Da Alvito alla campagna romana: viaggi di braccianti e imprenditori tra ’800 e ’900 8887485410


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Da Alvito alla campagna romana: viaggi di braccianti e imprenditori tra ’800 e ’900
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STUDI E DOCUMENTI 20

Con il patrocinio del Comune di Alvito

Prima edizione: dicembre 2004 ISBN 88-87485-41-0 © 2004 Edilazio - Editrice Regionale Via Taranto, 178 - 00182 Roma Tel. e Fax 06-7020663 E-mail: [email protected] Internet: www.edilazio.com Progettazione e realizzazione grafica a cura della Casa Editrice In copertina: Carta dell’Agro Romano con confini delle tenute e dei territori comunali limitrofi alla scala 1:75000, particolare, Spinetti 1914

Riccardo Morri

DA ALVITO ALLA CAMPAGNA ROMANA VIAGGI DI BRACCIANTI E IMPRENDITORI TRA ’800 E ’900

EDIL AZIO

A Serena e Francesca Lacrime di pioggia, il tuo ricordo mi parla dalla tua finestra io guardo il mondo che passa ed ogni giorno ci sarai… Stringila forte quando avrà paura, che c’è il mio amore che non l’abbandona ad ogni passo della vita. (A. Venditti)

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PREFAZIONE

Dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento l’agricoltura italiana è stata caratterizzata da intensi movimenti migratori stagionali. Si tratta di spostamenti di manodopera interni al Paese, che coesistono con i movimenti verso l’estero, e rappresentano una ricerca di integrazione del reddito per la popolazione in crescita di regioni ad economia prevalentemente agricola. L’agricoltura e l’allevamento costituiscono infatti le attività prevalenti in quelle aree che diventano bacini di reclutamento di bracciantato agricolo che si sposta secondo ritmi stagionali. La differenza di clima tra le aree montane e quello delle aree di pianura determina lo sfasamento dei cicli stagionali e dà la possibilità di partire per prestare lavoro lontano da casa e successivamente di tornare per assolvere ai doveri della gestione di una piccola azienda familiare o, quando non si gode del possesso di un terreno, di trovare occupazione presso terzi, ma comunque nella terra di origine. I movimenti si svolgono lungo una fitta rete di percorsi che collegano regioni confinanti già in relazione tra loro per motivi legati ai ritmi della transumanza, o per scambi di carattere commerciale, situazioni entrambe che creano integrazione tra territori strutturalmente diversi. In questa ottica si possono individuare nell’Italia centro-meridionale due circuiti: il primo interessa le Marche, l’Umbria, l’Abruzzo, e le aree montuose dei Prenestini, Simbruini e Lepini nel Lazio, e costituisce il bacino di reclutamento della manodopera per i lavori campestri e le attività di allevamento che si svolgevano nella Campagna e nell’Agro romano. Il secondo, più a sud, coinvolge la Campania in cui affluivano periodicamente genti provenienti dalle regioni

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Abruzzo, Puglia, Basilicata e Calabria, che insieme formavano un unico vasto mercato del lavoro stagionale agricolo. Gli spostamenti avvenivano a piedi, in gruppi che formavano le “compagnie”, si trattava per lo più di persone che vivevano in collina o in montagna, “i montanari”, che scendevano a valle alla ricerca di possibili mezzi di sussistenza. Talvolta, quando il lavoro nei campi non sembrava in grado di assorbire tante braccia, si adattavano a mettersi in viaggio da girovaghi, suonatori ambulanti con l’organetto o con le “bestie da giuoco”, o anche come figurinai, termine che compare nell’inchiesta Jacini per indicare quanti battevano piazze e mercati offrendo ai passanti le figurine da cui trarre pronostici per il futuro, scelte da un uccellino tenuto in gabbia. In quest’ultimo caso di tappa in tappa raggiungevano mete lontane spingendosi anche fino in Francia, Gran Bretagna e in Irlanda. In questo scenario, caratterizzato da genti in movimento, nella seconda metà dell’Ottocento, si colloca la vicenda migratoria che ha origine dal comune di Alvito, nella Valle di Comino, che apparteneva allora alla Terra di Lavoro e quindi al Regno di Napoli. Se quindi consideriamo la collocazione di Alvito in Terra di Lavoro, ovvero nella parte settentrionale della Campania, e le relazioni di scambio che questa regione aveva con quelle vicine, appare del tutto inconsueto il gravitare di Alvito su Roma e sulla Campagna Romana. Questo fenomeno è ancora oggi vivo nella tradizione locale. Testimonianze orali riferiscono di compagnie di migranti che si spostavano alla volta di Roma, sostavano a Ferentino e proseguivano il giorno dopo per raggiungere la tenuta dove avrebbero trovato occupazione per i lavori di semina o di raccolto. La consistenza del fenomeno nel territorio di Alvito è facilmente individuabile dal confronto dei dati relativi alla popolazione residente ed effettiva-

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mente presente al momento del rilevamento censuario. Dal 1871 al 1936 si arriva a differenze che evidenziano la assenza di circa un terzo della popolazione. E che questa si trovasse veramente in Campagna Romana è avvalorato anche dalla osservazione che il senatore Erminio Sipari ebbe a fare nella relazione che tenne per perorare la costruzione di una ferrovia che servisse anche la Valle di Comino. Lo studio di questo fenomeno non era stato mai affrontato, dal momento che forse è stato ritenuto marginale rispetto alla consistenza dei flussi migratori verso l’estero che hanno caratterizzato le dinamiche demografiche della Valle fino al secondo dopoguerra. L’opportunità di confermare scientificamente la tradizione orale si è presentata nell’ambito di una lezione del corso di dottorato in Geografia Storica che dal 1996 è attivo presso l’Università degli Studi di Cassino. L’argomento comportava capacità di controllo e di elaborazione delle fonti statistiche, delle fonti d’archivio, delle fonti bibliografiche e cartografiche, capacità che si potevano richiedere a livello di tesi di dottorato. Riccardo Morri ha svolto la sua ricerca ottenendo risultati significativi nel delineare i caratteri quantitativi e qualitativi delle migrazioni stagionali da Alvito, e soprattutto ha aggiunto una valenza al fenomeno, di cui si era persa conoscenza e della quale si è acquisita una nuova consapevolezza: da Alvito sono partite non soltanto persone alla ricerca di lavoro ma anche individui che hanno avuto capacità imprenditoriali tali da segnare, con l’innovazione tecnologica e con la capacità di cogliere le opportunità offerte dalle normative allora in atto, l’inizio di forti cambiamenti nei sistemi di produzione e nell’assetto territoriale della Campagna Romana. Domenico Lanza, il più rappresentativo di un ceppo familiare originario di Alvito, opera a Roma tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. A lui si deve, in collabora-

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zione con la ditta inglese Fowler, l’introduzione di un aratro con bilanciere monovomere che consentì il dissodamento dei suoli dell’agro romano costituiti da polveri vulcaniche compatte, particolarmente dure, noti come cappellaccio. L’uso di un tale strumento capace di incidere lo strato duro dei suoli vulcanici, avviò il processo di trasformazione del paesaggio della Campagna Romana, il latifondo cerealicolo e pascolativo fu progressivamente sostituito da colture intensive e specializzate, che gettarono le basi per costruire un rapporto più stretto tra città e campagna, in un nuovo slancio economico. Contemporaneamente le leggi per la politica di bonifica, promulgate nel primo decennio del Novecento, dettero un ulteriore impulso alle trasformazioni del paesaggio: il prosciugamento di aree malsane, la costruzione di alloggi e di servizi per rendere stanziale la popolazione furono iniziative realizzate anche grazie alle capacità innovative di imprenditori illuminati come i Lanza. Lo stato di meccanizzazione del lavoro in agricoltura era già avanzato in alcuni settori del ciclo produttivo; i Borghese avevano fatto venire dalla Scozia nel 1840 la prima trebbiatrice a vapore, nel 1866 i Rospigliosi iniziano ad usare nella tenuta di Maccarese una falciatrice che produce il lavoro di 40 uomini. L’introduzione dell’aratro dei Lanza fu un ulteriore passo verso la modernizzazione della produzione agricola. Questa realtà segna il culmine di un percorso la cui fase iniziale può essere datata 4 agosto del 1861, ovvero il giorno in cui si costituì all’interno della famiglia Lanza, una prima società con lo scopo di provvedere alla “conduzione di operai a lavorare in Campagna Romana ed effettuare semente per proprio conto”. L’emigrazione da Alvito, sia che coinvolgesse imprenditori, sia che riguardasse braccianti, testimonia il desiderio di cercare altrove fonti di benessere e di sopravvivenza,

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e l’importanza della possibilità di usufruire di orizzonti più ampi di quelli a cui la corona di monti della valle di Comino dà un limite difficile da superare. Rimane un interrogativo: perché migravano verso nord, verso Roma e non verso Napoli; quale attrazione poteva esercitare Roma più di Napoli, capitale del Regno? Il tentativo di dare una risposta a questo interrogativo ci induce a confrontarci con metodi di indagine che non trovano soddisfazioni nel numero, nella quantificazione di un fenomeno, ma sollecitano una indagine dei comportamenti, degli usi, delle tradizioni che danno identità peculiari alle realtà locali, espressione di un più stretto rapporto tra uomo e ambiente. Allo studio del Morri, ben si potrebbe affiancare pertanto una nuova ricerca. Non si tratta di individuare i condizionamenti che la natura impone alla vita dell’uomo, ma piuttosto di cogliere i comportamenti dell’uomo quando non è ancora in grado di forzare la natura, quando ancora non conosce tecniche che stravolgono i tempi e i luoghi della natura. Si tratta quindi di individuare il modo di sentire il luogo da parte di una comunità umana, di comprendere il modo in cui il luogo si colloca nella coscienza degli individui. È un modo diverso di accostarsi alla conoscenza del territorio che va oltre il concetto di strutturalismo, è un approccio postmodernista che privilegia il soggetto sull’oggetto, il luogo rispetto allo spazio geografico, per individuare una identità del luogo piuttosto che una omogeneità, una uniformità. Sotto questo profilo potrebbe essere di grande utilità l’analisi della descrizione della Valle di Comino, fatta in occasione dell’acquisto del feudo di Alvito da parte del Cardinale di Como Tolomeo Gallio, nel 1595. La “Relatione familiare de lo Stato d’Alvito, fatta a l’Illmo sig. Cardinale di Como 1595”, testimonia come fin da allora fossero consueti i rapporti con Roma per la vendita dei prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’artigianato

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locali. Ancora più interessante e significativo il rapporto visivo che dalla valle si aveva con la Campagna Romana che si estendeva ai confini dell’orizzonte quando si guardava verso nord ovest, dall’alto di Campoli, uno dei centri del ducato. È evidente che certi comportamenti trovano origine in tempi lontani, costituiscono l’espressione di tradizioni che perdurano nel tempo e non si rimuovono con la sovrapposizione di strutture che l’uomo moderno ha inteso costruire per condizionare il territorio al fine di raggiungere vantaggi economici, o migliore organizzazione politica ed amministrativa. La mancanza di una conoscenza più profonda del rapporto che una comunità stringe con i luoghi che essa frequenta ha spesso significato il fallimento della pianificazione territoriale. È auspicabile una ricerca più mirata al riconoscimento delle identità locali, anche per avanzare proposte di sviluppo territoriale che siano più consone alle comunità che ne dovranno usufruire. La ricerca di R. Morri, quindi, che potrebbe apparire come l’approfondimento di un dettaglio, invece si pone in definitiva come la tessera che definisce l’immagine di un mosaico, che spiega rapporti tra popolazione e territorio, e relazioni complementari tra territori diversi. Lo studio contribuisce a valorizzare il metodo e le finalità dell’indagine geostorica che non deve essere fine a se stessa ma assume significato nel momento in cui offre opportunità di maggiore consapevolezza dei meccanismi che regolano un territorio. Non sempre questi si possono interpretare come relazioni di causa ed effetto, ma talvolta trovano spiegazioni anche in motivazioni che si collocano nella sfera delle emozioni, e che si dimostrano altrettanto valide nell’imprimere al territorio segni peculiari. Ancora oggi persistono tendenze di gravitazione su Sora, per la rete commerciale o per la fruizione di servizi, di tutta la sezione della

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Valle di Comino che va da Picinisco fino a Vicalvi, mentre la parte che comprende S. Biagio Saracinisco,Villa Latina e Atina, invece gravita su Cassino, ripetendo le stesse differenze di direzione che avvenivano nel passato. Paola Visocchi Laboratorio di Valorizzazione Territoriale Università degli Studi di Cassino

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RINGRAZIAMENTI Il testo che segue è il risultato della ricerca svolta per la Tesi del dottorato in Geografia storica (Università di Cassino, XV ciclo) discussa dal sottoscritto a gennaio del 2003. Il positivo riscontro raccolto in quell’occasione è stato lo stimolo per proporre il lavoro all’attenzione di istituzioni locali e case editrici. Fortunatamente l’amministrazione comunale di Alvito guidata dall’Avv. Giovanni Ferrante e la Edilazio hanno ritenuto opportuno credere e investire nel progetto che oggi arriva finalmente a compimento. Proprio al Comune di Alvito e alla Edilazio, in particolare nella persona della dott.ssa Mariarita Pocino, voglio quindi rivolgere il mio primo grazie. Diversi sono infatti i debiti di riconoscenza che si accumulano nel corso di una ricerca impegnativa, specialmente se poi ci si ostina nel perseguire la pubblicazione della stessa. Desidero quindi ringraziare brevemente il Prof. Cosimo Palagiano e la Prof.ssa Flavia Cristaldi per la costanza con la quale seguono la mia attività di ricerca, continuità senza la quale questo progetto si sarebbe certamente arenato. Un grazie “speciale” alla Prof.ssa Gabriella Arena per avermi indirizzato su un argomento che fosse coerente con la mia formazione e che rispondesse ai miei reali interessi, credendo nella persona prima ancora che nelle potenzialità del dottorando. E un sentito ringraziamento intendo esprimere anche alla Prof.ssa Paola Visocchi, guida esperta sul territorio e spesso fonte di impagabili e assai fruttuosi suggerimenti. Così come sono felice di cogliere l’occasione per ringraziare il Dipartimento di Filologia e Storia dell’Università di

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Cassino (il Prof. Andrea Riggio, la Prof.ssa Cristina Cardillo e le colleghe/amiche Elena, Gabriella, Guglielma, Simona) per avermi accolto e, soprattutto, per avermi messo nelle condizioni di godere appieno delle possibilità offerte dal corso di dottorato. Da ultimo voglio ringraziare tutti coloro che in diversi vesti mi sono accanto e mi sostengono: con loro per fortuna uno sguardo, un sorriso o un abbraccio valgono più di parole non sempre facili da trovare. Riccardo Morri

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INTRODUZIONE «Ma che è quest’agro che fa di Roma una capitale intermittente, che colle sue esalazioni costringe a interrompere la vita cittadina […]? Che è quest’enigma dei naturalisti e dei medici, quest’amore dei pittori, questa tomba dei contadini, questo tormento degli economisti, così tristemente grandioso, così bello e così crudele?» (Gabelli, 1881, pp. LVIII-LIX).

Ad animare la vita e la storia della Campagna Romana già prima dell’Unità d’Italia e, ancora dopo il 1870, fino almeno agli inizi degli anni Trenta, hanno contribuito fortemente “imprenditori” e braccianti provenienti da piccoli centri del Lazio, dell’Abruzzo, del Molise, delle Marche e dell’Umbria. Le testimonianze sull’impiego di lavoratori stagionali nelle tenute romane sono numerose (Muratori, 1907; Postempski, 1908, 1912, 1919; Metalli, 1923), e ribadiscono l’importanza delle migrazioni stagionali di questi lavoratori dalle aree appenniniche alla Campagna Romana nel mantenimento di un’economia di “rapina”, basata su una struttura produttiva e su assetti delle proprietà che diventano vieppiù obsoleti sul finire del XIX secolo e all’inizio del XX secolo (Orlando, 1991; Mercurio, 1996; Sanfilippo, 2001). Tuttavia, questa presenza è stata quasi sempre colta nel suo insieme, quantificando cioè l’effettiva consistenza di questa popolazione mobile, specialmente nei confronti di una popolazione stabile che all’indomani dell’Unità tocca nell’Agro quasi i suoi minimi storici, limitata a poco più di 3.000 individui (Comune di Roma, 1960). Raramente cioè ci si è soffermati sulle diverse aree di provenienza di questa enorme massa di persone (con punte anche di 90.000 arrivi - e partenze - in un anno, prima della Prima Guerra Mondiale, M.A.I.C., 1907), se non in relazione a una certa specializzazione regionale nelle diverse attività (Sombart, 1891; Cervesato, 1910; Metalli,1923).

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Tra le diverse regioni di provenienza, il Lazio meridionale, allora diviso tra provincia di Roma e Terra di Lavoro (Caserta), non trova grande considerazione, con i “ciociari” che spesso vengono fatti oggetto di giudizi assai poco lusinghieri1. Senza voler arrivare a sposare in blocco le tesi portate avanti da alcuni studiosi di storia locale, i quali credono sia stata operata una rimozione quasi chirurgica dell’importanza dell’elemento “ciociaro”2 nella storia capitolina (Santulli, 2002), si è però ritenuto opportuno dare nuova luce a questa presenza3.

Fig. 1.1 - La Ciociaria nel 1870 (da Scotoni, 1977)

Una presa di coscienza che appare ineludibile anche per l’importante azione che alcuni mercanti di campagna originari di quest’area esercitarono dapprima nella gestione di queste aziende e poi nella conduzione delle stesse nella nuova veste di proprietari.

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Tra questi spicca la figura del Cavaliere al merito del lavoro Domenico Lanza, originario del Comune di Alvito (Fr), che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo funse dapprima da catalizzatore di manodopera agricola, svolgendo successivamente un ruolo determinante nell’avviare la modificazione dell’assetto produttivo e del paesaggio della Campagna Romana. A partire infatti dalle intermittenti indicazioni fornite dalla statistica ufficiale con lo scopo di quantificare e classificare i principali flussi migratori stagionali (nel 1905, nel 1910 e a partire dal 1928 con cadenza annuale), gli individui originari del comune di Alvito, sito nella Valle di Comino, risultano essere tra i protagonisti di questi movimenti. Si è dunque rovesciata completamente l’ottica fino ad ora utilizzata, non parlando cioè di questi uomini una volta arrivati nella Campagna Romana, ma andando a rintracciare i segni delle loro partenze direttamente in uno dei comuni di provenienza, attraverso l’esame dei registri di stato civile. Grazie allo studio di 11.300 atti di nascita e quasi 3.000 atti di matrimonio di individui residenti ad Alvito, messi cortesemente a disposizione dall’Amministrazione Comunale, si è così potuto ricostruire un quadro abbastanza fedele dell’impatto di questi movimenti stagionali sulla comunità di partenza (nella struttura demografica, nel processo di femminilizzazione di questa comunità e nella sua composizione sociale), non trascurando l’importanza del confronto con l’incidenza che in questo contesto hanno avuto anche le emigrazioni verso l’estero. Attraverso l’informatizzazione (formato raster e vettoriale) della Carta dell’Agro Romano dello Spinetti (1914a) è stata inoltre ricostruita un’immagine sinottica e diacronica di questi spostamenti verso la Campagna Romana e, allo stesso tempo, sono state individuate alcune fonti iconografiche (dipinti, in particolare) e

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letterarie che aiutassero a descrivere tempi e modi di questa presenza nel periodo considerato. Lo studio dei documenti conservati nell’Archivio del Comune (Ricciardi e Di Fazio, 1991), inoltre, ha permesso di intaccare una delle tante certezze che hanno in precedenza accompagnato lo studio della presenza “ciociara” nella Campagna Romana, tradizionalmente collocata quasi esclusivamente a sud di Roma, mentre tracce evidenti di interi nuclei di questi lavoratori di Alvito sono state rinvenute anche in altre aree intorno alla Capitale. I registri di stato civile appaiono quindi una fonte ricchissima di informazioni, utile non tanto per quantificare con precisione il fenomeno, quanto per gettare luce sul complesso ambito delle scelte migratorie e sul contesto in cui queste maturavano. A partire da questi documenti è inoltre possibile identificare alcuni protagonisti importanti, la cui biografia fornisce un’ulteriore chiave di lettura delle trasformazioni di un dato territorio. Le vicende migratorie dei diversi gruppi umani possono essere così lette anche attraverso il divenire dei differenti legami con il territorio di arrivo. La disaggregazione in numerose entità territoriali (le tenute) di una realtà vasta come quella della Campagna Romana, anche rispetto allo studio dei fenomeni migratori, rende possibile individuare mete più frequentate e relazioni preferenziali tra aree e tra uomini (proprietari, mercanti di campagna, caporali e operai agricoli), durata della permanenza e processi di insediamento. Il venir meno di questa apparente omogeneità del territorio intorno a Roma come unico e indiviso bacino di immigrazione consente, quindi, di definire dei precisi ambiti di riferimento sui quali concentrare la ricerca, sia per quanto attiene le proprietà e i luoghi presso cui cercare documentazione sia per quel che concerne i segni impressi nel paesaggio dal succedersi delle diverse comunità nelle varie epoche.

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Sulla Campagna Romana sono state scritte decine e decine di opere (Bortolotti, 1988), di diversa ampiezza e respiro, con un interesse che cresce progressivamente a partire dal Settecento, in particolare riguardo alle possibilità di risolvere i problemi che tradizionalmente affliggevano l’area: spopolamento, malaria, bonifiche incomplete o effimere, diffusione del latifondo (Cacherano, 1785), al fine di ottimizzare lo sfruttamento di questi vasti terreni agricoli (Mercurio, 1996). Lo spazio agricolo e rurale intorno a Roma è stato nelle varie epoche differentemente nominato e delimitato (Cervesato, 1910; Almagià, 1918; Scarpocchi, 1999) oggetto di trattazioni monografiche tese a descrivere le sue caratteristiche fisiche (Giordano, 1881) e/o igienico - sanitarie (Celli, 1927), a studiare e analizzare le sue strutture produttive e insediative (De Cupis, 1911; Cencelli, 1918; Almagià, 1923, 1927; Paratore, 1979) o, più in generale, l’assetto economico - sociale (Sombart, 1891) sia in un dato momento storico (Comune di Roma, 1871; Pareto, 1875; M.A.I.C., 1881a) che nel loro divenire (Tomassetti, 1979; Vallino e Melella, 1983). Diversi studiosi, a vario titolo (storici, geografi, demografi, antropologi, storici dell’arte,…), nei loro studi su scala nazionale o extra regionale, portano spesso ad esempio quest’area per descrivere tutta una serie di particolari fenomeni che in qualche modo ne fanno un unicum e quindi un inevitabile elemento di confronto (Sereni, 1961; Zangheri, 1977; Barberis, 1999). Una produzione che non si esaurisce con quella di carattere strettamente scientifico, ma annovera moltissimi contributi di esperti e non, ciascuno appassionato alla materia a modo suo (Bonfili, 2001). Esiste inoltre una gran quantità di materiale iconografico - dalle pregevoli raffigurazioni pittoriche, alle stampe, alle più recenti fotografie - consultabile nei cataloghi delle mostre realizzate su questo tema (Cooperativa Pagliaccetto, 1984; De Rosa e Trastulli, 2002; Lanzillotta, Mammucari e Negri Arnoldi, 2003), rintracciabili presso deter-

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minati fondi (Cazzola, 2000) o nelle gallerie di piccoli antiquari presenti a Roma e nel Lazio. Al di là dell’ovvia necessità di doversi confrontare con questa enorme mole di documentazione, intraprendere una “nuova” ricerca che abbia in qualche modo a che fare con la Campagna Romana significa, quindi, chiarire innanzitutto in quale ambito e contesto si è scelto di muoversi. La presente ricerca ha lo scopo di definire, in una prima fase, una metodologia utile allo studio delle migrazioni circolari secondo un approccio storico-geografico. Successivamente, la decifrazione della catena migratoria consente di qualificare la presenza di lavoratori e “contadini capitalisti” del Lazio meridionale nelle tenute romane, arrivando a riconoscere il contributo di alcuni di loro nella modificazione degli assetti produttivi e nella trasformazione del paesaggio della Campagna Romana.

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1. IL FENOMENO DELLE MIGRAZIONI STAGIONALI NELLA SUA DIMENSIONE STORICA, SOCIALE ED ECONOMICA 1.1 L’ASSETTO ECONOMICO E PRODUTTIVO DEL REGNO D’ITALIA ALLA FINE DEL XIX SECOLO L’Italia che esce dalle guerre di indipendenza e arriva alla conquista e successiva definizione di uno Stato unitario offre di sé un’immagine caleidoscopica. Se il processo di unificazione politica messo in atto riesce finalmente a dare alla penisola italiana uno status giuridico e un ordinamento amministrativo comune, non arriva certo a ricomporre le molteplici contraddizioni di carattere sociale ed economico esistenti (Bruni, 1976). Il processo di industrializzazione, che in diverse realtà europee aveva conosciuto un deciso avanzamento sin dalla fine del XVIII secolo, in Italia presentava una diffusione a macchia di leopardo, in qualche modo espressione della storica frammentazione preunitaria, oltre che del diverso livello di sviluppo e delle differenti “vocazioni” delle singole realtà territoriali (Segreto, 1999). In questo contesto, il Regno borbonico costituiva forse un’eccezione per i provvedimenti e le politiche messe in atto, favorendo in particolare la nascita di alcune attività industriali pesanti nell’area napoletana (Alisio, 1990). Anche se, per la presenza di diversi tipi di industria, all’interno del «debole apparato industriale che il nuovo regno aveva ereditato dagli stati preunitari, […], le aree che potevano essere prese in considerazione coprivano varie regioni del paese, dal Nord al Sud, comprendendo il Milanese, il Genovese, il Comasco, il Valdagno, l’area attorno a Prato, la Valle del Liri […] e l’entroterra salernitano» (Segreto, 1999, pp. 7-8).

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Inoltre, scarsissimo sviluppo aveva avuto fino a quel momento la rete ferroviaria, rivelatasi volano indispensabile per la crescita economica di altre nazioni, perché essenziale per una più rapida movimentazione delle merci e, in generale, per la realizzazione di una rete di comunicazioni sicura ed efficiente (Sereni, 1961; Caracciolo, 1985; Giuntini, 1999). In estrema sintesi, l’Italia era, e rimarrà ancora fino alla metà del XX secolo almeno (Vivanti, 1988), un paese con un’economia prevalentemente agricola, con una chiara ed evidente identità contadina4. Un’economia agricola che, preme sottolineare, viaggia anch’essa a diverse velocità nelle varie regioni italiane, con notevoli differenziali di redditività, produttività e impiego di manodopera, anche all’interno delle singole regioni (Bruni, 1976). D’altronde, l’instabilità del quadro politico non aveva certo favorito fino a quel momento l’avvio di politiche che potessero in qualche modo guidare lo sviluppo e regolare l’azione dei proprietari terrieri. Impresa questa che, per inciso, produrrà risultati piuttosto modesti, se non complessivamente fallimentari, anche in epoca unitaria, come per altro stanno a dimostrare gli insuccessi prodotti dalla politica autarchica mussoliniana e le alterne vicende della riforma agraria varata, e solo parzialmente applicata, nel secondo dopoguerra (Ginsborg, 1989). Modelli di gestione moderna delle aziende (in senso capitalistico) evidentemente esistevano, ed erano grosso modo concentrati nell’area padana, terreno fertile di impresa economica fin dal XVII secolo (Wallerstein, 1982), dove pure era presente il retaggio della struttura sociale e produttiva delle aziende agrarie, sorte intorno alle case a corte (Pecora, 1970). In moltissime altre aree del Paese sopravviveva, invece, ancora una organizzazione basata su un quasi inesistente investimento di capitali, ma comunque capace di garantire rendite elevate, in virtù principalmente di

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una politica fiscale favorevole ai proprietari dei latifondi e allo sfruttamento massiccio di manodopera a bassissimo costo (Nenci, 1991). Ad ogni modo, quale che fosse la realtà agricola localmente prevalente, i ritmi della produzione delle diverse colture (ancora legati per la maggior parte ai naturali cicli stagionali) e le pessime condizioni economiche degli abitanti dei villaggi delle aree montane e pedemontane interne avevano storicamente determinato l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Una composizione di bisogni (di sopravvivenza per i contadini) e interessi che instaura sul territorio dei circuiti di mobilità stagionale della manodopera agricola riconoscibili, pur se non sempre facili da descrivere nella loro complessità e, soprattutto, da quantificare (Franciosa, 1930). Questa mobilità stagionale rientra ampiamente nella tradizione della realtà rurale italiana di cui la transumanza, per antichità e diffusione, ha spesso costituito l’emblema, attirando su di sé l’attenzione principale degli studiosi a vario titolo. Lo studio quindi delle migrazioni interne periodiche compare spesso a margine di indagini più ampie su diverse porzioni di territorio in cui questo fenomeno è presente, nel cui contesto viene quindi registrata la presenza temporanea di lavoratori “forestieri”, impiegati nelle diverse attività connesse al lavoro dei campi. È privo però di un approfondimento organico e sistematico (Zanzi, 1995), come invece avverrà a partire dal secondo dopoguerra, anche sulla spinta della sempre maggiore consistenza assunta dalle migrazioni interne (Treves, 1976; Sonnino, Birindelli, Ascolani, 1996). 1.2 I CIRCUITI DELLE MIGRAZIONI CIRCOLARI Lo studio delle migrazioni inizialmente non fu di facile approccio, innanzitutto per motivazioni di ordine

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politico. Sul finire del XIX secolo e agli inizi del XX secolo, infatti, il dibattito oscillava tra la tendenza ad assecondare tali trasferimenti di residenza, con l’obiettivo soprattutto di alleggerire la pressione demografica e rendere meno acuti gli squilibri socioeconomici del neonato Regno d’Italia, e la volontà invece di regolarli, o addirittura limitarli, per questioni di immagine e di ordine pubblico5. Una visione, quest’ultima, destinata progressivamente ad imporsi con l’avvento del fascismo, coerentemente con il progetto autarchico in campo economico e con la volontà, da un lato, di utilizzare gli spostamenti coatti di popolazione per svuotare sacche di malcontento e ripopolare aree depresse, come nel caso della bonifica pontina e, dall’altro, di frenare il processo di inurbamento delle masse contadine (Mussolini, 1928). Un’altra difficoltà era indubbiamente legata all’impossibilità di quantificare questi spostamenti, con la moderna statistica che in pratica muove i primi passi insieme con la nascita dello Stato italiano e che, in accordo con il mutare del clima politico, cerca di svolgere puntualmente il proprio lavoro con alterne vicende6. In ogni caso, l’attenzione era essenzialmente rivolta all’emigrazione verso gli Stati stranieri (Palagiano et al., 2004a) cercando soprattutto di capire quanto fosse definitivo il carattere di questi trasferimenti di persone (Marucco, 2001). Ma i movimenti di popolazione non si esaurivano nella fuga verso le Americhe: lo Stato unitario aveva infatti da un lato rimosso barriere che avevano in una certa misura limitato spostamenti interni di merci, capitali e persone, dall’altro, non era stato ancora in grado di sanare squilibri o di rimuovere consuetudini esistenti nei vecchi stati risorgimentali7, che spesso erano all’origine di movimenti interni di breve o medio raggio8. I lavori e le conclusioni dell’inchiesta agraria Jacini condotta nel 1884 (Jacini, 1976), descrivendo la generale arretratezza economica di gran parte dell’agricoltura italiana e le pessime condizioni di vita dei suoi ad-

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detti, forniscono un’immagine precisa del contesto in cui queste migrazioni stagionali si svolgevano, chiarendo anche il loro ruolo nel mantenimento di una determinata struttura agraria (il latifondo) in alcune zone del Paese (principalmente nel Centro-Sud)9, (Sereni, 1961; Massullo, 1996). In questo contesto, sulla base delle rilevazioni compiute dall’Ufficio del Lavoro10, potevano così essere individuate sei aree meta di fenomeni di immigrazione stagionale di manodopera con una diversa specializzazione produttiva agricola (Feruglio, 1908): 1. i paesi delle risaie del bassopiano padano (in particolare i circondari di Vercelli, Mortara, Novara e Pavia); 2. le province di Brescia, Cremona, Mantova e Verona (sedi della bachicoltura e di colture cerealicole); 3. la pianura grossetana (in particolare Orbetello, Grosseto e Magliano in Toscana, per la raccolta delle olive, il taglio dei boschi e la preparazione del carbone); 4. la Campagna Romana, per i lavori connessi alla coltivazione di cereali e alla transumanza; 5. il Tavoliere delle Puglie, per le diverse attività legate alla cerealicoltura, alla viticoltura e alla raccolta delle olive; 6. la Basilicata, nei mesi estivi della mietitura. La Campagna Romana, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, è quindi una di quelle aree ancora capaci di attrarre diversi flussi di persone dalle zone circostanti, dedite tanto ai lavori agricoli che alla pastorizia (Pareto, 1875; Sombart, 1891; De Cupis, 1911), con una tra le più ampie aree di provenienza dell’emigrazione che «si può asserire che il punto più settentrionale della zona è Ravenna, e quello più meridionale è Caserta» (Feruglio, 1908, p. 252).

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In alcuni periodi dell’anno, secondo ritmi e consuetudini radicatesi in età moderna11, giungevano gruppi di lavoratori, reclutati dai caporali nei centri montani delle Marche, dell’Umbria, dell’Abruzzo, del Lazio meridionale e della Campania (Muratori, 1907; Cencelli, 1918; Metalli, 1923; Tomassetti, 1979; Allegretti, 1987) per attendere alle diverse operazioni connesse con il lavoro e la cura di campi e pascoli. Questi “avventizi” erano organizzati in compagnie, e suddivisi poi in gruppi di lavoro anche più piccoli, per svolgere le differenti attività di semina, falciatura e mietitura, la merca degli animali, etc. (Cervesato, 1910) nei tre tipi di azienda diffusi nella Campagna (Metalli, 1923): – l’azienda del campo, che provvede alle varie coltivazioni della terra; – l’azienda del procoio, che si occupa dell’allevamento bovino ed equino; – l’azienda della masseria, che attende all’industria ovina. Le condizioni di vita di tali individui erano pessime (Cacherano, 1785; Sombart, 1891; Jacini, 1976), sia per l’ambiente malsano in cui si trovavano a vivere e lavorare durante i mesi della loro permanenza (Postempski, 1908, 1912, 1919; Marcucci, 1923; Celli, 1927), sia per il carattere effimero del proprio insediamento, fatto di capanne (Cencelli, 1918) e grotte nei migliori dei casi12. D’altronde, una volta giunti nella Campagna Romana, questi lavoratori erano spesso costretti a muoversi da una tenuta o da un’azienda all’altra (Sombart, 1891), e questo contribuiva ad accrescere ancora di più la precarietà e la scarsa importanza data alla qualità delle strutture abitative. Interessante notare, soprattutto ai fini della ricostruzione della periodicità di questi spostamenti condotta nei capitoli successivi, che due sembrano essere le

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popolazioni nomadi che si muovono nello scenario romano: un gruppo, con caratteristiche seminomadiche, dal momento che rimane nella campagna anche per più di sei mesi all’anno, occupato in piccoli lavori di cura, manutenzione e preparazione dei terreni. L’altro gruppo, invece, arriva a rinforzare questo contingente in occasione dei grandi lavori agricoli (come la mietitura), rimanendo per i due, tre mesi necessari a completare e raccogliere i frutti di questi lavori, per poi fare ritorno nel proprio paese d’origine, secondo una circolarità i cui ritmi erano scanditi dalla stagionalità della produzione (Breschi, Fornasin, 2000). Rispetto a questi fenomeni i geografi dell’epoca mostrarono un certo interesse, o all’interno di una più generale attenzione per le vicende del Lazio (Minutilli, 1905; Almagià, 1923; 1927), oppure cercando di stabilire il peso che alcune di queste attività economiche avevano avuto nel caratterizzare la storia di questa vasta area dispiegata tutt’intorno alla città di Roma (Pullè, 1915; 1929). In generale, però, l’attenzione verso le migrazioni interne è comunque minore rispetto a quella dedicata all’emigrazione verso l’estero, e solo in seguito compariranno opere di un certo peso che analizzano da vicino il fenomeno dello spopolamento montano13 e delle aree rurali e quello dell’inurbamento (Brusa, 2001). Tuttavia si rimane sempre nell’ambito di spostamenti prevalentemente a carattere permanente14, con studi quindi non focalizzati sui movimenti temporanei stagionali (Barbieri, 1964)15. 1.3 L’INTERVALLO CRONOLOGICO L’intervallo cronologico di riferimento preso in esame (1871-1936) può essere definito grossolanamente considerando la distanza intercensuaria decorsa tra il 1871, primo censimento del Regno d’Italia con Roma

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Capitale16, ed il 1936, ultimo censimento pre-bellico. In realtà, questa scelta è motivata soprattutto dall’intenzione di cogliere i rapporti tra le graduali trasformazioni dell’Italia rurale e i flussi migratori analizzati. Alcune importanti cesure sono infatti individuabili sulla base delle modificazioni che i movimenti migratori subiscono in relazione ai mutamenti nella vita economica e politica del Paese. Il succedersi delle differenti stagioni migratorie nell’area di studio in esame può, infatti, essere interpretato anche come uno degli emblemi della tensione esistente tra la pervicace resistenza del mondo rurale e i prodromi di un incipiente processo di modernizzazione delle campagne (e della società italiana nel suo complesso, Prampolini, 1981) e di industrializzazione17 (Cafagna, 1985; Crepas, 1999). Un confronto che fino a tutto il primo decennio del XX secolo vedrà prevalere la forza dei retaggi e dei rapporti storicamente consolidatisi nell’Italia pre-unitaria, il cui assetto tenderà poi progressivamente a trasformarsi (Sonnino, Birindelli, Ascolani, 1996). E uno dei segni di questa evoluzione può essere colto nella crescita della piccola proprietà contadina, e nella sua lenta traslazione dalle zone montane a quelle di collina e di pianura (Montroni, 1990; Massullo, 1996), con una partecipazione attiva, come si dimostrerà in seguito, nei processi di modificazione degli assetti preesistenti. Il Lazio è una di quelle regioni in cui questo processo avviene in maniera assai graduale. L’estensione dell’intervallo cronologico su un arco di tempo di oltre 60 anni è funzionale alla effettiva possibilità di riconoscere, anche in relazione ai momenti di crisi che l’agricoltura vive in questo periodo (Orlando, 1991), i mutamenti che sopraggiungono nelle scelte migratorie e nel ruolo, quindi, che i singoli o le famiglie di emigranti assumono all’interno di questo processo18 e nella gestione del territorio intorno a Roma. In questo periodo, inoltre, sono messe in atto a li-

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vello istituzionale anche differenti politiche inerenti il fenomeno delle migrazioni interne. Provvedimenti che non mutano soltanto in relazione ai drastici cambiamenti di assetto istituzionale e politico che l’Italia conosce in quest’epoca, ma che vengono diversificate anche dai medesimi attori. C’è così sovente il ricorso all’intervento governativo per la colonizzazione di aree scarsamente popolate e improduttive (come nel caso di Ostia, (Isaja, Lattanzi G. e Lattanzi V., 1986) e della Pianura Pontina (Gaspari, 2001), a cui si affianca una quasi completa noncuranza dei movimenti esistenti che, anzi, da un certo momento in poi, si trasforma in aperta ostilità (Mussolini, 1928; Treves, 1976). All’interno del periodo studiato, nel quale la Prima Guerra Mondiale rappresenta uno iato cronologico, si collocano probabilmente le ultime testimonianze delle migrazioni interne così come erano presenti sul territorio in epoca moderna e pre-unitaria, colte nel divenire di un contesto che muta in maniera graduale ma sostanziale (Nenci, 1991; Guerreri, 1991). A partire dal Secondo Dopoguerra, infatti, pur con evidenti rapporti culturali con le migrazioni passate, cambieranno radicalmente le mete di destinazione, la lunghezza dei percorsi e la durata degli spostamenti19. 1.4 L’AREA DI STUDIO L’analisi dei movimenti migratori stagionali condotta in questa sede non mira a quantificare lo stock di persone che, annualmente, si spostavano dai comuni del Lazio meridionale per lavorare nelle diverse tenute presenti nella campagna intorno a Roma. L’obiettivo è, piuttosto, individuare e descrivere questi flussi di individui, per arricchire ulteriormente la conoscenza di questo fenomeno migratorio, attraverso la considerazione di una componente alla quale fino ad oggi si ritiene non sia stata data sufficiente visibilità.

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Fig. 1.2 - Popolazione agricola nei compartimenti del Regno (da Marescalchi e Visintin, s.a.)

La Valle di Comino certo non rappresenta l’unico fulcro del Lazio meridionale attuale dal quale tali movimenti avevano origine, però ha in sé tutta una serie di caratteristiche che sono state determinanti perché l’attenzione si concentrasse sugli individui residenti nei comuni di questa zona. In primis, la Valle di Comino è un’area interna del Lazio, una delle tante conche dell’Appennino centrale, da cui tradizionalmente proveni-

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va il maggior numero di braccianti, pastori e lavoratori stagionali impiegati con diverse mansioni nella Campagna Romana (Cencelli, 1918; Metalli, 1923). Per di più, oltre ad essere una regione geografica facilmente riconoscibile dal punto di vista fisico, storico ed economico (Almagià, 1911; Marsili, 1965), questa valle presentava comunque una connotazione agricola piuttosto spiccata20. Questa peculiarità ha reso più consistente la possibilità che dai comuni di questo territorio emigrassero contadini oltre che pastori21 (fig. 1.2), diminuendo così il rischio che il fenomeno della transumanza o, comunque, della cura degli armenti nella Campagna Romana finisse per fare ulteriore ombra su quello dei lavori stagionali prettamente agricoli22.

Fig. 1.3 - La Provincia di Frosinone negli anni Trenta Fonte: Istituto Centrale di Statistica del Regno d’Italia, 1938

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Da ultimo, quest’area ha tra le sue prerogative quella di essere appartenuta amministrativamente per buona parte del periodo considerato alla provincia Terra di Lavoro (Caserta), prima di diventare elemento fondante della provincia di Frosinone (1927), insieme ad altri comuni appartenenti fino a quella data alla provincia di Roma (figg. 1.3, 1.4). Questo essere sospesa tra due regioni fortemente tributarie di manodopera agricola dai comuni dell’interno ha, quindi, inciso notevolmente sull’interesse a investigare sui flussi provenienti da questa valle piuttosto che da un’altra zona del Lazio meridionale23. Non dimenticando di aggiungere i legami storicamente esistenti tra questi territori e lo Stato della Chiesa in virtù della presenza di famiglie nobili (quali i Gallio e i Boncompagni, Antonelli, 1997; Bonacina, 1997; Monti, 1997), che gestivano proprietà ed interessi in entrambe le aree.

Fig. 1.4 - Il territorio di Alvito nell’Atlante del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni (1788-1812), scala 1: 114.000. Stralcio da Principe, 1994

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1.4.1 IL COMUNE DI ALVITO Data l’ampiezza del periodo cronologico preso in considerazione, sono stati esaminati i registri di stato civile di uno solo dei comuni presenti nella valle. Il comune di Alvito è tra i centri di più antico insediamento dell’area (Santoro, 1908; Iacobone, 1984; Ricciardi, 1985): lo sviluppo del nucleo originale del castello di Alvito può essere collocato tra l’XI e il XIII secolo (Jacobelli, 1977; Beranger e Sigismondi, 1997), ma il centro conobbe il massimo dello splendore intorno ai primi anni del XVI secolo, tanto che la sua città vantava in quel periodo oltre 10.000 anime ed era divenuta capoluogo del feudo dei Cantelmo, famiglia legata da parentela con la casa reale d’Aragona (Castrucci, 1633). Il feudo si estendeva anche ai territori di Sora, Vicalvi ed Atina. A cavallo del XVI e XVII secolo il Cardinale comasco Tolomeo Gallio prende possesso del solo ducato di Alvito, affidandolo al suo nipote omonimo Tolomeo Gallio. Una dinastia questa dei Gallio che durerà fino all’abrogazione del feudalesimo, decretata da Giuseppe Bonaparte, nel 1806. Il Cardinale Gallio era una figura di rilievo nello Stato Pontificio, essendo stato segretario personale del Pontefice Pio IV e, sebbene abbia mantenuto ben saldi i rapporti con le sue terre di origine – a cavallo del 1600 si fece costruire due ville sul lago di Como – già nel 1565 ricevette in enfiteusi alcuni terreni intorno a Priverno (nel territorio dell’attuale provincia di Latina, Angelini, s.a.). I Gallio quindi rappresentano un forte elemento di unione tra questi territori del Lazio meridionale e lo Stato della Chiesa già per il periodo precedente a quello esaminato (Comitato per le attività culturali dell’anno Gallio, 1997). Nel 1861 Alvito, con i suoi 4.851 abitanti, è il secondo comune per popolazione della Valle di Comino (il comune più popoloso è San Donato Val di Comino, con 4.912 abitanti, Statistica del Regno d’Italia, 1865),

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ma, nonostante la vitalità delle famiglie nobili locali (Arnone Sipari, 2000), sembra rimanere ai margini della crescita economica e produttiva che invece investe in pieno Atina e i vicini comuni della Valle del Liri (Casmirri, 2000), contribuendo così questo stato di cose a mantenere viva la tradizione migratoria verso la Campagna Romana, facendo sì che «noi per otto mesi dell’anno abbiamo due terze parti della popolazione che emigra all’agro romano, e notasi, se ne va a piedi, ed anche giunta a Frosinone non si piglia il biglietto di 3ª Classe, ma prosiegue il viaggio sul cavallo di S. Francesco» (Sipari, 1884, p. 15)24. Allo stato attuale della ricerca non c’è stato ancora modo di prestare attenzione allo studio dei percorsi attraverso cui le genti di questo comune del cominense giungessero nella Campagna Romana25. Certamente questo è un elemento che dovrà essere in seguito considerato per definire con ancora maggior precisione le dinamiche connesse a questi trasferimenti temporanei di popolazione. 1.5 LA CAMPAGNA ROMANA: LIMITI E STRUTTURA AGRARIA

La questione relativa alla diversa estensione e relative differenti possibili delimitazioni dell’Agro Romano e della Campagna Romana esula dagli interessi precipui di questo lavoro. Tuttavia, essendo il territorio rurale ed agricolo intorno a Roma la meta di destinazione dei flussi stagionali di manodopera oggetto di questo studio, il problema non può essere completamente ignorato. In particolare, per avere un quadro esauriente delle scelte compiute dagli emigranti di Alvito sulla base dei dati desunti dai registri del comune, si è deciso di rendere conto dell’intera gamma di probabili mete dei movimenti stagionali. Partendo da questa riflessione, si è dunque preferito innanzitutto parlare di Campagna

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Romana piuttosto che limitare l’ambito di riferimento all’Agro Romano, coincidente anticamente con «gli immediati dintorni dell’Urbe» (Frutaz, 1972, p. XVII), sebbene dopo il 1870 anche questo toponimo, sostituendosi a quello di Comarca di Roma, tenda ad assumere un significato più estensivo26. Per questo si è pensato allora di utilizzare come base di partenza le indicazioni fornite da Almagià (1918), incline a far coincidere i limiti della Campagna Romana con quelli amministrativi del Comune di Roma. Allo stesso tempo, però, dal momento che ci si imbatte nella presenza di abitanti di Alvito anche in tenute poste al di fuori di questi confini, sono state prese in considerazione anche interpretazioni più estensive fornite da altri autori (Giordano, 1881; Tomassetti, 1979). La Carta dell’Agro Romano dello Spinetti (1914a) restituisce un’immagine coerente con questa impostazione, anche rispetto alla demarcazione con i terreni della Pianura Pontina, un’altra delle mete tradizionali per i contadini delle aree interne del Lazio meridionale (Morandini, 1947).

Graf. 1.1 - Superficie agraria e forestale nel Comune di Roma. Incidenza % sul totale della superficie. Elaborazione su dati del Catasto Agrario del Regno d’Italia, 1911.

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La struttura produttiva agricola dell’area in questione può essere considerata come il motore (il fattore di pull) che genera e alimenta i movimenti stagionali di lavoratori agricoli27 (graf. 1.1). In realtà, in precedenza, si è già fatto riferimento a questi movimenti come ad una componente in qualche modo tradizionale di quelle regioni d’Italia la cui economia agraria era legata prevalentemente alla presenza del latifondo (Bevilacqua e Rossi Doria, 1984; Orlando, 1991). In questo contesto, però, urge sottolineare il persistere di condizioni favorevoli al mantenimento di questa struttura agraria anche dopo l’annessione di Roma al Regno d’Italia, e ancora per molti anni a venire (Vivanti, 1988). Prima di soffermarsi su questo punto, vale la pena anche solo accennare ad almeno due tra le cause che principalmente avevano inciso su una storica carenza di popolazione, e quindi di manodopera, in quest’area (Allegretti, 1987). Infatti, nonostante i provvedimenti varati a più riprese da alcuni papi (De Cupis, 1911), «l’eccessiva pressione fiscale e la severità con cui vengono perseguiti i contribuenti insolventi [...] scoraggia le popolazioni limitrofe a trasferirsi nei territori pontifici e spinge chi già vi abitava ad abbandonarle» (Scarpocchi, 1999, p. 132)28. Ma accanto a questo elemento sussisteva l’ostacolo, allora insormontabile, del forte vincolo ambientale rappresentato dalle assai precarie condizioni di vita dovute alla presenza della malaria, che «distrusse più volte ogni tentativo di colonizzazione qui nell’Agro Romano e altrove» (Celli, 1927, p. 13). Un binomio quello tra malaria e latifondo stretto al punto tale da formare quasi un sodalizio con lo scopo di rallentare il più possibile l’insediamento e lo sviluppo sociale ed economico in questi territori (Bevilacqua e Rossi Doria, 1984)29. Al persistere del latifondo in questa regione, così come nell’Italia meridionale, contribuirono però anche

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le modalità con cui si venne costituendo il patrimonio fondiario della borghesia, che inizialmente non andò ad intaccare tanto la proprietà nobiliare ma fu accumulato a spese delle masse contadine (Sereni, 1961)30. D’altro canto, furono determinanti anche alcune precise scelte politiche (Orlando, 1991), come il varo nel 1887 del dazio sull’importazione del grano che «consentiva ai grandi proprietari terrieri di porre la rendita al riparo della crisi agraria persistente, di conservare le antiquate strutture agrarie e fondiarie» (Zangheri, 1977, p. 142)31. Il rinnovato vigore con cui allora queste strutture agrarie andavano legandosi ai terreni nelle diverse zone dell’Italia centro-meridionale (Prampolini, 1981), permise così il perpetuarsi di quei legami che tradizionalmente vedevano gli intermediari dei proprietari e dei mercanti di campagna rivolgersi stagionalmente ai bacini di manodopera disponibili nei comuni delle aree appenniniche interne32. Ma il contesto in cui queste strutture ora si muovevano era quello più ampio del mercato nazionale ed europeo e della concorrenza capitalistica (seppure corretta, come si è detto, da appositi interventi statali), che avevano avuto tra i loro effetti anche quello di andare ad infoltire l’esercito di braccianti disponibili a questo tipo d’impiego. Se, infatti, tutto ciò può essere letto come «il prezzo che il Mezzogiorno pagò all’industrializzazione, in termini di inferiorità economica, emigrazione di massa e disoccupazione cronica» (Zangheri, 1977, p. 142), si assiste contemporaneamente al formarsi di quella che Sereni (1961) definisce la «sovrappopolazione artificiale» delle campagne, dove a seguito di un mancato impiego nell’industria o in altri settori produttivi, la manodopera in esubero mantiene il tradizionale carattere contadino. Un bacino sempre più consistente, che non trova quindi sfogo solo nell’emigrazione verso l’estero, ma che a ben vedere rappresenta un’ulteriore fonte di ali-

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mentazione anche per i flussi migratori temporanei interni. Tuttavia, la ricerca condotta è in grado di dimostrare come, congiuntamente a questi flussi di lavoratori, giunsero nell’area anche esponenti dell’imprenditoria del Lazio meridionale, i quali diedero il loro importantissimo contributo nello scardinare i tradizionali sistemi produttivi, grazie anche all’acquisizione di proprietà nobiliari.

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2. LA VALLE DI COMINO: TERRA DI LAVORO O PROVINCIA DI ROMA? 2.1 UNO SGUARDO AI CENSIMENTI Prima di scendere nel dettaglio dei dati estrapolati dai registri comunali si può fornire una descrizione del contesto più generale in cui si inseriscono le storie degli emigranti stagionali di Alvito. Dai censimenti della popolazione realizzati tra il 1861 e il 1936 (con l’intervallo del 1891, anno in cui non si procedette alla rilevazione), si possono ricavare infatti informazioni utili a tracciare un primo profilo demografico del comune in esame, della Valle di Comino nel suo insieme33 e del Circondario di Sora, universo amministrativo di riferimento di primo livello all’interno della provincia di Terra di Lavoro. Questa provincia si componeva di cinque differenti circondari (Caserta, Gaeta, Nola, Piedimonte d’Alife e, appunto, Sora) in cui nel 1861 vivevano complessivamente oltre 650.000 persone. Il 20% circa di questi individui conduceva la propria esistenza nella quarantina di comuni che costituivano il Circondario di Sora.

Graf. 2.1 - Variazione della popolazione e dell’indice di natalità (‰) nel comune di Alvito (Fr). Elaborazione su dati Istat (Istat, 1960)

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Guardando all’andamento della popolazione residente alla data dei vari censimenti nel comune di Alvito (graf. 2.1), nella Valle di Comino (graf. 2.2) e nell’insieme più ampio dell’intero Circondario di Sora, possono essere messe in evidenza alcune differenze. La popolazione dell’intera valle e quella di Alvito registrano un calo sensibile al 1871, a dispetto di un aumento, seppure contenuto, registrato nel Circondario; nel 1931, invece, la diminuzione si riscontra anche nel Circondario, ma in misura comunque assai più limitata. Tra il 1921 e il 1936 si evidenziano le differenze più marcate: per Alvito e, più in generale per la Valle di Comino, si può infatti parlare di una fase di forte decremento della popolazione, in linea quindi con quel processo di spopolamento montano che proprio in quegli anni va accentuandosi (De Vecchis, 1996).

Graf. 2.2 - Variazione di popolazione nella Valle di Comino. Elaborazione su dati Istat (Istat, 1960)

Al contrario, il Circondario di Sora mostra una capacità di contenimento assai più spiccata. Tanto è vero che, al calo molto contenuto rilevato nel 1931 (la popolazione non scende sotto i livelli del 1911, come av-

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viene invece ad Alvito e nella Valle di Comino), segue immediatamente la ripresa del 1936. Questo potrebbe denotare una certa capacità di centri come Sora e Cassino di assorbire, in prima battuta, le emorragie di popolazione dai centri più interni. E infatti, proprio nei registri civili degli atti di nascita relativi a questo periodo compaiono i primi bambini nati a Cassino e Sora da genitori ancora residenti ad Alvito. Nell’insieme si può invece notare una crescita costante della popolazione tra il 1871 e il 1921, e questo dato potrebbe sorprendere se si considera che proprio in questo periodo il fenomeno dell’emigrazione verso l’estero tende progressivamente a crescere (Del Panta, 1996; Bonifazi, 1998). In realtà, anche il fenomeno dell’emigrazione verso l’estero non si presta ad una lettura affrettata e, soprattutto, non può essere definita una relazione diretta tra l’emigrazione nel suo insieme e il fenomeno dello spopolamento. Da un lato, perché anche l’emigrazione verso l’estero aveva spesso carattere temporaneo (la cosiddetta migrazione “a rondinella”34 verso i Paesi dell’America Latina, ad esempio, Migliorini, 1962), e, dall’altro, perché gli effetti delle partenze non ebbero lo stesso peso, in termini demografici, su tutti i paesi montani. In alcuni casi, gli alti tassi di natalità e una minore spinta all’esodo (Golini, Isenburg e Sonnino, 1976) avevano l’effetto di compensare il trasferimento definitivo di persone verso l’estero. Questa breve digressione sull’emigrazione italiana all’estero si impone perché la considerazione di una parte dei comportamenti migratori (quelli stagionali) di una comunità non può sfuggire a un confronto, seppure sintetico, con l’orizzonte più generale del complesso delle scelte migratorie messe in atto nello stesso ambito e nello stesso periodo35. Soprattutto perché i comuni della Valle di Comino corrispondono teoricamente al profilo di quei centri appenninici in cui l’impatto dell’emigrazione all’estero è stato più rilevante (Sonnino, Birindelli e Ascolani, 1996).

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Come si vedrà nel dettaglio nel terzo capitolo, tracce dell’emigrazione verso l’estero (Francia e Gran Bretagna dapprima, successivamente gli Stati Uniti) rimangono anche nei registri del comune di Alvito.

Graf. 2.3 - Numero di emigrati verso l’estero dal Comune di Alvito per anno (1898-1915). Fonte: M.A.I.C., 1900ss

Questo fenomeno resta, tuttavia, piuttosto contenuto36, coinvolgendo quote sempre minime della popolazione (graf. 2.3), arrivando a sfiorare il 10% del totale solo nel 1913, sebbene nella Valle di Comino, coerentemente con quanto avviene in tutta la provincia Terra di Lavoro, crescite più marcate delle partenze verso Paesi stranieri si erano già avute nel 1905 e nel 190637. Addirittura, nel 1901, contrariamente a quello che avviene negli altri ambiti territoriali considerati, Alvito conosce un calo netto dei suoi emigranti verso l’estero38. Certamente, la comunità di Alvito è dotata di una buona vitalità demografica, considerando che l’indice di natalità è praticamente sempre compreso tra il 20 e il 30 per mille nel periodo considerato (graf. 2.1), come sta anche a dimostrare il peso mantenuto per tutti questi anni, in termini percentuali, nel quadro più ampio della popolazione della Valle di Comino.

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Graf. 2.4 - Emigrazione permanente verso l’estero dalle province di Roma e Caserta (1876-1901). Fonte: M.A.I.C., 1900

Allo stesso tempo, però, rimane valida l’ipotesi, appena accennata nel primo capitolo, relativa alla capacità dei flussi migratori stagionali di rappresentare un valido sostegno all’economia di questi centri39, tanto da porsi come seria e concreta alternativa alla scelta di emigrare all’estero. Per questo tali fenomeni non solo sembrano convivere, ma, sicuramente, gli spostamenti periodici nella Campagna Romana hanno un ruolo di primo piano, mantenendo inalterata la propria importanza, come si vedrà, almeno fino a pochi anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale40. Confrontando le differenze esistenti ai vari censimenti tra la popolazione di diritto e la popolazione effettivamente presente, è possibile compiere una prima approssimata stima delle persone temporaneamente assenti, utile per provare ad immaginare la consistenza di trasferimenti non definitivi di residenza (Montroni, 1990). Anzi, quello che in genere rappresenta un limite per il confronto diacronico di

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questi dati censuari, e cioè il fatto che siano realizzati in differenti mesi dell’anno (ad esempio, rendendo difficile confrontare i dati sulla popolazione effettivamente presente in un centro abitato, Provato, 1990), può costituire in questo caso una risorsa, poiché la diversa stagione di rilevazione potrebbe far emergere l’incidenza di tali spostamenti non definitivi. Tuttavia, l’intervallo intercensuario è troppo ampio per poter effettivamente fare delle riflessioni sul variare della consistenza di questi movimenti stagionali41, per cui le considerazioni seguenti hanno più che altro valore indicativo rispetto all’immagine della popolazione assente che emerge dalla lettura dei registri di stato civile. Innanzitutto, occorre mettere in evidenza come il fenomeno assuma una certa importanza a partire dal 1881, con un’incidenza della popolazione assente che è maggiore nel comune di Alvito e nella Valle di Comino rispetto a quella calcolabile per il Circondario di Sora. Dato questo che sembra suffragare l’ipotesi di una maggiore propensione di quest’area agli spostamenti temporanei rispetto a quella di altri contesti territoriali limitrofi (Zanzi, 1995). L’elemento che, però, maggiormente spicca è la decisa e costante crescita della quota di popolazione assente registrata nel comune di Alvito. Gli individui assenti sono una quota percentuale della popolazione residente sempre più alta di quella registrata nell’intero Circondario e, in più, non conosce cali (peraltro assai contenuti inizialmente) prima del 1911 (tab. 2.1). Anche per questo fenomeno, infine, il Circondario complessivamente nel 1936 ha un comportamento in controtendenza con quello di Alvito e della Valle. Ma questo dato non contrasta con quello dell’aumento della popolazione: lì dove questa diminuisce, infatti, probabilmente la competizione sul territorio per lo sfrutta-

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mento delle risorse è meno serrata, venendo così meno un possibile stimolo all’emigrazione stagionale42. Questo comportamento tenderebbe invece a riproporsi in un contesto in cui si va definendo una situazione contingente di sovrappopolamento, a cui non si accompagna, ad esempio, un’espansione reale dell’offerta di lavoro. Un’evidente conferma dell’importanza di questi movimenti stagionali per l’area in questione arriva direttamente dalle ricerche compiute per la prima volta dall’Ufficio del Lavoro del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per il 1905 e il 1910-1911. La parte nord del Circondario di Sora è infatti citata esplicitamente come uno dei bacini di manodopera stagionale della Campagna Romana (M.A.I.C., 1907, p. 52). Inoltre, leggendo i dati raccolti, si può notare come in questo contesto spicchino i comuni della Valle di Comino, quali Casalvieri, San Donato Val di Comino43, Vicalvi e, su tutti, proprio Alvito. Questo centro emerge sia perché durante tutto l’anno, seppure con intensità diverse, registra un certo numero di partenze verso Roma, sia perché sembra mantenere questo carattere per tutto il periodo esaminato. Infatti, Alvito è l’unico paese di quest’area a comparire più volte tra i comuni con più di 500 emigrati stagionali l’anno anche nelle rilevazioni avviate sotto il regime fascista dal Comitato permanente per le migrazioni interne (Comitato permanente per le migrazioni interne, 1929, 1930; Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna, 1931, 1932, 1933)44. Il riscontro di tali movimenti anno per anno e della loro periodicità stagionale può essere messo in evidenza attraverso uno studio e una lettura attenta dei dati contenuti nei registri di stato civile.

48 Tab. 2.1 - Variazione della popolazione assente nel comune di Alvito e nel complesso dei comuni della Valle di Comino e del Circondario di Sora.

Fonte: Elaborazione su dati di Censimento (M.A.I.C., Istat).

2.2 I REGISTRI DI STATO CIVILE DEL COMUNE DI ALVITO L’utilizzo delle fonti archivistiche di stato civile ha assunto progressivamente importanza, particolarmente negli studi di demografia storica, a partire dai primi anni Ottanta (Schiaffino, 1980; Imhof, 1981). In molti casi, infatti, per i periodi precedenti all’avvio della statistica ufficiale, queste, insieme ai registri diocesani e/o parrocchiali45, sono le uniche raccolte di informazioni di questo genere operate con una certa sistematicità sul territorio. Proprio per questo, il loro uso si è vieppiù diffuso dal momento in cui è cresciuta l’attenzione per la ricostruzione dei quadri locali tanto a livello storico che demografico (Bussini, 1985). D’altronde, nello studio dei fenomeni migratori, la tipologia delle migrazioni interne stagionali è proprio quella di più difficile rilevazione, poiché non implicando un trasferimento definitivo di residenza, non lascia tracce dirette evidenti nei registri anagrafici, solitamente fonte privilegiata per la rilevazione continua dei flussi migratori (Golini, Isenburg, Sonnino, 1976; Blangiardo, 1997). Tuttavia, l’importanza di tali materiali non era sfuggita ai geografi più attenti, che reputavano tali documenti ricchi di informazioni utili a ricostruire i “generi di vita” delle singole regioni, soprattutto per «la

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continuità di segnalazioni, le indicazioni esenti o quasi da simulazioni (perché non si tratta di operazione fiscale) e quindi più oggettive e sicure, la ricchezza delle qualificazioni professionali (in genere di abbastanza agevole interpretazione), e alfine la ricerca di rilevamento e di informazione, che consente - con qualche cautela - di fare paragoni fra regione e regione» (Gambi, 1957, pp. 601-602). Quindi, sebbene l’impiego dei registri di stato civile nella descrizione dei movimenti migratori effimeri sia uno strumento di ricerca introdotto e ampiamente utilizzato dagli studiosi di demografia storica (Del Panta, 1985; Moretto, 1991; Corsini, 1993), l’utilizzo che di questa fonte si è fatto in questa sede ai fini di una ricerca geografica appare ampiamente giustificabile. I dati raccolti, come si vedrà, hanno infatti portato innanzitutto prove documentarie certe sull’esistenza dei legami, e sulla natura degli stessi, tra la Campagna Romana e il Comune di Alvito. In questa maniera, si è ritenuto di poter idealmente ripercorrere il viaggio compiuto dagli uomini, o da intere famiglie, nei diversi periodi dell’anno dalla Valle di Comino verso le singole tenute presenti nel territorio di Roma e di alcuni dei comuni limitrofi (M.A.I.C., 1907, 1914b; Orlando, 1991). Si è così potuto guardare contemporaneamente tanto all’area di origine che a quella di destinazione, misurando la periodicità dei movimenti in uscita e ricostruendo la mappa delle mete più frequentate, riconoscendo nel medio - lungo periodo dinamiche che potrebbero aver portato all’insediamento stabile di alcuni nuclei familiari in determinate zone. Al fine di mettere in evidenza la presenza di movimenti stagionali e descriverne la periodicità annuale, queste informazioni sono state studiate conducendo un’analisi demografica retrospettiva classica, con finalità cioè principalmente descrittive (Courgeau e Lelièvre, 2001)46.

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La quota più consistente della manodopera impiegata nella Campagna Romana era rappresentata da uomini (M.A.I.C., 1907, 1914b; Comitato per le migrazioni interne, 1928 e ss.), seppure la gamma delle mansioni da svolgere era talmente ampia che si assisteva anche alla migrazione di interi nuclei familiari (Metalli, 1923). In ogni caso, la presenza di questi individui nelle tenute era massicciamente necessaria solo in alcuni periodi dell’anno (Cencelli, 1918; Metalli, 1923; Cooperativa Pagliaccetto, 1984; Orlando, 1991), quindi i segni di questi spostamenti possono essere dedotti da una periodicità nella celebrazione dei matrimoni e nelle nascite (risalendo a ritroso anche al momento del concepimento), che, come si vedrà, presentano una concentrazione in alcuni mesi dell’anno e una rarefazione in altri periodi, in relazione alla temporanea assenza degli uomini che si trovano occupati «nei lavori nella Campagna Romana» 47, così come recitano gli atti di nascita presenti in alcuni dei primi registri consultati. Inoltre, pur senza voler arrivare alla quantificazione, anno per anno, di questi flussi, si è riusciti a ricostruire una serie storica all’interno della quale è possibile individuare e discutere della maggiore o minore intensità che questi spostamenti hanno avuto in momenti diversi. Infine, le indicazioni relative alla condizione professionale e la possibilità di seguire le vicende delle diverse famiglie, costituiscono la premessa per decifrare il ruolo che alcuni membri di questa comunità ebbero nella trasformazione del paesaggio agricolo e rurale di Roma e dintorni. 2.2.1 LA STRUTTURA DEI REGISTRI E I DATI CONTENUTI

Come accennato in precedenza, sono state prese in

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considerazione due serie di atti registrati dal Comune, quella relativa al matrimonio e quella relativa agli atti di nascita. La struttura dei registri dei matrimoni è piuttosto semplice, in quanto mese per mese sono progressivamente registrati i matrimoni celebrati48, con indicazioni relative all’età e la condizione professionale tanto dei novelli coniugi che dei genitori di entrambi (più di frequente quella del padre). Questo ha permesso di mettere in rilievo quei mesi in cui i matrimoni sembrano mostrare una certa concentrazione, naturalmente tenendo ben distinto l’universo contadino da quello dei notabili o, comunque, da tutti coloro che esercitassero una professione che, con ogni probabilità, non li portava ad essere protagonisti di questi movimenti stagionali. Un’informazione in cui, in fase di raccolta dati, si è deciso di tenere conto è stata anche quella del comune di nascita e/o provenienza dei due coniugi. In questo modo, potrebbero essere messi in evidenza rapporti privilegiati con una determinata area, oppure, si riesce a intuire se l’assenza degli uomini fosse tanto lunga da giustificare una ricerca delle ragazze e donne di Alvito del proprio marito altrove. In realtà, per il momento, constatata la forte tendenza all’endogamia nell’ambito della comunità alvitana, si è potuta scartare questa eventualità e si è quindi rinunciato ad elaborare nel dettaglio questo dato49. I registri relativi agli atti di nascita presentano invece una maggiore articolazione interna perché, a partire dal 1875, accanto ad una prima parte organizzata allo stesso modo dei registri relativi agli atti di matrimonio, compare una seconda parte in cui vengono annotati tutti gli atti di nascita di bambini nati in altri comuni, ma da genitori ancora residenti ad Alvito (oltre alle correzioni su atti già emessi e ai provvedimenti di affidamento di bambini orfani, oppure riconosciuti dal padre successivamente al momento della nascita).

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Dell’importanza di questa seconda parte si scriverà nel capitolo successivo, nelle pagine che seguono immediatamente invece l’oggetto sarà l’elaborazione dei dati desunti dalla prima parte. Lo scopo è sempre quello di trovare un riscontro della periodicità di questi spostamenti, indicativo della stagionalità degli stessi, naturalmente tenendo conto della presenza o meno del padre al momento dell’iscrizione del neonato nei registri del comune. 2.3 LA CICLICITÀ COMPOSTA DEGLI SPOSTAMENTI Raramente le indicazioni relative alla periodicità delle migrazioni stagionali presenti nei diversi autori sono precise. Ci sono, ad esempio, degli sfasamenti rispetto ai periodi di maggiore concentrazione di lavoratori nelle tenute: secondo alcuni, infatti, il territorio intorno a Roma «è deserto in Estate» (Pareto, 1875, p. 10), mentre altri mettono in risalto soprattutto la presenza di mietitori e falciatori anche nel mese di luglio (Cervesato, 1910), pur riconoscendo il sovrapporsi di differenti flussi, legati spesso ad attività diverse (Muratori, 1907; Bortolotti, 1988)50. In realtà, la lettura più lucida delle dinamiche di questi movimenti verso la Campagna Romana si riscontra nell’opera di Sombart (1891), poiché dalla sue pagine emerge una distinzione piuttosto netta tra le figure dei mietitori/falciatori e quella dei braccianti. La presenza dei primi sembra effettivamente avere un carattere maggiormente estemporaneo, con una permanenza che addirittura sarebbe di poco superiore alle tre settimane (M.A.I.C., 1881b; Cervesato, 1910), in un periodo, che a seconda degli anni, è compreso più o meno tra la fine di maggio (Orlando, 1991) e l’inizio di luglio.

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I braccianti, invece, possono arrivare ad abitare nelle capanne da loro innalzate ai margini delle diverse tenute anche sette/otto mesi: «Su quelle montagne sassose, per ragioni di altitudine, la vegetazione del grano è più lunga, e bisogna seminar più presto e mietere più tardi il misero raccolto. Così, appena compiuta la semina, questi agricoltori, abbandonati i vecchi genitori, calano nell’agro e vi restano per nove mesi, a compiere tutte le lavorazioni campestri, fino alla mietitura e trebbiatura, risalendo ai cari monti in tempo per eseguire lassù, nei propri campicelli, il raccolto del grano, giunto allora a maturazione» (Cencelli, 1918, p. 3). Il momento della partenza andrebbe allora a collocarsi tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre, momento in cui i caporali si mettevano a lavoro per reclutare le compagnie (Metalli, 1923; Sinisi, 1993), con i ritorni che invece si sovrappongono parzialmente con le partenze degli avventizi, cioè più o meno in giugno51. Le rilevazioni statistiche dell’Ufficio del Lavoro sono ovviamente assai più circostanziate, dividendo i dati raccolti con specifiche inchieste in tre periodi: gennaioaprile; maggio-luglio; agosto-dicembre. Il Comitato di istituzione fascista fornirà invece il computo degli spostamenti temporanei mese per mese. La raccolta e l’organizzazione dei dati proposti serve quindi a chiarire il quadro della periodicità di questi spostamenti, fornendo, anche per gli anni non coperti dalle rilevazioni, una misura orientativa del fenomeno. 2.4 MATRIMONI: PREMESSE A UNA LETTURA DI LUNGO PERIODO

Preliminarmente è d’uopo sottolineare come lo stato di conservazione, in generale assai buono, dei registri

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contenenti gli atti di matrimonio è leggermente peggiore di quelli relativi agli atti di nascita. Questa condizione ha reso impossibile raccogliere i dati per quattro anni (1871, 1872, 1886 e 1905); tuttavia si ritiene di poter affermare in tutta tranquillità che, vista l’ampiezza dell’arco cronologico preso in considerazione, queste lacune possono considerarsi riassorbite nell’analisi del trend generale, senza incidere quindi sui risultati ottenuti. Il primo step è consistito nell’analizzare la variazione dei matrimoni per anno lungo tutto il periodo considerato, sia per cogliere l’evoluzione di questo comportamento, sia per metterne in evidenza possibili punti di discontinuità. La lettura di questi dati è stata infatti portata avanti cercando di tenere conto di quegli avvenimenti e di quelle problematiche che, tanto a livello locale che a quello nazionale o internazionale, possono avere avuto degli effetti sulle scelte compiute dagli individui residenti ad Alvito. In particolare, bisogna considerare le diverse fasi attraversate dalla produzione agricola, la quale conosce un periodo di crescita e di aumento dei prezzi fino alla fine degli anni ’70 dell’Ottocento circa, a cui fanno seguito la crisi tra il 1885 e il 1890, e la successiva congiuntura favorevole almeno fino al 1911 (Orlando, 1991). La Prima Guerra Mondiale e, successivamente, le restrizioni poste all’accesso degli immigrati stranieri negli Stati Uniti (1921-1924), sono eventi di fondo che non è possibile ignorare. Così come il 1929 può rappresentare un momento di cesura forte, non solo per la crisi finanziaria internazionale, ma anche perché nel Lazio si comincia ad avvertire il passaggio «da un’agricoltura “tradizionale” a un’agricoltura più moderna, che si qualifica per un più elevato impiego di capitali» (Guerrieri, 1991, p. 627). Situazione alla quale si accompa-

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gna, come già ricordato, un consolidamento degli spostamenti migratori interni a carattere definitivo, che bisogna ugualmente tenere presente (Golini, 1974; Treves, 1976). A livello locale un condizionamento sono in grado di produrlo anche le condizioni “ambientali”, come, ad esempio, l’alluvione del 1875 che stravolse pesantemente l’assetto colturale di molti comuni del Lazio meridionale e, ancor più, l’epidemia di febbre malarica che coinvolse anche i comuni della Valle di Comino nel biennio 1879-1880. Così come vanno inoltre considerati i riflessi prodotti nell’area di arrivo da tutta una serie di atti legislativi tesi ad intaccare, almeno nominalmente, la grande proprietà terriera assenteista e a conquistare nuovi terreni all’agricoltura per migliorarne la produttività, soprattutto attraverso lavori di bonifica. Tuttavia, sebbene inizialmente leggi come quelle relative all’abolizione del maggiorasco (20/06/1871) e all’indemaniazione dei beni religiosi (19/06/1873), e i primi provvedimenti per la bonifica dei terreni più paludosi nelle zone di Ostia, Isola Sacra, Maccarese e Valle dell’Almone (legge 11/12/1878), incidano sull’estensione del latifondo e sull’aumento dei flussi dei lavoratori stagionali (Cencelli, 1918; Celli, 1927), la frequenza con cui i vari proprietari disattendono a tutti i vari obblighi fissati per loro dalle leggi successive (Celli, 1927; Tommassetti, 1979) sembrerebbe non permettere di individuare svolte significative nella gestione di questo territorio, almeno fino all’avvio delle bonifiche messe in atto dal regime fascista (Gaspari, 2001). In realtà, innovazioni determinanti saranno introdotte da un “contadino” di Alvito poco prima dello scoppio della Grande Guerra, innescando quel processo di trasformazione che produrrà effetti evidenti negli anni a venire.

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Graf. 2.5 - Variazione nel numero dei “matrimoni contadini” tra il 1869 e il 1935 nel Comune di Alvito. Fonte: Elaborazione su Registri di Stato Civile del Comune di Alvito

Graf. 2.6 - Totale dei “matrimoni contadini” contratti nel periodo 1868-1935 per mese di celebrazione e incidenza percentuale sul totale dei matrimoni. Fonte: Elaborazione su Registri di Stato Civile del Comune di Alvito

2.4.1 LA VARIAZIONE NEL NUMERO DEI MATRIMONI Alla luce di quanto sopra esposto, si è ritenuto opportuno evidenziare cinque fasi nella lettura della variazione dei matrimoni contadini52 (graf. 2.5):

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a) un’iniziale ipotizzabile fase di crescita (18691873), che necessita riscontri sia per l’assenza dei dati relativi agli anni 1871 e 1872, sia per un confronto più ampio da operare con il periodo precedente. Tuttavia, sembra corretto avanzare questa ipotesi, soprattutto pensando all’analogo comportamento evidenziabile a partire dai dati desunti dagli atti di nascita, sulla cui base si pensa di poter collocare l’avvio di una fase di spostamenti stagionali intensi proprio tra il 1873 e il 1874. Lo iato con la fase successiva è definito proprio dal calo dei matrimoni in corrispondenza soprattutto dell’epidemia di febbre malarica del 1879-1880; b) un periodo di stabilità o di crescita contenuta fino al 1898, nonostante in questo ventennio la popolazione di Alvito aumenti sensibilmente; c) una fase di crescita netta (1898-1911), dove probabilmente possono essere colti gli effetti di trascinamento dell’aumento di popolazione concentratosi nei 25 anni precedenti, ma che va anche evidenziata per la sua coincidenza con un periodo di «intenso sviluppo sia dell’intera economia regionale sia dell’agricoltura» (Orlando, 1991, p. 101); d) un calo (1911-1923) inizialmente imputabile al termine della fase di espansione economica e poi enormemente amplificato dalla partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra Mondiale; il vertiginoso recupero segnato poi tra il 1919 e il 1920 con un altrettanto rapido ritorno ai livelli pre -1900 nel 1925; e) un’incipiente tendenza al calo dei matrimoni che, nonostante il picco registrato nel 1927, sembra essere il trend caratteristico dell’ultima fase, in cui la netta diminuzione del 1935 sembra rappresentare il naturale epilogo53. Alla lettura di questa variabilità di lungo periodo, si affianca l’analisi del numero dei matrimoni aggregati per mese di celebrazione. Inizialmente sono stati considerati complessivamente i matrimoni celebrati in cia-

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scun mese, lungo l’intero arco di tempo oggetto di studio. In questo modo, è stato così possibile mettere in risalto l’andamento generale del fenomeno, con l’obiettivo di riconoscere i mesi in cui probabilmente si concentravano le partenze. Allo stesso tempo, sono state così riassorbite le oscillazioni che queste partenze potevano avere, cioè anticipate o ritardate, seguendo quelle che erano le occasionali variazioni al naturale succedersi delle stagioni. I mesi in cui si concentravano le partenze sembrano così essere maggio ed ottobre (graf. 2.6), mentre i ritorni sono distribuiti tra agosto e settembre e tra dicembre e febbraio. Giugno e luglio erano infatti i mesi dedicati rispettivamente alla raccolta del fieno e alla mietitura del grano (coerentemente con il regime di rotazione delle colture adottato nelle tenute della Campagna Romana), mentre tra ottobre e dicembre si procedeva alla semina, alla preparazione dei terreni per le semine primaverili e alla vendemmia. Naturalmente l’immagine restituita dalla distribuzione di questo dato non è la fotografia di una realtà immobile, per questo occorre ad esempio cercare di spiegare il basso numero di matrimoni che si hanno a marzo, come se si trattasse di un altro momento di partenza. Probabilmente allora l’idea di cicli successivi che partono quasi a scaglioni durante il corso dell’anno, seppure in concomitanza di scadenze piuttosto precise, è quella più aderente alla realtà di questi movimenti. Riflettendo inoltre sulla distanza da coprire e sulle difficoltà che gli alvitani dovevano sopportare per giungere a Roma54, è lecito pensare che gli spostamenti di medio-lungo periodo avessero un certo peso (MAIC, 1907). Se infatti si considera una permanenza più lunga, tra i cinque e i sette mesi, allora le partenze di maggio - giugno - luglio possono esser fatte coincidere con i ritorni dei mesi di dicembre - gennaio - febbraio, quelle di marzo con la crescita dei matrimoni in settembre, quelle di ottobre con il picco presente invece ad aprile.

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La grande concentrazione di matrimoni tra agosto e settembre potrebbe così essere data dal sovrapporsi dei ritorni di coloro partiti all’inizio della primavera e quelli invece partiti poco prima dell’estate55. Questo studio della periodicità è stato condotto poi anche per ognuna delle cinque fasi inizialmente descritte, e sulla cadenza dei matrimoni in due di queste vale la pena spendere qualche parola. Si è già detto come gli anni tra il 1898 e il 1911 rappresentano una stagione particolarmente felice per l’economia agricola nel Lazio56, il che quindi deve aver costituito un impulso alle migrazioni circolari con la Campagna Romana. Ed effettivamente, pur in uno schema che ricalca sostanzialmente quello generale (graf. 2.7), sembra di poter scorgere una sorta di “radicalizzazione” del fenomeno, con differenze più sensibili tra i mesi con una maggior concentrazione di celebrazioni e quelli con una presenza inferiore. Questo quadro potrebbe quindi indurre a pensare ad una più forte spinta all’esodo soprattutto tra la primavera e l’estate. Tale situazione può derivare da una maggiore richiesta di manodopera nelle settimane estive della falciatura e della mietitura e, allo stesso tempo, dalla possibilità di prolungare la propria permanenza nelle tenute per un numero di braccianti superiore agli altri periodi (da cui dipenderebbe perciò la assai scarsa diminuzione di matrimoni in ottobre). Si è detto, inoltre, come nel decennio che va dal 1926 al 1935 ci si debba confrontare con una diminuzione d’intensità di questi spostamenti stagionali; un ridimensionamento del fenomeno che sembrerebbe così tradursi in un addolcimento della curva relativa alla concentrazione mensile dei matrimoni in questo periodo, con uno schema che sembra discostarsi da quello generale e delle fasi precedenti, imputabile essenzialmente ad una tendenza al livellamento delle differenze e a concentrazioni “anomale” come quelle dei mesi di maggio e ottobre.

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Graf. 2.7 - Matrimoni contadini. Periodicità mensile delle celebrazioni nel periodo 1899-1911. Fonte: Elaborazione su Registri di Stato Civile del Comune di Alvito

2.5 LE STATISTICHE UFFICIALI Quest’ultimo periodo è però anche l’unico intervallo di tempo per il quale esistono delle statistiche basate su rilevazioni sistematiche delle migrazioni periodiche e stagionali interne, quelle cioè prodotte dal Comitato - poi Commissariato - per le migrazioni interne a partire dal 192757. Il quadro che ne emerge è confortante perché suffraga alcune delle ipotesi finora avanzate, oltre a ribadire la validità di alcuni presupposti di questa ricerca. Innanzitutto, il ruolo di protagonista assegnato ad Alvito, e per estensione alla Valle di Comino, nella storia di questi movimenti circolari verso e da la Campagna Romana. Alvito, infatti, per ben 4 anni (dal 1929 al 1932) è l’unico comune della provincia di Frosinone58 a far registrare oltre 500 emigrati l’anno (tutti per lavori agricoli, e in maggioranza uomini, tab. 2.2), e l’unico comune della stessa provincia ad affiancarlo in questa par-

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ticolare graduatoria è San Donato Val di Comino, nel 1930 con 582 emigranti (Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna, 1931). Altrettanto chiaramente emerge lo stretto rapporto che lega queste zone con la Campagna Romana (nella sua interpretazione più ampia, perché accanto a Roma, comuni come Monterotondo, Frascati, Albano Laziale, Nettuno sono estremamente ricettivi)59, dal momento che nel 1928 addirittura il 93% degli emigrati era partito con destinazione la provincia di Roma (Comitato per le migrazioni interne, 1929). L’unica immagine non aderente con una delle interpretazioni avanzate, quella relativa ad una presenza più stabile nelle tenute in questo periodo, è data dalla durata dei rapporti di lavoro. Questi “contratti”, peraltro sempre più frutto del contatto diretto con i proprietari, con la figura dell’intermediario, del caporale, che, quindi, perde importanza60, continuano ad avere una durata piuttosto limitata, la maggior parte al di sotto dei 30 giorni. L’ipotesi fatta, quindi, sebbene non sia adattabile agli emigrati dalla provincia di Frosinone, appare comunque in grado di spiegare fenomeni come quelli registrati in questo periodo, dal momento invece che la durata dei contratti di lavoro di tutti gli immigrati nella provincia di Roma, effettivamente, cresce in questo arco di tempo, con un aumento sensibile addirittura della voce “permanente”, che prefigura quindi un insediamento stabile nell’area. 2.5.1 IL RUOLO DELLA DONNA I flussi stagionali di manodopera presentano tipicamente una sensibile caratterizzazione di genere, denotata, come già accennato, da una maggiore partecipazione di individui maschi agli spostamenti verso e da il luogo di lavoro e da una tendenza delle donne a rimanere nel territorio dal quale si generano gli spostamenti. L’alto

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tasso di mascolinità delle partenze determina spesso una femminilizzazione, più o meno marcata, della comunità di origine (Corti, 2001; Ramella, 2001). Tale elemento emerge anche per la comunità di Alvito, in maniera discontinua nell’ambito delle informazioni desumibili dalla statistica ufficiale (tab. 2.2) e in maniera sistematica dall’analisi dei Registri di Stato Civile. Dallo studio infatti dei dati relativi alle nascite nel comune di Alvito, illustrato nei paragrafi successivi, la connotazione al maschile di questi flussi migratori emerge chiaramente per l’altissima incidenza di padri assenti per lavoro e impossibilitati per questa ragione a registrare personalmente la venuta al mondo dei propri figli. Tab. 2.2 - Emigrati per lavori agricoli stagionali dal comune di Alvito per genere (1928 1932)

Fonte: Comitato per le migrazioni interne, 1929ss

Il minor coinvolgimento delle donne nelle migrazioni circolari non sembra dipendere dalla struttura dell’offerta di lavoro, dal momento che i lavoratori provenienti da Alvito non si distinguono per una particolare specializzazione e/o professionalità, ma sono in assoluta prevalenza contadini e braccianti, esattamente come le donne che restano. È invece assai probabile che queste differenze discendano non solo dal diverso peso specifico che la figura dell’uomo e della donna aveva nell’ambito familiare tipico della società tradizionale, ma siano anche una conseguenza delle caratteristiche agro-colturali delle zone collinari o di alta pianura del sud Italia: la ridotta estensione e l’eccessivo frazionamento della proprietà

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contadina, l’insediamento tendenzialmente sparso della popolazione rurale, la diffusione della colonia parziaria. Così come la struttura del sistema agrario della Campagna Romana, basato fondamentalmente sulla cerealicoltura estensiva e sullo sfruttamento di manodopera stagionale, comportava una ridotta partecipazione femminile al lavoro agricolo. Un contesto socioeconomico definitosi in seno alla comunità alvitana, quindi, in cui le donne per far fronte all’assenza degli uomini, oltre ad occuparsi della famiglia, dovevano svolgere numerose attività rurali: lavori nei campi, la raccolta della legna, l’allevamento e la custodia del bestiame da cortile (Cedrone, 2004). Lavori pesanti, che spesso nuocevano alla salute delle contadine, per la cui condizione emergono preoccupazioni nelle relazioni di alcuni medici locali che lamentavano i carichi di lavoro eccessivi che le donne dovevano sopportare (Panizza, 1890). La temporanea lontananza degli uomini, oltre a produrre effetti sulla struttura demografica e del mercato del lavoro agricolo, in certi periodi dell’anno caratterizzato quindi dalla sensibile presenza di donne, anziani e bambini, influiva così anche sulla salute della popolazione. Occorre infatti anche sottolineare che lavorando spesso gli uomini in zone malsane della Campagna Romana, dove era facile contrarre la malaria, al loro ritorno questi contadini contribuivano alla diffusione di tale malattia nei loro paesi, con il conseguente manifestarsi di epidemie malariche, molto frequenti nell’Ottocento in tutto il circondario di Sora. Tuttavia in questa situazione, che inevitabilmente comportava nuove e maggiori assunzioni di responsabilità da parte di mogli e madri, si possono anche scorgere i prodromi della modificazione del loro ruolo, poiché finirono per essere incluse in processi e dinamiche in cui difficilmente donne della stessa epoca, inserite in diversi ambiti sociali e territoriali, potevano sperare di essere coinvolte.

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Comunque, come stanno a testimoniare le numerose nascite nelle tenute intorno a Roma, alcune donne di Alvito furono anche protagoniste di questi spostamenti verso la Campagna Romana, dove però, con ogni probabilità, la partecipazione femminile al lavoro agricolo era più discontinua e limitata a determinate mansioni, come le operazioni di raccolta, e a determinati periodi dell’anno. Un coinvolgimento d’altronde inevitabile, dal momento che la presenza della donna è spesso legata al reclutamento da parte del fattore di un’intera famiglia di operai, che non poteva certo tradursi solamente in un aumento delle bocche da sfamare. Alla figura di moglie, madre e operaia, allora, nel corso dell’anno si potevano presumibilmente aggiungere altre “qualifiche” e mansioni (balie e/o domestiche a servizio dei proprietari delle tenute, preparazione dei pasti per gli altri lavoratori, etc.). Certamente, comunque, il ruolo della donna in seno ai movimenti stagionali oggetto di questo studio è tra i temi che necessitano un ulteriore approfondimento, sia per quel che riguarda l’analisi della consistenza dell’elemento femminile negli spostamenti, sia per quanto attiene gli specifici compiti assunti tanto nell’area di origine che di destinazione funzionali al mantenimento di differenti strutture socioeconomiche tra loro connesse (Palagiano et al., 2004b). 2.6 I REGISTRI DEGLI ATTI DI NASCITA Nelle pagine precedenti si è inteso fornire un ragguaglio articolato dello schema interpretativo e del tipo di approccio con cui ci si è avvicinati allo studio dei dati contenuti nei registri di stato civile. La lettura degli atti di matrimonio ha permesso allora di ricostruire una prima immagine della periodicità mensile e di lungo periodo di queste migrazioni stagionali.

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Tali premesse metodologiche e interpretative restano valide anche per l’elaborazione delle informazioni contenute negli oltre 11.000 atti di nascita consultati, considerati una testimonianza più esplicita del peso di questi spostamenti periodici nel condizionare gli stili di vita degli abitanti di Alvito. Entro pochi giorni dalla nascita del proprio figlio, infatti, uno dei due genitori, in presenza di due testimoni, era tenuto a registrare all’anagrafe del comune di residenza il nuovo nato. Questo compito spettava al padre, tranne nei casi in cui questi non avesse potuto provvedere di persona, il che poteva accadere per le seguenti ragioni: a) il bambino era stato abbandonato, nel qual caso la registrazione spettava alla persona che aveva ritrovato il piccolo; b) il bambino era nato fuori dal matrimonio e il padre naturale si era rifiutato di riconoscerlo; era quindi compito della ragazza madre presentarsi al comune61; c) il padre era ammalato al momento della nascita, oppure morto durante la gestazione; d) il padre era in carcere, oppure assente perché sotto le armi; e) il padre era assente per lavoro. In ciascuno degli ultimi tre casi provvedeva allora la levatrice - raramente comunque la madre - alla dichiarazione dell’avvenuta nascita. Poiché a corredo di questi atti compaiono oltre ai dati anagrafici anche quelli relativi alle condizioni professionali dei genitori, è dunque possibile risalire con un buon margine di approssimazione all’assenza di alcune categorie di padri in determinati periodi dell’anno. Inizialmente, si è voluta valutare la consistenza del campione in esame e rendere conto della sua variabilità all’interno del lungo periodo considerato. I figli con genitori contadini sono assai più numerosi rispetto ai figli di altre figure professionali, e questo non tanto per una

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maggiore spiccata prolificità (sarti, falegnami e insegnanti sono altrettanto fecondi), quanto per la netta connotazione rurale della comunità alvitana. Comunque, le oscillazioni della curva dei non contadini sono assai più contenute rispetto a quella dei figli di contadini. Dal 1874 in poi si registra una crescita piuttosto costante, che porta il fenomeno ad attestarsi intorno ai 150 nati per anno, toccando il proprio apice nel 1920 a seguito dell’esplosione demografica coincidente con la fine della Prima Guerra Mondiale, per poi intraprendere una lenta ma quasi costante caduta che riporterà, negli anni Trenta, le nascite sui livelli dei primi anni ’70 dell’Ottocento. Alcune drastiche diminuzioni nel numero dei nati sono comunque evidenti: quella del 1881 è con buona probabilità imputabile all’epidemia di febbre malarica del biennio precedente (1879-1880), mentre quella del 1902 può essere messa in relazione con l’incremento che registra l’emigrazione verso l’estero negli anni immediatamente precedenti (graff. 2.3, 2.4). Sui cali successivi hanno inoltre inciso anche gli eventi bellici, i cui effetti potrebbero essersi sommati al deflusso verso l’estero nel 1911, in corrispondenza della guerra alla Libia, ed hanno poi avuto un impatto assai più rilevante per gli anni del primo conflitto mondiale. Questi dati servono però, soprattutto, per avere un elemento di paragone nel momento in cui si prende in considerazione l’andamento della percentuale dei padri contadini assenti al momento della nascita dei propri figli (graf. 2.8). In questa maniera si può vedere se le variazioni riscontrate siano imputabili a particolari oscillazioni della curva dei nati oppure vadano interpretate indipendentemente. Si può notare, così, come il contingente dei padri assenti conosca un progressivo aumento, dopo un inizio altalenante, che probabilmente risente dei problemi già descritti che attanagliano l’economia italiana,

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in particolare quella agricola, tra la fine degli anni ’70 e il 1890. Dai primi anni Novanta del XIX secolo, invece, l’aumento è certamente costante, e gli unici cali sono esattamente in coincidenza con gli anni in cui si registrano le diminuzioni delle nascite più sensibili. Si ha quindi un duplice, evidente segnale di un momento di difficoltà nella vita di queste comunità, perché al calo delle nascite corrisponde una minore propensione ad allontanarsi, a volte anche al di là dei momenti in cui gli uomini sono lontani per eventi bellici. Non è detto che ci sia una relazione diretta tra questi due fenomeni, anche se in genere la diminuzione degli emigranti anticipa un po’ il calo delle nascite, che peraltro tendono a ricrescere solo dopo che i padri tornano a migrare verso le tenute romane. È quindi la minore disponibilità di reddito che induce a limitare i comportamenti riproduttivi, oppure la scelta di migrare è conseguenza di un aumento dei bisogni dovuti alla prossima nascita di un figlio? Probabilmente affidarsi meccanicamente ad una sola di queste due ipotesi alla ricerca di un’interpretazione univoca del nesso esistente - ammesso che esista - tra le variazioni di questi due fenomeni sarebbe estremamente riduttivo rispetto alla complessità del contesto in cui matura la decisione di migrare, seppure stagionalmente. Queste sono considerazioni che andranno allora tenute presenti nel caso in cui si decidesse di studiare in maggiore dettaglio le singole variazioni. Per il momento qui interessa rilevare il trend generale, che è quello appunto di una crescita di partenze fino agli anni immediatamente a ridosso del primo conflitto mondiale, all’indomani del quale invece c’è la conferma del diradarsi di questi spostamenti, che pure si mantengono a livelli superiori della fase iniziale. Considerando il momento della nascita, è possibile portare avanti lo studio della stagionalità degli spostamenti circolari da un duplice punto di osservazione. Da un lato, infatti, è possibile continuare a quantifica-

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re la variazione dei padri assenti mese per mese, dall’altro lato, però, si può risalire anche al periodo in cui, grosso modo, è avvenuto il concepimento, e mettere così a confronto le due immagini che se ne ricavano. I mesi con una maggiore concentrazione di partenze saranno cioè quelli in cui, contemporaneamente, si registra un alto numero di padri assenti per lavoro e un basso numero di concepimenti. Meno evidente appare invece la possibilità di identificare il momento del rientro, proprio perché questi, rispetto alle partenze, sembrano più scaglionati e quindi con una tendenza a distribuirsi su un arco di tempo leggermente più ampio. Il dato che emerge va così a confermare quanto già evidenziato con i matrimoni: le partenze sono infatti concentrate tra aprile e maggio e tra ottobre e novembre, con i ritorni che invece tendono a “spalmarsi” su un periodo compreso tra luglio e settembre e tra dicembre e febbraio (graf. 2.9).

Graf. 2.8 - Percentuale dei nati con padri assenti sul totale dei bambini nati per anno (1868-1936) nel comune di Alvito. Fonte: Registri di Stato Civile del Comune di Alvito

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Graf. 2.9 - Media percentuale del numero dei nati con padri assenti per mese sul totale dei nati con padri assenti in un anno (1868 - 1936) nel comune di Alvito. Fonte: Registri di Stato Civile del Comune di Alvito

2.7 CONCLUSIONI Lo studio dei registri di stato civile del comune di Alvito consente di confermare la presenza stabile dei residenti di questo centro della Valle di Comino nei circuiti delle migrazioni circolari, che avevano il loro fulcro nelle tenute della Campagna Romana. Contadini, braccianti e campagnoli di questa area della Terra di Lavoro avevano quindi un legame forte con il territorio intorno a Roma, un legame che tende a rafforzarsi all’indomani della definitiva annessione della nuova capitale al neonato Stato italiano. Se in precedenza, infatti, l’esistenza dello Stato Pontificio non aveva certamente impedito i contatti tra queste zone, appare tuttavia evidente come la fase di espansione che l’agricoltura romana conosce a partire dal 1870 - passando tutto sommato indenne alle crisi della fine del XIX secolo - produca un forte e ulteriore stimolo all’offerta di lavoro per la manodopera agricola d’immigrazione. Una crescita che tende ad esaurirsi e ad invertire la pro-

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pria tendenza solo intorno alla metà degli anni Venti del Novecento, sebbene Alvito conservi segnali evidenti del persistere di questa abitudine agli spostamenti stagionali fino ai successivi anni Trenta. L’uso dei registri di stato civile permette inoltre di documentare ulteriormente, circostanziando informazioni pure presenti nella letteratura coeva, la cadenza con cui questi spostamenti avevano luogo. Emergono inoltre i riflessi che questi comportamenti migratori avevano sulle comunità di partenza, per effetto della prevalente mascolinità di questi flussi, il che si traduce in una temporanea quanto periodica femminilizzazione della società di partenza (Lucato, 1995), ma anche per il condizionamento sui comportamenti riproduttivi e sui matrimoni. Tuttavia si è consapevoli che, in ogni caso, i registri consultati sono in grado di fornirci informazioni su delle fasce ben precise della popolazione. «In particolare, tutti coloro che non contraggono matrimonio o che non mettono al mondo dei figli non sono compresi nella rilevazione. È pur vero che, in genere, protagonista dei movimenti migratori è proprio quella quota di popolazione più giovane e intraprendente che verosimilmente corrisponde anche al profilo di coloro che all’epoca decidevano di contrarre matrimonio e generare figli, ma oggettivamente, soprattutto gli individui appartenenti ad alcune classi di età rischiano di risultare penalizzati da una analisi che non si proponga di andare oltre i dati presenti nei Registri di Stato Civile» (Palagiano et al., 2004b). Gli alvitani furono, in ogni caso, protagonisti che alimentarono la presenza “ciociara” nella campagna, e, soprattutto, una presenza non confutabile alla luce di quanto documentato. Esistono allora le premesse per andare alla ricerca di tali personaggi in territorio romano, identificando e portando così alla ribalta, tra i tanti gruppi che pure erano impiegati nella Campagna Romana, anche questo elemento.

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Una ricerca fruttuosa, poiché tra i protagonisti di queste vicende migratorie emergono anche i cosiddetti mercanti di campagna, affittuari cioè dei grandi proprietari terrieri, la cui azione assume progressivamente una rilevanza notevole nella conduzione di queste aziende e, più in generale, nell’economia dell’area. Un’azione che porta con sé gli elementi per un cambiamento sensibile, nel medio periodo, dei caratteri non solo formali del territorio.

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3. ALVITANI E “CIOCIARI” NELLA CAMPAGNA ROMANA 3.1 L’USO DI ALTRE FONTI ACCANTO AI REGISTRI DI STATO CIVILE Riconoscere nel vasto territorio di Roma le tracce dei diversi gruppi di contadini, braccianti, operai agricoli, reclutati dagli intermediari per conto degli affittuari dei terreni (Sinisi, 1993), è operazione alquanto complessa62. Sebbene infatti esistessero dei luoghi di raccolta consuetudinari - per effetto anche della forte tendenza a rimanere (o ad essere lasciati) in disparte (Nenci, 1991) - come Piazza Montanara (Metalli, 1923) o, come si vedrà, Piazza Farnese, in realtà le differenze di provenienza tendevano a mescolarsi, dando l’impressione di annullarsi (Santulli, 2002), eccezion fatta forse per la specializzazione professionale (Corsini, 1993). Le testimonianze e le descrizioni più accurate sulla presenza di questi lavoratori avventizi sono tradizionalmente il frutto dell’interesse artistico e filantropico che essi suscitano in un cospicuo gruppo di eruditi e intellettuali a partire dalla fine del XIX secolo (De Rosa e Trastulli, 2002). Tali evidenze però raramente si prestano a ricostruzioni di dettaglio, tese a recuperare la presenza degli appartenenti ad una singola comunità, sia questa il singolo centro, come nel caso di Alvito, sia essa una più ampia entità regionale. Per questa serie di considerazioni, pur non potendo prescindere dall’offrire un saggio della documentazione finora più usata per testimoniare presenza e stili di vita degli immigrati stagionali, tuttavia, buona parte di questo capitolo è dedicata allo studio delle informazioni che si evincono dai registri di stato civile e dalle conseguenti indagini biografiche.

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3.2 GLI IMMIGRATI STAGIONALI A ROMA Le fonti statistiche ufficiali, per il loro livello di aggregazione dei dati, non consentono di distinguere le diverse zone in cui si riversavano i flussi di immigrati all’interno del vastissimo territorio del Comune di Roma. Anzi nelle prime rilevazioni, quelle dell’Ufficio del Lavoro, i dati relativi al Comune di Roma sono affatto assenti, per cui in prima battuta si può solamente sapere che nell’intera provincia di Roma arrivano 92.853 persone nel 1905 (M.A.I.C., 1907, p. 26) e poco più di 60.000 nel 1910 (M.A.I.C., 1914b); e sebbene comuni come Albano Laziale, Civitavecchia, Frascati, Marino, Monterotondo, Nettuno, Zagarolo assorbano anch’essi quote di questa manodopera stagionale, la maggior parte di questi lavoratori si concentrava proprio nel territorio della Capitale. I numeri forniti dal Comitato permanente per le migrazioni interne hanno certamente un livello di dettaglio maggiore riguardo la registrazione degli ingressi nel solo Comune di Roma, per la fine degli anni Venti e buona parte degli anni Trenta. In questo modo, ci si può rendere conto del forte calo che gli immigrati avevano avuto in questi 18 anni, dal momento che nel 1928 giunsero a Roma “solamente” 27.336 lavoratori stagionali (M.A.I.C., 1929). Un calo costante, che investe tanto i lavoratori agricoli che quelli industriali, che toccherà il suo minimo nel 1935, quando giungono nella Capitale poco meno di 8.000 lavoratori (86% dei quali sono ancora comunque impiegati nei lavori agricoli stagionali, M.A.I.C, 1936). Oltre però alla discontinuità cronologica con cui queste informazioni sono disponibili, e ferma restando l’esigenza di coprire lo iato esistente tra il 1910 e il 1928, rimane comunque sempre il problema dell’impossibilità di addivenire ad una qualche misura della distribuzione degli immigrati all’interno del Comune capitolino.

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Le rilevazioni censuarie, in parte, consentono di ovviare a queste lacune, sia perché, seppure a intervalli decennali (o ventennali, considerato il censimento non effettuato nel 1891), viene però coperto l’intero arco cronologico d’interesse e sia perché, internamente al comune di Roma, i dati presentano un primo livello di disaggregazione. I problemi permangono perché «l’Agro Romano [il cui limite coincide con quello del Comune di Roma], fino al 1948, non ha avuto una suddivisione territoriale comunale permanente. Di conseguenza, fino a quella data, si hanno soltanto le suddivisioni adottate di volta in volta in occasione dei Censimenti» (Comune di Roma, 1960, p. 20); però, si può ben distinguere il numero di coloro che al momento della rilevazione abitavano stabilmente in città e gli individui che, invece, erano temporaneamente presenti nelle campagne. Nella porzione di territorio non ancora densamente urbanizzata viene inoltre distinta la fascia immediatamente a ridosso del tessuto urbano (il “suburbio”) dalle aree non urbanizzate più distanti (“l’Agro”). Guardando la tabella 3.1, non solo, quindi, ci si può rendere conto della crescita demografica ed edilizia della Capitale prima a scapito del suburbio e poi, con la costruzione delle borgate, erodendo anche parte del territorio dell’Agro; non solo si può notare come una quota non irrilevante della popolazione residente vivesse in quegli anni in abitazioni temporanee. Ma si può arrivare anche ad una prima misura di quanta popolazione fosse temporaneamente presente nell’Agro (graf. 3.1), sottraendo secondo la prassi già adottata il numero della popolazione presente da quello della popolazione residente. In questo “compartimento”, la popolazione residente è in numero sempre inferiore al totale della popolazione presente, la quale inoltre vive per la maggior parte in abitazioni temporanee, a conferma di quanto già detto più volte.

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Ma l’obiettivo era e resta quello di cogliere in maniera maggiormente articolata la presenza o meno nelle varie tenute dei lavoratori stagionali. Un passo deciso in questa direzione può essere fatto rivolgendo l’attenzione a quell’azione di monitoraggio e assistenza sanitaria che viene portata avanti nelle campagne da uno sparuto gruppo di medici dall’inizio del Novecento. Tab. 3.1 - Popolazione alla data dei censimenti per grandi suddivisioni territoriali nel Comune di Roma secondo il carattere della dimora

Fonte: Comune di Roma, 1960

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Effettivamente il forte impatto che la massa di lavoratori aveva nel territorio è leggibile anche attraverso l’impressione che le loro condizioni di vita e di lavoro suscitano nei notabili e nelle istituzioni romane e nel moltiplicarsi di iniziative, istituzionalizzate e non, per l’assistenza medica e l’emancipazione di questi gruppi umani, i cui esempi maggiori sono forse l’impegno per l’alfabetizzazione di tali individui e le campagne antimalariche della Croce Rossa. A tale proposito, i resoconti presentati dal dott. Postempski sull’attività di distribuzione del chinino, sia per curare i malati di malaria che a scopo preventivo, sono una fonte utile per giungere a delle prime stime relative alle quote di lavoratori stagionali nelle differenti tenute (Postempski, 1908, 1912, 1919). Naturalmente, i pochi e coraggiosi medici impegnati in queste campagne non riuscivano a raggiungere tutti quanti i lavoratori, non potendo recarsi presso ognuna delle numerose tenute, dal momento che quest’azione era estesa anche alle Paludi Pontine e non solo rivolta agli operai impiegati nella Campagna Romana. I pazienti a cui venivano somministrate le dosi di chinino sono, però, distinti in mobili e stabili, per potere testare così gli effetti della cura da un anno all’altro e valutare quindi l’efficacia della profilassi adottata.

Graf. 3.1 - Popolazione temporaneamente presente nell’Agro Romano. Fonte: Comune di Roma, 1960

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Nelle due campagne del 1907 e del 1911 vengono “chininizzati” rispettivamente 11.522 e 9.709 individui63; basi di queste operazioni erano delle “ambulanze”, distribuite in alcune aree della Campagna, dalle quali si raggiungevano diverse tenute. Il minor numero di chininizzati del 1911 è probabilmente imputabile anche alla scomparsa di uno di questi poli di assistenza, quello di Prima Porta64; per il resto le località in cui questi presidi medici avevano sede erano le stesse, e cioè Casal de’ Pazzi, Torre Nuova, Campo Morto, Pratica di Mare, Maccarese e Boccea (spostata in S. Maria di Galeria nel 1911). Elaborando queste informazioni si può così vedere come il ricorso all’impiego di manodopera stagionale era assai elevato in quasi tutte le tenute, dove molto di frequente gli immigrati erano quindi la maggioranza del personale addetto (graf. 3.2).

Graf. 3.2 - Tenute della Campagna Romana per percentuale di lavoratori stagionali impiegati nel 1911 (periodo giugno-novembre). Fonte: Postempski, 1912

3.3 FIGLI DI ALVITO NELLA CAMPAGNA ROMANA Gli interventi nati dall’esigenza di assicurare una assistenza sanitaria minima ai lavoratori delle campa-

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gne si legano strettamente anche con la genesi di alcuni dei dati contenuti nei registri di stato civile. È già stato messo in rilievo come i registri contenenti gli atti di nascita siano composti, a partire dal 1875, da due parti, la seconda delle quali riservata all’iscrizione dei bambini nati da genitori residenti ad Alvito, ma assenti da questo comune al momento della nascita del proprio figlio. I comuni, e più tardi anche gli Stati stranieri, nel cui territorio il bambino era venuto alla luce, provvedevano allora a trasmettere al Comune di Alvito copia dell’atto di nascita che veniva così debitamente trascritto nei registri. Nonostante l’apparato burocratico del nuovo Stato fosse agli inizi e stante le difficoltà di comunicazione esistenti65, le trasmissioni in genere avvenivano nel giro di pochi mesi. Questa relativa puntualità nella registrazione delle nascite è dovuta proprio all’esistenza delle diverse stazioni sanitarie nella Campagna Romana. Questi “centri di assistenza” vennero aperti dall’Ufficio di Igiene del Comune di Roma a partire dal giugno del 1874 - e forse non a caso i primi atti di nascita in questione sono disponibili dal 1875 - con lo scopo principale di monitorare e curare le diverse affezioni endemiche e croniche cui contadini e coloni di questi territori andavano soggetti (Celli, 1927). Ma, come si è avuto modo di apprendere dalla lettura di tali carte, i medici presenti presso i presidi assai spesso assistevano anche le donne e i bambini al momento del parto, ed era poi lo stesso medico a “compilare” il certificato di nascita, che successivamente il Comune di Roma provvedeva a registrare. In questa maniera hanno quindi preso corpo le testimonianze più dirette della presenza “temporanea” di alvitani nelle diverse tenute della Campagna Romana; infatti, nell’atto di nascita era sempre esplicitamente menzionata la tenuta presso cui i genitori del bambino erano impiegati al momento della sua nascita.

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Questo permette di formulare tutta una serie di considerazioni riguardo la distribuzione e i tempi di diffusione della presenza dei contadini di Alvito nel territorio intorno a Roma. Prima di illustrare le osservazioni che discendono dalla mappatura di questa presenza, corre tuttavia l’obbligo di esporre alcune premesse. Innanzitutto, appare possibile pensare che queste nascite potrebbero essere collegate sì ad una mobilità temporanea, intesa in particolare come il mancato trasferimento definitivo della propria residenza in un altro comune, però con una cadenza diversa da quella stagionale. Il fatto che l’atto in sé certifichi infatti la nascita di un bambino presuppone prima di tutto la presenza, e quindi lo spostamento, di un intero nucleo familiare. È vero infatti che, per coloro che rimanevano nelle campagne un periodo sufficientemente lungo, esisteva la possibilità che concepimento e nascita del bambino potessero essere avvenute nell’arco di un singolo movimento stagionale; ma è anche vero che in alcuni casi nella stessa tenuta è la stessa famiglia ad avere più di un figlio, con una tendenza ad un insediamento che, seppure non assumerà carattere definitivo, mostra però una maggiore stabilità. Tanto è vero che la distribuzione di queste nascite per i diversi mesi dell’anno non rileva una sensibile periodicità come avviene invece per i nati ad Alvito. Allo stesso modo va bensì notato come, accanto a tenute in cui la presenza di alcune famiglie si registra per alcuni anni di seguito, ci siano altre tenute in cui invece questa presenza ha carattere estemporaneo, occasionale. Tali elementi, dunque, debbono essere tutti valutati nell’interpretazione di questa fonte. Fonte che però conserva intatta la sua importanza per la possibilità che offre di localizzare con quasi assoluta certezza66 questi nuclei di alvitani nelle varie tenute. Un aspetto importante per mettere in evidenza le scelte compiute e, in

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prospettiva, per cercare di rilevare se tali nuclei erano in grado di catalizzare l’arrivo di altri lavoratori e, soprattutto, se queste scelte erano coerenti o discordi con quelle messe in atto da altri gruppi. 3.3.1 LA CARTA DELL’AGRO ROMANO DI POMPEO SPINETTI La “Carta dell’Agro Romano in quattro fogli coi confini delle tenute e dei territori comunali limitrofi alla scala 1:75.000”, realizzata dal Cav. Agr. Pompeo Spinetti, è una carta tematica di grande interesse, suddivisa in 4 fogli (“Roma”, “Campomorto”, “Castel Porziano” e “Lunghezza”) e corredata da un elenco delle tenute e dei proprietari (Spinetti, 1914b). L’autore, ispettore del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, produsse una rappresentazione del territorio intorno a Roma (coprendo complessivamente un’area estesa poco più di 60 primi nel senso della longitudine e di 45 primi nel senso della latitudine) assai dettagliata e articolata da un punto di vista amministrativo. Potendo infatti contare su una base georeferenziata (le carte dell’I.G.M.), questi non si limitò a riprodurre, con un’operazione conoscitiva e fiscale che passa attraverso la mappa del secentesco catasto alessandrino e dell’ottocentesco catasto gregoriano, solamente i confini delle tenute. Egli riportò sulla carta anche la circonferenza di 10 km dal Miliarum Aureum del Foro Romano - che segna una delle aree entro cui dovevano essere realizzati i primi provvedimenti di bonifica, secondo alcune leggi varate subito dopo l’Unità - e il limite della zona soggetta a bonificamento agrario, definita dalla legge del 10 novembre 1905, n. 607. Sono stati rappresentati, inoltre, i limiti di Roma secondo il Piano Regolatore del 1909, quelli del Suburbio e della Cinta Daziaria della città, il limite dell’Agro Romano.

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L’immagine che si evince da questo prodotto cartografico è in grado quindi di rendere conto della complessità di questo territorio, dando la possibilità di leggere le trasformazioni avvenute nell’area anche alla luce dell’evidente sovrapposizione di ambiti e provvedimenti amministrativi, non sempre tra loro coerenti. Nella Carta dell’Agro Romano dello Spinetti sono riportati i confini, l’estensione e i proprietari di 473 tenute. In ben 89 di queste tenute (quasi il 20%) nascono bambini da genitori entrambi residenti ad Alvito. Le proprietà in cui si registra, per il periodo considerato, il maggior numero di nascite sono Carano (21), Ostia (12), Ponte Galera (15), Porcareccia (14), Torre del Padiglione (20), Torrimpietra (26) e Tragliata (10). Quasi in ognuna di queste tenute tali nascite tendono a concentrarsi tra il 1875 e il 1906, tranne che per Ponte Galera, dove l’inizio di questa presenza si registra nel 1902 e si protrae fino al 1918. Si deve inoltre sottolineare come, dopo questo iniziale insediamento di carattere principalmente “litoraneo”, si assiste alla formazione di nuclei di un certo peso anche in tenute poste ad est e, in particolare, a nord di Roma, come quelle di Prima Porta, del Procojo Nuovo e del Procojo Vecchio. In assoluto, comunque, nel primo periodo lo spostamento di questi nuclei familiari ha una dimensione maggiore, tanto che mediamente si hanno circa dieci nascite l’anno (con un picco di 20 nascite nel 1880 e uno di 18 nel 1891), mentre dal 1906 al 1923 questa media scende a circa 3 bambini l’anno e tra il 1924 e il 1936 nascono complessivamente solo 7 bambini. Un calo che certo è imputabile alla tendenza di lungo periodo descritta, in cui si manifesta una diminuzione delle partenze. Accanto a questa minore presenza nelle tenute però, per quello che si evince dalla lettura di questi documenti, si registra una maggiore disponibilità ad insediarsi sempre più a ri-

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dosso della città. Questo non prefigura la possibilità di un insediamento stabile – si è visto come le abitazioni temporanee fossero assai diffuse anche all’interno e nel suburbio della città (Comune di Roma, 1960) – ma probabilmente la maggiore vicinanza si poteva tramutare in un numero maggiore di opportunità di lavoro. E questa interpretazione nasce dall’osservare che i primi alvitani a stabilirsi in città vi giungono in virtù di una migliore qualificazione professionale (sono impiegati), mentre successivamente anche i contadini diventano protagonisti del processo di inurbamento. In questo contesto, nei Registri si trova anche testimonianza dei legami che la comunità continuava a mantenere lontano dal proprio paese. Il gruppo di alvitani presenti a Roma si va infatti infoltendo ai primi del Novecento e l’abitazione di uno di loro, Pietro Vespasiani, sembra fungere da luogo di incontro. Infatti, è questo personaggio che per alcuni anni interpreta il ruolo del testimone o si reca presso gli uffici del Comune a registrare bambini nati da coppie di Alvito, quasi sempre venuti alla luce presso l’ospedale San Giovanni. Ma la presenza dei contadini di Alvito non si esaurisce solo nelle tenute all’interno del Comune di Roma. Rispecchiando la cadenza dell’arrivo nelle tenute romane, la mobilità delle famiglie contadine di Alvito investe oltre una ventina di altri comuni della provincia di Roma, dove complessivamente si registrano 186 nascite. I paesi nel cui territorio questi nuclei tendono ad avere una presenza più stabile sono Cerveteri (15 nati tra il 1877 e il 1934), Monterotondo (29 nascite tra il 1875 e il 1925) e Riano (ben 49 nati tra il 1881 e il 1915).

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Fig. 3.1 - Localizzazione della Tenuta di Falcognana Vecchia (cfr. cap. 4) sulla Carta dello Spinetti (foglio “Campomorto”)

3.4 MOBILITÀ E CONDIZIONE PROFESSIONALE Come era lecito supporre, gli spostamenti degli individui residenti ad Alvito non sono, quindi, esclusivamente diretti verso le aziende poste nei dintorni di Roma. Tuttavia, il confronto con i movimenti verso le altre località permette innanzitutto di osservare come la componente romana fosse, però, quella assolutamente prevalente. Infatti, su un totale di 612 atti di nascita riguardanti bambini nati in Italia, ma al di fuori del comune di residenza dei genitori, solo 64 sono quelli relativi a figli di coppie trasferitesi in regioni diverse dalla provincia di Roma. Più consistente è senza dubbio la mobilità “temporanea” verso l’estero, in ragione delle 121 nascite registrate tra Europa e Stati Uniti, a partire dal 1894 (il figlio di un insegnante emigrato a Tunisi), quindi con uno scarto sensibile rispetto al momento di inizio della crescita delle migrazioni stagionali67.

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Ma al di là dell’opportunità di ricostruire, anche per questi spostamenti, una carta delle mete raggiunte dagli alvitani, rivolgere lo sguardo a queste migrazioni a lungo raggio o verso l’estero apre lo spiraglio ad un’utile, ulteriore, considerazione. Si è più volte messo in rilievo come alcuni gruppi di immigrati stagionali nella Campagna Romana fossero facilmente riconoscibili in virtù di una loro specializzazione professionale ben precisa (Allegretti, 1987). Caratteristica questa che, invece, non sembra appartenere alla comunità qui in esame, come peraltro emerge anche dalla lettura dei registri, dove i padri assenti sono, nella stragrande maggioranza dei casi, braccianti, contadini o campagnoli e, assai più raramente, artigiani. Una migrazione legata alla competenza professionale che, in nuce, sembra invece possibile scorgere in questi movimenti su distanze maggiori; intanto perché raramente sono contadini coloro che si imbarcano in questo tipo di esperienze. E poi, perché è possibile mettere in evidenza, ad esempio, come gli spostamenti verso le città dell’ex Regno di Napoli fossero compiuti da personaggi con possibilità d’occupazione come impiegati o nelle libere professioni, quali avvocati o ingegneri. Oppure, rimanendo con lo sguardo sui lavori “manuali”, si può notare la presenza di mulattieri tra la Campania meridionale e la Basilicata, l’emigrazione di ebanisti in Francia e di gelatai o musicisti girovaghi in Inghilterra68. L’esame della condizione professionale dei soggetti migranti non è affatto da sottovalutare, perché il quadro complessivo muta coerentemente con l’intensità del fenomeno migratorio. Pur non essendo state elaborate statistiche in merito, infatti, è stato ugualmente possibile rendersi conto di come nei periodi in cui le quote di migranti erano più alte, ad Alvito si registrava un contestuale fiorire o rifiorire di mestieri assenti in altri momenti.

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La cadenza con cui beccai, macellai, falegnami, sarti, calzolai, gioiellieri appaiono o scompaiono dai registri dei matrimoni e delle nascite, in particolare, non sembra infatti dipendere da comportamenti nuziali o riproduttivi peculiari di questi determinati gruppi di persone. In realtà, era l’aumento delle partenze verso Roma a creare le premesse per l’avvio di una fase di maggiore vitalità economica, riflesso certo della situazione congiunturale nazionale, che a livello locale, però, testimonia ancora di più del peso dei proventi dei lavoratori stagionali nel determinare la disponibilità di spesa delle famiglie alvitane. Perciò, nei periodi in cui questo fenomeno tendeva invece a contrarsi o a stagnare, le quote di reddito da destinare all’acquisto di beni, oggi di “largo consumo”, come carne, vestiti o calzature, con ogni probabilità, si assottigliavano sensibilmente, trasformando nuovamente gli artigiani in contadini e campagnoli. Alla base della maggiore specializzazione degli emigrati all’estero potrebbe allora esserci la volontà di non disperdere il capitale rappresentato dal proprio mestiere, tornando al semplice lavoro nelle campagne, durante la fase di relativa depressione. L’assenza di una specializzazione funzionale tra coloro che lavoravano nelle tenute intorno a Roma non condanna, però, gli alvitani a recitare un ruolo marginale nella storia e nella costruzione del paesaggio della Campagna Romana. Alcuni degli individui originari di Alvito utilizzeranno infatti i mutamenti in corso nell’assetto delle proprietà all’indomani del 20 settembre 1870, per inserirsi e svolgere un ruolo da protagonista in questa realtà agricola. La storia di Domenico Lanza è, senza dubbio, come si vedrà nel capitolo successivo, l’emblema dei risultati a cui fu possibile arrivare facendo tesoro della tradizione contadina di Alvito, degli storici legami tra questa terra e Roma e delle enormi possibilità che il terri-

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torio intorno alla Capitale offriva a chi avesse avuto l’intraprendenza e l’arguzia di metterlo intelligentemente a frutto. 3.5 IL DATO ICONOGRAFICO «La dove, per una impossibilità obiettiva o soggettiva, non sia dato ricorrere ad uno spoglio sistematico e integrale delle fonti, una testimonianza “involontaria”, in effetti, e particolarmente una testimonianza letteraria od artistica, quando sia suffragata dalla conferma di altre fonti, può - per la sua capacità di espressione “del tipico” - assumere un carattere di rappresentatività, che resta altrimenti affidata solo alla più scarna probabilità del dato statistico» (Sereni, 1961, p. XXVI). La ricerca di immagini o testimonianze di produzione artistica ha rappresentato dapprima lo stimolo a sfruttare il dato statistico per definire ulteriormente il quadro «tipico» che emerge dalla consultazione di questo materiale e, in seguito, ha fornito un sostegno alle ipotesi avanzate per l’interpretazione di alcuni dati. Questa indagine può definirsi eterodiretta poiché, affinché il giudizio sull’autenticità delle rappresentazioni (intesa come prospettiva dell’autore rispetto al soggetto riprodotto) e sui significati, anche antropologici (Tucci, 2002), di molte di esse non risentisse negativamente di un approccio dilettantesco, ci si è affidati al parere e all’opera di esperti nella selezione delle immagini proposte. Per quello che riguarda in particolare la produzione pittorica, i numerosi cataloghi, e relativi commenti, su mostre che hanno avuto come tema proprio la Campagna Romana rappresentano di per sé una guida piuttosto sicura (De Rosa e Trastulli, 2002; Lanzillotta et al., 2003); a livello locale, con riferimento cioè all’area di origine dei flussi studiati, ci si è affidati invece ai suggeri-

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menti del dott. Michele Santulli, antiquario di Cassino, esperto di “pittura ciociara”. L’approccio verista dei pittori di questo periodo, molti dei quali stranieri, aumenta il carattere di testimonianza che le loro opere possono avere (De Rosa, 2002), tanto più che questa azione di “documentazione” arriva ad assumere quasi forma organizzata e carattere sistematico, come testimoniano, ad esempio, la nascita e l’attività del “Gruppo dei XXV” (Mammucari, 1991)69. Molte delle raffigurazioni vedono come protagonisti gli individui che «hanno vissuto e lavorato nella Campagna Romana fra fine Settecento e primo Novecento» e ad attirare l’attenzione di tali artisti erano spesso proprio quelle attività che spingevano in quest’area «una pluralità di lavoratori stagionali provenienti da diverse aree del Lazio orientale e meridionale, delle Marche, dell’Abruzzo, della Campania, secondo le varie specializzazioni» (Tucci, 2002, pp. 63-64). In effetti diversi sono i dipinti in cui appaiono ritratti questi lavoratori occupati nelle diverse attività tipiche dei differenti periodi dell’anno - come la mietitura, la trebbiatura (fig. 3.2a), la merca del bestiame, la vendemmia - oppure presso le loro capanne. Quadri che non solo colgono gli aspetti più vistosi di queste attività, ma forniscono informazioni anche riguardo i momenti in cui alcune di esse venivano svolte (visto che l’esigenza di documentazione trova a volte sfogo anche nei titoli di queste opere, come ad esempio I lavori di maggio di Moroni del 1889, fig. 3.2b) e le condizioni di vita di questi contadini. La dovizia di particolari contenuti in queste rappresentazioni spinge, tuttavia, anche alla ricerca di dettagli utili all’identificazione di un gruppo in particolare; il terreno in questione è piuttosto insidioso perché, naturalmente, si debbono possedere riferimenti adeguati per quel che riguarda la storia del costume. Un esempio delle difficoltà insite in questo genere di disserta-

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zioni è rappresentato, ad esempio, dal tentativo di fare della “ciocia”, calzatura artigianale contadina, un elemento di distinzione. L’associazione di questo termine al toponimo Ciociaria (Pratelli, 1957) può infatti portare ad identificare, precipitosamente, i contadini che vengono ritratti con indosso questi finimenti con quelli originari di tale regione. Ma tale equazione non è possibile per diversi motivi: in primis, i confini della Ciociaria mutano storicamente (Scotoni, 1977) e spesso vengono “stiracchiati” o ridotti a sostegno di tesi differenti (De Carolis, 1995; Santulli, 2002); inoltre, gli stessi geografi, con Almagià in testa (come autore per l’Enciclopedia Treccani, 1929), hanno contribuito ad estendere molto l’area di diffusione di tale calzatura, affievolendone così il carattere identitario. Esiste, in ogni caso, la possibilità che le “cioce”, unitamente ad altri aspetti tipici del costume ciociaro (che presenta varianti anche da villaggio a villaggio, fig. 3.4a), conservino una funzione indicativa almeno di massima, dal momento che, come si evince proprio dalle pitture, non tutti i contadini indossano queste “scarpe”, per cui una differenziazione comunque esiste. Adottando questo ragionamento, la presenza dei “ciociari” sarebbe dunque testimoniata in alcune opere in cui appunto sono ritratti lavoratori, uomini e donne, che calzano le “cioce” . In questi anni anche la fotografia inizia ad avere una certa diffusione, per cui le stesse attività oggetto dei dipinti descritti iniziano in alcuni casi ad essere immortalate sulle lastre fotografiche, ampliando così la gamma di fonti dalle quali attingere informazioni (fig. 3.3). Informazioni che per quanto precise, però, rimangono ancora appunto di carattere generale, a meno che non si abbia la fortuna di imbattersi nei dipinti segnalati dal dott. Santulli, in cui i soggetti ritratti sono proprio appartenenti alla comunità di Alvito. E questa presenza è significativa non solo perché così esplicita e dichiarata, ma anche perché legata ad attività impor-

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tanti per il tema di questa ricerca. Nella prima delle opere prese in visione sono infatti raffigurate delle donne in pellegrinaggio verso Roma (fig. 3.4b), a ribadire quindi quel legame esistente tra questo centro e l’area romana e a suffragare l’ipotesi che proprio questi pellegrinaggi possano aver rappresentato il circuito originale sul quale poi le migrazioni stagionali vanno a sovrapporsi. a

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Fig. 3.2 - a) Trebbiatura lungo gli acquedotti della Campagna (E. Coleman, 1846-1911) b) I lavori di maggio, 1889 (A. Moroni, 1859-1941) Entrambi i dipinti sono ripresi da De Rosa e Trastulli, 2002

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Fig. 3.3 - Tenuta di Torrenova. Compagnia di lavoratori stagionali sorvegliati dal fattore, 1890. Foto di Giuseppe Primoli (in Cazzola, 2000)

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b

Fig. 3.4 - a) Ciociarella di Alvito (D. Induno, 1815-1878), da Santulli, 2002 b) Donne di Alvito in pellegrinaggio a S. Pietro in Roma (J. Bertrand, 1823-1887), da Santulli, 2002

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Fig. 3.5 - Gente di Alvito in piazza Farnese (L. Bonnat, 1833-1922)

Nel secondo quadro, esposto al Louvre di Parigi, è invece rappresentato un gruppo di alvitani in piazza Farnese, presumibilmente in attesa di essere ingaggiati per qualche lavoro (fig. 3.5): non solo un’ulteriore testimonianza diretta quindi della presenza in città di queste persone, ma anche un possibile indizio di una forte coesione e spirito di aggregazione degli immigrati alla comunità di appartenenza, tanto da fargli eleggere come luogo d’incontro una piazza diversa da quella indicata dalla letteratura coeva per la raccolta dei lavoratori in cerca di occupazione (Metalli, 1923). 3.5.1 SCRITTORI E POETI Ma l’orizzonte artistico della documentazione sulla Campagna Romana non si esaurisce nella produzione pittorica e fotografica. Lo spettro delle fonti può infatti essere esteso anche alla produzione letteraria, a quella narrativa così come a quella poetica (Romagnoli, 1982; Gibellini, 2000), come illustrato dai due esempi che seguono.

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Il primo è riferito alle descrizioni fornite dall’americano William W. Story (Pinto Surdi, 1999), il quale fornisce ragguagli accurati non solo sull’assetto produttivo delle tenute presenti nella Campagna Romana ma anche sulle attività che stagionalmente vi si svolgevano e sui ritmi e gli stili di vita propri degli abitanti, stabili e non, di questi territori: «In aprile, e agli inizi di maggio, i contadini scendono dalle montagne verso Roma per arare e seminare la Campagna. Ma una volta che hanno terminato, il loro compito è finito, e gran parte di essi tornano alle loro case dove rimangono fino a quando si avvicina il tempo della mietitura. […] Si riuniscono generalmente nella Piazza Montanara a Roma, oppure vicino al gasometro, dove vengono assunti dai fattori delle grandi fattorie. Quando il giorno previsto per la mietitura arriva, ai primi bagliori dell’alba si riuniscono in questo luogo formando dei gruppi. […] Durante la mietitura non tornano mai in città, ma lavorano tutto il giorno, dall’alba al tramonto, alzandosi alle tre del mattino e interrompendo il lavoro solo per due ore a mezzogiorno, quando fanno la loro siesta; alle sette fanno colazione; all’una pranzano e dopo dormono due ore sotto gli alberi o in qualunque posto vi sia ombra; alle sette di sera il lavoro termina ed è ora di cena. […] Si può vedere tutta una varietà di costumi, da quelli vivaci dei ciociari napoletani da un lato, a quelli della Maremma toscana dall’altro, dai candidi copricapi e corpetti scarlatti, agli ampi e svolazzanti cappelli di paglia toscani. Uomini, donne e bambini lavorano tutti insieme nei campi, e mentre mietono, seminascosti nel biondo grano, i loro costumi vivaci brillano nel sole creando un effetto molto pittoresco. […] A fianco di molti casali vi è un’enorme masseria in pietra, dove i braccianti dormono di notte; ma se questo tipo di costruzione manca, vicino al luogo di raccolta si montano delle capanne dal tetto di paglia. […] I pove-

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ri, oppure gli sprovveduti, che dormono sulla nuda terra, molto spesso vengono colpiti da febbri e malattie, e molti fanno ritorno a casa pallidi, disfatti e tremanti» (W.W. Story, in Pinto Surdi, 1999, pp. 66-67). Il secondo esempio è invece un sonetto di Cesare Pascarella (1858 – 1940), pubblicato nel 1881, dal titolo “Er morto de campagna”. Fin dal XVI secolo, infatti, producendo le precarie condizioni di vita una mortalità assai alta tra i frequentatori delle campagne, era stata creata in Roma dall’Arciconfraternita della Morte et Oratione una “Compagnia della morte”, che aveva il compito di raccogliere e dare sepoltura a questi corpi abbandonati a se stessi. Il sonetto racconta in versi la ricerca di uno di questi morti attraverso la Campagna Romana, fornendo così ulteriore conferma sia del pessimo stato e della pericolosità in cui ancora negli anni successivi all’Unità si viveva nelle campagne intorno alla Capitale, sia dell’impatto che queste condizioni avevano sull’immaginario collettivo: II […] Quanno stamo un ber po’ fôr de le mura, Dice: - Passamo pe’ la scortatora. Ah, Nino, dico, si nun è sicura, Bada che non uscimo piú de fôra. Ma dice, annamo, nun avé’ paura: Ce venni a caccia pe’ la Cannelora. E annamo. Peppe mio, che fregatura! Stassimo pe’ la macchia un frego d’ora. Sotto a le Capannelle de Marino, Trovassimo ‘na fila de carretti, Che venivano a Roma a portà’ er vino;

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E a forza de strillaje li svejassimo, Che dormivano tutti, poveretti; E lí a lo scuro je lo domannassimo. III Avete visto gnente un ammazzato? Dice: - Vortate giú pe’ ’ste spallette, Annate a dritta, traversate er prato; Quanno sête arrivati a le Casette, Dommanatelo a l’oste der Curato, Che ve l’insegna. Quanto ce se mette? Dice: - Si annate a passo scellerato, Ce metterete sempre un par d’orette. Ritornassimo addietro viciversa, Fijo de Cristo! Co’ le cianche rotte. Quanno stassimo sotto a la Traversa, Lí, li carretti ce se slontanorno, E noi daje a girà’ tutta la notte Finché a la fine ce se fece giorno [...]. V Stava incrociato là a panza per aria, Vicino a un fosso, accanto a ‘na grottaccia, Impatassato drento a la mollaccia… C’era ‘na puzza ch’appestava l’aria. Le cornacchie e li farchi da per aria Venivano a beccàjesse la faccia, E der pezzo de sopra de le braccia C’era rimasto l’osso. Che barbaria! E ne l’arzallo pe’ portallo via, Je trovassimo sotto un istrumento

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Lungo così, che mo sta in Pulizia. Poi don Ignazio disse le preghiere; E tornassimo co’ le torcie a vento, Pe’ la macchia, cantanno er Miserere. (C. Pascarella, 1881)

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4. LE TRASFORMAZIONI NEL PAESAGGIO DELLA CAMPAGNA ROMANA ALL’INIZIO DEL XX SECOLO ATTRAVERSO LA STORIA DI DOMENICO LANZA 4.1 LA RICERCA SUL CAMPO La ricerca dei segni della presenza degli alvitani nella Campagna Romana può andare oltre le evidenze desunte dai registri di stato civile del Comune e le diverse testimonianze iconografiche. La relativa vicinanza nel tempo degli eventi studiati ha consentito infatti di provare a sondare anche il terreno dei ricordi e delle memorie, ricorrendo allo strumento dell’intervista. La continua sovrapposizione tra presente e passato, che si genera nel corso di un’intervista, rappresenta certo uno stimolo ad approfondire lo studio dei temi trattati. Spesso, infatti, si ha l’impressione, durante un colloquio o nel corso di una visita, di essere ad un passo dallo svelare un elemento nuovo, quasi definitivo per l’interpretazione dei dati raccolti, ma, in realtà, il terreno sul quale ci si muove è piuttosto insidioso. Il presente, infatti, è spesso assai ingombrante, e invece di adagiarsi sulle forme e i ricordi del passato ha di frequente la tendenza a coprire e occultare segni e tracce originali. Il riferimento non è solo alla fedeltà dei ricordi e delle testimonianze ai fatti reali, perché l’intervista non è un interrogatorio in cui si deve tendere ad accertarsi, in primis, della veridicità delle affermazioni o dell’attendibilità del testimone. Il problema, almeno per chi scrive, è stato piuttosto affinare progressivamente la sensibilità dell’occhio che osserva e dell’orecchio che ascolta, liberandosi dei ruoli tradizionalmente assegnati alla Campagna Romana (serbatoio di vestigia classiche

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e/o patrimonio storico-ambientale da difendere dall’avanzata disordinata della periferia). Problema a cui va aggiunta la necessità di tenere distinti i racconti e le testimonianze dei propri anziani70, che hanno raccontato altre storie, storie di guerra e di bombardamenti, di padri emigranti, operai o contadini di città, che non si debbono sovrapporre alle testimonianze che si vanno a raccogliere. Come mostrato nei paragrafi precedenti, la seconda parte dei registri relativi agli atti di nascita contiene indicazioni precise sulle tenute in cui molti di questi lavoratori si recavano ogni anno, oltre ai dati anagrafici e alla condizione professionale di entrambi i genitori dei neonati. Questo ha permesso di individuare delle aree in cui la presenza dei braccianti di Alvito era più stabile, cioè con una minore soluzione di continuità da un anno all’altro, e allo stesso tempo, di evidenziare il legame di alcuni personaggi, di alcune famiglie, con la tradizione degli spostamenti stagionali di manodopera verso la Campagna Romana. Si è quindi pensato che questa presenza costante su un certo territorio avrebbe potuto contribuire a rendere più visibile le famiglie di Alvito tra gli altri lavoratori, con una maggiore possibilità di rintracciarne i segni tra i documenti dei proprietari dell’epoca delle tenute o tra i ricordi degli abitanti di queste zone. Un’operazione questa che naturalmente ha maggiori possibilità di successo se si riesce a circoscrivere la ricerca ad un ambito non eccessivamente vasto, guardando poi ad un territorio in cui l’elemento non tanto agricolo-pastorale, ma almeno rurale, sia riuscito a sopravvivere alla crescita edilizia della Capitale. Questa condizione è stata soddisfatta concentrando la propria attenzione su alcune tenute (“Procojo Vecchio” e “Due Casini”, in particolare) dislocate lungo l’odierna via Tiberina, tra i terrazzi e la pianura alluvionale del Tevere, a nord di Roma, ricadenti per la

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maggior parte, allora come oggi, nei confini del Comune di Riano. La tenuta del Procojo Vecchio e quella in contrada Due Casini, inoltre, appartenevano in quegli anni entrambe alla famiglia Boncompagni Ludovisi. Dal 1585 al 1796 i Boncompagni erano stati i signori del Ducato di Sora, fino a quando, cioè, non decisero di permutare i loro stati (oltre a Sora, anche quelli di Arce, Aquino e Arpino) con altri beni, ricadenti nello Stato Pontificio (Magliocchetti, 2000). Un ulteriore elemento questo che, congiuntamente al peso avuto dal Cardinale Tolomeo Gallio nelle vicende del Ducato di Alvito, mette in luce i legami storicamente esistenti tra il Lazio meridionale e la Campagna Romana71. Il principe Paolo Boncompagni risulta ancora oggi, all’Ufficio Tecnico del Comune di Riano, proprietario di ciò che resta della tenuta del Procojo Vecchio, per cui esiste la possibilità che egli conservi memoria o documenti pertinenti il periodo e il fenomeno in esame nell’archivio di famiglia72. Allo stesso tempo, l’azienda che ormai da una ventina di anni è proprietaria della tenuta dei “Due Casini” (l’azienda agricola “Giorgio Lanzetta”) non possiede purtroppo documenti precedenti all’acquisto di questi terreni. Anche i colloqui con i capi-operai più anziani che ancora lavorano nelle tenute della zona non hanno fornito riscontri utili, dal momento che la loro memoria sembra fermarsi al massimo agli anni ’20 del Novecento, quando massiccio fu l’arrivo di coloni marchigiani in diverse tenute romane. Solamente un pastore, al pascolo sui terreni limitrofi alla contrada Due Casini, anch’essi una volta di proprietà dei Boncompagni, ha ricordato per inciso come il padre, oltre ai soliti marchigiani, gli parlasse anche dei “ciociari”, a suo dire dediti in particolare alla manutenzione delle forme (canali d’irrigazione).

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4.2 DOMENICO LANZA, MERCANTE DI CAMPAGNA E SPERIMENTATORE

Fortunatamente, maggiore successo ha avuto invece la ricerca degli eredi di alcune delle famiglie di Alvito i cui membri ricorrevano con maggior frequenza tra gli atti dei registri consultati. Si è già messo in evidenza come anche concentrando l’attenzione sulle informazioni inerenti la condizione professionale di diversi individui sia possibile avanzare ipotesi interessanti rispetto al ruolo specifico giocato in queste migrazioni stagionali. Tra i membri della famiglia Lanza, in particolare, si era notata la presenza di alcuni mercanti di campagna, la cui posizione differente rispetto a quella dei braccianti o dei contadini emerge nei registri o per l’uso esplicito di questa formula oppure perché, quando si trovavano nella Campagna Romana, erano lì a «dirigere i lavori». Tali personaggi debbono essere messi in rilievo perché testimoniano la presenza di interessi economici, che andavano oltre il semplice impiego stagionale di manodopera, rafforzando il legame tra Alvito e la Campagna Romana, probabilmente costituendo il presupposto perché questa relazione si mantenesse, rinnovandosi, nel tempo. Questi uomini di “prestigio” (Pizzuti, 1957) sono probabilmente uno dei principali trait d’union tra Roma e Alvito, o per avere costituito una garanzia d’impiego per i propri compaesani o per aver rappresentato un punto di riferimento, finanche motivo di orgoglio, che incoraggiava quindi ulteriormente gli spostamenti. La dott.ssa Maria Teresa Lanza Del Gallo, nipote di Domenico Lanza (1866-1933), è proprietaria e gestisce tuttora a Roma, insieme al marito e ai suoi figli, la tenuta di Falcognana (lungo la via Ardeatina) e parte della tenuta di Tragliata (poco oltre via di Boccea), acquistate dal nonno sul finire del XIX secolo73.

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Sebbene per la tenuta di Falcognana non esistano nei registri tracce evidenti della presenza di lavoratori provenienti da Alvito - Domenico Lanza continuò ad usufruire dell’opera di famiglie marchigiane già insediate nell’area -, evidenze in senso contrario esistono invece, come visto, per Tragliata. In questa tenuta, a partire dalla fine del XIX secolo - in particolare tra il 1891 e il 1906 - si nota la presenza di almeno un paio di famiglie di Alvito, le quali mettono al mondo una decina di bambini. Questa presenza, però, non può essere, allo stato attuale della ricerca, messa direttamente in relazione con l’azione della famiglia Lanza, la quale acquisì questi terreni solo nel 1920. L’incontro con la dott.ssa Lanza Del Gallo è stato molto proficuo, poiché attraverso i ricordi di suo nonno e delle parole di suo padre e suo zio, sono emersi altri elementi importanti: a) la famiglia Lanza effettivamente fu particolarmente attiva nell’acquisto delle tenute, probabilmente sostituendosi a quei proprietari che non riuscirono a sopravvivere alla crisi che l’agricoltura conobbe tra il 1885 e il 1890; infatti anche Salvatore e Francesco, cugini di Domenico Lanza, comprarono rispettivamente terreni nelle tenute di Campo di Carne e dell’Acqua Acetosa74. b) Domenico Lanza, prima di trasformarsi in proprietario fu affittuario, mercante di campagna, dei terreni di proprietà dei Boncompagni nelle tenute del Procojo Vecchio e dei Due Casini. Un’informazione di valore notevole, sia perché conferma la diffusa abitudine dei proprietari terrieri, ancora dopo l’unità d’Italia e nonostante gli sforzi di legislatori ed esperti a vario titolo, di non gestire direttamente le aziende, sia perché permette di avanzare l’ipotesi che la presenza del Lanza costituisca la premessa per l’arrivo degli alvitani in quelle zone.

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4.2.1 DOMENICO LANZA, CAVALIERE AL MERITO DEL LAVORO

Tra le informazioni che la dott.ssa Lanza Del Gallo ha fornito è comparso anche il ricordo di un’onorificenza concessa al nonno in seguito all’introduzione dell’uso di alcune macchine agricole nella lavorazione dei terreni. L’attrezzatura in questione era costituita da due macchine Fowler, potentissimi ed enormi macchinari a vapore, utilizzate per dissodare i terreni agli inizi del XX secolo, con risultati rilevanti per la produttività delle aziende a partire dalla seconda metà degli anni Venti. Questa notizia non solo ha consentito di rinvenire tutta una serie di importanti riscontri documentari a quanto raccontato dalla nipote di Domenico Lanza, ma ha permesso di aggiungere particolari rilevanti sull’attività di questo personaggio, utili per la valutazione degli effetti che le sue intuizioni ebbero nel modificare assetti produttivi e paesaggio di buona parte della Campagna Romana a partire dal 1913. Dopo alcuni preliminari contatti con gli Uffici Onorificenze del Quirinale, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Industria, si è avuto accesso all’archivio storico della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro. La Federazione costituita nel 1923, eretta ad ente morale nel 1925, raccoglie e conserva le notizie biografiche relative all’Ordine del merito del lavoro. L’istituzione dell’Ordine cavalleresco al merito agrario, industriale e commerciale risale al 1901, mentre l’archivio storico fu fondato nel 1926 (Salpietro, 2000). Presso l’archivio esiste un fascicolo per ognuna delle persone, defunte o in vita, insignite di tale onorificenza, e, tra questi, quello relativo a Domenico Lanza, nominato Cavaliere con decreto del 2 luglio 1914, in virtù dell’azione svolta nella veste di “bonificatore di terreni”.

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La cartella in questione si compone di 4 documenti: una scheda biografica in cui sono riassunti gli estremi dell’insignito, quelli del decreto di nomina e le motivazioni per il “Ramo di agricoltura, industria o commercio nel quale si è particolarmente segnalato”. A questa scheda sono allegati 3 documenti, in forma di appunti dattiloscritti, contenenti rispettivamente “Notizie desunte dagli atti del Ministero dell’Economia Nazionale”, “Notizie inviate dalla famiglia nel gennaio 1930” e “Appunti sulla bonifica eseguita”, redatti nel dicembre del 1929. Il primo allegato è importante perché rimanda alla fonte originale di emanazione del decreto, fornendo, in maniera però piuttosto succinta, una serie di prime conferme alle informazioni possedute: l’acquisto della tenuta di Falcognana Vecchia, la realizzazione di diverse opere di miglioria (infrastrutturali e colturali), e il dissodamento di 60 ettari di terreno con un’aratura meccanica. Assai più particolareggiato è il contenuto degli altri due allegati, attraverso i quali è possibile quindi ricostruire l’azione di Domenico Lanza nella triplice veste di imprenditore, bonificatore e sperimentatore. Azione alla luce della quale Lanza si staglia come una figura di primo piano nel processo di modellamento e modificazione che il territorio intorno a Roma conobbe a ridosso della Prima Guerra Mondiale, tanto nei suoi assetti produttivi quanto nei suoi aspetti esteriori. 4.2.2 DOMENICO LANZA IMPRENDITORE Domenico Lanza, figlio di Michele, «sapiente ma moderato agricoltore, e che esercitava una semina limitata con capitali limitati» (cfr. A.F.C.L., Notizie inviate dalla famiglia, p. 2), conseguito il diploma di perito agrario si impegnò, insieme al fratello Fortunato (morto nel 1903), nella conduzione della tenuta di Riano e Ripalta.

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Da un documento messo a disposizione dalla famiglia, si evince che l’attività dei Lanza in quest’area, che inizialmente si svolgeva anche nella tenuta del Procojo Vecchio, cominciò con l’affitto dei terreni dei principi Boncompagni nel 1881, e proseguì, ininterrottamente, fino al 1917. Esiste, quindi, una coincidenza di tempi e luoghi con la presenza di alcune famiglie di alvitani nelle tenute di quest’area. Infatti, i primi bambini nati da genitori di Alvito vengono alla luce proprio nel 1881, seguiti poi da altre 47 nascite, fino al 1914. Questa funzione catalizzatrice di manodopera dalla propria terra di origine non è, in verità, tra i tratti maggiormente caratterizzanti la vita del Lanza nella Campagna Romana. Questi, infatti, non sembra avere impiegato mai quote particolarmente rilevanti di compaesani nelle proprie tenute, assumendo spesso alle proprie dipendenze coloro che già lavoravano nei terreni via via acquisiti. Tuttavia, a testimonianza sia della tradizione migratoria esistente dalla Valle di Comino verso la provincia di Roma, sia del ruolo da protagonista che poi i Lanza assumeranno in questo contesto, deve essere fatta una menzione relativa ad una società, costituita il 4 agosto 1861 in Alvito. La fonte è ancora il documento fornito dalla famiglia Lanza, dalle cui pagine si apprende che Felice Lanza, nonno di Domenico, in tale data, diede vita ad una società con i suoi due figli Michele e Angelo Maria, rispettivamente padre e zio di Domenico Lanza, che tra i suoi compiti principali si riservava quello di attendere alla «conduzione di operai a lavorare in campagna romana ed effettuare semente per proprio conto» (Documento Famiglia Lanza75, p. 1). I nipoti di Felice, in particolare, si adopereranno per mettere in pratica soprattutto la seconda parte di questo proposito, impegnandosi cioè nello sviluppo di un’attività agricola indipendente nella Campagna Romana.

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L’azione dei fratelli Lanza nell’area di Riano è, infatti, piuttosto decisa, anche se i diversi interventi «furono compiuti in modo da servire convenientemente all’uso cui sono destinati, con spesa limitata, proveniente dalla necessità di dover il Lanza ammortizzare il capitale in un tempo ristretto alla durata dell’affitto» (A.F.C.L., id., p. 6). L’autore di queste note, che sebbene assai lusinghiere nei confronti del Lanza non sembrano avere carattere meramente agiografico, riporta quindi una lamentela molto diffusa tra gli affittuari dei terreni in quell’epoca. I mercanti di campagna, difatti, erano soliti astenersi dall’effettuare consistenti investimenti per migliorare la produttività dei terreni, non avendo la certezza di poter godere dei benefici ricavati entro il periodo di durata dell’affitto, spesso insufficiente ad ammortizzare l’esborso sostenuto. Nel caso di Domenico Lanza, però, questa non appare come una sterile dichiarazione di intenti, poiché egli si adopera fino ad ottenere nel dicembre del 1906 da D. Ignazio Boncompagni, principe di Venosa, Senatore del Regno, la tenuta di Falcognana Vecchia in enfiteusi perpetua. L’atto, del quale è stata richiesta e ottenuta copia presso l’Archivio Distrettuale Notarile di Roma, venne stipulato presso il notaio Tito Firrao, e contiene alcune informazioni degne di nota. Innanzitutto vengono fissati i confini e quantificata la superficie (poco meno di 900 ettari) della tenuta; inoltre, viene fissato il canone annuo, pari a L. 21.650, da pagarsi in 4 rate trimestrali. Ma, senza dubbio, le informazioni più rilevanti sono quelle che permettono di fare luce sui processi tramite i quali si realizzò progressivamente il trasferimento della proprietà nobiliare ad imprenditori di estrazione contadina, prima ancora che borghese, quali era Domenico Lanza. Dagli atti in questione, innanzitutto, si desumono le ragioni che probabilmente avevano indotto Ignazio

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Boncompagni a capitalizzare il possesso di questa tenuta. Su questa proprietà gravava, infatti, un’ipoteca di ben £ 210.000 a favore della Cassa di Risparmio di Roma, a fronte di un debito di conto corrente contratto dal principe nei confronti della stessa Cassa pari a £ 182.000. Tale ipoteca rimaneva totalmente a carico del Boncompagni, anche in caso di acquisto definitivo da parte di Lanza della proprietà, e quindi non rappresentò un ostacolo per la stipula del contratto. Tuttavia questo elemento permette quantomeno di farsi un’idea sulla situazione in cui versavano verosimilmente diverse famiglie nobiliari76. Un ulteriore elemento utile a chiarire tali dinamiche è rappresentato dal diritto di affrancazione, riconosciuto all’enfiteuta nell’accordo contratto. Se è vero infatti che Domenico Lanza si impegnò, fornendo la propria parola, a non esercitare questo diritto, tale possibilità è però prevista dal contratto in essere, dove il costo dell’affrancazione viene fissato nell’entità del canone annuo, aumentato di un 4% di interesse per ogni anno di usufrutto. Condizioni che possono essere considerate favorevoli, poiché, tenendo conto del valore assegnato alla tenuta sulla base dell’ipoteca esistente, Domenico Lanza ebbe così la possibilità di acquistare definitivamente questi terreni a poco più di un decimo del loro valore. Una possibilità di cui questi certamente approfittò con il passare del tempo, dal momento che i suoi eredi sono ancora oggi gli effettivi proprietari di queste aziende. Nei documenti dell’archivio storico e della famiglia vengono poi nominati la costituzione della Società del Foro Appio nel 1898 (per la gestione dell’omonima tenuta di proprietà del Marchese Ferrajoli), la fondazione della Società Anonima per Azioni Capalbio (1908) - di cui Lanza fu anche presidente per la conduzione di questa estesissima tenuta in To-

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scana, l’acquisto nel 1917 di parte della tenuta di Frattocchie e, nel 1920, della tenuta Tragliata. Senza dimenticare, inoltre, che dal 1927, anno in cui venne notificato il decreto di bonifica obbligatoria per la tenuta di Falcognana, al 1929, furono realizzati ulteriori 28 interventi in tale proprietà, tra i quali, costruzione di centri agricoli (Divino Amore, Frattocchie, Quarto dei Preti), dotazione di acqua potabile, costruzione di stalle, fienili e silos (riserva di Montelungo e riserva dell’Ara) e realizzazione di strade interne di comunicazione fra i vari centri. Una vitalità notevole, già da sé sufficiente a ritagliarsi un ruolo da protagonista nell’epoca in cui il cav. Lanza visse e operò. Tuttavia questa attività imprenditoriale si esplica anche attraverso un’azione di innovazione produttiva e trasformazione del territorio che consegnano Domenico Lanza alla storia della Campagna Romana. 4.2.3 DOMENICO LANZA BONIFICATORE E SPERIMENTATORE

L’operato di Domenico Lanza si vuole improntato, fin dall’inizio, da un convincimento piuttosto ben definito: «Non v’ha debolezza maggiore che si possa affliggere ad un paese, che distruggere la classe dei contadini. Il Lanza sapeva di questo male, e cercò di porvi riparo, provvedendo ad abitazioni per il personale dell’azienda, costruite in modo decente e solidamente» (A.F.C.L., “Notizie inviate...”, p. 5). Quella della costruzione di abitazioni stabili per pastori e operai agricoli è in effetti un elemento che ricorre nella gestione delle aziende di Lanza. E già in questo deve essere letto un forte elemento di rottura con il passato, dove le abitazioni tendevano ad essere effimere e, comunque, assai raramente i ripari venivano offerti dai conduttori delle aziende. Per altro, questo aspetto

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può servire a spiegare la continuità della presenza di famiglie alvitane nelle tenute di Riano, le quali, perciò, poterono usufruire di condizioni di alloggio di una certa qualità, probabilmente fin dai primi anni del loro arrivo. Allo stesso modo, quindi, l’assenza di nuclei alvitani nella tenuta di Falcognana può essere vista come la conseguenza della sistemazione che Lanza riuscì a garantire agli operai marchigiani che già erano attivi in loco. Queste strutture abitative oggi non esistono più, oppure sono andate incontro ad un’importante riconversione funzionale che ben poco ha lasciato in piedi dei manufatti originari. Senza dubbio, però, il loro emergere segnò il paesaggio di una parte della Campagna Romana di quel periodo. Ma Lanza non si limitò alla costruzione di queste abitazioni, realizzando nella sola tenuta di Riano granai per 6.000 quintali di cereali, magazzini per macchine agricole, ponti in armatura e stalle per buoi. Tra gli interventi capaci di produrre effetti duraturi nel corso del tempo, vanno sicuramente annoverati la manutenzione degli argini del Tevere e la costruzione di paratoie nei fossi, oltre alla creazione di «fossi di scolo che resero in molti punti, la tenuta da acquitrinosa asciutta» (id., p. 5). Inoltre, un’attività sembra avere avuto nel tempo particolare fortuna, quella dell’allevamento equino. Già all’epoca infatti i prodotti di questo allevamento erano acquistati «dalle varie commissioni di rimonta per il Regio Esercito» (id., p. 6), e, tutt’ora, lungo la via Tiberina si scorgono almeno un paio di aziende operanti in questo settore. Ma la decisione che valse a Domenico Lanza l’onorificenza e gli onori delle cronache (Strampelli, 1913), fu quella di tentare di dissodare in profondità i terreni della tenuta di Falcognana, per aumentarne la produttività, passando da uno sfruttamento estensivo dei terreni (destinati essenzialmente al pascolo) ad uno intensivo, dedicandosi così alla coltivazione di prodotti più redditizi.

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Per addivenire a questo scopo, era necessario possedere all’epoca un aratro dalle caratteristiche idonee ad incidere il cosiddetto “Cappellaccio”, un terreno tufaceo assai resistente ai tradizionali metodi di aratura e diffuso in larga parte dei terreni agricoli della Capitale. Dopo aver fatto alcuni tentativi con ditte locali, Lanza si rivolse alla ditta Fowler che, non solo fornì due locomobili a vapore del peso di 19 tonnellate ciascuna, ma si impegnò nella realizzazione di un aratro di 45 quintali di peso, con un bilanciere monovomere lungo 8 metri. In circa un mese di lavoro, tra l’aprile e il maggio del 1913, furono così dissodati circa 60 ettari (ad una profondità tra i 70 e gli 80 cm), sui quali Lanza poté avviare in via sperimentale la coltivazione di «Orzo, Crocetta o Lupinella, Sulla, Erba Medica e Trifoglio Alessandrino»77.

Fig. 4.1 - Il vomere dell’aratro prodotto dalla Flower e il solco inciso dallo stesso nel terreno, da “La Nuova Agricoltura nel Lazio”, 1913

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Fig. 4.2 - a) L’aratro meccanico a lavoro nella tenuta Falcognana Vecchia b) La “locomobile a vapore” e l’aratro nella tenuta Falcognana Vecchia (aprile-maggio 1913), da “La Nuova Agricoltura nel Lazio”, 1913

Questo evento riveste un’importanza notevole da molteplici punti di vista: – innanzitutto, è uno dei primi esempi concreti di quell’agricoltura capitalistica che tanto era stata latitante nelle plaghe dove il latifondo era dominatore incontrastato. Si assiste infatti ad un investimento, con un certo margine di rischio, per introdurre un’innovazione di processo tesa a modificare sostanzialmente l’assetto produttivo vigente; – l’impiego di questi macchinari, inoltre, comportò costi per ettaro e tempi di lavoro notevolmente inferiori a quelli necessari con i metodi consueti di aratura. Questo risparmio rese così successivamente possibile

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destinare quote di capitale umano e finanziario verso altre aattività e investimenti. Inizialmente, comunque, solo porzioni delle tenute furono lavorate con questo sistema, contenendo quindi quel processo di espulsione di manodopera agricola che diverrà consistente, invece, nel corso degli anni Trenta; – la ditta Fowler, infine, operò per Domenico Lanza con tariffe scontate, perché il suo obiettivo era anche quello di fornire un «primo saggio destinato a far conoscere il sistema» e a conquistare quindi nuove quote di mercato78. Tanto è vero che «la casa Fowler trovandosi conb il suo apparecchio in Agro Romano passò a fare lo scasso in varie altre tenute e le richieste furono così numerose che altre ditte sorsero per l’esecuzione dei medesimi. In seguito a tale iniziativa, la bonifica della campagna romana in terreni a sottosuolo di cappellaccio sta raggiungendo i più grandi risultati. Migliaia di ettari sono stati già scassati e si coltivano a cereali, vigneto, frutteti, orti, erbai, medicai, barbabietole» (A.F.C.L., “Appunti sulla bonifica eseguita”, pp. 3-4). Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale rallentò la diffusione dei benefici derivanti dall’impiego di queste nuove tecniche di lavorazione (durante il conflitto, tali macchinari vennero requisiti al Lanza «per il traino dei prezzi di artiglieria al fronte» e «soltanto alla fine della guerra poté acquistare una coppia delle macchine Fowler come residuati di guerra», D.F.L., p. 4). Tuttavia, i sensibili effetti derivanti dall’applicazione di questi nuovi metodi di dissodamento dei terreni, che divennero evidenti tra gli anni Venti e gli anni Trenta (Guerreri, 1991), consentono di riconoscere nell’azione di questo imprenditore di Alvito i prodromi di una consistente trasformazione del paesaggio delle campagne intorno a Roma. Un’azione modellatrice del territorio che diventa particolarmente visibile nell’appoderamento realizzato internamente alla tenuta Falcognana: «La Tenuta si sta dividendo in appezzamenti regolari di 30 ettari l’uno

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(quelli ai confini più piccoli e irregolari); essi sono circoscritti da siepe viva. Ogni appezzamento si sta dividendo in altre quattro di sette ettari e mezzo l’uno mediante linee marcate da filari di olivi distanti metri 25 fra loro; ed ogni appezzamento di 7 ettari e mezzo si sta suddividendo in altre più piccole di ettari uno are 87 e mezzo, con filari di mandorli anch’essi a distanza di 25 metri fra loro». Un’opera questa funzionale ad una più razionale distribuzione delle diverse colture, tesa ad ottimizzare quindi lo sfruttamento dei terreni, ma realizzata anche nell’ottica di sperimentare nuovi prodotti e nuove varietà. Ulteriori elementi di novità vengono quindi introdotti nella tradizionale immagine della Campagna Romana.

Fig. 4.3 - Particolare dei lavori di dissodamento per mezzo di macchine agricole nella tenuta Falcognana Vecchia, da la “Rivista Agricola Romana”, 1913

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CONCLUSIONI LA RICERCA NEL SUO DIVENIRE La conoscenza diretta di un territorio è un elemento fondamentale nella fase di avvio di una ricerca come questa svolta. Tale studio ha infatti preso le sue mosse partendo da un substrato di tradizioni, ricordi e memorie proprie del vissuto di famiglie e comunità radicate in quest’area del Lazio meridionale. Queste premesse scaturiscono dal forte legame che i geografi dell’Università di Cassino, con la sapiente guida della Prof.ssa Gabriella Arena, hanno stabilito con questo territorio attraverso anni di ricerca sulle diverse realtà locali, tanto con analisi riguardanti gli sviluppi degli assetti più recenti quanto, ancor di più, adottando sovente una prospettiva storico-geografica negli studi compiuti. Il presente lavoro aspira, quindi, ad inserirsi in questo solco già tracciato, definendo un metodo e fornendo evidenze che testimoniano e chiariscono i legami del Lazio meridionale con la Campagna Romana, a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Il dato per il quale si è andati inizialmente alla ricerca di riscontri è rappresentato dalla presenza di lavoratori stagionali provenienti da alcuni paesi della provincia Terra di Lavoro nelle tenute intorno a Roma. Una prima conferma del forte impatto che queste persone hanno avuto nel caratterizzare l’immagine rurale della novella capitale d’Italia, e prima ancora della capitale dello Stato Pontificio, è arrivata dalle fonti iconografiche e letterarie. In particolare, alcuni dipinti sono in grado di documentare tempi e modi di questa attività lavorativa compiuta da stagionali, verosimilmente provenienti dal Lazio meridionale, a cui spesso, per estensione, veniva attribuito l’appellativo di “ciociari”.

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Sebbene i segni di questa presenza siano stati identificati da studi di carattere storico-artistico ed etnografico e/o antropologico, compiuti negli anni su queste opere da esperti e appassionati di storia locale, appare evidente come si avesse bisogno di elementi in grado di caratterizzare, sia quantitativamente che qualitativamente, l’apporto che questi uomini (in prevalenza) e donne poterono dare alla trasformazione del territorio intorno a Roma. Il flusso di lavoratori provenienti dai comuni della antica provincia di Caserta fu meno consistente rispetto a quelli provenienti da altre regioni, in particolare dalle Marche e dall’Abruzzo. Tuttavia, alcuni di questi centri si segnalavano per la continuità della loro presenza: il comune di Alvito, in particolare, coerentemente con le informazioni localmente desunte, aveva visto emigrare, nei diversi anni, mediamente circa il 10% dei propri abitanti. Quindi, mutuando dalla demografia storica l’interesse per lo studio dei registri di stato civile nella conoscenza delle migrazioni stagionali periodiche - più correttamente definite migrazioni circolari -, si è proceduto all’analisi degli atti di matrimonio e di nascita degli abitanti di Alvito. Lo studio sistematico di questi atti lungo un intervallo cronologico di tale ampiezza (1871-1936) ha permesso innanzitutto di riconoscere e valutare elementi di discontinuità nell’evoluzione del fenomeno, internamente alla comunità alvitana, messi poi a confronto con eventi macroscopici che storicamente hanno avuto un impatto notevole sulla società italiana (eventi bellici ed emigrazione all’estero). Allo stesso tempo, è stato possibile segnalare gli effetti prodotti da questi movimenti in seno alla popolazione di Alvito, come l’importanza della donna e il presumibile peso che i proventi di tali attività stagionali avevano nel determinare i livelli di reddito e, quindi, nell’influenzare l’economia locale. Inoltre, è

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emersa la mancanza di una specializzazione funzionale di questi lavoratori nella Campagna Romana (caratteristica propria di altri gruppi regionali), alla quale però fa riscontro la partecipazione a questi movimenti di elementi appartenenti alla sfera dell’imprenditoria locale. Pur nella consapevolezza di alcuni limiti intrinseci al tipo di fonte prevalentemente utilizzato, il quadro delle migrazioni circolari sopra descritto può però essere considerato una ricostruzione fedele dei trend in atto tra il Lazio meridionale e la Campagna Romana per il periodo studiato, in virtù anche dei riscontri emersi dalle sporadiche rilevazioni istituzionali, dalle testimonianze degli eredi di alcuni protagonisti di questi movimenti e dalla ulteriore documentazione d’archivio rintracciata. D’altronde, la rilevanza geografica dei temi trattati non si esaurisce nella ricostruzione della periodicità degli spostamenti stagionali, ma trae vigore dalla messa in luce delle dinamiche che prelusero alla modifica degli assetti proprietari e produttivi e alla conseguente evoluzione del paesaggio caratteristico delle campagne intorno a Roma. Solamente lo studio critico di fonti diverse e l’interpretazione diacronica delle informazioni desunte con l’ausilio della cartografia informatizzata hanno quindi permesso di cogliere nel dipanarsi stagionale dei flussi di manodopera la presenza di imprenditori che ebbero i mezzi e la determinazione per approfittare della crisi del tessuto socioeconomico romano ed ergersi a protagonisti dei successivi cambiamenti. La ricerca infatti si è impegnata su due fronti, badando a localizzare, nell’ampio bacino d’immigrazione rappresentato dalla Campagna Romana, le aree in cui gli alvitani tendevano a concentrarsi, ma cercando ugualmente di decifrare l’azione e il ruolo che gli imprenditori di Alvito si erano ritagliati nel contesto in evoluzione della realtà agricola romana.

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Con lo studio della seconda parte dei registri contenenti gli atti di nascita, e attraverso la loro rappresentazione diacronica sulla versione digitalizzata della Carta dell’Agro Romano dello Spinetti, è stato definito un metodo per discriminare e localizzare i differenti flussi, anche a livello di singole e piccole comunità, verso la Campagna Romana. L’indagine biografica avviata, invece, per quel che concerne l’attività di uno di questi mercanti di campagna originari di Alvito, Domenico Lanza, ha permesso di rilevare l’importanza che questi ebbe nel porre le basi per una considerevole trasformazione degli assetti produttivi, con ovvi riflessi sul paesaggio della Campagna Romana. Con spirito di intraprendenza, che aveva evidentemente trovato terreno fertile già in Alvito (è lì che i Lanza danno vita alla prima società per trasferire persone ed avviare attività nella Campagna Romana già nel 1861), si assiste così alla trasformazione di Domenico Lanza da affittuario dei principi Boncompagni ad acquirente di proprietà dalla stessa famiglia. Un’evoluzione personale che si articola e si intreccia con le dinamiche interne alle modificazioni che la proprietà terriera tradizionale conosce a partire dal 1870, diventando però a partire dal 1913 un fattore endogeno di trasformazione assai forte. Acquisita, infatti, la titolarità dei terreni su cui lavorare, Domenico Lanza si cimenta nell’introduzione di innovazioni di prodotto e, soprattutto, di processo, che appaiono assai rilevanti. Da un lato, perché queste modificazioni avvengono, inizialmente, in un’area al di fuori dei provvedimenti di bonifica dettati dalla legge, e quindi sono iniziative frutto di valutazioni personali in merito alla possibilità di ottimizzare lo sfruttamento di questi terreni. Dall’altro lato, perché l’applicazione, per la prima volta in assoluto nella Campagna Romana, di particolari tecniche meccaniche di dissodamento, consentirà nel medio periodo, complice l’intervallo forzoso della

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Prima Guerra Mondiale, di avviare il passaggio dallo storico sfruttamento estensivo della Campagna Romana (essendo quello intensivo limitato ad una fascia a ridosso dell’abitato di Roma) ad una agricoltura intensiva, con maggiore investimento di capitali, minore impiego di manodopera e più ampi margini di profitto. Una trasformazione radicale del paesaggio rurale romano, per l’emergere di nuove strutture e manufatti, per la progressiva scomparsa delle masse di stagionali a lavoro nei campi, per la rivoluzione colturale e il diverso appoderamento dei terreni che questa comporta. PROSPETTIVE DI RICERCA Una parte consistente di questo studio è stata condotta cercando di acquisire esperienza nella gestione di un metodo utile alla conoscenza delle migrazioni circolari, immaginandone le possibili ulteriori applicazioni nelle analisi geografiche. È quindi nella natura stessa di questa ricerca l’intenzione di aprire, con l’esame dei documenti condotto, ulteriori campi di approfondimento relativamente tanto all’impatto di fenomeni di migrazioni stagionali su un dato territorio, quanto al divenire delle modificazioni del paesaggio della Campagna Romana. Per quel che attiene il metodo di studio basato sui dati contenuti nei registri di stato civile, si ritiene di aver posto le condizioni per avviare rilevazioni sistematiche tese sia ad affinare ulteriormente il metodo sia a valutare la rilevanza di tali fenomeni internamente alle singole comunità. Esiste certamente la consapevolezza che alla consultazione di questi registri, in genere, si procede per periodi antecedenti a quello preso in esame, quando questi dati servono a colmare ampie lacune, che altrimenti renderebbero difficile ricostruire il profilo demografico di alcune popolazioni. Tuttavia, in una prospet-

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tiva geografica di studio di questi movimenti, i registri, secondo almeno la struttura che hanno assunto a partire dal 1874, contengono i dati per abbozzare delle rudimentali matrici origine/destinazione, da leggere ovviamente in chiave qualitativa più che quantitativa. In questo modo, quindi, si spera di poter un giorno procedere con questo tipo di studio all’interno del comprensorio costituito dalla Valle di Comino, per distinguere il contributo dei diversi comuni a questi spostamenti, ridimensionando o confermando la “supremazia” assegnata in questo contesto ad Alvito79. Altrettanto interessante sarebbe poi calare lo stesso metodo in altre aree in cui queste migrazioni erano altrettanto importanti, come la zona delle risaie nell’Italia settentrionale o quella del Tavoliere delle Puglie nel Mezzogiorno. Alla luce delle rilevazioni compiute, ferma restando la complessità del fenomeno in virtù dei contributi delle singole comunità e delle specificità locali su cui questi circuiti si attivavano, si potrebbe arrivare alla definizione di un modello, alla stregua di quanto già compiuto per altre aree, come nel caso del modello alpino di migrazione periodica. Nell’immediato, inoltre, esistono ancora una serie di argomenti da affrontare per dipanare i legami tra il Lazio meridionale e la Campagna Romana. La questione del ruolo che, ad esempio, esercitarono alcune nobili casate nell’instaurare e mantenere questi rapporti è stata poco più che accennata nel corso della presente ricerca. Sono state però fornite evidenze riguardo al persistere di queste relazioni, anche in un’epoca in cui queste famiglie si erano affrancate dalle aree di tradizionale presenza, come appunto rivelano i diversi contatti tra i Boncompagni-Ludovisi e Domenico Lanza. Lo studio dell’archivio Boncompagni dovrebbe, quindi, poter fornire elementi utili a chiarire ulteriormente le modalità con cui questi rapporti si allacciarono e proseguirono poi nel tempo, ovvero riguardo l’impiego di manodopera stagionale nelle proprietà di que-

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sta famiglia, soprattutto per il periodo precedente al 1870. In questo contesto, anche l’Archivio Notarile Distrettuale di Roma è probabilmente una fonte documentale con potenzialità notevoli, alla quale si è appena iniziato ad attingere. Inoltre, si ritiene che un campo particolarmente stimolante sia quello della ricerca di materiale iconografico, in grado di testimoniare le progressive trasformazioni subite dal paesaggio romano alla luce delle dinamiche descritte. La relativa vicinanza nel tempo rende abbastanza alta la possibilità che esista una buona documentazione fotografica per le diverse fasi di questi mutamenti, che certo assumerebbero maggiore consistenza attraverso uno studio più approfondito anche del dato iconografico. Proiettando poi la propria attenzione sulla storia più recente dell’espansione di Roma, la lettura di questi legami e delle diverse trasformazioni avutesi nel territorio intorno a Roma apre un settore d’indagine estremamente fertile. Le proprietà di cui si è discusso in questa sede hanno infatti subito destini diversi con il passare degli anni, alcune conservando la propria vocazione rurale, o mantenendo la connotazione agricola o riciclandosi in settori quali quello dell’agriturismo, altre invece sono state oggetto della speculazione edilizia. Questa differente evoluzione rappresenta un fattore decisivo nella definizione del poliedrico e complesso paesaggio che contraddistingue ancora oggi l’immagine del più grande, per estensione superficiale, Comune d’Europa.

119 NOTE 1 I giudizi su modi e stili di vita dei braccianti e dei contadini avventizi erano sempre negativi, anche in virtù delle oggettivamente miserrime condizioni in cui lavoravano e vivevano per la durata del loro soggiorno nella Campagna (Pareto, 1875; Sombart, 1891; Celli, 1927); tuttavia, generalmente, quando la descrizione scende nel dettaglio delle singole comunità regionali, se per altri gruppi si dà soprattutto notizia della particolare perizia nell’espletare alcune precise mansioni, sui “ciociari” effettivamente si tende a dare più un giudizio di valore che di merito (Tomassetti, 1979). 2 La scelta di porre tra virgolette il termine ciociari dipende dalla consapevolezza che la Ciociaria geograficamente intesa, anche nella sua versione più ampia, arriva solamente a lambire i margini della Valle di Comino (fig. 1.1, Scotoni, 1977). Tuttavia, la vicinanza, non solo fisica (Santulli, 2002), tra le due aree è tale da indurre a pensare che all’osservatore esterno la provenienza di un abitante di Alvito da un’area solo limitrofa a quella oggi definibile come Ciociaria potesse sfuggire. Per questo motivo, quando, soprattutto nei testi dell’epoca, si è incontrato il termine lo si è comunque interpretato nel senso lato, in mancanza di indicazioni ulteriori (Muratori, 1907), come un riferimento cioè ad un individuo proveniente dalle aree interne dell’attuale Lazio meridionale. 3 Da un punto di vista meramente quantitativo, infatti, la componente “ciociara”, e più in generale gli arrivi dal Lazio meridionale, non rappresentano le quote più rilevanti di lavoratori stagionali presenti a Roma nelle diverse stagioni (M.A.I.C., 1907, 1914b). Tuttavia, costumi e tradizioni provenienti da quest’area furono fortemente ripresi, e quindi divulgati, da coloro che all’epoca maggiormente si dilettavano ed erano impegnati nell’osservazione della Campagna Romana. Per questo sembrano esistere dei margini di discussione sufficienti per aprire un dibattito e auspicare un approfondimento su quanto quindi i diversi elementi regionali abbiano inciso nel restituire e condizionare la costruzione di un’immagine complessiva della Campagna Romana. 4 Sulla base dei dati relativi alla popolazione classificata per professioni nel censimento del 1861, è possibile affermare che oltre la metà della popolazione italiana (circa 14 milioni e 400 mila persone) «è costituita dalle famiglie di campagnuoli, mandriani, pastori, boscaiuoli, ecc.» (Statistica del Regno d’Italia, 1865, p. XIX). Non dimenticando di considerare, inoltre, che al 31 dicembre 1871 la popolazione rurale era stimata intorno al 68,7%, mentre quella urbana superava, di contro, appena il 30%. 5 «A lungo quindi si gioca la partita tra i sostenitori del controllo dei flussi migratori al fine di disincentivare l’emorragia di forze valide da una parte, e dall’altra i fautori dell’emigrazione, attenti alla dinamica economico-sociale impressa dal trasferimento altrove di masse soprattutto agricole, le più esposte alle crisi economiche. L’eloquenza dei numeri può servire indifferentemente agli uni e agli altri.» (Marucco, 2001, p. 62).

120 6 In ambito scientifico l’attenzione per le migrazioni interne andava comunque crescendo, in virtù dell’importanza che esse assumevano nei diversi Stati con il progressivo aumento della popolazione urbana a scapito di quella rurale. Tuttavia, nel complesso, questi movimenti erano ancora poco studiati e le migrazioni periodiche erano ulteriormente trascurate (Sitta, 1894). 7 Con un ritmo che sembra essere ulteriormente rallentato nella Campagna Romana (Mercurio, 1996). 8 «La raccolta del grano sul Tavoliere delle Puglie attira lavoratori dalle aree e dalle regioni vicine e lo stesso avviene nell’Agro Romano e nelle risaie piemontesi» (Sanfilippo, 2001, p. 87). E intensi movimenti stagionali si svolgevano lungo tutto l’arco alpino e appenninico, dalle località montane verso il vicino fondovalle e pianure (Del Panta, 1996). 9 Accanto alla maggiormente citata inchiesta dello Jacini, occorre anche ricordare i lavori della “Commissione d’inchiesta parlamentare per accertare le condizioni dei lavoratori della terra nelle provincie meridionali e in Sicilia, i loro rapporti coi proprietari e specialmente la natura dei patti agrari” istituita nel 1906 (Prampolini, 1981). 10 «Nella nuova fase delle indagini economico-sociali, emergevano tra le istituzioni di ricerca gli Uffici del lavoro, enti pubblici, la cui organizzazione, sul finire del secolo XIX e nei primi anni del XX, era strettamente legata nei paesi capitalistici sviluppati all’avvio da parte dello stato della legislazione sociale a favore delle classi lavoratrici. […] In Italia, l’Ufficio del lavoro veniva istituito con apposita legge nel 1902, presso il Ministero d’agricoltura-industria e commercio, e poteva iniziare solo nel 1904 la propria attività d’inchiesta sotto la direzione di Giovanni Montemartini» (Prampolini, 1981, p. 28). 11 «Il tipo di emigrazione più caratteristico del periodo [età preindustriale in Europa] era la cosiddetta emigrazione circolare, cioè quel tipo di spostamento perlopiù stagionale di lavoratori che, in relazione all’attività esercitata, si assentavano ogni anno da casa per un determinato periodo di tempo. […] Una forma di emigrazione circolare molto comune era quella legata ai lavori agricoli.» (Breschi, Fornasin, 2000, p. 68). 12 «… nella Campagna Romana, ove è più facile trovare uomini senza casa che case senza uomini» (Cervesato, 1910, p. 56). 13 Esisteva infatti la consapevolezza che «nei paesi di montagna l’emigrazione temporanea, soprattutto nel passato, mostrava la tendenza ad assumere i caratteri di un fenomeno regolarmente periodico, stagionale […].» (Migliorini, 1962, pp. 375). 14 E questo nonostante l’idea che «conservano invece più stretti legami colle condizioni geografiche e un ritmo regolare, dato che gli spostamenti avvengono alla medesima epoca dagli stessi villaggi verso le medesime zone, in modo simile a quanto accade per la transumanza, quelle migrazioni stagionali che sono determinate da particolari esigenze del lavoro agricolo, che spinge allo spostamento di lavoratori, reclutati per lavori d’équipe in paesi poveri e contrade sovrappopolate verso luoghi dove, in determinati periodi, c’è forte richiesta di manodopera: alcune col-

121 ture non potrebbero effettuarsi se non fossero possibili le migrazioni stagionali; tali la risicoltura nella Pianura Padana e le colture cerealicole estensive nell’Italia meridionale. In passato questi spostamenti pendolari avevano nel nostro paese un’ampiezza maggiore e il caso estremo era rappresentato dall’emigrazione rondinella verso l’Argentina» (Migliorini, 1962, p. 377). 15 Una menzione particolare si deve per lo studio di Assunto Mori sulle migrazioni stagionali dei pescatori nell’alto Tirreno, e per la specificità dell’argomento trattato e per mettere in evidenza come, anche in questo caso, lo studio di questi movimenti periodici fosse comunque funzionale all’analisi del radicarsi di gruppi di diversa provenienza nei centri costieri contemporanei (Mori, 1948). 16 Anche se i comuni della Valle di Comino, appartenenti alla provincia Terra di Lavoro, vengono censiti a partire dal 1861, solo dal 1866 «la statistica del movimento della popolazione acquistò una maggiore normalità per effetto dell’entrata in vigore del Codice Civile» (Moretto, 1991, p. 53). 17 Basti pensare alle frequenti crisi dei prezzi verificatesi sul finire del XIX secolo e la conseguente svolta protezionista (Del Panta, 1996; Segreto, 1999). 18 Con famiglie di braccianti che in alcuni casi si trasformano in coloni o in intermediari per i proprietari e i mercanti di campagna. 19 D’altronde già il rallentamento che gli spostamenti stagionali sembrano registrare sul finire del periodo qui considerato, può essere messo in relazione con la quasi contemporanea crescita delle migrazioni interne a medio e lungo raggio, momento in cui probabilmente le possibilità d’impiego derivanti dall’inurbamento cominciano a rappresentare una seria alternativa ai lavori stagionali nelle campagne (Treves, 1976). 20 «Il fondo della conca, fertilissimo, è dappertutto messo a cultura [...]. La zona d’intensa coltivazione è in sostanza la Val di Comino in senso stretto; il limite delle culture potrebbe anche assumersi come limite della regione così denominata» (Almagià, 1911, p. 27). 21 Una manodopera agricola in esubero, quindi, rispetto alle possibilità produttive che la assai diffusa piccola proprietà poteva assicurare, secondo uno schema che ancora negli anni Cinquanta veniva così descritto: «[…] il già piccolo terreno di proprietà paterna verrà diviso tra tutti i figli, anche quelli che hanno trovato occupazione in città, e resterà, in ogni divisione ereditaria, a ciascuno di essi una particella sempre più piccola, sulla quale non può esistere vita agricola autonoma e tantomeno una casa. Pur tuttavia, per la mancanza di altre risorse naturali e per la scarsezza di industrie, che sono poche e con carattere prevalentemente artigiano, sicché incapaci di assorbire la manodopera agricola che non ricava sufficiente reddito dalla terra, oltre il 75% della popolazione vive di agricoltura […]» Pratelli, 1957, p. 43. 22 La pastorizia e l’attività della transumanza avevano comunque una buona diffusione nell’area, ma i rapporti erano particolarmente stretti con la vicina Valle del Sangro, come dimostrano anche gli interessi economici

122 detenuti da famiglie nobili quali i Sipari tanto ad Alvito che a Pescasseroli (Arnone Sipari, 2000), dove tuttora si conservano i patrimoni di famiglia e gli eredi si sono reinventati albergatori. 23 Il fatto poi che la provincia di Caserta non trovasse nel suo comune capoluogo un centro capace di attirare su di sé le correnti migratorie interne, denotando nel contesto della Campania un trend in contrasto con gli altri comuni capoluogo almeno fino al 1911 (Montroni, 1990), è probabilmente un’ulteriore dimostrazione dell’importanza della Campagna Romana come bacino d’impiego per i lavoratori provenienti da questa area. 24 Secondo alcune testimonianze raccolte, questo tragitto, percorso a piedi o su dei piccoli carri, prevedeva solitamente una sosta a Ferentino. 25 I frequenti e periodici pellegrinaggi verso Roma o alcuni centri limitrofi rappresentano certo una tradizione, un solco in cui inserire i percorsi migratori dei lavoratori stagionali (Santulli, 2002), così come la rete ferroviaria sembra poi aver rappresentato, mano a mano che si espandeva, un valido supporto a questi spostamenti (Sipari, 1884; Muratori, 1907; MAIC, 1907). 26 Fino al momento in cui, per alcuni autori, l’Agro Romano viene a coincidere tout court con «il territorio extraurbano del comune di Roma» (Pratelli, 1957, p. 6). 27 Così come l’eccessivo frazionamento della proprietà fondiaria può essere annoverato tra i fattori di push per quel che attiene l’area di partenza (Marsili, 1965; Massullo, 1996). 28 «Lo Stato pontificio, è noto, era superato solo dal Regno di Napoli nel malgoverno, l’inefficienza, la disorganizzazione e peggio, tanto che ripetutamente le potenze europee erano intervenute per cercare di convincere il Papa a concedere riforme, giudicate inderogabili anche da personalità conservatrici» (Vivanti, 1988, p. 212). 29 «Dal 1690, cioè dal primo catasto del Cingolani di Pergola sotto Alessandro VII al 1803 al 1871, il numero dei proprietari della Campagna andò sempre diminuendo, da 443 a 362 a 204, cioè il latifondo si estese e si concentrò sempre più. [...] E Francesco Crispi: spezziamo il latifondo, ripeteva e si adirava perché io rispondevo: il latifondo lo ha creato e lo mantiene la malaria: se prima questa non si vince quello non si spezza, ma spezzerà l’uomo che ci si provi» (Celli, 1927, p. 10; p. 17). 30 «Tipico, in questo senso, il caso dell’Agro Romano: [...] agli inizi del XX secolo, la proprietà borghese è salita fino a 75.000 ettari, cioè il 40% del totale; ma la sua estensione si è realizzata, per la maggior parte, non tanto a spese della proprietà nobiliare – la cui superficie è diminuita di soli 4.000 ettari – quanto a spese, appunto, della proprietà di manomorta, che è ridotta a soli 13.000 ettari, cioè dal 30% al 7% del totale» (Sereni, 1961, pp. 348 – 349). 31 Così come alcuni anni più tardi l’ondata deflattiva conseguente alla fissazione della cosiddetta “quota 90” per la lira da parte del regime fascista provocherà nuove tensioni tra affittuari e salariati da un lato e proprietari dall’altro, che cercheranno di mantenere saldi i propri margini di

123 profitti attraverso la diminuzione di manodopera e l’aumento dei canoni (De Bernardi e Guarracino, 1988). 32 «La stessa struttura produttiva del latifondo di pianura […] non avrebbe potuto esistere senza poter contare sulla stretta relazione con la montagna […] per la possibilità di utilizzare la manodopera stagionale costituita proprio da quei proprietari particellari delle colline e delle montagne, sottoccupati nelle loro zone, bisognose quindi di integrare il loro bilancio familiare, e per i quali, d’altra parte, la coltivazione estensiva delle pianure non poteva garantire una retribuzione salariata continuativa» (Massullo, 1996, p. 21). 33 Sulla base della letteratura esistente, alla valle intesa come unità storico-geografica appartengono i seguenti comuni: Alvito, Atina, Casalattico, Casalvieri, Picinisco, San Donato Val di Comino, Settefrati, Vicalvi, Villa Latina. 34 «È tipicamente alterna la emigrazione dei contadini italiani verso la Repubblica Argentina, ove essi trovano il pieno della stagione estiva e dell’attività agricola, mentre in patria dura l’inverno ed ogni operosità campagnola è sospesa» (M.A.I.C., 1914b, p. XXXIII). 35 «Ad altre conclusioni si deve pervenire quando si tratti di migrazioni che come quelle dei lavoratori che svernano nei territori delle provincie di Roma e di Foggia, stiano per lunghi mesi lontani dal paese natio e ritraggono gran parte dei loro redditi annuali dai guadagni dell’emigrazione: giacché in questo caso sorge spontaneo nella mente di questi lavoratori obbligati ad assentarsi dalla loro patria, il calcolo del tornaconto che ad essi può derivare dal valicare il confine, in luogo di seguire le consuetudinarie e tradizionali correnti che conducono alla campagna romana, alla Maremma, al Tavoliere» (M.A.I.C., 1914b, p. XXXVIII). 36 «L’emigrazione è scarsa dall’Emilia; quasi nulla dalla Toscana, tranne da Lucchesia e Garfagnana; nulla dalle Marche, dall’Umbria e da Roma; quasi nulla dal Napoletano, tranne dalla Basilicata e da alcuni comuni della Calabria […]. All’opposto in Sardegna, nella provincia di Roma, e nella Maremma Toscana, ha luogo una considerevole immigrazione periodica da altre provincie (dalla Lunigiana per le Maremme; dalla stessa provincia e dalla Liguria per la Sardegna; dall’Abruzzo per la campagna romana)» (Bodio, 1882, p. VI). 37 La crescita dell’emigrazione è stata valutata di proposito solo nel periodo in cui il fenomeno tende a crescere sensibilmente, basandosi sia sulle informazioni desumibili dalla copiosa letteratura in merito (Brusa e Ghiringhelli, 1995; Bonifazi, 1998), sia dai dati rintracciabili per il periodo precedente nelle apposite statistiche prodotte dal M.A.I.C. In questa maniera ci si può agevolmente rendere conto di quanto prima del 1897/1898 il fenomeno fosse comunque contenuto, sebbene con delle differenziazioni territoriali ben precise (graf. 2.4). Da notare come, a partire dal 1903, non compaia più nelle rilevazioni statistiche la distinzione tra emigrazione temporanea e permanente, considerata praticamente fittizia data la scarsa rigorosità che venne imputata ai sindaci e prefetti nella raccolta e suddivisione di questi dati.

124 38 All’interno della stessa Valle di Comino, ad esempio, il centro di Picinisco presenta una sensibile emigrazione verso l’estero, particolarmente rivolta verso l’Irlanda (King e Reynolds, 1990). 39 Un’ipotesi, che sembra trovare riscontro per il comune di Alvito e più in generale per la Valle di Comino (cfr. graff. 2.1 e 2.2), secondo cui «le migrazioni temporanee, che fin dopo l’Unità hanno certamente prevalso rispetto a quelle a carattere definitivo, che può spiegare il mantenimento di un equilibrio, di lungo periodo tra popolazione e risorse e addirittura, in molte situazioni, una crescita delle popolazioni montane» (Del Panta, 1996, p. 202). 40 Un dato particolarmente significativo a sostegno di questa interpretazione risiede nell’aver constatato che proprio nel periodo (18711911) in cui nell’Italia centrale e meridionale una quota compresa tra il 70% e l’80% dei comuni montani conosce fasi di spopolamento (Sonnino, Birindelli, Ascolani, 1996), Alvito presenta una crescita netta della propria popolazione pari addirittura al 68%. 41 Senza dimenticare che l’informazione della popolazione presente/assente non è sempre immediatamente confrontabile, visto che, ad esempio, solamente a partire dal censimento del 1911 c’è la distinzione tra gli assenti in altri comuni del Regno e gli assenti all’estero. Inoltre, occorre ricordare che «buona parte dei conteggi e delle classificazioni del materiale rilevato è stato delegato ai comuni stessi, senza alcuna possibilità di controllo da parte dell’organismo statistico centrale. Il fatto è che alle elaborazioni fatte dai singoli comuni per lungo tempo è stata lasciata, fra l’altro, proprio la determinazione della consistenza delle popolazioni “presente” e “residente”» (Schiaffino, 1980, p. 35). 42 In realtà questa è solo una delle concause individuabili: le altre sono certamente il modificarsi dei processi produttivi nella Campagna Romana e la tendenza all’inurbamento delle popolazioni rurali con un incipiente invecchiamento della popolazione nelle aree di partenza. 43 Una ricerca ancora in corso ha già comunque permesso di trovare una conferma degli spostamenti stagionali dei contadini di S. Donato verso la Campagna Romana per gli anni immediatamente precedenti al periodo qui considerato. Presso l’Archivio di Stato di Frosinone, infatti, sono conservati i certificati di nullaosta riguardanti contadini di diversi paesi del circondario di Sora che avevano chiesto l’autorizzazione a recarsi nella Campagna Romana, risalenti al 1863: ben 120 di questi permessi erano stati concessi a contadini di S. Donato Val di Comino (SF, Sottoprefettura di Sora bb 607-608). 44 Con decreto Regio del 4 marzo 1926 era stato istituito il Comitato - poi Commissariato - permanente per le migrazioni interne il quale, nella convinzione che le migrazioni stagionali costituissero un viatico per gli spostamenti definitivi di residenza, aveva il compito di monitorare questi movimenti per poterli poi meglio indirizzare (Barberis, 1960). 45 Lo Status animarum, istituito nel 1600 da Paolo V che diede ai parroci il compito di redigere i registri per controllare il rispetto del precetto pasquale (Cedrone, 2004).

125 46 I nuovi sviluppi dell’analisi demografica, infatti, sono propensi a non considerare più i diversi fenomeni in maniera indipendente l’una dall’altra, per cui anche i movimenti migratori non possono essere studiati nella loro complessità, se non si tiene conto delle strutture demografiche. Questo, ad esempio, significa che il campione in esame poteva essere diviso per classi di età, per cogliere magari i diversi comportamenti migratori propri delle differenti generazioni. Tuttavia, gli apporti derivanti dall’analisi demografica e storica contemporanea non sono stati trascurati completamente, visto il rilievo dato all’indagine biografica (interviste) che cerca di tenere conto della condizione professionale e dei legami familiari nell’esplicarsi delle differenti esperienze migratorie (Protasi, 2000; Courgeau e Lelièvre, 2001). 47 Vale la pena mettere in evidenza come, fino al momento in cui viene adottata questa formula, sostituita in seguito dalle più generiche «assente per lavoro da questo comune» e poi «assente da questo comune», il toponimo Campagna Romana e quello di Agro Romano vengono utilizzati indifferentemente. I contadini immigrati percepiscono le tenute intorno a Roma come un unico universo di riferimento. Questo campo di studio si arricchisce così di un elemento suscettibile di ulteriori approfondimenti. 48 Il nuovo Codice Civile, entrato in vigore nel 1866, stabiliva che «il matrimonio per conseguire effetti legali dovesse essere contratto di fronte all’autorità municipale» (Moretto, 1991, p. 53). Inizialmente tale norma incontrò delle resistenze, soprattutto nelle regioni appartenute allo Stato Pontificio (Martina, 2000), ma l’incidenza delle unioni solo religiose fino al 1929 (anno del Concordato tra Regno d’Italia e Vaticano) non è comunque alta. 49 Una pratica quella dell’endogamia che in qualche modo può essere vista anche in funzione della conservazione della già piccola e frammentata proprietà della terra (Sinisi, 1993). 50 «Infatti il ciclo annuale delle migrazioni si compone di tre periodi ben distinti: il primo che va da gennaio a tutto aprile, ed in cui si hanno i lavori di potatura agli olivi ed alle viti, la raccolta degli agrumi, le sarchiature e zappettature al frumento; il secondo che va da maggio a tutto agosto, caratterizzato dal lavoro di taglio dei fieni, mietitura e trebbiatura del frumento, solforazione e irrorazione delle viti […]; il terzo che va da settembre al dicembre, e comprende tutte le migrazioni autunnali, limitate ai lavori di vendemmia e vinificazione, di raccolta delle olive […], scasso dei terreni per nuovi impianti di vigneti, semina del frumento» (Franciosa, 1930, p. 69). 51 «La partenza dai monti ha luogo ordinatamente in ottobre, il soggiorno sulla pianura dura circa otto mesi, per cui il ritorno avviene in giugno. Durante questo periodo i vincoli di famiglia sono, se non completamente rotti, almeno interrotti» (Sombart, 1891, p. 124). 52 I matrimoni tra appartenenti a gruppi sociali differenti, individuati sulla base della condizione professionale, sono praticamente assenti. In genere notabili e possidenti si sposano tra loro, oppure le loro figlie spo-

126 sano medici ed insegnanti. La stessa omogeneità è rilevabile tra i contadini (al di là delle distinzioni tra contadini, campagnoli e braccianti). Le donne di estrazione contadina sposano poi anche uomini dediti ad altre attività, artigiani, macellai, sarti e più in là domestici e autisti; data la scarsa mobilità di queste figure, però, tali matrimoni sono stati fatti rientrare tra i non contadini. 53 «Il numero complessivo degli emigrati nell’interno del Regno durante l’anno 1928 è risultato di 227.939 […]. Confrontando queste cifre con quelle relative all’ultima rilevazione compiuta nell’anteguerra (anno 1910), risulta nel 1928 una fortissima diminuzione delle migrazioni interne, pari al 63,1% per le migrazioni in agricoltura […]. La diminuzione va principalmente attribuita alle seguenti cause: 1°) Diminuzione della emigrazione per l’estero […] 2°) Maggiore sviluppo delle industrie dall’anteguerra a oggi. […] 3°) Scomparsa di alcune correnti tradizionali di emigrazione interna per il definitivo stabilirsi degli emigrati nelle zone di immigrazione. […] 4°) Trasformazione della cultura estensiva in cultura intensiva. Costituzione di centri rurali. […] 5°) Incremento dei mezzi di lavorazione meccanica in agricoltura.» (Commissariato permanente per le migrazioni interne, 1929, pp. V – VI). 54 Un’accurata selezione di fonti e letteratura relativa all’assetto viario e infrastrutturale della Valle di Comino e, più in generale, del Lazio meridionale è presente nell’accurato lavoro di L. Arnone Sipari sulle alterne vicende della ferrovia Cassino-Atina-Sora (Arnone Sipari, 2003). 55 Per completezza d’analisi, anche i matrimoni dei “non contadini” sono stati raggruppati secondo lo stesso criterio: oltre a notare la bassa incidenza percentuale sul totale dei matrimoni celebrati, si osserva come nel numero dei matrimoni celebrati nei singoli mesi non sono rilevabili scarti tali da poter parlare di una concentrazione dei riti in particolari periodi dell’anno. Il quadro sostanzialmente più omogeneo è quindi un’ulteriore conferma indiretta di condizionamenti “esterni” importanti nella scelta dei contadini riguardo al mese di celebrazione del proprio matrimonio. 56 Non a caso proprio alla fine di questo periodo Domenico Lanza, imprenditore di Alvito, realizza i suoi maggior investimenti (acquisto di terreni e, tra le prime, macchine agricole) nell’area romana (cfr. cap. 4). 57 La fonte di rilevazione era costituita «dai moduli rosa statistici allegati ai moduli speciali per la Concessione ferroviaria XI per operai viaggianti in comitiva. Com’è noto, infatti, tale concessione ferroviaria prevede per gli operai che viaggiano in comitiva uno sconto del 50% sul prezzo normale del biglietto di 3ª classe; perché gli operai possano usufruirne è necessario però che alla biglietteria della stazione di partenza, assieme al modulo-richiesta della Concessione suddetta presentino anche un modulo rosa statistico che, precedentemente, deve essere stato debitamente compilato a cura dell’Ente (Comune, ufficio di collocamento ecc…) autorizzato a rilasciare i moduli-richiesta della Concessione stessa» (Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna, 1935, p. VII).

127 58 È forse utile ricordare nuovamente come dal 1927 la provincia Terra di lavoro - Caserta fosse stata soppressa e parte dei suoi comuni assegnati alla provincia di Frosinone. 59 In questo contesto è bene allora sottolineare come i lavoratori provenienti dal frusinate risultassero impiegati principalmente nella lavorazione del grano e del fieno, ma con una discreta specializzazione anche per quel che attiene i lavori nelle viti (Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna, 1931, 1932, 1933, 1935). 60 Nei primi anni Trenta sembra poi entrare a regime anche la riforma degli Uffici di Collocamento, i quali vedono accrescere la loro rilevanza, almeno nelle statistiche del regime, nell’allocazione della manodopera e come fonte per la rilevazione delle migrazioni interne. 61 Per inciso, il numero delle ragazze madri che con coraggio decidono di presentarsi a registrare il proprio figlio senza rivelare il nome del padre è degno di nota e, vista l’epoca, stupisce non poco, lasciando intuire l’esistenza di una forte rete di solidarietà a livello familiare o comunitario che fosse magari in grado di fornire un sostegno a queste donne. 62 Difficoltà esistenti anche solo a livello statistico, dal momento che le già citate indagini compiute dall’Ufficio del Lavoro non presentano dati relativi al comune di Roma proprio per i problemi di rilevazione dovuti alla sua dimensione (demografica, oltre che territoriale, M.A.I.C., 1907, 1914b). 63 Le due campagne sono realizzate tra i mesi di giugno e novembre, nel periodo in cui cioè c’era la maggiore concentrazione di persone in questi territori e in cui le condizioni ambientali erano particolarmente favorevoli per il proliferare della zanzara anofele (all’epoca ovviamente ancora non individuata come agente patogeno della malaria). 64 Infatti nel 1907 sono presi in cura i lavoratori di 107 tenute, mentre nel 1911 il numero delle tenute seguite scende a 99. 65 Tali difficoltà di comunicazione sono testimoniate anche dall’improvvisa comparsa, mano a mano che si avanza nella lettura dei registri, di atti relative a nascite avvenute in anni precedenti a quello del registro che si sta consultando. Inoltre, soprattutto per coloro che avevano vissuto per un certo periodo all’estero, spesso si assiste alla contemporanea registrazione di fratelli e sorelle nati a qualche anno di distanza; probabilmente perché in quel caso gli atti erano consegnati dagli stessi genitori al comune al momento del loro ritorno. 66 Il margine di aleatorietà è dovuto dai toponimi utilizzati per indicare le diverse tenute: in rari casi infatti non si è riusciti a trovarne traccia nella carta dello Spinetti oppure non sono risultati decifrabili. 67 Testimonianze del primo bambino “americano” risalgono invece al 1904. 68 Un risultato questo che è conforme a quanto già rilevato per l’emigrazione verso l’Irlanda dal vicino comune di Picinisco, secondo caratteri che sembrano accomunare gli emigranti di questo periodo dalla Valle di Comino (King e Reynolds, 1990).

128 69 «Il gruppo dei XXV (il cui inizio data al 1904, in continuità ideale con il gruppo In Arte Libertas fondato nel 1886 per «fare un’arte seria, individuale, libera e italiana secondo le migliori tradizioni dell’arte») aveva come regola di trascorrere la domenica, su invito del segretario, in una delle località della Campagna Romana per andare a dipingere dal vero» (Fittoni, 2002, p. 45). 70 Tale ricerca, ad esempio, ha permesso allo stesso autore di scavare ancora più a ritroso in questi ricordi. Morri, infatti, è un cognome di origine romagnola, area dalla quale, in base agli studi dell’Ufficio del lavoro, provenivano pure quote di lavoratori stagionali. Tra questi migranti doveva esserci anche il bisnonno paterno di chi scrive, il quale durante i suoi primi anni di permanenza a Roma - ai primi del Novecento - continuò a lavorare come operaio agricolo. 71 Tra le due casate confinanti non mancavano inoltre i contatti, come testimonia il matrimonio tra il Duca Gregorio Boncompagni e Donna Giustina Gallio, figlia del Duca di Alvito, nel 1655. Lo stesso Duca sposò poi, nel 1681, in seconde nozze Donna Ippolita Ludovisi, dando così origine all’attuale famiglia dei principi Boncompagni-Ludovisi (Lauri, 1934). 72 Come per altre famiglie nobili, quali ad esempio i Borghese e i Barberini, anche per i Boncompagni è presente infatti un fondo presso l’Archivio Vaticano. I legami con lo Stato Pontificio rimasero sempre forti, nonostante questa famiglia dopo il 1870 si fosse schierata con il Regno (Martina, 2000). 73 Domenico Lanza compare infatti negli elenchi delle tenute e dei proprietari pubblicato a corredo della Carta dello Spinetti come proprietario in enfiteusi della tenuta “Falcognani Vecchi”: «Lanza Domenico fu Michele, Enfiteuta a Boncompagni Ludovisi Don Ignazio fu Antonio Eredi» (Spinetti, 1914b, p. 40). 74 Nella Carta dello Spinetti compare un Francesco Lanza proprietario della tenuta di Terragnola o Mompeo. Nel 1926 Salvatore Lanza acquista i due terzi della tenuta Gogna S. Appetito-Campo di Carne (Tofani, 1986). 75 Tale formula verrà d’ora in poi sostituita dall’acronimo D.F.L. 76 Tali personaggi spiccavano inoltre nell’amministrazione e gestione della città di Roma, visto che Ignazio Boncompagni, dopo essere stato membro della Giunta di governo della città nominata il 23/11/1870 dal generale Cadorna, nel 1909 faceva parte, in qualità di esperto, della Commissione consultiva per il servizio giardini del Comune di Roma (Comune di Roma, 2002). Una presenza questa nelle istituzioni che certo è dovuta alla considerazione che il Regno d’Italia riservava agli esponenti di queste famiglie, ma che, forse, può anche essere letta come una strada alternativa per conservare il proprio prestigio in un momento in cui proprietà ed averi conoscevano una fase di progressiva erosione. 77 Eccezion fatta per l’orzo (cereale autunno-vernino), le altre specie sono delle leguminose foraggere che si distinguono in prati (colture pluriennali, come il Trifoglio alessandrino) ed erbai (colture annuali, come la

129 lupinella, la sulla e l’erba medica) (Salsano, 1996). Oltre ad avere un ruolo importante nell’avvicendamento colturale, questi prodotti sono comunque tutti destinati all’alimentazione animale: l’ottimizzazione delle tecniche produttive costituisce quindi verosimilmente un passaggio decisivo. 78 La novità e l’importanza dell’evento nel tessuto economico e produttivo romano dell’epoca è testimoniata dall’attenzione che istituti come il Comizio Agrario di Roma, il Consorzio Agrario Cooperativo e la Cattedra Ambulante di agricoltura dell’Agro Romano gli riservarono. Con un’eco che arrivò anche presso gli uffici del Ministero dell’Agricoltura (Strampelli, 1913; “La Nuova Agricoltura del Lazio”, 1913). 79 Chi scrive sta seguendo una Tesi di Laurea che prevede l’applicazione dello stesso metodo di studio a partire dai dati contenuti nei Registri di Stato Civile del Comune di San Donato Val di Comino.

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143

INDICE INTRODUZIONE 1.

IL FENOMENO DELLE MIGRAZIONI STAGIONALI NELLA SUA DIMENSIONE STORICA, SOCIALE ED ECONOMICA

L’ASSETTO ECONOMICO E PRODUTTIVO DEL REGNO D’ITALIA ALLA FINE DEL XIX SECOLO 1.2 I CIRCUITI DELLE MIGRAZIONI CIRCOLARI 1.3 L’INTERVALLO CRONOLOGICO 1.4 L’AREA DI STUDIO 1.4.1 Il Comune di Alvito 1.5 LA CAMPAGNA ROMANA: LIMITI E STRUTTURA AGRARIA

5

9

1.1

2.

LA VALLE DI COMINO: TERRA DI LAVORO O PROVINCIA DI ROMA?

2.1 2.2

UNO SGUARDO AI CENSIMENTI I REGISTRI DI STATO CIVILE DEL COMUNE DI ALVITO 2.2.1 La struttura dei registri e i dati contenuti 2.3 LA CICLICITÀ COMPOSTA DEGLI SPOSTAMENTI 2.4 MATRIMONI: PREMESSE A UNA LETTURA DI LUNGO PERIODO 2.4.1 La variazione nel numero dei matrimoni 2.5 LE STATISTICHE UFFICIALI 2.5.1 Il ruolo della donna 2.6 I REGISTRI DEGLI ATTI DI NASCITA 2.7 CONCLUSIONI 3. 3.1 3.2 3.3

9 11 14 15 18 19

22 22 28 30 31 32 34 37 38 40 43

ALVITANI E “CIOCIARI” NELLA CAMPAGNA ROMANA

44

L’USO DI ALTRE FONTI ACCANTO AI REGISTRI DI STATO CIVILE GLI IMMIGRATI STAGIONALI A ROMA FIGLI DI ALVITO NELLA CAMPAGNA ROMANA

44 45 49

144 3.3.1 3.4 3.5 3.5.1 4.

La Carta dell’Agro Romano di Pompeo Spinetti MOBILITÀ E CONDIZIONE PROFESSIONALE IL DATO ICONOGRAFICO Scrittori e poeti LE TRASFORMAZIONI NEL PAESAGGIO DELLA CAMPAGNA ROMANA ALL’INIZIO DEL XX SECOLO ATTRAVERSO LA STORIA DI DOMENICO LANZA

4.1 4.2

51 53 55 59

61

LA RICERCA SUL CAMPO DOMENICO LANZA, MERCANTE DI CAMPAGNA E SPERIMENTATORE 4.2.1 Domenico Lanza, Cavaliere al merito del lavoro 4.2.2 Domenico Lanza imprenditore 4.2.3 Domenico Lanza bonificatore e sperimentatore

63 64 65 67

CONCLUSIONI

71

LA RICERCA NEL SUO DIVENIRE PROSPETTIVE DI RICERCA

71 73

BIBLIOGRAFIA

61

132

Finito di stampare nel mese di dicembre 2004 dallo Stabilimento Tipolitografico Ugo Quintily S.p.A. - Roma