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Italian Pages [96] Year 2010
RICERCHE collana della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia
00
Patricia Villen Meirelles Alves
TRA ARMONIA E CONTRADDIZIONE Dall’ideologia coloniale portoghese alla critica di Amílcar Cabral
I L
P
O
L I G R A F O
INDICE
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Prefazione INTRODUZIONE
19 28 31 36
1. La crisi delle legittimità tradizionali del sistema coloniale e la necessità di un ‘nuovo discorso’ 2. La resistenza in Africa e l’anticolonialismo 3. Panafricanismo: il disegno politico dell’unità africana 4. La lotta armata contro il colonialismo portoghese Parte prima IL MONDO CHE IL COLONIALISMO PORTOGHESE CREÒ I. LA STRUTTURA DELL’OPPRESSIONE RAZZIALE NELLA COLONIA DI SFRUTTAMENTO: IL MODELLO PORTOGHESE
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© Copyright mese 2010 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail [email protected] ISBN 978-88-7115-695-8
45 48
1. Il senso della colonizzazione e la condizione servile dei colonizzati 2. Barriere razziali dell’Impero 3. La questione razziale nell’Antologia Coloniale Portoghese II. LA RICOSTRUZIONE DELL’APPARATO IDEOLOGICO
57 62 65
1. Il ‘nuovo’ discorso coloniale di Adriano Moreira 2. Il principio dell’unità della nazione, l’identità portoghese e l’Oltremare 3. Colonialismo di spazio vitale e colonialismo missionario
III. LA PORTATA CULTURALE
71 80 89 95
1. L’ideologia della ‘convivenza razziale’ e dell’‘inter-penetrazione di culture’: un dialogo con Gilberto Freyre 2. Il sistema dell’assimilazione culturale 3. Il portoghese, l’indigeno: due personalità giuridiche non comunicanti Conclusione Parte seconda IL MONDO CHE L’ANTICOLONIALISMO DI CABRAL INIZIÒ A ‘COSTRUIRE’
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Introduzione IV. L’ANTICOLONIALISMO RIVOLUZIONARIO
113 123 127
1. Contro la tesi della minorità storica del popolo africano 2. Antifascismo, anticolonialismo 3. La riconquista della personalità storica V. CULTURA E LIBERAZIONE
137 145 147 157
1. Cultura, identità e materialità storica 2. La sconfitta del dilemma culturale colonialista: liquidare, assimilare o integrare? 3. Assimilazione dell’élite, emarginazione della cultura popolare 4. Lotta di liberazione: fatto e fattore di cultura
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Conclusione
175
Bibliografia
185
Indice dei nomi
TRA ARMONIA E CONTRADDIZIONE
À Nilda, minha mãe. (in memoriam)
PREFAZIONE
A chi può essere utile, esclusi gli specialisti e gli accademici interessati al tema, approfondire le questioni inerenti l’ideologia coloniale del Portogallo, un Paese che occupa ormai da tre secoli una posizione marginale nel sistema mondiale? A chi può interessare il pensiero politico di Amílcar Cabral, nato dalla realtà lontana e sconosciuta della lotta di liberazione nazionale della GuineaBissau e di Capo Verde? Soprattutto in un Paese come l’Italia, in cui gli studi sul colonialismo sono stati sempre alquanto marginali e in un momento in cui da più parti si sostiene la inattualità del colonialismo? Voglio partire proprio da questi (legittimi) interrogativi per spiegare il senso, l’utilità e l’attualità di questa mia ricerca. Anzitutto parlare di colonialismo significa prendere in considerazione fatti storici interdipendenti (di natura economica, politica, socioculturale) e strutturali al fine di comprendere il costituirsi e l’evolversi di realtà sociali condizionate dalla “situazione coloniale”. Tali realtà comprendono quelle che oggi vengono abitualmente chiamate “periferie”, “terzo mondo”, “paesi in via di sviluppo o sottosviluppati”, “realtà postcoloniali” e che, al di là di queste denominazioni, riguardano un consistente contingente umano che costituisce in realtà la maggior parte della popolazione del globo. Al colonialismo, inoltre, si è accompagnata la progettazione e la definizione di un sistema ideologico funzionale alla sua stessa legittimazione. Come Cfr. G. Balandier, The colonial situation: a theoretical approach (), in I. Wallerstein (ed.), Social Change: the colonial situation, London, Wiley, .
spiega Wallerstein, si tratta di un sistema ideologico e culturale con precisi principi guida – l’universalismo, il razzismo, il sessismo – rappresentativo della logica costitutiva di tale sistema: la distribuzione ineguale e la continua polarizzazione della ricchezza. Anche Edward Said ha indicato la centralità della cultura imperialista come fattore costitutivo dei sistemi di produzione del sapere, strutture mentali e concezioni del mondo, quindi modelli di pratiche messe in atto tanto nella metropoli quanto nelle colonie. E ha dimostrato come il rapporto storico-dialettico di definizione dell’identità occidentale attraverso la negazione degli “Altri” sia essenziale per capire la configurazione dell’egemonia occidentale nel mondo contemporaneo. In secondo luogo credo sia da respingere senza esitazioni la tesi dell’“inattualità” del colonialismo, poiché sono evidenti i suoi riflessi sul nostro presente e, attraverso il presente, il suo condizionamento sul nostro futuro. Non c’è bisogno di citare gli esempi dei Paesi sconvolti dalla guerra, come l’Afghanistan, oppure la ‘miseria’ e la ‘povertà’ dell’Africa, per rendere visibile l’‘attualità’ del colonialismo. Perfino un Paese come l’Argentina, un tempo conosciuto per l’efficacia delle sue politiche sociali e l’indice di alfabetizzazione più alto del continente sud-americano, è stato vittima delle nuove configurazioni dell’‘era globale’. Lavori come quello del regista Pino Solanas, La memoria del saqueo, hanno il merito di rendere visibili i rapporti di potere globale attraverso immagini reali, chiarissime nel mostrare gli sviluppi interno/esterno del processo di bancarotta dell’economia nazionale, ponendo a confronto questo sistema (la complicità e la corruzione dei dirigenti dello Stato) e la “dignità degli ultimi” (de los nadies) – gli stessi strati sociali che con il loro lavoro sostengono l’economia del Paese. Attraverso queste immagini Solanas ci fa capire come “in tempi di pace e di democrazia” la “violenza quotidiana e silenziosa” dell’attuale sistema economico produca più vittime sociali, emigrati, morti di quanti ne produssero, a suo tempo, la dittatura e la guerra delle Malvinas – il che è sconvolgente!
Ma l’‘attualità’ del colonialismo è del tutto evidente anche nelle attuali metropoli con la ‘problematica’ presenza degli immigrati, in particolare di quelli – la parte più significativa del fenomeno – che sono vittime dei rapporti di diseguaglianza globale. Il problema del contatto tra ‘civiltà’ che – come ricorda il sociologo Balandier – è innanzitutto il problema dell’incontro tra colonizzatori e colonizzati nella “situazione coloniale”, nella ‘situazione neo-coloniale’ si è trasferito geograficamente alle realtà sociali delle metropoli. Il pensiero di Stato raffigura questo ‘nuovo contatto’ come un processo di “immigrazione subita”, a cui gli Stati europei stanno facendo fronte con politiche di carattere prevalentemente restrittivo, discriminatorio e di esclusione degli immigrati. Gli evidenti limiti dei ‘modelli di integrazione’ e, soprattuto, di valorizzazione delle differenze culturali, finiscono per riprodurre il principio di separazione culturale, che è stato fondamento della vecchia situazione
Cfr. I. Wallerstein, Culture as the ideological battleground of the modern worldsystem, in D. Brydon (ed.), Postcolonialism: Critical concepts in literary and cultural studies, vol. V, London-New York, Routledge, ; I. Wallerstein, European Universalism: the rethoric of power, New York, The New Press, .
L’espressione vittime fa riferimento alla principale causa delle migrazioni: i rapporti di forza tra Paesi che stanno alla base del fenomeno migratorio. Ciò non implica tuttavia una visione degli immigrati soltanto come vittime; essi sono, invece, soggetti attivi, che reagiscono e trasformano la realtà in cui vivono (cfr. P. Basso, F. Perocco (a cura di), Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, Milano, Franco Angeli, ). Cfr. A.H. Richmond, Global Apartheid: Refugees, Racism and the New World Order, Toronto, Oxford University Press, . Questa espressione è del premier francese Sarkozy e serve ad illustrare come le differenze ‘culturali’ e ‘religiose’ degli immigrati vengano spesso messe a confronto con la necessità di ‘coesione comunitaria’ e di difesa dell’omogeneità dell’identità nazionale – nel caso francese il modello universalista repubblicano, ostile al riconoscimento delle ‘differenze’. Le polemiche dei quartiers sensibles in Francia, dell’idea di leitkultur in Germania, degli attachi al multiculturalismo in Inghilterra e infine quella dell’“integrazione ragionevole” in Italia sono esempi che rendono visibile tale confronto nel modo di gestire l’alterità culturale (cfr. E.O. Atikcan, Citizenship or Denizenship: the Treatment of Third Country Nationals in European Union, “Sussex European Institute Working paper”, n. , ; N. Bancel, P. Blanchard (eds.), De l’indigène à l’immigré, Paris, Gallimard, ; D. Costantini (a cura di), Multiculturalismo alla francese. Dalla colonizzazione all’immigrazione, Firenze, Firenze University Press, ; K.N. Ha, Integration as Colonial Pedagogy of Postcolonial Immigrants and People of Color – A Germany Study, in E. Rodriguez, M. Boatca, S. Costa (eds.), Decolonizing European Sociology. Transdisciplinary Approaches, Farnham, Ashgate, ; S. Tomlinson, Race and Education. Policy and Politics in Britain, New York, David Gladstone, ; Basso, Perocco (a cura di), Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, cit.; G. Campani, Genere, etnia e classe: migrazioni al femminile, tra esclusione e identità, Pisa, ETS, .
coloniale. Questo quadro di separazione culturale non “facilita la mutua comprensione e l’apprezzamento reciproco” di popoli e culture, ma piuttosto “rende possibili (e incoraggia) stereotipi” che allontanano e oppongono tra loro popoli e culture. Il fenomeno immigratorio è diventato quindi la realtà viva che, oltre a rendere più visibili le contraddizioni del sistema globale all’interno delle metropoli, rivela la necessità di studiare a fondo e ricostruire in tutti i loro tratti caratteristici le strutture economico-culturali del colonialismo e, con esse, le risposte e le alternative che provengono dai processi sociali di resistenza a questo sistema. In un tale studio è essenziale mettere a fuoco il momento cruciale di svolta della decolonizzazione, costituito dal secondo dopoguerra. È questo il periodo che ci fa vedere “l’urgenza e l’importanza del problema coloniale nella sua totalità”. L’avvio delle lotte di liberazione nazionali e il concomitante sviluppo del pensiero anticoloniale sono i fattori storici che hanno affermato su scala internazionale la necessità di una presa di coscienza dei rapporti di potere attraverso cui il colonialismo europeo per primo ha condizionato l’evoluzione storica delle società sottomesse alla dominazione.
A questa presa di coscienza si è accompagnata, come suo fattore e prodotto, una vera e profonda crisi di legittimità dei sistemi coloniali e del ‘colonialismo internazionale’, in cui si inserisce la questione coloniale portoghese. La condanna internazionale del colonialismo, il rifiuto del destino di sottomissione coloniale, la concomitante affermazione del concetto di autodeterminazione e della dimensione internazionale dei processi di liberazione delle popolazioni colonizzate, ecco ciò di cui l’ideologia panafricanista, il contesto di resistenza in Africa e nelle colonie africane portoghesi sono espressione. La prima parte del volume – Il mondo che il colonialismo portoghese creò – richiama l’attenzione sulla necessità di comprendere il nucleo primario del colonialismo portoghese, ossia la struttura materiale della colonia di sfruttamento e il rapporto oggettivamente ineguale tra le razze che la costituiscono. Questo è il punto di partenza obbligato per una migliore comprensione della strategia ideologica coloniale, finalizzata alla costruzione di una ‘nuova’ esteriorità imperiale, costitutiva del ‘nuovo’ discorso coloniale portoghese. A tal fine si analizzerà il pensiero di Adriano Moreira, politico, teorico ed esponente principale, insieme a Marcello Caetano, della cultura ufficiale del regime di Salazar. Il suo discorso coloniale chiarisce il percorso ideologico del colonialismo portoghese volto alla realizzazione della convivenza tra la teoria della assimilazione e quella del lusotropicalismo come strategie di legittimazione del dominio coloniale. Armelle Enders utilizza appositamente l’espressione “teoria di esportazione” per riferirsi al processo di propagazione dell’ideologia lusotropicale, nata in Brasile negli anni Trenta con l’antropologia di Gilberto Freyre. Attraverso questa ideologia l’identità culturale
In contrapposizione a questa logica di separazione, bisogna riferirsi anche all’aspetto pratico dell’interscambio di culture e di valori – l’interculturalità – parte intrinseca delle dinamiche sociali nei contesti caratterizzati dall’immigrazione, in cui tra gli attori sociali stessi (nazionali-immigrati) si sviluppano pratiche spontanee di mutuo scambio, solidarietà e arricchimento reciproco, che producono in ogni ambito trasformazioni sociali. In questo senso, come sottolinea il sociologo Daniel G. Martinez, la logica del meticciato è costitutiva dell’uomo come individuo e della cultura di cui fa parte, intesa nel suo senso più ampio di produzione collettiva e plurale. Cfr. G. Campani, Z. Lapov, Dinamiche identitarie: multilinguismo ed educazione interculturale, Torino, L’Harmattan, ; D.G. Martinez, El Espíritu del tiempo: del mundo diverso al mestizaje, in D.G. Martinez (ed.), Multiculturalismo. Desafíos e perspectivas, Cidade do Mexico, El Colegio del Mexico, . Balandier, The colonial situation: a theoretical approach (), cit., p. . Cfr. J. Feffer (ed.), Living hope. People challeging globalization, London, Zed Books, . In questo volume troviamo un panorama di iniziative, riflessioni, autoorganizzazione dei movimenti sociali del Sud del mondo, volti a dare strumenti alla società civile per comprendere il processo di globalizzazione. Il libro dimostra come questi forum di discussione della globalizzazione raggiungano risultati pratici per modellare le politiche pubbliche e cambiare le istituzioni. Balandier, The colonial situation: a theoretical approach (), cit., p. .
Questa espressione sintetizza l’immaginario armonico della lusotropicalogia, la teoria elaborata dal sociologo brasiliano Freyre per descrivere il quadro delle relazioni etnico-razziali che derivano dal processo del meticciato nella società brasiliana. Cfr. G. Freyre, O mundo que o português criou: aspectos das relações sociais e de cultura do Brasil com Portugual e as colônias portuguesas, Rio de Janeiro, José Olympio, . A. Enders, Le lusotropicalisme, théorie d’exportation. Gilberto Freyre en son pays, “Lusotopie”, .
brasiliana è diventata la “sintesi della civilizzazione lusotropicale di espansione universale” e, attraverso la sua esportazione, è stata anche la principale bandiera innalzata dal governo portoghese a difesa, e a legittimazione, del colonialismo contemporaneo in Africa e in Asia. Da allora si è aperto un ampio campo di ricerca volto a cogliere gli sdoppiamenti della base ideologica principale dell’“inter-penetrazione” di razze e di culture proprio del lusotropicalismo, in cui si possono identificare gli intrecci fra i tre continenti negli “spazi lusofoni”, rilevanti per capire la situazione attuale di queste realtà e per cogliere la continuità ideologica imperialista dell’immaginario lusotropicale armonico, attivo ancora oggi all’interno delle argomentazioni neocolonialiste.
La tematica dell’ideologia lusotropicale, trasformata dal discorso coloniale portoghese in una cultura che giustifica ogni forma di imperialismo, richiama lo studio comparativo delle modalità della sua attuazione nelle realtà lusofone. Ciò concerne le politiche estere di questi Paesi, le discussioni dei progetti comunitari e la divulgazione dell’idea di lusofonia. Cfr. Lusotropicalisme. Idéologies coloniales et identités nationales dans les mondes lusophones, “Lusotopie”, . La ‘tolleranza’ propria al ‘mondo che il portoghese ha creato’ sta alla radice del pensare il razzismo, l’anti-razzismo e le problematiche identitarie nelle realtà lusofone. L’esempio della discussione sulle quote razziali in Brasile – frutto delle lotte e delle rivendicazioni identitarie dei movimenti neri afro-brasiliani – è efficace per dimostrare tale questione. L’ideale ‘armonico’ della nazione meticcia è l’epicentro delle critiche alla politica delle quote razziali nelle università pubbliche, tuttora in vigore in Brasile. Questo ideale si contrappone alla realtà brasiliana, che è invece fortemente segnata dalla presenza del passato schiavista di discriminazione del nero e in cui i dati oggettivi ne comprovano la palese esclusione dall’accesso all’educazione, ai lavori qualificati, al potere politico (nonostante rappresentino circa il % della popolazione). Questi dati richiamano la legittimità di politiche pubbliche volte a trasformare le disuguaglianze di opportunità di cui sono vittime i neri. “Vogliamo dividere il Brasile”, questa è la frase utilizzata da “Veja”, una delle riviste di maggior diffusione in Brasile, per presentare il recente libro del sociologo Demétrio Magnoli, Uma gota de sangue. Historia do pensamento racial, il quale respinge le politiche delle quote in funzione del loro potenziale risveglio del “razzismo” e dell’“indentità di razza”, quindi anche delle stragi che la “razza”, in quanto categoria di pensiero, ha già prodotto nella storia (cfr. “Veja”, settembre ). L’intolleranza razziale e le problematiche identitarie si ritrovano oggi anche all’interno del Portogallo in relazione a ciò che concerne gli immigrati, anche quelli che condividono un ‘passato comune’ (cfr. N.M.M. Gusmão, Luso-africanos em Portugal: portugueses ou imigrantes?, in H.D. Heidemann, Simpósio Internacional. Migração: nação, lugar e dinâmicas territoriais, São Paulo, Associação Editorial Humanitas, ).
La seconda parte del volume presenta invece Il mondo che l’anticolonialismo di Cabral iniziò a costruire, in cui il quadro ideologico coloniale portoghese viene del tutto rovesciato. A differenza dell’immaginario armonico di Freyre, questo “mondo” costituisce la dimensione cosciente dell’identità culturale derivata dalla lotta di liberazione nazionale ed esprime il processo politico rivoluzionario collegato alla realizzazione (dal basso) di un progetto di società libero dai condizionamenti materiali e culturali imposti per secoli dal sistema coloniale portoghese. A presentare questo mondo è la voce, ancora poco conosciuta, del colonizzato Amílcar Cabral, poeta, agronomo, pedagogo politico-culturale, capo e teorico della lotta di liberazione nazionale in Guinea-Bissau e a Capo Verde. Come ha sottolineato lo storico Basil Davidson, la teoria di Cabral è sinonimo di un “marxismo vivo”, che si adatta criticamente, in modo dialettico alla realtà coloniale che intende trasformare. Attraverso una lettura puntuale del suo pensiero politico e l’utilizzo del metodo di lettura comparatistico e contrappuntistico raccomandato da Edward Said si è voluto dimostrare come Cabral rifiuti la retorica (da lui definita criminale) dell’apparato ideologico coloniale portoghese e in contrapposizione ad essa offra un’analisi scientifica delle realtà delle colonie portoghesi nel secondo dopoguerra. In questo modo egli dimostra anche come la dominazione coloniale rappresenti la negazione del diritto di un popolo a possedere la propria storia. E proprio per questo motivo la riconquista della personalità storica da parte dei popoli colonizzati viene da lui considerata come un processo simultaneo di resistenza economica, politica, culturale e armata. All’epicentro ideologico coloniale dell’incapacità politico-culturale degli africani, Cabral contrappone e ripropone la dimensione trasformatrice della politica e della cultura come il suo proprio antidoto. La capacità di produrre gli strumenti necessari per agire efficacemente sui rapporti di dipendenza della realtà coloniale è ciò che, a suo avviso, fa delle lotte di liberazione nazionale il fatto e il fattore culturale di maggior importanza del secondo dopoguerra. Si è voluto dimostrare, inoltre, come e perché per Cabral la determinante culturale sia considerata la principale arma di reazione agli estesi condizionamenti materiali di oppressione del sistema coloniale. Gli attori sociali sono al centro della sua teoria
come principale forza e condizione di possibilità della negazione e del superamento del destino coloniale. Dalla centralità che i fatti culturali e la concezione dinamica della cultura occupano nella sua teoria, deriva l’interpretazione di Cabral quale pensatore dialettico per eccellenza, l’attualità e l’ampio respiro del suo pensiero che respinge ogni forma di determinismo e meccanicismo. L“urgenza” e l’“importanza” a cui si riferiva Balandier si ripropongono più che mai nell’attuale contesto della globalizzazione. Lo scopo di questo volume è proprio quello di invitare il lettore a cogliere – tanto nella specificità delle vicende coloniali portoghesi in Africa, quanto nella critica del “primo post-colonialismo” incarnata nella figura di Cabral – il senso dell’“attualità” del colonialismo e dell’anticolonialismo e quello della loro “totalità”. Nella speranza, naturalmente, che nel confronto-scontro tra questi due “punti di vista” sullo stesso fenomeno sociale prevalga quello più veritiero, che richiama la necessaria solidarietà tra i popoli.
Il quarto capitolo enuclea le caratteristiche della principale base teorica di legittimazione del discorso coloniale portoghese, ovvero l’uso della categoria culturale come mera variante del mito biologico della superiorità razziale. Con la presentazione e l’analisi della Lei do Indigenato si è voluto dimostrare come la cultura divenga il principio di separazione tra coloni e colonizzati, e dunque anche il discrimine tra i diritti riguardanti la condizione di “indigeno” e quelli del “civilizzato”. La seconda parte di questo lavoro presenta il pensiero di Amílcar Cabral, partendo dalla sua biografia. Si è cercato di ricostruire la sua particolare risposta alla dominazione coloniale, all’imperialismo che egli considera un fenomeno allo stesso tempo, e inscindibilmente, economico e culturale. A questo proposito si è presa in considerazione l’analisi scientifica da lui compiuta della realtà sociale delle colonie portoghesi e si è cercato di riassumere la distinzione che egli opera fra lotta antifascista e lotta anticoloniale. Nell’ultimo capitolo si è voluto evidenziare quanto Cabral sostenga circa l’importanza della determinante culturale nella lotta di liberazione nazionale e cosa intenda per cultura e identità culturale. Infine trattare le sue argomentazioni riguardo l’azione della cultura imperialista sull’identità culturale dei colonizzati; far luce sul doppio ruolo che la cultura ha sia come principale fattore di resistenza al colonialismo che di promozione dell’emancipazione nazionale, all’interno di una concezione dell’indipendenza politica intesa come liberazione nella sua accezione più ampia.
*** Nel primo capitolo si propone una lettura degli studi di Caio Prado Júnior e Charles R. Boxer, fondamentali storici del colonialismo portoghese, per analizzare il quadro delle relazioni razziali presenti all’interno dell’impero coloniale portoghese e il loro collegamento diretto con il modello della colonia di sfruttamento avente come base il lavoro schiavista. In seguito si è presa in esame la questione razziale così come è trattata nella Antologia Colonial Portuguesa, opera che fa luce sui principi e sulle pratiche politiche coloniali del Portogallo dalla fine del XIX secolo fino agli anni Trenta. Nel secondo e nel terzo capitolo si prende in considerazione il pensiero di Adriano Moreira per evidenziare il legame così come delineato nel suo discorso coloniale tra il Portogallo e le colonie africane attraverso il principio costituzionale dell’unità della nazione e l’identità portoghese. Si prende in considerazione, poi, la contrapposizione che egli propone tra il colonialismo missionario (a suo avviso benefico) e la natura nociva del colonialismo di spazio vitale.
Lo sviluppo di questa ricerca è frutto del processo della mia formazione accademica a São Paulo, Parigi e Venezia. Il supporto e l’esperienza acquisiti nell’Università Ca’ Foscari di Venezia, in particolare durante il Master sull’Immigrazione - Fenomeni migratori e trasformazioni sociali, sono stati di fondamentale importanza. Un ringraziamento particolare va al prof. Pietro Basso per la cura con cui mi ha seguito in questo lavoro – i suoi consigli e le sue critiche sono stati indispensabili durante la preparazione del testo. Ringrazio Dino Costantini, i cui insegnamenti mi hanno aperto la strada alla curiosità e allo studio della questione coloniale. Desidero anche ringraziare i prof. Giovanna Campani, Fabio Perocco, Lincoln Secco e Ricardo Antunes. La mia gratitudine per la pazienza e la cura della correzione dell’italiano va alla mia amica, Cristina Costanzo, Piera Talin e Massimo Guglielmi. Desidero esprimere la mia riconoscenza personale a mio papà Edimo, a mio fratello Tiago, alla mia famiglia, agli amici, per l’affetto prezioso e l’appoggio continui; a Jutta Wohllaib, per la sensibilità della sua presenza, quando per me era molto importante essere incoraggiata; a mia mamma Nilda, che è presente, da sempre e in tutto. È interamente a lei che dedico questo lavoro.
INTRODUZIONE*
Those who formulate the colonial issue in accordance with the false point of view of colonial powers, who are deluded by the futile promises of ‘preparing’ colonial peoples for ‘self-government’, who feel that their imperialist oppressors are ‘rational’ and ‘moral’ and will relinquish their ‘possessions’ if only confronted with the truth of the injustice of colonialism are tragically mistaken. Imperialism knows no law beyond its own interests. Nwame Nkrumah, Revolutionary Path
. La crisi delle legittimità tradizionali del sistema coloniale e la necessità di un ‘nuovo discorso’ Il proposito di integrare il principio dell’uguaglianza delle razze occupa prioritariamente il programma del discorso coloniale portoghese del secondo dopoguerra. La propaganda della politica di eguaglianza razziale promossa dall’Estado Novo in questo periodo fa sì che il Portogallo appaia come una nazione antirazzista per eccellenza e come la metropoli coloniale che avrebbe più da insegnare alle altre potenze coloniali sulla convivenza interrazziale. Ma, senza alcun dubbio, prima ancora di parlare di un’originalità del discorso coloniale di questo periodo, rispetto alle precedenti basi ideologiche, possiamo affermare che, in realtà, sono le caratteristiche storiche del secondo dopoguerra che penetrano e strutturano il suo discorso. Stiamo parlando del passaggio dal “periodo d’oro” del sistema coloniale portoghese con la nascita dell’Estado Novo negli anni Trenta marcato da un forte movimento di propaganda dei valori coloniali, che si riflette, per esempio, nella promozione dell’esposizione coloniale di Porto (), ad un periodo di crisi del sistema coloniale. * Le traduzioni dal portoghese delle opere di Amílcar Cabral, Adriano Moreira e degli altri autori presenti in questo volume sono a cura della curatrice. L’esposizione coloniale di Porto segue la spinta delle iniziative delle due maggiori potenze coloniali all’epoca, l’Inghilterra e la Francia, di riprodurre l’Impero coloniale
Questa crisi, che caratterizza significativamente la seconda metà del secolo XX, colpisce anche le altre potenze europee. Dopo la prima guerra mondiale, dalla sovranità piena dei territori coloniali degli Stati Nazione, si passò ad una nuova fase storica caratterizzata dall’internazionalizzazione dell’amministrazione coloniale. Il nuovo sistema di mandati creato in questo periodo significò un primo passo per l’avvio di questo cambiamento. Attraverso questo sistema, dopo la prima guerra, i territori delle potenze vinte passarono ad essere governati da un nuovo organismo deliberativo, la Società delle Nazioni, primo embrione della formazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Da questo momento in poi, le potenze europee si vedono obbligate a realizzare una serie di modifiche ‘formali’ nella struttura dei loro Stati sotto dominio per continuare ad avere la legittimazione dei sistemi coloniali. Come spiega lo storico Lincoln Secco, il contesto del secondo dopoguerra portò un cambiamento significativo nella produzione intellettuale portoghese riguardo al suo rapporto con la questione coloniale. Nel uscì il francobollo del Congresso Internazionale dell’Istituto Coloniale e, nell’anno successivo, quello dell’Esposizione Coloniale. Nel uscì, in Guinea Bissau e in Mozambico, un francobollo con il lemma: “Impero Coloniale Portoghese” (Catálogo..., ). L’élite dirigente portoghese non era imbarazzata per quell’espressione coloniale. La situazione cambiò dopo la Seconda Guerra mondiale. Il termine nella propria metropoli e affermare, così, la cultura imperiale della “grandezza nazionale”. La prima realizzò l’Esposizione dell’Impero Britannico nel parco Wembley, a Londra (), e la seconda organizzò la grandiosa Exposition Internacionale Coloniale nel Bois de Vincennes, a Parigi (). Cfr. N. Bancel, P. Blanchard, G. Boetsch, E. Deroo, S. Lemair, Zoos humains. De la Vénus hottentote aux reality shows, Paris, La Découvert, . “La crisi del colonialismo formale iniziata come già si è detto negli anni Trenta doveva farsi più acuta dopo la seconda guerra mondiale. Le potenze coloniali pronte a riconoscere l’inevitabilità della risoluzione delle lotte nazionalistiche di un Paese come l’India, non consideravano la maggioranza degli altri territori “maturi” per l’indipendenza. Nel secondo dopoguerra le principali potenze coloniali tentarono in primis non già di decolonizzare, ma di ricomporre e ricostituire i sistemi coloniali al fine di ristrutturare l’economia di esportazione perché contribuisse alla ricostruzione europea, salvaguardare i mercati monopolistici dalla competizione delle multinazionali” (A.M. Gentili, in N. Bobbio, N. Matteuci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di Politica, Torino, UTET, , p. ).
assunse un connotato peggiorativo e transitò dalla parola dei colonizzatori a quella dei colonizzati (in forma di denuncia). Questo fenomeno si fece presente anche nella produzione intellettuale e nella storiografia che smise, o provò a smettere, di essere eurocentrica.
Per capire meglio i condizionamenti esterni con i quali il Portogallo era costretto a misurarsi per mantenere le sue colonie in Africa, possiamo guardare prima di tutto all’interno del contesto europeo. Prendendo in considerazione il conflitto ideologico suscitato dal regime post-nazista, si proclama l’assoluta uguaglianza di tutte le razze. Con la creazione delle organizzazioni internazionali, in particolare l’Organizzazione delle Nazione Unite (ONU), e con l’approvazione, avvenuta il dicembre del , della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, si comincia a discutere sul piano giuridico internazionale del diritto all’autodeterminazione e ad un governo indipendente dei popoli sul dominio coloniale. Con questa nuova situazione internazionale – caratterizzata dalla diffusione degli ideali di antirazzismo, tutela dell’uomo, cooperazione e solidarietà internazionale – la legittimità del colonialismo viene messa apertamente in discussione. A ciò si aggiunge la fragilità che l’impero coloniale europeo viveva in questo momento storico. Come spiega Raymond F. Betts, la crisi dei sistemi coloniali europei si collegava più che altro all’ascesa dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti ad un ruolo determinante nella politica mondiale. Questa situazione in cui si trovavano le potenze europee faceva sì che il mantenimento dei territori d’oltremare trovasse un sostegno nell’atteggiamento “ambiguo” che assumeva la potenza americana per l’affermazione di influenze e di controllo nel mondo post-bellico. “L’ideologia anticomunista americana di sostegno militare alle nazione amiche” fa sì che gli Stati Uniti in quell’epoca esercitassero il ruolo “di una sorta di capriccioso arbitro coloniale”, ora con l’appoggio finanziario e di armamenti ai regimi coloniali europei – come accadde L. Secco, A Revolução dos Cravos e a crise do império colonial português. Economia, espaços e tomadas de consciências, São Paulo, Alameda, , p. . R.F. Betts, La decolonizzazione, Bologna, Il Mulino, , p. . Ivi, p. .
chiaramente nel caso portoghese –, ora di condanna al sistema coloniale attraverso la difesa dell’internazionalizzazione dei territori su dominio coloniale e l’avvio di condizioni per la successiva indipendenza e l’autodeterminazione di queste colonie.
loniale portoghese è parte integrale dell’Estado di Salazar e deve essere considerata in rapporto alle rivoluzioni nazional-fasciste del XX secolo” – va anche detto che il Portogallo si trova inserito all’interno di un contesto più vasto di sistemi coloniali, dove gli interessi coloniali attenuavano (per quanto riguarda le politiche applicate nelle colonie e la propria ideologia coloniale) la differenza tra gli Stati fascisti e quelli democratici. “Non facciamoci illusioni” è l’invito di Amílcar Cabral – nella prefazione al libro di Basil Davidson sullo sviluppo del movimento di liberazione nella Guinea Bissau – per affrontare la situazione della lotta contro il potere coloniale portoghese.
I timori della leadership americana verso l’espansionismo sovietico accentuarono l’atteggiamento anticomunista della politica estera statunitense, s’iniziò a comprendere il valore dell’impero britannico come baluardo contro il comunismo. Ben presto con la guerra di Corea (), il ruolo francese in Indocina avrebbe avuto analoga rivalutazione. Da entrambi gli esempi emergono l’ambiguità e l’incoerenza della politica estera americana: anticoloniale là dove la Russia non appariva come una minaccia, e favorevole alle posizioni britanniche e francesi là dove la loro presenza coloniale poteva essere arruolata contro l’invasione comunista. Il lungo coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam è una tragica prova di questa ambivalenza.
Pertanto, quando parliamo di un qualsiasi aspetto del colonialismo portoghese nel secondo dopoguerra, incluso l’apparato ideologico funzionale al suo sostenimento, dobbiamo prendere in considerazione i condizionamenti del contesto internazionale in questione e, soprattutto, rendere conto del fatto che il colonialismo portoghese non si reggeva da solo. È importante considerare che la posizione periferica che da secoli era occupata dall’impero coloniale portoghese nel mercato mondiale faceva sì che il Portogallo avesse una posizione di “sottomissione coloniale” ovvero, come scrive Lincoln Secco, che si trattasse di un impero “ossimoro, ossia che il Paese si alimentava delle basi coloniali affinché altri beneficiassero della sua condizione di metropoli. Fatto che si evidenziò con l’importanza sempre maggiore del capitale straniero nelle colonie africane negli anni Sessanta”. Per questo – anche se come sottolinea Von Albertini, “l’odierna politica co
Non facciamoci illusioni. Tutti sanno che il Portogallo non fabbrica aeroplani, neanche come giocattoli per bambini. L’aggressione portoghese contro il nostro popolo coinvolge anche gli alleati del Portogallo, compresi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Ed ecco un altro vantaggio della nostra lotta: ci insegna a riconoscere amici e nemici del nostro popolo, dell’Africa.
Le condizioni fasciste nelle colonie portoghesi insieme a quelle dovute alla situazione coloniale – di saccheggio e sfruttamento della popolazione locale – fanno sì che il Portogallo diventi il bersaglio di accuse e di ambizione territoriale da parte di queste stesse potenze. Per questo motivo, il regime portoghese si vede obbligato a cambiare la sua propaganda coloniale nel senso di rafforzare la retorica della tolleranza razziale e presentarsi davanti alle Nazioni Unite come una nazione unitaria e plurirazziale, che coinvolgeva organicamente i territori e le popolazione d’oltremare. Innanzitutto, quello che è necessario chiarire per ora è che questa situazione di declino delle potenze coloniali viene accompagnata da un cambiamento delle legittimazione tradizionali dei sistemi coloniali. Si tratta, come afferma Raymond F. Betts, di “sforzi teorici e pratici degli europei per dare nuova forma al predominio
La principale fonte d’armamento dell’esercito coloniale portoghese è stata la
NATO, come comprova l’opinione di diversi studiosi della crisi dell’impero portoghese
del secondo dopoguerra. Betts, La decolonizzazione, cit., p. . Secco, A Revolução dos Cravos e a crise do império colonial português. Economia, espaços e tomadas de consciências, cit., p. .
R. Von Albertini, La decolonizzazione. Il dibattito sull’amministrazione e l’avvenire delle colonie tra il e il , Torino, SEI, , p. . B. Davidson, La liberazione della Guinea. Aspetti di una rivoluzione africana, Torino, Einaudi, , p. .
europeo e arginare la decolonizzazione”. Come sottolinea Dino Costantini, il caso francese dimostra bene la necessità di attribuire una nuova giustificazione ideologica al colonialismo contemporaneo. Secondo lo studioso, la “nuova dottrina ufficiale francese” rivela uno sforzo netto di “epurazione” delle sue basi teoriche del social-evoluzionismo e di costruzione ideologica indirizzata a proporre un’equivalenza tra “colonisation e civilisation”. Gli ambienti coloniali francesi percepiscono questa necessità di cambiamento delle strategie ideologiche coloniali, presentando la specificità della colonizzazione contemporanea nel loro “distinguersi dall’invasione e dalla conquista” e nel loro presentarsi come una “colonizzazione cosciente”, come un “atto di volontà e di ragione”. Il risveglio e l’affermazione della tradizionale vocazione alla mission civilisatrice di trasmissione dei valori universali repubblicani (incarnati nella cultura francese) è, in questo caso, la formula ideologica che più contribuisce alla difesa del “buon diritto” della colonizzazione.
cese di quest’epoca, nella sua impresa di moralizzazione dell’ouvre coloniale. Questa equazione aveva come scopo eliminare il carattere illimitato e arbitrario della natura del potere coloniale tradizionale per trasformarlo, nella contemporaneità, in potere tutelare, ossia un potere-dovere, attraverso lo sfondo dell’analogia giuridica tra potere paterno e potere coloniale.
La colonisation in quanto strumento della civilisation du monde si presenta dunque, per definizione, come lo strumento della diffusione dei valori universali tipici della tradizione francese al mondo intero. Così definito, il colonialismo francese appare non solo come giusto ma come doveroso: se infatti vogliamo credere alla vocazione universalista della Francia – se vogliamo pensare che la tradizione repubblicana componga una parte decisiva di quella che si definisce la civilisation française – l’equivalenza di civilisation e colonisation qui proposta mostra come il colonialismo si pensi non solo congruente con la vocation à l’universel del Paese, ma come fondamentale strumento della sua realizzazione.
Parallelamente, secondo lui, è l’equazione “diritti della potenza colonizzatrice” e “doveri nei confronti delle popolazioni sottomesse” che emerge come categoria centrale della dottrina coloniale fran-
Pensare il potere coloniale attraverso il modello del potere paterno significa dunque pensare i popoli che colonizzano come dei popoli adulti, capaci di agire liberamente e razionalmente e i popoli colonizzati come dei popoli bambini, incapaci di agire collettivamente in modo razionale e perciò bisognosi di un potere tutelare capace di indirizzarli verso il proprio bene. L’immaturità dei popoli bambini è concepita come un’immaturità politica, la cui più evidente dimostrazione è nella proverbiale miseria che precede l’intervento della potenza civilizzatrice.
Non è per caso che Marcello Caetano – personaggio attivo del regime, che ha ricoperto l’incarico di primo ministro dopo la morte di Salazar () – nei suoi studi di diritto e amministrazione coloniale, definisce il periodo del primo dopoguerra come una “nuova era” della politica coloniale. Marcello Caetano descrive in un suo studio tre diverse fasi nell’evoluzione storica della politica e del diritto internazionale in materia coloniale. La prima è una fase politica compresa nel periodo anteriore alla Conferenza di Berlino () in cui “le nazioni si preoccupano di scoprire nuove terre e acquistare, affermare e conservare il rispettivo dominio: è la fase politica durante la quale il Portogallo, sottomesso alla parola della Chiesa, si considerò soldato e missionario della Cristianità per la dilatazione della fede”. A questa fase politica seguirebbe una fase economica, alla fine dell’Ottocento, nella quale prevaleva “la tesi che non sono i trattati, né le vittorie militari, né le reti di occupazione amministrativa che legittimano il possesso delle colonie, ma la dimostrata capacità della sua valorizzazione economica”.
Betts, La decolonizzazione, cit., p. . D. Costantini, Una malattia europea. Il ‘nuovo discorso coloniale’ francese e i suoi critici, Pisa, Edizioni Plus, , p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. .
Ivi, p. . M. Caetano, Portugal e o Direito Colonial Internacional, Lisboa, Casa Portuguesa, , p. . Ivi, p. .
A questa evidente necessità di “fruizione di ricchezze tropicali” da parte dei Paesi industrializzati si sovrappone una fase che rimanda finalmente all’idea di moralizzazione della colonizzazione. Si tratta di una fase sociale o umanitaria che rivela un’evoluzione delle preoccupazioni internazionali in materia coloniale e nella quale la supremazia coloniale si eserciterebbe in funzione dell’interesse della comunità internazionale, essendo, per questa ragione, caratterizzata
Momento importante di questa strategia politica del regime indirizzata al mantenimento del suo potere coloniale è la revisione, nel , della Costituzione portoghese del – nella quale era inserito l’Acto Coloniale, provvedimento giuridico destinato a disciplinare il regime coloniale portoghese. Questa revisione costituzionale difendeva innanzitutto l’esclusione di ogni idea di autonomia delle colonie attraverso la difesa dei principi dell’unità politica, della solidarietà economica e dell’integrazione attraverso l’assimilazione culturale della popolazione autoctona africana. Per nascondere all’opinione pubblica internazionale la sua tragica realtà coloniale, in questo periodo si determina il passaggio alle denominazioni Provincias Ultramarinas e Ultramar, con l’intento di eliminare il significato negativo che i termini Colônias e Império avevano assunto nel secondo dopoguerra. Da allora in poi, le colonie portoghesi furono denominate Províncias Ultramarinas, diventando a livello giuridico costituzionale una mera estensione del Portogallo. A queste riforme formali si aggiunge la significativa revoca nel dell’Estatuto do Indigenato destinato a legalizzare la discriminazione razziale e culturale delle popolazioni delle colonie africane. Nonostante il contesto di crisi generale dei sistemi coloniali e quello tra la metropoli portoghese e le sue colonie, il regime di Salazar insisteva nel mantenimento delle strutture dell’antico sistema di dominazione diretta, rifiutando l’adozione del modello britannico dell’indirect rule o l’accettazione dell’irreversibilità della “decolonizzazione” pura e semplice. Come osserva Lincoln Secco, sebbene il suo sistema coloniale fosse indebolito a causa delle guerre coloniali e dell’apertura delle sue colonie al capitale straniero,
[...] dal passaggio in primo piano delle preoccupazioni umanitarie sul destino delle popolazioni native delle colonie. Questa volta l’attenzione delle potenze è rivolta alla personalità e agli interessi dei popoli che abitano nei territori non metropolitani, esortandoli ad avere cura dell’educazione, del tenore di vita, della giustizia nella retribuzione del lavoro, del progresso morale ed economico.
Questo tentativo di giustificare l’impresa coloniale portoghese – simulata perfettamente nella denominazione “fase sociale o umanitaria della politica coloniale” e rivendicata da Marcello Caetano in un contesto sempre più ostile al diritto alla colonizzazione –, si esprime anche nelle riforme della legislazione coloniale portoghese. Il Portogallo attiva in questo periodo la sua impresa di ricostruzione della sua esteriorità imperiale, con la finalità di celare la situazione coloniale all’opinione pubblica internazionale e, così, sottrarsi ai principi consacrati nelle risoluzioni delle Nazione Unite per quanto riguarda i territori dipendenti. Negli anni Cinquanta, in virtù delle pressioni politiche esterne, [il Portogallo] modifica l’aspetto imperiale senza modificarne l’essenza. Anzi, ha inizio una nuova fase della politica coloniale del regime, segnata da diverse misure innovatrici, tanto a livello istituzionale quanto economico. Questo impegno corrisponde a uno sforzo notevole e senza precedenti nei confronti dell’Africa.
Ibid. Ivi, p. . J. Mattoso (a cura di), História de Portugal. Estado Novo, vol. , Lisboa, Editorial Estampa, -, p. .
Il modello coloniale britannico consisteva nel sistema indiretto d’amministrazione e di governo delle colonie. Attraverso questo sistema, si creavano governi locali autonomi, utilizzando la popolazione nativa come intermediaria degli interessi della metropoli, rendendo l’amministrazione coloniale meno costosa e il controllo di questi territori più efficace. “Le risorse coloniali corrispondevano, all’epoca, a un terzo del prodotto interno lordo portoghese. Il deficit, sempre presente nel bilancio commerciale, veniva, però, aggravato dall’alta percentuale spesa nelle guerre coloniali” (Secco, A Revolução dos Cravos e a crise do império colonial português. Economia, espaços e tomadas de consciências, cit., p. ).
l’isolamento portoghese nel contesto di progressiva costruzione dell’Unione Europea fece sì che la “sopravvivenza dell’impero, come sovrastruttura giuridico-politica, fosse un fattore vitale per la conservazione del regime”.
sostiene Lincoln Secco, la Rivoluzione dei Garofani del aprile , fase strategica della democratizzazione del Portogallo, della fine del regime di Salazar e del III Impero Portoghese, è il risultato di un processo esogeno al Portogallo che proviene, fondamentalmente, dallo stato delle sue relazioni con le colonie dell’Africa. Allo stesso modo, è solo partendo da questo punto di vista dialettico con il contesto africano che possiamo capire veramente perché il discorso di difesa della legittimità del colonialismo portoghese assuma forza proprio in questo momento di irreversibilità della decolonizzazione. La vera contestazione del sistema coloniale occidentale considerato nella sua totalità, ossia, come un fenomeno esclusivamente di sfruttamento che implicava aspetti politici, economici e culturali di dominazione, si fece più evidente nel contesto internazionale solo con l’avvio di queste lotte concrete di liberazione nazionale e con il concomitante sviluppo delle correnti di pensiero anticoloniale. Infatti, come sottolinea Terence O. Ranger, il vuoto della letteratura e della riflessione storiografica critica sulla resistenza nel primo periodo coloniale dimostra giustamente quanto determinante fosse l’influenza dell’ideologia coloniale. La preminenza assoluta della mistificazione delle realtà coloniali, secondo la quale fondamentalmente ci sarebbe un “dominio di buon grado” (e perciò la pacificazione attraverso il colonialismo delle realtà povere e divise dalle dispute etniche africane); la “scelta libera” di partecipazione all’economia capitalista europea, ai modelli istituzionali di questo sistema, alla “mentalità coloniale”; l’accettazione dell’efficienza del paternalismo degli amministratori coloniali. Insomma, l’assoluto “non-senso della resistenza” perché, senza alcun dubbio, il colonialismo dovrebbe presentarsi come fenomeno benefico all’umanità, se non addirittura la salvezza dell’Africa. E perciò, “solo il malvagio, il temerario, o il fanatico avevano offerto resistenza al processo, manifestamente benevolo, dell’occupazione coloniale”.
. La resistenza in Africa e l’anticolonialismo Ma se consideriamo i fattori internazionali che condizionarono in modo significativo il mantenimento dell’impero coloniale portoghese di questo periodo, è opportuno esaminare i movimenti di liberazione nazionale che si svilupparono nei continenti africani e asiatici. Per evitare il rischio di cadere in una visione imperialista della crisi e della fine dell’impero portoghese – come se ci fosse stato quasi unicamente un rovesciamento dall’esterno del suo dominio coloniale – dobbiamo soffermarci sul contesto della decolonizzazione, che ha inizio con la spinta dell’indipendenza dell’India nel . La domanda che di solito ci si pone dinanzi al fondamentale fatto storico della decolonizzazione, in seguito al quale dopo la metà degli anni Cinquanta più di Paesi si costituirono come Stati indipendenti, è se quest’indipendenza sia stata conquistata autonomamente oppure sia stata una semplice decisione delle potenze coloniali. Il caso dell’indipendenza delle colonie portoghesi evidenzia che non si è trattato di un ritiro volontario da parte del governo portoghese. Anzi, solo partendo dall’attenzione alla dinamica della resistenza nei possedimenti coloniali africani, in particolare in quelli portoghesi, possiamo capire le vere cause del capovolgimento dell’intero panorama politico portoghese del secondo dopoguerra. Come Ivi, p. . Dal punto di vista economico l’antico sistema di dominazione coloniale non si mostrava più vantaggioso per le grandi potenze europee a causa della fragilità finanziaria e delle spese militari necessarie a frenare i movimenti di liberazione nazionale. Per questo motivo si diffonde l’idea secondo la quale la decolonizzazione non decorrerebbe dalla resistenza di questi movimenti al colonialismo, ma fondamentalmente dalla decisione da parte delle stesse potenze imperiali e dalla scelta della via più facile e sostenibile: il neocolonialismo. Questa questione fu trattata nel capitolo Liberation ou décolonisation, in M. Ferro, Histoire des colonisations. Des conquêtes aux indépendances XIIIe-XXe siècle, Paris, Seuil, .
Cfr. Secco, A Revolução dos Cravos e a crise do império colonial português. Economia, espaços e tomadas de consciências, cit. Cfr. T.O. Ranger, Resistenza contro colonialismo, in Aa.Vv., Il mondo contemporaneo. Storia dell’Africa, Firenze, La Nuova Italia, .
Come sostiene lo storico, “si trattava però di un quadro che aveva ben poco a che fare con la cruda e deludente realtà”. Se andiamo allora a cercare davvero la riposta data dall’Africa, costatiamo che questa non è mai stata passiva al dominio coloniale, nonostante la repressione subita per secoli dal colonialismo. Innanzitutto, l’importanza che la resistenza africana ebbe nel passato – da dove emana tutta questa sua “eredità soffocata” e “taciuta” dal potere coloniale –, come sottolinea Terence O. Ranger, esplose proprio nel periodo post-bellico, culminando nei movimenti di liberazione nazionale contemporanei. E per capire meglio il significato e la ricchezza delle ideologie che nascono proprio in mezzo allo sviluppo di questi movimenti, sostiene lo studioso francese Yves Benot, dobbiamo considerare il fatto decisivo del quadro interno africano di dover “cominciare dal nulla”, ovvero, “dall’esigenza obiettiva di dover creare tutto cominciando dal nulla a causa della situazione storica dell’Africa” frutto di un secolare blocco causato dal colonialismo. Questa congiuntura africana si rapporta, sia con questa eredità coloniale pesante, sia con le peggiori condizioni provenienti dalla repressione coloniale, e fornisce l’esempio, malgrado tutto, di un’enorme forza e volontà di cambiamento che andava oltre i propri limiti geografici. Le ideologie delle lotte di liberazione servono a “confermare agli scettici che l’immobilismo dell’Africa è stato soltanto una apparenza superficiale e che qualcosa stava maturando in mezzo alle peggiori difficoltà”. Alle rivalità della guerra fredda, alla realtà di divisione coloniale imposta dalle frontiere arbitrarie del sistema coloniale, allo smantellamento politico, economico e sociale del continente e al tentativo di annientamento delle culture africane, l’Africa risponde non soltanto attraverso le lotte armate dirette contro gli eserciti coloniali. È dunque nel significato più ampio che si è voluto dare al rifiuto del destino di sottomissione coloniale, attraverso la lotta contro il colonialismo e per l’emancipazione dei popoli del terzo
mondo, nei progetti e nella concretizzazione di un modello alternativo di sviluppo che possiamo sottolineare l’importanza storica dell’azione anticoloniale africana contemporanea e delle sue sfide lanciate ancora oggi al mondo.
Ivi, p. . Y. Benot, Ideologie dell’indipendenza, Roma, Editori Riuniti, , p. . Ivi, p. XIII.
. Panafricanismo: il disegno politico dell’unità africana Le ideologie e l’orientamento politico del movimento panafricano nel periodo postbellico ci può fornire un’idea generale del disegno politico che la parte più avanzata del movimento di liberazione africano ha voluto dare al significato del loro risveglio nazionalista. La doppia componente di “riabilitazione e unità del mondo nero” – che caratterizzò inizialmente il panafricanismo e che poi è stata ripresa dal movimento culturale della négritude, attraverso la forma di coscienza dell’unità culturale – viene quindi sostituita da un’esigenza politica diretta di unione dei Paesi in via d’indipendenza. È stato proprio nel ° Congresso Panafricano, a Manchester nel , che il movimento ha assunto una portata dichiaratamente politica, affrontando in termini radicali il problema della decolonizzazione e assumendo un ruolo di punto di riferimento per tutti i movimenti di liberazione nazionale in Africa. Soprattutto, è importante sottolineare, come ci spiega Yves Benot, che la spinta del movimento panafricano, cioè l’esigenza dell’unità, sorge in senso concreto proprio attraverso le lotte dei movimenti di liberazione Le origini del movimento panafricanista si confondono con i movimenti d’emancipazione dei neri americani. La prima conferenza panafricana si organizza a Londra (), su iniziativa dell’avvocato di Trinidad, S. Willians. Uno degli esponenti iniziali di questo movimento fu M.A. Garvey (-), che puntava sul ritorno dei neri in Africa per costituire un regno indipendente. Ma soprattutto fu W.B. Du Bois (-) a essere considerato il padre del panafricanismo, per il fatto di avere sottolineato l’aspetto universale della questione, collegando il problema del nero in America con quelli dell’Africa sottomessa al dominio coloniale. Il panafricanismo, compreso nel periodo delle quattro prime conferenze panafricane, come sottolinea Yves Benot, rimane più che altro una corrente culturale. L’unità dell’uomo africano veniva, fino ad allora, affermata in termini culturali, anziché come un’ideologia politica (cfr. Benot, Ideologie dell’indipendenza, cit.). Ivi, p. .
nazionale e nella consapevolezza della necessità di costruzione di prospettive diverse per un’Africa indipendente.
le lotte dei movimenti di liberazione nazionale. L’importanza di queste conferenze fu quella di portare a conoscenza di tutti i Paesi africani le esperienze di lotta e il progetto di decolonizzazione di ogni singolo Paese, contribuendo così all’accelerazione del processo di liberazione nazionale di ciascuno. Si discuteva la formulazione di un piano concreto di lavoro contro gli elementi identificati come comuni al sistema di dipendenza al quale era sottomessa l’Africa: il colonialismo e l’imperialismo; il razzismo; le leggi e le pratiche di discriminazione; il tribalismo e il separatismo religioso. Contro questo sistema – con gli slogan “noi preferiamo l’autogoverno correndo qualche rischio piuttosto che la servitù in tranquillità”, “abbiamo il diritto di vivere come uomini”, “abbiamo il diritto di autogovernarci” – il panafricanismo proclamava le quattro principali tappe del movimento:
Pur ammettendo che poeti e pensatori traducessero con i termini di negritudine e panafricanismo un elemento reale, cioè, l’identità del destino di un insieme di popoli sui quali si è abbattuta la dominazione coloniale e razzista, resta il fatto che la lotta politica ha dovuto essere organizzata paese per paese, in funzione di circostanze particolari, e che proprio attraverso questa lotta ha preso forma l’esigenza di unità africana.
“L’Africa deve unirsi!”. L’affermazione secondo la quale “l’indipendenza del Ghana è priva di senso se non è connessa alla liberazione totale del continente africano” – fatta da Kwame Nkrumah, in occasione dell’indipendenza del Ghana raggiunta nel – è stato il messaggio che il più importante teorico del panafricanismo di questo periodo ha voluto dare all’Africa in rivolta contro i sistemi coloniali. La battaglia per l’indipendenza del Ghana veniva così esplicitamente collegata a quella per l’unità dell’Africa. Non abbiamo tempo da perdere, dobbiamo unirci adesso o andare in rovina, poiché nessun singolo Stato dell’Africa è forte, o abbastanza potente, da sostenere da solo lo sfrenato sfruttamento imperialista dei suoi uomini e delle sue risorse, oltre alle complessità crescenti del mondo moderno.
Questa necessità di unione convince Nkrumah a progettare dopo la Conferenza Internazionale di Bandung () – dove si erano riuniti Stati dell’Asia e dell’Africa per proclamare l’avversione ai sistemi coloniali e per il riconoscimento della sovranità dei territori sotto dominio coloniale e dei principi di uguaglianza tra popoli e nazioni – la Conferenza degli Stati Indipendenti Africani di Accra (). La coscienza del contenuto antimperialistico diventa in quell’occasione un fattore comune dell’Africa e, contemporaneamente, lo spirito di cooperazione attraverso l’unione dei governi africani indipendenti (o prossimi all’indipendenza) diventa supporto e guida alle singo
Ivi, p. . N. Nkrumah, Revolutionary Path, London, PANAF, , p. . Ivi, p. .
(I) indipendenza nazionale (II) consolidamento nazionale (III) unità transnazionale e comunitaria (IV) ricostruzione economica e sociale secondo i principi del socialismo scientifico.
Il rifiuto dell’eredità coloniale strutturata nella camicia di forza della balcanizazzione regionale e dei singoli Stati africani, per Nkrumah, faceva sì che l’unione africana apparisse come un limite necessario al nascituro nazionalismo dei singoli Paesi africani, ponendo l’unità panafricana come obiettivo comune e inseparabile dall’indipendenza politica ed economica. L’unione era pertanto l’unica alternativa alla continuità dell’asservimento ad interessi esterni e, soprattutto, veniva dichiarata come una condizione essenziale per la realizzazione di un percorso concreto che portasse a un vero sviluppo dell’Africa. Se vogliamo corrispondere ai nostri propositi di unità continentale e prevenire l’oppressione esterna, l’interferenza e l’intimidazione, dobbiamo lavorare insieme e condividere una rete politica comune attraverso
Ivi, p. . Ivi, p. .
la quale l’esistenza di uno Stato indipendente africano e degli altri che stanno per diventare indipendenti potrà trovare uno scopo libero per lo sviluppo.
L’esistenza di un governo continentale che si ponesse al di là dei condizionamenti esterni della guerra fredda appariva dunque proprio come una questione di sopravvivenza per i singoli Paesi contro le influenze separatiste delle potenze imperiali. Questo contesto spinge Nkrumah a sviluppare la sua teoria del neutralismo positivo che doveva essere adottata dai Paesi africani dichiaratisi non allineati. La conquista dell’indipendenza, proprio a causa della condizione insostenibile dei singoli Stati africani, rischiava di favorire un processo che conducesse dal colonialismo diretto al neocolonialismo. La consapevolezza del rischio molto concreto di un semplice passaggio al dominio indiretto, con il mantenimento della dipendenza dei Paesi ex-colonizzati sotto la forma del neocolonialismo, è stato il contributo più significativo dato da Nkrumah alla strategia della liberazione africana. Colonialismo e capitalismo sono parti ed elementi dello stesso processo oppressore e sfruttatore, e l’attacco a uno di loro è sinonimo di attacco all’altro.
La possibilità dei nascituri Stati africani di scegliere il proprio cammino, non ricadendo perciò nella sottomissione all’imperialismo – come succedeva in America Latina – era affidata alla creazione della Socialist Pattern of Society, dove lo sviluppo di un Paese costituiva la condizione per lo sviluppo di un altro. Era solo attraverso la concretizzazione di questo piano di lavoro politico ed economico che si sarebbe potuto avere un forte impatto sulle forze neocoloniali. Lo scopo era prima di tutto creare una strategia di utilizzazione delle risorse materiali ed umane africane esclusivamente per lo sviluppo dell’Africa e così creare le condizioni per una relazione più paritaria con il mondo.
Ivi, p. . Cfr. Benot, Ideologie dell’indipendenza, cit. Nkrumah, Revolutionary Path, cit., p. .
Sono sicuro che la lotta contro l’imperialismo, il neocolonialismo e l’oppressione razziale, insieme al compito di costruire il socialismo, siano gli strumenti per affrontare le forze dello sfruttamento, sia interno che estero. Panafricanismo e socialismo sono organicamente complementari: uno non può essere raggiunto senza l’altro.
Nel , con la Conferenza di Addis Abeba, il panafricanismo si è fatto politica concreta attraverso la formazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA). Alcuni critici identificano questo momento storico come quello che più evidenzia la presenza di rivalità interimperialistiche in seno al movimento panafricano stesso attraverso la formazione dei blocchi di ‘cooperazione’ tra le colonie anglofone e francofone e le antiche metropoli. È proprio lì, all’interno del suolo africano, che cominciava a diventare politicamente indipendente, che si oppongono due tipi di difesa dell’unità: l’unità dei rivoluzionari e l’unità dei neocolonizzati. Rimane il fatto, però, che l’idea originaria del panafricanismo era proprio quella di funzionare da antidoto contro le rivalità della guerra fredda nel territorio africano o di diventare uno strumento di riproduzione del servilismo coloniale. Purtroppo le scelte in direzione di una via socialista piuttosto che una capitalista diventarono poi il problema di fondo della mancata realizzazione di questa unità. In più, come già sottolineato attraverso le parole di Yves Benot, l’unità africana, come necessità concreta, prende la sua forma politica fondamentalmente dalla coscienza popolare. E questo comprova il fatto che l’unità fosse un’idea che produceva effetti concreti, per essere accettata e radicata a livello dei popoli africani.
Ivi, p. . Ed è anche la fase in cui si passa dalla discussione della liberazione a quella della cooperazione con le antiche potenze imperialiste. L’OUA è il progetto che evidenzia in modo più chiaro questo passaggio secondo Elenga M’buyinga: (“ciò che corrisponde al panafricanismo rivoluzionario è la vera strategia dell’unità, ovvero quella di lottare per l’unità dei paesi stessi in modo di raggiungere un’ autentica libertà sociale ed economica per il popolo africano. Mentre ciò che corrisponde al panafricanismo demagogico è la non interferenza negli affari interni e lo spirito di tolleranza mutua”, E. M’buyinga, Pan Africanism or Neo-Colonialism. The bankruptcy of the OAU, London, Zed Press, , p. . Benot, Ideologie dell’indipendenza, cit., p. .
L’unità africana, che alcuni confondono con l’OUA, esiste. Essa esiste a livello dei popoli africani e proprio a questo livello è più vera, più efficace e storicamente ben più radicata di quanto non l’OUA, la quale non è altro che il suo prolungamento organico e strutturale.
Ed è proprio qui, nell’autorganizzazione di massa degli africani e nella concretizzazione dell’unità della loro lotta di liberazione contro i sistemi coloniali che risiedeva tutto il potenziale politico dell’idea panafricanista. . La lotta armata contro il colonialismo portoghese In questo contesto più ampio del panafricanismo e dell’afroasiatismo, come lo descrive Mário de Andrade, prendono forma i movimenti di liberazione nazionale nelle colonie portoghesi. Intorno alla metà degli anni Cinquanta, si sviluppano partiti politici che cominciano a diffondere l’idea nazionale e che assumono, clandestinamente e in un contesto di stretto controllo, il ruolo di polo unificatore per la mobilitazione popolare nella lotta contro la dominazione coloniale portoghese. La strategia dell’unità panafricana prende, nelle colonie africane portoghesi, la forma del Fronte Revolucionário Africano de la Independência das Colônias Portoguesas (FRAIN). Queste alleanze e strategie di collaborazione – che difendevano come principio di resistenza politica l’unità dei
Poeta che promuove un’importante attività culturale di riscoperta dell’Africa come redattore della rivista “Presénce Africane”. Nel Mário de Andrade assume la presidenza del Movimento Popular de Libertação de Angola (MPLA). L’autore mette in luce l’importanza che le vittorie anticoloniali nel continente asiatico assumono come processo di accelerazione dell’emancipazione africana, in particolare la vittoria del Vietnam contro l’esercito coloniale francese. Gli aiuti materiali forniti dalla Cina, da Cuba e dalla Svezia ai movimenti di liberazione portoghese sono ugualmente accennati. Cfr. M. De Andrade, Amílcar Cabral. Essai de biographie politique, Paris, Maspero, . L’orientamento antimperialista e rivoluzionario fu assunto nelle colonie portoghesi dal Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola (MPLA), dal Fronte di Liberazione del Mozambico (FRELIMO), dal Comitato di Liberazione di São Tomé e Príncipe (CLSTP) e dal Partito Africano di Indipendenza della Guinea e di Capo Verde (PAIGC). Senza prendere in considerazione la cifra totale dei morti negli anni della
movimenti di liberazione portoghesi – si formalizzano nella costituzione, nel , a Casablanca, della Conferência das Organizações Nacionalistas das Colônias Portuguêsas (CONCP). Parimenti, le lotte di liberazione lì sviluppate si configurano come parte del problema della liberazione di tutta l’Africa. L’orientamento politico di condanna del neocolonialismo e d’inserimento nel contesto più vasto della lotta antimperialista conferma l’indirizzo rivoluzionario di questi movimenti. Con questo proposito, viene assunto come programma la realizzazione di un lavoro politico, sociale ed economico di lunga durata per il capovolgimento delle strutture coloniali attraverso un progetto di sviluppo socialista. Il colonialismo portoghese, benché si sia sviluppato con forme diverse in questi territori, era talora uniformemente accusato di essere il sistema coloniale più retrogrado a causa del quadro critico di miseria sociale e materiale derivante dallo sfruttamento sistematico di secoli di colonialismo. A mano a mano che questi partiti, attraverso un’organizzazione strettamente clandestina, e tra molte difficoltà, cominciavano a intraprendere azioni concrete di resistenza – che inizialmente assumevano forme pacifiche di protesta e di tentativi di negoziazione –, il governo portoghese rispondeva con un progressivo inasprirsi della brutalità attraverso l’esercito coloniale e della polizia politica dell’Estado Novo, la PIDE (Polizia Internazionale di Difesa dello Stato). La presa di posizione per lo sviluppo concreto della resistenza contro il dominio coloniale portoghese ha avuto come risposta immediata la violenza genocida perpetuata dal Portogallo. Brutalità, arresti di massa, massacri su larga scala, carneficine e annientamento non sono parole esagerate, perché emergono dai fatti stessi, e sono utilizzate dallo storico Gibson per descrivere l’azione della polizia del regime e lo stato di violenza in cui si trovava la popolazione civile africana delle colonie portoghesi. Come sottolinea lo storico, la violenza perpetrata dallo Stato portoghese ha fatto
guerra coloniale, possiamo accennare ad alcuni avvenimenti citati da Richard Gibson che evidenziano la risposta violenta che accompagnò i primi passi di resistenza pacifica
sì che “in ogni caso, il mito dell’armonia razziale nelle colonie portoghesi annegasse nel sangue”. L’adesione alla lotta armata da parte di questi movimenti si verifica tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, quindi, proprio dopo il chiarimento della non operabilità dei metodi pacifici di resistenza che erano stati impiegati inizialmente. I risultati dell’azione armata promossa in quel periodo in Algeria dal Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) convincono definitivamente i movimenti di liberazione nazionale portoghesi dell’idea che, davanti alla violenza della dominazione coloniale, si sarebbe potuto rispondere soltanto con la violenza. Ma, oltre alla lotta armata contro l’esercito coloniale portoghese, questi movimenti rendevano note al mondo le campagne di critica contro il sistema di sfruttamento sistematico e razzista del regime coloniale. La denuncia della falsità della propaganda coloniale e dei crimini del regime accompagnava la richiesta di un riconoscimento internazionale sul piano giuridico della legittimità della guerra di liberazione e della criminalità della colonizzazione.
nelle colonie portoghesi: dopo l’arresto di Agostino Neto (membro importante del Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola, MPLA), in risposta alle proteste della popolazione di Bengo per il suo rilascio, ci furono ben morti e feriti; ci furono centinaia di morti quando lo stesso MPLA decise di liberare i membri del partito, detenuti nella prigione di Luanda; in Guinea, in occasione dello sciopero dei lavoratori del porto di Pidgiguiti, a Bissau, nel , la polizia portoghese ‘rispose’ con ben morti e centinaia di feriti; in Mozambico invece, ci fu un vero e proprio massacro che causò morti nel villaggio di Wiriyamu; e, perfino nell’isola di São Tomé e Principe, ci furono . morti a Batepa, durante lo sciopero degli isolani contro la reintroduzione del lavoro forzato nel (R. Gibson, I movimenti di Liberazione Africana, Milano, Jaca Book, , pp. , , , ). Ivi, p. .
Parte Prima
IL MONDO CHE IL COLONIALISMO PORTOGHESE CREÒ
I LA STRUTTURA DELL’OPPRESSIONE RAZZIALE NELLA COLONIA DI SFRUTTAMENTO: IL MODELLO PORTOGHESE
Cela revient à dire que l’essentiel est ici de voir clair, de penser clair, entendre dangereusement, de répondre clair à l’innocente question initiale: qu’est-ce en son principe que la colonisation? Aimé Cesaire, Discours sur le colonialisme
. Il senso della colonizzazione e la condizione servile dei colonizzati È nella classica differenziazione dei modelli di colonia di sfruttamento e di colonia di popolamento che lo storico Caio Prado Junior cerca la chiave di comprensione del sistema di colonizzazione moderno. Questa differenziazione non è applicabile, secondo lui, al primo periodo di colonizzazione delle Americhe, perché all’inizio il colonizzatore mirava esclusivamente all’estensione del commercio; rimane comunque valida per capire il senso che la colonizzazione ha assunto nelle diverse zone tropicali e temperate. Solo partendo da questa affermazione si può ugualmente capire la complessità della formazione sociale, economica e politica nei territori sottomessi alla colonizzazione europea. L’idea di popolamento, ossia, quella di costituire stabilmente in un territorio una società simile a quella europea, caratterizza la colonizzazione delle
Caio Prado mette in luce – quanto al continente europeo – le particolari trasformazioni economiche, sociali e le lotte politico-religiose avvenute nel XVI secolo. In Inghilterra, epicentro di questi cambiamenti, la trasformazione della manifattura e l’emergere della rivoluzione industriale, con l’espropriazione dei campi per l’esclusiva produzione di lana finalizzata all’industria tessile causa lo spostamento di massa della popolazione contadina e quindi un eccesso demografico nelle città.
regioni temperate dell’America del Nord. Ciò che spinse l’uomo europeo all’abbandono del continente fu l’ideale di costruire “un nuovo mondo, una società che offrisse [agli europei] garanzie che nel continente di origine già non vi erano più”. Una forma completamente diversa di colonizzazione avvenne nei tropici, regione di clima caldo, motivo fin dall’inizio sufficiente per un giudizio negativo da parte degli europei: “Sono tropici brutti e di difficile esplorazione che presentano una natura ostile e (che sminuisce) l’‘Uomo’, disseminata di ostacoli imprevedibili”. Davanti a questa natura, che appariva ostile all’uomo europeo, le risorse naturali che mancavano in Europa rimanevano l’unica imponente attrattiva di queste regioni. È giustamente per questo motivo che Caio Prado sottolinea quanto questo spirito di sfruttamento fu fondamentale, non soltanto perché segnò la presenza del colonizzatore europeo nei tropici, ma anche perché determinò contemporaneamente la totalità delle caratteristiche della struttura economica, sociale e politica che si svilupparono in seguito in questi territori. La presenza di questo spirito è ciò che spiega, secondo Caio Prado, il “vero senso della colonizzazione tropicale, della quale il Brasile è una delle risultanti”.
Tuttavia, è importante sottolineare che la concretizzazione di questo ideale non significò il rispetto per la popolazione nativa di questi territori. Anzi, il diverso modello di sviluppo economico proposto dall’espansione dell’uomo europeo operò attraverso il quasi totale annientamento della popolazione nativa con le guerre di conquista e le malattie portate dall’uomo bianco: “En la population du globe doit être de l’ordre de millions, millions habitent les Amériques. Au milieu du seizième siècle, de ces millions il en reste . Ou en se limitant au Mexique: à la veille de la conquête, sa population est en environ de millions; en elle est de million. Si le mot génocide s’est jamais appliqué avec précision à un cas, c’est bien à celui-là” (T. Todorov, La conquête de l’Amérique. La question de l’autre, Paris, Seuil, , p. ). Un studio specifico sullo stesso soggetto si trova in D.E. Stannard, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, Torino, Bollati Boringhieri, . C.P. Júnior, Formação do Brasil Contemporâneo: colônia (), São Paulo, Publifolha, , p. . Ivi, p. . Ivi, p. .
Se guardiamo all’essenza della nostra costituzione, vediamo che, in realtà, siamo stati creati per fornire al commercio europeo zucchero, tabacco e altri generi; in seguito, oro e diamanti; poi cotone e, infine, caffè. Niente di più. E con tale obiettivo totalmente esterno, indirizzato all’estero e disinteressato a ciò che esulava dallo scopo di quei commerci, si organizzarono la società e l’economia brasiliane.
La colonizzazione portoghese s’inserisce pertanto in questo modello di colonizzazione indirizzata esclusivamente allo sfruttamento delle risorse naturali. Con la scoperta di queste terre e la perdita dell’egemonia del commercio con l’Oriente, il sistema di colonizzazione portoghese si dedica alla coltivazione agricola e allo sfruttamento delle nuove risorse nel territorio scoperto nell’America del Sud. È in funzione di questa esigenza principale che nei territori tropicali l’economia divenne prevalentemente agraria. In questo tipo di colonia non interessava lo sterminio della razza nativa come avvenne nei territori di clima temperato. Al contrario, la manodopera dei nativi e l’importazione degli schiavi neri africani era, come sottolinea Caio Prado, l’unico mezzo per sfruttare queste risorse. Per questo motivo la colonizzazione di questi territori fu caratterizzata dalla dicotomia tra la posizione del colono bianco europeo “dirigente e grande proprietario rurale” e quella del “lavoro reclutato nelle razze inferiori che esso domina: gli indigeni e i neri africani importati”. A differenza di quello che accadde nelle colonie di popolamento nell’America del Nord, Ibid. Nell’economia agraria coloniale adottata dai portoghesi nei tropici predomina la presenza di grandi unità terriere, il latifondo. Júnior, Formação do Brasil Contemporâneo: colônia, cit., pp. -. “Avidi [gli europei] di partire in America, spesso ignorando il loro destino o decisi ad un sacrificio temporaneo, molti di loro partirono per lavorare nelle piantagioni tropicali come semplici operai. Questo fenomeno accade particolarmente nelle colonie inglesi: Virginia, Maryland, Carolina. Vendevano la loro forza lavoro per un periodo di tempo in cambio del trasporto che non potevano pagare. Altri partivano come deportati e fra questi anche i minori abbandonati o venduti dai loro genitori. Essi erano portati in America per lavorare fino alla maturità. Era una schiavitù temporanea che sarà sostituita interamente, nel secolo XVII, dalla importazione dei neri”, ivi, p. .
nelle regioni tropicali “non si arrivò neanche a testare il lavoratore bianco” :
Questo è ciò che Caio Prado definisce il “senso della colonizzazione” ed è il punto di partenza per capire la complessità e lo sviluppo a lungo del tempo della colonizzazione portoghese.
Il colono europeo non era disposto ad impiegare la propria forza lavoro in un ambiente così ostile ed estraneo. Arriverebbe tutt’al più come dirigente o come imprenditore per la produzione di generi e beni di elevato valore commerciale, non certo come semplice lavoratore dipendente. Altri avrebbero dovuto lavorare per lui.
La base materiale di un’economia agraria mossa dal lavoro schiavo dei neri portati dall’Africa e degli índios autoctoni, lo sfruttamento delle risorse naturali e la produzione agricola indirizzata esclusivamente alla fornitura di beni per l’Europa sono pertanto, al di là della complessità del fenomeno della colonizzazione, i tre fattori che stanno alla base del modello di colonia di sfruttamento adottato dai portoghesi nei loro territori d’Oltremare. La divisione internazionale del lavoro è il grande strumento utilizzato dai colonizzatori europei per sfruttare le loro colonie, fornire prodotti e manodopera al servizio esclusivo delle necessità dell’economia europea e costituire quindi il grande fattore di accumulazione di ricchezza e di spinta alla rivoluzione industriale in questo continente. La divisione strumentale tra colonizzatori bianchi europei e quella subita dei neri e degli indios era essenziale al sistema: mentre il colonizzatore bianco occupava la posizione di proprietario e dirigente della forza lavoro, il colonizzato era condannato ad una condizione servile, o di vera e propria schiavitù. “Nei tropici la grande maggioranza dei colonizzati era condannata ad una posizione subordinata, di basso livello, di lavoro a vantaggio di altri potendo ricavare per sé a stento il sostenimento quotidiano”.
. Barriere razziali dell’Impero In questa divisione internazionale del lavoro, che nasce con i sistemi coloniali moderni, prenderà forza “l’interpretazione razziale dei rapporti tra gli uomini e tra i popoli”. Ora, come sostiene Pietro Basso, le teorie razziste hanno la loro origine nell’ideologia della schiavitù, presente nel mondo antico e medievale. Il sociologo mette in luce come già in Platone ed Aristotele troviamo la differenza di natura fra uomini socialmente disuguali e, dunque, uomini “liberi per natura” e “schiavi per natura”. Sulla base di questi “antichi schemi logici e ideologici”, nei sistemi coloniali moderni si legittimarono i “privilegi” che i colonizzatori europei potevano conservare. La condizione era, fin dall’inizio, non riconoscere ai colonizzati una dignità umana pari a quella dell’uomo europeo bianco e, dunque, neanche gli stessi diritti civili e religiosi. Le “fondamenta sociali e materiali” dell’ideologia razzista si relazionano pertanto con [...] l’ideologia di una divisione internazionale capitalistica del lavoro ormai consolidata, in cui l’Europa e la sua filiazione d’oltreoceano hanno sottomesso stabilmente le nazioni e i continenti di colore. Essa naturalizza, o cerca di farlo, le diseguaglianze sociali, storiche venutesi a determinare tra le razze, le classi, le nazioni. E nel suo essere in radice anti-egualitaria ed elitaria, nel suo essere l’ideologia della razza sociale, cioè della classe (o delle classi) dei conquistatori, dei colonizzatori, dei proprietari capitalisti, essa si presta a fungere da arma di contrasto nei confronti sia della lotta della classe operaia nella metropoli sia della lotta dei colonizzati, sia della loro possibile congiunzione [...].
Ibid. Ivi, p. . Il saccheggio delle risorse naturali nell’America del Sud e lo sfruttamento della mano d’opera nativa e schiava africana sono più che documentati nell’opera essenziale di E. Galeano, Le vene aperte dell’America Latina (), Milano, Sperling & Kupfer, . Júnior, Formação do Brasil Contemporâneo: colônia, cit., p.
P. Basso, Razze schiave e razze signore. Vecchi e nuovi razzismi, Milano, Franco Angeli, , p. . Ivi, p. . Ivi, p. .
Allo stesso modo l’impero portoghese prefigura il medesimo rapporto di predominio tra colonizzatore-colonizzato che non è esente dal pregiudizio e dalla pratica della discriminazione razziale. Gli studi dello storico Charles R. Boxer, Relações raciais no Imperio colonial português -, dimostrano che il modello di dominazione coloniale applicato nei tre principali possedimenti d’Oltremare portoghese (Brasile, Angola e Mozambico) ed estesosi parimenti a tutto l’Impero, si strutturò mediante la costruzione di barriere razziali. Boxer sostiene che il sentimento di superiorità razziale dei portoghesi non si separava né dal pionierismo nel commercio schiavista né dallo sfruttamento sistematico della manodopera schiava per più di tre secoli nelle proprie colonie. Anche nell’azione evangelizzatrice delle missioni cattoliche – principale strumento utilizzato dalla colonizzazione portoghese per avvicinarsi alle popolazioni native – la pratica della discriminazione razziale era onnipresente. La difesa ideologica del nesso tra “purezza dell’anima” e “bianchezza della pelle” inteso come tratto esclusivo dei portoghesi e il rifiuto di ammettere la medesima origine tra bianchi-europei e neri e índios fu il dettato che prevalse nella storia della colonizzazione portoghese al fine di sostenere che le popolazioni colonizzate potevano essere unicamente oggetto di sfruttamento o manodopera utile. Le discriminazioni razziali inizialmente si limitavano a discendenti di ebrei, mori ed eretici, trattandosi tanto di un pregiudizio religioso quanto razziale, ma dall’inizio del secolo XVII la discriminazione divenne legalizzata e specifica contro i neri e i mulatti, a causa dello stretto rapporto fra la schiavitù umana e il sangue nero.
Secondo Boxer, anche i mulatti, coloro che avevano il loro sangue mescolato con quello dei portoghesi bianchi, hanno sempre occupato un luogo inferiore nella società coloniale portoghese a causa del loro colore di pelle.
Di sicuro la discriminazione razziale a favore dei portoghesi nati in Europa – anche se non sempre accettata, in teoria – era praticata dalla maggioranza dei governatori e dei viceré d’oltremare [...]. Da sempre i portoghesi bianchi erano collocati nelle posizioni più importanti del governo e dei comandi militari, così come negli alti incarichi ecclesiastici. Ai meticci e a quelli di sangue misto rimanevano le posizioni secondarie.
Lo storico richiama l’attenzione sull’esistenza di un determinato tipo di ideologia che mira giustamente a nascondere le radici razziste dell’opera coloniale portoghese. Nonostante che la pratica della discriminazione e del pregiudizio razziale sia stato un fatto storico strutturale di tutti i sistemi coloniali, questo tipo di ideologia si costituisce con lo scopo di difendere i portoghesi dall’accusa di razzismo, salvando così la propria pratica coloniale come se essa fosse quella meno carica di pregiudizi razziali in rapporto ad altri sistemi coloniali europei. Quest’ideologia diffusa nell’opinione comune, oltre ad essere radicata nel mondo accademico, si rivela nella sua forma più elaborata come un prodotto tipico del regime di Salazar. Il suo lavoro, già negli anni Sessanta, mirava giustamente ad attuare una critica diretta e una destrutturazione di questa falsa opinione, funzionale esclusivamente al mascheramento dei sistemi di valori sociali di dominazione razziale. Non mancano eminenti autorità contemporanee che affermano come i portoghesi non abbiano mai avuto pregiudizi razziali degni di menzione. Ciò che queste autorità non spiegano è la ragione per cui i portoghesi nel corso dei secoli hanno messo l’accento sul concetto di “pulizia” o “purificazione del sangue”, non solo dal punto di vista classista, ma anche razziale, e nemmeno la ragione per cui espressioni come “razze infette” si trovano così di frequente nei documenti ufficiali e nelle corrispondenze private fino all’ultimo quarto del secolo XVIII.
Il ‘pregiudizio di pelle’ e la discriminazione razziale funzionarono per più di quattro secoli come il principale strumento di legittimazione delle barriere razziali sulle quale si strutturò la società
Per uno studio sul pregiudizio razziale di base religiosa praticato nel Portogallo, nei secoli XVI, XVII e XVIII, cfr. M.L.T. Carneiro, Preconceito racial em Portugal e Brasil colônia. Os cristãos novos e o mito da pureza de sangue, São Paulo, Editora Perspectiva, . C.R. Boxer, O Império Colonial Português (-), Lisboa, Edições , , p. .
C.R. Boxer, Relações Raciais no Império Colonial Português (-), Rio de Janeiro, Tempo Brasileiro, , p. . Boxer, O Império Colonial Português (-), cit., p. .
schiavista nelle colonie portoghesi. La separazione tra la figura sociale del colono bianco, intesa come beneficiario dei privilegi sociali, economici e politici, e quella del colonizzato, come sinonimo di isolamento economico socio-culturale, era funzionale alla medesima struttura materiale delle colonie di sfruttamento. Dominio della razza bianca e isolamento dei colonizzati “di colore” era, dunque, il modello sociale sul quale si fondò l’equilibrio innaturale e ingiusto delle relazioni razziali all’interno della società coloniale portoghese.
Con l’appoggio delle scienze naturali e sociali, in particolare dell’antropologia, la cui origine risale proprio a quel periodo, come sostiene Pietro Basso, tanto il “razzismo fisico-morfologico”, quanto quello di “ordine storico-culturale”, funzionali entrambi alla naturalizzazione della gerarchia tra la classe dei “signori” e la “subalternità sociale di quella degli schiavi”, diventano le categorie centrali per interpretare e spiegare il “moto della storia”. Questa caratteristica comune a tutto il colonialismo europeo, “la culla del razzismo”, si mostra ovviamente anche nell’ideologia coloniale portoghese di questo periodo. Laddove gli autori dell’antologia affrontano i diversi temi della politica coloniale, il ragionamento razzista predomina come strumento principale di giustificazione del dominio coloniale e dell’assoggettamento delle popolazioni autoctone africane. Con l’intenzione di dimostrarne la predominanza di queste caratteristiche razziste del pensiero coloniale portoghese del periodo, esponiamo alcuni brani di autori in cui la tematica razziale emerge in primo piano. Il costante riferimento all’inferiorità della civiltà africana e alla sua incapacità di autogovernarsi è l’argomento che giustifica il regime amministrativo unitario adottato per il sistema coloniale portoghese. Secondo questo modello di subordinazione politica ci doveva essere una concentrazione totale di poteri nelle mani dell’autorità coloniale. Il destino della popolazione delle colonie africane per quanto riguarda la totalità degli aspetti economici, politici e sociali veniva dunque, per forza e per diritto, deciso dalla metropoli ed esclusivamente a suo interesse. Le basi ideologiche che giustificavano questo regime unitario appaiono nelle parole di Eduardo Costa, nella relazione Principi dell’amministrazione coloniale, presentata nel Congresso Coloniale Nazionale del .
. La questione razziale nell’Antologia Coloniale Portoghese Da un’attenta analisi della varietà del pensiero contenuto nella Antologia Colonial Portoguesa , emerge che la tematica razziale è costitutiva dei principali aspetti della politica coloniale dalla fine del XIX secolo fino agli anni Trenta. Le concezioni imperialiste si manifestano chiaramente nei contributi degli autori dell’opera e rivelano come il pregiudizio razziale non fosse tratto esclusivo delle pratiche colonialiste, ma insito nella politica ufficiale del governo portoghese dell’epoca. Ci si riferisce qui alla fine dell’Ottocento, cioè, ad un momento importantissimo dello sviluppo e dell’affermazione dell’“ideologia dello sfruttamento e dell’oppressione delle razze schiave per natura”, quando, “per la prima volta nella storia, la categoria razza viene presentata come centrale nella vita delle società e il razzismo si impadronisce di masse di persone”. Quest’opera fu pubblicata nell’anno da Marcello Caetano, all’epoca ministro delle Colonie. La seconda metà del XIX secolo è caratterizzata dall’espansione del colonialismo in Asia e Africa a favore delle potenze imperialiste europee. L’interesse per l’espansione era connessa direttamente alla ricerca di fonti di materie prime, di forza lavoro a basso costo e priva di diritti e alla conquista del monopolio di mercato per prodotti e investimenti di capitali. La spartizione dell’Africa, risultato dell’accordo tra le potenze imperialiste nel Congresso di Berlino (-), struttura il dominio e lo sfruttamento sistematico di queste risorse nel continente africano. Al Portogallo, sulla base di quest’accordo, rimane il dominio dei territori di Mozambico, Angola, GuineaBissau, delle isole di San Tomé e Principe e Capo Verde. Basso, Razze schiave e razze signore. Vecchi e nuovi razzismi, cit., p. . Ivi, p. .
“Se la razza sociale eletta per natura (e volere divino) è quella dei proprietari di capitali e di terre bianchi, le razze sociali schiave per natura (e volere divino, così si è detto per secoli) sono i colorati, i proletari e le donne. È questo il dogma fondamentale della dottrina e della prassi razzista”, ivi, p. . Le teorie razziali di A. Gobineau, in particolare il suo Saggio sulle disuguaglianza delle razze umane, sono l’esempio più calzante a suffragare questo ragionamento. Cfr. Basso, Razze schiave e razze signori. Vecchi e nuovi razzismi, cit.
Non si tratta, pertanto, di un regime di libertà politica o civile incompatibile con il grado di civilizzazione delle tribù africane, ma di un governo forte e di tutela in espansione. Molinari, nel suo ammirevole studio Meccanismi di governo delle società, riassume la necessità di questa tutela in un brano che non posso non trascrivere: “Lo spettacolo dei pellerossa e di altri popoli selvaggi che muoiono entrando in contatto con la civilizzazione, come se questa trasmettesse la peste, dei neri emancipati senza transizione per i quali l’autogoverno fu più funesto di quanto non sia stata la schiavitù, insomma, le classi povere che non raggiungono i mezzi di sopravvivenza nelle società più ricche del globo: questo spettacolo così saliente e così riprovevole non dovrebbe aprire quegli occhi che lo spirito del sistema ha bendato? Questo non attesta in forma evidente che l’autogoverno applicato alle razze e agli individui senza capacità di esercitarlo costituisce un danno ancora più grave?”.
L’arretratezza culturale della razza nera serviva parimenti come fondamento della necessità di una legislazione speciale per le popolazioni native delle colonie portoghesi africane. Sono molti gli stereotipi fisiologici e culturali citati da Marnoco Souza come esclusivi della razza nera, laddove affronta l’argomento del regime giuridico delle popolazioni indigene. La sua argomentazione mira a dimostrare quanto inadeguata, e svantaggiosa, sarebbe l’applicazione di idee egualitarie illuministe alla legislazione coloniale portoghese in quel periodo. Non si può ammettere l’assimilazione degli indigeni agli abitanti della metropoli. Le teorie superficiali del XVIII secolo – attribuendo a tutti gli uomini una mentalità simile, o la capacità di svilupparla dopo una breve educazione, e ammettendo un tipo unico e superiore di civiltà da importare ovunque – portarono alla sostituzione delle istituzioni indigene con le nostre leggi. Fu questo criterio che orientò la colonizzazione nei tre primi quarti del secolo XIX, con gravi conseguenze per il risultato dell’opera coloniale.
L’impossibilità dell’assimilazione immediata degli africani dovuta all’inferiore grado di civilizzazione di questa popolazione richiede,
secondo l’autore, l’applicazione di una legislazione speciale. Il modello coloniale francese basato sulla politica di assimilazione graduale e l’applicazione provvisoria di una legislazione speciale è invocato come ciò che meglio risponde all’accordo tra il rispetto delle particolarità degli usi e dei costumi indigeni e l’obiettivo di assimilare le popolazioni native africane ad un superiore grado di civilizzazione. Questa legislazione può essere in armonia con le necessità e le condizioni delle società indigene e, allo stesso tempo, ricevere l’influenza dello spirito del popolo colonizzatore. Così, i popoli indigeni s’incamminano verso uno stadio superiore, simile a quello degli abitanti della metropoli.
Conformemente a questo ragionamento, nel Regime das terras dos indígenas, gli specialisti dell’amministrazione coloniale determinano, attraverso una chiave di interpretazione culturale, il sistema di proprietà da adottare in relazione al grado di civilizzazione degli autoctoni africani. Com’è noto, la politica coloniale non aspira unicamente allo sfruttamento della colonia, ma si propone anche di condurre un’azione civilizzatrice sugli indigeni [...]. Cosicché, riguardo al regime della terra, si preoccupa di mantenere e fare progredire la proprietà degli indigeni, proteggendoli tanto dalla loro imprevidenza quanto dall’avidità dei coloni.
Purché il diritto inviolabile della metropoli sulla totalità del territorio coloniale non venga letto come una politica di pura espropriazione delle terre indigene, il docente di Amministrazione Coloniale nella facoltà di Diritto di Coimbra e anche antico presidente del Conselho di Administração de Moçambique, suggerisce il riconoscimento della proprietà collettiva per alcune tribù africane e l’applicazione del sistema di riserve nelle colonie africane. La proprietà indigena, secondo lui, non doveva avere un carattere permanente e illimitato, essendo questa vincolata all’occupazione effettiva della terra e al divieto di alienazione. È il sistema di riserve che permette la convivenza tra colono e autoctono, ossia, il mantenimento della “pace” tra di loro
E. Costa, Princípios de administração colonial, in Aa.Vv., Antologia Colonial. Política e Administração, vol. I, Lisboa, Agência Geral das Colônias, , p. . M. Souza, Regime jurídico das populações indígenas, in Antologia Colonial. Política e Administração, cit., p. .
Ivi, p. . R. Ulrich, Regime das terras dos indígenas, in Antologia Colonial. Política e Administração, cit., p. .
e, più che altro, la “cooperazione” di quest’ultimo. In questo sistema, l’indigeno doveva accontentarsi di uno spazio molto ridotto che veniva determinato dall’amministrazione coloniale: “È necessario non esagerare nel rispetto della proprietà indigena permettendo l’inutilizzazione di territori vasti e l’esistenza di ostacoli insuperabili all’azione civilizzatrice”. Inoltre, avere il titolo di proprietà collettiva di questi territori non implicava poter disporre liberamente di essi. L’amministrazione coloniale aveva il diritto di gestire la direzione razionalizzata dello sviluppo di culture agricole in questi territori e esercitare il controllo dei costumi indigeni in funzione della “manutenzione dell’ordine e del rispetto per la proprietà individuale” del colono. È chiaro, pertanto, che la difesa del sistema di riserve come regime di proprietà per gli indigeni era più che altro funzionale al mantenimento del potere dello Stato coloniale su questi spazi e sulla loro popolazione: “Si garantirà così agli indigeni la loro esistenza e lo Stato più facilmente disporrà del suo dominio [territorio indigeno], avendo la certezza che gli indigeni non rivendicheranno su di esso [territorio indigeno] alcun diritto”. Il controllo dell’autorità sul territorio coloniale, la garanzia dell’ubbidienza e la prevenzione delle rivolte sono elementi fondanti della politica indigena secondo João de Almeida, personaggio attivo nell’amministrazione coloniale portoghese in Angola, all’inizio del secolo. Le qualità di “indolenza”, “ignoranza assoluta”, “propensione alla sfiducia” e “l’abitudine al dispotismo” degli indigeni necessitano di un sistema che conceda il controllo dell’autorità ai
propri nativi, quello che viene chiamato dai portoghesi il sistema di circunscrição indígena (circosrizione autoctona) . Le piccole autorità indigene – sempre facili da orientare, fiscalizzare e mantenere nel loro spazio – quando sono bene indirizzate e azionate, sono gli strumenti più forti e appropriati di cui possono disporre le autorità per l’amministrazione delle popolazioni indigene.
Un altro esempio significativo di questa strategia discorsiva centrata sulla questione razziale è quello della commissione incaricata di studiare il problema del lavoro indigeno. Nel , questa commissione difese l’applicazione del principio del lavoro obbligatorio per i nativi nelle colonie africane portoghesi, che costituiva il principio sul quale si costruì la legislazione del lavoro nell’Africa portoghese di questo periodo. È diritto dello Stato obbligare i nativi delle provincie d’oltremare a lavorare, servendosi per questo fine sia degli incentivi che delle imposizioni. Pertanto, è corrispettivo dovere dei nativi non rifiutarsi di lavorare – dovere non solo morale, ma anche giuridico, poiché il suo compimento può essere imposto dalle autorità pubbliche.
Antonio Ennes fu una figura di rilievo nella politica coloniale nel Mozambico, ricoprì un ruolo essenziale nella definizione degli indirizzi della politica indigena. Secondo lui, la forza lavoro africana rimaneva all’epoca l’unico mezzo per coltivare le terre in
Ivi, p. . Il regime di proprietà delle terre indigene, insieme a quello del lavoro forzato, funzionavano come elemento indispensabile nel processo di colonizzazione portoghese. Il sistema di piantagione che imponeva la produzione di culture obbligatorie fu utilizzato in larga scala nel Mozambico, ma anche nelle altre colonie africane. Questo sistema aveva come prima condizione la trasformazione delle terre indigene in proprietà demaniali, che in pratica significava l’espropriazione di queste terre per renderne reale il controllo da parte dei coloni (cfr. L. Passerini, Colonialismo Portoghese e lotta di liberazione nel Mozambico, Torino, Einaudi, ). Ulrich, Regime das terras dos indígenas, cit., p. . Ibid. J. De Almeida, Colonização capitalistica e política indigena, in Antologia Colonial. Política e Administração, cit., p. .
Benché l’incarico di governare fosse apparentemente affidato ad un capo indigeno locale, l’amministrazione era invece diretta in loco da un funzionario bianco. “Essi univano nella loro persona funzioni giudiziarie, esecutive, militari e di polizia. Decidevano questioni civili e penali. Erano i “capi” bianchi sulle tribù locali. Essi avevano l’incarico per un’area chiamata circoscrizione, ed i capi di ogni circoscrizione erano posti totalmente sotto il loro arbitrario dispotismo locale” (H. Jaffe, Dal tribalismo al socialismo: storia dell’economia politica africana, Milano, Jaca Book, , p. ). De Almeida, Colonização capitalistica e política indigena, cit., p. . A. Ennes et al., O trabalho dos indígenas e o crédito agrícola, in Antologia Colonial. Política e Administração, cit., p. . “Antonio Ennes annunciò una ‘politica indigena’ che era basata sull’incremento dell’investimento di capitali (un fenomeno relativamente nuovo per il colonialismo portoghese che in precedenza si era basato sul traffico di schiavi), sull’espansione dell’attività missionaria, sull’aumento dell’immigrazione “bianca” e del lavoro forzato degli indigeni” ( Jaffe, Dal tribalismo al socialismo: storia dell’economia politica africana, cit., p. ).
loco, a causa dell’impossibilità del governo portoghese di investire capitali nella produttività agricola coloniale. Le qualità di indolenza e pigrizia, di una razza non portata al lavoro e al progresso, sono menzionate come cause determinanti per l’adozione di una politica di lavoro forzato nelle colonie africane, politica che perdurò fino alla fine dell’Estado Novo . L’inferiorità della razza nera e la sua coscienza primitiva sono qui gli argomenti che giustificavano l’estensione nel tempo di condizioni simili alla schiavitù con il regime di lavoro forzato. Il nero, solo ed esclusivamente il nero può fertilizzare l’Africa adusta. Dalla razza che nel corso dei secoli fino ad oggi non ha prodotto spontaneamente un solo rudimento di civilizzazione, non si avranno mai legioni di operai del progresso, se non servendosi di tutti gli incentivi e le spinte di una tutela che sia benevola, giusta, perfino generosa negli atti, ma energica e forte nei processi.
Come possiamo verificare, il tema del lavoro indigeno rimane il problema centrale della relazione di Lourenço Cayolla, nel Congresso avvenuto durante l’Esposizione Internazionale di Parigi (). Partendo dalla premessa che considera che i popoli africani “differiscono tanto dai popoli metropolitani per i doni dell’intelligenza e della comprensione, per la mentalità, i costumi, il concetto di moralità e lo strato sociale”, l’autore sottolinea l’obiettivo principale per realizzare il sistema educativo coloniale: trasformare i popoli colonizzati in collaboratori dei coloni portoghesi. Si deve concludere che il popolo colonizzatore ha il dovere di consacrarsi con la massima diligenza all’educazione dei popoli indigeni delle colonie d’oltremare, raccogliendo benefici che compenseranno generosamente quanto è stato fatto una volta trasformati i nativi in
elementi utili al lavoro [...]. L’educazione più utile dovrà aprire la loro intelligenza alla comprensione di nozioni morali sufficienti affinché, poco a poco, si rendano conto dei vantaggi legati a una civilizzazione più alta, stimolando in loro la necessità e l’amore per il lavoro e liberandoli dalle superstizioni e dai feticismi, che tanto ne oscurano lo spirito rendendoli esseri irrazionali.
Alle scuole missionarie veniva affidata l’educazione degli africani o perlomeno della ridottissima parte della popolazione nativa che poteva frequentare il sistema d’istruzione coloniale. Le missioni cattoliche avevano l’incarico di difendere ideologicamente il sistema coloniale portoghese nei suoi territori africani ed erano l’unica possibilità d’istruzione per la popolazione indigena. Nel pensiero coloniale dell’epoca, l’educazione degli indigeni viene finalizzata, più che altro, ad insegnare loro la soggezione. Questo obiettivo che emerge nel rapporto del governatore generale dell’Angola () ed alto commissario della Repubblica di Angola (), Norton de Matos, è sinonimo di rispetto per la morale e per la civilizzazione europea. Nuovamente, l’argomento razziale è invocato nel sistema educativo come principio che deve prevalere nel rapporto colonizzatore-colonizzato: “Rispetto per la razza bianca, come simbolo di onestà, di rettitudine e di giustizia superiore”. Per ottenere soggezione e ubbidienza l’autore suggerisce di limitare l’insegnamento letterario, dando priorità assoluta all’educazione manuale, al lavoro della terra, del legno, della pietra ecc. Il sistema coloniale portoghese non permetteva, quindi, all’uomo africano la minima possibilità di coltivazione di ‘ideali’ o di ‘sogni’ che andassero in direzione contraria al suo destino coloniale, naturalmente limitato al lavoro e alla soggezione. È per questo motivo che l’educazione letteraria costituiva un elemento educativo problematico nelle colonie africane. Questo tipo di istruzione [quella letteraria] ha il grave inconveniente di fare nascere speranze e aspirazioni non fondate su basi solide per essere
La schiavitù, pietra angolare del sistema coloniale, conobbe nell’impero portoghese un’estensione temporale senza pari; condizioni molto simili perdurarono nelle colonie portoghesi africane durante il regime di Salazar nella forma del lavoro forzato, che negli anni del secondo dopoguerra assunse la forma del “lavoro a contratto”. Ennes et al., O trabalho dos indígenas e o crédito agrícola, cit., p. . L. Cayolla, A educação dos indígenas, dos colonos e dos funcionários coloniais, in Antologia Colonial. Política e Administração, cit., p. .
Ivi, p. . J.M.M.R. Norton de Matos, Educação e instrução dos indígenas – a província de Angola, , in Antologia Colonial. Política e Administração, cit., p. .
II LA RICOSTRUZIONE DELL’APPARATO IDEOLOGICO
soddisfatte, e di creare un ideale di vita nel quale il lavoro manuale è considerato una cosa degradante da evitare in tutti i modi [...]. A tal fine, è necessario che le scuole elementari destinate alla grande massa degli abitanti della provincia siano più officine che scuole.
Per esperienza secolare sappiamo che la detenzione e la difesa di un’ideologia autentica sono la più grande forza dello Stato, poiché si tratta del nucleo centrale della sua cultura, e sono le culture che hanno la vocazione all’eternità. Adriano Moreira, A Batallha Esperança
. Il ‘nuovo’ discorso coloniale di Adriano Moreira Il regime di Salazar nei suoi primi decenni accoglie i contorni ideologici esplicitamente adottati dalla generazione precedente di operatori della politica coloniale portoghese, fondati sulla convinzione dell’esistenza di razze inferiori. Durante questo periodo, l’argomento della razza compare in forma esplicita nei discorsi di Oliveira Salazar (-) sulla politica ultramarina. Il suo discorso denominato La nazione nella politica coloniale, pronunciato in occasione dell’apertura solenne della I Conferenza dei Governatori Coloniali (), lo dimostra chiaramente. Innanzitutto, poiché è più nobile, dobbiamo organizzare sempre più efficacemente e meglio la protezione delle razze inferiori, il cui richia-
Come spiega Lincoln Secco “la carriera di Salazar fu pari a quella di una meteora: nel si incaricò delle finanze, riuscendo a riequilibrare il bilancio nazionale dopo diversi anni di deficit pubblico, nel diventò responsabile dell’amministrazione coloniale, e nel , acclamato dalla maggior parte dell’opinione pubblica, fu nominato presidente del consiglio – a quel punto si era già costruito il mito di un uomo eccezionale” (Secco, A Revolução dos Cravos e a crise do império colonial português. Economias, espaços e tomadas de consciência, cit., p. ). Salazar rimase al potere fino al . Fu Marcello Caetano che assunse da quel momento il ruolo di primo ministro fino alla Rivoluzione dei Garofani ().
Ivi, p. .
mo alla civilizzazione cristiana è una delle concezioni più audaci e una delle opere più alte della colonizzazione portoghese.
Come si vede, questo tipo di ragionamento razzista si contrappone al linguaggio che troviamo nel discorso Portugal e a campanha anticolonialista, pronunciato nella sessione dell’Assemblea Nazionale, nel . A differenza dell’idea comunicata nel passaggio precedente, qui Salazar presenta il pensiero razzista come un prodotto estraneo alla cultura cristiana portoghese. L’idea della superiorità razziale non è nostra; quella della fraternità umana sì, come quella dell’uguaglianza davanti alla legge, partendo dal presupposto del merito, come è proprio delle società progressiste. In tutti questi territori la mescolanza delle popolazioni favorirebbe il processo di formazione di una società plurirazziale; ma ciò che è più importante, ciò che è veramente essenziale, risiede nello spirito della convivenza familiare con gli elementi locali.
Il cambiamento di atteggiamento di Salazar espresso formalmente attraverso questi due brani, pronunciati in momenti storici diversi, permea il pensiero coloniale portoghese del secondo dopoguerra. Il colonialismo continua ad apparire come uno strumento di estensione dei benefici della civilizzazione occidentale, ma, contrariamente a quello che si affermava nel discorso coloniale precedente, la prima preoccupazione della propaganda del regime di questo periodo è quella di integrare nel programma ideologico il principio dell’uguaglianza razziale e quello della convivenza razziale. Adriano Moreira è l’autore di riferimento per capire questo sforzo di ricostruzione dell’apparato ideologico coloniale dell’Estado Novo all’interno del contesto di crisi dei sistemi coloniali europei, causata dal processo di decolonizzazione del continente africano e asiatico. Per capire l’importanza del suo pensiero nella storia della politica ultramarina portoghese di questo periodo, basta guardare la sintesi dei principali aspetti della sua biografia.
Laureato in giurisprudenza presso l’Università di Lisbona, Adriano Moreira svolge il dottorato nella stessa area di studio all’Università di Madrid, dove discute la tesi L’Europa in espansione. Nel , viene premiato dall’Accademia delle Scienze di Lisbona per la ricerca Il problema carcerario nell’Oltremare. Dal al fa parte della delegazione portoghese presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Da allora in poi Adriano Moreira comincia ad avere un ruolo diretto nella politica coloniale del regime, come direttore dell’Instituto Superior de Ciências Sociais e Estudos Ultramarinos de Portugal – oggi Instituto Superior de Ciências e Políticas da Universidade Técnica de Lisboa (ISCSP) –, come sottosegretario di Stato dell’Amministrazione d’Oltremare (-) e come ministro dell’Oltremare (-), quindi negli stessi anni della crisi coloniale portoghese. Pubblica diversi libri su questo argomento, divenendo una delle voci più apprezzate del Portogallo in materia di relazioni internazionali. Insegna inoltre in diverse università portoghesi e straniere, diventando professore emerito dell’Università Tecnica di Lisbona. La sua carriera politica non si chiude con il crollo del regime nel . Nel , infatti, esule in Brasile, comincia a insegnare nella Facoltà di Relazioni Internazionali dell’Universidade Católica do Rio de Janeiro. Rientrato in patria, si ritaglia un nuovo ruolo nello scenario politico portoghese prima come deputato (-) e poi come vicepresidente dell’Assemblea della Repubblica (-). Davanti alla crisi coloniale che il Portogallo stava affrontando, Adriano Moreira reclamava l’urgenza di una mobilitazione ideologica dell’Occidente europeo per la difesa della legittimità del colonialismo e per la sua riabilitazione come istituto politico necessario alla “causa della dignità umana”. Oltre a occuparsi dei problemi dei territori d’Oltremare, la principale finalità dell’Instituto Superior de Ciências Sociais e Estudos Ultramarinos de Portugal , di cui Moreira
O. Salazar, A nação na política colonial, in Antologia Colonial. Política e Administração, cit., p. . O. Salazar, Portugal e a campanha anticolonialista, in Discursos e notas políticas, vol. VI, -, Coimbra, Coimbra Editora, , p. .
Il primo progetto di creazione di un istituto portoghese di studio e di insegnamento dei problemi dei territori d’Oltremare fu elaborato da Luciano Cordeiro, nel , in un’epoca segnata dalla crescita di interesse per il continente africano da parte delle potenze europee che culminò nella spartizione del continente stesso attraverso il Trattato di Berlino (). Il primo corso di studi coloniali fu creato dalla Facoltà di
era professore e direttore, era quella di prendersi carico di questa impresa ideologica di propaganda coloniale. La ricostruzione delle radici ideologiche dell’azione coloniale portoghese nella storia appare come una priorità teorica e come la principale arma intellettuale utilizzata da Adriano Moreira per difendere la legittimità del colonialismo portoghese in Africa. L’autore condanna quello che definisce anticolonialismo sistematico, ovvero la critica internazionale di tutti tipi di colonialismo, che concepisce questo fenomeno come unitario. Il significato negativo che l’anticolonialismo sistematico gli attribuisce, identificandolo con l’idea di “conflitto e aggressione” e facendo dell’Occidente europeo “l’aggressore dei tempi moderni”, è contrapposto alla definizione del colonialismo come invece un “beneficio storico”, ossia di arricchimento delle civilizzazioni, proveniente proprio dall’azione portoghese ed europea nel mondo.
Nel suo discorso denominato Giustizia Sociale, pronunciato nella capitale del Mozambico, Lourenço Marques, nel , Adriano Moreira evidenzia bene quello che intende per “beneficio storico”. L’inevitabile processo di colonizzazione portoghese viene qui tradotto nella classica concezione imperialista occidentale che fa coincidere l’inizio della storia dell’Africa con l’arrivo degli europei. Il colonialismo appare quindi come l’atto di ‘concedere’ la storia a un continente che senza l’intervento dell’azione civilizzatrice coloniale nemmeno l’avrebbe.
L’unità politica, di solito costituita da un gruppo non aggressore, fu il presupposto indispensabile della ricchezza culturale dei grandi Paesi del nostro tempo nella definizione delle condizioni di coesistenza tra gruppi di per sé ostili. Questa parte importante di verità è oggi sistematicamente occultata nella polemica sulla colonizzazione e restrittivamente collocata al di fuori dei tentativi di sistemazione politica con il nome spregiativo di paternalismo. Non si comprende come questa forma di contatto tra culture sia stata così frequentemente dimenticata e che, per esempio, il modo portoghese di essere nel mondo – fraterno, pieno di cordialità, profondamente coerente con l’esperienza storica europea perché non razzista – sia abitualmente dimenticato da quelli che insistono nel voler vedere unicamente il conflitto e l’aggressione verso le popolazioni.
Questa provincia – come tutti i territori africani che abbiamo strappato all’oblio e consegnato alla storia – prima del nostro intervento non aveva che le terre e le braccia dei nativi. Il contributo della tecnica, tratto dall’impegno della missione civilizzatrice, è ciò che ha permesso di mobilitare le ricchezze addormentate e trasformare questo e altri in territori di valore tale da provocare addirittura la cupidigia che ora dobbiamo tenere a freno lungo le frontiere.
Per Adriano Moreira parlare di anticolonialismo significa, oltre ad ignorare i benefici storici della colonizzazione portoghese, adottare una posizione di matrice razzista, che difende il principio dell’espulsione della razza bianca dal continente africano. La ribellione dell’uomo africano contro il sistema di dominazione coloniale si traduce per lui in un “razzismo orientato contro l’uomo bianco, razzismo che appare come l’unico elemento possibile di identificazione per una politica di risentimento”. La sua dottrina illustra il punto di vista imperialista occidentale dell’epoca che, lungi dal riconoscere la legittimità dei movimenti di liberazione nel continente africano, li condannava come “terrorismo”, “strumento per l’avanzata del comunismo sovietico”, “scelta di schiavitù proveniente dal primitivismo o dal neocolonialismo”, o ancora come “razzismo contro l’uomo bianco”.
Giurisprudenza dell’Università di Coimbra (). Nel , un progetto di legge creò l’Instituto Colonial Português che, successivamente, si trasformò nella Escola Superior Colonial (). (Cfr. J.A. Pacheco, Instituto Superior de Ciências Sociais e Política Ultramarina. Legislação, Lisboa, Sociedade Industrial Gráfica, ). A. Moreira, O Ocidente e o Ultramar português, Rio de Janeiro, Irmãos Pongetti Editores, , p. .
A. Moreira, A Batalha da Esperança, Lisboa, Edições Panorama, , p. . A. Moreira, Política Ultramarina, Lisboa, Junta de Investigação do Ultramar, , p. .
. Il principio dell’unità della nazione, l’identità portoghese e l’Oltremare Malgrado gli anni Sessanta rappresentino il momento di crisi più acuta nei rapporti tra la metropoli portoghese e le sue colonie, il regime di Salazar continuò a difendere il principio dell’unità come nucleo della politica d’Oltremare. Per sottrarsi all’immagine del colonialismo come puro dominio paternalistico e territoriale, la propaganda coloniale portoghese contrappone l’idea di una “comunità panlusitana, che abbraccia il Portogallo continentale e il Portogallo d’oltremare”. La pubblicazione dell’Acto Colonial , nel , consacrò questa definizione, eleggendo il principio dell’unità ad espressione sacra dell’impero coloniale. Fondamentalmente questo documento giuridico limitò il regime di decentralizzazione nell’amministrazione delle colonie introdotto dalla Costituzione portoghese del . All’epoca, la legislazione portoghese ammetteva la possibilità che le colonie si indirizzassero verso un futuro self-governement, quello che Adriano Moreira definisce come una “tendenza all’autonomia delle colonie” nei provvedimenti giuridici portoghesi. Il senso che si vuole dare a questo principio dell’unità fu, pertanto, quello di escludere tout court dalla politica d’Oltremare questa possibilità e, così, centralizzare il governo delle colonie africane attraverso il regime dell’“autonomia temperata”. L’identificazione tra la nazione portoghese e l’Oltremare viene strutturata nel discorso coloniale, attraverso la presentazione del Von Albertini, La decolonizzazione. Il dibattito sull’amministrazione e l’avvenire delle colonie tra il e il , cit., p. . L’Acto Colonial fu incorporato nella Costituzione portoghese nel , condensando le regole della politica e dell’amministrazione coloniale. Il regime dell’autonomia temperata previsto nell’Acto Colonial consisteva secondo Marcello Caetano in: “. affermazione dell’unità e della solidarietà economica e amministrativa, nel senso di presenza di un insieme di gruppi etnici differenziati ma uniti da fini e interessi comuni che la parola ‘Impero’ intendeva tradurre; . specializzazione della legislazione coloniale, la cui normale competenza spetta al Ministero delle colonie e al Consiglio di governo; . governanti delle colonie con ampi poteri; . assiduo intervento tutelare del ministro delle colonie; . autonomia finanziaria; . organizzazione economica strettamente subordinata al principio di unità nazionale; . regime giuridico speciale per gli indigeni; . graduale decentralizzazione in base al grado di sviluppo delle colonie” (Moreira, Política Ultramarina, cit., p. ).
l’ideale di “unità morale della nazione”, come qualcosa di necessariamente connesso all’ideale di “espansione della civiltà portoghese” riflesso nel suo passato coloniale. La propaganda nazionalista coloniale del regime viene, in realtà, mascherata nella formula dell’“azione civilizzatrice” prevista nell’articolo secondo dell’Acto Colonial il quale afferma che “l’essenza della nazione portoghese è la funzione storica di possedere e colonizzare i domini d’oltremare e di civilizzare le popolazione che lì si trovano”. Come dimostra Moisés de Lemos Martins, la metafora della “nave imperiale” spesso utilizzata da Salazar nei suoi discorsi, illustra alla perfezione il proposito ideologico di affermare che l’identità della nazione portoghese è qualcosa che è insito con l’Oltremare. L’allegoria rappresenta il Portogallo come una nave imperiale e mira a illustrare le qualità eroiche della nazione stessa espresse nel suo passato coloniale. Il racconto di una barca che, per piccola che sia, collega l’infinito dei cieli e dei mari alla terra; barca che è la casa di tutti e ha in comune con il marinaio la stessa patria, poiché entrambi appartengono allo stesso Paese. Il metalinguaggio enuncia a sua volta, come una metafora della salvazione, il discorso di una nave che è l’arma degli uomini del mare, casa dei marinai, pezzo della terra natale – “terra Patria” – che solca gli oceani.
Il destino coloniale assume, pertanto, un ruolo importantissimo nella propaganda nazionalista del regime, presentandosi come il valore che meglio esprime l’essenza della nazione. La propaganda coloniale vuole evitare la “degenerazione nazionale” e mantenere vivo nel popolo portoghese l’ideale dell’Oltremare, la coscienza e l’orgoglio imperiale, propiziando, così, il “recupero morale e spirituale” della società portoghese. Sono due i modelli di atteggiamento con i quali la nazione si confronta. Da un lato c’è il compito di un genio indipendente, di una storia eroica, di un destino coloniale – la patria continuerà ad essere casa dei
J. Miranda, As Constituições Portuguesas de ao texto actual da Constituição, Lisboa, Livraria Petroy, , p. . M. Martins de Lemos Martins, O olho de Deus no discurso salazarista, Porto, Edições Afrontamento, , p. .
marinai, arma degli uomini del mare, “la terra che solca gli Oceani”. Dall’altro c’è l’oblio della nostra indipendenza, la negazione della nostra grandezza storica, la dismissione coloniale. È la perdizione della patria – la sua frammentazione, degenerazione e menzogna.
A sua volta, l’idea di “unità indissolubile” assume nel pensiero di Adriano Moreira un significato ideologico specifico che nasconde, attraverso l’idea di unità politica, la realtà di una struttura coloniale che prevede l’esistenza di territori dominanti ed altri dipendenti. In questo modo, il Portogallo poteva non soltanto sottrarsi alle accuse internazionali, ma anche proteggere i suoi possedimenti d’oltremare dall’ambizione delle grandi potenze. Il mio paese è un paese unitario, con gli stessi organi competenti in tutto il territorio nazionale, e da ciò risulta la sua unità politica. La nazione è una sola, e fino a dove arriva la nazione dovrà arrivare lo Stato. Questa è precisamente la ragione per cui la nostra Costituzione – di uno Stato unitario – non permette nessuna discriminazione tra i territori.
Infatti, come possiamo constatare, la formula dell’unità serve più che altro ad invocare una natura diversa del rapporto con le colonie africane portoghesi, che allontana l’idea coloniale delle altre nazioni europee. Quando il Portogallo nel diventa membro dell’ONU, si rifiuta di fornire informazioni sui territori coloniali e presenta l’Africa portoghese come una parte integrante del Portogallo, e per questo esente dagli obblighi previsti nella Carta per quanto riguarda i territori dipendenti. I princìpi che non si riferiscono esclusivamente ai territori sotto tutela e che non riguardano il problema portoghese sembrano essere stati formulati solo per quelle popolazioni e quei territori che non costituiscono un’unità politica, così come viene accettata dalla comunità internazionale [...], nella forma di un territorio dominante e altri territori dipendenti, che è precisamente l’inverso dell’unità politica.
Ivi, p. . A. Moreira, Imperialismo e Colonialismo da União Indiana, Lisboa, Agencia Geral do Ultramar, , p. . Moreira, Política Ultramarina, cit., p. .
Partendo da queste considerazioni, possiamo cogliere l’importanza che assumeva il concetto stesso di unità per la situazione precaria dell’impero coloniale portoghese di questo periodo. La costruzione della “verità” dell’unità della nazione mette a tacere qualsiasi conflitto che metta in dubbio l’idea del Portogallo come un tutto indivisibile dalle sue colonie. Salazar, quando presenta il Portogallo come una “nazione africana” e le sue colonie come una “continuità del Portogallo”, fa sì che l’ideologia del regime sorvoli sovrana sui conflitti coloniali che il suo Paese viveva in quel momento, sottraendo dall’attenzione internazionale la sua conturbata realtà coloniale. A sua volta, l’anticolonialismo e le lotte dei movimenti di indipendenza delle colonie portoghesi appaiono in questo modo come episodi completamente privi di senso. Importa rilevare che laddove all’uomo portoghese venne lasciato il tempo per insediarsi, attaccarsi alla terra, convivere e mescolarsi alle popolazioni per guidarle a modo suo – e quando ciò fu possibile – egli ha lasciato una traccia indelebile di lusitanità o semplicemente ha esteso il Portogallo. Perciò siamo anche, e a miglior titolo degli altri, una nazione africana.
E ancora: All’estero si sente parlare e si reclama l’indipendenza dell’Angola: ma l’Angola è una creazione portoghese e non esiste senza il Portogallo. L’unica coscienza nazionale presente nella provincia non è angolana, bensì portoghese, così come non ci sono angolani ma portoghesi dell’Angola [...]. Lo stesso vale per il Mozambico [...]. Il Mozambico può essere il Mozambico solo perché è Portogallo – disfatto il cemento che ci unisce e che fa parte della nazione portoghese, non esisterà più il Mozambico, né nella storia, né nella geografia.
. Colonialismo di spazio vitale e colonialismo missionario Per Adriano Moreira, dall’origine dell’Impero, l’azione colonizzatrice portoghese si manifesta attraverso un colonialismo del tutto particolare. Possiamo riconoscere infatti nel suo pensiero due tipi
Salazar, Política Ultramarina, in Discursos e notas políticas, cit., p. . Ibid.
di colonialismo a seconda della finalità del potere colonizzatore esercitato in una determinata situazione coloniale. Moreira distingue tra colonialismo di spazio vitale, quello condannato dalle Nazione Unite, e altre tipologie invece positive di colonialismo europeo, in particolare il colonialismo missionario, storicamente esercitato dai popoli iberici. Il carattere negativo del colonialismo di spazio vitale dipenderebbe dall’intenzione del potere colonizzatore, finalizzato esclusivamente alla conquista del territorio e alla rivendicazione del possesso secondo le necessità e gli interessi del popolo conquistatore. In questo tipo di colonialismo, sottolinea Moreira, i popoli nativi assumono un “carattere unicamente strumentale”, essendo il territorio, quello che diviene poi lo spazio vitale per il popolo colonizzatore, l’unico oggetto che interessa l’azione coloniale. Nel momento in cui il popolo colonizzatore, detentore del potere politico, afferma a tutti gli effetti la legittimità dei suoi interessi e considera il popolo colonizzato come suo mero strumento, siamo di fronte a quello che chiamiamo colonialismo dello spazio vitale, che va dalla subordinazione degli indigeni fino alla loro estinzione completa e sistematica.
Senza prendere minimamente in considerazione la violenza coloniale praticata nei territori africani in quel periodo, che può molto coerentemente essere chiamata violenza genocida, né le cifre impressionanti della tratta di schiavi nella quale il Portogallo ebbe un ruolo non marginale, Adriano Moreira ritiene che solamente il colonialismo orientato dalla dottrina dello spazio vitale sarebbe stata oggetto di contestazione da parte dell’ONU.
Si trattava, appunto, di condannare l’espansione di un popolo a scapito del sacrificio degli interessi di altri popoli, considerati inferiori o invasori e, comunque, destinati ad occupare una funzione subordinata nell’economia del popolo dominatore, ad essere espulsi o sterminati al fine di liberare le terre destinate ai conquistatori.
In contrapposizione a questa forma di colonialismo, Adriano Moreira difende la legittimità di un’altra forma di colonialismo: il colonialismo missionario. Praticato in particolare dai portoghesi, questo tipo di colonialismo rivelerebbe una finalità diversa del potere coloniale per il fatto di essere vincolato alla vocazione storica del popolo lusitano, prioritariamente tesa all’espansione del suo Impero in funzione della diffusione della fede cristiana. Lo storico Charles Boxer, quando analizza le caratteristiche del nazionalismo portoghese, mette in rilievo la centralità che questa difesa della “vocazione evangelizzatrice” assunse come forma ideologica secolare del colonialismo portoghese. L’idea della necessità della propagazione della fede cristiana nel mondo da parte del popolo portoghese, “popolo scelto” per sviluppare questa funzione storica, si presenta come una costante nel pensiero portoghese sin dai primordi delle conquiste d’Oltremare. Secondo lo storico inglese, l’opinione che “i portoghesi fossero i primi e i più risoluti convertiti al cristianesimo e i crociati e i difensori della Fede par excellence” esercitò un ruolo importantissimo nell’azione coloniale
Moreira, Política Ultramarina, cit., p. . Prendiamo qui i dati della tratta in Angola, epicentro portoghese della tratta di schiavi: “Dopo le incursioni di conquista di Paolo Diaz de Novais e la fondazione di Luanda nel , l’Angola divenne per il colonialismo portoghese, la maggior regione da cui fornirsi di schiavi. Circa .. di angolani furono deportarti nelle Americhe prima che il traffico cessasse ( Jaffe, Dal tribalismo al socialismo: storia dell’economia politica africana, cit., p. ). Uno studio attuale sullo stesso tema si trova in L.F. Alencastro, O trato dos viventes. Formação do Brasil no Atlântico Sul, São Paulo, Companhia das Letras, . Gli esempi caratteristici di colonialismo di spazio vitale erano, secondo lui: la colonizzazione britannica dell’America del Nord che provocò la quasi estinzione degli
indigeni; o ancora, l’azione dello Stato di Israele sulla popolazione palestinese nel periodo del secondo dopoguerra per la conquista dello spazio per la formazione di uno Stato ebraico. L’azione di Nehru, primo ministro dell’India liberata dal colonialismo britannico (), sarebbe anche un esempio tipico di colonialismo di spazio vitale per il fatto di adottare il principio di espulsione della razza bianca dall’Asia. Non per caso, sono esempi, come si vede, di applicazione della dottrina dello spazio vitale all’esterno del continente europeo. La “barbarie” del nazismo nell’Europa “civilizzata” – che spiegherebbe molto meglio l’espansione dello Stato a servizio della razza e la conquista dello spazio che doveva essere germanizzato, ciò che rappresenta la singolarità del nazismo, non viene affatto nominata. (Cfr. E. Traverso, La violenza nazista: una genealogia, Bologna, Il Mulino, ). Moreira, Política Ultramarina, cit., p. . Lo storico Boxer dimostra che la caratteristica inerente al nazionalismo portoghese di conciliare la vocazione espansionista con la vocazione evangelizzatrice si
portoghese e fu lo strumento per esaltare sentimenti nazionalisti e imperialisti, contribuendo così al mantenimento del “precario Impero portoghese”, come il più lungo della storia. Infatti, l’affermazione della “Fede cristiana” come simbolo dell’espansione ed elemento di unità nazionale rimane l’arma ideologica di difesa dell’azione coloniale portoghese, anche alla fine di quello che gli storici hanno definito il Terzo Impero Portoghese. Come sottolinea Von Albertini, il Portogallo appariva come un popolo civilizzatore per eccellenza: sono stati i portoghesi che hanno fatto le grandi scoperte, aprendo nuove terre e colonizzandole, ma soprattutto civilizzandole e cristianizzandole; il Portogallo non è adatto a cercare materie prime, ma a portare la luce nelle tenebre del mondo pagano. Il popolo di Camões non ha sfruttato i suoi possedimenti d’oltremare, bensì li ha civilizzati.
La missione del popolo portoghese quindi si traduce nell’utilizzo della dottrina cattolica come principio di mediazione nel rapporto con le popolazioni colonizzate. Questo spiega anche il fatto che, nonostante le tensioni che il governo portoghese ebbe con la Chiesa Cattolica per la disputa del potere nei territori coloniali, il regime continuasse ad adottare il sistema delle scuole missionarie, affidando ai missionari cattolici la difesa ideologica dell’impero. L’esaltazione dell’etica cristiana basata sul principio dell’uguaglianza tra gli uomini rappresenta il principio fondamentale dell’azione missionaria portoghese e la principale strategia ideologica a cui ricorre Adriano Moreira per giustificare una diversa natura del potere coloniale.
allora la comunità internazionale considera quell’azione il compimento di un dovere – uno dei valori che giustamente orientarono le forze alleate durante la guerra, ossia uno dei valori indicati nella Carta Atlantica e dall’ONU: indirizzare i popoli verso la libertà contro la miseria, la malattia e la paura. Insomma, in base all’etica dei popoli civilizzati e del diritto internazionale, soltanto il colonialismo missionario è ritenuto legittimo; e la dottrina dello spazio vitale è considerata un pericolo per la pace nel mondo.
Nella sua teoria, l’esempio più caratteristico dell’autentica identità dell’azione colonizzatrice portoghese sarebbe l’eredità storica lasciata dall’‘infante’, Don Henrique (-) – conosciuto come diffusore dell’arte della navigazione e battezzato come fondatore della scuola di Sagres. Questo perché il suo pensiero, secondo Adriano Moreira, illustra la comunione perfetta tra lo spirito di ampliamento degli orizzonti geografici del mondo occidentale e l’esigenza di un’azione missionaria da svilupparsi nei territori conquistati. L’inseparabilità tra lo spirito di espansione e l’etica missionaria cristiana allontanerebbe, di per sé stessa, l’idea di un imperialismo esercitato puramente a servizio di uno sfruttamento economico. L’azione storica di D. Henrique, per Moreira un “genio tutelare dell’espansione”, viene presentata come la prova dell’“autenticità etica” dell’azione colonizzatrice portoghese e della piena armonia tra gli interessi dello Stato in via di espansione e quelli della Santa Sede. Il presupposto etico dell’espansione d’Oltremare così come
trova in diverse fonti letterarie. Fondamentalmente nella credenza del sebastianismo, ossia, nel ritorno del re Sebastião – che nel tentativo di conquista del Marocco fu sconfitto e ucciso nella battaglia di Quibir, – così come nella credenza del ritorno di una figura messianica che potesse realizzare la profezia di un futuro glorioso per il Portogallo. Per questo argomento rinvio al capitolo Sebastianismo, Messianismo e Nacionalismo, in Boxer, O Império Colonial Português (-), cit. Von Albertini, La decolonizzazione. Il dibattito sull’amministrazione e l’avvenire delle colonie tra il e il , cit., p. .
Moreira, Política Ultramarina, cit., p. . L’‘infante’ Don Henrique, figlio del re Don João I, inaugurò la politica di espansione d’oltremare portoghese con la spedizione a Ceuta, nel . È noto per avere orientato la politica portoghese nel senso della scoperta e dell’occupazione di nuovi territori lungo la costa africana, che, in seguito, avrebbe permesso l’apertura di una nuova via verso le Indie. Questa scoperta permise l’apertura di un traffico diretto con questa regione, senza più la mediazione di arabi e italiani e l’inaugurazione del colonialismo moderno: “Affinché questo movimento marittimo fosse condotto nel migliore dei modi, l’Infante si installò nella punta di Sagres, nell’Algarve. Qui confluivano da diversi punti d’Europa gli uomini dotti e pratici nell’arte della navigazione. Anche se non si arrivò propriamente a fondare una scuola nautica, secondo una credenza mantenutasi a lungo, fu eminentissimo il ruolo di Sagres nello sviluppo delle esplorazioni marittime” (S. Buarque de Holanda et al., in História Geral da Civilização Brasileira, t. I, A época colonial, São Paulo, Difusão Européia do Livro, , p. ).
Quando l’azione coloniale è esercitata con lo scopo della missione e con la certezza che gli interessi dei popoli colonizzati siano preminenti,
concepita da D. Henrique esprime quello che Adriano Moreira si predispone a difendere: la legittimità del colonialismo portoghese e la natura morale dell’espansione imperiale. Il colonialismo missionario viene così presentato come sinonimo di una missione nazionale di significato universale. Infine il Portogallo, per essere fedele a questa funzione di carattere universale così profondamente radicata nella sua storia, deve riconoscere l’importanza del mantenimento delle sue colonie nel secolo XX. Ma quali sono, allora, le basi teoriche dell’universalismo portoghese che, nel suo discorso, rivendicano un tipo di colonialismo a misura d’uomo e al passo con le esigenze contemporanee e della comunità internazionale?
III LA PORTATA CULTURALE
Come Prospero, il colonizzatore europeo conosceva l’importanza della cultura e paventava la minaccia che proviene da uomini coscienti della propria storia e pieni di sicura fiducia nel valore delle proprie tradizioni. Altrimenti perché avrebbe mobilitato tutto – potenza militare, fede religiosa, forza intellettuale – per negare agli Africani i loro dèi, la loro cultura, il significato della loro civiltà? James Ngugi, L’Africa che progredisce ha bisogno del suo passato
. L’ideologia della “convivenza razziale” e dell’“inter-penetrazione di culture”: un dialogo con Gilberto Freyre Quando analizziamo le strategie ideologiche utilizzate nel discorso coloniale portoghese è palese il tentativo del regime di ‘ricostruire’ la tematica razziale, enfatizzando l’ideologia della convivenza razziale e della compenetrazione culturale. I riferimenti all’inferiorità razziale dei popoli colonizzati non sono più così espliciti nel secondo dopoguerra. Da quel momento la questione razziale, pur non perdendo la centralità all’interno del ragionamento coloniale, assume contorni ideologici specifici in relazione alle nuove strategie di legittimazione che gli ambienti coloniali dell’epoca percepiscono come necessari. Adriano Moreira si mostra perfettamente cosciente dell’importanza che la questione razziale e il trattamento delle popolazioni indigene occupavano nel periodo del dopoguerra. Da questa esigenza deriva un certo tipo di argomentazione che emerge chiaramente dalle sue strategie discorsive: lo spostamento del focus dalla tematica dell’inferiorità razziale e culturale dei popoli colonizzati alla specificità del carattere “culturale” del colonialismo
portoghese. L’idea che “sono le culture, non le razze, che hanno vocazione all’eternità” è la principale strategia teorica del regime per mascherare la materialità razziale della politica e della dottrina coloniale portoghese che, fino ad allora, rimandava espressamente a stereotipi di inferiorità razziale dei popoli delle sue colonie per giustificare la necessità del dominio coloniale. Nel libro L’Occidente e l’Oltremare portoghese, troviamo un capitolo intitolato Il contributo del Portogallo per la valorizzazione dell’uomo dell’Oltremare, che Adriano Moreira dedica a difendere il carattere universale della cultura portoghese. Questo universalismo ha a che fare, secondo lui, con un particolare ‘modo portoghese’ di relazionarsi con le differenti razze e le differenti culture delle colonie. La prova è costruita fondamentalmente intorno all’idea che l’etnocentrismo sarebbe estraneo all’azione coloniale portoghese. Per Adriano Moreira il colonialismo portoghese è sinonimo del tipo di colonialismo missionario che abbiamo descritto in precedenza, al quale sarebbe intrinseca un’etica cristiana, indissociabile dal principio di eguaglianza tra gli uomini che esclude qualsiasi relazione gerarchica tra le razze e le culture e, dunque, qualsiasi rapporto di dominazione.
Adriano Moreira allude alle tesi dell’intellettuale brasiliano Gilberto Freyre, principalmente al saggio L’integrazione portoghese nei tropici, con l’intento di sottolineare l’inseparabilità tra il colonialismo portoghese e l’esigenza di estensione di una civiltà cristiana e, dunque, di una cultura universale. Come vedremo, sono diversi gli argomenti mutuati dal pensiero del sociologo Gilberto Freyre, che viene utilizzato dal regime come un’autorità di riferimento per la difesa dell’idea di un carattere culturale specifico associato al fenomeno coloniale portoghese. Contemporaneamente il Brasile – l’ex maggiore colonia portoghese – diventa il simbolo e la riprova del benefico radicamento della cultura portoghese negli altri popoli a causa del “naturale” meticciato fisico caratteristico di quella società. Gli studi di Gilberto Freyre hanno come principale obiettivo quello di dimostrare il particolare modo dell’uomo portoghese di interagire con la popolazione autoctona nei tropici. Questa forma di interazione rivela, secondo lui, una tendenza naturale all’inter-penetrazione di etnie e di culture. Il Brasile è, per l’autore, il Paese che più si avvicina al concetto di democrazia razziale . Questo perché,
Senza dubbio fu questa concezione di vita ugualitaria e di democrazia il contributo più espressivo dell’azione portoghese nel mondo per la valorizzazione dell’uomo. Fu quest’azione completamente estranea all’idea di conflitto e di dominio, al sentimento di superiorità e inferiorità razziale, e allo schema semplicista della dialettica tra aggressione e risposta.
Secondo Moreira, l’uomo portoghese è colui che più rispetta e sa valorizzare popoli di diverse culture, una volta che esso [...] fu preparato per vivere non in conflitto, ma piuttosto in perfetta cordialità. Questa qualità è opposta a ogni etnocentrismo tipico di tanti atteggiamenti correnti che, valorizzando l’uomo nero, giallo, mulatto o bianco dimenticano la comune dignità.
Moreira, Política Ultramarina, cit., p. . Moreira, O Ocidente e o Ultramar português, cit., p. . Ivi, p. .
La forte presenza del meticciato razziale nei territori della colonizzazione portoghese è uno degli argomenti che più contribuisce ad occultare la base razziale sulla quale si sviluppò il sistema coloniale portoghese. Causa del diffondersi del meticciato non fu né la presunta apertura dell’uomo portoghese, né l’esistenza di una politica di incentivo al meticciato. La scarsità demografica dei portoghesi metropolitani, l’emigrazione in maggior parte maschile, la necessità di popolamento per facilitare l’occupazione e lo sfruttamento dei territori e, soprattutto, la posizione subalterna delle donne colonizzate in rapporto all’uomo europeo, sono le cause più congruenti con la realtà storica per spiegare il fenomeno del meticciato: “Il meticciato brasiliano è innanzitutto una risultante del problema sessuale della razza dominatrice e ha come epicentro il colono bianco. In questo scenario in cui le tre razze, una dominatrice e due dominate, stanno in contatto, tutto si dispone naturalmente a vantaggio della prima, sia nel campo economico che in quello sociale e, di conseguenza, anche in quello dei rapporti sessuali” ( Júnior, Formação do Brasil Contemporâneo: colônia, cit., p. ). Il sociologo brasiliano Florestan Fernandes dimostra il vero ruolo a cui si prestava il mito della democrazia razziale. Secondo lui, la necessità della sua esistenza come strumento teorico emerge proprio nella transizione dalla società schiavista alla società di classi avvenuta con l’abolizione della schiavitù, tramite la “Legge Aurea” (). D’ora in poi, diventa imprescindibile la costruzione di un sistema coerente
secondo lui, la formazione della società brasiliana, nonostante sia composta da differenti etnie e culture, non è segnata dalla presenza di conflitti di carattere puramente razziale. Per Gilberto Freyre la formazione della società brasiliana caratterizza un nuovo tipo di civiltà, una civiltà lusotropicale.
Ci aiuta il sociologo brasiliano Renato Ortiz quando analizza i pensiero di Gilberto Freyre confrontandolo con il dibattito degli intellettuali brasiliani intorno alla costruzione dell’identità nazionale brasiliana. Nel suo libro Cultura Brasileira & Identidade Nacional, Renato Ortiz presenta uno studio sulle teorie razziali che si svilupparono alla fine del secolo XIX – che può essere considerato l’origine delle scienze sociali brasiliane – e che riguardano la problematica della costruzione dell’identità e della cultura ufficiale dello Stato nazionale. L’autore mette in luce come uno degli argomenti fondamentali del dibattito scientifico brasiliano per la definizione di una “particolarità nazionale”, insieme alla nozione climatologica dell’ambiente, fu la categoria della razza. Ortiz dimostra come il discorso delle scienze sociali brasiliane di quest’epoca faceva proprie le premesse razziste della produzione teorica europea rappresentata principalmente dal darwinismo sociale, dall’evoluzionismo di Spencer e dal positivismo di Comte. Con questa continuità logicoteorica il nero e l’indio apparivano unicamente come ‘ostacoli della civilizzazione’, prevalendo perciò ‘l’ideale imbianchimento’ della società brasiliana, appoggiato dalla politica del flusso migratorio europeo per il Brasile. Proprio per questo motivo, Celia Maria de Azevedo chiarisce come la nozione di razza venisse utilizzata, alla fine del XIX secolo, come propaganda dello Stato per incentivare l’immigrazione europea, in quanto il concetto di ‘civilizzazione’ e di ‘progresso’ della nazione brasiliana, fino a quel periodo, rimandava all’ideale di purificazione razziale e di ‘imbiancamento’ della popolazione.
Lo status nazionale del Brasile non è espressione della coscienza di razza, poiché nessuna razza unica, pura o quasi pura formò il popolo brasiliano. Tra i popoli europei che si lanciarono nella colonizzazione dell’America, nessuno fu meno segnato dal complesso di superiorità o di purezza della razza che il portoghese – una nazione quasi non-europea. La sua mistica di unità o purezza fu religiosa o di status religioso – la religione cattolica romana o lo status cristiano – non di razza. Lo status nazionale del Brasile è etnicamente negativo.
Ma, prima ancora di considerare le riflessioni di Gilberto Freyre sulle caratteristiche predominanti della colonizzazione portoghese nei tropici, passiamo ad analizzare il contesto teorico nel quale si forma il suo pensiero per poter cogliere con più lucidità il legame esistente tra le sue tesi e l’ideologia coloniale portoghese del secondo dopoguerra. O meglio, proviamo a capire perché la sua teoria, anche se costruita all’interno del contesto nazionale brasiliano, viene perfettamente incontro alle esigenze di difesa ideologica della legittimità del colonialismo portoghese.
In questo momento è condivisa l’affermazione che il Brasile si costituì attraverso la fusione di tre razze fondamentali: il bianco, il nero e l’indio. Ciononostante, il quadro di interpretazione sociale attribuiva alla razza bianca una posizione di superiorità nella costruzione della civilizzazione brasiliana.
con i fondamenti etici e giuridici del regime repubblicano () e che, dunque, affermi l’eguaglianza e la libera concorrenza tra i neri e i bianchi. L’esistenza di questo mito, come chiarisce Fernandes, non aveva senso prima, essendo il pregiudizio di pelle e la discriminazione razziale fattori espliciti e dichiarati della legittimazione dell’ordine schiavista. Per Fernandes, la funzione assunta dal mito della democrazia razziale è puramente quella di una “fonte di stagnatura”, cioè di garantire la “persistenza” e la “rivitalizazione” dei criteri di dominazione razziale ereditati dal passato, ma che ora devono misurarsi con l’emancipazione formale del nero (F. Fernandes, A integração do negro na sociedade de classes, vol. , O legado da “raça branca”, São Paulo, Dominus Editora, , p. ). G. Freyre, Novo mundo nos trópicos, Rio de Janeiro, Univer Cidade, , p. .
Cfr. C.M. de Azevedo, Anti-racismo e seus paradoxos: reflexões sobre cota racial, raça e racismo, São Paulo, Annablume, . R. Ortiz, Cultura Brasileira & Identidade Nacional, São Paulo, Editora Brasiliense, , p. .
Tuttavia, quello che vuole dimostrare sostanzialmente Renato Ortiz è che, mentre la “problematica del meticciato” assumeva una connotazione negativa nel discorso scientifico brasiliano alla fine del secolo XIX, con i lavori di Gilberto Freyre, negli anni Trenta, questo panorama viene totalmente sconvolto. Il meticcio, da allora in poi, inizia a essere considerato come un elemento positivo della formazione nazionale. Questo periodo, cosiddetto “Era Vargas”, è caratterizzato da un’accentuata centralizzazione statale del potere politico e coincide con un momento di industrializzazione intensa del Brasile. La razza in sé non era più un problema teorico: il nero non rappresentava più l’ostacolo della nazione, ma, d’allora, l’operaio ‘libero’, ossia l’elemento necessario per renderla produttiva. Proprio in questo periodo la cultura ufficiale dello Stato fa sì che la categoria del meticcio diventi quella che meglio assimilava l’identità nazionale brasiliana. L’ideologia del meticciato rimane comunque “un prodotto recente della storia brasiliana” ed è stato Gilberto Freyre a trasformare il meticcio nell’elemento nazionale. Per effettuare questa operazione teorica, Gilberto Freyre applica la tesi culturalista di Franz Boas per l’interpretazione dell’identità nazionale brasiliana e la costruzione dell’“unicità dell’identità nazionale”. Gilberto Freyre rilancia il tema razziale per trasformarlo, come si faceva in passato, in oggetto privilegiato di studio per la comprensione del Brasile. Tuttavia, non lo considera più in termini razziali, come facevano Euclides da Cunha o Nina Rodrigues. Quando Gilberto Freyre scrive, le teorie antropologiche che hanno status scientifico sono altre, Il ‘varguismo’ può essere riassunto brevemente come il periodo del populismo desenvolvimentista del governo di Getúlio Vargas (-) che si contrappone all’oligarchia agraria brasiliana per appoggiare la borghesia industriale e difendere una politica di industrializzazione del Paese. La definizione dell’identità nazionale brasiliana è inseparabile, secondo Ortiz, dalla relazione tra cultura e Stato: “In verità, la lotta per la definizione di quella che sarebbe una cultura autentica è la delimitazione di frontiere fatta da una politica che cerca di imporsi come legittima. Impostare la problematica [dell’identità nazionale] in questo modo equivale a dire che esiste una storia dell’identità e della cultura brasiliana che corrisponde agli interessi dei differenti gruppi sociali nel loro rapporto con lo Stato” (Ortiz, Cultura Brasileira & Identidade Nacional, cit., p. ). Ivi, p. .
perciò egli si rivolge al culturalismo di Franz Boas. Il passaggio dal concetto di razza a quello di cultura elimina una serie di difficoltà rispetto all’eredità atavica del meticcio.
E qui arriviamo al punto della tesi di Gilberto Freyre che volevamo sottolineare. Come spiega Ortiz, la rimozione teorica delle premesse razziste da lui operata avviene attraverso la concomitante affermazione di un’ideologia dell’armonia razziale, ovvero della presentazione di una società meticcia “armonica ed equilibrata”. In un certo senso il pensiero di Gilberto Freyre è tomista poiché elimina qualsiasi possibilità di superamento: il signore non si oppone allo schiavo, ma si differenzia da questo. La senzala [definizione del luogo di residenza degli schiavi] non rappresenta un antagonismo a casa-grande [definizione del luogo di residenza dei signori] ma semplicemente impone una differenziazione, che è spesso complementare nell’ambito della società globale. Di conseguenza, l’accento dell’analisi ricade sugli aspetti ‘positivi’ della cultura [...]. In questa prospettiva, i conflitti si risolvono nello specifico del concetto di differenziazione, che presuppone l’esistenza di una società armonica ed equilibrata.
In questo senso, le tesi di Gilberto Freyre riflettono esattamente il periodo storico in cui la cultura ufficiale brasiliana assunse positivamente l’idea di un “Brasile meticcio”, perché, solo con ciò, si poteva operare l’unicità nazionale, ed eliminare “a priori gli aspetti di antagonismo e di conflitto della società. Le parti [le differenti razze e culture] sono distinte, ma si trovano armonicamente unite nell’ideologia che le riunisce”. Passiamo dunque a vedere più da vicino come si opera teoricamente l’unicità nazionale nel suo pensiero. Gilberto Freyre sosteneva che la società e le organizzazioni sociali che si formarono nei territori della colonizzazione portoghese dimostrano, attraverso il processo di meticciato delle razze e di assimilazione dei valori culturali, la formazione di un nuovo tipo di civiltà. “Civiltà luso-tropicale” è il termine da lui utilizzato per separare la condizione etnica da
Ivi, p. . Ivi, p. . Ibid.
quella culturale nei territori di colonizzazione portoghese. Per dare enfasi a questo “carattere simbiotico” dell’uomo portoghese, capace di entrare in relazione con l’ambiente e le popolazioni tropicali, l’autore difendeva anche la possibilità di un tipo speciale di scienze, la “lusotropicalogia”. Con questo obiettivo Gilberto Freyre mette a fuoco lo studio dello sviluppo dell’uomo portoghese e della sua cultura nei tropici. La cultura portoghese è per il sociologo una “cultura plastica”, ovvero, che rivela tanto la capacità di “conciliare i valori europei con quelli tropicali”, quanto quella “d’integrazione nella vita e nelle culture tropicali”. Il sociologo sosteneva la tesi secondo la quale la cultura portoghese è contraria all’idea di una cultura eurocentrica, essendo a essa contrapposta, poiché si tratta invece di una “cultura cristocentrica”. In mancanza del sentimento o della coscienza di superiorità di razza, così saliente nei colonizzatori inglesi, il colonizzatore portoghese si appoggiò al criterio della purezza della fede. Invece del sangue fu la fede che venne difesa dall’angoscia di infezione o contaminazione da parte degli eretici. L’ortodossia divenne la condizione dell’unità politica. Ma non si deve confondere questo criterio di profilassi e di selezione, così legittimo alla luce delle idee del tempo, con il criterio eugenico dei popoli moderni, con la pura xenofobia.
Partendo da queste considerazioni sul carattere cristiano universale della cultura portoghese, Gilberto Freyre, quando si riferisce al fenomeno coloniale, coglie l’obiettivo – che appare nella sua opinione come fondamentale e intrinseco all’azione coloniale portoghese – di sviluppo di una “unità transnazionale di culture” con i suoi territori e popolazioni colonizzati, ossia, la cultura lusotropicale. Da quando, nella sua condizione di europeo, il portoghese ha raggiunto la vocazione di espansione nei tropici, vocazione più fraterna che imperiale – assimilando valori da arabi, ebrei, indiani, amerindi, abissini, da popoli e culture tropicali in generale, e combinando i valori europei con questi, disdegnati dagli altri europei – la cultura portoghese
ha conseguito vittorie superiori a quelle semplicemente economiche o politiche di altri Paesi europei. Vittorie lusotropicali e non specificamente europee.
A quanto pare è proprio l’idea sviluppata da Gilberto Freyre, di una cultura portoghese che traspone il fattore razziale, una cultura essenzialmente operatrice dell’unità dell’identità nazionale – al di sopra di ogni conflitto proveniente dalla convivenza della diversità etnica e culturale caratteristica della situazione coloniale – che servì a Moreira per adattare la dottrina coloniale del regime alle esigenze di un ‘nuovo’ discorso coloniale. L’esaltazione del meticciato nella formazione della società brasiliana, simbolo e prova dell’esistenza di una democrazia razziale, serve a Moreira – e all’intera propaganda coloniale del regime – a costruire una cultura ufficiale situata al di sopra dei conflitti etnici del passato coloniale schiavista e della contemporanea realtà coloniale africana. L’interpretazione armonica e positiva delle razze nella formazione dell’identità brasiliana di Gilberto Freyre – che appare come eredità esclusiva della colonizzazione e della cultura portoghese – serve ugualmente al regime come prova della legittimità del colonialismo portoghese. Per questo possiamo trovare costantemente nella propaganda coloniale di quel periodo un vocabolario colmo di idee come quella di “un Portogallo pluricontinentale e plurirazziale”, dell’“integrazione armoniosa tra le razze”, della “convivenza multiculturale”, del “convivio interculturale”, del “fraterno convivio”, della “inter-penetrazione di culture”. Dunque, passiamo qui a un sistema teorico che si rivolge esclusivamente alla cultura come principale motore di legittimazione della pratica coloniale portoghese e della forma benefica di colonialismo che questa comporterebbe. Il colonialismo appare così come una necessità culturale, diversa dalla pratica di sfruttamento esercitata puramente a servizio d’interessi economici. L’allusione alla tesi di Gilberto Freyre rivela proprio lo sforzo del discorso co-
G. Freyre, Casa-Grande e Senzala. Formação da família brasileira sob o regime da economia patriarcal (), São Paulo, Ed. Global, , p. .
G. Freyre, Um brasileiro em terras portuguesas, Rio de Janeiro, José Olympio, , p. .
loniale di questo periodo per la definizione di un ideale di cultura portoghese. È la cultura portoghese, non la razza, che definisce l’identità dell’essere portoghese. Una cultura universalista (poiché essenzialmente cristiana ed egualitaria) si conferma così attraverso le tesi di Gilberto Freyre come quella che meno si comprometterebbe con l’etnocentrismo occidentale.
In realtà le cose non andavano così armonicamente nelle colonie africane e neanche in Brasile. Il confronto dell’azione del colonialismo portoghese nei due continenti, che troviamo nello studio di Roger Bastide, mette in luce le debolezze e le contraddizioni del lusotropicalismo di Gilberto Freyre. Bastide non sottovaluta l’utilità dell’approccio sociologico di Freyre che dimostra come la particolarità dello sviluppo della schiavitù e del colonialismo portoghese nel Brasile abbia dato origine alla società meticcia; tuttavia, sostiene che la distinzione della società dei ‘mulatti’ che si formò in Brasile rispetto a quella delle colonie africane portoghesi derivi da fattori storici. Bastide considera la teoria di Freyre errata sin dalle sue premesse, poiché vuole negare la logica interna del sistema coloniale schiavista, che invece è unica e non dipende dalla potenza colonialista o dalla società colonizzata. Come ci insegna Claude Meillassoux, la schiavitù va intesa come sistema sociale, non come prodotto sui generis di una comunità domestica. Perciò “presentare la schiavitù come l’estensione della parentela, significa esattamente
. Il sistema dell’assimilazione culturale È la cultura che, nel pensiero coloniale dell’epoca, appare come lo strumento legittimo per rendere gli uomini uguali, condizione per il progetto ideologico dell’Estado Novo di costruire una nazione multirazziale, fondata sugli ideali di convivenza e di tolleranza razziale. Come abbiamo appena detto, la giustificazione più originale dell’impresa coloniale portoghese dell’epoca è quella a sostegno della sintesi culturale, ossia di un sistema coloniale che, diversamente dalla concezione etnocentrica delle altre potenze imperialiste, partendo da una base politica egualitaria, riconoscerebbe il valore della reciprocità di scambio culturale proveniente dal contatto colonizzatorecolonizzato. Si potrebbe credere, fin qui, che il sistema coloniale portoghese assumesse l’idea di formare una cultura meticcia nei territori colonizzati – contrariamente, rispetto ad altre culture imperiali occidentali, caratterizzate, come sottolinea E. Said, da un pensiero identitario, che presenta la cultura occidentale come una sostanza unitaria, pura ed omogenea, fondamentalmente “separata” e “più evoluta” dal resto del mondo, ossia degli “altri”. Quando due popoli entrano in contatto sotto il segno di uno statuto politico generale di uguaglianza e il popolo colonizzato è incoraggiato a stabilire una sintesi culturale, quando non etnica e politica, con il popolo colonizzatore, il risultato generale è l’assimilazione – una uniformità di modelli di condotta ai quali evidentemente contribuisce anche il popolo colonizzato.
Cfr. E.W. Said, Cultura e Imperialismo, Roma, Gamberetti, . Moreira, Política Ultramarina, cit., p. .
Il meticciato razziale e culturale non spiega il quadro delle relazioni razziali di fatto della società brasiliana. Gli studi del sociologo Florestan Fernandes sull’integrazione del nero nella società di classe forniscono un dettagliato panorama della “persistenza” e della “rivitalizzazione” dei criteri di dominazione razziale ereditati dal passato schiavista e presenti ancora nella società brasiliana che si specchia nel mito della democrazia razziale (cfr. Fernandes, A integração do negro na sociedade de classes, vol. , O legado da “raça branca”, cit.). Proprio per questo, si parla ancora oggi di paradossi dell’antirazzismo per riferirsi alle politiche pubbliche assunte dallo Stato brasiliano per risolvere i problemi razziali ancora molto presenti. Le politiche delle ‘quote razziali’ nelle università pubbliche tuttora in vigore in Brasile, ove si discutono anche nuovi diritti in base alla razza, sono indubbiamente necessarie ma certamente non sufficienti. “Celebrare la diversità e accumulare ricchezze” è ciò che rimane intoccabile anche quando lo Stato intende riparare i problemi razziali senza rendersi conto che la miseria assume tutti i colori in Brasile. Cfr. de Azevedo, Anti-racismo e seus paradoxos: reflexões sobre cota racial, raça e racismo, cit. L’insediamento dei portoghesi in Africa ha riscontrato più difficoltà se paragonato alle condizioni trovate in Brasile. La densità demografica dell’Africa, le malattie alle quali l’uomo europeo non era immune, la forte resistenza armata contro l’azione del colonialismo portoghese, che riuscì ad occupare effettivamente le colonie africane solo nei primi decenni del secolo XX, sono alcune ragione individuate da M. Harris, Portugal’s Contribution to the Underdevelopment of Africa and Brazil, in R.H. Chilcote (ed.), Protest and Resistance in Angola and Brazil, Berkely, University of California Press, .
riconoscere la fondatezza della vecchia idea paternalistica che ha sempre funzionato da alibi morale per la schiavitù”, ovvero quella secondo la quale “lo schiavista cerca di fare passare i suoi sfruttati per i propri figli”. La particolarità del rapporto signore-schiavo che certamente rimane correlato alle classi “servo-padrone” caratteristica della “Casa-Grande e Senzala” come abbiamo già trattato non esclude dunque la logica di sfruttamento basata sulla violenza interetnica di dominio del signore-bianco sullo schiavo-nero e non può essere spiegata fuori dal contesto della tratta.
lo che lo storico José Mattoso denomina “sforzo integrazionista”, che riassume la preoccupazione evoluzionistica della politica d’oltremare del regime di Salazar di elevare i popoli autoctoni delle sue colonie alla condizione di “cittadini assimilati”. E qui dobbiamo soffermarci sul pensiero coloniale francese dove possiamo trovare l’epicentro della teoria dell’assimilazione, sviluppata attraverso la difesa della necessità della missione civilizzatrice, alla quale il Portogallo sembra essersi largamente ispirato. Come sostiene Dino Costantini, i teorici del colonialismo francese si servono della tradizionale dottrina della missione civilizzatrice per giustificare e legittimare la necessità della colonizzazione francese contemporanea. Fondamentalmente questa dottrina, oltre a provvedere alla moralizzazione dell’opera colonizzatrice francese e svincolarsi dalle chiavi di interpretazione razziste tradizionali, trova il suo moto di giustificazione proprio nel mettere l’accento sulla differenza socio-culturale delle popolazioni colonizzate, per rendere necessaria, appunto, l’azione coloniale francese sotto la forma della missione civilizzatrice.
In questo senso, c’è un sistema di schiavitù che risulta ovunque nella dominazione e nello sfruttamento da parte dell’uomo bianco, e c’è un sistema di colonialismo che sempre risulta nell’alienazione dell’uomo di colore. Ciò che si fonda sulla forza può solo essere mantenuto con la forza – la forza delle armi o, in modo più insidioso, la forza che corrompe le anime. Né il Brasile né il Portogallo sono un’eccezione a questa regola: il Brasile con la politica sugli indios e sugli schiavi che lavoravano nelle piantagioni o nelle miniere; il Portogallo con la politica sui nativi dell’Angola e del Mozambico, prima venduti come schiavi e, oggi, inseriti in un sistema di lavoro forzato.
Eppure la lusotropicalogia serviva al Portogallo per difendere la legittimità della missione civilizzatrice in Africa. La necessità di creare “un permanente legame di tipo assimilatore tra i possedimenti d’oltremare, sottraendosi al movimento di emancipazione africano ed asiatico” fu ciò che caratterizzò in forma significativa il discorso coloniale portoghese nel secondo dopoguerra. Da qui nasce la necessità di difendere il sistema dell’assimilazione culturale, consacrato con le riforme giuridiche della legislazione coloniale portoghese realizzate nel . Queste riforme caratterizzano quel-
La differenza tra popoli civilizzati e non civilizzati non è pensata [...] nei termini di una differenza di natura, ma nei termini di una differenza di evoluzione o di sviluppi ovvero in termini essenzialmente temporali. Per il discorso coloniale colonizzatori e colonizzati appartengono a stadi o tappe differenti interni ad una medesima linea evolutiva. Ciò permette, nello stesso istante in cui se ne riconosce la comune umanità, di sancire l’esistenza di una gerarchia tra le differenti popolazioni. Popoli adulti e popoli bambini appartengono alla medesima specie, ma a momenti differenti e gerarchicamente ordinati della sua evoluzione. La distanza che separa tra loro colonizzatori e colonizzati non è dunque quella assoluta che divide tra loro due razze distinte, ma quella temporale che oppone un groupe attardé o primitif o archaïque o non civilisé e un groupe avancé o moderne o civilisé. L’opera della civilizzazione in cui consiste la colonizzazione ha come suo fine di colmare l’abisso temporale che separa civilisés e non-civilisés.
C. Meilassoux, Antropologia della schiavitù, Milano, Mursia, , p. . Cfr. Freyre, Casa-Grande e Senzala. Formação da família brasileira sob o regime da economia patriarcal, cit. R. Bastide, Lusotropicalogy, Race, and Nationalism, and Class Protest and Development in Brazil and Portuguese Africa, in Chilcote (ed.), Protest and Resistance in Angola and Brazil, cit., p. . von Albertini, La decolonizzazione. Il dibattito sull’amministrazione e l’avvenire delle colonie tra il e il , cit., p. .
Cfr. Mattoso (a cura di), História de Portugal. Estado Novo, cit. Costantini, Una malattia europea. Il ‘nuovo discorso coloniale’ francese e i suoi critici, cit., p. .
Questa interpretazione della storia evoluzionista e monologica tipica della tradizione illuminista – che vede l’Occidente come presente storico e destino dell’umanità perché contiene in sé gli elementi di “progresso-sviluppo-modernità” e i popoli colonizzati, in contrapposizione, come un passato richiuso nell’“immobilità-sottosviluppo-tradizione” –, è presente ugualmente nel pensiero coloniale portoghese, ovvero, la posizione secondo la quale [...] solo attraverso il provvidenziale intervento delle nazioni civilizzate queste popolazioni, trattenute dalle proprie infantili abitudini culturali nell’orbita chiusa della riproduzione della tradizione, possono incamminarsi verso la maturità, la razionalità e la pace.
Una simile interpretazione è utilizzata dal discorso coloniale portoghese dell’epoca per presentare il colonialismo come una “funzione di interesse pubblico” proprio per i benefici della missione evangelizzatrice e civilizzatrice che il Portogallo si mostra cosciente di portare in Africa. La popolazione africana delle colonie portoghesi appare anche qui in una fase di civiltà inferiore alla cultura portoghese, ma che comunque riflette una società in evoluzione. A sua volta, chiudendo lo stesso circuito teorico di cui qui s’utilizza il discorso coloniale francese di difesa della mission civilisatrice, ovvero, dell’equazione tra colonialisme e civilisation, il colonialismo portoghese apparirebbe come uno strumento adatto a portare i benefici della nazionalità portoghese – per la tecnica, l’insegnamento, i capitali e, innanzitutto, la cultura universale della pace che comporta il contatto fra razze predisposto dal programma coloniale portoghese. La colonizzazione apparirebbe quindi strumento adatto a rendere “gli uomini un po’ meno infelici”.
Ivi, p. . Le due equazioni sono tratte da J. Fabian, Time and the other: how antropology makes its object, citato in Costantini, Una malattia europea. Il ‘nuovo discorso coloniale’ francese e i suoi critici, cit., p. . Costantini, Una malattia europea. Il ‘nuovo discorso coloniale’ francese e i suoi critici, cit., p. . Moreira, A Batalha da Esperança, cit., p. . Ivi, p. .
L’Africa si è arricchita quando abbiamo impiantato l’idea di Stato e di Patria [...]. I popoli europei hanno potuto offrire [ai popoli africani] ciò di cui avevano bisogno e che per molto tempo non avrebbero potuto raggiungere da soli. La formula portoghese è la più benefica per l’Africa.
La matrice ideologica della strategia di legittimazione del colonialismo attraverso la formula mission civilisatrice (per quanto riguarda la chiave culturale di giustificazione della colonizzazione, ovvero di espansione della civiltà occidentale) e la sua piena equivalenza teorica, come abbiamo sottolineato prima, si trova nella strategia spirituale di lettura del colonialismo portoghese da secoli rivendicata dal Portogallo. Ancora nel secolo XX, la propaganda coloniale continua ad affermare l’idea secondo la quale “fu la croce a fare dell’Occidente una realtà culturale senza limiti”. Il colonialismo missionario è dunque lo strumento di trasmissione dei valori dell’“eguaglianza del genere umano, indipendentemente da razza, colore o sesso”, del “consenso come criterio della assimilazione culturale”, “nello “scambio di modelli tra le civiltà” e nell’“ideale delle società multirazziali paritarie”. Il “senso contrario”, ossia la via dell’indipendenza, appare perciò estremamente pregiudizievole agli africani, “senso contrario” inteso qui come sinonimo di un cammino che ignora i benefici della civiltà portoghese e che porta “alla servitù che comporta il neocolonialismo e il regresso al primitivismo”. Gli africani non sarebbero pertanto ancora maturi politicamente per reggersi da soli e scegliere una via alternativa a questa biforcazione necessaria tra destino coloniale e miseria umana, riflesso della loro “incapacità politico-culturale”. Dalla teoria dell’assimilazione emerge pertanto il carattere unicamente propagandistico dell’ideale di sintesi culturale difesa dal discorso coloniale dell’epoca “salazariana” attraverso il riferimento fatto alle teorie di Gilberto Freyre. Se andiamo ad indagare più da
Ivi, p. . Moreira, O Ocidente e o Ultramar português, cit., p. . Ivi, p. . Moreira, A Batalha da Esperança, cit., p. .
vicino i criteri teorici dell’assimilazione presenti nel pensiero di Adriano Moreira costatiamo infatti che niente è diverso da quello che caratterizza le culture imperialiste: nel processo di omogeneizzazione culturale che comporta il sistema di assimilazione, non potrebbe mancare la direzione del paradigma evoluzionista. Fin dalle più antiche leggi si rese evidente che il segno dell’uguaglianza risiede nella cultura e non nella razza, perciò la conversione alla religione cattolica implicava l’uguaglianza dello statuto giuridico. Per quanto riguarda l’Oltremare si portò quindi non una semplice dottrina, bensì una politica di assimilazione, già sperimentata e basata sulla preconcetta convinzione della superiorità culturale. Si tratta semplicemente di una superiorità che l’assimilazione permette di vincere (al contrario della barriera della razza, che invece non ha limiti oltrepassabili) e applica al problema del contatto coloniale lo stesso criterio portoghese di mobilità sociale, sempre rispettoso della posizione di classe.
Il sistema di assimilazione culturale è, pertanto, lo strumento politico assunto come legittimo dalla politica coloniale portoghese per superare le differenze di carattere culturale esistenti tra colonizzato e colonizzatore, presentato, a sua volta, “nei termini di una differenza di evoluzione o di sviluppo ovvero in termine essenzialmente temporali”. Non si trattava più di affermare che i popoli africani non affondavano radice in nessuna cultura, ma innanzitutto di presentare la cultura africana come inferiore tout court. Ragione che giustifica la sua ‘sovrapposizione’ con la cultura dei colonizzatori portoghesi. Passiamo ora a trattare più da vicino qual è il disegno teorico di Adriano Moreira, per comprendere i principi che orientano la politica di assimilazione applicata nelle colonie portoghesi. Innanzitutto dobbiamo sottolineare l’obiettivo di fondo che ne chiarisce il carattere strumentale. Nel quadro della situazione coloniale che implica il contatto di differenti razze e culture, che si può denominare società multirazziale, l’assimilazione culturale ha come ruolo la formazione di una classe intermedia, incaricata dell’interazione tra la cultura del colonizzatore e quella dei colonizzati.
Si tratta di una minoranza attiva che agisce per l’assimilazione della popolazione autoctona. Gli assimilati – designazione giuridica e anche statistica degli indigeni che optarono totalmente per la legge comune – di solito si identificano totalmente con la classe media del popolo colonizzatore.
Per acquisire il titolo di uomo civilizzato, e quindi potere essere considerato giuridicamente cittadino portoghese, l’africano doveva offrire prove di un atteggiamento socialmente civilizzato, ovvero, conveniente con le regole della cultura portoghese. Come possiamo verificare nella sua dottrina, il sistema di assimilazione, oltre a funzionare come formula ideologica che legittima l’azione coloniale portoghese sotto la formula dell’azione evangelizzatrice e civilizzatrice, non è altro che uno strumento di depersonalizzazione dei popoli colonizzati. La psicologia di alienazione dell’uomo colonizzato – che si regge sul principio della “negation systematiséé de l’autre” e il processo di oppressione sistematica e di annientamento della cultura dell’uomo colonizzato, strumento base della colonizzazione secondo Fanon – si manifesta in forma evidente nella teoria di Adriano Moreira. La “depersonalisation absolue” dell’uomo colonizzato trova la sua conferma nel primo requisito teorico della condizione di assimilato delineata nella dottrina di Moreira: l’esigenza di totale identificazione psicologica del popolo colonizzato con la cultura del popolo colonizzatore. Si può considerare classe intermedia non rivoluzionaria solo quella che, avendo accettato i criteri di vita del colonizzatore, non porta risentimento o senso di diseredazione, caratteristiche individuate da Tonybee nei proletari, intesi come forza sovversiva. Sembra quasi certo che qualsiasi popolo che intenda richiamarsi al modello di vita di una cultura diversa debba fare ricorso a una classe speciale, la classe intermedia, che abbandoni la cultura originaria assumendo la funzione di generalizzare i nuovi costumi. A tal fine è assolutamente indispensabile che i membri della classe intermedia non abbiano motivo di risentimento con il popolo al cui stile si ispirano, indipendentemente dall’esistenza di una segregazione razziale.
Moreira, Política Ultramarina, cit., p. . Costantini, Una malattia europea. Il ‘nuovo discorso coloniale’ francese e i suoi critici, cit., p. .
Moreira, Política Ultramarina, cit., p. . Cfr. F. Fanon, Pelle Nera Maschere Bianche. Il nero e l’altro (), Milano, Marco Tropea Editore, . Moreira, Política Ultramarina, cit., p. .
Purché fosse comprovata questa totale identificazione psicologica, oltre alla “destribalizaçao” dell’indigeno, ovvero, la rinuncia al diritto tradizionale tribale che si trova delineata nell’Estatuto do Indigenato, era necessaria quindi una simultanea dimostrazione da parte dell’indigeno di non avere nessun “risentimento” riguardo al fatto di cominciare a fare parte della cultura del colonizzatore. Ma perché, allora, parlare di risentimento, se fin dall’inizio l’“inter-penetrazione di culture” veniva descritta come pienamente armoniosa e naturale? La condizione di assimilato viene perciò intesa come sinonimo di una “posizione mentale in relazione al futuro della società multirazziale”. Il fatto è che il disegno di questo futuro abbandona qui la chiave spirituale di espressione della cultura portoghese e assume un criterio oggettivo materiale di identificazione con le forme di organizzazione e i valori capitalistici della società occidentale.
del processo necessario per l’omogeneizzazione culturale dei valori occidentali da parte dei colonizzati, ci sono le prerogative previste nella Lei do Indigenato che completano questo complesso quadro di criteri della civiltà portoghese imposti alla popolazione locale:
La classe intermedia, così identificata per il suo atteggiamento mentale, avrà come criterio identificatore l’avere adottato la concezione giuridica del colonizzatore nei capitoli fondamentali della vita privata: la proprietà, la famiglia, i contratti e le successioni. Così sarà la classe intermedia, originaria del popolo colonizzato, quella identificata con gli usi e costumi del colonizzatore in qualsiasi ambito.
Parlare di risentimento assume dunque un senso concreto, attraverso l’identificazione psicologica con le forme capitalistiche d’organizzazione sociale – una vera e propria accettazione da parte del colonizzato del fenomeno coloniale e delle sue strutture di dominazione implicite. In pratica, l’indigeno doveva dimostrare piena fedeltà ai valori della cultura portoghese e alle strutture di dominazione che questa comportava e, in contropartita, come “premio” per la sua lealtà, entrare a far parte della classe intermedia, che in qualche modo partecipava alla struttura di potere sulla quale si reggeva la colonia e quindi del suo stesso sfruttamento. Parallelamente alle condizioni delineate nella dottrina di Adriano Moreira, che avevano come obiettivo stabilire un criterio teorico
avere più di anni; parlare correttamente la lingua portoghese; esercitare una professione, arte o ufficio che garantisca un reddito necessario per il sostenimento proprio e dei familiari a carico, o possedere beni sufficienti allo stesso fine; avere un buon atteggiamento e avere acquisito la formazione e l’abitudine all’integrale applicazione del diritto pubblico e privato dei cittadini portoghesi; non essere disertore o renitente alla leva militare.
La critica diretta a questo sistema si fa, di solito, invertendo l’applicazione di alcune regole ai portoghesi della metropoli – se il rigore di questi requisiti fosse stato applicato in patria, gran parte dei cittadini portoghesi sarebbero stati equiparati alla personalità giuridica e socio-politica dell’indigeno. All’indigeno si imponeva l’obbligo di parlare correttamente il portoghese, quando in patria gli analfabeti erano circa % – il tasso europeo più elevato. Anche quello del sostentamento sarebbe stato un criterio problematico, se applicato in patria, dato che la situazione economica aveva costretto i portoghesi all’emigrazione in massa verso altri Paesi europei. Ecco come la teoria politica “salazariana” dimostrava tutta la sua ipocrisia. . Il portoghese e l’indigeno: due personalità giuridiche non comunicanti La separazione gerarchica culturale tra due mondi, quello del colonizzato e quello del colonizzatore si rispecchia in modo più concreto nel trattamento giuridico speciale che viene assegnato alle popolazioni native delle colonie portoghesi attraverso l’Estatuto do Indigenato. Questo statuto giuridico è lo strumento base che
Ivi, p. . Ivi, p. .
Ivi, p. . Mattoso (a cura di), História de Portugal. Estado Novo, cit., p. . L’Estatuto do Indigenato fu istituito con decreto legge n. /.
legalizzava la discriminazione razziale e culturale di questi popoli in relazione ai cittadini portoghesi. Anche se stiamo parlando di un periodo politico dove gli stessi portoghesi in patria avevano diritti limitati per il funzionamento del regime, questa situazione assumeva proporzioni drammatiche una volta presa in considerazione quella delle popolazione africane nelle colonie. ‘Indigeno’ era il termine utilizzato dal vocabolario coloniale portoghese per identificare gli autoctoni neri delle colonie. L’umanità dei popoli africani, con l’appoggio scientifico degli schemi teorici dell’antropologia e dell’etnologia di fine Ottocento, veniva definita proprio con questo termine ed in opposizione a quella dell’uomo portoghese civilizzato. Come sottolinea Raymond Betts, questo termine rinvia in generale al funzionamento di tutti i sistemi coloniali. L’autore sottolinea l’idea di Edward Said, secondo la quale la cultura imperiale – elemento essenziale dell’imperialismo, per la comprensione del complesso delle pratiche di dominazione e sfruttamento degli altri popoli non occidentali – si costruisce attraverso un processo dialettico di negazione della cultura del colonizzato. La nozione di indigeno appare quindi come quella che evidenzia di più la funzionalità coloniale di separazione tra popoli che necessitano d’essere dominati e quelli che devono dominare. Il termine “indigeno”, oggi così carico di connotazione derisorie, era allora un termine descrittivo dell’essenza del mondo coloniale, che consisteva in una serie di oggetti da vedere, esaminare e catalogare in quanto facenti parte di uno specifico ambiente. In questo senso, antropologi e amministratori condividevano lo stesso atteggiamento: gli uni e gli altri intendevano convivere senza mescolarsi con i popoli che incontravano. In questo processo essi definivano se stessi e la propria cultura per negazione, diversa da quella dei colonizzati.
E questa separazione non poteva che avere una base razziale come criterio di differenziazione, come rivela lo storico Jaffe, nonostante tutta la retorica antirazzista della propaganda coloniale e la difesa della nazione portoghese come una unità con le sue colonie, ovvero, una nazione multirazziale.
Il sistema coloniale portoghese fu fondamentalmente unito da una separazione di colore (cioè ciò che le univa era ciò che li divideva). Questa società di caste di colore mantenne i portoghesi “bianchi” (ogni portoghese, anche in Portogallo, aveva diritti politici) politicamente separati ed isolati, nonché antagonisti verso gli africani, che erano per forza rimasti nel “tribalismo”. Così il “tribalismo” divenne un nesso di separazione di colore e di discriminazione razziale.
Praticamente questo trattamento speciale offerto alla condizione di indigeno serviva dunque all’esclusione totale del godimento degli stessi diritti politici e civili offerti ai portoghesi. A partire da questo statuto la personalità giuridica dell’indigeno, che equivaleva alla quasi totalità della popolazione africana, veniva delineata come simile a quella di un minore incapace, che invocava, appunto, un potere tutelare. Secondo Adriano Moreira, questo sistema fu orientato dal criterio della “volontarietà di sottomissione alla legge” del popolo colonizzato, visto che, anziché essere imposta, l’assimilazione passava attraverso il consenso dell’indigeno, come se davvero egli potesse optare e scegliere per la condizione di assimilato. Secondo lui, non esisteva alcuna contraddizione nel sistema giuridico portoghese derivante dalla convivenza tra il rispetto del principio di uguaglianza naturale di tutti gli uomini davanti alla legge consacrato nella Dichiarazione dei Diritti Umani () e la discriminazione legale tra l’uomo portoghese e la popolazione di colore nelle sue colonie. A condizione che si abbia in mente non già un’attribuzione astratta di diritti ma la misura in cui concretamente possono e devono essere effettivi, senza dubbio, non spetta a tutti gli Stati il compito di accordare l’uguaglianza astratta della cittadinanza ai gruppi che, per loro formazione culturale specifica, non sono nella condizione di esercitare e difendere lo stato giuridico.
La condizione di indigeno, ovvero di una umanità diversa dai portoghesi, poteva essere superata dunque solo attraverso la con
Betts, La decolonizzazione, cit., p. .
Jaffe, Dal tribalismo al socialismo: storia dell’economia politica africana, cit., p. . Moreira, Política Ultramarina, cit., p. .
quista della condizione di assimilato. L’uguaglianza nel diritto coloniale portoghese passava pertanto necessariamente attraverso il sistema di assimilazione che abbiamo descritto prima. La formula secondo la quale, “prima di rendere uguale la legge, è necessario rendere uguali gli uomini a cui essa deve essere applicata, facendo sì che questi abbiano gli stessi sentimenti, le stesse abitudini e la stessa civiltà”, già presente nella generazione degli operatori coloniali della Antologia Colonial Portuguesa, riassume con perfezione la proposta dell’Estado Novo quanto al trattamento giuridico delle popolazioni delle colonie africane. Laddove la politica di assimilazione implica la sostituzione di modelli di cultura, gli imperativi di dignità umana esigono l’intervento che oggi appare proclamato nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo come dovere generale di tutta l’umanità [...]. Perciò l’unità politica è coerente con la differenziazione degli statuti delle popolazioni, poiché soltanto statuti differenziati permettono di assicurare il rispetto delle forme culturali della vita privata di ognuno dei gruppi che si unirono per formare il popolo portoghese.
Per Adriano Moreira, l’Estatuto do Indigenato, molto lontano dall’evidenziare l’esistenza di una politica segregazionista applicata dal Portogallo nelle sue colonie era invece un trattamento giuridico speciale derivato dallo stato evolutivo delle popolazione africane e dalla necessità di una tutela specifica che riconoscesse la specificità culturale di questi popoli. Essendo così, l’eccezione all’applicazione del principio di uguaglianza – corollario dell’etica cristiana e argomento base del discorso coloniale portoghese di questo periodo – viene giustificata con la scusa del rispetto per la differenza culturale dei popoli nativi africani. Una differenza pensata apposta come causa determinate dell’incapacità di godimento da parte di queste popolazioni degli stessi diritti civili e politici offerti all’uomo portoghese. La negazione della formazione coloniale da sempre basata sulla ‘separazione di colore’ appare come sinonimo di un benefico e necessario paternalismo coloniale.
Il diritto interno portoghese è orientato non dal principio della uguaglianza astratta davanti alla legge, ma dall’effettiva protezione dei valori umani, la quale esige un’adeguata difesa degli indigeni che godono effettivamente dei diritti civili e politici, essendo rispettosi delle istituzioni peculiari della loro organizzazione sociale: libertà, sicurezza individuale, libertà di coscienza, libertà di culto e di lavoro, diritto all’assistenza pubblica e protezione governativa.
Adriano Moreira, discorrendo sulla revoca dell’Estatuto do Indigenato – del settembre promulgata su sua iniziativa come Ministro delle Colonie – non espresse nessuna posizione critica per quanto riguarda questa eccezione giuridica applicata ai popoli africani. Sempre difendendo lo spirito di missione dell’opera civilizzatrice portoghese, della quale, secondo lui, questa legislazione è un ritratto fedele, Adriano Moreira attribuisce un significato di vittoria alla revoca. Questa si collegava, appunto, con il proprio successo dell’opera civilizzatrice: Questa non è in nessun modo una situazione straordinaria o anomala, il proprio principio costituzionale assicura la transitorietà delle misure speciali di protezione e di difesa, come quelle del Decreto-legge n. . [...]. Certo invece è che l’evoluzione delle popolazioni si fa ad un ritmo più veloce in virtù delle provvidenze e delle risorse messe a servizio di quest’evoluzione.
Costa, Princípios de administração colonial, cit., p. . Moreira, O Ocidente e o Ultramar português, cit., p. .
Moreira, Política Ultramarina, cit., p. . Cfr. decreto legge n. ., settembre, . Moreira, A Batalha da Esperança, cit., p. .
CONCLUSIONE
Il nostro popolo africano sa benissimo che il serpente può cambiare la pelle, ma è sempre un serpente. Amílcar Cabral, Um povo que se liberta
La forza ideologica del discorso coloniale portoghese del periodo analizzato sta nel tentativo di realizzare una convivenza tra le strategie di legittimazione coloniale fondate sulla teoria della assimilazione e del lusotropicalismo. Fondamentalmente, la base comune di questa operazione teorica sta nell’uso della categoria culturale come mera variante del mito biologico della superiorità razziale. È la cultura che, in sostituzione del mito biologico, funge da principio gerarchico attraverso il quale si stabilisce la differenza tra il colono e il colonizzato. È il principio della assimilazione culturale il criterio su cui si basa l’esclusione/accesso alla cittadinanza portoghese. Parimenti, è la cultura il baricentro ideologico di legittimazione e giustificazione della presenza coloniale portoghese nell’Africa contemporanea. La concezione assimilazionista, giustificazione fondamentale dell’espansione coloniale portoghese in Africa nel secondo dopoguerra, comincia a prendere forma nell’ideologia coloniale portoghese con la scoperta del Nuovo Mondo e l’affermarsi della problematica dell’alterità culturale. Come dimostra Braga-Pinto, la nozione di assimilazione già a quel tempo dominava i temi letterari intorno alle conquiste portoghesi ed era ciò che permetteva sia la restaurazione degli ideali cristiani nella metropoli sia la legitimazione della missione portoghese, consistente nel portare oltremare l’apertura al mondo cristiano e quindi alla storia universale. Secondo lo storico l’idea dell’assimilazione si presentava, in sostanza, come una “promessa” (rimandata ad un futuro incerto) poiché esprimeva un presunto strumento volto a risolvere la frattura culturale emersa dall’incontro tra il colonizzatore portoghese e gli indios, oggetto primario e privilegiato dell’esperimento della dottrina assimilazio
nista, perché essi non venivano considerati né eretici, né pagani, ma povos gentis, ossia cristiani per natura, soggetti ancora da convertire alla fede cristiana. Solo l’idea dell’assimilazione alla fede cristiana poteva garantire di conseguenza la “promessa di un futuro comune e al di sopra delle relazioni etniche”, senza tuttavia dimenticare la sua primaria funzione: “escludere le differenze e contemporaneamente rivendicare l’integrazione e l’unificazione”. E questo perché “l’essenza della missione è rimanere una missione”. Per quanto riguarda il discorso coloniale portoghese in Africa, l’Antologia Coloniale presenta una strategia discorsiva centrata sulla questione razziale, che è durata fino all’epoca d’oro del colonialismo portoghese (cioè gli anni Trenta) e che dichiarava la necessità di discriminare su basi razziali piuttosto che di assimilare. Con questo nostro lavoro abbiamo voluto individuare il primo spartiacque nel modo di trattare la diversità culturale in Africa nel corso del secondo dopoguerra. È in questo periodo che emerge tutta la particolarità e faziosità di un discorso coloniale che, senza rinunciare all’ideale assimilazionista e alla concezione ‘essenzialista’ della cultura portoghese, comincia a preoccuparsi in modo tutto particolare della diversità culturale africana. Il multiculturalismo in una società transcontinentale diventa a questo punto la principale bandiera della propaganda coloniale e permette la compresenza inconsueta del sistema coloniale razzista (e fascista nella metropoli), con il discorso multiculturale e la difesa dell’assenza di razzismo contenuta nell’ideale del meticciato.
È in questo stesso periodo che si può individuare in Africa il propagarsi del lungo percorso ideologico del lusotropicalismo, che nasce in Brasile negli anni Trenta, ma diventa ben presto una “teoria da esportazione”, ossia l’ideologia coloniale ufficiale del regime di Salazar estesa in forma fruttuosa negli “spazi lusofoni” in Africa, in Asia, e poi adattata a differenti epoche e contesti politici . Il posto occupato dall’antropologia di Gilberto Freyre nel nazionalismo salazarista dimostra la continuità del ruolo di primo piano che questa scienza esercitò nella legittimazione dei regimi coloniali e nelle forme di dominazione edificate sul rapporto tra le razze, nonostante rispondesse ai principi generali della legge e dell’ordine internazionale che, in quello specifico momento storico, classificava la discriminazione razziale e l’apartheid come crimini contro l’umanità. È possibile individuare il secondo spartiacque di questo percorso ideologico nell’indipendenza delle colonie africane. Si tratta adesso, per quanto riguarda l’Africa, di adattare il “vecchio lusotro-
Sancisce la nascita di questa discussione la Giunta di Valladolid ( e ), con cui si pone fin da allora la questione della natura degli indios delle Americhe quindi anche di quale politica coloniale adottare nei loro confronti. C. Braga-Pinto, As promessas da história: discursos proféticos e assimilação no Brasil Colonial (-), São Paulo, Edusp, , p. . Ivi, p. . È utile ricordare che il dibattito sul meticciato non si riduce alla questione ideologica. Peter Wade ha indagato la produzione di altre “logiche meticce” a partire dal punto di vista del “processo vivo degli attori sociali”. Con questo proposito rimarca la trasformazione dell’idea della nazione meticcia (che risulta in sostanza monoculturale) da queste logiche meticce. Wade indica l’opposizione tra la “logica di esclusione” contenuta nelle ideologie nazionaliste dell’omogeneità del meticciato e la “logica di inclusione” intrinseca al processo di costruzione subalterna della nazione meticcia,
quindi rispettosa della diversità culturale e razziale (Rethinking Mestizaje: Ideology and Lived Experience, “J. Lat. Amer. Stud.”, , pp. -). È altrettanto valida l’osservazione di Maria da Coinceição Neto che, nell’ambito di una analisi sui meticci nella società angolana, osserva: “i meticci mai costituirono una categoria omogenea nella società coloniale – non formarono una classe, né furono detentori di uno stesso status, né condivisero un’identità culturale unica. Loro [i meticci] devono essere analizzati dal punto di vista della classe o strato sociale in cui erano integrati. La situazione del meticcio nel periodo coloniale moderno dipendeva della sua filiazione o dalla legittimazione del progenitore civilizzato”. Questa metodologia che considera la posizione socio-economica insieme al fattore razziale si imponeva ancora di più, secondo la studiosa, dopo la revocazione dello Estatuto do Indigenato, nel , e cioè quando non era più la barriera giuridica ad impedire l’ascensione sociale del meticcio (M.C. Neto, Ideologias da Colonização de Angola, “Lusotopie”, , p. ). Cfr. A. Enders, Le lusotropicalisme, théorie d’exportation. Gilberto Freyre en son pays, cit. e Y. Léonard, Salazarisme et lusotropicalisme, histoire d’une apropriation, “Lusotopie”, , pp. -. Cfr. T.R. De Souza, Some contrasting visions of luso-tropicalism in India, “Lusotopie”, , pp. -. Nel volume sopra citato, Lusotropicalisme. Idéologies coloniales et identités nationales dans les mondes lusophones, sono presenti studi dettagliati sugli sdoppiamenti del mito lusotropicalista, sulla sua attuazione negli spazi lusofoni e sull’importanza di considerarlo un oggetto di ricerca necessario per capire la situazione attuale di queste realtà.
picalismo ai tempi della democrazia” e questo rivela la necessità di indagare sulla continuità ideologica imperiale di questi miti ancora attivi all’interno di argomentazioni neocolonialiste. Entriamo in questo modo in un dibattito tuttora aperto sull’ibridazione del lusotropicalismo con la lusofonia, sulle “realtà e i miti della cooperazione portoghese” nella CPLP (Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese), sul ruolo del discorso culturalista nella politica estera del Brasile verso l’Africa, sugli enjeux identitari negli spazi lusofoni della PALOP (Paesi Africani di Lingua Ufficiale Portoghese), sul trattamento
degli immigrati delle ex colonie in Portogallo, nonché sugli effetti di questo immaginario “luso”, sia nelle società produttrici sia in quelle vittime dell’“armonia potenziale di un passato comune” e di un presente segnato da una crescente disuguaglianza sociale. Per avere un’idea del potere di attuazione e dell’effetto di alienazione di questo immaginario basato sulla diversità etnica e culturale e sul presunto “mondo armonico” costruito dal dominio portoghese, possiamo leggere quanto scritto dalla filosofa brasiliana Marilena Chauí nel saggio per la commemorazione dei cinquecento anni della “scoperta” del territorio, Brasil: mito fundador e sociedade autoritaria. Chauí mostra come il “discorso competente” impiega
M. Cahen, Des caravelles pour le futur? Discours politique et idéologie dans l’“Institutionalisation de la communauté des pays de langue portugaise”, “Lusotopie”, , p. . Cfr. J. Oppenheimer, Réalités et mythes de la coopération portugaise, “Lusotopie”, , pp. -. Sui limiti del discorso culturalista della politica estera brasiliana negli anni Settanta e Ottanta una volta messi in confronto con la politica interna in Brasile, fortemente segnata da pregiudizi razziali, si può consultare l’articolo di José Saraiva, Diplomacy and Culture: African descents and Brazil’s African Policy, up to the present. The relevance of the culturalist discourse, in P. Savard, B. Vigezzi (eds.), Le multiculturalisme et l’histoire des relations internationales du XVIIIe siècle a nos jours, Milano, Unicop, , pp. -. L’articolo di Amado Luiz Servo nello stesso volume presenta un excursus dell’evoluzione del pensiero diplomatico brasiliano fino agli anni Settanta, periodo, secondo lui, in cui si assiste all’esaltazione delle radici africane nel discorso diplomatico (Politique extérieure d’une société pluraliste: le cas du Brésil, in Savard, Vigezzi (eds.), Le multiculturalisme et l’histoire des relations internationales, cit., pp. -). La presa in considerazione della cultura nera comincia ad essere ufficialmente messa in gioco grazie alle lotte dei movimenti neri contro il razzismo taciuto, la de-valorizzazione della cultura africana e la palese disuguaglianza di opportunità di cui i discendenti afrobrasiliani sono vittime. Sulle rivendicazioni identitarie dei movimenti neri in Brasile e il loro ruolo nella contestazione del modello politico ispirato all’ideologia del Brasile Meticcio si può consultare S. Costa, Dois Atlânticos. Teoria Social, anti-racismo, cosmopolitismo, Belo Horizonte, UFMG, . La necessità di una politica di valorizzazione della cultura africana è stata riconosciuta dal governo brasiliano nel , quando fu approvata la legge . che rendeva obbligatorio lo studio della storia e della cultura afrobrasiliana e africana nelle scuole elementari pubbliche. Questo progetto di legge era già stato presentato al Congresso Brasiliano nel da parte del Movimento Nero Unificato (MNU), come sottolineato da José Saraiva nell’articolo sopracitato. “Lingua Portoghese, un patrimonio comune, un futuro globale” è uno dei capisaldi impiegati dal governo portoghese per difendere la necessità di rafforzare il ruolo dei Paesi di lingua ufficiale portoghese nel mondo e difendere la loro identità contro l’omologazione culturale che la globalizzazione comporta, attraverso un accordo ortografico per unificare l’idioma portoghese a livello internazionale. Questo accordo
è tuttora in vigore nel Portogallo e in Brasile e ancora in discussione tra i paesi africani della PALOP. Cfr. R. Cotroneo, Portogallo si parlerà in ‘brasiliano’, “Corriere della sera”, maggio . Fino a che punto si può sostenere la centralità della matrice linguistica e culturale portoghese per difendere l’identità delle ex colonie africane portoghesi nel mondo globalizzato? A questo proposito si rivela interessante la posizione dello scrittore Mia Couto che, anziché difendere l’accordo ortografico, propone una politica che abbia per obiettivo uno scambio culturale equo e la divulgazione della cultura critica nata nei paesi africani. Lo scrittore mozambicano consiglia di essere cauti e di considerare le manipolazioni politiche che si possono nascondere dietro l’affermazione del legame “comunitario”, storico e culturale esistente tra il Portogallo e le sue colonie africane. Per Mia Couto il “Mozambico è e non è allo stesso tempo un paese di lingua portoghese”. Ciò vuol dire che esistono comunità di persone, come nelle altre colonie africane portoghesi, che non fanno parte dell’universo linguistico e culturale del Portogallo. Non si tratta per lo scrittore di negare questo legame storico e di non riconoscerne il ruolo positivo dell’avvicinamento tra i paesi “lusofoni”, ma piuttosto di guardare questo legame con occhi critici. A questo proposito si potrebbe portare avanti, secondo Mia Couto, una politica volta a promuovere una maggior conoscenza della realtà dei paesi africani (cfr. http: //revistabula.com/posts/entrevista-mia-couto). Si può consultare il programma della Conferência Internacional sobre o Futuro da Lingua Portuguesa no Sistema Mundial per verificare la discussione del tema oggi a livello ufficiale (cfr. http://www. dc.mre.gov.br/box-/brasilia-conferencia-internacional-sobre-o-futuro). M.M. Gusmão Neusa, Luso-africanos em Portugal: portugueses ou imigrantes?, in Simpósio Internacional. Migração: nação, lugar e dinâmicas territoriais, cit. A. Barbeitos, Une perspective angolaise sur le lusotropicalisme, “Lusotopie”, , p. . Cfr. M. Chauí, Brasil: mito fundador e sociedade autoritária, São Paulo, Fundação Perseu Abramo, . Marilena Chauí utilizza la definizione “discorso competente” per riferirsi alle immagini costruite dalla classe dominante per una identificazione universalizzante dei soggetti sociali. Si tratta di un discorso costruito dall’alto, con il fine di dissimulare la
questo immaginario armonico per naturalizzare e nascondere le tensioni, i conflitti, le contraddizioni, le ingiustizie che segnano da sempre la realtà sociale brasiliana. Con ciò la filosofa intende dimostrare il “potere di coazione e coesione” svolto sino ad oggi dai miti che trasmettono questa immagine “positiva” e “unita” del Brasile, “il dono di Dio e della natura”, la “terra pacifica che non tollera la violenza”, dove regna la “fratellanza tra uomini di differenti razze e culture”. L’autoritarismo della classe dominante, secondo la filosofa, è consapevole del potere di questa “cultura armonica” e impone la sua “cultura autoritaria”, “l’orgoglio di essere brasiliani”, facendo in modo che il popolo creda che sia prodotta da lui stesso, quando invece è imposta. L’assunzione della cultura come elemento di base per giustificare e legittimare la politica coloniale portoghese rimanda alla tendenza culturalista che il discorso razzista incorpora dopo le stragi del regime nazista. Il contributo degli studi di Pierre Taguieff consiste nel mettere in evidenza l’inclinazione del discorso razzista del periodo successivo al nazismo verso uno “slittamento dal linguaggio dell’ineguaglianza e della subordinazione a quello della differenza e della separazione”. Il riconoscimento della differenza è presentato come un antidoto alla violenza imperialista del razzismo inegualitario-gerarchizzante attraverso la difesa di una “tolleranza pluralistica della molteplicità”. Questa evoluzione non elimina
tuttavia il razzismo, ma determina lo sviluppo di una nuova logica razzista che si edificherebbe ora attraverso una base culturale; tutto ciò è definito da Taguieff razzismo differenzialista. Tuttavia, Alberto Burgio ha messo bene in evidenza come “i prestiti reciproci tra ideologie naturalistiche e argomentazione di ordine storico culturale” appartengano da sempre alla storia del razzismo e ne costituiscano la logica stessa, cioè “il passaggio dalla cultura alla natura”. Come dimostrato da Burgio “solo nell’unità concreta delle due logiche il razzismo è in grado di uscire dal campo della teoria pura e divenire effettivamente una forza produttiva di realtà storica”. Se consideriamo direttamente la realtà storico-sociale delle colonie portoghesi in Africa, come messo in luce da Hosea Jaffe, quello che si nasconde dietro l’apparato ideologico coloniale portoghese è la coerenza mantenuta tra secoli di politica economica schiavista e le nuove forme di sfruttamento del lavoro nel XX secolo, in particolare quella del lavoro coatto, quella dell’esportazione di lavoratori dalle colonie portoghesi alle compagnie minerarie inglesi nell’Africa del Sud e quella dell’imposizione dell’emigrazione forzata ad un grande contingente di capoverdini per fare lavori a basso costo in Portogallo. La legge fondamentale su cui si regge il sistema coloniale portoghese di quest’epoca è quindi “chi non è assimilato, è obbligato a lavorare”. È proprio in questa afferma-
dominazione che realizza la logica del potere, attraverso una identificazione sociale “armonica”, “identica”, “omogenea”, che non prende in considerazione le differenze, le contraddizioni, le divisioni di classe e i fattori di lotta della realtà sociale: “L’ideologia ha la peculiarità di fondare la separazione tra le idee dominanti e gli individui dominati, in modo da impedire la percezione dell’impero degli uomini sugli uomini, grazie alla figura neutra dell’impero delle idee” (M. Chauí, Cultura & Democracia, São Paulo, Cortez Editora, , p. ). Cfr. P.-A. Taguieff, La force du préjugé: essai sur le racisme et ses doubles, Paris, La Découvert, . A. Burgio, L’invenzione delle razze, Roma, Manifesto libri, , p. . A partire da tale orientamento, Pierre Taguieff propone un metodo teorico di separazione di due logiche diverse del discorso razzista: quella del razzismo biologico (ontologico-naturalista), il razzismo inegualitario, e quella del razzismo culturalista, chiamato da Taguieff razzismo differenzialista e che, come sottolineato da Burgio, è la
“versione più soft del razzismo”, ovvero, la sua “evoluzione civile”, “pluralista” (Burgio, L’invenzione delle razze, cit., p. ). Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Cfr. M. Harris, Labour Emigration among the Moçambique Thonga. Cultural and political factors (), in I.M. Wallerstein (ed.), Social Change: the colonial situation, cit., pp. -. Jaffe, Dal tribalismo al socialismo: storia dell’economia politica africana, cit., p. . Prendiamo in prestito i dati forniti dallo storico Lincoln Secco per dimostrare il fallimento del presunto sforzo integrazionista dell’azione civilizzatrice ed evangelizzatrice difeso dalla propaganda coloniale portoghese del secondo dopoguerra: “Tra tutti i .. mozambicani soltanto . erano considerati ‘civilizzati’; tra i .. angolani soltanto .; tra i . guinensi soltanto ., tra i . abitanti di San Tome e
zione, infatti, che possiamo constatare la “sostanziale continuità e le modeste differenze tra vecchio e nuovo razzismo”, ovvero il fatto che il razzismo è anzitutto un “rapporto sociale materiale fatto di oppressione di razza prima di esserne l’espressione emotiva e mentale che lo naturalizza, e in quanto tale è una forza di conservazione della oppressione di razza”. Ritorniamo dunque alla concezione di Caio Prado jr. sul “senso della colonizzazione” nei tropici. Essa si basava sino al XX secolo sulla struttura materiale della colonia di sfruttamento. Ciò ci spiega tanto il fine esteriore al quale la pratica coloniale di sfruttamento delle risorse e della forza lavoro era funzionale, quanto il ruolo economico-sociale avuto dalla costruzione di barriere razziali fra il colono-europeo, gli schiavi neri importati dall’Africa e gli indios. Nonostante il proposito propagandistico di moralizzazione della colonizzazione e della sua epurazione dalle premesse biologico razziali, un rapporto oggettivamente ineguale tra le razze rimane la pietra angolare di tutti i sistemi coloniali sino al secondo dopoguerra. L’asservimento materiale e spirituale delle popolazioni africane e il saccheggio delle loro ricchezze – con tutta la complessità che le diverse forme del colonialismo comportano – rimangono pertanto gli elementi cardine di un sistema che si è voluto dare nuove forme, ma che non poteva non essere vincolato alla sua propria ragione di esistenza.
Principe soltanto .”. Il Portogallo si vedeva incapace di promuovere l’assorbimento molecolare dei suoi dominati concedendogli la cittadinanza portoghese. La popolazione portoghese nelle colonie era insignificante in rapporto ai nativi e non si mescolava con essi (Secco, A Revolução dos Cravos e a crise do império colonial português, cit., p. ). Per quanto riguarda l’India possiamo invece rifarci ai dati di Teotónio R. de Souza della capitale Goa, nel . Secondo l’autore, infatti, solo il % della popolazione parlava il portoghese (Some contrasting visions of luso-tropicalism in India, cit., p. ). Basso, Razze schiave e razze signore. Vecchi e nuovi razzismi, cit., p. . Ivi, p. .
Parte Seconda
IL MONDO CHE L’ANTICOLONIALISMO DI CABRAL INIZIÒ A ‘COSTRUIRE’
INTRODUZIONE
Il contesto derivato dalla lotta di liberazione nazionale della Guinea è l’avvenimento contemporaneo considerato da diversi studiosi e critici come un’esperienza di enorme importanza storica. La lotta anticoloniale del Paese, che nel dopoguerra era il più povero dell’Africa Occidentale, è stata considerata una delle esperienze rivoluzionarie più significative del continente. Le parole del grande esperto della storia e della cultura africana, Basil Davidson – che ha lavorato a lungo per recuperare il passato di un intero continente rinnegato come luogo di produzione di storia e che ha anche partecipato in prima persona alla lotta anticoloniale in questo Paese – possono essere un motivo significativo per studiare questo contesto. La Guinea è un piccolo Paese, con una popolazione indigena inferiore ad un milione di unità, e forse tre o quattromila civili portoghesi [...]. Ma per alcuni versi la Guinea presenta un’importanza che trascende largamente il Paese in se stesso: essa è un po’ un microcosmo, e la sua situazione è paradigmatica dell’Africa degli ultimi anni Sessanta. La Guinea è insomma un luogo che vale la pena di osservare non solo per quel che specificamente è, ma anche per gli insegnamenti generali che se ne possono trarre.
Oggi, la difficoltà di riconsiderare gli studi sulla lotta anticoloniale si rapporta più che altro alla delusione e alla mancanza di una speranza di trasformazione che era presente invece in tutti gli
Davidson, La liberazione della Guinea. Aspetti di una rivoluzione africana, cit., p. .
autori che, in quel periodo, si erano impegnati a documentare la guerra di liberazione nella Guinea-Bissau e a Capo Verde. In gran parte, questa speranza si concentrava nell’esemplare azione politica, accompagnata dalla teorizzazione della rivoluzione, della personalità guida del movimento di liberazione nazionale: Amílcar Cabral. Anche se il suo assassinio ha rappresentato una grande perdita per il PAIGC e per l’intera popolazione di questi territori, c’è anche chi sostiene che “la vera rivoluzione cominciò dopo l’espulsione dei portoghesi”, ovvero dopo l’espulsione dell’“invasore bianco”, con la pratica collettiva che veniva imposta all’uomo africano per “superare le potenzialità costruttive del nazionalismo rivoluzionario” e passare alla concretizzazione della “transizione socialista”. Nella prefazione del libro Diário da Libertação – dove troviamo la testimonianza degli sviluppi e delle difficoltà della concretizzazione postcoloniale del progetto politico di liberazione – il sociologo Florestan Fernandes mette in luce che la teoria politica rivoluzionaria messa in atto per distruggere il colonialismo non era sufficiente ad alimentare il “nuovo salto” che esigeva questo passaggio al socialismo. Valutando la situazione postcoloniale, nonostante le difficoltà e i limiti dell’azione rivoluzionaria, a tre anni dall’indipendenza () e dalla morte di Cabral, attraverso questo documento possiamo trarre un bilancio positivo delle iniziative del PAIGC e della forte partecipazione popolare alla ricostruzione del Paese. A questo punto è opportuno parlare della “crisi di conoscenza” che Cabral considerava un aspetto da affrontare per l’analisi della situazione dei Paesi sottomessi all’imperialismo e avere cosí una prospettiva di trasformazione radicale di queste realtà. La mancanza di ideologia, come presa di coscienza della situazione storica di un popolo e delle proprie contraddizioni, era, secondo Cabral, il problema più importante che i movimenti di liberazione nazionale dovevano affrontare.
Il deficit ideologico, per non dire la mancanza totale di ideologia da parte dei movimenti di liberazione nazionale – che ha la sua giustificazione di base nell’ignoranza della realtà storica che questi movimenti pretendono di trasformare – costituisce una delle maggiori, se non la più grande debolezza della nostra lotta contro l’imperialismo.
Ed è per questo motivo che, come mette in evidenza Manuel Alegre, la lotta di liberazione nazionale del PAIGC fu combattuta con la “forza delle armi e delle idee”. Già negli anni Sessanta, nonostante le vittorie di tanti Stati africani contro i poteri coloniali e la conquista dell’indipendenza politica, Cabral parlava di crisi della rivoluzione africana. Secondo lui, questa crisi aveva la natura di conoscenza, in quanto si collegava con il fatto che fino a quel momento “le forze nazionaliste africane fossero state incapaci di misurarsi fino in fondo con l’imperialismo, col neocolonialismo e con la stessa società africana”. Pensiamo che lontano dall’essere una crisi di crescita, si tratti di una crisi di conoscenza. In diversi casi, la pratica della lotta di liberazione e le prospettive sul futuro si presentano non solo prive di una base teorica, ma anche in parte scollegate dalla realtà locale.
Il problema del superamento del nazionalismo rivoluzionario, oggi, si pone diversamente, se lo consideriamo all’interno di un contesto in cui si parla della “Seconda morte de Amílcar Cabral”. La dipendenza economica e la povertà della popolazione; la politica di sottomissione ai giochi di potere globali; le condizioni miserabili di vita della massa popolare; lo “spirito di casta” che si è impadronito dei partiti dirigenti; una élite che continua a governare di fatto il Paese sotto l’influenza del Portogallo e degli Stati Uniti: questo è, purtroppo,
F. Fernandes, in Aa.Vv., Diário da Libertação. A Guiné-Bissau da Nova África, São Paulo, Versus, , p. . Ivi, p. .
A. Cabral, A arma da teoria, Unidade e Luta, I, Lisboa, Seara Nova, , p. . M. Alegre, Un aiuto per la libertà del Portogallo, in Amílcar Cabral e l’indipendenza dell’Africa, cit., p. . R. Ledda, Una rivoluzione africana, Bari, De Donato, , p. . A. Cabral, As lições positivas e negativas da revolução africana, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. . T. Engel, A segunda morte de Amílcar Cabral, “Le monde diplomatique”, novembre .
il quadro che sintetizza la situazione attuale, che rispecchia le antiche strutture coloniali nell’isola di Capo Verde, e che si estende anche a gran parte del continente africano. Insomma, un quadro rovesciato se confrontato con il progetto politico a cui Cabral aveva dedicato la sua vita. Non è lo scopo del nostro lavoro cercare le cause della mancata realizzazione del progetto rivoluzionario del PAIGC, cause che superano sicuramente le frontiere della stessa Guinea-Bissau e di Capo Verde. Innanzitutto, quello che vogliamo è dimostrare la solidità della risposta politica al dominio coloniale nella teoria di Cabral e che la sua forza di trasformazione è, senza dubbio, ancora molto attuale e utile alle sfide del processo di globalizzazione contemporaneo. La domanda che ci poniamo è, invece, quali siano le armi fornite da un teorico della rivoluzione anticoloniale che considerava la trasformazione culturale del suo popolo come la principale risorsa per lottare contro un sistema di oppressione. La risposta all’apparato ideologico del sistema coloniale che poneva l’accento sulla minorità politico culturale dei popoli africani per autogovernarsi è stata radicalmente rovesciata da Cabral con l’affermazione del principale fattore di resistenza contro l’ordine coloniale: “I nostri popoli sono le nostre montagne”. Come sottolinea Mário de Andrade, la maestria del ruolo politico svolto da Amílcar Cabral insieme al PAIGC va oltre la conquista dell’indipendenza. Il suo obiettivo era un processo più ampio e complesso: un lavoro di educazione politico-culturale attraverso il quale fare capire ai popoli africani che essi hanno “diritto di possedere la loro propria storia” e quindi, di diventare protagonisti e architetti del loro proprio destino. È, dunque, nella teoria della nascita di un uomo nuovo e restituito alla sua storia – riguardo alla concezione di lotta anticoloniale come processo di trasformazione politica, economica e mentale – che si trova la forza concreta delle sue idee. Tale forza è tuttora un’arma, come conclude Basil Davidson, “qualsiasi sia la disparità delle forze in campo – per dare una fonte nuova ed essenziale di vita e di speranza a popoli tormentati e altrimenti privi di prospettive”.
Sintetizziamo, ora, la biografia di Cabral per poterci concentrare sulla sua teoria del significato e delle implicazioni politico-culturali della lotta di liberazione. Amílcar Cabral nasce in Guinea, a Bafatá nel . La sua famiglia apparteneva alla classe di assimilados, essendo il padre originario di Capo Verde e la madre della Guinea-Bissau. La famiglia si trasferisce nel a Capo Verde, dove suo padre esercitava la professione di insegnante. Molti hanno considerato decisiva la sua influenza nella formazione di Cabral per quanto concerne la contestazione delle contraddizioni tipiche della società coloniale. D’altronde, la sua origine sociale rimanda ad un contesto di fame e siccità dell’isola. In particolare, la sua adolescenza fu segnata dalla crisi intensa del paese vissuta negli anni Quaranta, che provocò la morte per fame di circa . abitanti e l’immigrazione in massa dei capoverdiani. Sensibile al contesto socio-economico di aridità geografica e di miseria sociale, esasperato dall’indifferenza e dal disprezzo dell’amministrazione coloniale, Cabral decide di partire per Lisbona () per studiare Agronomia – egli percepiva la questione dell’agricoltura, base dell’economia dell’isola, come un problema urgente e, contemporaneamente, principale risorsa per risolvere il problema della fame del suo Paese. Già da studente Cabral pubblica una serie di articoli in cui mette a fuoco i problemi agricoli di Capo Verde e propone soluzioni per lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari. A Lisbona, unico studente nero del gruppo, Amílcar Cabral acquisisce le basi della propria formazione culturale e politica, partecipando attivamente alle riunioni studentesche della resistenza antifascista. Insieme ad altri studenti provenienti dalle colonie portoghesi, in particolare Mário de Andrade, Agostinho Neto e Marcelino dos Santos, Cabral entrerà in contatto con i moti culturali di réafricanisation des esprits del movimento della négritudine diretto da Léopold Sédar Senghor, con i proclami sulla necessità del risveglio da parte della civiltà nera e della riappropriazione della storia e dell’identità africane. Cabral diventa direttore della Casa dell’Africa
Cfr. A. Cabral, Return to the source: selected speeches, London, Monthly Review Press, . Davidson, La liberazione della Guinea. Aspetti di una rivoluzione africana, cit., p. .
de Andrade, Amílcar Cabral. Essai de biografie politique, cit., p. .
a Lisbona e fonda il Centro di Studi Africani, che all’epoca era il luogo di convergenza delle idee progressiste e di maggiore libertà per la discussione dei problemi africani. L’approfondimento di queste preoccupazioni di ordine culturale e il suo passaggio all’organizzazione politica propriamente anticoloniale, si espresse con la decisione di tornare in Guinea e di rompere definitivamente con quella che lui riteneva la inefficace “reciprocità di relazioni tra la lotta contro il fascismo e contro il colonialismo”. In Guinea, in qualità di collaboratore del governo portoghese in materia agricola, venne incaricato di un censimento agricolo (-) delle diverse regioni della campagna; ciò gli permise di conoscere da vicino la realtà economica e socio-culturale delle diverse etnie e di “riconoscere così i fondamenti essenziali delle motivazioni per una lotta contro la dominazione coloniale”. Il suo lavoro di mobilitazione popolare comincia con la costituzione della prima “Associazione Sportiva, Ricreativa e Culturale” della Guinea, aperta a tutta la popolazione, indipendentemente dalla condizione di “civilizzato” o “indigeno”. Tale associazione viene presto dichiarata illegittima dalle autorità portoghesi e Cabral è obbligato a lasciare il Paese. Nel , partecipa alla Conferenza di Bandung, prende contatto con i dirigenti anticoloniali e conosce il quadro afro-asiatico di discussioni e sostegno ai movimenti anticolonialisti. Da quel momento, comincia a consacrare la sua esistenza alla causa della liberazione nazionale della Guinea e di Capo Verde, puntando congiuntamente all’organizzazione di una strategia unitaria con le altre colonie africane portoghesi contro il potere coloniale del regime di Salazar. Comprendere la realtà del Paese per trasformarla: questo è il corollario della sua teoria politica, che può essere compresa veramente solo se collegata alla lotta di liberazione nazionale promossa dal PAI (Partito Africano di Indipen Il programa di discussione di questi seminari era vasto come possiamo costatare: “I) la terra e l’uomo; II) l’economia sociale africana; III) il pensiero dei neri; IV) i problemi dei territori d’Oltremare portoghese; V) il nero nel mondo; VI) i problemi fondamentali per il progresso del mondo nero”, de Andrade, Amílcar Cabral. Essai de biografie politique, cit., p. . Ivi, p. . Ivi, p. .
denza), di cui è fondatore, nel (insieme a suo fratello Luiz Cabral e ad Aristides Pereira) e che nel si trasformerà nel PAIGC (Partito Africano di Indipendenza della Guinea e Capo Verde). Nel corso di questi anni un avvenimento particolare marca in maniera decisiva le direttive della lotta anticoloniale condotta dal partito, che inizialmente aveva assunto forme pacifiche di contestazione: la prima e principale azione politica contro il governo coloniale portoghese, cioè lo sciopero dei lavoratori del porto di Pidgiguiti per la rivendicazione dell’aumento dei salari. Questa azione politica fu strategica in quanto il porto di Pidgiguiti era il luogo principale di entrata e uscita delle merci in Guinea; gli ‘indigeni’, attraverso la loro iniziativa, bloccano per un giorno il commercio coloniale nella Guinea. Per questo motivo la risposta da parte del governo portoghese fu altrettanto forte: l’esercito coloniale provocò la morte di manifestanti e il ferimento di centinaia di persone. E fu proprio a causa di questa brutale repressione che il partito decise la mobilitazione della popolazione attraverso la lotta armata contro il potere coloniale portoghese. Questa svolta nella strategia della lotta derivava certamente anche dal contesto più ampio di scontri armati contro il colonialismo francese in Algeria e alla contemporanea intensificazione della repressione da parte dei sistemi coloniali contro i movimenti di liberazione nazionale africani. In quegli anni, la rivoluzione africana cominciava ad essere minacciata dai colpi di Stato, realizzati in Paesi già liberati, come sarebbe successo con l’assassinio di Patrice Lumumba, nel , dirigente anticoloniale e primo ministro della Repubblica Democratica del Congo. All’inizio degli anni Sessanta, Cabral comincia a esercitare il suo ruolo di pubblicista internazionale esercitando anche all’estero una campagna anticoloniale e di denuncia dei crimini commessi dal Portogallo nelle colonie africane, in particolare nella Guinea e a Capo Verde, con lo scopo di ottenere aiuti internazionali per la lotta di liberazione nazionale. In questi anni il partito tenta la via pacifica di liberazione mediante l’invio, nel , di una proposta ufficiale di ritiro programmato dai territori occupati da parte del Governo portoghese e il coinvolgimento diretto dell’ONU. Poiché questa proposta venne fermamente respinta dalle autorità
portoghesi, nel scoppiò inevitabilmente la guerra di liberazione, condotta principalmente nel territorio della Guinea, e che si concluderà non prima di dieci dolorosi anni, con la vittoria finale della popolazione africana e del PAIGC, ma purtroppo anche con la perdita della sua personalità guida. Amílcar Cabral, infatti, fu assassinato in circostanze poco chiare il gennaio del , senza poter essere presente alla dichiarazione dell’indipendenza della Guinea e Capo Verde, fatta unilateralmente dal PAIGC solo sette mesi più tardi ( settembre ). L’indipendenza fu riconosciuta ufficialmente dal Governo portoghese dopo la Rivoluzione dei Garofani (aprile ).
IV L’ANTICOLONIALISMO RIVOLUZIONARIO
Ci chiederanno se il colonialismo portoghese non abbia avuto un’azione positiva in Africa. La giustizia è sempre relativa. Per gli africani che durante cinque secoli si opposero alla dominazione coloniale portoghese, il colonialismo portoghese è un inferno – e laddove regna il male non c’è spazio per il bene. Amílcar Cabral, A arma da teoria
. Contro la tesi della minorità storica del popolo africano L’impresa di moralizzazione dell’apparato ideologico portoghese del secondo dopoguerra viene identificata da Cabral come un insieme di manovre demagogiche e criminose dei colonialisti, messe in atto con il fine preciso di mantenere i popoli delle loro colonie nella condizione di minorità storica. Cabral non disprezza il potere e l’efficacia che ha avuto la macchina di propaganda portoghese nel suo proposito di costruzione del “muro di silenzio che la cospirazione imperialista innalzò attorno ai nostri Paesi e alla loro realtà drammatica”. Inoltre, la strategia colonialista di consacrazione del mito della fratellanza multirazziale per nascondere il regime razzista e la violenza perpetrata dallo Stato portoghese aveva un potere di persuasione, a suo avviso, “perfino tra molti africani”. La risposta del colonizzato, quando parla di queste illusioni della politica por-
A. Cabral, África e a luta de libertação nacional nas colónias portuguesas, in A prática revolucionária. Unidade e Luta, II, Lisboa, Seara Nova, , p. . Ivi, p. .
toghese per presentare una ‘nuova’ esteriorità imperiale e difendere così la legittimità del suo regime coloniale in Africa, è quella di mettere in evidenza, invece, la continuità dell’epicentro ideologico delle politiche imperialiste, ovvero la convinzione razzista dell’incapacità politico-culturale dei popoli africani di autodeterminarsi.
“estrema miseria, ignoranza e paura” in cui viveva la popolazione colonizzata dai portoghesi non è frutto, sottolinea Cabral, dello stadio di evoluzione della società e della cultura africane, ma proprio del sistema coloniale di “dominino e di sfruttamento di milioni di esseri umani, di cui milioni sono africani”. Con queste premesse, possiamo confrontare le strategie di legittimazione dell’apparato di propaganda coloniale con la prospettiva africana nel suo studio – La verità sulle colonie portoghesi. In questo saggio Cabral offre un panorama delle condizioni reali di miseria umana, invertendo la tesi della minorità storica degli africani per dimostrare il significato della situazione sociale ed economica derivante dal dominio diretto coloniale portoghese, che imponeva ai colonizzati un’unica condizione possibile di vita: vivere come “servi nel loro Paese”. La prova del crimine coloniale portoghese si trova nel capitolo intitolato La dominazione coloniale portoghese che offre un panorama preciso dello smantellamento della vita economica, politica e culturale delle colonie africane portoghesi, attraverso i dati sociali, economici e un’analisi della struttura giuridica della Lei do Indigenato. Il saggio presenta una situazione vissuta dal colonizzato che va in senso completamente opposto alla retorica della colonizzazione umanitaria del secondo dopoguerra, che si basava sul dovere di servire la popolazione colonizzata. La realtà dei fatti nelle colonie portoghesi evidenzia invece la vera natura del potere coloniale e il costo umano che le popolazioni di questi territori hanno dovuto pagare affinché si realizzasse l’accumulazione indiscriminata di ricchezze e capitali della metropoli. Riportiamo qui i dati statistici, come quello che indica la mortalità infantile superiore al % nelle colonie africane, la sproporzione tra la quantità di medici (solo ) e la totalità degli abitanti delle colonie africane, il tasso di analfabetismo del %, la mancanza di università (erano solo gli africani assimilati che frequentavano le università portoghesi nella metropoli). Insomma, Cabral descrive la condizione sociale della Guinea Bissau e di Capo Verde come una situazione di fame:
I colonialisti portoghesi adottarono nel corso degli ultimi anni [della loro dominazione] un linguaggio e degli atteggiamenti ‘nuovi’, ma che non sono altro che vecchie furberie di tutti i colonialisti. Tutto questo per provare a ingannarci e a realizzare così l’obiettivo principale della politica portoghese. Essi, con la loro dominazione nel paese, vogliono mantenere il popolo africano in condizione di minorità storica, come se fosse incapace di camminare con i propri piedi e guidarsi con la propria testa e avesse bisogno di essere condotto da un tutore colonialista attraverso i percorsi pericolosi dell’autodeterminazione, della libertà e del progresso.
“L’Africa non esiste”. È partendo da questa affermazione messa in evidenza da Cabral come una frase ripetuta continuamente da Salazar, “un credente fanatico del dogma della superiorità degli europei e dell’inferiorità degli africani”, che possiamo capire i principi razzisti della politica e della pratica coloniale portoghese. Gli argomenti utilizzati dalla propaganda del regime per giustificare la necessità della presenza coloniale in questi territori in nome della Civilizzazione Occidentale e della Cristianità e per nascondere i crimini e i veri effetti della missione civilizzatrice sono per Cabral argomenti miserabili perché “privi di qualsiasi base umana e scientifica”. La risposta per contrastare l’intero apparato ideologico portoghese viene data da Cabral utilizzando un’ottica che disprezza la retorica e pone l’accento su un’analisi della situazione sociale delle colonie africane portoghesi. Partendo dalla situazione di questi territori, Cabral dimostra l’equivalenza esistente tra dominazione coloniale e negazione del diritto di un popolo a possedere la propria storia. Le condizioni di
A. Cabral, Textos Políticos, Porto, Edições Afrontamento, , p. . Ivi, p. . A. Cabral, A dominação colonial portuguesa, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. .
A. Cabral, Guerriglia: il potere delle armi, Roma, Partisan, , p. . Cabral, A dominação colonial portuguesa, cit., p. .
“Se non è fame totale, è fame specifica, ovvero mancanza di certi elementi necessari al corpo per vivere bene”. Ed è questa situazione di oppressione sociale, opera del colonialismo ‘umanizzato’ portoghese, che determinava la vita media di soli anni nella Guinea Bissau! È da chiedersi davvero quali potessero essere le aspettative di trasformazione della realtà di un popolo condizionato da questo ridottissimo tempo di vita medio in pieno secolo XX.
“di un popolo sottosviluppato la cui storia è stata bloccata dalla dominazione colonialista, imperialista”. L’arretratezza dell’agricoltura e la quasi inesistenza dell’industria comprovano, secondo lui, che le ricchezze di questi territori “furono saccheggiate, soprattutto attraverso il lavoro dell’uomo”, cioè dell’africano stesso. L’economia della Guinea e di Capo Verde quasi esclusivamente a base agraria era gestita con il divieto dei colonizzati di possedere la propria terra, l’obbligo della monocultura a servizio della metropoli, l’imposizione ai contadini di vendere i prodotti coltivati a basso prezzo alle autorità portoghesi e di comprare i prodotti di scarsa qualità dell’industria metropolitana a prezzi elevati. L’amministrazione delle risorse agrarie del Paese riflette, secondo Cabral, l’indifferenza e il disprezzo del governo coloniale per la popolazione di questi luoghi. Come agronomo, mette in evidenza come questa amministrazione inerte e arretrata rispondesse più che altro all’obiettivo di provocare la fame, utilizzata nel passato proprio per preservare la sottomissione degli africani e, durante il secondo dopoguerra, come “nuova arma d’oppressione” per indebolire la lotta anticoloniale. Questo meccanismo derivava dall’incapacità di gestione delle risorse agricole coloniali e anche dall’obbligo di esportazione della maggior parte del riso prodotto dagli africani imposto dal monopolio della CUF (Compagnia Unione Fabril), “la vera padrona della Guinea”. Il lavoro forzato e l’esportazione coatta dei giovani dalle colonie portoghesi era un’altra grande arma coloniale, secondo Cabral, sempre attiva con lo scopo di provocare un’“emorragia delle forze vive” dalle colonie. Cabral mette in evidenza come la regolamentazione giuridica di questa situazione sociale ed economica vissuta dai colonizzati
Ora, la speranza di vita altrove è di , anni e ad ogni anno sale di più [...]. Se, quando qualcuno nasce, avesse la certezza di vivere anni, avrebbe tempo di fare qualcosa. Cosa si può fare in trent’anni? Questo è dovuto all’alimentazione insufficiente, al deficit di salute, igiene e trattamenti sanitari, alla miseria. Questa è la condizione sociale della nostra terra.
Questa drammatica situazione sociale era il risultato dell’applicazione del piano di sviluppo economico, propagandato dal governo coloniale portoghese per sottolineare l’intenzione della mise en valeur delle risorse coloniali, attraverso i benefici della modernizzazione che il governo portoghese aveva intenzione di portare in Africa. Dietro questa retorica si nasconde, secondo Cabral, la realtà economica di Capo Verde e della Guinea-Bissau, ovvero quella tipica di una colonia. Per approfondire quest’idea, Cabral contrappone la responsabilità che il Portogallo ha avuto nel sottosviluppo dei suoi territori africani: “non hanno fatto niente per sviluppare le ricchezze delle nostre terre, assolutamente niente”, sottolineando che la condizione dei popoli delle colonie portoghesi è quella A. Cabral, Os princípios do partido e a prática política, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. . Lo Stato coloniale portoghese, nonostante la scarsità dei servizi offerti ai colonizzati, imponeva alla popolazione locale il pagamento di tributi. Tra questi la “tassa di sovranità” e “l’imposta indigena” che, secondo Cabral, funzionavano come une delle principale fonti di profitto dello Stato coloniale: “Tutti gli africani che avevano compiuto quindici anni dovevano pagare imposte che superavano spesso un quarto del loro reddito annuale” (Cabral, A dominação colonial portuguesa, cit., p. ). Cabral, Os princípios do partido e a prática politica, cit., p. . Un studio su questo soggeto si trova in M. Harris, Portugal’s Contribution to the underdevelopment of Africa and Brazil, in R.H. Chilcote (a cura di), Protest and Resistance in Angola and Brasil, cit. Cabral, Os princípios do partido e a prática politica, cit., p. .
Cabral, Guerriglia: il potere delle armi, cit., p. . Cabral, Os princípios do partido e a prática política, cit., p. . Cabral, Guerriglia: il potere delle armi, cit., p. . Ivi, p. . Cabral, Textos Políticos, cit., p. . L’espressione fa riferimento all’imposizione da parte del governo portoghese dell’emigrazione forzata a circa . giovani capo verdiani per fare lavori a basso costo in Portogallo. Ma possiamo trovare ugualmente diverse allusioni nei suoi testi all’esportazione di operai di Capo Verde e della Guinea per lavorare nelle miniere e fabbriche inglese, cosi come in altre colonie africane.
venisse sancita da leggi con criteri razziali e culturali finalizzate alla separazione tra i “portoghesi civilizzati” e gli “indigeni non civilizzati”. Questo elemento è più che sufficiente per fare comprendere, secondo Cabral, come l’idea della “società multiraziale sia un mito”. La sovrastruttura giuridica della Lei do Indigenato, ovvero, secondo lui, lo strumento legale dell’apartheid alla portoghese, serviva lo scopo di ostacolare “ogni contatto sociale con la popolazione detta civilizzata”, e riduceva “il % della popolazione africana a una condizione subumana”. Per Cabral la discriminazione razziale, dichiarata o dissimulata, determinava in forma diretta il funzionamento della società coloniale portoghese. Questa separazione avveniva di fatto con l’esclusione degli africani dagli ambiti della vita sociale, come le scuole o gli ospedali, con l’assegnazione di abitazioni in posti non degni, con il divieto di frequentare luoghi culturali o di ricreazione, come caffè, ristoranti, cinema ecc. La regola di separazione in base al colore della pelle, come sottolinea Cabral, era applicata anche alle coppie miste di africani ed europei.
zato, “dipendente e profondamente ferito nella sua dignità umana”, cioè un popolo a cui viene impedito legalmente di decidere della propria vita, ovvero di un popolo “incontestabilmente senza diritto all’autodeterminazione”. La negazione assoluta dei diritti umani può essere verificata nell’elenco dei regolamenti che la Lei do Indigenato imponeva agli africani non assimilati delle colonie portoghesi:
Il preteso ‘non civilizzato’ è trattato come un oggetto e lasciato a disposizione dei capricci dell’amministrazione coloniale e dei coloni. Questa situazione è assolutamente indispensabile al mantenimento del sistema coloniale portoghese. Fornisce un’inesauribile quantità di manodopera per il lavoro forzato e l’esportazione di lavoratori. La legge ufficializza la discriminazione razziale e giustifica la dominazione portoghese classificando [l’africano] come ‘non civilizzato’.
Inoltre, sottolinea Cabral, il rispetto delle libertà essenziali e dei diritti fondamentali dell’uomo non esisteva per coloro i quali facevano parte della classe dei non assimilati, in quanto la Lei do Indigenato aveva reso la condizione dell’indigeno pari a quella di un individuo senza personalità giuridica propria, cioè priva di diritti. Secondo Cabral, la costruzione della minorità giuridica in rapporto ai cittadini portoghesi evidenzia la condizione di un popolo coloniz
Cabral, A dominação colonial portuguesa, cit., p. . Ivi, p. . Ivi, p. .
a) gli è destinato un insegnamento speciale [...]; b) per cambiare residenza, all’interno della stessa circoscrizione, ha bisogno dell’autorizzazione dell’ente amministrativo locale; c) non può votare, investire e deporre, né reintegrare il capo tradizionale senza l’approvazione dell’ente amministrativo; d) non gli sono concessi diritti politici in riguardo alle istituzioni non indigene; e) non ha libertà di seguire usi e costumi [della propria cultura], se questi sono considerati incompatibili con il “libero esercizio della sovranità portoghese”; f ) le pene detentive a cui è soggetto “possono essere sostituite dal lavoro obbligatorio”; g) lo stato coloniale “può obbligare gli indigeni al lavoro [...] nelle opere pubbliche di interesse generale per la collettività, nelle occupazioni che appartengono [agli indigeni], nell’esecuzione di decisioni giudiziarie di carattere personale, o tenendo in considerazione gli obblighi fiscali”; h) affinché sia soggetto alla legge comune [...] è necessario che la sua richiesta sia accettata dal giudice municipale, dopo che due cittadini rispettabili abbiano garantito dell’adozione, a titolo definitivo, da parte dell’indigeno della condotta presupposta per l’applicazione di questa legge e di altre formalità che il giudice ritenga necessarie; i) non può acquisire individualmente i diritti di proprietà privata della terra; j) nei casi eccezionali in cui è proprietario, ha “l’obbligo di mantenere il terreno pulito, di cogliere i frutti, di trasformare progressivamente la cultura primitiva in cultura ordinata”. Se non fa questo e se si allontana dalle terre per un periodo superiore a tre mesi, gli saranno imposti obblighi forzati di carattere pubblico; A. Cabral, As leis portuguesas de dominação colonial, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., , p. . Ibid.
k) le sue proprietà rurali e urbane non possono essere, in generale, né impegnate, né suscettibili di servire come garanzie di obblighi; l) non può vendere liberamente i frutti della sua produzione agricola, potendo la vendita essere condizionata, limitata, o proibita dalle autorità amministrative; m) le sue questioni giudiziarie sono giudicate dai tribunali comuni, “la cui decisione compete al giudice municipale”.
Questa situazione di minorità giuridica del colonizzato per perpetrare il “crimine del colonialismo” non è stata, secondo Cabral, modificata dalle riforme istituite dal governo portoghese nella legislazione coloniale incluso la revoca della Lei do Indigenato, nel . In realtà, queste riforme rispondevano, secondo Cabral, all’esigenza di mantenere, nella pratica coloniale e anche dal punto di vista giuridico, “la soggezione del popolo della Guinea al colonialismo portoghese”. Come mette in evidenza, “l’imposizione della cittadinanza portoghese agli africani delle colonie senza il loro consenso non è che un sofisma”. Quello che si nascondeva dietro queste riforme era, in verità, un’altra manovra coloniale per sfuggire alle richieste che cominciavano a essere discusse all’ONU circa i territori dipendenti dalle potenze imperiali: “Lo scopo del legislatore [...] era privare gli avversari del colonialismo portoghese di un’arma efficace nella lotta a favore dell’uomo africano della Guinea ‘portoghese’: la propria legge portoghese”. La consacrazione di queste riforme giuridiche dell’idea di unità nazionale, sostenuta dallo statuto politico che considera le colonie portoghesi come Provincias Ultramarinas dello Stato portoghese è, per Cabral, un altro grande mito coloniale. La situazione giuridica di una provincia del Portogallo equivale esattamente, secondo lui, a quella di “un Paese non autonomo, conquistato e occupato dalle forze armate, dominato e amministrato da una potenza stranie-
Ivi, p. . A. Cabral, O nosso povo o governo português e a ONU, in A prática revolucionária. Unidade e Luta, II, cit., p. . Cabral, As leis portuguesas de dominação colonial, cit., p. . Ivi, p. . Ivi, p. .
ra”. Si tratta sempre di una “flagrante violazione del diritto della Guinea portoghese all’autodeterminazione e all’indipendenza”. Per approfondire quest’idea, mette in evidenza la minorità politica imposta agli africani dall’articolo della Lei do Indigenato, che stabiliva che “non sono concessi diritti politici agli indigeni per quanto riguarda le istituzioni non indigene”. Gli africani non avevano quindi il diritto di votare e neanche di essere eletti nel loro territorio, poiché questo era “esclusivamente governato da istituzioni non indigene”, quindi al servizio della sovranità portoghese. Qualsiasi organizzazione di carattere politico, da parte degli africani, veniva condannata alla clandestinità. L’apparente partecipazione politica degli africani alla gestione della loro vita era permessa soltanto nelle istituzione tradizionali indigene, controllate e dirette dalle autorità coloniali e di fatto gestite dagli chefes tradicionais, che erano “agenti africani del dominio portoghese”. La ristretta minoranza di africani che possedeva il potere di rappresentanza politica nell’Assemblea Nazionale di Lisbona e negli organismi internazionali era utilizzata, secondo lui, come marionette e fantocci del governo coloniale per sostenere la propaganda del “buon governo”. Il potere coloniale fu istituito storicamente e indiscutibilmente con la forza armata contro la volontà della popolazione locale, ed è perciò molto lontano dalla rappresentanza dei reali interessi e dalle autentiche esigenze della società colonizzata. Occorre pertanto che, mentre nel dominio della sovranità e del potere reale non sono stati concessi diritti politici agli africani della Guinea-Bissau ‘portoghese’, nel dominio delle istituzioni tradizionali, tutti i diritti che avevano furono ritirati perché il loro esercizio fu completamente subordinato agli interessi della sovranità portoghese. Questa, come testimonia la storia del Portogallo, fu imposta con la forza delle armi e con le guerre coloniali che durarono oltre mezzo secolo. Fu perciò contraria alla volontà e agli interessi del popolo della Guinea portoghese.
Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. .
All’oppressione sociale ed economica, si aggiungevano anche la repressione fascista messa in atto dallo Stato portoghese contro i patrioti africani e l’attacco alla popolazione civile come mezzo per frenare i movimenti di liberazione nazionale. Contro la propaganda dello Stato della pace difesa da Salazar, Cabral mette in luce, invece, la violenza fine a sé stessa praticata dal governo portoghese contro gli africani: le torture, le detenzioni dei patrioti nelle prigioni e nei campi di concentramento dell’isola di Galinhas, i bombardamenti dei villaggi e la distruzione delle colture. Secondo Cabral, la guerra coloniale è una guerra imposta dal governo portoghese contro i colonizzati che avevano deciso di liberarsi della violenza coloniale e sottolinea il fatto che questa situazione di dominio diretto da parte di un apparato permanente di repressione era possibile solo grazie all’appoggio di tutte le potenze imperialiste interessate a mantenere lo stato giuridico delle colonie portoghesi. Il loro appoggio diretto con il rifornimento di armamenti veniva ripagato negli anni Sessanta dalle politiche del governo portoghese di apertura al capitale straniero e la concessione di installazioni di basi militari della NATO in Guinea e a Capo Verde. Come possiamo verificare dalle parole dello stesso Cabral e anche da altri studi sulla rivoluzione anticoloniale in Guinea, la mancanza di proporzione tra le armi moderne di distruzione utilizzate dall’esercito coloniale e quelle dei contadini africani per la conquista della loro libertà contribuiva alla mancanza di fiducia nella capacità dei popoli colonizzati di lottare contro l’apparato di forza del governo coloniale portoghese.
attivamente ad impiegare contro di noi prodotti tossici, erbicidi e defoglianti di cui costituirono grandi riserve in Guinea-Bissau.
. Antifascismo, anticolonialismo È la dialettica della repressione, dello sfruttamento, del disprezzo contro l’uomo e la cultura africana e della pratica della discriminazione razziale che fa nascere, secondo Cabral, la determinazione di un popolo colonizzato di ritornare alla storia attraverso le lotte anticoloniali. Lo sviluppo delle lotte per la decolonizzazione nel contesto del dopoguerra è la prova più eclatante che il popolo africano possiede a pieno titolo la “maturità di fronte alla storia” e “la capacità di camminare con i propri piedi, guidato dalla propria testa”. Cabral utilizza la legge della fisica per spiegare il funzionamento dei sistemi coloniali e della resistenza anticoloniale, sottolineando il fatto che là dove c’è l’azione di una forza, ci sarà sempre la reazione di una forza in senso contrario: “La lotta per la libertà e contro la dominazione straniera è un fatto permanente della tradizione storica del continente africano”. La resistenza anticoloniale appare quindi come una forza naturale di reazione alla dominazione coloniale, da sempre presente nella storia, anche in forme diverse, più difficili da essere identificate dal punto di vista dell’organizzazione politica.
Cercano quindi in tutti i modi di andare avanti, anche mobilitando i mezzi di cui dispongono per eliminare il maggior numero possibile di vite umane e di beni materiali del nostro popolo. È in questo quadro che i colonialisti intensificarono l’utilizzo del napalm e si prepararono
Se la forza coloniale agisce in un modo, c’è sempre una nostra forza che agisce contro di essa. Tante volte questa forza in opposizione ha assunto forme diverse: resistenza passiva, menzogna, riverenza, “sì-signore”, utilizzare tutti gli artifici possibili e immaginari per imbrogliare i tugas [i portoghesi]. Poiché non potevamo affrontarli faccia a faccia dovevamo ingannarli, ma con le nostre energie spese contro miseria, sofferenza, morte, malattie, disgrazie, oltre alle conseguenze sociali, come il ritardo rispetto agli altri popoli del mondo. La nostra lotta
Cfr. Cabral, Guerriglia: il potere delle armi, cit. Cfr. Davidson, La liberazione della Guinea. Aspetti di una rivoluzione africana, cit.; G. Chailand, Lotta armata in Africa, Roma, Lerici, ; M. de Andrade, A guerra do povo da Guinea Bissau, Lisboa, Sá da Costa, ; M. Dhada, Warriors at work. How Guinea was really get free, Niwot, University Press of Colorado, .
A. Cabral, O povo da Guiné e Cabo Verde perante a ONU, in A prática revolucionária. Unidade e Luta, II, cit., p. . Cabral, Textos Políticos, cit., p. . Cabral, As lições positivas e negativas da revolução africana, cit., p. .
oggi è questa: è comparsa con la creazione del nostro Partito una forza nuova, che si è opposta alla forza colonialista.
È nel contesto del secondo dopoguerra, quindi, che l’opposizione alla dominazione coloniale prende la forma specifica della lotta di liberazione nazionale. Si trattava per Cabral di una forza nuova contro i sistemi coloniali e l’imperialismo e che assumeva il ruolo di “principale motore dell’avanzare della storia”, realizzato dai popoli africani, ma che doveva trasformarsi in una lotta comune dei Paesi del terzo mondo, storicamente sottomessi al colonialismo, e ora minacciati dalla nuova forma di dominazione coloniale, il “cancro di determinate regioni del mondo e dell’Africa”: il neocolonialismo. Lottando contro il colonialismo portoghese Cabral pensava di condurre una missione storica di abbattimento dell’imperialismo. Abbiamo quindi una serie di responsabilità di fronte a noi stessi, al mondo e alla storia. Gli occhi che ci osservano, le orecchie che ci ascoltano, le teste e le mani che ci aiutano – così come le armi che ci uccidono – sono coscienti delle nostre responsabilità, del ruolo che noi, popoli sottosviluppati, senza bombe atomiche, senza satelliti artificiali, possiamo e dobbiamo impegnare nell’evoluzione attuale della vita umana.
Cabral evidenzia il carattere complesso che la lotta di liberazione nazionale doveva assumere affinché fosse effettiva nel suo compito di portare all’indipendenza totale. Con questo proposito, la pratica rivoluzionaria doveva partire incondizionatamente dalla realtà concreta della Guinea Bissau e di Capo Verde, ma non poteva ridursi a questo contesto specifico, né avere come fine la caduta del regime di Salazar in Portogallo. Anche se la sopravvivenza del regime si appoggiava sullo sfruttamento delle risorse delle colonie A. Cabral, Os princípios do partido e a prática política, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. . A. Cabral, A Guiné e as Ilhas do Cabo Verde face ao colonialismo português, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. . A. Cabral, As relações internacionais, in A prática revolucionária. Unidade e Luta, II, cit., p. . Cabral, As lições positivas e negativas da revolução africana, cit., p. .
africane, la lotta di liberazione da lui condotta viene fin dall’inizio delimitata come lotta contro la dominazione coloniale e l’imperialismo e non contro il regime di Salazar o il popolo portoghese e, soprattutto, doveva avere come protagonisti gli stessi africani. Benché siamo contro qualsiasi tipo di fascismo, è necessario riaffermare chiaramente che i nostri popoli non lottano contro il fascismo portoghese, ma lottano contro il colonialismo portoghese. La distruzione del fascismo in Portogallo deve essere opera del popolo portoghese; la distruzione del colonialismo portoghese deve essere opera dei nostri popoli.
È la non reciprocità esistente di fatto tra la lotta anticoloniale e la lotta antifascista a spiegare, secondo Cabral, la necessità di questa delimitazione. Il compito della lotta di liberazione era quello di eliminare ciò che sta alla base dei regimi nazifacisti: il colonialismo e lo sfruttamento coloniale. La dittatura coloniale di Salazar, sostenuta da un regime criminale contro le popolazione africana appare come un’aggravante dello stato di violenza permanente che è insito nel dominio imperialista, da secoli operante in Africa e precedente, quindi, alla politica del regime di Salazar. La vecchia dittatura coloniale portoghese – qualsiasi situazione coloniale è una situazione di dominio attraverso la violenza – si trasformò in una dittatura coloniale-fascista. L’ingiustizia, la mancanza di rispetto per l’uomo africano, il razzismo, l’assenza di libertà politica, la miseria, l’ignoranza, la fame, la paura e la repressione superano tutti i limiti.
Per questo motivo la lotta anticoloniale si mostrava effettivamente solidale con i portoghesi: “Se la caduta del fascismo in Portogallo può non portare alla fine del colonialismo [...], siamo sicuri che la liquidazione del colonialismo portoghese determinerà la distruzione del fascismo in Portogallo”. La cultura della dominazione presente nell’apparato ideologico del sistema coloniale portoghese, appoggiata principalmente dalla tesi dell’immaturità
Cabral, A Guiné e as Ilhas do Cabo Verde face ao colonialismo português, cit. Ivi, p. . Ibid.
politica dei popoli africani, era secondo Cabral, ancora molto attiva nel contesto portoghese del secondo dopoguerra. L’atteggiamento negativo davanti alla lotta anticoloniale delle colonie portoghesi si collegava più che altro al fatto che questi ambienti fossero ancora impregnati della mentalità imperialista “fatta di pregiudizi e di disprezzi infondati di fronte al valore e alle reali capacità dei popoli africani”. Ed ecco perché la lotta di liberazione si estendeva anche sotto questo aspetto agli stessi portoghesi nel senso di decolonizzare le loro menti dal “virus” impregnante di queste ideologie. Per Cabral, è solo a partire dalla distruzione di queste ideologie che si potrebbe stabilire una collaborazione reciproca tra il popolo portoghese e quello africano, poiché la situazione di oppressione vissuta da secoli dagli africani non veniva del tutto percepita come una necessità da affrontare con urgenza da parte dei politici e degli intellettuali portoghesi, compresi quelli appartenenti all’opposizione al regime fascista.
fosse un Paese imperialista, ma “un Paese colonialista legato all’imperialismo”, ovvero un intermediario fra le potenze imperialiste, in particolare l’Inghilterra. Ciò si verifica, secondo lui, a partire dal Trattato di Metween (), quando il Portogallo diventò formalmente una semi colonia dell’Inghilterra. Da quel momento in poi il “Portogallo fu un guardiano geloso dei suoi interessi [l’Inghilterra], delle risorse umane e materiali dei nostri Paesi [colonie portoghesi], al servizio dell’imperialismo mondiale”. Nonostante il venisse considerato come “l’anno fertile” della rivoluzione africana, Cabral richiama l’attenzione sulla necessità di agire contro la forza coloniale portoghese tenendo in considerazione il quadro imperialista predominante in Africa.
Agli ambienti colti del Portogallo, in particolare ai democratici progressisti, incombe il compito di aiutare il popolo portoghese a distruggere le vestigia virulente dell’ideologia schiavista e colonialista, che determinano in generale il loro atteggiamento negativo di fronte alla giusta lotta dei popoli africani. I democratici portoghesi saranno incapaci di capire le giuste rivendicazioni dei nostri popoli, a meno che non si convincano che la tesi dell’“immaturità per l’autodeterminazione” è falsa e che l’oppressione non è mai stata e mai sarà una scuola di virtù e di attitudine.
Inoltre, Cabral denuncia la necessità di avere una percezione chiara del fenomeno imperialista per potere capire la natura complessa della lotta che i popoli africani delle colonie portoghesi dovevano condurre. Per questo motivo la descrive come una lotta difficile e di lunga durata: “Siamo coscienti del carattere complesso della nostra lotta che non si riduce unicamente alla liquidazione del giogo coloniale. Volendolo o meno, lottiamo contro l’imperialismo, che è la base del colonialismo, in tutte le sue forme”. Quello che doveva essere innanzitutto chiaro era il fatto che Portogallo non
Davanti alle vittorie, come davanti agli errori, non dobbiamo dimenticare che nessuno dei nostri nemici fu davvero e totalmente vinto o espulso dall’Africa. I colonialisti-fascisti portoghesi massacrano i popoli dell’Angola, della Guinea-Bissau e del Mozambico; i razzistifascisti dell’Africa del Sud rafforzano costantemente l’odiosa politica dell’apartheid, i colonialisti belgi ritornano a mettere nel Congo l’unico piede che furono costretti a ritirare; gli imperialisti e colonialisti inglesi raddoppiano l’immaginazione e il cinismo, provando a mantenere la dominazione totale dell’Africa occidentale; gli imperialisti e colonialisti francesi uccidono popolazioni senza difesa in Algeria, fanno esplodere bombe atomiche nel suolo africano e tentano di creare un nuovo assurdo geografico, storico e tecnico – il Sahara “Province Francesi” – e di rafforzare la loro dominazione economica su alcuni dei nostri popoli; gli imperialisti americani escono dall’ombra e, spaventati di fronte alla debolezza dei loro compagni, cercano con più o meno discrezione di sostituirli.
. La riconquista della personalità storica Sulla base di queste indicazioni riguardanti la presenza imperialista nel contesto africano del secondo dopoguerra, Cabral descrive la lotta di liberazione nazionale come un processo rivoluzionario,
Cabral, Guerriglia: il potere delle armi, cit., p. . Cabral, Textos Políticos, cit., p. . Cabral, O nosso povo o governo português e a ONU, cit., p. .
A. Cabral, Portugal é imperialista?, in A prática revolucionária. Unidade e Luta,
II, cit., p. .
Cabral, A Guiné e as Ilhas do Cabo Verde face ao colonialismo português, cit., p. . Cabral, As lições positivas e negativas da Revolução africana, cit., p. .
diverso dalla decolonizzazione di altri movimenti nazionalisti che puntavano esclusivamente all’indipendenza politica, cioè al trasferimento del potere a una classe governante locale. Come sottolinea Nzongola Ntalaja, la teoria della lotta di liberazione nazionale di Cabral, proprio per questo motivo, identifica due fasi per affrontare la questione della “vera e propria liberazione”: una fase nazionale e una fase sociale. La prima corrisponde alla risposta al contesto coloniale e la seconda alla propria struttura di società colonizzata, con lo scopo di “trasformare radicalmente la struttura stessa dell’economia e dello Stato” postcoloniale. Gli obiettivi socialisti per la costruzione dello Stato postcoloniale in Guinea e Capo Verde confermano la consapevolezza che la lotta anticoloniale doveva necessariamente andare ad indagare e trasformare quello che stava alla base dei regimi colonialisti, cioè il sistema capitalista. Ciò vuol dire che, nel suo significato più profondo, la liberazione nazionale è un processo rivoluzionario, che implica il rovesciamento completo del dominio imperialista nelle sue forme coloniali e neocoloniali. Esso implica sia una rivoluzione nazionale, e cioè la lotta del popolo contro il regime straniero, sia una rivoluzione sociale, il tentativo di distruggere la struttura capitalista su cui si basa lo sfruttamento degli operai e dei contadini per sostituirla con il socialismo.
L’azione rivoluzionaria anticoloniale doveva distruggere le divisioni storiche imposte dall’attuazione del sistema imperialista nel continente. A tal fine, la politica del PAIGC aveva come fondamento, in un primo momento la costituzione di una coscienza nazionale attraverso l’unità tra gli africani della Guinea portoghese e di Capo Verde e, in un secondo momento, l’unità africana in generale, con lo scopo di rovesciare quello che sta alla base dell’azione permanente del dominio imperialista: la forza di blocco del processo storico di altri popoli.
Ciò significa che la nostra storia si è fermata nel suo sviluppo interno, naturale e normale. Le nostre forze produttive furono dominate dallo straniero, il nostro sviluppo fu reso dipendente dalla volontà e dagli interessi delle classi straniere e la nostra storia divenne un vagone del treno della storia del Portogallo. Inoltre la lotta di classe, in parte sviluppata, nel nostro Paese fu in pratica soffocata dalla lotta fondamentale tra la classe dominante portoghese – che è la borghesia capitalista portoghese integrata o infeudata nell’imperialismo mondiale – e la nostra nazione, il nostro popolo, come se si trattasse di una classe oppressa dalla classe borghese portoghese. Perciò siamo in primo luogo una società coloniale.
La concezione di Cabral rifiuta una parte dell’indirizzo marxista di interpretazione del problema della storia che pone l’accento sulla lotta di classe come la sua forza motrice. Come sottolinea Cesare Bermani, lo studio profondo che Cabral compie sulla società della Guinea-Bissau, costituita da differenti etnie e stratificazioni sociali (orizzontali e verticali) aveva come principio quello di rivendicare la contemporaneità di queste società e rifiutare l’esistenza di una preistoria contemporanea, come se ci fossero delle “comunità e dei modi di essere che rappresentano già un passato, sebbene sincronico all’esistenza dell’asse imperialistico mondiale”. Sarà che la storia comincia solo dal momento in cui si scatena il fenomeno di classe e, di conseguenza, la lotta di classe? Rispondere di sì equivarrebbe a situare fuori dalla storia tutto il periodo dei raggruppamenti umani, che va dalla scoperta della caccia all’agricoltura nomade e sedentaria, all’allevamento del bestiame e infine alla proprietà privata. Significherebbe pure ciò che ci rifiutiamo di accettare: che diversi raggruppamenti umani dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina fossero senza storia o fuori dalla storia fino al momento in cui furono sottomessi al giogo dell’imperialismo.
N. Ntalaja, La teoria della lotta di liberazione nazionale, in Amílcar Cabral e l’indipendenza dell’Africa, cit., p. . Cabral, Guerriglia: il potere delle armi, cit., p. . Ivi, p. .
A. Cabral, A estrutura social, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. . C. Bermani, Costruire la rivoluzione mentre si combatte: dalla comunità agricola primitiva al socialismo, in A. Cabral, Cultura e guerriglia, Milano, Collettivo editoriale ⁄, , p. . A. Cabral, A arma da teoria, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. .
La lotta di classe viene considerata perciò non come un “fattore della storia di ogni raggruppamento umano”, ma come una conseguenza del grado di sviluppo delle forze produttive e del regime di proprietà adottato. A seconda dell’evoluzione del modo di produzione, le classi non nascono come un “fenomeno generalizzato e simultaneo nella totalità di questi raggruppamenti, né come un tutto finito, perfetto, uniforme e spontaneo”. Nel caso della dominazione esterna di una società sull’altra, questo fenomeno può essere “accelerato, ritardato o subire regressioni”. Tuttavia, quando la società dominata si rivolta contro la dominazione della classe dirigente straniera per mettere in pratica la rivoluzione nazionale, lo sviluppo del fenomeno di classe della società dominata dipenderà dal regime economico e dalla natura dello Stato postcoloniale, “dalle caratteristiche interne di questo gruppo, ma anche dalle risultanti della azione temporanea di fattori esterni” (come la moneta introdotta dall’esterno, il peso delle concentrazioni urbane, per esempio). “La nostra lotta è fondamentalmente una lotta di liberazione nazionale o una lotta di classe?”. Cabral risponde che la lotta anticoloniale è soprattutto una lotta di liberazione nazionale per la riconquista della sovranità politica ed economica, che doveva assumere perciò la prospettiva di un tutto senza divisione interna di classe, come una nazione classe che si batte contro la classe borghese del Paese oppressore: “È impossibile, nel nostro contesto coloniale, che una sola forza sociale possa portare a termine la lotta contro il colonialismo, poiché ciò esige l’effettiva realizzazione dell’unità nazionale”. La strategia politica rivendicata dal partito era quindi quella di risolvere prima di tutto le “contraddizioni fondamentali fra interessi del popolo colonizzato ed interessi dei colonialisti portoghesi”, che si rivelavano nell’opposizione tra la “società colonizzata e la potenza coloniale, le masse popolari
sfruttate e la classe straniera sfruttatrice” , per affrontare infine il problema essenziale della liberazione nazionale: quello della natura dello Stato postcoloniale. Cabral pone attenzione, come abbiamo già sottolineato, alla necessità di affrontare le cause del fallimento di molte delle rivoluzioni africane limitate alla conquista di indipendenze puramente “nominali” da parte di alcuni Stati africani. Tali cause potevano essere collegate, secondo lui, alla struttura sociale dei Paesi, al ruolo che le masse assumevano nel processo di conquista dell’indipendenza, alla scelta degli uomini rivoluzionari ecc. Ma quello che Cabral individua come fattore determinante sono le “contraddizioni inerenti alla natura del potere politico degli Stati”. Comunque, si trattava soprattutto, secondo Cabral, di capire la complessità dell’indipendenza, imparare dagli errori e avere la coscienza del fondamento che doveva orientare i movimenti di liberazione nazionale: “fino a quando esisterà l’imperialismo, uno Stato in Africa, per essere veramente indipendente, dovrà essere necessariamente un movimento di liberazione oltre che struttura di potere”.
Ibid. Ivi, p. . Ivi, p. . PAIGC, Manual Político, s.l., Edição do PAIGC, , p. . Cabral, Guerriglia: il potere delle armi, cit., p. . Ivi, p. .
Propongo al nostro partito che il palazzo del governo in Guinea-Bissau sia trasformato in una casa del popolo per la cultura, non per il nostro primo ministro o qualcosa di simile (non credo, in ogni modo, che avremmo un primo ministro). Questo ha come fine il far capire alla gente che essa ha vinto il colonialismo – è finito questo tempo – non è una questione di cambiamento di pelle. Questo è molto importante. Questo è il principale problema del movimento di liberazione. Il problema della natura dello Stato creato dopo l’indipendenza è forse il segreto della sconfitta dell’indipendenza africana.
A tal proposito, Cabral mette in evidenzia che la difficoltà primaria dell’indipendenza politica camminava di pari passo con quella dell’indipendenza economica e della lotta contro il neocoloniali A. Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. . A. Cabral, Africa e a luta de libertação nacional nas colónias portugues, in A prática revolucionária. Unidade e Luta, II, cit., p. . Ivi, p. . Cabral, Return to the source: selected speeches, cit., p. .
smo. Queste preoccupazioni venivano considerate come le sfide più importanti da affrontare nel continente africano. La forza di blocco del processo storico nei territori dominati agisce sia attraverso la forma diretta del colonialismo classico – che ha come caratteristica l’esistenza di “un potere politico integrato per agenti esterni al popolo dominato (forze armate, polizia, agenti dell’amministrazione, coloni)” – sia attraverso la forma indiretta neocoloniale, caratterizzata da “un potere politico integrato nella maggior parte o nella totalità agli agenti nativi”. Cabral fa riferimento alle conseguenze di questo processo nelle società coloniali, sottolineando che nel primo caso occorre la distruzione completa o parziale dei nativi, oppure la conservazione apparente degli autoctoni, ma sempre con la loro emarginazione. Nel caso dei differenti gruppi etnici occorre la chiusura in riserve proprie. Già l’azione del dominio neocoloniale ha come fine distinto la creazione di una “borghesia o pseudoborghesia locale, infeudata alla classe dirigente del Paese dominatore”. In entrambi i casi per Cabral si possono verificare conseguenze sul processo storico di un popolo dominato dall’imperialismo: “la paralisi, la stagnazione (anche la regressione) di questo processo” determinate dal colonialismo diretto o, nel caso neocoloniale, dalla permanente impossibilità di “orientare liberamente lo sviluppo delle forze produttive”. In quest’ultimo caso, la differenza risiede nell’effetto provocato dalla creazione di una borghesia autoctona, quella di creare l’illusione dell’esistenza di un’evoluzione normale del processo storico “rafforzata dall’esistenza di un potere politico (Stato nazionale), integrato agli elementi nativi”.
Questa constatazione è per Cabral di estrema importanza per lo sviluppo del “pensiero e dell’azione dei movimenti di liberazione nazionali” affinché possano funzionare come un fenomeno di “negazione della negazione del suo processo storico” e corrispondere perciò necessariamente ad una rivoluzione intesa come una “mutazione profonda e radicale nel processo di sviluppo delle forze produttive”. È questa la condizione, quindi, per rendere effettiva la “riconquista della personalità storica”, il “regresso alla storia”, attraverso la “liberazione del processo di sviluppo delle forze produttive nazionali” e la scelta di un modello economico socialista, che rispondesse alle necessità di miglioramento di vita della società africana. La risposta rivoluzionaria di Cabral dopo cinque secoli di colonialismo, tenendo conto delle difficoltà di ricostruire un Paese con una struttura economica e sociale condizionata dalla dominazione straniera portoghese e inserita in questo panorama storico dell’imperialismo, parte dal presupposto che la liberazione nazionale e la rivoluzione sociale non sono “merce di esportazione”. “La nostra realtà non può essere trasformata veramente se non con la conoscenza concreta della stessa, con i nostri propri sforzi e con i nostri propri sacrifici”. Ed è per questo motivo che Cabral identifica dentro il contesto della guerra fredda e dei movimenti di liberazione in Africa (da lui definita guerra tricontinentale) i fondamenti e gli obiettivi della liberazione nazionale come prodotti necessari degli africani stessi della Guinea e di Capo Verde, una volta che il fenomeno della liberazione è a suo parere necessariamente connesso con la struttura sociale della società che si vuole trasformare. Così come Franz Fanon, il teorico della liberazione nazionale in Algeria, che ha ispirato gran parte delle rivoluzioni armate contro il colonialismo nel continente africano, Cabral credeva che l’unica via possibile di risposta allo stato di violenza permanente che implica la dominazione imperialista fosse la violenza. Resistenza armata si, però con la “coscienza che è l’uomo che
Si vede perciò che tanto il colonialismo quanto il neocolonialismo rimangono la caratteristica essenziale della dominazione imperialista – la negazione del processo storico del popolo dominato per mezzo della usurpazione violenta della libertà dello sviluppo delle forze produttive nazionali.
Cabral, A arma da teoria, cit., p. . Ibid. Ibid. Ivi, p. . Ibid. Ibid.
Ivi, p. . Ivi, p. . PAIGC, Manual Político, cit., p. .
guida l’arma, non l’arma che guida la coscienza”. Non si deve lottare per il sangue, ma per la costruzione di un futuro diverso: la lotta armata è fondamentalmente un atto politico a cui deve ricorrere un popolo per decidere del proprio destino. Distruggere e costruire – si deve partire da questo rapporto dialettico di lotta contro il nemico e contro le debolezze della società condizionata dal giogo coloniale (che contiene le contraddizioni legate a questa realtà) –: “distruggere l’economia del nemico e costruire la nostra economia, distruggere le influenze negative della cultura del nemico e sviluppare la nostra cultura, distruggere i mali fisici che il colonialismo ci ha causato per costruire un uomo nuovo”. È con questo proposito che Cabral sottolinea ripetutamente che la rivoluzione nazionale è un fenomeno fondamentalmente politico. La sua funzione principale è di lavorare con il popolo colonizzato per la creazione della coscienza sia di quello che si vuole distruggere, sia di quello che si vuole costruire, per realizzare il solo obiettivo che può dare un senso alla rivoluzione nazionale: migliorare le condizioni di vita dei colonizzati. Per questo motivo la rivolta anticoloniale da lui condotta è stata fin dall’inizio collegata alla costituzione graduale di nuove strutture socioeconomiche nelle zone liberate (nel corrispondeva a / dal territorio), con l’avvio di un’organizzazione economica alternativa attraverso le strutture mercantili di baratto e magazzini del popolo; un’organiz-
zazione politica radicata nei villaggi attraverso l’autogoverno dei contadini; la costruzione di scuole e strutture sanitarie. Insomma, si tratta di risultati di un’azione sociale che superarono, in anni di lotta, cinque secoli di colonialismo. Sono queste conquiste sociali che possono avviare il libero sviluppo delle capacità umane. Ed è questa la risposta più forte che la società della Guinea e di Capo Verde potevano dare alla tesi portoghese della minorità storica degli africani.
A. Cabral, Análise de alguns tipos de resistência, Lisboa, Seara Nova, , p. . È interessante paragonare questa etica relativa alla lotta di liberazione nazionale a quella del governo portoghese per perpetuare il dominio coloniale, che troviamo nelle Circolari Portoghesi di Azione Psicologica. Nella circolare n. , intitolata La nostra causa è una causa giusta, si può identificare il fine che giustificava la guerra coloniale: “La guerra che conduciamo noi è diversa: intanto è una guerra per il dominio delle popolazioni e colui che le avrà dalla propria parte sarà dunque avvantaggiato”. I soldati portoghesi venivano addestrati con il proposito esplicito di uccidere, come possiamo verificare nella circolare n. , Il commando non fallisce: “Ogni colpo d’arma da fuoco è un nemico in meno; il soldato serve a sparare, a uccidere [...]. Noi abbiamo per missione distruggere, uccidere [...]. Nei nostri colpi di mano, possono morire donne e bambini [...]. La responsabilità della morte di innocenti – se per caso si verifica – appartiene al nemico e non a noi” (Chailand, Lotta armata in Africa, cit., pp. -). A. Cabral, Palavras de ordem, in A prática revolucionária. Unidade e Luta, II, cit., p. .
Vogliamo quindi distruggere tutto ciò che sia di ostacolo al progresso del nostro popolo, tutti i rapporti di forza che ci sono nella nostra società, in Guinea-Bissau e a Capo Verde, contro il progresso del nostro popolo e contro la sua libertà. Vogliamo (dall’inizio alla fine): possibilità concrete e uguali per qualsiasi figlio della nostra terra, uomo e donna, di progredire come essere umano, utilizzando tutte le proprie capacità ed energie, per lo sviluppo fisico e spirituale, per essere un uomo e una donna all’altezza delle loro capacità di fatto.
Cabral, Análise de alguns tipos de resistência, cit., p. .
V CULTURA E LIBERAZIONE
Un popolo che, avendo un alto indice di analfabetismo (il % dal punto di vista linguistico) è altamente ‘letterato’ dal punto di vista politico, al contrario di determinate ‘comunità’ sofisticatamente letterate, ma grossolanamente ‘analfabete’ dal punto di vista politico. Paulo Freire, Cartas à Guiné Bissau
. Cultura, identità e materialità storica Malgrado Cabral fosse consapevole del carattere essenzialmente economico del fenomeno imperialista, sosteneva che la distruzione di tutto ciò che rendeva possibile la dominazione straniera richiedesse la resistenza su tutti gli aspetti da parte del colonizzato. Una resistenza perciò economica, politica, armata e culturale. Per Cabral gli ostacoli di carattere materiale provenienti dalla dominazione imperialista non prevalgono rispetto all’elemento umano della lotta di liberazione nazionale. Proprio questo fattore, ossia l’elemento umano, appare come la principale forza di reazione allo smisurato sistema di repressione del colonialismo portoghese contemporaneo. Nel movimento di liberazione, come in qualsiasi altra impresa umana – qualunque siano i fattori materiali e sociali che condizionano la sua evoluzione –, l’uomo con la sua mentalità e il suo comportamento è l’elemento essenziale e determinante.
Come Cabral considera l’elemento umano la principale forza di reazione alle condizioni materiali di oppressione del dominio Cfr. Cabral, Análise de alguns tipos de resistência, cit. A. Cabral, Uma luz fecunda ilumina o caminho da luta: Lénin e a luta de libertação nacional, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. .
imperialista, allo stesso modo la cultura appare nella sua teoria come una forza, ovvero un’arma per combattere l’imperialismo e trasformare la società colonizzata. Secondo Cabral è incontestabile che il processo di dominazione imperialista comporti due tipi di azione, quello materiale e quello culturale: “Poiché il dominio imperialista nega il processo storico della società dominata, questo è necessariamente la negazione del suo processo culturale”. La stagnazione del processo di sviluppo delle forze produttive provocato dal dominio imperialista ha come conseguenza, sottolinea Cabral, la cristallizzazione dello sviluppo endogeno della cultura del popolo dominato. L’impresa di propaganda del regime nazista, “espressione tragica dell’imperialismo e della sete di dominio” è la prova più eclatante della centralità che un piano culturale di azione riveste nella strategia di potere imperialista, ossia la “repressione permanente e organizzata della vita culturale” del popolo dominato. L’oppressione culturale attuata dal colonialismo, sia diretta, sia indiretta, funziona essenzialmente, secondo Cabral, come un fattore di sicurezza, funzionale a garantire la continuità del dominio materiale. Con questo proposito egli richiama l’attenzione sul fatto che sia meno difficile dominare che preservare il dominio su una società, soprattutto quando essa ha coscienza della sua cultura.
dall’azione imperialista, poiché il fattore culturale di resistenza, a prescindere dalla violenza della dominazione dal punto di vista materiale, rimane un elemento indistruttibile, in quanto può emergere in qualsiasi momento della storia per modificare la sua direzione. Se consideriamo questa premessa, possiamo capire, tanto la necessità del piano di azione culturale di dominazione – il fattore di sicurezza della pratica imperialista –, quanto l’incontestabile esistenza del fattore culturale di resistenza presente in qualsiasi popolo. L’importanza fondamentale che Cabral attribuisce al valore della cultura per raggiungere l’indipendenza si contrappone alla tesi colonialista che identifica nella cultura l’elemento legittimo di dominazione, attraverso la sua missione di portare la civiltà al mondo extraeuropeo per plasmare i “popoli senza cultura”, che vuole rendere più amene le differenze culturali dei colonizzati con il proposito evoluzionistico di elevarli alla condizione di cittadini assimilati. Con il proposito del ‘nuovo’ discorso coloniale portoghese di portare la civiltà al mondo africano, la cultura ha rivestito la funzione teorica di legittimare la pratica coloniale, in sostituzione del mito della superiorità razziale, del principio gerarchico sul quale si basava la differenza tra colono e colonizzato. Questa operazione, nel caso portoghese, si attuò fondamentalmente attraverso la difesa dell’etica cristiana (universale) dell’uguaglianza del colonialismo missionario e parallelamente dell’ideologia dell’armonia razziale e dell’assimilazione culturale. L’antropologo Michel Leiris ha notato come nel secondo dopoguerra l’ideologia razzista continuasse ad avere un forte potere di diffusione attraverso la concezione che vedeva la cultura come un prodotto dell’eredità biologica, ovvero attraverso la connessione non dichiarata, ma che pure si stabiliva, tra razza e cultura. È quest’operazione ideologica che ha permesso la divulgazione della falsa idea che la “superiorità” congenita della razza bianca, prima dichiarata senza scrupoli anche dalle scienze moderne, incarnasse la civilisation. La cultura occidentale, secondo Leiris, sarebbe perciò la “l’unica degna di questo nome” e, proprio per questo motivo, avrebbe una “missione civilizzatrice da adempiere”, ovvero la “predestinazione a creare valori che gli uomini di altre razze e di altre culture sa-
In effetti, prendere le armi per dominare un popolo è, innanzitutto, prendere le armi per distruggere o, almeno, per neutralizzare la sua vita culturale. Ciò vuol dire che finché ci sarà una parte di questo popolo che possa avere una vita culturale, il dominio straniero non potrà essere sicuro dalla sua perpetrazione. A un certo punto, a seconda dei fattori interni ed esterni che determinano l’evoluzione della società in questione, la resistenza culturale (indistruttibile) potrà assumere nuove forme (politiche, economiche, armate) per contestare con vigore il dominio straniero.
Cabral parte quindi dalla premessa che la cultura è l’unico elemento a non poter essere totalmente dominato o distrutto
Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. . Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. . Ibid.
rebbero tutt’al più disposti a ricevere passivamente”. Allo stesso modo questa operazione teorica, caratterizzata dall’opposizione gerarchizzata tra civilisation e nature (civilizzazione e natura), e quindi anche tra modi di vivere definiti civilisés (civilizzati) e sauvages (selvaggi), spiega il nucleo fondante delle ideologie colonialiste e il loro proposito di dividere il genere umano in due categorie: uomini “detentori”, pertanto “propagatori” di cultura, e quelli “privi di cultura” quindi “recettori”, che si trovano a uno stato di evoluzione inferiore, ossia, più vicini alla natura, i cosiddetti primitivi. L’uomo occidentale, sensibile all’egocentrismo sicuramente naïf [...], immaginò che la Civilizzazione si confondesse con la sua civilizzazione, la Cultura con la sua propria cultura (o almeno quella che nel mondo occidentale era appannaggio delle classi privilegiate) e non ha cessato di guardare i popoli esotici, con i quali entrava in contatto per sfruttare i loro Paesi di approvvigionare prodotti stranieri per l’Europa, di trovare nuovi mercati o semplicemente di assicurare le conquiste precedenti, sia come selvaggi, incolti e abbandonati al loro istinto, sia come barbari, impiegandoli per definire ciò che considerava come metà-civilizzati, e quindi inferiori.
Con l’intento di svincolarsi dall’interpretazione gerarchizzata della cultura che contraddistingue le ideologie coloniali e che si basa, come ha dimostrano Michel Leiris sul rapporto tra razza e cultura, Cabral parte dalla premessa che, indipendentemente dalle condizioni storiche materiali, ogni società “è portatrice e creatrice di cultura”. Così come per ogni altra società, la cultura della società africana è per lui “un fatto incontestabile”. Cabral non fa mai allusione alla cultura africana per affermare il suo carattere “superiore” o “inferiore” rispetto alle altre culture, ma la pone semplicemente come una parte del patrimonio comune dell’umanità. Contrapponendo la concezione essenzialista della cultura, propria delle ideologie coloniali, Cabral mette in evidenza la reciprocità esistente tra “fatto culturale e fatto economico (e politico) nell’atteggiamento delle società umane”. Con l’intento di spiegare ciò, utilizza la metafora di un fiore, dimostrando l’incontestabile legame tra la cultura e la sua base materiale della storia. Così come una pianta ha le sue radici legate all’humus della terra, la cultura è per Cabral necessariamente l’espressione della natura organica di una determinata società con la sua realtà storica.
Contro ogni teoria che consideri la cultura “come appannaggio di popoli o nazioni privilegiate e in cui, per ignoranza o mala fede, si confonde cultura e tecnica, se non perfino cultura e colore della pelle o forma degli occhi”, la dimensione culturale della lotta di liberazione nazionale che troviamo nella teoria di Cabral risponde essenzialmente al fine dell’emancipazione nazionale, intesa come una trasformazione dell’indipendenza politica in liberazione in senso più ampio. Come sottolinea Mário de Andrade, la liberazione dall’oppressione straniera assumeva la dimensione “della creazione culturale nell’ambito stesso della società coloniale, percorrendo l’esperienza collettiva concreta, acquistava il valore di un ‘apprendistato della libertà’”.
La cultura, qualunque siano le caratteristiche ideologiche o idealiste della sua manifestazione, è dunque un elemento essenziale della storia di un popolo. Forse è la risultante di questa storia, come il fiore è la risultante di una pianta. Come la storia, o poiché è la storia, la cultura ha come base materiale il livello delle forze produttive e il modo di produzione. Essa immerge le sue radici nell’humus della realtà materiale del luogo nel quale si sviluppa e riflette la natura organica della società, potendo essere in parte influenzata da fattori esterni. Se la storia permette di conoscere la natura e l’estensione dei disequilibri e dei conflitti (economici, politici, sociali) che caratterizzano l’evoluzione di una società, la cultura permette di sapere quali furono le sintesi dinamiche, elaborate e fissate dalla coscienza sociale per la soluzione di questi conflitti, in ogni tappa dell’evoluzione di questa stessa società, alla ricerca della sopravvivenza e del progresso.
M. Leiris, Race e Civilisation, Paris, Unesco, , p. . Ivi, pp. -. Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. . de Andrade, Cultura e emancipazione nazionale, cit., p. .
Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. .
Nel suo pensiero, la cultura non è solo una risultante della materialità storica di una determinata società, ma è anche contemporaneamente una determinante della storia. Il tal senso, la cultura viene paragonata dunque al seme di un fiore, quindi all’unico elemento in grado di influenzare (negativamente o positivamente) la fecondazione della storia. Pertanto è nella cultura che risiedono, sia la capacità di preservazione, sia la capacità di trasformazione della storia, quando essa funziona come un “germe di contestazione” dei fattori di conflitto all’interno di una società.
Queste coordinate che derivano dal legame tra la cultura e la storia sono valide anche, secondo Cabral, per l’identità culturale dei popoli: l’identità non è altro, “a livello individuale o collettivo, oltre la realtà economica, che l’espressione di una cultura”. Le esigenze del piano di azione culturale del movimento di liberazione nazionale, di difesa di un’identità propria degli africani “diversa e distinta da quella della potenza coloniale” e di negazione della supremazia culturale del colonizzatore, non assumono un proposito gerarchizzante, e non costituiscono una logica identitaria che vuole presentarsi come “pura” e “omogenea”, ossia congenita alla “razza nera” e perciò priva di influenze esterne. A differenza dal pensiero identitario imperialista con base ideologico-razzista ed etnocentrica, Cabral sostiene la natura dialettica dell’identità di un individuo o di un gruppo umano. L’identità ha necessariamente una natura eterogenea, poiché è l’espressione della “facoltà di identificarsi e distinguersi allo stesso tempo”, a seconda dell’azione di fattori biologici e sociologici. Senza dubbio, i fattori sociologici sono, per Cabral, i più determinanti per l’identità, poiché la realtà sociale, cioè la materialità storica di una data società, è l’elemento che conferisce “la forma e il contenuto” dell’identità. Senza questo elemento che permette il “confronto e il paragone tra gli individui” e che li situa nell’ambito di una cultura, non si può individuare un fattore oggettivo che determini l’identità. Ora, per Cabral è evidente che qualsiasi analisi che si concentra sull’elemento biologico di un individuo o di un gruppo con il fine di cogliere “l’identità originale” – come la chiama con cautela Cabral – ignorando con ciò la storicità in cui questa identità è inserita sarà “incompleta, parziale, e carica di pregiudizi”. Lungi dunque dal presentare il concetto di identità come una qualità che rivela la purezza di un fattore biologico o sociologico, l’identità è “una qualità relativa, non esatta e anche circostanziale”, a seconda della sua evoluzione nel tempo. Cabral considera soprattutto la struttura sociale come il fattore più determinante dell’identità di un gruppo sociale. L’identità di un popolo
Come succede con fiori di una pianta, è nella cultura che risiede la capacità (o la responsabilità) dell’elaborazione e della fecondazione dei semi che garantiscono la continuità della storia e, simultaneamente, le prospettive dell’evoluzione e del progresso della società in questione.
Cabral si oppone ai principi dei movimenti neri che difendevano l’esistenza di culture puramente razziali o continentali, in quanto “nessuna cultura è un tutto perfetto e finito”, poiché è, invece, l’espressione di “sintesi dinamiche” dei rapporti “che si stabiliscono in una società, da un lato, tra l’uomo (considerato sia individualmente che collettivamente) e la natura e, dall’altro, tra gli individui, gli strati sociali o le classi”. Così come la storia, la cultura è un fenomeno in continua “espansione, collegato alla realtà economica e sociale dell’ambiente”. Per approfondire questa visione aperta della cultura, Cabral sottolinea il fatto che la sua distribuzione non è uniforme all’interno di uno stesso continente, Paese e società, ciò che conferma l’incoerenza di difendere la radice unica o le caratteristiche identiche di una determinata cultura: “Le coordinate di una cultura, così come quelle di un qualsiasi fenomeno in via di sviluppo, cambiano nello spazio e nel tempo” .
Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. .
Ivi, p. . Ivi, p. .
che subisce il dominio straniero rifletterà perciò l’azione di questo dominio sulla struttura sociale stessa della società dominata:
conquiste che la cultura portoghese aveva portato in Africa, ma di svincolarsi dai suoi valori negativi, dalla mentalità coloniale che puntava all’alienazione dell’uomo africano rispetto alla sua identità e al suo contesto. La creazione di una nuova cultura, la cultura della liberazione, non costituiva una condanna totale della cultura portoghese e non era un moto antistraniero, nazionalista, o razzista di difesa della cultura nera. Per questi motivi la teoria di Cabral sulla cultura rimanda sempre al principio dell’assimilazione critica.
Per questo motivo, riconoscere o affermare l’identità di un individuo o di un gruppo umano è, innanzitutto, situare questo individuo o gruppo nell’ambito di una cultura. Ora, come sappiamo tutti, la base principale della cultura è, in tutte le società, la struttura sociale. Sembra perciò lecito concludere che la possibilità di un gruppo di preservare (o perdere) la sua identità di fronte al dominio straniero dipende dal grado di distruzione effettuata nella sua struttura sociale da questo stesso dominio.
D’altronde, l’identità della nazionalità africana viene contrapposta ai valori di dominio dell’identità imperialista portoghese, ponendosi invece come un’identità essenzialmente rivoluzionaria. La dimensione critica della cultura nazionale occupa una spazio importante nella teoria di Cabral e viene messa in rilievo sia per quanto riguarda gli aspetti culturali negativi della società africana, sia per quanto riguarda gli aspetti della cultura imperialista: “Nella misura in cui liquidiamo la cultura coloniale e gli aspetti negativi della nostra cultura, dobbiamo creare una cultura nuova, che sia basata sulle nostre tradizioni, ma che rispetti anche le conquiste che possono essere utili all’uomo”. Questa posizione critica conferma la tesi di Edward Said secondo la quale “nel suo ambito migliore, la resistenza nazionalista all’imperialismo è sempre stata critica verso sé stessa”. La lotta di liberazione nazionale ricercava, al contrario del fattore alienante della cultura straniera, la dimensione cosciente che comporta un’identità culturale appunto perché veniva collegata al desiderio di realizzare un progetto di società, inteso da Cabral come un atto per “comprendere e agire sulle contraddizioni storiche della sua epoca”. Cabral difendeva l’idea di non disprezzare le Ivi, p. . Nel suo saggio Resistenza Culturale, Cabral analizza una molteplicità di aspetti della cultura africana che vengono messi a confronto con le esigenze della lotta di liberazione nazionale. Tra questi possiamo citare, per esempio, l’interpretazione magica della realtà, le superstizioni, la mancanza di coscienza della nozione del tempo, ecc. Cfr. Cabral, Análise de alguns tipos de resistência, cit. Ivi, p. . Said, Cultura e Imperialismo, cit., p. . de Andrade, Cultura e emancipazione nazionale, cit., p. .
. La sconfitta del dilemma culturale colonialista: liquidare, assimilare o integrare? Cabral ci propone un’analisi dell’effetto della cultura colonialista sulla società colonizzata per ribadire la principale strategia teorica della propaganda coloniale del regime portoghese di difesa dei benefici che comportava la missione evangelizzatrice e civilizzatrice. Pur non sminuendo l’azione negativa della colonizzazione sugli “aspetti essenziali della cultura e delle tradizioni del popolo colonizzato”, Cabral individua tre alternative possibili al tentativo imperialista di agire sull’identità culturale del popolo colonizzato: l’eliminazione totale della popolazione dominata; la pretesa dell’assimilazione graduale delle popolazioni autoctone; l’armonizzazione del dominio politico ed economico con il rispetto della personalità culturale del popolo dominato. La possibilità pratica di un’azione totale sull’identità di un popolo attraverso la distruzione completa del suo fattore culturale di resistenza si può verificare, secondo Cabral, esclusivamente nel primo caso, quello del genocidio di intere popolazioni. Per Cabral le ultime strategie culturali del dominio imperialista sono problemi piuttosto teorici, che non potranno mai avere un’azione pratica completa sulla cultura del popolo dominato: “Di fatto, non sono che formulazioni grossolane di razzismo e si traducono, nella pratica, in un permanente stato di emergenza per le popolazioni native, basato su una dittatura (o democrazia) razzista”.
Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. . Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. .
L’esempio della teoria colonialista dell’assimilazione culturale rivela, per Cabral, una matrice essenzialmente razzista, poiché si basa, sia sull’idea dell’“incapacità e della mancanza di dignità degli africani”, sia sulla credenza del “valore nullo delle loro culture e civilizzazioni”. Rimane comunque, una teoria di carattere disumano e senza attuabilità, in quanto il proposito di elevare i popoli autoctoni alla condizione di cittadini assimilati della missione civilizzatrice portoghese si rivela una prova esplicita della sua non operatività pratica. Di fatto, questo viene comprovato attraverso l’irrisorio potere di penetrazione che la cultura portoghese aveva sulla maggior parte della popolazione colonizzata: “L’insuccesso totale della politica di “assimilazione progressiva” delle popolazioni native è la prova evidente, sia della falsità di questa teoria, sia della capacità di resistenza dei popoli dominati a un tentativo di distruzione o impoverimento del loro patrimonio culturale”. Nell’ultimo caso, per Cabral, la non effettività pratica del dilemma culturale imperialista si verifica ugualmente. Il regime dell’apartheid è un esempio della sua attuazione che ha, in verità, secondo Cabral, come unico scopo quello dello “sfruttamento sfrenato della forza lavoro delle masse africane, incarcerate e represse nel più cinico e più vasto campo di concentramento che l’umanità abbia mai conosciuto”. L’azione del colonialismo missionario portoghese è indicata anche essa come una retorica priva di effetto pratico significativo per la popolazione colonizzata, più che altro in Guinea dove, a differenza di Capo Verde, c’era una minore presenza di coloni portoghesi e di africani assimilati. Per Cabral tanto il supporto portoghese alle missioni cristiane nelle colonie per la conversione dei nativi, quanto il ruolo centrale del cattolicesimo nella struttura ideologica del regime di Salazar, non avrebbero raggiunto l’obiettivo di conversione religiosa dell’Africa. Nei suoi scritti non troviamo molti riferimenti all’azione delle attività missionarie; possiamo, però, dedurre la scarsa adesione degli africani alla religione cattolica dalle
sue stesse parole secondo le quali la Guinea, una società composta da diversi gruppi etnici di culture diverse, era fondamentalmente animista, con una maggior presenza di adepti all’islamismo, che non al cattolicesimo. Benché ci siano popolazioni musulmane, sappiamo che in fondo sono anche animiste, come i balantas ed altri. Credono in Allah, ma anche nell’Iran e nei djambacosses. Hanno il Corano, ma anche il loro gri-gri [bracciale] nel braccio e altre cose. Il successo dell’islamismo nelle nostre terre, come nell’Africa in generale, è dovuto alla capacità dell’Islam di capire tutto questo, di accettare la cultura degli altri, mentre i cattolici la vogliono estinguere velocemente solo per credere nella Madonna, la Madonna di Fatima e Dio Nostro Signore Gesù Cristo.
. Assimilazione dell’élite, emarginazione della cultura popolare Il denominatore comune delle politiche imperialiste per l’azione sull’identità culturale del popolo colonizzato, ovvero la sua non realizzazione pratica completa, si spiega, secondo Cabral, con il fatto che in fondo l’interesse dei colonizzatori non era quello di promuovere l’acculturazione delle masse popolare, ma di sfruttarle come “fonte di manodopera per i lavori forzati ”. Per approfondire questo concetto, Cabral richiama l’attenzione sul carattere di classe che la cultura imperialista assume anche là dove il fenomeno di lotta di classe si presenta ancora in un stato embrionale. L’azione culturale della dominazione imperialista si realizza, secondo Cabral, non solo attraverso le politiche coloniali per promuovere l’alienazione culturale del colonizzato, la sua pretesa di assimilazione alla cultura occidentale, l’apartheid, ma anche attraverso la “creazione di un abisso sociale tra le élites autoctone e le masse popolari”, ciò che caratterizza in modo significativo tutte le società coloniali. Ritorniamo dunque alla sua concezione dell’identità di un popolo che subisce il dominio straniero come fondamentalmente connesA. Cabral, Partir da realidade da nossa terra. Ser realistas, in A arma da teoria. Unidade e Luta, I, cit., p. . Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. . Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. .
Cabral, A Dominação colonial portuguesa, cit., p. . Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. . Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. .
sa all’azione del dominio sulla propria struttura sociale. La società colonizzatrice non solo riproduce, secondo Cabral, le proprie contraddizioni in seno alla società colonizzata, ma cerca anche di accentuare al massimo le divisioni tra la classe sociale assimilata e le masse popolari, così come cerca di accentuare le divisioni tra gruppi etnici diversi. La strategia di azione culturale del potere coloniale mira generalmente alla creazione di una ristretta élite di colonizzati – assimilata culturalmente, che diviene una categoria socialmente privilegiata rispetto alle masse popolari – e alla fomentazione di “pregiudizi culturali di classe” con l’appoggio e la creazione del prestigio culturale di questa classe dirigente e con il disprezzo per le manifestazioni culturali delle masse popolari autoctone.
La separazione tra coloni e colonizzati nel sistema di educazione coloniale evidenzia come l’azione di “acculturazione” dei colonizzati riguardasse soltanto una piccola parte degli africani. Il monopolio dell’insegnamento della chiesa cattolica imponeva il divieto al ,% degli africani di frequentare le scuole laiche, quindi il grado di istruzione era di appena l’% degli africani nelle colonie portoghesi. Il privilegio di frequentare le scuole ufficiali del governo portoghese era concesso solamente a circa lo ,% degli africani, limitato a coloro i quali avevano raggiunto la condizione di assimilato. L’educazione di questa ridotta parte degli africani era nella maggior parte dei casi affidata a professori europei e l’equivalenza tra insegnamento coloniale e disprezzo per l’uomo e la cultura africana può essere puntualmente verificata dall’osservazione di Cabral sul contenuto dell’insegnamento coloniale. Possiamo riscontrare nelle sue parole i metodi funzionali alla conservazione dello “stato di servilismo” della “scuola dei padroni”, come la chiama James Ngugi. È la scuola che ha come fine insegnare a “disprezzare noi stessi [gli africani] e a considerare con reverente ammirazione quanto si realizzava in Europa”.
Come risultato di questo processo di divisione o di approfondimento delle divisioni in seno alla società, succede che parte considerevole della popolazione, in specie la ‘piccola borghesia’ urbana o rurale, assimila la mentalità del colonizzatore e si considera culturalmente superiore al popolo a cui appartiene, ignorandone o disprezzanone i valori culturali originali. Questa condizione, caratteristica della maggioranza degli intellettuali colonizzati, si cristallizza nella misura in cui aumentano i privilegi sociali del gruppo assimilato o alienato, avendo implicazioni dirette nel comportamento degli individui di questo gruppo davanti al movimento di liberazione.
Chi erano gli africani che avevano accesso alla cultura ufficiale del governo coloniale portoghese? Cabral pone l’accento sull’importanza degli effetti dei principi razzisti e di separazione culturale tra ‘civilizzati’ e ‘non civilizzati’ della Lei do Indigenato e dell’accesso al sistema di educazione coloniale portoghese, come fattori che aiutano a comprendere l’azione della cultura dominante sulla società colonizzata. La divisione tra i gruppi etnici della società colonizzata si operava, secondo Cabral, con l’appoggio alla struttura sociale dirigente dei gruppi che avevano tratto vantaggio dalle guerre coloniali avendo favorito il definitivo insediamento dei coloni portoghesi. Nella Guinea, i Fulas erano il gruppo etnico che appunto collaborava con il potere coloniale portoghese. Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. . Ivi, p. .
Tutta l’educazione portoghese disprezza la cultura e la civilizzazione dell’africano. Le lingue africane sono proibite nella scuola. L’uomo bianco è sempre presentato come un essere superiore e l’africano come un essere inferiore. I conquistatori coloniali sono descritti come santi ed eroi. I bambini africani acquisiscono un complesso d’inferiorità quando entrano nella scuola elementare. Imparano a temere l’uomo bianco e a sentire vergogna di essere africani. La geografia, la storia e la cultura dell’Africa sono cancellate, o stravolte, e il bambino è obbligato a studiare esclusivamente la geografia e la storia portoghese.
Insomma, si può capire che lo scopo dell’assimilazione di questa élite colonizzata era quello della deculturazione, ovvero il disprezzo per tutto ciò che era nativo, ossia l’alienazione vera e propria Cabral, A Dominação colonial portuguesa, cit., p. . J. Ngugi, L’Africa per progredire ha bisogno del suo passato, “Il Corriere UNESCO”, XXIV, gennaio, , p. . Cabral, A Dominação colonial portuguesa, cit., p. .
dell’Africa. Come sottolinea il pedagogo brasiliano Paulo Freire, “l’ideologia coloniale cercava di diffondere tra i bambini e i giovani la visione che quell’ideologia stessa aveva di loro”. E d’altronde, era evidente come il sistema di educazione coloniale operasse attraverso la discriminazione razziale per poter accedere all’istruzione. Si trattava piuttosto di fare capire a questa ridotta élite di assimilati, futuri componenti della classe dirigente vicina ai colonialisti, che l’educazione coloniale era antidemocratica, accessibile a pochi e contro la maggioranza dei colonizzati. La scuola coloniale (l’elementare, il liceo, il tecnico) si distingue dall’anteriore [scuole delle zone liberate]; antidemocratica nei suoi obiettivi, nel suo contenuto, nei suoi metodi, separata dalla realtà del paese, era, perciò, una scuola di pochi, per pochi e contro la grande maggioranza degli autoctoni. Selezionava persino la piccola minoranza a cui dava accesso, respingendone gran parte dopo i primi incontri e, continuando la sua rigida selezione, aumentava il numero di rinnegati. Rinnegati sui quali rimarcava il loro complesso d’inferiorità, d’incapacità, proprio a causa del loro stesso insuccesso.
Per questo motivo Cabral riteneva indispensabile analizzare criticamente l’azione della cultura straniera sui differenti strati sociali e gruppi etnici (intesi qui sia come strutture orizzontali che verticali) della società colonizzata per potere identificare, partendo da questa analisi, tanto le strategie di mobilitazione politica, quanto il ruolo dei differenti strati o gruppi sociali nell’organizzazione dello Stato postcoloniale.
P. Freire, Cartas à Guiné-Bissau. Registros de uma experiência em processo, Rio de janeiro, Paz e Terra, , p. . A causa della discriminazione operante nelle scuole coloniali, portare a termine gli studi era difficile anche per quelli che facevano parte della classe assimilata: “Le varie forme che la discriminazione razziale riveste nelle scuole coloniali, specialmente in Angola e Mozambico, così come l’enorme miseria delle famiglie africane, limitano il numero di studenti che riescono a diplomarsi. Solo quelli capaci di uno straordinario sforzo raggiungono la fine degli studi” (Cabral, A Dominação colonial portuguesa, cit., p. ). Ibid.
Per una percezione corretta del vero ruolo della cultura nello sviluppo della liberazione, bisogna (almeno in Africa) fare una distinzione tra la situazione delle masse popolari, che preservano la loro cultura, e le categorie sociali in parte assimilate, queste ultime sradicate e culturalmente alienate, o semplicemente deprivate di qualsiasi elemento endogeno nel processo della loro formazione culturale. Differentemente da quello che si verifica nelle masse popolari, l’élite coloniale autoctona, creata dal processo di colonizzazione, malgrado sia portatrice di un certo numero di elementi culturali propri della società autoctona, vive materialmente e spiritualmente la cultura dello straniero colonialista, con cui prova ad identificarsi progressivamente, sia nel comportamento sociale, sia nella propria percezione dei valori culturali indigeni.
Cabral riteneva dunque che, a differenza dell’élite assimilata, le masse popolari fossero meno colpite dall’azione della cultura coloniale portoghese. L’esclusione dal sistema ufficiale di educazione, il disprezzo del valore delle culture popolari, così come il disprezzo delle masse popolari intese esclusivamente come manodopera, comportavano, secondo Cabral, l’effetto di cristallizzazione della cultura popolare. Questo processo di irrigidimento avviene come conseguenza della paralisi del processo storico del popolo dominato, nella misura in cui l’egemonia della cultura dominante agisce per impedire lo sviluppo endogeno della cultura nativa, ovvero, ha come fine quello di “impedire ai nostri figli di progredire, di imparare, di capire la realtà della nostra vita, della nostra terra, della nostra società, di comprendere la realtà dell’Africa, del mondo di oggi”. Come ha messo bene in evidenza Basil Davidson, non si potrà mai misurare con precisione l’effetto della dominazione culturale sulle popolazioni colonizzate, ma certamente il colonialismo portoghese agì con determinazione per provocare la “perdita della propria storia”: “Siamo tuttavia abbastanza informati per essere certi che una forma o un’altra di alienazione imposta aveva creato confusione, degradazione e perdita dolorosa di fiducia in loro stessi”. Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. . Cabral, Partir da realidade da nossa terra. Ser realistas, cit., p. . B. Davidson, L’attualità di un pensiero rivoluzionario, in M. Alejie (a cura di) Amílcar Cabral e l’indipendenza dell’Africa, cit., p. .
Secondo Cabral, malgrado il fatto che fossero le masse popolari a subire maggiormente lo sfruttamento coloniale, era in questa classe che si poteva notare una più significativa conservazione dei valori culturali endogeni, poiché loro stessi ritrovavano “nella propria cultura l’unico residuo di preservazione dell’identità”. Questa affermazione non era volta all’idealizzazione della cultura popolare o alla difesa del ritorno ai costumi tradizionali come parte del progetto culturale del PAIGC. Anzi, come sottolinea Mário de Andrade, il conflitto tra tradizione e valori moderni rappresentava il tentativo di preservare le differenti identità culturali africane del territorio, i loro valori positivi, sottolineando, però, parallelamente, la necessità di integrare in forma equilibrata queste culture tradizionali e le conquiste ed esigenze della modernità: “Cabral ha costantemente animato un dibattito militante sulle pesantezze culturali dovute a fattori regressivi del passato (superstizioni, riti e costumi) e sull’armoniosa integrazione tra valori tradizionali e progresso moderno”. Partendo da quest’idea, la conciliazione tra tradizione e valori moderni viene considerata a partire dall’esigenza di “ricercare nella ricchezza delle tradizioni culturali i valori suscettibili di foggiare i modelli atti alla loro [delle masse popolari] esistenza e le soluzioni più adeguate ad un sviluppo endogeno”. Tenendo presenti queste osservazioni riguardo l’azione della cultura straniera sulle masse popolari, Cabral sosteneva che il principale piano di azione della resistenza culturale fosse non il bisogno di riappropriazione e affermazione dell’identità africana, ma la creazione di condizioni affinché la massa della popolazione superasse la sua subalternità culturale, uscendo da una condizione di sottocultura per accedere ad una cultura reale e diventare partecipe perciò dell’organizzazione politica della propria realtà. Cabral difende l’opinione secondo la quale l’alienazione culturale e la ricerca di identificazione con la cultura straniera caratterizzavano
significativamente l’élite assimilata e i componenti della piccola borghesia, ossia quelli che avevano più contatto con i coloni portoghesi. L’azione alienante della cultura straniera su di loro provoca, secondo Cabral, un “conflitto socio-culturale” che si manifesta a sua volta attraverso un “complesso di frustrazione” e la necessità di “contestare la sua marginalità e di scoprire un’identità”. Questo accade perché, nonostante la presenza dell’aspirazione “a uno stile di vita simile, se non identico, alla minoranza straniera” derivante dalla limitazione e dal disprezzo per “le relazioni con le masse autoctone”, questa classe non riesce a “rompere con le barriere del sistema”. Rimane perciò una “classe marginale o marginalizzata”, sia all’interno del suo proprio Paese che nelle “diaspore impiantate nelle metropoli colonialiste”. Il problema del ritorno alle fonti e della riconquista dell’identità africana, postulati dal movimento della négritude e dall’origine del panafricanismo, sono espressioni, secondo Cabral, di questa contraddizione socio-culturale vissuta da parte della classe assimilata. Nonostante questa perdita dell’identità africana, la piccola borghesia viene considerata il primo strato sociale a rendersi conto della natura del potere coloniale e perciò il primo strato a pren-
Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. . de Andrade, Cultura e emancipazione nazionale, cit., p. . Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. .
Cabral divide in tre i componenti sociali della piccola borghesia: “Il gruppo compromesso, o profondamente compromesso con il colonialismo, che ingloba la maggior parte dei funzionari superiori, medi e dei professionisti liberali; il gruppo che chiamiamo, senza molta legittimità, la piccola borghesia rivoluzionaria, perché dalla idea del nazionalismo passò a quella della liberazione nazionale e, infine, il gruppo intermedio che oscilla costantemente tra la liberazione e il dominio dei portoghesi” (A. Cabral, A estrutura social, in A arma da teoria. Unidade e Luta I, cit., p. ). Comunque, come sotolinea Chilcote, “la piccola borghesia è una classe di servitori non direttamente coinvolta nel processo di produzione. Storicamente non ha mai avuto potere politico [...]” (R.H. Chilcote, Amílcar Cabral’s revolutionary theory and pratice. A critical guide, Boulder, Rienner Publishers, ). Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. . Ivi, p. . La riaffermazione dell’identità africana distinta da quella della potenza coloniale non è un fenomeno generalizzato e uniforme all’interno della classe assimilata. Per Cabral solo una parte di questa classe sente la necessità di avvicinarsi alle masse popolari e di partecipare attivamente al movimento di liberazione nazionale.
dere iniziative per la mobilitazione delle masse popolari contro il dominio straniero. La piccola borghesia era per Cabral la classe più indicata ad assumere la guida dell’apparato dello Stato postcoloniale. I contadini appaiono invece come la base della lotta, la forza fisica più importante del movimento di liberazione. Questa scelta deriva, secondo Cabral, sia dalla difficoltà di mobilitazione dei contadini per la lotta di liberazione, sia dalla mancanza di preparazione ad assumere la struttura statale ereditata dal colonialismo. Il riconoscere la piccola borghesia come la classe erede dello Stato coloniale era, secondo Cabral, una questione tecnica. Come spiega Basil Davidson, “la questione principale è che la Guinea non possedeva una borghesia nazionale né una classe operaia in alcun modo conscia della propria natura e potenzialità”. L’eredità dello Stato coloniale veniva affidata perciò all’“embrione” della piccola borghesia “la quale aveva imparato a manipolare lo Stato grazie alla sua posizione urbana, istruita e semiprivilegiata all’interno della società coloniale” .
la “borghesia onesta, vale a dire quella che, a discapito di tutte le correnti contrarie, continua a far propri gli interessi fondamentali delle masse popolari del Paese”. L’importanza di questo concetto, come ha notato chiaramente Davidson, è di avere identificato il “dilemma della piccola borghesia nel contesto generale della lotta di liberazione nazionale”. Questa classe aveva due opzioni nel contesto africano di liberazione: diventare una borghesia “riformista” e “allearsi con i colonialisti al fine di difendere per quanto illusoriamente, la loro posizione sociale”, oppure suicidarsi come classe, identificandosi con le masse popolari, rafforzando “la propria coscienza rivoluzionaria” e liberandosi dalla “mentalità di classe”. “La piccola borghesia riformista, a suo avviso, può solo condurre ad un risultato neocoloniale”. E per non correre questo rischio, messo in evidenza come una debolezza cruciale dei movimenti di liberazione nazionale, Cabral fa un richiamo continuo al partito per considerare “la supremazia del fattore di classe nell’atteggiamento delle diverse categorie sociali” e il rischio della categoria socialmente e culturalmente privilegiata di porre “i suoi interessi immediati di classe al di sopra degli interessi del gruppo o della società, contro le aspirazioni delle masse”. La via della vera liberazione poneva dunque il suicidio di classe come unica alternativa alla piccola borghesia. L’ordine culturale imposto dalla colonizzazione per il proposito di emarginare le culture popolari africane viene invertito dal progetto politico del PAIGC, nella misura in cui le culture popolari sono poste al centro del progetto culturale di liberazione nazionale. L’effetto della cultura nel suo compito rivoluzionario poteva avvenire solamente, secondo Cabral, con il “compromesso reale [della piccola
Il nostro contadino non sa leggere e quasi non ha rapporti con le forze coloniali, eccetto che per il pagamento delle tasse, che oltretutto non paga direttamente; la classe operaria non esiste come classe ben definita, si tratta appena di un embrione in via di sviluppo; infine, non c’è tra di noi una borghesia economicamente valida, perché l’imperialismo non ha permesso che si formasse. Tuttavia, si formò a servizio del proprio colonialismo uno strato sociale che è oggi l’unico capace di dirigere e utilizzare gli strumenti dello stato coloniale contro il nostro popolo: la piccola borghesia africana.
Cabral, tuttavia, pone l’accento sulla necessità dell’operazione del suicidio di classe della piccola borghesia ossia di un suo “reincarnarsi nella condizione degli operai o dei contadini” e formare
Come ha notato chiaramente Florestan Fernandes, “le fonti tribali e contadine furono le vere forze che hanno affrontato, abbattuto e cacciato via dell’Africa l’invasore bianco” (F. Fernandes, in Aa.Vv., Diário da Libertação. A Guiné-Bissau da Nova África, cit., p. ). Davidson, L’attualità di un pensiero rivoluzionario, cit., p. . Cabral, A estrutura social, cit., p. .
Cabral, Guerriglia: il potere delle armi, cit., p. . Davidson, L’attualità di un pensiero rivoluzionario, cit., p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. . Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., p. .
borghesia] con la lotta d’indipendenza, ma anche con l’identificazione totale e definitiva con le aspirazioni delle masse popolari”. L’azione culturale tra questa classe culturalmente privilegiata e le masse popolari doveva essere, secondo Cabral, necessariamente reciproca e il contatto tra di loro, determinato dalla lotta di liberazione, era innegabilmente un arricchimento culturale. Per la classe culturalmente privilegiata, il contatto con la realtà umana ed economica delle masse popolari rende possibile “acquisire la coscienza della realtà del Paese” diversamente dalla mentalità colonialista, ricuperare la propria identità, liberarsi dei suoi pregiudizi di classe e riconoscere quanto può imparare “attraverso l’esperienza delle popolazioni ancora ieri dimenticate, disprezzate, considerate incapaci”. Dall’altro lato, sottolinea Cabral, le masse popolari (salariati, contadini, operai) devono trasformarsi e capire il loro ruolo fondamentale nella lotta di liberazione nazionale, perdere i complessi che limitano i loro rapporti a ristretti gruppi etnici o di classe e acquisire nuove conoscenze e la coscienza politica nazionale. Il progetto culturale del PAIGC difendeva, dunque, il carattere popolare che la cultura della liberazione doveva assumere, cioè quello di rinnegare qualsiasi tipo di subalternità culturale e difendere il diritto e la necessità che ogni persona abbia ad una partecipazione attiva alla cultura. La nostra cultura deve essere popolare, ossia una cultura delle masse; tutti devono avere diritto alla cultura. In più devono essere rispettati i valori culturali del nostro popolo che meritano di essere rispettati. La nostra cultura non può essere per un’élite, per un gruppo di persone che sa molto e che conosce le cose. No. Tutti i figli della nostra terra, in Guinea-Bissau e a Capo Verde, devono avere il diritto di avanzare culturalmente, di partecipare ai nostri atti culturali, di manifestare e di creare cultura.
Ivi, p. . Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. . Ivi, p. . Cabral, Análise de alguns tipos de resistência, cit., p. .
. Lotta di liberazione: fatto e fattore di cultura Quando Cabral parla del ruolo della cultura nel movimento di liberazione, si rifiuta di vedere nella cultura ciò che determina la “specificità o non specificità” di una società. Le realtà culturali della Guinea e di Capo Verde non vengono considerate da Cabral dal punto di vista delle differenze, né in base alla loro necessaria divisione politica, ma ponendo l’accento invece sul loro carattere “strutturale”, nel senso che ogni particolare cultura viene considerata come un “prodotto di molte culture dell’Africa”, senza perdere questa visione dell’insieme. L’epoca del tribalismo in Africa è già superata, secondo Cabral. Unità e lotta, era il principio che orientava il PAIGC per quanto riguardava la realtà culturale di questi territori: “Noi, balantas, pepéis, mandingas, filhos de capoverdiani, etc, possiamo stare uniti, avanzare insieme”. Infatti, possiamo cogliere il significato del suo discorso sulla cultura solo prendendo in considerazione il contesto africano della decolonizzazione e i mutamenti delle condizioni sociali che la lotta di liberazione nazionale comportava. Cabral insiste sulla necessità dell’unità culturale della nazione, così come sul carattere attivo della cultura della lotta di liberazione nazionale. La cultura viene considerata da un punto di vista politico e vista come uno strumento di rinnovamento della vita sociale e individuale, nella misura in cui permette la “comprensione e l’integrazione dell’individuo nel suo ambiente, l’identificazione con i problemi fondamentali e le aspirazioni della Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. . A. Cabral, Alguns Princípios do Partido, Lisboa, Seara Nova, , p. . Ivi., p. . Il lavoro politico del PAIGC per quanto riguarda la realizzazione dell’unità culturale è stato riconosciuto come una esperienza riuscita – a parte per quanto riguarda l’etnia dei Fulas, che era maggiormente legata al potere coloniale portoghese – se viene paragonata alle altre colonie portoghesi, in particolare all’Angola e al Mozambico, dove gli scontri emersi tra etnie hanno pesato dopo l’indipendenza. In questi studi non si contesta la solida base politica dell’indipendenza della Guinea e di Capo Verde. Il problema dello sviluppo postcoloniale fino agli anni Ottanta (quando ci fu il colpo di Stato in Guinea), si collegava più che altro ad ostacoli di carattere economico, piuttosto che alle guerre civili tra differenti etnie. Cfr. P. Chabal, A history of Postconial Lusophone Africa, London, Hurst & Company, ).
società, la possibilità di modificarsi secondo il progresso”. La cultura viene vista come un fattore indispensabile per il movimento di liberazione nazionale in quanto la sua funzione consisteva soprattutto nel promuovere, attraverso l’educazione e la mobilitazione per la lotta, la partecipazione del popolo alla cultura politica, con lo scopo di rendere il popolo protagonista del miglioramento delle sue condizioni di vita, rovesciando così l’ordine imposto dai colonizzatori di non poter essere parte attiva del proprio destino. Possiamo renderci conto, a questo punto, di quanto fosse lucida la risposta rivoluzionaria di Cabral, sia sul piano pratico che teorico, alla matrice ideologica dell’interpretazione del fenomeno coloniale portoghese del secondo dopoguerra: la tesi secondo cui gli africani non fossero ancora maturi politicamente per reggersi da soli, a causa della loro incapacità politica-culturale.
del PAIGC, tradotto nell’esigenza di concretizzare un processo di radicale trasformazione culturale “sempre ostinato verso una liberazione delle menti, sia morale che intellettuale, nella misura in cui era essenzialmente politica, ancora di più che verso una liberazione fisica dall’oppressione coloniale”. La trasformazione culturale faceva parte di un piano di azione politica che puntava ad “incorporare dimensioni di autonomia e di affermazione completamente nuove”, fatte da uomini e donne trasformati dalla lotta, che avevano pertanto superato la propria condizione di colonizzati. L’opera culturale della lotta di liberazione nazionale era, come sottolinea Mário de Andrade, quella di fomentare la creazione di attori sociali che superassero la loro condizione di assoggettamento culturale, ovvero “l’uomo oggetto” doveva diventare “l’uomo soggetto storico”. Cabral credeva nell’influenza che la cultura può esercitare nel cambiamento della storia. I moti culturali del movimento della négritude vengono interpretati da lui come un embrione che ha permesso lo sviluppo successivo delle lotte di liberazione nazionale. Secondo Cabral, questa cultura di rivolta contro i sistemi di oppressione coloniale è stata il fondamento delle lotte di liberazione, attraverso il suo proposito di affermazione dell’identità culturale del popolo dominato.
Uno degli errori più gravi, se non il più grave, commesso dalle potenze coloniali in Africa è stato di ignorare o sottovalutare la forza culturale dei nostri popoli africani. Questo atteggiamento è particolarmente evidente per quanto riguarda il dominio culturale portoghese che, non soddisfatto di negare assolutamente l’esistenza dei valori culturali africani e la sua condizione di essere sociale, ancora si ostinò a vietare qualsiasi tipo di attività politica.
Allora, a questo punto, dobbiamo partire dalla domanda essenziale che si pone Davidson, quando s’interroga sulla determinante culturale del pensiero e dell’azione di Cabral per rispondere agli effetti devastanti della pratica e della cultura della dominazione portoghese: “Come invertire la tendenza alla disperazione? Come ridare a queste comunità la convinzione di potere essere padrone del proprio destino?”. Per contrastare la tesi che giustifica la necessità della tutela coloniale e il perpetuarsi della condizione di minorità storica degli africani, il pensiero anticoloniale di Cabral pone l’accento sull’importanza della resistenza culturale come arma. L’avvio di una nuova cultura era la priorità del progetto politico
Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. . Ivi, p. . Davidson, L’attualità di un pensiero rivoluzionario, cit., p. .
Qualunque siano le condizioni di soggezione di un popolo al dominio straniero e all’influenza dei fattori economici, politici e sociali nella pratica di questo dominio, in generale, è nel fattore culturale che si
Ivi, p. . Ivi, p. . de Andrade, Cultura e emancipazione nazionale, cit., p. . Cabral sottolinea tuttavia la necessità di fare attenzione al fatto che si trattasse di un “fenomeno reale, ma ristretto”, ovvero che aveva a che fare con un “determinato livello delle élites o delle diaspore coloniali”. Le richieste portate da una elite assimilata africana, dice Cabral, non potevano essere in sé stesse “un atto di lotta contro il dominio straniero”. Allo stesso modo, l’aspirazione di “ritorno alle tradizioni” non riguardava direttamente le masse popolari appunto perché, a suo avviso, esse conservavano di più i valori culturali endogeni (Cabral, O papel da cultura na luta pela independência, cit., pp. e ).
trova il germe della contestazione, portando alla strutturazione e allo sviluppo del movimento di liberazione.
La decisione del popolo colonizzato di combattere la negazione del proprio processo storico e di “riprendere le rotte ascendenti della propria cultura”, ovvero quella che nasce dalla propria realtà storica, per “concedere [alla società dominata] tutta la sua capacità di creare il progresso” è, incontestabilmente, per Cabral un fatto di cultura. La lotta di liberazione è, perciò, una prova del valore della cultura, della resistenza culturale africana, così come del potere di trasformazione che essa comporta: “Se il dominio imperialista ha come necessità vitale la pratica dell’oppressione culturale, la liberazione nazionale è necessariamente un fatto di cultura”. Possiamo capire, quindi, perché il fattore culturale appare nella sua teoria come una premessa indispensabile all’atto politico della lotta. Questo non vuol dire, tuttavia, che per Cabral l’indipendenza culturale sia presupposto dell’autonomia politica ed economica. Anzi, nella sua teoria, questa formula sostenuta da alcuni intellettuali che studiavano i movimenti di liberazione nazionale in Africa del secondo dopoguerra viene contrapposta all’affermazione che solo con lo sconvolgimento delle strutture economiche e politiche ereditate del colonialismo sarebbe stato possibile l’avvio di una cultura libera e “ascendente”. Per questo motivo Cabral utilizza la formula teorica che la lotta di liberazione nazionale, oltre ad essere un fatto culturale, è anche un fattore di cultura. La lotta di liberazione nazionale appare perciò contemporaneamente nella sua teoria come un atto di fecondazione della storia. Tutti i cambiamenti profondi nella vita della popolazione colonizzata che nascono dalla partecipazione alla lotta rivelano per Cabral il carattere determinante di una nuova cultura: Se combiniamo questi fattori inerenti alla lotta armata di liberazione con la pratica della democrazia, della critica e dell’autocritica, con la responsabilità crescente delle popolazioni nella gestione delle loro vite, con l’alfabetizzazione, la creazione di scuole e di assistenza sanitaria,
la formazione di quadri originari della campagna e degli operai – così come con altre realizzazioni – vedremo che la lotta di liberazione non è solo un fatto culturale, ma anche un fattore di cultura.
La creazione dell’autentica cultura nazionale poteva avvenire, secondo Cabral, solo ponendosi come una cultura antiautoritaria e rivoluzionaria. Con questo proposito identifica cinque obiettivi della resistenza culturale: – lo sviluppo di una cultura popolare e di tutti i valori culturali positivi autoctoni; – lo sviluppo di una cultura nazionale basata sulla storia e sulle conquiste della propria lotta; – l’elevazione costante della coscienza politica e morale del popolo [...]; – lo sviluppo di una cultura scientifica, tecnica, tecnologica, compatibile con le esigenze del progresso; – lo sviluppo basato sull’assimilazione critica [...] di una cultura universale indirizzata alla progressiva integrazione nel mondo reale e nelle prospettive della sua evoluzione; – l’elevazione costante e generalizzata dei sentimenti di umanesimo, solidarietà, rispetto e dedizione disinteressata alla persona umana.
Se vogliamo verificare questo progetto politico-culturale possiamo confrontarlo con il libro di Paulo Freire, Cartas a GuinéBissau, dove troviamo una visione dinamica delle attività e degli aspetti sviluppati nella Guinea liberata per quanto riguarda la creazione di una “nuova pratica educativa”, opposta ai valori di dominazione del sistema coloniale portoghese. Con l’intento di descrivere l’esperienza della decolonizzazione in Guinea, Paulo Freire sostiene che piuttosto che di “sforzi di costruzione” sarebbe meglio parlare di “sforzi di ricostruzione”: “Perché la Guinea non parte da zero, ma dalle sue fonti culturali e storiche, da qualcosa di suo, dall’anima del suo popolo, che la violenza coloniale non ha
Cabral, A Cultura Nacional, cit., p. . Ibid.
Ivi, p. . Ivi, pp. -. Freire, Cartas a Guiné-Bissau. Registros de uma experiência em processo, cit., p. .
potuto distruggere. Da zero parte riguardo alle condizione materiali lasciate dall’invasore”. La trasformazione culturale operata dal PAIGC, secondo il pedagogo brasiliano, è stata fatta, tanto a livello strutturale (costruzione di scuole e formazione di professori), quanto a livello ideologico (combattendo l’alienazione dell’ideologia coloniale con la riformulazione dei programmi di storia, geografia, lingua portoghese, la sostituzione dei testi di lettura, la pratica di un insegnamento popolare, ecc ). Per dare un’idea di questa trasformazione, l’autore mette a confronto il “sistema di educazione in quanto eredità coloniale” e il “sistema di educazione in quanto prodotto della lotta di liberazione”. Il fattore di cultura della lotta di liberazione nazionale di cui parla Cabral, “um educador educando do seu povo” (come lo chiama Paulo Freire), con il suo proposito di formare un uomo nuovo e una donna nuova, ricevono la conferma dello stesso nel corso della sua visita nella Guinea liberata, dove rimane colpito dagli sforzi di ricostruzione di un popolo per la maggior parte “analfabeta linguisticamente”, ma “sofisticatamente letterato” dal punto di vista politico.
Anche Davidson ha voluto mettere in evidenza l’impatto decisivo di questa nuova cultura derivata dalla resistenza alla dominazione coloniale portoghese. Lo storico inglese sottolinea come l’espressione di questa cultura si trovava negli uomini e donne che partecipavano alla lotta con consapevolezza della necessità del processo di liberazione nazionale. Inoltre, a suo avviso, l’adesione sempre crescente della popolazione alla lotta dimostra che la trasformazione culturale agiva sul principio basilare e antitetico rispetto alla politica coloniale: “Lascia che il popolo faccia da sé”. Quello che lo storico intende dimostrare è che l’avvio di questa nuova cultura era connesso allo “scopo centrale della creazione di zone liberate e della loro autonoma organizzazione democratica”. È proprio nella messa in atto, parallelamente alla lotta, del progetto politicoculturale del PAIGC di avviare l’autorganizzazione nelle zone liberate che risiede, secondo Davidson, l’importanza storica del movimento di liberazione nazionale guidato da Cabral: “Il loro determinare una nuova cultura non era un’affermazione teorica né un’astrazione teorica, ma era il risultato di una particolare pratica ed esperienza”. La riposta della guerra di liberazione nazionale in Guinea e a Capo Verde è stata proprio quella di andare oltre la violenza per sviluppare una lotta fondamentalmente politica “operante al fine di ottenere vantaggi sociali”. “Costruire la rivoluzione mentre si combatte” è la concretizzazione di conquiste sociali, così come l’autorganizzazione dal basso, che rivela, sostiene Davidson, tanto il carattere rivoluzionario che ha assunto il processo di liberazione nazionale in questi territori, quanto la solida strada che l’opera politica di Cabral voleva aprire verso un “vero sviluppo”.
Da quanto ho imparato dell’esperienza in Guinea, mi sembra che uno degli aspetti basilari del sistema di educazione costituitosi in questo paese è il richiamo indirizzato agli studenti, accanto all’indispensabile formazione scientifica e alla concomitante responsabilità sociale, al gusto per il lavoro libero come fonte di conoscenza nella produzione del socialmente necessario, il cameratismo autentico e non la competizione che l’individualismo genera. Ed è proponendosi questo compito che il Commissariato dell’Educazione contribuisce alla formazione di un uomo e di una donna nuovi.
Ivi, p. . “Nel corso di dieci anni, dal al , si formò il seguente quadro del PAIGC: con titolo di studio superiore, con titolo tecnico medio, con titoli professionalizzanti e di specializzazione e quadri politici e sindacali. In compenso, dal al , si formarono solo guineani con titolo di studio superiore e undici a livello di insegnamento tecnico” (L. Teotónio, in Aa.Vv., Guiné Bissau – anos de independência, citata in Freire, Cartas a Guiné-Bissau. Registros de uma experiência em processo, cit., p. ). Freire, Cartas a Guiné-Bissau. Registros de uma experiência em processo, cit., p. .
Davidson, L’attualità di un pensiero rivoluzionario, cit., p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. .
Sotto questo profilo il punto essenziale è che la rivolta fu collegata sin dall’inizio alla costruzione graduale di nuove strutture socioeconomiche. Senza questa aperta accettazione dell’impegno a “costruire la rivoluzione mentre si combatte” non ci sarebbe stata alcuna possibilità – eccettuate quelle, limitatissime, dell’azione militare – di trasformare un movimento di pionieri (il quale di per sé ha necessariamente un carattere elitario) in un movimento delle masse; e neppure quindi di garantire alla rivolta la rappresentatività di qualcosa di più grande e prezioso che una mera sostituzione di governanti africani a quelli portoghesi.
CONCLUSIONE
Nell’attuale situazione dell’Africa e del mondo, chi gioca con le parole gioca con le vite umane. Aminata Traoré, L’immaginario violato As Cabral would often say: tell no lies, claim no easy victories. Sylvia Hill, Cabral Legacies: meeting the challenges of the st century
È possibile parlare di uno sconvolgimento delle realtà condizionate dalla dipendenza coloniale anche dopo il conseguimento dell’indipendenza politica? Il disegno della teoria di Cabral sul futuro emancipato dal potere coloniale peccava di eccessiva illusorietà? Insomma, perché studiare Cabral oggi? Come mantenere il suo insegnamento vivo e soprattutto come riproporlo alle nuove generazioni? A questi interrogativi rispondono in due modi in parte diversi João Monteiro e Aminata Traoré. A parere di Monteiro “l’importanza futura del pensiero di Cabral dipenderà in larga misura da quanto egli risulti ‘depoliticizzato’”, ovvero non più “guardato unicamente come un uomo politico o un militare”, ma piuttosto come “teorico sociale, figura letteraria e icona culturale”. L’opinione di Monteiro non vuole privare la figura di Cabral della sua dimensione politica o negare lo stretto rapporto tra gli aspetti politici e culturali del suo pensiero e della sua vita, ma piuttosto criticare il modo in cui la sua figura venne strumentalizzata dopo la sua morte, “come se essa fosse dominio esclusivo di un partito politico, invece che essere eredità culturale di tutto il paese”.
Davidson, La liberazione della Guinea. Aspetti di una rivoluzione africana, cit., p. .
J.M. Monteiro, Heroes, Ghosts and Politicians: Amílcar Cabral and The Democratic Transition in Cape Verde, in J. Fabanjong, T. Ranuga (eds.), The Life, Thought and Legacy of Cape Verde’s Freedom Fighter (Amilcar Cabral -). Essays on his Liberation Philosophy, Lewiston, Queenston, Lampeter, The Edwin Mellen Press, , p. . Ivi, p. .
Risultato immediato dell’utilizzo ‘opportunista’ della memoria di Cabral a Capo Verde è stato, secondo Monteiro, quello di privare la sua teoria della dimensione più valida ed emancipatoria, quella legata all’incoraggiamento della popolazione ad una partecipazione attiva, creativa e alternativa ai problemi del Paese, innanzitutto a quelli legati alla pesante eredità coloniale. Eppure, secondo Monteiro, a Capo Verde è tangibile l’effetto paralizzante che ha tuttora sulla popolazione il consenso imposto dall’alto alla politica neoliberale e all’apertura alle regole del mercato mondiale, con danni sociali devastanti. Dunque, nonostante il pensiero di Cabral continui ad essere un riferimento indispensabile nel progetto post-indipendenza di costruzione e sviluppo di Capo Verde, ‘depoliticizzare’ Cabral diventa l’atto necessario ai fini di una possibile rinascita del suo pensiero in seno alla coscienza collettiva del Paese, nonché di una maggiore conoscenza e diffusione della sua cultura tra i giovani capoverdiani. Se andiamo invece ad indagare in una prospettiva più ampia l’attuale situazione africana, salta agli occhi una tematica molto simile, legata al tema del discredito politico, della depoliticizzazione e ai suoi stretti rapporti con l’adozione di politiche economiche sganciate dalla realtà del continente e dagli interessi dei suoi popoli. Secondo Traoré, la perdita di interesse verso la politica è una delle principali minacce per l’Africa contemporanea, ancora bisognosa di fare i conti con le sue “ferite simboliche” – tanto del passato quanto del presente: “il discredito politico crea a medio e a lungo termine situazioni esplosive da cui la comunità dei creditori trae profitto per dare rinnovata legittimità alle politiche neoliberiste”. È proprio l’effetto di un immaginario a lungo violato che impedisce, a suo avviso, di vedere in modo chiaro i giochi di potere dell’attuale processo di globalizzazione, innanzitutto l’ordine gerarchico che lo caratterizza, ordine in cui l’Africa occupa una posizione estremamente svantaggiata. All’interno di questo quadro generale di fragilità economica, terreno particolarmente fertile per la riproduzione di menzogne (la più grossa: “che la povertà
sarebbe la principale caratteristica dell’Africa”), si ripropongono anche “diagnosi incomplete” e “rimedi inadatti”. Questo perché il “monopolio dell’enunciazione dei mali dell’Africa”, detenuto dal discorso egemone, raccomanda come unico rimedio il passaggio “attraverso la globalizzazione neoliberista”. Gli stati africani e la loro classe politica più corrotta “rivendicano e si riappropriano di questa grande bugia” e ciò fa sì che “la lotta alla povertà diventi una regressione mentale e politica”, non certo vantaggiosa per quelli che ne hanno veramente bisogno, ossia i popoli africani. Da questi due discorsi emerge chiaramente un denominatore comune, che indica lo squilibrio nei rapporti di forza dell’attuale processo di globalizzazione. Quest’ultimo è la causa di fondo dei problemi di natura economica, politica e culturale, che poi si moltiplicano in tutta l’Africa e si differenziano nei singoli paesi (inclusi i soggetti privilegiati dalla teoria di Cabral). Eppure, come dimostra lo studio di Yolamu R. Barongo (e come dimostra lo stesso pensiero di Cabral sulla necessità di prolungare la lotta di liberazione contro il neocolonialismo), già negli anni Cinquanta il termine neocolonialismo era presente nelle discussioni dei leader politici, aveva riconoscimento pubblico nelle conferenze internazionali, nei forum collettivi, ed era anche impiegato comunemente per identificare un problema reale della post-indipendenza.
A. Traoré, L’immaginario violato, Milano, Ponte alle Grazie, , p. .
Ivi, p. . Ivi, p. . Ivi, p. . Questa è la causa di fondo per cui nel circuito delle notizie dei media internazionali la Guinea Bissau viene descritta come l’incrocio privilegiato del traffico di cocaina dal Sud America verso l’Europa. Anche se non è un Paese produttore, e tanto meno consumatore di cocaina, i flussi di questa droga che transitano nel Paese superano il prodotto interno lordo nazionale. Ciò viene sostenuto nell’articolo Le rotte della cocaina fanno scalo a Bissau che, nonostante riconosca il peso del traffico di stupefacenti nel Paese, non lo valuta come la sua maggior minaccia. Questa sarebbe invece la fragilità economica e la corruzione della vita politica, entrambi riflessi del modo in cui il processo di globalizzazione colpisce il Paese. La Guinea Bissau è soprattutto una “vittima dei cambiamenti nella domanda e nell’offerta globale di stupefacenti” (cfr. J. Traub, Le rotte della cocaina fanno scalo a Bissau, “Internazionale”, , aprile , p. ). Come ci spiega Barongo, “mentre i rapporti postcoloniali sono tipicamente neocoloniali”, il neocolonialismo non è un fenomeno limitato alla post-indipendenza,
Barongo richiama l’attenzione sull’impatto del neocolonialismo (tanto negli aspetti positivi quanto in quelli negativi) nella vita politica africana. Nel periodo delle lotte di liberazione la coscienza dei meccanismi neocoloniali operanti nei rapporti di potere diseguali nelle relazioni internazionali – di dominazione e riproduzione della dipendenza tra paesi poveri e paesi ricchi –, così come della necessità di produzione di modelli economico-culturali alternativi a questo sistema, costituiva una parte significativa dell’orizzonte della vita politica africana. La causa di fondo dell’interruzione di questa prospettiva critica e di aspirazione rivoluzionaria volta alla trasformazione delle relazioni di dipendenza e dell’affermarsi invece di un processo di generale ‘depoliticizzazione’ che ha fatto sì che la post-indipendenza
diventasse un sinonimo di neocolonialismo, non è affatto l’incapacità dell’Africa di governarsi. In primo luogo bisogna tenere bene a mente i rapporti di forza storici che hanno condizionato l’Africa e gli effetti della ristrutturazione economica ossia il cosiddetto “triumvirato: privatizzazione, deregolamentazione, liberalizzazione” e dell’avvio dell’“era globale” all’inizio degli anni Ottanta. All’interno di questa fase si produce l’indebitamento dei paesi africani, i prestiti finanziari decisi dai FMI e dalla Banca Mondiale con i conseguenti piani di adeguamento strutturale e i loro criteri di apertura delle economie locali al mercato mondiale. Insomma, parlare di post-indipendenza implica necessariamente prendere in considerazione l’inserimento di questi stati nel sistema capitalistico globale, l’egemonia del capitale finanziario mondiale sulle singole economie nazionali, il sistema di concentrazione della ricchezza e il drenaggio di risorse dai paesi “impoveriti” a quelli “arricchiti” e tutto ciò che ne deriva, innanzitutto il palese “aumento delle disuguaglianze sia a livello nazionale che intra-statale”. Per non ricadere nel rischio di sottovalutare le risposte e le esperienze alternative a questo sistema (riproducendo così quello che Cabral identificava come epicentro delle ideologie imperialiste, ovvero l’incapacità politico-culturale dei popoli africani di possedere la propria storia, è importante ritornare sulla cesura coloniale di cui il pensiero di Cabral è espressione; esso fa parte infatti della memoria dell’Africa, ci offre insegnamenti che si rivelano necessari e di grande attualità e dimostrano la forza di trasformazione di quello che Cabral riteneva essere il fatto e il fattore di cultura di maggior importanza del secondo dopoguerra. È questa cultura e la sua dimensione innovatrice che riteniamo fondamentale mantenere viva e presente nel nostro pensiero contemporaneo. Sono interessanti a questo proposito i riferimenti individuati nello studio di François Houtart e Geneviève Lemercinier sull’im-
ma piuttosto “una sindrome dei rapporti multilaterali esistenti tra stati neocoloniali e diverse potenze neocoloniali”. Inoltre, è da rilevare che: “i rapporti neocoloniali sono rapporti postcoloniali, ma di qualità peggiore e più pericolosa, a causa di questa natura multilaterale” e a causa dei metodi indiretti di dominazione di carattere diversificato, economico, politico, culturale (Y.R. Barongo, Neocolonialism and African Politics. A survey of the impact of Neocolonialism on African Political Behavior, New York, Vintage Press, , p. ). A proposito dell’aspetto psicologico del mito coloniale della superiorità della razza bianca nelle sue forme neocoloniali si può consultare T. Gladwin, Slaves of The White Myth. The psichology of neocolonialism, Atlantic Highlands, Vintage Press, . Barongo si riferisce ai casi in cui il neocolonialismo viene utilizzato dai partiti politici africani come alibi per trasferire su cause interamente esterne la responsabilità dei problemi domestici e in questo modo legittimare le proprie scelte politiche. La centralizzazione del potere in un solo partito politico è uno degli aspetti tipici e più deleteri di questa fase neocoloniale. Wallerstein ci spiega la causa del processo di ‘depoliticizzazione’ e sparizione dell’atmosfera della coscienza rivoluzionaria collettiva nei paesi post-rivoluzionari africani: “La disillusione è generale in questi paesi, fuori da essi e in ciò che gli concerne. Se ci domandiamo perché ogni stato sembra conoscere una o l’altra di queste forme di ‘depoliticizzazione’ della classe operaia, ci accorgiamo che il principale motivo di risentimento è che le trasformazioni sociali promesse non sono state realizzate, o non così completamente come ci aspettavamo. I vecchi mali della ripartizione diseguale dei redditi, la corruzione e l’arbitrio predominano a livelli inaccettabili negli stati post-rivoluzionari. Senza dubbio, come ripetono continuamente i partiti quando riconoscono questi risentimenti, la ragione è dovuta al primo denominatore comune: l’inserimento di questi stati in un sistema mondiale di cui non hanno il controllo e di cui subiscono le influenze negative” (I. Wallerstein, L’intégration du mouvement de libération nationale dans le cadre de la libération internationale, in Aa.Vv., Pour Cabral: Symposium International Amílcar Cabral, Praia, Cap-Vert, - janvier , Paris, Présence Africaine, , p. ).
R. Kiely, Empire in the age of globalisation. US Hegemony and neoliberal disorder, London, Pluto Press, , p. . Cfr. F. Chesnais (dir.), La finance mondialisée: racines sociales et politiques, configuration, conséquences, Paris, La Découverte, . Kiely, Empire in the age of globalisation, cit., p. .
portanza della cultura nella teoria di Cabral. A loro parere l’interpretazione di Cabral quale pensatore dialettico per eccellenza e le riflessioni che ne derivano confermano l’ampio respiro del suo pensiero. La centralità che i fatti culturali occupano nella teoria di Cabral come “realtà fondamentale” lo distanziano da “qualsiasi concezione meccanicista” e fanno emergere nel suo pensiero la “posizione centrale degli attori sociali nella costruzione della realtà economica, sociale e politica”. Sono gli attori sociali, quindi, attraverso la loro pratica in rapporto alla natura e alle relazioni sociali che producono la cultura. A sua volta la cultura, come insieme di rappresentazioni, valori, norme collettive, funziona come un “sistema di modelli di pratiche” o “schemi organizzatori delle azioni sociali”, “un patrimonio specifico di modi di fare, indispensabili alla riproduzione dei rapporti sociali”. Perciò, la cultura “ha un ruolo chiave nel processo di transizione, dalla fase rivoluzionaria a quella di costruzione di nuove relazioni sociali”. Come sottolineano questi due autori, Cabral era consapevole del fatto che una trasformazione totale non può limitarsi alla dimensione economica, perché “non si tratta solo di cambiare le basi materiali per riuscire a cambiare anche i rapporti sociali, come se tutto ne conseguisse automaticamente”. Pensare il tema della costruzione di una società nuova è avere chiaro che la transizione, ovvero il “passaggio di tutto l’insieme sociale da un polo all’altro” non sarà mai un modello pronto, finito, da applicare a priori, ma piuttosto un processo ibrido e multiforme caratterizzato da “un pensiero che definisce i suoi obiettivi e si sviluppa e si adatta in relazione ad esperienze concrete”. Nemmeno la teoria della liberazione di Cabral può essere guardata come un modello finito. Dobbiamo invece ricercare i principi fondamentali che la orientano e che ci rivelano percorsi (continuamente da raggiustare e da rimodellare) tali da alimentare e realizzare un autentico mutamento sociale. Questo proprio perché ciò che emerge dal pensiero dia-
lettico di Cabral è la concezione della cultura come un processo vivo, dinamico, in costante rinnovamento. Anche secondo l’antropologo Deirdre Meintel è proprio la ricchezza di questo “aspetto procedurale” del pensiero di Cabral che dobbiamo cogliere. È questa qualità che fa la sua concezione dell’universalismo “un processo continuo piuttosto che un punto prefissato”, perché lo vede fondamentalmente come un risultato cumulativo delle conquiste di tutta l’umanità. Allo stesso modo, la cultura nazionale appare nella sua teoria come “un processo che va costruito continuamente a partire dalle diverse culture che la compongono, anziché come un modello finito e imposto dallo Stato”. Perfino la sua concezione degli individui respinge qualsiasi tipo di determinismo, perché essi “non sono visti come semplici creature della loro classe o origine, ma piuttosto come esseri capaci di reagire e di agire sulle loro forze che modellano le strutture di classe e le mentalità”. L’uomo è perciò innanzitutto un “soggetto culturale”, “prodotto e produttore di cultura”, capace di capire e agire sulle contraddizioni del suo tempo. Proprio per questo motivo il potere culturale, in quanto strumento di partecipazione attiva nella cittadinanza, è un aspetto fondamentale della sua teoria. Come ha sottolineato Mario de Andrade, Cabral rigetta ogni tipo di dominazione e alienazione e afferma che la cultura è lo strumento politico fondamentale attraverso cui tutti possono partecipare attivamente alla vita sociale. Andrade lo definisce pedagogo politico-culturale proprio in
F. Houtart, G. Lemercinier, La culture dans une perspective marxiste. Réflexions au départ de la pensée d’Amilcar Cabral, in Aa.Vv., Pour Cabral: Symposium International Amílcar Cabral, cit., p. . Ivi, pp. -.
D. Meintel, Culture and process in the thoughts of Amilcar Cabral, in Fabanjong, Ranuga (eds.), The Life, Thought and Legacy of Cape Verde’s Freedom Fighter, cit., p. . Ivi, p. . Ivi, p. . M. de Andrade, La dimension culturelle dans la stratégie de la libération nationale, in Aa.Vv., Pour Cabral: Symposium International Amílcar Cabral, cit., pp. -. Bisogna ricordare la concezione di Cabral della lotta di liberazione come un processo anche interno, quindi volto a respingere tutte le forze di dominazione che limitavano il libero esercizio delle capacità sia degli uomini sia delle donne. A questo proposito è interessante consultare gli studi che hanno posto particolare attenzione sulla questione del genere. Horace Campbell evidenzia l’aspetto della partecipazione attiva delle donne alla lotta di liberazione e il rifiuto di Cabral di una “liberazione centrata nel genere maschile e nella violenza militare” (H. Campbell, Re-visiting the
virtù del processo, che Cabral ha avviato, di “apprendistato della libertà” e di “apprendistato delle scelte”. La cultura è pertanto uno strumento di “gestione del potere” volto a favorire il diritto e il dovere di riflettere, criticare e ricercare i mezzi necessari alla maîtrise dei processi che conducono alla materializzazione delle scelte sociali. Questa riflessione viene incontro a quello che consiglia Traoré per l’Africa. Oltre alla “riabilitazione dell’immaginario violato”, “più verità, più etica”, “capire e reagire” sono i rimedi adatti a ciò che viene identificato come “processo di spersonalizzazione, presente a livello individuale e statale”. Questo implica azioni che favoriscano l’esercizio della “capacità di analisi” dei problemi reali delle popolazioni e quindi anche della “capacità di controllo” delle decisioni prese dai loro dirigenti politici. Insomma, “riannodare i fili della speranza e dell’utopia che animavano l’Africa negli anni ’” e ricercare una “nuova coscienza storica e politica” basata sulla sfida per trovare un modello di sviluppo sostenibile per l’Africa direttamente attraverso i suoi stessi popoli. Come ha sottolineato Sylvia Hill, l’assoluta fiducia che Cabral aveva nella possibilità di sconfiggere il colonialismo affinché l’Africa potesse seguire la sua propria particolare via allo sviluppo procedeva di pari passo con la sfida per “mettere in moto una comprensione popolare del colonialismo” e con la “ricerca continua
di ideali e di esperienze che rendessero possibile la liberazione”. Nell’attuale contesto della globalizzazione queste sfide si ripropongono continuamente e le riflessioni, gli interrogativi e le prospettive annunciate da Cabral sono indispensabili per rintracciare quelle vie autentiche di emancipazione e di liberazione. È questo punto di vista (quello della ‘contraddizione’, non dell’‘armonia’), l’unico a potersi rivelare come strumento efficace al ribaltamento dei rapporti sociali di dipendenza, e quindi a mettere in atto meccanismi di reale trasformazione sociale.
Theories and Pratices of Amilcar Cabral in the Context of the exhaustion of the Patriarchal model of African Liberation, in Fabanjong, Ranuga (eds.), The Life, Thought and Legacy of Cape Verde’s Freedom Fighter, cit., p. ). La lotta di liberazione era invece per Cabral essenzialmente politica e conteneva una posizione chiara anche per quanto riguarda l’emancipazione delle donne dal potere maschile e la loro partecipazione al potere politico. “Rispettare e insegnare il rispetto per le donne” era un altro aspetto della pedagogia politico-culturale di Cabral, così come quello di convincere le donne che la “lotta di liberazione era anche la loro lotta”, perché aveva anche come principio agire sullo squilibrio storico delle relazioni di genere (C. Gomes, The women of Guinea Bissau and Cape Verde in the Struggle for National Independence, in Fabanjong, Ranuga (eds.), The Life, Thought and Legacy of Cape Verde’s Freedom Fighter, cit., p. ). Traoré, L’immaginario violato, cit., p. . Ivi, cit., p. . S. Hill, L’unification des luttes: l’action de solidarieté dans la communauté afroaméricaine, in Aa.Vv., Pour Cabral: Symposium International Amílcar Cabral, cit., p. .
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INDICE DEI NOMI
Cabral, Luiz, Caetano, Marcelo (Marcelo José das Neves Alves Caetano), , e n, , n, n, n Cahen, Michel, n Camões, Luis Vaz de, Campani, Giovanna, n, n Campbell, Horace, n Carneiro, Maria Luiza Tucci, n Cayolla, Lourenço, e n Chabal, Patrick, Chailand, Gerard, n, n Chauí, Marilena, e n, n Chilcote, Ronald H., n Comte, Auguste, Cordeiro, Luciano, n Costa, Eduardo, , n, n Costa, Sergio, n Costantini, Dino, e n, e n, n, n Cotroneo, Rocco, n
Albertini, Rudolf Von, e n, n, e n, n Alegre, Manuel, e n Alencastro, Luiz Felipe de, n Almeida, João de, e n, n Andrade, Mário de, e n, , e n, n, n, e n, n, e n, e n, e n Aristotele, Atikcan, E.O., n Azevedo, Célia Maria Marinho de, e n, n Balandier, Georges, n, , n, Bancel, N., n Barbeitos, A., n Barongo, Yolamu R., e n, Basso, Pietro, e n, n, e n, n Bastide, Roger, , n Benot, Yves (pseud. di Edouard Helman), e n, e n, n, , n Bermani, Cesare, e n Betts, Raymond F., e n, n, e n, e n Blanchard, P., n Boas, Franz, , Boetsch, G., n Boxer, Charles R., , e n, n, e n Braga-Pinto, César, , n Buarque de Holanda, S., n Burgio, Alberto, n, e n
Davidson, Basil, , e n, e n, e n, n, e n, e n, e n, e n, e n, n Deroo, E., n Dhada, M., n Diaz de Novais, Paolo, n Don Henrique (Don Enrico di Portogallo detto Enrico il Navigatore), e n
Don João I (re Giovanni del Portogallo), n Du Bois, W.B., n Enders, Armelle, e n, n Engel, Tobias, n Ennes, Antonio, e n, n Euclides da Cunha (Euclides Rodrigues Pimenta da Cunha), Fabian, J., n Fanon, Frantz, e n, Fernandes, Florestan, n, n, n, e n, n Ferro, Marc, n Freire, Paulo, e n, e n, e n Freyre, Gilberto, e n, , -, n, , Galeano, Eduardo, n Garvey, M.A., n Gentili, Anna Maria, n Gibson, Richard, e n, n Gladwin, Thomas, n Gobineau, Arthur de, n Gomes, Crispina, n Gusmão, Neusa M.M., n, n
Lumumba, Patrice, Magnoli, Demétrio, n Martinez, Daniel G., n Martins de Lemos Martins, M., e n Mattoso, José, M’buyinga, Elenga, n Meillassoux, Claude, , n Meintel, Deirdre, e n Mia Couto (António Emílio Leite Couto), n Miranda, Jorge, n Monteiro, João, e n, Moreira, Adriano, , , -, n, n, n, e n, e n, , e n, e n, Nehru, Pandit Jawaharlal, n Neto, Agostino, n, Neto, M.C., n Ngugi, James, e n Nkrumah, Kwame, e n, , e n Norton de Matos, J.M.M.R., e n Ntalaja, Nzongola, e n
Sarkozy, Nicolas, n Sebastião I (re Sebastiano I del Portogallo), n Secco, Lincoln, , n, , n, e n, e n, n, n, n Senghor, Léopold Sédar, Servo, Amado Luiz, n Solanas, Pino, Souza, M., e n Souza, Teotónio R. de, n, n Spencer, Herbert, Stannard, David E., n
Tomlinson, Sally, n Toynbee, Arnold, Traoré, Aminata, , n, e n Traub, James, Traverso, Enzo, n Ulrich, R., n, n Vargas, Getúlio, n Wade, Peter, n Wallerstein, Immanuel, e n, n Williams, Henry Sylvester, n
Taguieff, Pierre-André, e n, n Teotónio, L., n Todorov, Tzvetan, n
Oppenheimer, Jochen, n Ortiz, Renato, e n, e n,
Ha, Kien N., n Harris, Marvin, n, n, n Hill, Sylvia, e n, n Houtart, François, , n
Pacheco, José Alves, n Passerini, Luisa, n Pereira, Aristides, Platone,
Jaffe, Hosea, n, n, , n Junior, Caio Prado, , -, n,
Ranger, Terence O., e n, Richmond, Anthony H., n Rodrigues, Nina,
Kiely, Ray, n Lapov, Z., n Ledda, Romano, n Leiris, Michel, , n, Lemair, S., n Lemercinier, Geneviève, , n Léonard, Yves, n
Said, Edward, , , e n, , n, en Salazar, Antonio de Oliveira, , , , , , n, e n, e n, , , e n, , , , , , , , Santos, Marcelino dos, Saraiva, José, n
Finito di stampare nel mese di mese per conto della casa editrice Il Poligrafo srl presso la tipografia La Garangola di Padova