Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele 9788898694242, 9788898694822

Martin Heidegger nei suoi anni di formazione, che furono anche gli anni di gestazione di Essere e tempo, ebbe un rapport

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Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele
 9788898694242, 9788898694822

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Fabio Vander

Ortologia della contraddizione Critica di Heidegger interprete di Aristotele

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 3 - Proposte

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2015, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 3 - novembre 2015 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694242 ISBN – E-book: 9788898694822 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Umbero Boccioni, Carica di lanceri, 1916 dettaglio, elaborazione

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“Altro che gioco son l’opre de’ mortali? Ed è men vano della menzogna il vero?” Giacomo Leopardi A un vincitore nel pallone - 1821

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Introduzione Fra ontologia e critica

È questo un breve saggio sui Bildungsjahre di Sein und Zeit. Cioè su quei primi anni ‘20 in cui si forma un testo cruciale del ‘900 filosofico. E si forma in serrato dialogo con alcuni punti alti della filosofia di tutti i tempi: il Platone del Sofista, Aristotele, l’ontologia greca in genere. Testo base del presente saggio è Il “Sofista” di Platone di Martin Heidegger. Un corso del 1924-‘25, tenuto all’università di Marburg; molto di più di una raccolta di appunti e schemi per le lezioni, ma anche molto più di un semplice prologo al Sein und Zeit del 19271. Un testo che fra le altre cose costituisce l’importante precipitato di un ciclo di studi di filosofia greca ed aristotelici in specie, che datavano almeno dal primo dopoguerra, dagli anni

1. Da notare che secondo la testimonianza di Heidegger stesso “le prime stesure di Sein und Zeit” risalgono all’estate 1923 (Cfr. M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, 1953-‘54, in Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1979, p. 89).

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di Freiburg (1919-1923) e di cui daremo conto nel corso del saggio2. Nella premessa del 1972 alla ristampa dei Frühe Schriften Heidegger confermava di aver trovato sin dagli anni ‘10 in Aristotele il Wegweiser sui cui testi aveva “tentato di imparare a pensare”3 (ma addirittura al 1907 risaliva la lettura della dissertazione aristotelica di Brentano4). In quella stessa sede ricordava però che sin dall’anteguerra lo aveva agitato la “domanda circa l’elemento semplice /Einfachen/ nella molteplicità dell’essere” (il che conferma per altro che da subito per Heidegger l’essere è il Semplice, lo stesso che per l’ontologia classica; torneremo spesso nel corso del saggio sul carattere sostanzialmente eleatico dell’ontologia heideggeriana).

2. È sempre Heidegger a ricordare che nei suoi anni di insegnamento a Marburg quella università era, in ragione della forte presenza dei neo-kantiani, “il principale centro di opposizione ad Aristotele” (M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica, 1926, Milano, Adelphi, 2000, p. 386). Il periodo dal 1923 al 1928 fu indubbiamente “rilevante” nella formazione di Heidegger, anche se la permanenza nella “odiata Marburg” (H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, 1988, Milano Sugarco, 1990, p. 11, ma cfr. anche p. 112), tra l’altro celebre università protestante, mentre Heidegger era cattolico, fu sempre vissuta in funzione dell’agognato ritorno a Freiburg e al rifugio nella Selva Nera (ritorno che notoriamente avvenne in pianta stabile dal 1928 in sostituzione di Husserl). 3. M. Heidegger, Vorwort zu ersten Ausgabe der “Frühen Schriften” (1972), in Heidegger, Frühen Schriften, Frankfurt a. M., Klostermann, 1978, p. 55. Sull’“intenso studio di Aristotele” negli anni del “convitto ginnasiale di Friburgo”, cioè in pratica a partire dal 1906, cfr. Ott, op. cit., p. 54. 4. Di questa giovanile lettura, ricorderà in seguito, “mi aveva colpito il problema dell’essere” e anzi proprio per questo quel libro aveva costituito il “mio primo filo conduttore attraverso la filosofia greca durante il liceo” (Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, cit., p. 87). A questo si era aggiunta l’influenza di Husserl, non a caso allievo di Brentano.

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Questo ordine di problemi e riflessioni, dice espressamente, costituì l’antecedente diretto “dell’opera che due decenni più tardi apparve con il titolo di Sein und Zeit”5. Il corso sul Sofista della metà degli anni ‘20 ha dunque il respiro di un già maturo confronto con la filosofia greca. È costituito infatti non solo dalla microanalisi di un testo capitale come il Sofista, ma anche da quella di altre opere platoniche, oltre che di Aristotele. Un ancor giovane Heidegger andava così realizzando il definitivo passaggio alla maturità teoretica. Lo faceva partendo dall’inizio, dalla definizione della filosofia e dalla sua connotazione come “scienza critica”. Intanto la filosofia. Il filosofare è attitudine prettamente umana, perché prende origine dalla “meraviglia”, ma nel senso precipuo che non si accetta la mera datità delle cose essendo piuttosto attirati dall’oltre, dalla ricerca di sempre nuove conoscenze (senza per altro mai poter raggiungere la “σοφία” che è “la più divina delle scienze”6). Il “meraviglioso” non è divino. È piuttosto il relativo; che ci spinge a sempre nuove (relative) conoscenze. La filosofia è la più umana delle scienze. Ma si diceva: filosofia e critica. Se infatti la filosofia non è divina, non è però neanche “scienza positiva”, cioè che si fermi alla superficie dell’ente determinato; in senso proprio è “scienza

5. Heidegger, Vorwort zu ersten Ausgabe der “Frühen Schriften” (1972), cit., p. 56. Da notare che questo passo della premessa del 1972 Heidegger lo riprende alla lettera dal testo della “sua breve presentazione in occasione dell’ammissione all’Accademia delle Scienze di Heidelberg” del 1957-‘58 (cfr. Ott, op. cit., p. 51). 6. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica, cit., p. 101.

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critica”7, dove “il termine ‘critico’ deriva da κρίνειν, ‘scindere’, ‘differenziare’: nel differenziare qualcosa da qualcos’altro si rendono visibili entrambi, il differente e la sua differenza”8. Dunque la critica filosofica riguarda l’ente (la differenza interontica), ma anche la differenza fra “ente ed essere”, il quid che li fa differenti. La differenza ontologica è critica. Esattamente nel senso che “la scienza critica è scienza dell’essere”9. E proprio in quanto “critica” è la meno divina delle scienze. Heidegger resta invece nell’ambiguità. Da una parte cura il rapporto essere-ente, dall’altra però continua a considerare l’essere un “trascendens”, che dunque non può mai essere còlto integralmente e definitivamente dall’umana conoscenza. Il filosofo di Heidegger è in questo senso ambiguo: da una parte rinuncia alla “σοφία” (cioè alla conoscenza esaustiva dell’essere), per “costantemente cercare ciò che gli preme, ciò che ‘ama’: φιλεῖν”, cioè l’ente; l’essere di questo però continua a venir considerato un trascendens (e a rimanere dunque inattingibile dalla conoscenza ordinaria, non-sapienziale). C’è un nodo irrisolto alle origini del pensiero di Heidegger10. 7. Altra cosa, specifica Heidegger, dalla filosofia critica, che è quella kantiana e riguarda termini e limiti del conoscere. 8. Ivi, p. 75. 9. Ivi, p. 76. 10. Enzo Paci invece semplifica i termini della questione, definendo quella di Heidegger “una filosofia del finito. Perciò stesso una filosofia dell’immanenza”; dove la “trascendenza”, pure presente, non sarebbe “più la trascendenza assoluta, ma diventa il puro trascendentale”, nel senso “del trascendersi del Dasein, che fonda trascendentalmente il proprio esistere” (E. Paci, Introduzione a M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Milano, Bocca, 1942, p. 6). Dunque la trascendenza come “struttura fondamentale dell’esistere

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Di qui la “φιλoσοφία, un domandare dell’essere che ne va alla ricerca e che in quanto tale è sottoposto alla critica più radicale”11, quella che lo distingue da ogni ente, da ogni positum; una filosofia però tanto radicale nel suo “κρίνειν”, che finisce con lo scindere l’essere dall’ente, dal mondo, consegnandolo alla trascendenza. E una critica astratta (nel senso che il “κρίνειν” si risolve nella scissione) dell’ente, porta alla metafisica. Nella denuncia di questa ambiguità di fondo del “domandare dell’essere” sta il senso ultimo della nostra critica ad Heidegger.

a) Il problema dell’essere Il libro è organizzato come un discorso sulla filosofia12. come soggettività” (Ivi, pp. 13-14), esternalizzazione delle possibilità più proprie del soggetto, “proiezione di un mondo”, ecc. Una trascendentalizzazione della trascendenza che non convince (appare riduttiva rispetto alla complessità del pensiero heideggeriano). 11. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica, cit., p. 80. Anche più avanti ripete che l’essere si pone “al di là dell’ente” ovvero parla di “trascendenza dell’essere” (Ivi, p. 188). 12. Per inciso: questo saggio è un confronto per linee interne al pensiero del primo Heidegger alle prese con la grande filosofia greca, quindi saranno ridotti al minimo i riferimenti alla letteratura critica relativa agli argomenti trattati. Una cosa merita però di essere segnalata in sede introduttiva: la straordinaria sintonia della riflessione heideggeriana dei primi anni ‘20, sul rapporto fra essere ed ente, fra relativo ed assoluto, fra ontologia e dialettica, con gli sviluppi più avanzati della grande scienza del ‘900. In effetti la teoria della relatività di Einstein non fu che una critica del carattere isolato e identico dell’ente fisico, quindi della assolutezza ontologica di “particelle” e “quanti”, quegli enti astratti a cui Einstein aveva opposto la teorica del “campo”. Non più dunque “particelle elementari, eterne e indistruttibili” (P. Greco, Marmo pregiato e legno scadente. Albert Einstein,

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A cominciare proprio dall’analisi della concezione dell’essere che Heidegger andava definendo in quel periodo (metà degli anni ‘20). Un discorso che prendeva le mosse dalla relazione essere/ente, ma che come detto falliva proprio sul punto della “critica”, in particolare della tradizione eleatica e “teologica”, di cui conservava la natura trascendens dell’essere. E invece ad una filo-sofia che sia autentica tensione al vero, cioè appunto “critica”, non sono consentite zone d’ombra in ordine alla natura dell’essere (e quindi al suo rapporto con l’ente). Ora proprio sul punto della natura dell’essere, è un fatto che secondo la grande tradizione dialettica, da Aristotele ad Hegel13, l’essere è in sé differenza e proprio in quanto tale è poi

la relatività e la ricerca dell’unità in fisica, Roma, Carocci, 2015, p. 29), ma appunto il “campo” come insieme di relazioni o meglio “interazioni” dove, ad esempio in ambito elettromagnetico, “due particelle con cariche opposte si attraggono, mentre due particelle con cariche uguali si respingono” (Ivi, p. 30). La teoria della relatività presuppone una filosofia della relatività. Come dire che ad inizio ‘900 in fisica, come in filosofia, entra definitivamente in crisi, la vecchia ontologia di esseri, particelle, “forze”, “atomi”, presupposti come identici e immutabili, sostituiti in fisica appunto dalla teorica del “campo” (come alla logica del “discreto” verrà sostituita quella del “continuo”). 13. Già nel suo primo importante corso su Aristotele, quello del 1921-’22, Heidegger aveva sottolineato il nesso fra Aristotele ed Hegel, anzi segnatamente fra “scolastica protestante” (che aveva preso spunto da Lutero) e “Idealismo tedesco” (M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, 1921-22, Napoli, Guida, 2001, p. 44). In quella sede Heidegger definisce “teologico” il punto di contatto fra Aristotele ed Hegel; al fondo il problema era la critica della “epistemologia” come ingenua apologia del dato immediato e la rivalutazione del motivo della trascendenza rispetto proprio al “factum brutum” .

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aperto non solo alla determinazione ontica, ma anche alla sua predicabilità logico-discorsiva. Di conseguenza il sapere critico che chiamiamo filo-sofia è critico proprio perché la differenza la trova nell’essere in quanto essere, prima ancora che nel rapporto fra essere ed ente. La differenza ontologica per essere filo-sofica deve essere dialettica. E la dialettica è “scienza critica” per eccellenza. Né la criticità è solo a pars subjecti, del solo ‘metodo’, perché per la dialettica una concezione critica dell’essere è possibile sono in quanto l’essere è critica (appunto “κρίνειν, ‘scindere’, ‘differenziare’”). È perché l’essere è critica, cioè connessione originaria di opposti, che è possibile critica della separatezza, rectius scissione, dell’ente e, quindi, conoscenza filosofica. Filo-sofia è andare verso (“φιλεῖν”) l’essere come “κρίνειν”. Ora poiché la forma più radicale di “κρίνειν” è la contraddizione, ecco che è possibile filo-sofia proprio in quanto l’essere è contraddizione. La filosofia è “scienza critica” della contraddizione. I.e. “scienza critica” della critica. E criticando la critica, la filosofia determina l’essere. Può anche dirsi che la critica della critica è autocritica dell’essere (nel senso che è l’essere come contraddizione che autorizza e dispone la propria critica filo-sofica). La filosofia è critica della contraddizione e appunto perciò sua determinazione. Ma il problema di Heidegger è sin da subito diverso. Nel senso che pur riconoscendo la continuità fondamentale, sul punto della “mediazione” ovvero della dialettica, fra Aristotele ed

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Hegel, ha però dal canto suo una concezione dell’essere che non prevede contraddizione, anzi continua a presupporre un livello ulteriore rispetto a quello della differenza, la quale resta riservata al solo ente. È lo stesso che dire che Heidegger presuppone la differenza assoluta. In questo senso il suo è un atteggiamento non critico. Non filo-sofico. Nel senso proprio che l’oggetto del suo “φιλεῖν” resta l’assoluto, l’essere non-critico. Quella di Heidegger è semmai “σοφία”, non filo-sofia. E una filosofia dell’assoluto è misticismo (oltre che una contraddizione in termini). A nostro avviso non per caso Heidegger, nel corso richiamato sopra, del 1921-‘22, definiva “teologica” l’attitudine ‘metaontica’ – e dunque ontologica – di Aristotele ed Hegel14; così come in quello del 1926 diceva che la “scienza dell’essere” è “teologia”15.

14. Anche in un altro corso a Marburg, quello del 1925-‘26, dedicato a Logica e Verità, parlerà di “logica filosofica fondata da Aristotele e portata a compimento da Hegel”, come tale insuperabile, alla quale doveva esserne opposta un’altra, praticamente la sua, quella di Heidegger, che si candidava ad un “lavoro di transizione” (M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, 1925-‘26, Milano, Mursia, 1986, p. 11). Il punto è che la logica alternativa di Heidegger aveva l’ambizione, rispetto al preteso formalismo di Aristotele ed Hegel, di ripartire dall’“ambito delle cose”, mutuando addirittura “il realismo dei problemi scientifici” (Ivi, p. 12). Una ‘nuova’ logica fra fenomenologia, “realismo” ed esistenzialismo (“vocazione interiore” del soggetto conoscente). A nostro avviso tale da restare tutta entro i limiti classici della metafisica. 15. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica, cit., p. 409; questo pur precisando che per teologia si intende la scienza dell’“ente sommo”, nulla a che vedere con la religione positiva, con un qualche “senso cristiano”, ecc. (cfr. ivi, p. 429).

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Andare verso il puro essere è effettivamente teologia. Il nesso fra teologia e ontologia è rivelativo. È stato Heidegger stesso ad ammettere, ricordando i suoi giovanili studi seminariali, che “senza questa provenienza teologica mai sarei giunto sul cammino del pensiero. Ma la provenienza resta sempre futuro”16. La teologia non era dunque solo il passato, ma il futuro appunto della sua filosofia. Parole che suonano conferma di una concezione dell’essere come trascendens (cioè di una ontologia sostanzialmente classica) che residua alla sua formulazione in termini di ermeneutica dell’Esserci. Una ricerca pure iniziata dall’essere dell’ente avrebbe finito con il tornare ad un essere in quanto essere tradizionale. Come dimostrato inequivocabilmente proprio dal testo degli anni ‘50 appena richiamato, in cui Heidegger ad un certo punto precisa: il “mio pensiero chiaramente distingue tra ‘essere’ come ‘essere dell’ente’ ed Essere in senso proprio, come verità (radura luminosa)”17. Ora l’“Essere in senso proprio” è appunto quello dell’ontologia tradizionale a cui Heidegger ritorna dopo il fallimento del ‘giovanile’ tentativo di Essere e tempo. Il presente saggio si occupa proprio della genesi del giovanile tentativo. E delle ragioni di un fallimento che a nostro avviso è segnato ab origine. 16. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, cit., p. 90. Da segnalare che nell’accenno alla “provenienza” che resta “futuro”, cioè ad un essere ‘teologico’ che segnerà anche l’ontologia matura di Heidegger, c’è evidentemente un riferimento all’attacco del Rhein di Hölderlin, richiamato in precedenza in questo stesso Colloquio (cfr. ivi, p. 88). 17. Ivi, p. 98. Più avanti dirà anche che la sua ultima ricerca è di un “essere dell’essente” che sia però “Essere” come “Differenza” assoluta, cioè insormontabile; “differenza dei due momenti” (Ivi, p. 105), ontico (d’esperienza) e ontologico (‘teologico’). L’aporia dell’heideggerismo questa è: cercare dell’ente un “essere” che resta “Essere”.

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Detto altrimenti: in questione sono i termini di una filosofia a-critica. Il “come cominciasti, così rimarrai” del Rhein di Hölderlin, vale anche per gli ‘errori’. Sta di fatto che il giovane “libero docente” Martin Heidegger, già nell’immediato primo dopoguerra, nella Freiburg del 1919 (e poi a Marburg), aveva cominciato a definire una propria terza via rispetto sia al “realismo critico” (della scuola “scolastico aristotelica”, ma certo anche di Hartmann), troppo legato alla materialità dei fatti18, sia all’“idealismo critico” (quello soprattutto dei neo-kantiani), viziato da “troppa teoria”19, cioè da un eccesso di soggettivismo e gnoseologismo (i.e. “ingiustificata assolutizzazione della dimensione teoretica”)20. 18. In Essere e tempo da una parte riconosce che la propria filosofia, l’esistenzialismo, condivide con il “realismo” il punto di partenza dall’“ente intramondano”, dall’altra però nega che la conoscenza sia qualcosa che intervenga dopo e ‘si applichi’ all’ente esterno. Per concluderne: “ciò che separa nettamente il punto di vista esistenziale dal realismo, è la cecità ontologica di quest’ultimo. Esso tenta infatti di spiegare la realtà onticamente, mediante azione di reali” (M. Heidegger, Essere e tempo, 1927, Torino, Utet, 1978, p. 320). Ora a parte che non è vero che la migliore ontologia (Aristotele, a cui Heidegger pensa e che cita) riduca l’essere ad ente, ma comunque l’essere dell’ente di Heidegger non supera davvero i limiti dell’ontologia eleatica (che l’ente come divenire considera nulla). 19. M. Heidegger, Per la determinazione della filosofia, 1919, Napoli, Guida editori, 1993, p. 92. 20. In Essere e tempo riconoscerà che l’“idealismo” ha il merito, rispetto al “realismo”, di non ridurre l’essere all’ente; ma risolvendolo poi semplicemente “nella coscienza”, mancherebbe comunque di produrre una vera “ontologia”, costruirebbe “nel vuoto”, appunto secondo “troppa teoria”, riducendo l’essere a “res cogitans” (Cfr. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 321). Detto per inciso: Heidegger ammette in Essere e tempo la propria ‘simpatia’ per l’“idealismo”. Anche per la sua filosofia, l’esistenzialismo, infatti “l’esse-

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La reazione consistette propriamente nel rilancio della Seinsfrage. Una ricerca però che partita come “ontologia dell’ente”21, finì, questa almeno la nostra tesi, con la riproposizione dell’essere della metafisica22 (esito inevitabile nella misura in cui il problema della ontologia non è impostato in termini dialettici, ma solo storico-esistenziali – sia pure in senso non-storicistico23). re è ‘nella coscienza’”, solo che, in più, offre una dottrina del Dasein come “visione ambientale preveggente” che sola, a suo dire, permette comunque di “cogliere un ente ‘indipendente’ che viene incontro nel mondo” (Ibid.). 21. È la formula che Heidegger usa per definire il suo pensiero (alternativo alla metafisica “logica dell’ente”) nel poc’anzi richiamato corso Logica. Il problema della verità (cfr. Heidegger, Logica, cit., p. 111). 22. Così in una lettera a Jaspers del dicembre 1925, cioè del periodo delle lezioni del Wintersemester 1924-‘25 sul Sofista, Heidegger scriveva da una parte che merito di Aristotele ed Hegel era stato quello di cogliere l’originario come contraddizione, cioè “a partire dagli ἑτερότης, ὄν e μὴ ὄν”, dall’altra però che sarebbero caduti in un vizio di formalismo, di riduzione del tutto a “categorie”, laddove invece “l’apparato delle categorie tradizionali non bastava alla logica delle cose e del mondo – e si doveva porre la domanda in maniera più radicale, non solo rispetto al divenire e al movimento, all’accadere e alla storia: si doveva chiedere dell’essere stesso” (M. Heidegger, lettera a Karl Jaspers del 16 dicembre 1925, in M. Heidegger, K. Jaspers, Lettere 1920-1963, Milano, Cortina, 2009, p. 48). Come dire che la coalescenza “ὄν e μὴ ὄν” va bene rispetto al piano del divenire, ma il fondo “più radicale” resta quello “dell’essere stesso”, quello che noi chiamiamo l’essere della tradizione metafisica. Del resto nel § 6 di Essere e tempo, quello in cui Heidegger riconosce il suo “imbarazzo” verso la “dialettica”, ripeterà che Aristotele aveva posto effettivamente il problema dell’essere su basi “più radicali”, che però sarebbero quelle della sua individuazione come “pura presenza”, “ente autentico” o “presenzialità (οὐσία)” (Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 84). Equivalenti al modo “che già Parmenide aveva assunto come guida nell’interpretazione dell’essere” (Ivi, p. 83). Insomma un Aristotele anti-dialettico e pro-eleatico. Praticamente uno stravolgimento. 23. Geschichte senza storicismo. Nel senso che Heidegger parla, nella Logica del 1925-’26, prima ancora che in Essere tempo, di “essere come pre-

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Indubbiamente se si parte dai Greci, come fa Heidegger, non si può sfuggire al tema della contraddizione. E del nesso fra contraddizione ed essere, oltre che fra contraddizione e conoscenza (e dunque linguaggio). Quest’ultimo insieme di problemi è in effetti centrale nei corsi heideggeriani di quegli anni e di conseguenza in questo saggio. Il problema della orto-logia altro non è che quello della possibilità di dire la contraddizione. E la contraddizione può essere detta solo in modo incontraddittorio.

senza essenziale a partire dal presente” (Heidegger, Logica, cit., p. 130) e lo definisce perciò “essere a partire dal tempo”. Ma si tratta appunto di un tempo destoricizzato, “presenza essenziale (Anwesenheit, Präsenz)” (Ivi, p. 128), sorta di problematica immanenza dell’assoluto. Essere e tempo (trascendentale). Un tempo non-storico. Il punto è che Heidegger cerca, richiamando la missione di Kant, una “mediazione” fra “intelletto e sensibilità” (precisamente il tema kantiano dello “schematismo”), ma la trova in una accezione di “tempo” che appunto in quanto in ultima istanza detemporalizzata, finisce col rimandare più alla ontologia che a Kant. Non a caso Essere e tempo si concluderà ricordando che l’analitica dell’Esserci sicuramente individua nel tempo la dimensione irrinunciabile; ma il tempo dell’Esserci non è il “tempo originario” (questa definizione in Heidegger, Logica, cit., p. 163). Noi diciamo: è un tempo detemporalizzato. Il che torna, sembra, con quanto detto nella conferenza Il concetto di tempo del 1924: “il tempo trova il suo senso nell’eternità”, dove per altro eternità e “fede” si presuppongono (M. Heidegger, Il concetto di tempo, 1924, Milano, Adelphi, 2006, p. 23. Da notare che Heidegger tenne questa conferenza alla “Marburger Theologenschaft”). Comunque nel corso dell’anno dopo, quello di Logica, tornerà a parlare dell’“eternità” come il tempo di un essere, radicalmente altro dall’ente mondano e dal suo tempo intramondano (Cfr. Heidegger, Logica, cit., p. 165). Ma se l’essere del tempo è l’eternità, il senso dell’essere resta la trascendenza.

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Né per altro quello dell’aporia, cioè appunto del dire incontraddittoriamente la contraddizione, è l’unico problema. Quando si ha infatti a che fare con l’ente (quindi non più con la contraddizione, ma con la sua determinazione) dire incontraddittoriamente non basta, bisogna anche dire bene. Se dire incontraddittoriamente la contraddizione (cioè l’essere dei Greci) è un problema, dire incontraddittoriamente l’incontraddittorio (cioè l’ente) non pone meno difficoltà. Difficoltà non solo di coerenza logica (osservanza del principio di noncontraddizione), ma appunto anche di adeguatezza del detto al fatto (all’ente).

b) Che cos’è errore? È il problema dell’errore. L’errore riguarda solo l’ente (cioè l’ambito del determinato). Anche se presuppone quello che per la metafisica è l’Errore. Cioè la contraddizione. L’errore è determinazione dell’Errore. È perché la contraddizione si nega, dunque si toglie e perciò si determina, che si ha errore. Errore è tutto ciò che non è contraddizione (ancorché prodotto della contraddizione)24.

24. Già in uno nostro libro aristotelico di alcuni anni fa, ragionando sempre dell’“errore”, scrivevamo che “l’errore è solo della non-contraddizione (cioè della negatio della contraddizione, che per il senso comune è il primo ‘errore’, mentre per la verità è verità) Come dire: la contraddizione è errore logico, ma verità dialettica” (F. Vander, Relatività e fondamento. Filosofia di Aristotele, Milano, Mimesis, 2011, p. 53). Non a caso, notavamo, per Aristotele “‘la alternativa del vero e del falso’ si dà solo nel ‘giudizio’”, cioè il principio di non contraddizione vale solo sul piano logico e linguistico, perché invece per la verità non c’è “alternativa”: il “vero” è “falso”, la contraddizione è verità.

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Errore è il fatto in sé della determinatezza (in termini religiosi è il problema della Colpa). Il determinante solo, cioè la contraddizione, è verità (e lo è in quanto sommo Errore, giusta causa di tutte le Colpe, di tutti gli errori). Ora per la maggiore filosofia greca, almeno secondo la nostra interpretazione, la contraddizione proprio in quanto determinante costituisce niente meno che l’essere come possibilità (appunto di determinare l’ente, anche linguisticamente – se in modo corretto o errato). All’errore come determinatezza, può aggiungersi infatti l’errore della determinazione sbagliata. Errore alla seconda potenza (alla terza considerando il Sommo Errore che pone l’errore della determinatezza, che può poi essere detta erroneamente). Qualcosa del genere diceva anche Heidegger in Essere e tempo: “Aristotele non ha mai sostenuto la tesi che il ‘luogo’ originario della verità sia il giudizio. Egli dice invece che il λóγος è quel modo di essere dell’Esserci che può essere scoprente o coprente. Questa duplice possibilità è ciò che vi è di caratteristico nell’essere-vero del λóγος”25. Due determinazioni. Una linguisticamente esatta, l’altra errata. Il che conferma però che la “verità” non è niente di ‘logicistico’; il “giudizio” in quanto organon del determinato è sempre errato a prescindere dalla sua verità ontica e logica. Il giudizio sempre falso ontologicamente, può essere vero o falso ontico-logicamente (dipende dalla adequatio). Detto altrimenti la verità si gioca sul piano dell’essere come “duplice possibilità”, che poi tramite il “giudizio” appunto si determina in modo unilaterale, cioè ontologicamente errato (essendo incontraddittorio smentisce la verità dell’essere) e solo a quel punto passibile di essere giusto o sbagliato (“sco-

25. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 343.

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prente o coprente”, i termini con cui Heidegger rende il problema dell’adequatio). Dunque la verità è nella duplicità, mentre l’unicità del “giudizio” è altra cosa e al più può competergli la certezza (che è la verità del falso)26. Heidegger lo dice in un passo che deve intendersi in tutta la sua portata: “la ‘verità’ della αἴστησις e della visione delle ‘idee’ è lo scoprire originario. E solo perché la νóησις scopre originariamente, anche il λóγος come διανοείν, può svolgere una funzione di scoperta”27. Insomma c’è “scoprire” e “scoprire”. C’è quello “originario” della “νóησις”, che però in Aristotele scopre l’essere come “duplice possibilità”, c’è poi quello derivato, relativo, del “λóγος” che non a caso è “διανοείν”, cioè scinde la verità duplice in un “giudizio” unilaterale, che solo in quanto falso rispetto al vero, potrà poi essere vero o falso. Ricapitolando: il “giudizio” è sempre falso – anche quando è vero – lo è appunto in quanto scinde la “verità” originaria o duplice, sola autentica “condizione ontologica della possibilità che le asserzioni possano essere vere o false”28.

26. Vero che la storia della filosofia è segnata dai grandi tentativi di ricomporre la frattura fra verità e certezza. Al riguardo Emanuele Severino ha notato precisamente nella “filosofia contemporanea” il culmine del processo di “negazione della distinzione immediata di certezza e verità”; perché però la conseguita identità fra i termini non sia mera “affermazione formale”, secondo Severino deve avere il crisma della filosofia. Che a sua volta non deve consistere in una mera dazione estrinseca di “valenza metafisica”, ma nell’ostensione del carattere originario di quella identità, che però implica, a detta di Severino, il “ritorno alla pura essenza della metafisica, quale si realizza nel pensiero di Parmenide” (E. Severino, La struttura originaria, 1958, Milano, Adelphi, nuova edizione ampliata, 2007, p. 109). E questo dell’identità originaria di stampo eleatico, costituisce un punto di contatto non secondario, a mio avviso, fra Heidegger e Severino. 27. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 343. 28. Ivi, p. 344.

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Il vero logico (come del resto il falso) presuppone il vero ontologico (rectius la sua negazione). Dove il vero ontologico è però la contraddizione29. Cosa niente affatto ovvia, questa, per la ontologia (classica, moderna e contemporanea). Che presuppone invece l’essere come ente immutabile e il non-essere come assoluto. Per cui non accetta la determinazione; né dell’essere, che così subirebbe l’infiltrazione virale del non-essere, né del non-essere che per il fatto di essere determinato sarebbe ontologizzato30. Nel caso di Heidegger l’ontologia prende la forma metafisica dell’esistenzialismo. Per lui infatti la “struttura della verità”, come duplice e come condizione trascendentale, è “un

29. Ma questa cosa, se pure problematicamente chiara ad Heidegger, non lo è per la tradizione filosofica secondo la quale la contraddizione è scandalo e l’“errore” non è altro che la contraddizione stessa. Come può la “verità” venire dal massimamente errato, dalla contraddizione? Per dirla con Gennaro Sasso: “forse che è nell’errore che, con il suo proprio fondamento, la verità trova il criterio del suo essere?” (G. Sasso, L’essere e le differenze. Sul “Sofista” di Platone, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 149). Secondo noi la risposta è senz’altro positiva, invece per la tradizione a cui Sasso negli ultimi decenni si è riferito, autorizzando a parlare di Neoparmenidismo italiano, la contraddizione è semplicemente “impossibile” (Ivi, p. 141). 30. Così il presupposto della metafisica è l’“assoluto ‘non esserci’ dell’errore” (Ivi, p. 24) perché se l’errore è determinazione, determinare l’assoluto, in questo caso non-essere, equivale a relativizzarlo, contraddicendo dunque il ‘sommo’ principio. Impossibile è “opinare nulla”, perché significherebbe intrudere appunto il relativo nell’assoluto, sforzandosi di dire il non-essere; se ci si prova ad “opinare” allora si ha “errore” (e l’errore peggiore, quello che contraddice il principio di non contraddizione). Il presupposto della qualsiasi riflessione di Sasso su essere, non-essere ed aporia è senz’altro eleatico; presupposto pacificamente attribuito per altro a Platone stesso: “eleaticamente, Platone tiene fermo, il ‘non essere’ non è ed è impossibile che sia” (Ivi, p. 26). Da segnalare a quest’altezza che, come vedremo meglio infra, anche per Emanuele Severino l’errore è semplicemente impossibile.

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esistenziale”31, qualcosa che riguarda la dimensione soggettiva delle condizioni del conoscere, mentre in Aristotele il vero è la contraddizione (questo il senso proprio di “duplice possibilità”: identità degli opposti), fondamento poi determinabile secondo un giudizio (passibile di errore proprio in quanto errato sempre), risultato dell’autonegazione del contraddittorio. Altro l’essere esistenziale, altro l’essere come contraddizione32. Ma come visto c’è un secondo fondamentale profilo del problema “errore”. Non solo quello della erroneità ontologica di ogni “giudizio”, ma quello tutto interno alla dimensione ontico-logica della distinzione fra “giudizio” ‘esatto’ ed ‘errato’. Segnatamente si tratta di questo: si può dire incontraddittoriamente (cioè esattamente) qualcosa di sbagliato. Il giudizio esatto è incontraddittorio, dunque ontologicamente falso, ma logicamente vero (certo), in questo – cioè sul piano ontolo31. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 344. 32. Tipico il caso di un pensatore esistenzialista come Enzo Paci, che ragionando di essere e nulla, considera il nulla “semplicemente il contrario dell’essere”, ponendo cioè una differenza assoluta fra i due termini; salvo poi aggiungere che “ciò che impedisce alla realtà di realizzarsi è proprio il nulla, il negativo che ogni forma dell’essere porta presso di sé” (Paci, op. cit., p. 10). Ma se “ogni forma dell’essere” ha “presso di sé” il “nulla”, evidentemente esso non è “semplicemente il contrario dell’essere”, ma la condizione senza la quale l’essere non è e non si realizza. L’esistenzialismo regolarmente fallisce, in Paci non meno che in Heidegger, i conti con la dialettica. Paci infatti scrive che già Platone “comprese che l’esistenza /c.m./ dell’errore, l’esistenza del sofista, era interamente legata al problema del nulla” (Ibid.), dunque riconosce l’indissolubilità di “nulla” ed “esistenza”, salvo poi però credere di risolvere il problema (l’aporia, per gli esistenzialisti) dell’essere del nulla, ‘inventando’ una quarta categoria dello spirito (dopo filosofia, arte, morale), quella della “economia”, della “vita”, che sarebbe il luogo del puro nulla esistente. Ma questa giustapposizione di crocianesimo ed esistenzialismo più che aporetica, è sbagliata.

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gico falso – come quello falso (errato). Come distinguerli? Il criterio di verità bisogna trovarlo altrove (non cioè sul piano della logica e del suo principio); evidentemente su quello della adequatio del discorso (identico, incontraddittorio) all’ente (identico e incontraddittorio). Un terzo livello di ‘verità’ dunque (ontologico, della determinazione, della adequatio fra determinazioni). Segue però un quarto livello, quello che vede dipendere il criterio di verità da quanto di più arbitrario: le convenzioni con cui si individua un oggetto e con cui lo si definisce, gli si attribuisce un nome piuttosto di un altro33. Per questo l’ortologia dell’ente non è solo problema logico, ma coinvolge anche il profilo della adequatio del detto (incontraddittorio) alla cosa (incontraddittoria anch’essa in ragione proprio della sua determinatezza), ma anche al nome convenzionalmente apposto alla cosa stessa. Il presente saggio si concentra quindi sui risvolti e logici e ontologici della ortologia dell’ente, ma partendo dall’essenziale, 33. Sulla convenzione basti ricordare che per Erodoto non solo “λέγειν τὰ ἐόντα” – dire la realtà dei fatti – necesse est, ma non sarebbe possibile addirittura la sopravvivenza del genere umano senza la convenienza/necessità di stabilire, convenzionalmente, cose fisse e da tutti condivise. Richiamando proprio Erodoto, scrive Hannah Arendt: “non è possibile neanche immaginare una permanenza, una perseveranza nell’esistenza, senza degli uomini disposti ad attestare ciò che è e che appare loro perché è” (H. Arendt, Verità e politica, 1967, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 32). Ora dire le cose come stanno equivale precisamente a riconoscere la verità convenzionale: “colui che dice ciò che è – λέγειν τὰ ἐόντα – racconta sempre una storia, e in questa storia i fatti particolari perdono la loro contingenza e acquistano un significato unanimemente comprensibile” (Ivi, p. 74). L’ente di realtà è dunque costituito come “significato” identico (riferito ad un ente), ma “comprensibile” (cioè accettato erga omnes); certo questa nominatio è una “storia”, una “convenzione” appunto fra esseri parlanti, tutt’altro da una verità inconcussa.

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da ciò che sottende alla determinatezza dell’ente, del discorso sull’ente, dell’errore in questo discorso. Ora l’ontologia dell’errore presuppone quello che Heidegger ha chiaro già dalla sua interpretazione di Platone: “il falso, e in connessione con esso l’illusione, l’inganno, l’errore, erano per Platone fenomeni particolari che, per così dire, dovevano essere dapprima combattuti come tali, con la speciale avvertenza che essi non sono un nulla e non sono, ma certamente sono. Sotto la pressione e il peso della sentenza di Parmenide, l’ente è e il non ente non è, si dovette considerare come indubitabile che l’illusione, la falsità e l’errore non fossero e non potessero essere cose negative, nulle”34. L’errore è vero errore, quindi è35.

34. Heidegger, Logica, cit., p. 113. 35. Ragionando dell’“errore”, Emanuele Severino in Fondamento della contraddizione fa l’esempio della “convinzione” che una determinata stanza sia “illuminata” (mentre in verità è buia). Scrive: “la convinzione può essere una illusione, un’apparenza; ma tale illusione o apparenza è pur sempre l’apparire di questa stanza illuminata. Nello sguardo del destino della verità, cioè nell’‘apparire trascendentale’, quell’apparire appare come ciò in cui non appare ciò che in verità appare – ossia ciò che appare nello sguardo del destino della verità” (E. Severino, Fondamento della contraddizione, Milano, Adelphi, 2005, p. 79). Dunque: a) la “convinzione” soggettiva può essere errata (“illusione”); b) purtuttavia esiste (“appare” questa stanza illuminata – che “in verità” è buia); l’errore è (proprio come la verità); c) ora per criticare la corposità dell’errore (corposità pari a quella della cosa vera) occorre riscontrarne l’apparire con “ciò che in verità /c.m./ appare” (nella prospettiva più comprensiva e significante “del destino della verità”). Invero poi Severino dà un seguito al suo discorso che non condividiamo. Nel senso che riconduce il criterio di verità con cui giudicare le “convinzioni” errate (i.e. contraddittorie) alla sua concezione dell’essere, che non è però quella di Aristotele nel IV libro della Metafisica, che pure Severino cita a sostegno. A noi sembra che quelle di Aristotele non siano contraddizioni ontiche (i.e. errori) da riscontrare sull’essere come incontraddittorio, ma errori da negarsi sulla scorta proprio della contraddittorietà trascendentale dell’essere (che autocontraddicendosi pone il determinato ontico, che solo

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Dunque il principio di non-contraddizione, anche in accezione eleatica (secondo Heidegger), si riferisce al piano ontico, dell’ente appunto, delle “illusioni”, dei discorsi sbagliati sulle cose, ecc36. Dopo di che Platone ed Aristotele certo combattevano i “fenomeni particolari” dell’“inganno”, dell’“errore”, ecc., ma sapendo che combattevano la contraddizione fra cosa detta e cosa data (contraddizione nella adequatio), non la contraddizione come dato ontologico (che riguardava il nesso preliminare fra contraddizione e “fenomeno particolare”). Per loro il “fenomeno particolare” certo era (poteva essere) errato, ma non era contraddittorio.

se pensato poi contraddittoriamente importa errore). La “stanza illuminata”, verificata dall’esperienza, è ontologicamente falsa come la “stanza buia” falsificata dall’esperienza. Altro opporre all’errore l’Essere, altro la contraddizione. È in questione la erroneità dell’errore ovvero la sua verità. Ma si veda la nota seguente. 36. Così a nostro avviso in un celebre passo del libro IV della Metafisica, 1005 b, 26-31, Aristotele precisamente questo dice: che “il più sicuro di tutti i principi” vale solo per gli enti e le parole (e le “opinioni” soggettive). E infatti nessuna “opinione” può contraddire un’altra (riferita alla stessa cosa), né nessun soggetto può “veramente ammettere che una stessa cosa esista e anche non esista” (1005 b, 30). Appunto “cose” e “opinioni” su cose. Per queste vale il divieto di contraddizione. Scrive ancora con grande nettezza Aristotele: nessuno può avere “ad un tempo opinioni contraddittorie”. Sono le “opinioni” (e solo esse) a non poter essere contraddittorie. Invece secondo la lettura severiniana qui Aristotele starebbe sì negando il “contraddirsi” soggettivo, ma anche il “contenuto contraddittorio”. In Fondamento della contraddizione si legge: “nel libro IV della Metafisica si afferma l’impossibilità di essere convinti di dóxai tra loro opposte” (Ivi, p. 78), ma questo appunto dimostra solo che il principio vale per cose e convinzioni. A noi pare non confermata in Aristotele la sua estensione anche all’“essere eterno” (per una rilettura delle tesi severiniane sul punto cfr. N. Cusano, Sulla contraddizione, “La Filosofia Futura”, 1, 2013, p. 109 e passim).

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L’errore è contraddizione in adequatio, ma incontraddittorio dal punto di vista ontico. In altre parole Platone ed Aristotele, “sotto la pressione” di Parmenide, definirono meglio l’ambito di vigenza del principio di non contraddizione, liberando però dalla “pressione” eleatica proprio ciò che più conta e interessa, la dimensione dell’essere in quanto essere. Altro negare la contraddizione fra ente e parola (la contraddizione dell’adequatio), altro negare la contraddizione come essere dell’ente37.

37. Al riguardo non per caso abbiamo posto il passo di Leopardi in exergo. In esso infatti si dice in parole poetiche una profonda verità filosofica. Laddove domanda retoricamente se sia “men vano della menzogna il vero”, Leopardi ci dice che le determinazioni della “verità” e della “menzogna”, in quanto appunto determinazioni, sono tutte ontologicamente false. Il falso appartiene alla struttura ontologica della verità e la costituisce come tale. La verità è vera/falsa. Solo di conseguenza poi, in quanto determinazione, la menzogna è, consiste (tanto che il giudizio che esprime questa determinatezza può essere criticato, definito falso). Walter Binni, ragionando proprio del Vincitore nel pallone e segnatamente del passo “è men vano della menzogna il vero?”, nota appunto che “la menzogna, l’illusione che offre la vita, è più consistente /c.m./, pur nella sua vanità, che non l’arido e gretto vero” (W. Binni, Lezioni leopardiane, II, Lezioni dell’anno accademico 1965-66, in Binni, Leopardi, volume 2, Scritti 19641967, Firenze, Il Ponte Editore, 2014, p. 167). Dunque la “menzogna”, cioè il negativo, il non-essere, consiste, è. Appunto l’essere del determinato è contraddittorio, è essere/non-essere, solo su questa base sarà poi possibile la determinazione, il consistere della “menzogna” (la sua verità), come per altro verso del “vero” discorsivo (del dire bene il determinato). Ma, si ripete, la “menzogna” ontologicamente è vera non “men” del “vero”. Un altro grande poeta (e leopardista) nella fornace della Grande Guerra scrive: “la morte si sconta vivendo” (Giuseppe Ungaretti, Sono una creatura, 1916); anche qui: la vita è morte, il negativo non solo accompagna trascendentalmente il positivo, ma pesa (“si sconta”) nella sua esistenza.

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Heidegger invece, accreditando la interpretazione della sua ontologia in termini di neo-parmenidismo, mai arriva a ritenere legittima la possibilità dell’essere del non-essere. Di conseguenza è da ritenersi infondata la sua tesi che Platone ed Aristotele non avrebbero “trovato una risposta” al problema dell’essere del non essere38. È il problema degli ambiti di vigenza del prinicipio di non contraddizione. Torneremo nell’ultimo capitolo sul punto dell’errore, ma i termini sono questi: solo l’essere come contraddizione (cioè il contrario della “sentenza di Parmenide”) spiega il determinato. E solo sul piano di questo si pone poi il problema dell’“errore”, del falso, dell’“illusione” e dunque della noncontraddizione.

c) Il giovane Heidegger ed Aristotele L’Heidegger dei primi anni ‘20 lavora molto sulla distinzione fra Platone ed Aristotele. Il primo visto come il teorico ancora dell’“Übersein”, di qualcosa che, con le Idee, resta oltre la dimensione ontica dell’esperienza, mentre in Aristotele sin dall’inizio è escluso ogni presupposto trascendente. E a noi è effettivamente interessato proprio questo approccio ad Aristotele analista della “Seinskostitution” dell’ente, che è originale rispetto alle interpretazioni aristoteliche prevalenti nel ‘900 e spesso ancor oggi. 38. Heidegger, Logica, cit., p. 113. In verità Heidegger deve ammettere che Aristotele, andando oltre Platone, individua una dottrina dell’essere che contiene strutturalmente “una condizione di possibilità della falsità”, ma poi dice che questa intuizione “è caduta nella più completa dimenticanza” (Ibid.). Ora a parte che non è vero, perché il dispositivo dialettico, che di questo si tratta, è regolarmente presente negli statuti della migliore filosofia moderna e contemporanea, ma semmai è Heidegger a “dimenticarsene” ovvero a mistificarlo.

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Ci è interessata criticamente invero la definizione che ne dà Heidegger. Senza dubbio la filosofia di Aristotele si colloca oltre sia l’ipostatizzazione eleatica dell’essere, sia però anche le Idee di Platone e infine l’ipostatizzazione dell’ente operata dalle varie ontologie ‘regionali’. Aristotele cerca la verità entro l’ente (“innerhalb des Seienden”) e questo aspetto è stato indubbiamente approfondito da Heidegger. È quindi significativo il riconoscimento che Heidegger tributa alla “Rivoluzione” aristotelica, intesa sia come centralità della questione del rapporto fra essere ed ente, sia come analitica dell’essere in quanto contraddizione, cioè con quel “carattere di ‘non’, di negazione, che vi è implicito”. La parte critica del nostro discorso su Heidegger riguarda piuttosto il fatto che da lui l’essere aristotelico viene in ogni caso rapportato a quello eleatico. E questo presupposto ha influenza diretta sull’interpretazione complessiva dell’ontologia di Aristotele. Così la dialettica, che per Heidegger è solo un “grado preliminare del ϑεωρεῖν”, qualcosa che riguarda ancora la logica e si deve superare in direzione della superiore intuizione noetica, per Aristotele è invece tutta la verità. Essendo appunto la dialettica quella “Seinswissenschaft”, nel senso affatto peculiare di scienza dell’identico e del contrario, indispensabile a cogliere l’essere come contraddizione e a situare su questa base la relatività dell’ente. La nostra critica dell’interpretazione heideggeriana della grande filosofia greca, parte allora da una premessa che va esplicitata: non Aristotele metafisico perché ridurrebbe l’esse-

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re alla dimensione astratta, logicistica della “dialettica”39, ma metafisico piuttosto Heidegger che presuppone l’essere come mera (cioè astratta, formalistica) identità e trascura la dialettica, che della legittima non-identità di ogni identico (essere, ente, parola) è organon per definizione. Oblio della differenza ontologica è quello di Heidegger. Perché non realizza come altro sia l’ente, effettivamente identico e incontraddittorio, altro l’essere che ne è condizione40 (condizione di determinabilità e quindi anche condizione di “errore” nella determinazione)41.

39. Nel corso del 1925-‘26 arriva a sostenere che “il concetto aristotelico della verità”, si fonderebbe nientemeno su “una copia dell’ente ottenuta tramite processi psichici” (Ivi, p. 111). 40. La cosa ci pare evidente laddove sostiene che “il concetto greco di verità” coincide con “la pura percezione sensibile di qualcosa” (Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 93); più avanti, a scanso di equivoci, parla di “percezione che guarda puramente alle più semplici determinazioni d’essere dell’ente” (Ivi, p. 94). Questo sguardo puro cioè ingenuo sull’immediato (che va oltre quanto dell’immediato possa cogliersi con i sensi) è detto, sintomaticamente, “puro νοεῖν”. In questo modo l’essere viene comunque colto a partire dall’ente, diciamo pure dalla sua “semplice presenza”, anche se comunque con un medium che garantirebbe il trascendimento del sensibile stesso. Alla fine l’essere è un ente astratto. Ma così, anche se Heidegger ambisce a porsi oltre la dimensione di quella che chiama la metafisica, con la sua scissione che, nelle lezioni del 1925-’26, verrà definita “diversificazione ontologica” (Heidegger, Logica, cit., p. 39), si tratta di vedere se riesce nell’intento. Se riesce cioè a porsi oltre quella configurazione tradizionale della filosofia, dalle “Idee” di Platone al fenomeno/ noumeno di Kant, per cui la cosa è meramente empirica (e colta dai “sensi”) e l’essere puramente identico, eterno, “sottratto al mutamento” (e così colto dal puro “νοῦς”). 41. Sul rischio di considerare l’essere una sorta di astrazione dall’ente di esperienza, Merleau-Ponty in una nota del 1959 al suo Il visibile e l’invisibile scrive: “mostrare che la metafisica è una ontologia ingenua, è una sublimazione dell’Essente” (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano,

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d) Limiti del “λόγος” Sulla scorta di questo oblio è poi normale che Heidegger ritenga possa sì darsi “errore”, ma mai orto-logia dell’essere. Perché è ovvio che “sotto la pressione di Parmenide” non può accettarsi “λόγος” del semplice. Discorso dell’immediato sarebbe un’aporia. E in effetti lo è, se si intende l’essere come identico o il nulla come assoluto non-essere42. Bompiani, 2003, p. 203). Dunque anche per il filosofo francese la metafisica è oblio della differenza ontologica. 42. Secondo Emanuele Severino, sia pur per essere negati, non-essere e contraddizione “è necessario che appaiano, e che, in questo senso, siano (come vede Platone nel Teeteto e soprattutto nel Sofista); ma ciò che appare è il positivo significare dell’assoluta assenza di significato” (Severino, Fondamento della contraddizione, cit., pp. 79-80); ora però poiché ciò che è impossibile non può neanche apparire, la conclusione è che (anche per il pensiero metafisico) il non-essere “è impossibile che sia e che appaia” (naturalmente Severino sa che in Aristotele invece il non-essere è, così come proprio la contraddizione costituisce il fondamento, che si determina poi in un determinato “apparire”; non a caso taccia Aristotele di “nichilismo” – Ibid.). Ma la conclusione davvero radicale del ragionamento di Severino è: poiché il non-essere non può prendere la forma di alcun “essente”, ergo “non solo è impossibile l’errore, ma è impossibile l’errare” (Ibid.). Anche più avanti scrive: “l’errore e il contraddittorio non sono, sono nulla” (Ivi, p. 85); ma abbiamo visto che è la stessa posizione di Gennaro Sasso. Sfidando la condanna per nichilismo ritengo però si debba dire che il “positivo significare” del nulla e della contraddizione, la possibilità del loro esser detti e opinati, presuppone una relativa “assenza di significato”, cioè un non-essere che è o “contraddizione” (la quale poi autocontraddicendosi pone appunto quel “positivo significare” che è l’ente determinato o la parola determinata). Il “positivo significare” di nulla è un dato ontologico prima che ontico. Severino sicuramente condanna l’“isolamento” cui il pensiero metafisico sottopone il determinato (riducendolo ad “errore” o “contraddirsi”), resecandolo appunto dalla verità che invece è “negazione” di ogni determinato astratto (cfr. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., p. 84); a nostro avviso però la negazione del determinato intanto ne toglie l’“isolamento”, in quanto quell’isolamento ha posto, ha determinato. E appunto in quanto negazione della contraddizione (i.e. autocontraddizione).

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Heidegger ammette che per Platone e Aristotele “il λόγος nella sua funzione autentica è fondato sulla dialettica”, ma appunto questo non può valere per l’essere come lui lo intende, cioè secondo “l’interpretazione tradizionale e consueta dell’ὄν, nel suo rigido senso parmenideo”. Mai, dal punto di vista di Heidegger, l’“originario /Ursprünglisches/” potrebbe essere “συμπλοκή di ὄν e μὴ ὄν” (e in effetti ad un certo punto fa espresso riferimento alla “ben rotonda sfera” di Parmenide43). Ora il Sofista viene interrogato proprio intorno alla possibilità di dire il non-essere. Indubbiamente in quanto detto il non-essere è ontologizzato (“Verkörperung des Nichtseins”) e perciò stesso ridotto a unità, identità. E questo (l’essere dell’“errore”,

Si può negare l’“isolamento” solo in quanto l’“isolamento” è negazione. Ovvero: si può togliere la contraddizione fra verità e “isolamento”, in quanto l’“isolamento” è negazione della contraddizione come verità (quindi autocontraddizione). L’atto che nega l’“isolamento” è lo stesso che lo pone. 43. Nel corso del 1926 sulla filosofia antica, parla della “sfera” di Parmenide, con la sua identità e perfezione, “come simbolo dell’essere” (Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica, cit., pp. 332-333). Proprio a fronte di questa trascendenza dell’essere Emanuele Severino ha potuto scrivere che “l’ontologia greca pensa infatti l’essente (la cosa) come essenzialmente separato da se stesso e dal suo ambiente” (E. Severino, Lezioni sulla politica, Milano, Christian Marinotti, 2002, p. 40). Essere astratto. In altre parole, con riferimento alla propria di filosofia, Severino considera il “determinato”, come ciò che “appare” nella esperienza, come cosa puntuale, senza che appaia però la propria essenza, il proprio essere. È quella che chiama “contraddizione C”, la realtà dell’impossibile, contraddizione realizzata, “dove ciò che appare appare nel suo essere e non essere ciò che è” (Severino, Fondamento della contraddizione, cit., p. 88), cioè è questo ente ma non è il suo essere. Come accennato anche Heidegger rifiuta l’ente come “semplice presenza”, in ragione della astrazione metafisica che lo riduce così, ma poi a questa stessa operazione di reificazione metafisica sottopone proprio l’essere (tanto che richiama Parmenide).

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cioè di ciò che non-è) per un ontologo come Heidegger costituiva un grave problema (“Fragestellung”)44, proprio perché metteva in crisi il fondamento di ogni ontologia: “den Satz des Parmenides”, il principio di non-contraddizione. Sulla base di Parmenide non può spiegarsi la realtà, il divenire, il discorso, l’errore, ecc. La nostra critica si concentrerà dunque sui limiti dell’ontologia di Heidegger. In effetti la sua fedeltà al “locus classicus” dell’essere come incontraddittorio e la stessa rivendicata contiguità ai neoplatonici, non fanno che confermare che dietro determinate ricostruzioni storico-filosofiche si celava in verità un più generale carattere della filosofia del ‘900, fatto di metafisica, irrazionalismo, antimodernità e anche misticismo. Ragionando quindi di Heidegger interprete di Platone e Aristotele si arriva al cuore del ‘900 filosofico e non solo. Di conseguenza criticare quella certa interpretazione equivale a definire un opposto progetto filosofico. Del quale un punto fermo è che il non-essere, già in Aristotele, altro non è che un “caso-limite /Grenzfall/” dell’essere. Dunque il non-essere come qualcosa di intimo all’essere. Che è quanto intendiamo per contraddizione come verità. La dialettica poi altro non fa che rivelare l’autentica “costituzione” dell’essere dell’ente, il cosa c’è dietro l’ente d’esperienza come mero dato, mera identità, incontraddittoria. Resta inteso così che il “λόγος” può valere solo per l’ente, per il determinato; non può dire la verità ovvero la contraddizione

44. Lo stesso problema che porta oggi Severino a dire che “è impossibile l’errore”, così come l’“errare”.

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(se non decontraddicendola, riducendola, a questo punto aporeticamente, a discorso sulla contraddizione)45. Non è possibile “λόγος” dell’essere, logica della contraddizione (se non nella forma affatto peculiare della dialettica, come vedremo subito), ma solo ontologia dell’ente ovvero orto-logia dell’ente. L’essere (incontraddittorio) è dell’ente. Non dell’essere. Detto altrimenti: solo l’ente è incontraddittorio e poi dicibile in modo “vero” (o “falso” nel caso ‘in contraddizione’ con la ‘realtà’).

45. Queste cose Heidegger le dice con molta nettezza in Essere e tempo: “il λόγος è un modo determinato del lasciar vedere, il λόγος non può affatto esser considerato il ‘luogo’ primario della verità” (Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 93). Appunto il “λόγος” non può dire la verità. Ma così dunque il principio ‘logico’ per eccellenza, quello “di non contraddizione”, vale solo per l’ente. Non è principio di “verità”, è principio non “primario”, ergo secondario, non onto-logico. Elisione fra “verità” e principio di non-contraddizione. Naturalmente anche per questo riguardo c’è tutta una tradizione secondo la quale “parlare della contraddizione /c.m./, ossia del supremamente impossibile, è ἀδύνατον, impossibile” (Sasso, op. cit., p. 141), appunto perché così si attribuirebbe uno “status” alla contraddizione, che poi “significa ontologizzarla, prenderla, autocontraddittoriamente, come ‘possibile’” (Ivi, pp. 141-142). Invece a nostro avviso è proprio la possibilità della contraddizione di riguardarsi “autocontraddittoriamente”, a permetterle di determinarsi e quindi di definirsi discorsivamente. L’autocontraddizione è fatto positivo. Anzi è organon della fondazione. In questo modo il carattere non surrettizio della contraddizione determinata è assicurato proprio dal riferirsi autocontraddittorio della contraddizione. Certo perché la contraddizione possa determinarsi e dirsi (il linguaggio è una delle forme della determinazione, in questo senso non è “luogo primario della verità”), è necessario che la contraddizione sia “possibile” (non “supremamente impossibile”).

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e) Dialettica e “struttura originaria” Dell’essere è possibile solo dialettica. Dialettica che propriamente è il discorso sulla contraddizione. Ma appunto l’ortologia dell’essere non è “λόγος” (nel senso che non risponde al principio di non-contraddizione). Se si vuole un ossimoro: la dialettica è “λόγος” della contraddizione. Ora per Heidegger “la dialettica ha il compito di rendere visibile /sichtbar zu machen/ l’essere dell’ente”; dove per “rendere visibile” deve intendersi: dire non-aporeticamente la contraddizione. Inutile aggiungere che una tale cosa ad Heidegger risulterà immancabilmente “strana /merwürdig/”, tale da provare anzi “la limitatezza intrinseca dell’ontologia greca”46. All’ontologia metafisica e dunque agli idolatri del p.d.n.c., la contraddizione non smetterà mai di fare scandalo e la dialettica non potrà che sembrare “λόγος φευδής”.

46. A conferma dell’idiosincrasia dell’ontologo per la dialettica, Heidegger anche nelle lezioni del 1925-‘26, pur avendo chiaro che in Aristotele vero e falso logico-discorsivi rimandano ad “uno stesso ambito”, ad un “fenomeno unitario” che ricomprende gli opposti, non riesce ad accoglierlo pacificamente e lo trova una soluzione “oscura ed enigmatica” (Heidegger, Logica, cit., p. 94); vedremo più avanti che parla anche della dialettica come “cosa strana /mehrwürdig/”, di “strana oscurità”, ecc. La dialettica dunque eterno enigma dell’ontologia (da ricordare che in Essere e tempo parlerà di “imbarazzo” per la dialettica). Ma anche Sasso parla di “paradosso” della dialettica (Cfr. Sasso, op. cit., p. 142 e sgg, p. 159 passim), addirittura ne parla in termini di “procedimento irrazionale”. Perché? Perché in ragione di essa risulta “l’essere di Parmenide trasgredito e violato” (Ivi, p. 144). Appunto il presupposto ontologico del Neoparmenidismo (non solo italiano).

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Per la metafisica la dialettica è sofistica47. Anche per questo nell’ultimo capitolo del saggio torneremo sul tema capitale del rapporto fra linguaggio ed ente, sull’“errore”, sulla orto-logia del determinato. In quel capitolo infatti la materia del contendere torna ad essere la possibilità dell’errore; quella che Heidegger attribuisce alla “costituzione intenzionale del λέγειν” (che dice male l’ente) e noi invece alla costituzione ontologica dell’ente (che risultando dalla negazione della contraddizione è negazione della verità ontologica, ma fondazione della verità logica)48. Heidegger ammette che il discorso (“λόγος”) consiste nel rendere manifesto “l’ente o il non-ente”, cioè che la determinazione verbale avviene in modo unilaterale a partire dalla contraddizione come essere dell’ente. Perché in effetti ad essere determinata (cioè ridotta in modo appunto unilaterale, incontraddittorio) è la “struttura originaria” o “Grundstruktur” come la chiama Heidegger. Due cose sono però da stabilire: che cosa sia questa struttura originaria, che necessita di essere negata per poter essere determinata e cosa ne sia del risultato della determinazione.

47. Un’affermazione perentoria (quanto gratuita) in questo senso la si legge più avanti nello stesso corso del 1925-‘26: “quella sofistica di cui vive la dialettica hegeliana” (Heidegger, Logica, cit., p. 167. 48. Del resto se Heidegger scrive che “secondo Aristotele quest’alternativa tra vero e falso appartiene alla proposizione” (Ivi, p. 86), cioè al “λόγος”, se ne deve inferire che, sempre per Aristotele, la non-alternativa, cioè l’identità dialettica, di vero/falso, appartiene all’essere. Che poi è come dire che la contraddizione è la “verità” negando la quale può darsi l’errore, cioè o il “vero” o il “falso”. Anzi al riguardo Heidegger ha ragione di dire che, sul piano del “λόγος”, “quando una proposizione è vera, lo è come qualcosa che può anche essere falso” (Ivi, p. 87); nel senso che la verità logica è sempre relativa, è una verità convenzionale, perché appunto vera non più che falsa.

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Ora se il “λέγειν” scopre, cioè manifesta, individua sempre o “l’ente o il non-ente”, è chiaro tanto che la struttura originaria (che costituisce la premessa dello scoprire) è essere/nonessere, cioè è contraddizione, quanto che la determinazione di questa è appunto unilaterale ovvero ipostatizza e dunque dice, scopre uno dei due termini fondamentali o l’ente o il non-ente49. La struttura originaria è allora propriamente il “sostrato nontematizzato” della tematizzazione ontica. Aristotele ha poi avuto il merito di stabilire non solo che la tematizzazione (i.e. determinazione) è a partire dalla contraddizione, ma che questa come fondamento resta immanente al determinato (/tematizzato). La “struttura originaria” di Aristotele è la contraddizione. Dopo di che la “possibilità” aristotelica questo è: immanenza del “non-tematizzato” al tematizzato. La dialettica poi è ragione di questa immanenza, in quanto “rende visibile”, come dice Heidegger, la compossibilità di essere e non-essere. In questo modo dire la contraddizione non ingenera aporia, la contraddizione infatti resta presso l’ente

49. Su “struttura originaria” e conoscenza Emanuele Severino ha scritto: “la struttura originaria è l’essenza del fondamento. In questo senso, è la struttura anapodittica del sapere – l’ἀρχὴ τῆς γνώσεως – e cioè lo strutturarsi della principialità, o dell’immediatezza” (Severino, La struttura originaria, cit., p. 107). Dunque la “struttura originaria” come essere de-immediatizzato (in questo senso strutturato; Severino dice anche: “non è un che di semplice”) è in quanto tale, cioè come immediato strutturato (immediato mediato), condizione trascendentale della conoscenza, appunto “ἀρχὴ τῆς γνώσεως” i.e. principio non-semplice del conoscere. Ma Severino citando subito dopo Aristotele, ricorda anche che il principio della “struttura originaria” (cioè il principio non dell’essere, ma del mediato!) è il “principio di non contraddizione” (Ibid.), che dunque è il principio del conoscere, “τῆς γνώσεως”, principio del relativo, dell’ente.

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determinato e anzi ne autorizza la determinazione anche linguistica50 (secondo un processo di autonegazione della contraddizione, rispetto alla cui determinazione la contraddizione stessa resta poi come fondamento, possibilità51). 50. Naturalmente in termini del tutto opposti ragiona il pensiero dell’“Ente immutabile”. Secondo Severino può effettivamente darsi “affermazione” della contraddizione, essa può essere detta (ad esempio nella forma del “contraddirsi”), ma di certo il “contenuto” di tale “affermazione” resta assolutamente negativo, puro non-essere (per una definizione riassuntiva delle posizioni di Severino sulla questione cfr. Cusano, op. cit., pp. 104-105). La contraddizione varrebbe così sul piano ontico e linguistico (della “convinzione”), ma quello ontologico, dell’essere in quanto essere, resterebbe intangibile. A mio avviso fra i due piani è possibile rapporto positivo, di fondazione. Non parlerei così di “nulla come significato autocontraddittorio”, ma di contraddizione che contraddicendosi determina un “significato” per forza di cose unilaterale, astratto (si tratti di “nulla” o qualsiasi altro). Il nulla è “significato” dell’autocontraddizione (la determinatio che risulta da quella negazione della negazione che l’autocontraddizione propriamente è e che la qualifica però come autoreferenza funzionale, non aporetica). Certo con ciò non può convenire chi considera la contraddizione, nel suo senso ultimo, come “impossibile, inesistente, nihil absolutum” (Ivi, p. 105), quella che il Severino più recente chiama “contraddizione pura” (Ivi, p. 106). 51. Dove Severino scrive che “è impossibile che la contraddizione appaia puramente (cioè come non negata)” (Severino, Fondamento della contraddizione, cit., p. 81), noi intendiamo: la contraddizione “appare” sempre impuramente (cioè come determinata), cioè come negata nella forma specifica dell’autonegazione, dell’autodeterminazione (che però non è mai negazione assoluta della contraddizione, come evidentemente la intende Severino, ma proprio in quanto autodeterminazione, negazione relativa e tale anzi da conservare la contraddizione come fondamento di ciò che “appare”). Per cui certo che “l’identità di tesi e antitesi /i.e. contraddizione/ non è qualcosa che appare” (Ibid.), perché “appare” solo o la “tesi” o l’“antitesi”, ma ciò avviene sul fondamento della contraddizione stessa ovvero in ragione del determinarsi (i.e. autocontraddirsi) della contraddizione. L’“apparire” lungi dal negare la contraddizione la presuppone come agente trascendentale (in questo senso certamente esso non deve “separarsi” dal fondamento, il rapporto trascendentale deve sempre restare presupposto).

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Con la dialettica la contraddizione permane anche dopo la sua negazione (i.e. determinazione). La dialettica permette di dire non-aporeticamente la contraddizione52. Heidegger a ragione parla di “isolamento /Vereinzelung/” dell’ente a seguito di certi processi di riduzionismo metafisico, ma manca di indicare le ragioni che portano a questa situazione. E manca pour cause. Perché quelle ragioni metafisiche, di negazione astratta, di “tematizzazione” indedotta, cioè nondialettica, della contraddizione, sono anche le sue. In altri termini in Heidegger manca un sufficiente apprezzamento del valore della dialettica, del senso della contraddizione e della funzione svolta nell’economia del pensiero aristotelico dalla categoria di possibilità53. Non a caso riprendendo il tema dell’errore torna ad attribuirlo alla “intenzionalità” del soggetto, alla sua “decisione” di

Autonegazione non è negazione. E la contraddizione si autonega. Ergo l’“apparire” conferma la contraddizione. 52. Per dirla ancora con Severino esporre la “struttura originaria” equivale a “mostrare che la negazione della struttura originaria è possibile solo presupponendo questa struttura stessa – o che la condizione della negazione è quello stesso che vien negato” (Severino, La struttura originaria, cit., p. 107). La “struttura originaria” come condizione trascendentale allora questo significa: che ciò che rende possibile la determinazione dell’essere, cioè la negazione della contraddizione, dipende proprio dall’oggetto della negazione stessa, da un essere capace di negare la propria natura di contraddizione, con ciò appunto determinandosi. La “struttura originaria” è originariamente strutturata. E la strutturazione originaria è propriamente contraddizione. Questo essere/non-essere funge poi da condizione di ogni determinazione logicodiscorsiva. Autocontraddizione significa: non valere per l’essere del principio di noncontraddizione). 53. Alla quale viene preferita la accezione “fenomenologica”, husserliana, di “possibilità” (Cfr. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 100).

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produrre un “giudizio” (mediazione, sintesi) falso, piuttosto che affidarsi ad una intuizione (immediata) giusta54. A nostro avviso invece arbitraria è la “decisione” metafisica di resecare l’ente dalla sua autentica radice ontologica, rendendolo poi effettivamente disponibile ad ogni sorta di arbitrio, manipolabilità e dunque di ‘errore’. Altro la Entscheidung del Dasein (come arbitrario atto di volontà), altro la negazione della contraddizione come verità (che è passaggio della fondazione, non arbitrio ‘soggettivo’). Metafisica questo è. Quel riduzionismo del valore teoretico della dialettica, che Heidegger comincia ad operare sin dalle sue prime grandi interpretazioni della filosofia greca classica.

54. Sul “giudizio” come luogo dell’errore e invece sulla immediatezza della capacità del “puro νοεῖν” di attingere l’ente, cfr. ivi, pp. 93-94.

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Capitolo primo Prologo aristotelico al Sofista

Nel davvero importante corso di lezioni sul Sofista tenuto a Marburg nel 1924-‘251, Heidegger tratta, a partire da un confronto serrato con Platone ed Aristotele, di temi che saranno poi resi sistematicamente nel suo grande libro d’esordio, Sein und Zeit. A cominciare da concetti chiave quali “verità”, “essere”, “ente”, “logica”, “linguaggio”, “contraddizione”. Va detto che il ciclo di lezioni, se pur dedicato al Sofista di Platone, è in verità in larga parte un confronto con Aristotele e come tale per lo più lo valuteremo2. Già la “Sinossi preparatoria /vorbereitende Übersicht/” del corso contiene alcune definizioni concettuali di particolare rilievo. A partire da quella di “verità”; ricondotta ad un termine (e ad un’accezione dello stesso) che diventerà tipico della

1. M. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, 1924-1925, Milano, Adelphi, 2013. La traduzione italiana è stata riscontrata su: M. Heidegger, Gesamtausgabe, II Abteilung: Vorlesungen 1919-1944, Band 19, Platon: Sophistes, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1992. 2. Del resto Heidegger per conto suo scrive: “la prima parte di questo corso è un’interpretazione di Aristotele” (Ivi, p. 225).

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filosofia di Heidegger, quello di “ἀληθές”, “verità” nel senso di “s-coperto, non-occultato (unverdeckt)”3. Dunque la “verità” per Heidegger riguarda “le cose, i πράγματα”, nel senso che “tale non-occultamento non pertiene alla cosa in quanto essa è”, ma solo in quanto si mostra, cioè appare con riferimento al ‘soggetto’ (la “verità” ha dunque a che fare con l’“anima” del Dasein, è “ἀληθεθύει ἡ ψυχή”) che la guarda e la nomina4. Heidegger presuppone quindi la scissione fra essere ed ente. Si occupa di ciò che si dis-vela. Ma ciò che si disvela è solo l’ente. Ora la verità pertiene l’essere del dis-velato, la cosa che si disvela “in quanto essa è”. Il dis-velato in quanto dis-velato; nessun riferimento però all’essere in quanto essere. Semmai la relazione è fra apparenza e soggetto cui appare. Ma è sempre un rapporto inter-ontico. E infatti più avanti è posto espressamente il problema del fondamento della “relazione /Beziehung/” fra i termini. Per Heidegger infatti è pacifico non “supporre che vi sia qualcosa nel soggetto e poi, al di fuori di esso, sia dato qualcos’altro come

3. Ivi, p. 70. 4. Come dice ad un certo punto: “competenza del filosofo” è “avere l’ente come qualcosa che, nel rivolgersi ad esso, è mostrato /als Aufgezeigtes=reso come mostrato/. È dunque necessario mostrare l’essere dell’ente” (Ivi, p. 241). Dunque filosofia è quell’atteggiamento verso il mondo che ne mostra l’essenziale a partire dalle apparenze, ma altresì oltre esse. Né puro essere, né puro ente. Verità è relazione, perché “l’ente in quanto ente non può essere spiegato a partire da un determinato settore dell’ente bensì solo dall’essere” (Ibid.), ma sempre appunto essere dell’ente. Il problema è mostrare-dire esattamente l’essere dell’ente. Orto-logia dunque. Quanto all’esatta individuazione dell’essere (come contraddizione) diremo.

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un oggetto, e che in seguito, occasionalmente, si istituisca una relazione”5. Il rapporto soggetto-oggetto poggia cioè su una originaria “Zusammengehörigheit”6. Che è appunto ‘complicità’ interontica: ente ciò che appare, ente ciò a cui appare. Il problema è il senso di questa “coappartenenza” di questa comune radice ontologica. Senso che per noi può essere solo dialettico. In questo modo già alcuni importanti punti fermi possono essere stabiliti: a) la “verità” di Heidegger e comunque la verità in quanto “ἀληθές”, non riguarda l’“essere”, ma l’“ente” in quanto appare ed è oggetto di esperienza (cioè di relazione ad un soggetto). “Άληθές” dell’ente; b) di conseguenza l’essere in quanto essere non è “vero” (della ‘verità’ che è dell’ente e della “proposizione”); c) il fatto che l’“ἀλήθεια” riguardi l’ente, non può significare fermarsi al mero livello superficiale della datità ontica, tanto più che “ciò che ‘c’è’ immediatamente per ciascuno è spesso sfocato, indistinto”7. Si tratta allora di affisare l’essere di questo ente. Oltre “l’osservazione più immediata”, bisogna andare a fondo, cogliere “l’ente nel suo essere-scoperto”, l’essere dell’immediato, il mediato dell’immediato 8. Dunque “ἀλήθεια” riguarda l’ente. Sia nel senso del suo rapporto con l’essere che lo rende visibile, sia del rapporto con il soggetto che lo vede (heideggerianamente con il Dasein). La mediazione è il tratto comune alle due relazioni. 5. Ivi, p. 309. 6. In un passo parlerà espressamente di “un unico e medesimo fenomeno del conoscere, del dischiudere l’ente” che tiene insieme linguaggio (“ὄνομα”), parvenza dell’ente (“εἴδωλον”), conoscenza dell’essere (“ἐπιστήμη”) (cfr. ivi, p. 369). 7. Ivi, p. 124. 8. Abbiamo già visto come sin dal corso del 1921-‘22 Heidegger si fosse orientato contro le filosofie ingenue dell’“immediatezza”, contrapponendogli le filosofie della “mediazione”, da Aristotele ad Hegel.

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Ma mediazione come originario significa essere come contraddizione. Perché solo l’essere come contraddizione si determina nell’ente e così facendo, cioè amputando la sua natura ancipite, ‘apre’ al dis-velamento, cioè alla verità, ma anche all’errore. Errore nel duplice senso sia dell’unilateralità in sé della determinazione ontica (che penalizza sempre la ricchezza di ogni cosa), sia della mancata adequatio del singolo nome alla singola cosa9. La verità è sempre errata. Il “linguaggio” è adeguato all’ente. Entrambi sono infatti unilaterali. Perciò Heidegger dice che il linguaggio è un “parlare

9. Questa perenne apertura all’errore, come dato dunque intrascendibile, dell’essere e del conoscere, è indubbiamente un merito di Heidegger aver stabilito con nettezza. L’errore non è un ‘errore’, una vieta mancanza soggettiva; semmai questa intanto è possibile in quanto esso è necessario. Come diceva nel corso del 1921-’22: “l’evidenza relativa all’adeguatezza della definizione all’oggetto non è un’evidenza autentica e originaria; piuttosto, questa adeguatezza è assolutamente problematica” (Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, cit., p. 71). Che l’errore sia necessario significa appunto che la problematicità (dell’ente, della adequatio, della conoscenza) è assoluta. Bisogna sempre dubitare di ciò che è “evidente” e non perché possiamo aver visto male, ma perché per sua natura è precario. “Autentica e originaria” è la relatività. Perciò l’Heidegger di questi anni rivaluta lo “scetticismo”: non per qualche compiacimento “tragico-romantico”, ma perché insegna a “collocare nella problematicità se stessi, la vita e le attuazioni decisive” (Ibid.). Il punto è che una volta di più Heidegger pone il problema della finitezza su basi esistenziali, fenomenologiche, legate alla “fatticità” ecc. Quindi prescindendo dal problema dialettico dell’essere come contraddizione, unica condizione della determinazione e quindi dell’errore. Questa tesi è confermata dal fatto che più avanti riconoscerà ad Hegel di aver riscoperto la “problematicità” di contro alle retoriche moderne della “immediatezza”, ma trovando questa “criticità” tutta risolta sul piano ‘mentale’, della “auto sussistenza” del pensiero. Essa invece, per Heidegger, andrebbe riscontrata su quello della datità esistenziale, della “fatticità” (Ivi, p. 181).

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delle cose” ovvero “λòγος τινóς”; dice unilateralmente cose che sono unilaterali. Certo poi si può parlare bene o male delle cose, cioè si tratta di verificare l’adequatio del dire all’ente, dell’una unilateralità all’altra. Ma la verità dell’adequatio è altra cosa dalla verità dell’essere. E non solo la prima presuppone la seconda, ma presuppone la negazione della seconda. Cioè della verità dell’essere. Abbiamo visto infatti come l’apertura all’errore sia per il fatto in sé della determinazione dell’essere, della reductio della contraddizione alla certezza logica dell’identità. A questo primo livello di errore, potremmo dire ontologico (cioè che accade sempre, in ragione del solo fatto della determinazione), segue poi appunto il livello ulteriore dell’errore nell’adequatio fra il determinato dire e il determinato ente. Errore ontologico è la non-contraddizione (cioè la resa unilaterale della complexio contraddittoria10); l’errore logico-linguistico è su un altro piano. Insomma il linguaggio ha a che fare con certezza ed errore dell’ente, ma l’errore originario, imperdonabile (quanto inevitabile), è la negazione della contraddizione, la sua qualsiasi determinazione. Quando poi la negazione della contraddizione (sua determinazione) è scambiata con la sua eliminazione, lo spazio dell’erranza è allora infinito.

10. Siamo d’accordo con Heidegger quando acutamente distingue: “la verità da una parte e l’essere-vero e l’esser-falso dall’altra sono fenomeni interamente diversi” (Heidegger, Logica, cit., p. 86). Ma l’“essere-vero” logicolinguistico è diverso dalla “verità”, precisamente in quanto esso è unilaterale (vero versus falso), mentre il veramente “vero” tiene insieme originariamente vero-falso, è la contraddizione (cioè la condizione del determinarsi logico nel singolo “essere-vero” o “falso”).

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Può esservi linguaggio vero (nel senso proprio di “ἀληθές”) solo sul fondamento11 di quello che la metafisica considera l’Errore supremo. La non-contraddizione, criterio di verità ontico (quindi anche linguistico), si fonda sul Supremo Sacrificio: la negazione del principio di contraddizione. In questo senso la verità ontica non è meno falsa (ontologicamente) della falsità ontica. Il Parricidio12 è il fondamento comune. Relativa dunque è la differenza fra verità e falsità ontica (e linguistica). Ben altra è la loro (comune) falsità. Ciò stabilito, poi il linguaggio che dice veritativamente l’ente è detto “λόγος”. Di conseguenza “ἀληθές” è la logica dell’ente (discorso corretto sull’ente). In altre parole per essere giusto (orto-), il “λòγος” deve rivolgersi al qualcosa in quanto quel qualcosa che si dà, così come appare, per renderlo poi secondo la sua identità data. Ma dunque resta fermo che il discorso ortodosso sull’ente, non rende mai l’essere in quanto essere, che sappiamo irraepresentabile nel senso di non dicibile dal “λόγος” (e dalla sua logica della non-contraddizione), rende solo l’ente, un ‘essere’ dal mero valore pre-dicativo cioè a pro esattamente del “λόγος” che è in grado di esprimerlo.

11. Fondamento nel senso letterale che la contraddizione resta alla base della propria determinazione linguistica (giusta o sbagliata poi che sia); non solo la contraddizione non è rimossa dalla propria autonegazione, ma resta appunto come possibilità di ogni possibile ente o discorso (si ripete: giusto o sbagliato che sia). La negazione della contraddizione è fondazione. No garanzia dell’Essere (scil. della sua incontraddittorietà). 12. Quello che per la metafisica è Parricidio, cioè l’uccisione del padre Essere.

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Non può esservi a rigore “λόγος” dell’essere (né orto – né etero-dosso). No onto-logia. Solo la dialettica è onto-logica, ma in quanto discorso su (e di) un essere che non è quello della metafisica. La dialettica è un “λόγος” della contraddizione. La dialettica dice incontraddittoriamente l’essere come contraddizione. Anzi può darsi “λόγος” solo della contraddizione. Precisamente un “λόγος” senza principio di non-contraddizione. Un “λόγος” a-logico. Altra cosa il “λόγος” logico, quello in grado di dire con verità l’ente. Ché questo è sicuramente “λόγος” con principio di noncontraddizione, ma presuppone l’altro ed è in virtù di questo. È quanto intendevamo sopra trattando della “verità” come orto-logia dell’ente. Così quando Heidegger dice che è con il “λόγος” che “‘c’è’ verità”, intende la perfetta adequatio della parola alla cosa; sta parlando cioè del linguaggio delle cose (non della “verità” dell’Essere). Il linguaggio mette in forma di parole, cioè in forma discorsiva, l’identità incontraddittoria dell’ente (e può perché ente e parola hanno la stessa struttura ontologica, quella di determinati, risultato positivo dell’autonegazione della contraddizione; nel linguaggio di Severino: dati due “positivi significati” essi “sono due ‘essenti’”13). 13. Cusano, op. cit., p. 107. Resta fermo che per Severino il negare la contraddizione non è il suo positivo determinarsi, ma semplicemente la sua ‘rimozione’: “anche nella non verità l’apparire dell’errare, cioè della contraddizione, è possibile solo in quanto la contraddizione appare come negata, e che questa negazione si fonda da ultimo sulla negazione (dell’errare e della contraddizione) che appartiene al destino della verità” (Severino, Fondamento della contraddizione, cit., p. 80). La contraddizione si determina (=“appare come negata”), ma solo in quanto questa negazione sia assoluta

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In questa accezione specifica lo stesso “νοῦς” si dà concretamente solo come “διανοεῖν”14. Nel senso che il “νοῦς”, in quanto facoltà umana, “non è un νοεῖν, un vedere puro e semplice, bensì un διανοεῖν”15, il dire e il pensare umani sono sempre infiltrati dal negativo, dalla finitezza. Il “νοῦς” umano è sempre “διανοεῖν”. Proprio questo però fa linguaggio e pensiero umani ontologicamente consentanei con gli enti e dunque li mette nella condizione di poter esprimere correttamente il mondo dell’esperienza. La conoscenza umana è insomma per sua natura dia-noetica, in grado di individuare, di definire l’unilaterale. Tutt’altro piano quello del dire l’essere. Sappiano trattarsi di un discorso a-logico e quindi non-dia-logico. Se infatti “Aristotele ricorda, l’ἐπιστήμη – proprio come la φρόνησις e la σοφία – è μετὰ λόγου /Eth. Nic. 1140 b 33/”16, in verità questo “μετὰ λόγου”, significa più meta-logico che secondo logica discorsiva. In Aristotele la ‘logica’ dell’essere non ha a che fare con il principio logico di non-contraddizione. In questo senso è “μετὰ λόγου”. Heidegger stesso nota che, con riferimento alla scienza dell’essere, cioè all’“ἐπιστήμη”, “μετὰ λόγου” va inteso piuttosto come “ἄνευ λόγου”17, cioè senza logica, qualcosa di del tutto altro dalla logica discorsiva dell’ente. In altre parole: “il νοῦς come

rimozione della contraddizione, secondo quanto detta il “destino della verità”, cioè l’ontologia post-metafisica di Severino. 14. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 73. 15. Ivi, p. 102. 16. Ivi, p. 101. 17. Ibid.

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puro νοῦς, qualora lo si voglia cogliere μετὰ λόγου, avrà un λόγος tutto peculiare, che non è né κατάφασις né ἀπόφασις”18. Il punto è delicato è va indagato correttamente. Mentre infatti Aristotele per “λόγος tutto peculiare” dell’“ἐπιστήμη” intende una logica della contraddizione, Heidegger lo stesso problema, quello della logica “peculiare” dell’essere, lo affronta a partire da una concezione eleatica, non-contraddittoria, dell’essere. Per Aristotele la logica dell’essere è la contraddizione, per Heidegger la non-contraddizione. Per l’uno “μετὰ λόγου” significa che la non-contraddizione che vale per l’ente (e per il discorso) non vale per l’essere (che però ha una sua logica, appunto della contraddizione o dialettica), per Heidegger invece per cogliere l’Essere assoluto bisogna abbandonare la dimensione logica, per affidarsi al “puro νοῦς”, alla “visione”. Heidegger dà quindi la sua definizione di epistéme come lo “sviluppo del sapere /Ausbildung des Wissens/”19 relativo “a quell’ente che possiede il carattere dell’ἀίδιον, dell’essere sempre /Immersein/”20. Un sapere dell’Immersein, dell’Eterno; un “sapere” dunque immediato, meta-logico in senso stretto. D’altro canto è Heidegger stesso ad ammettere da una parte che la distinzione fra essere eterno ed essere temporale è in verità “assai rudimentale /primitivste Unterscheidung/”, ma soprattutto che in Aristotele non è mai davvero in questione un essere assoluto, trascendente. Oggetto della epistéme, in Aristotele, è infatti il quadro trascendentale entro il quale avviene ed è conosciuto l’ente diveniente, cioè “lo sfondo contro cui si staglia ciò che può esser

18. Ibid. 19. Ivi, p. 73. 20. Ibid.

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altrimenti”21. Cosa diversa, si capisce, da un “Immersein” come trascendente. Trascendentale, no trascendente22. L’epistéme di Aristotele non è metafisica, è scienza del trascendentale. E la dialettica ne è precisamente l’organon. La dialettica è logica della contraddizione. E lo è non-aporeticamente e senza trascendenza. La scienza dell’“Immersein” o epistéme alla Heidegger va così nettamente distinta dai termini di una scienza delle condizioni trascendentali dell’ente (che nulla ha a che fare con la logica del trascendente, con una logica “ἄνευ λόγου”). E l’ente di Aristotele è strutturalmente segnato dal limite, dal finito, da “una mancanza /Mangel/”23. Tanto che con riferimento alla conoscenza che riguarda le condizioni di possibilità di un tale ente, lo Heidegger interprete di Aristotele parla di “cosiddetto νοῦς” ovvero di “νοῦς in senso improprio / uneigentliche/”24, dato che appunto non si occupa di un essere assoluto, ma delle condizioni trascendentali dell’ente. Certo il “νοῦς” di Aristotele non è quello di Heidegger. Per Aristotele infatti la “mancanza” dell’ente è anche la “mancanza” del suo “νοῦς”. Una conoscenza uneigentlich per un ente finito.

21. Ivi, p. 74. 22. Questo, va detto, Heidegger lo ha sempre avuto chiaro; tanto che operando una distinzione da Tommaso, per il quale la conoscenza vera era quella del trascendente, ricorda che per Aristotele l’“objectum optimum” è appunto sempre immanente: “l’oggetto autentico della conoscenza è l’ente che sempre è, il cielo e il νοῦς, un oggetto che non ha nulla a che fare con il Dio di Tommaso” (Heidegger, Logica, cit., p. 83). 23. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 81. 24. Ivi, p. 101.

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In Aristotele non c’è “essere ulteriore /Übersein/”25 (rispetto all’ente d’esperienza). Dunque non ha mai cercato una conoscenza essa stessa ulteriore, mistica, trascendente (“come ha fatto appunto Platone” con le Idee; Platone che dunque Heidegger ben distingueva da Aristotele26). Perché appunto Platone avrebbe preordinato l’“Übersein” (le Idee, l’Iperuranio, ecc.) all’ente e questo sarebbe stato, secondo Aristotele, il suo “errore peculiare /eigentümliche Verfehlung/”27; Aristotele invece avrebbe cercato subito l’es25. Ivi, p. 125. 26. Va detto che in Essere e tempo Heidegger definirà un ‘errore’ della “ontologia antica” la consustanzialità qui rilevata. Questa per lui sarebbe nient’altro che riduzione del “λόγος” e anzi della “parola”, a “semplice presenza”. Ma questa è una banalizzazione della adequatio come intesa dalla maggiore filosofia classica. Heidegger concede solo che rispetto a questa “Aristotele andò più a fondo”, ripensando il “λόγος” non sulla base della astratta identità, ma come “σύντεσις e διαίρεσις ad un tempo”. A suo dire però Aristotele non sarebbe poi ‘andato a fondo’ abbastanza, avendo trascurato il problema di “qual è il fenomeno che, all’interno della struttura del λόγος, è tale da permettere e richiedere che ogni asserzione sia caratterizzata come σύντεσις e διαίρεσις” (Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 258). Ora se per Heidegger, oltre identità e differenza, si doveva affisare il “fenomeno” del “qualcosa in quanto qualcosa”, questo è proprio quanto Aristotele fa definendo l’essere (i.e. il “qualcosa in quanto qualcosa”) come contraddizione e dunque esattamente identità di identità e differenza. Il giudizio poi può unire ciò che è distinto, mantenendolo nella sua differenza (soggetto e predicato, uniti dal giudizio, ma pur distinti ecc.), proprio perché parimenti finita, dunque consustanziale, è la natura sia dell’ente sia del discorso (“λόγος”) su di esso. Heidegger invece parla di “‘in quanto’ ermeneutico” ovvero, in ragione di un proprio difetto di elaborazione della “ontologia antica” (in particolare aristotelica), cerca sul piano ‘esistenziale’ le possibilità del discorso sull’ente: “la ‘logica’ del λόγος ha le sue radici nell’analitica esistenziale dell’Esserci” (Ivi, p. 259). 27. Errore che Heidegger, interpretando la critica di Aristotele, spiega anche così: Platone chiama “non-ente ciò che invece è propriamente l’ente”

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sere immanente all’ente determinato, a “ciò che ‘c’è’ immediatamente per ciascuno” (ma “immediatamente” nel senso della datità ontica, di quella che risulta dalla determinazione dell’assoluto)28. La realtà è quella che è. L’‘oggetto’ della filosofia non è altro che l’ente dato ai nostri sensi. Certo ai soli sensi esso è dato “malamente /schlecht/”, donde il necessario intervento della filosofia, senza però che ciò autorizzi a “balzare al di là /hinwegspringen/” della realtà, verso un quale che sia “Übersein”. In questo senso è sicuramente corretto presentare Aristotele come teorico dell’essere dell’ente d’esperienza. Con l’accortezza (che Heidegger ha) di precisare che l’approfondimento della ricerca dell’essere a partire dal dato, è cosa distinta non solo da Platone (che cerca l’essere “al di là” dell’ente), ma dagli stessi Eleati, che avevano solo ipostatizzato l’ente ovvero “avvistato ciò che si offre immediatamente, vedendolo in modo inarticolato”, cioè come semplice e dunque puro essere. Il “ciò che ‘c’è’ immediatamente” di Aristotele è tutt’altro da quello degli Eleati. L’eleatismo è infatti una forma di alienazione ontologica. E in quanto tale è metafisica. Questo appunto perché riduce l’essere all’ente, sublima la datità ontica in immediatezza ontologica (perdendo così la verità dell’ente, la vera ontologia, che è (Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 125); cioè considera non-essere, perché non coincidente con quell’essere assoluto (“ulteriore”) che l’Idea è, quel dato di realtà che invece, per Aristotele, “è propriamente l’ente”. 28. Quanto alla propria concezione dell’essere lo Heidegger del 1925 prende le distanze dalla “idea” di Platone in quanto trascendente, ma tenta di accreditare un “εἶδος-ἰδέα” come visione di un “identico-permanente” o “essere dell’identico” (Heidegger, Logica, cit., p. 39), sì immanente alla “cosa”, ma assai diverso dalla identità-differenza che costituisce invece l’essere di Aristotele e di Hegel. Heidegger si sforza di definire un essere né trascendente, né dialettico.

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l’essere come mediato; perché la verità dell’immediatezza sensibile è la mediazione). Per la ontologia alienata invece, cioè appunto per la metafisica, “l’essere è ovunque essere; tutto ciò che è, è essere, essere presente /Gegenwärtigsein/, essere qui /Da/”29. Appunto il dato è assolutizzato, preso per l’Essere. Questo significa che l’Aristotele di Heidegger è oltre sia Parmenide (ontologia astratta), sia Platone (ontologia trascendente). Il passo in avanti di Aristotele rispetto alla grande filosofia a lui precedente consisterebbe dunque nell’aver individuato l’oggetto della filosofia nell’essere dell’ente, nell’essere in quanto immanente all’ente. Cioè né trascendente, né puramente e semplicemente come astrazione dall’ente. E in effetti Aristotele riteneva che fosse possibile cogliere l’essere solo “passando attraverso /hindurchschreitend/”30 l’ente (ma prima aveva detto “innerhalb des Seienden”). In questo senso il “μεταβαίνων” dei Greci è l’operazione critica di cui è organo il “λόγος”, dove “il λόγος scompone discutendo”31, cioè è quella forma linguistica che analizza (i.e. “scompone”) l’ente, “passa attraverso” di esso per coglierne la verità immanente, l’essere. Questo il senso aristotelico di “ἀληθές”, di verità come dis-velamento (come raggiungimento di ciò che sta sotto ciò che appare). La ricerca dell’essere è una analitica dell’ente. Analitica trascendentale ovviamente, cioè tale da rivelare la “sua costituzione d’essere /Seinskostitution/”32.

29. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 129. 30. Ivi, p. 125. 31. Ivi, p. 127. 32. Ibid.

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Il “λόγος” dialettico è appunto l’organo di questa analitica ontologica (i.e. trascendentale). Filo-sofia è allora il sapere critico che svela l’essere dell’ente che appare. In questo senso, come si diceva sopra, l’“ἐπιστήμη” è quella forma di “λόγος” che punta all’essere senza “restare impigliata nell’immediatezza di ciò che appare a prima vista”33. Di certo però Aristotele non resta neanche “impigliato” nell’immediatezza dell’essere. Il suo essere non è l’unità degli eleati, non è il semplice. La sua “ἐπιστήμη” non è metafisica. E invece anche qui l’interpretazione heideggeriana subisce una curvatura mistica, che risulta distorcente per una corretta intelligenza dell’opera di Aristotele. Heidegger è infatti convinto che in ultima istanza quello del filosofo di Stagira sia proprio un essere trascendente, una sorta di “ἀγαθόν” come “bene sommo /meisten Gute/”34, oggetto di “una disciplina ancora più originaria che studia la costituzione fondamentale dell’ente: la σοϕία”35. Heidegger così irrazionalizza la filo-sofia di Aristotele. Della filo-σοϕία fa una “σοϕία”. E una “σοϕία” propriamente come “μάλιστα ἐπιστήμη”36, pretesa forma più alta di epistéme, che procede sì “all’interno dell’ente /innerhalb des Seienden/”37, ma per poi staccarsene e trascenderlo alla ricerca di “orientamenti ultimi”, superiori. E invece in Aristotele le cose stanno diversamente. Il suo procedere critico entro l’ente non prevede trascendenza. Ancor-

33. Ivi, p. 137. 34. Ivi, p. 159. 35. Ivi, p. 158. 36. Ivi, p. 159. 37. Ivi, p. 158.

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ché l’esito dell’analitica sia l’ostensione della natura differente, duale delle cose. Ma è appunto dualità senza trascendenza. I.e. dialettica. In questa accezione affatto peculiare nella Metafisica si legge che “il primo numero è il due”38. Comunque l’essere in quanto ragione dell’ente è detto da Aristotele “δύναμις”, termine da intendersi (secondo Heidegger, ma correttamente dal punto di vista dell’ermeneutica aristotelica) “in senso strettamente ontologico /ganz streng ontologisch/”, cioè come “la possibilità del concreto essere-presente del rispettivo ente”39. Il punto è individuare in termini correttamente aristotelici i termini della “δύναμις”; precisamente il nesso fra “il primo numero che è il due” e la “δύναμις”. Perché la “δύναμις” come “due” è la dialettica. Intanto però si può dire che la ““δύναμις”” è la “possibilità” come essere dell’ente40. Essa è quel “luogo /Ort/ costitutivo della presenza dell’ente”, che rimane immanente come possibilità in costanza della datità dell’ente. L’ente in atto come esperienza, ha sempre presente in atto la possibilità (di essere e divenire)41.

38. Ivi, p. 149. E il “due” come fondamento vale non solo per la filosofia, ma anche per la politica, che per definizione è “scienza” della relazione. Scrive infatti Heidegger che “la scienza suprema /höchste Wissenschaft/ è la πολιτική”; sicché “la σοϕία vera e propria è la πολιτικὴ ἐπιστήμη, e il πολιτικός è il vero φιλόσοφος” (Ivi, p. 170). Questa però è tutt’altra cosa dalla “σοϕία” come scienza del “bene sommo”. 39. Ivi, p. 144. 40. Tanto che più oltre scrive: “la δύναμις è intesa come categoria ontologica fondamentale /ontologische Grundkategorie/” (Ivi, p. 147). 41. In questo senso secondo la interpretazione di Heidegger, la “sophìa” di Aristotele è altra cosa dalla “theorìa” di Platone. Mentre infatti la sapienza di

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La potenza rimane in atto come potenza nell’attualità dell’ente. Per dirla con Heidegger (interprete di Aristotele): “è il poter essere presente che pertiene intrinsecamente all’ente /zum Seienden gehörige/”42. Dove l’ente è in atto (“presente”), lì è la sua possibilità. Ora però questo luogo “ontologisch” è, in Aristotele, precipuamente dialettico. L’essere è contraddizione43. Questo Heidegger lo accenna, ma non lo esplicita (questo acquisto teorico rimandando infatti ad una concezione dell’essere opposta alla sua)44.

Aristotele ha a che fare con l’essere come “modalità di relazione con l’ente / Verhältniss zum Seienden/” (Ivi, p. 159) e quindi è “ἐπιστήμη come concetto mediano /Durchschnittsbegriff/” (Ivi, Appendice, p. 616), la teoria di Platone riguarda invece il mero essere, astratto: “il θεωρεῖν è un comportamento del tutto autonomo dell’esistere, che non è debitore a nient’altro” (Ivi, p. 164); più oltre parla infatti di “pura θεωρία” (Ivi, p. 166). Detto altrimenti per Aristotele “la σοϕία non è un puro νοεῖν” (Ivi, pp. 176177), ma un “νοεῖν” impuro, che vede-conosce l’essere nella sua impurità, il suo essere contraddizione. 42. Ivi, p. 147. 43. Con questo orizzonte di problemi fa i conti Massimo Donà in un suo recente libro. Con riferimento proprio al Sofista ragiona della “causa” del divenire, cioè di come ciò che non-è può ‘passare’ all’essere, per concluderne che la causazione del divenire presuppone “una relazione tra ‘non-essere’ e ‘essere’” (M. Donà, Teomorfica, Milano, Bompiani, 2015, p. 50). Ora però questa “relazione” che determina poi questo o quell’ente e che in Platone costituisce un “principio metafisico fondamentale”, a nostro avviso è senz’altro la contraddizione; Donà pare invece diffidare di questa conclusione che trova “paradossale” (Ivi, p. 51) e finanche “aporetica” (Ivi, p. 66). 44. Più avanti arriva ad attribuire ad Aristotele una concezione tradizionale, cioè metafisica, dell’essere (inteso come “ciò che ‘c’è’ già sempre”) e dunque una parimenti tradizionale della “σοϕία” come scienza del puro essere a prescindere dall’ente (mi riferisco al passo in cui parla di “autonomia della σοϕία”: Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 172).

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Se finora l’interpretazione è stata corretta e acuta, ora l’interferenza fra l’autonoma prospettiva filosofica di Heidegger e il lavoro ermeneutico autorizza un discorso critico su Heidegger interprete di Aristotele. Così laddove scrive: “l’aspetto del luogo /des Ortes/ è determinato da queste possibilità /Möglichkeiten/, sopra-sotto, davanti-dietro, destra-sinistra”45, se ne deve inferire, assai più esplicitamente di quanto non faccia Heidegger, che l’ente che occupa il “luogo” del proprio apparire è strutturato nel suo essere secondo scansioni binarie che non possono non dirsi dialettiche. E per Aristotele l’essere dell’ente è appunto contraddizione.

A tal punto giunge l’imbarazzo teorico di Heidegger, che dopo aver scritto che “la σοϕία non è un puro νοεῖν” (Ivi, pp. 176-177), aggiunge però che “è vivo in essa /nella σοϕία/ qualcosa come un puro νοεῖν” (Ivi, p. 179). Un’attitudine quest’ultima che gli serve per il “coglimento puro e semplice”, cioè immediato, dell’essere “puro e semplice”, che però è quello dell’ontologia heideggeriana; tanto che scrive: la “σοϕία” è “riferita a ciò che permane”, dove “il costante soffermarsi presso ciò che permane è prodotto dal puro νοεῖν” (Ivi, p. 202). Ma questa riduzione metafisica della conoscenza noetica, avviene contra Aristotele (e non secondo lui, come pretende Heidegger). È evidente in altre parole che qui i presupposti teorici di Heidegger interferiscono con la sua interpretazione dei classici. E la inficiano. Nel senso che a suo dire Aristotele, combattuto fra “σοϕία” come conoscenza pura dell’essere e “φρόνησις” come conoscenza impura, si deciderebbe infine a ridurre “l’intera questione a una considerazione puramente ontologica /rein ontologische/” (Ivi, p. 200). Così però si costringe Aristotele ad un rein ontologisches Sein, ad un “essere come assoluto essere presente” (Ivi, p. 208), che non è il suo. 45. Ivi, p. 144. Per “luogo” Heidegger intende qui lo spazio determinato occupato dall’ente; ma appunto in quanto determinato, cioè con riferimento espresso al proprio essere: “ciascun ente ha prefigurato nel suo essere un determinato posto o luogo” (Ibid.).

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Dopo di che questo essere impuro è conosciuto solo dal vedere impuro (cioè che “non è un puro νοεῖν”46) della non pura “σοϕία” (di “σοϕία” impura abbiamo visto Heidegger parla con riferimento alla politica, la cui ‘scienza’ è tanto relativa quanto la più autentica: “la σοϕία vera e propria è la πολιτικὴ ἐπιστήμη”, appunto una scienza del relativo e dell’imperfetto). Conoscenza impura, “visione” impura, discorso impuro. Il “λόγος” umano infatti “è diairetico-sintetico”47, ma questo propriamente significa che l’essere umano non si muove mai nella dimensione del “puro νοῦς”, sempre in quella “del διανοεῖν”, dove il “νοῦς” è mediato, è “νοῦς σύνθετος”48. Appunto questo: “νοῦς σύνθετος”, immediatezza mediata, “ἐπιστήμη” del relativo. Dunque conoscenza finita come diairetico-sintetica, nel senso proprio che divide mentre unisce, che è due mentre è uno. E dialettica questo è: struttura ontologica dell’essere e conoscenza adeguata (appunto perché sintetico-discorsiva) di essa. Adeguatezza trascendentale ovviamente, perché poi entro questa apertura è sempre possibile errore (o “coprimento” della verità49). 46. Nel senso che “nel suo νοεῖν vige la modalità di attuazione dell’uomo, in quanto, in esso, è l’uomo a pronunciarsi; la σοϕία è μετὰ λόγου” (Ivi, p. 177; ma cfr. anche p. 210 e pp. 227-228); il νοεῖν è impuro perché forma di conoscenza umana, trascendentale. 47. Ivi, p. 179. 48. Ivi, p. 209. 49. Heidegger ricorda che, per Aristotele, ogni determinazione (anche negativa, anche falsa, anche “coprente”), comunque presuppone un fondamento dialettico, dunque anche il contrario del determinato falso: “il coprimento infatti è (in quanto tale) sempre un ‘mettere insieme’” ovvero “quando c’è coprimento, c’è necessariamente nella struttura dell’enunciazione anche un ‘mettere insieme’” (Heidegger, Logica, cit., p. 91). Il “coprimento”, cioè il negativo, la negazione della verità, presuppone la verità che

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C’è un passo impegnativo in cui Heidegger dice: “si ritiene che affermazione equivalga a σύνθεσις, congiunzione, negazione a διαίρεσις, separazione. Tuttavia dal passo citato /della Metafisica/ risulta evidente che entrambe, κατάφασις e ἀπόφασις, il far vedere per affermazione e quello per negazione, sono σύνθεσις”50. Ma questo significa appunto che per Aristotele la sintesi è sintesi di sintesi e differenza; “affermazione” e “negazione” insieme. Dialettica, c.v.d. Il lungo prologo aristotelico al Sofista di Platone, termina qui. Heidegger lo ha ritenuto indispensabile per una corretta intelligenza del dialogo platonico. Solo infatti giunti al punto della dialettica aristotelica, con la sua sintesi di identità e differenza, è possibile fare i conti con la figura del sofista, cioè di colui che appunto afferma l’essere del non-essere, di colui che quasi incarna nella sua figura di professionista del conflitto e della polemica, la realtà della contraddizione: “l’esistere del sofista getta luce anche sull’essere del non-ente”51. E indubbiamente “che il non-ente – illusione, inganno – è”, costituisce il portato più significativo della Metafisica di Aristotele.

nega; “nella struttura” avviene il “mettere insieme” degli opposti, in essa cioè il negativo è ontologicamente “insieme” al positivo. Verità è il non essere che “in quanto tale” è essere e in questa veste dialettica è il coprente che è condizione di ogni determinato “coprimento”. Se si fa caso è la stessa situazione logica che abbiamo visto Emanuele Severino definire con riferimento alla “struttura originaria”, dove cioè “la negazione della struttura originaria è possibile solo presupponendo questa struttura stessa”, nel senso che “la condizione della negazione è quello stesso che vien negato” (Severino, La struttura originaria, cit., p. 107), si “copre” (i.e. nega) ciò che permette il “coprimento” (i.e. l’atto del negare). 50. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 214. 51. Ivi, p. 223.

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Capitolo secondo Da Aristotele a Platone

Ciò chiarito, da Aristotele “retrocediamo /gehen zurück/” a Platone. Con un Sofista affrontato a partire dalla “rivoluzione / Revolution/”1 aristotelica. Una rivoluzione che anche per Heidegger aveva riguardato segnatamente la concezione (“Auffassung”) dell’essere; un essere dialettico, che è contraddizione, inteso quindi a partire dal “carattere di ‘non’, di negazione, che vi è implicito”2. “Rivoluzione” (“del precedente modo di pensare”) è precisamente l’essere come contraddizione. Ora il Sofista è letto proprio dal punto di vista della contraddizione. Come un “discorso” (“διαλέγεσται”) sulla contraddizione. Del resto abbiamo visto all’inizio che, secondo Heidegger, i Greci concepivano la “verità” certo a partire dagli enti, da ciò che “si mostra”e si svela, ma sempre con riferimento al sog-

1. Ivi, p. 224. 2. Ibid.

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getto che vede, conosce e dice; la loro era “ἀληθεθύει ἡ ψυχή”, verità del Dasein. Il problema è ancora e sempre: come è possibile “discorso” sulla contraddizione? È possibile dire la contraddizione? È possibile dire incontraddittoriamente la contraddizione? Orto-logia della contraddizione? E la contraddizione, detta incontraddittoriamente, cosa è? Dicevamo che questo è compito della scienza dialettica. E in effetti il problema di Heidegger è proprio il “senso del διαλέγεσται” che dice l’essere come contraddizione. Intanto il Sofista è un “dialogo”. E il dialogo è il mezzo più adatto per esprimere la natura dell’essere. Ne va delle condizioni di possibilità del “retto discorso /echte Sprechen/”3 sulla contraddizione, che è “retto” precisamente in quanto “passa attraverso /Hindurchgehen/” l’essere e così facendo ne esperisce e di conseguenza esprime, la natura contraddittoria. Il dialogo è esperienza della contraddizione. Contraddizione messa discorsivamente. Almeno per quanto riguarda l’uomo, che può conoscere appunto solo discorsivamente, che non può cogliere l’essere con il puro “νοῦς”. Come visto si dà una “σοϕία” trascendentale (che si esprime secondo discorso) e costituisce l’impuro “νοῦς” del Dasein. Ma così l’impurità del linguaggio e del “νοῦς” corrispondono ontologicamente all’impurità dell’essere. E essere impuro è la contraddizione. Intanto è da dire che se la verità (umana) può darsi solo con il mezzo del “discorso”, lo scoprimento dell’essere è per lo più esposto al rischio del nascondimento, alla “chiacchiera / Gerede/”4. Cioè al “discorso” sbagliato. Passaggio importante, 3. Ivi, p. 227. 4. Ivi, p. 228.

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perché apre di nuovo al problema dell’errore. Cioè al discorso sbagliato sull’ente. Nel senso che una volta che l’ente risulta dalla determinazione della verità, cioè dalla reductio alla unilateralità, questa, scissa ormai dalla verità, resta esposta precisamente alla “chiacchiera”, all’arbitrio, all’attribuzione a cose ‘sbagliate’, ecc. Contro la tirannia della chiacchiera occorre un modo del “λόγος” che investa la datità e la intangibilità di convinzioni e convenzioni. Occorre la critica. Ebbene la “dialettica platonica” ha proprio questo valore di critica della “chiacchiera”. Critica della “chiacchiera” a mezzo di “discorso”. Che in prima istanza significa riconduzione alle origini complesse del discorso unilaterale, all’essere dell’ente, come coincidentia oppositorum. Sulla base di questo ritorno alle origini, sarà poi possibile distinguere il retto discorso da quello errato. E il dialogo platonico procede non a caso “parlando a favore e parlando contro”, così da favorire il superamento delle rigidità del senso comune e l’unilateralità della “chiacchiera”5. Heidegger sa che il retto dialogo da solo non è sufficiente ad attingere l’essere, ma sa altresì che non si tratta di un “mero gioco” sofistico, proprio perché “interrompe la chiacchiera”, revoca l’isolamento dell’ente, la sua astrattezza, riscopre il senso della complessità e dell’alterità. Solo introducendo il dubbio nelle ottusità della “chiacchiera” è possibile poi lo spazio della critica e dunque della ricerca dei fondamenti6 (nel senso

5. Più avanti dirà che la dialettica, mettendo in discussione le opinioni radicate e prevalenti, “vuole far sì che l’interlocutore veda, vuole aprirgli gli occhi” (Ivi, p. 231). 6. Cfr. ivi, pp. 228-229.

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che le posizioni pro e contro dal piano dialogico rimandano direttamente all’essenza profonda dell’essere aristotelico). Dunque la “dialettica” come modalità del dialogo è il primo passo sulla via della verità. Ma Heidegger resta una volta di più prigioniero dei suoi pregiudizi metafisici. Diffida sistematicamente della dialettica, di cui pure illustra magistralmente i termini e riconosce il valore propedeutico. Ad essa sempre preferisce un mistico “puro νοεῖν”, l’unico in grado di cogliere l’essere come ontologia vuole, cioè immediato e incontraddittorio, oggetto di una “autentica originaria visione /echte ursprüngliche Anschauung/”7. Dialogo e visione mistica, mediazione e immediatezza, critica e dogmatica in Heidegger convivono in forma tutt’altro che pacifica. Ma la lezione di Platone e Aristotele è un’altra. A loro non si può dire che occorre “vedere da ultimo l’ente stesso, superando in un certo senso la dialettica”8, perché per loro cogliere “l’ente stesso” è possibile solo dialecticae gratia. E non “in un certo senso”, ma per ragioni incontrovertibili. Dalla grande filosofia greca la dialettica è ritenuta indispensabile per arrivare proprio all’essere dell’ente. Il dialogo è la forma discorsiva della dialettica. La relatività dell’essere (il suo essere non-essere) richiama la relatività del suo “λόγος” (di un discorso ben fondato, vero, non “chiacchiera”)9.

7. Ivi, p. 229. Naturalmente “Anschauung” può rendersi anche, se non meglio, con “intuizione” (pura, originaria, ecc.). 8. Ibid. 9. Che Heidegger non realizzi questo, è problema della sua filosofia (ovvero della sua ontologia); non può accusare la dialettica di Platone di “Verworrenheit und Unklarheit”, cioè di confusione e offuscamento, perché questo è francamente fuori luogo. Così come altrettanto gratuite e dispen-

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La dialettica, maxime per Aristotele, è dunque organon della verità, non un “grado preliminare del ϑεωρεῖν”10, cioè qualcosa “collocato in basso”, rispetto appunto alle vette della intuizione mistica (o ‘teoretica’), che trascenderebbe (di nuovo!) il piano della dialettica. Dire altrimenti equivale a stravolgere il pensiero di Aristotele. Come avviene proprio quando Heidegger sostiene che Aristotele “va al di là della dialettica”, intendendo che va oltre la differenza di cui la dialettica è espressione, verso l’essere irrelato, quello “che può essere colto soltanto in se stesso”, sulla base di una “struttura immediata e predominante”11. E invece Aristotele non va mai (né potrebbe) oltre la dialettica, rimane sempre presso di essa in quanto organo di scoprimento dell’essere dell’ente come relazione, rectius contraddizione. Aristotele non va oltre la dialettica, perché l’essere non va oltre la contraddizione. La “filosofia prima”, che pure “considera l’ente nel suo essere”, giammai è anti-dialettica (che è come dire che “l’ente nel suo essere” giammai è eleatico). Con questa avvertenza è poi giusto dire che la “onto-logia” guarda “all’ente in vista del suo essere”, salvo intendersi circa la natura dell’essere. E per Aristotele senz’altro l’essere dell’ente è non-essere, cioè contraddizione. L’“ontologia”, per Aristotele, è conoscenza “in vista” di un “ente” che è contraddizione. Detto altrimenti: la “scienza che contempla i caratteri ontologici dell’ente” è la dialettica, ma la dialettica è la “filo-

sabili sono le battute sulla dialettica come “prodigiosa tecnica di pensiero”, sull’“andirivieni dialettico /dialektischen Hin und Her/”, per non dire della taccia di “intellettualismo vuoto e inselvatichito” (Ivi, p. 230). 10. Ivi, p. 231. 11. Ivi, p. 237.

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sofia prima” proprio in quanto scienza della contraddizione; è l’unica ‘scienza’ capace di cogliere quello che per il senso comune è impossibile, appunto la contraddizione. Non “grado preliminare del ϑεωρεῖν”. Il “ϑεωρεῖν” è la dialettica. Heidegger invece sostiene una tesi opposta, ma lo fa, a nostro avviso, ricorrendo ad una interpretazione maldestra del testo aristotelico. Cita infatti il Libro IV della Metafisica in cui è detto: “c’è una scienza /epistéme/ che osserva l’ente in quanto ente”, per aggiungere però subito dopo, che il libro “si conclude” con queste parole. Ora intanto il Libro IV comincia con queste parole (che sono proprio le prime due righe del I capitolo) e non “si conclude”; ma poi Heidegger sostiene che qui Aristotele, per “essere in quanto essere”, intende l’essere assoluto, “dunque non l’ente in quanto altro”12. E invece l’essere di Aristotele è precisamente l’essere “in quanto altro”, l’essere che contiene l’alterità come dato strutturale e originario. L’“essere in quanto essere” è la contraddizione. Donde la dialettica come epistéme (e dunque “λόγος”) della contraddizione, i.e. dell’essere “in quanto” non-essere. Tanto più che poche righe dopo il passo citato da Heidegger, Aristotele precisa che è la “stessa scienza /αὐτῆς ἐπιστήμης/” a trattare tanto dell’“identico” e del simile, quanto dei “loro contrari”13. La “scienza dell’essere /Seinswissenschaft/” è dunque propriamente scienza dell’identico e del contrario.

12. Ivi, p. 238. 13. Aristotele, Metafisica, Milano, Rusconi, 1994, Libro IV, 1004 a, 1, p. 135.

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Questo noi chiamiamo dialettica. Heidegger invece ragiona della “struttura ontologica” a suo modo, ma attribuendo i risultati del ragionamento ad Aristotele. Nel senso che individua esattamente due elementi qualificanti della “Seinsstruktur” e cioè “lo ἔν” e lo “ἐναντίον”, l’uno e il contrario, solo che poi invece di pensarli insieme, come si sforza Aristotele, attribuisce arbitrariamente a questi la scissione e afferma “il ‘contrario’ già non rientra più in tale contesto”14. E invece proprio in tale contesto, cioè nella “Seinsstruktur”, rientra. Agli idolatri della non-contraddizione rimane difficile accettare un essere come contraddizione, tanto che finiscono, come capita puntualmente ad Heidegger, col porre la dialettica di fatto sullo stesso piano della “sofistica”15. Ora con il tema della sofistica ci avviciniamo alla trattazione più diretta del dialogo di Platone. Il confronto con Aristotele ha però ancora una coda. Dal momento che sono implicate categorie decisive come “sofistica”, “teologia”, “ontologia”, addirittura “realismo /Sachlichkeit/”16. Heidegger conduce infatti l’avviamento al testo di Platone sul presupposto che la sofistica (evidentemente identificata con 14. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 242. 15. Cfr. ivi, p. 243 e sgg. Heidegger distingue analiticamente fra dialettica (per altro riferendosi solo alla versione scolastica dei Topici) e sofistica, ma le accomuna nell’incapacità di cogliere correttamente l’essere come tale, che a suo dire sarebbe pura identità. 16. Perché l’ontologia, per Heidegger, è precisamente “realismo” o “libertà del realismo /Sachlichkeit/” (Ivi, p. 283), ‘apertura’ al ‘concreto’ essere identico a se stesso, quello che invece la dialettica, cioè la metafisica, stravolgerebbe ‘mischiandolo’ con il non-essere; tanto che questa ‘metafisica’ è definita “irrealismo” (Ivi, p. 260), non avendo la realtà autentica dell’Essere.

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la dialettica) consista nell’attitudine a tenere insieme ciò che per natura non può stare assieme e cioè “μὴ ὄν” e “ὄν”, nonessere ed essere. Il filosofo tedesco non ha dubbi che la “innere Zusammenhang” degli incomponibili è possibile solo more sophistico. Non solo, ma per salvare un certo Aristotele da quello dialettico-sofistico, ne amputa una parte, isolandola e dandole il rango di teologica. Scisso in questo modo il nesso dialettico originario di essere e non-essere, più facilmente può risultarne un Aristotele teorico del puro essere, dunque una “ontologia” superiore, coincidente appunto con la “θεολογική”17. Ne consegue che la “filosofia prima” altro non sarebbe che teologia (che ha per oggetto “la presenza più propria e suprema”). Sul presupposto di una presunta tensione aristotelica alla trascendenza, ad andare “oltre il λόγος, in direzione di un νοεῖν affrancato dal λέγειν”18, cioè di una identità “affrancata” dalla differenza. Ontologia metafisica. Heidegger arriva così a rovesciare i termini della questione, accusando, proprio lui, Aristotele di metafisica, perché nonostante le presunte (da Heidegger) intuizioni in fatto di “ἀρχή ultima” e dunque di essere assoluto, cadrebbe a più riprese nell’‘errore’ di non scindere “ὄν” e logica, donde un essere che resterebbe ‘prigioniero’ delle confusioni della logica, del linguaggio, della “dialettica”. Secondo Heidegger da Aristotele “il carattere fondamentale dell’essere viene attinto al contesto del λόγος stesso”19, cioè viene così ridotto nei termini della “logica” (che essendo

17. Ivi, p. 250. Heidegger distingue anche in Aristotele una “ontologia” inferiore riservata all’essere di tutti gli enti “presenti”, dati nell’esperienza. 18. Ivi, p. 252. 19. Ivi, p. 253.

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scienza dis-corsiva per definizione, ‘dis-corsivizza’ anche l’essere, facendogli perdere la purezza ontologica). In questo senso specifico la “πρώτη φιλοσοφία” di Aristotele sarebbe viziata di metafisica. Il contrario di quel “realismo filosofico /philosophische Sachlikeit/”20 che l’ontologia heideggeriana invece ambisce ad essere.

20. Ivi, p. 287.

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Capitolo terzo Da Platone a Aristotele

Heidegger differisce ancora il passaggio alla trattazione diretta del Sofista di Platone, cioè al dialogo della realtà del non-essere, delle condizioni di possibilità dell’essere del non-essere. Ci sarà infatti anche, come vedremo, un passaggio sul Fedro. I termini del discorso sono chiaramente definiti, a partire dal presupposto eleatico: “l’ente è /das Seiende ist/”, espresso “anfänglich unmittelbar” (come scritto in margine al manoscritto), cioè con immediatezza originaria. Heidegger ammette però anche che rispetto a questa immediatezza nel Sofista c’è uno stacco, nel senso che è sostenuta “la posizione opposta /Gegenstellung/”: il non-essere è. Di conseguenza Heidegger deve ammettere che nel Sofista il principio di non-contraddizione viene “in Frage gestellt”, posto in discussione al punto che “wird der Sinn von Sein modifiziert”. Effettivamente con la dialettica l’essere “wird” contraddizione. Qualcosa di più di una semplice modifica dell’essere (che per altro per Aristotele è originariamente contraddizione, non in seguito a modifica). Dunque: dialettica versus ontologia. Ora nel dialogo platonico Socrate, posto di fronte allo “straniero di Elea”, intende intanto verificare se questi sia solo “uno stupido gallo da combattimento”, che ripete pedissequamente le tesi ontologiche del Maestro Parmenide o se invece

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non sia “di animo più modesto” e quindi disposto a mediare l’ontologia originaria degli Eleati con il dubbio e dunque con la finitezza. Heidegger ha chiaro che Platone puntò a costruire il dialogo in maniera tale che le rigidità dell’ontologia eleatica fossero “in Frage gestellt” e proprio dallo “Straniero” eleate, venuto in Accademia per argomentare1. Ma mettere in discussione l’essere eleatico significava propriamente rifondare la nozione di essere su basi dialettiche. Cioè a partire dalla contraddizione. Non un mero atto di modestia si chiedeva dunque all’Eleate, ma un vero e proprio parricidio, i.e. tradimento/trascendimento. Perché certo la “coappartenenza” originaria su cui si fonda la “relazione” soggetto-oggetto2 ha natura dialettica. E invece Heidegger questo, una volta di più, non lo accetta. Da ontologo conseguente ritiene infatti che per quanto in Platone la filosofia sia differenza, anzi “διαιρεῖν”, poi però questa differenza debba per forza di cose rimandare ad un fondamento ultimo superiore, unitario, irriducibile: l’“ἄτομον εἶδος, ovvero quell’aspetto di una cosa che non può essere ulteriormente sezionato”3. Esso costituirebbe ciò rispetto a cui “il λέγειν si ferma”, quel “contenuto ontologico della cosa”, che consiste nell’essere in quanto essere dell’ontologia di scuola. E appunto il discorso (il “διαιρεῖν”, l’articolazione semantica) non può che tacersi di fronte al mistico Uno degli ontologi. Non si dà orto-logia dell’ontologia. Non si dà proprio “λόγος” (dell’essere eleatico).

1. Cfr. ivi, pp. 269-270. 2. Cfr. ivi, p. 309. 3. Ivi, p. 313.

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Di giusto c’è la precisazione che Aristotele non è comunque un ontologo e se anche in origine del suo pensiero è presente la figura platonica dell’“ἄτομον εἶδος”, questa è in seguito superata nella prospettiva dialettica. A detta di Heidegger resterebbe in Aristotele solo “una sorta di residuo /Restbestand/ di una posizione metodologica da lui stesso non più condivisa”4. Il punto è la differenza da Platone. Nel primo Platone l’essere è una identità originaria, in questo senso “εἶδος”; vero che c’è anche il “διαιρεῖν”, la “dicotomia”, il “tranciare”, ma si tratta di un “metodo”, di qualcosa che si aggiunge ad un essere di suo identico e, solo poi, sezionato, articolato, detto. Tanto che Heidegger precisa che tale “dicotomia” in Platone non implica “l’elaborazione di una sistematica concettuale”5, non è che l’essere diviene ‘doppio’, perché sempre mantiene la forma originaria dell’“εἶδος” (la “dicotomia” è appunto solo “metodo”, qualcosa che si aggiunge, che viene dopo e serve per analizzare, conoscere, parlare). Solo nel Platone maturo sarà diverso. Massimamente nel Sofista, il motivo del due, della “dicotomia” non sarà più “metodo”, qualcosa che va aggiungersi all’essere come uno: “non vengono più applicati soltanto all’ente stesso, bensì trasposti anche all’essere”6. È l’essere che diventa due. Dunque per questo Platone “non sussiste alcuna differenza fra modalità di trattazione dell’ente e modalità di trattazione dell’essere”7. Qualcosa come un (ultimo) Platone pre-aristotelico e proprio per questo inviso all’ontologo Heidegger.

4. Ivi, p. 314. 5. Ibid. 6. Ibid. 7. Ibid.

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Il Sofista sarebbe dunque il trait-d’union con Aristotele. Che in effetti non conobbe mai una fase pre-dialettica. Il primo essere di Aristotele presuppone l’ultimo di Platone. Come dire che l’essere di Aristotele nasce contraddizione. Ma restiamo ancora su Platone. Secondo Heidegger le sue “Idee”, nella loro versione più matura, “corrispondono / entsprechen/” all’“ente fattuale /faktisch Seienden/” e dunque alla sua struttura d’essere8. Già però in un altro dialogo del periodo centrale della sua produzione, il Fedro, Platone aveva messo in opera un certo tipo di approccio relazionale. Nel Fedro infatti le riflessioni sull’“anima” o sull’“amore”, nulla hanno a che fare con la “psicologia”, tutto invece con l’“esistere dell’uomo visto nel suo rapporto fondamentale con l’ente puro e semplice”, nel suo “impulso verso l’essere stesso”9. Appunto “rapporto fondamentale” fra essere ed ente, fra Idee e realtà. A partire dal Fedro può dirsi acquisita la convinzione che la conoscenza del finito parte da una pre-comprensione del vero. In questo senso la “retorica”, a tutta prima semplice “parlare per punti di vista e opinioni”, deve in verità “meditare su cose molto più fondamentali”, essere “in grado di discernere l’ἀλήθεια stessa, cioè il discorso vero”10. Una “retorica” della verità. Di questo c’è bisogno. Di un “discorso vero” che preceda quello opinabile (la ‘verità’ incidentale di “qualcosa che può anche essere falso”). C’è bisogno insomma di una “retorica” trascendentale.

8. Cfr. ivi p. 319. 9. Ivi, p. 341. 10. Ivi, p. 343.

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Appunto un discorso sull’essere (rectius sul rapporto essereente – perché sappiamo che non può esserci “λόγος” del semplice) prima che sull’ente (sui rapporti inter-ontici). Senza pre-conoscenza prima della conoscenza, dalla sofistica si scade nell’eristica, negli “artifici” e “trucchi del mestiere” della vieta “tecnica retorica”. La “retorica” trascendentale evita la retorica come “eristica”. Ma la verità della “retorica” trascendentale, cioè del “discorso vero” è dialettica, proprio in quanto sintesi originaria di vero e falso (di ciò che potrà poi essere determinato e detto discorsivamente in forma vera o falsa). A quest’altezza Heidegger dice una cosa importante: la “retorica” nella sua accezione “positiva”, cioè fondata, è la “dialettica”. La dialettica è infatti quella “τέχνη” che “fa vedere ciò che realmente è, e in che modo si possa rendere visibile l’ente che non è scoperto”11, cioè il non-essere che ‘sta sotto’ all’ente. La dialettica rivela il non-svelato dell’“ἀληθές”; che poi è il non-svelato che determina la svelatezza dell’ente dato. In questo senso si diceva che la dialettica è il “λόγος” della contraddizione (il discorso che permette di dire non aporeticamente l’impossibile, cioè la contraddizione). “Ciò che realmente è”, appunto l’essere come contraddizione, è messo in forma di discorso dalla dialettica. La dialettica dice (cioè rappresenta, fa vedere) la contraddizione. E permettendo in tal modo di dar conto di tutti gli aspetti fondamentali di ogni ente, è premessa indispensabile della sola possibile “filosofia scientifica”. Cioè di una conoscenza saldamente fondata sul “λόγος” corretto (di una “retorica” non “sofistica”). Orto-logia. 11. Ivi, p. 344. Più avanti ripeterà che la dialettica è la “via” per la quale “possiamo propriamente appropriarci dell’ente” (Ivi, p. 353).

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La dialettica è scienza della contraddizione. E in quanto questa scienza, è condizione poi di tutte le possibili scienze (i.e. conoscenze) particolari. Il Fedro è propedeutico al Sofista proprio in quanto indagine sulla “condizione di possibilità dell’esprimersi in modo autentico su qualcosa”12. Nel Fedro sono infatti individuate “due condizioni” per le quali il “λόγος” si esprime “in modo retto” rispetto all’essere di un ente. La prima capacità è quella di sintesi, per cui si deve esprimere in termini unitari una molteplicità di cose ovvero rendere visibile come una, la cosa che pure comprende aspetti diversi e addirittura opposti. Se infatti la dialettica a priori tiene insieme essere e non-essere, poi può esser capace di vedere sinotticamente qualsiasi altra coppia di opposti. Il secondo elemento per garantire una retta conoscenza è precisamente l’opposto del primo. Non solo la sintesi, ma anche l’analisi, la δια-ίρεσις. La dia-lettica ha precisamente questa capacità: ciò che si presenta unito e confuso riesce a “sezionarlo da cima a fondo”, per cogliere la “dicotomia” di ultima istanza, quella per cui le parti separate pure sono mantenute nell’unità sinottica13 che dà loro senso (e che è la condizione trascendentale di qualsiasi analitica). Ora secondo Heidegger nel Platone maggiore l’“Idea” è precisamente quell’“unica prospettiva /μιᾷ ιδέᾳ/” in cui il due sta 12. Ivi, p. 347. 13. La “συναγωγή” spiega Heidegger è “il primo momento strutturale del procedimento dialettico” (Ivi, p. 356). La dialettica come (e proprio in quanto) tiene insieme essere e non-essere, tiene insieme anche sintesi e analisi, “συναγωγή” e “διαίρεσις”. È perché essere e non-essere stanno insieme originariamente, che si può poi analizzare alcunché. In questo senso la contraddizione è struttura originaria.

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insieme all’uno. In questa accezione essa è “l’autentico fondamento” dell’analisi così come della sintesi, del dividere che è unire (e viceversa)14. Heidegger riconosce insomma la connotazione dialettica dell’Idea platonica nella sua più matura accezione, quella post-metafisica. Il che significa che proprio in quanto “modalità primaria di apertura dell’ente stesso” la dialettica è ragione della possibile verità e correttezza del “λόγος”: “il λόγος nella sua funzione autentica è fondato sulla dialettica”15. Dunque nell’ordine: a) l’essere è contraddizione; b) la dialettica pensa e apre alla dicibilità la contraddizione, cioè apre al “λόγος” appunto come discorso (retto, orto-logia) sulla contraddizione; c) il linguaggio può poi determinatamente dire, bene o male, veramente o falsamente, la realtà dell’ente. La dialettica fa da trait-d’union trascendentale fra ontologia e conoscenza (e linguaggio). In questo senso “funzione autentica” del λόγος significa riferimento del discorso all’essere o meglio articolazione analiticodiscorsiva di ciò che è originariamente connesso (nella forma estrema della contraddizione). La dialettica appunto garantisce tutto ciò o meglio la liceità del rapporto fra la contraddizione e il suo discorso. Avendo presente questo insieme di riferimenti Heidegger può parlare di “compito propriamente realistico della dialettica”16,

14. Cfr. ivi, p. 358. 15. Ivi, p. 370. 16. Chi non guarda alla realtà con l’occhio della dialettica e quindi essendo in condizione di connettere l’ente al suo essere, rimane piuttosto fermo al piano ontico, vede solo cose tanto puntuali quanto astratte, parziali, brancola “in cerca solo di opinioni, del sentito dire, delle pubbliche credenze”

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che dunque è sempre a ridosso della cosa stessa. Mai gioco linguistico, sofistico. La funzione dialettica si articola poi nel modo seguente: “la συναγωγή è una modalità della visione / des Sehens/, cioè del vedere lo ἔν; e anche la διαίρεσις è uno scoprire che si rivolge costantemente allo ἔν”17; lo “ἔν” tiene insieme originariamente ciò che può essere colto distintamente. La sintesi poi rende la complessità dell’originario (vedremo Heidegger parlerà di “interconnessione della struttura ontologica”, ma più avanti anche di “connessioni ontologiche”), la diairesi invece la articola-analizza-esprime. In altre parole la dialettica permette (nel senso proprio che rende lecito, nonaporetico) il retto discorso sulla cosa a partire da una “visione” della cosa stessa strutturata per sintesi e differenza, συναγωγή e διαίρεσις. La differenza fra Fedro e Sofista è poi nel fatto che nel Fedro la considerazione dialettica di identità e differenza è ancora in vista dell’“ente concreto”, mentre nel Sofista sono a tema le “interconnessioni delle strutture ontologiche in quanto tali”18. Ora la dialettica è precisamente l’organon di tutto ciò. È il vero fulcro teorico del sistema. Niente di formalistico, niente di logicistico. Heidegger lo dice chiaramente: “bisogna prescindere da ogni lettura in senso tecnico della dialettica”19. Non mera tecnica del retto discor-

(Ivi, pp. 352-353). La dialettica dunque non è solo un organon gnoseologico, ma uno strumento per sua natura critico (della doxa, del senso comune, del “sentito dire”, della “chiacchiera”). 17. Ivi, p. 372. 18. Ivi, p. 374. 19. Ivi, p. 372. Da dire che Heidegger in verità scrive: “von jeder äußerlichen technischen Ausdeutung” (Heidegger, Platon: Sophistes, cit., p. 349); nella versione italiana manca dunque la traduzione di “äußerlichen”, ogget-

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so, ma sguardo sinottico sulla sinotticità dissociata intrinseca all’essere. Solo sulla scorta di questo originario “Sehen” ci si potrà poi orientare nel parlare (e si potrà parlare legittimamente dell’essere; di nuovo: orto-logia della contraddizione). Per questo occorre una “trasformazione dell’idea di dialettica”, che la porti lontano dalla vulgata che la vuole appunto mera “tecnica” (quando non addirittura espediente retorico), per porla come strumento indispensabile a cogliere quella “trasformazione del concetto di essere”20 che Platone e Aristotele realizzano rispetto all’ontologia eleatica. Ora nel Sofista si riscontra proprio quella prima “trasformazione” dell’essere e quindi della dialettica, che poi Aristotele porrà al centro del suo sistema. È “il senso dell’essere e del non-essere” a mutare; a dire che è proprio la loro sinossi, i.e. “Zusammenhang”, a realizzare la riforma ontologica di Platone e Aristotele. Non a caso di “sachlichen Zusammenhänge”, di relazioni cosali, intime alla struttura dell’ente, parla Heidegger; ad esempio quanto ai rapporti fra bene e male, positivo e negativo, giusto e ingiusto. Perché in effetti tutto l’infinito scibile ontico è reso nel Sofista come “qualcosa che, in quanto è, al tempo stesso / zugleich/ non è, di modo che in questo oggetto /Objekt/ peculiare si presenta una συμπλοκή di ὄν e μὴ ὄν, che si impone anzi come qualcosa di originario /Ursprünglisches/”21.

tivo importante, perché sottolinea il carattere “estrinseco” della dialettica ridotta a “tecnica” (del pensiero, del linguaggio o altro). 20. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 372. 21. Ivi, p. 379. La traduzione è però mia. Poco oltre ripete che bene/male, bello/brutto sono “dati inizialmente insieme /zunächst miteinander gegeben/” (Ivi, p. 380).

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E il senso di questa “συμπλοκή” di fondo, di questa dialettica “trasformata”, è il vero oggetto del Sofista. Certo ragionando così Platone si poneva in radicale contrasto con i “dogmi fondamentali /fundamentalen Dogmen/” della grande filosofia a lui precedente, cioè segnatamente dell’Eleatismo, secondo i quali invece “una συμπλκή di ὄν e μὴ ὄν era qualcosa di inaudito /Unerhörtes/”22. All’Eleatismo veniva opposta dunque una dialettica come “λόγος” della contraddizione ovvero “ἡ μήθοδος” della contraddizione, modo con cui si può dire correttamente la contraddizione. La dialettica è il discorso capace di “prendere possesso /Besitz nehmen/”23 della contraddizione, cioè delle “connessioni ontologiche /Seinszusammenhänge/”. La dialettica in tanto può dire correttamente la “struttura originaria /ursprüngliche Struktur/”24 dell’essere, in quanto è ad essa originariamente ‘aperta’, cioè corrisponde a “quello ἕν che dev’essere anticipatamente già avvistato e al quale sono orientate le domande”25. Solo la contraddizione rende possibile il discorso (la sua correttezza, cioè la sua incontraddittorietà26). La dialettica è appunto trait-d’union fra contraddizione e “λόγος”.

22. Ivi, p. 379. 23. Ivi, p. 383. 24. Ivi, p. 389. 25. Ivi, p. 396. 26. Il principio di non-contraddizione è infatti “regola dell’enunciazione” o “legge della proposizione” (Ivi, p. 397). Il p.d.n.c. ha un valore limitato, secondario si diceva sopra. Riguarda solo il piano ontico (dunque non l’essere) e quello del linguaggio, del retto dire. ‘Tecnicistico’ è il p.d.n.c. non la dialettica.

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Anche più avanti, tornando a trattare del discorso sull’essere dice: “in ogni λóγος ci si rivolge sin da principio a qualcosa, e si passa quel qualcosa, come uno”, ma poi “nel contempo ‘a sua volta quest’uno lo diciamo molti, e con molti significati’, πολλοῖς ὀνόμασι”27. Nel dire dunque si passa l’uno, nel senso che lo si coglie come molti, in relazione ad altro. “Ogni λóγος” è capace di dire l’“uno” insieme ai “molti”, riuscendo così ad esprimere la natura dialettica dell’essere. Questa è la orto-logia che scongiura l’aporia. Era la soluzione al problema degli eleati e dei megarici, quello di come sia possibile, a ciò che è “uno solo”, attribuire una molteplicità di significati. Soluzione invero semplice: per la dialettica l’essere non è “uno solo”.

27. Ivi, p. 512.

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Capitolo quarto Il significato di non-essere

Certo questo ordine di problemi, intorno a cui ruota il Sofista di Platone, implica una radicale messa “in discussione del senso dell’essere” ovvero del principio eleatico di non-contraddizione1. La domanda può anche essere posta così (Platone così la poneva): è possibile dire il non-essere? “Vom Nichtsein geredet werden”? Di che si parla “quando si usa l’ὄνομα ‘μή ὄν’”2? Come fare cosa (nomen) del non-essere? Non a caso c’è un’intera sezione del corso heideggeriano intitolata Das Sein des Nicht-seienden. È qui che viene propriamente svolto il tema della orto-logia. Secondo Heidegger infatti nel Sofista è presupposta “l’intima interconnessione /Zusammenhang/ fra δόξα e λόγος”, nel senso che “la δόξα e il δοξάζειν sono un determinato tipo di λόγος”3.

1. Cfr. ivi p. 421. 2. Ibid. 3. Ivi, p. 426.

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Ora δόξα significa esattamente dire il non-essere; è il λόγος adeguato al non-essere4 (ad un essere che non è quello assoluto dell’eleatismo, ma appunto un essere relativo). Certo per cogliere la possibilità di entrambi (del non-essere che è e del discorso su di esso) occorre andare all’essere dell’ente che è non-essere, cioè all’essere della δόξα. Ebbene la dialettica o “διαλεκτική” è appunto verifica delle condizioni di possibilità del non-essere che è, così come del λόγος relativo ad esso5. La domanda radicale posta nel Sofista è dunque: “che cosa vuol dire” μὴ ὄν? Il non-essere può avere un significato? La parola che dice “non-essere” non è mero flatus vocis (comunque qualcosa che ha sostanza ontica), essa esprime un “senso primario /primärer Sinn/” che rimanda direttamente a ciò che viene detto, cioè appunto al “μὴ ὄν”. Ora però questo per il solo fatto di essere detto è ontologizzato (Heidegger questa peculiare figura teoretica la chiama anche “incarnazione del non-essere /Verkörperung des Nichtseins/” ovvero “fatticità / Faktizität/ del μὴ ὄν”6). Di conseguenza il “λέγειν del μὴ ὄν” è effettivamente in grado di rendere essere il non-essere.

4. Adeguato nel senso che il non-essere che contraddittoriamente è, si specchia in un discorso che è falso (perché contraddittorio) eppure è (vero). Falso è il discorso che tenta veramente (cioè secondo p.d.n.c.) di “esprimere in qualche modo /irgendwie/ ciò che non è affatto /ganz und gar Nichtseiende/” (Ivi, pp. 433-434). Questo Heidegger intende laddove scrive che la doxa è lo “ψευδὴς λόγος” (il vero-falso, l’“aprire ostruente”) che presuppone “che vi possa essere il non-ente” (Ivi, p. 429); dove però non-ente è in quanto ente e non-ente è in quanto discorso su quell’ente. Si corrispondono ontologicamente. La finitezza è l’essere dell’ente, ma lo è anche del discorso su questo ente. 5. Cfr. ivi, p. 428. 6. Ivi, p. 540.

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Su questa premessa trascendentale, della consustanzialità di essere dell’ente e “λόγος”, si innesta la questione capitale che nel Sofista è detta della “ὀρθολογία τοῦ μὴ ὄντος”7, del “rechte Ansprechen des Nichtseienden”, del modo corretto di esprimere il non-essere o “Nein-sagen”8. Ora questa, dice Heidegger, è una situazione critica, una “Fragestellung”. A dir poco. È in questione infatti il rapporto dell’essere dialettico (cioè della contraddizione) con il λόγος. Punto cruciale, dato che non ne va solo dell’interpretazione di Platone e Aristotele, ma direttamente della filosofia di Heidegger. Di più: ne va del principio fondamentale dell’intera storia della filosofia, del “Satz des Parmenides”, che Platone invece ha “umgestoßen”, rovesciato. E rovesciato nel senso proprio che ha imposto la regola opposta: l’essere è non-essere. Infatti è ovvio che, a tutta prima, non si può parlare del nonessere, appunto perché questo, preso assolutamente9, metafisicamente, non si lascia dire senza importare aporia: “del μὴ ὄν non si può parlare, giacché ogni λέγειν è un λέγειν τί”10 e il non-essere secondo il senso comune metafisico non può essere “cosa”. L’alternativa è una sola: che il non-essere non venga inteso secondo metafisica, cioè “puramente in se stesso”, ma secondo dialettica, cioè impuramente in se stesso. Solo del non-essere dialettico è possibile “λόγος”. Solo se l’ontologia è dialettica il “non-essere” può esser detto. 7. Ivi, p. 436. 8. Il “dire-di-no” (Ivi, p. 437), ma forse sarebbe stato meglio tradurre “dire il no”, nel senso di dire il non-essere. 9. Stiamo parlando del “non-ente visto puramente in se stesso” (Ivi, p. 440), che come tale è “ἄρρητον, ‘indicibile’” ovvero “ἄλογον”. 10. Ivi, p. 439.

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Solo la “συμπλοκή”, cioè il buon “intreccio /Verflechtung/ di non-essere ed essere”11, autorizza e legittima (nel senso che ne scongiura l’aporeticità) il discorso sul non-essere. Ora in Platone ed in Aristotele essere e non-essere non si danno mai “puramente” come tali; il loro è quindi legittimo λόγος del μὴ ὄν, perché per loro il μὴ ὄν è ὄν. Secondo il Platone del Sofista infatti, per sfuggire all’aporia, occorre saper vedere (“con gli occhi del νοῦς”) il non-essere dell’essere dell’ente. Ebbene all’occhio perspicuo, cioè all’occhio dialettico del “νοῦς” (che non è il puro “νοῦς” della metafisica), l’essere dell’ente apparirà come contraddizione, segnato dall’“ἕτερον”, cioè da “un altro ‘questo stesso’”12, da un diverso che è identico. Heidegger non può che concluderne che così “è fatta vacillare l’interpretazione tradizionale e consueta dell’ὄν, nel suo rigido senso parmenideo”. Di qui la contraddizione come verità ovvero “συμπλοκή del μὴ ὄν e dell’ὄν”13. Esattamente questa struttura d’essere permette poi il “λόγος”, garantisce cioè la liceità del parlare come articolazione, relazione, differenza e dunque capacità di dire la contraddizione (la stessa contraddizione che rende possibile il suo esser detta). Orto-logia della contraddizione. Nel doppio senso che la contraddizione è dicibile (senza aporia) e proprio questo dire rende possibile (è condizione trascendentale di esso).

11. Ivi, p. 437; cfr. infra p. 446. 12. Ivi, p. 445. 13. Ivi, p. 446.

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Heidegger scrive con grande nettezza: “soltanto se è dato un tale essere che può essere qualcosa che esso non è, può darsi un λόγος in grado di scoprire questo ente”14, di dirlo appunto legittimamente in quanto contraddizione. E più avanti precisa: “per l’esplicazione dell’essere non può essere posto come criterio la ‘logica’ della determinazione dell’ente”15. Cioè altro la logica della non-contraddizione (cioè “della determinazione dell’ente”), altro la logica della contraddizione (della determinazione dell’essere). La seconda è una logica trascendentale, la prima una logica formale (o “‘logica’ della proposizione e della enunciazione”). La dialettica è la logica trascendentale della logica formale. E “pertanto la comune affermazione secondo cui l’essere non può essere definito /definiert/ non significa assolutamente nulla”16, nel senso che “non può essere definito” dalla logica dell’ente, ma da un’altra logica, quella precipua dell’essere, sì. Solo secondo la logica formale la contraddizione “non significa assolutamente nulla” (non può essere detta secondo un significato). Ma qual’è la logica precipua dell’essere? La dialettica. Tanto che poco oltre è spiegato: “l’ontologia è per Platone διαλέγεσται e dialettica”17 e in effetti la dialettica è il dialogo sull’essere come differenza, i.e. “δια”. Nulla a che vedere con “i giochi di prestigio” dei sofisti. Che appunto confondono logica formale e logica trascendentale (e applicano la prima alla seconda; per la precisione: applicano la logica formale e il suo principio, quello di non contraddizione, all’essere). 14. Ivi, p. 447. 15. Ivi, p. 462. 16. Ibid. 17. Ivi, p. 463; cfr. anche p. 504.

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È possibile stabilire un punto: la scienza dell’essere è la dialettica. Ontologia e dialettica. La dialettica assicura la “Definition” dell’essere. Essendo per Platone l’essere contraddizione, la dialettica è l’unica che può ‘definire’ un siffatto essere18. Chiaro dunque che il “principio di Parmenide”, un “principio forte, difficile da domare”, è messo radicalmente in crisi nel Sofista. Anche se, nel gioco delle parti in commedia, spetta proprio allo “Straniero di Elea” di revocare in dubbio l’Eleatismo, “lo straniero è infatti un eleate e si appresta qui a sferrare un attacco contro il suo proprio padre spirituale”19. In verità è qui Platone che, senza alcuna ironia, sta fondando la sua ontologia sulla dialettica. Cioè sta fondando una ontologia non-eleatica.

18. Già nelle ricordate lezioni del 1921-‘22 Heidegger aveva distinto fra la “definizione” puramente “formalistica” e la “definizione filosofica”. La prima è unilaterale, fissa l’ente in modo identico, risponde all’esigenza diremmo pratica di “determinare in forma propria e sicura l’oggetto” (Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, cit., p. 55); la seconda invece “dice di più” (rispetto al mero apparire), rende l’essere complesso che sottende alla “definitio” come “decisio”. Quest’ultima risulta poi non a caso da un “processo di formalizzazione” (Ivi, p. 57), cioè di astrazione appunto dal nucleo originario complesso. Ma che cos’è la “definizione filosofica”? Heidegger risponde che non riguarda un mero ente, ma è “principio” (“definizione di principio”). Ma di quale “principio”? Ora se per noi esso, da Aristotele ad Hegel, è l’essere come dialettica, come contraddizione, Heidegger ne dà invece una connotazione “esistenzialistica”. L’essere-principio per lui è un orizzonte storico-culturale, una “situazione vitale” (Ivi, p. 58), quella “precognizione” a partire dalla quale avviene poi la “determinazione definitoria”. L’essere per Heidegger ha il valore trascendentale della pre-definizione esistenziale. 19. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 449.

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Perché la dialettica è precisamente quella “modificazione del senso dell’essere in generale” per la quale viene meno ogni “contrapposizione radicale /radikale Entgegensetzung/ di non-essere ed essere”. Platone innalza di fronte agli Eleati la seguente tesi: non “si dà un essere”. Sempre invece “deve darsi un molteplice essere /mehrfaches Sein/”, nel senso specifico “di una molteplicità nell’essere stesso /Mehrfachheit im Sein selbst/”20. Molteplicità che però in ultima istanza è duplicità di elementi costitutivi dell’essere dell’ente; nel Sofista si legge infatti: “‘voi dite che tutto riceve il suo essere da due cose’, da caldo e freddo, e simili”21. Appunto l’essere è costituito dalla dialettica degli opposti; di conseguenza l’“ὄνομα” che lo esprime è strutturalmente doppio, contiene lo “ἕτερον”22; specularmente uno e tutto, “pur essendo δύο ὀνόματα, devono essere una sola e medesima cosa”23. Ora la dialettica è l’unico “λόγος” dalla doppia testa capace di dire non-aporeticamente la contraddizione.

20. Ivi, p. 459. 21. Ivi, p. 460. 22. Cfr. ivi, p. 466. 23. Ivi, p. 468.

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Capitolo quinto Il “giovane Aristotele” come problema

Il “giovane Aristotele” è un problema. Di Platone. Ne è convinto Heidegger. O meglio: l’ontologia dialettica che il Platone maturo elabora, se pure appare chiaramente alla sua acribia di interprete platonico, è accettata però con difficoltà dall’ontologo Martin Heidegger, che la imputa proprio alla precoce influenza del “giovane Aristotele”. In particolare difficile da accettare è un “uno come unità delle parti”, un uno che è molteplice, ecc., motivi liquidati come “oscurità fondamentali /Grunsätliche Unklarheiten/” tipiche appunto della dialettica. Il problema ulteriore consisteva nel dover riconoscere che però argomenti siffatti avevano pur trovato accoglienza nella struttura profonda del Sofista, aprendo a quella “concezione essenzialmente positiva della negazione”1 che avrebbe trovato poi la sua più alta elaborazione nell’Aristotele maturo. Heidegger in ogni caso alla “concezione positiva” dell’uno che è due continua ad opporre quello che per lui resta il “vero uno /ἓν ἀληθῶς/”, quello trascendente, “assolutamente privo 1. Ivi, p. 473.

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di parti”, l’uno puro, perfetto, la “ben rotonda sfera” di Parmenide2. E non solo, si dice addirittura convinto che quel certo “senso dell’essere” di Platone ed Aristotele, quello cioè dell’unità di identità e molteplicità, di fissità e divenire, altro non sarebbe che un ‘errore’ dei Greci, un senso che loro davano per “ovvio” sulla base evidentemente dell’esperienza quotidiana del divenire, cioè di una “interpretazione naturale e immediata dell’essere da parte dell’esistere fattuale /faktischen Daseins/”. Esistere che appunto continuamente propone il divenire di tutte le cose, il loro venire dal nulla, essere fugacemente, per poi tornare nel nulla. L’evidenza di questo divenire per l’ontologia è scandalo. E la dialettica ne sarebbe solo la ‘ideologia’. Alla base della dialettica ci sarebbe un errore. L’errore di fondo della metafisica: quello appunto di confondere l’essere con l’ente, l’identità con la differenza. In questo senso la metafisica è “ontologia dell’esistere /Ontologie des Daseins/”3, ontologia ontica, non vera ontologia. Fermo restando che lo considera metafisico, poi però Heidegger, in ragione proprio della sua acribia, ricostruisce correttamente il discorso platonico sull’essere dell’ente. Intanto esso è “δύναμις” come “possibilità”, nel senso che invero sarà stabilito nel modo più precipuo da Aristotele; ma certo l’essere come “possibilità” implica la presenza originaria di “un determinato tipo di non-essere”4, cioè del non-essere determinatamente costitutivo dell’essere. Questo non-essere dell’essere Heidegger lo chiama, assai cautamente, “non totale

2. Cfr. ivi pp. 470-471. 3. Ivi, p. 480. 4. Ivi, p. 488.

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differenza /keine totale Verschiedenheit/ nei confronti dell’altro”, cioè nei confronti dell’essere. Ma che il non-essere sia non totalmente differente dall’essere può solo significare che essere e non-essere sono lo stesso. Che è quanto dice Platone nel Sofista: “l’essere riferiti l’uno all’altro e l’uno con l’altro” di essere e non-essere costituisce la “possibilità” fondamentale e “questa possibilità non è nient’altro che il senso dell’essere”5. Qui Heidegger esprime il (legittimo) “convincimento personale /persönliche Überzeugung/” che il Platone di questo punto del Sofista stia in effetti facendo espressamente i conti con il “giovane Aristotele”. Tesi condivisibile perché qui effettivamente è lontano l’“ἠρεμοῦν” dell’essere eleatico, il suo posto è preso da un essere calato nel mondo, in cui la differenza, la “δύναμις”, il divenire, è elemento costitutivo6: “esso è sia immoto che mosso”7. E un punto fermo della filosofia di Aristotele è appunto la “κοινωνία fra κίνησις e στάσις”8 ovvero la sintesi fra essere e divenire, fra identità e differenza, fra Parmenide ed Eraclito9. Il fatto che poi Heidegger affermi che a quest’altezza del Sofista Platone “ci dà per la prima volta la precisa e fonda-

5. Ivi, p. 491. 6. Per la verità Heidegger aggiunge che la sua è una mera sensazione personale, che però “non ha alcun valore scientifico” (Ivi, p. 495). A nostro avviso invece è ben altrimenti fondata la tesi di una convergenza esplicita fra l’ultimo Platone e il primo Aristotele. 7. Ivi, p. 502. 8. Ivi, p. 499. 9. Cfr. ivi, p. 501.

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mentale struttura della συναγωγή e quindi del διαλέγεσθαι”10, dato che come visto “l’ontologia è per Platone διαλέγεσται e dialettica”11, non fa che confermare che la contraddizione è verità dell’essere. Ontologia dialettica. E questa è la vera ontologia, quella del vero essere e del “vero uno /ἓν ἀληθῶς/” (che non è però quello trascendente di Heidegger12). E invece il pregiudizio eleatico di Heidegger è resistente e torna a manifestarsi a quest’altezza. Per lui infatti “necessariamente” un ente deve essere “o in movimento o in quiete”, la loro convergenza in un unico, che sarebbe appunto la soluzione di Platone ed Aristotele, è inaccettabile. Di qui la ricerca di qualcosa che sia oltre queste commistioni dialettiche, “che giace al di là di entrambi /über beide hinausliegt/”.

10. Ivi, p. 504. 11. Ivi, p. 463. 12. Così ad esempio Heidegger nel ciclo di lezioni del 1926 sulla filosofia antica scrive che l’essere, in ragione proprio della sua differenza critica dall’ente, “è un trascendere, un ‘oltrepassare’ (übersteigen), una trascendenza” (Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica, cit., p. 79). Certo un trascendere non “metafisico in senso banale”, ma comunque “veritas trascendentalis”, decisamente oltre la dimensione del finito. E la filosofia in quanto scienza critica di ciò che non è ente, non può non dirsi scienza del trascendente. Per Heidegger metafisico, questo intendiamo. La filosofia da scienza della differenza (i.e. critica), a scienza della differenza assoluta (dove la critica è solo scissione). Anche Emanuele Severino considera in ultima istanza possibile, cioè noncontraddittoria, la “liberazione originaria” (Severino, La struttura originaria, cit., p. 461), dell’essere dalla totalità degli enti, dal mondo dell’esperienza. Per la precisione: “l’essere si libera originariamente /…/ dall’esperienza possibile” (Ibid.), ponendosi come garante della eternità di tutti gli enti. Che così sono radicalmente (e finalmente) sottratti al destino metafisico del divenire.

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Sintomaticamente afferma che questa ricerca del trascendente è “un locus classicus per i neoplatonici”13, confermando però così che la sua filosofia è una forma di irrazionalizzazione del paradigma dialettico, che ricalca i modelli classici dell’irrazionalismo, quelli che trovano le loro origini più proprie appunto nel neoplatonismo. Non certo per caso infatti in Heidegger, di contro alla “possibilità” aristotelica, l’essere si riduce a qualcosa di “massimamente impossibile”, a mistico quid che “si oppone pienamente a tutto ciò che noi possiamo in generale comprendere e spiegare”14. Una ontologia scissa dal conoscere e dal linguaggio. In questa prospettiva viene recuperato addirittura Antistene in funzione anti-aristotelica. Il maggiore dei “cinici” era infatti da una parte convinto dell’impossibilità di cogliere la verità, il senso dell’essere, dall’altra fermo ad una concezione dell’essere ridotto al piano ontico, quello dell’esperienza più immediata (il famoso “cavallo” senza la “cavallinità”). Esperienza immediata e perciò identica, senza differenza, senza contraddizione, cioè senza “ἀντιλέγειν”. Ma questa è la posizione esattamente opposta a quella di Aristotele. Come detto, per Antistene l’essere coincide con l’ente come identità data, mentre la contraddizione è solo nella relazione ontica, nel rapporto fra enti ognuno per sé identico e fra loro distinti. Per i Cinici “contraddizione, ἀντιλέγειν, vi è solo nel discorso propriamente esplicito, che è sempre un rivolgersi a qualcosa in quanto qualcos’altro. Nella pura e semplice φάσις non c’è alcuna contraddizione”15; l’errore consiste qui solo nel mettere in relazione termini che invece sono (e vanno presi) ognuno per sé identico e giusto. 13. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 507. 14. Ivi, p. 508. 15. Ivi, p. 514.

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Per Aristotele invece è il contrario, per lui la contraddizione è del piano ontologico, riguarda la natura propria dell’ente (inattingibile secondo Antistene e Gorgia), mentre è sul piano ontico che “non c’è alcuna contraddizione”16 (piano ontico che vale ovviamente anche per il “discorso”, che infatti non deve conoscere contraddizione17); può esserci errore anche su questo piano, ma è altra cosa.

16. Di rilievo che anche Emanuele Severino parli di “aristotelico binomio principio di non contraddizione-conoscenza immediata (esperienza, ἐπαγωγή)” (Severino, La struttura originaria, cit., p. 108), a conferma appunto della vigenza del p.d.n.c. in un ambito preciso (per quanto vasto). Un binomio che “permane”, a detta di Severino, da Aristotele alla “filosofia moderna” e anche “contemporanea” (Heidegger compreso, si può aggiungere); anzi quest’ultima meglio di tutte “apre” l’autentica dimensione della “struttura del fondamento”. 17. Questa cosa la ammette anche Heidegger, sia pure in modo sofferto, laddove scrive che per Aristotele il dire è sempre un rappresentare in modo univoco, incontraddittorio, qualcosa che però nella sua essenza è tutt’altro: “è come se io, parlando, spingessi davanti a ciò che c’è qualcos’altro e lo spacciassi – quel che c’è – per qualcosa che esso non è, ovvero che non c’è” (Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 515). Passo faticoso appunto, ma in cui è chiaro che “parlando” si usa un criterio (la non-contraddizione) che altrimenti non si usa. Subito dopo, detto in modo di poco diverso: “per Aristotele ogni λόγος è duplice”, cioè ha appunto natura contraddittoria, anche se poi, “parlando”, si determina in modo univoco, diviene “di volta in volta uno, tagliato su misura per un solo ente” (Ivi, p. 516). In questo senso l’identità per Aristotele è ontico-linguistica, ma non ontologica. Heidegger di suo però, ripetiamo, la pensa all’opposto. Anche più avanti infatti tornerà a dire che sul piano ontologico si dà radicale alterità “di ὄν e ἕτερον”, mentre la “coincidenza” dei due può darsi a livello “di ciò che è determinato” (Ivi, p. 554), cioè appunto a livello ontico. In questo modo la purezza dell’essere è fatta salva, mentre l’imbarazzante contraddizione è qualcosa che può riguardare al più il piano infimo della realtà, del linguaggio, ecc. Non a caso poi Heidegger riconosce come per lui “inspiegabile” (Ibid.) che nel Sofista Platone possa dire che il dialettico è precisamente colui che “cia-

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Su questo piano ontico sia l’essere sia il non-essere sono presenti in quanto quid unici, determinati, perciò identici e dunque ontici (che si tratti di cose o parole). Come Heidegger scrive più avanti: “nelle concrezioni reali /sachaltigen Konkretionen/ il μὴ ὄν è un ὄν”18, cioè il non-essere è dato, determinato, ad esempio quando è detto, nominato dal linguaggio e dunque è non-essere. Come dire: l’ente è incontraddittorio, l’essere è contraddizione. L’ente può essere incontraddittorio solo in quanto l’essere come contraddizione è determinato (cioè c’è negatio della contraddizione). Per questo poi nella Metafisica Aristotele potrà dire che Antistene “aveva una concezione davvero ingenua del λόγος”, perché laddove diceva che “μὴ εἶναι ἀντιλέγειν” cioè “è impossibile contraddizione”19, in verità non distingueva dove la non-contraddittorietà effettivamente era vietata e dove invece no (col risultato che in Antistene ogni dis-corso è vietato e il linguaggio è “mero nominare”, i “giudizi” possono solo essere “identici”: “l’uomo è uomo”; insomma il celebre e vieto “nominalismo” dei cinici)20. Ma soprattutto, direi, non vedeva il rapporto fondativo fra contraddizione e non-contraddizione. scun elemento che se ne sta a parte” è capace di ricomprendere in “una idea sola fra molte” (Sofista, 253 d, 8). Unità e molteplicità insieme, questo è l’“inspiegabile” per l’ontologia. 18. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 571. 19. Ivi, p. 517. 20. Da notare che in verità la differenza che Aristotele teneva a marcare era soprattutto quella con Platone, il quale intendeva “quiete e moto in senso puramente ontico” mentre la “autentica interconnessione” di “moto e quiete” avviene, in Aristotele, a livello ontologico, sulla base di una originaria “κοινωνία” (Ivi, p. 525). A scanso di equivoci: “nell’essere della quiete, ovvero nel senso ontologico della quiete, è posto assieme proprio l’essere in

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Non coglieva il valore trascendentale della contraddizione, il suo esser condizione della non-contraddizione e del discorso che la riguarda. Non è poi senza significativo che Heidegger all’“ἀντιφασις” di Aristotele preferisca la “φάσις” (incontraddittoria e antilogica) di Antistene.

moto” (Ivi, p. 526), dunque la “quiete non è nient’altro che un determinato caso limite di moto /Grenzfall von Bewegung/” (Ibid.). Il non-essere è un “caso limite” dell’ essere. Non-essere grado minimo di essere. È interessante notare che anche per Merleau-Ponty il nulla va tolto dalla sua assolutezza e reso “solidale” con l’essere. In tal senso parla di “negintuizione del nulla” (Merleau-Ponty, op. cit., p. 77), nel senso che il nulla va tolto dalla sua assolutezza per “vederlo con la coda dell’occhio come il solo bordo dell’essere, implicato in esso come ciò che gli mancherebbe se qualcosa potesse mancare al pieno assoluto” (Ivi, p. 78). Tutto l’imbarazzo dell’ontologo che non vuole riconoscere la dialettica in queste parole; rischia lo strabismo per vedere “con la coda dell’occhio” un non-essere che è, cioè è “bordo” dell’essere (dunque essere).

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Capitolo sesto “Dialektiche Wissenschaft” o della dialettica come scienza della contraddizione

Ma dicevamo, solo la contraddizione permette il linguaggio, il dis-corso, il dia-logo. Di nuovo al contrario del materialismo-ontologismo-nominalismo di Antistene, il cui “nominare” identico è “vuota tautologia”1. Precisamente è perché l’essere è contraddizione e dunque “determinabile” nell’ente individuo e incontraddittorio, che il discorso sullo stesso ente è possibile e proprio in quanto dis-corso, cioè modalità che da discorsiva trascorre nella conclusione unitaria del giudizio, di cui poi si deve pretendere la chiarezza, la non-contraddittorietà. In questo senso precipuo “la dottrina del λόγος non è separabile dalla problematica dell’essere”2 che però significa che senza contraddizione (e superamento della stessa) non si ha “onto-logia /Onto-logie/”3 (i.e. discorso sull’essere, cioè sull’ente, che è l’essere de-contraddetto) e dunque orto-logia.

1. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 520. 2. Ivi, p. 521. 3. Ivi, p. 524. Precisamente Heidegger dice che se l’ontologia non riguardasse l’ente determinato, individuo, ma un insieme di cose, allora sarebbe “tutto in subbuglio” e l’ontologia crollerebbe “su se stessa”.

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Ontologia può darsi come ortologia in quanto l’essere di cui si discorre è contraddizione. La buona onto-logia è quella che riguarda l’ente, cioè l’essere determinato. Per il pensiero dialettico l’ente è essere determinato. Ora appunto l’ontologia è scienza dell’essere determinato, ergo non è quello che ordinariamente si intende per scienza dell’Essere. E non perché abbia ‘obliato’ l’essere, ma perché l’essere si lascia dire cioè discorrere, proprio perché discorso è di suo, essendo l’essere appunto contraddizione. Non c’è aporia (fra essere e discorso sull’essere, “onto-logia”), perché discorsiva è appunto la condizione trascendentale del discorso. Dunque solo perché l’essere è contraddizione può aversi scienza dell’incontraddittorio. Metafisica è l’errore storico per cui si scambia l’ente con l’essere. E si prende l’incontraddittorio per vero. E invece l’incontraddittorio è solo incontraddittorio (è solo della logica, del discorso); detto altrimenti: l’identità incontraddittoria dell’ente è ‘corroborata’ (subisce “una sorta di investitura” dice Heidegger) dal discorso che lo riguarda, che agisce come “nominare che identifica”4. Credo si debba intendere che così come

4. E proprio in quanto il discorso è consustanziale all’ente: ente il “λέγειν”, ente il “λεγόμενον”, il detto (sul punto cfr. ivi, p. 538). Dopo di che “nel λόγος ciò che è espresso viene preservato, e l’ente che esso scopre subisce una sorta di investitura” (Ivi, p. 527); il che significa che l’ente è come ‘bloccato’, identificato dal dire che lo statuisce come ente uno, definito, incontraddittorio. In questo senso il “λέγειν” come “puro nominare che identifica” (Ivi, p. 566) realizza quelli che Heidegger chiama “Kristallisations-Kerne” o “nuclei di cristallizzazione”, per cui appunto un ente è irrigidito in una unità semantica e ‘sembra’ l’essere, sembra cioè l’essere come lo intendono gli Eleati, se-

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l’essere che è contraddizione si determina nell’ente identico, così il “λόγος” che è dis-corso può determinarsi in una conclusione univoca, unitaria. Come detto in nota, l’ente viene cristallizzato dal linguaggio in una identità che pare ontologica (ontologico-eleatica); ora per evitare che questa situazione venga a sua volta ‘cristallizzata’ in una scienza dell’Essere identico o metafisica, c’è una scienza che si incarica di ricordare la natura contraddittoria dell’essere dell’ente e dunque la natura diveniente dell’ente stesso, ma anche la matrice ontologica del dis-corso. Questa scienza che “chiarisce la κοινωνία degli ὄντα”, cioè l’insistere negli enti di elementi opposti, è appunto la “dialettica”. La dialettica è scienza della contraddizione. Heidegger lo dice con grande chiarezza: “la dialettica ha il compito di rendere visibile /sichtbar zu machen/ l’essere dell’ente”5, che significa andare oltre “l’ente nel modo naturale e immediato”, cioè l’ente come unità data (e così “investita” dal linguaggio), per svelarne la “costituzione /Verfassung/”, che appunto non è né unitaria né immediata, ma mediata e duale. La funzione trascendentale della dialettica consiste appunto nel far “apparire” (“rendere visibile”) e dunque dire non aporeticamente l’essere dell’ente in quanto contraddizione.

condo le “determinazioni originarie dell’essere: ὄν, ἕν, ταὐτόν, ἕτερον” (Ivi, p. 528). Per questo la non-contraddittorietà ontica (e quindi semantica) può essere scambiata per non-contraddittorietà ontologica. Al riguardo già nelle lezioni del 1921-‘22 aveva scritto della necessità di una attitudine “critica” come tale “destinata per principio a sciogliere ogni cristallizzazione” (Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, cit., p. 181) ontica e dunque linguistica. 5. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 532.

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La dialettica ‘esprime’ la contraddizione. È “λόγος” della contraddizione. Come dire però la contraddizione? Come è possibile ortologia della contraddizione? Certo è il “compito” più arduo. Non a caso Platone nel Sofista definisce la dialettica come l’“ἐπιστήμη μεγίστη”, la “scienza suprema”. Quella che riesce appunto nell’impresa di dare forma verbale corretta alla contraddizione. Ci sono due passi in cui è detto sì che il “fondamentale” della dialettica è che “gli ὄντα – l’ente – sono afferrati come λεγόμενα, come ciò che si fa incontro nel λόγος”, ma anche che questo aspetto che ci si mostra lo “prendiamo insieme” al suo essere. Come a dire che “gli ὄντα – l’ente – sono afferrati in ciò che in essi c’è già sempre e che si mostra solo nella percezione pura”6. Se in Platone la “percezione pura” come “Idea”7 prende ancora l’essere isolatamente, la dialettica prende invece i due momenti insieme. La dialettica è percezione impura, nel senso di uno “Zusammennehmen” di cose opposte: “la molteplicità dell’ente è ricondotta, συνάγειν, a un’unità, e nel contempo /zugleich/ viene però dissociata in senso contrario, διαίρεσις”8. Non ipostatizza né l’ente, né l’essere. Né ‘positivismo’ ontico, né retorica dell’Essere. La dialettica ha a che fare insieme con l’ente che ci viene incontro, che ci appare come questo ente, ma anche con il suo essere, che non è puntuale come l’ente dato, ma è contraddizione.

6. Ivi, p. 534. 7. Una sorta di “γένος sommo” (Ivi, p. 551), però anche “affatto vuoto”. 8. Ivi, p. 534.

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Così la dialettica è scienza della verità ed anzi scienza nel senso più proprio, quello di “ἐπιστήμη”9. Ma anche “scienza filosofica suprema /höchsten philosophischen Wissenschaft/” perché è “libera”, cioè è “scienza degli uomini liberi” in quanto capaci di non subire né la tirannia dell’ente d’esperienza, né dell’identico essere della metafisica. Il filosofo deve guardare oltre l’esperienza, senza trascendere. Certo in Platone lo sguardo ampio sul plesso essere/ente è ancora oberato dai residui di un “puro vedere /reines Sehen/”, in sostanza quello delle “Idee”; in Aristotele invece c’è sin da subito uno sguardo ben altrimenti dialetticamente esercitato. Quello per cui non ci sono prima i due termini opposti (ad esempio “movimento” e “quiete”) e poi una loro qualche identità, ma identità e differenza non solo sono identici, ma costituiscono ciascuno dei termini: “ταὐτόν e ἕτερον vengono attribuiti sia alla κίνησις che alla στάσις, e pure all’ὄν”10. “Ὄν” che dunque è lo star insieme originario dei diversi, di identità e differenza, di moto e quiete. L’impuro vedere che li tiene insieme è appunto la dialettica. Che poi è anche però dia-lógos, l’impuro “λόγος” che dice la contraddizione. Ma resterà sempre uno scarto fra l’Heidegger interprete e l’Heidegger filosofo. Per quest’ultimo il quadro teorico che va definendosi nel Sofista (e che si è mostrato capace di ricostruire acutamente) appare immancabilmente una “cosa strana /merkwürdig/” (o “curiosa oscurità /merkwürdige Unklarheit/”); dove la dialettica, la coerenza di identità e relazione, non farebbe altro che “documentare la limitatezza intrinseca dell’ontologia greca”11.

9. Ivi, p. 535. 10. Ivi, p. 549. 11. Ivi, p. 552.

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A ragionare non-dialetticamente della dialettica si arriva a questo. Dove ragionare non-dialetticamente significa assumere la “differenza testé evidenziata fra essere e alterità”, salvo poi meravigliarsi (ovvero considerare “curiosa oscurità”) che Platone possa pensare insieme ciò che appunto dovrebbe essere ‘differente’. È il problema su cui insistiamo sin dall’inizio: se si presuppone senz’altro l’essere come uno e puro poi si trova inevitabilmente “curioso” che qualcuno lo pensi insieme al suo altro, se non addirittura al non-essere (visto che “la presenza dello ἕτερον costituisce il non-essere di ogni ente” ovvero significa l’“essere-presente del μὴ ὄν”12). Non-essere che è. E questo per l’ontologia certo che è “curioso”. Alla luce della lezione di Platone e di Aristotele, ad Heidegger non resta che ammettere che la secolare opera di demonizzazione del non-essere, altro non è stata che il risultato della “velatezza /Verborgenheit/” che l’autentica natura (scil. dialettica) del nulla ha subìto proprio “in virtù della tesi di Parmenide” (quella che esclude radicalmente l’essere del non-essere)13. L’ontologia ha per secoli criminalizzato il non-essere. Con la fola, ad esempio, del principio di non contraddizione.

12. Ivi, p. 562. 13. Dove il limite precipuo di Parmenide consisterebbe nella confusione di essere ed ente, nel ritenere cioè che la identità dell’ente determinato costituisca il prologo in terra della identità assoluta dell’essere. Che così sarebbe una sorta di generalizzazione dell’ente. Per dirla con Heidegger: “egli /Parmenide/ identificò il senso ontologico dell’essere con l’insieme complessivo dell’ente”, cioè con “l’ambito concretamente realistico dell’ente in generale” (Ivi, p. 576). Appunto la generalizzazione dell’ente “realistico”.

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Metafisica propriamente è mistificazione (“velatezza”) della contraddizione come verità. La dialettica ha resistito, ma da posizioni minoritarie e soggetta a sua volta a denigrazione (con l’accusa di razionalismo, formalismo, sofistica, ecc.). Quando invece dai grandi classici della filosofia aveva ricevuto uno statuto di “indagine fondamentale /Fundamentalforschung/”; tanto che si parlava di “scienza dialettica”14. E scienza “suprema” nel senso proprio che di ogni “detto”, di ogni determinazione semantica, è in grado di cogliere l’essenza, mostra “quanto di ὄντα e di εἴδη è implicitamente detto in ogni λεγόμενον”15. Afferma ciò che è implicito, oltre la semplice determinazione. Come detto sopra, la dialettica di ogni determinato attesta e conserva la natura indeterminata e ‘determinante’, cioè trascendentale. Una situazione teorica che Heidegger considera anche “la possibile congiunzione16 del λόγος con il μὴ ὄν, la compresen14. Ivi, p. 574. 15. Ibid. 16. Da notare che in verità Heidegger scrive: “muß die Verbindbarkeit des λόγος ecc.”, dunque parla di “congiunzione”, mentre l’aggettivo “possibile” è un’aggiunta del traduttore italiano, non giustificata dall’originale e comunque foriera di equivoci (nel senso che la congiunzione fra non-essere e discorso è originaria, non “possibile”). La situazione si ripete poco sotto dove Heidegger scrive che “überhaupt eine Verbindbarkeit zwischen ὄν und μὴ ὄν besteht” e viene tradotto con “sussista in generale una possibilità di congiungere ὄν e μὴ ὄν” (Ivi, p. 580); ma anche qui “possibilità” è intruso, perché in verità viene detto che la “congiunzione” (e non la “possibilità di congiungere”) vige (“besteht”) da sempre. Poche righe dopo un altro “Verbindbarkeit besteht” e un “es gibt Verbindbarkeit” vengono tradotti con “possibilità di congiungere”. Quando invece, ancora oltre, Heidegger parla effettivamente di “Möglichkeit” della coerenza di non-essere e discorso, è chiaro che la possibilità è quella che si determina a partire dalla contraddizione dell’essere dell’ente, ma non è che la contraddizione come tale sia possibilità. La condizione del-

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za del non-essere in un determinato ente /in einem Seiendem/ che è il λόγος”17. Dunque il “λόγος” è contraddizione e perciò può esprimere non aporeticamente la contraddizione. Il “λόγος” è un ente come un altro, quindi si fonda sulla contraddizione, quindi il suo discorso, che vive della “compresenza” del non essere, è coerente con l’essere che quella “compresenza” è. Cioè con la contraddizione. Beninteso ogni discorso è “λόγος ψευδής”, ma poiché “ψευδής” è l’essere in quanto essere, ergo niente aporia. La regula falsi, cioè la logica della contraddizione, è la logica del tutto. Qui torna a rilevare la differenza con Antistene: se per questi infatti il “λόγος” è mera “identificazione /Identifizierung/” (esaurisce nell’identità il proprio oggetto), per il Platone del Sofista, la determinazione (i.e. “identificazione”) ontica e quindi anche linguistica, presuppone comunque un fondamento di possibilità (“δύναμις”) più articolato (che è “intreccio /Verflechtung/”, “πλέγμα”18, qualcosa che ha “un duplice significato /doppelten Sinn/”). Questa “congiungibilità /Verbindbarkeit/” o “intima interconnessione /innere Zusammenhang/” Heidegger non può non rilevarla nei classici, ma purtuttavia continua a non apprezzarla nella sua valenza ontologica, ma solo in termini per così dire

la possibilità è necessaria. Tanto che quella “possibilità” è specificata come “presenza /Anwesenheit/ des ἕτερον nell’ὄν” (Ivi, p. 582). Ma la presenza della “possibilità” è appunto la sua necessità (e necessità dialettica, dato che presente nell’originario è tanto l’identico quanto l’“ἕτερον”). 17. Ivi, p. 580. 18. Ivi, p. 587.

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‘esistenzialistici’19 o al più “fenomenologici”, come fatto che riguarda l’apparenza, il darsi delle “cose stesse”20, il loro mostrarsi “in senso affatto positivo”. Solo a questo livello superficiale la differenza viene accettata, mai a livello ontologico. Questo tentativo di scarto nel punto di vista, alla ricerca di una differenza che non sia dialettica, non fa che confermare la insormontabile diffidenza dell’ontologo verso la contraddizione.

19. Un cenno all’esistenzialismo nella nota 2. di p. 589. 20. Cfr. ivi p. 591.

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Capitolo settimo Sulla verità del “λόγος”

Certo che, attesa l’identità (dialettica) del fondamento, ogni discorso è dia-logico, quindi presuppone e realizza la differenza, ma come distinguere il discorso vero da quello falso? Quando una sequenza di parole è “autentica” e quando “inautentica”? Abbiamo già visto che l’errore è una possibilità latente, proprio come latente è la possibilità della verità (del giudizio). L’unica verità assoluta è proprio la possibilità come tale (di dire bene o dire male). E questo in quanto la possibilità è per sua natura ‘doppia’, la struttura logico-ontologica del giudizio è apertura tanto alla verità quanto al suo contrario. Verità e falsità sono entrambe veramente tali (lo sono in virtù di un comune fondamento e di un comune riferimento al principio di non-contraddizione). Il falso è veramente falso. In questo senso il falso è possibilità. La possibilità del falso (di dire il falso) è il falso in quanto possibilità (cioè come dato originario, fondamentale). La falsità (ontico-linguistica) risulta dal fatto in sé della determinazione della contraddizione, cioè del falso (la contraddizione, appunto) come fondamento.

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Il falso scisso dal vero è falso. La negazione della contraddizione è il falso. Infatti essendo la determinazione negatio, ogni determinazione della verità, in quanto negatio della verità, è falsità (per questo dicevamo nell’Introduzione che “errore” si dà solo con riferimento all’ente, al determinato proprio perché tale). La verità è falsità-verità, per cui scindendo il falso dal ‘vero’ si dà falsità. Il falso preso isolatamente e il vero preso isolatamente sono il falso (ontico, linguistico, logico). Ma allora dato che anche il (giudizio) vero è determinazione della verità, il vero è falso non meno del falso. L’identità di vero e falso è la loro verità. Ma appunto scissi sono falsi: il vero e il falso (della “proposizione”). Ma se in quanto determinati sono entrambi falsi, come si distinguono il vero dal falso? A questo livello l’unico criterio può essere quello dell’adequatio (del nome alla cosa). Se la cosa convenzionalmente denominata “libro” la chiamo “penna”, senza dubbio incorro in errore1. Ma altrettanto certo è che arbitraria è la convenzione per cui un certo quid viene denominato “penna” piuttosto che “libro”2. Il punto è che arbitraria, cioè falsa è la denominazione di qualsiasi ente, perché in verità arbitraria, cioè falsa, è la determinazione per cui ogni ente è l’ente che è. Prima del nome,

1. “La cosa è oggettivamente falsa” dice Heidegger (Heidegger, Logica, cit., p. 88). 2. Abbiamo già citato il passo delle lezioni del 1925-‘26 in cui Heidegger scrive che secondo Aristotele “quando una proposizione è vera, lo è come qualcosa che può anche essere falso” (Ivi, p. 87); il che significa che sul piano della “proposizione” e dunque del linguaggio, la “verità” è sempre relativa, stabilita per convenzione e dunque con un coefficiente di verità che è pari a quello di falsità.

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falsa è la cosa che il nome nomina3. Poi quando la nomina pure falsamente (penna per libro), allora è doppiamente falsa. Giudizio falso è dunque quello in cui alla falsità dell’ente (che sarebbe tale anche se il giudizio fosse vero) si aggiunge la falsità dell’adequatio del nome alla cosa. Abbiamo detto che questa denominatio è arbitraria (e dunque falsa) per il fatto stesso che la determinazione della contraddizione è come tale falsificante4, ma Heidegger ricorda opportunamente che già per Platone, nel Sofista, “ogni λóγος è necessariamente ποιóς, o così o così”5; a dire che ogni discorso, è determinazione e dunque falsificazione dell’originario6 (oltre a condizione del dire bene o male)

3. Abbiamo già detto all’inizio che la convenzione è in pratica la attribuzione alla cosa determinata di un nome determinato. Ora la legittimità della attribuzione di un “significato unanimemente comprensibile”, per dirla con la Arendt, consiste solo nella sua natura appunto convenzionale, finalizzata a dare intelligibilità e comunicabilità ad ogni ente determinato. Il criterio di verità dell’ente di esperienza può essere dunque soltanto questo: l’arbitraria attribuzione di un significato arbitrario (ma condivisibile) ad un ente arbitrariamente astratto. 4. Abbiamo detto della Arendt, ma già Heidegger considerava il “nominare /Nennen/” come un’operazione reificante, che ha il significato di schiacciare sul presente la struttura fondamentale, tanto che usa il termine “Gegenwärtigungsinn”, reso in italiano con “presentificante”. La mera attribuzione di nome è fatta a discapito della verità, si risolve in un’operazione di “appiattimento /Verfallen/” (Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 599) della struttura ontologica e della cosa ad opera del livellatore per eccellenza e cioè il linguaggio (come “λόγος”). 5. Ivi, p. 605. 6. Del resto Aristotele nel brano del De Interpretatione in cui parla appunto del discorso vero e falso esprime il fondamento della “alternativa” (come la chiama Heidegger) con il verbo “ὑπάρχειν”, che Boezio traduce con “in-esse”, l’essere che è dentro il discorso, al fondo dell’“alternativa”. Secondo noi questo “in-esse” proprio perché aperto a determinarsi come vero o il suo contrario è la contraddizione.

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C’è vero e vero. C’è il vero vero, che è l’essere come contraddizione e poi il vero della “proposizione” (o della “enunciazione” aristotelica, quel modo del discorso che espressamente dice il vero o il falso), che è tale “come qualcosa che può anche essere falso”. Il vero vero è falso (perché è contraddizione, quindi presuppone il non-vero), il vero falso (perché è solo vero, scisso dal falso) può essere falso. Il vero della “proposizione” è relativo e convenzionale. Come riassume con nettezza Heidegger: “la proposizione non è ciò in cui la verità è resa possibile, ma al contrario, la proposizione è possibile solo nella verità, quando si sia scorto il fenomeno che i Greci intesero come verità”7. La “proposizione” è sempre determinazione (i.e. falsificazione) del fenomeno-verità. In questo senso ogni λóγος è ψευδὴς λóγος. Poi può essere retto (altra cosa da vero) nel chiamare le cose col loro nome. Ma è “ψευδὴς” anche quando dice bene. Anche su questo punto Heidegger è chiaro: “la struttura della verità dell’enunciazione è fondamentalmente quella della falsità”8. Il vero logico-discorsivo è sempre un po’ falso (perché appunto come determinazione presuppone l’amputazione della verità come contraddizione). Ma Heidegger nota anche che “la nozione di ‘sostantivo’ è maturata dall’aristotelico ὑποκείμενον: la categoria grammaticale di ‘sostantivo’ riconduce a quella ontologica di ὑποκείμενον”9. Il punto è però: quale è la natura “ontologica” dell’“ὑποκείμενον”? Pare evidente che la natura del “sostrato” alla base del “sostantivo”, cioè dell’ente linguistico determinato, debba essere dialettica. Come dire che in ultima istanza la 7. Heidegger, Logica, cit., p. 90. 8. Ivi, p. 91. 9. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 595.

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natura “ontologica di ὑποκείμενον” consista nella contraddizione10. Del resto credo che così radicalizzato (in termini di “sintesi” come contraddizione) vada inteso il seguente passo di Heidegger: “la sintesi è il fondamento della falsità e della verità”11 (cioè il vero e il falso dell’“enunciato” si fondano sulla “sintesi” di vero/falso, la contraddizione appunto). Dopo di che, si ripete, che un nome sia vero o falso, non dipendendo dalla struttura ontologica (sono entrambi falsi), potrà dipendere solo dalla sua adequatio (stabilita convenzionalmente: il nome-“libro”, riferito alla cosa-libro, è vero) rispetto alle singole cose determinate (cioè, di nuovo, false). Deve rimaner fermo però che la verità-falsità di un nome sta su un altro piano rispetto alla falsità ontologica del nome e della cosa in quanto tali. Altro l’errore, altro la falsità ontologica (che è comune a verità ed errore) che è irrimediabile (in questo senso “la struttura della verità dell’enunciazione è fondamentalmente quella della falsità”, la falsità è dato ontologico). Ma così laddove Heidegger scrive: “l’ingannare, lo ψεῦδος, si fonda, quanto alla sua possibilità, sulla costituzione intenzionale del λέγειν”12, noi obiettiamo: la possibilità dell’errore,

10. Heidegger si limita a dire che quella dell’“ὑποκείμενον” è una “scoperta” di Aristotele strettamente connessa alla natura del movimento; intendendo che il discorso sull’“ὑποκείμενον” va impostato “sul terreno di una nuova fondazione della questione dell’essere a partire dalla κίνησις” (Ibid.). Va detto però che “κίνησις” è fenomeno che può spiegarsi solo su base dialettica, tanto che lo stesso Heidegger aggiunge: “nel movimento si dà qualcosa che permane, che ha στάσις, che ‘c’è’ sempre già sin da principio” (Ibid.). Ma dunque l’“ὑποκείμενον” (cioè il sostrato del “sostantivo” ovvero del linguaggio) si fonda sulla “Frage des Seins” connessa ad una “κίνησις” indistinguibile dalla “στάσις”, ad un movimento che è stasi. Dialettica appunto. 11. Heidegger, Logica, cit., p. 91. 12. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 605.

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esattamente come quella della verità (o certezza del nome e del giudizio), “si fonda” sulla costituzione ontologica dell’essere come contraddizione. Non è solo questione di intenzione (di volontà di dire il falso), di decisione del soggetto, ma primariamente di struttura finita dell’ente e del linguaggio, precondizione di ogni intenzione. Quanto al discorso esso è vero in quanto è “σημαντικός”, cioè quando appunto “fa vedere qualcosa, mostra qualcosa”, cioè traduce in segno ciò che determinatamente si dà. Discorso giusto sulla cosa giusta: “Aristotele direbbe ἀποφαίσθαι”13. Il problema della parola è dunque manifestare esattamente la cosa14; le semplici sequenze di parole (“leone”-“cervo”“cavallo” ecc.) non formano un “λóγος”. Ma questo non può significare dimenticare che nel discorso viene determinato in modo unitario (i.e. semanticamente preciso), cioè viene reso come “ποιός” (i.e. unilateralità)15, qualcosa che però originariamente è complesso, articolato. Ora dato che il discorso consiste nel rendere manifesto “l’ente o il non-ente”, l’uno o l’altro, ecco che evidentemente si tratta della unilateralizzazione della struttura originaria o “primäres

13. Ivi, p. 593. Anche in Essere e tempo cita questo verbo aristotelico specificando che si intende il “discorso (ἀπόφανσις)” propriamente “genuino” (Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 92), cioè che svela correttamente l’ente su cui “si discorre”, discorso adeguato al suo oggetto. 14. Perché il mostrare o “δηλοῦν” è “fenomeno primario all’interno dell’articolazione strutturale del linguaggio” (Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 596) ovvero “il λέγειν è in se stesso un δηλοῦν” (Ivi, p. 599), il problema (della verità) è se manifesta-semantizza esattamente il quid. Sul “λόγος” come “δηλοῦν” ovvero come capacità di “render manifesto ciò di cui nel discorso ‘si discorre’”, cioè la realtà dell’ente, si veda Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 92. 15. “Viene reso visibile il carattere unitario di un ente attualmente presente” (Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 596).

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Phänomen” (ma Heidegger parla anche di “Grundphänomen” e “Grundstruktur”) essere/non-essere16. Il “λέγειν” infatti “è sempre scoprente in questo o in quel modo”17, rende appunto l’ente in modo unilaterale, “o così o così” (Heidegger parla anche di opera di astrazione da parte del pensiero-linguaggio, di “isolamento /Vereinzelung/”18 del nome rispetto alla vera essenza della cosa19; ma già del “nominare” aveva parlato in termini di “appiattimento”). Sopra abbiamo visto, trattando di Antistene, la astrattezza della sua identità o “Identifizierung”, ora si specifica che per il Platone del Sofista la “precisa determinazione /bestimmte Bestimmung/”20 del fondamento, se non vuole appunto scadere nell’astrattezza, sempre deve conservare presso di sé (come possibilità, “potenza”) il suo contrario (l’indeterminato determinante). Senza il valore trascendentale dell’indeterminato, detto anche “sostrato non-tematizzato /unabgehobenen Worüber/”21 o “inesplicito /unexplizit/”22, non può aversi “precisa determinazione” i.e. tematizzazione, né della cosa, né della parola.

16. La buona identificazione è quella che correttamente funge da “determinazione costitutiva dell’essere stesso, che io sono solito chiamare l’essere-nelmondo /in-der-Welt-sein/, l’In-essere /In-sein/” (Ivi, p. 597), cattiva diventa quando la “determinazione” del fondamento reseca il determinato dal nesso fondativo e lo fa vivere come “parola isolata /isolierte/”. L’astrazione è premessa all’errore. Perché poi la “parola isolata” può essere attribuita alla cosa sbagliata. 17. Ivi, p. 604. 18. Ivi, p. 597. 19. Heidegger parla precisamente di “parole isolate /isolierte/, pronunciate meccanicamente” (Ibid.). 20. Ivi, p. 602. 21. Ivi, p. 603. Traduzione mia. 22. Si veda l’Appendice, ivi, p. 649.

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Questo significa che la verità della contraddizione viene tesaurizzata anche quando questa viene negata, cioè sottoposta a “precisa determinazione”. Ora già l’unilateralità è errore (perché negazione della verità come contraddizione – il “Worüber” da tematizzare è infatti la contraddizione), a questa poi si aggiunge la “intenzionalità” contraffattrice del soggetto, che può dire il falso, nel senso di esprimersi “in direzione di un non-scoprire nel senso di un velare, del contraffare”23. Come detto: errore all’ennesima potenza. Per evitare di sbagliare, cioè di “svelare” male, il “λόγος” deve restare fedele alla sua natura più propria, cioè non essere mera sequenza di parole, men che meno in libertà, per farsi invece guidare dalla relazione che originariamente lo costituisce come “λόγος τινός”24, cioè appunto discorso su qualcosa di

23. Ivi, p. 604. Anche in Essere e tempo sosterrà che la verità dei Greci non è adequatio della parola alla cosa, ma appunto lasciar essere l’immediato nella sua pura immediatezza; di conseguenza “l’‘esser falso’, ψεύδεσθαι, vuol dire ingannare nel senso di coprire: mettere qualcosa dinanzi a qualcosa (nel modo di lasciar vedere la prima) e spacciare poi la seconda in quanto qualcosa che essa non è” (Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 93). Per Heidegger il “falso” è un immediato al posto di un altro. Una decisione (“spacciare”) per il falso. Una concezione a-dialettica della cosa (che è semplice immediato) e della verità/falsità ridotti a intenzionalità, volontà, ecc. Metafisico è proprio questo modo di impostare il discorso filosofico. 24. Heidegger in verità ha chiaro che già Aristotele, a torto accusato in sede storico-filosofica di aver fondato l’essere sul “λόγος”, aveva invece posto i termini in una precisa sequenza, dove è l’essere (come “verità”) che determina il discorso: “/Aristotele/ definisce la proposizione servendosi della verità, più esattamente del poter-essere-vero” (Heidegger, Logica, cit., p. 86). Il problema è, come sempre, come si intende l’essere. E a nostro avviso l’essere come “possibilità” di Aristotele è intelligibile solo su base dialettica.

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determinato, elemento questo indispensabile per dare unità al discorrere25 (e per verificarne la ‘verità’ o meno). Per Heidegger dunque linguaggio e ontologia devono andare insieme. Tanto che a suo dire l’“intero impianto categoriale” delle lingue indoeuropee “va ricondotto non solo alla logica, in cui è ancorato, ma alla stessa ontologia greca”26. In questa chiave, che il “λόγος” sia relazione non è una “banalità”, non qualcosa che semplicemente va presupposto, ma appunto verificato nella sua consustanzialità con la natura articolata dell’essere, con la sua “intenzionalità /Intentionalität/”27, come Heidegger scrive citando espressamente Husserl. E “intenzionalità” dell’essere è la sua disponibilità a farsi determinare dal Dasein; il suo venire a farsi interpretare dal soggetto, che a sua volta corrisponde a questa ‘chiamata’ con una contro-intenzionalità ovvero il “λέγειν τί” come il “parlare-suqualcosa”. Il punto è poi “scoprire” correttamente l’ente che ci viene incontro. Corrispondere esattamente a quanto ci viene incontro (e che costituisce il criterio di verità dell’adequatio del nome alla cosa).

25. Anche nella Logica, riprendendo proprio il Sofista di Platone, dirà che per non abbandonarsi a parole in libertà, occorre trovare un centro di imputazione unitaria per la “pluralità delle parole”, capace di ricondurle a “κοινονία”, a senso unitario. Ora questa operazione consiste “nel fatto che il λόγος è λόγος τινός, nel fatto che il discorso è discorso su qualcosa a partire da qualcosa. L’unità si costituisce in base all’argomento stesso del discorso ed è comprensibile a partire di lì” (Ivi, p. 95). 26. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 597. Va detto però che della “ontologia greca” Heidegger aveva denunciato la “intrinseca limitatezza” dovuta proprio al ruolo eminente che in essa svolge la dialettica, cioè la compresenza di essere e non-essere. 27. Ivi, p. 601.

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Gadamer, dopo Husserl e dopo Heidegger, avrebbe parlato di “fusione di orizzonti”, Merleau-Ponty invece di “chiasma”28. Verità logica comunque è corrispondenza di determinazione ontica (questa cosa) e determinazione linguistica (questo nome). Errore è invece la determinazione linguistica che “spaccia qualcosa per ciò che esso non è”29; ma poiché il “qualcosa” è a sua volta determinazione (dell’essere dell’ente), ecco che l’errore è negazione della negazione dell’essere dell’ente30 (parlavamo sopra di errore alla seconda potenza). Ma mentre la prima negazione è ‘buona’ perché frutto dell’autodeterminazione dell’essere, la seconda è ‘cattiva’ perché risultato di una arbitraria decisione del Dasein (tanto che Heidegger parla della “costituzione intenzionale del λέγειν” proprio come ragione dell’errore31).

28. Ne Il visibile e l’invisibile “chiasma” sta per “pensiero in circolo in cui la condizione e il condizionato, la riflessione e l’irriflesso hanno una relazione reciproca” (Merleau-Ponty, op. cit., p. 60); ma anche per “mediazione attraverso il rovesciamento” (Ivi, p. 229), con il soggetto che si media con l’oggetto e viceversa. 29. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 605. 30. Lo è precisamente nel senso che la contraddizione, autodeterminandosi, si nega come contraddizione e dunque si pone come identità: “un ente viene reso visibile nella sua identità con se stesso” (Ivi, p. 606); ora il dire vero è esattamente quello che vede bene, che riproduce fedelmente questa identità: “è un ἀληθεύειν, un restituire l’ente in se stesso”. Altrimenti è falsità, errore; che però più rigorosamente significa far vedere ciò che non è; fare essere il non-essere. Il che sul piano ontico è vietato; è precisamente “occultamento”, “contraffazione”. 31. E anzi Heidegger parla proprio di decisione con riferimento alla determinazione linguistica della cosa: “in ogni λέγειν, in quanto esso è, è sempre già deciso /entschieden/ come esso è dal punto di vista del suo δηλοῦν” (Ivi, p. 605; sul punto vedi anche Heidegger, Logica, cit., p. 95), cioè del mostrare in un modo piuttosto che in altro.

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L’autodeterminazione dell’essere è dialettica (negazione della contraddizione)32, la decisione del Dasein è comunque estrinseca, è scissione, determinazione metafisica. È doxa. Ora il problema di Heidegger è prendere le distanze proprio da quella “logica moderna e contemporanea” che ha reso in termini estrinseci il rapporto fra linguaggio e filosofia. Da una parte riducendo le parole a “suoni verbali” che si connettono nella “sfera psichica”, dall’altra presupponendo “le cose che stanno al di fuori”, salvo poi porsi il problema del rapporto fra interno e esterno, “coscienza” e “realtà”, ecc.33 A questa astratta scissione Heidegger oppone appunto la concezione del “λόγος” come “λόγος τινóς”, cioè non mero fatto ‘logico’, ma riferimento originario, trascendentale, alla cosa. Il discorso sensato non è mai mero flatus vocis, ma sempre “περὶ οὗ”, “intorno a qualcosa”. Solo con questo riferimento, cioè con riferimento alla originaria “κοινωνία di ogni λόγος con l’ὄν”, conclude Heidegger, “le strutture del λόγος tornano a farsi comprensibili” e la loro determinazione nei singoli discorsi valutabile (se vera o falsa). Noi solo non condividiamo certe forme di esistenzializzazione-fenomenologizzazione della verità autentica del rapporto essere-linguaggio (si pensi alla figura della “κοινωνία intenzionale”), ritenendole piuttosto un modo con cui il pensiero anti-dialettico cerca di superare lo scandalo dell’essere come contraddizione (la vera cum-substantia fra ὄν e λόγος)34. 32. Heidegger riconosce correttamente che Platone ha risolto il problema del rapporto fra verità ed errore “in termini puramente dialettici” (Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 605). 33. Ivi, p. 601. 34. Heidegger chiama “κοινωία intenzionale” (Ivi, p. 603), ciò che per noi è κοινωία ontologica ovvero essere come contraddizione (e in effetti più avanti parlerà del dato “ontologicamente latente” come insieme di identità e differenza).

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Condividiamo invece le modalità di esplicazione del λόγος come discorso dell’essere. Modalità per le quali, tramite il λόγος, può esprimersi (salvo errore) la determinazione dell’essere (nell’ente) ovvero la identificazione dell’ente (dell’ente come “Einheitliche”35). L’ente come determinazione dell’essere che è complessità Heidegger la chiama, oltre che “Identifisierung” e “Kristallisations-Kerne”, come già visto, anche “Abgehobene”, cioè “messa in risalto” ovvero “evidenziazione” di un “elemento unitario” rispetto a qualcosa di più generale, che appunto “sta sullo sfondo /Unabgehobene/”36 ovvero funge da “sostrato non tematico /unabgehobenen Worüber/”37 (l’“in-der-Welt-sein” di cui sopra). Il determinato ha per “sostrato” il determinante trascendentale. L’essere determinato come ente è effettivamente autonegazione dell’essere. Questa modalità funziona. Ma funziona se si intende l’essere non genericamente come ciò che sta sullo sfondo e l’ente come ciò che viene in evidenza rispetto allo sfondo opaco, ma l’essere precisamente in quanto contraddizione e l’ente (e il discorso) invece come quella negazione della contraddizione che è appunto la sua determinazione logicodiscorsiva (e perciò incontraddittoria).

35. Ancora oltre è detto esattamente che se l’essere è “κοινωία”, l’ente è invece identità astratta: “ogni alcunché, nel senso più ampio, è se stesso, e in quanto tale è sempre quest’uno, e non altro” (Ivi, p. 605); l’altro rimane sullo sfondo rispetto al determinato che appare come individuo; in questo senso la individuazione, è “l’occultamento, la contraffazione, il rendere visibile occultando” (Ivi, p. 606), nel senso che la contraddizione è “occultata” (resta appunto sullo sfondo, “ontologisch latent” dice correttamente Heidegger) dalla individuazione ontico-linguistica. 36. Ivi, p. 602. 37. Ivi, p. 603.

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L’errore ontico è poi una variante della modalità. La modalità si diceva è il rapporto fra essere ed ente; la variante è il rapporto fra ente ed ente, nella fattispecie quello fra ente linguistico ed ente come oggetto (del discorso). Errore è poi, segnatamente, il cattivo rapporto fra ente ed ente (fra parola e cosa). Ma la verità di ciascun ente è medesimamente errore, secondo quanto si diceva con riferimento allo “ψεῦδος”. Ricapitolando: errore è la finitezza come tale. È il peccato originale. Rispetto all’essere, vero e falso sono entrambi falsi38. È però rispetto all’ente che vero e falso possono essere l’uno vero e l’altro falso, che può esservi cioè la loro “Identifisierung” come vero o falso (“Identifisierung” che comunque è falsificante come tale, rispetto alla verità che la pone). La verifica della verità o falsità ontica avviene poi rispetto ad altro, all’oggetto. Il linguaggio infatti è sempre “un rivolgersi ad alcunché”39 o “parlare-su-qualcosa”; “ogni λέγειν è λέγειν τί”40. Dunque il linguaggio è una forma ontica rivolta ad altra forma ontica, che la determina in questo o quel modo (e quindi rettamente o falsamente). È quanto si dice nel seguente passo della Logica heideggeriana: “questo enunciare determinativo /c.m./ in quanto è pronunciato (la pluralità delle parole come pluralità rapportata e rapportata all’interno di contesti) è esso

38. Vi abbiamo già accennato con l’exergo di Leopardi: “è men vano della menzogna il vero?”; il negativum della “menzogna” appartiene alla struttura trascendentale del “vero”. 39. Ivi, p. 610. 40. Ivi, p. 604.

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stesso qualcosa di semplicemente-presente”41; non solo perché il flatus vocis comunque è un ente (“semplice presenza”), già come fonema, ma anche perché determina cose (è “enunciare determinativo”), già per altro determinate di loro (cioè a loro volta “semplice presenza”). Dunque la parola risulta determinata dal determinato che nomina (i.e. determina)42 e appunto perché ne condivide la morfologia di “semplice presenza”. In questa dialettica ermeneutica di reciproca determinazione si apre lo spazio dell’errore. In tal senso tutti i termini del discorso hanno “la medesima provenienza ontologica /seinsmäßige Herkunft/ e quindi possono essere anche ψευδεῖς”43. Possono: l’errore è possibilità

41. Heidegger, Logica, cit., p. 108. 42. Questo credo sia anche quanto Emanuele Severino intende dire, nell’ambito di un confronto con il pensiero di Massimo Cacciari, laddove trattando del rapporto soggetto-oggetto, fra “noi” e “cose”, scrive: “‘noi’ apparteniamo al contenuto che appare, ossia al fenomeno” (E. Severino, Dialogo con Cacciari, in Inquieto pensare. Scritti in onore di Massimo Cacciari, Brescia, Morcelliana, 2015, p. 15). Soggetto e oggetto sono consustanziali. E non solo. I termini infatti si riferiscono anche, direi ermeneuticamente, l’uno all’altro: “il ‘nostro vedere-osservare’ il fenomeno che altro può essere se non, innanzitutto, un apparire, cioè l’apparire che ha contenuto il fenomeno?” (Ibid.). Dunque il “vedere-osservare” (e anche il dire, il nominare) del soggetto nei riguardi dell’oggetto è speculare all’“apparire” dell’oggetto nei riguardi del soggetto. Il soggetto va verso l’oggetto, l’oggetto va verso il soggetto. Le cose non appaiono “a noi” più di quanto noi appaiamo alle cose. Non c’è un primato del soggetto (il “noi”), questo sì sarebbe soggettivismoformalismo-logicismo. Ermeneutica è l’equilibrato incrociarsi di queste prospettive dell’“apparire”. È quello che assai opportunamente Severino chiama “carattere ‘trascendentale’ dell’apparire” (Ibid.). Che dunque non è “cosa tra le cose”, ma condizione di possibilità di tutte le cose: del soggetto, dell’oggetto, del qualsiasi loro rapporto (ad esempio la relazione linguistica o gnoseologica). 43. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 611.

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dell’ente, che però errore è di necessità (in ragione precisamente della sua “provenienza ontologica”). In questo senso, più propriamente, tutti gli enti devono essere ψευδεῖς. È in quanto l’ente è errore che può essere errato (nell’attribuzione dell’ente-nome all’ente-ente). Solo in ragione dell’errore originario (cioè della contraddizione come verità) può poi esservi l’errore logico-discorsivo, dovuto al fatto che ogni “λέγειν” può agire come “contraffazione, può spacciare qualcosa per qualcosa di diverso da ciò che esso è”44. L’apertura all’errore, l’errore come possibilità, presuppone l’Errore come necessità, come dato ontologico originario. Dipende poi dal tipo di determinazione dell’originario se i parlanti cadono in errore (o comunque dicono la “menzogna”), cioè se “questo λέγειν è un ingannare”. In questo senso deve intendersi la già ricordata affermazione secondo la quale Platone pose il problema dell’errore, del ποιóς/ψεῦδος, “in termini puramente dialettici”45, cioè a partire dal vero come contraddizione (costituendosi la verità “in κοινωνία con ταὐτóν e ἕτερον”) e di conseguenza dal falso come negazione della negazione ovvero determinazione della contraddizione (dove la determinazione è in sé il falso, poi il falso può essere detto bene o falsamente)46.

44. Ivi, p. 604. Nella Logica dirà che errore è attribuire identità a ciò che è contrapposto e “separazione” a “cose presenti insieme” (Heidegger, Logica, cit., p. 111). 45. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 605. 46. Semmai è l’ontologia eleatica a non conoscere l’errore; non lo conosce perché si fonda su “cose semplici”, sugli “ultimi enti” e “il loro essere esclude ogni possibile assenza nella cosa stessa che essi sono e nel loro stesso modo di essere; questi enti non sono mai non presenti così come essi sono. Nessun inganno è possibile” (Heidegger, Logica, cit., p. 123). Una cosa che è senza “assenza”, cioè senza negatività e non-essere, per forza di cose non conosce “inganno”, errore.

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Certo non può dirimersi la questione del vero e del falso se non la si mette in prospettiva; che significa andare “oltre il dato /über das Vorliegende hinaus/”, per cogliere ciò che è “ontologicamente latente /ontologisch latent/”47. Ma ciò che è “ontologicamente latente” è appunto l’essere come contraddizione, che questo è la “possibilità” come insieme “di ταὐτόν e ἔτερον”, identità e differenza (e ragione di ogni determinazione, che poi, si ripete, può essere esatta o sbagliata rispetto all’ente). In questo senso “la possibilità insita nel λόγος stesso di essere ψευδής”48 è ben altro che un errore in cui si incappa, è il destino della verità. È possibile, giunti a questo punto, trarre una conclusione di ordine generale sulla prima filosofia heideggeriana fino ad Essere e tempo compreso: il fallimento del programma dell’opus magnum era inevitabile. Come inevitabile che la seconda parte annunciata non vedesse mai la luce. Non poteva non fallire il tentativo di ripensare l’essere come differenza ma senza la dialettica. Dopo di che l’unico essere senza tempo, cioè senza la per Heidegger incomprensibile funzione della dialettica, restava l’essere dell’ontologia classica. La Kehre fu una necessità.

47. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 607. 48. Ivi, p. 608.

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Indice

Introduzione Fra ontologia e critica

p. 9

Capitolo primo Prologo aristotelico al Sofista

p. 43

Capitolo secondo Da Aristotele a Platone

p. 63

Capitolo terzo Da Platone ad Aristotele

p. 73

Capitolo quarto Il significato di non-essere

p. 85

Capitolo quinto Il “giovane Aristotele” come problema

p. 93

Capitolo sesto “Dialektische Wissenschaft” o della dialettica come scienza della contraddizione

p. 101

Capitolo settimo Sulla verità del “λόγος”

p. 111

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 3 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788898694822

Martin Heidegger nei suoi anni di formazione, che furono anche gli anni di gestazione di Essere e tempo, ebbe un rapporto intenso e decisivo con la grande filosofia greca. I corsi universitari degli anni ‘20, dedicati particolarmente a Platone ed Aristotele, furono momenti di un processo di fondazione della filosofia come “scienza critica”. Secondo Heidegger infatti solo nel “κρίνειν”, nel “differenziare qualcosa da qualcos’altro si rendono visibili entrambi, il differente e la sua differenza”; un approccio che involgeva evidentemente i grandi temi della filosofia: essere ed ente, identità e differenza, positività e critica. Questo libro indaga però il possibile istituirsi di una aporia fra ontologia e dialettica, fra metafisica e critica. Proprio nella grande Zusammenfassung degli anni ‘20 con Platone ed Aristotele, pare infatti definirsi quella tensione fra rigore eleatico e apertura al mondo destinata a restare centrale ed irrisolta nell’arco dell’intera vicenda filosofica, morale e politica di Martin Heidegger. Fabio Vander (Roma, 1958). Laureato in filosofia con Gennaro Sasso e in scienze politiche con Pietro Scoppola, lavora presso il Senato della Repubblica. Fra i suoi libri filosofici: Metafisica della guerra (Milano, 1995); Contraddizione e divenire (Milano, 2005); Critica della filosofia italiana contemporanea (Genova-Milano, 2007); Essere e non-essere (Milano, 2009); Relatività e fondamento. Filosofia di Aristotele (Milano, 2011).

€ 7,00

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