. 1442-1450 subito dopo il v. 1436 e la loro conseguente attribuzione a Euripide, come leggiamo nell’edizione di Sommerstein e Wilson, cf. Sommerstein (1996), 288-290, secondo cui ci troveremmo di fronte a due diverse versioni del finale delle Rane, dovute a una seconda messa in scena della commedia nel 404 a.C.: Aristofane avrebbe sostituito il consiglio buffonesco di Euripide dei vv. 1437-1441+1451-1453 (su cui gravavano anche, fin dall’antichità, sospetti di autenticità) con quello ‘più serio’ dei vv. 1442-1450 sull’eliminazione dei πονηροί dalla politica, per attribuire a Euripide una maggiore dignità; sulla questione, cf. anche Riu (1999), 123-127. Per un’ulteriore indagine sulle motivazioni politiche e sulle circostanze storiche in cui avrebbe avuto luogo la seconda messa in scena delle Rane, cf. Sommerstein (2009), 254-269 (vedi anche qui sotto, nota 863). Riteniamo tuttavia che l’attribuzione a Euripide di un parere così forte, ossia l’invito a cambiare classe politica, in accordo con le parole del coro nella parabasi, sia quanto meno problematico (cf. al riguardo Sonnino (1999), 66-69), senza contare le difficoltà di ipotizzare la presenza di una variante d’autore nel testo. Sembra quindi verosimile che sia Eschilo (a cui del resto il v. 1442 è attribuito nel Ravennate) a parlare ai vv. 1442-1450, dopo la reticenza manifestata al v. 1461 (anch’essa in accordo con il suo carattere ‘altero’, σεμνός, e restio alla chiacchiera manifestato nel corso di tutto l’agone); sulla reticenza di Eschilo, cf. le osservazioni in Canfora (2018), 385-386. Per quanto riguarda poi l’origine dello spostamento indietro, nei manoscritti, dei vv. 1442-1450, proponiamo qui l’ipotesi di un errore meccanico, favorito dalla presenza di due ἐγώ seguiti rispettivamente da una parola iniziante per μ (μόνος e μέν) ai vv. 1453 e 1442.
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pria come dei nemici, e sulle navi come πόρος, che sembrerebbe un riferimento alla strategia di Pericle in Thuc. I.143, o anche al responso dell’oracolo di Delfi prima della battaglia di Salamina (cf. Herod. VII.141).863 Poiché tuttavia, come è stato osservato, il consiglio del ripristino della strategia periclea potrebbe in effetti apparire fuori tempo e fuori luogo nel 405 a.C. e risultare quindi inconsistente per garantire a Eschilo la vittoria, se non in un’ottica di generica esaltazione del passato,864 è da tenere presente, benché nel contesto di una diversa ricostruzione delle battute, fedele al testo tradito, la proposta interpretativa avanzata da Luciano Canfora, secondo cui Aristofane, attraverso Eschilo, individuerebbe la via della salvezza nella pace fra Sparta e Atene (“considerare la terra dei nemici come la nostra e viceversa”): si tratterebbe di una proposta dirompente, ma del tutto in linea con le posizioni politiche da sempre espresse dal commediografo e 863 Con l’attribuzione a Dioniso della battuta ai vv. 1449-1450, nell’edizione di Dover, si evita la lacuna dopo il v. 1450 segnata da Dörrie (mantenuta nell’edizione di Del Corno). Sulla possibilità, riconosciuta da Dover, che i versi 1463-1465 rappresentino la versione originaria, quella delle Lenee del 405 a.C., del consiglio di Eschilo, laddove i vv. 1446-1450 siano frutto del rifacimento del 404 a.C., in occasione della seconda rappresentazione della commedia, quando il mutato contesto politico avrebbe reso assurdo il consiglio dei vv. 1463 ss. (si ricordi che anche Sommerstein sostiene l’ipotesi di una doppia redazione del finale, seppure sulla base di una diversa proposta di ricostruzione dei versi, cf. qui sopra, nota 862), cf. Biles (2011), 253-254. Ricordiamo qui inoltre la proposta avanzata in Sonnino (1999), 86-93, secondo cui l’invito a mutare classe politica (vv. 1454-1460 + 1442-1450) non potrebbe che essere attribuito a Eschilo (in virtù della concordanza osservata qui sopra con il parere del coro), laddove sarebbe piuttosto il consiglio di Euripide a presentare una doppia redazione: i vv. 1463-1465, relativi all’improbabile recupero della strategia periclea, attribuiti quindi a Euripide, si riferirebbero all’edizione del 405 a.C., quando Atene aveva ancora una flotta su cui contare, mentre i vv. 1437-1441 + 1451-1453, relativi al consiglio buffonesco sull’impiego di ampolle di aceto, avrebbero sostituito i precedenti a causa delle mutate condizioni politiche del 404 a.C.. Tende invece a rifiutare la possibilità della doppia versione in vista di una seconda messa in scena della commedia, sulla base di condivisibili motivazioni di carattere storico (la situazione politica di Atene nel 404 a.C.) Canfora (2018), 390-394. 864 Cf. Canfora (2018), 381-383; cf. inoltre Sonnino (1999), 69-72, dove si rileva la difficoltà, nel contesto delle Rane stesse (cf. Ran. 1019-1025), di far esprimere a Eschilo un’adesione alla politica periclea; quanto alla possibilità di riconoscere, nei vv. 1463-1465, un riferimento alle guerre persiane (abbandonare la città e considerare le navi come una risorsa, secondo il responso dell’oracolo di Delfi prima della battaglia di Salamina) – cf. Del Corno (2006), 245 –, sebbene sia un’interpretazione più in linea quindi con la Weltanschauung di Eschilo, non riesce a dare appieno conto dell’intero discorso di Eschilo sul considerare la terra dei nemici come propria e viceversa.
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con quell’‘ideologia eleusina’, che, come invitava alla pace interna, così poteva essere associata a un’ideale di pacificazione ellenica più ampio.865 D’altra parte, osserviamo qui che, ascrivendo a Eschilo anche il parere sul cambiamento di classe politica, i due ‘consigli’ apparirebbero in realtà strettamente legati l’uno all’altro: solo politici onesti e lungimiranti potrebbero portare Atene a percorrere una via opposta a quella percorsa fino a quel momento.866 Alla luce di quanto abbiamo osservato fin qui, la scelta finale di Dioniso appare pienamente giustificata: il fatto che il dio del teatro la definisca come suggerita dalla ψυχή (v. 1468) non è infatti da considerare come un ‘romantico’ e irrazionale abbandono alla Sehnsucht,867 ma piuttosto come un riferimento all’anima come “moral and intellectual self” (cf. Liddell-Scott, s.v.).868 Del resto nelle Rane stesse è ricordata una tragedia eschilea come gli Psicagoghi (cf. qui sopra, § 3.3), cosicché non è improbabile che Dioniso, 865 Cf. Canfora (2018), 377-385, la cui lettura della scena, mantenendo l’ordine tradito delle battute, appare generalmente lineare (nonostante che rimanga un po’ brusca la posizione del v. 1442 dopo il v. 1441 e un po’ troppo lontana la seconda menzione delle ampolle di aceto al v. 1453 dalla loro prima menzione al v. 1440): Euripide formulerebbe, dapprima, un parere buffonesco ai vv. 1437-1441, corretto poi (Dioniso esprime infatti perplessità al v. 1439, inducendo Euripide a aggiustare il tiro) ai vv. 1442-1450, con quel suggerimento di cambiare classe politica presente anche nella parabasi (Euripide è del resto un πανοῦργος e cercherebbe la vittoria con l’astuzia); Eschilo interverrebbe poi al v. 1455, informandosi sulla situazione politica della città e infine fornendo il suo consiglio ai vv. 1463-1465. Entrambi i tragediografi, dunque, proporrebbero una seria via di salvezza, ma solo il consiglio di Eschilo di una pace immediata con Sparta mostrerebbe la radicalità e la forza necessarie per la sua vittoria finale, nonché per la salvezza di Atene. 866 Sul falso problema del ‘doppio parere’ espresso o da Eschilo o da Euripide (risolto di volta in volta con espunzioni o con l’ipotesi di una doppia redazione in vista di una seconda messa in scena della commedia (cf. qui sopra, note 862; 863), contrariamente alla richiesta di Dioniso di esprimerne uno solo, cf. Canfora (2018), 377-379, dove si avanzano opportune argomentazioni di carattere letterario contro ipotesi di espunzione o di doppie redazioni. In ogni caso, considerando i due consigli di Eschilo l’uno la diretta conseguenza dell’altro, il problema del doppio parere (quand’anche ci fosse) risulterebbe ridimensionato. 867 Cf. Riu (1999), 127; si propende, seppure con maggiore cautela, anche in Hunter (2009), 36-38 per un’interpretazione ‘emozionale’ della scelta della ψυχή. 868 Questo è per esempio il significato che troviamo in alcuni passi sofoclei, come Ant. 176; Oed. C. 499; Phil. 1014. Per un’interpretazione della ‘scelta dell’anima’ come razionalmente determinata, cf. anche Biles (2011), 254-255; sulla scelta dettata dalla ψυχή intesa come «l’intera personalità morale e intellettuale» (contrapposta al πόθος iniziale, che aveva indotto Dioniso a cercare Euripide), cf. Canfora (2018), 387. Per una definizione della ψυχή nell’ambito delle testimo-
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che si trova nell’Ade, si comporti proprio come una di quelle ψυχαί eschilee chiamate a dare responsi dall’Ade; anche nei Persiani è la ψυχή (v. 630) di Dario che viene invocata dal coro dei πρέσβεις.869 Dioniso, alla fine del dramma, dimostra quindi di essere riuscito a liberarsi dell’identità assegnatagli da Euripide, riprendendo la sua identità attica di dio delle Antesterie, delle Lenee e dei Misteri di Eleusi, il che implica un pieno coinvolgimento del dio nella vita della πόλις, alla cui salvezza il teatro è chiamato a dare il suo contributo. Il modo in cui Dioniso giustifica a Euripide la sua scelta è particolarmente significativo, in quanto segna una netta distanza da quelle concezioni euripidee, che, influenzate da modelli religiosi lontani dall’ortodossia, rappresentano un pericolo per l’integrità morale e politica della πόλις stessa. Ripetiamo qui a questo proposito quanto abbiamo osservato qui sopra in cap. I.1.3, ossia il fatto che la sconfitta di Euripide sia legittimata da Dioniso mediante i versi euripidei che, secondo Aristofane, dovevano esprimere al meglio il sovvertimento dell’or-
nianze omeriche come «esalazione fredda e umida [in quanto contrapposta al θυμός, esalazione calda e secca]: il principio vitale che costituisce anche il dispositivo per la sopravvivenza del corpo, che sopravvive al corpo stesso e porta iscritta in sé la sopravvivenza del proprio vissuto», cf. Stefanelli (2010), 139-187, in particolare 184-187. Successivamente a Omero, cf. Snell (1975), 25-29, dove si attribuisce a Eraclito un ruolo centrale nella «neue Auffassung der Seele» in quanto dotata di qualità distinte da quelle del corpo e si individuano nella lirica i presupposti di tale evoluzione: cf. in particolare, frr. DK 22 B45; 115, dove quello che è per noi interessante osservare in questa sede è l’affermarsi della credenza che l’anima abbia un λόγος, una parte razionale, che superi l’omerico ‘principio vitale’, in accordo con quanto emerge dai passi tragici citati qui sopra. Per una disamina dell’evoluzione del termine ψυχή nella letteratura greca, prima della formulazione del concetto platonico, cf. inoltre Claus (1981), in particolare 85-89; 157-159, sulle ricorrenze del termine in Aristofane (significativamente presenti in larga misura nelle Nuvole, in relazione quindi alla figura di Socrate) e, nello specifico, nel passo in questione delle Rane (p. 89), per cui l’autore suggerisce, con cautela, la possibilità di un’innovativa equazione φρήν / ψυχή, indotta dalla citazione di Hipp. 612, che darebbe a quest’ultima «a rationalistic and reflective quality». Potrebbe agire in questo caso anche un’influenza dei vv. 1006-1012 dell’Ippolito (commentati qui sopra in cap. II.2.1.2), dove, giocando ancora una volta sull’opposizione σῶμα / ψυχή (v. 1003, δέμας; v. 1006, ψυχή; v. 1009, σῶμα), Ippolito, al v. 1012, per definire chi è privo di senno, introduce nel discorso anche le φρένες, usando l’espressione οὐδαμοῦ […] φρενῶν, quasi creando così una continuità terminologica (oltre che concettuale) con le parole pronunciate in Hipp. 612. 869 Il trionfo di Eschilo è del resto sancito anche dall’allusione, nella processione finale che riconduce Eschilo sulla terra, alla conclusione delle Eumenidi; cf. al riguardo Sells (2012), 91-94.
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§ 3 L’agone
todossia religiosa da parte di Euripide, ossia Ippolito 612 e i frr. 638 e 833 dal Poliido e dal Frisso (l’Ippolito e il Poliido presentano tra l’altro legami con le vicende cretesi), passi che attraversano l’intera commedia a partire dal prologo, dove Hipp. 612 è citato da Dioniso, in una forma molto rielaborata, come una delle vette dell’arte euripidea (vv. 101-102).870 Si considerino dunque i vv. 1469-1471 e 1476-1478: ΕΥ. μεμνημένος νυν τῶν θεῶν, οὓς ὤμοσας ἦ μὴν ἀπάξειν μ᾽ οἴκαδ᾽, αἱροῦ τοὺς φίλους. ΔΙ. ἡ γλῶττ᾽ ὀμώμοκ᾽ [cf. Hipp. 612], Αἰσχύλον δ᾽ αἱρήσομαι.871 [...] ΕΥ. ὦ σχέτλιε, περιόψει με δὴ τεθνηκότα; [Euripide è costretto a riconoscere la sua presente condizione come morte] ΔΙ. τίς δ᾽ οἶδεν εἰ τὸ ζῆν μέν ἐστι κατθανεῖν, [cf. Poliido fr. 638; Frisso 833] τὸ πνεῖν δὲ δειπνεῖν, τὸ δὲ καθεύδειν κῴδιον; Osserviamo, a proposito di quest’ultima distorsione comica dei versi di Εuripide, che ne segna la definitiva sconfitta, come Aristofane possa forse riecheggiare un frammento di Eraclito (DK 22 B26),872 da cui sembra emergere che la condizione di “chi ha gli occhi spenti nella notte” (ἐν εὐφρόνῃ), interpretabile come quella della morte, sia tale che l’uomo φάος ἅπτεται ἑαυτῷ. A questo corrisponde una svalutazione della vita, che può essere accostata alla morte (intesa come condizione privilegiata) solo nel
870 Si osservi tra l’altro che dei tre passi euripidei citati nel prologo, gli altri due, relativi all’Etere e al Tempo, sono poi oggetto di una ripresa durante la catabasi (subito dopo l’apparizione di Empusa) ai vv. 310-311: il percorso di Dioniso attraverso la riconsiderazione delle sue convinzioni sull’arte euripidea si articola in tappe successive, in ognuna delle quali il dio sembra acquisire maggiori consapevolezze o quanto meno mettere in dubbio le sue certezze. 871 Della citazione euripidea di Hipp. 612 rimane qui solo la metà relativa alla γλῶττα che ha giurato, laddove il testo euripideo prosegue con φρὴν ἀνώμοτος. Ora, Dioniso poco prima afferma che a scegliere Eschilo sia stata la sua ψυχή (v. 1468), cosicché, con il riferimento alla lingua che ha giurato per Euripide, sembrerebbe quasi ricomporre il verso euripideo, seppure in un ordine invertito (l’associazione γλῶττα-Euripide è comunque sia significativa anche alla luce del fatto che γλώττης στρόφιγξ sia una delle divinità tutelari invocate da Euripide al v. 892). Eppure, come osserva Del Corno (cf. Del Corno (2006), 245-246), il giuramento di cui parla Euripide non è mai esistito: la ricomposizione del verso euripideo da parte di Dioniso, dunque, non trova alcuna corrispondenza nella realtà della commedia e rimane di fatto priva di referenti reali, così da invalidare e vanificare ulteriormente il contenuto del verso in questione. 872 ἄνθρωπος ἐν εὐφρόνῃ φάος ἅπτεται ἑαυτῷ ἀποσβεσθεὶς ὄψεις, ζῶν δὲ ἅπτεται τεθνεῶτος εὕδων, ἐγρηγορὼς ἅπτεται εὕδοντος.
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Capitolo VI: Le Rane: i Misteri di Eleusi e la salvezza della πόλις
momento del sonno, laddove la veglia si configura come sonno privo di qualunque connotazione positiva. I concetti di morte e vita, con la mediazione dell’immagine del sonno, finiscono dunque anche in Eraclito per essere scambiati. Aristofane ribadisce quindi, in conclusione, quali siano a suo avviso due fra gli aspetti più controversi del messaggio religioso della tragedia euripidea, quali la tendenza, riconducibile alle dottrine orfiche, a considerare l’essere umano come distinto in due componenti, materiale e spirituale, in contrasto fra di loro (con le gravi conseguenze sul piano morale che questo implica), nonché, forse appunto riecheggiando anche Eraclito, la tendenza a confondere la vita con la morte, sottraendo alla vita stessa il suo valore e quindi al πολίτης il dovere di impegnare se stesso nella vita comunitaria della πόλις.
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Conclusioni
Nel corso di questa ricerca abbiamo cercato di dimostrare in primo luogo la possibilità di individuare tendenze ricorrenti nella tragedia euripidea rispetto alla questione religiosa: se l’atteggiamento di Euripide rispetto alla religione è indubbiamente problematico, questo implica anche un’incessante ricerca del tragediografo verso credenze che siano capaci di rispondere a esigenze più profonde lasciate insoddisfatte dalla religiosità tradizionale. In quest’ultima possiamo includere anche un culto misterico come quello eleusino e le sue promesse di salvezza nell’aldilà, che Euripide sembra tuttavia in un certo senso voler superare. A partire da tali premesse abbiamo potuto valutare la particolare importanza in Euripide di dottrine e culti che si collochino non solo ai margini dell’ortodossia, ma anche geograficamente ai margini del mondo greco stesso. Tragedie come i Cretesi, l’Ippolito, l’Elena, l’Ipsipile, fino alle ultime Baccanti presentano sfondi religiosi dominati da culti dionisiaci e metroaci con cui si fondono credenze e dottrine che abbiamo definito come ‘orfiche’. Nonostante l’inafferrabilità del fenomeno orfico e soprattutto la difficoltà di attribuire all’orfismo un mito o una dottrina piuttosto che altri, abbiamo a che fare con materiale, di tipo soprattutto cosmogonico e escatologico, che troviamo spesso, nelle nostre testimonianze, attraverso tutta l’antichità, ricondotte al nome di Orfeo, cosicché, per quanto possa essere artificiale l’etichetta di orfismo, lo stesso non si può dire della paternità, pur appartenente alla sfera del mito, riconosciuta al cantore tracio o, fuori dal mito, a coloro, gli Ὀρφικοί, che si rifacevano ai suoi insegnamenti. Del resto la scoperta delle lamine d’oro ha permesso di individuare una realtà cultuale corrispondente alle testimonianze letterarie, una realtà la cui collocazione geografica riguarda per così dire le ‘aree laterali’ del mondo greco, così come ‘laterali’ sono spesso le aree a cui appartengono i culti rappresentati nella tragedia euripidea, Creta, ‘oriente’ (Frigia e Lidia), perfino i territori barbari del Mar Nero nel caso dell’Ifigenia in Tauride. Il problema religioso che emerge dai drammi di Euripide è quindi tutt’altro che limitato a dibattiti sofistici relativi all’esistenza degli dei o alla loro identificazione con sostanze eteree, ma, pur ponendosi spesso in termini che appunto possiamo ritenere influenzati dalla speculazione sofistica contemporanea, si risolve o quanto meno tenta di risolversi in forme di religiosità straniere e non ortodosse, che in ultima istanza offrono all’individuo risposte ‘diverse’, più capaci di intercettarne le profonde inquietudi-
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Conclusioni
ni. Il culto attico, dunque anche nelle sue manifestazioni più vicine all’individuo, quali i Misteri di Eleusi, rischia di essere esso stesso trasfigurato e di trasformarsi in un culto barbaro, come avviene nell’Elena. Tutte queste sfaccettature della questione religiosa euripidea sono recepite da Aristofane, che ne avverte la pericolosità per la πόλις, in particolare il fatto che Euripide induca a un allontanamento da quella che oltre che religioso finisce per essere anche politico. Del resto la biografia stessa del tragediografo lo dimostra, dato che nel 408 a.C. Euripide lasciò Atene per recarsi a Pella alla corte di Archelao. La critica di Aristofane a Euripide a proposito della religione si svolge, potremmo dire, su due piani, ossia quello più superficiale dell’attacco al tragediografo in quanto ateo o devoto di ‘nuovi dei’ e quello più profondo da cui emerge la volontà di Aristofane di mettere in luce la tendenza euripidea a rappresentare forme di religiosità estranee all’Attica o più generalmente all’ortodossia (i due aspetti sono del resto strettamente legati, come abbiamo visto a proposito delle lamine orfiche). Le due commedie aristofanee pervenuteci che pongono come centrale il problema della tragedia euripidea sono le Tesmoforiazuse e le Rane: lo sfondo religioso e cultuale di entrambe è costituito dai culti di Demetra, le Tesmoforie e i Misteri di Eleusi. Aristofane riporta così l’attenzione sulla religiosità tradizionale dell’Attica direttamente in opposizione a Euripide. Le tecniche metateatrali di cui Aristofane si serve per rappresentare non solo l’estraneità di Euripide a tale complesso cultuale, ma anche la minaccia che la sua tragedia rappresenta per esso sono raffinatissime: il teatro di Euripide, portato sulla scena comica, interagisce con il suo sfondo religioso e, come avviene nelle Tesmoforiazuse, giunge, nelle mani di Aristofane, a trasformarlo e perfino a corromperlo. Nelle Rane il problema religioso diventa tutt’uno con quello politico: i Misteri di Eleusi assurgono a simbolo della religiosità stessa della πόλις e si configurano come capaci di ridare speranza alla città che corre il suo maggior pericolo nel conflitto con Sparta. Il tema della salvezza di Atene induce dunque Aristofane a cercare risposte positive (le Tesmoforiazuse si concludevano invece con la vittoria dell’eroe comico Euripide), che siano insieme religiose, poetiche e politiche: la salvezza della πόλις si identifica infatti con quella del teatro, che deve ritrovare anch’esso i suoi veri modelli religiosi di riferimento. Da qui proviene la rappresentazione della figura di Dioniso, che, inizialmente infatuato di Euripide, deve ritrovare la sua identità, anche religiosa e cultuale, all’interno dei culti della πόλις, da cui Euripide lo aveva allontanato: Dioniso, nella sua catabasi, affronta un percorso in cui progressivamente si riconosce come il dio delle Antesterie, delle Lenee e soprattutto come lo Iacco dei Misteri di Eleusi. La relazione con Demetra
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Conclusioni
diventa determinante per definire l’identità del Dioniso attico e quindi del teatro stesso, laddove Euripide aveva celebrato piuttosto il binomio ‘barbaro’ Dioniso-Madre degli dei. Lo studio dell’agone della commedia rivela appunto come le scelte di Aristofane nella rappresentazione del teatro di Euripide siano orientate, dal punto divista religioso, in direzione della selezione di passi e tragedie in cui si colga appunto la tendenza all’allontanarsi dall’Attica e dai suoi culti verso forme di religiosità ‘altre’, sia come contenuti sia come provenienza. Occorre in verità osservare come le contrapposizioni religiose fra Aristofane e Euripide si svolgano sul filo del rasoio e che talora sia questione perfino di dettagli lessicali, ma la storia delle religioni ci insegna per esempio che le più gravi scissioni religiose si originano spesso da minimali questioni definitorie. Senz’altro l’urgenza di ‘atticizzare’ Dioniso, il dio del margine e del limite in ogni ambito, anche geografico, non è propria solo di Aristofane, come dimostra per esempio la celebre pelike attica di S. Pietroburgo (Ermitage St. 1792), della metà del IV sec., che ci rappresenta un Dioniso ‘autoctono’ appena nato, la cui nascita ricalca l’iconografia della nascita di Eretteo dalla Terra, e protetto dallo scudo di Atena, la cui figura domina il centro della scena. Eppure se la religiosità ‘atenocentrica’ di Aristofane si configura come un ultimo tentativo della πόλις di difendere la sua identità prima di una decadenza che avrebbe condotto al suo inglobamento nell’impero macedone prima, e nell’impero romano poi, è anche vero che i Misteri di Eleusi dovettero mantenere la loro fisionomia senza eccessive alterazioni fino alla tarda antichità, nonostante, forse, una sempre maggiore tendenza all’associazione della figura di Demetra con quella della Madre degli dei, la cui identificazione appare tanto stridente nell’Elena di Euripide. Se il modello religioso proposto da Aristofane ha dunque una sua precisa ragion d’essere storica nell’Atene del tardo V sec., la sua rappresentazione della tragedia attica costituisce il punto di partenza di tutta la critica letteraria successiva, con la sua inalterata definizione dell’evoluzione del teatro tragico da Eschilo a Euripide. La tecnica teatrale, anzi metateatrale, adottata dal commediografo per realizzare i suoi obiettivi ha costituito uno degli specifici oggetti di indagine del presente lavoro, in particolare per quanto riguarda il rapporto con la tragedia di Euripide: il sistema capillare di citazioni e allusioni mai casuali creato da Aristofane permette di individuare una trama uniforme in cui si compone un’immagine coerente del tragediografo che per Aristofane dovette costituire bensì un problema, ma anche un rivale degno di lui stesso nell’interpretazione e nella rappresentazione dello spirito del loro tempo.
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Appendice Lamine auree: corrispondenze fra le edizioni di Zuntz, Pugliese Carratelli e Bernabé
Pugliese Carratelli
Bernabé
Hipponium
I A1
fr. 474
Entella
IA4
fr. 475
IA2 IA3 I B 1-3 ΙΒ4 I B 5-6 IB7
fr. 476 fr. 477 frr. 478-480 fr. 481 frr. 482-483 fr. 484
II B 3-4
frr. 485-486
II B 2 II B 1 II A 1-2 IC1 III 1 II C 2
fr. 487 fr. 488 fr. 489-490 fr. 491 fr. 492 fr. 493
Zuntz
Petelia Pharsalus Creta: Eleutherna Creta: Mylopotamos Creta: Eleutherna Thessalia [nunc Getty Museum, Malibu] Creta: Rethymnon
B1 B2 B 3-5 B6 B 7-8
fr. 484a
Thessalia, Pelinna Thurii (Timpone Grande) Thurii (Timpone Piccolo) Thurii (Timpone Piccolo) Roma Thurii (Timpone Grande) Thessalia, Pherare Creta: Rethymnon, Sfakaki
A4 A1 A 2-3 A5 C
fr. 494
Creta: Mylopotamos
fr. 495
Thessalia, Magoula Mati
fr. 495a
Pella
fr. 496
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404 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati
Aeschylus TrGF III T8 TrGF III T93 Aegyptii, TrGF III F5 Choephori fr. 1 (ed. West) vv. 127-128 vv. 327-330; 357-360 v. 676 Danaides, TrGF III F44 Eumenides, vv. 24-25 Lycurgia: Edoni TrGF III F57 TrGF III F59 TrGF III F60 TrGF III F61-61a Bassarides Test. Eratosth. Catast. 24 Neaniskoi Niobe, TrGF III F161 Persae vv. 65-139 vv. 660-661 vv. 694-695; 700-701; 950-953; 962-965 Philoctetes, TrGF III F249 Psychagogi, TrGF III F273 Sisyphus, TrGF III F228 Supplices, vv. 1018-1061 Fabula incerta, TrGF III F341
pp. 313 -314 p. 324, n. 765 p. 123, n. 277 p. 361 pp. 49; 218 p. 257, n. 615 p. 101, n. 222 p. 29, n. 11 pp. 203-204, n. 487 pp. 247-251; 351-352 p. 192 pp. 197-198 p. 192, n. 461; p. 248, n. 589 p. 198, n. 474 pp. 247-248, n. 588 pp. 193-197; 251, n. 594; p. 331, n. 776 pp. 203-204, n. 487 p. 368 p. 257 p. 248-249, n. 589 p. 257, n. 615 p. 368 pp. 361; 373-374 p. 123, n. 277 pp. 257-258, n. 615 p. 204, n. 487
Alcaeus fr. 129 Voigt
p. 124
Anaxagoras DK 59 A30 DK 59 B2 DK 59 B12
p. 188, n. 449 p. 55 pp. 45; 55; 64, n. 109; p. 177, n. 423
Apollophanes, Cretes, fr. 6 PCG
p. 89, n. 183
Apollonius Rhodius Argonautica I.496-498; 503-506
p. 47
405 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati I.536-541 I.1092-1102
p. 209, n. 497 p. 88, n. 179
Aristophanes Acharnae vv. 407-489 vv. 708-709 (+ schol.) Aves v. 276 (+ schol.) vv. 682-683; 716; 722; 724; 749 vv. 690-702 vv. 745-746; 873-876 vv. 1372; 1376 vv. 1383-1385 Daetalenses fr. 232 PCG fr. 235 PCG Equites, vv. 517-550 Gerytades, fr. 156 PCG Heroes, fr. 325 PCG Horae, frr. 578; 581 PCG Lysistrata vv. 1-3; 283-284; 368-369; 555-558; 1279-1290; 1296-1301; 1306-1319 vv. 645; 675 Nubes vv. 302-304; 311-312 v. 333 v. 529 vv. 595-606 vv. 961-986; 1050 vv. 1353-1372 Pax vv. 54-81 vv. 62-63; 107-108 vv. 374-375 vv. 530-532 vv. 741-747 vv. 752-759 vv. 827-837 Plutus, v. 431 (+ schol.) Polyidus, fr. 468 PCG Ranae [prologo] vv. 1-32 vv. 38-59 (+ schol. 53) vv. 73-79 vv. 92-104 vv. 108-115 vv. 137-163 [coro delle rane] vv. 209-267
pp. 59; 71-72; 231; 268 p. 153 p. 198, n. 474 p. 321, n. 757 p. 215 pp. 97-98; 321, n. 757 p. 253 p. 54, n. 92 p. 320 pp. 256-257 p. 336, n. 786 p. 311, n. 734 p. 89, n. 183 p. 89, n. 183; p. 320 pp. 281-282, n. 674 p. 285, n. 681 p. 318 p. 275 p. 260, n. 620 p. 320; 357, n. 831 pp. 295; 320, n. 755 p. 54, n. 92; pp. 257; 320, n. 755; p. 354, n. 823 p. 59, n. 96 p. 61 p. 307, n. 725 p. 318, n. 749 p. 341, n. 799; p. 344, n. 804 pp. 295; 341 p. 54, n. 92; pp. 57; 63 pp. 158-162 p. 354, n. 824 pp. 296-298; 301, n. 706 pp. 183; 293-295; 297, n. 699, pp. 298; 315; 365-366, n. 847 p. 296, n. 697 pp. 55-57; 264-265; 295; 366, n. 849; p. 375 pp. 294; 308 p. 54, n. 92; pp. 300-308; 320; 335, n. 783 pp. 314-325
406 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati vv. 211-219a vv. 221-233/4 vv. 242-249 [l’ingresso nell’Ade] vv. 273-276 vv. 288-293; 309-311 [parodo] vv. 316-459 vv. 324-353 vv. 354-371 vv. 372-374 vv. 378-408 vv. 413-414 vv. 416-424 vv. 440-459 [le ‘prove’ di Dioniso] vv. 464-674 vv. 464-502 vv. 503-548 vv. 549-604 vv. 605-674 [parabasi] vv. 686-705 vv. 718-737 [dialogo fra gli schiavi] vv. 738-813 [agone e esodo] vv. 814-825 vv. 841-857 vv. 868-870 vv. 885-894 vv. 911-928 vv. 948-979 v. 998 vv. 1009-1011 vv. 1026-1056 vv. 1063-1073 vv. 1077-1088 vv. 1126-1150 vv. 1182-1245 v. 1259 vv. 1264-1300 vv. 1304-1328 (+ schol. 1305) vv. 1331-1363 vv. 1382-1403 v. 1413 vv. 1418-1432 vv. 1434-1465 vv. 1468-1478 vv. 1491-1499 vv. 1504-1513
p. 100, n. 217; pp. 316-318; 330; 361 p. 100, n. 217; pp. 319-322 p. 330 pp. 301; 304-305; 309-310 pp. 325-326; 375, n. 870 pp. 326-338 p. 261, n. 623; pp. 301; 304, n. 715; pp. 330-331; 333-334 pp. 275; 278, n. 666; pp. 309; 334-335; 369 p. 301 pp. 333-338; p. 347, n. 811; p. 369 pp. 338 pp. 309-310; 332 pp. 301; 306-307; p. 312, n. 735; pp. 330-332 pp. 338-344 pp. 338-341 pp. 304; 320, n. 752; pp. 341-342 pp. 342-343 p. 298; 343-344 p. 312, n. 735; p. 345, n. 806; pp. 347; 369 pp. 347; 371 p. 345, n. 806 p. 348 pp. 347-348, nn. 810-811; pp. 352-353; 354, n. 823; p. 366, n. 849 p. 355 pp. 26; 54-55; 62; 313-314; 347, n. 811; p. 375, n. 871 p. 346, n. 809; p. 347, n. 810; pp. 368-369; 370 pp. 231; 345; 347, n. 810; p. 348, n. 812; p. 360 pp. 347-348, n. 811 pp. 345; 347 pp. 75; 232; 347; 349, n. 812; pp. 349-353; 357; 368-369 pp. 231; 315-316; 346; 355; 366, n. 849 pp. 308; 311; 350; 354-355; 358 pp. 361-362 pp. 356-360 p. 348 p. 321, n. 757; pp. 322-323; 346, n. 809; p. 361 pp. 205-206; 253, n. 600; p. 256, n. 610; pp. 279; 362-366 p. 100, n. 218; pp. 279; 366-368 pp. 286; 368 p. 239, n. 568; pp. 299; 368-370 pp. 369-371 pp. 370-373 pp. 56-57; 308; 311; 373-376 p. 54, n. 92 p. 309, n. 729
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Indice dei principali passi citati Tagenistae frr. 504; 520 PCG fr. 515 PCG Thesmophoriazusae vv. 1-38 vv. 39-69 v. 98 vv. 100; 200 vv. 101-174 [canto di Agatone] vv. 101-129 v. 194 vv. 213-265 vv. 272-276 vv. 295-371 vv. 381-432 vv. 443-458 v. 451 vv. 497; 547 vv. 689-775 vv. 785 ss. vv. 848-850 vv. 855-922 vv. 929 ss. vv. 947-1000 vv. 947-984 [ditirambo] vv. 985-1000 vv. 1015-1135 vv. 1136-1159 vv. 1165-1225 Thesmophoriazusae II fr. 331-334; 341-342 PCG Vespae vv. 8-9 v. 60 v. 368 vv. 1030-1037 Fabulae incertae fr. 592 PCG fr. 908 PCG
p. 311, n. 734 p. 325 pp. 55; 237-241 p. 246, n. 583; p. 251, nn. 594-595 p. 256, n. 610 pp. 259-260, n. 620 pp. 72-73; 241-252; 256; 293-295 p. 210, n. 500; pp. 252-261; 276; 280, n. 668; pp. 320; 333, n. 780 p. 251 pp. 261-262 pp. 56; 252, n. 596; pp. 264; 286, n. 683; p. 299 pp. 265-267; 276; 285, n. 681; p. 287, n. 685; p. 320 pp. 232; 263-264 pp. 263-264 p. 54, n. 92; pp. 58; 61; 233; 263 pp. 264; 360 pp. 268-269; 371 p. 286 pp. 270; 276, n. 661 pp. 272-274; 278, n. 666 p. 275 p. 269, n. 642; pp. 275-281 pp. 275-277 pp. 277-281; 365 pp. 282-286 pp. 285-286 pp. 284-287 p. 260, n. 621 p. 94 p. 341, n. 799 p. 367, n. 853 pp. 295; 341; 348, n. 811 pp. 260-261, n. 621 p. 89, n. 183
Clemens Alexandrinus Protrepticus I.2.2 II.13.5 II.17-18 II.20-21 XII.119
p. 343, n. 803 p. 273, n. 654 p. 115, n. 259; pp. 170-172 p. 79, n. 150; pp. 102-103; 170-172 p. 131, n. 300
Cratinus Euneidae, frr. 71-72 PCG Fabula incerta, fr. 342 PCG
p. 210, n. 503 pp. 25; 233
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Indice dei principali passi citati
Demosthenes De corona, 260 Or. 25.11
pp. 88-89, n. 182 p. 351, n. 816
Diodorus Siculus I.29; 96-98 V.64.4 V.48.4-50.1 V.75
pp. 165; 273, n. 654; p. 305, n. 721; p. 351, n. 816 p. 125 p. 147 p. 124, n. 277; pp. 124-125; 351, n. 816
Diogenes Apolloniensis DK 64 A16a DK 64 B4-5
p. 45, n. 63 p. 45, n. 63; p. 177, n. 423
Empedocles DK 31 A49 DK 31 B38 DK 31 B49; 62; 73; 84; 86-87 DK 31 B115; 117; 125; 127; 136; 146-147
p. 55 p. 67, n. 119 p. 238 p. 50, n. 81; p. 178, n. 425
Epicharmus fr. 213 PCG
p. 49
Epimenides frr. 37; 60 Bernabé fr. 33 Bernabé
p. 98 p. 101, n. 221
Eratosthenes Catast. 24 fr. XIII
pp. 193-197 p. 238, n. 564
Eupolis Baptae, frr. 76-98 PCG
p. 89, n. 183
Euripides Alcestis vv. 357 ss. v. 570 v. 691 vv. 962-972 vv. 1159-1163 Andromache vv. 1284-1288 Andromeda TrGF 10 FF114; 146 TrGF 10 F145 Antigone TrGF 11 FF157-158
pp. 195-196 p. 276, n. 660 pp. 251-252 pp. 204-205, n. 488 p. 63, n. 108 p. 63, n. 108 pp. 282-283; 298 pp. 181-182, n. 432 p. 49, n. 73 p. 356
409 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati TrGF 11 F170 Antiope TrGF 12 F182a TrGF 12 FF183; 185 TrGF 12 F192 TrGF 12 F195 TrGF 12 F202 TrGF 12 F203 TrGF 12 FF221 TrGF 12 FF222-223 Bacchae vv. 23-25 vv. 55-61 vv. 64 ss. v. 74 vv. 78-79 vv. 116-119; 217-220; 1235-1237 vv. 120-134 v. 139 vv. 187-194 vv. 234-236 ss.; 256; 260; 353; 650; 980 vv. 274-299 vv. 381; 772 vv. 370-432 vv. 497-498 v. 526 vv. 519-529 v. 549 vv. 560-564 vv. 608; 630-631 vv. 725-726 vv. 810-846 vv. 889 / Alexander, TrGF 3 F42 vv. 1064-1147 v. 1192 vv. 1388-1392 Bellerophon TrGF 18 F286 TrGF 18 F291 TrGF 18 F303 TrGF 18 F304a; 305 TrGF 18 F310 Chrysippus, TrGF 78 F839 Cressae TrGF 40 F467 Cretes TrGF 41 F472 TrGF 41 F472e TrGF 41 F472f TrGF 41 F472g Cyclops v. 69 v. 205 vv. 443-444
p. 368 pp. 27; 38; 185-187; p. 251, n. 595 pp. 185-186, n. 442 p. 187 p. 29, n. 10; p. 49, n. 73; p. 187 p. 186, n. 443 p. 184 pp. 118; 184 p. 38, n. 38; pp. 185-186 p. 357 pp. 86; 90; 94, n. 200; p. 139, n. 323 pp. 124; 261, n. 623 p. 126 p. 90 p. 109, n. 242 pp. 90-91; 93; 139, n. 323; p. 322 p. 124 p. 333 pp. 185-186, n. 442 pp. 65-68; 83, n. 159; p. 113, n. 253 p. 113, n. 253 p. 261, n. 623; p. 310, n. 733 p. 131 p. 112, n. 251 p. 112 p. 131 p. 186 p. 218, n. 527 p. 329, n. 773 p. 119, n. 270; pp. 261-262 pp. 56-57; 299 pp. 39; 269, n. 642 p. 123, n. 277 p. 63, n. 108 pp. 58-62; 64, n. 110; p. 65, n. 112; pp. 233; 263-264 p. 63 pp. 63; 69 p. 60, n. 100 p. 60-62 pp. 27-39; 48-52; 185; 187 p. 352, n. 819 p. 129, n. 295 pp. 91-93; 121-130; 211-212; 216; 221, n. 534; p. 278 p. 127 p. 367, n. 852 p. 367, n. 854 p. 329, n. 773 p. 90, n. 188 pp. 209-210, n. 500; p. 255
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Indice dei principali passi citati Electra vv. 54-59 vv. 737-744 Erechtheus TrGF 24 F370 Hecuba vv. 68-72 vv. 797-801 Helena Scene varie: I, II e III episodio vv. 1-3 vv. 34; 44 v. 68 vv. 171 ss.; 569-570 vv. 586; 610; 674; 708-710 vv. 605-621 vv. 711-721; 744-757 vv. 865-870; 906-907 vv. 880-891 vv. 947-995 vv. 1005-1007; 1025-1027 vv. 1013-1016 vv. 1050-1052; 1289-1290 vv. 1093-1164 [II stasimo] vv. 1301-1368 vv. 1301-1318 vv. 1323-1336b vv. 1337-1352 vv. 1353-1365 vv. 1366-1368 vv. 1465-1468 vv. 1688-1692 Hercules Furens vv. 348 ss.; 674 ss. vv. 878-895 vv. 1263-1265 Hippolytus vv. 24-33 v. 87 v. 102 vv. 133-140 vv. 141-150 v. 178 vv. 184-185 vv. 191-197 vv. 201-222; 241-249 v. 317 vv. 426-430; 453-454 vv. 525-526 vv. 545-564 v. 612
pp. 49; 214-215 p. 69, n. 126 p. 49, n. 73; p. 210, n. 500; pp. 220; 254-255 p. 366 p. 65, n. 112; p. 69, n. 126 pp. 270-275 p. 272 p. 67, n. 119; p. 179, n. 427 p. 273, n. 651 p. 278, n. 666 p. 180 p. 236, nn. 559-560 p. 134 pp. 178-179 p. 180, n. 428 p. 176 p. 179 pp. 49; 177-178; 236, n. 560; p. 239, n. 567; pp. 273-274; 305, n. 721 p. 176 pp. 133-134; 180, n. 428 pp. 133 ss.; 269; 275-281 p. 90, n. 188; pp. 136-138; 173; 207; 279-280 pp. 140-142; 279-280 p. 135, n. 311; pp. 139; 278-280; 322 p. 134, n. 309; pp. 163; 173; 207; 279-280 pp. 135; 280 p. 282, n. 674 p. 63, n. 108 p. 258, n. 617 p. 258, n. 617; p. 342, n. 801 p. 58, n. 95 pp. 77-80; 139 p. 118 p. 117 pp. 81; 102-103; 104, n. 227; p. 117 pp. 81 ss.; 103; 137; 139; 142; 278; 367 p. 106 p. 106, n. 232 p. 50, n. 78; p. 106 p. 104, n. 227; pp. 106-107; 114; 120; 139 p. 117 pp. 114-115; 114, n. 256 p. 80, n. 151 pp. 112; 114, n. 256; p. 118 pp. 56-57; 77; 117; 252, n. 596; pp. 264; 286, n. 683; pp. 299; 374, n. 868; pp. 374-375
411 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati v. 862 vv. 950-957; 986-987 vv. 1003-1012 vv. 1126-1133 vv. 1201-1202; 1214 v. 1300 vv. 1379-1381 vv. 1423-1430 vv. 1448 ss. Hypsipyle TrGF 71 FF752-752a TrGF 71 FF752b-f TrGF 71 F752g TrGF 71 F752h TrGF 71 F754a TrGF 71 F757 TrGF 71 F758a (vv. 1103-1108) TrGF 71 F758b TrGF 71 F759a TrGF 71 F765-765a Ion vv. 82-85 vv. 550-553; 714-718; 1122-1128 vv. 1048-1089 vv. 1143-1158 Iphigenia Taurica vv. 1-2 v. 127 vv. 145-146 vv. 150-166 vv. 209-224 vv. 770-771 vv. 947-978; 1446-1467 vv. 1089-1093 vv. 1103-1105; 1125-1131 vv. 1293-1301 Licymnius, TrGF 43 F477 Medea, vv. 1415-1419 Melanippe Sapiens TrGF 44 F480 TrGF 44 F481 TrGF 44 F484 TrGF 44 F487 Meleager TrGF 46 F516 TrGF 46 F531 TrGF 46 FF520; 524; 532-534 Orestes vv. 4-10; 982 ss. v. 174 vv. 1086-1087 Palamedes, TrGF 52 F586 Phaethon TrGF 72 F781
p. 119, n. 270 pp. 119-120; 126-127 pp. 117; 374, n. 868 p. 100, n. 218 p. 118 p. 114 p. 118, n. 268 pp. 77; 118-119 p. 226, n. 553 pp. 189; 217-218; 297-298; 356-357 p. 206, n. 490; pp. 205-208; 362-364 p. 191, n. 459; pp. 208-212; 255 p. 212; 221, n. 535 p. 204 p. 49, n. 73; pp. 190; 217-220; 355, n. 826 pp. 213-216 p. 216 pp. 190-191; 209; 217; 255 pp. 363-365 pp. 221 p. 203, n. 487; p. 221 pp. 221-222; 329, n. 773 pp. 43-44, n. 53 pp. 283-285 p. 359 p. 100, n. 218 p. 250, n. 593 p. 181, n. 432; p. 366 p. 166, n. 387 p. 181, n. 432 pp. 165-168 p. 366 pp. 323-325 p. 284 p. 204, n. 487 p. 63, n. 108 p. 58, n. 95; pp. 359-360 pp. 359-360 pp. 28-29; 38; 46-47; 55; 237-238 pp. 28-29; 38, n. 38; p. 45, n. 59; pp. 55-57; 65, n. 112; pp. 76-77; 252, n. 596; pp. 264-265; 299 p. 359 p. 368 p. 359, n. 834 p. 45, n. 57 p. 214 p. 49 pp. 164; 269; 329, n. 773 p. 201, n. 483
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Indice dei principali passi citati TrGF 72 F783 Philoctetes, TrGF 73 F795 Phoenissae vv. 109-110 vv. 464-468 vv. 85; 351; 528 ss.; 536-538; 542; 549 ss. vv. 681-689 Phoenix, TrGF 74 F816 Phrixus I et II TrGF 76 Tiia-b; 77 Tiia-b TrGF 76 F819 TrGF 76-77 F833 [Eur.?] Pirithous, frr. 593-594 N2 Polyidus, TrGF 57 F638 [Eur.?] Rhesus, vv. 941-946 [Eur.?] Sisyphus, TrGF I 43 F19 Stheneboea TrGF 61 F661 TrGF 61 F664 Supplices vv. 30-31 vv. 245-246; 349-353; 393-395 vv. 253-261 vv. 531-534 v. 739 v. 787 vv. 1222-1223 Telephus Theseus Troades vv. 884-888 v. 1230 Fabulae incertae TrGF V.2 F877 TrGF V.2 F898 [Antiope?] TrGF V.2 F910 [Cretesi?] TrGF V.2 F912 TrGF V.2 F919 [Erechtheus?] TrGF V.2 F925 TrGF V.2 F941 TrGF V.2 F944 [Phaethon?] TrGF V.2 F971 TrGF V.2 F1013
p. 45, n. 57 p. 58, n. 95; p. 65, n. 112 p. 370 p. 101, n. 222 pp. 224-225 p. 225, n. 547; p. 226, n. 554 p. 83, n. 159; p. 225 pp. 49-50; 358, n. 833 pp. 358-359 pp. 357-359 pp. 49-50; 56; 129, n. 295; pp. 176; 354-355; 358; 375 pp. 42-44; 63 pp. 49-50; 53-54; 56; 129; 176; 354-355; 375 p. 351, nn. 816-817 pp. 68-70 p. 357 p. 264, n. 628 p. 219 p. 223 pp. 225-226 pp. 48-49; 219-220 p. 226, n. 552 p. 44, n. 55 p. 370 pp. 268-269 p. 340, n. 797; p. 341, n. 798 pp. 45-46; 65, n. 112; p. 67, n. 119; p. 360, n. 835 p. 329, n. 773 p. 35, n. 31 p. 29, n. 11 p. 45, n. 57; pp. 187-188 p. 45, n. 58; pp. 129-130; 132, n. 303 p. 45, n. 63; p. 67, n. 119 p. 238, n. 564 p. 29, n. 11; p. 35, n. 31; p. 45, n. 63; p. 67, n. 119 p. 45, n. 63 p. 49, n. 73 p. 49, n. 73
Gorgias DK 82 B3
p. 235
Heraclitus DK 22 B26 DK 22 B45; 115
pp. 375-376 p. 374, n. 868
Herodotus II.171
pp. 164-165; 273, n. 654
413 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati V.61 VII.141 VIII.65
p. 153 p. 372 pp. 234; 306, n. 723
Hipponax frr. 127; 156 West
pp. 84-85, n. 167
Homerus Ilias I.401-404 II.412; XIV.288 VI.135 ss. Odyssea X.508-512 XI.321-325 XI.573 XI.582-600 Hymni Homerici h. ad Apollinem, vv. 189-206 h. ad Bacchum, I.35-54 h. ad Cererem vv. 1-18 vv. 40-50 vv. 51-58; 438-440 vv. 101-102 vv. 194-211 vv. 256-267 vv. 305-313 vv. 474-476 vv. 480-482 h. ad Dianam, vv. 7-10 h. ad Matrem deorum
p. 84, n. 163 p. 38 p. 193, n. 462; p. 203, n. 486; p. 295, n. 695 p. 108 pp. 116; 119 p. 108, n. 240 pp. 304-305 p. 245, n. 580 p. 365, n. 846 p. 108, n. 240; p. 331, n. 776 pp. 81; 103; 137 p. 102, n. 224; p. 326 p. 353 pp. 102; 139; 347, n. 810 p. 219, n. 529 pp. 140-142 pp. 350-351 p. 188, n. 450; pp. 304; 331-332 p. 84, n. 163; p. 85, n. 169 pp. 83-84, n. 163; p. 85, n. 169; p. 90, n. 188
Q. Horatius Flaccus Ars poetica, vv. 391-407
pp. 349-350, nn. 813-814
Iulianus Imperator Or. V.159a
pp. 158-162; 175
Isocrates Panegyricus, 28
p. 171, n. 405; p. 351, n. 816
Lucianus Cataplus, 22
pp. 325-326, n. 767
Macrobius Saturnalia, I.18; 23
pp. 46; 201, n. 481
Melanippides fr. 764 Page
pp. 169; 275, n. 658
414 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati
Orphica Argonautica, vv. 21-27 Hymni, XIV.1; XXVII.2; 11 Rhapsodiae frr. 102-127; 136; 140-141; 144; 147-164; 206; 209; 237-243 Bernabé frr. 280-283; 296-329 Bernabé frr. 321-323 Bernabé [Rhaps.?] fr. 340 Bernabé [Rhaps.?] fr. 350 Bernabé Carmina Theogonica Eudemi th. Hieronymi et Ellanici th. frr. 74-81 Bernabé frr. 87-89 Bernabé Alia carmina frr. 36; 39 Bernabé fr. 59 Bernabé Solis cultus frr. 538-545 Bernabé Praecepta de vita orphica fr. 641 Bernabé P. Derveni col. VI.3 coll. X.11; XI.1; 10 coll. XIII; XIV; XVI coll. XVII. 6; 12; XVIII.12-13; XIX.10 coll. XVII.2-6; XIX.1-4 col. XXII.7-12 P. Gurôb Carmen de Cerere et Proserpina, P. Berol. 13044 Lamellae aureae Pelinna: frr. 485-486 Bernabé Hipponium, Entella, Petelia, Pharsalus, Creta, Thessalia: frr. 474-484 Bernabé frr. 474-477 frr. 478-483 fr. 484 Thurii: frr. 487-490 Bernabé frr. 487-488 fr. 488-490 Thurii: fr. 492 Bernabé Pherae: fr. 493 Bernabé Creta: fr. 494 Bernabé Magoula Mati: fr. 495a Bernabé Orphica Olbiae IOlb. 92
p. 171, n. 404; p. 174, n. 414 pp. 214-215, n. 516 pp. 32 ss.; 40; 47; 127-128, n. 290; p. 173, n. 411; p. 199, n. 476; p. 201, n. 483; p. 215 p. 111, n. 247 pp. 201, n. 483; p. 202, n. 485 p. 305, n. 721 pp. 113-114 pp. 31; 46-47; 214 pp. 39-40 p. 47, n. 71; p. 199, n. 476; p. 215 pp. 127-128, n. 290; p. 173, n. 411 p. 111, n. 247; p. 123, n. 277; p. 202 p. 111, n. 247; p. 128, n. 290 p. 201, n. 481 p. 70 p. 326, n. 767 p. 214 pp. 33-35 pp. 34-35 pp. 45-46 pp. 35-36, n. 33; p. 127, n. 290; pp. 173; 180-181 pp. 115; 126-127, n. 289; pp. 128; 173, n. 411; p. 207 pp. 170-175; p. 219, n. 529 pp. 50-53; 110; 111-112, n. 248; p. 113, n. 254; pp. 131; 181, n. 432; p. 188, n. 450; pp. 332-333, n. 778; p. 358, n. 833 pp. 51-53; 130; 132, n. 303 pp. 107-108; 110; 112, n. 249; pp. 118-119, n. 269; p. 124, n. 278; p. 192, n. 460; p. 302, n. 711; p. 343, n. 802; p. 358, n. 833 pp. 107-108; 125 p. 108, n. 238; p. 358, n. 833 pp. 111-112; 130; 178, n. 425 pp. 52-53; 108; 118, n. 269; 222; 302-303 p. 110, n. 246; p. 112, n. 249; p. 117, n. 264; p. 188, n. 450; p. 343, n. 802 pp. 127-128; 170, n. 400; p. 173, n. 411; p. 200 pp. 108-109, n. 240; p. 111, n. 248; p. 128, n. 293; p. 178, n. 425; pp. 221-222, n. 535 p. 125, n. 283 pp. 127-128; pp. 221-222, n. 535; p. 358, n. 833 pp. 114-115
415 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati IOlb. 93-95
pp. 111-112, n. 248; pp. 201-202, n. 484
P. Ovidius Naso Met. X.1 ss.; XI.1 ss.
p. 199
Parmenides DK 28 B6 DK 28 B8, vv. 50-61
p. 237 p. 239, n. 566
Pausanias I.2.5 I.14.1-3 II.30.3; 7 II.31.2 II.32.2 IV.1.5-6; 8-9 VIII.25.2-7 VIII.36.3; 37.2-6; 10-11; 38.2-5 VIII.42.1-13 IX.25.5-6 IX.27.2; 30.12 X.4.3; 32.7
pp. 219-220, n. 531 pp. 170-172 p. 115, n. 260 p. 116 p. 80 p. 146, n. 339 pp. 148-149 pp. 93, n. 199; pp. 95-96, n. 206; p. 101, n. 219; p. 111, n. 247 pp. 149-150 p. 146 pp. 220-221, n. 533 p. 202, n. 486
Pherecydes Syrius DK 7 A8-9; 11; B1-2; 4-5 DK 7 A5
p. 41; 47, n. 70 p. 50, n. 81
Philochorus FGrHist 328 F7
p. 123, n. 277; p. 125, n. 284; p. 202, n. 486
Philodemus philosophus De pietate P. Herc. 1428, coll. II.28-III.13 P. Herc. 1428, coll. IV-VII P. Herc. 1428, fr. 3
pp. 65-66 p. 36, n. 33; p. 174, n. 412 pp. 169; 173-174, n. 412
Pindarus Isthmia, VII.3-5 Olympia II.17 II.53-77
p. 153, n. 359
Pythia, III.77-79 Dithyrambi, II, fr. 70b Maehler Hymni h. ad Cybelem, fr. 80 Maehler h. ad Panem, frr. 95-96; 100 Maehler Threni frr. 129-131a-130 Maehler
pp. 43-44 p. 50, n. 81; pp. 89-90, n. 184; p. 178, n. 425; p. 305, nn. 720-721 p. 89, nn. 182; 184; pp. 95; 98, n. 211 p. 89, n. 184; p. 90, n. 188; pp. 115-116 p. 89, n. 184; p. 98, n. 211 pp. 95-96 p. 178, n. 425; pp. 301; 303
416 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati fr. 131b Maehler fr. 133 Maehler fr. 137 Maehler
p. 50, n. 81; p. 178, n. 425; pp. 301-302, n. 710 p. 50, n. 81; p. 119, n. 269; p. 178, n. 425; pp. 301-302, n. 710; p. 304, n. 717; p. 305, n. 721 p. 188, n. 450; pp. 331-332
Plato Apologia, 41 a-c Cratylus, 400c Crito, 54d Gorgias 493a-c 497c (+ schol.) 523a ss.; 525a-e Ion, 534a; 536c Meno, 81b Phaedo 69c; 110b ss. 81c 113d Phaedrus 246a ss.; 249a 248c ss. Respublica 363c-364e 399b-e Symposium, 179b-d Timaeus, 42b
p. 338, n. 792; p. 349, n. 813 pp. 54; 131 p. 89, n. 182 pp. 53-54; 129; 306, n. 721 pp. 154-155, nn. 362-363; p. 306, n. 721 p. 178, n. 425; pp. 301; 305-306, nn. 718; 720-721; p. 338, n. 792 p. 89, n. 182 p. 178, n. 425 p. 306, n. 721 p. 53 p. 178, n. 425 p. 53 pp. 178, n. 425; pp. 301; 306, n. 721 p. 178, n. 425; p. 303; 306, nn. 721-722 p. 259 p. 195 p. 53
Plutarchus Alcibiades, 34 Aristides, 5.6 De audiendis poetis, 21f De E Delphico, 389a De Iside et Osiride, 364f; 365a De primo frigido 953c-d fr. 178
pp. 152; 224 p. 246 p. 307 p. 123, n. 277 p. 123, n. 277; p. 155, n. 362; pp. 202-203, n. 486 p. 202, n. 486 p. 302, n. 710; p. 325, n. 767
Prodicus DK 84 B5
p. 64, n. 109; p. 65-67; 70, n. 129
Satyrus Vita Euripidis fr. 37 III.16-19; 21-29 Arrighetti fr. 37 III.9-14 Arrighetti
pp. 44-45 p. 130, n. 297
Semonides fr. 36 West
p. 84, n. 167
Sophocles Ajax, vv. 694-704
p. 100, n. 217; p. 319, n. 751
417 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Indice dei principali passi citati Antigone, vv. 1115-1152 Phaedra, TrGF IV F686 Philoctetes, vv. 391-402 Peleus, TrGF IV F493 Tyro, TrGF IV F668 Fabulae incertae TrGF IV F837 TrGF IV F891 TrGF IV F959
p. 203, n. 487; pp. 328-329 p. 76, n. 141 p. 83, n. 157 pp. 272-273, n. 651 p. 336, n. 786 p. 188, n. 450; pp. 331-332 p. 303 pp. 317-318; 328; 336, n. 786
Timotheus fr. 791 Page
p. 210, n. 503
Thucydides I.143 VI.27-29 VIII.73-75; 81-82
p. 372 p. 152 pp. 223-224, nn. 540-541
Xenophon Hellenica I.4.20 II.4.43
pp. 152; 224 p. 223
P. Vergilius Maro Georg. IV.456 ss.
p. 199
Fragmenta tragica adespota TrGF II F264
p. 63, n. 107
Fragmenta adespota h. Epidaur. ad Matrem fr. 935 Page
pp. 169-170, n. 398
Rig-Veda RV IV.54.4cd RV VIII.89.4 RV IX.69.3; 89.1 RV X.43.7
p. 37 p. 150 p. 87, n. 175 p. 150
418 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Testimonianze figurative
Rappresentazione della dea Atena. Anfora da Vulci (Sig. Feoli), 480/470 a.C.; attribuita al “Pittore di Sileo”, da bottega ateniese. Martin von Wagner Museum der Universität Würzburg (foto: C. Kiefer - > L 501).
419 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Testimonianze figurative
Rappresentazione della parodia del Telefo di Euripide nelle Tesmoforiazuse di Aristofane. Cratere apulo, 370 a.C. ca.. Martin von Wagner Museum der Universität Würzburg (foto: P. Neckermann -> H 5697).
420 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Testimonianze figurative
“Münchner Unterwelt-Krater” (lato A). Cratere a volute apulo, da Canosa, 330-320 a.C. ©Staatliche Antikensammlungen und Gliptothek München (fotografa: Renate Kühling).
421 https://doi.org/10.5771/9783896658142
Testimonianze figurative
“Münchner Unterwelt-Krater” (lato B). Cratere a volute apulo, da Canosa, 330-320 a.C. ©Staatliche Antikensammlungen und Gliptothek München (fotografa: Renate Kühling).
422 https://doi.org/10.5771/9783896658142