Cicerone interprete di Omero


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Cicerone interprete di Omero

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STUDI LATINI Collana diretta da Fabio e Giovanni Cupaiuolo -

34

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CICERONE INTERPRETE DI OMERO

VALENTINA CHINNICI

CICERONE INTERPRETE DI OMERO Un capitolo di storia della traduzione artistica

LOFFREDO EDITORE- NAPOLI

Proprittà lttUraria ristrVata

LOFFREDO EDITORE S.P.A. Via Consa/vo, 99 H (P.co S. Luigi is. D) 80126 Napoli http://www.lojfmio.it

E-mai/: info@/ojfrtdo.it

PREFAZIONE

In una conversazione tra colleghi si osservava come numerose opere ciceroniane manchino a tutt'oggi di un puntuale commento esegetico. Una constatazione, che non può non destare stupore, a portata non solo degli addetti ai lavori ma di tutti gli interessati al mondo antico. I nostri interlocutori ci confermavano nell'opinione che vuoti cos} paradossali, quanto, in fin dei conti, inspiegabili, andrebbero al più presto riempiti, allestendo lavori atti a colmare le lacune che si aprono, nonostante tutto, sia nel campo della produzione filosofica sia in quello della produzione retorica. Anche nel settore, in verità più elitario, delle traduzioni artisti­ che... Cosl qualche anno fa si è deciso di affidare proprio questo tema a

Valentina Chinnici quale oggetto di tesi di laurea, confidando che le sue qualità, unite a una puntigliosa ricerca dossografica, avrebbero assicurato buon esito all'impresa. Cosl ci sembra sia stato. Grazie all'ospitalità accordata dalla prestigiosa collana diretta da Fabio Cupaiuolo, questo lavoro, dopo opportuna revisione, può essere offerto all'attenzione degli studiosi, e, chissà, lo si potrebbe forse continuare (possibilmente nella direzione delle traduzioni ciceroniane dei tragici greci). Quod fi/ix fou­

stumqu� sit...

Gianna Petrone Luciano Landolfi

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PREMESSA "Tu fai versi senza nessuna ispirazione delle Muse e di Apollo. È un pregio: hai in comune questa virtù con Cicerone" 1 • I..:epigramma di Marziale costituisce soltanto uno degli mali più feroci con i quali gli antichi stroncarono le velleità poetiche dell'Arpinate: anche Seneca il Vecchio, Quintiliano, Giovenale infierirono con maggior o minor l ivore sull'aspirante poeta, tanto che si può dire con Traglia2 che "a un certo punto, dir male di Cicerone poeta era divenuto un focus commu­ nis". Anche la critica moderna {da Traglia a Malcovati, da Ronconi a Traina) non ha potuto esimersi dal consentire con i giudizi degli anti­ chi, rilevando con maggiore o minor clemenza, gli innegabili limiti dell'ispirazione poetica di Cicerone. Il presente lavoro, che ha per oggetto lo studio delle traduzioni ciceroniane di Omero, non si propone di ingrossare le file dei detrat­ tori di Cicerone poeta {sarebbe tanto inutile quanto scontato) né, tan­ tomeno, di rivalutare la Musa dell'Arpinate ricercando nei cinquanta­ t r é esametri analizzati qualche riverbero di 'autentica' poesia 3 • 3 1 Mart. 2, 89, 3-4. La traduzione è di Traglia 1 97 1 , 50. 2 Traglia 1 97 1 3 , 1 9.

3 Una sorta di poeticità 'riflessa' vede in queste traduzioni Traglia 1 97 1 3 , 23: ... proprio questo maggiore impegno di fedeltà agli originali determina una poeticità di questi frammenti che invano cercheremmo negli altri versi ciceroniani. E si com­ prende bene che sia cosl. Appunto perché Cicerone non era un poeta, non ebbe un genio creatore capace di dar vita a una poesia propria, egli poté con la sua innata e innegabile sensibilità artistica assecondare e riprodurre la poesia degli altri. Poesia di seconda mano, poesia delle parole e non delle cose. Ma appunto perché queste tradu­ zioni riproducono con maggiore fedeltà le creazioni altrui, quanto più grandi sono gli autori riprodotti in veste latina, tanto maggiore è la poeticità che dal traduttore viene trasmessa alla sua versione pur senza rinunciare alla sua personalità di scrittore". "

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L' approccio estetico è stato quindi evitato il più possibile poiché, come ha scritto Gentili 4 a proposito dei frammenti dell' Odysia di Livio Andronico, esso "eluderebbe, attraverso un giudizio di valore soggettivo ed arbitrario, il vero problema critico, che è quello di indi­ viduare la specifica funzione del tradurre in rapporto al pubblico cui è destinato" . E ciò sarà tanto più vero nel caso delle traduzioni esami­ nate appresso, le quali, a differenza dell' Odysia di Livio, hanno la par­ ticolarità di essere concepite come citazioni. Per questo motivo, piut­ tosto che chiederci la funzione di queste traduzioni rispetto al pubbli­ co, dal momento che non si tratta di un'opera organica ed autonoma (come era per esempio la versione degli Aratea dello stesso Cicerone) , si è cercato di chiarirne la funzione in rapporto al contesto in cui di vo l t a i n vol t a i nove fra m m e n t i sono stati i nseriti dall ' autore. Viceversa, l'altro aspetto che si è tentato di mettere in luce, è se e in che misura la tecnica di traduzione dei versi omerici sia stata condi­ zionata dalla loro riduzione a citazione. Infatti i versi provengono tutti dalle opere filosofiche di Cicerone, che, in conformità ad un uso ormai invalso nella tradizione speculativa5 , sono intercalate da citazio­ ni di svariati auto r i , greci e lati n i . La preoccup azione costante dell'Arpinate è quella di contestualizzare accuratamente queste cita­ zioni, in modo che non appaiano inserite ex abrupto, ma risultino cal­ zanti ed appropriate. Il modello più vicino cui Cicerone sembra guar­ dare è, anche in questo caso , il suo 'maestro' , il filosofo Filone di Larissi , che in un vivace scambio di battute in Tusc. 2, 26, viene con4

Gentili 1 977, 1 02. Cfr. Grilli 1 987, 255: "Già Platone e Aristotele {nelle opere essoteriche) aveva­ no inserito versi alla loro prosa, più che altro per richiamare attraverso la citazione di poeti opinioni comuni, o per controbattere comuni pregiudizi. Il loro uso misurato fu seguito da Epicuro e da Zenone; ma con Crisippo le citazioni si fecero più ampie e più frequenti, sia da Omero sia dai tragici, e negli stoici posteriori si giunse a un eccesso, che fu ridotto solo -per quanto pare- dai due maggiori esponenti dello stoici­ smo di mezzo, Panezio e Posidonio. Un esempio tipico di questa moda che finiva a caricare di zavorra il filo logico del pensiero, era - a quel che dice Cic. qui sotto [ Tusc. 2, 26] - il suo contemporaneo stoico Dionisio, di cui non sappiamo altro { . . . ) Cic. stesso accoglie quell'uso, ma se non esagera nel citare continuamente passi di poeti, qui, nel primo libro del de divinationc, nel secondo del de natura deorum introduce brani di lunghezza poco proporzionata all'opera". 6 Su Filone vd. nota 5 dell'introduzione al fr. 8 . 5

8

trapposto ad un certo Dionisio stoico al quale Cicerone rimprovera proprio l'uso indiscriminato delle citazioni:

- Animadv�rt�bas igitur, �tsi tum n�o nrzt admodum copiosus, v"'"m tamm v�us ab is admiscm orationi. - Ac multos quidnn a Dionysio stoico. - Prob� dicis. s�d id quasi dictata, nullo dilectu, nulla �legantia; Philo �t proprio numero �t lecta po�mata et loco adiung�bat. E ancora: a proposito delle citazioni da Platone e Aristotele, Cice­ rone puntualizza (fin. l, 7): locos quidem quosdam, si vielebitur, transfo­

ram, �t maxim� ab iis quos modo nominavi, cum inciderit ut id apt� fim possit, ut ab HomnrJ Ennius, Afranius a M�nandro so/et.

Ma perché Cicerone ha scelto di tradurre i passi greci da inserire nelle opere filosofiche piuttosto che citarli in lingua originale (come avviene invece ripetutamente nelle epistole)? Verisimilmente, come è stato osservato, "la inserzione di versi greci avrebbe turbato la unità stilistica della composizione"7: il problema non era cioè quello di ren­ dere fruibile il greco ai lettori, dal momento che si trattava di un pub­ blico colto e generalmente in grado di comprendere e parlare quella lingua. In effetti Cicerone compie una scelta ben precisa, sulle orme della più antica tradizione letteraria romana: quella della libera tradu­ zione con precisi intenti artistici, in una parola quella del vm�re (non a caso il verbo introduce le due citazioni omeriche di div. 2, 63 e fin. 5 , 49 e ricorre nel celebre passo di Tusc. 2, 268). Del resto non va dimenticato che la stessa letteratura latina è nata con l'Odysia di Livio Andronico: la prima "traduzione artisticà'9• Le caratteristiche di questa traduzione, intesa come libero rifacimento, fecero sl che "nessuno che volesse citare Omero pensò di riportare passi dell'opera livianà'10, opera che non a caso Orazio (Ep. II l, 69) definiva Carminum Livii e di cui Gellio (XVIII, 9, 5) parlava come e/e libro v�rae v�tustatis Livii A ndron id 1 • Nessuno dunque avrebbe mai 7

8

Cosl Malcovati 1 943, 53. Vd. anche Ronconi 1 968, 1 1 2- 1 1 3. Cic. Tusc. 2, 26: !taqu� postquam adamavi hanc quasi smikm declamation�.

studios� �quid� utor nostris po�tis; ud sicubi il/i d�fturunt, v�rti mim multa d� GrtUcis, n� quo ornam�nto in hoc gm� disputationis ca""t lAtina oratio. Cfr. Marioni 1 9862 , 1 7. Cosl Marioni 1 9862 , 1 4. 1 1 Cfr. Trencsény-Wal dapfel 1 96 1 , 1 65 .

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9

pensato di negare a Livio, come ad Aedo, a Plauto e a Terenzio, la qualifica di 'poetà, dal momento che è con loro, come ha sottolineato il Leo12, che "die Romer haben nun auch angefangen zu dichten; dag sie wiederdichten was die Griechen ihnen vorgedichtet haben, macht keinen Unterschied". La tecnica del vertere, che porta questi poeti latini ad ampliare, ridurre, 'contaminare' i modelli greci è finalizzata ad una 'romanizza­ zione' degli originali e ad un conseguente arricchimento della cultura latina13. La posizione assunta dal letterato romano è, però, com'è noto, tutt'altro che subalterna: anche quando Plauto, adottando la prospettiva greca, parlerà di sé come di colui che vortit barbare (As. 1 1 e Tr. 1 9) , egli "sa di non sfigurare completamente riguardo ai suoi illustri precedenti greci, e, nell'apparente modestia si fa portavoce di valori autonomi, che sono «altra cosa» rispetto al mondo greco di cul­ tura"14. È con questo spirito di emulazione, quasi intrinseco al 'carat­ tere' della letteratura latina, che Cicerone pare accostarsi ai poeti greci che riporta in traduzione. Se infatti l'autore mostra talora una umiltà e una deferenza a lui insolite nel presentare queste sue rese latine15, pure egli si pone, almeno nel caso di Omero, in una posizione quasi paritetica, o, quanto meno, 'dialettica' rispetto al modello. Omero non è sempre e in ogni caso, come ci si potrebbe aspettare, l'autorità indiscussa da cui trarre sostegno per corroborare le proprie opinioni. Questo, invece, è il ruolo che il poeta greco riveste per Quinto, il fra­ tello di Cicerone, che nel I libro del de divinatione ricorre diverse volte all'autorità omerica, in ossequio alle consuetudini stoiche. Al 12 Leo 1 973 3 , 87. 1 3 Osserva ancora Leo 1 973 3 , 89: "Durch ihren Inhalt die romische Anschauung zu bereichern war das Motiv der ganzen Bewegung". Vd. anche Gentili 1 977, 95: " I.:arte del tradurre e il mestiere del traduttore nascono d al bisogno di una società di penetrare nel contesto di un'altra cultura ... il bisogno di impossessarsi, mediante la traduzione, del patrimonio di esperienze linguistiche, scientifiche e letterarie" di una società più evoluta, "per ampliare le proprie conoscenze e raggiungere un superiore livello di vi ra ' . 14 Cosl Perrone 1 983, 36. IS t il caso di alcune traduzioni da Euripide: cfr. fr. 2 Soubiran (ojf 3, 82):

Grauos vn-sus. . . quos dicam, ut pouro, incondiu fortass�. s�d tamm ut "s possit int�lk­ gi. Espressioni consimili anche in fin. 2, 1 05 {Eur. fr. 6 Soub.) , Tusc. 3, 29 {Eur. fr. 5 Soub.) e Tusc. l, 1 5 ( Gr. fr. 3 Soub.) .

lO

contrario, come si avrà modo di notare, almeno in quattro occasioni le traduzioni omeriche funzioneranno Ka't' àvti.cppamv: è il caso dei primi tre frammenti analizzati di séguito, pertinenti proprio alla divi­ nazione, e del fr. 6, che presenta Achille incapace di dominare l'ira16• Altrove il messaggio omerico viene accettato, ma deve sottostare ad una previa 'moralizzazione' del mito narrato (è quanto avviene nel fr. 8, in cui Ulisse viene legittimato per aver voluto ascoltare le Sirene in nome della 'conoscenza' che esse gli assicurano). Un atteggiamento cosl 'disinvolto' di fronte al contenuto dei versi citati non poteva non trovare rispondenza nello stile adottato per le traduzioni, che !ungi dall'�rimere verbum de verbo, sceglie appunto la via della 'metamorfosi'17• Cercare di comprendere allora modalità e funzioni di queste traduzioni è stato l'oggetto del presente studio, che ha ritenuto indispensabile, a tal fine, il confronto dei versi latini con i corrispettivi esametri omerici. Lo strumento più efficace per un lavo­ ro di questo tipo è stato individuato in una serie di schede che hanno consentito la sinossi puntuale dei versi. Analisi e com - mento hanno naturalmente privilegiato la versione latina, limitandosi, per quel che riguarda il testo greco, a sottolineare eventuali particolarità o diffi­ coltà, soprattutto in coincidenza degli scarti maggiori fra il modello e la traduzione. I versi sono stati interpretati per lo più singolarmente, tranne là dove sarebbe risultata sacrificata l'intelligibilità del testo o della resa stilistica complessiva (in ogni caso non sono stati mai presi in esame più di quattro versi insieme). Si è preferito quindi circoscri­ vere il campo di ricerca, cercando di approfondire l'analisi di queste nove traduzioni poetiche, che, come ha scritto Traina18, "costituisco-

� che

in Tusc. l, 65 Cicerone, parafrasando IL 20, 232-235 esprime una netta presa di distanza da Omero a proposito dell'episodio di Ganimede, il 'coppiere' degli dei, rapito da Zeus per la sua bellezza: Non mim ambrosia tkos aut n�ctarr aut

luvmtat� pocula ministranu la�tari arbitror, nu Hom""m audio, qui Ganym�tkn a dis raptum ait propur formam, ut lovi bib�r� ministrar�t: non iusta causa cu r Laom�donti tanta fl"it iniuria! Fing�bat hMc Hom�rus n humana ad tkos transf�bat; divina ma/lem ad nos. Vd. , in proposito, il commento di Ronconi 1 973, 56-57. 1 7 "�rto è il verbo della metamorfosi ": cosl Traina 1 989, 97, che cita, �. g. , Plaut. Amp_h. 1 2 1 , Verg. Am. 1 2, 89 1 ; Ov. met. 2, 698; etc. 18

Cfr. Traina 1 974 2 , 5 5 .

Il

no un capitolo di una storia che non è mai stata scritta e non potrà forse mai scriversi per intero, la storia del vert� latino"19• I frammenti latini, citati secondo l'edizione di Soubiran (Paris 1 972) , sono raggruppati in base al contesto da cui provengono: i primi tre, tratti dal de divinatione, concernono appunto il tema delle pratiche divinatorie; gli altri tre frammenti, provenienti dal terzo libro delle Tuscu/anae, sono orientati verso posizioni stoiche e accomunati da un certo rispecchiamento autobiografico; un capitolo a sé è dedica­ to all'unico frammento del de finibus, che presenta una particolare riscrittura dell'episodio omerico di Ulisse e le sirene. Infine, le ultime due schede riguardano i due frammenti di tradizione indiretta, dei quali, cioè, non ci è pervenuto il contesto ciceroniano, ricostruibile, tuttavia, dalle testimonianze dei due autori che ce li tramandano: Gellio e Agostino. Un'ultima precisazione riguarda le edizioni seguite per i versi ome­ rici: i sette passi dell'Iliade sono tratti dall'edizione di Mawn, mentre i due brani dell' Odissea dalla recente edizione di van Thiel (citate in bibliografia).

19 Sul problema generale della traduzione esiste, ovviamente, una vastissima let­ teratura, cosl come numerosi sono gli studi che a ffrontano il tema specifico della tra­ duzione artistica latina. In questa sede ci si limita a rimandare all 'ormai classico stu­ dio di Mounin, tr. it. 1 965 ( =Paris 1 963) che individua in Cicerone l 'autore delle prime riflessioni sistematiche sull'arte del tradurre, contenute soprat rutto nei celebri passi del tk opt. gm. 1 4 e 23. Alla teoria ciceroniana che contrappone la traduzione verbum tk v"bo, degna del pedissequo inurpm, alla libera rielaborazione del vm�. si è ispirato, com'è noto, S. Girolamo con il suo De optimo gen� interprr:tandi ed è per questo che diversi studi hanno preso in considerazione entrambi gli autori : basterà ricordare in proposito i lavori di Cuendet ( 1 933) e di Serra Zanetti ( 1 96 1 , 3 5 5-405). S u Cicerone traduttore dal greco, e sulle sue traduzioni da Omero i n par­ ticolare, ancora valida è la dissertazione di Atzert (I908) e fondamentali restano gli studi di Malcovati, Ronconi e Traina che verranno citati in séguito. Ulteriore biblio­ gra fia verrà indicata appresso nell'analisi dei singoli passi. 12

I OMERO SECONDO CICERONE: note su un identikit generico e tendenzioso Prima di iniziare il raffronto sinottico fra i testi, ci si è chiesti quale idea avesse Cicerone di Omero e se avesse accolto qualche elemento dalla messe di vite e leggende che lo concernevano, circolanti ormai da secoli. Traditum est etiam Homerum caecum fuisse1: Cicerone riprende dunque (sulle orme di Tucidide2 e Simonide3) la tradizione della cecità di Omero, antichissima, se nel "cieco di Chio" del v. 1 72 dell Inno ad Apollo è da riconoscere il mitico cantore epico, tradizione in ogni caso accolta dalla quasi totalità delle Vite americhe, pur con varianti relative alle cause e alle circostanze di tale infermità. La priva­ zione della vista non è però, secondo Cicerone, una condizione limi­ tante per il poeta, poiché, anzi, egli riusd a dipingere più che a scrive­ re ciò che non vide: at eius picturam, non poesin vitkmus: quae species '

formaque pugnae, quae acies, quod "migium, qui motus hominum, qui forarum non ita expictus est, ut, quae ipse non viderit, nos ut videremus ejficerit?'. Cicerone riprende il tradizionale paragone fra poesia e pittura5 e lo riporta ad Omero, il poeta-pittore per eccellenza, pur cieco. Nel con­ testo del V libro delle Tusculanae Omero non è diventato altro che 1 Cic. Tusc. 5, 1 1 4. 2Thuc. 3, l 04. 3 Sim. fr. 8 5 B. 4 Tusc. 5 , 1 1 4. 5 Cfr. , �. g., Plat. r�. 377 e ; 597 e ; 603 b; Arist. po�t. 2, 1 448 a 4; 6, 1450 b 2 ; 1 5 , 1 454 b 9. Vd. Malcovati 1 943, 39.

a

26,

13

una incarnazione del saggio stoico, cui la vita b�ata non è negata nep­ pure in situazioni di privazione o difficoltà (oscurità, esilio, cecità, sordità) e, del resto, se anche i mali fossero superiori ad ogni umana sopportazione, la soluzione, pronta in ogni momento e alla portata di tutti, sarebbe sempre la morté. Oltre ad essere cieco, tradizionalmente Omero è anche vecchio, ma, come tutti i grandi poeti e pensatori, la sua è una vecchiaia 'pro­ duttiva', !ungi dall'ottunderne gli interessi ed il fervore intellettuale7• Il nome di Omero, preceduto da quello di Sofocle {ma solo perché Cicerone aveva appena parlato più estesamente del tragediografo che, vecchio, aveva composto l'Edipo a Colono) e seguito da quello di Esiodo, di Simonide, di Stesicoro, di lsocrate, di Gorgia e di molti altri, serve a dimostrare che manmt ingmia smibus, modo perman�at

studium �t industria8•

Cieco e vecchio, dunque, l'Omero di Cicerone, ma non mendico, poiché non sarebbe stato motivo d'onore elemosinare con i propri canti la pietà altrui, come parte della tradizione ci tramanda, anche se non manca chi, come Proclo, deduce che Omero fosse addirittura molto ricco (''infatti i lunghi viaggi esigono molte spese"9). Ad ogni modo, Cicerone non fa parola dello status economico di Omero, mentre un altro dato che accoglie dalla tradizione, è quello, ben noto, della contesa fra le città per rivendicare i natali del poeta: Hom�m

Colophonii civ�m m� dicunt suum, Chii suum vindicant, Sa/aminii r�p�tunt, Smyrna�i v�ro suum ���� confirmant itaqu� �tiam de/ubrum �ius in oppido dedicav�runt, pr�munt a/ii pra�urt:a pugnant int�r s� atqu� contmdunt10• Le città nominate sono quelle ricorrenti più spes6

Cic.

Arch. 8, 1 9.

Nella

Vita di

!sacco PorfìrogenilO (p.

1 4)

la cecità, che tra l'al­

KaÌ. liÈ IJ.E'tà 'tfrv Éautoù WtOTU.À.CJJO LV KaÌ. 'tfrv !;wJÌv àlhJJ.Ui)v liUcmJXa è vissuto molti secoli prima del poeta didascalico e, a suggello di questa convinzione in Tusc. l, 98 (un passo tradotto dall'Apologia di Socrate18), .mverte studiatamente la sequenza platomca . "Es"od 1 o-o mero"19. Sebbene antichissimo e precedente ad Esiodo, Omero non è però il primo poeta greco in assoluto: la sua perfezione non può essersi manifestata t'X abrupto, ma ebbe verisimilmente dei predecessori, come li ebbero i più grandi artisti greci: Nihil t>st mim simul t't invm­

tum t't pnftctum; nt>c Jubitari tkbt>t quin fomnt antt> Homt>rUm pot>tae, quod a t>is carminibus intt>lkgf/oust, quat> apud illum t't in Phat>acum t't in procorum t>pulis canuntu? . I riferimenti, desunti dall' Odisua stessa, concernono Femio e

Demodoco, i due cantori nei quali Cicerone individua il ricordo di poeti preesistenti ad Omero. Il solo Femio è menzionato anche nella Vita pseudo-plutarchea ed in quella pseudo-erodotea come un inse­ gnante (btbacrKaÀ.oç y pa�-t�-ta:twv) che divenne padre adottivo e mae­ stro di Omero e lo Pseudo-Erodoto lo collega esplicitamente al Femio dell'Odisst>a, asserendo che in //. l, 1 53- 1 55 Omero volle tributare un omaggio riconoscente proprio a colui che lo aveva allevato ed istrui­ to21. Dunque, un simbolico rapporto di figliolanza - seppur adottiva avrebbe legato Omero all'aedo Femio. 1 7 Cic. sm. 1 5, 54: De qua doctus Hesiodus ne verbum quidem focit. . . ; at Homerus, qui multis, ut mihi vitktur, ante seculis fuit.... 18 Plat. Apol. 4 1 a. 19 Cfr. Schol. ad IL 1 2, 22 (Erbse 30 1 ): KaÌ. O'tL àvÉyvw 'Hoioboç 'tà '011l]pou wç àv VEoYtEpoç 't01hou. Anche in Cic. sm. 23, citato sopra, Esiodo segue imme­

diatamente Omero nella lista degli autori menzionati. 2° 21

Cic.

Brut. 1 8 , 7 1 .

Ps.-Herod., 26: Èy Évm8E : in Il. 9, 30 (= 9, 695) gli Achei ammutolisco­ no affli tti (nn TJOnç) per le cattive notizie appena ascoltate riguardo alla guerra. In questo caso, invece, il restare in silen­ zio è conseguente allo stupore per ciò che si è appena visto: è lo stupore che togl i e la voce anche a Penelope, alla vista di

Calcante in contrapposizione con gli Achei TORPENTES, tralasciando il formu­ lare 8EO:rtpmtÉwv omerico. Il fidens è infatti alacer. . . impavidus (cfr. Th.LL, 697, 1 7 s. v. ) e , secondo quanto afferma Cicerone stesso, qui fortis est, idem est jìdms ( Tusc. 3, 1 4). TORPENTES S UBITO

OBS TIPU/S TIS:

Cicerone esplicita lo stupore che coglie gli Achei ( OBS17PU/S17S da obstupesco) e lo enfatizza, costretto anche a dilatare il primo emistichio omerico per la con­ sueta rinunzia a rendere l'epiteto formu­ lare (KOpTJ KO�Eç; Axmoi diven­ ta semplicemente ACHIVi) . Quello cice­ roniano è uno stupore che non spezza solo la voce, come in Omero, ma che ottunde tutti i sensi ( TORPENTES) e para­ lizza tutto d'un tratto ( SUBITO) : " bin . e rstarrt, h etau . b t, ge f""u hll os, tau b" 46 . Obstupesco in Te renzio è affiancato '

�fr. Walde-Hofmann 1 965 4 II, 692 s. v. torpeo.

-x 1-" L ltO'tE, con sincope di uso ·t: poetico {o 'tL-lt'tE, cf. lat. sua-pte?)": cosl D'lppolito 1 977, 1 0 5 . 43

all'am mutolirsi (An. 256: Obstipui.

Ctnstm me verbum potuisst ullum pro­ loqui?. . . Obmutui. ) ed è causato da timore (Ad. 6 1 2: membra metu debilia sunt, animus timore obstipuit.) . In div. 2 , 5 0 , l' obstupescere è conseguente, come in questo caso, ad una appari­ zione, ma fa levare un grido di mera­ viglia: Eius adspectu cum obstipuisset

bubulcus clamoremque maioremque cum admiratione edidisstt.

Odisseo (Od. 23, 93: i) 6' àvEw bi)v � o't o , 'tcicjloç bÉ oi. �'top 'L K avEv) e ai Feac i , d i n a n z i al l ' e ro e che e n t r a n e l l a s a l a ( Od. 7, 1 44- 1 4 5 : oi. 6 ' ÙVE 6È 3tOÀLV OL prJ OOIJ.EV E'Ù pu ayU LOV » . / Keivoç 1:C.Ò ç ày opeu e · 1:à b'IÌ VÙV 3tQV'tO 'tEÀ.Eì.'taL. I.:epiteto eùpuayma, formula­ re per Troia, si trova riferito anche a Micene (IL 4, 52) e ad Atene (Od. 7, 80) .

circoscritta solo a POENA49 , mentre in SATIAJJIT vedremo meglio "l'ira e pas­ sione di nemico" messe in luce dal Traina 50 che, per parte propria, cita l'analoga espressione di Livio (29, 9, 1 0) : Plnninius, impotms irat. . . tribu­

nos. . . laetratos omnibus, quat pati cor­ pus ullum pottst, supp/iciis inttrficit ntc s a t i a t u s vivorum p o t n a inst­ pultos proitdt.

49 "Col term i n e poena(t) i Ro mani indicarono una retribuzione imposta a un offensore, in corrispondenza di un danno p rocurato a qualcuno": cosl Lamacch ia 1 970, 1 3 5 che, tra i tanti esempi, cita anche il nostro verso, avallando l'interpre­ tazione di Ronconi. 2 5° Cfr. Traina 1 974 , 77. 47

Introduzione al fr. 4

Anche questa citazione è inserita nel II libro del Dt divinatione, ma questa volta si tratta di un solo esametro. La traduzione fa da pm­ dant alla citazione immediatamente precedente di Ennio (Ann. 527 V2 = 541 Sk. ) : tum tonuit laroum bme ttmptstate urma. Dopo aver dimostrato l'infondatezza dell'argomentazione di Quinto che propu­ gnava il consensus gentium come prova dell'esistenza e validità della divinazione, Cicerone prende di mira la smaccata incoerenza degli auguri e del loro 'metodo' interpretativo, inevitabilmente connessa con la relatività di concetti come 'destrà e 'sinistra': Quat auttm tst

inttr augures convmitns tt coniuncta constantia?

Nel verso di Ennio infatti il fulmine a ciel sereno è s} presagio pro­ pizio, ma a patto che sia latvum, mentre in Omero, per allertare A�hille d � l f�tto che Zeus si mostri benevolo ai Troiani, Ulisse parla di

OTJ!-LU'ta EVbE!;La.

In realtà, come ha ben chiarito Timpanaro 1 , la contraddizione è solo apparente, poiché sia per i Romani sia per i Greci il signum posi­ tivo è quello proveniente da Oriente, solo che durante il rito, stante la testimonianza di Varrone2 , l'augure romano era rivolto a Sud, aveva l'Oriente a sinistra, mentre il greco, pur nel diverso contesto rituale, era rivolto verso Nord. La correlazione del verso omerico con quello enniano e l'intento di mostrarli in contraddizione, condiziona l' ordo vtrborum della tradu­ zione rispetto al modello: il verso omerico infatti, poneva in risalto Zeus,_ perché ad Ulisse interessava sottolineare che ormai i Troiani godevano del sostegno del padre degli dèi, mentre Cicerone racchiude il nome luppiter fra prospera e t:kxtris, dal momento che è l'equazione 'destra' = 'favorevole' (in Omero) che gli preme evidenziare. Come avevamo già segnalato nel commento al fr. l , anche nell'in­ trodurre questo verso omerico Cicerone commette un errore di attri­ buzione: At Homericus A iax apud Achillem qutrms de forocitatt Troianorum nescio quid hoc modo nuntiat. In realtà in Omero è Ulisse, non Aiace a pronunziare il verso. Sorprende come Cicerone ricordi invece perfettamente il contesto (l'ambasceria apud Achillem) e l'argo1 Cfr. Timpanaro 1 988, XXXI X . 2 Cfr. Varr. Ling. 7, 7 sgg. 48

mento del discorso (querem de ftrocitate Troianorum) : di certo, se il traduttore citava a memoria (come lascia intendere l'approssimativo nescio quid hoc modo) , nell'indurlo in errore avrà giocato un ruolo importante il fatto che anche Aiace avesse preso parte all'ambasceria e che il suo nome comparisse nello stesso verso in cui viene menzionato Ulisse (Il. 9, 224), poco prima che il compagno iniziasse a parlare. Cicerone fr. 4

div. 2, 82 PROSPERA IUPPITER HIS DEXTRIS FUL­ GORI BUS EDIT Cicerone condensa il passo omerico in un unico esametro. PROSPERA DEXTRIS: i due vocaboli sdoppiano Èv()É!;ta; la dittologia non 1 è in questo caso sinonimica , poiché esplicita le due differenti indicazioni fornite dal termine greco , cioè il valo­ 2 re propizio (PROSPERA) dei segni divi­ n i , p u r c h é p rove n g a n o da d e s t r a . • •

Omero //. 2, 236-237

ZEùç bÉ ocpt Kpovl.bT]ç ÈvbÉ!;ta Orl!!O"ta cjlaLVp.

QUI QUONDAM: anche questo nesso allitterante doveva essere formulare negli epitafi3 • Cicerone mantiene il costrutto relati­ vo dell'originale ma ne altera il sog­ getto (qui è il vinto, Il il vincitore) . HECTOREO . . . ENSE: r i s p e t t o a "EK"tO>p, l 'agge ttivo contribuisce a ridimensionare il valore dell'uccisore rispetto all'ucciso. Rilievo è dato alla spada di Ettore più che all'eroe stesso ed è il p unto di vista dello sconfitto Aiace ad essere messo in risalto, rove­ sciando la p rospettiva dell'omerico Ka"tÉK"taVE con l'abbinamento del participio PERCULSUS al perfetto CON­ CIDJT. D'al tra parte, Ronco ni 4 vede n e l l ' e s p re s s i o n e in q u e s t i o n e u n a r i p resa di a l t re c l a u s o l e o m e riche qual i : cp8toov.m u1t'mhoii b oupì. ba!JÉv.Eç (Il 1 1 , 82 1 ) e ÒÀ.OV"to EJ.lqi

La relativa ha come soggetto il nome del vincitore in spondeo di sesta sede, ben r i l evato e connesso all'incipitario àvllpòç del v. 89. E se del vinto si rico­ nosce l'indubbio valore (àpL­ O"tEUOV"ta) è proprio per sotto­ lineare quanto il vincitore sia

cpaLliLJA.Oç.

u1tÒ boupì. baJ.lÉV"tEç (//. 1 6, 848) .

3 Cfr. , t. g., Cugusi 1 985, 2 1 1 . 4 Cfr. Ronconi 1 968, 1 1 5. 75

FABITUR HAEC ALIQUIS, MEA SEM­ PER GLORIA VIVET.

FABITUR È p É E L ed è in posizione chiastica con vivtt. Nel secondo emi­ stichio l'espressione si fa affermativa rispetto a quella omerica e "l'iperbato accentua il possessivo" (Traina 1 9742 , 8 0 ) : la gloria imperitura dell'ucciso acquista valore definitivo e perentorio in contrasto con la sua morte fisica. L'epitafio, che esordisce con la con­ sueta formula hic situs tst, si conclude, con sapiente contrasto, con vivtt. Il 'tramite' fra la morte e la vita è costi­ tuito da quel fobitur: la scelta di una forma verbale cosl preziosa ed evoca­ tiva5 , oltre ad innalzare il registro sti­ listico dei versi, li carica di una forte valenza simbolica: la gloria dell'eroe si sottrae per sempre a un destino tran­ seunte. =

5 Per il valore sacrale di *far, che indica "la manifestazione di una parola divina" e le sue connessioni con fas e con il sostan­ tivo fatum {originario participio dello s tesso verbo) cfr. Benveniste 1 976 I I .

386-389. 76

"rJç :rtO"tÉ ·w; ÈpÉEL 'tÒ KÀÉoç où :rtO"t' oÀ.Ei:'tm. ·

l) '

ÈJ.LÒV

Nelle parole di Ettore il contra­ sto gioca fra la sua glo r i a di vincitore che non morirà e la morte fisica del nemico Aiace. I.:osservazione è di Ronconi in antitesi a quanto sosten uto da Traina11 , che, in merito, "vede l ' aderenza allo s p i r i t o e a l l a struttura del testo" proprio nel · terzo verso, mentre non t rova riusciti i primi due.

11

Cfr. , rispettivamente, Ron co n i

1 973, 46; Traina 1 9742 , 79-80.

Introduzione al fr. 9

La citazione, inserita nel perduto De foto, ci è tramandata da Agostino (civ. 5, 8) che, riportando una traduzione senecana di alcuni versi dello stoico Cleante, si sofferma in particolare sull'ultimo 1 : Ducunt volentem fata, nolentem trahunt (epist. I 07, I I ) ed aggiunge:

Il/i quoque versus Homerici huic sententiae su./fragantur, quos Cicero in Latinum vertit. Seguono i due versi ciceroniani e la chiosa di Ago­ stino: Nec in hac quaestione auctoritatem haberet poetica sententia; sed quoniam Stoicos dicit vim foti asserentes istos ex Homero versus so/ere usurpare, non de illius poetae, sed de istorum philosophorum opinione tractatur, cum per istos versus quos disputationi adhibent quam de foto habent, qui sentiant esse fotum apertissime declaratur, quoniam lovem appellant quem summum deum putant, a quo conexionem dicunt pende­ re fotorum. I due versi omerici, che dovevano essere molto celebri 2 ,

venivano quindi citati dagli Stoici a riprova della ineluttabilità del fato e della necessità di aderire ai piani divini, dal momento che essi nolentem trahunt, cioè si compiono indipendentemente dalla volontà dell'uomo. Una traccia della resa 'stoicheggiante' dei versi, può forse riscontrarsi nel rilievo dato al pater ipse luppiter, il dio unico, eterno e onnipotente in cui credevano gli Stoici, che nel corrispondente verso greco è invece defin i to "padre degli dèi" oltre che degl i uo mi ni (:rta'ti]p àvbpciìv 'tE 8Eciìv 'tE, Od. I 8, I 37) 3 . Non essendoci giunto il contesto del de foto in cui andrebbe inserita la resa del verso omerico, non possiamo comunque asserire che la traduzione fosse piegata alle tesi stoiche sul fato4 , che in ogni caso, come traspare dai frammenti

1 Traina 1 989, I l O ritiene che il verso sia stato "secondo ogni verosimiglianza aggiunto da Seneca, forse su suggerimento scoliastico, alla versione dei quattro tri­ metri di Cleante a Zeus" e lo definisce "un epigramma monastico", "giocato sulla doppia antitesi chiastica dei participi e dei verbi, che genera un movimento centripe­ to verso il sostantivo centrale, la parola tematica fora". 2 Furono infatti ripresi da Archiloco (fr. 68 Diehl 1 3 1 West; vd. anche 58 Dierhl 1 30 West) , riecheggiati da Parmenide (B 16 Diels-Kranz) , da Eraclito ( 1 7 Diels-Kranz) e citati da Plutarco (Conso/. adApo/1. 1 04 d) . Cfr. Russo 1 985, 202. 3 Al contrario, in Hom. fr. l , lll'J'tLE'ta Zn)ç (!/. 2, 324) viene reso da Cicerone con tkum . crrator (v. 24) . 4 Cosl afferma invece Jocelyn 1 973, 79 secondo cui la versione latina "mistran­ slates" quella omerica "in such a way as to make rhese verses fit bitter rhe Sroic theory they were argued to anticipate", ma non spiega in che modo. =

=

. .

77

rimastici, non dovevano coincidere col punto di vista di Cicerone5 • Confrontando i versi greci e � uelli latini, lo scarto maggiore si coglie subito nella resa di ÒLOV T]J.I.ap ayTJOL con qua/i . . . /ustravit /umin(. Per cercare di comprendere il motivo di questa scelta del tra­ duttore e se essa rispetti o meno lo spirito del modello, può essere utile chiarire il significato del termine �J.I.ap alla luce del contesto omerico. A pronunziare i due versi è Ulisse, che si finge mendico alla reggia di ltaca, in risposta ad Anfinomo che, offrendogli del pane, gli augurava un futuro felice. Da questo punto prende il via una profon­ da riflessione di Ulisse sulla condizione umana, che illumina l'am ara �/tanschauung america ( Od. 1 8 , 1 30- 1 37) : sulla terra non esiste essere vivente più misero dell'uomo (vv. 1 30- 1 3 1 ) ; finché gli dèi gli danno forza e vigore egli si ritiene immune dai mali (vv. 1 32- 1 33) ; quando gli dèi gli infliggono lutti, anche questi egli sopporta, suo m al grado (CÌEKal;O JJ.Evoç) , con animo "costante" (vv. 1 34- 1 3 5 ) ; seguono l e conclusioni, cioè i nostri versi ( 1 36- 1 37) : "Tale è infatti l ' a n i m o degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini". A riprova di quanto affer­ mato, Ulisse fa un vago accenno alla sua precedente condizione di uomo "beato" (oì.. � wç, v. 1 39) e di nuovo ne desume un insegna­ mento generale: )"uomo non dovrebbe essere mai CÌ6EJ.I.LO"tLOç (v. 1 4 1 ) , ciU' 8 y E my'lj bwpa 6EWv ÈXOL, rnL bLbo'iEv (v. 1 42) . I nostri due versi si caricano allora di una forte valenza: la vita è, insomma, imprevedibile, e la nostra condizione, la 'qualità' della nostra vita, dipende dalla 'qualità' del giorno che gli dei ci fanno vivere (,;o'ioç . . . vo o ç l olov . . �J.I.ap) . Non a caso Omero "raffigura gli avvenimenti significativi mediante la caratterizzazione icasticamente delineata dal giorno in cui accadono" 6 , cioè connotando �J.I.ap con aggettivi come .

5 Cfr. anche div. 2, 1 9: Anik san� �t pknum sup�ntitionis foti nomm ipsum: s�d tamm apud Stoicos tk isto foto multa dicuntur: tk quo alias (alias fa riferimento p ro­ prio al futuro libro tk foto). Cicerone inoltre rimproverava agli stoici il loro 'appro­ priarsi' Omero, che si spingeva fino ad interpretazioni allegoriche del testo (cfr. nat. tkor. l , 4 1 ). È possibile però che anche il tk foto fosse costruito, al pari del tk divini­ tation�. come una disputatio in utramqu� part�m. nel qual caso le tesi stoiche (e dun­

que anche il nostro frammento) potevano essere enunciate proprio da uno stoico (cfr. lìmpanaro 1 988, 324). 6 Cosl Russo 1 983, 20 1 .

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6ooÀ.tov, ÈAtu9tpov, VTJAEÉç, ÒÀ.É 9p tov , v0