Dalla parte dei poeti: da Metastasio a Montale. Dieci saggi di metrica e stilistica tra Settecento e Novecento 8860320739, 9788860320735


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Dalla parte dei poeti: da Metastasio a Montale. Dieci saggi di metrica e stilistica tra Settecento e Novecento
 8860320739, 9788860320735

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studi 2

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Gianfranca Lavezzi

Dalla parte dei poeti: da Metastasio a Montale Dieci saggi di metrica e stilistica tra Settecento e Novecento

Società

Editrice Fiorentina

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© 2008 Società Editrice Fiorentina via Aretina 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 [email protected] www.sefeditrice.it isbn 978-88-6032-073-5 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata L’editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte con i quali non sia stato possibile comunicare Si ringrazia l’Archivio Ugo Mulas per aver gratuitamente concesso il permesso di pubblicare l’immagine di p. 250 (Eugenio Montale alla Scala con Dora Zanini Tognella)

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a mia madre Emma: dalla sua voce ho ascoltato la prima poesia a Gabriele, Matteo, Filippo, Alfonso: a loro insegno e da loro imparo a leggere poesia

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Indice

9

Premessa

11

1. La «scuola di gentilezza» di Pietro Metastasio

43

2. Il poeta ha buon orecchio: appunti sugli endecasillabi sciolti di Vincenzo Monti

63

3. Muse democraticamente (ma poco) ispirate: il Parnasso democratico

83

4. La poesia “inquieta” di Emilio De Marchi

121

5. Fiori di lontano. Autori stranieri nelle antologie scolastiche di Giovanni Pascoli

149

6. La disciplina della libertà nella metrica di Alcyone

165

7. Riconoscere l’«usate forme»: Petrarca e la metrica del Novecento

203

8. «Di un’altra spece». Note su Umberto Saba traduttore

219

9. Occasioni variantistiche per la metrica delle prime tre raccolte montaliane

233

10. Rammendo postumo alla «rete a strascico»: una poesia “dimenticata” di Eugenio Montale

251

Indice dei nomi

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Premessa

I saggi qui raccolti delineano un percorso attraverso il versante poetico della letteratura italiana degli ultimi tre secoli: da Pietro Metastasio – cui è dedicato l’unico studio di taglio complessivo e divulgativo, ma con attenzione particolare agli aspetti metrici e linguistici – a Eugenio Montale, oggetto del saggio più antico (sulla metrica delle prime tre raccolte) e di quello più recente, che rende nota ed esamina una sua lirica “dimenticata”. La chiave di lettura privilegiata è quella metrica, esclusiva (l’endecasillabo sciolto di Vincenzo Monti, la “strofe lunga” di Gabriele D’Annunzio, il “petrarchismo” metrico del Novecento) o affiancata all’indagine linguistica e storica (il Parnasso democratico, la poesia di Emilio De Marchi). Giovanni Pascoli e Umberto Saba sono indagati in un settore particolare e comune, la traduzione, praticata con originale parsimonia da Saba, con ampiezza e complessa maestria dal Pascoli antologista. Il saggio pascoliano è l’unico non ancora edito; tutti gli altri sono apparsi in varie sedi tra il 1999 e il 2007, e sottoposti qui a una capillare revisione, anzi talora a cospicue integrazioni (il settimo, l’ottavo e l’ultimo), con una sola eccezione: ho infatti deciso di ristampare senza alcun intervento, con l’unica aggiunta di una essenziale nota bibliografica finale di aggiornamento, il saggio sulla metrica montaliana pubblicato nel lontano 1981, per due motivi: sia perché alcune fondamentali voci della sterminata bibliografia sull’autore accumulatasi nel frattempo (prima fra tutte l’edizione critica dell’Opera in versi) avrebbero imposto una riscrittura quasi integrale, sia perché questo saggio, proprio per la natura “pionieristica” che lo connota, è stato molto citato dagli studiosi che si sono poi occupati di metrica montaliana; lasciare l’involucro e cambiare il contenuto sarebbe stato dunque doppiamente inopportuno. Qui di seguito indico le sedi di apparizione dei singoli studi: il primo è l’Introduzione all’antologia di Melodrammi e canzonette di Pietro Metastasio da me curata, Milano, bur, 2005. Gli ultimi tre provengono da riviste: il saggio sabiano era apparso, con titolo Umberto Saba «traduttor de’ traduttor» di Esenin e in forma

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

meno estesa, in «Autografo», 39, luglio-dicembre 1999, pp. 99-110; Occasioni variantistiche per la metrica delle prime tre raccolte montaliane proviene da «Metrica», II, 1981, pp. 159-172 e Rammendo postumo alla rete a strascico: una poesia “dimenticata” di Eugenio Montale dagli «Studi di Filologia Italiana», lxiv, 2006, pp. 431443. Gli altri nascono come relazioni di Convegni e sono stampati nei relativi Atti: Il poeta ha buon orecchio: appunti sugli endecasillabi sciolti di Vincenzo Monti negli Atti del Convegno «Monti nella cultura del suo tempo» (Forlì, 12-13 marzo 2004) editi in Vincenzo Monti nella cultura italiana, a cura di Gennaro Barbarisi, Milano, Cisalpino, 2005, vol. i, pp. 683-707; Muse democraticamente (ma poco) ispirate: il «Parnasso democratico» in Vincenzo Monti e la Francia. Atti del Convegno internazionale di studi (Parigi, 24-25 febbraio 2006), a cura di Angelo Colombo, Parigi, Istituto Italiano di Cultura, 2006, pp. 201-223; La poesia “inquieta” di Emilio De Marchi in Emilio De Marchi un secolo dopo. Atti del Convegno (Università di Pavia, 5-6 dicembre 2001), a cura di Renzo Cremante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, pp. 177-221. La disciplina della libertà nella metrica di «Alcyone» ha avuto la prima sede di pubblicazione in Da Foscarina ad Ermione. «Alcyone»: prodromi, officina, poesia, fortuna. Atti del 27° Convegno di studi (Francavilla al mare, 25-27 maggio 2000), Pescara, Centro Nazionale di Studi Dannunziani, 2000, pp. 143-160. Riconoscere l’«usate forme»: Petrarca e la metrica del Novecento ripropone, con molti interventi e aggiunte, il saggio apparso in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano. Atti del Convegno di Roma, 4-6 ottobre 2001, a cura di Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 55-87. Infine si anticipa qui, leggermente rivista rispetto agli Atti in attesa di pubblicazione presso la Clueb di Bologna, la relazione tenuta al Convegno «Il canone letterario nella scuola dell’Ottocento: antologie e manuali di letteratura italiana», Università di Pavia, 28-29 aprile 2004 (Fiori di lontano. Autori stranieri nelle antologie scolastiche di Giovanni Pascoli). L’ultimo saggio è arricchito, oltre che da molti dati nuovi rispetto alla pubblicazione in rivista, da un’appendice iconografica, in cui alcune fotografie assolutamente inedite svelano per la prima volta il viso della protagonista femminile de La casa di Olgiate. Dell’incremento – di notizie e di immagini – sono debitrice alla cortesia e generosità delle signore Dora e Yolanda Zanini, alle quali desidero qui esprimere profonda gratitudine. Delle due dediche in limine, la prima è rivolta a mia madre Emma, da dieci anni in nessun dove e in nessun quando ma viva e luminosa nel continuo presente del mio ricordo. La seconda riguarda i “miei” studenti, laureati o laureandi; in esergo ne sono nominati quattro – i primi in ordine cronologico – ma qui voglio citare anche gli altri: Alice, Anna Stefania, Chiara Anna, Daniela, Daniele, Emanuela, Laura, Luca, Marta, Silvia. A tutti loro, e a ciascuno di loro, un pensiero speciale. A Franco Contorbia, prezioso punto di riferimento intellettuale e culturale, un ringraziamento di particolare intensità e affetto. Pavia, 25 aprile 2008.

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1. La «scuola di gentilezza» di Pietro Metastasio

Fu il Metastasio di mezzana statura, inclinante più alla pinguedine che alla magrezza, e ben proporzionato della persona. Aveva lineamenti di viso assai belli, occhi neri penetranti vivissimi, pieni di dolcezza, un naso ben formato, bocca piuttosto grande, ma ridente e ben conservata, gote vermiglie e floride, il colorito bianco misto ad un assai vivo porporino, che terminava di rendere gradevolissima la sua fisonomia, avendo conservato queste fattezze fino a tarda età1.

Sembra quasi che l’anonimo biografo avesse sotto gli occhi il ritratto di Metastasio dipinto da Rosalba Carriera nel 17302: lineamenti regolari, viso tondo non pallido, e soprattutto occhi acuti e vivaci, quali rimasero probabilmente fino alla estrema vecchiaia, se Lorenzo Da Ponte, avendo incontrato il poeta pochi giorni prima della morte, lo ricorda come un «grand’uomo, che riteneva, sebben vecchissimo, tutta la freschezza ed il brio della gioventù e tutto il primitivo vigore del vivace e gagliardo ingegno»3. Anche Charles Burney, nel 1772, rimase colpito dall’aspetto giovanile del poeta settantaduenne: 1 Possiamo leggere questa descrizione fisica del poeta nella sua biografia stampata anonima a Roma nel 1786 (Vita del signor abate Pietro Metastasio poeta cesareo, aggiuntovi le massime e sentenze estratte dalle sue opere) e riportata da Giulio Natali, Introduzione a Pietro Metastasio, Opere scelte, Milano, Vallardi, 1934, p. xvi. 2 Il ritratto è conservato nella Gemäldegalerie di Dresda. Altri celebri ritratti di Metastasio sono dovuti a Pompeo Batoni (Firenze, collezione privata) e ad Jacopo Amigoni, che in un dipinto ora conservato a Melbourne (National Gallery of Victoria) ritrasse se stesso in compagnia di Teresa Castellini, Farinelli e Metastasio. Il busto di marmo che Giuseppe Ceracchi gli dedicò nel 1787 fu posto a Roma nel Pantheon, e poi trasferito nella Protomoteca capitolina, dove si trova tuttora. Nel 1886 Emilio Gallori ne scolpì una statua in marmo, posta prima nella piazzetta di S. Silvestro, e trasferita poi, nel 1910, in Piazza della Chiesa Nuova (vicino a via dei Cappellari, dove si trovava la casa natale del poeta). 3 Cfr. Lorenzo Da Ponte, Memorie, a cura di Armando Torno e Max Bruschi, Milano, Gallone, 1998, vol. i, p. 109.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

non dimostra più di cinquant’anni […] e per la sua età è il più bell’uomo che abbia mai visto. Reca impressi sul suo volto il genio, la bontà, la correttezza, l’umanità e la rettitudine che sempre caratterizzano i suoi scritti. Non potevo distogliere il mio sguardo dal suo viso, così gradevole e degno di ammirazione. La sua conversazione era in armonia col suo aspetto: gentile, facile, animata4.

Nel pacato equilibrio della fisionomia, non alterata dagli anni, pare riflettersi la tranquilla serenità di una vita lunga (1698-1782), piena e complessivamente fortunata: felice coincidenza fu innanzi tutto l’incontro, nel 1708, con il primo “custode” dell’Accademia dell’Arcadia, Gian Vincenzo Gravina, il quale – come vuole la tradizione – rimase impressionato dalla bravura del giovanissimo Pietro Trapassi che vide, passando casualmente per quella strada, mentre stava improvvisando versi davanti alla modesta bottega del padre, e decise di provvedere all’educazione del ragazzo (nominato poi erede di gran parte del suo patrimonio); passaggio fondamentale nella vita del giovane5, accompagnato e simboleggiato dalla sostituzione del cognome anagrafico con il grecizzante Metastasio. Fortunato anche, dopo il trasferimento a Napoli nel 1719, l’incontro con la celebre cantante Marianna Bulgarelli («la Romanina»), di dodici anni maggiore di lui, prezioso sia nel versante privato (l’affetto tra i due rimase saldissimo – anche se probabilmente in forme variate nel tempo – fino alla morte di lei, nel 1734) sia in quello professionale e pubblico: Marianna era cantante molto brava e molto nota, e certo fu notevole il suo contributo al successo della Didone abbandonata, nel 1724; inoltre, nel suo salotto Metastasio conobbe musicisti di primo piano – come Hasse, Leo, Vinci, Scarlatti, Porpora – oltre al celebre cantante Carlo Broschi detto «il Farinello», divenuto amico carissimo (il «gemello»6 destinatario di molte sue lettere). Fu probabilmente la Bulgarelli a metterlo in contatto con Marianna Pignatelli, contessa d’Althann (la seconda Marianna della sua vita), che appoggiò a Vienna – dove aveva il ruolo di dama di corte – la chiamata del Metastasio come sostituto dell’anziano “poeta cesareo” Apostolo Zeno. A Vienna arrivò il 17 aprile 1730, trovandovi una sorta di colonia di artisti, scienziati, predicatori italiani: a corte si parlava italiano, ed egli poté evitare di imparare il tedesco, di cui si limitò a conoscere pochi vocaboli7. 4 Cfr. Charles Burney, Viaggio musicale in Germania e Paesi Bassi, a cura di Enrico Fubini, Torino, edt, 1986, p. 113 (ed. originale: The Present State of Music in Germany, The Netherlands, and United Provinces, 1773). 5 Lo studio dei classici compiuto sotto il magistero del Gravina è ovviamente di importanza capitale anche per tutta la futura produzione melodrammatica, sempre sostenuta da una robusta cultura e riflessione teorica, testimoniata soprattutto dalla traduzione dell’Ars poetica di Orazio e dall’Estratto dell’Arte poetica di Aristotele. 6 Carlo Broschi detto «il Farinelli» o «Farinello» (1705-1782), cantante sopranista, cantò per la prima volta a Napoli, nell’Angelica e Medoro, primo componimento drammatico di Metastasio: contemporaneo fu quindi il loro debutto in pubblico, e per questo nelle lettere si chiamavano a vicenda «gemello». 7 Italiani furono i poeti di corte, da Niccolò Minato, verso la fine del Seicento, a Clemente Bondi, vissuto a Vienna sino al 1821. Sulla presenza e sul ruolo degli italiani a Vienna in quel tempo

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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In Italia non sarebbe tornato mai più, e avrebbe trascorso il resto della sua vita (cinquantadue anni!) a Vienna, in un appartamento di proprietà di Nicolò Martinez (napoletano cerimoniere del Nunzio Apostolico presso la corte imperiale), posto al quarto piano di un edificio adiacente alla Michaelerkirche (Chiesa di San Michele, nella cripta della quale Metastasio è sepolto). Da Vienna usciva per le villeggiature in Moravia, quasi un “doppio” reale dello sfondo arcadico di molti suoi drammi; così ne descrive il paesaggio invernale in una lettera del 23 ottobre 1749: Tutto è ricoperto di neve. Il fiume, non che i laghi e gli stagni, si sono in un tratto saldissimamente gelati: ed una sottilissima auretta, spirante da’ sette gelidi Trioni ci rende i suoi omaggi fin dentro alle nostre più interne e custodite camere, nelle quali ci siamo fortificati. Con tutto questo improvviso e stravagantissimo cambiamento della natura io, che non era nato per la strepitosa magnificenza delle Corti ma per l’oziosa più tosto tranquillità d’Arcadia, ritrovo qui tuttavia, a dispetto degli allettamenti cittadini, moltissimo di che compiacermi. Mi diletta quell’uniforme candore che per così gran tratto di terreno io mi veggo d’intorno: mi piace quel concorde silenzio di tutti i viventi. Mi trattiene quell’andar ricercando con gli occhi le conosciute vie, gli alberi, i campi, i cespugli, i tuguri pastorali, e tutti quei noti oggetti, de’ quali la caduta neve ha cambiato affatto il colorito, ma conservato rispettosamente il disegno; considero con sentimento di gratitudine che quell’amico bosco che mi difendeva poc’anzi con l’ombra da’ fervidi raggi del sole or mi somministra materia onde premunirmi contro l’indiscretezza della fredda stagione; insulto con diletto all’inverno, ch’io veggo ma non provo nella costante primavera del nostro tepido albergo: ma quello di che, per impulso d’amor proprio, io più sensibilmente mi compiaccio, è l’andarmi convincendo che al pari delle altre stagioni abbia l’inverno ancora i suoi comodi, le sue bellezze e i suoi vantaggi8.

Gli anni più felici, anche dal punto di vista dell’operosità poetica9, furono i primi dieci, trascorsi in una ovattata e metodica tranquillità, che probabilmente Metastasio si imponeva per tenere a bada un carattere non forte né deciso, anzi spesso in balia del dubbio e dell’irresolutezza, come egli stesso riconosce con autoironico rammarico in una lettera alla Bulgarelli del 4 luglio 1733: Mi volete suggerire un soggetto per l’opera che ho da incominciare? sì, o no? Io sono in un abisso di dubbi. […] La fortuna mia si è che bisogna risolversi assolutamente, e non vi è caso di evitarlo. Se non fosse questo, dubiterei fin al giorno del giudizio, e poi sarei da capo. Leggete la terza scena dell’atto terzo del mio Adriano: osservate il carattere che fa

cfr. Rossana Caira Lumetti, La cultura italiana a Vienna all’epoca di Metastasio, in «Critica letteraria», xxx, 2-3, 2002, pp. 465-483. 8 Lettera ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, a cura di Bruno Brunelli, Milano, Mondadori, 1943-1954, tomo iii, pp. 436-437. 9 Fervida in altri due distinti campi teatrali, oltre a quello del melodramma vero e proprio: l’azione sacra e la festa musicale.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

l’imperatore di se medesimo10, e vedrete il mio. Da ciò si comprende che io mi conosco; ma non per questo correggomi11.

Un’inquietudine di fondo, dunque, che probabilmente si manifestava in continui, vaghi, non gravi ma fastidiosi malesseri fisici, ai quali accenna in molte lettere: Da otto anni incirca ho contratta una scandalosa consuetudine con una impertinente legione di affetti ipocondriaci, che si sono alloggiati in questa mia tormentata macchinetta in compagnia de’ flati, degli acidi, delle nausee, degli stiramenti de’ nervi, e di mille altri loro omonimi, diabolici satelliti12.

La cura più efficace per questi «affetti ipocondriaci» non gli proveniva dai medici, nei confronti dei quali nutriva fiducia assai scarsa, ma probabilmente proprio dalla sua arte: una volta proiettate nei personaggi dei suoi drammi, tutte le paure e le insicurezze trovavano una ricomposizione, nel conforto di un lieto fine mai messo in dubbio (sia pure su un piano altro da quello reale). Un vero, grande dolore fu probabilmente quello causato dalla morte di Marianna d’Althann, nel 1755, ma Metastasio non rimase solo: il testimone affettivo passò, quasi naturalmente, alla terza Marianna, la giovane figlia di Nicolò Martinez. La sorte sembra essergli stata benevola anche nella morte, causata – pare – dal freddo preso nell’assistere a una cerimonia celebrata dal papa: era la settimana santa del 1782, e Pio VI era arrivato a Vienna per cercare di scongiurare i provvedimenti moderatamente libertari in materia religiosa che Giuseppe II era intenzionato a promuovere. Erano anche queste avvisaglie del cambiamento epocale che si stava avvicinando, e che avrebbe sconvolto dalle fondamenta il mondo cui Metastasio apparteneva; di questo mondo egli accettava le basi, senza mai metterle in discussione, consapevole però della possibilità di un vicino sovvertimento, che non sarebbe stato indolore per nessuno: Lo strano universale fermento nel quale al presente si trovano e le sacre e le profane cose in tutta la terra conosciuta, non mi fa sperar vicino il termine della crisi. Il fuoco arde nascosto da lunghissimo tempo. Son troppo eterogenei gli umori che converrebbe ridurre in equilibrio; e l’oggetto di quelli che potrebbero conferire al riposo è la novità, non la calma. Onde per mettere in assetto l’enorme confusione d’un caos così tenebroso 10 Cfr. Adriano in Siria, a. III, sc. iii: «Ah tu non sai / qual guerra di pensieri / agita l’alma mia! Roma, il Senato / Emirena, Sabina, / la mia gloria, il mio amor, tutto ho presente / tutto accordar vorrei: trovo per tutto / qualche scoglio a temer. Scelgo, mi pento; / poi d’essermi pentito / mi ritorno a pentir. Mi stanco intanto / nel lungo dubitar, tal che dal male / il ben più non distinguo. Al fin mi veggio / stretto dal tempo, e mi risolvo al peggio». 11 Cfr. Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, p. 85. 12 Lettera del 24 maggio 1753 a Mattia Damiani, in Pietro Metastasio, ivi, iii, p. 827.

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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parmi che non bisogni meno che quella Onnipotenza alla quale basta il dire fiat lux perché comparisca la luce. Desidero che questi poco sereni pensieri sien difetti dell’età mia, propensa a deplorare il presente e ad esaltare il passato; ma è ben certo per altro che tutti i grandi cambiamenti degl’invecchiati sistemi (quando ancor sia sicuro che i posteri abbiano a ritrarne profitto) sono sempre fatali a quegli sventurati che la sorte ha condannato ad esserne spettatori13.

Metastasio è dunque pienamente uomo del suo tempo, del quale però non è certo spettatore insensibile: lo vive con profonda etica, con «la lucida coscienza di una funzione socialmente efficace e positiva, quantunque limitata e strettamente contenuta nell’ambito dell’attività letteraria»14. Molteplici le testimonianze epistolari in proposito: «Io credo e sostengo che Non meritò di nascere / chi vive sol per sé»15; «se non mi è riuscito di giovare altrui con le mie ciance canore, io temo che uscirò dal mondo senza aver adempito questo primo debito di chi nasce»;16 «ho procurato […] di far servire tutte le veneri poetiche a render famigliare e caro al popolo il giusto e l’onesto»17. E si ricordi naturalmente la Licenza dell’Olimpiade (1733), dove l’autore «avocava decisamente a sé il compito di mediatore fra il trono e i sudditi: da un lato si faceva interprete presso i sovrani dei voti pubblici; dall’altro comunicava ai “lontani” lo splendore contagioso delle virtù regali; delle quali, con allusione ideologicamente carica di significato, dichiarava l’origine provvidenzialmente divina»18. La figura di Metastasio è dunque circondata da una luce molto più sfumata di quella, polemicamente netta e sgradevole, con la quale Alfieri, nella Vita, lo fissa in una “fotografia” celebre ma ingenerosa e tutto sommato falsificante: avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all’autorità despotica da me sì caldamente abborrita19.

Lettera del 27 giugno 1768 a Sigismondo Chigi, ivi, iv, p. 632. Cfr. Elena Sala Di Felice, L’arbitro dei destini: ideologia e drammaturgia in Metastasio, in Metastasio. Ideologia, drammaturgia, spettacolo, Milano, Angeli, 1983, p. 150. 15 Lettera del 29 aprile 1757 a Antonio Filippo Adami, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iv, p. 8. 16 Lettera del 13 febbraio 1760 a Daniele Florio, ivi, iv, p. 131. 17 Lettera del 10 marzo 1760 a Leopoldo Trapassi, ivi, iv, p. 134. 18 Cfr. Elena Sala Di Felice, L’arbitro dei destini, cit., p. 151. 19 Cfr. Vittorio Alfieri, Vita, Epoca 3, cap. 8. L’avverbio «servilmente» è aggiunto nella seconda redazione: cfr. l’edizione critica della Vita scritta da esso a cura di Luigi Fassò, Asti, Centro Studi Alfieriani, 1951, vol. i, pp. 97-98 e vol. ii, p. 84. L’incontro risale al 1769. 13

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Alfieri non è tenero con il Nostro neppure nella satira L’educazione («Mi scordai di una cosa; alla ragazza / farete leggiucchiar di quando in quando / Metastasio, le ariette…; ella ne è pazza»), anche se, in un altro passaggio della Vita, ammette di aver provato una certa commozione nel leggerlo, sia pure in età infantile: Di nessun altro poi de’ poeti nostri aveva io cognizione; se non se di alcune opere del Metastasio, come il Catone, l’Artaserse, l’Olimpiade, ed altre che ci capitavano alle mani come libretti dell’opera di questo, o di quel carnovale. E queste mi dilettavano sommamente; fuorché al venir dell’arietta interrompitrice dello sviluppo degli affetti, appunto quando mi ci cominciava a internare, io provava un dispiacere vivissimo20.

Più acuminato che deferente è anche Giacomo Casanova, nel raccontare la sua visita al poeta, avvenuta nel 1753: rimasi a chiacchierare con lui [Metastasio] per un’ora. Quanto a cultura lo trovai ancor più grande di quanto non lo mostrassero le sue opere e lo trovai anche dotato di una modestia che dapprincipio non mi sembrò naturale: mi accorsi però ben presto che lo era perché notai che essa spariva quando Metastasio declamava qualcosa di suo sottolineandone le bellezze. Gli parlai del suo precettore, il Gravina, ed egli mi recitò cinque o sei stanze inedite che aveva composte in occasione della sua morte, e versò qualche lacrima di tenerezza per la dolcezza della sua poesia. Quand’ebbe finito, soggiunse: «Ditemi il vero: si può dir meglio?»21.

Ben diversa disposizione d’animo dimostra Pietro Verri nell’incontrare il poeta nel 1760: so che mi pareva d’essere in presenza di un nume con Metastasio; pareva ch’egli dovesse penetrare nella mia anima e vedervi dentro; mi pareva d’essere in quel momento un soggetto d’invidia, perché con un uomo illustre, ammirato da tanti; e aveva più rispetto nell’anima per il poeta, che per la sovrana22.

Grande apprezzamento, talora entusiastico, nei confronti di Metastasio è manifestato da molti teorici del Settecento delle più diverse tendenze, da Francesco Milizia ad Andrea Rubbi, da Saverio Bettinelli a Giuseppe Baretti (che gli dedica un lungo articolo sul terzo numero della «Frusta letteraria», nel 1763)23. Ivi, Epoca 2, cap. 4 (vol. i, p. 37). Cfr. Giacomo Casanova, Storia della mia vita, a cura di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1989, vol. i, p. 829. 22 Cfr. Carteggio di PIETRO e di ALESSANDRO VERRI, a cura di Francesco Novati et alii, Milano, 1910-1942, vol. iv, pp. 57-62. 23 Cfr. Anna Laura Bellina e Carlo Caruso, Oltre il Barocco: la fondazione dell’Arcadia. Zeno e Metastasio: la riforma del melodramma, in Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato, Il Settecento, Roma, Salerno, 1998, p. 301. 20

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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In particolare, Ranieri de’ Calzabigi, nella prefazione all’edizione parigina delle opere metastasiane da lui curata (1755-1757), insisteva su due punti fondamentali: sul fatto che i melodrammi di Metastasio fossero «perfette tragedie lavorate sulle vere leggi che dagli antichi ci sono state prescritte», dunque l’incarnazione moderna della tragedia aristotelica, e sulla “funzionalità” della sua poesia alla musica («Dalla maestà, energia, e brillanti immagini della poesia del Signor Metastasio dipende a mio parere la forza, varietà e bellezza della nostra musica»)24. La derivazione del melodramma dalla tragedia greca – e dunque la sua piena legittimità –, affermata con forza dallo stesso Metastasio nell’Estratto dell’Arte poetica25, era sostenuta anche da Francesco Algarotti, che a Metastasio dedicò un elogio in versi26: Dai dorati palchetti e dall’arena a te fa plauso la leggiadra gente, lieta ch’omai per te l’itale scene grave passeggia il sofocleo coturno.

Aurelio de’ Giorgi Bertola ne ammirava la limpidezza stilistica e la musicalità, il «supremo artificio di una precisa simmetrica, melodiosa collocazione di voci, e di una spontanea distribuzione de’ più morbidi accenti»27, e ne sintetizzava il successo in due celebri versi: «Il gondolier, ch’Erminia sol sapea / or va cantando Arbace ed Aristea»28. Goldoni gli aveva dedicato il Terenzio, così individuando la peculiarità della sua arte: Voi avete vestita di vaghe spoglie la più severa filosofia; condita avete con dolci modi la più istruttiva morale […], onde Voi più che ogni altro osservaste l’opportuno precetto di unire l’utile al dolce, potendo colle dolci rime allettare, nel tempo medesimo che le vostre massime istruiscono gli uomini nel buon costume, nella società, nel dovere, scorgendosi in Voi perfettamente unito il poeta, il filosofo, il precettore, il cristiano29.

24 Dissertazione di RANIERI DE’ CALZABIGI dell’Accademia di Cortona su le poesie drammatiche del signor abate Pietro Metastasio, in Pietro Metastasio, Poesie, Parigi, Quillaut, 1755, tomo i, pp. clxxxvii-clxxxix. 25 Della tragedia vengono sostanzialmente rispettate le tre unità, in particolare quella di luogo: la vicenda si svolge in un solo giorno. 26 Cfr. Francesco Algarotti, Al Signor Abate Metastasio poeta cesareo, in Opere scelte, Milano, Società Tipografica dei Classici Italiani, 1823, vol. ii, pp. 462-468. Si citano i vv. 10-13. 27 Cfr. Aurelio Bertola de’ Giorgi, Osservazioni sopra Metastasio con alcuni versi, Bassano, Remondini, 1784; si cita dall’edizione curata da Gian Piero Maragoni, Roma, Vecchiarelli, 2001, p. 38. 28 Al sepolcro di Metastasio, in Poesie, Pisa, Capurro, 1817, t. iii, p. 127. Erminia è tra i personaggi principali della Gerusalemme liberata; Arbace è personaggio dell’Artaserse, Aristea dell’Olimpiade. 29 Cfr. Carlo Goldoni, Opere, a cura di Giuseppe Ortolani, Milano, Mondadori, 1935-1956, vol. v, p. 687.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Nel Teatro comico deplorava una parodia di versi tratti dalla Didone («non posso sofferire di sentir a porre in ridicolo i bellissimi e dolcissimi versi della Didone»30) e nei Mémoires dava dei suoi drammi un giudizio molto lusinghiero: lo stile puro e elegante, i versi scorrevoli e armoniosi, una chiarezza ammirevole nei sentimenti, una apparente facilità che cela il faticoso lavoro della precisione, un’energia vibrante nel linguaggio delle passioni, i ritratti, le scene, le ridenti descrizioni, la morale dolce, la filosofia insinuante, le analisi del cuore umano, le conoscenze sparse senza esagerazione e applicate con arte, le arie, o per dir meglio, i madrigali incomparabili, ora nel gusto di Pindaro, ora in quello di Anacreonte, l’hanno reso degno di ammirazione e gli hanno fatto meritare la corona immortale che gli italiani gli hanno attribuito e che gli stranieri non rifiutano di concedergli31.

Nel 1779 Monti gli dedicava un componimento drammatico, la Giunone placata, affermando che «un’anima così dilicata, così limpida, così tenera e trasportata come la sua non vi è, né vi sarà mai»32. Tra i letterati suoi corrispondenti troviamo Goldoni, Gasparo Gozzi, Pindemonte, Frugoni; tra i sottoscrittori della lussuosa edizione Hérissant delle sue opere33 si affollano sovrani di primo e primissimo piano (Luigi XVI e Maria Antonietta, Giuseppe II, Caterina di Russia, Giorgio III d’Inghilterra) accanto a Goldoni e a Condorcet, al British Museum e alla Biblioteca Ducale di Parma. All’estero, il suo prestigio era talmente vasto e saldo, che gli Enciclopedisti nel 1751 gli chiesero di stendere la voce «opéra» per la grande Encyclopédie di Diderot e d’Alembert; ma egli declinò l’invito per coerenza ideologica, poiché le sue opinioni andavano in altra direzione, come si evince dalla sua lettera del 12 agosto di quell’anno a Luigi di Cahusac di Montauban34, che gli aveva fatto la richiesta di collaborazione: Gl’incomodi di mia salute mi lasciano appena facoltà onde adempire i doveri del mio impiego, e la vastità delle sue richieste suppone un uomo valido e disoccupato. Quando in me concorressero queste due invidiabili circostanze non saprei né pure come mettere d’accordo la sollecitudine necessaria all’opera sua con la tardità inseparabile da chi, obbligato ad esaminare una terra incognita, non può muover passo senza rischio di perdersi che con la bussola e lo scandaglio alla mano.

Se Voltaire nel 1748 aveva definito alcuni monologhi della Clemenza di 30 31 32

p. 222.

Cfr. Carlo Goldoni, Opere, cit., vol. ii, p. 1094. Cfr. Carlo Goldoni, Memorie, a cura di Paolo Bosisio, Milano, Mondadori, 1993, p. 238. Cfr. Vincenzo Monti, Saggio di poesie, Livorno, dai Torchi dell’Enciclopedia, 1779,

Opere, a cura di Giuseppe Pezzana, Paris, Hérissant, 1780-1782, 12 voll. Autore di tragedie, commedie, drammi per musica e compilatore di voci teatrali dell’Enciclopedia. La lettera è pubblicata in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, p. 665. 33

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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Tito degni di Corneille e di Racine, così scriveva Rousseau nel Dictionnaire de Musique (1767) alla voce «génie»: Veux-tu donc savoir si quelque étincelle de ce feu dévorant t’anime? […] Si tes yeux s’emplissent de larmes, si tu sens ton coeur palpiter, si des tressaillemens t’agitent, si l’oppression te suffoque dans tes transports, prend le Métastase et travaille; son génie échauffera le tien; tu créeras à son exemple35.

E nella Nouvelle Héloïse Metastasio è presente con citazioni tratte da melodrammi e azioni teatrali: dall’Attilio Regolo all’Eroe cinese, dal Tempio dell’eternità alla Morte d’Abel 36. Ma è strabiliante soprattutto la fortuna scenica dei drammi metastasiani, vastissima quanto di breve durata (si esaurì quasi completamente entro il secolo)37: furono tradotti e messi in scena in regioni anche molto lontane38, da Poltava in Ucraina a San Salvador, colonia portoghese (dove il viaggiatore L. A. Bougainville vide un gruppo di mulatti recitare con grande impegno un dramma metastasiano), dal Cile al Brasile, da dove il letterato José Basilio da Gama nel 1770 così scrisse a Metastasio: [il nome di Metastasio] è ascoltato con ammirazione nel fondo delle nostre foreste. I sospiri d’Alceste e di Cleonice sono familiari ad un popolo, che non sa che ci sia Vienna al mondo. Bel vedere le nostre Indiane piangere col vostro libro in mano, e farsi un onore di non andar al teatro ogni volta che il componimento non sarà di Metastasio!39

Opere del Nostro furono oggetto di rifacimento da parte di scrittori quali Voltaire, che dall’Eroe cinese derivò L’Orphelin de la Chine, e M. J. Chénier, che per il suo Cyrus si appoggiò al Ciro riconosciuto40. Numerosissime furono anche le riduzioni coreografiche, fino a tutta la prima metà dell’Ottocento. Alcuni drammi vennero portati sulle scene senza la musi35 Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, vol. v (Écrits sur la musique, la langue et le théâtre), 1995, p. 837. 36 Cfr. la traduzione italiana di Elena Pulcini, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 62, 83, 84, 99, 117, 242, 509, 543, 653, 720. 37 Cfr. il paragrafo dedicato alla fortuna (firmato B[runo] B[runelli]) nella voce «Metastasio» dell’Enciclopedia dello Spettacolo fondata da Silvio D’Amico, Roma, Casa Editrice Le Maschere, 1960, dal quale desumiamo molti dei dati esposti subito dopo. 38 In una medaglia coniata in suo onore fu inciso il motto «Ultimi noscent Geloni». 39 Cfr. la nota alla lettera di risposta del Metastasio, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iv, p. 897. 40 Ancora da studiare è la ricezione di Metastasio in Europa in epoca post-metastasiana. Penso ad esempio alle due poesie di Christina Rossetti, figlia minore di Gabriele (grande ammiratore, com’è noto, del drammaturgo italiano): From Metastasio, traduzione libera dell’aria «Amo te solo» (dalla Clemenza di Tito) e The Rose, “trasformazione” del sonetto Leggiadra rosa, le cui pure foglie… Cfr. Jean M. Ellis D’Alessandro, Metastasio e altre presenze: intertestualità e ipertestualità nella poesia di Christina G. Rossetti, nell’opera collettiva Soglie, margini, confini. Scritture in limine (“lea. Letterature d’Europa e d’America”, i), Roma, Carocci, 2004, pp. 220-229.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

ca, premiati da un successo talora vivissimo: in particolare, l’Attilio Regolo fu recitato a Vienna da attori tedeschi l’anno successivo alla sua rappresentazione come dramma in musica a Dresda, e fu poi ripreso nel 1799 al teatro Alibert di Roma come spettacolo giacobino (in alternanza con una tragedia di Alfieri); insieme con il Catone in Utica e il Temistocle, l’Attilio Regolo fu portato sulle scene ancora nella prima metà dell’Ottocento da Giacomo Modena; poi, passata la metà del secolo, Metastasio fu del tutto assente dal teatro di prosa. Per quanto riguarda le vere e proprie rappresentazioni melodrammatiche (testo e musica), i testi vennero musicati da schiere folte e talvolta foltissime di compositori (più di sessanta, per la Didone abbandonata) per tutta la seconda metà del Settecento, e fino ai primi dell’Ottocento. A capire i motivi di un successo così straordinario ci aiuta la testimonianza diretta di uno spettatore acuto e raffinato, il francese Charles de Brosses41: Non vi è mai stato poeta pari a lui nell’arte di esporre il soggetto. Questo elemento, che costituisce il tormento di tutti i nostri poeti di seconda qualità, e sul quale sono scivolati più di una volta anche i maestri maggiori, non costa a Metastasio fatica alcuna; egli infatti lo ignora. Non so come diavolo faccia ad arrangiare la sua protasi in modo tale che, quasi senza che vi sia un racconto, lo spettatore si trova al corrente di tutto ciò che è necessario per comprendere l’opera. Inizia di solito con un’azione di rilievo sin dalla prima scena, e continua a condurre con la medesima rapidità tutto lo svolgimento fino alla conclusione. Riesce perfettamente a dar corpo alle passioni. È pieno di avvenimenti e di colpi di scena sorprendenti; anche troppo, e codesti colpi di scena singolari sono spesso introdotti a spese della verosimiglianza […]. Egli compone con estrema facilità; la sua invenzione è fertile e variata. […] Sa costruire divinamente il dialogo […]. In lui le scene sono autentiche conversazioni; lo stile è scorrevole, vivo, pieno di sentenze e di idee ingegnose […]; ha proprio l’istinto dello spettacolo, perché sa introdurre con grande naturalezza l’apparato delle feste, dei duelli, dei trionfi e di tutto ciò che ne può aumentare la magnificenza.

A partire dalla fine del Settecento, il vento cominciò a cambiare, e a spirare in senso contrario: il giudizio tranchant di Alfieri, scandalizzato dalla «genuflessioncella», ben rispecchia il crescente fastidio per una figura ormai “vecchia” di intellettuale totalmente allineato alla ideologia della corte imperiale, contrapposto all’insofferenza per l’angustia cortigiana che avrebbe indotto Giambattista Casti, subentrato a Metastasio nella carica di poeta alla corte viennese, a “fuggire” da Vienna nel 1796. Già negli anni Settanta cominciava a levarsi qualche voce critica, proprio in relazione alla ricezione dei drammi metastasiani, non più entusiastica e anzi talvolta difficoltosa. Vediamo una testimonianza singolare, costituita da 41 Cfr. Charles de Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari. Prefazione di Carlo Levi, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 591-592. Titolo originale: Lettres familières écrites d’Italie en 1739 et 1740 (prima edizione, postuma: 1799).

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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un documento della giunta che soprintendeva al teatro San Carlo di Napoli datato 12 luglio 177442: [I drammi di Metastasio] comunque celebri, pure pel lungo uso e per la comune prevenzione, par che cominciano a ristuccare: oltreché, essendosi li medesimi scritti più e più volte dai migliori maestri di cappella d’Europa, è impossibile trovare chi, scrivendoli, possa inventare una musica nuova ed incontrare a fronte di tante eccellenti musiche dei medesimi: sicché, per questa ragione, per lo più, le opere non incontrano il piacere del pubblico.

Lo stesso problema è evidenziato, con i toni indispettiti di chi vi è coinvolto direttamente, da Niccolò Jommelli, che musicò molte opere del Metastasio e che in questa lettera del 1769 vediamo alle prese con l’Ezio, nel momento in cui si accingeva a musicarlo per la terza volta: Oh Dio! Quando penso che ho da scrivere di nuovo quest’opera, e che l’ho da scrivere di più per un tanto illuminato Sovrano, conoscitore, che ha tutte le altre musiche mie fatte sull’istesse parole, mi vien la febbre. Io amo, venero, m’inginocchio avanti, adoro Metastasio, e tutte le sue opere: ma vorrei che anche lui, adattandosi alla moda, ne facesse tante delle nuove, quanto è il desiderio di tutto il mondo di volerle. Poiché, quel dover cavare tanti pensieri diversi, non solo differenti da quelli fatti da se stesso, e più e più volte, ma anche da quelli di tanti, e tanti altri compositori, sempre, sempre sull’istesse parole; è cosa da far girare la testa anche a chi l’avesse di bronzo43.

Sul rapido tramonto dell’astro metastasiano ha sicuramente influito anche il cambiamento della tecnica musicale (soprattutto ad opera di Gluck, Haydn, Mozart), che imponeva un aumento dei cori, un maggior numero di duetti, ed evidenziava l’inadeguatezza dell’aria come finale di atto (per il quale ormai si preferivano il coro e la piena orchestra)44; è emblematica la brusca sterzata di Calzabigi, che nel 1762 proprio a Vienna mise in scena l’Orfeo e Euridice musicata da Gluck, molto lontana dal modello melodrammatico metastasiano, e in un opuscolo satirico del 1790, la Risposta di Santigliano45, capovolse il giudizio positivo espresso nella Dissertazione su Metastasio, presentato ora come esponente e simbolo di una sorpassata concezione astratta del teatro. Certo, Metastasio non ebbe propizio alla sua fortuna il progressivo affermarsi della cultura romantica, così attenta anche ai valori “civili” delle 42 Si cita questo documento, pubblicato per la prima volta da Benedetto Croce, da Andrea Chegai, Metastasio e la «madreforma». Eutanasia di un ideale melodrammatico, in L’esilio di Metastasio, Firenze, Le Lettere, 2000, pp. 19-20. 43 Ivi, p. 21 (ma con interventi normalizzanti sulla grafia). 44 Cfr. Sergio Romagnoli, Pietro Metastasio, in I classici italiani nella storia della critica, a cura di Walter Binni, Firenze, La Nuova Italia, 1961, vol. ii, p. 62. 45 Cfr. Scritti teatrali e letterari di RANIERI DE’ CALZABIGI, a cura di Anna Laura Bellina, Roma, Salerno, 1994, pp. 360-550.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

opere letterarie; addirittura lo Schlegel, nel Corso di letteratura drammatica, tolse al melodramma ogni autorizzazione classica, negandone la derivazione dalla tragedia greca, e ne stigmatizzò la mancanza di contenuti morali: Ho sentito un celebre poeta italiano affermare che i suoi compatriotti erano sempre commossi fino alle lagrime dalla poesia di Metastasio: non v’ha nulla da rispondere a tale testimonianza, se non che è questo uno spiacevole sintomo della costituzione di un popolo46.

Né gli giovava il pregiudizio della critica risorgimentale italiana, intransigente di fronte alla sua propensione adulatoria. Foscolo è molto duro, nel Saggio sopra la poesia del Petrarca (1821): [Metastasio] ridusse la sua lingua e versificazione a tanta penuria di parole, frasi e cadenze, che paiono sempre le stesse, e nella fine non fa maggior effetto che si faccia un flauto, il quale apporta anzi dilettosa melodia, che vive e distinte sensazioni47.

Al di là del giudizio negativo, importa anche l’esclusiva attenzione al livello lessicale-stilistico, che lascia trasparire una totale indifferenza per lo specifico melodrammatico48. Per Manzoni, personaggio metastasiano è sinonimo di uomo fuori dal tempo, che presta fede con onesta ottusità a fanfaluche non sempre innocue: nel capitolo XXXVII dei Promessi Sposi, il povero don Ferrante, convinto che la peste dipendesse da influssi astrali, non prese alcuna precauzione contro di essa, così che «gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle». Né bastano a pareggiare il conto l’ammirazione di Stendhal49 o di Leopardi, anch’egli in certo senso uomo fuori dal suo tempo, che nello Zibaldone indicava nel Metastasio l’unico degno del nome di poeta in Italia dopo il Tasso50. Nessuna svolta positiva si ebbe nella seconda metà del secolo, quando sulle scene andava affermandosi un gusto nuovo e si assisteva al grande successo dell’opera di Verdi, e nel panorama critico pesava il giudizio di De Sanctis, che, pur apprezzando lo stile di Metastasio, ne stigmatizzava la debolezza sul piano tematico e drammatico: 46 Cfr. August Wilhelm von Schlegel, Corso di letteratura drammatica, traduzione italiana di Giovanni Gherardini, Milano, Giusti, 1817, p. 16. L’edizione originale (Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur) era uscita nel 1809. 47 Cfr. Ugo Foscolo, Opere. II. Prose e saggi. Edizione diretta da Franco Gavazzeni, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, pp. 699-700. 48 Cfr. Sergio Romagnoli, Pietro Metastasio, cit., p. 65. 49 Cfr. Stendhal, Lettres sur Métastase. Lettre II, in Vies de Haydn, de Mozart et de Métastase, a cura di Daniel Muller, Paris, Cercle du Bibliophikle, 1970, pp. 357-372. 50 L’annotazione è del 27 febbraio 1821. Cfr. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di Giuseppe Pacella, Milano, Garzanti, 1991, vol. i, p. 451.

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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Brav’uomo, buon cristiano, nel suo mondo interiore ci erano tutte le virtù, ma in quel modo tradizionale e abituale ch’era possibile allora, senza fede, senza energia, senza elevatezza d’animo, perciò senza musica e senza poesia51.

Merito del critico è comunque quello di aver collocato Metastasio nel quadro della società del suo tempo («[fu] artista originale e geniale, l’artista indimenticabile di quella società») e di averne individuato il ruolo entro la tradizione poetica italiana: L’antica letteratura, non essendo ormai più che forma cantabile e musicale, ha come ultima espressione il dramma in musica, dove non è più fine, ma mezzo: è melodia e serve alla musica. Ma non vi si rassegna, e vuol conservare la sua importanza, rimanere letteratura. Quest’ultima forma della vecchia letteratura è Metastasio52.

Il giudizio di De Sanctis fu poi ripreso, con varie sfumature, da Carducci e da Croce, la freddezza del quale nei confronti del Nostro (limitava i suoi drammi a «festa, giuoco, divertimento»)53 certo ebbe molto peso sulla scarsa attenzione riservatagli dalla critica nella prima metà del XX secolo. La lenta ma costante risalita di Metastasio nell’interesse degli studiosi ha conosciuto di recente un rinnovato vigore favorito dalle ricorrenze del bicentenario della morte (1982) e del tricentenario della nascita (1998)54. È legittimo a questo punto porsi una domanda: al di fuori dell’importante ma ristretto novero degli specialisti, quanti oggi leggono Metastasio? Nel canone scolastico dei classici della nostra letteratura è – se non assente – ridotto ai minimi termini: segue a molta distanza la “triade” settecentesca Parini Goldoni - Alfieri. Se, considerate sette antologie in uso nel periodo compreso dall’Unità d’Italia al primo Novecento, Metastasio è presente in quattro di esse (con un risultato quindi medio)55, il posto a lui riservato nei decenni seguenti 51 Cfr. Francesco De Sanctis, La nuova letteratura, in Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870-1872, vol. ii, p. 391. 52 Ivi, vol. ii, p. 397 e p. 381. 53 Cfr. Benedetto Croce, Il giudizio del De Sanctis sul Metastasio, in La letteratura italiana del Settecento, Bari, Laterza, 1949, pp. 15-23. 54 Occasione di alcuni convegni, e dei relativi atti: Tricentenario metastasiano. Metastasio da Roma all’Europa. Atti del Convegno «Metastasio da Roma all’Europa», Roma, 21 ottobre 1998, a cura di Franco Onorati, Roma, Fondazione Marco Besso, 1998; Pietro Metastasio. Il testo e il contesto. Atti del Convegno organizzato dal Conservatorio di musica “Domenico Cimarosa” di Avellino il 26 marzo 1998, a cura di Marta Columbro e Paologiovanni Maione, Napoli, Altrastampa, 2000; Legge, poesia e mito. Giannone, Metastasio e Vico fra tradizione e trasgressione nella Napoli degli anni Venti del Settecento. Atti del Convegno internazionale di studi, Palazzo Serra di Cassano, Napoli, 3-5 marzo 1998, a cura di Mario Valente, Roma, Aracne, 2001; Il melodramma di Pietro Metastasio. La poesia, la musica, la messa in scena e l’opera italiana nel Settecento. Atti del Convegno internazionale di studi, Roma, 2-3 dicembre 1998, a cura di Elena Sala Di Felice e Rossana Caira Lumetti, Roma, Aracne, 2001; Metastasio nell’Ottocento. Atti del Convegno di studi, Roma, Discoteca di Stato, 21 settembre 1998, a cura di Francesco Paolo Russo, Roma, Aracne, 2003. 55 Lo si evince da una ricerca condotta da Ivano Dani nel 1998, citata in Pietro Gibellini e

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

è andato progressivamente assottigliandosi, e certo è fra le prime vittime sacrificate dall’insegnante tiranneggiato dal poco tempo a sua disposizione56. Il lettore non specialista difficilmente cercherà in qualche biblioteca pubblica i preziosi tomi di Tutte le opere raccolte da Bruno Brunelli per Mondadori e troverà in commercio i Drammi per musica dell’edizione ben curata da Anna Laura Bellina per l’editore Marsilio57, e poco altro58. Poniamoci allora un’altra domanda, volutamente provocatoria: vale la pena di leggere Metastasio, oggi? La nostra risposta è ovviamente affermativa, e non solo in considerazione della grande musicalità dei momenti lirici dei drammi e della strepitosa bravura tecnica di un autore che “regge” per migliaia di versi. Metastasio è il più europeo dei nostri classici, l’ultimo che ha permesso alla lingua italiana di circolare in tutto l’Occidente, dando all’intera cultura italiana un rilievo e una diffusione all’estero mai più raggiunti59. A partire dalla metà del Seicento fino alla metà del Settecento l’opera italiana crea «per la prima volta in Europa sulle ali del canto e della musica un pubblico comune di spettatori, e anche di ascoltatori della nostra lingua, una lingua che non è qui indispensabile intendere ma soltanto ascoltare» perché basta capire l’espressione musicale e drammatica: «è una nuova ondata di italianismo centrifugo – di carattere così differente da quello rinascimentale – […] che fa dell’italiano della diaspora teatrale-musicale la lingua europea del melodramma e del canto»60. Scrive Leopardi nello Zibaldone il 7 dicembre 1823: «Allora l’italiano era principalmente noto e considerato dagli stranieri come lingua del Metastasio, e per li drammi del Metastasio, insomma come lingua dell’Opera»61. La lingua italiana veicola ovviamente la tradizione lirica italiana, dunque la tradizione petrarchesca, di cui Metastasio mantiene le forme complesse, gli accenti più intensi, gli abbandoni musicali, i paradossi e le perplessità, ma come alleggerendone l’esaltazione classicistica, la pretesa di stare Marisa Strada, L’insegnamento della letteratura italiana nel Novecento (e oltre?), in Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Il Novecento. Scenari di fine secolo, direzione e coordinamento di Nino Borsellino e Lucio Felici, Milano, Garzanti, 2001, t. i, pp. 849-850. 56 È significativo che in un Seminario di didattica tenutosi a Roma nel 2001, in cui è stato chiesto a quattro distinti gruppi di insegnanti di stendere due elenchi di autori della letteratura italiana considerati rispettivamente “irrinunciabili” e “opzionali”, il nome di Metastasio sia risultato assente sia dal primo elenco (comprendente 14 autori) sia dal secondo (di 28 autori): cfr. Paola Fertitta, Il canone scolastico “reale”. I classici e le sorprese della didattica, in «Chichibìo», 12-13, marzo-giugno 2001, p. 9. 57 I volumi, dedicati rispettivamente Il periodo italiano (1724-1730), Il regno di Carlo VI (1730-1740) e L’età teresiana (1740-1771), sono usciti nel 2002, 2003 e 2004; nel 2005 sono stati raccolti in un unico volume, accompagnato da cd-rom. 58 Utile la snella antologia curata da Franco Mollia per l’editore Garzanti nel 1979. 59 Cfr. Giulio Ferroni, Metastasio. La democrazia dei sentimenti, in «Corriere della Sera», 5 gennaio 1998. 60 Cfr. Gianfranco Folena, L’italiano in Europa, Torino, Einaudi, 1983, p. 219. 61 N. 3949; cfr. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, cit., vol. ii, p. 2097.

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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sempre “un gradino più su” […] come inseguendo un interno sogno di normalità e di pacatezza, in diretto contatto con l’esperienza quotidiana62.

Sul particolare rapporto con la tradizione, soprattutto da un punto di vista linguistico, tornerò più avanti. Ora vorrei soffermarmi su un altro aspetto cui si accennava sopra, non secondario nella fortuna del Nostro, vale a dire sull’equilibrio e il buon senso che fanno dei suoi melodrammi una «scuola di gentilezza»: la definizione appartiene alla penna garbata e fine, sotto la polvere del tempo, di Giulio Natali, che ricorda come «per molte e molte generazioni le madri insegnarono a’ figli, con le ariette metastasiane, la sapienza della vita»63. Se già Voltaire sottolineava che le arie metastasiane hanno una loro ‘autonomia’ in quanto dotate di un proprio messaggio morale-affettivo (tanto da giustificare il paragone con le odi di Orazio)64, un secolo dopo Metastasio sarà chiamato in causa come depositario di una “manualistica amorosa” distillata dalla tradizione lirica italiana da parte di Emilio De Marchi il quale, pure campione a suo modo di “saggezza popolare”, nella lirica Le due poesie ci presenta un giovane che, volendo mandare una lettera d’amore alla fidanzata che lo vuole lasciare, chiede al suo vecchio maestro di scriverla al posto suo; questi, venuto bruscamente a contatto con l’amore reale, ne misura la distanza da quello conosciuto sulle carte dei poeti, simboleggiati appunto da Metastasio: O falso è Metastasio od io son rimbambito senza capir un’acca di quel che sia l’amor. - Ora però ha capito. - Capito, arcicapito65.

De Marchi ricorda di aver imparato a leggere Metastasio «sulle ginocchia della nonna»: Non posso recitare i due versi Felice età dell’oro / bella innocenza antica66 senza che il pensiero corra indietro, e non rivegga una cuffia di traliccio con due grandi nastri verdi, e dentro un bel volto, geniale nella sua vecchiezza, con due occhietti che parlano ancora del tempo dei minuetti67.

Cfr. Giulio Ferroni, Metastasio…, cit. Cfr. Giulio Natali, Introduzione, cit., p. xv. 64 Cfr. Daniela Goldin, Per una morfologia dell’aria metastasiana, in Metastasio e il mondo musicale. Atti del convegno della Fondazione Cini, Venezia, 1982, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze, Olschki, 1986, p. 16. 65 Cfr. Emilio De Marchi, Vecchie cadenze e nuove, Milano, Tipografia Agnelli, 1899, p. 100. 66 La citazione è dal Demofoonte, a. II, sc. viii, vv. 12-13. 67 Cfr. I miei poeti, in Letture per le Giovinette, scritte, scelte o compilate a cura della C.ssa Della Rocca Castiglione, Torino, Biblioteca dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, 1884, pp. 109-116. 62

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Anche nel romanzo Arabella (1892) De Marchi ricorda Metastasio come depositario di buon senso popolare, quando così rappresenta lo sdegno di Aquilino Ratta, cugino della defunta Caterina (di cui è stato trafugato il testamento), di fronte all’usuraio Tonino Maccagno: Sulla soglia si fermò, si voltò, sollevò un dito all’altezza del cilindro e declamò la sentenza del Metastasio: Se a ciascun l’interno affanno si leggesse in fronte scritto E uscì tutto d’un pezzo, non degnandosi nemmeno di finire68.

Sono i primi due versi di un’arietta celebre, appartenente a una meno celebre azione teatrale sacra, Giuseppe riconosciuto69: Se a ciascun l’interno affanno si leggesse in fronte scritto, quanti mai, che invidia fanno, ci farebbero pietà! Si vedria che i lor nemici hanno in seno; e si riduce nel parere a noi felici ogni lor felicità.

Una variazione di quest’aria compare in un recente romanzo giallo di Vieri Razzini, Il dono dell’amante70, addirittura come testo di una delle lettere anonime che movimentano le indagini: Se al fellon l’interno affanno non leggete in fronte scritto voi pensate al rio tiranno della gran costellazion.

Il destinatario della missiva, l’ex professore universitario Augusto Valle, ora consigliere della TV privata nella sede della quale è stato commesso il delitto, individua la “fonte” metastasiana e commenta: «Una cosa che ai miei tempi s’imparava al ginnasio». Al ginnasio, fino a pochi decenni fa, Metastasio era uno degli autori più letti: lo si poteva trovare non solo nell’antologia di Italiano, ma anche nel 68 Cfr. Emilio De Marchi, Arabella, in Romanzi, a cura di Giovanni Titta Rosa, Milano, Mursia, 1963, p. 504 (parte i, cap. 10). 69 Lo stesso Metastasio citerà quest’aria in una lettera a Carlo Broschi dell’11 febbraio 1750: «Quante volte questi luminosi sventurati cambierebbero ben volentieri la loro con la condizione del più miserabile de’ loro adoratori» (Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, p. 482). 70 Milano, Baldini & Castoldi, 2003, p. 229 e p. 233.

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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“Campanini-Carboni”: il Vocabolario Latino-Italiano e Italiano-Latino compilato da Giuseppe Campanini e Giuseppe Carboni, edito per la prima volta nel 1848 e premiato da una longevità di uso tuttora in corso, è corredato, nella edizione originale, da una Appendice contenente Sentenze, motti, proverbi latini brevemente illustrati così giustificata: Lo scopo di questo Supplemento è di aiutare gli allievi dei Corsi di Latino nello svolgimento dei temi e componimenti scolastici. […] Per rendere più accessibili le frasi e per fornir contemporaneamente lo spunto a maggiori sviluppi, oltre alla traduzione delle frasi medesime, si sono illustrate le principali con versi dei nostri più noti poeti italiani: Tasso, Ariosto, Giusti, Dante, Petrarca, Monti, Foscolo, Carducci, Parini, Leopardi, Prati, Zanella, Graf, Berni, Metastasio, al quale si è data la precedenza per la sua vena facile, per la chiarezza e le altre doti che lo rendono intelligibile a prima vista anche agli scolaretti delle prime classi medie.

Metastasio è di fatto molto presente (con escursione assai ampia, allargata alle opere meno note). Ad esempio, il lemma «lapsus linguae», tradotto con «errore sfuggito alla lingua», è così postillato: Facile nelle persone distratte. Si tratta sempre di parole pronunciate senza intenzione, che talvolta, tuttavia, possono aver tristi conseguenze, perché, come ben dice il Metastasio: Voce dal sen fuggita più richiamar non vale; non si trattien lo strale quando dall’arco uscì. (Ipermnestra, a. III).

La solenne affermazione dell’Ecclesiaste (III, i) «Omnia tempus habent» è tradotta «Tutte le cose hanno il loro tempo (opportuno)» e spiegata con due versi dell’Issipile (a. III, sc. i): «È l’adattarsi al tempo / necessaria virtù». Perfino per il celebre «Vae victis!» (Tito Livio, Storie, v, 48) Metastasio viene chiamato in causa in appoggio a una riflessione non immediatamente suggerita dal motto: Sono le storiche parole di Brenno ai Romani, quando in seguito alle loro proteste per le bilance false adoperate per pesar l’oro del riscatto, gettava su un piatto delle medesime la sua pesante spada. Nel significato generale, l’esclamazione esprime la triste verità che il vinto è alla mercè del vincitore. Però questi deve usare con moderazione del suo diritto, ché … il proprio vanto del vincitor è moderar se stesso, né incrudelir sull’inimico oppresso. (Metastasio, Catone, a. III).

Sulla celeberrima strofetta «È la fede degli amanti / come l’Araba fenice: / che vi sia, ciascun lo dice, / ove sia, nessun lo sa!» (Demetrio, a. II, sc. iii)

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

si chiude l’ultimo lemma: «Vulgare amici nomen, sed rara est fides» (Fedro, III, 8). Questo singolare capitolo della ricezione dell’opera metastasiana è una ulteriore, inaspettata conferma di quanto aveva osservato, con acuta semplicità, il Bertola: «nessun [altro] poeta offre ad ogni classe di persone un numero di verità utili e sicure sotto immagini più sensibili e più ridenti»71. Proprio l’accessibilità della saggezza condensata nelle arie e delle “moralità” insite nelle vicende dei suoi drammi ha consentito a Metastasio di avere una circolazione vastissima tra i suoi contemporanei, dal punto di vista più geografico che sociale (il suo pubblico era formato esclusivamente da nobili o al più da alto-borghesi). È stato osservato che il melodramma è una sorta di letteratura di massa, che ha rappresentato in altri tempi quello che oggi rappresentano i film d’evasione; lo ricorda Raimondi, accostando la drammaturgia metastasiana alla cinematografia «di tipo intimistico, di buoni sentimenti messi in costume per illuminare “il trionfo del bene sul male”»72: entrambi ammaestrano e divertono, rassicurano attraverso la ricomposizione di un ordine messo in pericolo e consentono l’evasione dello spettatore in un mondo di favola, che è il doppio della vita vera ma – a differenza di questa – vede sempre alla fine il trionfo del bene. L’opera di Metastasio è dunque, o meglio è stata, anche «la scuola del sentimento, lo strumento sociale dell’educazione emotiva, nell’Italia (e nell’Europa) moderna»73. Lo aveva visto lucidamente, ancora una volta, il Bertola: Presso Metastasio spicca sempre una virtù eminente, che tutti i cuori soavemente si guadagna; e che rende tanto compatibili le disgrazie che fanle assalto: presso Metastasio o l’empio è punito, o si ravvede: dove resti punito, non lo è mai […] per via di un delitto maggiore. Ma egli gode più sovente di far trionfare l’umanità, la magnanimità, la beneficenza, delle quali ne innamora potentemente74.

I temi – amorosi o eroici – sono desunti dalla mitologia o dalla storia antica (in prevalenza romana: sette drammi), con predilezione per gli avvenimenti poco noti, che consentono un margine di maggiore libertà: quindi ambiti non di invenzione ma reali (la storia) o già noti e dunque “culturalmente” veri (la mitologia). Ne deriva una duplice rassicurazione: da una parte, la vicenda, in quanto già avvenuta, non riserva sorprese; dall’altra, il fatto che si ripeta proprio nei termini conosciuti rafforza la “verità” dello svolgimento nella direzione del lieto fine. Le sole eccezioni sono costituite dai tardi L’eroe cinese (tratto Cfr. Aurelio Bertola de’ Giorgi, Osservazioni sopra Metastasio, cit., pp. 55-56. Cfr. Ezio Raimondi, Il concerto interrotto, Pisa, Pacini, 1979, p. 40. 73 Cfr. Lorenzo Bianconi, L’opera metastasiana: prospettive critiche, in «Bollettino dell’Associazione culturale “Il Saggiatore musicale”», 1997, p. 485. 74 Cfr. Aurelio Bertola de’ Giorgi, Osservazioni sopra Metastasio, cit., p. 56. 71

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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da un dramma cinese risalente al XIII o XIV secolo) e Ruggiero (che riprende la materia degli ultimi tre canti dell’Orlando furioso; è l’unico melodramma di tema cavalleresco e dunque di soggetto medievale). Il plot di base è lo stesso in tutti i drammi: si parte da un contrasto fra passioni e dovere o fra passioni opposte e si arriva – nel corso della vicenda sempre distribuita in tre atti – a un lieto fine (con le ovvie e inevitabili eccezioni della Didone abbandonata e dell’Attilio Regolo) grazie a un atto di virtù o ad una agnizione che rimette a posto situazioni fino a quel momento inestricabili. I personaggi principali sono sei75, ma hanno trovato da subito l’autore, e anche un ruolo ben preciso: una coppia principale più una secondaria, più due personaggi maschili dei quali uno è saggio (e favorevole all’amore che lega la coppia principale), l’altro malvagio (e ostile alla medesima). Ad esempio, nella Didone la coppia principale è formata da Didone e Enea, quella secondaria da Selene e Araspe, Osmida è il personaggio maschile positivo, Iarba quello negativo; nell’Olimpiade: Aristea e Megacle, Argene e Licida, Aminta, Clistene. Mancano personaggi femminili estranei alle due coppie, e dunque di età non giovanile: manca quindi del tutto la figura materna, mentre è molto presente quella paterna (e non possiamo non pensare ai tanti padri, e di quale rilievo!, delle opere verdiane). Il ripetersi dello schema-base conferisce regolarità e chiarezza di disegno (nelle sue linee essenziali) anche alle vicende più aggrovigliate e racchiude le passioni entro termini chiari, semplici e dunque razionalmente controllabili, dando credibilità all’ossimoro delle passioni “ragionevoli”. Non si tratta – beninteso – di una facile semplificazione, ma di una sorta di applicazione del teorema filosofico cartesiano: così suggerisce Raimondi che, ricordando quanto sosteneva Cartesio sulla necessità delle passioni alla vita e sulla douceur che l’uomo può ricavarne, purché si evitino i mauvais usages o gli excès, lo mette in relazione a un testo metastasiano di invenzione ma anche di poetica, il Parnaso accusato e difeso: la poesia si rivolge alle «umane passioni» ma per «sedare i nocivi» e «destare gli utili affetti», e i contrasti che essa raffigura debbono avere un esito felice, anche perché il teatro deve aiutare a dimenticare gli aspetti più dolorosi dell’esistenza, attraverso il gioco dell’immaginazione76. La funzione del poeta è ben chiara al Metastasio, ed è una funzione “socialmente utile”: L’obbligo principale [del poeta] (come buon poeta) si è assolutamente ed unicamente quello di dilettare: l’obbligo poi del poeta (come buon cittadino) è il valersi de’ suoi talenti a vantaggio della società, della quale ei fa parte, insinuando, per la via del diletto, l’amore

75 Con qualche eccezione: sono cinque nel Re pastore e nell’Eroe cinese, mentre salgono a sette in L’olimpiade, Demofoonte, Achille in Sciro, Ciro riconosciuto, Temistocle, Attilio Regolo. 76 Cfr. Ezio Raimondi, Il concerto interrotto, cit., pp. 34-35.

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della virtù, tanto alla pubblica felicità necessario. Or, se il poeta non diletta, è cattivo poeta insieme ed inutilissimo cittadino77.

Non si deve mai dimenticare la sua solida base filosofica, evidente nell’Estratto dell’Arte poetica e negli altri scritti teorici, ma presente anche in luoghi meno ovvi: ad esempio, quando nell’Olimpiade (a. II, sc. v) introduce, attraverso un paragone, il tema lucreziano (secondo libro del De rerum natura) della tempesta contemplata dal lido, egli certo è consapevole della ricorrenza di questo tema nei trattati sei-settecenteschi come esemplare del piacere artistico che si realizza anche quando l’oggetto della mimesi è doloroso; affrontando il nodo fondamentale del dibattito sulla tragedia (ma anche sul melodramma), vale a dire il fine edonistico o morale, Metastasio privilegia il piacere, da lui considerato premessa indispensabile per conseguire l’utile78. Né si deve scordare che Metastasio si rivolge a un pubblico europeo colto, formatosi sulle tragedie di Corneille e di Racine, e si mette dunque sul medesimo piano dei grandi tragediografi, sia pure con una forma teatrale diversa. È un pubblico al quale si può permettere di strizzare l’occhio, talvolta: ad esempio, nell’aria che chiude la scena xvii del primo atto della Didone la regina si rivolge a due distinti interlocutori, poiché alterna le recriminazioni nei confronti di Enea alle richieste di comprensione da parte delle anime innamorate, le quali debbono trovarsi per forza nella sala: Il comportamento che il Metastasio ha costruito per la sua eroina segna un’infrazione alle norme: ella osa superare la barriera dell’arcoscenico, addirittura all’interno del dialogo con Enea; e si rivolge alle anime innamorate con una mossa che l’autore deve aver calcolato con sottile astuzia: nel momento della tensione affettiva egli spinge la sua eroina al dialogo con la sala, per coinvolgere nel movimento passionale il pubblico e per lusingarne una parte (le anime innamorate appunto) eletta a destinataria privilegiata della richiesta di simpatia – nel senso etimologico della parola – della regina; ma anche – genericamente – del poeta principiante, bisognoso di consenso, di appoggio, che poteva sperare di trovare prevalentemente nelle tenere e sensibili dame79.

Gli argomenti – si diceva – sono amorosi o eroici (a partire dall’Attilio Regolo), né poteva essere altrimenti per un poeta cesareo; trovarli non era sempre agevole, come l’autore confessava al fratello in una lettera del 25 giugno 1735: Se per suggerire soggetti bastasse formare un indice di eroi romani, voi me ne avreste fornito a dovizia: ci vuol altro che pannicelli caldi. Bisogna trovare un’azione che impegni; che sia capace di soffrire il telaio; che sia una; che possa terminarsi in un luogo ed in un giorno solo; che sospenda l’attenzione o per le vicende di un innocente sventurato, o per 77 Cfr. Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile e considerazioni su la medesima, cap. xvii, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., ii, p. 1089. 78 Cfr. Elena Sala Di Felice, Il desiderio della parola e il piacere delle lacrime nel melodramma metastasiano, in Metastasio e il mondo musicale, cit., pp. 70-71. 79 Ivi, p. 67.

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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la caduta di qualche malvagio punito, o per le dilazioni di qualche felicità sospirata, o pel rincontro in fine di tali eventi che diano occasione al contrasto degli affetti, e campo di porre nel suo lume qualche straordinaria virtù per insinuarne l’amore, o qualche strepitoso vizio per ispirarne l’aborrimento80.

Inoltre, il fatto che nei drammi recitassero spesso le dame di corte poneva ulteriori “ceppi” al Metastasio, che così se ne lamentava – più divertito che indispettito, in verità – in una lettera all’amico Farinello il 18 febbraio 1752: I soggetti greci e romani sono esclusi dalla mia giurisdizione, perché queste ninfe non debbono mostrar le loro pudiche gambe; onde convien ricorrere alle storie orientali, affinché i braconi e gli abiti talari di quelle nazioni inviluppino i paesi lubrici delle mie attrici, che rappresentano parti da uomo. Il contrasto del vizio e della virtù è ornamento impraticabile in questi drammi, perché nessuno della compagnia vuol rappresentare parte odiosa. […] Non ho altro confortativo che mi sostenga se non che il costante clementissimo gradimento della benignissima mia sovrana confermato di giorno in giorno con nuove pubbliche testimonianze. L’ultima in occasione della rappresentazione del Re pastore è stato il dono d’un magnifico candeliere d’oro, con sua ventola e smoccolatoio della stessa materia, di peso considerabile, di artificio eccellente […]81.

Ci colpisce, oltre alla gioia infantile con la quale Metastasio accoglie questo e gli altri preziosi doni ricevuti dai reali (Maria Teresa o i sovrani di Spagna)82, la penna brillante e spiritosa con cui traccia la parte iniziale della lettera. A proposito di lettere, non sarà inopportuna innanzi tutto una riflessione sul numero, altissimo, di lettere conservate: 2654, nell’edizione mondadoriana, cui vanno aggiunte quelle edite successivamente; poiché manca, a tutt’oggi, una edizione critica, è probabile che il numero possa ancora aumentare. La maggior parte delle lettere appartiene al periodo viennese, durante il quale la vita appartata, solitaria, immutabile, quasi iperurania, di Metastasio trova vivacità e dimensione spazio-temporale proprio nei rapporti epistolari: è quasi esclusivamente nelle lettere che vive, ad esempio, la intensa amicizia con Farinello. La scrittura è vivace e leggera sulla scena quanto brillante e briosa nella corrispondenza epistolare. La penna si fa particolarmente raffinata e partecipe quando tocca argomenti vicini al teatro; ne diamo un breve saggio con questo “resoconto” della stagione teatrale viennese del 1755: Qui noi per fomento della nostra divozione abbiamo tre volte per settimana concerti spirituali nel pubblico teatro vicino alla Corte. Vi si ascoltano con prudente alternativa Cfr. Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, p. 129. Ivi, p. 714. 82 Cfr. ad esempio la lettera al Farinello del 18 giugno 1754, nella quale esprime gratitudine per i doni ricevuti dalla corte spagnola per L’isola disabitata e altri suoi drammi adattati: «il magnifico dono dell’orologio, stuccio e libro di memoria così riccamente ed elegantemente lavorati» (cfr. Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, p. 932). 80

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arie e cantate sacre e morali: oratorj, salmi volgarizzati, cori, madrigali, sinfonie, capricci, e quanto di elegante han saputo imaginare i santi padri dell’armonia. Si fan venire dai quattro cardini della terra i cantori e le sirene le più atte ad insinuar nell’anime per mezzo delle incantatrici lor voci le massime della più soda e rigorosa pietà. Gratz ci ha già mandata la signora Rosa Costa soprana d’una maturità superiore ad ogni pericolo […] Venezia ci fa sospirare la signora Cochetta, astro novello del ciel musicale, spuntato per la prima volta sull’emisfero adriatico e concesso per breve tempo ai voti della supplice Germania, bisognosa d’illuminarsi. […] la numerosa orchestra ed i molti cantori che servono ne’ cori sono elevati sul palco in ben disposte scalinate, e circondati da una scena d’ottima architettura: le logge all’intorno sono tutte esteriormente illuminate: pendono dal soffitto sui popoli spettatori quantità di lampadari di cristallo tutti ricchissimi di candele: e la platea divisa in tre piani a guisa d’una artificiosa cascata d’acqua si abbassa per intervalli fino alle radici del nostro Parnaso. Nel piano più depresso si raccolgono i malenconici ed i dilettanti: in quello di mezzo le dame ed i cavalieri, che per fuggir l’ozio e le lubriche occasioni si sacrificano pazientemente a qualche innocente cometa, o a qualche divoto picchetto, e nel più lontano e sollevato i curiosi di prospettiva83.

Si è molto scritto sul rapporto tra musica e parola nel teatro di Metastasio. La premessa indispensabile a ogni accenno alla questione è la assoluta e più volte ribadita convinzione metastasiana della superiorità della parola sulla musica: Quando la musica […] aspira nel dramma alle prime parti in concorso della poesia, distrugge questa e se stessa. È un assurdo troppo solenne, che pretendano le vesti la principal considerazione a gara della persona per cui son fatte. I miei drammi in tutta l’Italia, per quotidiana esperienza, sono di gran lunga più sicuri del pubblico favore recitati da’ comici che cantati da’ musici, prova alla quale non so se potesse esporsi la più eletta musica d’un dramma, abbandonata dalle parole. Le arie dette di bravura […] sono appunto lo sforzo della nostra musica, che tenta sottrarsi all’impero della poesia. […] ostentando solo le sue proprie ricchezze col ministero di qualche gorga imitatrice de’ violini e degli usignoli, ha cagionato quel diletto che nasce dalla sola maraviglia, ed ha riscossi gli applausi che non possono a buona equità esser negati a qualunque ballerino di corda […]. Superba la moderna musica di tal fortuna, si è arditamente ribellata dalla poesia, ha negletto tutte le vere espressioni, ha trattato le parole come un fondo servile obbligato a prestarsi, a dispetto del senso comune, a qualunque suo stravagante capriccio, non ha fatto più risuonare il teatro che di coteste sue arie di bravura, e con la fastidiosa inondazione di esse ne ha affrettato la decadenza, dopo aver però cagionata quella del dramma miseramente lacero, sfigurato e distrutto da così sconsigliata ribellione84.

Tale convinzione non ha però solo una base teorica e astratta. Al contrario, Metastasio conosceva bene e praticava la musica, a livello compositivo ed esecutivo: «da dilettante, certo, ma non ignaro dei segreti del mestiere e della sua terminologia specifica»85. Scrive il Bertola: 83 Lettera del 17 febbraio 1755 ad Antonio Tolomeo Trivulzio, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, pp. 989-990. 84 Lettera del 15 luglio 1765 a Francesco Giovanni di Chastellux, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iv, pp. 398-399. 85 Cfr. Fiamma Nicolodi, Sul lessico di Metastasio. Le forme e la prassi esecutiva, in Le parole

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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Avea Metastasio entro allo stesso tavolino di studio un picciol cembalo a sordini: a questo cembalo tentava l’armonica espressione delle sue arie: a questo ricorreva a prender ristoro dopo molte ore di studio. Trentasei canoni musicali di suo lavoro son già a stampa: compose ancora una musica facile e gentile per le tre canzonette a Nice. Avea avuto in maestro il gran Porpora86.

Un passaggio di una lettera ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte del 16 dicembre 1754 ce lo presenta mentre suona la musica di un suo duetto, appena ricevuta: Non ho avuta la tolleranza di aspettar un maestro di cappella ed i necessarii violini: sono andato trimpellando subito il cimbalo da me medesimo e canticchiando sotto voce come una zanzara, in modo da fare sbattezzare il povero autore, se avesse avuta la disgrazia di udirmi; ma ne ho pure decifrato tanto che basta per figurarmi qual debba essere non defraudato de’ suoi accompagnamenti e cantato da persona meno inesperta87.

Accolse con grande interesse uno strumento nuovo come la Glasharmonica88, cui dedicò nel 1769 una cantata, musicata da Hasse, e di cui apprezzava il «nuovo soavissimo suono: che particolarmente nel patetico (che è il genio dominante di questo istromento) ha una dolcezza impareggiabile»89. Aveva inoltre una grande passione per il canto, appreso dall’arte di Marianna Bulgarelli, e poi coltivato direttamente sempre, anche negli anni viennesi90. È del resto chiarissima in proposito la lettera del 21 febbraio 1750 alla Pignatelli: «Io non so scriver cosa ch’abbia ad esser cantata, senza (o bene o male) imaginarne la musica»91. D’altra parte non si deve credere che la predominanza della parola sulla musica presupponesse una svalutazione di quest’ultima, che anzi Metastasio definiva un’arte ingegnosa, mirabile, dilettevole, incantatrice, capace di produrre da sé sola portenti, ed abile, quando voglia accompagnarsi con la poesia e far buon uso delle sue immense ricchezze, non solo di secondare ed esprimere con le sue imitazioni, ma d’illuminare ed accrescere tutte le alterazioni del cuore umano92.

della musica. I. Studi sulla lingua della letteratura musicale in onore di Gianfranco Folena, a cura di Fiamma Nicolodi e Paolo Trovato, Firenze, Olschki, 1994, p. 145. 86 Cfr. Aurelio Bertola de’ Giorgi, Osservazioni sopra Metastasio, cit, p. 39. 87 Cfr. Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, p. 967. 88 Cfr. Fiamma Nicolodi, Sul lessico…, cit., p. 146. 89 Lettera del 16 gennaio 1772 ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., v, p. 134. 90 Cfr. Fiamma Nicolodi, Sul lessico…, cit., p. 150. La studiosa mette inoltre in rilievo il possesso, da parte di Metastasio, di «quell’esperienza partecipata, dal vivo, propria del drammaturgo che lavora a diretto contatto con gli artefici dello spettacolo: compositori, cantanti, poeti-rifacitori (sprezzantemente definiti “ciabattini”)» (ivi, p. 143). 91 Cfr. Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, p. 490. 92 Lettera del 29 gennaio 1766 a Francesco Giovanni di Chastellux, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iv, p. 436.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

È molto probabile che Paolo Gallarati abbia ragione quando afferma che Metastasio offrì alla musica le massime possibilità espressive compatibili con la sua posizione subalterna al testo teatrale93. Il critico offre anche una riflessione interessante per capire la normalità di un dato che a noi può sembrare strano, cioè il fatto che ogni melodramma metastasiano venne musicato da più musicisti: nel Settecento, l’ascoltatore non ricercava l’originalità, ma piuttosto era attento a misurare le differenze dalla norma, rappresentata da un codice che prevedeva precise corrispondenze tra immagini o spunti descrittivi e stilemi musicali (tempesta = tremolî violinistici; fulmini = rapide scale vocali o strumentali; guerra = trombe e timpani; caccia = corni ecc.). Lo spettatore di volta in volta verificava la realizzazione di questo codice, rilevando e apprezzando lo scarto dalla norma offerto dalle singole intonazioni: ne conseguiva la non eccentricità dell’uso di musicare più volte uno stesso testo, sulla base di una concezione del rapporto musica-poesia (poi scomparsa nel melodramma ottocentesco)94 che non è altro se non la trasposizione nel canone musicale della lettura allusiva già praticata dagli antichi. Il fatto che Metastasio non venga oggi rappresentato – fatta eccezione per la Clemenza di Tito musicata da Mozart, che di tanto in tanto viene messa in scena ma perché è di Mozart, non perché è di Metastasio – rende l’opera metastasiana «una forma d’arte assente, […] un genere teatrale sottratto alla sua esistenza propria: il teatro d’opera, […] una nozione incorporea: alla stregua dei protoni e dei neutroni, sappiamo che c’è, sappiamo anche come è fatta, ma non la vediamo né la tocchiamo con mano. Non si dà un’estetica dell’invisibile e dell’impalpabile». Così annota, in modo lapidario ma esatto, Lorenzo Bianconi95. La sostanziale assenza ormai più che secolare di Metastasio dai nostri teatri non solo ci priva della musica, ma rende anche meno immediata la percezione della scenografia e dei meccanismi teatrali, che probabilmente risultavano di grande efficacia (ed erano motivo non secondario del successo dei suoi melodrammi) e che noi possiamo dedurre solo dalle didascalie. Da una schedatura dei soggetti e delle tipologie descritti nelle mutazioni di scena, emerge una prevalenza di «vedute di paesaggio» (14 casi), mentre undici occorrenze a testa hanno i «giardini», i «templi» e gli «appartamenti»96. Le indicazioni scenografiche sono sempre molto accurate, anche quando si tratta, ad esempio, di una grotta, come all’inizio del terzo atto del Re pastore: Parte interna di grande e deliziosa grotta, formata capricciosamente nel vivo sasso dalla natura, distinta e rivestita in gran parte dal vivace verde delle varie piante, o dall’alto pen93 Cfr. Paolo Gallarati, Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento, Torino, edt, 1984, p. 23. 94 Ivi, pp. 34-35. 95 L’opera metastasiana, cit., pp. 479-480. 96 Cfr. Mercedes Viale Ferrero, Le didascalie sceniche del Metastasio, in Metastasio e il mondo musicale, cit., pp. 146-147.

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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denti o serpeggianti all’intorno, e rallegrata da una vena di limpid’acqua, che, scendendo obliquamente fra’ sassi, or si nasconde, or si mostra, e finalmente si perde. Gli spaziosi trafori, che rendono il sito luminoso, scuoprono l’aspetto di diverse amene ed ineguali colline in lontano, e, in distanza minore, di qualche tenda militare, onde si comprende essere il luogo nelle vicinanze del campo greco.

La familiarità con gli splendidi giardini di Schönbrunn sembra suggerire lo sfondo del secondo atto, scena viii dell’Ipermestra: Innanzi, amenissimo sito ne’ giardini reali, adombrato da ordinate altissime piante, che lo circondano: indietro, lunghi e spaziosi viali, formati da spalliere di fiori e di verdure; de’ quali altri son terminati dal prospetto di deliziosi edifizi, altri dalla vista di copiosissime acque in varie guise artificiosamente cadenti.

L’ambientazione orientale favorisce la tendenza allo sfarzo e alla ricchezza di elementi esotici e sorprendenti. Magnifico è ad esempio l’ingresso di Iarba (Didone abbandonata, a. I, sc. v): Mentre al suono di barbari stromenti si vedono venire da lontano Iarba ed Araspe, con séguito di Mori e comparse, che conducono tigri, leoni, e recano altri doni da presentare alla regina, Didone, servita da Osmida, va sul trono, alla destra del quale rimane Osmida. Due Cartaginesi portano fuori i cuscini per l’ambasciatore africano, e li situano lontano, ma in faccia al trono.

E grandiosa è pure l’apertura dell’Adriano in Siria: Gran piazza d’Antiochia magnificamente adorna di trofei militari, composti d’insegne, armi ed altre spoglie de’ barbari superati. Trono imperiale da un lato. Ponte sul fiume Oronte, che divide la città suddetta. Di qua dal fiume, Adriano sollevato sopra gli scudi da’ soldati romani, Aquilio, guardie e popolo. Di là dal fiume, Farnaspe ed Osroa, con séguito di Parti, che conducono varie fiere ed altri doni da presentare ad Adriano.

Lo sfondo d’apertura dell’Eroe cinese è un vero inno al lusso esotico: Appartamenti nel palazzo imperiale destinati alle tartare prigioniere, distinti di strane pitture, di vasi trasparenti, di ricchi panni, di vivaci tappeti e di tutto ciò che serve al lusso ed alla delizia cinese.

È molto impegnativa anche la scenografia del secondo atto: Logge terrene, dalle quali si scopre gran parte della real città di Singana e del fiume che la bagna. Le torri, i tetti, le pagode, le navi, gli alberi stessi, e tutto ciò che si vede, ostenta la diversità con la quale producono in clima così diverso non men la natura che l’arte.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Ma nulla – mi pare – supera la grandeur della scena sesta del primo atto della Nitteti, che sembra quasi anticipare certe magnificenze egizie dell’Aida: Luogo vastissimo presso le mura di Canopo, festivamente adornato pel trionfale ingresso e per l’incoronazione del nuovo re. Ricco ed elevato trono alla destra, a piè del quale lateralmente situati alcuni de’ sacri ministri, che sostengono sopra bacili d’oro le insegne reali. Grande e maestoso arco trionfale in prospetto. Vari ordini di logge all’intorno, popolate di musici e di spettatori. Vista dell’armata egizia vincitrice ordinata in lontano. Si vedrà avanzar lentamente e passar indi sotto l’arco preparato il nuovo re vincitore, assiso in maestà sopra un bianco e pomposamente guarnito elefante; preceduto dagli oratori delle suddite provincie coi loro respettivi tributi; circondato da folta schiera di nobili egizi, di schiavi etiopi e di paggi che gli sostengono sul capo il reale ombrello, e vaghi e grandi ventagli di colorate penne all’intorno; e seguìto finalmente dalle guardie reali e dalla folla de’ carri e de’ cammelli carichi delle spoglie nemiche.

A un altro dato inerente alla “rappresentazione” del dramma Metastasio è molto attento: il gesto scenico. Aderisce naturalmente alla consuetudine melodrammatica, per cui ad esempio il passeggiare sulla scena significa agitazione, o l’emozione è tradotta, secondo diverse gradazioni di intensità, dal correre incontro a un altro personaggio, al pianto, allo svenimento, ma inserisce anche elementi di una certa novità. È infatti una sua peculiarità l’atto di inginocchiarsi che qualche volta (come nell’Issipile) apre e chiude l’opera, come se tutta la vicenda ivi narrata non fosse che una parentesi chiusa, un momento di turbamento, subito ricomposto, dell’ordine politico-storico consueto; oppure il gesto sospeso (ad esempio in Olimpiade, a. II, sc. xii, dove Argene si sforza di trattenere Licida), o ancora l’insistenza sullo sguardo (come lo sguardo reciproco degli amanti che sono costretti a separarsi in Demofoonte, a. II, sc. xi)97. Dobbiamo idealmente aggiungere poi tutti i suggerimenti “fuori copione”, dei quali abbiamo un esempio famoso, conservatoci da una lettera, a proposito della scena “delle sedie” del Demetrio (a. II, sc. xii: dialogo tra Cleonice e Alceste): Metastasio dà istruzioni sceniche dettagliatissime volte a conferire dinamicità, unita a coincidenza tra gesti scenici e battute dialogiche. Indica quando i due personaggi devono sedersi e quando alzarsi, singolarmente o entrambi, quando Cleonice deve cominciare a piangere e quando «non deve più poter parlare se non che interrotta dal pianto, e con questa interruzione ed affanno ha da terminare il recitativo. […] Questo ordine io ho tenuto, ed ho veduto pianger gli orsi»98. Ma l’elemento decisivo nel successo del dramma metastasiano è forse da ricercarsi nell’accorto uso dell’alternanza tra recitativi (momento narrativo) e arie (mo97 Cfr. Jacques Joly, Dagli Elisi all’inferno. Il melodramma tra Italia e Francia dal 1730 al 1850, Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp. 100-102. 98 Cfr. la lettera del 12 gennaio 1732 a Marianna Bulgarelli, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, pp. 60-61.

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1. la «scuola di gentilezza» di pietro metastasio

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mento lirico) e nella sapiente costruzione dei dialoghi dei recitativi. Non possiamo sapere se l’attenzione degli spettatori fosse pari all’ascolto degli uni e delle altre: il pubblico settecentesco di norma era piuttosto indisciplinato, e preferiva chiacchierare tra un’aria e l’altra anzi che ascoltare il recitativo intermedio. Ma è probabile che la chiarezza e la funzionalità drammatica dei recitativi metastasiani si fossero imposti da subito al pubblico anche del periodo italiano (un “vero” pubblico, a differenza di quello viennese, limitato all’ambito della corte). Ad esempio, lo snodo della tragica vicenda della Didone è rappresentato proprio da due recitativi, che si prolungano rispettivamente per 70 e 57 versi e occupano interamente due scene (la xi e la xii del secondo atto: dialogo tra Didone e Enea, intervento di Iarba) senza concludersi con un’aria. È chiuso da un’aria celebre («Non so frenare il pianto, / cara, nel dirti addio…»), ma ha comunque una lunghezza fuori dal comune (138 versi!), il recitativo della “scena delle sedie” del Demetrio appena ricordata. La dialogicità dei recitativi metastasiani non ha ovviamente caratteri usuali, quotidiani, ma è «drammatica, cioè finalizzata ad un particolare genere letterario», e per questo ricorre a espedienti retorici (iperbati, asindeti, polisindeti, anafore, pause, allitterazioni ecc.) e poetici, come la rima, che «fa parte del ritmo del dialogo, sottolinea cadenze e sequenze delle battute, mantenendole su un piano di alta letterarietà, ma esaltandone anche i valori musicali»99. È ovvio che al recitativo accompagnato (nel quale alla voce si uniscono più strumenti) Metastasio preferisse quello secco (voce sostenuta dal solo clavicembalo), che consentiva alle voci di imitare meglio le variazioni del «parlar naturale». In linea con il rilievo dato alla parola e con l’elemento razionalistico dei suoi drammi (perché indicava chiaramente le premesse della situazione), il recitativo secco concentrava la tensione, proiettandola poi nell’esito risolutivo delle arie, «attraverso la chiarezza degli endecasillabi e dei settenari eleganti e snodati nelle battute dialogiche»100. Ma la preferenza per il recitativo secco era probabilmente indotta anche da un altro motivo, che oggi possiamo comprendere solo (aggiungiamo – in questo caso – per fortuna) in astratto: i ruoli protagonistici erano coperti per lo più da evirati (dunque con la potenza respiratoria propria del petto maschile ma con la duttilità della laringe tipica dell’età prepuberale), i quali determinavano lo slittamento verso il registro acuto (soprani, contralti) di tutta la distribuzione vocale dell’opera seria che relegava a compiti marginali le voci maschili di tenori e di bassi: La stilizzazione antinaturalistica che attribuiva a personaggi come Attilio Regolo, Catone, Temistocle, le rapinose impennate delle voci acute, investiva quindi non solo il momento contemplativo dell’aria ma, ovviamente, anche il dialogo del recitativo secco, 99 Cfr. Daniela Goldin Folena, Le «tragiche miniature» di Metastasio: poesia e dramma nei recitativi metastasiani, in Il melodramma di Pietro Metastasio, cit., p. 66. 100 Cfr. Luigi Ronga, L’«opera metastasiana», in Pietro Metastasio, Opere, a cura di Mario Fubini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968, p. xx.

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proiettandolo, volutamente, nella sfera dell’illusione e dell’artificio […]. Di questo Metastasio, ovviamente, teneva conto, adottando il recitativo secco come l’unico mezzo adeguato per rendere insieme la stilizzazione antinaturalistica del dialogo e il necessario mordente della rappresentazione drammatica. […] solo il recitativo secco, nella sua snellezza declamatoria e nella velocità del suo decorso temporale, poteva rendere in modo adeguato la “secchezza” raziocinante del dialogo metastasiano, la sua lucidità sillogistica, svolta in battute brevi ed incalzanti, assolutamente refrattarie alla solenne dilatazione temporale del canto accompagnato dagli strumenti. L’effetto teatrale ed espressivo dei recitativi secchi ben eseguiti non era quindi inferiore a quello delle arie101.

La bravura tecnica di Metastasio è da sempre un dato largamente acquisito dalla critica; abilità innata, la sua, ma anche rafforzata dal precoce mestiere dell’improvvisatore, protratto fino ai sedici anni e poi interrotto sia per obbedienza al veto imposto dal Gravina, sia per consapevolezza della sua faticosa inconcludenza: questo mestiere mi divenne e grave e dannoso; grave perché, forzato dalle continue autorevoli richieste, mi conveniva correre quasi tutti i dì, e talora due volte nel giorno istesso, ora ad appagare il capriccio d’una dama, ora a soddisfar la curiosità d’un illustre idiota, ora a servir di riempitura al vuoto di qualche sublime adunanza, perdendo così miseramente la maggior parte del tempo necessario agli studi miei: dannoso, perché la mia debole fin d’allora e incerta salute se ne risentiva visibilmente. Era osservazione costante che, agitato in quella operazione dal violento concorso degli spiriti, mi si riscaldava il capo e mi s’infiammava il volto a segno maraviglioso, e che nel tempo medesimo e le mani e le altre estremità del corpo rimanevan di ghiaccio. […] riflettendo in età più matura al meccanismo di quell’inutile e maraviglioso mestiere, io mi sono ad evidenza convinto che la mente condannata a così temeraria operazione dee per necessità contrarre un abito opposto per diametro alla ragione. Il poeta che scrive a suo bell’agio elegge il soggetto del suo lavoro, se ne propone il fine, regola la successiva catena delle idee che debbono a quello naturalmente condurlo, e si vale poi delle misure e delle rime come d’ubbidienti esecutrici del suo disegno. Colui all’incontro che si espone a poetar d’improvviso, fatto schiavo di quelle tiranne, convien che prima di rifletter ad altro impieghi gl’istanti che gli son permessi a schierarsi innanzi le rime che convengono con quella che gli lasciò il suo contraddittore, o nella quale egli sdrucciolò inavveduto, e che accetti poi frettolosamente il primo pensiero che gli si presenta […]102.

Facilità versificatoria, cantabilità, musicalità sono termini tutti perfettamente congrui all’arte metastasiana, ma meritevoli di scavi più approfonditi: in questa direzione da pochi decenni si sono mossi alcuni studi divenuti dei punti di riferimento imprescindibili per ogni ulteriore indagine. Dall’esame della rima nei recitativi, Pier Vincenzo Mengaldo ricava spunti di riflessione sui vari aspetti della maestria formale di Metastasio, oltre che Cfr. Paolo Gallarati, Musica e maschera, cit., pp. 30-31. Lettera del 1° agosto 1751 a Francesco Algarotti, in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, pp. 659-660. 101

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sulla scontata ma sempre sorprendente raffinatezza del rapporto oppositivo fra aria e recitativo: il contrasto o contrappunto fra movimento sintattico e dialogico da una parte e assetto melodico del verso e armonia rimica dall’altra; la tendenza a nascondere al mezzo le rime, che entrano nella «nervosità del gioco teatrale»; la frequente dissimulazione delle rime perfette in un sapiente reticolo di rime imperfette103. Si potrebbe aggiungere un altro caso di dissimulazione rimica, abbastanza stupefacente perché prefigura addirittura la rima ipermetra “inventata” da Pascoli; non è in un recitativo ma ben esposto in un’aria (Issipile, a. II, sc. v): Ah! che nel dirti addio mi sento il cor dividere, parte del sangue mio, viscere del mio sen. Soffri da chi t’uccide, soffri gli estremi amplessi. Così morir potessi nelle tue braccia almen!

Le peculiarità anche formali dell’aria metastasiana sono state oggetto di studio da parte di Daniela Goldin, che ha messo a fuoco la «perfetta rispondenza degli elementi prosodici, rimici, lessicali, stilistici [che] fa dell’aria metastasiana una struttura perfettamente conclusa sì da divenire essa stessa situazione drammatica e quindi musicale»104, fornendo una base alla indagine capillare e sistematica recentemente pubblicata da Elisa Benzi105. Da questa ricavo sinteticamente, e semplificando molto, i dati fondamentali relativi alla metrica dell’aria: rifiuto delle misure versali proprie del recitativo (endecasillabi e settenari con accento sulla terza sillaba) e del novenario (assente dalla tradizione poetica alta) e scelta quasi esclusiva di versi brevi; predilezione per la forma su due strofe (in particolare la doppia quartina), con obbligo di rima nei versi finali di strofa; rigida delimitazione alla presenza di versi di misura diversa nella stessa aria. Quest’ultimo dato è molto interessante, perché si collega alla possibilità di specializzare alcuni metri nell’espressione di determinati stati d’animo dei personaggi: il quinario, anche doppio, e il senario danno voce rispettivamente ai personaggi molto risoluti e a quelli incerti e dubbiosi; il decasillabo è il verso deputato all’ira e al furore. Su questa poetica “espressiva”, che associa i metri a singoli sentimenti, si era già soffermato Paolo Fabbri106, rilevandone il legame con alcuni metricologi del 103 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, La rima nei recitativi di Metastasio, in Gli incanti della vita. Studi su poeti italiani del Settecento, Padova, Esedra, 2003, pp. 33-51. 104 Cfr. Daniela Goldin, Per una morfologia…, cit., p. 16. 105 Cfr. Elisa Benzi, Le forme dell’aria. Metrica, retorica e logica in Metastasio, Lucca, Pacini Fazzi, 2005. 106 Cfr. Paolo Fabbri, Istituti metrici e formali, in Storia dell’opera italiana, a cura di Lorenzo

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Seicento e del Settecento: ad esempio, Pier Jacopo Martello sosteneva che nel decasillabo «il furore […] si fa sentire nella sua maggiore terribilità, massime se lo fai sdrucciolare sino alla cadenza», mentre il quinario sdrucciolo è adatto alle «languidezze amorose» e allo «stato fievole di un’anima abbandonantesi», e tutti gli altri versi potevano essere impiegati per «ogni sorta di passione men forte del furore». Metastasio è attento non solo al ritmo del verso ma anche alla sua sostanza fonica: privilegia, nelle arie e in particolare in posizione di rima, i suoni chiari (a, e) sui quali la voce ha più agio nell’appoggiarsi e nel dispiegarsi. Non dimentica dunque mai le esigenze della musica: anzi, sono proprio l’eufonia delle rime e l’armoniosa levigatezza metrico-ritmica, unite alla semplicità di linguaggio, ad offrire al musicista «una falsariga mirabile per omogeneità, rotondità ed incisiva nitidezza fonica e concettuale»107. Ma anche il canto era favorito dall’abilità di Metastasio: la sua bravura nel fissare nelle arie «situazioni contemplative ricorrenti, sganciate dall’azione drammatica e da qualsiasi riferimento ai casi individuali dei singoli personaggi» consentiva di spostare agevolmente un’aria in modo da soddisfare di volta in volta le esigenze esecutive dei singoli cantanti108. La lingua dei melodrammi metastasiani è insieme di facile e difficile definizione: è semplice e piana, comune ma non quotidiana, né scende mai da un livello di dignitosa letterarietà media. È una sorta di lingua petrarchesca volutamente abbassata di un gradino, poiché la cifra comune è la medietas, ma Metastasio aggiunge un ulteriore filtro: il linguaggio sentimentale nato con Petrarca, e riletto e parcamente variato via via fino a Tasso, viene asciugato e condensato in pochi punti essenziali e semplici (lessicali, sintagmatici, sintattici, retorici), attorno ai quali ruota la “parola” del teatro metastasiano, che non abdica mai alla chiarezza e dunque alla razionalità. Né potrebbe farlo, se è vero che il teatro di Metastasio è essenzialmente un teatro di parola, non solo nella più ovvia accezione della superiorità della poesia sulla musica, ma anche perché in esso «amare, soffrire, e via di seguito, consistono nel parlarne da parte dei personaggi stessi», quasi che il linguaggio rappresentasse «l’unica risorsa per cambiare lo stato delle cose: nel caso dei “patiti d’amore” l’ansia di spiegare il proprio sentimento si nutre della speranza di trovare finalmente corrispondenza, o quanto meno pietà»109. Già De Sanctis aveva notato qualcosa di simile: I personaggi nella maggior violenza de’ loro sentimenti si descrivono, si analizzano […] Ti trovi nel più acuto della concitazione, e quando alla fine ti aspetti quasi un delirio, ti sopraggiunge un’analisi, una sentenza, un paragone, una descrizione psicologica110. Bianconi e Giorgio Pestelli, Torino, edt, 1988, vi, pp. 163-230 (in particolare, pp. 196-197). 107 Cfr. Paolo Gallarati, Musica e maschera, cit., p. 23. 108 Ivi, p. 29. 109 Cfr. Elena Sala Di Felice, Il desiderio della parola, cit., p. 56. 110 Cfr. Francesco De Sanctis, La nuova letteratura, cit., ii, pp. 397-398.

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I momenti di tensione emotiva sono dunque tradotti linguisticamente non da espressioni violente o da climax lessicale, ma piuttosto «dalla tautologia appena variata stilisticamente, dalla ripetizione di elementi grammaticali, o anche dalla domanda retorica, che indicano un ripiegamento del personaggio su se stesso più che l’esplosione verbale, aggressiva e liberatoria»; gli ossimori sono arcadicamente convenzionali (il dolce martir, la cara servitù, i dolci sospir, i felici pianti, il diletto sospirar, ecc.) e propri di una misurata espressione degli affetti111. Consideriamo un’aria famosissima della Didone, che ha come tema il dilemma di Enea: restare o partire? Il dubbio, che sarebbe tragico e angoscioso, viene così “razionalizzato” e stemperato: Se resto sul lido, se sciolgo le vele, infido, crudele mi sento chiamar. E intanto confuso nel dubbio funesto, non parto, non resto, ma provo il martire che avrei nel partire, che avrei nel restar.

Anafore, antitesi, parallelismi, simmetrie: l’impianto retorico è molto evidente e semplice, e assecondando la continua oscillazione fra un polo e l’altro ne sfuma i contorni e attenua la violenza patetica della dicotomia. La medietas non significa però rinuncia pregiudiziale ad ogni innovazione: c’è posto anche per parole non consuete alla tradizione lirica, che però – immerse in un contesto garbatamente arcaico e letterario – vengono depotenziate di ogni possibile valenza eversiva. Nel melodramma metastasiano tutto è rassicurante, perfino la lingua. Ma anche in un prato ben pettinato possono cadere semi di arbusti destinati a crescere: una sistematica ricognizione dell’opera metastasiana alla ricerca di “prestiti” ai poeti successivi darebbe qualche sorpresa. Ad esempio: da «Sì, v’intendo, amate sponde» (Sant’Elena al Calvario, parte prima) potrebbe derivare il famoso incipit di Dopo la battaglia di Marengo di Monti («Bella Italia, amate sponde»: anch’esso ottonario trocaico, con sintagma identico in posizione identica); se la seconda quartina dell’aria finale del Siroe: Se nascono i diletti dal grembo del dolor, oggetto di piacer sono i tormenti. 111

Cfr. Daniela Goldin, Per una morfologia…, cit., pp. 30-32.

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ha un sapore solo vagamente leopardiano (il «piacer figlio d’affanno» della Quiete dopo la tempesta), parrebbe invece preciso il rimando del «balsamo odorato» di Adriano in Siria (a. III, sc. ii) all’inizio dell’ode foscoliana A Luigia Pallavicini caduta da cavallo: «I balsami beati / per te le Grazie apprestino, / per te i lini odorati» (e addirittura, nella prima redazione dell’ode: «I balsami odorati […] i lini beati»). Ma potrebbe essere interessante anche il percorso inverso, vale a dire vedere come Metastasio rivisita luoghi celebri della tradizione poetica. Mi limiterò al luogo forse più celebre in assoluto, l’esordio della Divina Commedia, che così viene “disseminato”, con ardita riduzione dallo stile tragico a lieve cantabilità, nell’Eroe cinese (a. I, sc. vii): Nel cammin di nostra vita, senza i rai del Ciel cortese si smarrisce ogni alma ardita, trema il cor, vacilla il piè.

e nella Nitteti (a. III, sc. vi): In questa selva oscura entrai poc’anzi ardito; or nel cammin smarrito timido errando io vo.

Perfino nella selva oscura Metastasio riesce a fare una tranquilla passeggiata tenendo amabilmente sotto braccio le sue Muse, alle quali lo lega la consuetudine di un lungo affetto “coniugale”112, sereno e tollerante, da sempre preferito all’emozione travolgente e pericolosa dell’amor fou.

112 Cfr. la lettera del 24 maggio 1753 a Mattia Damiani (in Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., iii, pp. 827-828): «Con le Muse poi, dopo tanti anni di matrimonio, io vivo ora in una certa familiarità, che potrebbe parere amicizia, ma a dirla così fra noi non è altro che dissimulazione. Esse conoscono i miei ed io i loro difetti. Non crediamo prudente il pubblicarli; ma ci evitiamo quanto è possibile».

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2. Il poeta ha buon orecchio: appunti sugli endecasillabi sciolti di Vincenzo Monti

Se un poeta “del cuore” può accontentarsi di un lettore normale, un poeta “dell’orecchio e dell’immaginazione” avrà bisogno di un lettore “provveduto”. Lettore molto provveduto di Monti è stato monsignor Cesare Angelini, curatore del volume delle Opere scelte edito da Rizzoli nel 1940. Percorrendo La carriera poetica di Vincenzo Monti (è il titolo dell’Introduzione) incontriamo «la sua strenua passione di letteratura – incanto di favole, ebbrezza d’immagini, invenzione di ritmi, danza di sillabe: “amor d’itale note” vagheggiate e idoleggiate per sé stesse, per l’armonia che fanno». Lo vediamo mentre, seminarista a Faenza, «tira giù versi a rotta di collo» e quando, entrato in Arcadia, scrive La visione d’Ezechiello, «filza di terzine piene di vento, ma voltate via con perizia già adulta». Nelle sue odi non c’è «null’altro che un fiorire di sillabe, un’esultante festa di sillabe; ma è festa che rapisce», nell’Invito a Nice si mostra «fabbro armonioso di leggiadrissime ottave». La Bellezza dell’Universo è «un fiume di suoni, d’armonia, dentro cui passa la creazione del cielo, della terra, del mare, dell’uomo […] canto [in cui troviamo] animazione di ritmi, immagini luminose, versi principeschi, evidenza e colore». Delle migliaia di versi scritti («a fasci, a scrosci, aggiungendo ritmi a ritmi, forme a forme, immagini a immagini») nessuno si può definire brutto in senso tecnico: «ripensandoli in blocco, dan l’impressione d’un fiume d’armonia»1. Le sillabe fioriscono, fanno festa, danzano, si compongono in un fiume d’armonia: non si potrebbero fissare in un’immagine più suggestiva, e al contempo più precisa, i contorni della poesia, e della metrica, di Monti. La sua è metrica non delle forme ma del verso, non delle strutture strofiche ma della tessitura fonica. Le forme sono quelle tradizionali, trattate secondo la tradizione: sonetti, 1 Cfr. Introduzione a Vincenzo Monti, Opere scelte, a cura di Cesare Angelini, Milano, Rizzoli, 1940, pp. 11, 13, 16, 17, 18, 38.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

capitoli in terzine di memoria varaniana (e prima ancora, ovviamente, dantesca), ottave, canzonette preferibilmente in quartine, di settenari o ottonari. Dunque una metrica che andrà studiata sì sul piano delle macrostrutture ma anche e soprattutto delle sequenze di sillabe, danzanti in geometrie calibratissime. La coreografia versale più ricca, variata e dunque interessante è quella dell’endecasillabo sciolto, intorno al quale si muoveranno questi miei appunti, punto di partenza di una più vasta e sistematica indagine sulla metrica montiana, ormai necessaria pur nella difficoltà di base costituita dall’assenza di una sistemazione criticamente affidabile di tutta la produzione lirica. Non sarà naturalmente una disamina esaustiva dell’impiego dello sciolto nella produzione montiana, ma un itinerario per tappe, alcune brevi altre meno, volto a evidenziarne alcuni aspetti peculiari. I primi sciolti di Monti (di cui si abbia conoscenza) sono i cinquantaquattro indirizzati nel 1777 a Eleonora Cicognari come accompagnamento della canzonetta di ottonari Duri ghiacci acute brine (84 versi aabbccddee…)2: se ventitre endecasillabi hanno accenti principali sulla 4ª e 8ª sillaba3, ben diciannove presentano accento ribattuto di 6ª e di 7ª: di questi ultimi, otto hanno sinalefe tra 6ª e 7ª, mentre sei dei rimanenti sono interessati da apocope appunto in sesta sede (come il v. 1: Al giusto mio desir mal corrisponde)4. Nello schema ritmico di fine di verso che ne consegue (adonio: tonica, atona, atona; tonica, atona) si adagia spesso una dittologia: «si confuser tra loro estri e fantasmi» (v. 12); «vedrai dal tuo favor deste e commosse» (v. 31); «a sfidar dell’obblio l’ombra e la notte» (v. 35); «desïosi d’aver tronchi e corteccie» (v. 39). Non c’è quasi sfasatura tra metro e sintassi: le pause interpuntive forti sono di norma alla fine di un verso. Le eccezioni sono soltanto sei, e di queste una sola significativa: l’unico verso davvero franto è il v. 51, in cui l’autore punta l’attenzione sul proprio valore di poeta: Io pastorel delle parrassie selve tutto mi sacro a te: guardami; oscuro non è l’allor che mi circonda il crine; ed ignota pei sacri antri di pindo io non soglio portar la cetra al fianco. 2 Questi versi furono pubblicati postumi da Carducci nel primo volume dell’edizione delle poesie di Monti da lui curata (finora l’ultima edizione completa delle poesie montiane) per l’editore Barbera di Firenze: Le poesie liriche (1858; seconda edizione nel 1862 con aggiunta di cose inedite o rare) e Canti e poemi (1862, in due volumi); per lo stesso editore Carducci curò anche, di Monti, Tragedie, drammi e cantate, con appendice di versi inediti o rari (1865) e Versioni poetiche, con giunta di cose rare o inedite (1869). 3 Elenco qui i versi che inserisco in questa categoria, con l’avvertenza ovvia ma doverosa (e valida sempre d’ora in poi) che la scansione ritmica dei versi, in particolare degli endecasillabi, non sfugge a un margine più o meno ampio di soggettività: 4, 6, 10, 14, 15, 16, 18, 19, 20, 21, 24, 26, 30, 36, 40, 42, 43, 44, 46, 47, 49, 50, 52. 4 Hanno accento di 6ª e 7ª con sinalefe i vv. 5, 12, 13, 17, 25, 27, 29, 53; con apocope in 6ª i vv. 1, 9, 31, 32, 34, 39; gli altri cinque sono i vv. 2, 22, 28, 35, 51.

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2. appunti sugli endecasillabi sciolti di vincenzo monti

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Gli endecasillabi stilisticamente più interessanti sono i vv. 31-38: vedrai dal tuo favor deste e commosse su le CArte CAder pronte le rime, che de’ vivi tuoi rai vestite e piene oltre i pallidi andran gorghi di Lete a sfidar dell’obblio l’ombra e la notte. Faran d’Arcadia le foreste armoniche eco allora al mio canto; e riverenti i lauri curveran le argute cime […].

Dei primi cinque versi, ben quattro hanno accento ribattuto di 6ª e 7ª; una punta di compiacimento è evidente al v. 32, dove il contraccento (cadEr prOnte) rende quasi visibile la caduta facile e felice delle rime; voluto anche il gioco allitterante fra OBblio e OmBra. Il v. 36 è l’unico sdrucciolo di tutta la serie: l’inizio per vocale del verso seguente fa pensare a una sorta di episinalefe pre-pascoliana (con recupero della sillaba soprannumeraria), che enfatizza ancor più la riproduzione dell’eco con gioco mimetico, onomatopeico. È pure datata 1777 la canzonetta Fiamma gentil dell’animo, assai interessante dal punto di vista metrico, soprattutto in rapporto alla predilezione per gli endecasillabi di 4ª e 8ª, già emersa negli sciolti alla Cicognari e confermata in tutta la successiva produzione montiana in sciolti. La canzonetta consta di quarantasei quartine di settenari (per complessivi centottantaquattro versi) alternativamente sdruccioli e tronchi (questi ultimi in rima); dei novantadue versi sdruccioli, ben venti hanno l’accento di 4ª che cade su parola tronca (ottenuta con apocope in quindici casi, a partire proprio dal verso iniziale)5, quasi a suggerire un quinario entro il settenario. In sei casi è addirittura il settenario tronco ad avere apocope in quarta sede: «se a riveder l’april» (v. 34), «il tuo gioir sparì» (v. 46), «a sospirar con me» (v. 72); «non mi turbar così» (v. 76), «prima e miglior metà» (v. 106), «sei bella ancor così» (v. 114). La predilezione per la tronca (con o senza apocope) sotto accento di 4ª è confermata dalla poesia che promuove le fortune romane di Monti, la Prosopopea di Pericle, recitata in Arcadia due anni dopo, il 23 agosto 1779: trentanove quartine di settenari (156 versi) alternativamente sdruccioli e piani (questi rimati). La tronca in quarta sede “marca” un quinario all’interno del settenario in trenta versi, in ventidue dei quali è ottenuta con apocope6. 5 L’accento di 4ª cade su parola tronca ai vv. 1, 13, 19, 31, 69, 71, 76, 81, 83, 89, 91, 99, 101, 109, 115, 127, 137, 147, 159, 179 (sempre con apocope tranne che ai vv. 81, 83, 99, 115, 159). 6 La tronca in quarta sede è apocopata ai vv. 5, 7, 9, 32, 54, 55, 56, 59, 60, 61, 62, 67, 71, 96, 102, 103, 120, 127, 145, 146, 147, 149; non lo è ai vv. 3, 11, 17, 65, 70, 95, 125, 132. Una netta conferma di questa preferenza verrà poi anche dall’ode Al signor di Montgolfier (febbraio 1784): quartine di 140 settenari alternativamente sdruccioli e piani (questi rimati), 32 dei quali hanno una tronca in quarta sede (23 con apocope, a partire dall’incipit: «Quando Giason dal Pelio / spinse nel mar gli abeti»).

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Un anno più tardi, il 14 settembre 1780, Monti recita in Arcadia La solitudine, un poemetto di 160 endecasillabi sciolti, che non darà mai alle stampe, lasciandolo chiuso in una lettera inviata a Clementino Vannetti il 3 novembre dello stesso anno7. Tecnicamente il poemetto non presenta versi zoppicanti o dal ritmo incerto, e dunque il motivo per cui Monti lo lasciò inedito è probabilmente altro e più profondo: il fallimento, chiaro allo stesso poeta, dell’ambizioso tentativo di affrontare il rapporto poesia-filosofia individuandone il punto d’incontro «nella contemplazione e rappresentazione del meraviglioso naturale»8. L’anno capitale del Monti poeta in sciolti (o forse del Monti poeta tout court) è il 1783, che vede la pubblicazione degli sciolti A Sigismondo Chigi (229 versi) e dei dieci Pensieri d’amore (220 versi complessivi). Prendendo in esame innanzi tutto gli sciolti al Chigi, si dovrà mettere l’accento in primo luogo sulla notevole frequenza di endecasillabi accentati su 4ª e 8ª (con eventuale accento secondario di 1ª o 2ª): sono novanta9, pari a una percentuale del 39,3%; cinquantaquattro hanno accenti principali di 3ª e 6ª (23,5%)10, e ben trentanove (17%) accento ribattuto di sesta e settima11, del tipo del primo verso, «Dunque fu di natura ordine e fato», dove tra 6ª e 7ª c’è anche sinalefe. Di questi trentanove versi con accento ribattuto, sette presentano a partire dall’accento di 7ª una dittologia: ordine e fato (v. 1), logora e strugge (v. 21), odio ed amore (v. 85), miti e pietosi (v. 86), brilla e riposa (v. 116), ombre e paure (v. 138), siedi e sospira (v. 224). Sotto accento di 7ª troviamo soprattutto aggettivi, verbi, sostantivi, con una frequenza piuttosto bassa di congiunzioni subordinative e di avverbi di luogo, che invece sono numerosi in questa sede ad esempio nello sciolto didascalico del Cinquecento12: indice di una soglia di attenzione stilistica molto alta, della volontà di valorizzare semanticamente un luogo ritmicamente privilegiato. Prendiamo, fra questi versi con contraccento di 6ª e 7ª, alcuni di particolare interesse, cominciando dal v. 21, il cui tessuto fonico ha un’insistenza 7 La lettera è pubblicata da Alfonso Bertoldi nel primo volume dell’Epistolario montiano da lui curato (Firenze, Le Monnier, 1928, pp. 139-140); il testo del poemetto è stato reso noto da Ferdinando Pasini nel saggio Nova montiana, in «Pagine istriane», ii, 8-9, ottobre-novembre 1904, pp. 286-290. 8 Cfr. Ivanos Ciani, Le prime raccolte poetiche di Vincenzo Monti, in «Studi di filologia italiana», xxxvii, 1979, pp. 450-451. 9 Sono i vv. 3, 5, 6, 9, 13, 15, 16, 17, 18, 20, 22, 24, 25, 27, 30, 31, 33, 37, 39, 40, 47, 51, 52, 57, 58, 60, 62, 64, 65, 70, 72, 79, 83, 84, 87, 89, 90, 93, 94, 98, 99, 101, 102, 104, 106, 107, 108, 113, 114, 118, 119, 122, 124, 126, 136, 137, 139, 142, 145, 147, 148, 151, 154, 159, 160, 161, 165, 166, 170, 174, 181, 184, 187, 190, 194, 196, 198, 199, 203, 208, 209, 210, 212, 213, 215, 217, 219, 221, 223, 228. 10 Cfr. i vv. 2, 11, 12, 14, 26, 28, 29, 32, 34, 35, 46, 50, 54, 56, 61, 63, 69, 74, 91, 96, 103, 105, 109, 115, 120, 123, 127, 129, 130, 131, 140, 144, 150, 162, 163, 164, 167, 168, 169, 171, 178, 179, 180, 182, 185, 188, 189, 197, 200, 204, 211, 214, 216, 220. 11 Di questi trentanove versi, tredici hanno sinalefe tra 6ª e 7ª: vv. 1, 19, 53, 76, 82, 85, 95, 110, 133, 135, 138, 172, 191. Gli altri ventisei sono i vv. 7, 21, 23, 38, 49, 59, 66, 75, 78, 86, 92, 116, 125, 128, 141, 149, 156, 157, 186, 206, 207, 218, 224, 225, 226, 227. 12 Da ultimo benissimo indagato da Arnaldo Soldani, Verso un classicismo “moderno”: metrica e sintassi negli sciolti didascalici del Cinquecento, in «La Parola del Testo», iii, 2, 1999, pp. 279-344.

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2. appunti sugli endecasillabi sciolti di vincenzo monti

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quasi onomatopeica e presenta perfino un palindromo (anche se imperfetto: roditor): OR s’è cangiato il mio tiranno, in crudo carnefice, che il frale onde son cinto romper minaccia, e le corporee forze, qual taRlO RoditOR, logORa e strugge.

Anche nel v. 66 (e nei due versi precedenti) il suono e il ritmo sembrano riprodurre il significato: io mi fermava a riguardar le nubi che TRemolando si vedean riflesse nel puro TRapassar specchio dell’onda: […].

Il tremolare è “reso” dall’allitterazione con TRapassar, dal ritorno della cellula fonica ar e dalla voluta incertezza ritmica del v. 65, dove l’unico accento sicuro (e forte) è quello di 4ª. Al v. 75 («[insetti] vengono e van per via carchi di preda») l’allitterazione della v sulle sedi dei primi tre accenti, dei quali il primo cade su parola sdrucciola, il secondo su tronca, sembra “raffigurare” l’indaffarato andirivieni degli insetti. La 6ª e la 7ª sillaba non sono le sedi esclusive di ictus adiacenti, che possono interessare anche altre posizioni: la 8ª e la 9ª (v. 89: «fin nella stessa povertà fa guerra»), la 9ª e la 10ª (v. 77 e v. 155: «in suo cammino arresta, e con lui sembra»; «non essere felice; e veder quindi») o addirittura due sedi insolite come la 4ª e la 5ª. È il caso del v. 102 («elementar foco di vita, e tutta») che fa parte di una sequenza interessante (vv. 98-107): mentre soave mi sentìa sul volto spiar del nume onnipossente il soffio, quel soffio che le viscERe sERpendo dell’ampia terra, e ventilando il chiuso elementar foco di vita, e tutta la materia agitando e le seguaci forme che inerti le giaceano in grembo, l’une contro dell’altre in bel conflitto arma le forze di natura, e tragge da tanta guerra l’armonia del mondo.

Il soffio del nume sembra spirare sul filo dell’allitterazione della s ai vv. 98-100, enfatizzata dalla massa pentasillabica di onnipossente e poi dal ritmo del v. 100 (accenti di 2ª e 6ª, sdrucciola, iunctura di er); un senso di movimen-

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

to, non uniforme, proviene dai vv. 104, 105 e 106 (accentati rispettivamente su 1ª, 4ª, 8ª; 1ª, 3ª, 6ª; 1ª, 4ª, 8ª) per poi comporsi in armonia nel v. 107, che ha solo due accenti forti (4ª e 8ª) e si chiude su una iunctura davvero callida. I versi sono tutti piani, con le due sole eccezioni dei vv. 70 e 161, sdruccioli; nel primo caso: il picciol mondo a contEMplar ponEaMi che tra gli steli brulica dell’erbe, e il vago e vario degli insetti ammanto e l’indole diversa e la natura

è resa quasi iconicamente la visione dall’alto in basso, e la misura proparossitona (rafforzata dalla ripetizione fonica) accentua il senso di un’attenzione dilatata e concentrata sul piccolo. Il v. 161 è inserito in una sequenza finemente orchestrata (vv. 159-166): perder la speme di donarti un giorno nome più sacro che d’amante, e caro PEso vederti dal mio collo PEndere, e d’un bacio pregarmi e d’un sorriso con ANgelico vezzo; abbANdoNArti… Obblïarti, e per sempre… Ah lungi, lungi, feroce idea; tu mi spaventi, e cANgi tutta in furor la tenerezza mia.

È molto sapiente la struttura ritmica: i primi tre versi (con cadenza di 1ª, 4ª e 8ª) esprimono il sogno, che continua con l’abbandono delle riposate cadenze di 3ª e 6ª dei vv. 162, 163 (con ritorni fonici) e del primo emistichio del v. 164. Cade a questo punto l’interruzione dei tre puntini sospensivi, preludio al ritmo martellato di 8ª e 10ª e al primo emistichio del verso seguente, dove la durezza semantica del sintagma si cala nei forti accenti di 2ª e di 4ª ed è fissata dalla pausa interna al verso. Il v. 166 passa dall’aspro e tronco furor alla distensione sulla doppia e di tenerezza. Forse la sdrucciola in punta del v. 161 vuole sottolineare la dimensione di sogno, di eccezionalità nei confronti del reale; ed è importante il collegamento con il tema del bacio, sul quale si tornerà più avanti. Anche altrove la struttura ritmico-fonica sembra prefiggersi una sorta di mimesi del significato: ci si limita qui a due esempi. Il primo riguarda i vv. 181-193 (la sequenza che ci presenta il poeta di fronte all’abisso e un’immaginazione post mortem): di balza in balza valicando, all’orlo d’un abisso mi spingo. A riguardarlo si rizzano le chiome, e il piè s’arretra.

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2. appunti sugli endecasillabi sciolti di vincenzo monti

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A poco a poco quel terror poi cede, e un pensiero sottentra ed un desìo, disperato desìo. Ritto su i piedi stommi, ed allargo le tremanti braccia inclinandomi verso la vorago. L’occhio guarda laggiuso, e il cor respira; e immaginando nel piacer mi perdo di gittarmi là dentro, onde a’ miei mali por termine, e nei VOrTici Travolto romoreggiar del profondo torrente.

Il v. 181 ha ritmo giambico e insistenza sulla a, quasi volesse suggerire il rapido avvicinamento «all’orlo / d’un abisso» (in fortissimo enjambement); il punto fermo al centro del v. 182 isola il settenario «A riguardarlo», a sottolineare l’indugio dello sguardo sul fondo del burrone, l’attrazione per il vuoto; al v. 188 il pentasillabo sdrucciolo inclinandomi, con sequenza atona-atonatonica-atona-atona ha il punto d’appoggio, cioè l’accento, esattamente al centro, quasi a riprodurre mimeticamente lo sporgersi verso l’abisso. L’ultimo endecasillabo della sequenza è dattilico, l’unico nei versi al Chigi e uno dei pochi in tutti gli sciolti montiani: eccezionale, dunque, come è eccezionale la situazione, cioè appunto un’immaginazione post mortem. Inoltre: Pino Fasano evidenzia l’onomatopea insistente di questo verso (uno di quelli in cui Monti escogita «equivalenti fonici al panteismo goethiano»), sottolineando che «il verbo che indica l’azione della natura, il rumore del torrente, è ambiguamente attribuito al soggetto-persona», con diretta “animazione” del paesaggio13. Il secondo esempio riguarda la sequenza finale (vv. 220-229): Allorché d’un bel giorno in su la sera l’erta del monte ascenderai soletto, di me ti risovvenga, e su quel sasso, che lagrimando del mio nome incisi, su quel sasso fedel siedi e sospira. Volgi il guardo di là Verso la Valle, e ti ferma a Veder come da lunge su la mia tomba invia l’ultimo raggio il sol pietoso, e dolcemente il vento fa l’ERba tREmolar che la ricopRE.

La chiusura “alta” del componimento è rimarcata dalla presenza, negli ultimi sei versi, di ben quattro endecasillabi con accento ribattuto di 6ª e 7ª (o forse cinque, perché nell’ultimo verso l’accento tronco della 6ª sillaba induce ad accentare la 7ª, anche se si tratta di un pronome). Ulteriore rilievo ha, al 13 Cfr. Pino Fasano, “Ein romantisch Lied”. Il “Werther” e la lirica italiana, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», xciii, 1-2, 1989, p. 16.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

v. 227, ultimo raggio, sia per l’aggettivo sdrucciolo, sia per il chiasmo formato con sol pietoso; lo stesso sintagma era in identica posizione di 6ª-7ª in Metastasio, Ciro riconosciuto, atto III, scena iii, v. 36 e in Cesarotti, Ossian, Temora, i, v. 200, e lo sarà in Leopardi, Canti, Bruto minore, v. 109 («non te, dell’atra morte ultimo raggio»)14. La situazione dei versi iniziali prefigura celebri luoghi della poesia foscoliana: in particolare si pensa al passegger solingo in ascolto del «sospiro / che dal tumulo a noi manda natura» (Dei Sepolcri, vv. 49-50) e all’esordio del sonetto in morte del fratello Giovanni («Un dì s’io non andrò sempre fuggendo / di gente in gente, me vedrai seduto / su la tua pietra»). All’ultimo verso, tremolar è tronco e sotto accento di 6ª, come nella più famosa occorrenza di questo verbo (Purg., i, 117: «conobbi il tremolar della marina»); si incrocia forse anche (tolti i diminutivi) la memoria di Poliziano, Stanze, i, 70, vv. 7-8: «[…] lascive aurette / fan dolcemente tremolar l’erbette». La sintassi è molto elaborata e fa ricorso a varie figure retoriche, quali: l’anadiplosi («spiar del nume onnipossente il soffio, / quel soffio che le viscere serpendo», vv. 99-100); l’antitesi («tutta in furor la tenerezza mia», v. 166); il chiasmo («Giorni beati che in solingo asilo», v. 22; «questa parte di me […] / questo di vita fuggitivo spirto», vv. 12-13); la dittologia (talvolta endiadi) di sostantivi (ad esempio: ordine e fato, v. 1; di gioie e di martìri, v. 10; ombre e paure, v. 138), di aggettivi (vivi e freschi, v. 34; attento e cheto, v. 69; miti e pietosi, v. 86), di verbi (sente e vede, v. 12; logora e strugge, v. 21; si sgomenta e guata, v. 27; vengono e van, v. 75; agita e sconvolge, v. 112; brilla e riposa, v. 116; m’alzo, e corro, v. 167; siedi e sospira, v. 224); l’epifrasi: che mi scalda le membra e le penètra (v. 14) il dosso imporporando e i fianchi alpestri (v. 42) e il vago e vario degli insetti ammanto / e l’indole diversa e la natura (vv. 72-73) questi d’un fiore / l’ambrosia sugge e la rugiada (vv. 78-79) alla strage chiamati ed agl’inganni (v. 91) e d’un bacio pregarmi e d’un sorriso (v. 162).

È frequente il ricorso a schemi anaforici e ai correlativi15, e costante la sapiente complessità della costruzione sintattica. Consideriamo qui un esempio (vv. 31-40): Allorché il sole (io lo rammento spesso) d’orïente sul balzo compariva 14 Il “prestito” montiano a Leopardi è stato segnalato nell’edizione dei Canti curata da Franco Gavazzeni e Maria Maddalena Lombardi (Milano, Rizzoli, 1998, p. 189). 15 Cfr. i vv. 78-79 (questi … quello), 95 (questi … e questi), 128 (questi … queste); 15 (con quale … con qual); 58-63 (ed ora … or); 74-6 (Altri … altri … altri), 86-90 (alcuni … ed altri); 111-114 (or come … or come).

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2. appunti sugli endecasillabi sciolti di vincenzo monti

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a risvegliar dal suo silenzio il mondo, e agli oggetti rendea più vivi e freschi i color che rapiti avea la sera; dall’umile mio letto anch’io sorgendo, a salutarlo m’affrettava, e fiso tenea l’occhio a mirar come nascoso di là dal colle ancora ei fea da lunge degli alti gioghi biondeggiar le cime; […].

I dieci versi si dividono in due blocchi di cinque + cinque, con perfetto equilibrio; i tre infiniti tronchi sono rispettivamente sotto accento di 4ª, 6ª, 8ª (quindi con variatio, e climax “di posizione”); hanno uguale andamento ritmico i vv. 34-35 (accenti di 3ª, 6ª, 8ª) e i vv. 39-40 (giambico: 2ª, 4ª, 6ª, 8ª), quasi ad accompagnare i primi due il ravvivarsi dei colori alla luce del sole e gli altri la diffusione sempre più intensa della luce (il vocabolo lungo, formato da tre sillabe chiuse, quindi pesanti, biondeggiar rallenta e dilata la dizione). I vv. 34-35 sono legati anche dalla rima interna tra rendea (sotto accento di 6ª) e avea (sotto accento di 8ª), in assonanza con sera; c’è assonanza anche tra vivi e rapiti, a sottolineare la prima apparizione dell’idea del “rapire la luce”, che avrà fortuna anche dopo Monti: uno dei versi più noti dei Sepolcri, «Rapian gli amici una favilla al sole», deriva direttamente dal Prometeo (canto i, v. 15: «che di poca favilla al sol rapita»); in Al Signor di Montgolfier «Rapisti al ciel le folgori» (v. 117) ha significato “tecnico”, poiché allude al parafulmine di Franklin, mentre nella Feroniade sono le nubi che «cielo e luce / ai mortali rapiro» (canto i, v. 700). In quest’altro esempio (vv. 150-158) è particolarmente evidente la ripetizione lessicale, con funzione iconica, e il verso centrale è rilevato dall’annominatio (amar – riamato – amante): Ma in que’ vergini labbri, in que’ begli occhi aver quest’occhi inebrïati, e dolce sentirmi ancor nell’anima rapita scorrere il suono delle tue parole; amar te sola, e rïamato amante non essere felice; e veder quindi contra me, contra te, contra le voci di natura e del ciel sorger crudeli gli uomini, i pregiudizi e la fortuna; […].

Sono costanti (così da rendere superflua l’esemplificazione) inversioni e iperbati e di conseguenza non sono frequenti gli enjambements: solo undici veramente forti, dei quali quattro separano il sintagma aggettivo – sostantivo, quattro il sostantivo dal complemento di specificazione, due una voce ver-

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

bale16. Le pause forti all’interno dei versi sono ben quarantacinque17, dunque numerose quasi quanto quelle in fine di verso (cinquantaquattro)18, e talvolta in sequenza, come ai vv. 117-120: Ma più quell’io non son. Cangiaro i tempi, cangiar le cose. Della gioia estremo regnò sull’alma il sentimento: estremi or vi regnano ancora i miei martìri.

I primi tre versi hanno tutti una pausa forte all’interno e condividono lo schema ritmico, con accenti su 2ª (tronca), 4ª, 8ª e 10ª; nel primo è forte anche l’accento di 6ª, così che il ritmo diventa perfettamente giambico. Il quarto verso invece cambia registro, assumendo un andamento strutturale non franto e un ritmo canonico di 3ª (sdrucciola), 6ª e 10ª. Nei dieci Pensieri d’amore è nuova la scelta strutturale: una sequenza di frammenti (con numero di versi mai identico: 27, 20, 15, 14, 21, 8, 18, 33, 29, 35), del tutto inconsueta nella tradizione degli sciolti. La marca formale dell’intermittenza adottata qui da Monti consente di «sostenere senza cadute di tensione la scrittura dell’interiorità […]: in un certo senso la scelta di una dimensione frammentaria rappresenta lo sforzo della “forma” lirica di adeguare direttamente i nuovi contenuti, di mimare, per così dire, la transizione, la visione istantanea, il lampo»19. Le caratteristiche sono quelle già evidenziate negli Sciolti al Chigi: in primo luogo, l’alta percentuale di versi con accento ribattuto di 6ª e 7ª (trenta, pari a 13,6%)20. Solo tre versi sono sdruccioli, anch’essi con forte connotazione semantica; in v, v. 6: dolce amistade, che dal caldo cenere delle passate fiamme altra farebbe germogliar tenerezza, altri contenti

il contraccento dei due versi successivi dà rilievo alla sdrucciola in punta di verso: cenere, di genere maschile, come il cenere sparso che conclude il sonetto 16 Sono rispettivamente i vv. 18-19 (crudo / carnefice), 96-97 (pura / filosofia), 103-104 (tutta / la materia), 160-161 (caro / peso); 52-53 (plauso / delle create cose), 156-157 (voci / di natura), 181-182 (orlo / d’un abisso), 215-216 (speglio / di candor); 32-33 (compariva / a risvegliar), 147-148 (avrei / visto). 17 Ai vv. 4, 6, 10, 28, 37, 58, 69, 76, 78, 79, 87, 92, 109, 117, 118, 119, 130, 131, 134, 135, 141, 142, 145, 155, 163, 164, 165, 167, 168, 170, 176, 177, 180, 182, 186, 194, 196, 201, 202, 206, 208, 211, 212, 217, 222. 18 Ai vv. 9, 11, 17, 21, 23, 30, 35, 40, 44, 47, 51, 54, 62, 66, 75, 80, 83, 85, 89, 94, 97, 99, 107, 113, 116, 120, 122, 127, 129, 136, 138, 140, 143, 146, 149, 153, 158, 163, 166, 174, 176, 178, 183, 184, 185, 189, 193, 197, 199, 205, 214, 219, 224, 225. 19 Cfr. Pino Fasano, “Ein romantisch Lied”, cit., p. 23. 20 Hanno sinalefe tra 6ª e 7ª i vv. ii 1, 15; iv 12; v 8, 17, 18, 21; vii 8; viii 19, 28; ix 27; x 22, 30. Hanno solo l’accento ribattuto i vv. i 17, 21, 27; ii 3, 4, 20; iii 1; v 9, 13; viii 13, 23, 31; x 5, 20, 26, 28, 31.

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2. appunti sugli endecasillabi sciolti di vincenzo monti

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petrarchesco (RVF 320) Sento l’aura mia antica, e i dolci colli; e come il cenere muto del sonetto foscoliano in morte del fratello Giovanni (Un dì, s’io non andrò…). In iv, vv. 10-11: […] Se fra queste braccia dato mi fosse un sol momento sTRIngERe… se questi labbri su quei labbri… Ahi, mIsERo! Ahi che al solo pensarlo entro le vene di foco un fiume mi trabocca, e tutti TREmano i polsi combattuti e l’ossa

la coppia di versi sdruccioli segna il passaggio dalla situazione immaginata del bacio al ritorno alla realtà, enfatizzato dalle interiezioni melodrammatiche; entrambe le parole proparossitone in punta di verso sono fonicamente legate a tremano dell’ultimo verso, ricevendone anche la luce riflessa della citazione dantesca21. Il tema del bacio è dunque anche qui legato all’impiego delle parole proparossitone, come già si è visto al v. 161 degli Sciolti al Chigi e come si verifica in un altro dei Pensieri d’amore, il vii, ai vv. 3-7: […] sì dappresso farmi al suo labbro, che sul labbro mio giungerne io senta il tEPIdO respiro… Ahi! parmi allor che un folgore mi corra per gli attoniti sensi […]

e 14-15: [dall’aperta bocca] esalano i sospiri; e forza è quindi o correre co’ baci alla sua mano e di pianto bagnarla […].

Il ricorso a parole proparossitone all’interno dei versi è complessivamente parco, con tendenza a impiegarle in versi contigui e con motivazione stilistica22. Ad inizio di verso, la sdrucciola compare otto volte, e in un caso ad inizio del frammento (il ix): «Limpido rivo, onor del patrio colle»23, il cui sintagma iniziale era già, ma come clausola finale di verso, nei Canti di Ossian (xvi. Cfr. Inf., i, 90: «ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Al di fuori del tema del bacio, si possono citare ad esempio i vv. 113-116: «[dell’alma le tempeste] svegliansi tutte, e le solleva in alto / quel terribile iddio che mi persegue. / Del cuore allor spalancansi le porte, / e il Dolor siede su la mesta entrata». 23 Stesso aggettivo iniziale e stesso schema ritmico Monti adotterà nel Bardo della Selva Nera, canto iv, v. 239: «Limpido sole, l’interruppe Ullino». 21

22

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Oinamora, v. 117) e forse non è immemore del v. 36 della cantata di Metastasio Amor timido («Limpido ruscelletto»)24. Stessa cadenza di adonio (dattilo + spondeo = quinario con accenti di 1ª e 4ª) ha l’incipit di un altro dei Pensieri, il più noto (viii: «Alta è la notte, ed in profonda calma»), anch’esso forse debitore di Cesarotti, poiché il v. 452 di La morte di Gaulo reca «nella baia l’accoglie; alta è la notte» (dove alta è in accento ribattuto di 7ª, quindi in forte rilievo). Gli endecasillabi dattilici sono solo due: uno lo è approssimativamente, perché “mascherato” da un insolito accento ribattuto di 7ª e 8ª (i, v. 4: «apro le luci, a mirar torno il sole»), mentre l’altro, il v. 2 dell’ultimo dei Pensieri d’amore, ha una forte motivazione stilistica: Tutto père quaggiù. Divora il tempo l’opre, i pensieri. Colà dove immenso gli astri dan suono, e qui dov’io m’assido e coll’aura che passa mi lamento, del nulla tornerà l’ombra e il silenzio.

È quasi tangibile il senso del tempo che divora, quindi di una destabilizzazione che si ricomporrà ne l’ombra e il silenzio (speculare e antitetico a l’opre e i pensieri: il passaggio dal tutto al nulla è accompagnato dall’assonanza fra tempo, immenso, lamento, silenzio). Sono versi capitali, che sintetizzano il collegamento dei segnali del passare del tempo con la “rimembranza”25. Dopo aver sostato sulla vetta degli sciolti al Chigi e dei Pensieri d’amore, questo rapido viaggio attraverso lo sciolto di Monti diventa ancora più veloce: davvero solo una sommaria ricognizione che metta in evidenza l’opportunità di una schedatura sistematica degli sciolti, estesa anche agli altri endecasillabi montiani strutturati in terzine, ottave, sonetti. Funzione di accompagnamento (come i versi alla Cicognari) hanno i 130 versi sciolti dedicati Alla Marchesa Anna Malaspina della Bastia, scritti nel 1788 e allegati alla splendida edizione dell’Aminta curata da Pier Antonio Serassi26, dei quali sono giustamente famosi l’esordio («I bei carmi divini, onde i sospiri / in tanto grido si levar d’Aminta») e il v. 62, dove Frugoni è indicato come «padre 24 Limpido rivo sarà, come è noto, il titolo dell’antologia pascoliana pubblicata dalla sorella Maria pochi mesi dopo la morte del poeta: Giovanni Pascoli, Limpido rivo. Prose e poesie presentate da Maria ai figli giovinetti d’Italia, Bologna, Zanichelli, 1912. 25 Secondo Fasano, la mediazione formale montiana (degli Sciolti e dei Pensieri d’amore) è importante per l’assunzione da parte di Leopardi di un punto decisivo dello schema wertheriano: «la scoperta che il potere commovente, innalzante, espressivo, del ricordo è dato, ancor prima che dalla qualità dolce o travagliosa, gioiosa o acerba, delle sensazioni evocate alla memoria, dalla natura intrinseca dell’attività del ricordo, che comporta la misurazione del tempo che trascorre, il “noverar l’etate”, la dolorosa verifica della fugacità della vita, la coscienza del passato» (Pino Fasano, “Ein romantisch Lied”, cit., p. 21). 26 Pubblicata dal Bodoni a Parma nel 1789 in occasione delle nozze di una delle figlie della marchesa.

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2. appunti sugli endecasillabi sciolti di vincenzo monti

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incorrotto di corrotti figli». Sono versi eleganti, di intonazione alta, come conferma la notevole percentuale dei versi con accento ribattuto di 6ª e 7ª (ventinove, pari al 22,3%; otto hanno anche sinalefe tra 6ª e 7ª)27. È assente l’endecasillabo dattilico e tutti i versi sono piani. Solo in dodici casi la fine del verso coincide con un segno interpuntivo forte (punto, punto e virgola, due punti), che in venti casi è invece all’interno del verso: sicuro indizio, confermato dall’analisi puntuale, di una sintassi complessa, con molte anastrofi e iperbati. Il verso sciolto verrà poi impiegato da Monti su diversi fronti: il tema encomiastico napoleonico degli incompiuti Prometeo (1797)28 e Il Bardo della Selva Nera (1806)29; la traduzione dell’Iliade (edita nel 1810)30; il Sermone sulla mitologia (210 vv.) e l’idillio Le nozze di Cadmo e d’Ermione (232 vv.), entrambi del 1825. Né va dimenticata l’incompiuta e prediletta Feroniade, iniziata fin dal 1784, corretta e ricorretta fino agli ultimi anni31. Opere molto diverse tra loro, nelle quali lo sciolto è lavorato sempre con salda maestria tecnica, della quale si possono indicare (naturalmente con tutta l’approssimazione indotta dall’essere questa una ricerca in fieri) cinque lineeguida, peraltro già emerse sopra e tutte declinate verso un’elazione stilistica costante32. 1. La sintassi è molto sorvegliata, con inversioni e parallelismi lessicali e fonici. A quelli già presentati sopra, aggiungo due esempi, rispettivamente di micro e di macro struttura: nel canto primo dell’Iliade, v. 199, Achille rimprovera Agamennone apostrofandolo «Anima invereconda, anima avara», con anafora di anima marcata dal forte accento di 1ª e di 7ª (con accento ribattuto) e parafonia anima avara33. Nella Feroniade, canto i, vv. 511-527, 27 Hanno accento ribattuto di 6ª e 7ª i vv. 6, 11, 12, 14, 19, 23, 29, 30, 37, 46, 54, 56, 59, 87, 91, 94, 96, 108, 109, 113, 120; hanno accento ribattuto con sinalefe i vv. 1, 8, 21, 34, 39, 97, 103, 129. 28 Il primo canto, di 885 versi, venne pubblicato nel 1797 (Bologna, Marsigli); del secondo apparvero i primi 392 versi nel vol. i delle Opere pubblicate nel 1821 (Bologna, Brighenti). Si veda ora l’edizione critica del Prometeo curata da Luca Frassineti (Pisa, ets, 2001). 29 Interrotto all’inizio dell’ottavo canto, il poema, in metri vari, venne pubblicato a spese del governo nel giugno 1806 da Bodoni; sono in sciolti i vv. 1-117, 189-238 e 311-335 del primo canto; interamente i canti secondo (317 vv.) e terzo (272 vv.); i vv. 1-144 e 181-361 del quarto canto. 30 La traduzione consta complessivamente di 20.284 endecasillabi sciolti. All’edizione critica sta attendendo Arnaldo Bruni, che ne ha finora pubblicato i tomi ii/1, ii/2 e ii/3 (Il manoscritto Piancastelli), Bologna, Clueb, 2000; lo stesso Bruni ha recentemente curato l’edizione accolta nella collana “I diamanti” dell’editore Salerno di Roma (2004) ed è autore di un saggio sul primo tentativo di traduzione in ottave fatto da Monti nel 1788 (Sulla versione in ottava rima dell’«Iliade» di V. Monti, in «Studi di filologia italiana», xli, 1983, pp. 193-255). 31 Il primo canto consta di 810 vv., il secondo di 534, il terzo si interrompe al v. 579. Sul problema filologico della Feroniade cfr. Ivanos Ciani, Per la «Feroniade» di Vincenzo Monti, in «Studi di filologia italiana», xxxviii, 1980, pp. 153-203. 32 Si ricorda preliminarmente – ma è un dato scontato – la costante attenzione a variare ritmicamente gli endecasillabi contigui, così da evitare effetti di monotonia: quando Monti ripete uno schema accentuativo a contatto o a breve distanza, lo fa di norma per una precisa ragione stilistica. 33 Chissà se Montale aveva nell’orecchio anche questo verso di Monti (oltre a D’Annunzio, Alcyone, Nicarete, 9: «Amaro e avaro è il sale») mentre scriveva i Limoni (v. 42: «la luce si fa avara – amara l’anima»)?

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

vediamo Giunone turbata dal sospetto di un’ennesima infedeltà da parte di Giove: Erasi intanto la Saturnia Giuno fatta accorta del dolo, e i suoi grand’occhi, che gelosia più grandi anche facea, non fallibili segni avean già scorto di nuova infedeltà. Raro il soggiorno del marito in Olimpo: alto il silenzio dei talami divini: inoltre mute della foresta dodonea le querce, cheti i tuoni dell’Ida, e dissipato il denso fumo che facea palese la presenza del nume: onde, turbata in suo sospetto, alle nevose cime dell’Olimpo salita in giù rivolse l’attento sguardo, e ricercò l’infido sul mar sidonio, sul nonacrio giogo, sull’Ismen, sull’Asopo, ove sovente delle vaghe mortali amor lo prese.

La particolare costruzione sintattica, con forti pause all’interno dei versi, pone in evidenza gli aggettivi (raro e alto sotto accento ribattuto di 7ª; mute in fine di verso; cheti e dissipato rispettivamente a inizio e fine verso), a sottolineare l’enumerazione degli indizi. Ma hanno rilievo anche altri elementi: la struttura marcatamente a maiore dei vv. 515, 516, 517, 519, 521; il parallelismo dei “quinari” in suo sospetto e l’attento sguardo; la sequenza, scandita dalla punteggiatura, di settenario («e ricercò l’infido») + quinario («sul mar sidonio») + senario («sul nonacrio giogo») + quaternario («sull’Ismen») + quaternario («sull’Asopo»); l’accento ribattuto su Asopo ove; infine, il verso conclusivo, dove il ritmo non è più sincopato (a seguire lo sguardo che scruta in varie direzioni) ma si tranquillizza in una abituale rassegnazione: «OVE sOVEnte / delle vaghe MORtali aMOR lo prese». 2. Nella quasi totalità, i versi sono piani; i pochi casi di versi sdruccioli hanno una forte motivazione, come accade ad esempio ai vv. 81-82 del Sermone sulla mitologia, dove si tocca il nodo tematico centrale: Ov’è l’aureo tuo carro, o maestoso portator della luce, occhio del mondo? Ove l’Ore danzanti? ove i destrieri fiamme spiranti dalle nari? Ahi misERO! In un immenso, inanimato, immobile globo di foco ti cangiâr le nuove pOetIchE dOttrInE, alto gridando: fine ai sogni e alle fole, e regni il vero.

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2. appunti sugli endecasillabi sciolti di vincenzo monti

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Il ritmo martellato del verso-sentenza finale (accenti su 1ª, 3ª, 6ª, 8ª) sembra ribadire il legame fonico-semantico tra misero e vero: il trionfo del vero è cosa miseranda, in senso etimologico. Nella Feroniade, canto i, vv. 647-655, Giunone assetata di vendetta è paragonata a una tempesta che si scatena formalmente con un minaccioso infittirsi di sdrucciole: Colà bieca sbuffando s’incammina la di vendetta sitibonda Dea: simile a nembo di gragnuole GRAvido, che bruno il ciel vïaggia, e orrendo stendesi su la bionda vallea, quando le PLEjAdi, che d’Orïon la spada incalza e stimoLA, negli atLAntici flutti si sommerGOno, e tutto ferve per burrasca il pelaGO. Tal terribile in vista ella s’avanza; […].

Monti non usa invece la serie di sdrucciole in un luogo dove avrebbe potuto usarle, la traduzione dei vv. 622-630 del primo canto dell’Iliade: […] Del cibarsi estinto e del bere il desìo, d’almo lïeo coronando il cratere, a tutti in giro ne porsero i donzelli, e fe’ ciascuno libagion colle tazze. E così tutto cantando il dì la gioventude argiva, e un allegro peàna alto intonando, laudi a Febo dicean, che nell’udirle sentìasi tocco di dolcezza il core.

Le usa infatti Foscolo nei versi corrispondenti della sua traduzione (vv. 555-563): […] Or quando fu d’esca lieto e di bevande il core, di vin le tazze i giovani coronano, in volta ministrando; il coro a’ candidi augurj liba, e fin che l’ore splendono placano tutti l’Immortal co’ cantici; e il bel peàna i giovinetti Danai van geminando e celebrando Apolline, e l’inno, o Febo, t’esultò nell’animo.

Se Foscolo con tutta probabilità vuole fare una citazione colta, alludendo alla serie di sdrucciole che connotano il Bacco in Toscana di Francesco Redi, il

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

testo più rappresentativo del tema simposiaco nella letteratura italiana, Monti è invece più attento alla “musica” del verso, ad esempio alla festosità squillante di «e un Allegro peAnA Alto intonAndo»34. 3. Si conferma la frequenza degli endecasillabi con accento ribattuto di 6ª e 7ª, che rimane costante in tutto l’arco della produzione montiana in sciolti: sappiamo bene che questo tipo di endecasillabo, amato da Parini (e da molti altri, fino a Montale e oltre), è connotato da elazione stilistica, ed è sentito come particolarmente vicino all’esametro: lo schema ritmico tonica+atona+atona+tonica+atona ricalca la cadenza finale dell’esametro dattilico (lunga, breve, breve; lunga, breve). Ma abbiamo anche notato che in questi endecasillabi Monti ricorre spesso all’apocope in sesta sede, quasi ad isolare un settenario tronco; e abbiamo visto, per campioni significativi, che il verso breve delle canzonette tende anch’esso (con uso massiccio dell’apocope) a isolare un primo emistichio tronco (quinario nel settenario, quaternario nell’ottonario). Come in una sorta di matrioska metrica, in cui la misura breve è comunque quella di base: e qui andrà forse cercata una delle chiavi della “musica” del verso di Monti. 4. È molto esigua la presenza di endecasillabi dattilici, ed è sempre motivata da una precisa ragione stilistica. Ad esempio, nella traduzione del primo canto dell’Iliade, mentre Foscolo impiega venti endecasillabi dattilici, Monti vi ricorre una sola volta, al v. 458 («proruppe Achille in un subito pianto»), quando deve descrivere un pianto “scomposto”, non da eroe, anche per la motivazione (Achille piange perché gli viene sottratta Briseide). Sempre nell’Iliade, il ritmo dattilico connota due endecasillabi “paralleli” (canto XXII, v. 515 e canto XXIII, v. 26) relativi allo scempio del cadavere di Ettore (che in entrambi viene strascinato): Lo strascinato cadavere un nembo sollevava di polve onde la sparta negra chioma agitata e il volto tutto bruttavasi, quel volto in pria sì bello35, allor da Giove abbandonato all’ira degl’inimici nella patria terra. D’Ettore il corpo al tuo piè strascinAto farò pAsto de’ cAni, e alla tua pira 34 Una veloce comparazione (solo numerica ma comunque indicativa) relativa ai tipi di endecasillabi usati da Monti e Foscolo nelle rispettive traduzioni del primo canto dell’Iliade (il testo greco consta di 611 versi) dà questi risultati: negli 813 endecasillabi di Monti prevale il tipo con accento principale di 6ª (379, pari al 46,6%); i versi con accento ribattuto di 6ª e 7ª sono 137 (16,85%), un solo endecasillabo è dattilico (0,1%), tre sono sdruccioli (0,3%). Nei 739 endecasillabi di Foscolo, è prevalente il tipo con accento principale di 4ª (332, pari al 44,9%); 120 versi hanno accento ribattuto di 6ª e 7ª (16,13%); 11 sono sdruccioli; gli endecasillabi dattilici sono 20 (2,7%). 35 Qui Monti gioca sul doppio significato di brutto, quello più antico e letterario e quello oggi prevalente.

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2. appunti sugli endecasillabi sciolti di vincenzo monti

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dodici cApi troncherò d’eletti figli de’ Teucri, di tua morte irAto.

Nella Feroniade, canto i, vv. 803-810, Timbro è di fronte a Larina morta: Così mi torni? e son questi gli amplessi, che mi dovevi? e questi i baci? e ch’io, ch’io sopravviva?… E non seguì; ma stette sovr’essa immoto con le luci alquanto; poi sull’estinta abbandonossi, e i volti, e le labbra confuse, e così stretto si versò disperato entro dell’onda, che li ravvolse, e sovra lor si chiuse.

Il ritmo si adatta mimeticamente alla disperazione: al primo verso, non consueto perché dattilico (e con l’ulteriore “anomalia” dell’inversione di battuta iniziale), seguono quattro versi con lo stesso ritmo (accenti di 4ª e 8ª), a riprodurre l’automatismo del comportamento, nell’espressione del dolore, e a preparare l’epilogo repentino: segue un verso accentato su 3ª e 6ª, poi uno con ictus su 3ª, 6ª e 7ª (l’accento ribattuto “equivale” al balzo); il ritmo giambico, martellato del verso conclusivo (2ª, 4ª, 6ª, 8ª) sigilla la fine, con la solennità del calco ritmico della citazione (Inf., xxvi, 142): «Infin che ’l mar fu sopra noi richiuso». Nel Prometeo, il primo canto ha tre soli endecasillabi dattilici: «Ciò che ieri gli piacque, anco domani / gli piacerà. De’ suoi pochi desiri» (v. 250); «[…] Fuggendo allora / con fioche voci e con lunghi lamenti / all’ignaro mortal predice e grida / il vicin crollo della madre antica» (v. 280)36; «la celeste pietà di porta in porta / va delle spose scapigliate e degli / orfani figli e de’ padri cadenti / asciugando le lagrime furtive» (v. 564): nel primo caso si parla dell’essere bruto (contrapposto all’uomo), nel secondo dell’irato Poseidone (lo “scuotitor della terra”, secondo l’etimologia, cioè artefice dei terremoti), nel terzo dei lutti provocati dalle guerre; siamo cioè sempre al di fuori dei limiti della normalità e della ragione. Anche l’unica occorrenza dell’endecasillabo dattilico nel secondo canto (v. 176) rientra in questa tipologia, poiché è all’interno dell’invettiva contro la regione dei Calibi (dove si estrae e si lavora il ferro, a scapito delle “normali” agricoltura e pastorizia), per distruggere la quale è invocato l’intervento dello “scuotitor” Poseidone: col gran tridente, onde i tremuoti han vita, Nettun ti colga, e ti crolli e ti schianti dai fondamenti, e in mezzo al mar ti scagli, 36 Nel suo commento alle Poesie di Monti (Firenze, Sansoni, 1891, p. 302), Alfonso Bertoldi definisce questo verso «per l’accento su la settima felicemente imitativo» rimandando al virgiliano «et scopulos lacrimosis vocibus implent» (Eneide, xi, v. 274).

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale e il mar t’inghiotta, e in lui sepolto e morto il tuo nome rimagna e il tuo delitto.

Sempre con connotazione di questo tipo l’endecasillabo dattilico si presenta due volte nel Sermone sulla mitologia; ai vv. 112-116: quel Pluto che al fragor della battaglia fra gl’immortali dal suo ferreo trono balza atterrito, squarciata temendo sul suo capo la terra e fra i sepolti intromessa la luce; […]

è evidente il valore imitativo del forte accento di prima (a rendere l’idea del balzo, del soprassalto) di un verso che esprime terrore37; ai vv. 131-135: […] oscene larve danzano a tondo, e orribilmente urlando gridano: pazïenza, pazïenza. Ombra del grande Ettorre, ombra del caro d’AchIlle amIco, fuggIte, fuggIte,

la ripetizione dell’imperativo trisillabo nel verso finale fa eco a quella di pazienza (quadrisillabo per dieresi) del v. 133 ed è enfatizzata dall’insistenza sulla i tonica. 5. La ripetizione fono-lessicale è componente importante – giusta la lezione jakobsoniana – di ogni discorso poetico; ma in alcuni poeti è particolarmente importante: Monti è tra questi, grazie soprattutto alla lettura di Virgilio38. Attraverso un raffinato uso del significante (e, certo, del ritmo e della sintassi) Monti asseconda e potenzia il significato dei luoghi liricamente più intensi, relativi a paesaggi, emozioni, sentimenti. Esempio celeberrimo è la rappresentazione della notte nella parte finale del canto viii dell’Iliade (vv. 762-779): Siccome quando in ciel tersa è la Luna, e tremole e vezzose a lei dintorno sfavillano le stelle, allor che l’aria è senza vento, ed allo sguardo tutte si scuoprono le torri e le foreste

37

p. 132).

Già il Bertoldi aveva notato il ritmo «balzante» del v. 114, grazie all’accento di 7ª (ivi,

38 Cfr. da ultimo Claudia Facchini Tosi, voce Ripetizione fono-lessicale, in Enciclopedia Virgiliana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1984-1991 (e i relativi rimandi bibliografici, soprattutto quelli riguardanti i fondamentali studi di Alfonso Traina).

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2. appunti sugli endecasillabi sciolti di vincenzo monti

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e le cime de’ monti; immenso e puro l’etra si spande, gli astri tutti il volto rivelano ridenti, e in cor ne gode l’attonito pastor: tali al vederli, e altrettanti apparìan de’ Teucri i fuochi tra le navi e del Xanto le correnti sotto il muro di Troia. Erano mille che di gran fiamma interrompeano il campo, e cinquanta guerrieri a ciascheduno sedeansi al lume delle vampe ardenti. Presso i carri frattanto orzo ed avena i cavalli pascevano, aspettando che dal bel trono suo l’Alba sorgesse.

Poiché sono versi non solo notissimi, ma anche molto commentati, mi limito a poche osservazioni funzionali al discorso “metrico”: i primi quattro versi sono dominati dalla dolcezza della liquida, semplice e replicata (che torna poco più avanti in mille e cavalli), e potenziata dalle sdrucciole tremole e sfavillano (in due versi dal ritmo identico); forte appare la iunctura tra astRI, RIvelano, RIdenti, in rilievo anche grazie al “settenario” l’attonito pastoR (attonito replica il ritmo e la posizione di rivelano del verso precedente). Il verso «che di gran fiamma interrompeano il campo» è molto lungo (anche per l’insistenza sulla tonica a), come ad adeguarsi alla figura retorica (iperbole) e a seguire lo sguardo che lentamente si stende su tutti questi fuochi. La sapiente quanto sensibile rappresentazione di emozioni e sentimenti (di uomini ma anche di animali) sa avvalersi di elementi stilistici finissimi. Ad esempio, nell’addio di Ettore e Andromaca (Iliade, canto vi, v. 614 e sgg.): Così detto, distese al caro figlio l’aperte braccia. Acuto mise un grido il bambinello, e declinato il volto, tutto il nascose alla nudrice in seno, dalle fiere atterrito armi paterne, […] […] e dalla fronte l’intenerito eroe tosto si tolSe l’elmo, e raggiante sul terren lo pose

l’emozione di Ettore è tradotta anche dal paronomastico intEnERitO EROE, in cui l’inciampo delle due parole sembra derivare dal nodo che chiude la gola (e il cuore) del padre. Nella Feroniade (canto ii, vv. 526-534), il cane Melampo, unico scampato al crollo della casa in cui è morta tutta la sua famiglia, è additato a «raro di fede e d’amistade esempio»; la sua tenace fedeltà si riflette nell’ostinata ripetizione della r nei primi due versi (che culmina nella ripresa fonica speculare di maCE-RIe e RI-CErcando):

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale Ei, rimasto a plorar su la rovina, fra le macerie ricercando a lungo andò col fiuto il suo signor sepolto, immemore del cibo, e le notturne ombre rompendo d’ululati e pianti: finché quarto egli cadde, e non gl’increbbe, più dal dolor che dal digiuno ucciso39.

Affido alla sola evidenziazione grafica il compito di guida al minuto ricamo della trama fonica che accompagna come un pianissimo struggente il pianto dei cavalli d’Achille (Iliade, canto xvii, vv. 540-554): D’Achille intanto i corridor, veduto il loro auriga dall’ettòrea lancia nella polve disteso, allontanati dalla pugna piangean. Di Dïorèo il forte figlio Automedonte invano or con presto flagello, ora con blande parole, ed ora con minacce al corso gli stimola. Ostinati essi né vonno alla riva piegar dell’Ellesponto, né rïentrar nella battaglia. Immoti come colonna sul sepolcro ritta di matrona o d’eroe, starsi li vedi giunti al bel carro colle teste inchine, e dolorosi del perduto auriga calde stille versar dalle palpèbre.

Per scrivere versi come questi certo “ci vuole orecchio”40; o, se si vuole ricorrere alla più canonica auctoritas di Coleridge, se è vero che l’uomo che non ha musica nell’anima non potrà mai diventare un vero poeta 41, Monti è invece un vero poeta. Musica nell’orecchio, e nell’anima. Ci avviciniamo al cuore, forse molto più presente di quanto pensasse Leopardi, che al Monti – come ormai sappiamo – ha prestato orecchio (come del resto molti altri, tra i quali Foscolo). Viene in mente il titolo, provocatorio ma non paradossale, di una rassegna apparsa sul secondo numero della rivista «Poesia» (1988) relativa ai prestiti montiani nei Canti: Dal cuore di Monti all’orecchio di Leopardi.

39

no».

È evidente la citazione (rovesciata) di Inf., xxxiii, 75: «Poscia più che il dolor poté il digiu-

Come cantava nel 1980 Enzo Jannacci in una sua nota canzone. Cfr. Samuel Taylor Coleridge, Biographia Literaria, edited by John Calvin Metcalf, New York, The Macmillan Company, 1926, p. 199: «The man that hath not music in his soul can indeed never be a genuine poet». 40 41

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3. Muse democraticamente (ma poco) ispirate: il Parnasso democratico

Nel 1738, nell’ovattata cornice della corte viennese, Pietro Metastasio aveva chiamato addirittura Giove a difendere il «garrulo Parnaso» dalle accuse di «insana libertà» avanzate da un temibile trio composto da Virtù, Verità e Merito. Il “processo” sceneggiato nella cantata (dal titolo appunto Il Parnaso accusato e difeso) si era concluso favorevolmente, con la decisione di Giove di non distruggere né imporre il silenzio al Parnaso, con la seguente motivazione1: Da me nacquer le Muse; ed è l’arte divina, che agli dei lo avvicina, il più bel dono che l’uomo ebbe da noi: dono che mostra quanta luce del cielo in lui riflette.

Giove però ammonisce le Muse: Ma sian le Muse in avvenir più sagge. Troppo facili e troppo cortesi in ver con ogni vil che giunga, scherzan festive. Il temerario piede mette ognuno in Parnaso, ognun nell’onda dal Pegaso diffusa bagna il labbro profano, e poi ne abusa. A tanto onor si scelga sol chi degno ne sia. […]

1

Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., ii, p. 251 e p. 261.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Metastasio non poteva immaginare – né certo avrebbe voluto – che dopo qualche decennio in Parnaso sarebbero cresciuti molti alberi strani, gli alberi della libertà: Il Parnasso democratico è il titolo – sorprendente e ossimorico – della «più ambiziosa tra le raccolte di poesie repubblicane apparse nel corso del periodo rivoluzionario»2: due tomi che raccolgono in tutto ottantasette poesie “repubblicane” di vari autori – tra i quali Monti e Foscolo – usciti, a cura di Giuseppe Bernasconi, probabilmente insieme, forse nel 1801, forse a Bologna3. La data di pubblicazione non è indicata nel frontespizio, né altrove: i pochi studiosi che si sono finora occupati, tangenzialmente, del Parnasso oscillano (ciascuno argomentando più o meno dettagliatamente la scelta) fra il 1800 e il 1802: Barbarisi indica il 18014; Gavazzeni opta per il secondo semestre del 18005; Mineo e Cerruti lo collocano tra il 1800 e il 18016; Tongiorgi dapprima lo pone «sicuramente» tra la fine del 1801 e i primi mesi del 18027 e, in uno studio successivo, «tra l’agosto e il dicembre del 1801»8; Frassineti nel mese di vendemmiale dell’anno X (23 settembre – 22 ottobre 1801)9, così come Del Vento, convinto che il Parnasso sia stato dato alle stampe «probabilmente intorno alla fine di settembre del 1801»10. Ricapitoliamo dunque gli elementi interni al libro che consentono una datazione, la quale rimane comunque presunta e relativamente “larga”: il termine post quem sembra essere l’agosto 1801, mese in cui probabilmente uscirono le Lamentazioni di L. Mascheroni col celebre Monti e con Lattanzi. Canto unico di Agostino B. (Milano, Pietro Agnelli, a. ix), contro le quali – e in difesa di Monti – prende posizione Bernasconi nell’introduzione al primo tomo del Parnasso, a p. 7: «Sono pochi giorni [sott. mia] dacché sortì alla luce per mezzo 2 Christian Del Vento, Un allievo della rivoluzione. Ugo Foscolo dal «noviziato letterario» al «nuovo classicismo» (1795-1806), Bologna, Clueb, 2003, p. 128. 3 I frontespizi dei due tomi recano: «il parnasso / democratico / ossia / raccolta / di poesie repubblicane / de’ più celebri autori viventi. / tomo i [nel secondo tomo, ovviamente ii] / fregio / bologna». 4 Gennaro Barbarisi, Vincenzo Monti e la cultura neoclassica, in Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, vol. vii. L’Ottocento, Milano, Garzanti, 1969, p. 72, nota 1. 5 Ugo Foscolo, Opere, a cura di Franco Gavazzeni, Milano-Napoli, Ricciardi, t. i, 1974, p. 208. 6 Nicolò Mineo, Cultura e letteratura dell’Ottocento e l’età napoleonica, Bari, Laterza, 1977 (“Letteratura Italiana Laterza” diretta da Carlo Muscetta), p. 89; Marco Cerruti, Letteratura e politica tra giacobini e Restaurazione, in Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato, vol. vii, Il primo Ottocento, Roma, Salerno, 1998, p. 279. 7 Duccio Tongiorgi, L’eloquenza in cattedra. La cultura letteraria nell’Università di Pavia dalle riforme teresiane alla Repubblica Italiana (1769-1805), Milano, Cisalpino, 1997, p. 132, n. 103. 8 Id., Fra Rasori e M.me De Staël. Appunti sul giovane Gherardini, in Studi per Umberto Carpi. Un saluto da allievi e colleghi pisani, a cura di Marco Santagata e Alfredo Stussi, Pisa, Edizioni ets, 2000, p. 702. 9 Vincenzo Monti, Poesie (1797-1803), a cura di Luca Frassineti. Prefazione di Gennaro Barbarisi, Ravenna, Longo, 1998, p. 95. 10 Christian Del Vento, Un allievo della rivoluzione, cit., p. 128.

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3. il «parnasso democratico»

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de’ torchj di Pietro Agnelli in Milano una meschinissima poesia intitolata le Lamentazioni di L. Mascheroni col celebre Monti e con Lattanzi […] un informe ammasso di parole rimate fra le quali non si trova né senso, né armonia, né stile, oltre non pochi versi di dieci e di dodici sillabe». Sempre nel primo tomo, a p. 56, è pubblicato l’inno All’Ente supremo di Giovanni Torti, «da cantarsi nell’occasione, che conchiusa la pace coll’Austria, entrano solennemente in Milano i Deportati per opinione politica». La pace è la pace di Lunéville del 9 febbraio 1801, e i Deportati sono i prigionieri cisalpini reduci dalla Dalmazia e dall’Ungheria, rientrati a Milano con grandi festeggiamenti in due scaglioni, il 12 aprile e l’8 agosto 180111 (quindi comunque non alla fine dell’anno, come afferma invece Tongiorgi 12): dunque il termine post quem rimane fissato all’agosto 1801. Il termine ante quem è con ogni probabilità il 5 agosto 1802, quando Luigi Rossi, nuovo direttore dell’Ufficio Centrale dell’Istruzione, respinge la richiesta di Bernasconi di adottare il Parnasso come testo scolastico universitario13. Ma forse la forbice cronologica si può ulteriormente restringere: nella introduzione al primo tomo (p. 5), Bernasconi allude, con plauso, al decreto napoleonico che assegnava al Monti la cattedra di eloquenza all’Università di Pavia, datato 6 luglio 1800; sappiamo che Monti procrastinò il suo esordio come docente pavese fino al 24 marzo 1802, data della prima lezione. Se l’insegnamento di Monti fosse stato già in corso al momento della stampa, Bernasconi vi avrebbe certo fatto riferimento anzi che limitarsi a citare il decreto: mi desta italica rabbia il vedere ancor proposti nei corsi di belle lettere per modelli alla studiosa gioventù certe ridicole triviali raccolte […]. Ma una speranza non debole sta in me fondata di veder risorgere ancora fra questa parte più fortunata d’Italia il buon gusto poetico, or che mediante il decreto dell’immortal Bonaparte, ad oggetto di far rifiorire le scienze, fu prescelto per questo ramo l’uomo il più grande che vantar possa oggi-giorno l’Italia, il cittadino Monti.

Frassineti14 fa salire il termine ante quem al 16 dicembre 1801, data della lettera spedita dallo stampatore Tommaso Masi all’amico Giovanni Fantoni in cui si parlerebbe dell’antologia (dell’uso del condizionale darò conto fra poco). Vorrei intanto soffermarmi su un dato importante: nell’Avviso in calce al secondo tomo (p. 144) Bernasconi scrive: «Nel mese di Vendemmiale anno 11 Cfr. Francesco Apostoli, Le Lettere Sirmiensi riprodotte e illustrate da Alessandro D’Ancona, Roma-Milano, Società Editrice Dante Alighieri, 1906, pp. 355-356. 12 Duccio Tongiorgi, L’eloquenza in cattedra…, cit., p. 132, n. 103. 13 Ivi, p. 140: «[Rossi] vergò sulla pagina fitte linee di cancellatura e comunicò ai propri collaboratori l’ordine suo definitivo: “non darsi luogo alla domanda nelle presenti circostanze”». Il documento citato da Tongiorgi, datato 5 agosto 1802, è conservato all’Archivio di Stato di Milano. 14 Vincenzo Monti, Poesie, cit., p. 95, n. 152.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

xi [settembre-ottobre 1802] sortirà il terzo Tomo del presente Parnasso Democratico, e così successivamente negli altri anni. Io invito quindi i Letterati Italiani a volermi spedire in Milano [sott. mia] i componimenti repubblicani da inserire». Nell’introduzione allo stesso tomo si accenna a una periodicità annuale: «La quantità della materia che mi trovava presentemente avere mi ha obbligato a stampare i due primi volumetti unitamente, riserbandomi a darne successivamente uno ogni anno». Se la data è ricostruibile sia pure con approssimazione, il luogo di stampa è chiaramente indicato nel frontespizio di entrambi i tomi («Bologna», senza indicazione dello stampatore), ma mi pare si possa nutrire qualche legittimo dubbio sulla sua veridicità. L’attribuzione della stampa al livornese Tommaso Masi, proprietario di una tipografia in Bologna, è data per sicura da Frassineti15 sulla scorta della lettera di Masi a Fantoni del 16 dicembre 180116, appena citata, in cui il tipografo si riferisce a un’edizione delle Odi fantoniane che aveva intenzione di stampare, ma che in realtà non giunse mai a compimento: Io mi lusingo che così, facendo un sesto quasi simile alla mia collezione dei Poeti Classici, tutti quelli che hanno il mio Parnaso concorreranno con piacere ad associarsi alle Odi, perché in italiano in tal genere non abbiamo altrettanto.

Ma «il mio Parnaso» cui accenna Masi parrebbe riferirsi non già al nostro Parnasso (è significativa anche l’assenza del raddoppiamento della s) ma alla collana di Poeti Classici da lui edita, che annovera, per esempio, una Divina Commedia e un Canzoniere petrarchesco (1778) e un Orlando Furioso (1797): volumi alti 16 cm, quindi definibili, nell’approssimativa classificazione del tempo, “sesti” (cioè “in 6°”). Masi intende pubblicare le Odi di Fantoni17, alle quali vorrebbe dare una veste tipografica simile a quella della collezione dei Poeti, sperando che chi possiede libri di questa collana sia invogliato a procurarsi anche il nuovo volume. Ma se questa interpretazione è corretta, non sussiste alcuna prova del legame fra il Parnasso democratico e l’editore Masi. Certo, rimane il fatto che in calce al frontespizio di entrambi i tomi del Parnasso c’è l’indicazione di Bologna come luogo di stampa. A questo punto però è opportuno richiamare un dato: nel suo volume del 199718, Tongiorgi insinua un dubbio, che poi nessuno ha raccolto e che invece mi sembra non trascurabile: Ivi, p. 63, n. 64. Cfr. Nedo Rossi, Tommaso e Glauco Masi stampatori e il loro giacobinismo, in «Rassegna di Studi Livornesi», 1967, p. 54. 17 Il poeta accenna al progetto di questa edizione in una lettera al fratello Odoardo del 23 dicembre 1801: «Glauco [Masi] ti saluta cordialmente; suo padre ha convenuto sulla mia edizione e sarà elegantissima e tascabile». Cfr. Giovanni Fantoni, Epistolario (1760-1807), a cura di Paola Melo, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 366-367. 18 Duccio Tongiorgi, L’eloquenza in cattedra, cit., p. 132, n. 103. 15

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3. il «parnasso democratico»

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Renato Soriga ha ipotizzato, forse non a torto, che il luogo di stampa (Bologna) sia falso e si debba invece intendere Milano (cfr. gli appunti manoscritti di Soriga conservati presso la Biblioteca Civica Bonetta di Pavia, cart. 10, fasc. 65).

Orbene: se andiamo a vedere quanto Soriga, appassionato ed esperto della storia di questo periodo (oltre che della storia delle società segrete, per la quale è forse più conosciuto), ha appuntato su un foglietto, leggiamo: Il parnasso democratico (stampato a Mil.[ano] con la falsa data di Bologna) del Bernasconi nel 1801, dedicato agli amanti della poesia repubblicana agli amici di una libertà non straniera ai soli uomini veramente italiani.

Poiché Soriga è noto per essere studioso probo, scrupoloso e precisissimo (lo confermano i suoi studi e ne è fermamente convinto Felice Milani, ordinatore della folta congerie delle sue carte, in gran parte inedite19), doveva basarsi su qualche fonte ritenuta sicura, che non è giunta fino a noi. Inoltre: nel manoscritto conservato nel vol. xxxi della raccolta foscoliana della Biblioteca Labronica (contenente i discorsi Della servitù dell’Italia), a c. 46 recto, nella colonna di destra, compaiono 33 righe autografe (scritte sul foglio capovolto, con cassature e correzioni) nelle quali Foscolo riepiloga brevemente la sua produzione giovanile politico-letteraria. Ne riproduco i passaggi più importanti in relazione al Parnasso 20: La mia professione Letteraria e politica, né ho mai disgiunto l’una dall’altra, comincia dall’anno 1796, quand’io uscito appena di fanciullo (nacqui nel 78) scrissi il Tieste tragedia, e fu rappresentata >l’an[no] → a’ primi giorni dell’anno< in Venezia e >stampa[ta]< da altri stampata nel >volume< tomo X del Teatro Italiano applaudito. E in quell’anno io scrissi un ode per Bonaparte lodandolo; >alcune parole illeggibili< ma nel 1799 *allorch’ei tornato d’Egitto s’insignorì delle cose di Francia [aggiunta interlineare] la ristampai con una Lettera in fronte per correttivo ove, né bisognava essere grande profeta, gli predissi che l’universale viltà l’avrebbe fatto tiranno, e la tirannide fatto potente ed infame. >Questa lettera< L’ode e la lettera ristampata milane [parola interrotta soprascritta] assai volte, >trovasi< trovasi conservate in un >volume stampato< *una raccolta >di< volumi [soprascritto] di Poesie stampata >nel< da non so chi, stamperia Bernasconi o Bernardini se ben mi sov19 A Milani si deve tra l’altro l’Inventario sommario delle carte di Renato Sòriga, in Comune di Pavia, Assessorato alla Cultura – Biblioteca civica “Carlo Bonetta”, Per così piantare col tempo la sua picciol libreria. 1887-1987, Pavia, Logos International, 1987, pp. 103-128. 20 Questo frammento è riprodotto da Luigi Fassò in Ugo Foscolo, Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816, Firenze, Le Monnier, 1933 (Edizione Nazionale, vol. viii), p. 334, n. a. Oltre a trascurare le parole sotto cassatura, Fassò omette anche – senza segnalarlo – alcune porzioni di testo, fra le quali proprio quella che riguarda direttamente il Parnasso. L’interesse di questi appunti in relazione alla raccolta curata da Bernasconi mi è stato amichevolmente segnalato da Christian Del Vento, che qui ringrazio. La mia trascrizione è condotta direttamente dall’originale, e si avvale di alcuni segni diacritici: la cassatura è contrassegnata dalle parentesi uncinate; la freccia indica correzione entro cassatura; tra parentesi quadre sono poste le integrazioni e, corsivate, le mie didascalie; l’asterisco indica il punto d’inizio della porzione di testo cui si riferisce la didascalia.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

viene, *Presso i Lettori di [soprascritto], col titolo Poesie Repubblicane. Nel 1802 pubblicai Le Lettere d’Ortis, unico libro che non abbia il mio nome […].

La grafia foscoliana è qui particolarmente ostica, e in alcuni punti decifrabile più con la divinazione che con la congettura: in particolare, «o Bernardini» potrebbe anche essere «a ?», anche se la «o» è abbastanza chiara, e non ho trovato un toponimo plausibile che potesse adattarsi alle lettere di questa parola. Se la mia lettura non è fuori strada, non abbiamo l’indicazione del luogo di stampa, ma possiamo affermare almeno che: Foscolo confonde il curatore con lo stampatore (il quale dunque non doveva essere molto noto, e sicuramente non si trattava di Masi, uno dei più importanti del tempo); l’interruzione della parola milane e del sintagma Presso i Lettori di potrebbe indicare un’ipotesi di luogo di stampa da parte di Foscolo (Milano, appunto), ma molto incerta. E ancora: nella copia del Parnasso conservata nella Biblioteca Universitaria di Pavia, i due tomi hanno ancora la copertina originaria, in modesto cartoncino di color azzurro scuro. Sia nell’uno che nell’altro tomo, nella seconda di copertina, a 2 cm dal bordo superiore, una mano (presumibilmente coeva) ha scritto, in inchiostro color seppia sbiadito dal tempo: «Si vende da Reycend sotto i portici de’ Figini». Che la scritta fosse preesistente all’ingresso dei libri in Biblioteca, parrebbe dimostrato dal fatto che una prima segnatura è posta – in inchiostro diverso dalla scritta medesima – nella parte più alta della pagina, sopra la scritta; questa segnatura è poi cassata da tratti a inchiostro orizzontali e sostituita da un’altra segnatura, che probabilmente la stessa mano della prima segnatura ha posto al di sotto della scritta, alla quale quindi non si sovrappone, molto più in basso di quanto sarebbe stato logico fare su un foglio bianco. D’altra parte, se le segnature fossero anteriori alla scritta, non si capisce perché l’autore della scritta stessa dovesse infilarla in mezzo alle segnature e non invece più in basso, dove avrebbe avuto tutto lo spazio necessario. Ma c’è di più; con lo stesso inchiostro seppia sbiadito della scritta (e pare con la stessa mano) sono apportati quattro minimi interventi: nel primo tomo a p. 57 e nel secondo tomo a p. 42 e a p. 48, si ripara un difetto di inchiostrazione per cui erano illeggibili le lettere «n» [scorno]21, «S» [Sul Po]22 e «l» [E’l serto]23, rispettivamente; a p. 41 del secondo tomo, nella stessa ode di Ceroni interessata dalla correzione a p. 42 (A Bonaparte), il v. 7 è così stampato: «mostrati, e mira con te fida campo [/ scender vittoria]»; manca evidentemente «in» prima di «campo», e infatti viene aggiunto a penna nell’interlinea. Gli stessi interventi di “sistemazione” tipografica, con la stessa mano e lo stesso inchiostro, ho riscontrato sia nella copia del Parnasso conservata nella 21 22 23

Al verso iniziale della quinta strofa dell’inno All’Ente Supremo di Giovanni Torti. Al v. 21 dell’ode A Bonaparte di Giuseppe Giulio Ceroni. Al v. 8 del sonetto La morte di Desaix di Giovanni Gherardini.

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3. il «parnasso democratico»

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Raccolta Foscoliana donata da Gianfranco Acchiappati al Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia che nella copia conservata nella Biblioteca Civica di Feltre (quest’ultima limitatamente al secondo tomo, perché la p. 57 del primo tomo non presenta alcun difetto di inchiostrazione). Non ha invece interventi manoscritti la copia del Parnasso conservata presso la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma, che a p. 57 del primo tomo ha lo stesso difetto di inchiostrazione dei due esemplari conservati a Pavia, e nel secondo tomo riserva alcune sorprese: a p. 42 è ben leggibile «Il Po gemente ecc.» e a p. 48 è altrettanto leggibile «Il serto asconde ecc.», e – dato ancor più interessante – a p. 41 il verso di Ceroni è stampato correttamente («mostrati, e mira con te fida in campo»). Il secondo tomo ha avuto dunque certo almeno due tirature, la seconda delle quali sana alcune mende tipografiche della prima24. Purtroppo nelle copie del Fondo Manoscritti, di Feltre e di Roma non sono conservate le copertine originali, e quindi non è possibile riscontrare la presenza eventuale, nella seconda di copertina di ciascun tomo, dell’indicazione a penna presente nella copia pavese della Biblioteca Universitaria. Poiché la libreria Reycend è una famosa libreria della Milano settecentesca sita sotto l’allora portico dei Figini, in piazza del Duomo, sembra proprio che ci troviamo di fronte a una indicazione di distribuzione – di frequente stampata sui frontespizi delle stampe settecentesche (si trova vendibile presso…, si vende in Firenze dal librajo…, ecc.) – posta a mano anzi che a stampa; la stessa mano interviene a correggere piccoli infortuni tipografici, come a “mettere in ordine” il libro prima della sua distribuzione. Il fatto che si sottintenda che si tratta di Milano potrebbe voler dire che proprio a Milano il libro è stato stampato. Certo rimane aperta la questione della motivazione del falso luogo, se è davvero tale: forse la risposta più banale è la più vicina al vero, e dunque ipotizzerei una comprensibile prudenza da parte dello stampatore, che si nasconde dietro la generica e periferica (rispetto alla capitale Milano) Bologna. L’opera era schieratissima, e i tempi – se non immediatamente perigliosi – certo erano non tranquilli e sempre a rischio di repentini cambiamenti, come la recente occupazione austriaca aveva dimostrato. Lo stesso curatore, Giuseppe Bernasconi, milanese, immatricolato nel 1797 come studente di medicina al “Collegio Nazionale” di Pavia (denominazione assunta nel 1796 dal Collegio Ghislieri), collaboratore del foglio radicale pavese Giornale del Ticino e forse del Termometro politico della Lombardia, era stato arrestato tra maggio e luglio 179925. Qual è lo scopo di questa impresa? È, come dichiarato nella introduzione al primo tomo, e come si è già accennato, lo sdegno per le «barbare produzio24 Indicazioni utili in tal senso potranno ovviamente venire dal censimento e dall’esame delle altre copie del Parnasso conservate nelle varie Biblioteche. 25 Sul Bernasconi si vedano soprattutto Duccio Tongiorgi, L’eloquenza in cattedra, cit., p. 132, n. 102 e Christian Del Vento, Un allievo della rivoluzione, cit., p. 128, n. 49.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

ni» e gli «abietti poetici aborti» di gran parte della rimeria poetica contemporanea, addirittura presenti in sede didattica, unito di conseguenza al proposito di contribuire alla rinascita del buon gusto poetico, propiziata finalmente dalla chiamata alla cattedra pavese di Vincenzo Monti, autore invece di «divini componimenti» apprezzati da «tutti i veri conoscitori del bello, e del sublime». Ma leggiamo il passaggio più interessante dell’introduzione: Frattanto affine di sostituire alle sempre scipite raccolte di nozze, di monacazioni, di lauree dottorali delle Poesie adattate ad un Popolo libero, offro a miei Concittadini il presente Parnasso Democratico, nel quale saranno contenuti i migliori componimenti repubblicani, che dal primo ingresso de’ Francesi in Italia a questa parte l’odio alla tirannia, e all’impostura, e un amor sacro all’eguaglianza, ed alla libertà ha inspirate in alcune anime egregie […] Possa la lettura di queste poesie ridestare ne’ liberi petti della Gioventù Italiana que’ generosi sentimenti, che formando il carattere nazionale, rende un popolo libero, rispettabile, virtuoso, e felice.

Della destinazione didattica non si parla invece nella introduzione al secondo tomo, di cui si riportano qui la parte iniziale e quella finale: Agli amanti della Poesia repubblicana, agli amici d’una Libertà non straniera, ai soli uomini veramente Italiani io ho dedicato il primo tomo del presente Parnasso Democratico. Ad essi e non ad altri io presento anche il secondo […] Chiunque pertanto ha un’anima italiana, chiunque abborre qualsivoglia servaggio ed ogni ipocrisia accetti di buon grado questo Parnasso; se giovine onde accendersi di patrio amore, se d’età media onde mantener vivo quel sacro fuoco di Libertà per cui finora servì alla patria a costo di pericoli, e di pene, se vecchio onde pascere l’animo d’idee, e di verità cui solo l’immaginare era un delitto ne’ tempi infelici di sua passata gioventù.

È abbastanza singolare che due tomi usciti contemporaneamente abbiano due introduzioni distinte (entrambe indirizzate Ai liberi italiani), dello stesso curatore, con una parziale rettifica di prospettiva: forse – ma è solo un’ipotesi – l’idea iniziale era di pubblicare un solo tomo, ad uso prevalentemente didattico; questo tomo viene stampato (non pubblicato) nell’agosto 1801. Poi, sia la gran quantità di testi a disposizione (motivo addotto dallo stesso Bernasconi nell’introduzione al secondo tomo), sia la volontà di allargare il pubblico, sia un parziale cambiamento di prospettiva (come vedremo) portano alla confezione del secondo tomo. Il tutto ultimato con molta fretta, come se in sottofondo agissero l’inquietudine dovuta alla precarietà dei tempi e la conseguente necessità di portare avanti l’impresa per singole tappe, senza escludere l’eventualità di brusche interruzioni, e quindi in una continua condizione di allerta. Si può notare anche – è un piccolo dettaglio ma potrebbe avvalorare l’ipotesi di un progetto iniziale ridotto – che l’indicazione «Tomo i» sul frontespizio del primo volume potrebbe essere stata aggiunta in seguito, perché non è equidistante dal titolo e dal fregio (come sarà invece per l’indicazione «Tomo ii»: il frontespizio del secondo tomo è insomma più armonioso nelle proporzioni).

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3. il «parnasso democratico»

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La correzione di prospettiva è da porre in rapporto con l’intenso dibattito politico che caratterizza la pubblicistica cisalpina negli ultimi mesi del 1801, cui Foscolo darà voce pubblica e solenne nell’Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione, scritta tra il dicembre 1801 e il gennaio 1802, nella quale egli «proponeva una soluzione costituzionale capace di garantire la specificità italiana e la sopravvivenza della Repubblica cisalpina, salvaguardando la sua autonomia e la sua dignità politica dal predominio francese»26. La stessa dedicatoria dell’ode a Bonaparte è messa in calce al tomo primo del Parnasso, quasi a far da cerniera, proprio per il suo carattere di «riflessione critica sull’ideologia e sull’encomiastica del Triennio» e insieme di «introduzione ai temi della nuova fase postrivoluzionaria che si prefigurava», con passaggio dal bisogno di libertà (parola chiave del primo tomo) al bisogno di pace (parola chiave del secondo)27. A conferma delle aspettative suscitate nei patrioti cisalpini dalla pace di Lunéville si potrebbe citare ad esempio un breve passaggio dell’orazione Sulla pace pronunciata da Giuseppe Compagnoni, “Promotore della Pubblica Istruzione ed Educazione”, il 10 Fiorile dell’anno ix [30 aprile 1801] a Milano, nelle feste solenni del Foro Bonaparte: «La Pace di Lunéville apertamente consecrando l’indipendenza nostra, noi rende arbitri di quelle fondamentali istituzioni, che al reggimento nostro maggiormente convengano». Nient’affatto anacronistico pare dunque il Parnasso28, anzi strumento di partecipazione al dibattito fondamentale di quei mesi, intorno alla vagheggiata costituzione nel nord Italia di uno stato unitario, indipendente e sovrano, portato avanti da uomini nei quali ben potevano riconoscersi i destinatari della raccolta di poesie repubblicane: «amici d’una Libertà non straniera», «soli uomini veramente Italiani»29. I due tomi vennero dunque probabilmente pubblicati nell’autunno 1801, forse anche autunno avanzato; la scadenza di Vendemmiale per il futuro “terzo” Parnasso (quello dell’anno 1802) non credo costituisca un problema, poiché Bernasconi la pone forse per uniformità con la data di agosto 1801 implicita nel riferimento (nell’introduzione del primo tomo) alle Lamentazioni del Lattanzi. *** Ognuno degli 87 componimenti antologizzati nel Parnasso (44 nel primo Cfr. Christian Del Vento, Un allievo della rivoluzione, cit., p. 145, n. 14 e p. 143. Umberto Carpi, Il programma nazionale di un intellettuale post-giacobino, in Ugo Foscolo, Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione, a cura di Lauro Rossi, Roma, Carocci, 2002, p. 21. 28 Come aveva sostenuto inizialmente Duccio Tongiorgi (L’eloquenza in cattedra, cit., p. 133), il quale ha però in seguito rettificato il giudizio (Fra Rasori e M.me De Staël…, cit., p. 703): «Finalmente, era questo l’auspicio, gli italiani si sarebbero potuti sottrarre al giogo straniero […] il prestigio personale di Napoleone non era intaccato negli ambienti patriottici italiani, ed a lui, anzi, si affidavano ancora aspettative palingenetiche. Ma l’omaggio era circoscritto, e non coinvolgeva più i francesi […], della cui inaffidabilità l’Italia aveva conosciuto recenti dolorose prove». 29 Così nell’introduzione al secondo tomo, come abbiamo visto. 26 27

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tomo e 43 nel secondo)30 meriterebbe un’analisi attenta; ma in questa sede mi limiterò a pochi cenni su alcuni di essi strategicamente rilevanti e a qualche minima osservazione di ordine linguistico. La presenza più forte è, prevedibilmente, quella di Monti, che apre il primo tomo con cinque componimenti: la canzone Il Congresso d’Udine, l’inno Il tiranno è caduto. Sorgete…, il Sonetto contro l’Inghilterra (Luce ti nieghi il sole, erba la terra…), il brindisi Non fragor di molli carmi…, l’inno Bella Italia, amate sponde… Ma anche il secondo tomo si apre con quattro poesie montiane: le terzine de Il pericolo e tre sonetti, dei quali uno edito (La gara delle Repubbliche) e due inediti, Per l’attentato della macchina infernale alla vita di Bonaparte (Prendi il mio crine, e non temer sventura…) e Per monacazione (Libertà, santa dea madre d’eroi…); inoltre, Monti torna, con la canzone per la pace di Campoformio Dolce brama delle genti… e l’ode La Pace, per la festa al Foro Bonaparte del 30 aprile 1801, in apertura di una serie consistente di poesie (undici, dalla 27a alla 37a posizione) dedicate alla pace. L’apertura nel nome di Monti sembra confermare la centralità e l’importanza di questa ideale “sezione” compatta del secondo tomo che, celebrando la pace di Lunéville, guarda al futuro, a quel progetto di indipendenza della Repubblica Cisalpina che la pace sembrava appunto aver reso possibile. Che la posizione delle poesie montiane, iniziale anche qui, non sia casuale è chiaro già nell’introduzione al secondo tomo, quando Bernasconi enfatizza la presenza di alcuni inediti (in realtà solo due sonetti) di Monti: «[…] alcuni [inediti] del celeberrimo Cittadino Vincenzo Monti, che volle con ciò dimostrarmi la valevolissima sua approvazione sulla presente raccolta». L’avvallo di Monti assume qui un rilievo ancora maggiore rispetto al primo tomo: là gli era affidata una funzione didattica (attraverso l’insegnamento far risorgere il «buon gusto poetico»), qui una funzione politico-civile (nel senso che si è detto sopra). Strategica pare anche la chiusura del secondo tomo, sigillata da due testi particolari: il sonetto di Foscolo – che ha qui la sua prima apparizione a stampa 30 Dei 38 autori, sei sono anonimi, ma l’autore dell’inno Ai liberi Italiani, nel primo tomo, è da identificarsi certamente con Luigi Ceretti, e quello della canzone La pace, nel secondo tomo, è Flaminio Massa (cfr. Frassineti in Vincenzo Monti, Poesie, cit., p. 90). Dodici autori sono presenti sia nel primo che nel secondo tomo (tra parentesi il numero delle loro poesie antologizzate): Vincenzo Monti (11); Giovanni Pindemonte (7); Antonio Buttura (7); Francesco Gianni (6); Vincenzo Lancetti (4); Luigi Scevola (4); Antonio Gasparinetti (3); Pietro Mantegazza (3); Michelangelo Tedeschi (3); Carlo Vellani (3); Ugo Foscolo (2: ode a Bonaparte liberatore e sonetto Te nudrice alle Muse…); Angelo Petracchi (2). Oltre a questi, solo quattro autori compaiono con più di un componimento: nel primo tomo Giovanni Torti e un autore indicato con la sola iniziale «L» (con due poesie ciascuno); nel secondo tomo Giuseppe Giulio Ceroni (3) e Giovanni Gherardini (4). Con un solo componimento sono presenti: nel primo tomo, Giovanni Fantoni, Luigi Oliva, Giovanni Sacchi, Luigi Parietti, Luigi Rossi, Angelo Petracchi, Lorenzo Mascheroni, Luigi Serra, Francesco Salfi, Serafino Maffei, due autori identificati con le iniziali «L.L.» e «G.M.» e due anonimi (uno dei quali è il Ceretti); nel secondo tomo, Gondolini, Giovanni Greppi, Santo Rossi, Adelelmo Fugazza, Teresa Bandettini, quattro anonimi (uno dei quali è Flaminio Massa) e lo stesso Bernasconi, con l’inno Per la Pace segnata a Lunéville.

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3. il «parnasso democratico»

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– Te nutrice alle muse, ospite e dea… (“All’Italia, per la sentenza capitale contro la lingua latina proposta al Gran Consiglio Cisalpino”) e le terzine – davvero più democratiche che poetiche – Qual mie pupille nell’ambascia assorte…, ossia i Versi funebri scritti da Giovanni Gherardini31 in morte del cittadino Giovanni Battista Bonaglia cremonese, alunno del Collegio Nazionale di Pavia, e Dottore in Medicina. Il funerale dello studente Bonaglia, morto l’11 Fiorile dell’anno vi (30 aprile 1798), fu un avvenimento importante, perché, per volontà dei compagni di collegio, si svolse in forma insolita e per così dire “politica”, come deduciamo dal resoconto che ne diede il Giornale di Milano32: Un corpo di Collegiali col fucile capovolto apre la marcia del corteggio funebre, segue la banda della Guardia Nazionale, indi un corpo di studenti. In mezzo viene trasportato il feretro coperto da un panno bianco fregiato di nastri tricolorati cisalpini. Sovrapposti appaiono il libro di Brown, una corona d’alloro (erano pochi giorni da che il defunto era stato laureato in medicina) […] Una sinfonia lugubre, interrotta dal mesto suono di rauchi tamburi, gli alunni col cipresso nel cappello, colle ciglia dimesse, colla doglia in fronte, ma molto più la rimembranza dell’amico sensibile, del Medico Filosofo, del Cittadino Filantropico che più non esiste; tutto infondeva compunzione, tenerezza, virtù. […] Si arriva col cadavere alla tomba, si fa una scarica generale di fucili, una sinfonia melanconica riconduce il silenzio; varii alunni nazionali leggono vari pezzi di poesia; i tamburi annunziano un movimento d’armi; una scarica di fucili vien diretta contro la tomba; si gettano nella fossa i cipressi e al suono di una lamentevole sinfonia il cadavere viene coperto di terra, che ritorna così nel seno di quella madre che ci produce. Tutta Pavia fa le meraviglie; esulta ogni Patriota; stupisce ogni ignorante; piangono le donnicciuole; fremono i creduli; s’adirano i preti; bestemmiano i bacchettoni. Ma è data la gran scossa al pregiudizio, la ragione trionfa.

Il valore simbolico di questi versi (Gherardini è certo uno degli studenti che leggono pezzi di poesia), posti a chiusura del libro, è fortissimo: la firma dell’autore con le sole iniziali «G.G.», seguite dall’indicazione generica “alunno nazionale”, ne rafforza il «valore di esperienza collettiva»33. Proprio l’organizzazione del funerale costò a Bernasconi, Gherardini e altri studenti del Ghislieri il carcere durante i mesi dell’occupazione austro-russa. E ancora: il realismo lessicale – ai limiti di una macabra crudezza – lascia intravedere, «nell’immagine “atomistica” della persistenza post-mortem della materia, la presenza attiva della lezione rasoriana»34. Sappiamo bene come Giovanni 31 Giovanni Gherardini, anch’egli studente di medicina, immatricolato nel Collegio Nazionale nel 1796, è presente nel Parnasso con altri tre componimenti, tutti nel secondo tomo, alle pp. 48, 49-51, 86-92: un sonetto sulla morte di Desaix, una infiammata Canzone militare («O mortai, se la pace volete / rovesciate, struggete, incendiate / gli aurei sogli, al cui piede ammucchiate / le catene pei popoli stan»), una serie di terzine incatenate Alla pace (dove «l’Ercol Franco», cioè Napoleone, soccorre l’infelice patria del poeta che «Aita, aita singhiozzando chiede»). 32 Cfr. Giacomo Franchi, Pavia che fu, Pavia, Stamperia Universitaria pavese, 1939, pp. 237-240. 33 Duccio Tongiorgi, L’eloquenza in cattedra, cit., p. 137. 34 Ivi, p. 115.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Rasori fosse traduttore e “divulgatore” della lezione e della dottrina innovativa e democratica di John Brown (un libro del quale era stato posato sul feretro di Bonaglia). Certo, il Parnaso non era abituato a versi come questi, peraltro non fra i più duri: Tal mi pinge l’accesa fantasia il cadaver feral, che tra i sospiri nuova compassïone al cor m’invia; cogli occhi semi-aperti ahi! Par, che miri la Gioventù, che geme, e sembran poi uscir dal labbro gli estremi respiri… […] Sonno eterno il cadaver tuo non dorme, ma vegetando nuova vita assume della natura alle leggi conforme.

La nota apposta al testo dal Bernasconi suona sia come excusatio per avere incluso versi così singolari sia anche (e più) come sottolineatura del “messaggio” degli stessi: «Ho creduto che dovessero aver luogo in un Parnasso Democratico anche le seguenti terzine non tanto per la purezza con cui sono scritte, quanto per i principj che in esse sono sparsi». L’avvertenza del curatore ha rilievo anche perché la sua presenza diretta nei due tomi è molto discreta, limitata alle due introduzioni e all’inno Per la pace segnata a Lunéville35, che sembra proporsi come una summa dell’esperienza giacobina, aggettante verso il futuro, ed è quindi dotato di un rilievo ideologico e programmatico che va ben al di là delle francamente esigue qualità poetiche: vi troviamo il giogo austriaco, la vittoria francese, la pace di Lunéville, il ritorno dei deportati («Ecco sciolti dall’atre prigioni / della patria i più illustri campioni / smunti sì, ma non domi, non vinti / tornan cinti di nobile onor»), l’esaltazione di Napoleone («Scese in campo qual rapido lampo, / e i nemici squadroni atterrò. / Pace attesa dagli astri discesa / invocata per lui ritornò»), la libertà conseguente alla pace («Libertà di sua luce divina / Cisalpina or ravviva, rischiara, / e non dubbia a lei Pace prepara / nuovo lustro, novello vigor»). Una minima postilla a quest’inno: di qual rapido lampo forse si è ricordato Manzoni per un celebre luogo del Cinque Maggio, vv. 27-28 («di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno»); non dimentichiamo che non poche sono le tessere linguistiche comuni a poesie del Parnasso e al manzoniano Trionfo della Libertà36. La rapidità fulminea è associata a Napoleone anche dal Foscolo Alle pp. 106-111 del t. ii. Utili segnalazioni in tal senso in Salvatore Silvano Nigro, Manzoni, Bari, Laterza, 1978 (“Letteratura Italiana Laterza” diretta da Carlo Muscetta), p. 20 e p. 35. 35

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dell’ode a Bonaparte liberatore, v. 182: «vien, vede, vince, e libertà ridona»; la stessa parafrasi del Veni, vidi, vici che Plutarco (nei Memorabilia) attribuisce a Cesare è nella dedicatoria che precede l’ode: «Possa io intuonare di nuovo il canto della vittoria quando tu tornerai a passare le Alpi, a vedere, ed a vincere!». Tenta una variatio Antonio Buttura nel sonetto Bonaparte in Egitto, v. 5: «Scende, pugna, sconfigge […]»37, mentre la stessa parafrasi, ma rivolta al re di Napoli e sarcasticamente rovesciata, si trova in un epigramma pubblicato nel primo tomo, a p. 67, firmato con la sola iniziale «L»: Con soldati infiniti si mosse da suoi liti verso Roma bravando il re don Ferdinando; e in pochissimi dì, venne, vide, e fuggì.

Già da queste poche spigolature è chiaro che il tasso di poeticità dei testi spesso guarda verso il basso (Foscolo e Monti fanno naturalmente storia a sé), ma non scalfisce (anzi !) la loro importanza, in quanto significativo campione di quella poesia ‘‘repubblicana’’ media, che all’altezza del nostro Parnasso poteva già contare altre sillogi: molte delle poesie antologizzate da Bernasconi erano apparse nella Raccolta di poesie repubblicane de’ più celebri autori viventi, uscita a Parigi nel 180038 e compilata da Storno Bolognini con un intento simile a quello di Bernasconi: La Poesia fu sempre il linguaggio delle passioni nobili, e più elevate; talché venne detta il linguaggio degli Dei. Essa serve a celebrare gli Eroi, e cantando quelli, che sono stati, accende gli animi ad emularli […] E a chi non è noto, che ai nostri giorni i canti repubblicani non meno che le dottrine de’ filosofi, contribuirono a risvegliare ne’ francesi il possente desiderio di libertà, e a renderli capaci di trionfare dei re [?]

Più modesta la scelta fatta nella Raccolta di poesie repubblicane uscita a Vercelli, presso lo stampatore Ceretti, nel 1799: ventisei autori perlopiù di fama presumibilmente locale, con l’eccezione illustre di Vincenzo Monti, presente anche qui – come nel Parnasso – con l’inno Per l’anniversario della caduta di Luigi XVI (Il tiranno è caduto. Sorgete…)39. T. ii, p. 73. Questi gli autori presenti: Vincenzo Monti, Giovanni Pindemonte, Melchiorre Cesarotti, Francesco Gianni, Giovanni Fantoni, Giovanni Torti, Antonio Buttura, Giovanni Greppi, Francesco Zacchiroli, Lorenzo Mascheroni, Serafino Maffei, Giuseppe Giulio Ceroni, Luigi Rossi, Ignazio Ciaja, Giunio P. Per questa raccolta, anche in rapporto al Parnasso, cfr. Mariasilvia Tatti, Dalla poesia repubblicana all’encomio napoleonico: la parabola della poesia politica, in Le tempeste della vita. La letteratura degli esuli italiani in Francia nel 1779, Paris, Champion, 1999, pp. 139-154. 39 Entrambe le raccolte sono più esigue del Parnasso: 42 poesie nella raccolta vercellese, 44 in quella parigina. Il Parnasso avrà una sorta di “ristampa” trent’anni dopo: Antologia repubblicana, Bo37

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Sui temi delle poesie del Parnasso non c’è molto da aggiungere, se non specificare i due poli cronologici degli eventi cantati (Marengo in primis): fatte due eccezioni (entrambe nel primo tomo), cioè un Sonetto composto ne’ primordi della rivoluzione di Francia di Giovanni Pindemonte e un truculento sonetto di Antonio Gasparinetti, Augurio all’Italia scritto l’anno 179640, si va dalla resa di Mantova del 2 febbraio 179741 all’aprile 1801, data del rientro a Milano dei deportati dopo la pace di Lunéville. Bonaparte fa la parte del leone, ma sono celebrati anche i suoi generali (soprattutto Desaix), e ben sei sono gli alberi della libertà eretti in altrettanti componimenti. I metri sono vari, con una discreta presenza del sonetto e della terzina e una più rarefatta dell’ottava42; predominano però i metri dell’ode-canzonetta settecentesca, ed è frequente la scelta dei più cantabili versi parisillabi (ottonari e decasillabi), adatti all’accompagnamento musicale, previsto per molti di questi componimenti. Non dobbiamo dimenticare infatti la presenza della musica, che probabilmente giustificava e forse talvolta riscattava asperità lessicali e sintagmatiche evidenti come tali alla lettura ma funzionali alla memorizzazione di testi che spesso erano destinati anche al canto durante le feste per le quali venivano composti (per l’innalzamento di alberi della libertà, anniversari come quello della morte di Luigi XVI ecc.). «Nella coreografia della festa, folta di azioni e di personaggi allegorici, l’inno, che commentava la fase culminante e conclusiva del rito, segnava il momento di fusione, riuniva tutti i convenuti, attori e spettatori, in un medesimo sentimento di partecipazione e di entusiasmo: intonato al suono dell’orchestra dagli elementi del coro, coinvolgeva nel canto anche il popolo»43. Molto ampia appare l’escursione dei registri stilistici, che va da attardate movenze arcadiche a passaggi macabri da “visione” varaniana, talvolta nella stessa poesia. Emblematiche in questo senso le “terzine estemporanee” di Francesco Gianni dedicate a La battaglia di Marengo, che così iniziano44: Canta, o Musa, il valor de l’Ercol Franco, onde a Marengo le tedesche belve lasciar l’ossame inaridito, e bianco.

logna, s.e., 1831 (ma è noto che William Spaggiari ha ipotizzato la stampa presso la ticinese Tipografia Elvetica di Capolago). 40 Il sonetto si conclude con la Libertà che scrive in fronte a Roma «Anco l’Italia i suoi tiranni uccide», con il sangue dei suddetti tiranni. 41 Cui sono dedicati un sonetto di Carlo Vellani e un’ode di Francesco Gianni. 42 Nel primo tomo il sonetto ha dodici occorrenze, la terzina due, l’ottava tre; nel secondo tomo, il sonetto compare tredici volte, la terzina quattro e l’ottava una sola. 43 Roberta Turchi, Dalla poesia politica repubblicana all’encomiastica napoleonica. Linee di ricerca, in I riflessi della Rivoluzione dell’89 e del triennio giacobino sulla cultura letteraria d’Italia. Atti del Convegno (Portoferraio – Rio nell’Elba, 28-29-30 settembre 1989), a cura di Giorgio Varanini, Pisa, Giardini, 1992 («Rivista italiana di studi napoleonici», xxix, 1-2), p. 381. 44 T. ii, p. 21.

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3. il «parnasso democratico»

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Era in quella stagion, ch’entro le selve chiama l’usignuolin la sua diletta, perché tacita più non si rinselve.

Qui già i primi sei versi riescono a mettere insieme un esordio classicamente impostato, un epiteto da pamphlet («le tedesche belve»), un particolare crudo («l’ossame inaridito») e un vezzoso «usignuolin» di sapore arcadico. Segue, dello stesso Gianni, La vendetta. Canto militare dedicato a Bonaparte l’italico45, che ha passaggi davvero memorabili (nel senso che, pur volendolo, è difficile dimenticarli): Alla vergin semiviva il satollo rapitor svelse il core che bolliva di pudico sdegno ancor. […] Ma del sangue de i tradìti l’urna vindice s’empiè; cento spettri inferociti la rovesciano su i re; e tra’l fumo del sangue che bolle, tra quel fumo di sdegno immortal, una mano scarnata si estolle con rovente affilato pugnal.

Fatta eccezione per Foscolo e Monti, ovviamente, e per qualche poeta di discreta bravura (come Giovanni Pindemonte), la ripresa di stilemi e immagini tradizionali pecca spesso di ingenuità e goffaggine; in particolare, il Gianni si segnala per ingombranti prestiti danteschi: enfiate labbia46 (da Inf., vii, 7), lena affannata47 (da Inf., i, 22), occhi biechi48 (da Inf., vi, 91), sangue che bolle (da Inf., xii, 47: «la riviera del sangue in la qual bolle»). Da Parini provengono le pruriginose cene49 (cfr. Mattino, v. 79: «pruriginosi cibi») e l’aggettivo ignivomo50 (cfr. l’ode La tempesta, v. 47: «ignivome s’aprian di bronzo bocche»). I re sono sempre connotati dal pallore, come in Alfieri («pallido in volto, più che un re sul trono»: Sublime specchio di veraci detti, v. 8) e ancor prima in Metastasio («pallidi tiranni»: Per la Festività del Santo

45 46 47 48 49 50

[…]».

Ivi, pp. 26-28. L’assedio di Genova, v. 9 (t. i, p. 24). Gli eroi francesi in Irlanda, v. 105 (ivi, p. 35). La battaglia di Marengo, v. 30 (t. ii, p. 22). Al v. 32 dell’ inno Ai liberi italiani di anonimo [ma Luigi Ceretti] (t. i, p. 37). Al v. 31 della Battaglia di Marengo di Gianni (t. ii, p. 22): «Mille ignivome sue macchine

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Natale, parte ii51). Frequente il ricorso al serbatoio ossianico, da cui provengono verbi come vampeggiare52 e affaldare53 e aggettivi come rugghiante54. Ma il versante linguistico più interessante, e meritevole di un’indagine che vada ben al di là di queste brevissime note55, è quello delle “parole nuove” che la forza degli eventi storici impone alla lingua poetica (oltre alla non nuova, ma rinnovata, Libertà, Libertade, che compare quasi ad ogni pagina). Preliminarmente, però, non si può tacere del Parnasso del titolo, che è sicuramente più vicino al Parnasse francese che al tardo-latino Parnassus; il latinismo renderebbe più forte la carica ossimorica di un Parnaso democratico, ma con ogni probabilità il raddoppiamento è dovuto alla mediazione francese. Mediazione che è forte anche altrove (è stato citato prima il titolo La pace segnata a Lunéville, dove si può parlare di vero e proprio prestito): il regesto dei francesismi sarà importante e interessante, anche e soprattutto per il particolare colore ideologico del fatto linguistico in queste poesie. Al lessico politico “nuovo” o rinnovato rimandano sintagmi come libero governo56, popolo sovrano57 e – ovviamente – il sostantivo cittadino58, che ha quattro occorrenze al vocativo plurale59, e nell’inno All’amore della patria di Pietro Mantegazza è accostato ai figli e all’amico, dunque agli affetti più cari60: Pietro Metastasio, Tutte le opere, cit., vol. ii, p. 548. Antonio Buttura, Omaggio alla gloria di Desaix, v. 25 (t. i, p. 114). 53 Giovanni Gherardini, Alla pace, v. 146 (t. ii, p. 92). 54 Francesco Gianni, La battaglia di Marengo, v. 61 (ivi, p. 24). 55 Importanti punti di riferimento di tale indagine dovranno essere: Erasmo Leso, Lingua e Rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario 1796-1799, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 1991; Id., Momenti di storia del linguaggio politico, in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, vol. ii. Scritto e parlato, Torino, Einaudi, 1994, pp. 713-721 (paragrafo L’esperienza fondante del triennio rivoluzionario 1796-99); Angelo Stella, La parola della Rivoluzione, in Il piano di Lucia. Manzoni e altre voci lombarde, Firenze, Cesati, 1999, pp. 91-107. 56 Giovanni Sacchi, Capitolo in occasione dell’innalzamento dell’albero della Libertà nel Ginnasio di Cremona, v. 98 (t. i, p. 74). 57 Giovanni Pindemonte, Sonetto per l’albero della Libertà piantato in Venezia, v. 14 (t. ii, p. 64). 58 Cittadino è un lemma fondamentale del Vocabolario democratico compilato da Giuseppe Compagnoni e pubblicato sul Monitore Cisalpino del 18 maggio – 22 agosto 1798: «cittadino. Oggi l’ex-nobile sdegna questo nome. […] Voi cominciate già ad amarlo, uomini buoni, e tranquilli, che foste fin qui riguardati con disprezzo dai grandi, i quali stentavano assai a creder ch’essi e voi foste d’una stessa specie. Aprite gli occhi di buon’ora, imparate a conoscere l’augusto carattere, che questo sacro nome esprime: avvezzatevi a sentirne la dignità. Cittadino è l’uomo, che forma parte del sovrano. Sta in lui la repubblica, come sta in tutti gli altri: e se in lui non fossero intatti i diritti di libertà e d’uguaglianza, non esisterebbe né sovranità, né repubblica». La citazione è tratta da: I giornali giacobini italiani, a cura di Renzo De Felice, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 480. 59 Vincenzo Monti, inno Il tiranno è caduto…, v. 15 (t. i, p. 13); Luigi Oliva, Ode in occasione dell’innalzamento dell’albero della Libertà nel Ginnasio di Cremona, v. 27 (t. i, p. 70); Giovanni Greppi, Alla gioventù italiana dell’uno e dell’altro sesso, v. 5 e v. 45 (t. ii, p. 33 e p. 35: l’invito a brandire le spade è rivolto sia ai cittadini, sia alle «vergini caste e vezzose», sollecitate ad emulare «le spartane donzelle»). 60 T. i, pp. 146-147. 51

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3. il «parnasso democratico»

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Ma se schiavo è il suol natio, né ritrarlo al giogo puoi, se non giovi a’ figli tuoi, a l’amico, al cittadin, ah risparmia i tuoi sudori, le tue cure, e i lunghi affanni, né sacrifica ai Tiranni la tua vita, il tuo valor.

Nell’Inno per la pace segnata a Lunéville, Carlo Vellani tranquillizza i moderati61: Son modesti, sono brevi i desir de’ Cittadini, e non varcano i confini, che prefisse il gran Fattor.

Tra gli aggettivi, si segnalano civico («civiche glorie», «virtù civiche», «civiche vite»)62, repubblicano («valor Repubblicano», «un fervido / Repubblicano zelo», «popol repubblicano»)63, comune («comun bene», «comun sicurtade», «comun felicità», «comuni diritti»)64. I diritti dell’uomo sono indelebili al v. 11 dell’ode di un anonimo Sulla ratifica del Trattato d’alleanza tra la Repubblica cisalpina e la Repubblica francese65. In Marino (Sampogna, Idillio 7, v. 135), indelebili erano i baci. Gli stessi diritti sono imprescrittibili al v. 29 dell’inno Al popolo di un anonimo66, che la cantabilità del metro indurrebbe ad avvicinare a Metastasio; ma invece della derivazione divina del potere regale (ricordiamo la Licenza dell’Olimpiade: «chi, celebrando i pregi / dell’anime reali, / ubbidisce agli Dei, giova a’ mortali»), il nostro anonimo poeta celebra «gli imprescrittibili / Diritti umani, / l’egual Giustizia, / la Libertà» e prosegue con una forte affermazione di principio: «Stessi, egualissimi / Dritti, e bisogni / a tutti gli uomini / Natura diè». Segue la condivisibile condanna del tentativo di infrazione di questo principio: T. ii, p. 122. Giovanni Pindemonte, Sonetto composto ne’ primordj della rivoluzione di Francia, v. 7 (t. i, p. 53); Luigi Oliva, Ode in occasione dell’innalzamento dell’albero della Libertà nel Ginnasio di Cremona, v. 11 (t. i, p. 69); Francesco Gianni, La resa di Mantova, vv. 73-74 (t. i, p. 139). 63 Luigi Oliva, Ode in occasione dell’innalzamento dell’albero della Libertà nel Ginnasio di Cremona, v. 24 (t. i, p. 70); Luigi Scevola, Per la rivoluzione del Piemonte, vv. 46 (t. ii, p. 47); Vincenzo Lancetti, La morte del general Duphaut, v. 139 (t. ii, p. 58). 64 Giovanni Sacchi, Capitolo in occasione dell’innalzamento dell’albero della Libertà nel Ginnasio di Cremona, v. 103 (t. i, p. 75); Giovanni Greppi, Alla gioventù italiana dell’uno e dell’altro sesso, v. 77 ( t. ii, p. 36); Antonio Gasparinetti, Per la pace, v. 8 (t. ii, p. 112); Vincenzo Lancetti, Oda alla Libertà, v. 19 (t. i, p. 98; cfr. il manzoniano Trionfo della Libertà, i, v. 70: «comun diritto»). 65 T. ii, p. 62. 66 Ivi, p. 38. 61

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale Il furbo ipocrita con fole, e sogni la gente incredula soggetta fè. Disse ei nell’empito del suo furore: son legge: adorisi la legge, e me. Il ciel destinami vostro signore: vili, curvatevi sotto il mio pié. Taci, sacrilego: per pena a nui qual gli orsi, e gli aspidi, il ciel ti diè. […]

Comprensivi, perdoniamo all’ingenuo ma arguto autore il superlativo egualissimi, il sincopato dritti, e perfino la rima siciliana nui. All’enfatico entusiasmo tipico di molte di queste poesie sarà da ascrivere un superlativo anomalo: nell’Oda alla Libertà di Lancetti, la Francia è personificata come «Sublimissima Donna / che candida e celeste / cinge e purpurea gonna» (vv. 31-33)67. Nella stessa ode compare un’ardimentosa rima tra periglio e coniglio (per la precisione: cor di coniglio)68; in un’altra poesia di Lancetti ritroviamo il coniglio, implicato in una similitudine e accompagnato dal prevedibile epiteto imbelle, ma anche, ad esempio, un irto imperativo promulghinsi («promulghinsi i diritti, ed i doveri») e il pesante aggettivo ildebrandiche («rompansi le ildebrandiche catene»)69. Anche altrove ci si può imbattere in qualche audacia, come – al v. 26 della più volte citata Battaglia di Marengo di Gianni – il verbo scavernarsi («Scosso da l’infernal [ma invernal] sua letargìa / scavernandosi l’orso a salto a salto, / come spaurato cavriol fuggìa»70) o, in un’altra ode di Gianni, il verso «d’atroce palla i procellosi sdegni» (La resa di Mantova, v. 80)71. Tra le figure retoriche, la più usata (abusata) è la prosopopea, che ha spesso pennellate troppo pastose, come ad esempio accade nelle personificazioni

67 68 69 70 71

T. i, p. 98. Ivi, p. 99 (v. 55 e v. 57). La morte del generale Duphaut, v. 105, v. 163, v. 174 (t. ii, p. 56 e p. 59). T. ii, p. 22. T. i, p. 139.

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3. il «parnasso democratico»

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dell’Impostura e dell’Orgoglio messi in fuga dalla Libertà in un inno di Giovanni Torti72: E la vecchia Impostura si tragge fin sugli occhi la nera cocolla, disperata, che più non satolla l’empia fame sul credulo error. […] E l’Orgoglio si straccia i capelli, e alle inferne latèbre rifugge, e sbuffando precipita e rugge, come in selva piagato leon.

Del resto, nell’introduzione al primo tomo Bernasconi aveva per così dire messo le mani avanti: Nel Parnasso Democratico troverà, è vero, il lettore dei componimenti non tutti dell’eguale bellezza; ma la mediocrità di alcuni è corretta dalla purezza dello stile, dall’armonia del verso, dalla verità dei sentimenti.

Di quest’ultima, almeno, non abbiamo mai dubitato.

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Nell’innalzamento dell’albero di Libertà nel Seminario (ivi, pp. 59-61).

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4. La poesia “inquieta” di Emilio De Marchi

Non è certo l’abito del poeta-vate quello che Emilio De Marchi indossa scrivendo a Giovanni Bertacchi il 5 settembre 1898: Finirò col confessarle un mio prossimo peccato. Il Senatore Negri mi persuade a fare anche quest’anno una Strenna pei Rachitici, e, non avendo nulla di meglio, darò ai Rachitici un volume di versi. Speravo di morire senza fare questa scarlattina, ma purtroppo se non la si fa da giovani, la si fa da vecchi e allora, dicono, è più cattiva1.

La “scarlattina” ha come titolo Vecchie cadenze e nuove ed è la maggiore raccolta di poesie di De Marchi2: stampata a Milano dalla Tipografia Agnelli alla fine del 18983, esce con la data del 1899 quale «Strenna a Beneficio del Pio Istituto dei Rachitici», con una presentazione Ai lettori di Gaetano Negri4. 1 La lettera è pubblicata in Emilio De Marchi, Tutte le opere, a cura di Giansiro Ferrata, iii. Varietà e inediti, Milano, Mondadori, 1965, tomo ii, pp. 796-798. 2 Le testimonianze manoscritte, assai numerose, relative alle poesie di De Marchi sono conservate, come tutti gli altri materiali autografi citati nel corso del saggio, nel Fondo De Marchi del Centro di ricerca per la tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia. 3 Nello stesso anno, 1898, escono le Vecchie e nuove Odi tiberine di Domenico Gnoli (Bologna, Zanichelli). Adottando nel titolo il termine tecnico musicale cadenza, De Marchi forse aveva presenti i Semiritmi di Luigi Capuana (Milano, Treves, 1888) ed altri titoli “metrici” di raccolte poetiche, relativamente numerosi in quegli anni: da Ritmi e fantasie di Federigo Casa (Bologna, Zanichelli, 1887) all’imminente (1899) Rime e ritmi di Carducci, “anticipato” dallo speculare e defilato Ritmi e rime di Giovan Battista Menegazzi (Foligno, Tipografia cooperativa, 1891). Ma precisamente Cadenze si intitolava un volume di versi (Torino, Casanova, 1883) del drammaturgo e giornalista torinese Edoardo Augusto Berta. Tra le non molte occorrenze di cadenza (al singolare o al plurale) nella tradizione lirica italiana, spiccano per frequenza quelle delle poesie di Emilio Praga: troviamo cadenze in Il poeta ubbriaco, v. 17; La libreria, v. 156; Sospiri all’inverno, v. 17; Ancora un canto alla luna, v. 25; A un feto, vv. 19, 163; cadenza in Sui monti di Noli, v. 23 e Serenata, vv. 1, 3, 17, 19 (cfr. Emilio Praga, Poesie. Tavolozza – Penombre – Fiabe e leggende – Trasparenze, a cura di Mario Petrucciani, Bari, Laterza, 1969). De Marchi aveva in parte “anticipato” il titolo della raccolta in quello di una poesia già apparsa a stampa nel 1894, Litanie vecchie e litanie nuove (vedi più avanti, nota 8). 4 Gaetano Negri (1838-1902) era una figura di spicco nella Milano del tempo: scrittore e politi-

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Il volume era stato preceduto da due esili raccolte di versi: Poesie (Milano, Treves, 1875) e Sonetti (Milano, Bortolotti, 1877). Le Poesie, dedicate dall’autore alla madre, Caterina Perego, riconosciuta come propria «maestra di poesia», sono cinque ed hanno struttura metrica di ode, con varietà di strutture strofiche (dalla quartina alla strofa eptastica) e rimiche, e di misure versali (dal settenario all’endecasillabo): I fanciulli, Alla nuova Italia, Amleto, L’antico convento, Il bosco5. Anche la plaquette dei Sonetti nasce come omaggio alla madre, poiché esce in edizione privata recando in occhiello «Per l’onomastico / della mamma / 1877» e si apre con Alla mamma, in cui solo l’intensità affettiva e una stilla di ironia possono far perdonare l’eccesso di ingenuo autobiografismo, stilisticamente poco risolto: Un giorno mi chiedevi, lo rammento, quant’era, o mamma, il ben che ti volea. Ed io: Più che le stelle e più di cento volte la terra e più che il mar – dicea. Era dir l’infinito e allor contento d’averti data del mio ben l’idea, anche nel sonno: O mamma, più di cento volte la terra e più che il mar – dicea. Ma quando appresso un pedagogo e un brutto libro i misteri mi svelò dei cieli, la terra tutta misurando e il mare, svaniva l’illusion… gusti crudeli! Ed il mio ben comincio a dubitare se in questi spazi ci potrà star tutto.

Seguono altri otto sonetti: Commento a Dante, Rosario, In Duomo, Al Signore, La poesia muore, Per un acquerello di Gignous, Lamento, Fumo. L’uscita del voco “moderato”, sindaco della città dal 1884 al 1889, poi senatore del Regno; membro e poi presidente dell’Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti, fu anche presidente del Pio Istituto dei Rachitici (fondato nel 1874) dal 1889 al 1902 (cfr. Giacomo Bascapè, Ottant’anni di bene. Storia breve del Pio Istituto dei Rachitici, Milano, Strenna del Pio Istituto dei Rachitici per il 1954). Alle strenne dell’Istituto De Marchi aveva già collaborato, pubblicandovi (oltre che Il Monte di Pietà, nella strenna miscellanea per il 1884) Le quattro stagioni (Milano, Cooperativa Editrice Italiana, 1892; strenna per il 1893) e I nostri figlioli (Bergamo, Istituto d’Arti Grafiche, 1894; strenna per il 1895): cfr. Giuseppe Baretta, Grazia Maria Griffini, Strenne dell’800 a Milano. Prefazione di Dante Isella, Milano, Scheiwiller, 1986, pp. 163, 178, 184. 5 Il volumetto fu tempestivamente segnalato, in due rassegne di libri di poesia di recente pubblicazione, dalla «Lombardia», 28-29 ottobre 1875, e dal «Corriere della sera», 9-10 e 11-12 marzo 1876, dove il recensore Sylvanus annoverava De Marchi, poco benevolmente e senza appello, tra «i poeti bambini». Il Fondo pavese conserva un quaderno manoscritto, con copertina di carta velina verde, contenente tutte le poesie della plaquette, nello stesso ordine, con in più, in ultima sede e cassata, una poesia in quartine di endecasillabi e settenari dal titolo Una visita di nozze.

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4. la poesia “inquieta” di emilio de marchi

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lumetto precede presumibilmente di poco (o forse coincide con) il 25 novembre, giorno della festa di S. Caterina d’Alessandria, ma sei degli otto sonetti erano stati anticipati sulla rivista «La Vita nuova», a firma Marco D’Olona6. L’esordio privato di De Marchi poeta fu probabilmente assai precoce: della sua attività di apprendistato lirico rimane una testimonianza abbastanza cospicua tra le carte conservate al Fondo pavese. In particolare, è interessante un Indice, steso su un foglio sciolto, comprendente ventidue titoli, numerati progressivamente, alcuni dei quali coincidono con titoli di poesie effettivamente presenti (talvolta in abbozzi non finiti) tra i manoscritti più antichi; l’unica di queste liriche approdata alle stampe è l’ultima, Commento a Dante (tra i Sonetti): sia il titolo che il numero «22» sono scritti in inchiostro diverso da quello degli altri ventuno titoli, e quindi probabilmente sono stati aggiunti in un secondo momento; il sicuro termine ante quem di questo Indice di un volume solo progettato è dunque il novembre 1877, mentre il termine post quem potrebbe essere il 1875 (nessuna delle Poesie è qui presente)7. Il corpus poetico di De Marchi non è quindi tutto all’interno delle Cadenze, anche perché da queste l’autore escluse un manipolo di componimenti, già apparsi sulle pagine di varie riviste milanesi o in plaquette8, alcuni dei quali 6 Commento a Dante e Rosario uscirono nel n. 19 dell’anno ii, 1° ottobre 1877, p. 292; Per un acquerello del Gignous e La poesia muore nel n. 21, 1° novembre, p. 329; Al Signore e Alla mamma nel n. 22, 16 novembre, pp. 343-344. Rosario compare anche nella «Gazzetta illustrata» del 28 ottobre 1877. 7 Trascrivo l’Indice, tralasciando il numero d’ordine progressivo, e avvertendo che la sigla «S» posta accanto ad alcuni titoli sta sicuramente per «Sonetto»: La pioggia; La cappelletta dei morti; Il vespro; Il salice; Girellino; La retorica; La Certosa; A Delia; A un pedante; Una vecchia; Il dolce far niente; A un poeta annojato S.; A un poeta incredulo S.; La poesia che muore S.; Il calamajo; A un poeta di bestie S.; Il Tabacco; Poesia a Carbon Cock; A un cavaliere S.; A un neonato S.; Epigramma; Commento a Dante. 8 Queste le poesie “disperse” in rivista: Imelio («La Vita nuova», a. i, n. 4, 16 febbraio 1876; quartine di settenari ed endecasillabi); Panzane (ivi, i, n. 10, 16 maggio 1876; tre componimenti di endecasillabi e settenari, liberamente rimati); A un astronomo (ivi, i, n. 12, 16 giugno 1876; strofe saffiche); Venezia senza luna (ivi, i, n. 20, 16 ottobre 1876; ode formata da strofe di otto settenari); La luce elettrica («L’Illustrazione italiana», 8 febbraio 1880; quartine di endecasillabi); Brindisi dei tipografi («La Concordia», numero unico, ferragosto 1882; ode formata da strofe di sette quinari); Ferragosto («Il Convegno», 26 agosto 1883; quartine di martelliani e settenari); Poveri morti! (ivi, 23 novembre 1884; sesta rima); Alla tomba del Re [Vittorio Emanuele II]. Cavalcata (ivi, 11 gennaio 1885, poi in estratto: Milano, Civelli, 1885; quartine di endecasillabi); A Victor Hugo. Salmo («Il Caffè», 24-25 maggio 1885; endecasillabi sciolti); Biblioteca Ambrosiana («L’Illustrazione italiana», 6 giugno 1886; tre sonetti); Nei giardini pubblici (ivi, 11 luglio 1886; due sonetti); La nostra figliuola («Illustrazione popolare. Giornale per le famiglie», 4 febbraio 1894; quartine di tre endecasillabi e un settenario). E queste sono le poesie edite in plaquettes: Ai Fanciulli del Collegio. Ode, Milano, Agnelli, 1879 (edita anche, con titolo A miei scolari nel Collegio Calchi Taeggi l’anno 1879. Ode, in «La Lombardia», 7 agosto 1879; quartine di settenari e endecasillabi); Per le faustissime nozze della signorina Anna Maggi col signor Franco Pizzagalli, Milano, Bernardoni, 1882 [non reperito]; Casa mia. Per nozze Braschi-Martelli, Milano, Agnelli, 1882 (endecasillabi sciolti); Susetta, Milano, Ripamonti, 1883 (estratto da Strenna italiana. Anno xlix [1883], Milano, Ripamonti, 1882, firmato Marco D’Olona; quartine di martelliani); Ode a Verdi, Milano, Galli e Raimondi, 1887 (ottonari e quaternari); I Cairoli, Pavia, Fusi, 1900 (= I fratelli Cairoli; sette endecasillabi inframmezzati da tre settenari e un quinario; sull’opuscolo, edito in occasione dell’inaugurazione, a Pavia, del monumento dedicato alla famiglia Cairoli, cfr. Emilio De Marchi (1851-1901). Documenti, immagini, manoscritti, a cura di Nicoletta Trotta, Milano-Pavia, Comune di Milano–Università degli Studi di Pavia. Fondo Ma-

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

sarebbero stati inseriti nell’edizione postuma del 19049. Questa «seconda edizione» (come si legge nel frontespizio), pubblicata a Milano dalla Libreria Editrice Internazionale come volume quinto delle “Opere complete di Emilio De Marchi”, reca un’avvertenza Al lettore, non firmata, che riproduce parte della nota introduttiva di Negri, morto nel frattempo (1902), e non offre alcuna giustificazione dei consistenti rimaneggiamenti strutturali apportati10. La responsabilità di tali variazioni è da attribuire quasi sicuramente alla moglie di De Marchi, Lina, affettuosa custode della sua memoria e prima “catalogatrice” delle sue carte11: sono di sua mano le cassature e aggiunte manoscritnoscritti, 2001, pp. 76-77). Registro solo per completezza il Prologo (settanta martelliani, a metà strada fra la poesia e il teatro) composto da De Marchi in occasione di una festa promossa nel Teatro dell’Orfanotrofio maschile di Milano per il compleanno del rettore, e recitato «con grande arte e con sentimento ancora maggiore dall’orfano Carlo Bonsignori, […] figlio del compianto capitano dei Mille» (così «La Lombardia» del 2-3 giugno 1879, che riporta l’intero componimento). Sono impropriamente attribuite a Emilio De Marchi due traduzioni segnalate in La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura, a cura di Giuseppe Farinelli, Milano, ipl, 1984: sono firmate da Luigi De Marchi le versioni da Heine (Maria Antonietta) e da Wildenbruch (Pel 10 ottobre 1876. Centenario della morte di Enrico Kleist) apparse sulla «Vita nuova» del 1° novembre e 16 dicembre 1876; due altre traduzioni ivi apparse il 16 luglio e il 1° novembre 1877, entrambe da Longfellow (Visite d’angeli; Uccelli di passaggio), siglate rispettivamente «L. D.-M.» e «D.-M. A.», andranno forse attribuite allo stesso (sicuramente la prima, con molta cautela la seconda). Delle poesie accolte nell’edizione 1899, alcune avevano avuto un’anticipazione a stampa: La Risurrezione dei morti, in «La famiglia e la scuola», 25 novembre 1876; Il maestro di campagna [= Il maestro contento], in «Almanacco degli educatori», 1879 e in estratto (Milano, Tipografia Zanaboni, 1879); A Elda sposa [= Elda], in «Penombre», 27 ottobre 1886; Litanie vecchie e litanie nuove, in Strenna a beneficio della pia istituzione Scuola e Famiglia protettrice di scolari poveri, Milano, Tip. Reggiani, 1894. Su fogli volanti furono stampate: Alla mamma della sposa [= Annetta], 27 settembre 1882; Sogno di bimbi [=Cantilene di Natale, iv], Natale 1885; In questo grande rovinar di troni… [= Erminia], marzo 1889. 9 Nell’edizione del 1904 viene creata una nuova sezione con titolo Feste e glorie, che comprende le seguenti liriche: Brindisi dei tipografi; A Victor Hugo (salmo); All’Italia (unica poesia della sezione già presente nell’edizione 1899); Ode a Verdi; Alla tomba di re Vittorio Emanuele II [= Alla tomba del re]; I fratelli Cairoli [= I Cairoli]. Delle poesie rimaste inedite alla morte dell’autore, gli eredi hanno in seguito pubblicato Sopra l’album di una giovinetta («Il Grillo del focolare», 15 maggio 1917) e Aprile («La Martinella di Milano», novembre-dicembre 1951, p. 622); mentre la seconda è una poesia giovanile (strofe esastiche formate da endecasillabi e settenari) che tranquillamente definirei non memorabile (bastino i vv. 17-18: «È vispo il cappuccino / suonando a mattutino»), la prima, pur nei limiti dell’occasione, ha una sua garbata eleganza e rilegge con levità addirittura i versi più alti del quinto canto dell’Inferno: «Se questo è proprio il libro del tuo cuore, / io scriverò tre sole / e semplici parole: / amore – amore – amore… // Amor che porta in alto e presta l’ale / all’anima immortale. // Amor che porta al miserando tetto / del muto poveretto. // Amor, che ovunque si distende e posa, / ove sorge una spina apre una rosa». 10 Rispetto all’edizione del 1899, quella del 1904 espunge due poesie della prima parte (La confessione e A una bambina), e ne inserisce una (A un vecchio crocifisso: quartine di endecasillabi; nel Fondo pavese si conserva il manoscritto); nella seconda parte vengono eliminati ben nove componimenti (Annetta, Elda, Chiarina, Ada, Erminia, Una lezione di lingua, In Duomo, Una lezione di pedagogia, Un sonetto dell’avvenire) ed è invece introdotta la nuova sezione intitolata Feste e glorie, formata da sei poesie “civili” le quali (cfr. la nota precedente), fatta eccezione per I fratelli Cairoli, composta solo nel 1900, e per All’Italia, l’unica presente anche nella prima edizione, erano già apparse in rivista o plaquette: la loro assenza dall’edizione 1899 va dunque ricondotta ad una precisa volontà d’autore. La terza parte viene sdoppiata in due sezioni (il titolo Lagrime, originariamente posto in testa a due poesie, è promosso a titolo della seconda sezione) e ne sono espunte due liriche (A una vedovella e Ode alla salute). 11 La grafia di Lina (testimoniata da due suoi diari presenti nel Fondo pavese) è riconoscibile in alcune “rubriche” esplicative apposte a parte del materiale autografo: ad esempio, quella che ci avvisa

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4. la poesia “inquieta” di emilio de marchi

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te – parte in inchiostro nero, parte a matita e parte a lapis rosso – apportate all’Indice di una copia dell’edizione 1899 (di cui è conservata, oltre alle pagine dell’Indice, la sola copertina), che lo rendono perfettamente coincidente con l’Indice dell’edizione 1904; ancora di mano di Lina è un’annotazione a matita («Domandar. Attilio / Dove Vittor Hugo, Italia ecc.?»), che denuncia sia un suo dubbio relativo alla collocazione della sezione “civile” che evidentemente vuole introdurre, sia il coinvolgimento, nell’organizzazione dell’edizione postuma, di Attilio, fratello minore di Emilio, professore di Antichità classiche all’Accademia scientifico-letteraria di Milano. Un’altra copia dell’edizione del 1899 conservata nel Fondo pavese presenta pochissimi interventi manoscritti (la mano sembra quella di De Marchi; l’Indice non ha alcuna cassatura o aggiunta), parte in matita parte in inchiostro nero, tutti accolti dall’edizione del 1904, che si limitano a correggere refusi evidenti12. Con ogni probabilità queste correzioni sono state apportate dall’autore subito dopo la pubblicazione del libro, forse in seguito alla recensione apparsa su «La Perseveranza» del 5 dicembre 1898, in cui Pietro Viganò notava la presenza nella raccolta di tanti versi «ben costrutti», ma anche di alcuni versi «negletti», in particolare di un endecasillabo che, «eludendo la vigilanza dei superiori, si permette persino di camminare con dodici piedi (Ora che il vespro dietro gli alberi spira)». De Marchi aveva ribattuto subito con una lettera di puntualizzazione13: […] Trovo stampato a pag. 179 [Il triste ritorno, v. 40] un dietro in luogo di un entro che doveva fare l’immagine meno comune. La velocità elettrica con cui quest’anno s’è dovuto, com’Ella sa, supplire alla mancanza d’una Strenna, non ha permesso una maggiore precisione. Così a pag. 87 [La villetta chiusa, v. 10] è sfuggito un muro per un puro, e a pag. 137 [Il canto della pietà, v. 85] un raiti per rapiti, e altre lettere son scadute qua e là. I lettori vorranno prender nota e compiere l’errata-corrige.

Non pare dunque azzardata l’ipotesi che l’autore si sia limitato ad eliminare le mende tipografiche su una copia del volume a ridosso della stampa, che tre quaderni neri manoscritti contengono la «prima stesura» del Demetrio Pianelli. 12 Gli interventi riguardano le seguenti poesie: A una bambina, v. 69 (Non → Pur, correzione di un evidente refuso; la poesia manca nell’edizione del 1904); Il cantoniere, v. 55 (strepito → segno; la lezione strepito è sicuramente erronea, perché lo schema metrico di ogni strofa prevede in questa sede una parola piana e non sdrucciola); La villetta chiusa, v. 10 (muro → puro; muro ripete erroneamente l’ultima parola del verso precedente); Dopo la pioggia, v. 17 («o di smeraldo o prati, o vigne, o bel»: è correttamente eliminata la seconda o); Elda, v. 17 (nostra → vostra: dal contesto risulta l’evidenza del refuso; la poesia manca nella seconda edizione); Il canto della pietà, v. 135 (altare → altar; solo la forma tronca garantisce la corretta misura dell’endecasillabo) e v. 136 (è aggiunta una virgola dopo raggiante); Il canto dell’ulivo (è aggiunta l’epigrafe «Battaglia d’Abba Carima. 1895»; la data sarà omessa nell’edizione 1904); Evocazioni, v. 8 (pensiero → pensier; si elimina l’eventualità di una lettura ipermetra del verso: «del mio pensiero (io magico poeta)»); Le visioni del cieco, ii, v. 3 (l’aggiunta di un iniziale de’ a «vani, sottilissimi ricami» rettifica la misura dell’endecasillabo). 13 La lettera fu pubblicata dal giornale pochi giorni più tardi (il 14 dicembre) insieme con una Replica dello stesso Viganò.

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senza pensare affatto ad una seconda edizione, mentre è più che probabile che tutte le (consistenti) varianti strutturali dell’edizione del 1904 siano estranee alla sua volontà. Quindi, la mia edizione di riferimento sarà senz’altro l’unica sicuramente sorvegliata da De Marchi, cioè quella del 189914. L’accoglienza riservata alle Cadenze fu nel complesso tiepida: la recensione più tempestiva è quella, citata sopra, di Viganò, che avverte la mancanza, nel libro, del «soffio divino ch’eterna i carmi», al quale comunque l’autore ha saputo sostituire un altro soffio, che riesce a «far scaturire dalla sua raccolta un rio non impetuoso, ma continuo, di poesia […] che investe quietamente, ma sicuramente, l’animo del lettore»15. La maggiore qualità di De Marchi poeta è individuata nella «gentilezza», che però ne tempera la fantasia in maniera che, allorquando egli concepisce, sviluppa e colora i suoi disegni, alle ampie proporzioni predilige le picciolette e alla vigoria la grazia; sicché in generale sfugge i contrasti troppo rudemente cozzanti, le pennellate troppo audaci, i voli vertiginosi, e, se talora vi si arrischia, non insiste. Così, se una scena della natura lo rapisce ed egli s’accinge a ritrarla, la chiude […] nei limiti d’una tela adatta alle pareti d’una modesta abitazione moderna più che a quelle d’un superbo palazzo antico; se l’argomento al suo canto è dato da una invenzione scientifica, alla scienza concede solo il posticino strettamente necessario, e le fa subito spuntare intorno i fioretti della sua musa […].

Agostino Cameroni, sulla «Lega lombarda» del 7-8 gennaio 1899 (Un poeta civile), ricollega sia De Marchi che Fogazzaro «alla grande e forte poesia lombarda, a Giuseppe Parini, ad Alessandro Manzoni, senza dimenticare […] quel classico e squisito continuatore di quelli che fu Giacomo Zanella» e ritrae con precisione il pubblico cui si rivolge De Marchi poeta: Tecnicamente parlando, il De Marchi […] mira ad essere inteso da ogni persona di mediocre intelligenza e coltura, purché abbia cuore e senso di poesia. Naturale quindi che egli – pure attingendo le sue forme ai migliori modelli ed al suo squisito buon gusto personale – non vada a caccia di […] preziosità ed eccessive raffinatezze metriche.

L’«Osservatore cattolico» dedica al libro solo una breve segnalazione16, mentre, sulla sponda opposta, una lunga e interessante recensione (sulla quale tornerò più avanti) appare sull’«Idea liberale» del 31 gennaio 1899 a firma Amalia Bianchi17. L’unico intervento che unisca ampiezza, autorevolezza dell’au14 Riproducono invece l’edizione del 1904 le sole due ristampe novecentesche di Vecchie cadenze e nuove: Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1933 e Milano, Garzanti, 1952. 15 Questa precisazione è contenuta nella Replica del recensore pubblicata in calce alla lettera di De Marchi (sulla «Perseveranza» del 14 dicembre), che si chiudeva con un’ironica e garbatamente polemica allusione alla presunta mancanza del soffio divino: «In quanto al Soffio divino che Ella, egregio signor Viganò, non trova nel libro, ahimè! non c’è rimedio… Vi supplisca la rassegnazione dei lettori». 16 Nella rubrica Libri e riviste, firmata «m.f.», del numero del 24-25-26 dicembre 1898. 17 Amalia Bianchi Feltri, direttrice dell’Istituto Femminile Bianchi-Morand di Milano, aveva

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tore e complessiva positività di giudizio, è quello di Giovanni Bertacchi sulla «Vita internazionale» del 20 luglio 189918. La raccolta consta di 59 componimenti, divisi in tre sezioni: I segreti pensieri (21), Le vaganti immagini (25), Gl’intimi sensi (13). Parto dal titolo, perché la “chiave” di lettura dell’intero libro forse è nascosta proprio in quel dualismo: vecchie cadenze e nuove (e non, si badi, vecchie e nuove cadenze); un dualismo che è probabilmente più sotterraneo e complesso di quello palese, fra poesie più o meno vicine alla tradizione. Cercherò di distinguere il vecchio dal nuovo innanzi tutto prestando attenzione a come De Marchi ha dato corpo a queste cadenze in forma metrica: i metri delle poesie delle prime due sezioni sono molto vari, si muovono con una certa irrequietudine nella tradizione, rimanendone fondamentalmente all’interno: alle quartine, per lo più a rima alterna o incrociata, care già alla lirica settecentesca19, si affiancano, tra l’altro, terzine dantesche e odi formate da strofe di sei e di otto versi. Le misure dominanti sono l’endecasillabo e il settenario, ma sono presenti anche i doppi quinari e i martelliani, non senza qualche incursione nella famiglia di parisillabi degli ottonari e dei quaternari20. Non mancano alcuni esperimenti prudentemente audaci: ad esempio, il Preludio consta di una sorta di “sestina” semplificata, formata da sei strofe di sei endecasillabi ciascuna, nelle quali tornano le stesse sei parole-rima; De Marchi non applica la retrogradatio cruciata, né alcun altro schema che regoli la successione delle parole-rima nelle varie strofe, ma fa rimare le sei parolerima fra loro a due a due all’interno di ogni singola strofa21. Gli schemi di rime, tra le quali molte rime ritmiche, sono numerosi e per lo più non banali, spia di una vigile attenzione ad evitare il rischio della pubblicato come Strenna a beneficio del Pio Istituto dei Rachitici per il 1898 il volume I rachitici nella leggenda e nella storia (Milano, Agnelli). 18 Poi ristampato, col titolo Emilio De Marchi poeta, in «La Martinella di Milano», novembredicembre 1951, pp. 620-621; anche su questa recensione tornerò più avanti. A completare la rassegna delle recensioni delle Cadenze, aggiungo due voci: la nota di Avancinio Avancini (che parla di «armonie dolci e bonarie, come la prosa di lui [De Marchi]») sulla «Settimana del Corriere delle maestre» del 5 febbraio 1899 e la segnalazione, siglata «A.C.», su «Natura e arte» del 15 ottobre 1899 (a p. 866; poco prima, a p. 849, il periodico ospita tre sonetti di Arturo Colautti – Il fioraliso, Il presagio, La dedizione – che hanno titolo collettivo Cadenze d’autunno). 19 La quartina, che ha frequenza particolarmente alta, è formata da endecasillabi in Ora di tedio, Il tempo e la mano, Il maestro contento, Il funerale del povero, La sartina, Annetta; da tre endecasillabi e un settenario in A una giovine poetessa (il settenario è in terza sede), Il rosario della nonna, La fanciulla benefica, Il fabbro; da tre endecasillabi e un quinario (saffica) in Il telegrafo; da due doppi quinari, un endecasillabo, un settenario in Il cantoniere; da martelliani in Le due poesie. Compare anche in alcuni polimetri della terza sezione: Il triste ritorno (endecasillabi e un settenario), Voce dall’alto (endecasillabi e settenari; soli endecasillabi), Le visioni del cieco, IV (martelliani); l’Ode alla salute, che precede la conclusiva Preghiera, consta di quartine di endecasillabi e settenari. 20 In Conca alpina (strofe di 4, 5, 6 versi, ottonari e quaternari, variamente rimati), La villetta chiusa (strofe esastiche di ottonari rimati abccba), L’Acqua e il Sasso (ottonari variamente rimati). 21 Nella prima strofa la serie delle parole in coupe di verso è la seguente: questa, accende, mio, splende, pio, mesta; nella seconda: accende, questa, mio, mesta, pio, splende; e così via, secondo lo schema rimico ABCBCA, che si ripete ad ogni strofa, con l’eccezione della quinta (che ha schema ABCABC).

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monotonia; interessante, nella direzione del “nuovo”, è il ricorso frequente a un verso come il doppio quinario, che rimanda alla metrica barbara. Anzi, in un caso De Marchi sembra addirittura inventare una strofa barbara inedita: la strofa della poesia Il cantoniere è una sorta di alcaica che presenta due quinari doppi (con secondo emistichio sdrucciolo), un endecasillabo e un settenario sdrucciolo22. Alcaica è una delle più celebri odi barbare carducciane, Alla stazione in una mattina d’autunno, dalla quale Il cantoniere di De Marchi prende tessere in modo palese, come è evidente già dall’esordio: Col suon corrente la muta frangono notte le ruote. Accusa il fischio spaventevol la macchina che arriva, che brace e fumo vomita. Passan sui piani, ove la candida neve dimora, le calde macchie del sangue, che dall’orbite i fanali biechi nell’ombra versano. […]23.

Forse qui si incrocia anche il ricordo dell’ «infrenabile / carro del foco», simbolo del progresso, celebrato da Carducci nell’Inno a Satana (1863): Un bello e orribile mostro si sferra, corre gli oceani, corre la terra: corusco e fumido come i vulcani, i monti supera, divora i piani; sorvola i baratri; poi si nasconde per antri incogniti, per vie profonde; ed esce; e indomito di lido in lido 22

bo.

L’alcaica tradizionale presenta in terza sede un novenario dattilico ed in quarta un decasilla-

23 Cfr. Alla stazione…, vv. 1-4 e 29-32: «Oh quei fanali come s’inseguono / accidïosi là dietro gli alberi, / tra i rami stillanti di pioggia / sbadigliando la luce su ’l fango! / […] Già il mostro, conscio di sua metallica / anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei / occhi sbarra; immane pe ’l buio / gitta il fischio che sfida lo spazio».

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come di turbine manda il suo grido24.

All’incipit di Alla stazione sembra rinviare l’esordio di un’altra poesia di De Marchi, Il telegrafo sulla montagna («Van per la verde valle e s’inseguono»), e inoltre proprio quest’ode carducciana è stata messa in relazione dalla critica25 con una delle scene finali del Demetrio, l’addio – alla stazione, appunto – fra Demetrio e Arabella. Che questa fosse una lirica particolarmente cara a De Marchi lo dimostra anche il fatto che è l’unica da lui “salvata” nella sua netta stroncatura delle Odi barbare (definite addirittura un «naufragio»), pubblicata su «La Vita nuova» del 1° settembre 1877, con la firma Primo De Novi26: il pregio principale della parte formale della lirica italiana [è] l’armonia […] Ora quest’armonia è scemata di molto nelle Odi barbare del Carducci, e in alcune non è neppur più percettibile, sia per l’assenza della rima, sia, e molto più ancora, per avere egli adottato la metrica latina, che ai nostri orecchi suona certamente tutt’altra da quella che suonava agli antichi; sia finalmente perché le nuove combinazioni di versi che il Carducci ha innovato o rinnovato, sono delle più infelici che si possano immaginare. […] Dove tocca le cose d’oggidì, poiché ha sempre una rara facoltà di rappresentare gli oggetti con la massima semplicità, e, quel che più seduce, nel loro aspetto più vero, tien desta un momento l’attenzione del lettore, e lo fa persin rimanere alquanto ammirato. L’ode Alla Stazione è piena di questi pregi: chi non trova il quadro vivo e parlante? […] Ma i passi come questi in cui si senta un po’ della vita moderna sono rari; ed essa vi è sempre, per dir così, tirata a forza, perché il campo in cui si piace di spaziare il poeta è tutt’altro. […] L’arte dei classici va studiata e profondamente, perché rimase insuperata; ma ricordiamoci che per ciò appunto è tempo perduto l’imitarla, non che il riprodurla. […] I loro [degli antichi] canti erano popolari – badisi che non dico piazzaiuoli – perché anche la gente mezzanamente colta li intendeva, o meglio, li sentiva. […] Ma il «volgo», quello cioè per cui gli antichi scrivevano (e badisi ancora che non parlo del profanum vulgus) resterà indifferente, o se batterà le mani, farà per non mostrarsi scompiacente: e intanto continuerà a gustare quell’«usata poesia» che non è nelle grazie di Giosue Carducci.

L’ultima affermazione è assai interessante – tornerò su questo tema più avanti – ed è singolare che, anche prescindendo dal caso particolare di Alla stazione, i fermenti metrici barbari siano entrati nella poesia di chi tanto aspramente li aveva censurati: segno di un’attrazione forte, e della salda intuizione, da parte 24 Vv. 169-184. La memoria del trasgressivo inno carducciano già aveva agito, in modo ancora acerbo, in una lirica inserita nel volumetto di Poesie del 1875, Alla nuova Italia: «s’ode per l’aere il fischio arcano / dell’infocato mostro, che vola / per entro ai tramiti d’alpestre gola» (vv. 22-24). 25 Cfr. Luigi Baldacci, Introduzione a Demetrio Pianelli, Firenze, Vallecchi, 1970, p. 20. Anche De Marchi, dunque, ha un suo piccolo posto nella “letteratura ferroviaria”, sulla quale cfr. Remo Ceserani, Treni di carta. L’immaginario in ferrovia: l’irruzione del treno nella letteratura moderna, Genova, Marietti, 1993. 26 La recensione è ristampata in Emilio De Marchi, Varietà e inediti, cit., tomo i, pp. 190-198.

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di De Marchi, della novità della strada comunque aperta dalla metrica barbara, strada percorribile anche con altri mezzi che non i rigidi schemi carducciani. La terza sezione delle Vecchie cadenze e nuove vede la presenza quasi esclusiva degli endecasillabi sciolti, già affacciatisi in quattro poesie della seconda parte (comprese nella “collana” della Ghirlanda di spose). De Marchi lavora lo sciolto con molta perizia e con una nettissima predilezione per due tipi tradizionalmente “alti” di endecasillabo: quelli con sdrucciola sotto accento di 6a, e con accento ribattuto di 6a e 7a (talvolta con implicazione in sinalefe)27. Sul piano formale sono quindi rintracciabili alcune cadenze “nuove” accanto a quelle vecchie, in un panorama che pure rimane complessivamente tradizionale. Già sulla base di questa rapidissima rassegna metrica del volume, non mi sembra pienamente condivisibile quanto afferma Giovanni Bertacchi, secondo il quale per la forma esterna delle poesie De Marchi «tien fede, in generale, alla tradizione antica», così che la cadenza ”nuova” «sarebbe più a ricercare nel pensiero che nella forma». Bertacchi indica, in questo senso, «qualche tema o motivo della vita vissuta oggidì» oltre a una più generale «modernità interiore della ispirazione e della visione» per la quale De Marchi porta nella poesia quello che già aveva mostrato nei racconti: una «composta e pensosa bontà, percorsa da vene di arguzia», un «recondito fondo di tristezze taciute» e un «buon senso» dell’ispirazione e dell’immaginazione28. Ma passo anch’io, proseguendo la ricerca del “nuovo”, dalla forma al contenuto: se ci si sposta sul piano dei nuclei tematici, si devono innanzi tutto ascrivere alla categoria del nuovo le due poesie contigue Il telegrafo sulla montagna e La trasmissione della forza elettrica, che dimostrano viva attenzione per i moderni ritrovati del progresso29, già evidente, del resto, in una poesia in quartine di endecasillabi, intitolata La luce elettrica30 e dedicata «Al signor Edison», che venne pubblicata sull’«Illustrazione italiana» dell’8 febbraio 1880 ma non raccolta in volume. La poesia merita una citazione non episodica: 27 Questo tipo di endecasillabo, presente in tutta la tradizione lirica italiana, diventa particolarmente frequente a partire da Parini, che predilige lo schema arricchito dalla sinalefe (es. «una lieve aleggiando aura soave», Notte, v. 216), dove «lo stacco rilevato dall’accentuazione della vocale (una sorta di dialefe nella sinalefe) impenna il verso e lo tiene verticalmente sospeso: un attimo, per poi riprendere con più respiro o per scendere rapido alla chiusa» (cfr. Dante Isella, L’officina della “Notte” e altri studi pariniani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968, p. 51). 28 Cfr. Giovanni Bertacchi, Emilio De Marchi poeta, cit., pp. 620-621. Tra i pochi interventi critici favorevoli alle poesie di De Marchi, si dovrà ricordare quello di Benedetto Croce, che ne apprezzava l’origine «da una trama di pensieri e da un’onda di sentimenti, che veramente agitavano e interessavano lo scrittore» (La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, iii, Bari, Laterza, 19495, p. 161). 29 Attenzione assai precoce, come testimonia la Poesia a Carbon Cock [sic!] incontrata nell’Indice del volume di versi solo progettato in età molto giovanile (cfr. sopra la nota 7), la quale probabilmente non andò oltre la soglia del titolo. 30 Questa di De Marchi non è certo l’unica lirica suggerita dall’avvento dell’elettricità: si vedano, ad esempio, L’elettrico di Giuseppe Da Como (ingegnere e poeta morto nel 1886) e Electron (1889) di Carlo Baravalle, ora pubblicate in L’immaginario dell’elettricità, a cura di Andrea Silvestri, Milano, Scheiwiller, 1999, pp. 82-84 e 91-93.

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Poi che la nova luce di carbone avremo o d’altra magica miscela, saran le cose più gentili e buone che son sì scialbe a lume di candela? Pace al tuo spirto, American. – Non io odio la luce che ti scalda il volto, quando di lampi e suffumigi avvolto t’accapigli coi numeri e con Dio. Viva la luce! – Pur dimando quale nostro vantaggio e qual di noi l’agogna questo brillar di luce universale le larve a infastidir della menzogna. […] Perché non fai, Signor, più che non suole brillar un raggio di virtù fra noi? Tu secondo saresti degli eroi ch’hanno rapita una favilla al sole. […] Ma dove il cittadin, Edison mio, sol di sterili ciancie apre bottega, dov’è stolto il tacer, né sempre è pio di chi lagrima il cor e di chi prega, […] lascia che nel crepuscolo i pigmei rifacciano la torre di Babelle. Noi, se ci manca l’olio, amici miei, son sempre belle a contemplar le stelle31.

Il tema “moderno” è condito con un pizzico di ironia e con una manciata di moralismo di grana non sempre fine, e rivestito dell’autorevolezza di “fonti” talvolta troppo scoperte e stratificate: «Tu secondo saresti degli eroi / ch’hanno rapita una favilla al sole» mescola il mito di Prometeo con uno dei luoghi più alti dei Sepolcri (vv. 119-120: «Rapìan gli amici una favilla al Sole / a illuminar la sotterranea notte»); l’incauta collocazione di Babele in fine di verso costrin31 L’avvento della luce elettrica era “paventato” da De Marchi in una prosa del 1881 (cfr. La Galleria Vittorio Emanuele, nell’opera collettiva Milano e i suoi dintorni, Milano, Civelli, 1881; ora in Emilio De Marchi, Varietà e inediti, cit., tomo ii, p. 126), in quanto avrebbe decretato la fine della fiabesca quotidiana cerimonia officiata dal vaporino, cioè colui che accendeva le lampade a gas nella cupola della Galleria Vittorio Emanuele: «Il vaporino colla sua coda di fuoco si avvia, adagino, adagino, lasciando dietro di sé tante virgole luminose, si affretta curvandosi nella linea della cupola, scappa come un topolino, seminando la luce e descrivendo in mezzo minuto un luminoso zodiaco. […] domani sera sarà lo stesso; e il vaporino rallegrerà i nostri figliuoli e i figliuoli dei nostri figliuoli, se la luce elettrica non verrà prima a rompere le uova nel paniere». Proprio al 1881 (25 giugno) risale un esperimento di illuminazione in Galleria, con venticinque lampade e un potente faro centrale; nel 1883 Milano sarebbe stata la prima città europea a poter disporre di un servizio di illuminazione regolarmente organizzato (cfr. Storia di Milano, Milano, Fondazione Treccani degli Alfieri, 1962, vol. xv, pp. 732-737 e vol. xvi, pp. 881-890).

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ge ad un raddoppiamento non proprio elegante (anche se vi si sono piegati autori come Ariosto e Tasso) per far tornare la rima con stelle. Novità tematica relativa, si è detto: il telegrafo (inventato nel 1836) era già entrato nella poesia italiana con Praga32, e la trasmissione dell’energia elettrica con Carducci33; e viene in mente – oltre al lontano capostipite Monti (Al signor di Montgolfier)34 – anche Zanella (Il taglio dell’istmo di Suez; Microscopio e telescopio)35. Ancora: nella sua introduzione alle poesie latine di Pascoli, Manara Valgimigli accenna agli argomenti “moderni” prediletti da coloro che poetavano in latino nei decenni a cavallo della metà dell’Ottocento: vennero cantati in latino la caldaia a vapore e la strada ferrata, la bicicletta e il traforo del Cenisio, il gas e il telegrafo…36 Quindi si tratta di “novità” già molto sperimentata. Ma è comunque significativo che anche De Marchi senta, facendosene portavoce in poesia, i segnali del progresso che, nella seconda metà del secolo XIX, si manifestano con vivacità non solo in campo scientifico e sociale, ma anche letterario e artistico, in un clima ora di euforia iconoclasta ora di trionfalistica fiducia, dall’Inno a Satana al ballo Excelsior37 all’Esposizione universale di Parigi del 188938. Rappresentato alla Scala di Milano con enorme successo nel 1881, l’Excelsior, celebrando la lotta e la vittoria del “Genio della Luce” sullo “Spirito dell’Oscurantismo”, attraverso il rapido progredire delle scienze e delle arti, e gli eterni valori della pace, del coraggio e del lavoro, traduce coreograficamente temi trattati anche dalla poesia immediatamente precedente e contemporanea, come appunto il taglio dell’istmo di Suez e il traforo del Moncenisio. È una sorta di summa delle ultime tappe delle “magnifiche sorti e progressive”, 32 Cfr. Spes unica (in Emilio Praga, Penombre, Milano, Tipografia Autori Editori, 1864; ora in Poesie, cit., pp. 180-184), che ai vv. 29-30 recita «Tra i fili del telegrafo, / col fischio del vapore». Di Praga è rilevante anche, in questo ambito tematico, La strada ferrata (in Trasparenze, Torino, Casanova, 1878; ora in Poesie, cit., pp. 286-290). 33 Cfr. Juvenilia, Agl’Italiani (1853), vv. 11-12: «fulminea voli elettrica scintilla / per gli oceàni». 34 Questa lirica, «in cui sono disegnati gli ardimenti della scienza moderna», è considerata da De Marchi «l’ode più bella del Monti», ma «così involta nella storia degli Argonauti, di Tifi, di Esonide, che una buona metà va perduta nelle nuvole»: cfr. L’opera di Alessandro Manzoni (1885), ora in Varietà e inediti, cit., tomo ii, p. 276. 35 Le due liriche furono pubblicate rispettivamente nel 1865 e nel 1866, e poi inserite nella prima edizione dei Versi (Firenze, Barbèra, 1868). Cfr. Giacomo Zanella, Le poesie, a cura di Ginetta Auzzas e Manlio Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1988, pp. 136-139, 145-148, 605. In un articolo apparso sulla «Vita nuova» del 1° marzo 1877 e firmato Primo De Novi, De Marchi prende le difese di Zanella contro le accuse mossegli da Vittorio Imbriani: Giacomo Zanella, ora in Varietà e inediti, cit., tomo ii, pp. 151-159. 36 Cfr. Giovanni Pascoli, Poesie latine, a cura di Manara Valgimigli, Milano, Mondadori, 1951, p. XXVIII. 37 Cfr. Luigi Manzotti, Excelsior. Azione coreografica, storica, allegorica, fantastica in 6 parti e 11 quadri, musica di Romualdo Marenco, Milano, Ricordi, 1881. Una scelta antologica è in L’immaginario dell’elettricità, cit., pp. 87-90. 38 La principale attrazione dell’Esposizione fu, come noto, la Torre Eiffel, una sorta di simbolo del progresso eretto come risposta laica al Sacré-Coeur di Montmartre (a sua volta costruito in “opposizione” alla Comune di Parigi del 1871).

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che ne può ricordare una analoga presente nel canto terzo del Lucifero di Mario Rapisardi (Milano, Brigola, 1877), alla quale lo stesso De Marchi fa cenno in un lungo articolo dedicato a questo discusso poema: «[…] Lucifero termina il suo racconto con una rassegna delle scoperte utili alla vita, fatte dal genio umano; tocca della bussola, della vaporiera, del parafulmine, della pila, del telegrafo, dell’orologio, del termometro, del telescopio…»39. Nei Poemetti lirici di Giovanni Bertacchi, datati 1895-1897, la “corona” di dodici sonetti Momenti di storia si apre con questi versi: Ama la storia. Con gli sguardi assorti nello spazio e nel tempo, avvertirai fervere al lembo de’ suoi cento porti il flusso umano che non posa mai. […] Ama il grande avvenire. All’oriente - vedi? – ancor guarda, radiosa in volto, la Fede, in vetta all’ideal suo monte.

Così il poeta si rivolge al «moriente secolo» XIX, in cui il paesaggio è attraversato da «viadotti dalle grandi arcate» dove «passano i treni in subiti viaggi […] sulle rotaje tortuose e nere», a collegare città nelle quali «fuman le immote ciminiere immani, / crepuscol senza pace e senza fine»: Secolo, il dolor tuo si strugge e crea nelle macchine anele, onde si svolge, tra il ferro e il fuoco, la pulsante idea40.

Nel 1899, Giovanni Pascoli, affacciandosi al nuovo secolo con il discorso L’èra nuova, individua le due principali conquiste del «secolo della scienza» che sta per chiudersi nel telegrafo e nel treno: la folgore, veramente mansuefatta, reca da una parte all’altra della terra la parola umana, la fissa e la riproduce, e già porta, a gara col vapore d’acqua (la nuvola temporalesca asservita agli uomini, col suo carro di vapori e coi suoi cavalli d’elettricità), vertiginosamente per il globo la… infelicità umana41. 39 L’articolo apparve, a firma Primo De Novi e con titolo “Lucifero”. Poema di Mario Rapisardi, nella «Vita nuova» del 1° aprile 1877; ora in Varietà e inediti, cit., tomo ii, pp. 165-180 (la citazione è alle pp. 169-170). In esso De Marchi, tra l’altro, riporta (a p. 173) una ottava del poema in cui compare, in coupe di verso, la forma Babelle (da lui poi adottata, come visto sopra, nella poesia La luce elettrica). 40 Cfr. Giovanni Bertacchi, Poemetti lirici, Milano, Sonzogno, 1898; si cita dalla seguente edizione: Poemetti lirici e Liriche umane, Milano, Baldini & Castoldi, 1913, p. 10 e p. 12. Una sezione delle Liriche umane, uscite nel 1903 (Milano, Libreria Editrice Nazionale), si intitola Intimi sensi e fantasie vaganti: un aperto omaggio di Bertacchi alle Cadenze di De Marchi, nelle quali – come ricordato sopra – la seconda sezione ha titolo Le vaganti immagini e la terza Gl’intimi sensi. 41 Giovanni Pascoli, L’èra nuova, in Prose, a cura di Augusto Vicinelli, Milano, Mondadori, i,

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Nella prima sezione delle Vecchie cadenze e nuove, la prospettiva dominante è quella del poeta: i “segreti pensieri” sono le riflessioni del De Marchi uomo, o meglio del De Marchi pedagogo, autonome o nate in margine a persone o eventi: ad esempio, la convinzione che il dolore sia preferibile al tedio (Ora di tedio); che sia meglio ignorare il futuro (così L’agnellino dorme tranquillo poiché non sa di dover presto cadere vittima di «cieco d’un occhio un uom dal rosso pelo»); che una religiosità semplice e confidente non tema «di dotti e di pedanti / il perfido scongiuro» (Il rosario della nonna). E ancora, la certezza che «la Man e l’opra» innalzino un «argin non breve al cieco andar del fiume» del tempo induce De Marchi a un’esortazione finale leopardianamente atteggiata: «Vivi nell’opra tua, garzon, se il vivere / ti piace e il viver breve anche t’è grave» (Il tempo e la mano). Rivolgendosi a Un vincitore, non già nel gioco del pallone, ma in un duello, riflette sulla assurdità dell’odio di fronte alla brevità della vita: all’arrivo della morte «ci sarà buona la preghiera / dell’opra nostra», e non certo l’«ira […], non la fraterna offesa, / non la vendetta». Si noti come in queste citazioni entrino personaggi umili, solitamente negletti dai poeti; ne incontreremo molti, nelle poesie di De Marchi: una capra (La capra ed io, accomunati da «una sola bontà» che trasversalmente può toccare uomini e animali che si muovono «per i sassi del mondo»); un «povero prete» che «il suo latin col povero / divise e il poco pane e l’umil sorte» (Per quarant’anni parroco); Il contadino che «di nostra vita sparge lentamente / il mesto pan»; Il cantoniere, «pago alla povera / capanna, al segno fisso, propizio / genio custode dei destini erranti»; Il fabbro «Bellincion, che colle braccia nude / batte il ferro rovente»… È relativamente nuovo il fatto che queste personae entrino da protagoniste nella poesia, celebrate nella loro attività comune, soprattutto nella loro dignità, anche se con una strumentazione retorica vecchia, tradizionale42: il contadino che si sveglia all’alba è parinianamente opposto ai «ricchi» che dormono beati «nelle piume morbide», la sua preghiera si contrappone alla irreligiosità di «Sardanapalo» (e qui è davvero impossibile non riconoscere l’etichetta foscoliana data al “giovin signore”). Ho definito questa una novità relativa, non assoluta, pensando ad esempio a Pietro Paolo Parzanese, alla sua poesia imbevuta di intenzioni pedagogiche (quanto impermeabile alla comprensione delle vere esigenze del “popolo”), ricca di versi paradigmatici a partire dai titoli; la sua raccolta principale si intitola Canti del povero (1852), e ne fa parte una poesia come Gli operai, di cui sarà sufficiente citare pochi versi43: 1971, pp. 107-123 (le citazioni sono alle pp. 114 e 111-112). Cfr. Vittorio Roda, La folgore mansuefatta. Pascoli e la rivoluzione industriale, Bologna, Clueb, 1998, pp. 93-129 (in particolare i capitoli ii e iv: Treni pascoliani, pp. 31-60; Fra telegrafo e treno: Pascoli e le tecniche della velocità, pp. 93-129). 42 La capra, protagonista della poesia citata sopra, è stilisticamente riscattata (fin troppo!) dal vocativo classicheggiante con il quale si rivolge al poeta: «o senza-corni» (v. 55). 43 Cfr. Poeti minori dell’Ottocento, tomo i, a cura di Luigi Baldacci, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, pp. 234-235.

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Fatichiam, fratelli. Quando noi nascemmo, Iddio ci disse: – Voi vivrete lavorando – e dal ciel ci benedisse. Pan bagnato di sudor pure è dono del Signor. Quel ch’ei vuole, noi vogliamo; fatichiamo, fatichiamo. […]

Si possono ricordare inoltre precedenti ancora più vicini come Praga e Betteloni (o come De Amicis), che erano però andati oltre, innovando anche la strumentazione lessicale con la massiccia inserzione di nomi comuni di mestieri, di vocaboli appartenenti al lessico dei cibi, dell’abbigliamento, dell’arredamento, degli oggetti d’uso e di nomi propri “popolari”, spogliati di connotazione aristocratica44. Anche De Marchi sembra talvolta aderire a questa tendenza, ad esempio nella Ghirlanda di spose, in cui ogni lirica è dedicata ad una sposa, e prende il titolo dal nome proprio della donna: Annetta, Angelina, Elda, Maria, Chiarina, Ada, Erminia. Sono nomi reali, comuni, ma non banali: li si direbbe caratterizzati da una dignitosa compostezza, da quell’ «aroma lombardo» avvertito da Contini nei manzoniani Fermo e Abbondio45. De Marchi poeta è insomma una delle molte voci – e forse tra le più interessanti – della poesia minore dell’Ottocento, e come tale di per sé degna di attenzione; lo dico sulla scorta, ovviamente, della nota convinzione spitzeriana relativa all’esemplarità degli scrittori minori, ma anche di una riflessione che De Marchi annota in un manoscritto relativo alle lezioni tenute nell’inverno del 1882 al Circolo Filologico milanese: Lo studio degli scrittori minori d’una letteratura è più utile per la storia dell’arte e per la storia del tempo di quello che non sia la critica sulle opere dei grandi e dirò perché: l’uomo di genio per quella maggiore attività e forza d’indipendenza che è in lui è più inclinato a contraddire al suo tempo che a rappresentarlo. Consoliamoci dunque che anche i mediocri servono a qualche cosa […]46. 44 Cfr. Antonio Girardi, La lingua poetica tra Scapigliatura e Verismo, in «Giornale storico della letteratura italiana», xcviii, 1981, pp. 573-599. E ancora, dello stesso Girardi, si veda Nei dintorni di “Myricae”. Come muore una lingua poetica?, in Prosa in versi. Da Pascoli a Giudici, Padova, Esedra, 2001, pp. 27-50. Decisiva appare l’operazione linguistica di Betteloni che, soprattutto per il lessico, «segna un compromesso tra tradizione e innovazione storicamente labile ma che ha il pregio di tracciare un punto di non ritorno nel processo di “sliricizzazione” del linguaggio poetico, nel suo offrirsi come esempio per esperienze successive dello stesso tipo» (Marco Perugini, Appunti sulla lingua di Vittorio Betteloni, in «Studi linguistici italiani», xi, 1985, pp. 105-118). Si veda inoltre l’importante Consuntivo otto-novecentesco che Luca Serianni pone in calce alla sua Introduzione alla lingua poetica italiana (Roma, Carocci, 2001, pp. 221-238). 45 Cfr. Gianfranco Contini, Onomastica manzoniana, in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, p. 204. 46 L’appunto è trascritto da Piera Tomasoni, Materiali critici di Emilio De Marchi, in «Autografo», i, 3, ottobre 1984, p. 80.

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Se il titolo della prima sezione è di significato palese, quello della seconda (Le vaganti immagini) risulta più criptico: De Marchi sembra alludere a immagini che vagano nei posti da lui conosciuti (dal vero o sui libri), soprattutto ma non solo urbani (forse con una suggestione dei Tableaux parisiens di Baudelaire, le cui Fleurs du mal gli erano sicuramente presenti, come si vedrà a proposito della terza sezione): ci sono «i corni della Grigna» (Dopo la pioggia) e il Resegone (Chiarina)47, ma le Canzonette di primavera esordiscono in città («La bella primavera, o cittadini, / di violette adorna, / ecco tra noi ritorna»); alla città rimandano Il funerale del povero («Il morto passa in mezzo al rumor grande / della città, che brulica»), In Duomo e I vecchietti, dove si allude a uno «speziale / che sta vicino a San Giovan sul Muro»48. I vecchietti49 sono la prima immagine di un trittico di “quadri animati”: queste tre poesie contigue (I vecchietti, Le due poesie e La sartina) hanno struttura interamente dialogica, cioè constano esclusivamente di battute di dialogo, e sono forse tra le cose migliori del libro, sicuramente tra le più originali: ritroviamo in esse la ben nota bravura nella costruzione dei dialoghi di De Marchi romanziere e autore di teatro (anche in versi)50. Proprio come in un testo teatrale, sono numerosi i versi spezzati (o “a scalino”); la prima e la terza poesia sono in endecasillabi, accorpabili – per la struttura rimica – rispettivamente in terzine dantesche e in quartine a rima ora incrociata ora alternata; la seconda poesia è invece formata da martelliani che si possono raggruppare in quartine a rima alterna (la rima b è sempre tronca). A queste poesie si addice perfettamente la definizione di «parlato verseggiato», usata da Serianni a proposito delle commedie in versi di Paolo Ferrari, che nel secondo Ottocento ebbero un successo straordinario51. La sartina è proprio una scena di teatro, in cui più voci ricostruiscono la triste vicenda di una sartina suicida nel fiume perché abbandonata dal fidanzato, che aveva preferito sposare «il vestito di velluto», vale a dire una signorina Il lettore di De Marchi vi riconosce subito i luoghi di Giacomo l’idealista. A Milano, nei pressi di Foro Bonaparte. La via sarà di nuovo attraversata dalla letteratura con Carlo Emilio Gadda, che ne ricorderà i droghieri, «immersi da anni in un’atmosfera mista di zafferano e portorico tra scatole di biscotti Wafer» (L’Adalgisa, in Romanzi e racconti. Edizione diretta da Dante Isella, vol. i, Milano, Garzanti, 1988, p. 514). 49 Uno dei Tableaux parisiens di Baudelaire è intitolato Les petites vieilles. 50 Tra i numerosi manoscritti inediti di drammi, farse, commediole conservati nel Fondo pavese, troviamo: Buon cuore, commedia in quattro atti di endecasillabi sciolti databile al 1870 (e firmata con pseudonimo Marco De Mili); Pietro Aretino, atto unico (anch’esso in sciolti) non datato ma sicuramente precedente al 17 ottobre 1872: questa data è infatti posta in calce a Cuore e denaro, tre atti in prosa che seguono l’Aretino nello stesso quaderno; nel verso della pagina finale di Cuore e denaro inizia un abbozzo (di sole quattro pagine) con titolo La penitenza dei peccati, nel quale è riconoscibile l’avvio della prima redazione di una «favola in un atto» in endecasillabi sciolti, intitolata La cenere ed il fuoco e conservata in un altro quaderno. Questa «favola» è particolarmente interessante in relazione alle prime due poesie “dialogate” per l’intonazione umoristica: è un “bozzetto”, ambientato nel Medioevo, in cui lo scudiero Amelio, deciso ad abbandonare la sua vita scapestrata per farsi frate, mentre si confessa a fra Martino è attratto irresistibilmente dalla contadina Serenella, e fugge con lei. 51 Cfr. Luca Serianni, Introduzione alla lingua poetica italiana, cit., pp. 221-238. Di Paolo Ferrari, De Marchi fu supplente nell’insegnamento all’Accademia Scientifico-Letteraria dal 1883 al 1885. 47

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di condizione sociale più elevata; la parola sartina è entrata da pochi anni nella tradizione poetica italiana, probabilmente grazie a De Amicis52, sulle orme dell’affine crestaia (modista), introdottasi già ai tempi della Scapigliatura. Amor di crestaia è infatti il titolo di una poesia di Emilio Praga nella quale è riprodotto il dialogo fra una crestaia e il suo innamorato (troppo povero per comprarle «nastri e cappellini»), con modi di dire quotidiani («non ho più quattrini») e connettivi testuali propri del discorso orale («son povero, lo sai, non sono avaro»; «Ma, santo Dio, non ho il coraggio, credi»)53; la situazione prefigurata nel finale è specularmente opposta a quella di cui è vittima la sartina di De Marchi: il giovane alla fine cederà alle insistenze dell’amata, e, a prezzo di sacrifici imposti anche alla propria famiglia (sorelle, mamma, nonna, che «già da un anno sdrusciscono una gonna»), le comprerà un vestito nuovo. Sarà dunque contento di vederla «giuliva», finché… Finché, un bel dì, la fervida crestaia la gonna sdegnerà dell’operaia, e spariran, di un ricco al nuovo affetto, i regali e l’amor del poveretto!

La struttura dialogica è a due voci in I vecchietti, quattro chiacchiere garbatamente venate di malinconica ironia: […] - Sta ben! Ma Giovannin non è Giovanni; e settant’anni sulla gobba un peso sono che pesa settecento affanni. - Settanta è un bel fardello, ben inteso… - Or ti zoppica il pie’… - Ti manca il fiato: -L’occhio ti trema dalla luce offeso: - Le ragazze non sanno che sei nato: - D’accordo… le ragazze. Oh che vorresti che inseguissero quello ch’è scappato? […] 52 Cfr. Edmondo De Amicis, Cause ed effetti (in Poesie, Milano, Treves, 1880), vv. 9-11: «Ma non facevi, no, tante moine / or son dieci anni, quando ardito e snello / battevi i tacchi dietro alle sartine». Sia la liz che il gdli non registrano né questa né altra precedente attestazione in poesia, ma Studenti e sartine aprono l’elenco dei personaggi secondari della Bohème pucciniana, e la stessa Mimì si presenta a Rodolfo con queste parole: «La storia mia / è breve. A tela o a seta / ricamo in casa e fuori…». 53 Cfr. Luca Serianni, Storia della lingua italiana. Il secondo Ottocento: dall’Unità alla prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 143. Amor di crestaia è compresa nella raccolta Tavolozza (1862): ora in Poesie, cit., pp. 52-53. Anche nel gruppo di liriche Per una crestaia (1865) di Vittorio Betteloni, un giovane di buona famiglia preferisce, per il matrimonio, una «altera citrulla» di pari ceto sociale alla «crestaina vezzosa» di cui è invaghito (cfr. Vittorio Betteloni, Poesie. 1860-1910, Bologna, Zanichelli, 1914, pp. 97-116).

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e in Le due poesie, dove un giovane richiede al suo vecchio maestro di scrivere al posto suo una lettera d’amore alla fidanzata che lo vuole lasciare. Venuto bruscamente a contatto con l’amore quale può essere nella realtà, il maestro ne misura la distanza da quello conosciuto sulle carte dei poeti: O falso è Metastasio od io son rimbambito senza capir un’acca di quel che sia l’amor. - Ora però ha capito. - Capito, arcicapito54.

Perché proprio Metastasio è chiamato in causa? La risposta può essere cercata in un articolo di De Marchi defilato quanto importante, I miei poeti55: Non sono molti i miei poeti prediletti, ma procuro che siano miei. […] ciascuno di questi miei poeti, cominciando dal Metastasio, ch’io imparai a leggere sulle ginocchia della nonna, […] rappresenta un momento assai vivo della mia esistenza, riflessa e quasi fissata nelle pagine, che, nei varî tempi, mi commossero di più. Onde accade che, rileggendo di tanto in tanto uno di questi volumi, […] provo veramente il senso di uno che ricostruisse a pezzi tutta la sua vita passata. Non posso recitare i due versi «Felice età dell’oro / bella innocenza antica»56 senza che il pensiero corra indietro, e non rivegga una cuffia di traliccio con due grandi nastri verdi, e dentro un bel volto, geniale nella sua vecchiezza, con due occhietti che parlano ancora del tempo dei minuetti.

Ma torniamo al colloquio tra il giovane innamorato e il suo maestro nelle Due poesie: […] - Ma lei saprà cos’è questo tormento e a lei non manca la grammatica. E Dio la benedica, Maestro; tornerò.

54 La sorpresa provocata dall’impatto con la realtà è sottolineata a livello lessicale da due termini estranei al registro lirico: rimbambito e arcicapito. La prima attestazione in poesia di rimbambito risale a Chiaro Davanzati (cfr. gdli), ma qui probabilmente agisce soprattutto il colorito commento del Conte d’Almaviva al progetto matrimoniale di Bartolo, nel Barbiere di Siviglia di Rossini (a. I, scena iv): «Ah vecchio rimbambito!» (cfr. le osservazioni sul lessico dell’opera buffa sette-ottocentesca di Luca Serianni, Libretti verdiani e libretti pucciniani: due modelli linguistici a confronto, in Viaggiatori, musicisti, poeti. Saggi di storia della lingua italiana, Milano, Garzanti, 2002, pp. 157-159). L’uso del prefisso arci- è particolarmente frequente in Giusti, ma qui forse vale piuttosto il rimando ad una irriverente poesia di Carducci, indirizzata – appunto – Ancora ai poeti (in Juvenilia; vv. 1-9): «O arcadi e romantici fratelli / d’impertinenza e di castroneria, […] Ladre tantaferate e ritornelli / udimmo troppe, e fu gran cortesia / non cacciarvi a pedate dietrovia, / buffoni, arcibuffoni e menestrelli. / Buffoni, arcibuffoni, ite in bordello […]». 55 Pubblicato in Letture per le Giovinette, scritte, scelte o compilate a cura della C.ssa Della Rocca Castiglione, cit., pp. 109-116. 56 Sono i vv. 12-13 della scena viii del secondo atto del Demofoonte (cfr. Pietro Metastasio, Melodrammi e canzonette, a cura di Gianfranca Lavezzi, Milano, Rizzoli-bur, 2005, p. 386).

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- Addio: ma in queste cose che conta è più la pratica, la pratica, la pratica, ahimè, che più non ho.

Si finisce insomma nella parafrasi del proverbio “val più la pratica che la grammatica”57, al quale peraltro si richiama in modo esplicito il titolo originario della poesia, testimoniato da una stesura manoscritta (La pratica e la grammatica)58, quasi ci trovassimo in uno dei proverbi drammatici che tanta fortuna ebbero intorno agli anni Settanta dell’Ottocento: atti unici, spesso in versi martelliani, che illustravano un motto proverbiale, tra gli autori dei quali compaiono anche nomi di grande rilievo come Giuseppe Giacosa e Ferdinando Martini. Sono in versi martelliani sia due proverbi di Martini, Chi sa il gioco non l’insegni (1871) e Il peggio passo è quello dell’uscio (1873)59, sia A can che lecca cenere non gli fidar farina (1872) di Giacosa, dove si legge il seguente scambio di battute tra i due personaggi principali: emilia Voi, sia virtù o difetto, avete qualche pratica del cuore femminile… alfredo

Oh Dio… so la grammatica… ma ne ignoro sintassi e regole di stile60.

Di saggezza popolare le Cadenze demarchiane traboccano, spesso in modo implicito. In L’agnellino dorme, il carnefice dell’ignaro animale è, come detto, un «uom dal rosso pelo» perché si sottintende il proverbio «Rosso, mal pelo»61; esplicita è invece l’ammonizione di Predichetta (vv. 3-5): «Ma non si 57 Il proverbio è registrato sia nel Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (Milano, Dall’Imperial Regia Stamperia, 1839-1856, 5 voll.), alla voce «pràtega» e alla voce «gramàtega» («Var pussee la pratega che la gramatega»), sia nella Raccolta di proverbi toscani, con illustrazioni, cavata dai manoscritti di GIUSEPPE GIUSTI ed ora ampliata ed ordinata [da Gino Capponi], Firenze, Le Monnier, 1853, p. 117 (nel capitolo Esperienza: «La pratica val più della grammatica»). 58 È una bella copia inserita in un fascicolo composto da 114 carte sciolte manoscritte autografe, prevalentemente in formato protocollo, e da due fogli volanti a stampa contenenti due “fiori” della Ghirlanda di spose (Annetta ed Erminia); nel foglio iniziale, il titolo della raccolta: «Vecchie Cadenze e Nuove [che subentra a un abbozzo di titolo cassato Cadenze vecchie e nuove] / Versi di Emilio De Marchi». Delle poesie contenute nell’edizione 1899, otto non sono presenti nel fascicolo (sul quale c’è stato probabilmente un intervento non d’autore): La sartina, Una lezione di lingua, In Duomo, Una lezione di pedagogia, Un sonetto dell’avvenire, Sul campo della battaglia, Evocazioni, Ode alla salute. 59 Cfr. Ferdinando Martini, Chi sa il gioco non l’insegni. Il peggio passo è quello dell’uscio. La vipera, Milano, Treves, 1925. 60 Cfr. Giuseppe Giacosa, Teatro, a cura di Piero Nardi, Milano, Mondadori, 1948, vol. i, p. 98. Dello stesso anno, 1872, è la commedia in un atto (ma in prosa) Non dir quattro se non l’hai nel sacco; titolo “proverbiale” aveva anche la precedente (1870) commedia in tre atti, in prosa, Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova. 61 Il proverbio, registrato nella Raccolta di proverbi tratta dalle opere di Giusti (p. 52), è notis-

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deve credere / […] che si vada / in carrozza alla casa del Signore»62. De Marchi insomma ha sempre l’urgenza di chiarire il “sugo” della storia, appoggiandosi volentieri alla sapidità dei detti popolari presi dalla lingua parlata, direttamente o con la mediazione di un testo letterario, e fatti oggetto di un costante impegno di ricerca, testimoniato (oltre che dall’ampio ricorso ai proverbi nelle sue opere narrative e pedagogiche)63 da alcuni quaderni di appunti conservati al Fondo pavese: ad esempio, un elenco di Proverbi occupa la colonna sinistra della copertina, di colore rosa, di un quaderno recante la rubrica «Studi Retorici» e datato 1877; un altro quaderno, di piccole dimensioni, artigianalmente adattato a rubrica, tra le varie classificazioni (Stagione, Uomo, Vestito, Colori, Odori ecc.) comprende la voce Proverbi e ne elenca quarantasette, dei quali in realtà molti sono genericamente modi di dire popolari, come «netto come uno specchio», o «fare il gattone (fingendo non conoscere)»64. Non dimentichiamo le “moralità” che De Marchi traduttore trovava in abbondanza nelle favole di La Fontaine65, né ci deve stupire la riflessione facile quanto incontestabile («Ricchi e poveri, fratelli / son nel sonno e nel morir») posta in bocca al Coro a chiusura della sesta scena del primo atto del Ghiacciaio del Monte Bianco,

simo anche perché ha dato il titolo alla celeberrima novella verghiana, pubblicata in Vita dei campi (Milano, Treves, 1880). 62 Anche questo proverbio è presente sia nel Cherubini (alla voce «paradis») sia nella Raccolta di proverbi del Giusti, a p. 272. Ma qui forse ha agito soprattutto la memoria di due celebri luoghi dei Promessi Sposi (nei capp. x e xxiii): l’ipocrita “rimprovero” di uno zio a Gertrude («siete una dirittona voi; piantate negl’impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza») e la stizzita riflessione di Don Abbondio su «quel matto birbone di don Rodrigo» che «potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo» (cfr. Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di Angelo Stella e Cesare Repossi, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, p. 147 e p. 337). 63 Cfr. Introduzione a Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, a cura di Anna Modena, Milano, Guanda - Fondazione Bembo, 2000, pp. xx-xxi: «De Marchi […] declina con personale passione la materia proverbiale, mescolando la tradizione prettamente milanese con quella toscana o più genericamente nazionale», con il costante conforto di «una saggezza che vive tra cultura popolare e buon senso comune» e di alcuni testi fondamentali. Queste auctoritates sono tutte dichiarate nell’articolo I miei libri (uscito in Letture per le Giovinette, scritte, scelte o compilate a cura della C.ssa Della Rocca Castiglione, Torino, Biblioteca dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, 1883, pp. 343-354): il Manuale d’Epitteto, i Proverbi di Salomone, il Libro di Giobbe, l’Imitazione di Cristo, i Ricordi di Marco Aurelio, le Massime di La Rochefoucauld, le Riflessioni e massime di Vauvenargues. 64 È interessante anche un elenco di «Modi di dire» raggruppati sotto rubriche tematiche (pane, fuoco, cielo, mano, bello, pietra, dire, fare ecc.), presente in un quaderno che contiene note di lingua, grammatica, retorica (per il quale cfr. Piera Tomasoni, Materiali critici di Emilio De Marchi, cit., p. 79). Sono contigue all’elenco due significative annotazioni: «Il Giusti è ricco di espressioni popolari irregolari» e «Il Capitolo iii dei P.S. è ricco di modi di dire popolari»; nella stessa pagina sono elencati questi modi di dire, tutti desunti dalla parte iniziale del terzo capitolo dei Promessi Sposi: «Bene – continuò Agnese: – quello è una cima d’uomo – impicciato più d’un pulcin nella stoppa – dove batter la testa – a quattr’occhi – visto ridersene – colle mani vote – su due piedi». 65 Su questa interessante traduzione in versi di De Marchi, uscita nel 1886 presso l’editore milanese Sonzogno, si veda il saggio di Giuseppe Polimeni, La traduzione delle favole di La Fontaine, in Emilio De Marchi un secolo dopo. Atti del Convegno di Studi (Università di Pavia, 5-6 dicembre 2001), a cura di Renzo Cremante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, pp. 225-256.

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un libretto d’opera inedito e incompiuto che De Marchi scrisse nei tardi anni Ottanta per l’amico musicista Edoardo Mascheroni66. La superiorità della “pratica” sulla “grammatica” è affine a quella del “cuore” sulle parole dei poeti, ribadita in chiusura di Le due poesie: O divo Metastasio, ed io son rimbambito, credendo che una cosa fosse così così tra il chiaro della luna e il giùggiolo candito67, Amore… C’ingannammo: e t’ingannai, Mimì. Perdona alla grammatica, perdona anche ai poeti, mia vecchia, e facciam voti che si rinasca ancor. Ma se si torna a nascere, restiamo analfabeti, perché l’altra non guasti la poesia del cuor.

Ma è già ben chiara in una delle Poesie del 1875, Amleto, in cui la madre del poeta, rivolgendosi al figlio che appunto veglia «meditabondo […] sulla question del cupo Amleto», afferma: Odio i libri, che indarno logorati, lasciano muto il core: tornate al nostro sen e avrete amore, che non conobber mai questi tuoi vati.

Il rimpianto della madre per la fede tranquilla e ingenua del figlio durante l’infanzia sembra coinvolgere il poeta: Pietà mi vinse e muto io la guardai: disparve il cupo Amleto: amor, la madre, il ciel, il sognar lieto rimembrando, fanciullo io ritornai.

Ma non per molto: Quindi ella usciva ed io restai piangendo, e fu dolce il mio pianto. Ma, preso il libro, mi tornò d’accanto l’ombra d’Amleto col dilemma orrendo. 66 Il libretto, conservato manoscritto nel Fondo pavese, è ora trascritto nella tesi di laurea in Filologia moderna di Chiara Anna Aimaretti (Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2006-2007, relatore: Gianfranca Lavezzi): Due libretti d’opera inediti di Emilio De Marchi: «Lilia» e «Il ghiacciaio del Monte Bianco». 67 Nella redazione manoscritta, in luogo di giùggiolo leggiamo zuccaro, evidentemente poi avvertito come termine troppo arcaico e disusato, e quindi sostituito. Questo verso colpisce in modo particolare il lettore moderno perché vi si legge una sorta di blanda anticipazione del celebre imperativo futurista Uccidiamo il chiaro di luna!, che dieci anni più tardi sarebbe stato gridato con altra voce ed altri intenti.

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La vena di sottile ironia che, qui e altrove, increspa e quindi parzialmente depotenzia il luogo comune ha una coloritura che diremmo pre-gozzaniana e sottolinea le peculiarità dell’adesione di De Marchi al “buon senso popolare”: adesione intimamente precaria ma tenacemente perseguita, a livello personale come barriera posta all’insinuarsi di dubbi e tormenti interiori, e a livello letterario come ingrediente fondamentale della sua figura di “pedagogo” a tutto campo. La sua concezione pedagogica della letteratura è vicina a quella romantica, se è vero che nella Lettera semiseria di Grisostomo Berchet definiva «popolare» la poesia in quanto rivolta a un pubblico intermedio tra la «plebe affamata» e i «parigini» aristocratici, e composto «non di soli letterati»68. Ed è precisamente questo il tipo di pubblico al quale si rivolge De Marchi, che già in un articolo apparso sulla «Vita nuova» del 16 gennaio 1877 aveva scritto69: Considerando la società qual è e quale fu sempre, torna facile scoprire a un polo gli ignoranti, infelici che la sorte e la pigrizia incatena, e all’altro i sapienti che, voltate le spalle alla gente e alle cose comuni, camminano verso lontani orizzonti; ma, credetemi, il mondo non è né degli ignoranti, né dei sapienti, perché tra gli uni e gli altri si agita una moltitudine, che altri chiamano popolo, lenta nel suo moversi, ma pur sempre in moto dietro i segni del suo buon senso e che vanta il diritto d’aver sempre ragione. […] il male peggiore non è l’ignoranza, ma il disprezzo del sapere; non il saper poco, ma il saper male quel poco. Io non voglio il dominio dell’ignoranza e invoco l’istruzione obbligatoria, anche come un diritto; così non voglio il dominio unico dei saggi, perché qualche volta una simile oligarchia si muta in tirannide. […] Quanto importa dunque che questo benedetto popolo, che è la quantità onnipotente, sia ben bene istruito! Che importa per la nostra felicità se tutti gli Italiani sappiano sgorbiare e soltanto sgorbiare il proprio nome o se si trovi la paralasse di una stella, quando non esista una coscienza e un’opinione pubblica sana, intelligente, generosa, e superiore, per quanto è possibile, ai soffi mutabili delle passioni? Importa piuttosto rinforzare l’anima dei cittadini con quella quantità di idee morali, civili ed estetiche, che senza essere la scienza propriamente, mettano i più in grado di intenderla o almeno di venerarla.

Una ulteriore conferma poetica della superiorità del “cuore” sul “sapere” viene dal sonetto Una lezione di pedagogia: Legga Plutarco e Quintilian, se vuole intorno all’Educar farsi un pensiero: legga Seneca e legga delle scuole moderne il Kant, filosofo severo, 68 Cfr. Vittorio Spinazzola, Emilio De Marchi romanziere popolare, Milano, Edizioni di Comunità, 1971, p. 7: «De Marchi si presenta come l’erede legittimo degli scrittori riuniti attorno al “Conciliatore”. E va energicamente oltre le loro posizioni in quanto l’arte gli apparve non solo utile ma necessaria all’intera collettività: un bene del quale nessuno può fare a meno. Chi meglio risponde a questa esigenza primaria, assolve perciò una funzione di pubblico, universale vantaggio». 69 Fra gli estremi (Idee sull’istruzione), firmato Primo De Vecchi; ora in Varietà e inediti, cit., tomo ii, pp. 145-149.

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il Bain, lo Spencer, ch’è da solo un sole, Froebel, che pose un fondamento vero, Gerard, il Lambruschin, che alle parole sempre accompagna un animo sincero. Questi ed altri daran notizie e lumi a procacciar quella moral sapienza onde s’informa il bravo Educatore. Che se di consultar questi volumi non ha tempo o le manca la pazienza, si contenti dell’indice del cuore.

“Pedagogica” dovrà essere, probabilmente, anche l’ottica nella quale leggere alcune “fonti” letterarie, esibite in modo così palese da non poter non essere intenzionale: fonti pariniane, in primo luogo, quindi relative al poeta “pedagogo” (nell’accezione ben nota) per eccellenza, che ha un posto privilegiato anche nell’attività didattica di De Marchi, attento chiosatore delle Odi70, delle quali così riassume il senso in una lezione dell’inedito Corso di stilistica del 189571: Niente è più bello e più grande della virtù: l’integrità del carattere vale più d’ogni fortuna; l’uomo virtuoso basta a sé. Fonte della virtù è la buona educazione la quale deve consistere nel buon uso della ragione, nel sentimento di rispetto a sé, nella pietà verso gli infelici, nella religione.

Nel segno del Parini egli pone da subito la sua produzione poetica, citando – in epigrafe al volumetto delle Poesie del 1875 – i vv. 37-38 della Recita dei versi («Orecchio ama pacato / la Musa»)72, e al suo magistero sarà sempre fedele. La “fonte” pariniana più clamorosa (ma si ricordi anche quanto detto sopra a proposito della poesia Il contadino) ci si presenta all’inizio del Funerale del povero: Il morto passa in mezzo al rumor grande della città, che brulica e non sente la voce che dal feretro si spande… Ad altre cose ha da pensar la gente. 70 Come testimonia un gruppo compatto di appunti contenente un commento analitico di alcune Odi, di chiara impostazione didattica: cfr. Piera Tomasoni, Materiali critici di Emilio De Marchi, cit., p. 80. 71 Cfr. Cecilia Perucci, Inediti di Emilio De Marchi: “Corso di stilistica” 1895. Tesi di laurea, Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1984-85 (relatore: Maria Antonietta Grignani), p. 255. La pietà verso gli infelici e la religione ci sembrano molto più vicini al De Marchi filantropo e pedagogo che non a Parini. 72 In realtà l’ode pariniana recita placata anzi che pacata: De Marchi incorre nello stesso errore di citazione fatto da Foscolo quando pose questi stessi versi in epigrafe alla traduzione del Viaggio sentimentale («Orecchio ama pacato / La Musa, e mente arguta, e cor gentile»).

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale La gente? – butta la spregiata creta nell’angolo dei cocci e passa via. Oh ch’io ti segua, io sol, zoppo poeta, col mio rosario e colla fede mia: […]

Ora, la spregiata creta è tessera riconoscibilissima, relativa a un passaggio “forte” e facilmente memorizzabile di una delle odi più celebri, La salubrità dell’aria (v. 98: «Quivi i lari plebei / da le spregiate crete / d’umor fracidi e rei / versan fonti indiscrete»). E definendosi «zoppo poeta», De Marchi allude certo a una autoironica deminutio, ma probabilmente vuole anche rendere ancora più esplicito il rimando al claudicante Parini. Per inciso, noto una tangenza con il De Marchi romanziere (la descrizione del funerale della vedova Ratti nel secondo capitolo di Arabella): «La gente si arrestava a guardare un poco, sbadatamente, a questo fatto così comune del morto che passa, che nelle grandi città non suscita più in chi vede se non il fastidio d’aspettare che passi. Quindi la folla si rimescola e seguita a scorrere nel declivio dolce e potente della vita»73. Parini è dunque fonte privilegiata, ed esibita; ma, come visto sopra, anche Leopardi e Carducci, quando sono presenti, lo sono in modo palese; lo stesso si può dire di Dante: ad esempio, in A un vincitore in un duello (componimento in terzine) la «palude senza fine amara» incrocia il ricordo della «livida palude» di Inf., iii, 98 e del «mondo sanza fine amaro» di Par., xvii, 11274, e più avanti, nella stessa poesia, si sente un’eco dell’orazion picciola di Ulisse («fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»): Non come esigui e vani moscerini nascemmo intorno a un lume a far ronzìo, ma per toccare agli ultimi gradini d’un sacro tempio […].

Il verso finale della poesia, «nella tenebra eterna ulula il pianto», rimanda ancora al terzo canto dell’Inferno, alle «tenebre etterne» del v. 87 e ai «pianti e alti guai» del v. 2275. 73 Cfr. Emilio De Marchi, Arabella, in Tutte le opere, a cura di Giansiro Ferrata, ii. Grandi romanzi, Milano, Mondadori, 1960, p. 418. 74 Non lo stesso sintagma, ma la stessa «astrazione ritmica» dantesca (sanza fine + attributo o predicato bisillabico finale) adotterà Gozzano in un celebre verso della Signorina Felicita (v. 289: «Donna: mistero senza fine bello!»): cfr. Gianfranco Contini, Un’interpretazione di Dante, in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976, p. 84. 75 In questa poesia è riconoscibile anche una fonte petrarchesca (del Petrarca “dantesco” dei Trionfi): il v. 25 («E allora, o ciechi, il dolce amor che giova [?]») ricalca «O ciechi, el tanto affaticar che giova?» (Triumphus mortis, i, v. 88).

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Un dantesco «spiritel d’amor gentile» (citazione dal v. 42 di Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete) rende inequivocabile il clima comunque già chiaramente stilnovistico di Angelina, una delle sette liriche componenti la Ghirlanda di spose. I «passeggiati marmi» di Evocazioni, v. 86 riproducono senza schermi il celebre sintagma di Inf., xvii, 6. De Marchi, insomma, vuole essere sicuro che tutti i suoi lettori, compresi quelli di cultura modesta, riconoscano le fonti letterarie da lui impiegate, anche a prezzo di un ispessimento della grana espressiva della poesia. Nella stessa direzione, gli può capitare di alludere – sicuro che il lettore saprà capire il rimando – a notissimi (allora) canti patriottici, come il Canto nazionale (1847) di Goffredo Mameli76, di cui propone una citazione antifrastica in All’Italia, vv. 25-26: Il vecchio elmo di Scipio, che ti stracciò la chioma, lascia alla morta polvere dell’infeconda Roma. Sorgi, fanciulla, al tenero sospir d’un nuovo amore di nuove nozze a tessere la veste tricolore. Stesa la mano al vomero, cinta di fiori e spiche, l’opere tue vendemmia sulle memorie antiche: forte dall’urne esauste di mutola rovina il risonante spirito aliti la fucina.

o come A Venezia (1849) di Arnaldo Fusinato77, il cui celebre refrain («ma il morbo infuria, / il pan ci manca… / Sul ponte sventola / bandiera bianca!») sembra risuonare dietro un verso del Maestro contento, il quale, pensando ai suoi scolari, «piccini dalle mani ladre, / dai musi tinti e che non taccion mai», afferma: «È il pan che manca che li fa cattivi». Coerente con quanto ipotizzato sembra anche essere il frequente ricorso di De Marchi a sintagmi provenienti dai libretti d’opera, ben presenti alla mente del suo pubblico. Qualche esempio: «azzimato garzon» (Il tempo e la mano, v. 2) ibrida il leopardiano garzoncello scherzoso con un aggettivo che nella poesia italiana ha probabilmente la sua sola attestazione nel libretto, scritto 76 Lo si può leggere in Poeti minori dell’Ottocento, tomo ii, a cura di Luigi Baldacci e Giuliano Innamorati, Milano-Napoli, Ricciardi, 1963, pp. 1059-1061. 77 Ivi, pp. 1005-1008.

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da Arrigo Boito, dell’Otello di Verdi (a. I, sc. i), dove Jago definisce Cassio «azzimato capitano»; il «palpito d’amor» del Cantoniere, vv. 18-19 e v. 40 ha molti precedenti nei libretti, fra i quali quello celeberrimo dell’aria di Violetta, nella Traviata (atto I, sc. v): a quell’amor ch’è palpito dell’universo intero, misterioso, altero, croce e delizia al cor!

ricordato anche da un uomo semplice come Paolino delle Cascine che lo cita, storpiandolo (Di quell’amor, di quell’amor che palpita…), a Demetrio Pianelli a proposito del proprio sentimento per Beatrice, e commenta: «Riverisco, grazie del palpito. Provassi, è una scottatura che non si guarisce col chiaro d’uovo sbattuto»78. Sappiamo anche che Cesarino Pianelli «era un fanatico di Verdi» e invitava volentieri a cena il maestro di pianoforte Bonfanti perché questi, dopo, si sarebbe “sdebitato” «col sonare e col cantare a memoria mezzo il Trovatore e mezza la Traviata»79. Perfino dalla bocca del rozzo Carpigna, in Tra gli stracci, esce una (involontaria) citazione verdiana, quando egli si rivolge alla figlia Stella chiamandola sarcasticamente «bella figlia dell’amore»80. A volte il rimando è a più autori, quasi a voler consentire al lettore di cogliere almeno una delle allusioni: ad esempio, le molli aure che vestono la Primavera nella prima delle Canzonette di primavera sono frequenti nella lirica italiana (alla quale giungono dalle molles aurae latine), ivi comprese le notissime aure tepide e molli del Va’ pensiero, il coro del Nabucco che De Marchi ricorda anche nella sua Ode a Verdi81. Importa qui soprattutto la volontà, da parte dell’autore, di costruire un sintagma autorizzato dalla tradizione poetica: l’aggettivo molli infatti subentra solo in un secondo tempo, poiché le aure erano invece fresche sia in un abbozzo di redazione manoscritta sia nella redazione pubblicata in rivista (Canti di primavera, in «Il Convegno», 22 marzo 1885). L’ «aria imbalsamata» del Maestro contento, vv. 5-6, spira da due direzioni: da una poesia di Praga (A Enrico Junk, v. 9)82 e dal finale dell’Aida: 78 Cfr. Demetrio Pianelli, ed. cit., p. 186. Il celeberrimo luogo verdiano è ricordato anche dal De Marchi “pedagogista”, in Le quattro stagioni (Milano, Cooperativa Editrice Italiana, 1892), a proposito di un’ironica riflessione sui libri che parlano d’amore: «Se agli scrittori gravi aggiungiamo i burleschi e tutte le corbellerie che i tenori e le prime donne cantano a proposito di questa “dolce fiamma”, di questo “palpito dell’universo intero” non basta un catalogo di biblioteca, non basta un archivio a registrare e a raccogliere i documenti» (cfr. Varietà e inediti, cit., tomo ii, p. 517). 79 Cfr. Demetrio Pianelli, ed. cit., pp. 135-136. 80 Cfr. Emilio De Marchi, Tra gli stracci. Racconto popolare, a cura di Angelo Stella, Milano, Scheiwiller, 1989, p. 69 (e l’Introduzione del curatore, p. 9). La celebre aria del Rigoletto è nell’a. III, sc. iii. 81 Cfr. i vv. 20-23: «Morta è l’aria. Più non viene / de’ tuoi numeri prigione / mista al suon delle catene / d’Israello la canzone». 82 La poesia è pubblicata in Trasparenze (ora in Emilio Praga, Poesie, cit., pp. 344-345).

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Nella terra avventurata de’ miei padri, il ciel n’attende; ivi l’aura è imbalsamata, ivi il suolo è aromi e fior.

La stessa spregiata creta del Funerale del povero, della quale s’è detto sopra, è collegata a Parini da ogni lettore di media cultura, ma se per media cultura si intende anche, come ovvio, conoscenza dei passi principali del Nuovo Testamento, scatta subito, in aggiunta, un altro rimando: nella Lettera ai Romani (ix, 21) S. Paolo afferma che il vasaio è libero di fare con la stessa massa d’argilla un vaso per uso nobile e uno per usi vili (ñ mén eêj timÕn skeûoj ñ dé eêj Þtimían): alfa privativo + timÔ corrisponde perfettamente a s + pregio), e subito dopo introduce la celebre contrapposizione figurata tra vasi pieni d’ira e vasi pieni di misericordia. Forse non è casuale che De Marchi, nella quartina seguente a quella in cui usa spregiata creta, così si rivolga al povero: «Ave, corpo mortal, in cui piangea tra duri ceppi l’anima divina, o rozzo vaso d’un’eterna Idea, o diroccato altar, ave, o rovina!»

La quartina si ripete, identica, alla fine della poesia, acquistando così doppio rilievo. Con uno sguardo d’assieme sulle prime due sezioni, e richiamando l’assunto iniziale – il significato del titolo – la novità tematica finora emersa pare complessivamente limitata. Nei tre componimenti più originali (nel senso sia dell’appartenenza alle migliori corde dell’autore sia della loro singolarità nel panorama poetico precedente e contemporaneo) – quelli dialogati –, e soprattutto nel secondo (Le due poesie), si addensano anche le punte lessicali più marcate verso il “basso”, si intenda il livello comico o colloquiale: esser fritto e bello spacciato, oibò, perdio83, come un can soffrire, rimbambito, arcicapito. Lessicalmente davvero nuovo, anzi, “avveniristico”, è un solo componimento, per l’appunto Un sonetto dell’avvenire, dove «il palpito dell’anima […] è una pura / fermentazione di laboratorio» e l’amore è «fosforo biondo e candida albumina / portati a un certo grado di calore, / non senza qualche parte zuccherina» con in aggiunta «soave secrezion d’emoglobina». Un divertissement, attestato solo dalla edizione 1899: evidentemente, nel confezionare l’edizione 1904, la moglie 83 L’esclamazione, che oggi pare almeno irriguardosa, ha addirittura autorizzazione petrarchesca, ma nei secoli seguenti venne ad assumere una funzione genericamente rafforzativa: cfr. Luca Serianni, Libretti verdiani e libretti pucciniani, cit., pp. 141-142. Perdio torna più volte nella poesia di Praga, che in un caso lo fa rimare, ai limiti del blasfemo, con Pio (il nome del papa: L’inno di Pio Nono, vv. 18-19; ora in Poesie, cit., p. 68): cfr. Luca Serianni, Storia della lingua italiana. Il secondo Ottocento…, cit., p. 144.

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Lina vuole accreditare un’immagine più monolitica e “ufficiale” del De Marchi poeta, e quindi espunge le poesie che le sembrano in qualche modo deviare da questa linea, che viene al contempo rafforzata con l’inserimento della nuova sezione di liriche “civili”. Fra i componimenti non ammessi all’edizione postuma ci sono, oltre a quello dell’avvenire, altri tre sonetti: In Duomo, Una lezione di pedagogia e Una lezione di lingua. Quest’ultimo condivide con il precedente l’impianto bozzettistico e la ironica trouvaille dell’explicit: O signorina, la domanda è tale (diceva un giorno il dotto professore) che m’imbarazza. – Che cos’è l’amore? […] Lei, così bella, me lo può usare come gioia, speranza, confidenza ed anche come vivido entusiasmo… Per me che son lì lì per invecchiare, quando amore non suona reticenza, se non sbaglio, non è che un pleonasmo.

Fin dalla sua seconda esile raccolta poetica (i Sonetti del 1877), De Marchi sembra fare della forma sonetto la sede privilegiata di temi e modi non convenzionali, sovente ironici e talvolta garbatamente irriverenti84. Basti leggere il primo della raccolta, Commento a Dante, che crea un parodico e malizioso “doppio” autobiografico dell’accorato racconto di Francesca nel quinto canto dell’Inferno: Noi leggevamo un giorno il quinto canto, soli eravamo senza alcun sospetto, tratto tratto io faceva un discorsetto, che sui libri non leggesi altrettanto. Le citava la storia e tutto quanto d’erudito si scrisse in sul soggetto, ed ella, presa da pietoso affetto, strano commento! si asciugava il pianto. 84 Il sonetto è la forma metrica prediletta da De Amicis, che lo adotta massicciamente nelle poesie raccolte nel volume del 1880 (ma con anticipazioni in rivista, sicuramente non sfuggite a De Marchi): su 146 componimenti, ben 130 sono sonetti. Anche De Amicis, come De Marchi, è soprattutto narratore, e narratore pedagogo; in quasi tutte le poesie del primo e in una parte delle poesie del secondo (i sonetti e le poesie dialogate), è presente l’anticipazione di temi e atmosfere crepuscolari, tanto che si potrebbe estendere a De Marchi – anche se limitatamente a una parte della sua poesia – quanto Luigi Baldacci scrive di De Amicis: «Il crepuscolarismo di De Amicis non è ante litteram; pare, anzi, già essere un fenomeno in atto e storicamente accertabile: carattere che gli deriva soprattutto dal non credere alla poesia, o almeno dal fingere di non crederci (che è l’invenzione dei crepuscolari). […] Quasi per un fatto di dignità professionale, un narratore come il De Amicis non poteva mostrare di prendere troppo sul serio la poesia» (cfr. Poeti minori dell’Ottocento, tomo i, cit., pp. 999-1000).

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Ma giunti là dove il poeta scrisse: La bocca mi baciò tutto tremante: mancò l’erudizione all’arduo tema. Allora più sapiente ella mi disse: Così si spiega – e il volto spinse avante. Quivi il commento superò il poema.

Sono forse ancora più antichi i dodici sonetti testimoniati solo da un fascicoletto manoscritto di sei carte, inserito in un quaderno dalla copertina lilla (sull’etichetta, di mano della moglie Lina: «Poesie giovanili – Abbozzi»); sono in stesura perlopiù molto tormentata e talora incompiuta, e di alcuni esiste anche, nel quaderno, una redazione precedente: Una panzana, Merito civile, Al Carabiniere, La mia nonna, Simpatia, La sartorella, Agonia, La morte del pappagallo, Artiglieria, Pronostici, Studio di lingue fra due donne, Mineralogia. Si tratta di modeste prove di apprendistato, unite da un comune gusto bozzettistico, ma ritengo degne di menzione almeno Studio di lingue, che gioca su alcune parole straniere in rima (tre : the : è : perroquet; cadeau : oibò : Lolò), secondo una tendenza della poesia di fine Ottocento precorritrice del crepuscolarismo (e, prima ancora, del Pascoli di Italy)85, e Mineralogia, ascrivibile al filone “didattico” (Una lezione di pedagogia, Una lezione di lingua)86, dove il «mesto pedagogo» è portato all’esasperazione (anche linguistica, affidata a un gioco di parole anaforico-allitterativo perlomeno ingombrante) dal «ricco allievo» che insistentemente gli chiede «Che sasso è questo, professore?»: E questo? e quello? – Il poveretto lasso sedette e brontolò, crollando il capo: È sasso, è sasso, o satanasso, è sasso.

Fra questi inediti, il sonetto più interessante, per una vena fantaisiste, quasi surrealista, alla maniera di Aldo Palazzeschi o di Gianni Rodari, è quello intitolato Una panzana: C’era una volta – ragazzetti attenti C’era una volta un uom così sottile che nella folla si trovava a stenti come a cercare un ago nel fienile. Un giorno – e poi mi negano i portenti – 85 Cfr. Gian Luigi Beccaria, Compromessi tra significanti. Tradizione e innovazione nelle figure ritmico-sintattiche pascoliane, in L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1975, pp. 209-211. Thé rima con è e perché nel primo atto del Ghiacciaio del Monte Bianco (per il quale vedi sopra la nota 66), ai vv. 178, 174 e 182. 86 Capostipite è forse la scandalosa Lezione d’anatomia di Arrigo Boito (pubblicata sulla «Rivista minima» di Milano il 17 maggio 1874, e poi nel Libro dei versi, Torino, Casanova, 1877).

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale ecco incomincia a crescere di stile, e cresci e cresci – ragazzetti attenti, mi diventò più gonfio d’un barile. E cresci ancor – non ditela una ciancia – arrotondò sì fuor del naturale, che tutto l’uomo andò dentro la pancia. Il poveretto si trovò sì male quando il dottor, scoperta la cagione, gli proibì di leggere il giornale.

Panzane è anche il titolo di tre brevi componimenti87 rivolti ad una «dilettosa amica»: nel primo, il poeta la invita ad una gita in montagna, là «ove rumor non giunge dell’umano / babelico ciarlìo» (ma in caso di pioggia: «Re spodestati sederemo al fuoco / a narrarci altre simili panzane»); nel secondo, con l’immaginazione veste la fanciulla in diversi modi (da africana, da antica greca, da monaca…) per concludere, con un brivido di malizia: «Ma tra le vesti quale / a te meglio convien, candida o bruna, / decidere non so: forse nessuna»; nel terzo, il poeta elenca quello che scopre «entro lo specchio degli occhi» dell’amica (il mare, le stelle, il pensiero, una lacrima…) e conclude, a sorpresa: In questo picciol mondo io scopro alfin riflesso e come imprigionato anche me stesso. Chi sta ben non si muova! Quand’anche fossi un moscherin molesto or che ci son, ci resto.

Ne emerge una vena poetica esile ma interessante, anche se spesso gravata da impacci di immagini e di stile, che indulge garbatamente al divertissement, con qualche punta di innocente sensualità, come in Venezia senza luna 88: […] Battono l’ore. Sognano le brune veneziane, che il Tintoretto e il Tiepolo han fatto sovrumane: sognan le bionde care mentre le rie zanzare, Pubblicati nella «Vita nuova» del 16 maggio 1876, e non raccolti in volume (cfr. sopra, nota 8). Anch’essa edita solo in rivista: «La Vita nuova», 16 giugno 1876; è un’ode con strofe di otto settenari a”bc”bdde”f ’. 87 88

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del lor bel sangue tiepide, tornano a tripudiar. […].

Un tocco di galanteria di stampo settecentesco fa capolino da un’ode giovanile inedita, Alla sapiente Delia 89, che accosta un po’ perigliosamente il Newtonianismo per le dame, la misogina convinzione che la troppa cultura non si addica alle donne, e il tema, serio e drammaticamente presente in De Marchi (ma qui trattato con bonario e convenzionale semplicismo), del difficile rapporto tra scienza e fede: Non preghi più? d’ingegno, Delia, e di cuore audace, senza un devoto segno dormi la notte in pace? […] Libera sei, né il vario rito ti chiama. A sera, guardando il pio rosario dell’avola severa ridi e sdegnosa pensi ai tonsurati chierici e al puzzo degli incensi. […] Newton su tuoi ginocchi riposa volentieri, e quando serri gli occhi sui morbidi origlieri, oh quanti atomi e mondi s’aggiran nella cuffia de’ tuoi capelli biondi! Perdona se un poeta, dirò, di vecchia rima, ricorda a te la vieta credulità di prima, quando bambina e sciocca facevi eco alle sillabe della materna bocca. Lo spirito folletto, talor dietro la sponda, strappava giù dal letto la coltre pudibonda, 89 Testimoniata solo da una carta (recto e verso) manoscritta, inserita nel quaderno dalla copertina lilla che reca la rubrica «Poesie giovanili – abbozzi». La stesura presenta molte correzioni, anche solo abbozzate, che ne comprovano l’incompiutezza.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale e tu – ben rider puoi – le spalle e il seno candido celavi agli occhi suoi. […].

Ma torniamo alle poesie accolte da De Marchi nel volume delle Cadenze. Con Gli intimi sensi, cioè la terza sezione, si cambia registro: il polimetro Le visioni del cieco risente certo di suggestioni simboliste, peraltro dichiarate nella quarta parte, che presenta una sinestesia di sapore baudelairiano come anima profumata (non è inusuale in Baudelaire la vicinanza tra anima e profumo) e si chiude con la seguente affermazione della donna protagonista di questa visione: Morta son viva e passo nei sogni del mortale, spargendo colle mani aperte la semente di nuovi sogni. Io sono la bella sorridente, che stillo eterni aromi dai morti fior del male.

È una cadenza sicuramente nuova per De Marchi: e forse proprio alle Visioni del cieco (anche questa è una sinestesia, ossimorica) egli voleva alludere con il nuove del titolo della raccolta, posposto (Vecchie cadenze e nuove) per dare ai lettori una indicazione topografica precisa (“cercate in fondo”). Anche se, va ribadito, la prospettiva storica, ovviamente preclusa ai contemporanei, ci permette di notare il nuovo anche nelle “cadenze vecchie”, dove – come si è visto – non mancano elementi, tematici o stilistici, che guardano avanti, ad alcuni “ismi” ed autori novecenteschi. Non voglio certo avanzare l’ipotesi di una “chiaroveggenza” demarchiana, ma solo sottolineare come il nostro autore fosse pienamente uomo del suo tempo, e quindi, proprio in quanto tale, anche uomo del futuro: se gli ultimi decenni dell’Ottocento sono molto ricchi di fermenti, a tutti i livelli, De Marchi avverte, con grande interesse ma anche con inquieto timore, le faville che covano nella cenere fin de siècle e che accenderanno i fuochi novecenteschi. Il filtro della provincia lombarda certo ne smorza l’effetto dirompente, ma questi fermenti comunque arrivano al suo animo, sotterraneamente agitato da un’irrequietudine interna di cui la pur sorvegliata struttura spesso non riesce a frenare l’evidenza, e vi trovano una sintonia forse insospettata. Una prova, minima ma sorprendente, è nascosta in un articolo di impronta didattica (Sapete leggere?) apparso sul «Convegno» dell’11 gennaio 1883: Si fa più volte la questione, quali colori corrispondano ai diversi suoni, ma non pare che sia permesso di risolverla mai. Dal mio sentimento e da quello di alcuni miei amici circa alle cinque vocali dell’alfabeto, sebbene con molta incertezza ancora, potrei ritenere quasi per le più naturali le seguenti corrispondenze: a = nero; e = verde o azzurro; o = rosso; i = bianco; u = bigio. A creare queste corrispondenze vedo però che

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aiuta molto, senza ragione, il nome stesso dei colori, nel quale domina questa o quella vocale come il rosso per l’o, e il verde per l’e; così molta incertezza dura tuttavia per la determinazione del colore corrispondente al suono del flauto, del violino e degli altri strumenti di musica.

A questa data, è già stato scritto ma non ancora pubblicato il celebre sonetto di Rimbaud sul colore delle vocali (Voyelles: «A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles / je dirai quelque jour vos naissances latentes»)90 nato dal fecondo seme baudelairiano delle Correspondances (v. 8: «les parfums, les couleurs et les sons se répondent»: punto di partenza di tanta fortuna decadentistica della sinestesia). Ma il vento che soffia sull’ultimo scorcio del secolo XIX trasporta dalla vivace Parigi alla sonnacchiosa Paderno Dugnano lo stesso seme, che qui inaspettatamente attecchisce: il fiore che ne nasce è certo molto più modesto, di riflessione e non di poesia, ma testimonia un’attenzione al nuovo, da parte di De Marchi, in straordinaria sintonia con la sensibilità del tempo. Sempre forte rimane però in lui la tentazione di tornare dagli affascinanti quanto impervi sentieri del nuovo alla sicura e diritta strada della tradizione. Nelle stesse Visioni, accanto alle suggestioni simboliste trovano posto atmosfere preraffaellite e tessere lessicali dantesche (le “cadenze” più “vecchie”, nel senso di tradizionali, possibili): Vanno le donne angeliche nell’alta erba fiorita in lagrime la cenere strisciando di lor veste. E morta, ma ridente nel suo splendor celeste, portano una fanciulla tra i gigli impallidita. (iv) Torna la donna in una verde vesta, che tiene un molle ramicello in mano. (ii) Inebriare è pallida parola, se il dolce esprimer vuoi di paradiso, in cui mi trasse la gentil carola. Ma non dirò del sovrumano amplesso ond’io fui cinto e della bianca stola che me condusse fuori di me stesso. (vi)

90 La prima redazione risale al 1871, mentre la prima apparizione a stampa è in Les Poètes maudits, in «Lutèce», 5-12 ottobre 1883 (in volume nel 1884). Cfr. Arthur Rimbaud, Opere complete, a cura di Antoine Adam. Introduzione, revisione e aggiornamento di Mario Richter, Torino, Einaudi – Gallimard, 1992, p. 1069.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Si confrontino questi luoghi con i vv. 28-33 del xxx del Purgatorio (l’incontro con Beatrice): così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giù dentro e di fori, sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva.

e con Par. xxv, dove al v. 95 sono citate le bianche stole dei beati, e ai vv. 98-99 leggiamo: ‘Sperent in te’ di sopr’ a noi s’udì; a che rispuoser tutte le carole.

Anche il verso d’esordio della sesta e ultima delle Visioni, «Le belle voci e il vago incantamento», rimanda ovviamente a Dante, al celebre sonetto «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento [...]». La novità delle Visioni non era sfuggita a Giovanni Bertacchi («Qui, molto più che altrove, si accosta il De Marchi agli intendimenti e alle forme di qualche diffusa e gloriosa dottrina estetica contemporanea: qui spira come un’aura di fresco simbolismo»)91, che non si era dunque lasciato fuorviare da quanto l’autore gli aveva scritto il 19 novembre 1898: Per quanto Segretario d’un’Accademia e forse colpevole d’un volume di versi all’antica (che le manderò presto) sento che idee e sensi nuovi vogliono modi e atteggiamenti nuovi e seguo con simpatia tutti gli sforzi che i giovani fanno per uscire dai vecchi ritmi (io ormai ci son fossilizzato dentro) […] Vedrà una poesia tutta quanta borghese nel contenuto e nelle brache… reminiscenze di venti, quasi di trent’anni fa, vecchi temi morali e domestici, insomma un testamento con unito inventario di mobili vecchi92.

Il nucleo più esteso della terza sezione è costituito da otto componimenti (il cui termine post quem è il 1895) in endecasillabi sciolti, di lunghezza variabile fra i 78 e i 164 versi, che al legame formale uniscono un legame tematico assai forte: il tema dei morti, declinato quasi sempre nel colloquio con i Cfr. Emilio De Marchi poeta, cit., p. 621. Cito da una copia, conservata nel Fondo De Marchi, della lettera, che è stata parzialmente pubblicata da Mario Borsa (Il De Marchi nostro, in «La Martinella di Milano», novembre-dicembre 1951, p. 600). 91

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morti. Verrebbe da pensare a Myricae, di cui l’anno prima (1894) era uscita la terza edizione (la prima ad accogliere la proemiale Il Giorno dei morti), anche perché in questa sezione – e solo in questa, nella parte quinta del polimetro Le visioni del cieco – De Marchi usa il novenario dattilico pascoliano, con l’aggiunta di una rima interna, quasi a rimarcare la già forte cadenza dei tre accenti fissi di 2a, 5 a e 8 a: Venìan per la selva silente con passo dolente le donne, non vive, ma come sottili fantasmi gentili nel viso. […] Noi siamo le eterne sorelle noi siamo le belle immortali, che sciolto il mister della Sfinge, di morte non spinge la mano. Ci accoglie la selva divina, che verde sconfina nascosa ai cupidi sguardi dei vivi di rose e d’ulivi fiorente: Riposa, riposa, riposa. […]

Ma la lettura – contenutistica, stilistica e metrica – degli endecasillabi sciolti che dominano la sezione individua nettamente l’interlocutore letterario privilegiato nel Foscolo dei Sepolcri 93, comunque ben presente anche prima nella raccolta, ad esempio in Per quarant’anni parroco, nell’allocuzione alla poesia che suscita «i tenui affetti […] in mezzo all’ombre, ai sassi, alle […] ortiche», mentre Ove manchi il sospiro di Natura, irrigidite larve e di cuor vuote stan le passate immagini di questa labil vita, che si oscura di giorno in giorno in disperato oblìo94.

Negli sciolti della terza sezione la fonte foscoliana è riconoscibile, ma più suggerita che esibita, e riguarda sia il piano lessicale sia quello, più raffinato e 93 Nell’opuscolo La letteratura (Milano, Civelli, 1882; ora in Varietà e inediti, cit., t. i, pp. 210-241) i Sepolcri sono definiti «pochi e miracolosi versi che guadagnarono al Foscolo l’immortalità» e paragonati «a una di quelle coppe di bronzo antico o di porfido, di perfetto lavoro, alle quali il tempo non può recare che una crescente venerabilità» (ivi, p. 238). 94 Sono assai riconoscibili, in filigrana, i vv. 41-50 del carme foscoliano:«Sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna; […] ma la sua polve / lascia alle ortiche di deserta gleba / ove né donna innamorata preghi, / né passeggier solingo oda il sospiro / che dal tumulo a noi manda Natura».

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

discreto, delle cadenze sintattiche: le «ombre dei padri» che «esterefatte balzano» (Solitudine, v. 77), e più ancora la madre il cui figlio è morto in battaglia (Il canto dell’ulivo, v. 36: «Balzi la notte esterefatta») rimandano palesemente alle «madri [che] balzan ne’ sonni esterrefatti» dei Sepolcri (v. 109); le «umane belve» e le «vigilie / ansiose» di Sul campo della battaglia, vv. 87, 114-115 alle «umane belve» e alle «dolci vigilie» (Dei Sepolcri, v. 92 e v. 246). Variante di «umane belve» è fiere umane (Il canto dell’ulivo, v. 27), che però forse risente di un passaggio dei Masnadieri di Verdi (parte i, sc. 2: «Fiere umane, umane fiere, dure più d’alpestre sasso»). È l’eco di un celebre snodo sintattico dei Sepolcri (vv. 283-284: «[…] e tutta narrerà la tomba / Ilio raso due volte e due risorto») ad agire in Sul campo della battaglia, vv. 63-67 (passo gravato da eccessiva indulgenza al macabro, di marca forse scapigliata): […] Il veterano tutta sapea di quelle tibie infrante l’epica istoria, e ballottando i crani nella tremula man, tutta mi sciolse la leggenda dell’odio ch’ei ricanta per quattro marchi ed un bicchier di birra […].

Un luogo dei Sepolcri contiguo a questo (vv. 279-281: «[…] Un dì vedrete / mendico un cieco errar sotto le vostre / antichissime ombre […]») soggiace anche a una figura sintattico-ritmica di Solitudine, vv. 59-60 («[…] il flutto / d’antichissimi pianti… // Ancor non era»), ripetuta dopo cinque versi: «Malinconico sogno. // O Chiaravalle» (aggettivo pentasillabico sdrucciolo + sostantivo bisillabo piano). Molto cara a Foscolo, si è detto, la figura ritmica dell’endecasillabo con accento ribattuto di 6a e 7a (spesso con sinalefe) che in queste poesie ha occorrenze numericamente cospicue e non meccaniche: ad esempio, nel più volte citato Sul campo della battaglia, il v. 58 («degli stinchi, inciampò lì sulla soglia») non è un bel verso, sicuramente. Se lo inseriamo nel contesto: Ella si strinse anche di più vicina al mio cor timorosa e mentre l’uscio del buio cimitero cigolava sui rauchi chiovi a palesar la ridda degli stinchi, inciampò lì sulla soglia, […]

non migliora certo, ma viene rilevata con maggiore agio la funzione quasi mimetica dell’accento ribattuto, che sembra “inciampare” anch’esso nel dop-

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4. la poesia “inquieta” di emilio de marchi

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pio ostacolo delle due parole contigue. Il ritmema si infittisce per lo più in coincidenza di luoghi di “elevazione” lirica; un solo esempio, i versi finali del Canto dell’ulivo: […] Noi per sempre caduti il lacrimar poco ristora, ma ne ravviva il pio pensier dei vivi, se dal nostro morir tranno argomento di futura giustizia. Anche la morte è un proceder avanti, è un mite sogno che rispecchia gli eventi ancor non nati, se dalle tombe sanno estrarre i vivi l’idea sepolta e dispiegarla al sole.

Il sole finale è quello che sempre «risplenderà sulle sciagure umane», il pio pensier dei vivi è – in veste molto più dimessa – la «corrispondenza di amorosi sensi». De Marchi, cioè, sembra aderire alla “religione” foscoliana della memoria, e in queste poesie lo fa in modo esclusivo: pur trattando quasi solo il tema della morte e dei morti, mai inserisce un accenno alla vita ultraterrena. La vita dei morti è solo nel ricordo dei vivi. E questo, nel religioso De Marchi, è un aspetto inquietante: lo strazio della madre che ha perduto il figlio in battaglia (Il canto dell’ulivo) è tutto umano, la sventura non è provvida, è solo sventura. Una convinzione resa in lui più forte e disperata dalla morte, avvenuta il 4 agosto 1897, dell’amatissima figlia quindicenne Cesarina; non lasciano dubbi né quanto scrive, il 14 ottobre dello stesso anno, ad Antonio Fogazzaro, colpito da un lutto analogo due anni prima («vorrei poter credere di più alla Legge che governa così male questi nostri casi. A volte mi pare che tutte le speranze mi sfuggano di sotto i piedi. Ella più forte di me mi deve insegnare come si esca da queste nere disperazioni»)95, né il verso conclusivo della poesia Il triste ritorno: «ché tutto è morto qui da ch’ella è morta»96. Sembra aver intuito tempestivamente questo aspetto particolare del De Marchi poeta Amalia Bianchi, che nella recensione delle Cadenze apparsa sull’«Idea liberale»97 ne coglie bene, pur con qualche eccesso interpretativo, il valore del dubbio: Non è inusitato tema fra i moderni poeti il rimpianto dell’antica fede. […] Nelle braccia del manzoniano la Fede da persona è divenuta fantasima: il brivido di una tale situazione è la originalità stessa della sua poesia. […] in lui […] il dubbio vi ha un gesto cristiano: 95 Cfr. Carteggio tra De Marchi e Fogazzaro, in Varietà e inediti, cit., tomo ii, p. 761. Anche in una lettera di poco posteriore (28 ottobre 1897), indirizzata a Paolina Schiff, De Marchi confessava di essere caduto da qualche tempo in una «grande oscurità di animo e di pensiero» (ivi, p. 790). 96 In una redazione manoscritta della poesia, qui subentra ad una precedente, e ancora più esplicita, lezione in me. 97 Vedi sopra, la nota 17.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

è umile, è mesto, è implorante, è rassegnato poiché si afferra ad un’ancora, all’emanazione diretta della fede: l’idea della virtù, del dovere, quest’ultimo pegno che la Divinità, allontanandosi pel cielo, ci ha lasciato di lei. Vecchie cadenze e nuove ha intitolato il De Marchi i suoi canti: il suo dubbio non è il vecchio dubbio ma è il dubbio dell’uomo vecchio… Ed è quasi cosa nuova, poiché l’uomo vecchio, il fervente, ha lungamente indugiato prima di confessare ch’egli dubitava, e quella confessione gli è uscita dolorosamente dalle labbra sincere. […] Il De Marchi canta con magnifiche note questa specie di socialismo cosmico per cui tutto che cade nell’al di là si fonde in una «vasta armonia» inafferrabile all’orecchio del querulo mortale.

È come se il poeta si affacciasse sull’orlo di un baratro, vedendolo lucidamente, con quieta disperazione, ma creandosi un pur fragile riparo nella religiosità tradizionale, quella secondo la quale “non si va in Paradiso in carrozza”. O meglio: è come se riservasse l’angoscia del dubbio a sé, appunto ai suoi “intimi sensi”, senza venir meno al dovere – tranquillizzante anche per lui – di dare al suo pubblico delle certezze, delle massime sicure sulle quali appoggiarsi: il pedagogo deve dare certezze, non dubbi. Il poeta può, anzi deve avere dubbi: De Marchi ne è convinto fin dal lontano 1877, quando, a proposito di Zanella, rilevava98 il ricorso continuo, incessante, di un dubbio che lo tormenta senza posa, in qualunque luogo, in qualunque momento. Senza il suo dubbio, lo Zanella, sarebbe forse un innaiuolo curvo e rassegnato sotto il giogo della Fede: ma il dubbio è fonte schietta di poesia, – il Leopardi ne fu il più grande testimonio, – esso lo rialza, gli dà in mano le armi, e lo spinge al combattimento. Perocché, se una fede intensa, come fra gli altri il Manzoni ha dimostrato col fatto, è feconda di quei concetti sublimi e di quelle immagini splendide e nuove che costituiscono l’originalità della poesia, d’altra parte è innegabile che la lotta impegnata in un’anima tra una credenza antica e saldamente fondata, e un dubbio in perpetuo risorgente, seconda quell’incendio che, se quella è anima d’artista, può riscaldare e dar vita a vera e duratura poesia.

E forse proprio qui va cercata la più profonda novità di alcune cadenze del poeta De Marchi, accostate alle vecchie e rassicuranti poesie dello zio Emilio.

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Cfr. Giacomo Zanella, cit., pp. 152-153.

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5. Fiori di lontano. Autori stranieri nelle antologie scolastiche di Giovanni Pascoli

Un filo sottile lega il gelsomino notturno ai fiori scolastici riuniti nei due ricchi bouquet pascoliani di Sul limitare e Fior da fiore. Gabriele Briganti, lo sposo dedicatario della celebre poesia, conosce Pascoli, da lui ammirato con fanciullesco entusiasmo, nell’estate del 1896 alla Biblioteca di Lucca, dove è stato assunto da poco: ecco il Pascoli […] venir diffilato a me e tendermi le mani e abbracciarmi. Io ero trasognato. – M’hanno detto che lei sa d’inglese. Ho tradotto l’Ulisse del Tennyson in esametri, nel metro cioè dell’originale, ma di due versi non sono affatto tranquillo. Me li veda un po’ lei. – E me li mostrò. Poi continuò a parlarmi di letteratura inglese: oltre che del Tennyson, di cui gustava la squisita cesellatura dell’arte impeccabile, dello Wordsworth […] di cui ammirava il profondo sentimento della natura; e sopra tutto dello Shelley […]. Poi mi accennò a una antologia, cui stava pensando, un’antologia ove avrebbero dovuto trovar posto anche poeti stranieri fra i più significativi; ma principalmente poeti inglesi del secolo scorso, che gli sembravano i più vicini al suo sentimento. E volle che gli promettessi di aiutarlo1.

Già in una lettera a Severino Ferrari del novembre 1887, che si configura come una sorta di “piano di studi”2, Pascoli aveva espresso l’intenzione di compilare un’antologia scolastica: 1 Cfr. Gabriele Briganti, Testimonianze e valutazioni pascoliane, in Giovanni Pascoli, a cura di Jolanda De Blasi, Firenze, Sansoni, 1937, p. 180. Una ricca scheda biobibliografica di Giovanni Gabbriello (Gabriele) Briganti (1874-1945) è compilata da Felice Del Beccaro nel Dizionario Biografico degli Italiani (Roma, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, vol. xiv, 1972); e si veda anche Giovanni Pascoli – Adolfo De Bosis, Carteggio, a cura di Maria Linda Ghelli, Firenze, la Nuova Italia, 1998, p. 104, n. 5. 2 Cfr. Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli. Memorie curate e integrate da Augusto Vicinelli, Milano, Mondadori, 1961, pp. 280-281.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

voglio fare un libro – in prosa – i diritti e i doveri del cittadino Libro di lettura per le scuole secondarie inferiori e specialmente per le scuole tecniche Sarà un libro di prosa varia e calda e severa; con molti racconti, con estratti – fatti col bout des doigts – da Platone, da Dante, da Shakespeare, da Omero, da Virgilio, da Victor Hugo, con grande unità di stile, con molta pulizia di lingua, con immenso sentimento d’italianità, con fiera e virile tendenza. […] Ho bisogno di libri, de’ quali molti non saprei indicare nemmeno; libricciuoli di testo, libretti di morale poetica, raccontini etc. etc. Ti pare? Per esempio, dove si tratta del rispetto alle leggi, anche che non vi piacciano, anche ingiuste, io darei in forma cristallina il Critone, brevissimo: un componimento. Le crapaud di Victor Hugo, lo immagini ridotto a prosa nitida e corretta, senza strampalerie? E così via dicendo. Voglio fare un’opera d’arte. Le parti di ragionamento, un qualcosa a imitazione dei Pensieri di Leopardi, di Pascal, etc. etc. Eh? Il tutto dovrebbe essere un tesoro di modelli di componimenti, che ora non si sa come farli nelle scuole. Trattati? romanzi? No, componimenti.

Qualche anno dopo, in una lettera del novembre 1894, Pascoli parla all’amico Gaspare Finali del progetto di «una antologia italiana»3: si tratta di Sul limitare, alla quale egli lavora nel 1898, dopo che, in gennaio, l’editore palermitano Remo Sandron gli ha affidato l’incarico di compilare una antologia «destinata alle Scuole secondarie inferiori (Prime tre classi del Ginnasio – Scuole Tecniche e complementari normali)»4. Le tappe della compilazione si possono in parte seguire grazie alle lettere al Briganti, instancabile fornitore di libri: il 19 agosto 1898 Pascoli gli chiede un’edizione della Chanson de Roland, i Canti greci e illirici di Tommaseo, la Légende des Siècles di Victor Hugo: «Ella mi raccolga, di grazia, sollecitamente qualche bel fiore esotico o semplicemente straniero – inglese, francese, tedesco – da tradursi o tradotto»5. L’aiuto del giovane bibliotecario è sollecito e prezioso: mi misi subito al lavoro per Lui, trascegliendo da poeti stranieri (inglesi e tedeschi) non solo ciò che piaceva più a me, ma ciò che a me pareva più conforme al suo spirito. Trascelsi e mandai il testo originale con la traduzione letterale e qualche volta anche con uno schema metrico. Da quella scelta egli a sua volta sceglieva con gusto meraviglioso fior da fiore, ritraducendo dagli originali, in versi, quando buone traduzioni poetiche non esi-

Ivi, p. 389. La lettera fa parte di un gruppo di 155 lettere inedite, inviate da Remo Sandron a Pascoli tra il 1898 e il 1912, conservato nell’Archivio di Casa Pascoli, a Castelvecchio. Questa e le citazioni che seguiranno dalle lettere sono condotte direttamente sugli originali. Le lettere di Pascoli a Sandron sono purtroppo andate perdute. 5 Cfr. Giovanni Pascoli, Lettere agli amici lucchesi, a cura di Felice Del Beccaro, Firenze, Le Monnier, 1960, p. 341. 3

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5. autori stranieri nelle antologie scolastiche di giovanni pascoli

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stessero già, e traduceva come sapeva tradur Lui, che era non solo il poeta che tutti sanno, ma anche un dotto (e non lo dava a vedere) di letterature straniere6.

Il lavoro prosegue fino al settembre 1899 (in una lettera del 14 settembre Sandron promette: «Fra un paio di giorni le manderò le copie di Sul limitare»), e il libro esce con data 19007. La seconda edizione accresciuta seguirà nel 1902 (la Nota per gl’insegnanti è datata «Messina, Maggio del 1899 e Novembre del 1901»); la terza edizione nel 1906, senza modifiche; il libro avrà una notevole fortuna, testimoniata dalle molte ristampe8. La prima edizione presenta 501 pezzi (divisi in ventisei sezioni)9, 23 dei quali provenienti da altre letterature: in tutto ottantuno autori, otto dei quali stranieri (9,7%). Ben dodici sono i canti scelti dai Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci raccolti da Tommaseo10: due nella sezione Eroi novelli (Il capo di Lazzaro; La morte di Craglievic Marco), sette nella sezione Tratti epici e storici (Una fanciulla spettatrice alla battaglia; La voce di sotterra; Il cavallo e il morente; I due corvi di Cossovo; La sepoltura; Parga; L’Olimpo) e tre nella sezione Pensieri e affetti (La morte; La madre di Caronte; Le memorie della morte). La sezione degli Eroi novelli comprende anche l’unico brano proveniente dalla Chanson de Roland (La morte del conte Orlando)11 e tre dei Chants populaires de la Bretagne12 (La schiera d’Artù; Il mago Merlino; La conversione di Merlino); un altro canto popolare bretone (Corvo il prigioniero bretone) entra nella sezione Tratti epici e storici. I tre Echi del mondo eroico sono echi rispettivamente dell’Iliade (i vv. 235-295 dei Sepolcri foscoliani: Elettra e Cassandra), dell’Odissea (l’Ulisse di Tennyson), del ciclo carolingio (Amerighetto di Hugo). Nella sezione Quadri e suoni entra un brano di Bernardin de Saint-Pierre (Gli esseri invisibili), mentre in Pensieri e affetti trovano posto due liriche di Cfr. Gabriele Briganti, Testimonianze e valutazioni pascoliane, cit., pp. 181-182. La Nota per gl’insegnanti è datata «Messina, Maggio del 1889 [ma 1899]». 8 Non mi soffermo sulla fortuna del libro, né su altri aspetti importanti, che ancora attendono in gran parte di essere studiati (e la stessa precisazione vale per Fior da fiore). In questa sede mi propongo solo di mettere a fuoco alcuni motivi di interesse legati alla presenza degli autori stranieri (ad esclusione naturalmente dei Vangeli e della letteratura classica) nelle due antologie italiane di Pascoli. 9 È prevalente l’ambito epico-eroico, poi – nell’ordine – morale pedagogico, esegetico, linguistico-letterario: cfr. Fortunato Tummolo, Le antologie italiane di Giovanni Pascoli. Tesi di laurea, Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1988-89 (relatore: Franco Gavazzeni), p. 224. 10 Cfr. Canti popolari toscani corsi illirici greci raccolti e illustrati da Niccolò Tommaseo, Venezia, Tip. Girolamo Tasso, 1842, voll. 4. 11 Le edizioni utilizzate sono quelle di Léon Gautier (Tours, Mame, 1872) e di Carl Bartsch, in Chrestomathie de l’ancien français (Leipzig, Vogel, 1866): così dichiara Pascoli nella Nota relativa (Sul limitare, Milano-Palermo, Sandron, 1900, p. 96). Ma forse il solo testo di riferimento qui è il Bartsch: cfr. Riccardo Bentsik, Alle origini dell’epica pascoliana. Dalla «Chanson de Roland», la traduzione della morte del conte Rolando, in «Rivista pascoliana», 5, 1993, p. 20, n. 49. 12 I Barzaz-Breiz. Chants populaires de la Bretagne editi dal visconte Théodore-Claude-Henri Hersart de la Villemarqué furono stampati a Parigi nel 1839 da ben tre diversi editori, e poi riediti più volte (nel 1893 uscì la nona edizione); dopo la terza edizione però (1845) ne fu messa in dubbio l’autenticità, e molti di questi canti risultarono manipolati o addirittura inventati: cfr. Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, a cura di Cesare Garboli, Milano, Mondadori, 2002, t. ii, pp. 152-153. 6

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Goethe, nella traduzione di Antonio Zardo (Bonaccia e La canzone di Mignon), e una di Shelley (Il tempo che fu). L’inserimento di brani stranieri in un’antologia scolastica è una novità, anche se non assoluta: di un’appendice di traduzioni aveva corredato, nel 1889, la sua Antologia di prose e poesie classiche e moderne, compilata secondo i più recenti programmi, ad uso delle scuole secondarie e specialmente della quarta e quinta ginnasiale13 Giuseppe Finzi, che a quell’altezza cronologica è «uno dei pochi sostenitori dell’utilità di gettare uno sguardo alle letterature straniere»14. Nel 1913, dunque in epoca successiva alle antologie pascoliane, Finzi compilerà una antologia per le scuole decisamente singolare e innovativa: Lyra nordica: capolavori della moderna poesia inglese e tedesca nelle migliori traduzioni italiane, con introduzione comparativa e notizie per le scuole medie superiori e le colte persone15. Ancor più pionieristico appare l’atteggiamento di Luigi Morandi, che aveva aperto una finestra sulle letterature straniere in ambito scolastico fin dal 1892, anno di pubblicazione dell’antologia ginnasiale da lui curata16. Così scriverà nel 1913, in apertura delle sue Letture educative facili e piacevoli proposte alle scuole17: Non è male che [gli alunni] comincino ad assaggiar qualche cosa delle letterature straniere, purché si tratti, sto per dire, di veri capolavori, grandi o piccoli, e di traduzioni, sto anche per dire, quasi perfette. Che l’idea non sia cattiva, lo proverebbe, non foss’altro, il fatto che quel lungo canto popolare boemo, ritoccato amorosamente dal povero Teza per la mia raccolta di Prose e Poesie, passò poi in moltissime delle raccolte pubblicate dal 1892 ad oggi18.

E nel 1904 lo stesso Morandi, insieme con Domenico Ciampoli, curerà due corposi volumi – di destinazione non specificamente scolastica – di Poeti stranieri lirici epici drammatici, scelti nelle versioni italiane, di raggio molto ampio19: nel primo, sono raccolti autori giapponesi, cinesi, indiani, persiani, ebraici, arabi, russi, polacchi, slavi meridionali, greci moderni, albanesi, rumeni, ungheresi; nel secondo, autori finlandesi, svedesi, norvegesi, 13 Torino, Loescher. La seconda edizione, ampliata, esce nel 1895 e nel 1900 segue la terza, ancora ampliata (Torino, Clausen). 14 Cfr. Lorenzo Cantatore, «Scelta, ordinata e annotata». L’antologia scolastica nel secondo Ottocento e il laboratorio Carducci-Brilli, Modena, Mucchi, 1999, p. 178, n. 66. La novità dell’inserimento di autori stranieri in Fior da fiore è messa in rilievo anche da Simonetta Simone, Giovanni Pascoli trasgressore del modello antologico carducciano, in «Letteratura italiana contemporanea», vii, 17, gennaio-aprile 1986, pp. 131-132. 15 Torino, Loescher. 16 Prose e poesie italiane scelte e annotate da Luigi Morandi per uso delle scuole ginnasiali tecniche e normali, Città di Castello, Lapi, 1892; nuova edizione con Appendice di poesie, ivi, 1895. 17 Città di Castello, Lapi, 1913, p. xii. 18 Tra queste raccolte va compresa anche la pascoliana Fior da fiore, come vedremo in seguito. 19 Leipzig, Raimund Gerhard (Deposito per l’Italia: Casa editrice Lapi, Città di Castello).

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danesi, inglesi, americani, olandesi, tedeschi, spagnoli, portoghesi, provenzali, francesi. Ma torniamo a Pascoli, per cercare di individuare innanzi tutto le ragioni della scelta degli autori stranieri antologizzati: emerge in primo luogo lo spazio notevole occupato dalla letteratura popolare, con recupero del folklore e delle sue radici etnolinguistiche20. In particolare, meriterà di essere indagata l’attenzione alla materia arturiana, proveniente – si badi – dalla fonte originaria bretone (non da quella consueta francese)21: la raccolta Barzaz Breiz. Chants populaires de la Bretagne, curata dal visconte de la Villemarqué, che ebbe una grande fortuna nella Francia dell’Ottocento, e venne paragonata addirittura (da George Sand) all’Iliade22. Pascoli ci presenta i quattro canti popolari bretoni nella sua traduzione, appositamente approntata, che non rispetta il metro originale (terzetti monorimi il primo; distici rimati di ottosillabi gli altri tre), ma mette alla prova la sua nota abilità sperimentatrice. In La schiera d’Artù i terzetti monorimi del testo originale sono resi – avverte lo stesso Pascoli – con «strofe in cui il decasillabo inizia un periodo, diremo, anapestico»: Il fanciullo diceva al guerriero, diceva a suo padre: «C’è nero sui monti! là tra la caligine scialba. Oh! cavalli e cavalli e cavalli che passano in vista alle valli, sui monti! che rignano al freddo dell’alba. Tre per tre, tre per tre: cavalieri che vanno su grigi corsieri! son mille le lancie, che brillano forte. Tre per tre, tre per tre, dietro nove bandiere; ed il vento le muove 20 Cfr. Carlo Ossola, «Testo» e «testo di legge»: la normativa antologica da Leopardi ad AA.VV., in Brano a brano. L’antologia d’italiano nella scuola media inferiore, a cura di Carlo Ossola, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 100: «È merito di Pascoli l’aver riproposto, con chiarezza, il problema del dialetto in rapporto all’insegnamento della lingua italiana: si trattava prima di tutto di recuperare le varietà e la ricchezza del nostro patrimonio linguistico […]; e difatti ispirati a questo criterio, di recupero del folklore e delle sue radici etnolinguistiche, sono in Fior da fiore i Canti di zingari, i Canti popolari greci e boemi, i Chants populaires de la Bretagne […]. E sebbene Pascoli stesso non abbia poi antologizzato brani interamente dialettali, né vi abbia fatto riferimento, è tuttavia importante che egli abbia messo l’accento sulla situazione reale dell’insegnamento dell’italiano, di una lingua ancora largamente toscana impartita a un popolo di dialettofoni». 21 Non è forse azzardato ipotizzare che in proposito abbia pesato la probabile simpatia del nazionalista Pascoli per le forti tendenze autonomistiche della Bretagna. 22 Vedi supra, n. 12.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale tra i mille: un vento che vien dalla morte! Tre per tre. Tra bandiera e bandiera c’è un gitto di fionda. È la schiera, la schiera d’Artù, d’Artù che cavalca sui monti!» - «S’è la schiera d’Artù qua saette! se quella che va per le vette de’ monti, è la schiera d’Artù, qua l’arco di frassino; e pronti!» - 23

Il ritmo anapestico è ininterrotto all’interno delle prime tre strofe, ciascuna composta da decasillabo anapestico (3ª, 6ª, 9ª) + novenario dattilico (2ª, 5ª, 8ª) + trisillabo + novenario dattilico. Nelle ultime due quartine si ha invece una variazione in terza sede: senario e novenario dattilico, rispettivamente; ma nel primo caso c’è, alla maniera di Pascoli, una misura “che non pare”: in «la schiera d’Artù, / d’Artù che cavalca sui monti» se non contiamo il primo d’Artù, considerandolo un’anticipazione del verso seguente, viene ricomposto il trisillabo; ma anche nell’altro caso («de’ monti, è la schiera d’Artù»), se considerassimo è la schiera d’Artù una ripresa del primo verso della quartina, avremmo la ricostituzione del trisillabo (de’ monti). Particolarmente forti, in questi versi, le suggestioni di liriche pascoliane già composte: per c’è nero sui monti è d’obbligo ricordare il celebre nero di nubi di L’assiuolo, v. 624; la caligine scialba riprende la nebbia impalpabile e scialba di Nebbia, v. 225; i vv. 5 (Oh! cavalli e cavalli e cavalli) e 16 (un vento che vien dalla morte!) rimandano a Scalpitio26, di cui questa traduzione condivide il ritmo anapestico e l’impiego del novenario dattilico e del ternario: Si sente un galoppo lontano (è la...?), che viene, che corre nel piano con tremula rapidità. […] Si sente un galoppo lontano 23 Cfr. Sul limitare, cit., pp. 100-101. In proposito si veda il saggio, interessante in genere per le traduzioni pascoliane, di Carla Chiummo, «La poesia senza più ritmo? La poesia in prosa?». Ritmo e traduzione tra ‘barbare’, ‘semiritmi’ e sperimentalismo pascoliano, in «Rivista pascoliana», 14, 2002, pp. 85-108. 24 La lirica fu pubblicata per la prima volta sul «Marzocco» del 3 gennaio 1897 e, nello stesso anno, entrò nella quarta edizione di Myricae. 25 Nebbia fu anticipata in «Flegrea» il 20 settembre 1899, poi inclusa nella prima edizione dei Canti di Castelvecchio (1903). 26 Nella anticipazione in rivista («Il Convito» del marzo 1896, con titolo La morte), precedente l’inserimento nella quarta edizione di Myricae, il v. 2 recava, esplicitamente: «(la Morte…?)». Cfr. Giovanni Pascoli, Myricae, a cura di Giuseppe Nava, Roma, Salerno, 1991, pp. 26-28.

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più forte, che viene, che corre nel piano: la Morte! la Morte! la Morte!

Negli altri tre pezzi “bretoni”, Pascoli rende il distico di ottosillabi in tre modi diversi: nella Conversione di Merlino con una coppia di endecasillabi dattilici (accento di 7ª) + nove quartine di doppi quinari a rima alterna, e nel Mago Merlino con novenari rimati alternativamente su 2ª, 5ª, 8ª e 3ª, 5ª, 8ª, e un gioco virtuosistico di rime: «Merlino, così mattiniero? dove vai col cane tuo nero?» iù iù u iù iù u «Qui l’ovo ricerco del drago; l’ovo rosso; in riva del lago; il vischio nel bosco, dal fonte; l’erba d’oro su per il monte.» «Merlino, convertiti! al monte lascia l’erba, il vischio sul fonte, E lascia sul greppo del lago l’ovo rosso, l’ovo di drago. Merlino! Merlino! Merlino! Dio è il mago, Dio l’indovino.» iù iù u iù iù u 27

I due distici a rima baciata incorniciano le due quartine, a loro volta legate dalle parole rima identiche, che nella seconda quartina seguono un ordine inverso rispetto alla prima (x1 x2 y1 y2; y2 y1 x2 x1). Quasi una formula magica, si direbbe, in linea con il senso del brano quale viene spiegato dalla Nota di Pascoli: Merlino va in cerca di oggetti per le sue fatture. L’ovo di serpente marino era un talismano di grande virtù. L’erba d’oro è una pianta medicinale, che brilla come oro e fa che chi la calpesta (secondo l’immaginazione dei contadini) intende il linguaggio de’ cani, de’ lupi e degli uccelli. È, mi pare, la nostra mandragola. Il vischio è la famosa pianta druidica. Merlino è accompagnato da un cane nero che ulula: iù, iù, u.

Il canto è lugubre: l’ululo del cane nero «si apparenta ai vari cu…cu, uuuh, chiù, tient’a su, tutti più o meno richiami che provengono da un altro mondo ed esortano a partirsi da questo (del resto l’iterazione Merlino! Merlino! Mer27

Cfr. Sul limitare, cit., p. 101.

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lino! appartiene, come ad esempio “Fate piano! piano! piano!” di C[anti di] C[astelvecchio], L’or di notte, al linguaggio dei morti)»28. Voci di morte si alzano anche in Corvo il prigioniero bretone (dove Corvo è traduzione di Bran, nome sia di guerriero che d’uccello): mentre «le anime dei morti nella patria cantano», l’anima di colui che è morto al di là del suo mare «non canta: geme»29. Una strofa di cinque versi (quattro novenari dattilici + un senario) è seguita da sei quartine (due novenari dattilici + due senari), ciascuna con una fitta trama di rime e parola rima finale di strofa mare. L’andamento è reso cantilenante da molte riprese sia lessicali che foniche, come ad esempio nella sesta strofa: il mare che lascia di bere le sabbie e le amare scogliere: risplende la luna nel mezzo del mare.

Se Pascoli è sempre attento a risolvere quello che per lui è il primo problema della traduzione, trovare la forma metrico-ritmica più aderente al testo originario, opta per una soluzione particolarmente felice nella versione dalla Chanson de Roland 30, dove il decasillabo epico è reso con un verso composto da due emistichi fortemente cesurati: quinario + settenario, ricostruibili in endecasillabo solo quando il primo emistichio è tronco o il secondo comincia per vocale: Qui sente Orlando che la morte gli è presso; ché gli esce fuor dalle orecchie il cervello. Dominedio per i suoi Pari prega, prega per sé l’angelo Gabriello.

Per i Canti popolari greci, Pascoli adotta la traduzione del Tommaseo, con la sola eccezione de I due corvi di Cossovo, ventisei versi che traduce personalmente. Riportiamo la seconda parte, e di seguito la corrispondente versione tommaseiana31: Donde siete qui venuti a volo? non dal vasto campo di Cossovo? 28 Così scrive Maurizio Perugi nell’edizione delle Opere di Pascoli da lui curata (Milano-Napoli, Ricciardi, 1980-’81, tomi 2), t. ii, p. 2124. 29 Così la Nota di Pascoli: cfr. Sul limitare, cit., pp. 195-196. 30 Comprende 140 versi divisi in nove lasse quantitativamente disuguali; in ciascuna tutti i versi sono legati da assonanza tonica. Cfr. Sul limitare, cit., pp. 96-100. Non mi soffermo in questa sede su questa importante traduzione, sulla quale si veda il recente saggio di Riccardo Bentsik, Alle origini dell’epica pascoliana…, cit. 31 Cfr. Canti popolari toscani corsi illirici greci, cit., vol. iv, pp. 116-117; cfr. Sul limitare, cit., pp. 202-203.

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Le vedeste le due forti schiere? le due schiere vennero alle mani? la cui schiera dite voi che vinca? E rispondono i due corvi neri: Oh! per Dio! sì, Mìliza regina, noi nel vasto campo di Cossovo le vedemmo le due schiere forti: le due schiere vennero alle mani: i due capi sono ambedue morti. E de’ Turchi non so che rimane, e de’ Serbi il poco che rimase, tutto è piaghe, tutto piaghe e sangue. Oh, al nome di Dio, neri corbi, donde siete stamane volati? Non forse dal piano di Cossovo? Vedeste i due forti eserciti? Si son eglin gli eserciti affrontati? Di chi l’esercito vince? – Or dicono i due neri corbi: Oh, al nome di Dio, Miliza regina, noi siamo stamane dal piano di Cossovo; abbiam visti i due forti eserciti: gli eserciti ieri s’affrontarono; ambedue sono i principi morti. De’ Turchi non so che rimane; e di Serbi quel po’ che rimase, tutto ferito ed in sangue. –

Pascoli impiega decasillabi con forte accento di 3ª (oltre che di 9ª) e accenti, più o meno marcati, di 1ª, 5ª, 7ª, quindi con ritmo prevalentemente trocaico; alla “regolarizzazione” ritmica data dal metro accompagna l’estensione al tessuto fonico dell’iterazione presente (in parte anche nel testo di Tommaseo) sul piano lessicale e sintagmatico. La sezione “epica” dell’antologia risente con particolare forza della «passione tragica per le tombe» caratteristica del Pascoli degli anni Novanta: Sul limitare «è, in cospicua parte, un vasto cimitero di sogni, e gli echi del mondo epico vi rintoccano come campane funebri: eroi morti o moribondi, morti re, eserciti di morti»32. Nella sezione Echi del mondo eroico, alla parte finale dei Sepolcri (Elettra e Cassandra) fanno seguito due traduzioni: Ulisse di Tennyson e Amerighetto di Victor Hugo (da La Légende des Siècles33; I, x, Aymerillot): in quest’ultima gli alessandrini dell’originale sono resi in endecasillabi, trattati «con una certa 32 Cfr. Stefania Martini, Da Carducci antologista a Pascoli antologista, in «Studi e problemi di critica testuale», 66, aprile 2003, p. 15. 33 Victor Hugo, La Légende des Siècles. Edition définitive d’après les manuscrits originaux, Paris, Hetzel, 1829-1887, voll. 4.

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epica monotonia» (così la Nota di Pascoli), raggruppati in lasse assonanti, che in verità sembrano per lo più adagiate «informi e monotone in un decorativismo del tutto esteriore»34. È un’impressione suggerita già dalla prima lassa: Re Carlomagno dalla barba bianca torna di Spagna. È triste in cuore: esclama dentro sé: “Roncisvalle! Roncisvalle! Gan traditore!” ché il nepote Orlando è morto là coi dodici suoi Pari. Ed ora il boscaiuol della montagna grave e sereno nella sua capanna è rientrato, con ai passi il cane: bacia la moglie in fronte, e dice: è fatto. Lava l’arco ed il corno alle fontane. S’imbianca al sole un infinito ossame35.

Molto più interessante appare la traduzione da Tennyson. Dell’ammirazione di Pascoli per Tennyson abbiamo molte prove: ad esempio, conversando nel 1894 con Ugo Ojetti36, Pascoli auspica l’avvento (in contrapposizione alla lirica carducciana) del «poemetto in forma epica […] di soggetto umile, spesso campestre», sottolineando che «esempi sommi recenti» di una poesia di questo tipo aveva dati il Tennyson, che aveva anche saputo «evitare ogni pastorelleria d’arcadia». Un anno prima, nel gennaio 1893, il «Corriere della Sera» aveva indetto – con l’intento di onorare la memoria di Tennyson, morto da poco – un concorso per una versione poetica di The silent voices che aveva avuto ben 717 partecipanti (vincitore era risultato Antonio Ghislanzoni): dato significativo per capire la grande fortuna di Tennyson in Italia in quegli anni37. L’ultimo viaggio dei Conviviali è, all’altezza della traduzione dell’Ulisse del Tennyson, di là da venire, ma certo a Pascoli doveva piacere molto questo Ulisse non grecamente astuto né eroe vincente ad ogni costo, ma «“umano”, armato a vincere il dolore della vita e “la battaglia della vita”, in una speranza platonica di sopravvivenza ultra-terrena, adempiuto il dovere di “procedere oltre”, di non cedere mai». È dunque un Ulisse «moderno e dantesco insieme, quale il Pascoli stesso ricordò nelle note alla seconda edizione dei Conviviali, assai più che non sia l’Ulisse […] sostanzialmente impoetico di Arturo Graf»38. La versione viene lavorata su una traccia del Briganti, anche se non dob34

p. 222.

Cfr. Gianfranco Chiodaroli, Il Pascoli traduttore, in «Acme», vi, 2, maggio-agosto 1953,

Cfr. Sul limitare, cit., p. 429. Cfr. Ugo Ojetti, Alla scoperta dei letterati, Firenze, Le Monnier, 1946, p. 195. 37 Cfr. Piero Treves, nell’edizione da lui commentata di Giovanni Pascoli, L’opera poetica, Firenze, Alinari, 1980, p. 658. 38 Ivi, p. 659. Il poemetto (508 endecasillabi sciolti) di Graf L’ultimo viaggio di Ulisse appartiene alla raccolta Le Danaidi del 1897 (poi in Le poesie, Torino, Chiantore, 1922, pp. 411-431). 35

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biamo sottovalutare la competenza pascoliana, dissimulata ma ben presente: è una traduzione in esametri, metro del quale Pascoli sperimenta qui tutte le articolazioni e le possibilità, dando ad esso una struttura e un intreccio affatto ignoti alle versioni da Omero39. Nella Nota premessa ai versi di Tennyson scrive: Non certo il grande poeta inglese avrebbe approvato i miei esametri, egli che chiamava barbarous simili esametri e simili sperimenti. Tuttavia l’italiano non è inglese; e non è da tacere che anche in inglese sono belli esametri, per esempio, di Longfellow40.

Il dato più evidente nel metro della versione pascoliana è la relativa frequenza dei cosiddetti spondei, che può determinare un tono fortemente cantato, come in questo verso: «nome acquistai, che sempre errando con avido cuore»41. Ma è forse possibile una lettura più sottile, sulla scorta di una riflessione teorica pascoliana, che sarebbe seguita di lì a pochi anni: Un difetto della lingua italiana è quello di spostare troppo gli accenti sulle terminazioni e di far sparire dal nostro orecchio quello che è più vero e vitale: la radicale. Si raccomanda all’oratore di picchiare forte sulle terminazioni altrimenti l’uditorio non capisce. – Invece, sui radicali si dovrebbe consigliare di battere: più si scorcia l’accento e il mezzo accento, del radicale, più si sente, e meglio, il radicale […] Più sono brevi le parole, anche in italiano, meglio sono adatte ai fini dello scrittore, danno più rapida l’impressione, poi, l’accento è quasi sempre sulla radicale. – E questo potrebbe essere oggetto di studio, quando leggono uno scrittore. I versi più belli (di qualsiasi misura essi si siano), per es. del Petrarca, insigne artefice di versi, sono quelli formati di parole di due o tutt’al più di tre sillabe42.

Ora: se leggiamo la traduzione dell’Ulisse di Tennyson, avvertiamo uno stacco tra i versi in cui Ulisse accenna a Telemaco – garante della vita “normale” a Itaca – e il lirismo dell’esortazione ai compagni; lo stacco è anche dato dalla percentuale relativamente alta, nei versi riguardanti Telemaco, di parole sillabicamente lunghe, quindi pesanti, mentre negli altri ci sono molte parole bisillabiche (con infittirsi di tramatura fonica), a suggerire quasi una mimesi fonica della dicotomia tra realtà e ideale, del tutto estranea al testo inglese43: Ecco mio figlio, Telemaco mio, cui ed isola e scettro Cfr. Gianfranco Chiodaroli, Il Pascoli traduttore, cit., p. 219. Cfr. Sul limitare, cit., pp. 427-429. 41 Cfr. Gianfranco Chiodaroli, Il Pascoli traduttore, cit., pp. 219-220. 42 Cfr. la terza lezione per gli studenti bolognesi del primo corso pedagogico per maestri (anno scolastico 1905-06), non ancora edita integralmente. Questa citazione è tratta dal brano pubblicato da Cesare Garboli, in Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, cit., t. ii, pp. 130-131. 43 Come è evidente già nei versi iniziali del brano: «This is my son, mine own Telemachus, / to whom I leave the sceptre and the isle - / well-loved of me, discerning to fulfil / this labour, by slow prudence to make mild / a rugged people, and thro’ soft degrees / subdue them to the useful and the good». 39

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale lascio; che molto io amo; che sa quest’opera, accorto, compiere: mansuefare una gente selvatica, adagio, dolce, e così via via sottometterla all’utile e al bene. Irreprensibile egli è, ben fermo nel mezzo ai doveri, poi, che non mai mancherà nelle tenere usanze, e nel dare il convenevole culto agli dei della nostra famiglia, quando non sia qui io: il suo compito e’ compie; io, il mio. Eccolo il porto, laggiù: nel vascello si gonfia la vela: ampio nell’oscurità si rammArica il mAre. Compagni, cuori ch’avete con me tollerato, penato, pensato, voi che accoglieste, ogni ora, con gaio ed uguale saluto tanto la folgore, quanto il sereno, che liberi cuori, libere fronti opponeste: oh! noi siam vecchi, compagni; pur la vecchiezza anch’ella ha il pregio, ha il compito: tutto chiude la Morte; ma può qualche opera compiersi prima d’uomini degna che già combatterono a prova coi Numi! Già da’ tuguri sui picchi le luci balenano: il lungo giorno dilegua, la luna insensibile monta; l’abisso geme e sussurra all’intorno le mille sue voci. Venite: tardi non è per coloro che cercano un mondo novello.

Veniamo ora alla sezione Pensieri e affetti, dove le due liriche di Goethe sono presentate nella versione di Antonio Zardo, traduttore dei Canti d’amore e poesie varie di Goethe44. I due testi goethiani scelti sono una ballata, La canzone di Mignon (titolo originale: Mignon), e uno dei Lieder, Bonaccia (titolo originale: Meeres Stille), rispettivamente del 1793 e del 1795. Si può qui accennare al problema della conoscenza del tedesco da parte di Pascoli, dai termini ancora non ben chiariti: il 2 dicembre 1879 il poeta chiede all’amico Severino Ferrari di procurargli «una grammatica tedesca e il Faust di Goethe e un vocabolario tedesco manuale»45, ma i buoni propositi di studiare la lingua vengono probabilmente presto accantonati, se Carducci, sei anni più tardi, può esprimersi così in una sua lettera allo stesso Severino: «Il Pascoli ha molto 44 Milano, Hoepli, 1886. Una copia del volume, assente da Casa Pascoli, è conservata nella Biblioteca Governativa di Lucca, alla quale Pascoli – grazie anche alla mediazione di Briganti – faceva frequente ricorso per il reperimento dei libri che gli servivano. Il libro è favorevolmente recensito da Enrico Nencioni sulla «Nuova Antologia» del 16 settembre 1886 (pp. 197-213): «La traduzione poetica dello Zardo è fatta con amore; è abile e coscienziosa; e in complesso merita le lodi avute in Italia e in Germania. Spesso riesce allo Zardo di conciliare la scrupolosa interpretazione del testo con una notevole fluidità di strofa e di verso». Zardo era poi tornato sull’argomento, ritoccando anche la traduzione di alcune poesie (tra le quali queste due) nel saggio Canzoni ed amori di Volfango Goethe («Nuova Antologia», 1° aprile 1898, pp. 487-499). 45 Cfr. Mario Biagini, Il poeta solitario. Vita di Giovanni Pascoli, Milano, Mursia, 1963, p. 77. In una lettera del 17 febbraio 1872 (cfr. Giosuè Carducci, Lettere, vol. vii, Bologna, Zanichelli, 1941, pp. 104-105) Carducci aveva raccomandato al Chiarini l’antologia di Heinrich Kurz (Geschichte der deutschen Literatur, mit ausgewählten Stücken aus den Werken der vorzüglichsten Schriftsteller von Heinrich Kurz, Lipsia, Teubner, 1870); per il ruolo di Lenau in Carducci e Pascoli cfr. Guido Capovilla, Fra le carte di Castelvecchio. Studi pascoliani, Modena, Mucchi, 1989, p. 196.

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ingegno, moltissimo gusto, e arte anche di scrivere in latino. Quel che si può desiderare giustamente in lui è la cognizione della filologia germanica: egli non volle darsene mai pensiero e né anche studiare il tedesco…»46. In generale, dobbiamo tener presente che – come ricorda Nava47 – l’ambiente bolognese degli anni Settanta dell’Ottocento (gli anni della vita universitaria di Pascoli) era molto aperto alle letterature straniere, e la biblioteca di Carducci, che sicuramente Pascoli frequentava, era ricca di testi di autori stranieri. Inoltre, la rivista fiorentina «Vita Nuova» (1889-91) pubblicava ampie rassegne di poesia europea48. Fra gli autori di maggiore circolazione in Italia alla fine dell’Ottocento è certo Shelley, di cui Pascoli, in questa sezione, traduce Time long past, probabilmente dietro suggerimento di Gabriele Briganti. Scrive infatti Pascoli a Manara Valgimigli il 17 agosto 1898, mentre è nel pieno del lavoro relativo a Sul limitare49: «Se intanto hai trovato qualche cosa di bello o in versi o in prosa comunicamelo. Dì la stessa cosa al gentil Gabriele [Briganti]. Al quale dì pure che mi prepari allo stesso modo qualche poesia breve dello Shelley. Quella, l’ho tradotta, e ritmicamente è venuta bene. Solo è qua e là strozzata. Ma tradurre veramente non si può. Il meglio è cercare di rendere, anche più che il senso, la suggestione del testo». E, sempre al Valgimigli, il 31 agosto 1898: «prendi […] da Gabriele ciò che ti darà avvertendolo che dia l’indicazione anche dell’opera donde sono estratte le singole poesie. Anche di questa già tradotta dello Shelley non so nulla»50. Se quindi, come pare, era stato il Briganti a scegliere Time long past (1819), non avrebbe potuto fare una scelta più pascoliana, perché «mettere sotto il naso del Pascoli una breve poesia dove il rimpianto di un passato lontano somiglia alla veglia intorno al cadavere di un bambino era come invitare una lepre a correre»51: Like the ghost of a dear friend dead is Time long past. A tone which is now forever fled, a hope which is now forever past, a love so sweet it could not last, was Time long past. There were sweet dreams in the night 46

p. 276.

La lettera è del 26 novembre 1885. Cfr. Giosuè Carducci, Lettere, cit., vol. xv, 1953,

Nell’Introduzione alla sua edizione commentata di Myricae, cit., p. lxi. Cfr. Silvia Pegoraro, La passione dell’ascolto. Pascoli e i romantici inglesi, in «Rivista pascoliana», 4, 1992, pp. 61-92 (in particolare, p. 63). 49 Cfr. Giovanni Pascoli, Lettere a Manara Valgimigli (1898-1906), in Manara Valgimigli, Uomini e scrittori del mio tempo, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 254-255. 50 Ivi, p. 255. 51 Cfr. Cesare Garboli, in Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, cit., t. ii, p. 173. 47

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale of Time long past: and, was it sadness or delight, each day a shadow onward cast which made us wish it yet might last – that Time long past. There is regret, almost remorse, for Time long past. ‘Tis like a child’s beloved corse a father watches, till at last beauty is like remembrance, cast from Time long past.

Nella traduzione, Pascoli adotta strofe di novenari e senari dattilici su due rime (quella tronca in u ritorna in ogni strofa), nel tentativo di «conservare la mesta melodia dell’originale» (così la sua Nota)52: Lo spettro d’un morto che amai è il tempo che fu. La voce che più non udrai, la speme che non avrai più, l’amor che non spengesi mai fu il tempo che fu. Che sogni soavi, le sere del tempo che fu! Ma i dì, fosse duolo o piacere, gettavano un’ombra, che tu volevi vederlo cadere quel tempo che fu. Rimpianto e rimorso ci adombra quel tempo che fu: è un tuo morticino ch’all’ombra tu vegli… e ciò ch’ami ora più non è che il ricordo, che l’ombra del tempo che fu.

Il «pascolianissimo»53 morticino del v. 15 (child’s beloved corse) si collega al titolo definitivo di una myrica, composta probabilmente tra il 1894 e il ’95, pubblicata per la prima volta sul «Marzocco» del 2 febbraio 1896 con titolo Le scarpe

Cfr. Sul limitare, cit., p. 464. Così Maurizio Perugi, che riproduce e annota la versione in Giovanni Pascoli, Opere, cit., t. ii, pp. 2177-2179. 52

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d’avvio, e poi nella quarta edizione di Myricae col titolo attuale (Il morticino)54. Il rapporto si inverte (dalla traduzione alla propria poesia) per i due versi iniziali della seconda strofa («Che sogni soavi, le sere / del tempo che fu!»), che aggettano anche sintatticamente verso una celebre poesia dei Canti di Castelvecchio, La mia sera: v. 8 («Che pace, la sera!»), vv. 25-26 («Che voli di rondini intorno! / che gridi nell’aria serena!») e vv. 31-32 («Né io… e che voli, che gridi, / mia limpida sera!»)55. Ma è interessante soprattutto il ritornello quel tempo che fu, per vari motivi: l’inglese è that time long past, quindi non ha la cadenza lugubre della u finale, così amata da Pascoli, ad esempio nell’Assiuolo56, dove il chiù che chiude le strofette riproduce prima «una voce dai campi», poi un «singulto», e infine un «pianto di morte». A ricordare ossessivamente il tempo che fu è la pendola protagonista di una poesia pascoliana di datazione incerta (1898?) e non pubblicata dall’autore, Mai più… mai più… 57: La pendola batte nel cuor della casa. Ho l’anima invasa dal tempo che fu. La pendola batte ribatte: mai più… mai più… mai più… mai più… La pendola oscilla nel cuor della notte. Tra l’ombre interrotte chi viene? sei tu?… La pendola oscilla, tranquilla: mai più… mai più… mai più… mai più… Sei forse qualcuno che amai, che perdei? che torni? chi sei, che torni quassù? Un bacio! sol uno! sol uno! Cfr. Giovanni Pascoli, Myricae, a cura di Giuseppe Nava, cit., pp. 28-29. La mia sera fu composta nell’ottobre 1900: cfr. Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, a cura di Nadia Ebani, Firenze, La Nuova Italia, 2001, vol. ii, p. 903. 56 L’assiuolo venne pubblicata sul «Marzocco» del 3 gennaio 1897, e poi inserita nella quarta edizione di Myricae. 57 La pubblicò Maria Pascoli, prima nella raccolta Poesie varie, Milano, Mondadori, 1912, e poi, nello stesso anno, in Limpido rivo. Prose e poesie di Giovanni Pascoli presentate da Maria Pascoli ai figli giovinetti d’Italia, Bologna, Zanichelli, 1912, pp. 134-135. 54

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale mai più… mai più… mai più… mai più… Un bacio! nemmeno: vederti soltanto! sentire al tuo pianto che m’ami anche tu! udirtelo almeno! nemmeno! mai più… mai più… mai più… mai più…

Il ritornello è la riconoscibilissima traduzione di Nevermore, il refrain della più celebre poesia di Poe, The Raven (Il Corvo), “ridotta” da Pascoli in età giovanile, tra il 1877 e il ’7958; il titolo, non d’autore59, è Tenebre, e l’incipit Un tempo, a mezzanotte, era; mentr’io…: quattro strofe di otto versi (sette endecasillabi + un settenario finale: «è questo e nulla più» nelle strofe prima e terza, «qui non ha il nome più» nella seconda, «tenebre e nulla più» nella quarta)60. Il ritornello di Poe è ripreso da Pascoli, antifrasticamente, anche in uno dei Canti di Castelvecchio, Per sempre61, dove il refrain identico al titolo chiude ciascuna delle quattro strofette. Ma torniamo alla poesia Mai più…mai più, che fa parte di La Befana, un composito libretto che Pascoli lasciò incompiuto e definì «una specie di romanzetto campestre con prose e poesie, per ragazzi e grandi»62, al quale lavorò tra la fine del 1896 e l’epifania del 1902 (ma ne parlava ancora nel giugno 1905, manifestando all’editore Bemporad il proposito di concludere l’opera). La poesia, che i recenti editori datano al 1897-9863, probabilmente faceva parte di un progetto più ampio, comprensivo di testi di altri autori: Brehm, Esopo, Lessing, il Victor Hugo di Pierino64 (gli ultimi due, come vedremo, entreranno 58 Questa la datazione delle carte Schinetti, delle quali fa parte questa “riduzione” (cfr. Pio Schinetti, Pagine inedite di Giovanni Pascoli, in «Il Secolo XX», maggio 1912, pp. 377-392), edita da Guido Capovilla, La formazione letteraria del Pascoli a Bologna. i. Documenti e testi, Bologna, Clueb, 1988, p. 132 e inclusa in Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, a cura di Cesare Garboli, cit., t. i, pp. 350-351. 59 Il titolo fu assegnato dallo Schinetti, che intervenne anche con una integrazione al v. 2. Cfr. Guido Capovilla, La formazione letteraria del Pascoli a Bologna. i. Documenti e testi, cit., p. 132. 60 Anche nell’ultimo poemetto di Tennyson, La Principessa, troviamo, oltre al tema del canto degli uccelli, «la ripresa di un’espressione contenente un termine omofonico e semanticamente affine a Nevermore: ‘no more’» (cfr. Silvia Pegoraro, La passione dell’ascolto. Pascoli e i romantici inglesi, cit., p. 86). 61 Pubblicato sul «Marzocco» il 19 giugno 1898, poi nella prima edizione dei Canti. 62 Cfr. Giovanni Pascoli, Lettere alla gentile ignota [Emma Corcos], a cura di Claudio Marabini, Milano, Rizzoli, 1972, p. 125. 63 Cfr. Giovanni Pascoli, La Befana. Racconto inedito «per ragazzi e per grandi», a cura di Nadia Ebani, Verona, Grafiche Fiorini, 1989 e Giovanni Pascoli, La Befana e altri racconti, a cura di Giovanni Capecchi, Roma, Salerno, 1999 (in particolare pp. 108-112). 64 Cfr. le citate edizioni Ebani (pp. 43-44) e Capecchi (p. 20).

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in Fior da fiore). I dati cronologici suggeriscono, per l’iter del sintagma «tempo che fu», il passaggio dalla Befana a Shelley, cioè dall’inedito all’edito: ciò che più importa, comunque, è lo stretto legame fra i due testi, semantico e di atmosfera. Nella traduzione da Shelley, speme del v. 4 è un hapax nella poesia di Pascoli, forse trascinato qui dalla trama leopardiana sottesa alla seconda strofa: Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia la vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, un affetto mi preme […].

Ed è proprio al canto leopardiano A Silvia che Pascoli assegna il compito di chiudere questa sezione di Pensieri e affetti. Speme allittera con spettro, al verso iniziale, e spengesi del v. 5; ma il v. 5 è un punto fondamentale della “riduzione” pascoliana, perché presenta un importante errore di traduzione: a love so sweet it could not last (letteralmente: “un amore così dolce che non poteva durare”) è ben diverso da «l’amor che non spengesi mai»65; e pure i vv. 10-11 (letteralmente: “ogni giorno gettava avanti a sé un’ombra che ci faceva desiderare che quel tempo da molto trascorso potesse ancora durare”) sono capovolti semanticamente nella traduzione pascoliana. Possiamo parlare in modo generico di tensione verso il simbolo66, ma il primo caso è lampante: l’amore che non si spegne mai è quello che lega i vivi e i morti (ovvero, esattamente il nucleo fondante della poesia di Pascoli). Fra i testi leopardiani antologizzati in Sul limitare è presente anche L’infinito, che – nella sezione Quadri e suoni – segue immediatamente un brano finora certo non notissimo di Henri Bernardin de Saint-Pierre67, intitolato Gli esseri invisibili, che ha affinità sorprendenti con la pascoliana “poetica dell’infinitamente piccolo”: Per certo la natura non ha fatto nulla a caso né invano. Quando ella crea un luogo che può essere abitato, vi pone gli animali per abitarlo. Non si riguarda che lo spazio sia poco. […] Possiamo dunque credere, […] che vi siano animali al pascolo sopra le foglie delle pianticelle, come le mandre errano sulle nostre praterie, che si aggiacchino all’ombra dei Cfr. Gianfranco Chiodaroli, Il Pascoli traduttore, cit., p. 228. Ivi, p. 229. 67 L’abate francese (1737-1814) deve la sua fama soprattutto al romanzo breve Paul et Virginie (1787), ma è autore anche di libri in cui riprende con intenti didascalici le idee di Rousseau sulla natura. Il brano qui presentato è tradotto, con omissioni, da Ètude première. Immensité de la nature: plan de mon Ouvrage, in Ètudes de la nature […], Tome premier, Paris, Didot, 1784, pp. 8-12 (cfr. Maurizio Perugi, in Giovanni Pascoli, Opere, cit., t. ii, p. 2169). 65

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loro peluzzi impercettibili, e che si abbeverino alle loro glandule, che somigliano a sfere liquide, menomi soli d’oro e d’argento. Ciascuna parte dei fiori deve offrire alle bestiole che vi dimorano, vedute meravigliose che noi non ci figuriamo nemmeno. Le antère gialle degli stami sospese su quei filamenti bianchi, devono sembrare ai loro occhi tetti o porticati d’oro poggianti su colonne di materia più bella dell’avorio; le corolle raffigurano volte di rubini e di topazi, di grandezza smisurata; i ricettacoli del nettare sono fiumi di zucchero; le altre parti della fioritura dànno immagine di tazze, urne, baldacchini, cupole che l’architettura e l’oreficeria umane non hanno saputo ancora imitare.

Ai “fanciullini” delle scuole secondarie inferiori Pascoli si rivolge con l’altra sua antologia italiana, Fior da fiore68, per la quale nel novembre 1899 si accorda con lo stesso editore Sandron, intenzionato a pubblicarla entro il 1900. Il libro uscirà infatti ai primi di ottobre di quell’anno (anche se con data 1901)69, con il titolo caldeggiato dall’editore in luogo di quello inizialmente proposto da Pascoli, Libro o Ghirlanda di Matelda: «sarebbe semplicemente divino – scrive l’accorto Sandron il 6 luglio – ma avrebbe un solo guaio: di non essere capito da taluni e di far supporre un contenuto diverso dal vero». Sandron interviene anche, sempre con il buon senso dell’editore, a proposito di una poesia di Myricae inclusa nell’antologia, Nozze, facendo notare a Pascoli – in una lettera del 9 agosto – che la lirica presenta anche caratteri greci (ancora ignoti ai ragazzi dei primi tre anni del ginnasio), e chiedendo di mettere i corrispondenti latini (tiò tiò…toro toro…tix ecc.): Pascoli lo accontenterà, inserendo in nota la “translitterazione”70. L’antologia comprende 130 autori, dei quali 15 stranieri (11,5%), per un totale di 363 brani (di cui 53 stranieri). La presenza della letteratura non italiana è massiccia nella prima parte71, dedicata a favole e apologhi: non c’è il tradizionale Esopo, ma – con scelta originale – esponenti della narrativa favolistica tedesca settecentesca, Lessing (diciotto apologhi)72 e i Grimm (sei brevi novelle)73, tradotti dal francese74. Non mancano apologhi di tradizioni lontane, conosciuti probabilmente in traduzione francese: cinque di Loqman 68 Cfr. ovviamente, come dichiarato in epigrafe, Purg., xxviii, 40-41: «Una donna soletta che si gìa / cantando ed iscegliendo fior da fiore». 69 Nella copia conservata nella casa di Castelvecchio, la dedica a penna («Alla mia Mariù, nella vigilia del suo dì natalizio, con tanto affetto») è firmata «Giovanni» e datata «31 8bre 1900». 70 Per le successive edizioni, e manipolazioni, della seconda antologia italiana di Pascoli – anch’essa, come la prima, assai fortunata – cfr. Carlo Ossola, Brano a brano, cit., pp. 123-128 e Stefania Martini, Da Carducci antologista a Pascoli antologista, cit., p. 161, n. 119. 71 L’antologia non ha una divisione dichiarata in sezioni, che però è presente nella sostanza. 72 Cfr. Gotthold-Ephraim Lessing, Fables et Dissertations sur la nature de la fable, traduites de l’allemand par M. D’Antelmy, Paris, Vincent, 1764: un esemplare è presente a Castelvecchio, dove c’è pure, ma uscita dopo Fior da fiore, la traduzione delle Favole fatta da Adele Spampanato Tironi, con introduzione e commento di Vincenzo Spampanato, Portici, 1903 (Cfr. Maurizio Perugi, in Giovanni Pascoli, Opere, cit., t. ii, p. 2193). 73 Cfr. Contes choisis des frères GRIMM, traduits de l’allemand par Frédéric Baudry, Paris, Hachette, 1855. 74 Più che di traduzione, dovremmo però parlare di riduzione: più volte nelle note lo stesso Pascoli puntualizza che si tratta più propriamente di imitazioni o riduzioni.

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(Luqmān), definito «l’Esopo arabo»75 e due dello scrittore persiano Sàdy (Sa’dī, pseudonimo di Musharrif Od-din Muslih Od-din)76. Pascoli si comporta con particolare libertà nelle favolette di Lessing, dove quasi sempre protagonisti sono gli animali, cambiando talvolta la “morale” della favola, facendo parlare un lupo in esametri («È una libertà del ricoglitore fare il lupo così saputo»: Il lupo guerriero)77, soprattutto apponendo note di polemica poetica (che ai fanciullini in realtà non dovevano importare molto), come ad esempio in calce a L’asino e il cavallo, dove un asino sfida un cavallo da corsa e perde, adducendo a scusante il fastidio di una spina entratagli nel piede qualche mese prima. La Nota di Pascoli reca: Oh! quante volte m’è capitato di sentire di codeste scuse! E qualche ciuchino ho inteso dire: il mio componimento sarebbe stato il migliore di tutti; ma… la penna non dava. E ho inteso qualche ciuco maggiore dire: Belle forze essere come il Comparetti! Io… non ho studiato mica! E peggio, anche peggio, ho inteso: E sì, commuove quel tal poeta; belle forze! Io… non ho già avuta la fortuna d’aver le sue disgrazie!78

Nelle favole di Grimm, dove incontriamo un vecchio maltrattato, una vecchina sola, bambini orfani, Pascoli rispetta la trama, intervenendo invece a livello stilistico. Inserisce infatti iterazioni (assenti nel testo francese): «le mani tremavano tremavano» (Il nonno), «pensava e pensava […] viso pallido pallido» (La vecchia sola al mondo), «Cammina, cammina» (In paradiso); o caratterizzazioni quasi espressionistiche: «un ometto piccolo e frugolo, col naso a ronciglio» (Il calzolaio del villaggio)79. Linguisticamente molto interessante è Baicche e Maicche80, riduzione dal racconto dell’abate di Saint-Pierre che abbonda di termini “dell’uso toscano” (attestati dal Vocabolario di Pietro Fanfani81): «sbuzzando un pesce» (“sventrando”); «il pesce che aveva l’orecchino nel buzzo» (“ventre”); «si divisero buzzi e imbronciati» (“col broncio”); nudo bruco (“ignudo bruco” è detto chi è mal vestito, o a mala pena ha di che coprirsi); chiotto chiotto (“cheto cheto”). 75 Luqmān, personaggio leggendario dell’Arabia preislamica, compare nel Corano come un antico saggio ispirato da Dio, e questo ha favorito la trasformazione della sua figura in saggio favolista. Sotto il suo nome si conserva un gruppo di quarantuno favole (quasi tutte chiaramente derivate da Esopo) che risale al XIII secolo. Cfr. Fables de LOQMAN surnommé Le Sage, traduites de l’Arabe, et précédées d’une notice sur ce célèbre fabuliste, Paris, Humblot, 1803. 76 Il Gulistān (Roseto), la raccolta di brevi racconti didascalici alla quale è legata soprattutto la fama del letterato persiano (nato nel 1184 circa e morto, centenario, nel 1291), ebbe – in traduzione – varie edizioni in Francia nel Settecento e Ottocento; la prima versione italiana è opera di Gherardo De Vincentiis (Napoli, De Angelis, 1873). 77 Cfr. Fior da fiore, cit., p. 30. 78 Ibidem. 79 Cfr. Fior da fiore, cit., pp. 5, 7, 5, 45, rispettivamente. 80 Cfr. Fior da fiore, cit., pp. 11-14. 81 Firenze, Barbèra, 1863.

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Rigorosamente denotative sono le traduzioni dei cinque aforismi di Pascal accolti nell’antologia: ma qui il punto importante, sul quale si dovrà indagare, è quello relativo alle ragioni della scelta di Pascal, anche in relazione alla sua presenza nella cultura italiana del tempo. Probabilmente il Pascoli ne gradiva il lato che potremmo definire epicamente giansenistico. Ma Pascoli accoglie anche molte versioni di altri traduttori, non solo quando vi è costretto dall’ignoranza della lingua. Il canto popolare boemo intitolato L’orfana, presentato nella traduzione di Emilio Teza in distici di endecasillabi rimati, soddisfa due esigenze pascoliane: la predilezione per la poesia popolare e una sua peculiare propensione tematica («Du’ anni non avea la fanciulletta, / e le è morta la mamma ed è soletta ecc. ecc.»; entra in scena anche una matrigna cattiva). La versione proviene dal volumetto di Traduzioni del Teza edito nel 1888 e presente nella Biblioteca della casa di Castelvecchio82, e sarà coinvolta nella polemica che vedrà contrapposti Pascoli e Luigi Morandi, a proposito di presunti plagi operati da Pascoli nei confronti dell’antologia di Morandi Prose e poesie… del 189283. Tra i motivi del contendere, anche il canto popolare boemo, pubblicato dal Morandi con la seguente Nota: «Questo è fra i canti prediletti dalle popolane di Boemia; lo commentano e lodano le madri col pianto». Ed ecco la corrispondente Nota di Pascoli: È dei canti prediletti in Boemia. Le madri piangono nel cantarlo. E piangiamo anche noi. Sia lode al Teza (uno dei più alti spiriti d’Italia) d’avere aggiunto qualche cosa alla tenerezza che noi abbiamo per la mamma, o viva oppur morta. Che questo è l’ufizio della poesia vera: trovar de’ palpiti nuovi»84.

Al canto boemo, in Fior da fiore succede immediatamente una poesia del poeta e novellista austriaco ottocentesco Johann Nepomuk Vogl, Il riconoscimento, dove pure è centrale una figura di madre, che sola riconosce il figlio tornato molto cambiato dopo una lunga assenza. Uguale anche il metro: distici di endecasillabi rimati. La traduzione è di Ettore Toci85, curatore della Antologia delle antologie, libro di lettura per le scuole secondarie (Livorno, Giusti, 1897), 82 Cfr. Emilio Teza, Traduzioni. GOETHE, VOSS, GROTH, PUŠKIN, TENNYSON, LONGFELLOW, HEINE, PETÖFI, BURNS, Napoli-Milano-Pisa, Hoepli, 1888. L’orfana è alle pp. 157-160. 83 La causa civile conseguente sarà conclusa da una sentenza della Corte di appello di Roma sfavorevole al Morandi. Sulla vicenda, si veda Emilio Santini, «Fior da fiore» di G. Pascoli, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1962, vol. ii, pp. 261-262. 84 Cfr. Fior da fiore, cit., p. 62. 85 Ettore Toci (1843-1899) fu letterato e traduttore, professore e pro-sindaco di Livorno quando il Pascoli era consigliere comunale. Dell’affetto per Toci è eloquente testimonianza la Nota con cui Pascoli introduce la sua traduzione (Fior da fiore, p. 64), rivolgendosi direttamente all’amico: «O amato mio Toci, che per tanti anni mi fosti compagno e che hai lasciato da poco ogni compagnia e la vita, la vita così buona e savia e forte e modesta: io rileggo con le lagrime agli occhi codesta tua traduzione nella quale batte ancora il tuo santo cuore! Quando verrà chi raccolga ciò che di te sopravvive

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di cui a Castelvecchio è conservato un esemplare con molte tracce a matita, fra le quali un tratto verticale, a matita rossa, a p. 606, in corrispondenza dei primi quattro versi della poesia di Vogl86. Il riconoscimento, che nell’antologia di Toci è in ultima sede, verrà accolta anche dal Morandi nelle citate Poesie straniere del 1904. Toci è il traduttore anche di una delle tre liriche di Heine (Pace)87 accolte in Fior da fiore; le altre due (Crepuscolo, Domande) sono invece presentate nella versione di Giuseppe Chiarini88. Dello stesso Chiarini è la versione della poesia che suggella, non a caso, la raccolta: Il pianto dei fanciulli di Elizabeth Barrett Browning89, che con il tema – carissimo a Pascoli – del lavoro minorile chiude la parabola disegnata dall’antologia pascoliana. Scrive Pascoli nella Nota posta in calce all’Introduzione: Non ho voluto far distinzione di gruppi. Ho messo scritto dietro scritto senz’alcun ordine che paia. Ma l’ordine c’è. Il trovarlo può essere utile esercizio per le vostre menti. Voglio dirvi che ho cominciato con tre piccoli racconti che cambiarono il mondo90. E ho finito porgendovi, con la poesia della Browning, un esempio di ciò che può avere di virtù e forza l’arte dello scrivere e del poetare anche ai nostri giorni, anche di persone che non sono Gesù. Perché a quel Pianto dei fanciulli si deve l’abolizione in Inghilterra del lavoro de’ fanciulli nelle miniere91.

Sono molte ormai le conferme dell’impressione, estensibile anche a Fior da fiore, avuta da Manara Valgimigli di fronte a Sul limitare: «È un’antologia: cioè una raccolta di luoghi di altri scrittori e poeti. Così son tutte le antologie: così dovrebbe esser questa. Ma è Pascoli, è tutta Pascoli dalla prima pagina fino all’ultima; ogni scrittore vi diventa Pascoli». Quanto afferma Valgimigli è ancora più vero per i poeti tradotti da Pascoli: i due canti popolari greci presi dalla raccolta del Passow92; Breus, uno dei Canti e non morrà? Ma ahimè! Ho paura che nel frettoloso vivere d’oggidì sia più vero che mai quel brutto dettaggio: Chi muore, giace». 86 Cfr. Giovanni Pascoli, Opere, a cura di Maurizio Perugi, cit., t. ii, p. 2217. 87 Cfr. Volfango Goethe, Goetz di Berlichingen. E poesie varie di Enrico Heine e di altri autori stranieri, voltate in versi italiani da Ettore Toci, Livorno, Vigo, 1876. 88 Cfr. Enrico Heine, Poesie. Tradotte da Giuseppe Chiarini, Bologna, Zanichelli, 1894. Sia questo volume che il precedente (traduzioni di Toci) non sono presenti a Castelvecchio, ma si trovano entrambi a Bologna, nella Biblioteca di Casa Carducci (e questi esemplari, probabilmente, sono stati utilizzati da Pascoli). 89 Cfr. Giuseppe Chiarini, Traduzioni. BARRETT BROWNING, WORDSWORTH, HEINE, Livorno, Vigo, 1872. Un esemplare è conservato a Casa Carducci. 90 Sono le parabole del buon Samaritano, di Lazzaro e del figliuol prodigo, tratte dal Vangelo di Luca e tradotte dallo stesso Pascoli: cfr. Fior da fiore, cit., pp. 1-4. 91 Cfr. Fior da fiore, cit., p. xiv. 92 La figlia del re e Per il mondo, in Fior da fiore, cit., p. 14 e p. 58. Cfr. Tragoudia Romaïka. Popularia carmina Graeciae recentioris edidit Arnoldus Passow, Lipsiae, B.G. Teubneri, 1860, pp. 379-380 e 239-240. In una lettera a Carducci del 5 ottobre 1883, Pascoli lamenta la mancanza di libri al liceo di Matera: «Avrei bisogno dei canti popolari greci moderni raccolti dal Fauriel, e quelli del Passow» (cfr.

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popolari di Bretagna; tre brani di Hugo (sempre dalla Légende des siècles: Il rospo93, Pierino, La guerra civile); un lied di Eduard Bauernfeld (La camicina da morto); la ballata di Wordsworth Siamo sette. Il Lied di Bauernfeld94, che evidentemente all’epoca godeva di una certa fortuna in Italia95, era stato tradotto anche da Benedetto Prina96, ma con titolo La camicina funebre e testo più effuso rispetto a quello di Pascoli, il quale innanzi tutto trasforma la bimba morta in un bimbo: i primi due versi sono resi da Prina con «Morta è la bimba. Sola, soletta / piange la madre la notte e il dì», mentre in Pascoli recano «L’è morto il bimbo. La madre piange: / il giorno, piange; la notte, piange». Del resto, e non a caso, i numerosi infanti morti della poesia pascoliana sono tutti di sesso maschile97. Delle traduzioni da Hugo, la più interessante è quella di Petit Paul (Pierino), innanzi tutto da un punto di vista metrico: Pascoli la definisce «imitazione di G.P. che ha sperimentata, per rendere l’alessandrino magnifico del grande poeta francese, la strofa libera, a selva, del nostro grande Leopardi». Ma impressionante è soprattutto la ‘pascolizzazione’ del piccolo Pierino, seguito nelle prime parole («quel solitario balbettìo sommesso / che par la boschereccia d’un uccello») e nei primi passi, con una attenzione emotiva e linguistica tutta pascoliana: E fece il primo passo e fatto il primo, volle farne un altro… un altro… un altro… E via col capo avanti e con le braccia avanti trempellando, nuotando, vacillando tra le tremule mani del buon avo, che gli era intorno e gli diceva: - Vieni! op! non ti tengo più… là… là… là… bravo! […] Diceva il nonno al bimbo le più care, le meglio che sapesse, per farlo compitare: dicea: - Pierino core del mio core! e lui: - Pielino cole del mio cole!

Carteggi Carducci-Pascoli e Pascoli-D’Annunzio, a cura di Augusto Vicinelli, in Omaggio a Giovanni Pascoli nel centenario della nascita, Milano, Mondadori, 1955, p. 355). 93 Cui Pascoli aveva pensato già nel 1887: vedi supra, p. 122. 94 Eduard von Bauernfeld (1802-1890), viennese, è più noto come commediografo che come poeta. 95 La fortuna proseguì a lungo, se ancora nel 1930 il musicista pesarese Mezio Agostini la musicò per coro femminile a quattro voci (la partitura manoscritta è conservata presso la Biblioteca del Conservatorio di musica di Santa Cecilia, a Roma). 96 Cfr. Benedetto Prina, Poesie, Bergamo, Tip. Pagnoncelli, 1866 (volume presente in Casa Carducci). La traduzione del Prina entra anche nelle Poesie straniere raccolte da Morandi e Ciampoli (vol. ii, p. 401). 97 Non fa eccezione, perché non è più una bimba piccola, La figlia maggiore dei Canti di Castelvecchio.

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Li benediva il sole98.

Riportiamo, a maggiore evidenza di quanto detto, l’originale francese: Le grand-père n’avait pas d’accent assez tendre pour faire épeler l’ange attentif et charmé, Et pour dire: O mon doux petit Paul bien-aimé! […] - Prends garde, c’est de l’eau. Pas si loin. Pas si près. Vois, Paul, tu t’es mouillé les pieds. – Pas fait exprès. - Prends garde aux cailloux. – Oui, grand-père. – Va dans l’herbe. Et le ciel était pur, pacifique et superbe, et le soleil était splendide et triomphant au-dessus du vieillard baisant au front l’enfant.

L’imitazione (più che traduzione) in endecasillabi sciolti del celebre Crapaud vittorughiano è invece rilevante non tanto sul piano formale quanto su quello della poetica, per la nota “identificazione” del Pascoli col gramo rospo che sogna che chiude Il poeta solitario, nei Canti di Castelvecchio99. Se per Il passaggio della diga di Tennyson può andare benissimo la traduzione di Gaetano Negri100, per una poesia “pascoliana prima di Pascoli” come Siamo sette di Wordsworth, Pascoli si impegna personalmente. Scrive a Briganti il 18 luglio 1900: «Vorrei qualcuna di quelle poesie uso Siamo sette di Wordsworth, che ho tradotta tralasciando l’insulsa prima strofa. Qualche cosa di Longfellow»101. Di Longfellow nell’antologia non entrerà nulla, mentre Siamo sette è presentata appunto nella «traduzione alquanto libera di G.P. [che] ha (per dare un esempio di questa libertà) tralasciato la prima strofa» (così la Nota di Pascoli). La prima strofa è riportata nella traduzione di Isabella Anderton102: Un bambino semplice che sicuramente trae il respiro e sente la vita in ogni membro, che può egli sapere della morte?

A proposito della prima strofa omessa Pascoli scrive: «Al traduttore parve che codesta osservazione fosse bene lasciarla fare al lettore. In vero certi poeti

Cfr. Fior da fiore, cit., pp. 83-89. Per un riepilogo delle occorrenze del valore simbolico del rospo in Pascoli cfr. Stefania Martini, Da Carducci antologista a Pascoli antologista, cit., p. 152 e n. 90. 100 Su Gaetano Negri, scrittore e politico “moderato”, cfr. supra, p. 84, n. 4. 101 Cfr. Giovanni Pascoli, Lettere agli amici lucchesi, cit., p. 344. 102 Scrittrice inglese, amica di Pascoli, collaborò con lui nella traduzione (cfr. Giovanni Pascoli, Lettere agli amici lucchesi, cit., p. 347). 98

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(non dico il Wordsworth, che è dei sommi) vogliono dir troppo, come certi altri troppo poco». Riportiamo ora la traduzione pascoliana: Vidi una cara contadinella, ch’aveva ott’anni, come mi disse, bionda, ricciuta, bella, assai bella con le due grandi pupille fisse. Presso il cancello stava. Ed io: «Figlia, quanti tra bimbi, siete, e bimbette?» chiesi. Con atto di meraviglia, ella rispose: «Quanti, noi? Sette». «E dove sono? Di’, se ti pare» le dissi, ed ella mi disse: «Ma… noi siamo sette: due sono in mare: altri due sono nella città; altri due sono nel camposanto, il fratellino, la sorellina: in quella casa che c’è d’accanto, io sto con mamma, loro vicina». «Tu dici, o bimba, Due sono in mare, altri due sono nella città; e siete sette. Questo, mi pare, è un conto, bimba mia, che non va». «Sette tra bimbe» diceva in tanto «e maschi, siamo. Due son qui presso in un cantuccio del camposanto: nel camposanto, sotto il cipresso». «Ma tu ti movi, tu corri: è vero? Tu canti, ruzzi, hai fame, hai sete: se que’ due sono nel cimitero, cara bambina, cinque voi siete»103 […]

Molte e importanti le “innovazioni” di Pascoli: al v. 4, l’inglese «Her eyes were fair, and very fair» (letteralmente: “i suoi occhi erano belli, molto belli”) è reso da con le due grandi pupille fise (sintagma legato, nella memoria di ogni lettore, al v. 54 della Cavalla storna). Al v. 14, i denotativi «my sister and my brother» diventano il fratellino, la sorellina. Al v. 23, «in the church-yard» è tradotto con in un cantuccio del camposanto: cantuccio in Pascoli ha ben undici occorren103

Cfr. Fior da fiore, cit., pp. 125-127.

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5. autori stranieri nelle antologie scolastiche di giovanni pascoli

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ze104. Il v. 26, poi, è proprio reinventato: di fronte all’inglese «You run about, my little Maid, / your limbs they are alive» (“Tu corri troppo, bambina mia, con quelle tue gambette vispe”), Pascoli scrive tu canti, ruzzi, hai fame, hai sete. Il firmatissimo verbo ruzzare è presente anche, tra l’altro, in due poesie di Myricae, Galline (v. 10: «monelli ruzzano nei cartocci strepitosi») e Nel parco (v. 11: «ruzzano i monelli / del giardiniere»), e all’inizio del Fanciullino («dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro […] si sente un palpito solo»)105. Torniamo a considerare la prima strofa omessa: la vera ragione del rifiuto dei quattro versi iniziali sta nel diverso significato che a questa poesia danno l’autore Wordsworth e il traduttore Pascoli: per il primo, il tema è l’inconsapevolezza della morte da parte dei bambini, per il secondo la persistenza del legame familiare attraverso la morte. Le due antologie hanno successo e vanno presto esaurite. Il lavoro di preparazione della seconda edizione di Sul limitare e Fior da fiore procede quasi in parallelo nel 1901: «Il fior da fiore è quasi in fondo, e il sul limitare è cominciato» (lettera di Pascoli ad Alfredo Caselli, 18 maggio 1901)106. Sono accolti altri frammenti di letterature straniere, e le aggiunte sono ispirate a scelte anche molto alternative: in Fior da fiore, oltre a una lettera di Heine a Goethe, entrano diciotto Perle indiane e undici Canti di zingari. Delle “sentenze” indiane, undici sono tradotte («in mirabili strofe», annota Pascoli) da Michele Kerbaker107, sei da Paolo Emilio Pavolini108, una da Camillo Sapienza109. I Canti di zingari sono presentati nella traduzione di Paolo Emilio Pavolini, e formano una sorta di «piccolo dramma selvaggio» (così il Pascoli). In Sul limitare, l’unica inserzione relativa alle letterature straniere è un lungo brano (264 versi) tratto dal xli “runo” (canto in ottonari trocaici allitteranti) del Kalevala (“la terra di Kale”), poema nazionale finlandese edito per la prima volta nel 1835, ma composto da canti antichissimi110. La traduzione è di Paolo Emilio Pavolini, preceduta da una lunga Nota, che così si conclude: 104 Prima, la liz registra solo Buonarroti il Giovane, il Parini delle Rime di Ripano Eupilino, Alfieri (con una occorrenza ciascuno), e Praga con quattro occorrenze. 105 Ruzzare è, a pieno diritto, nel Glossario dei termini notevoli che Garboli pone in calce alla sua edizione delle Poesie e prose scelte pascoliane, cit., pp. 1769-1770. 106 Cfr. Giovanni Pascoli, Lettere ad Alfredo Caselli. Edizione integrale a cura di Felice Del Beccaro, Milano, Mondadori, 1968, p. 121. Nella copia della seconda edizione di Fior da fiore (uscita con data 1902) donata a Mariù, la dedica è datata «x luglio 1901». 107 Cfr. Collana di sentenze indiane, Napoli, Tip. Balleoniana, 1901. Questa traduzione è basata sulla seconda edizione delle Indische Sprüche, Pietroburgo, 1870-’73, 3 voll. (testo sanscrito con traduzione tedesca: cfr. Giovanni Pascoli, Opere, a cura di Maurizio Perugi, cit., t. ii, p. 2239); Michele Kerbaker (1835-1914) fu dal 1872 professore di sanscrito e linguistica all’Università di Napoli, e autore di molte versioni metriche di inni vedici (cfr. Maurizio Perugi, ibidem). Sui rapporti tra testi indiani e poesia pascoliana, cfr. le Note introduttive di Giuseppe Nava a Nebbia e Il ciocco, nell’edizione da lui curata dei Canti di Castelvecchio, cit., pp. 95-96 e 139-144. 108 Cfr. Paolo Emilio Pavolini, Mille sentenze indiane, Firenze, Sansoni, 1927. 109 Cfr. Camillo Sapienza, Piccole gemme. Sentenze e massime indiane, Sciacca, Barone, 1898. 110 Pascoli ne parla anche nella lunga Nota per gli alunni (p. xx della seconda edizione di Sul limitare, Milano-Palermo, Sandron, 1902).

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Questo, letteralmente tradotto, è il 41º runo, uno dei più belli. Väinämöinen, l’eterno mago e cantore, ha costruito un kantele (l’arpa finlandese) con le ossa di un luccio gigantesco. Su questo strumento da lui inventato egli suona, e gli effetti della sua musica incantevole sono descritti nei versi seguenti111.

Il cantore Väinämöinen compare anche nel primo capitolo del Fanciullino («Vecchio è l’aedo, e giovane la sua ode. Väinämöinen è antico, e nuovo il suo canto») e il poema finnico sarà tra gli argomenti trattati da Pascoli nel corso universitario sull’epica degli anni accademici 1909-1910-1911112. Mentre la versione di questo brano è letterale, sarà tutta in ottonari la versione dell’intero poema fatta dallo stesso Pavolini nel 1909, nel volume Kalevala. Poema nazionale finnico tradotto nel metro originale113, dedicato a Domenico Comparetti114. Questo è l’ottavo volume di una importante collana diretta da Pascoli per l’editore Sandron: la “Biblioteca dei Popoli”, nata nel 1902115 e conclusa nel 1922 (dopo la morte di Pascoli, nel 1912, fu diretta da Paolo Emilio Pavolini)116; la finalità della collana è così riassunta nel Catalogo generale del 1909: I poemi e gli altri monumenti letterari che sopravvivono immortali ai loro tempi, sono le vestigia che i popoli lasciano nella storia. Il raccoglierli e il divulgarli presso altri popoli, è quasi un rifare la storia del pensiero umano nelle sue più alte manifestazioni.

Ivi, p. 95. Ora pubblicato da Adriana Da Rin, Pascoli e la poesia epica. Un inedito corso universitario di Giovanni Pascoli. Premessa di Pier Vincenzo Mengaldo, Firenze, La Nuova Italia, 1992. 113 Scrive il traduttore nell’Introduzione: «Voltati in prosa letterale i cicli di Kullervo e di Lemminkäinen e il runo della Kantele [nota: Quest’ultimo fu accolto dall’amico Giovanni Pascoli nella sua antologia Sul limitare (Palermo, Sandron, 1902)] vidi con quanta frequenza, nel seguire il testo ad verbum, vi si mescolassero gli ottonari […]. Rifeci pertanto nel metro dell’originale quei sedici runot, e poi, a poco a poco, tutti gli altri» (p. xxiii). 114 Autore di uno studio fondamentale: Il Kalevala o la poesia tradizionale dei Finni. Studio storico critico sulle origini delle grandi epopee nazionali, Roma, Tipografia della R. Accademia dei Lincei, 1891. 115 In una lettera al De Carolis del 29 dicembre 1901, Pascoli descrive nel dettaglio quale emblema gli vorrebbe far disegnare per la collana (che coinciderà in effetti quasi perfettamente col “bozzetto” pascoliano): «un’Italia coi segni di Roma, col fascio dell’imperium […] avanti un terminus o un’herma, la quale ella tocca quasi senza accorgersene con un ramo d’ulivo che ha nella destra. L’Italia guarda curiosa e fissa oltre il termine, su cui sta un po’ china. Il concetto è dato da un verso che deve essere scritto in un nastro svolazzante, e piegato in modo da nascondere la parola armis. Il verso è hunc tanget armis visere gestiens. […] Dunque: l’Italia fatta una sotto gli auspizi di Roma, toccherà i confini di qualunque popolo (leggi: Hor. C. 3,52 e prima) […], non più però con l’armi, ma sempre perché vuole andare a vedere (visere), conoscere de visu quelle civiltà, s’intende, quelle letterature, quelle poesie etc. Se […] potessero avere luogo complicazioni di figure, ci starebbe bene, nel fondo, una sfinge, una piramide, una pagoda, un dolmen druidico etc. Sopra tutto nel fondo ci vuole il sole nascente nato a metà, che dardeggia i suoi raggi» (cfr. Giovanni Pascoli, Lettere a Adolfo De Carolis, a cura di Luigi Ferri, in «Nuova Antologia», febbraio 1963, pp. 193-194). 116 Qualche notizia sulla collana è reperibile in Rodolfo Tommasi, La Casa Sandron, la Storia, l’Europa. 1839-1997, Firenze, Sandron, 1997. E si veda anche Remo Sandron. Palermo. Catalogo storico 1873-1943, Firenze, Sandron, 1997, pp. 89-91. 111

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Fra i titoli ci sono novità assolute per l’Italia: una scelta dal poema indiano Mahābhārata (1902; traduzione di Pavolini), il dramma buddista Nagananda o il giubilo dei Serpenti (1904; traduzione di Francesco Cimmino), Il poema dei pellirosse (The Song of Hiawatha) di Henry Wadsworth Longfellow (1920; prima traduzione italiana di Elena Beccarini Crescenzi e prefazione di Pavolini), Foglie d’erba di Walt Whitman nella prima versione italiana, di grande importanza per la storia anche formale della lirica italiana, di Luigi Gamberale (1907). L’impresa, generosa e lungimirante, conferma la grande attenzione del Pascoli (non solo antologista) alla poesia e – più in generale – alla letteratura popolare anche straniera, ma è voluta soprattutto, con benemerita tenacia, dall’editore, il quale intende «far conoscere ciò che fu fin qui ignoto – sebbene un capolavoro», come scrive in una lettera a Pascoli del 18 novembre 1901, dove aggiunge: «A me questa Biblioteca piace molto perché non è dubbio che con essa si gioverà molto alla vera e soda cultura nazionale». La tenacia e l’abnegazione di Sandron non sono premiati da un adeguato esito finanziario, che anzi rimane – prevedibilmente – molto modesto. Una sua lettera a Pascoli del 24 dicembre 1902 testimonia un momento di sconforto – poi evidentemente superato – dopo l’uscita dei primi due volumi (il Mahābhārata curato da Pavolini e gli Acarnesi di Aristofane curati da Ettore Romagnoli): Tristi notizie devo invece darle della Biblioteca dei Popoli che non trovò nessun’eco di favore nel pubblico, sicché mi sento ben poco incoraggiato a proseguire, una volta adempiuti gli impegni assunti: tanto più che pare agli Autori che io li sfrutti, mentre del Maha¯bha¯rata ne avrò vendute, sì e no, 10 copie e degli Acarnesi due o tre. Di richieste gratis, però, ne ho avute centinaia.

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6. La disciplina della libertà nella metrica di Alcyone

Il sapiente mosaico della metrica di Alcyone è stato esplorato criticamente da più angolature, con esiti importanti e talora fondamentali1. Non mi avventurerò quindi in un profilo metrico complessivo della raccolta, proponendomi invece solo di esaminare alcune tessere, scelte tra quelle che più si collegano al D’Annunzio «rivoluzionario nella tradizione» – per riprendere la ben nota formula che Contini associa a Pascoli, ma nella quale, credo, anche D’Annunzio potrebbe riconoscersi2. 1.1. Prima tessera: i versi (e, in generale, i vocaboli) proparossitoni. Da tempo Mengaldo ha messo nel giusto rilievo la predilezione di D’Annunzio per le voci sdrucciole3, così come ha sottolineato l’«utilizzazione stilistica da parte di D’Annunzio di due o più sdruccioli vicini sull’asse non orizzontale ma verticale, in funzione cioè di elementi che creano o marcano un parallelismo in 1 Mi riferisco in particolare a Mario Pazzaglia, La strofe lunga di “Alcyone”, in Teoria e analisi metrica, Bologna, Pàtron, 1974, pp. 157-220; ai saggi dannunziani raccolti da Pier Vincenzo Mengaldo in La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano, Feltrinelli, 1975; a Franco Gavazzeni, Le sinopie di «Alcione», Milano-Napoli, Ricciardi, 1980. Largo spazio a D’Annunzio dedica Paolo Giovannetti, Metrica del verso libero italiano (1888-1916), Milano, Marcos y Marcos, 1994, pp. 67-112; particolarmente attenti alla metrica dannunziana sono i manuali di Francesco Bausi, Mario Martelli (La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze, Le Lettere, 1993, pp. 271-277) e di Antonio Pinchera (La metrica, Milano, Bruno Mondadori, 1999, passim). 2 Gianfranco Contini, Il linguaggio di Pascoli, ora in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, p. 227. Di «riformismo spinto», a proposito della strofe lunga, parla Pier Vincenzo Mengaldo, Questioni metriche novecentesche, ora in La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, p. 59. 3 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, cit., pp. 128-129: «l’uso flessibilissimo degli sdruccioli è uno degli ingredienti costitutivi della tecnica versificatoria dannunziana, in particolare dell’endecasillabo ritmato su due proparossitoni contigui, di cui il secondo per lo più in punta di verso: “incanti la lucèrtola verdògnola”[…]: dove la figura ritmica è continuamente impreziosita da echi fonici».

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

senso stretto», in modo che spesso la rispondenza fra due parole proparossitone collega «versi non uniti dalla rima, e per così dire la sostituisce»4. Ma si può aggiungere che, in Alcyone, spesso la rispondenza di due sdruccioli è anche rima perfetta: in particolare, lo è quasi sempre nelle forme chiuse e, sul versante opposto, nella strofe lunga, come se nel primo caso la non tradizionale cadenza proparossitona si sottoponesse alla disciplina della rima perfetta, e nel secondo la perfezione della rima introducesse un elemento di rigore nella libertà peraltro sorvegliatissima delle strofi lunghe. Vediamo qualche esempio: – in una ballata: Pace 2-3, emerocàllide : pallide; – in due saffiche rimate: Anniversario orfico 50-52, avéano : Océano; Il commiato 102-104, Atlàntidi : erimàntidi (e inoltre una rima ipermetra: 154-156, solitudini : drudi); – in un sonetto della Corona di Glauco, Nicarete 11-14, bùccoli : Massaciùccoli; assonanza e parziale consonanza troviamo inoltre in Melitta 10-13 (artefice : semplice) e Gorgo 9-12 (gàttice : màstice); – nelle quartine di endecasillabi a rima incrociata de La morte del cervo: 17-20 anitroccoli : zoccoli; 30-31 racimoli : cimoli; 37-40 bicipite : precipite; 53-56 desidero : videro; 74-75 sufolo : bufolo; 78-79 ricoveri : roveri; 157-160 minuscolo : inimitabile : labile : crepuscolo (tutta la quartina è sdrucciola, ma con perfetta rima incrociata); – nelle quartine di novenari a rima alterna di Undulna: 1-3 alcedine : salsedine; 26-28 sìlice : ìlice; 65-67 tibìcine : glìcine; 106-108 albèdine : alcèdine; 126-128 acònito : attonito; – nelle quartine di endecasillabi a rima incrociata dell’Otre: 42-43 papavero : parvero (la rima non è perfetta, ma c’è un gioco anagrammatico); 50-51 bevano : sollevano; 113-116 salici : italici; 158-159 acquatica : salvatica; 213-216 testudine : solitudine. Inoltre: ai vv. 126-127 compare la rima ipermetra falbo : àlbori (in enjambement con un’altra sdrucciola, umidi); ai vv. 282-283 la rima lascia il posto all’assonanza (tacito : pànico); ai vv. 246-247 l’assonanza è ipermetra (con ulteriore implicanza fonica): selCi : embriCe (il v. 247 libera sotto accento di sesta una seconda sdrucciola, anch’essa con e tonica: «E fuggì la lucertola dall’embrice»; cfr. «incanti la lucertola verdognola», Il fanciullo 37). Nelle strofi lunghe, le sdrucciole in punta di verso sono sempre in rima perfetta con un’altra sdrucciola posta alla fine di un verso contiguo: La pioggia nel pineto 108-113 (alvèoli : mallèoli), Le stirpi canore 27-33 (calici : salici, con ulteriore implicazione con narICI al v. 22), Albàsia 16-23-25 (giolito : insolito : crisòlito), Il novilunio 149-150 (cìano : fiorìano); al v. 56 de L’onda, iridi è legato da rima ricca a viridi, all’inizio del v. 5. 1.2. Lunghe sequenze di versi sdruccioli troviamo nei Ditirambi: nel primo (dove costituiscono il 39,5% del totale dei versi), si addensano nelle ultime due 4

Ivi, pp. 212-213.

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6. la disciplina della libertà nella metrica di «alcyone»

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strofe (una serie ininterrotta occupa i vv. 283-462, con l’unica eccezione del v. 312), comprensive anche di quattro versi terminanti con parola bisdrucciola: vv. 337 (vèrberano), 341 (svèntolano), 450 (liberano), 453 (palpitano): ed è significativo il fatto che vèrberano e svèntolano siano l’una un’aggiunta e l’altra una variante virtuosistica della precedente sdrucciola semplice ondeggiano5. Alla predilezione per lo sdrucciolo nella parte finale del Ditirambo corrisponde in quella iniziale l’insistenza sul ritmo anapestico-dattilico6: Ove sono i cavalli del Sole criniti di furia e di fiamma? Le code prolisse annodate con liste di porpora, l’ugne adorne di lampi su l’aride ariste? (vv. 1-7) Ove sono i cavalli del Sole disgiunti dal carro celeste? Ove le sferze sonanti, le redine lunghe sbandite, il tinnir dei metalli, il brillar delle madide groppe? (vv. 11-16) Ove la femmina bella coperta di loppe e di reste come d’ori e di gemme? Ove gli scherni, le risse, le nude coltella, il sangue che fuma e che bolle, il giovine ucciso che cade […] (vv. 18-24).

Forse soggiace la memoria ritmica degli “anapesti di marcia” caratterizzanti gli embatèria spartani, opportunamente ricordati da Pinchera a proposito dell’«affinità del ritmo novenario di Laus Vitae nella sua forma madre a quello 5 L’intervento correttorio sostituisce anche, nella stessa direzione, dilatasi a è (v. 378), pericolo a periglio (v. 390), rinverdiscasi a si rinverdisca (v. 409). Si rimanda, qui e d’ora in poi, per ogni riferimento a varianti, autografi e datazioni delle liriche di Alcyone, alla fondamentale edizione critica curata da Pietro Gibellini, Milano, Mondadori (Edizione Nazionale delle opere di Gabriele D’Annunzio, 7), 1988. Dello stesso Gibellini si veda anche il precedente Per la cronologia di “Alcyone”, in «Studi di filologia italiana», xxxiii (1975), pp. 393-424. 6 Tale ritmo è peraltro privilegiato lungo tutto il ditirambo: sono dattilici 39 ottonari (su 73), 65 novenari (su 101), 38 decasillabi (su 60).

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

dell’antico enoplio, nell’identica misura di nove sillabe»: affinità che trova una conferma nel Canto amebèo della guerra che chiude (in sette strofe) la parte xv della Laus, se si considera che «il ritmo dell’enoplio era tipico nelle danze guerriere, ed era dello stesso genere il ritmo degli embatèria spartani, che andavano col passo cadenzato dei cosiddetti ‘anapesti di marcia’»7. Anche se lo scalpitìo dei cavalli evoca uno scenario bellico, qui assente, comunque l’azione dei cavalli del Sole che calpestano le messi è connotata da violenza e ritmo frenetico; concorrono ad esprimere concitazione il frequente ricorso alla forma interrogativa e gli imperativi iterati (il verso Scalpita, scalpita ritorna sette volte: vv. 309, 317, 323, 351, 362, 421, 435). Un’ininterrotta sequenza dattilica interversale è impiegata a rendere il veloce galoppare di cavalli in Scalpitio di Pascoli; ed è artificio quasi costante del Pascoli latino «rendere la rapidità del moto mediante concitate sequenze dattiliche»8: uno dei poemetti latini, Sosii fratres bibliopolae (1899), ha alcune immagini molto simili, anche se concettualmente opposte9, a quelle presenti nel Ditirambo I, 23-26 («Ove sono il sangue che fuma e che bolle, / il giovine ucciso che cade / nelle sue biade / asperse del suo ricco sangue?»): Nos huic quo tellus tepet, huic nos quo mare tabet, demimus effuso gravius fervere cruori. […] […] lati fumantes sanguine campi: (vv. 176-177 e 186)10.

Sono tutti sdruccioli i 152 versi (endecasillabi e settenari alternati) del Ditirambo II11, con presenza parca, pur in una sequenza così lunga, della dieresi applicata ai nessi finali bivocalici al fine di ottenere “falsi sdruccioli”, vale a dire parole proparossitone per etimologia, in cui si riproduce la fonetica del latino, talvolta impropriamente12. La sdrucciola in coupe di verso è spesso accompagnata da un’altra situata entro il corpo dello stesso, così da intessere studiate trame foniche: cfr. i vv. 9 7 Cfr. Antonio Pinchera, Gabriele D’Annunzio, dal metro al ritmo (Prolegomeni ad “Alcyone”), nel volume collettivo Gabriele D’Annunzio. Un seminario di studio, Genova, Marietti, 1991, p. 120. 8 Cfr. Dante Nardo, La mimesi metrica del Pascoli latino, in «Metrica», i, 1978, p. 163. 9 «Di, facite ut saturare fimo, non sanguine, terram, / utque velint homines […]» (vv. 198-99). Cfr. Giovanni Pascoli, Poesie latine, cit., p. 128. 10 Ivi, p. 126. 11 Lo schema metrico verrà ripreso da D’Annunzio in due poesie della Chimera, Diana inerme e Il pomo; endecasillabi e settenari sdruccioli alternati, ma riuniti in strofe tetrastiche, costituiscono il metro della carducciana Ruit hora. 12 Ad esempio, foglie (dove la i non è più vocale come in latino, ma solo un segno diacritico): l’esempio è mutuato da Pinchera (Gabriele D’Annunzio…, cit., p. 123, n. 10), il quale accenna alla frequenza di voci sdrucciole improprie, di questo tipo, anche nel D’Annunzio maggiore, e rileva la errata prosodia dattilica di scaglie ai vv. 53 e 101 del Ditirambo II.

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(«MEmore sono della MEtamorfosi»), 21 («che per lotosi TRAmiti s’atTARdano»), 24 («TORtili per atTORcere»), 103 («geLIdi guizzi correre pei muscoLI»; o meno complesse ma comunque significative assonanze: terrIgEnA : effImErA (6-7), inestinguIbIlE : vIttImE : lImItE (35, 38, 40), asfOdElO : tOlsErO (128, 130), frIgIdI : lImpIdI (115, 119). L’addensarsi delle proparossitone assume qui una valenza semantica diversa rispetto al Ditirambo I: non più concitazione, movimento rapido e violento, ma immersione nell’elemento acqueo, così come accade in L’Alfeo di Maia, che mette in versi il bagno nelle mitiche acque narrato in un passo del taccuino iii13, e che presenta evidenti punti di contatto con il Ditirambo II, a partire dal v. 103 («gelidi guizzi correre pei muscoli»): Agili guizzavan nel gelo i muscoli all’impeto avverso resistendo; ma d’improvviso per tutta la carne un’azzurra fluidità mi ricorse e i muscoli furon su l’ossa come i fili dell’acqua turgidi contra le selci. E non più lottar volle il corpo a nuoto ma cedere tutto alla rapina sonora, ma essere quella rapina, ma perdere il limite umano, […] (viii, vv. 56-68).

Sempre ad un’immersione dinamica nella natura (di contro a quella “statica” di Meriggio, dal lentissimo ritmo ternario), non più nell’elemento acqueo ma in quello aereo, celeste, si lega la veloce cadenza sdrucciola nel Ditirambo IV, e precisamente nella sequenza che si estende dal v. 527 al v. 544, in corrispondenza della prima fase del volo di Icaro14. Lo sdrucciolo provoca, come sempre, una particolare attenzione ai valori timbrici: ad esempio, proprio Icaro, iterato ai vv. 543 e 544, è unito da ipogramma a spIRACOli del v. 540, a sua volta allitterante con splendere (v. 541) e fonicamente legato a vincOLI (v. 539). 13 Taccuino iii (1895), in Gabriele D’Annunzio, Taccuini, a cura di Enrica Bianchetti e Roberto Forcella, Milano, Mondadori, 1965, p. 55. 14 Acqua e aria, dunque; fuoco e terra sono forse anch’essi evocati – a ricomporre idealmente gli elementi fondamentali della natura (le quattro “radici” di Empedocle) – nel Ditirambo I, nella lunga sequenza di sdruccioli dove i cavalli del Sole «criniti di furia e di fiamma» calpestano le messi, frutto della terra. Inoltre, i cavalli del carro solare tornano alla fine del Ditirambo IV, dove il volo di Icaro trova il suo tragico epilogo nell’avvicinarsi al Sole e nel conseguente precipitare (seguendo una parabola che parte dalla terra, tocca l’aria del cielo, poi il fuoco del Sole e si conclude nell’acqua del mare).

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2.1. Rimaniamo in ambito ditirambico, dove disciplina e libertà convivono in modo emblematico: innanzi tutto, alla rigidità della uguale funzione strutturale si contrappone la difformità metrica, che va dalla quasi totale libertà del Ditirambo III (il primo in ordine di composizione: 20 luglio 1900) alla relativa regolarità del Ditirambo II. Come potrebbe sembrare assurdo cercare una tangenza metrica fra i ditirambi nietzschiani e quelli alcionii, così il ditirambo greco non parrebbe aver rappresentato per D’Annunzio una fonte metrica, se non per il solo Ditirambo III e, all’interno di questo, per due elementi abbastanza generici: la variabile e spesso notevole estensione sillabica dei versi, e la tripartizione, che potrebbe richiamare la partizione in strofe, antistrofe, epodo15. Ma l’assenza, all’origine, di un modello metrico greco mi pare inconfutabilmente dimostrata dal fatto che il Ditirambo III non nasce come ditirambo: nella minuta autografa, datata 20 luglio 1900, non ha titolo, mentre nella bella copia compare il titolo Inno all’Estate, corretto poi in L’Estate, che rimarrà nella pubblicazione in rivista («Il Marzocco», 16 giugno 1901). Lo spazio interstrofico tra i vv. 11 e 12 manca nella minuta autografa (dove però il v. 12 cade all’inizio di una nuova carta), quello tra i vv. 47 e 48 manca sia nella minuta autografa che nella bella copia che in rivista: vale a dire, il componimento era forse originariamente monostrofico, e comunque poi sicuramente diviso in due strofe (di 11 e 91 versi), cioè in ogni caso lontano dalla struttura strofe– antistrofe–epodo, che parrebbe quindi ricostruita “a posteriori”, dopo che D’Annunzio decise di dare a questo “inno all’estate” una veste e una funzione ditirambica, cioè nel luglio 1902: a questa data risale infatti l’indice autografo delle liriche di Alcyone testimoniato dal ms 421r-432v, dove la struttura del libro per la prima volta è fondata su cinque ditirambi16. Il vero e proprio tema bacchico, l’elogio del vino, assente dai quattro ditirambi realizzati, sarebbe stato probabilmente al centro del solo progettato Ditirambo V, che nell’indice citato compare con accanto l’annotazione «(Le uve – l’abondanza – le vigne cariche)»: il Ditirambo V «è indizio di un intento di protrarre il diario lirico di una stagione esemplare fin dentro le soglie dell’autunno; e forse [...] di modulare il ditirambo secondo accenti più propri, e dionisiaci»17. Solo a questa altezza, presumibilmente, D’Annunzio decide di rivolgere la sua attenzione alla tradizione ditirambica italiana, inaugurata dal Ditirambo all’uso dei Greci del Chiabrera (111 versi eterometrici, dal quaternario all’endecasillabo, divisi in

15 Nel 1896 era stato scoperto il papiro contenente i ditirambi di Bacchilide, pubblicati in Italia due anni più tardi: Le Odi e i Frammenti di BACCHILIDE, a cura di Nicola Festa, Firenze, Barbera, 1898. 16 Cfr. Franco Gavazzeni, Le sinopie di «Alcione», cit., pp. 82-86; e si vedano, nella citata edizione critica di Alcyone, in particolare le pp. 193-198 e 344-345. 17 Cfr. Piero Gibellini, Il volo di Icaro. Nuove carte di “Alcyone”, in «Quaderni del Vittoriale», 1, febbraio 1977, p. 22.

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strofe di diversa lunghezza)18, ricorrendo ai testi (i manuali davano ben poche informazioni su questa forma metrica), in particolare al rappresentante più cospicuo, il Bacco in Toscana di Francesco Redi19, che presenta tutte le caratteristiche metriche proprie del ditirambo: la forma astrofica, l’irregolare schema delle rime, la polimetria, l’iterazione dei versi sdruccioli. 2.2. Proprio nel Ditirambo I (datato “Kalende d’agosto 1902”, quindi scritto a ridosso dell’elenco sopra citato), D’Annunzio sembra concentrare tutte le connotazioni metriche del ditirambo italiano: dell’alta percentuale di versi sdruccioli si è detto sopra; i 470 versi sono eterometrici (dal quinario al decasillabo, con prevalenza di settenari e novenari: 24,2% e 21,4%, rispettivamente) e ripartiti in nove strofe disuguali (60, 39, 50, 26, 30, 44, 16, 112, 93 versi); le strofe non hanno schemi fissi o ricorrenti di rime, ma sono legate a due a due (tranne l’ultima) dalla rima secondo l’artificio delle coblas capcaudadas. E si possono aggiungere tessere lessicali e stilistiche: alla tradizione ditirambica il Ditirambo I si avvicina, oltre che per i crotali e i cimbali (vv. 268-269), elementi fondamentali dell’apparato bacchico, per le parole composte: cavi-sonori (269), scalze-succinte (271), possa-di-tori (273), per le quali Palmieri20 rimanda a Pindaro, ma che si rifanno forse più direttamente a Chiabrera e Redi: il Ditirambo all’uso de’ Greci annovera stuoladdensate (v. 3), curvaccigliata (7), corinfestatrice (9), spemallettatore (24), vitichiomato (26), cacciaffanni (36, 40), nubaddensatore (42), vinattingitrice (49), meladdolciti (65), uvamico (68), cetrarciero (79), spezzantenne (87), briglindorato (98), nubicalpestator (99); e il Bacco in Toscana, a sua volta: ebrifestosi (v. 339), capribarbicornìpede (554), egidarmato (649), infernifoca (651), chiomazzurre (726), leggiadribelluccia (871), oricrinite (915). Inoltre, il ricorso all’imperativo iterato è frequente nella tradizione ditirambica (cfr. ad esempio i vv. 311-314 del Bacco in Toscana: «dirompetelo, / sgretolatelo, / infragnetelo, / stritolatelo»), ma è anche uno degli elementi più vistosi della caccia, spesso avvicinata dai trattatisti al ditirambo. Dal Bacco in Toscana, infine, provengono immagini e vocaboli firmatissimi, giunti a D’Annunzio forse in primo luogo dalla mediazione vocabolaristica21, ma verosimilmente anche ritrovati sul testo: l’immagine del raggio di sole prigioniero dell’uva (vv. 15-18; cfr. L’oleandro 464), l’inguistare (v. 136; cfr. Feria d’agosto 44), e le parole-rima giolito : crisolito : solito (vv. 59, 60, 63; cfr. Albàsia 16, 23, 25, giolito : insolito : crisolito). 18 Cfr. Gabriello Chiabrera, Opera lirica, a cura di Andrea Donnini, Genova, res, 2005, vol. iv, pp. 150-153. 19 Di cui nel 1890 Gaetano Imbert aveva dato una riedizione accompagnata da un saggio sulla poesia ditirambica in Italia: Il “Bacco in Toscana” di Francesco Redi e la poesia ditirambica – con un’appendice di rime inedite del medesimo, Città di Castello, Lapi, 1890. La più recente edizione del Bacco in Toscana è stata curata da Carmine Chiodo (Roma, Bulzoni, 1996). 20 Nell’edizione da lui commentata dell’Alcyone, Bologna, Zanichelli, 1955, p. 84. 21 Cfr. Donatella Martinelli, Cristina Montagnani, Vocabolari e lessici speciali nell’elaborazione di “Alcione”, in «Quaderni del Vittoriale», 13, gennaio-febbraio 1979, pp. 32-33.

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2.3. Una volta concentrati tutti i marcatori metrici del ditirambo nel primo della serie, D’Annunzio si è probabilmente sentito libero di dare agli altri due, composti in seguito, una veste metrica più svincolata dalla tradizione del genere. Scritto verso la metà di agosto 1902, il Ditirambo II (endecasillabi e settenari sdruccioli alternati) consta di quattro strofe22, rispettivamente di 32, 76, 36 e 8 versi (la somma dei versi della prima, della terza e della quarta è 76, cioè numericamente pari alla seconda). Le strofe sono tra loro legate da un artificio simile a quello delle coblas capcaudadas: la prima si collega alla seconda per l’identità della vocale tonica di rendEtegli (v. 32, ultimo della strofa) e di vEspero (v. 33, primo della seconda strofa), la seconda alla terza e la terza alla quarta per l’identico legame tra uOmini e sOnito (vv. 108-109) e tra Elena ed Esule (vv. 144-145). Di endecasillabi e settenari (rispettivamente 499 e 151, per un totale di 650 versi), ma variamente alternati e perlopiù di terminazione piana, è composto anche il ben più tardo Ditirambo IV, datato nell’autografo 13 ottobre 1903, che conta otto strofe di varia misura (63, 36, 51, 19, 146, 83, 48, 200) + una quartina di endecasillabi dove il primo e ultimo verso sono legati dalla rima identica (con chiasmo: «[…] profondo / Mare […]» «[…] Mare profondo!»). Una ininterrotta sequenza di endecasillabi occupa i vv. 488-588; dei 151 settenari, 117 sono in rima baciata con l’endecasillabo precedente o seguente, 7 in rima alterna, sempre con un endecasillabo, 4 in rima baciata fra loro (32-33 e 34-35) e solo 23 si potrebbero definire irrelati, ma in accezione restrittiva (perché hanno comunque rapporti di assonanza o vari legami fonici con i versi vicini). Aggiungiamo nove casi di rima baciata fra endecasillabi, ed avremo chiaro il carattere molto relativo della libertà rimica di questo ditirambo23. Un altro elemento di regolarità è dato dalla frequenza del punto fermo, quasi sempre posto alla fine di un endecasillabo legato da rima baciata al settenario seguente: questo schema si ripete per ben 90 volte; in undici casi l’ordine si inverte (settenario+endecasillabo), in sei casi la coppia è endecasillabo+endecasillabo, in un caso settenario+settenario (qui, vv. 209-210, la rima è imperfetta: inconcussa : Augusta). 2.4. Vorrei tornare al Ditirambo III, che si configura metricamente come l’individuo più eccentrico di Alcyone24, per l’impiego dei versi lunghi: consta 22 In Bausi, Martelli (La metrica italiana, cit., p. 274) si ipotizza il «recupero di un metro epodico, ma anche della frottola volgare, la cui concitazione ed il cui obscurisme potevano forse apparire a D’Annunzio congeniali al carattere del ditirambo». 23 Per Bausi, Martelli (ibidem) il Ditirambo IV «adotta fedelmente il metro dell’idillio mariniano (endecasillabi e settenari liberamente rimati e serie di sciolti, talora continuatamente sdruccioli, riservati di solito al discorso diretto)». 24 Secondo Mengaldo, il Ditirambo III sarebbe anzi «l’unico testo veramente libero dell’Alcione» anche se «rimatissimo» (Considerazioni sulla metrica del primo Govoni (1903-1915), in La tradizione del Novecento. Nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987, p. 141, n. 4).

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di tre strofe, di 11, 36, 55 versi, per un totale di 102 versi (numero condiviso con l’Onda, cioè la lirica emblematica della libertà metrica della strofe lunga); le strofe sono eterometriche ed hanno un’alta percentuale di versi lunghi (39, pari al 38,2%), in relazione ai quali si è parlato di derivazione whitmaniana25 e di «forte cadenza accentuativa modellata sulla metrica “barbara”»26. È stato osservato anche che l’equivalenza dei versi lunghi (di 15, 16, perfino 17 sillabe) è data dal ricorrere costante di quattro accenti, eventualmente accompagnati da uno o due altri accenti secondari27. Esaminando più nel dettaglio i versi lunghi del Ditirambo III, emerge innanzi tutto una certa affinità con i versi lunghi di A Dante e Per la morte di Giovanni Segantini in Elettra28, che si presentano sintatticamente bipartiti o tripartiti e metricamente composti di versi coincidenti con membri sintattici. Qui la corrispondenza metro-sintassi è perfetta nella prima strofa e nei primi tre versi della seconda strofa, mentre comincia a sfaldarsi a partire dal v. 15, dopo il quale inizia una lunga serie di complementi oggetto e di infinitive rette da vedeva al v. 16 (e vedea al v. 22), legati da sottili rapporti di parallelismo o chiasmo: […] le frondi delle selve e i fusti delle navi, e la ragia colare, maturarsi nelle pine le chiuse mandorlette e la scaglia che le sigilla pender nel fulvo […] (vv. 17-19).

La terza strofa, collegata alla seconda dall’artificio delle coblas capcaudadas (ponente : ardente), ha costruzione analoga alla prima, in quanto fondata sul vocativo; il primo verso («O Estate, Estate ardente») rimanda all’incipit della poesia («O grande Estate, delizia grande tra l’alpe e il mare») e anche al primo verso della seconda strofa: «Ardevi col tuo piede le silenti erbe marine». Una perfetta circolarità strutturale è poi garantita dalla ripresa integrale o parziale dei vv. 1 e 3-4 («nuda le aeree membra che riga il tuo sangue d’oro / odorate di aliga di resina e di alloro») nei tre versi conclusivi: tra l’alpe e il mare, Eurialo De Michelis, Tutto D’Annunzio, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 263. Mario Pazzaglia, La strofe lunga di “Alcyone”, cit., p. 208, n. 57. Antonio Pinchera, L’influenza della metrica classica nella metrica italiana del Novecento, in «Quaderni urbinati di cultura classica», i, 1966, p. 120. Sul «metro dinamico e incalzante, coi suoi versi liberi dall’andamento logaedico e con le rime e assonanze sovente baciate» offre annotazioni interessanti Caliaro: «di stampo withmaniano appaiono le misure lunghe, mentre quelle brevi richiamano […] analoghi schemi metrici di Maeterlinck, Verhaeren e Régnier, ma anche il coro ditirambico, matrice della tragedia greca, forma lirico-musicale che, come ricorda Pinchera, ha secondo Nietzsche “il carattere della musica dionisiaca”» (Gabriele D’Annunzio, Alcyone, a cura di Piero Gibellini. Prefazione e note di Ilvano Caliaro, Torino, Einaudi, 1995, p. 256). 28 Entrambi i componimenti sono del 1899, quindi cronologicamente contigui al Ditirambo III. 25

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale nuda le fervide membra che riga il tuo sangue d’oro odorate di aliga di rèsina e di alloro!

Oltre che da una particolare attenzione ai rapporti parallelistici e chiastici, l’irregolarità numerico-sillabica è compensata da una tessitura timbrica calibratissima: i versi sono legati fra loro da rime, rime interne, assonanze, varie corrispondenze foniche. Sottili iuncturae sono individuabili, ad esempio, al v. 13 («sTrUggevi col Tuo respiro le piogge pellegrine») e al v. 18 («e la RAgia colARe, matuRARsi nelle pine»). Il suono chiaro della vocale a, spesso tonica, domina timbricamente la prima strofa: O grande Estate, delizia grande tra l’alpe e il mare, tra così candidi marmi ed acque così soavi (vv. 1-2) e nei fianchi del fauno, o Estate, e nel mio cantare, (v. 7) a miracol mostrare! (v. 11)

e torna nella seconda strofa, al v. 14 (identico al v. 2), al v. 18 («e la ragia colare, maturarsi nelle pine»), al v. 22 («vedea, le sabbie rigarsi come i palati cavi»), al v. 47 («tremolar come alti paschi al fiato di ponente») e anche nella terza strofa, al v. 49 («quanto t’amammo noi per t’assomigliare»). Per ben cinque volte il verso coincide con una sola parola, polisillabica: «amorosamente» (v. 24), «armoniosa, / melodiosa» (55-56), «libidinosa, / vertiginosa» (67-68). Si tratta di un artificio presente perlopiù nella strofe lunga, ma non solo: nel Ditirambo I troviamo impetuosamente (82), innumerevole (58, 299); L’ulivo si chiude con il verso «Onniveggente!»; Innanzi l’alba presenta al v. 2 infinito (: lito, v. 1) e al v. 24 luminosa (in rima con sposa, all’ultimo verso, quindi con perfetta circolarità); «Demogorgòne» è il v. 44 di Anniversario orfico, «castigatore» il v. 160 del Commiato. In Maia la coincidenza parola–verso si verifica dieci volte29, soprattutto con il ricorso ad avverbi (emblematico il più lungo, sette sillabe: dismisuratamente). Torna alla memoria Montale quando allude al «nostro pesante linguaggio polisillabico», e si consente con Mengaldo, che vede realizzata proprio in D’Annunzio l’«ultima incarnazione preziosa» dell’aspetto “polisillabico” della lingua poetica italiana30. i 114; ii 51, 114, 157; iii 214; xv 372; xvii 48, 867; xviii 297, 486. Cfr. Eugenio Montale, Intenzioni (Intervista immaginaria), in Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 567 e Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, cit., p. 80. 29

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Nella strofe lunga la parola isolata in un verso assume un altro valore, e sembra alludere, in prospettiva futura, al versicolo ungarettiano: le occorrenze sono 5631, delle quali 45 trisillabiche, addensate in particolare nella Pioggia nel pineto (lontane, divini, silvani, ignude ecc.) e nell’Onda e quasi tutte fonicamente ben incastonate, attraverso la rima, nei versi contigui; le sette sillabe sono toccate solo da Le ore marine 49, con un avverbio anch’esso in certo senso emblematico dell’artifex instancabile: «infaticabilmente». 3. Siamo ormai nel territorio della strofe lunga: poiché D’Annunzio «non fa che evocare la Natura come l’unico essere, la grande divinità che per essere cantata esige che l’uomo vi si identifichi», ne consegue che «la strofa lunga dell’Alcyone non è soltanto un abilissimo gioco di rispondenze musicali, ma muove piuttosto dall’esigenza dannunziana di rivelare l’inconsueto, segreto e mitico linguaggio della Natura», in una ricerca espressiva dagli eccezionali valori “superumani”32. La tecnica attraverso la quale l’autore tende alla realizzazione dell’ambizioso progetto è stata oggetto, come noto, di un fondamentale saggio di Mario Pazzaglia33, il quale innanzi tutto sottolinea il legame stretto della strofe lunga con la tradizione, anche se unito a una forte volontà sperimentale: al «rinnovamento del sistema di pausazione attraverso un contesto di misure avverso a ricorrenze e giaciture prevedibili», e ad «una nuova stilizzazione della pronuncia [...] mediante il rilievo attribuito alla parola singola» – che a Pazzaglia sembrano orientare la metrica della strofe lunga nella direzione del verso libero – si accompagnano d’altro canto l’«assunzione, di massima, del verso sillabico-accentuativo e del sistema strofico», così come l’«uso della rima quale correttivo dell’arbitrarietà mensurale e continuo richiamo omometrico»34. Talvolta D’Annunzio sembra giocare sull’opposizione tra brevità dei versi e lunghezza dei periodi sintattici che, soprattutto ricorrendo alla comparazione e all’enumerazione, possono dilatarsi fino a coincidere con un’intera strofa: si vedano, oltre alla prima e terza strofa delle Ore marine, la seconda e terza del Novilunio (nelle quali il periodo si estende dal secondo all’ultimo verso; il primo verso coincide con il vocativo «Novilunio di settembre!»), le due strofe di Intra du’ Arni e la prima di Vergilia anceps (nelle quali il periodo iniziato al primo verso si conclude al penultimo)35. 31 Intra du’ Arni 6, 13, 49; La pioggia nel pineto 7, 15, 21, 23, 25, 28, 35, 50, 54, 64, 82, 88, 96, 103, 105, 117, 119, 121, 124; Le stirpi canore 10, 17, 26; Vergilia anceps 9, 12, 19; Meriggio 71; Le madri 7; Albàsia 7, 23; L’Alpe sublime 7, 10, 49, 54, 56; L’ippocampo 3, 69; L’onda 2, 5, 36, 47, 49, 59, 70, 77, 89, 92; Le ore marine 4, 22, 49; Il novilunio 44, 56, 78, 172. 32 Cfr. Ugo Dotti, Osservazioni sulla «strofa alcyonica», in L’arte di Gabriele D’Annunzio. Atti del Convegno internazionale di studio. Venezia – Gardone Riviera – Pescara, 7-13 ottobre 1963, a cura di Emilio Mariano, Milano, Mondadori, 1968, pp. 185-187. 33 La strofe lunga di “Alcyone”, cit. 34 Ivi, p. 208. 35 Cfr. Vittorio Coletti, Storia dell’italiano letterario, Torino, Einaudi, 1993, p. 403: «D’An-

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L’insistente ricorso a parallelismi e iterazioni conferma l’attenzione dannunziana a fruire di tutte le possibilità offerte dalla tradizione piuttosto che a rompere i ponti con essa; in particolare, la volontà di «ripercorrere tutta la gamma del sillabismo tradizionale» è messa in rilievo dal fatto che i cola nei quali è suddiviso il periodo strofico «rispondono ai criteri tradizionali di misurazione sillabica e anche tonica, se si tiene presente la notevole libertà d’accenti del verso italiano: basta pensare al settenario, o anche all’endecasillabo, solo che si risalga dai canoni petrarchistici alla modulazione assai più libera delle Origini»36. Anche la contiguità di versi di diversa struttura ritmica appare meno ‘rivoluzionaria’ alla luce dell’anisosillabismo37, e inoltre la strofe lunga sembra avere alcuni punti di contatto con il discordo38, genere metrico in cui – ricordiamo – ciascuna delle strofe ha simmetrie interne ma non esterne: ogni strofa ha cioè una propria struttura, variabile per numero, misura e disposizione dei versi (per lo più brevi) e per struttura rimica (frequenti le rime interne). Si aggiunga che, secondo Contini, la «struttura metrica (e in origine anche melodica) asimmetrica» del discordo vuole rispecchiare il «turbamento indotto nell’animo dell’amante»39, e che la strofe lunga è presente quasi esclusivamente nella seconda sezione di Alcyone, la più libera, nella quale – come noto – la ‘natura’ prevale sulla ‘cultura’. Va detto anche che la conoscenza del discordo da parte di D’Annunzio pare indiscutibile, dal momento che il primo fascicolo della Crestomazia italiana dei primi secoli del Monaci40 contiene Dal core mi vene di Giacomo da Lentini e Donna, audite como del re Giovanni41; nelle Antiche rime volgari di D’Ancona e Comparetti42 si trovano, oltre ai due riportati anche dal Monaci, altri quattro discordi: Dela primavera (adespoto), nunzio mette a punto, insieme con la grande novità metrica della sua “strofe lunga”, una forma di complicazione sintattica di tipo allineativo ed enumerativo, che avrà largo successo nel Novecento. Si pensi nelle celebri Stirpi canore, alla sequenza aggettivo e complemento di paragone, ripetuta 14 volte […]. Ma soprattutto D’Annunzio è maestro nell’adeguare il ritmo sintattico all’esigenza di variatio ritmica, con continui cambiamenti dell’ordine soggetto-verbo-oggetto […]». 36 Cfr. Mario Pazzaglia, La strofe lunga di “Alcyone”, cit., pp. 218-219. 37 Per lo stretto rapporto fra anisosillabismo e strofe lunga cfr. Bausi, Martelli (La metrica italiana, cit., p. 272) e Giovannetti, convinto della «natura fondamentalmente anisosillabica della metrica libera delle Laudi» (Metrica del verso libero italiano, cit., p. 84). 38 Come suggerito già da Franco Gavazzeni, Le sinopie di «Alcione», cit., p. 8, n. 26. 39 Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, i, p. 68. 40 Città di Castello, Lapi, 1889. 41 Nel suo esemplare della Crestomazia, D’Annunzio evidenzia l’inizio di questo componimento con un segno ad angolo ottuso: cfr. Anna Ferrari, La lezione del Monaci e le Origini in D’Annunzio, in D’Annunzio a Roma. Atti del Convegno “D’Annunzio a Roma” (1989), Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1990, pp. 27-51 (in particolare p. 45); nello stesso volume, si veda anche, di argomento simile, Gabriella Di Paola, D’Annunzio e la poesia delle Origini. Alcuni esempi di citazione, contaminazione, rielaborazione, pp. 53-69. Sugli studi romanzi di D’Annunzio, risalenti agli anni delle Laudi e della Francesca e svoltisi all’ombra di Francesco Novati, cfr. ora Annamaria Andreoli, La scatola cinese. Il “vanto” della frutta in “Alcyone”, in D’Annunzio archivista. Le filologie di uno scrittore, Firenze, Olschki, 1996, pp. 69-116. 42 Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1875-1888, 5 voll.

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Donna, per vostro amore di Giacomino Pugliese, Quando veggio la rivera e Oi amadori intendete l’affanno di Bonagiunta da Lucca. La strofe lunga e il discordo condividono dunque, oltre alla compresenza di versi eterometrici, la preferenza per i versi brevi, la particolare fruizione della rima e il frequente ricorso alle iterazioni. Come nella strofe lunga così nel discordo le rime trovano per lo più rispondenza all’interno della strofa, e altissima è la frequenza di rime baciate e interne (spesso martellanti): possono rimare tra loro addirittura sette o otto versi di seguito43. L’esemplificazione relativa alle rime interne nella strofe lunga potrebbe essere, come è ovvio, molto vasta: prendendo come campione L’onda notiamo almeno i vv. 43 («spumeggia, biancheggia»), 44 («s’infiora, odora»: cfr. sonora al v. 42 e suora al v. 45), 54 («vi si mesce, s’accresce»), 66 («accorda, discorda»: cfr. sciaborda al v. 63). Tali rime, costituite da due membri simmetrici, rientrano nel tipo, frequente nell’Onda, di versi bipartiti i cui due membri simmetrici sono legati da rima, appunto, o assonanza oppure da paronomasia (55 «Di spruzzi, di sprazzi»), da identità foniche generalmente prefissali o iniziali di parola (24-25 «Ma il VENto riViENe / RIncalza, RIdonda»; 63 «SCIAcqua, SCIAborda»; e, a tre membri, 64 «SCroscia, SChiocca, SChianta») o da stretto legame semantico, in particolare antonimia (9 «S’argenta? s’oscura?»; 66 «accorda, discorda», dove l’antonimia si aggiunge alla rima; 73 «possente e molle») e sinonimia (12 «l’arme, la forza»; 43 «spumeggia, biancheggia»; 53 «l’assalta, la sormonta»). Effetti simili si riscontrano anche sul piano verticale, spesso in coppie o serie di versi a loro volta bipartiti (39-40 «Il vento la scavEZZA. / L’onda si spEZZA»; 71-73 «libera e beLLa, / numerosa e foLLe, / possente e moLLe»). Né il fenomeno è limitato all’Onda: ad esempio, l’antonimia quale legame fra i due membri simmetrici del verso è presente anche, tra l’altro, in Intra du’ Arni 11 (« va e torna »), La pioggia nel pineto 111 («or congiunti or disciolti»), Albàsia 33 («presso e lontano»), Il novilunio 24 («sì chiara che l’offusca»), 71 («non lieti non tristi»), 142 («non lieta non triste»), la sinonimia in Intra du’ Arni 14 («né si posa né si tace»), La pioggia nel pineto 75-76 («Più sordo e più fioco / s’allenta, si spegne»), L’Alpe sublime 13 («grande e solenne»; i vv. 14 e 15 sono pure bipartiti: «tra il Sagro e il Giovo, / tra la Pania e la Tambura»), 36 («non insania, non dolore»). Talvolta la simmetria dei due membri rasenta o raggiunge addi43 Come ad esempio in Dal core mi vene (vv. 108-114: «e benvolenza. / La vostra benvolenza / mi dona canoscienza / di servire a chi à senza / quella che più m’agienza, / e agio ritenienza per la troppa sovenenza»; vv. 141-148: «piango per usagio; giamai no’ rideragio / mentre non vederagio / lo vostro bel visagio: / rasgione agio, / ed altro non faragio / né poragio: / tal è lo mi’ coragio») o in Donna, audite como (vv. 70-76: «Per la fior dele contrate, / che tutte l’altre passate / di belleze e di bontate, / donzelle, or v’adornate; / tutte a Madona andate, / e merciede le chiamate / che di me agia pietate»). In Quando veggio la rivera molti versi hanno rime interne, perlopiù inoltre implicate in un’altra rima, baciata o alterna: si vedano ad esempio i vv. 13 («E l’amanza – del’usanza»), 15 («e gli aulori – c’ài de’ fiori»), 32-33 («A voi, donzelle / novelle - sì belle»), 37-38 («sete degli amanti, / e da tanti - donanti»), 52 e 54 («per l’altera - primavera», «e la spera - de la ciera»).

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rittura l’identità: cfr. Intra du’ Arni 47 («a sette a sette»), La pioggia nel pineto 39 («più rade, men rade»), 67 («a poco a poco»), 87 («più folta, men folta»), 94 e 115 («chi sa dove, chi sa dove»), Vergilia anceps 17 («Alla vela! alla vela!»), Le madri 27 («a quando a quando»), Albàsia 35 («da lido a lido»), Il novilunio 131 («Anche agosto, anche agosto»), 192 («se non io, se non io»)44. 4. Da ultimo, un’ipotesi legata ad una lettura in chiave numerologica, cui D’Annunzio stesso dà autorizzazione nell’Encomio dell’opera di Laus vitae: Noi abbiamo un canto novello perché tu l’oda, questo grande Inno che edificar ci piacque a simiglianza d’un tempio quadrato cui demmo per ogni lato cento argute colonne tutto aperto ai vènti salmastri. […] Ei le materie sonore con ìmpari numero, oscuro e inimitabile, vinse. Le sette Pleiadi ardenti e le tre Càriti leni, le stelle dell’Orsa e le Parche, in rapido giro costrinse. Tre volte sette: la strofe qual triplicata sampogna di canne ineguali risuona con l’arte di Pan meriggiante. (xix, vv. 316-322; 330-340).

La struttura di Laus vitae ha dunque come cardini numerici il 3, il 7, il 21 (Maia consta di 21 canti composti da strofe di 21 versi). Per la struttura di Alcyone, è persuasiva l’individuazione della chiave numerologica-simbolica nel 7 e nel suo doppio, 14, suggerita da Luigi Trenti45. Nella strofe lunga ha molto rilievo il 3 (con i suoi multipli): l’escursione eterometrica va dal ternario al novenario46, con prevalenza di settenari (26,2%; dunque ha evidenza anche il numero 7). 44 L’esemplificazione è mutuata dalla mia recensione al saggio di Pazzaglia pubblicata su «Metrica», ii, 1981, pp. 283-289, dove pure si proponeva il collegamento strofe lunga - discordo. 45 Cfr. Luigi Trenti, Alcyone, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa. Le Opere, vol. iv. Il Novecento, tomo i. L’età della crisi, Torino, Einaudi, 1995, pp. 53-57. La prima fondamentale lettura di Alcyone in termini di struttura, anzi, per riprendere una bella definizione di Trenti, di «poesia delle strutture», è stata offerta da Giorgio Luti, Strutture e simmetrie alcioniche, in La cenere dei sogni. Studi dannunziani, Pisa, Nistri-Lischi, 1973, pp. 85-111. 46 Fatta ovviamente eccezione per l’endecasillabo finale, isolato, del Novilunio. Non mi soffermo sul ritmo ternario, in merito al quale è stato scritto molto e bene, a partire da Gianfranco

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Il numero complessivo delle strofi lunghe è 12, delle quali tre sono monostrofiche: Le stirpi canore (37 vv.), L’Alpe sublime (56 vv.), L’onda (100 versi + un distico di settenari); cinque sono divise in due strofe uguali: Intra du’ Arni (25+25), Vergilia anceps (17+17), Le madri (48+48), Albàsia (19+19), L’ippocampo (39+39); due constano di quattro strofe uguali: La pioggia nel pineto (32+32+32+32) e Meriggio (27+27+27+27 + un verso finale isolato); Le ore marine è divisa in tre strofe di 30+30+15 versi; Il novilunio in sei strofe di 33 versi ciascuna + un endecasillabo finale isolato. Una postilla, sia pur marginale: 12 è divisibile per 1, per 2, per 3, per 4 e per 6 (cioè tutte le possibili variabili di numero di strofe). Ma il dato più interessante sembra celarsi nell’Onda. Facciamo un passo indietro, e ricordiamo brevemente la cronologia delle dodici strofi lunghe: Le ore marine e Il novilunio vengono scritte nell’agosto 1900; di due anni successiva (agosto 1902) è la composizione di tutte le altre: ma mentre Intra du’ Arni, La pioggia nel pineto, Le stirpi canore, Il nome, Meriggio, Le madri, L’Alpe sublime, Albàsia sono date per scritte in un elenco databile 13 o 14 agosto, la minuta dell’Ippocampo (sola testimonianza autografa rimastaci di questa poesia) reca la data 21 agosto, e quella dell’Onda la data 22 agosto (ma ricalcata su 21). Vale a dire: la composizione delle ultime due poesie deve essere stata a ridosso l’una dell’altra, con – aggiungo – probabili interferenze reciproche47. Se infatti osserviamo la minuta autografa dell’Ippocampo48, notiamo che – caso unico nelle strofi lunghe – la partizione strofica originaria è stata cambiata e – caso non unico ma comunque raro – sono relativamente numerosi i versi inseriti in un secondo tempo, nell’interlinea o a lato. Originariamente c’erano due stacchi strofici, rispettivamente fra gli attuali vv. 25-26, e 51-52: la prima strofa cioè occupava i vv. 1-25, la seconda gli attuali 26-51, la terza gli attuali 52-78; ma tre strofe disuguali (25, 26, 27 versi) non si addicono alla simmetria strofica sempre osservata da questi componimenti. Se teniamo conto dei versi aggiunti, possiamo ipotizzare che la misura originaria fosse 25+25+25, per un totale di 75 versi. L’Onda nasce subito dopo, ed ha 102 versi totali, anzi potremmo dire 100+2, poiché il distico finale è la celebre dichiarazione di poetica «Musa, cantai la Lode / della mia Strofe Lunga»: 100 è numero non comune, ben adatto alla poesia conclusiva ed emblematica del ciclo delle “poesie libere” di Alcyone; il distico finale, poi, è riferibile non alla sola Onda, ma a tutte e 12 le strofi lunghe. Contini, Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968, p. 342. Cfr. almeno i saggi dannunziani di Mengaldo, in La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, cit. (soprattutto alle pp. 210 e 309) e Franco Gavazzeni, Onomastica e metrica della “Pioggia”, in «Annali d’Italianistica», 5, 1987, pp. 188-206 (in particolare le pp. 199-204). 47 Cfr. l’edizione critica di Alcyone, cit., pp. cxliv e 174-182. 48 Riprodotta in un fac-simile allegato al vol. ii di Gabriele D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Milano, Mondadori, 1939 (e successive ristampe).

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Forse, a questo punto, D’Annunzio si interroga sulla possibilità di raggiungere un numero significativo anche nel computo del totale dei versi delle strofi lunghe, e ne conta 997: basta aggiungerne tre per arrivare a 1000. Ma non possono facilmente essere aggiunti a qualunque componimento in strofe lunga già scritto (e quindi con la propria rigida struttura strofica ben fissata); è certo meno problematico intervenire sull’Ippocampo, appena composto (il giorno prima) o, più probabilmente, ancora in fieri: sono allora inseriti presumibilmente (l’autografo sembra confermarlo) gli attuali v. 65 («che cresce,»; il verso è irrelato) e v. 69 («mansuefatto», in rima fin troppo facile con atto al v. 73); da ultimo, probabilmente, il v. 38 (in origine: «per liti solitarii.») viene sdoppiato in «pe’ solitarii / lidi io senza pace.», e subito dopo viene introdotto lo stacco strofico: la poesia passa da tre strofe di 25+25+25 versi a due strofe di 39+39 versi, con rima “capcaudada” pace : furace, instaurata dunque solo a quest’altezza. Se consideriamo a parte il distico che enuncia la lode della strofe lunga, tale lode è rappresentata da una poesia di 100 versi e si snoda lungo 1000 versi. Se invece lo inseriamo nel computo, allora: il totale dei versi delle strofi lunghe è 1002, e quello dell’Onda 102, cioè lo stesso numero con uno zero in meno; ma se anche da 102 togliamo lo zero, ci rimane 12, vale a dire il numero dei componimenti in strofe lunga (e se vogliamo esagerare, possiamo vedere nel 12 il riflesso speculare del 21, numero-base della Laus vitae). Solo un’ipotesi, forse più suggestiva che plausibile: ma l’alchimia numerica su cui si fonda è comunque sorprendente, sia che D’Annunzio l’abbia cercata, sia che si debba a una bizzarra compiacenza del caso.

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7. Riconoscere l’«usate forme»: Petrarca e la metrica del Novecento

1.1. Petrarca è, per così dire, il grande assente al battesimo della poesia, e dunque della metrica, novecentesca: la data è convenzionalmente fissata al 1903, anno di pubblicazione dei Canti di Castelvecchio (aprile), delle laudi Maia (maggio), Elettra e Alcyone (dicembre), delle Fiale e di Armonia in grigio et in silenzio di Govoni. Il panorama metrico è composito ma la direzione dominante, e in prospettiva vincente, è quella della liberalizzazione, più o meno frenata e corretta; comunque, siamo assai lontani dalla normalizzazione metrica petrarchesca, che nel Canzoniere aveva canonizzato sonetto, canzone, sestina e “ridimensionato” ballata e madrigale1. 1 Ricordiamo brevemente qualche dato, appoggiandoci al quadro essenziale ma chiaro degli schemi metrici usati nel Canzoniere offerto da Serena Fornasiero, Petrarca: guida al Canzoniere, Roma, Carocci, 2001: dei 366 componimenti dei Rerum Vulgarium Fragmenta, 317 sono sonetti (86, 5%), 29 canzoni (8%), 9 sestine (2,5%), 7 ballate (2%), 4 madrigali (1%). Nei sonetti, è maggioritaria la fronte a rime incrociate abba abba (303), mentre la struttura delle terzine è più variata (la più frequente è cde cde: 121 casi); possono essere su quattro rime, in varie combinazioni (128), o su cinque rime (189). Lo schema rimico complessivo prevalente è abba abba cde cde (116, pari a 36,6%), seguito a breve distanza (34,3%) da abba abba cdc dcd (109). Nelle canzoni, il numero di stanze è fra cinque e sette, costituite da due piedi (in genere di tre versi) e sirma indivisa. In media, ogni strofa ha 15 versi ed è chiusa da un distico a rima baciata (combinatio); è presente il congedo, spesso a struttura uguale alla sirma. Questo tipo di canzone sarà poi dominante nella tradizione lirica. La sestina, attestata una sola volta in Dante (Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra: parole rima ombra, colli, erba, verde, petra, donna), nella tradizione successiva prenderà le sue regole dagli esemplari petrarcheschi (nn. 22, 30, 66, 80, 142, 214, 237, 239; 332: sestina doppia): parole-rima sempre bisillabiche (in prevalenza sostantivi; pochi aggettivi e nessuna forma verbale, con una sola eccezione nella sestina 30, v. 14, s’arriva anzi che riva). Nelle ballate (nn. 11, 14, 55, 59, 63, 149, 324), è prediletto il tipo monostrofico (5 su 7); in quattro la ripresa consta di 4 versi e in tre di 3 versi. I madrigali (nn. 52, 54, 106, 121) hanno da 6 a 10 endecasillabi, e ciascuno presenta uno schema diverso. Sono esclusivamente endecasillabici i sonetti, le sestine e i madrigali; nelle canzoni, i settenari sono 741 (su un totale di 2821 versi: pari al 26,2%); nelle ballate, i settenari sono 21 (su complessivi 105 versi: 20%). Su un totale di 7786 versi, gli endecasillabi rappresentano dunque il 90,2%. Gli endecasillabi sono in totale 7024, così suddivisi: 4438

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Un’avvertenza preliminare, ovvia ma necessaria: tracciare una linea “petrarchesca” nella metrica del Novecento è impresa che, per la sua vastità e per l’inevitabile approssimazione dei criteri di selezione, non ambisce ad essere né esaustiva né esente da un margine di soggettività nella scelta degli autori da considerare. Oggettivo e obbligatorio è invece il punto di partenza del nostro, come di ogni discorso sulla metrica del Novecento: la poesia di Pascoli, il vero grande rivoluzionario della metrica del secolo scorso. Qui è punto di partenza in negativo, per la totale distanza da forme metriche e misure versali “petrarchesche”: nei Canti di Castelvecchio apparsi nel fatidico 1903, non compaiono né canzoni, né sestine né sonetti; il sonetto è presente solo in Myricae, con 25 occorrenze, su un totale di 156 componimenti2 (la forma prevalente è quella più petrarchesca, abba abba cde cde, con 20 occorrenze) e viene completamente abbandonato nelle raccolte successive. Ma il dato più significativo è certo la presenza nettamente minoritaria dell’endecasillabo (ancor più ridotto il numero dei settenari), di contro alla nota predilezione pascoliana per il novenario, e per i versi pari (ottonari, senari), spesso di ritmo dattilico. Quindi siamo di fronte ad una netta opposizione alla norma petrarchesca, anzi ad una vera e propria nuova “canonizzazione” che agirà nel Novecento. Si pensi solo, per fare due esempi, alla rima ipermetra o al ritmo dattilico di certe poesie di Montale: nel distico finale della seconda parte di Notizie dall’Amiata («il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento, / il vento che tarda, la morte, la morte che vive!») è significativo il punto di contatto tematico (i morti), e forse la stessa memoria ritmica pascoliana scatta in Montale anche molto più tardi, in uno degli Xenia (ii 5) per la moglie morta («Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino»). 1.2. Della nota predilezione di D’Annunzio per il recupero dei metri della tradizione (non solo invero di quelli canonici petrarcheschi, ma anche di metri arcaici e desueti) può apparire emblematica la parte finale dell’Isotteo (1890), in cui troviamo, in sequenza: tre Madrigali dei sogni (che hanno lo schema di tre dei quattro madrigali dei RVF ma non tessere petrarchesche)3, due Sonetti del giovane autunno, Ballata e sestina della lontananza. I sonetti hanno lo schema più diffuso in Petrarca: abba abba cde cde (lo stesso dei sonetti che chiudono la raccolta, Epodo. nei sonetti, 2080 nelle canzoni, 387 nelle sestine, 84 nelle ballate e 35 nei madrigali. Sulla metrica di Petrarca sono usciti recentemente presso l’editore Antenore di Padova due contributi fondamentali: il Repertorio metrico dei “Rerum Vulgarium Fragmenta” di Francesco Petrarca compilato da Massimo Zenari (1999) e la raccolta di saggi di giovani studiosi padovani La metrica dei “Fragmenta”, a cura di Marco Praloran (2003). 2 Nella quinta edizione (1900), definitiva quanto a numero dei componimenti. 3 Per il primo madrigale cfr. RVF 121 (abb acc cdd), per il secondo RVF 54 (aba cbc dede) e per il terzo RVF 106 (abc abc dd). È molto significativo che D’Annunzio adotti proprio il madrigale petrarchesco, e non quello cinquecentesco, che pure ebbe fortuna maggiore e più duratura.

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7. petrarca e la metrica del novecento

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Quattro sonetti al poeta Giovanni Marradi in onore della nona rima, e del sonetto che la apre: Al libro detto Isottèo). La ballata ha schema xyyx abc bac cddbdx: è lo schema rimico (non di misura versale) di tre delle sette ballate di Petrarca (11, 14, 63) con l’inserzione di terzultimo e penultimo verso (bd). La rima fresca : ésca ha due occorrenze nei RVF, una delle quali è nella ballata 55, vv. 2, 9 (l’altra è nel sonetto 165, vv. 1 e 8). Il sintagma finale dolce riso ha quattro occorrenze in clausola (più due all’interno del verso): sonetto 123 Quel vago impallidir che ’l dolce riso (: paradiso); canzone 126, v. 58 (: paradiso); ballata 149, v. 2 e sonetto 348, v. 4 (: paradiso). La sestina condivide con la sestina 237 di Petrarca (Non à tanti animali il mar fra l’onde) due parole-rima (sera, luna) e ne riprende in modo evidentissimo l’ultima strofa e il congedo: Deh or foss’io col vago de la luna adormentato in qua’ che verdi boschi, et questa ch’anzi vespro a me fa sera, con essa et con Amor in quella piaggia sola venisse a starsi ivi una notte; e ’l dì si stesse e ’l sol sempre ne l’onde. Sovra dure onde, al lume de la luna canzon nata di notte in mezzo i boschi, ricca piaggia vedrai deman da sera.

Così D’Annunzio: O donna ch’anzi vespro a me fai sera, cui Laura è suora ne le rime d’oro, deh foss’io, come il vago de la Luna, addormentato, e alfin tra le tue braccia mi risvegliassi e bevere il tuo fiato potessi ancora, in letto alto di rose! Tu la Bella vedrai diman da sera e a lei ricingerai le chiome d’oro, canzon, nata di notte senza Luna.

D’Annunzio recupera una delle parole rima (notte); inoltre, l’ultimo emistichio della sestina di Petrarca è ripreso al primo verso del congedo della sestina dannunziana; identico il primo emistichio del penultimo verso di Petrarca e dell’ultimo verso di D’Annunzio. Dal punto di vista prosodico, si può notare che la sestina dannunziana consta di endecasillabi tutti con accento (principale o secondario: in cinque casi l’accento principale è sulla quarta sillaba) di sesta, e mai è del tipo, discaro a Petrarca, con accenti di 4a, 7a, 10a. Inoltre: in cinque versi (1, 8, 27, 29, 36) c’è sinalefe con accento ribattuto di 6a e 7a.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

La sestina ricomparirà, elaborata in forma più personale, nel Poema paradisiaco (1893), con le tre occorrenze dei Suspiria de profundis, che registrano tre forti infrazioni alla norma petrarchesca (ma già dantesca): la presenza, tra le parolerima, di trisillabi (i: riposo, dormire; ii: romore, Ascolta, silenzio, respiro, lontano; iii: dolore) che in tre casi sono anche voci verbali: dormire, respiro (nell’ultima strofa; nelle altre è sostantivo), Ascolta (imperativo). Inoltre, nelle sestine petrarchesche ogni strofa è conclusa da un punto fermo, mentre in D’Annunzio talvolta il periodo si prolunga nella strofa seguente: nella sestina dell’Isotteo (tra seconda e terza strofa), e nella seconda sestina dei Suspiria de profundis, dove c’è enjambement fra penultima e ultima strofa e tra questa e il congedo4. Inoltre, proprio in particolare nella seconda sestina si instaura un sistema iterativo nel quale si perde la stessa musicalità della retrogradatio cruciata, ovvero il rilievo delle parole-rima; nel congedo addirittura mancano tre parolerima, e lo stesso accadrà nella terza sestina, dove però il principio iterativo diventa programmaticamente strofico, e nell’ultima strofa gli unici termini che non raddoppiano sono proprio le parole-rima5: Ah tu non sai, ah tu non sai che fiamma! perché mi guardi tu? Guardi tu il male divorarmi? Io ti veggo alta su ’l cielo, simile a un giglio. Io non ti vidi mai così pallida, mai su ’l mio dolore così pallida. Un giglio ne la notte…

Ci si conceda un ultimo indugio sulla sestina dell’Isotteo, nella quale l’ultima strofa, oltre che alla sestina 237 dei RVF, rimanda anche alla sestina 22, vv. 31-33: Con lei foss’io da che si parte il sole, et non ci vedess’altri che le stelle, sol una nocte, et mai non fosse l’alba; […].

Questi versi, insieme con la strofa finale della sestina 237, «danno voce al mito petrarchesco dell’amore sensuale. D’Annunzio, ovviamente, spinge sul pedale della sensualità, fino a stravolgere e il mito di Endimione e il senso delle sestine di Petrarca»6. 4 Nella carducciana Notte di maggio (Rime nuove, 1885), che ripristina la sestina nell’Ottocento, ogni strofa è chiusa da un punto fermo, e le parole-rima sono sempre bisillabiche e mai forme verbali. 5 Cfr. Gabriele Frasca, La furia della sintassi. La sestina in Italia, Napoli, Bibliopolis, 1992, p. 373 e p. 376. 6 Cfr. Marco Santagata, Per l’opposta balza. «La cavalla storna» e «Il commiato» dell’«Alcyone», Milano, Garzanti, 2002, p. 42.

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7. petrarca e la metrica del novecento

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Quindi la ripresa metrica fatta da D’Annunzio è anche ripresa e riappropriazione di un tema a lui caro. Lo stesso tema (attrazione sensuale e sforzo per allontanarsene) è ripreso nei dieci Sonetti dell’anima della Chimera7, il penultimo dei quali (Beata Beatrice) ha schema rimico simile a quello di RVF 18 (che è un unicum in Petrarca): cioè l’identità di rima coincide con l’identità delle parole-rima: notte, luce (sostantivo), luce (verbo), notte; notte, luce (sostantivo), luce (verbo), notte; sangue, nube, gioia; sangue, nube, gioia8. I Sonetti dell’anima sono seguiti dai quattro madrigali di Tristezza d’una notte di primavera: il primo, il secondo e il quarto hanno lo schema di RVF 54: aba cbc dede, mentre il terzo ricalca lo schema di RVF 106: abc abc dd. L’ultimo verso del terzo madrigale (La carne è stanca e l’anima già spira)9 è una citazione del famoso explicit di RVF 208 (Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca), attraverso la probabile mediazione di Mallarmé (Brise marine, v. 1: «La chair est triste hélas!»). Non paiono avere particolare connotazione petrarchesca gli altri sonetti della Chimera10, i 13 sonetti del Poema paradisiaco e i 59 sonetti di Elettra: 56 sono nella sezione Le città del silenzio, e in maggioranza (44) hanno schema abba abba cde cde. Hanno tutti questo schema (ma la rima è spesso sostituita dall’assonanza: tratto tipico della metrica alcionia) i 18 sonetti di Alcyone, concentrati nelle sezioni terza (9 sonetti di La corona di Glauco), quarta (7) e quinta (2), cioè le sezioni caratterizzate da una «metrica classicistico-arcaizzante»11. È interessante che La corona di Glauco venga subito dopo L’onda (la “lode” della strofe lunga), come se al metro più libero della raccolta D’Annunzio volesse far seguire il più canonico, a conferma della sua abilità nello spaziare da un metro all’altro, dal livello massimo a quello minimo della tradizione. Ma la libertà fa capolino anche all’interno del sonetto, sia con la sostituzione rima-assonanza, sia con il ricorso talvolta alla sintassi franta, come ad esempio nella terzina finale del secondo: Quanto soffii! Tropp’alto? Non ti piaccio? Ah, ah, mi sembri quel volpone ghiotto che disse all’uva: Tu non sei matura.

7 Gli schemi rimici impiegati sono i seguenti: abba abba cde cde (sei sonetti); abba baab cde cde; abba abba cde edc; abba abba cde dce. 8 Cfr. l’annotazione di Marco Santagata a questo sonetto (nell’edizione da lui commentata del Canzoniere, Milano, Mondadori, 2004, pp. 76-77): «Sonetto su 5 parole rima con aequivocatio (caso unico nel Canzoniere) a schema abba abba cde cde: è una figuralità di gusto guittoniano […] sulla quale, forse, agiscono anche suggestioni della sestina». 9 Cfr. anche Elegie romane, Ave, Roma, v. 11: «Stanca è la carne e spira già l’anima». 10 Sono 61 (su un totale di 76 componimenti), dei quali cinque non rimati e uno, Agli olivi, con sequenza quartina + terzina + terzina + quartina: abba cdc ede fggf. 11 Cfr. Franco Gavazzeni, Le sinopie di «Alcione», cit., p. 9.

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La struttura interna del sonetto è del tutto scardinata nell’ultimo sonetto, di argomento dionisiaco e nient’affatto petrarchesco: Ah, chi mi chiama? Ah, chi m’afferra? Un tirso io sono, un tirso crinito di fronda, squassato da una forza furibonda. Mi scapiglio, mi scalzo, mi discingo. Trascinami alla nube o nell’abisso! Sii tu dio, sii tu mostro, eccomi pronta. Centauro, son la tua cavalla bionda. Fammi pregna di te. Schiumo, nitrisco. Tritone, son la tua femmina azzurra: salsa com’alga è la mia lingua; entrambe le gambe squamma sonora mi serra. Chi mi chiama? La bùccina notturna? il nitrito del tessalo? il tonante Pan? Son nuda. Ardo, gelo. Ah, chi m’afferra?

Le rime sono per lo più sostituite da assonanze, la sintassi è franta da un’esclamativa e ben sette interrogative (con parallelismo inizio-fine). Il tema è il più antipetrarchesco, soprattutto all’ultimo verso (con invito esplicito), dove però D’Annunzio ricorre, forse con lieve divertissement, all’antinomia Ardo, gelo: cfr. RVF 134, v. 2 («e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio»). 1.3. Di tutti sonetti (100) constano Le fiale di Govoni, più l’appendice licenziosa Vas luxuriae di 21 sonetti: lo schema delle rime rientra perlopiù nella norma, e nelle terzine la stragrande maggioranza ha rima cde cde, ma numerosi sono gli endecasillabi ritmicamente anomali12 e molte delle parole in rima sono assolutamente antitradizionali. Un esempio dal sonetto iniziale della prima sezione, Ventagli giapponesi: laghetto, crespone, castone, mughetto; aspetto, lampone, incoronazione, letto; musmè, paravento, calcedonia; netzkè, pavimento, peonia. Nelle terzine del secondo sonetto: Timbuctù, selvatiche, gimè; bambù, natiche, Kirosighè. Rime non certo petrarchesche, del tipo sublimi : concimi possiamo trovare anche nei venti sonetti della Via del rifugio13; Gozzano scrive sonetti solo all’inizio, come per un apprendistato, per «affidarsi alla letterarietà “storicizzata” della nostra poesia in genere (il sonetto come una prima “stampa”, insomma)»14. 12 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Considerazioni sulla metrica del primo Govoni, in La tradizione del Novecento. Nuova serie, cit., p. 145. 13 Sonetti del ritorno, iii, vv. 2-3. 14 Cfr. Andrea Pelosi, Indizi metrici gozzaniani, in Stilistica, metrica e storia della lingua. Studi offerti dagli allievi a Pier Vincenzo Mengaldo, Padova, Antenore, 1997, p. 249.

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Solo due infatti sono i sonetti nei Colloqui, dove Petrarca è presente in modo antifrastico e ironico (tanto che nella sezione Il giovenile errore il poeta, ben lontano dal pentersi, ospita addirittura l’Elogio degli amori ancillari); qui troviamo anche una canzone, Paolo e Virginia, di 10 stanze (fronte + sirma indivisa) ciascuna di 17 versi15, dove si ripetono uguali la fronte abc abc e il verso di chiave c (che è sempre un settenario, come in Petrarca). La forma lirica più elevata è scelta da Gozzano non per adesione alla struttura della canzone, ma probabilmente per ironico omaggio anche formale alla storia d’amore che “rivive” in prima persona. I sonetti di Corazzini sono in tutto 57 (su 120 componimenti), dei quali molti raccolti in corone, e appaiono generalmente ben lontani da Petrarca: spesso l’autore sovverte la struttura del sonetto frantumando la sintassi (secondo la lezione pascoliana) e accumulando enjambement, così che il sonetto può ridursi a una serie di frammenti16. Esemplare in questo senso La leggenda delle stelle (1904): Il mare: muto. Senza vele. Senza rondini, il cielo. Solo, nelle grigie acque, lo scoglio della triste effigie, immenso. Immoto. Sacro alla potenza del Tridentier Nettuno. Alto, in presenza, il sole. Lungi dalle cime bigie dello scoglio le umane cupidigie, nessuno. Affretta il sol sua dipartenza triste, dietro si lascia oscuri veli. Cala sopra lo scoglio. Orribilmente si frange all’urto. Il cielo, di scintille è pieno. Sono mille, più di mille che vanno e stanno. È notte. Alta. Silente. Dormi, bimbo, di stelle ardono i cieli!

2. Il titolo Canzoniere che Umberto Saba dà al libro delle sue poesie fin dall’edizione del 1921 pare suggerire uno stretto legame con il Canzoniere per eccellenza della nostra tradizione letteraria. Nella prefazione al Canzoniere 1921 Saba parla di «inoppugnabile derivazione petrarchesca e leopardiana di quei primi sonetti e canzoni» e aggiunge: «[ho ritrovato] da solo nella mia stanzetta 15 Nell’edizione in rivista («La Lettura», settembre 1910), mentre nella redazione definitiva la nona stanza ha 16 versi. 16 La linea dell’eversione prosegue poi con Campana: cfr. Claudio Marazzini, Revisione ed eversione metrica. Appunti sul sonetto nel Novecento, in «Metrica», ii, 1981, pp. 199-201.

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a Trieste, così beatamente remota da ogni influenza d’arte, e quando nessuno ancora aveva parlato a me di buoni e di cattivi autori, il filo d’oro della tradizione italiana»17. È importante sottolineare l’aggettivo “primi”: i sonetti delle Poesie dell’adolescenza (1900-1903) sono dieci (su un totale di diciassette componimenti), hanno schemi rimici non sempre attestati nei RVF ma presentano moltissime tessere lessicali petrarchesche. Il sonetto Nella sera della domenica di Pasqua è quasi un centone: Solo e pensoso dalla spiaggia i lenti passi rivolgo alla casa lontana. È la sera di Pasqua. Una campana piange dal borgo sui passati eventi. L’aure son miti, son tranquilli i venti crepuscolari; una dolcezza arcana piove dal ciel sulla progenie umana, le passïoni sue fa meno ardenti. Oblïando, io penso alle leggende di Fausto, che a quest’ora era inseguito dall’avversario, un docile barbone. E mi par di vederlo, sbigottito fra i campi, dove ombrosa umida scende la notte, e lungi muore una canzone.

Sono vere e proprie citazioni i rimandi a RVF 35, vv. 1-2 («Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi et lenti») e RVF 192, v. 3 («vedi ben quanta in lei dolcezza piove»); ma è palese anche il ricordo del celebre sonetto 54 di Della Casa («O sonno, o de la queta, umida, ombrosa / notte placido figlio […]»; umida è sotto il medesimo accento, ribattuto, di 7a). Il primo verso ricalca anche ritmicamente il primo verso del sonetto petrarchesco, con accenti di 4a, 6a, 8a, 10a, ma già il secondo vira sul ritmo dattilico (1a, 4a, 7a, 10a), non amato da Petrarca. Non ci sono anomalie di struttura o di rima nei quattro sonetti di Poesie fiorentine (1905-1907), mentre nei Versi militari (1907-1908) la struttura è terremotata dai molti e forti enjambement, le rime sono più di cinque, prevalgono le rime baciate, in sintonia con la materia “comica”. La struttura del sonetto consente di garantire l’articolazione “poetica” di materiali lessicali e tematici che, di per se stessi, rischiano di confondersi con la prosa18. Ma arrivato ai limi17 Cfr. Umberto Saba, Il Canzoniere 1921. Edizione critica a cura di Giordano Castellani, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1981, p. 6. 18 Cfr. Antonio Girardi, Metrica e stile del primo Saba, in Cinque storie stilistiche, Genova, Marietti, 1987, p. 17.

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ti dell’eversione, Saba si ritira19: in Autobiografia (1924) i quindici sonetti ripeteranno lo schema canonico abab abab cde cde (con tre eccezioni: il primo, l’ottavo e il quindicesimo; cioè il primo, quello centrale e l’ultimo); i 15 sonetti dei Prigioni avranno l’altrettanto canonico schema abba abba cde cde. Partito dal progetto di scrivere un’altra corona (15) di sonetti intitolata Il mio paradiso, Saba realizzerà solo un Sonetto di paradiso, divenuto poi la prima poesia di Cuor morituro (1925-1930), che (con l’eccezione del tardo sonetto Epigrafe, non destinato alla stampa) rimarrà l’ultimo sonetto del Canzoniere: in Storia e cronistoria, Saba scrive che il Sonetto di paradiso «indica un ritorno ai temi cari alla sua adolescenza; sono le stesse cose vedute, invece che all’aurora, al tramonto»20. Nessuna canzone sabiana ha schema coincidente con una canzone di Petrarca21, anche se alcune vi si avvicinano. L’esempio più interessante è dato da Tre vie: tre strofe di 17 versi ciascuna, con uguale schema (pur con rima sostituita talvolta da assonanza) composto da fronte aba cbc ded fef e sirma ggfhh: è come se la terzina fosse sottesa alla canzone e ne forzasse la struttura22; alla combinatio finale è dato molto rilievo, con sottolineature semantiche e retoriche che trasformano questo artificio metrico (non sempre presente nelle canzoni petrarchesche) nella tipica “chiusa” sabiana. Ad esempio, alla fine della prima strofa («le lavoranti scontano la pena / della vita: innocenti prigioniere / cuciono tetre le allegre bandiere») si concentrano un forte enjambement (che rimanda al verbo penare del penultimo verso della seconda strofa), un’antitesi e un chiasmo. Non sarà dunque azzardato dire che anche il reagente metrico sembra confermare, al di là del giovanile apprendistato poetico, il sostanziale antipetrarchismo di Saba, più volte ribadito dallo stesso poeta, cui si deve la memorabile intuizione della coincidenza, per Petrarca, di Laura con la propria madre («la donna che non si può avere»)23. Ivi, p. 37. Cfr. Umberto Saba, Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001, p. 220. 21 Le sole eccezioni novecentesche all’assenza di canzoni tradizionali petrarchesche si trovano nella poesia di Pasolini, in dialetto e in lingua: lo schema della Cansion inclusa nell’Appendice (1950-1953) di La meglio gioventù (Firenze, Sansoni, 1954) riprende quello delle tre canzoni petrarchesche dette ‘degli occhi’, lxxi, lxxii, lxxiii (Perché la vita è breve; Gentil mia donna, i’ veggio; Poi che per mio destino): abc bac, cdeedfdff; la Cansion consta di sole tre strofe + il congedo, che ha dimensione e struttura (abccbdd) diverse dal modello petrarchesco (abb). Uno schema analogo tornerà nelle cinque Poesie incivili comprese in La religione del mio tempo (Milano, Garzanti, 1961: La reazione stilistica, Al sole, Frammento alla morte, La rabbia, Il glicine), ma con molte approssimazioni: infrazioni al numero fisso di versi per stanza (15), eterometria, rime anche fortemente imperfette, schema rimico delle varie stanze non perfettamente coincidente. Cfr. Furio Brugnolo, La metrica delle poesie friulane di Pasolini, in Pier Paolo Pasolini. L’opera e il suo tempo, a cura di Guido Santato, Padova, cleup, 1983, pp. 44-45. 22 Girardi (Metrica…, cit., p. 39) parla di stanze indivise «scomponibili in quattro terzine incatenate a due a due dalla rima interna, più una strofa pentastica incatenata alla rima esterna f». 23 Cfr. la scorciatoia LAURA, ora in Tutte le prose, cit., p. 12. 19

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Già nel primo capitolo di Storia e cronistoria, Qualità e difetti di Saba, l’autore puntualizza: Chi molto fa molto sbaglia; e forse, nell’arte come nella vita, perfezione e grandezza non vanno sempre d’accordo. Dante ha sbagliato più, e più spesso, del Petrarca; ciò non toglie che questi stia al primo come una candela al sole24.

E allora ci pare curioso (sempre in Storia e cronistoria), e vorremmo capirne il senso, un inaspettato rimando a Petrarca a proposito della lirica che chiude l’Amorosa spina (1920), ma è preceduta da una carta bianca che la separa da una poesia famosa e ardita (Saba la definisce «una poesia francamente erotica»): Sovrumana dolcezza io so, che ti farà i begli occhi chiudere come la morte. […] serpeggia nelle mie vene il pensiero della carne, il presagio dell’amara dolcezza che so che ti farà i begli occhi chiudere come la morte.

La pagina bianca sembra indicare che la lirica conclusiva della raccolta (In riva al mare) fa parte di questa raccolta, ma contemporaneamente se ne distacca: […] Io della morte non desiderio provai, ma vergogna di non averla ancora unica eletta, d’amare più di lei io qualche cosa che sulla superficie della terra si muove, e illude col soave viso.

Questa poesia – scrive Saba – suona infatti come la ritrattazione di Sovrumana dolcezza. Come – dice il Varese (sebbene con parole un po’ diverse dalle nostre) – il Petrarca si rammaricava di aver preferito Laura a Dio, così Saba chiede perdono alla morte di averle preferita la vita25.

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Cfr. Tutte le prose, cit., pp. 118-119. Ivi, p. 186.

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Proviamo allora a cercare Petrarca nella filigrana di Sovrumana dolcezza: cfr. RVF 118, vv. 5-8 («L’amar m’è dolce, et util il mio danno, / […] et temo no chiuda anzi / Morte i begli occhi che parlar mi fanno») e RVF 175, vv. 3-4 («Amor […] m’avinse in modo / che l’amar mi fe’ dolce, e ’l pianger gioco»); begli occhi è ovviamente sintagma frequentissimo in Petrarca (38 occorrenze); amara et dolce [libertate] è in RVF 363, v. 11 e dolce amara vista in RVF 329, v. 11. Non sappiamo se e quanto sia legittimo – ma certo è ipotesi intrigante – vedere in questo insolito rimando sabiano a Petrarca un’ombra di divertimento: la poesia più arditamente erotica del suo Canzoniere è l’unica che Saba mette in relazione – quasi in beffardo contrappasso – con il poeta a proposito del quale aveva scritto, due anni prima, una celebre e acuminata scorciatoia26: non c’è, in tutto il lungo canzoniere, un verso, uno solo, che possa propriamente dirsi d’amore; molte cose ci sono, ma non la bocca mi baciò tutto tremante, il più bel verso d’amore che sia stato scritto.

3. Per fare il suo vero ingresso sulla scena della metrica novecentesca, Petrarca deve aspettare che Giuseppe Ungaretti, dopo la frantumazione in versicoli della metrica della sua prima raccolta, riscopra i metri della tradizione italiana, sia in sede teorica27 che sul piano concreto del fare poesia. È il momento del «passaggio da una metrica elementare a una metrica complessa» (De Robertis), testimoniato sia dal Sentimento del tempo che dal lavoro correttorio dell’Allegria. Prendiamo un solo esempio, Casa mia, presente nelle edizioni Vallecchi (1919), Preda (1931), “Novissima” (1936) e Mondadori (1942): Sorpresa dopo tanto d’un amore Credevo di averlo sparpagliato per il mondo

I primi tre versi (trisillabo + due quadrisillabi), letti di seguito, danno un perfetto endecasillabo di 2a, 6a e 10a. Nelle prime due edizioni erano dilatati su quattro versi (settenario + due quaternari + quinario): Sorpresa d’un amore che riscopro Ivi, p. 12. Cfr. Difesa dell’endecasillabo (1927), ora in Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori, 1974, p. 158: «l’endecasillabo è l’ordine poetico naturale delle parole italiane». 26 27

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale dopo tanto a visitarmi

Ma anche nella redazione primitiva la ricomposizione dei primi due versi dà un regolare endecasillabo. Del resto, nella maggior parte dei casi l’accorpamento di versicoli in versi anche prosodicamente regolari è possibile già nella prima edizione dell’Allegria: il legame con la tradizione è sotterraneo ma forte anche nella metrica (relativamente) rivoluzionaria del primo Ungaretti. Sono troppo note per essere più che accennate le dichiarazioni ungarettiane a favore di Petrarca (uno dei suoi autori prediletti, insieme a Leopardi, Mallarmé, Góngora); e ricorderemo quindi solo l’affermazione relativa all’importanza assunta per lui dall’esercizio di traduzione dei sonetti di Góngora (1931): «È la strada lungo la quale abbiamo incontrato il Petrarca, ragionando con lui come con il nostro migliore e maggiore contemporaneo»28. La tangenza formale con Petrarca si fa più forte là dove è forte anche la tangenza semantica ed “emotiva”, nella sezione Giorno per giorno (1940-1946) del Dolore, il piccolo “canzoniere” in memoria del figlioletto morto: diciassette parti di complessivi 94 versi, dei quali 63 endecasillabi. Nessun endecasillabo ha accenti di 4a, 7a, 10a; il verso iniziale di ogni parte è sempre un endecasillabo accentato su 4a e 6a (più eventuale accento di 8a), con due eccezioni: la parte xiv inizia con un settenario (comunque con accento di 4a: Già m’è nelle ossa scesa) e la xvi con un endecasillabo di 3a, 6a, 10a: Agli abbagli che squillano dai vetri. Alcuni incipit ne ricalcano altrettanti petrarcheschi: iv. Mai non saprete mai come m’illumina: cfr. RVF 105 («Mai non vo’ più cantar com’io soleva»); RVF 280 («Mai non fui in parte ove sì chiar vedessi»); RVF 322 («Mai non vedranno le mie luci asciutte»); v. Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce / che in corsa risuonando per le stanze / sollevava dai crucci un uomo stanco?: cfr. RVF 299 («Ov’è la fronte [?] / Ov’è ’l bel ciglio [?] / Ov’è l’ombra gentil del viso humano / ch’òra et riposo dava a l’alma stanca [?]»); xi. Passa la rondine e con essa estate: cfr. RVF 189 («Passa la nave mia carca d’oblio»). Talvolta Ungaretti ricalca Petrarca anche nella ricerca di un’eco interna al verso: vi. Ogni altra vOCE È un’ECO che si spegne; vii. In CIElO CErcO il tuo felice volto. Un discorso più complesso richiede la sestina Recitativo di Palinuro, scritta nel 1947 (poi in La Terra Promessa). Probabilmente Ungaretti guarda qui non tanto a Petrarca quanto ad Ezra Pound, la cui Sestina: Altaforte (pubblicata in Personae, 1909) aveva avuto grande risonanza europea: lo dimostrerebbero il clima “dantesco” dei versi (Pound scrive Altaforte per “riabilitare” Bertran de Born dalla condanna dantesca di Inf., xxviii) e anche il fatto che la sestina di Ungaretti è un recitativo, quindi – poundianamente – una persona (sia in 28

Ivi, p. 550. La strada è proseguita poi con la traduzione dei sonetti di Shakespeare (1944).

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Pound che in Ungaretti è il personaggio a parlare). Si aggiunga l’influenza di Virgilio, che concorre a creare un clima dantesco: non il Dante lirico, ma appunto quello “drammatico” della Commedia, che dà voce ai suoi personaggi perché possano raccontare la propria storia o la propria morte (ad esempio, Ulisse). La scansione del discorso verso per verso conferisce di nuovo il tradizionale risalto alle parole-rima (furia, sonno, onde, pace, emblema, mortale)29. 4.1. Il “neo-petrarchismo” degli anni Trenta e Quaranta30 presenta anche un rilevante aspetto metrico: appunto la ripresa “alta” del sonetto. Nei primi decenni del secolo, questa forma aveva legato la sua fortuna soprattutto a poeti minori o minimi, esclusi dal canone novecentesco ma molto conosciuti e letti dai contemporanei. Per fare un esempio, a caso: si sfogli il profumato Catalogo della mostra Cercatemi in giardino. Gli orti della poesia da Pascoli ai crepuscolari e si troveranno sonetti di Diego Angeli, Angiolo Silvio Novaro, Giuseppe Lipparini, Giorgio Lais, Teofilo Valenti…31; poco conosciuti oggi o francamente ignoti anche molti degli autori dei 97 sonetti (su un totale di 387 componimenti) compresi nell’antologia Dai nostri poeti viventi (Firenze, Lumachi, 1903). Vasta notorietà ai suoi tempi ebbe un poema di Francesco Pastonchi (Il Randagio, 1921) composto da ben 365 sonetti, con evidente calco numerico (escluso il sonetto proemiale) del Canzoniere petrarchesco, mentre la forma sonetto era stata del tutto bandita da una celebre antologia uscita l’anno precedente sotto l’egida del gusto frammentista: Poeti d’oggi, curata da Papini e Pancrazi e pubblicata da Vallecchi. A partire dalla fine degli anni Trenta, il sonetto acquista invece, presso alcuni dei maggiori poeti del tempo, una valenza “storico-politica”, quasi fosse una «forma letteraria metaforicamente contrastiva, e dunque caricata di particolare dignità stilistica e formale, nei confronti della storia, e della tragedia degli anni della guerra»32: a proposito di Avvento notturno (Firenze, Vallecchi, 1940), che comprende l’unico sonetto presente nella sua opera poetica (Città lombarda), Mario Luzi ha scritto: […] è una poesia abbastanza combattuta, data l’ostilità del reale e della società del tempo; quindi una poesia che si vuole quasi contrapporre con tutti i suoi strumenti ed affermarsi come tale: quasi impenetrabile alle evenienze, alle occorrenze casuali del tempo33. Cfr. Gabriele Frasca, La furia della sintassi, cit., pp. 380-381. Da ultimo ben indagato da Stefano Pastore (Il sonetto nel secondo Novecento: presenza e problematiche, in La frammentazione, la continuità, la metrica. Aspetti metrici della poesia del secondo Novecento, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1999) che si sofferma sulla rivitalizzazione del sonetto in questo ambito, con una preliminare puntualizzazione sull’ambiguità della nozione di petrarchismo in epoca fascista: «parte disimpegno e regressione, parte ostentazione del proprio disimpegno da quella specifica realtà storica e culturale; cioè ostentazione della non condivisione» (p. 77). 31 Catalogo a cura di Manuela Ricci, con una Presentazione di Renzo Cremante, Cesenatico, Casa Moretti, 1997. 32 Cfr. Stefano Pastore, Il sonetto nel secondo Novecento, cit., p. 88. 33 Cfr. Mario Luzi, Lezione sull’endecasillabo (1994), nel volume collettivo Lezioni di Poesia, a cura di Antonella Francini et alii, Firenze, Le Lettere, 2000, p. 94. 29 30

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In termini simili si esprime Giorgio Caproni34: [Gli anni 1944-1954 sono stati] Anni per me di bianca e quasi forsennata disperazione, la quale proprio nell’importance formale della scrittura […], e quindi nell’anch’essa disperata tensione metrica […], forse cercava per via di paradosso, ma con lucida coscienza, e certo del tutto controcorrente rispetto alle altrui proposte e risultanze, un qualsiasi tetto all’intima dissoluzione non tanto della mia privata persona, ma di tutto un mondo d’istituzioni e di miti sopravvissuti ma ormai svuotati e sbugiardati, e quindi di tutta una generazione d’uomini che […] nello sfacelo dell’ultimo conflitto mondiale […] doveva veder conclusa la propria (ironia d’un Inno che voleva essere di vita) “giovinezza”.

Esemplari in questo senso gli undici sonetti di Caproni intitolati I lamenti35, dove il tragico contenuto civile è calato in una forma che – rispettando di norma lo schema rimico – compatta i 14 versi (dilatati a 16 nel sonetto ix) annullando la distinzione fra le quattro parti, ricorre spesso all’anisosillabismo (ma la misura di base resta saldamente endecasillabica) e soprattutto è scavata dall’interno dai quasi sistematici forti enjambement. Prendiamo come campione il Lamento V 36: Quali lacrime calde nelle stanze? Sui pavimenti di pietra una piaga solenne è la memoria. E quale vaga tromba – quale dolcezza erra di tante stragi segrete, e nel petto propaga l’armonioso sfacelo?… No, speranze più certe son troncate sulle stanche bocche dei morti. E non cada, non cada con la polvere e gli aghi nelle bocche dei morti una parola. La ferita inferta, non risalderà la notte sulle stanze squassate: è dura vita che non vive nell’urlo in cui altra notte geme – in cui vive intatta un’altra vita.

I versi sono tutti endecasillabi; il v. 4 ha accento ribattuto di 6a e 7a con sinalefe, rimarcato dall’assonanza dolcezza : erra (nello stesso verso, assuonano anche, con le medesime vocali ma invertite, quale e tante); sulle vocali chiare 34 Cfr. Giorgio Caproni, Nota a Il “Terzo libro” e altre cose (1968), ora in L’opera in versi. Edizione critica a cura di Luca Zuliani, Milano, Mondadori, 1998, p. 1309. 35 In Gli anni tedeschi (1943-1945), sezione della raccolta Il passaggio d’Enea, Firenze, Vallecchi, 1956. Su questi sonetti cfr. Luigi Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, Genova, Costa & Nolan, 1990, pp. 50-57. 36 Lo stesso Caproni ci rivela l’occasione della poesia: «una veglia presso le salme di alcuni Partigiani, mentre mi trovavo in una sconquassata casa di montagna accanto a quei morti sul nudo ammattonato» (Nota a Il “Terzo libro”…, cit., p. 1309).

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a e e già insiste l’incipit (lacrime, calde, stanze), che ricorda da vicino – per il movimento sintattico simile – il v. 9 (primo delle terzine) di RVF 7: Qual vaghezza di lauro, qual di mirto? La musicalità e la dolcezza del suono rendono più aspra la frizione con la tematica tragica: le lacrime calde appartengono alla sfera semantica di stragi, sfacelo, squassate, urlo. La rima stanza : speranza chiude l’ultimo sonetto del Canzoniere, il 365 (vv. 10 e 14); piaga : vaga rimanda a RVF 75, vv. 2 e 7, e soprattutto a RVF 296: I’ mi soglio accusare, et or mi scuso, anzi me pregio et tengo assai più caro, de l’onesta pregion, del dolce amaro colpo, ch’i’ portai già molt’anni chiuso. Invide Parche, sì repente il fuso troncaste, ch’attorcea soave et chiaro stame al mio laccio, et quello aurato et raro strale, onde morte piacque oltra nostro uso! Ché non fu d’allegrezza a’ suoi dì mai, di libertà, di vita alma sì vaga, che non cangiasse ’l suo natural modo, togliendo anzi per lei sempre trar guai che cantar per qualunque, e di tal piaga morir contenta, et vivere in tal nodo.

I petrarcheschi guai, piaga, morir e vivere in antitesi, declinati tutti in ambito amoroso, vengono illuminati dalla luce livida di una crudele realtà bellica: gli aulici guai si deformano in un urlo straziato che squarcia la notte37, la piaga amorosa in una ferita reale, l’antitesi vita–morte ha una tragica concretezza, fissata in rigidità figurativa dalle bocche dei morti (vv. 8, 9-10, con due forti enjambement), che ne capovolge i termini: se in Petrarca è la morte ad essere dispietata et dura (RVF 300, v. 12) e acerba et dura (RVF 360, v. 57), in Caproni dura è questa vita stravolta, che «è dura vita che non vive». Un uso contrastivo, dunque, di stilemi petrarcheschi, coerente con l’infrazione sistematica della corrispondenza fra metro e sintassi, sia a livello strofico (le pause interpuntive sono sempre all’interno dei versi, mai alla fine) che versale (gli enjambement sono molti e molto forti). Nei precedenti 18 Sonetti dell’anniversario38, piccolo straziato canzoniere per Olga Franzoni, la fidanzata morta, nel quale la forma si fa difesa nei confronti di un dramma privato, Caproni dissimula la cifra petrarchesca (già 37 Si ha l’impressione di assistere ad una trasposizione in poesia del celebre Urlo di Munch, proprio come accade per l’urlo nero / della madre di Alle fronde dei salici di Quasimodo. 38 Editi in Cronistoria, Firenze, Vallecchi, 1943.

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presente nella scelta del sonetto, pur disarticolato39, e nella coincidenza con le rime “in morte” di Laura) fissandola in uno degli stilemi tipici dei RVF, il modulo binario, che torna spesso in questi sonetti, a volte evidenziato da forti enjambement: era eguale / e incauto il suono (ii, vv. 9-10); ardente / di risse e di barbarici stridori (iv, vv. 4-5); figura / alzata e irraggiungibile (vi, vv. 5-6); tersa / di vento e di cavalli (vii, vv. 4-5); Aria lontana / e chiusa (ix, vv. 6-7); vampa […] mite e sanguinaria (xi, v. 8); amore / disilluso e lontano (xii, v. 11-12); errori / illimitati e altissimi […] fuga / d’astri e di donne (xiii, vv. 8-10); giorno netto / e giusto (xiv, vv. 3-4). Al v. 8 del ix sonetto, di dolcezza in dolcezza riprende, variandolo, il movimento, caro a Petrarca, dell’incipit della canzone 129: Di pensier in pensier, di monte in monte... 4.2. Forse alla luce dell’assunzione del sonetto come forma solida, strumento di difesa dei valori minacciati dalla tragica contingenza storica possono essere letti anche i pochissimi – solo quattro – sonetti (elisabettiani) di Montale40: Nel sonno, Gli orecchini, La frangia dei capelli…, Il ventaglio. Tutti endecasillabici, con schema ababcdcdefefgg (La frangia… invece: abbacddceffegg) e tutti posti nella sezione iniziale della Bufera, Finisterre, l’unico luogo della sua poesia per cui Montale ha parlato di petrarchismo41. Nei sonetti elisabettiani di Finisterre sono stati già evidenziati alcuni elementi petrarcheschi che si inseriscono nel tessuto fondamentalmente dantesco di queste liriche: in particolare, per l’emistichio di Il ventaglio, v. 7 «e già l’alba l’inostra», Mengaldo rimanda a inostra in rima con chiostra (RVF 192), da legare a RVF 223, v. 12 (Vien poi l’aurora et l’aura fosca inalba; in rima con ma sospiri et lamenti infin a l’alba, v. 10). E aggiunge che «entrambi i sonetti (certo molto danteschi–petrosi, come molto Petrarca) diramano impulsi varii su luoghi, linguistici e tematici, di Finisterre», ricordando anche, negli Orecchini, la rima fugge: strugge; traccia: scaccia di RVF 178. E ancora, per Nel sonno, vv. 4-5 («[…] l’errore che recinge / le tempie e il vago orror dei cedri smossi»), Mengaldo rimanda, oltre che ovviamente a Dante (Inf., iii, 31: E io ch’avea d’error la testa 39 Cfr. Luigi Surdich, Giorgio Caproni…, cit., pp. 48-49: «se da una parte Caproni cerca di bloccare le immagini in una compagine di letterario decoro (il sonetto, appunto), dall’altra disarticola la struttura del sonetto canonico. Un contrasto che è il riflesso di una spinta che conduce la tensione commemorativa non a farsi celebrazione, ma a misurarsi nel confronto col presente». 40 Cfr. ivi, pp. 55-56: «ci sarebbe da riflettere sul fatto che, press’a poco nello stesso tempo, negli anni della guerra, due poeti così diversi, ma entrambi attentissimi al fatto metrico, Montale e Fortini, scrivano dei sonetti: i sonetti shakespeariani di Finisterre il primo […], una poesia programmaticamente intitolata Sonetto, datata 1944 e raccolta nella silloge Foglio di via, il secondo». Il sonetto “elisabettiano” consta di tre quartine a rima alternata più un distico a rima baciata. 41 Cfr. Intervista immaginaria (1946): «le poesie di Finisterre […] rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Il motivo era già contenuto e anticipato nelle Nuove stanze, scritte prima della guerra» (Sulla poesia, cit., p. 568). I quattro sonetti “elisabettiani” di Montale furono editi per la prima volta nella clandestina Finisterre elvetica (Lugano, Collana di Lugano, 1943).

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cinta) anche a RVF 176, vv. 12-13 ( […] un silenzio, un solitario orrore / d’ombrosa selva […]), e annota: come l’errore di matrice dantesca può aver assorbito, data anche la successione a «i gemiti e i sospiri / di gioventù», qualcosa della semantica e connotazione petrarchesca del termine […], così lo slittamento nel contiguo orrore silvestre, di marca petrarchesca, può esser stato sollecitato dall’alternativa error / orror a lungo corrente fra e nelle edizioni della Commedia per Inf. iii 3142.

Ma si può forse aggiungere qualche tessera, ad esempio l’insolita rima brume : piume di Il ventaglio, vv. 8 e 11 (interna), che rinvia a RVF 185, v. 1 (Questa fenice de l’aurata piuma) e v. 8 (foco che m’arde a la più algente bruma). Oppure, proprio in relazione ai primi versi di Nel sonno: Il canto delle strigi, quando un’iride con intermessi palpiti si stinge, i gemiti e i sospiri di gioventù, l’errore che recinge le tempie e il vago orror dei cedri smossi dall’urto della notte […]

osserviamo che iride, in posizione esposta e in rima ipermetra con sospiri, rimanda a Dante, ultimo canto della Commedia (Par., xxxiii, v. 118): «come iri da iri» (: spiri); ma sospiri nei RVF ha ben quaranta occorrenze (delle quali quattordici in rima). Inoltre, Iride (o solo Iri: Iri del Canaan), senhal di Clizia, è disseminato nella testura dei primi tre versi, così come Laura spesso in quella delle liriche petrarchesche: stRIgI, InteRmessI, sospIRI. È una tecnica simile al gioco sul nome di Laura (l’aura, laureto ecc.), in Petrarca, e sul cognome di Irma, in Montale: Brandeis. Per primo Rebay ha notato come l’allusione all’opposizione rosso-bianco, fuoco-gelo frequente nel Montale “cliziano” alluda proprio all’opposizione fra brand (tizzone) e ice (ghiaccio)43. Ma forse si può andare oltre: il rapporto privilegiato fra la poesia di Montale e Irma comincia già in alcuni Mottetti, ma il solo mottetto in cui è presente questo stilema è Ti libero la fronte dai ghiaccioli, composto tardi, nel 194044; e le altre poesie in cui esso compare sono state scritte tutte non prima del 1939 (Elegia di Pico Farnese, Palio, Nuove stanze: le sole liriche delle Occasioni composte nel ’39). 42 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Un libro importante su Montale, in La tradizione del Novecento, cit., pp. 202-203. 43 Cfr. Luciano Rebay, I diàspori di Montale, in «Italica», xlvi, 1, 1969, pp. 44-45. 44 La poesia, pubblicata sul numero di aprile della rivista «La Ruota», entrò poi nella seconda edizione delle Occasioni (cfr. Eugenio Montale, L’opera in versi, a cura di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini, Torino, Einaudi, 1980, p. 912).

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In altre parole: solo quando scompare dalla vita di Montale (si trasferisce in America, i due non hanno più contatti fino a poco prima della morte del poeta), allora, e solo allora, Irma Brandeis45 può “apparentarsi” a Laura: ed è a questo punto, probabilmente, che si inserisce la ripetuta allusione alla doppia e opposta simbologia di Brandeis, oltre che la più importante trasformazione della donna in simbolo cristologico in relazione alla tragica situazione esterna (il 1939 è l’anno dell’inizio della guerra). E non sarà un caso, forse, che anche Laura sia legata da Petrarca alla figura di Cristo: il fatale incontro avviene il giorno del venerdì santo dell’anno 1327 (6 aprile). Ecco allora che ci appare conseguente la scelta, da parte di Montale, del sonetto, il metro di Petrarca e della tradizione letteraria italiana: Montale nella Bufera approfondisce esplicitamente il legame con una civiltà letteraria – anche in questo senso va intesa l’etichetta di “petrarchismo” da lui stesso apposta a Finisterre –, carica la propria poesia di una più profonda “memoria” storica, non per stanco conservatorismo di letterato ma per un moto di recupero e di difesa dei valori della cultura e della civiltà mortalmente minacciati46.

Cultura e civiltà non solo italiane ma europee: per questo Montale adotta non il sonetto ma uno pseudosonetto47, il sonetto elisabettiano, vale a dire la forma del sonetto “esportata” in Europa, dunque forma tipicamente italiana ma anche ‘europea’. 4.3. L’influenza del petrarchismo degli anni Trenta è presente nel libro d’esordio di Alfonso Gatto, il quale nei primi tre testi in versi (tutti endecasillabi) di Isola (Napoli, Edizioni Libreria del 900, 1932) mostra un progressivo avvicinamento alla forma sonetto: il primo (Notte) è formato da due quartine a rima alterna (abab abab), il secondo (Il giogo) da due quartine e una terzina (abab cdcd efe), il terzo (Amore) da un regolare sonetto abab abab cde cde48. Il secondo ha forti legami rimici e lessicali con il Canzoniere di Petrarca: il giogo Ad una montagna dura, scoscesa, dritta sullo specchio verde del mare, mi sono aggrappato in una difesa panica, con le mani strette alle rare erbe che schiantano senza colore. 45 Cfr. Luciano Rebay, Ripensando Montale: del dire e del non dire, in Il secolo di Montale: Genova 1896-1996, a cura della Fondazione Mario Novaro, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 33-69. 46 Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, cit., p. 21, n. 17. 47 La definizione è dell’autore: cfr. L’opera in versi, cit., p. 943. 48 Cfr. Stefano Pastore, Il sonetto nel secondo Novecento, cit., p. 91.

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Non vedo oltre le mie braccia artigliate dall’istinto: risento con terrore la gioia di cadere, abbandonate le membra nel vuoto facile e teso. Ma mi raccolgo, non grido: la voce mi ridarebbe il senso del mio peso.

La parola giogo ha ben tredici occorrenze nei RVF: in particolare, nella canzone 129 (Di pensier in pensier, di monte in monte) è in coupe di verso e compare immediatamente di seguito a montagna (vv. 53-54: «Ove d’alta montagna ombra non tocchi, / verso ’l maggiore e ’l più expedito giogo»); nel “sonetto” di Gatto, la disposizione è rovesciata: il giogo del titolo precede la montagna del primo verso. Si veda inoltre il sonetto 271 dei RVF, dove peso rima con teso (vv. 3 e 6), proprio come nell’unica terzina del Giogo, e la rima a delle quartine è in –ora (nel Giogo la rima c è in –ore). In entrambi i testi compare erba: se in Petrarca nasconde il classico insidioso lacciuol, in Gatto le rare / erbe costituiscono, in antitesi, l’appiglio vitale, anche se precario. Nelle raccolte successive il sonetto si nasconde, accorciandosi nella doppia quartina o dilatandosi in testure nelle quali è comunque riconoscibile la partizione sintattica della forma; Gatto lo ritiene probabilmente non coerente con la sua poetica di quegli anni (il progetto di «Campo di Marte»), così come negli anni dell’immediato dopoguerra lo sentirà estraneo alla vena “recitativa” imposta alla sua poesia dallo stretto rapporto poesia-realtà49. Alla regolarità di questa forma Gatto tornerà solo molti anni dopo, con i sei sonetti, estranei al tema amoroso, inseriti nelle Rime di viaggio per la terra dipinta50. Qui la misura endecasillabica è rispettata, e sono tradizionali gli schemi rimici (il più frequente è abab abab cdc dcd); la sintassi tende a travalicare la partizione metrica per costruire un’architettura ampia, ariosa, si direbbe luminosa (in armonia con il prevalente interesse coloristico di queste poesie), e in un caso abbraccia l’intero sonetto (La pergola): I primi freddi e l’ultimo tepore dell’ottobre marino, la canaria nel suo scialle di brividi ne muore teneramente, quasi fatta d’aria e di luce e di nulla, solitaria cerula voce del posteggiatore al suo filo di grazia, ma la varia tristezza del suo volgere all’amore

È in sintesi quanto scrive persuasivamente Pastore (ivi, pp. 92-93). Milano, Mondadori, 1969 (cento poesie parallele a cento tempere dipinte dallo stesso autore): Lo stagno fiorito; Place du Tertre; La Certosa; Il porto incantato; Bagno Massaua; La pergola. 49 50

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale il sollievo dell’anima è nel vento di prima sera, ancora chiaro: porta al largo la memoria ch’ebbe un volto, un nome che ritorna dall’ascolto, invocata distanza, luna sorta dal nulla agli occhi dell’incantamento.

Con le di poco successive Poesie d’amore51 siamo ormai nel secondo tempo, vicino al manierismo, della presenza del sonetto nella poesia di Gatto, che lo adotterà anche in Desinenze52: quattro sonetti regolari per misura endecasillabica e per rime (Allèle, Reverteris, Magìa, Efebo), uno “elisabettiano” (La donna gialla) e uno minore (Dialoghetto; settenari, dei quali uno ipometro e uno ipermetro). L’abbinamento fra sonetto, tradizione petrarchesca e tema amoroso è palese nella corona di 15 Sonetti d’amore a Emilia secondo l’imitazione dal Petrarca e da John Donne, datati «1944», che Carlo Betocchi lasciò inediti fino al 1980, quando decise di pubblicarli nella raccolta Il sale del canto (1934-1977)53, mandata in libreria con la seguente, significativa (anche se certo non d’autore) bandella pubblicitaria: I più bei sonetti d’amore del nostro secolo54. 4.4. Uno degli esempi più alti dell’uso del sonetto inteso come forma letteraria non privata ma civile è il Sonetto di Fortini sulla tragedia della shoa (in Foglio di via e altri versi, Torino, Einaudi, 1946): Sempre dunque così gemeranno le porte divaricate in pianto. Rotano eterni i fumi dei roghi e giù s’ingorga la coorte d’uomini scimmie, di femmine implumi. Con loro, amici! Sono questi i fiumi da cui credemmo salvare la sorte. Ma se le torce stridono e vacillano i lumi qualcuno dentro il buio canta più forte. Non la battaglia bianca d’arcangeli cristiani clama l’inno che tu alla notte rubi sempre più cieca; ma noi, gli ultimi, i vivi. A coro alto scendiamo, le mani strette alle mani Milano, Mondadori, 1973. Milano, Mondadori, 1977. Parma, La Pilotta. Il lavoro stilistico di Betocchi sulla forma sonetto, da lui praticata – sia pur parcamente – lungo tutta la sua attività poetica, è uno degli esempi più interessanti, nel secondo Novecento, di «compromissione fra il richiamo della forma tradizionale del sonetto e la sua contemporanea messa in crisi» (cfr. Stefano Pastore, Il sonetto nel secondo Novecento, cit., p. 83). 54 Se ne veda la riproduzione fotografica in Anniversario per Carlo Betocchi. Atti della giornata di studio. Firenze, 28 febbraio 2000, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 132. 51

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intrepidi, le grotte vane: Anùbi enorme erra, testa di cane, ai trivi.

Lo schema delle rime viene da Petrarca (lo schema abab baba cde cde è quello di RVF 260) ma attraverso Foscolo55, ben presente anche a livello lessicale, con la vera e propria citazione dell’incipit: «[…] Gemeranno gli antri / secreti, e tutta narrerà la tomba / Ilio raso due volte e due risorto» (Dei Sepolcri, vv. 283-285; la forma gemeranno è un hapax nella lingua poetica italiana). Materia civile e sonetto saranno ancora uniti da Fortini nel Sonetto dei sette cinesi, in L’ospite ingrato (Casale Monferrato, Marietti, 1985): […] Ho una foto alla parete. Vent’anni fa nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi. Guardano diffidenti o ironici o sospesi. Sanno che non scrivo per loro. Io so che non sono vissuti per me. […]

e in Composita solvantur (Torino, Einaudi, 1994), in relazione alla Guerra del Golfo del 1991. 5.1. Al nome di Fortini è legato anche uno dei più importanti recuperi novecenteschi della sestina, un metro che a buon diritto si potrebbe definire petrarchesco, proprio per la rilevanza numerica di questa forma nei RVF (e quindi nella tradizione): la Sestina a Firenze, datata in calce «1948-57»56, nella quale l’autore allude ad entrambi i poli della tradizione della forma (Dante e Petrarca). Sempre all’inverno delle torri un fiore si posa appena aprile apre la terra con il suo giunco d’aria e agita argento al riso desolato delle sale alle armi dei chiostri. Un fiore d’erba d’aliti cauti anima le pietre. […] Dunque verso quell’ombra alla mia terra vengo da sempre e alle deserte sale dei templi e delle logge dove il fiore di Firenze scolora antico e l’erba parla dei morti fra i marmi d’argento. Ma per questa mia pace ultima, pietre, Cfr. Claudio Marazzini, Revisione ed eversione metrica, cit., pp. 202-203. Pubblicata per la prima volta in Poesia e errore (Milano, Feltrinelli, 1959), fu ritoccata poi fino alla definitiva edizione in Una volta per sempre. Poesie 1939-1973 (Torino, Einaudi, 1978). 55

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale se il vento sale e il sereno alle pietre, se aprile grida argento, abbia la terra sempre chi l’erba e il tempo intenda e il fiore.

Dalla sestina dantesca Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra Fortini prende le due parole rima erba e pietre (pietra in Dante), mentre fiore e terra provengono da due sestine petrarchesche (239, Là ver’ l’aurora, che sì dolce l’aura, e 22, A qualunque animale alberga in terra); sono invece estranee alla tradizione le altre due parole rima, argento e sale (usato come rima equivoca: è sostantivo plurale nelle stanze i, iii e vi, voce del verbo salire nella iv e v, e sostantivo singolare nella ii). Le rigide regole della forma sono trasgredite solo nei forti enjambement che legano la seconda alla terza stanza e l’ultima stanza al congedo e, soprattutto, in una infrazione alla retrogradatio cruciata nell’ultima stanza, dove lo schema delle rime dovrebbe essere bdfeca, ed è invece bdaecf: sono cioè scambiate le posizioni delle rime a (fiore) e f (pietre), con conseguente mise en relief semantica delle pietre delle torri di Firenze, quindi del rapporto tra memoria privata, che occupa le strofe precedenti, e memoria storica («l’erba / parla dei morti fra i marmi d’argento»). L’infrazione metrica sottolinea cioè lo snodo semantico fondamentale della poesia. 5.2. Soffermiamoci brevemente sulla forma della sestina, e sulla grande attrattiva che il suo congegno continua ad esercitare sul gusto del nostro tempo57, dando luogo ad esiti anche molto lontani dalla struttura originaria: ad esempio, Tape Mark I di Nanni Balestrini («poesia elettronica» scritta nel 1961)58, prodotta con l’aiuto di un calcolatore elettronico e secondo principi di strutturazione vicini alle leggi che regolano la sestina59. Questa è la prima strofa: La testa premuta sulla spalla, trenta volte più luminoso del sole io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita lentamente e mentre la moltitudine Cfr. Aurelio Roncaglia, L’invenzione della sestina, in «Metrica», ii, 1981, p. 5. Fu pubblicata nel 1962 e inserita nel ’69 nell’antologia curata da Edoardo Sanguineti della Poesia italiana del Novecento; poi in Poesie pratiche. 1954-1969, Torino, Einaudi, 1976: in questa raccolta, si trova anche Specimen, composta da quattro strofe (di sei versi lunghi), in ognuna delle quali ritornano almeno dieci parole o sintagmi usati in ciascuna delle altre strofe. 59 Le regole sono minuziosamente spiegate dall’autore: il testo base è costituito da tre brani (tratti dal Diario di Hiroshima di Michihito Hachiya, da Il mistero dell’ascensore di Paul Goldwin e dal Tao te King di Laotse), suddivisi ciascuno in elementi costituiti da due o tre unità metriche e contraddistinti da un codice di testa e uno di coda (indicanti la possibilità di legame sintattico con gli altri elementi). Le istruzioni per il computer sono le seguenti: effettuare combinazioni di 10 elementi, sui 15 dati, senza permutazioni e ripetizioni; costruire catene di elementi tenendo conto dei codici di testa e di coda; evitare la contiguità di elementi presi dallo stesso brano; suddividere le catene di 10 elementi in 6 versi, ciascuno composto da 4 unità metriche. 57

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delle cose accade, alla sommità della nuvola esse tornano tutte alla loro radice e assumono la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.

Della vitalità della forma sestina negli ultimi decenni danno conto sia Gabriele Frasca che Andrea Cortellessa60, dai quali prendiamo qualche esempio: sono metricamente regolarissime (a contrasto con la tematica erotica di ardito barocchismo) le due sestine di Patrizia Valduga Al poco giorno la troppa mia notte e Tristemente il mio giorno tempra il tempo61; hanno struttura ‘alla francese’, cioè con le parole rima rimate fra loro (treno, stento, meno, vento, sereno, divertimento) le tre sestine anch’esse di tema antitradizionale (‘ferroviarie’) che chiudono il libretto di Alessandro Fo, Carlo Vecce, Claudio Vela Coblas. Il mistero delle sei stanze62. Sono aderenti al modello le sestine di Nicola Gardini63 e dello stesso Frasca, autore di una “ipersestina”64 da lui definita «una sestina al quadrato, di 42 stanze, con l’ultima parola-rima che si perde a ogni giro di boa»; le prime sei stanze hanno regolare retrogradatio cruciata, poi riprende l’ordine seguito nell’ultima stanza, ma con la sostituzione dell’ultima parola rima. Da quel momento riprende la retrogradatio, fino al successivo “giro di boa”. La fortuna del metro prosegue nel nuovo secolo: ne sono prova, ad esempio, la Sesta rima dello schiavo prigione di Fabio Pusterla (in Folla sommersa, Milano, Marcos y Marcos, 2004) e la sestina che Alessandro Fo pubblica in Corpuscolo (Torino, Einaudi, 2004), dove il tema “umile” è introdotto dal titolo, El portava i scarp del tenis, riconoscibilissima citazione dalla fortunata canzone di Enzo Jannacci nella quale il protagonista era un barbùn (così come qui è un profesùr, quasi altrettanto povero). Il registro ironico è marcato da alcune citazioni colte, quali i guazzi del v. 10, memori dei gelati guazzi di Inf., xxxii, 72, o l’attacco della quinta strofa («E il profesùr ripensò la sua vita»), che rimanda a un celebre snodo del Cinque maggio manzoniano (v. 25 e sgg.: «e ripensò le mobili / tende, e i percossi valli, / e il lampo de’ manipoli, / e l’onda dei cavalli […]»): Il profesúr vide un paio di scarpe passeggiando una sera in un paese nella giornata ch’è metà dei passi della stagione estiva e di sua vita. Col cuore in ansia vagliò fra sé il prezzo: la qualità; e le sue poche lire. 60 Rispettivamente in La furia della sintassi, cit. e in Una Tafelmusik di fine secolo. Flusso percettivo e interdizione narrativa nell’«ipersestina» di Gabriele Frasca, in «Anticomoderno», 2, 1996, pp. 81-103. 61 In Medicamenta e altri medicamenta, Torino, Einaudi, 1989. 62 Milano, Scheiwiller, 1987. 63 Che cosa succede di scatto in bocca… e Se voglio che piova, una pioggia forte…, in Nuovi poeti italiani, Torino, Einaudi, 1995, pp. 51-52 e 66-67. 64 In Rame, Milano, Corpo 10, 1984 (poi Genova, Zona, 1999).

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale «Centocinquanta, è il prezzo, mila lire». Ma gli apparivan, le splendide scarpe, perfette: sì da non avere in prezzo nevi né guazzi d’inverno al paese dove la sorte gli assegnò sua vita (e, qualche volta, tentare alti passi). Parla un amico, e gli dice: «Non passi senza profitto l’occasione; le lire che ti pretende il costo della vita sono investite nelle belle scarpe». Poi mostra che l’artista di paese ha adibito un cuoio di gran prezzo; e come – e come ciò non abbia prezzo – la doppia cucitura a mano passi la suola Olympic di Trento, paese di piogge e nevi non da poche lire, sì che la guardia ch’è sotto le scarpe sia in prima linea a campare la vita. E il profesúr ripensò la sua vita: il giorno dopo giorno; ed il suo prezzo; la gran necessità di quelle scarpe; e però anche di non fare passi più lunghi delle corte gambe-lire, già sulla via del ritorno al paese dei guasti all’automobile, al paese delle bollette, dell’affitto alla vita. Ma cosa sono la vita, le lire! Vogliamo un bene? e paghiamone il prezzo! «La buona idea – disse l’artista – passi: son destinate già a Crema, le scarpe». Andrete accanto al mio paese, scarpe, breve cometa a mia vita; le lire, doppiato il prezzo, terranno altri passi.

È con regolare retrogradatio, ma in settenari (tranne il congedo, in endecasillabi), la sestina di Valerio Magrelli Si riparano personal [computer] (accolta in Disturbi del sistema binario, Torino, Einaudi, 2006) che si configura come un’ironica bonaria invettiva che il letterato utente incompetente di computer lancia al tecnico, pure incompetente: Tu non sai fare nulla e anche il nulla fai male riducendomi a ostaggio della tua falsa scienza,

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massimo incompetente d’una minima tecnica. Che penso della tecnica? Non posso dirne nulla in quanto incompetente, benché esperto del male che viene dalla scienza passiva dell’ostaggio. E se parlo da ostaggio è perché questa tecnica, fingendosi una scienza, mi consegna al suo nulla, nel reame di un male il cui re è incompetente. Ma più che incompetente, carnefice: il suo ostaggio sta abbandonato al male per placare una tecnica efferata che nulla sazia, sadica scienza. Io non odio la scienza bensì l’incompetente che taglia e spaccia il nulla, lui stesso ignaro ostaggio assuefatto alla tecnica come il tossico al male. Perciò auguro il male a chi, privo di scienza, mi incatena alla tecnica pensando, incompetente, di trattarmi da ostaggio senza che obietti nulla. Invece, contro il male, contro il nulla di una scienza affidata (mala tecnica currunt) a incompetenti, io scrivo!, ostaggio.

Era invece molto libera la rivisitazione ironica del metro fatta da Edoardo Sanguineti in Canzonetta pietrosa (datata «luglio 1982»)65, dove le “pietre” alludono a Dante ma anche, e soprattutto, ai Rolling Stones allora in tour in Italia (e dove forse non manca un riferimento, pertinente, all’autore più tra65

Pubblicata in Senzatitolo, Milano, Feltrinelli, 1992.

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sgressivo della nostra letteratura più antica, Cecco Angiolieri, e al suo celebre “manifesto” poetico: «S’i’ fosse fuoco, arderei ’l mondo /[…]/ s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei»): che vecchia pietra, vecchio amore, è il tempo, e che Rullo che Rotola di Roccia! respiro pietre che bruciano l’acqua, e brucio pietre che bevono l’aria, e bevo pietre che respira il fuoco: pietra che gridi con voce di pietra, che verde muschio, vecchio amore, è il tempo! che verde fuoco, e che verde acqua, è l’aria, e che Ramo di Rose è che mi Ride! rotolo un’acqua che mi soffia il fuoco, rotolo un fuoco che mi bagna l’aria, rotolo un’aria che mi incendia l’acqua: pietra che canti con voce di muschio, che verde pietra, verde amore, è il tempo! oh, Rolling Stones, mio incendio, mia tempesta, mio diluvio che rotoli nel tempo: mangio il fuoco e le pietre, e mordo l’aria: che Morte Molle, in un Mare di Muschio!

È evidente come il rimando alla sestina sia stravolto, ma comunque saldo nella sua rigorosa originalità: tre strofe rispettivamente di sette, sette, quattro endecasillabi prosodicamente regolari; delle parole rima della prima strofa (tempo è in coupe sia al primo che all’ultimo verso), quattro tornano nella seconda, nella quale aria è in coupe due volte; una (acqua) è all’interno del terzo verso; muschio, apparentemente irrelato, è in rima al mezzo con l’ultimo verso della prima strofa. Fanno a sé e sono irrelati i versi in seconda posizione, ma sostitutiva della identità della parola finale parrebbe essere l’allitterazione della r che li accomuna (ogni parola di entrambi inizia per r: è l’artificio, caro a Sanguineti, del tautogramma). La terza strofa (il “congedo”) riprende tutte le parole rima, tranne acqua, la quale però può essere “letta” nei due sostantivi semanticamente sostitutivi diluvio e tempesta (che inoltre “contiene” un’altra delle parole rima, tempo, seguendo con originalità quanto la forma sestina ammette nel congedo: una parola rima può essere sostituita da un’altra parola che la contenga). Nella gabbia, pur stravolta, della sestina, entra un materiale verbale allusivo, in modo più o meno palese, ai non tradizionali protagonisti della poesia: la pietra e il rotolare rimandano, con l’evidenza di una citazione, alle “pietre rotolanti” (Rolling Stones); il muschio è unito alle pietre che rotolano nel

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proverbio «A rolling stone gathers no moss», che ebbe una certa notorietà in passato anche perché lo si utilizzava in psichiatria come test66; l’esordio, con l’insistenza su vecchio amore e tempo, ricorda, a chi abbia una media familiarità con le canzoni dei Rolling Stones, la loro Out of time, che parla di un amore ormai finito («You’re obsolete my baby, my poor old-fashioned baby, / I said baby, baby, baby, you’re out of time»). E ancora: il verso finale potrebbe alludere alla misteriosa morte di Brian Jones (uno dei fondatori del gruppo, annegato in una piscina il 2 luglio 1969), che molto colpì l’immaginario dei giovani di allora e ispirò ad un altro idolo rock, Jim Morrison, una poesia in memoria di Jones; il quale, al v. 42 della poesia, viene definito «a damask musky muse» (“damascata musa di muschio”)67. 6.1. Finemente ironica è l’adesione tematica e stilistica al modello petrarchesco del Breve canzoniere di Tommaso Landolfi (Firenze, Vallecchi, 1971), singolare prosimetrum che, alla maniera della dantesca Vita nuova, inserisce in un breve romanzo d’amore 14 sonetti (più uno finale, un «fuoriprogramma»)68, dedicati alla protagonista ma anche sottoposti al suo giudizio e quindi da lei chiosati con ironia talora pungente e con un’attenzione tecnica alla quale non sfuggono una parola inattestata (quora, al v. 4 del sonetto finale), la rima ipermetra erratico : scompigliati nel primo sonetto e un’irregolarità nello schema rimico del settimo, con conseguente suggerimento di una lezione sostitutiva. Il decimo sonetto è un’irriverente infrazione alla coerenza tematica petrarchesca e allude invece a celebri precedenti in stile “comico”69, come è evidente dai soli versi – il primo e gli ultimi due – che l’autore esonera da una pudica omissione: «È tua sorella, donna, una piccina […] Lesta s’inquatta, palpitante come / Lodola spaventata nel suo solco». Sarà esplicito invece l’erotismo calato nella regolarità formale petrarchesca (metro, movenze sintattiche, sintagmi) nei sonetti di Patrizia Valduga70, fra i quali Qual mai sarà l’anno, il mese, qual giorno, che palesemente cita RVF 61, Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno, ed avrà una “risposta” da Giovanni 66 Lo terrà presente poi anche Vinicio Capossela nella sua fortunata canzone Il ballo di San Vito (2003): «[…] fermo non so stare in nessun posto / rotola rotola rotola il masso / rotola addosso, rotola in basso / e il muschio non si cresce sopra il sasso / e il muschio non si cresce sopra il sasso […]». 67 Per queste informazioni avevo fatto ricorso alla cortesia di Massimo Ghimmy, che qui ringrazio affettuosamente, in memoriam. 68 Cfr. Natascia Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, Pisa, Edizioni ets, 2000, p. 29. Il volume della Tonelli è stato recensito da Carlo Enrico Roggia in un importante articolo (Il sonetto nel Novecento, in «Stilistica e metrica italiana», ii, 2002, pp. 275-285), dove è presentato anche il progetto del Repertorio metrico del sonetto novecentesco, cui attendono Roggia ed altri studiosi padovani allievi di Mengaldo: i primi risultati della ricerca, fondamentale per lo studio della metrica novecentesca, sono stati offerti nel “Seminario di stilistica e metrica italiana” svoltosi presso l’Università di Padova nei giorni 11 e 12 dicembre 2003. 69 Il rimando è ai sonetti di Porta e Belli (ma, ancor prima, del Franco e dell’Aretino) sui vari nomi attribuiti agli organi genitali. 70 In Medicamenta, Milano, Guanda, 1982. Cfr. Natascia Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, cit., pp. 86-87.

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Raboni, quasi in privata “tenzone” sentimentale, nel sonetto (appena variato: tre quartine e un distico) intitolato Troppi anni e mesi e giorni e notti e sogni71. Una sorta di sonetto al quadrato è l’Ipersonetto di Andrea Zanzotto, formato – secondo la definizione dell’autore che sembra alludere a un acrostico “strutturale” – «da 14 sonetti che tengono ognuno il posto di un verso in un sonetto. Più una premessa e una postilla»72. La struttura metrica e sintattica (periodare logico, rime, ritmo endecasillabico) è salda, anche se movimentata da un parossistico “gioco” dei significanti: lo rileva bene Dal Bianco73, che individua un probabile precedente dell’idea dell’Ipersonetto nei 14 sonetti “elisabettiani” di Pasolini intitolati Sonetto primaverile (scritti nel 1953 e pubblicati nel 1960)74. Un altro modello andrà forse cercato in uno dei libri metricamente più interessanti di tutta la lirica italiana: gli Amorum libri di Boiardo, che iniziano con un nucleo di 14 sonetti reso compatto anche dall’acrostico (Antonia Caprara) ricomponibile leggendo di seguito le lettere iniziali di ciascun sonetto e riproposto (più normalmente, attraverso le lettere iniziali di ogni verso) nell’ultimo dei 14 sonetti75. È difficile capire quanto sia “sincero” lo stesso Zanzotto quando, riflettendo a distanza di molti anni sul suo Ipersonetto, in una recente intervista76 afferma: un ipersonetto come quello che ho fatto io, quattordici sonetti più due, quindi sedici, è spropositato addirittura. Non che prima nessuno avesse fatto qualcosa di simile: Landolfi aveva scritto una serie di quattordici sonetti, ma io allora non lo sapevo [corsivo mio]. Qualche precedente, cercando, si può trovare, ma non ho ricevuto alcuna spinta in quella direzione. Mi è venuta l’idea di fare un ipersonetto, un sonetto spropositato; con in più anche un prologo e una conclusione esterni.

Nella stessa intervista, ribadisce molto fermamente la sua fiducia nella vitalità del sonetto: Il sonetto è ancora molto vivo; anzi direi che, anche se non tutti lo ammettono, dopo la pubblicazione di Il Galateo in Bosco e dell’Ipersonetto ha conosciuto un rilancio. Edito in Versi guerrieri e amorosi (Torino, Einaudi, 1990). Cfr. Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, 1999, p. 647. L’Ipersonetto appartiene alla raccolta Il Galateo in Bosco (Milano, Mondadori, 1978). 73 Ivi, pp. 1592-1593. 74 Ora in Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori, 2003, tomo i, pp. 757-772. La variante “elisabettiana” del sonetto è particolarmente cara a Edoardo Cacciatore, che vi rimane fedele da La restituzione (Firenze, Vallecchi, 1955) fino a La puntura dell’assillo. Cinquanta ed un sonetto (Milano, Società di Poesia, 1986), sempre garantendo la circolarità della struttura attraverso una serie di connettori intratestuali: cfr. Natascia Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, cit., pp. 114-115 e 120-121. 75 E si tenga presente anche il già citato Breve canzoniere di Landolfi. 76 L’intervista, rilasciata il 29 settembre 2005 a Guglielma Giuliodori, è pubblicata, con titolo L’«Ipersonetto» oggi, in «Allegoria», xix, 55, gennaio-giugno 2007, pp. 181-189 (citazioni a p. 182 e a p. 181). 71

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6.2. Ma a questo punto si impone una riflessione, che vale per tutta la produzione di sonetti nel Novecento: quanto c’entra Petrarca? Difficile dirlo, stante la coincidenza, per così dire, di Petrarca con la tradizione lirica e quindi con certa tradizione metrica: il sonetto in primo luogo. Potremmo affermare, con un po’ di approssimazione, che poiché il Petrarca è, per la sua importanza intrinseca e per il suo ruolo di “codificatore” consacrato definitivamente dal Bembo, non l’Autore di sonetti ma comunque – mi si passi la definizione – un po’ più autore di sonetti degli altri poeti che hanno scritto sonetti, quando è forte il rimando – anche e soprattutto antifrastico – al sonetto, questo può essere un rimando non solo ma soprattutto a Petrarca. Certo il legame è più solido, e vira verso il “manierismo” tipico di molta poesia dell’ultimo ventennio (che si manifesta per l’appunto con la ripresa dei metri chiusi della tradizione) se soccorrono altri indizi, se cioè la ripresa di Petrarca è “a strascico”: se insieme al metro si pescano anche tessere rimiche e/o lessicali e sintagmatiche. Ad esempio, anche lo studente più distratto non potrà fare a meno di sentire una forte brezza petrarchesca aprendo la raccolta poetica di Zanzotto alla pagina del sonetto Notificazione di presenza sui Colli Euganei77: Se la fede, la calma d’uno sguardo come un nimbo, se spazi di serene ore domando, mentre qui m’attardo sul crinale che i passi miei sostiene, se deprecando vado le catene e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo onde per entro le più occulte vene in opposti tormenti agghiaccio et ardo, i vostri intimi fuochi e l’acque folli di fervori e di geli avviso, o colli in sì gran parte specchi a me conformi. Ah, domata qual voi l’agra natura, pari alla vostra il ciel mi dia ventura e in armonie pur io possa compormi.

Qui il «registro burocratico del titolo prende ironicamente le distanze nei confronti del sentito omaggio petrarchista» e l’unica apparente anomalia (la disposizione chiastica delle rime alternate nella fronte) è in realtà autorizzata da RVF 27978. L’incipit ricalca quello di RVF 224 (sonetto S’una fede amorosa, un cor non finto), e la dittologia oppositiva agghiaccio et ardo (uno dei più vistosi 77 78

Edito in IX Ecloghe, Milano, Mondadori, 1962. Come nota Dal Bianco, in Andrea Zanzotto, Le poesie…, cit., p. 1480.

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senhal petrarcheschi) del v. 8 rimanda al primo verso della seconda terzina dello stesso sonetto di Petrarca: «s’arder da lunge et agghiacciar da presso». A volte l’impronta petrarchesca va ricercata con una lente più potente: ad esempio, la raccolta di Nanni Balestrini Ipocalisse. 49 sonetti, datata «Provenza 1980-1983»79, consta di poesie composte da versi brevissimi, non legati da rima, dai quali è completamente assente la punteggiatura e nei quali l’unico elemento di regolarità è il numero dei versi (14). Ma Petrarca, con cui queste poesie sembrerebbero avere in comune solo un elemento geografico – la Provenza –, è presente in modo culto e criptato (una Ipo-calisse ha il dovere etimologico di nascondere): i sette “sonetti” della quinta sezione, intitolata Finisterre, recano tutti nell’incipit la parola mano (in tre casi al plurale), con riferimento sia a Petrarca che al petrarchismo (La bella mano di Giusto de’ Conti è per l’appunto il primo canzoniere petrarchistico). Molto riconoscibili sono invece i sonetti di Giovanni Raboni, che a un certo punto della sua attività poetica, intorno alla metà degli anni Ottanta, vira in modo deciso verso la forma chiusa: […] mi sono convinto che lo stesso lavoro di liberazione metrica che attraversa tutto il secolo si sia a sua volta un po’ esaurito. Il ritorno alla prigione metrica significa fare un passo indietro per ritrovare uno slancio di libertà anche formale. […] Il sonetto […] è diventato il modo in cui oggi penso la poesia. D’altra parte, quasi contemporaneamente ho cominciato a lavorare contro il sonetto. I miei sonetti rispettano lo schema ma allo stesso tempo cercano di disfarlo, di metterlo in discussione, per esempio con un gioco di accenti, di rime sulle particelle e sulle congiunzioni80.

Raboni si riferisce qui in particolare ai Versi guerrieri e amorosi81 e ad Ogni terzo pensiero82, raccolta dalla quale prendiamo un sonetto in cui è particolarmente evidente il sottile lavoro di accenti e rime sugli elementi secondari della frase: Essere… essere, sì, intimi, nel cuore, nel midollo, con chi è noi, con chi d’altro noi siamo – forse è tutto qui il segreto, è così che si fa onore alla vita se è solo per ardore 79 Milano, Scheiwiller, 1986. Il titolo, come gentilmente mi suggerisce Pierluigi Cuzzolin, potrebbe alludere sia, con antifrastica ironia, al recente Ipersonetto di Zanzotto sia all’Ipercalisse foscoliana, uno dei testi più singolari e criptici (appunto) della nostra letteratura. 80 Cfr. l’intervista rilasciata a Guido Mazzoni (Classicismo e sperimentazione contro la perdita di significato), in «Allegoria», 25, gennaio-aprile 1997, pp. 141-142. 81 Già citati sopra per il sonetto Troppi anni e mesi…, e contenenti anche le Reliquie arnaldine, che iniziano con una “traduzione” (Voglia che in cuore m’entra…) della sestina di Arnaut Daniel. 82 Milano, Mondadori, 1993. Ma l’affermazione varrà anche per la successiva raccolta Quare tristis (Milano, Mondadori, 1998).

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che le duecentosei ossa non si dissaldano innanzi tempo, se è di estraneità alla vita che si muore, con minima pena, come lasciamo una casa senza fuoco. E forse, ossa dimenticate, una provvida mente ci penserà, due amanti! e nuovamente vivi traslocheremo dalla fossa all’apparirci, all’esserci che siamo.

6.3. Continuiamo a seguire la strada autonoma del sonetto, allontanandoci ancora per un po’ dalla via maestra dell’eredità metrica petrarchesca, e accenniamo ai sonetti, mascherati in modo talvolta buffo o beffardo, di Edoardo Sanguineti, il quale in proposito ha dichiarato83: Quando si usano procedimenti metrici, ci sono due modi di adottarli: uno è di crederli ancora naturali alla lingua e alla tradizione, come se nel mondo non fosse successo niente; l’altro è di usarli in maniera straniata. Come nella musica si possono usare le combinazioni tonali a patto di intenderle come uno dei tanti modi in cui si esprime una visione che ormai è atonale, così io posso scrivere un sonetto, ma dev’esser chiaro che mi sto servendo di una citazione: io sono pieno di endecasillabi, ma questi endecasillabi vengono il più possibile dissimulati, mortificati, incastrati con altri. Come non utilizzare questo tesoro di esperienza? Però occorre utilizzarlo non come natura, ma come storia.

Nella sezione finale di Segnalibro (Milano, Feltrinelli, 1982), il primo dei molti pseudo-sonetti è datato 1978 e ha titolo Sottosonetto: vittime designate segna un segno (un disegno) di sogno: (un raro ranae et hominis impasto): anfibio regno di bestie intrappolate, queste vane varici varie e vaste: il pasto è pregno di un rospo da rocchetto: ne rimane (rotta è l’alta colonna, e l’alto ingegno è un filo, un fumo) un fiato: (un marzapane): rotta è l’alta colonna: (e rosso è il topo che mi rode): (un fantasma): una chimera da fromboliere e da formaggi, e mia: falcato, acuto, il dente umano (dopo 83 Cfr. Massimo Gezzi, «A me della poesia m’importa pochissimo». Incontro con Edoardo Sanguineti, in «Atelier», 32, dicembre 2003, p. 63.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale una forte acqua) mi morde: è una vera batraco, Valeriano, miomachia:

Gli endecasillabi sono prosodicamente regolari, lo schema di rime è il più semplice (rima alternata nelle quartine e replicata nelle terzine), ma il contenuto è semanticamente frantumatissimo, e macina al suo interno l’emistichio iniziale del sonetto petrarchesco 269 (Rotta è l’alta colonna e ’l verde lauro), iterato ai vv. 7 e 9 (prima in compagnia del pure petrarchesco alto ingegno, poi di un meno aulico rosso topo). In Il gatto lupesco. Poesie 1982-2001 (Milano, Feltrinelli, 2002) troviamo molti sonetti “regolari”84, un Emisubsonetto (due terzine aba cbc + una quartina deed; letto dal basso lo schema è regolare, con omissione della prima quartina: abba cdc ede), Cinque semisonetti (una quartina + una terzina) e un Acrobistico (con rime esclusivamente tronche, che coinvolgono per lo più parole straniere): rifugio è il doppio coeur, che a me fa il crac, ovvero è il beau boulevard, che ha nome Go: un Jonas, sbalenato da un cognac, bienveillamment si espone al bleu Roubaud: acqua in un pugno, abyssant patatrac, una ragazza strilla: “io che ne so di seni e di semafori di Bach, rectangles périmétrés che non dirò?”: o amore, amore, più mésange di un Jacques, un Faust di fête foraine ci piange in “Ach!”: boutiquière fatta cube è un pagherò: al fu ministro Paul-Henri-Charles Spaak una ventriloqua va, sur vélo, da un Vernier strapropulsa, un ex-Hugo:

È formalmente un “emisonetto” rovesciato quello che Guido Oldani adotta in La betoniera (Lietocolle, 2005) in undici delle dodici liriche di cui si compone il libro: sette endecasillabi, il terzo dei quali è sempre chiuso da un punto fermo, a riprodurre lo schema terzina + quartina85; ne trascriviamo, come esempio, l’ultima (La lavatrice):

84 Le petit tombeau (3); Animali elementari (4); Per C.C.; Chronometron; Catasonetto; Son sepulchre; Che cosa è la poesia; Imitazione; Sonetto Sud; Sonetto Fieschi; Esortazione a contemplare Hale-Bopp; Metalmeccanici (4); Radiosonetto; Guardami, me. 85 Nella prima poesia, eponima, alla “terzina” seguono non quattro ma sei versi; gli ultimi due sono però una sorta di glossa all’intera raccolta: «e il tutto è nella pancia di dio padre, / che ci mescola, dolce betoniera».

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la centrifuga gira come un mondo e i suoi abitanti sono gli indumenti riposti dalla coppia dei congiunti. si avvinghiano bagnati in un groviglio i rispettivi panni in capriola, sono rimasti questi i soli amanti, quegli altri se si afferrano è alla gola.

Sono invece regolari nella struttura ma ammettono versi superiori all’endecasillabo i sessanta sonetti raccolti da Giovanni Orelli in Né timo né maggiorana (Milano, Marcos y Marcos, 1995)86; sono diversamente eccentrici sul piano tematico i sonetti erotici di Roberto Piumini (L’amore morale. Sonetti erotici, Genova, Il Melangolo, 2001) e quelli “ortolani” pubblicati da Alessandro Fo in Piccole poesie per banconote (Firenze, Edizioni Polistampa, 2001): Sonetto con rughetta e Potenza delle zucchine (definito “controsonetto”: due terzine più due quartine). È ripresa anche la corona di sonetti, ad esempio da Luigi Ballerini nella raccolta Uno monta la luna (Lecce, Manni, 2001). Al corposo recupero del sonetto nella poesia degli ultimi decenni hanno dedicato pagine importanti Stefano Pastore e Natascia Tonelli87, delineando un ampio quadro dei nuovi e nuovissimi poeti sperimentatori della forma sonetto, di volta in volta più o meno dissimulato (senza partizioni strofiche, con forte scarto tra punteggiatura e sintassi, con schema rimico irregolare o assente, ecc.). La linea dominante del recupero del sonetto negli ultimi anni è sicuramente quella ironica e antifrastica, eventualmente potenziata da rimandi lessicali petrarcheschi, come in questo sonetto endecasillabico perfettamente rimato abba abba cde cde, con titolo Esercizio alla vecchia moda, scritto da Pietro G. Beltrami88: Ogni piaga ha il suo tempo; sola pianta l’oblio, nebbia dal cuore, ne germoglia: così il dolore, fiore senza foglia, presto s’alza sul gambo e presto schianta. Ma il viticchio del tempo non s’agguanta senza succhiare dalla gamba spoglia della gioia scampata qualche voglia, e presto o tardi in terra la ripianta. Perciò nei giorni tenebrosi e tristi Cfr. Natascia Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, cit., pp. 52-53. Rispettivamente in Il sonetto nel secondo Novecento, cit. e Aspetti del sonetto contemporaneo, cit. Ma cfr. anche il precedente saggio di Pier Vincenzo Mengaldo Questioni metriche novecentesche, in La tradizione del Novecento, Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, pp. 27-74. Pur nei limiti di spazio imposti dalla sede di pubblicazione, è utile la recente rassegna di Daniele Piccini apparsa su «Poesia» (xx, 214, marzo 2007, pp. 57-60) come ultima puntata (xiv-La contemporaneità) della rapida sintesi La storia del sonetto in Italia. 88 Pubblicato nella terza raccolta di Nuovi poeti italiani Einaudi, a cura di Walter Siti, Torino, Einaudi, 1984, p. 128. 86 87

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale che la virtù dei deboli non paga non è molto il timore del disastro. Fossimo stati vili ed egoisti fin da principio, alla cocente piaga sapremmo bene mettere l’impiastro.

La cocente piaga che chiude il sonetto (riallacciandosi all’inizio) discende dall’alta piaga amorosa di RVF 195, v. 8, dalla piaga aspra e profonda di RVF 342, v. 4 e dalla piaga che arde, et versa foco et fiamma di RVF 241, v. 9. Al v. 2 la nebbia dal cuore rinvia a RVF 129, v. 58 (di doloroso nembo il cor condenso), e i giorni tenebrosi e tristi del v. 9 uniscono i tristi giorni di RVF 282, v. 5 e i versi 11-12 di RVF 19: […] / di luoghi tenebrosi, o d’ore tarde: // però con gli occhi lagrimosi e ’nfermi / […]. Una ironica commistione di echi letterari – da Gozzano citato in esergo ai sonetti autobiografici di Alfieri e Foscolo – è offerta da Marco Berisso (già appartenente al Gruppo 93) in Allo specchio (passati i trent’anni), dalla raccolta Annali (Salerno-Milano, Oèdipus, 2002): …ed ecco la trentina inquietante, torbida d’istinti moribondi… (guido gozzano)

e quello certamente deve essere io, ma irriconoscibile davvero, quella faccia allo specchio, e quelle strette fessure degli occhi alla ricerca di qualche somiglianza coi ricordi, mentre sta indaffarato ad elencare le rughe sulla fronte ed ogni crepa sulla pelle essiccata, quello è io sicuramente, e forse adesso io dovrei parlargli, chiedergli notizie su come se la passa, su che cosa sta combinando adesso, e invece resto a spiarlo, mentre col dito lento si affanna, io, a conteggiarsi il tempo

Sceglie la parodia vera e propria Alfonso Maria Petrosino in Dalla tenzone con Dante Alighieri, vinta dall’autore a tavolino, con cui ha vinto nel 2005 la prima edizione di un concorso riservato ai sonetti89: 89 Premio “Renato Fucini”, istituito dal Comune di Monterotondo Marittimo (GR) e dall’Università di Siena. Il sonetto è stato pubblicato sulla «Repubblica» del 15 ottobre 2005, p. 53.

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Dante, io vorrei che tu e Lapo e Guido assassinaste un albatro per gioco e il folle gesto vi rendesse fioco il vento e, quindi, più remoto un lido; e che per voi dalla carcassa un grido si generasse, ossessivo e roco, sì che morto l’uccello fosse poco agevole esternare la libido. Dante, io verrei, allora, con un paio di miei amici, su di un pedalò e porteremmo via le tre signore; e se volessero del vero amore potremmo noi fornirgliene un bel po’, togliendo voi dall’increscioso guaio.

È di intonazione prevalentemente ludica l’Intermezzo per le rime (“tenzone” di dodici sonetti) che impegna Patrizia Valduga e Gianni Mura nel recentissimo Almanacco dello Specchio 200790. D’altro canto, è presente anche un recupero del sonetto di tema civile: il metro è adottato ad esempio sia da Roberto Rossi Precerutti per una tragedia storica91: New York, 11 settembre Ora questa folgorante stagione abolisca i suoi doni il buio prema la voce d’acque nuziali ove trema più perfetta una mancanza il bastione d’aria consumi il rosso gonfalone sopra lo scheletro dei cavi gemano scintille dementi mentre si strema il giorno al nero spesso che compone nel fondo degli specchi quel respiro di spalancata fiamma – ora vi adorna, sguardi strappati, e voi, vedove stele, tappeto indicibile il cieco giro del sangue, se ogni morta offerta torna alla luce, incorona il vuoto, celebra.

Milano, Mondadori, 2007, pp. 91-99. Nella collettiva New York Anthology, a cura di Silvio Ramat, Nicola Gardini, Ezio Savino, accolta in «Poesia», xiv, 155, novembre 2001, p. 17. 90 91

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sia da Valerio Magrelli per una tragedia esistenziale come la solitudine92, nel dittico Ecce video, in Poesie (1980-1992) e altre poesie, Torino, Einaudi, 1996; questo il primo sonetto: In memoriam E.H. ritrovato nel suo appartamento nove mesi dopo il decesso seduto davanti alla tv

Morì fissando il suo Televisore la sfera di cristallo del presente, guardava il Niente e ne vedeva il cuore, cercava il Cuore e non vedeva niente. Chi sfidò il lezzo del buio malfermo si accorse che veniva dall’Illeso, non dal Morto, ma dal Morente Schermo, non dal Corpo, bensì dal Video acceso. Carogna divorata dagli insetti, il Monitor frinisce e brilla breve senza più palinsesti e albaparietti. La Sua vita larvale svanì lieve (goal, quiz, clip, news, spot, film, blob, flash, scoop, E.T.), circonfusa di niente, effetto neve.

Al sonetto ricorre più di una volta perfino un narratore “cannibale” come Aldo Nove, che chiude la sua recente raccolta di versi93 con Su me stesso: Ho aperto una palestra di vocali e consonanti dieci anni fa; ho investito tempo e capitali in questa avvilente attività. Non ho neppure l’autorizzazione (nel mio settore non ce n’è bisogno): un po’ di malattia, d’ispirazione dovrebbero bastare. Poi, con sogno d’imperitura fama ricordarsi

92 Questo tema è correlato all’altro, più evidente, del «non-senso» e dell’«onnipotenza del televisore», evidenziato da Piccini nella citata rassegna del sonetto contemporaneo apparso su «Poesia» (p. 58): «un Magrelli abilissimo vi fa il verso ai sonetti in dissolvenza degli Zanzotto, Sanguineti e compagnia, […] per trasmettere, di contro alla levità sparente e fantasmatica della lingua paratelevisiva, il segno dell’atroce inganno, della sottrazione di senso indotta dal mezzo». 93 Fuoco su Babilonia! Poesie 1984-1996, Milano, Crocetti, 2003.

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di chiudere il negozio, fino a quando l’odore di cadavere, catarsi finale di chi sta transumando trapasserà alle antologie. Spararsi nell’aldilà le pose, sogghignando.

L’immagine della palestra di vocali e consonanti, estrema – ormai oltre le soglie del Novecento – e irriverente propaggine delle rime sparse, ci suggerisce una riflessione finale, un po’ provocatoria: è forse anche (soprattutto?) il raffinato cesello con cui Petrarca ha trattato la sostanza fonica della sua poesia, in stretta interazione con il significato94, a trasportare “il suono dei sospiri” nel cuore della metrica novecentesca, saldandosi così allo straordinario lavoro sul significante compiuto proprio dall’a-petrarchista Pascoli, per l’appunto grande rivoluzionario nella tradizione.

94 È d’obbligo il rimando alla capillare indagine di Giorgio Orelli, Il suono dei sospiri. Sul Petrarca volgare, Torino, Einaudi, 1990.

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8. «Di un’altra spece». Note su Umberto Saba traduttore

«Che cosa resta dei Promessi Sposi tradotti in americano, oppure di Madame Bovary tradotta in italiano?» si chiede Umberto Saba in una lettera del 28 febbraio 1952, ammettendo di «credere poco alle traduzioni»1. Affermazione senz’altro sincera, poiché il numero delle traduzioni di Saba oscilla probabilmente da uno a tre: alla versione della Lettera alla madre del poeta russo Sergej Esenin (una lirica scritta nel 1924 che per il suo contenuto non poteva non interessare da vicino l’autore della Preghiera alla madre che chiude Cuor morituro) possiamo forse aggiungere – con qualche margine di incertezza – la traduzione (non firmata) di due sonetti shakespeariani, il n. cxvi e il n. xl2, mentre non ci è pervenuto un non meglio identificato tentativo di traduzione dell’Agamennone di Eschilo, al quale Saba accenna in una lettera a Linuccia del 30 novembre 1945: «Sentendo Federico tradurre ad alta voce l’Agamennone di Eschilo, avevo incominciato a tradurre in bellissimi versi tradizionali italiani la divina tragedia. Ma il lavoro si è fermato ai primi venti versi, perché Federico [...] non ha tempo disponibile»3.

1 Della lettera, inviata a Herbert Jacobson, il Fondo Saba del Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia conserva una copia. «I poeti [...] sono intraducibili», scriveva Saba nel 1948, in Storia e cronistoria del Canzoniere (ora in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, cit., p. 338). 2 Sono poste tra le “Poesie di dubbia attribuzione” nell’edizione mondadoriana: Umberto Saba, Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara, introduzione di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 1988, pp. 1156-1157. 3 Cfr. Umberto Saba, La spada d’amore. Lettere scelte 1902-1957, a cura di Aldo Marcovecchio, Milano, Mondadori, 1983, pp. 136-137. Federico è Federico Almansi, figura fondamentale nella vita anche poetica di Saba, come è ormai noto: rimandiamo in particolare a Stelio Mattioni, Storia di Umberto Saba, Milano, Camunia, 1989, soprattutto alle pp. 154-156. E si veda anche, più avanti, la n. 35.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Consideriamo dunque innanzi tutto la Lettera alla madre: una traduzione in prosa della poesia dovuta a Virgilio Giotti apparve sul settimanale triestino «Mondo unito» nel n. 9 del 28 febbraio 19464; poco dopo un’altra traduzione, in prosa poetica (ma è mantenuta la suddivisione in quartine), a firma M[aria] Bianca] Gallinaro, fu pubblicata sulla rivista «Società», 6, aprile-giugno 19465. Sull’«Unità» del 6 giugno 1962 comparve – con la scarna indicazione Una poesia di Esenin nella traduzione di Umberto Saba – una versione in prosa poetica (che conserva anch’essa la suddivisione in quartine). Cominciamo a sdipanare il filo che lega queste tre apparizioni della lirica, apparentemente indipendenti, e lo facciamo riportando parte della “storia” della traduzione di Giotti, da lui narrata in una nota alla stessa6. Nella casa d’un poeta che è fra i nostri maggiori, in questa mia città, arrivò, non so portatovi da chi, in un disperato giorno al mezzo della guerra, un numero di una rivista francese, credo arretrato di alcuni mesi, o di alcuni anni; e in questo fascicolo di rivista caduto dal cielo, c’era, voltata in prosa, la poesia del Iessenin Lettera alla madre. La sua umanità incantò il cuore di tutti, e prima che agli altri al padrone di casa. E tutti, e anche lui, si provarono a ridire quelle cose nella nostra lingua. C’era fra gli amici della famiglia una signora toscana di cultura anche letteraria, e anche lei ci si provò; e, per qualche passo di particolare difficoltà, intervenne con consigli e suggerimenti anche il marito di lei, che non era un letterato, ma un ingegnere. Io arrivai tardi quel pomeriggio, e trovai i fogli con la traduzione, anzi, con le molteplici traduzioni, sparsi tra le tazze del tè e i piattini dei dolci che la figlia del poeta continuava industriosamente a preparare per gli amici non dandosi vinta alle difficoltà del tempo; e io presi e portai con me quei fogli, e feci e rifeci tante mai volte, preso anch’io nel cerchio dello stesso incanto.

Giotti lesse il suo rifacimento – quello poi pubblicato sulla rivista – in uno dei “sabati letterari” che si tenevano, a Trieste, nel salotto di Anita Pittoni, precisamente il 13 gennaio 19457. 4 Cfr. Anna Modena, Virgilio Giotti traduttore e lettore di poesia, in «Diverse Lingue», iv, 6, 1989, pp. 63-69. 5 Alle pp. 280-281, insieme a due frammenti (Non tentare sorrisi torcendo le dita...; Sera azzurra, sera di luna...) pure tradotti dalla Gallinaro ed a un’altra lirica del poeta russo, Azzurro, tradotta da Iginio De Luca. Sul n. 7 (luglio- dicembre) esce la recensione di Claudio Varese al Canzoniere, mentre nel numero del marzo-aprile 1947 viene anticipata una parte (Preludio e canzonette) di Storia e cronistoria del Canzoniere, a firma «Giuseppe Carimandrei e, per copia conforme, Umberto Saba». Esenin era particolarmente caro alla cultura “di sinistra” dell’immediato secondo dopoguerra: contemporaneamente a «Società», anche il «Politecnico» pubblicò (nel n. 29 del 1° maggio 1946, p. 18) due sue poesie, Metamorfosi e Antifonario per canto a otto voci, nella traduzione di Marco Onorato e Virgilio Galassi. 6 La nota, insieme con la traduzione, è integralmente riprodotta da Anna Modena, Virgilio Giotti..., cit., pp. 67-68. 7 Ne dà resoconto Giani Stuparich in Trieste nei miei ricordi: «Il programma della lettura che Giotti ci fece il 13 gennaio 1945 (si pensi alla data!) comprendeva “alcuni poeti di tutto il mondo, antichi e moderni”. Cominciava dai greci [...] e infine “la lettera alla madre” del poeta russo Jes-

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8. «di un’altra spece». note su umberto saba traduttore

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Poiché Giotti allude a «un disperato giorno a mezzo della guerra», e sappiamo che Saba dovette lasciare Trieste per rifugiarsi a Firenze dopo l’8 settembre 1943, proprio intorno al ’43 dovrebbero collocarsi cronologicamente due diverse traduzioni dattiloscritte della Lettera che si trovano tra le carte sabiane del Fondo Manoscritti di Pavia: la prima occupa due fogli, reca in testa il titolo «Lettera alla madre.» e in calce «Sergej Esenin», e, una riga sotto, «Trad. Maria Bianca Gallinaro». Presenta cinque interventi manoscritti, tre dei quali ricalcati sulle lettere dattiloscritte poco leggibili (si tratta chiaramente di una copiacarbone), e due a integrare probabilmente due omissioni involontarie; ecco l’intero testo, con le due integrazioni manoscritte poste fra parentesi quadre: Vecchierella mia sei sempre viva? anch’io son vivo. E ti saluto! Si versi sulla tua piccola capanna quella ineffabile luce della sera. Mi scrivono che tu con ansia celata ti crucciasti tanto per me e che spesso vai sulla strada col tuo gabbano all’antica, consunto. E a te nell’ombra azzurra della sera [su stanza] ritorna sempre la stessa visione come se in una rissa d’osteria una lama finnica mi piantassero al cuore. Non è vero, mia cara! [da Non è vero.] Sii tranquilla. È soltanto un [un aggiunto] pesante delirio. Non sono così tristo beone da morire senza rivederti. Dolce sono com’ero una volta, e uno solo è il mio sogno: ritornare al più presto dall’angoscia tumultuosa nella nostra casina bassa bassa. Tornerò quando rami primaverili aprirà il nostro bianco giardino. Tu solamente all’alba non destarmi come facevi otto anni orsono. Non ridestare ciò che fu sognato non agitare quel che non è stato innanzi tempo rovina e stanchezza mi toccò provare nella vita. senin» (cfr. Giani Stuparich, Cuore adolescente. Trieste nel miei ricordi, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 228). Cfr. Anna Modena, Virgilio Giotti..., cit., p. 65.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

E per me non pregare. Non importa! Al passato ormai non c’è ritorno. Solo tu mi sei conforto e aiuto solo tu mi sei luce ineffabile. Dimentica dunque la tua ansia c non crucciarti troppo per me non uscire così spesso sulla strada col tuo gabbano all’antica, consunto.

Questo è per l’appunto il testo pubblicato da «Società», con alcune piccole varianti, qui elencate: 3 Si versi] Discenda 6 tanto] troppo 23 Tu solamente] Tu, solamente, 26 stato] stato, 27 innanzi tempo rovina] troppo presto ingiuria 29-30] E non dirmi di pregare, non importa! / A quel che fu ormai non v’è ritorno. 31-32 aiuto / solo] aiuto. / Solo 34-35 me / non] me. / Non

Maria Bianca Gallinaro è stata una delle maggiori slaviste italiane, e a partire dagli anni Cinquanta ha curato, per esempio, importanti edizioni di opere di Tolstoj e Dostoevskij, firmate anche e poi solo con il cognome del marito (Luporini). Durante la guerra aveva tradotto varie cose di Esenin, rinunciando però in seguito a pubblicarle8. La signora toscana di cultura anche letteraria di cui parla Giotti è, secondo la persuasiva ricostruzione fatta da Anna Modena9, Bice Vigni. L’altro dattiloscritto presente nel Fondo Saba è costituito da un foglio, senza interventi manoscritti, con una sola correzione dattiloscritta relativa al titolo («Lettera» sostituisce un precedente, e cassato, «Preghiera», certo dettato dalla propria memoria poetica: la Preghiera alla madre, appunto, di Cuor morituro); reca in calce «Essenine; 1924» ed è il testo pubblicato nel ’62 dall’«Unità» (e poi riedito nel «Meridiano» comprendente Tutte le poesie)10: Tu vivi ancora, mia vecchia madre? Io pure. Salute, salute a te! Pure che scenda sulla tua isba questa luce della sera che nessuno ha potuto descrivere Mi scrivono che, nascondendo la tua angoscia, ti sei fatto il cuore grosso, madre, per me; che molte volte te ne vai sulla strada nel tuo vecchio caracò fuori moda. 8 Devo questa informazione al figlio della traduttrice, prof. Luigi Luporini, che mi ha anche confermato che gli interventi manoscritti sul dattiloscritto gli sembrano di mano di sua madre. Desidero qui ringraziarlo per queste preziose notizie e per la sua cortesia. 9 Anna Modena, Virgilio Giotti..., cit., p. 64. 10 Alle pp. 995-996.

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8. «di un’altra spece». note su umberto saba traduttore

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E che spesso, nelle prime tenebre azzurre, vedi sempre una cosa, sempre la stessa: come se qualcuno mi pugnalasse al cuore in fondo a una taverna, in una rissa. Non è nulla, piccola madre. Calmati! È appena un penoso delirio. Non sono ancora un ragazzaccio abbastanza indurito per lasciarmi morire senza rivederti. Sono rimasto come altre volte, e non cattivo, e non sogno mai che una sola cosa: abbandonare al più presto questa rivolta, questo tormento, per ritornare nella nostra casa bassa. Ritornerò il giorno che docile alla primavera il nostro giardino candido avrà tese le sue frondi. Solamente non risvegliarmi più all’alba bianca, non risvegliarmi più come or sono otto anni. Non risvegliare quello che un sogno mi ha preso! Non toccare quello che non è riuscito! Sono troppo precoci, la perdita e la fatica che mi è accaduto di provare nella mia vita. E non insegnarmi a pregare. Non ne vale la pena. Non vi è per me ritorno al passato. Tu sola sei il mio aiuto e la mia festa, tu sola sei la luce di cui nessuno ha saputo parlare. Devi dunque dimenticare la tua angoscia; non farti il cuore grosso per me; e non andare più sulla strada tante volte nel tuo vecchio caracò fuori moda.

La forma francesizzante del nome dell’autore (Essenine) è una conferma di quanto risulta evidente dal confronto di questa traduzione con la traduzione francese presente in estratto in casa di Saba nel pomeriggio di cui parla Giotti e ora conservata nel Fondo pavese: due fogli quadrettati stampati sia sul recto che sul verso in inchiostro violetto con in testa la data «Moscou, 1924» e in calce: «Lettre a sa mère. Poème d’Essénine exrait de la revue “Mesures”. Traduction d’Armand Robin»11. 11 Armand Robin (1912-1961), poeta e romanziere francese dalla singolare personalità anarcoide e ribelle. Padroneggiava una trentina di lingue e tradusse, tra l’altro, le poesie dell’ungherese Endre Ady e le Rubā ‘yyat del poeta e scienziato persiano ’Omar Khayyām. Un’antologia delle sue opere è stata tradotta in italiano: La falsa parola e Scritti scelti, Salorino, Edizioni l’«Affranchi», 1995. La traduzione della Lettera alla madre venne pubblicata sulla rivista parigina «Mesures» nel

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Tu vis encore, ma vieille mère? Moi aussi. Salut, salut à toi! Pourvu que coule sur ton isba cette lueur du soir que nul n’a pu décrire! On m’écrit que, cachant ton angoisse, tu t’es grossi le coeur très fort à mon sujet, que tu t’en vas sur la route bien des fois dans ton vieux caraco démodé et que souvent, dans les premières ténèbres bleues, tu vois une seule chose, toujours la méme: c’est comme si quelqu’un me poignardait au coeur au fond d’un cabaret, dans une querelle. Ce n’est rien, petite mère. Calme-toi. Ce n’est rien qu’un pénible délire. Je ne suis pas encore un pochard assez dur pour me laisser mourir sans te revoir. Je suis resté, comme autrefois, pas méchant et ne réve jamais qu’une seule chose: au plus vite quitter cette révolte, ce tourment, pour retourner dans notte maison basse. je reviendrai le jour où, docile au printemps, notte jardin candide aura tendu ses branches. Seulement, ne me réveille plus à l’aube blanche, ne me réveille plus comme il y a huit ans! N’èveille pas ce qu’un réve m’a pris! Ne touche pas ce qui n’a pas réussi! Elles sont trop précoces, la perte et la fatigue qu’il m’est échu d’éprouver en ma vie. Et ne m’apprends pas à príer. Pas la peine! Il n’y a plus pour moi de retour au passé; toi seule es pour moi aide et féte, toi seule es la lueur dont nul n’a su parler. Il te faut donc oublier ton angoisse; ne grossis plus ton coeur si fort à mon sujet et ne va plus sur la route tant de fois dans ton vieux caraco démodé.

1938 (n. 1 del 15 gennaio, pp. 116-118); sono grata al dott. Paolo Breda, che mi ha cortesemente fornito questo dato.

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8. «di un’altra spece». note su umberto saba traduttore

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Il calco della traduzione attribuibile a Saba sul testo francese è, come si può vedere, veramente puntuale; viene mantenuto anche il termine caraco, che – nel significato francese di “casacca” –12 non esiste in italiano (il gdli lo registra solo in accezione botanica). Pare proprio trattarsi, insomma, di una letteralissima “traduzione di traduzione”13, senza alcuna pretesa di valore e originalità poetiche, come se Saba volesse semplicemente facilitarsi la lettura e rilettura di un testo che, per il suo tema, non poteva non interessarlo. Questo dattiloscritto non è firmato, ma presenta sistematicamente un elemento anomalo caratteristico della scrittura a macchina di Saba: uno spazio lasciato prima del segno di punteggiatura. Il dattiloscritto a firma «Maria Bianca Gallinaro» ha caratteri diversi, quindi proviene da un’altra macchina da scrivere, e il fatto che sia una copia-carbone potrebbe far ipotizzare – ma, sia chiaro, in assenza di qualunque prova – che la Gallinaro (che, sappiamo per certo, conosceva Saba)14 non fosse presente in casa del poeta quel pomeriggio, ma gli avesse inviato una copia della sua traduzione, forse addirittura assieme all’estratto della rivista francese, arrivato a lei in quanto slavista. Oppure l’estratto può essere stato mandato a Saba da uno degli amici francesi frequentati durante il soggiorno parigino del 193815. Se queste, beninteso, sono solo ipotesi, la testimonianza di Giotti è invece un dato importante, che ci consente di collocare la traduzione di Saba nei primi anni Quaranta e certamente entro l’8 settembre 194316. Neppure la Lettera alla madre, dunque, rompe il silenzio della poesia di Saba tra l’autunno del 1948 e l’aprile del 1951, come invece è incline a ritenere Stara, che afferma17: «Unico componimento di questi anni, a quanto se ne sa, è la traduzione di una poesia di Esenin Lettera a mia madre (letta da Saba in 12 Il caraco (il termine francese è derivato dal turco kerake) è in origine un «tipo di giacchino femminile aderente al busto, con falde o baschina dalla vita fino ai fianchi, maniche lisce trequarti con risvolti» e, cambiando dettagli e tessuti, è arrivato dall’inizio del Settecento fino a noi: cfr. Anna Canonica-Sawina, Dizionario della moda, Carnago, Sugarco Edizioni, 1994, pp. 75-76. 13 Anche Ungaretti, ignaro di russo al pari di Saba, si era cimentato con la traduzione di due poemetti di Esenin (Requiem e Le navi delle cavalle), condotta da una traduzione francese: «Maria Miloslawsky e [Franz] Hellens mi procurarono una traduzione letteralmente perfetta sulla quale ho lavorato. La prima di queste poesie tradotte fu pubblicata sulla “Gazzetta del Popolo” nel ’33, la seconda, nello stesso anno sulla “Cabala”» (Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 830); le due versioni furono accolte nel volume Traduzioni, Roma, Edizioni di Novissima, 1936, ma non nella successiva serie delle opere di Ungaretti. Cfr. Iginio De Luca, Ungaretti traduttore di Esenin, in Atti del Convegno Internazionale su Giuseppe Ungaretti (Urbino, 3-6 ottobre 1979), Urbino, Edizioni 4venti, 1981, pp. 907-961. 14 Come mi ha confermato il figlio, prof. Luigi Luporini. 15 Ricorda Sergio Solmi: «[Saba], all’inizio della campagna razziale, decise di trasferirsi a Parigi [...] Era infelicissimo, e Parigi non riuscì a sollevarlo. Né vi riuscirono le cure degli amici francesi, tra cui la mia vecchia amica Madame H. Texcier, che gli fu materna» (Ricordo di Saba, in «Il lettore di provincia», v, 17-18, 1974, p. 13; ora in Sergio Solmi, La letteratura italiana contemporanea. I. Scrittori negli anni, Milano, Adelphi, 1992, p. 471). Della «vecchia signora Texcier» fa cenno Saba in una lettera a Linuccia, da Parigi, del 30 agosto 1938: cfr. Umberto Saba, La spada d’amore, cit., p. 107. Nella nota relativa, a p. 306, Marcovecchio definisce Aline Texcier (1863-1964) «donna di cultura, amica di letterati, artisti, politici». 16 Dopo questa data, come abbiamo già ricordato, Saba deve fuggire da Trieste. 17 Nell’edizione di Tutte le poesie di Saba, p. 1068.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

francese), inviata nel corso del 1949 a pochi amici, fra cui Federico Almansi e Marco Visconti»18. Stara adduce a prova il passo di una lettera a Marco Visconti del 15 giugno 1949: Le accludo una poesia [...] La traduzione è di F. Matacotta e Olga Resnevic, io mi sono permessi due o tre ritocchi. Come vedrà, è assai bella, anche tradotta [...] Non pensi che io sia un fanatico di Esenin, ma gli voglio molto bene; è stato – si può dire – il mio ultimo amore.

L’antologia della lirica di Esenin (un gruppo di poesie scritte fra il 1921 e il ’25 fino ad allora inedite in Italia) a cura di Olga Resnevic e Franco Matacotta uscì nel mese di agosto del 1946 presso l’editore Guanda nella collana della “Fenice”, allora diretta da Attilio Bertolucci. Ma la traduzione di Matacotta19 è molto diversa da quella del dattiloscritto conservato nel Fondo Saba, che quindi non è certo la traduzione inviata nel 1949 a pochi amici: Saba nella lettera parla di «due o tre ritocchi», mentre qui si tratta proprio di una traduzione totalmente diversa, come il lettore può giudicare: Sei ancora viva, vecchierella mia? Anch’io son vivo. Salute a te, salute! Fluisca ancora sulla tua piccola casa quella indicibile luce serale. Mi scrivono che tu segretamente tanto ti tormenti per me. E che spesso esci sulla strada nel tuo vecchio, consunto cappotto. Che tu nella caligine blu della sera hai sempre la medesima visione, come se uno nella rissa di una bettola mi infili sotto il cuore un coltello finnico. 18 Marco Visconti, cugino di Luchino, nato a Milano il 6 agosto 1920, scrittore e regista. La prima lettera scritta a Saba è del 28 ottobre 1948. Il Fondo Saba pavese conserva in tutto 14 lettere di Visconti a Saba (l’ultima è del 1951), concentrate soprattutto nel giugno-luglio 1949 e accompagnate, per lo più, da poesie o brevi racconti che il giovane gli invia. In una lettera datata 7 giugno 1949 Visconti scrive: «Vorrei leggere Essenin, e certo lo farò: ma quanto perdono i poeti tradotti! E il russo, mi dicono, è una lingua veramente irraggiungibile». Nel soggiorno romano del 1950 Saba frequenta Visconti, che in una lettera alla Lina del 13 dicembre di quell’anno (di cui il Fondo Saba conserva una copia) definisce «un mio giovane discepolo»: «viene a trovarmi quasi ogni giorno, e non si stanca mai di leggermi il Canzoniere, che avevo, per angoscia, quasi dimenticato. Di quando in quando mi legge anche qualcuna delle sue poesie, che sono, il più delle volte, belle». Lo accompagna spesso «una sua deliziosa cugina, la Uberta Visconti, che è fine ed aristocratica come la Duchessa d’Aosta». A Saba Visconti ha dedicato un articolo su «La libertà d’Italia», 6 agosto 1950, dal titolo Umberto Saba poeta senza lettere. 19 Poesie di Sergio Jessenin, a cura di Olga Resnevic e Franco Matacotta, Modena, Guanda, 1946, pp. 31-32.

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8. «di un’altra spece». note su umberto saba traduttore

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Fa niente, cara. Sta tranquilla. Non è che un angoscioso delirio. Non sono poi un ubriacone così incallito da morire senza prima averti riveduto. Come un tempo io sono affettuoso. E sogno soltanto questo, quanto prima da questo indomito soffrire, ritornare nella nostra piccola casa. Tornerò quando il nostro bianco giardino aprirà i rami primaverili. Soltanto, tu, sta attenta a non svegliarmi, come facevi otto anni fa. Non ridestare il sogno che è finito... Non agitare quel che non s’è avverato. Troppe immature perdite e stanchezze m’è toccato di provare nella vita. E non insegnarmi a pregare, non bisogna. Non c’è più ritorno al passato. Sei tu sola il mio sostegno e la mia gioia, sei tu sola per me l’ineffabile luce. Dimentica dunque il tormento. Non soffrire tanto per me. E non andare così spesso sulla strada nel tuo vecchio, consunto cappotto.

Il fatto che Saba invii in lettura agli amici la traduzione di Matacotta, pur con «due o tre ritocchi» (che non conosciamo) è una prova del carattere puramente “di servizio” della traduzione da lui ricalcata a suo tempo su quella francese: alla quale evidentemente non aveva mai lavorato, né pensa di farlo ora. Nel Fondo Saba è conservata la risposta di Marco Visconti, datata Roma, 21 giugno 1949: «le sono tanto grato [...] per avermi mandata la poesia di Essenin, veramente bella. Leggendola pensavo che Essenin, in fondo, è un po’ il fratellino maggiore di Corazzini». Evidentemente Visconti ignorava il fiero disappunto di Saba per la parentela ipotizzata da alcuni critici fra la sua poesia e quella dei crepuscolari, disappunto più volte ribadito in Storia e cronistoria del Canzoniere, dove si afferma perentoriamente che «Saba è lontano dai crepuscolari, che già allora spuntavano all’orizzonte, e coi quali egli fu, per molto tempo, confuso» e tale falsa parentela è definita «antico e scandaloso errore»20. Più benevolo 20

Cfr. Umberto Saba, Tutte le prose, cit., p. 132 e p. 203.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

il giudizio su Corazzini espresso in un breve saggio, non pubblicato, che Saba aveva scritto probabilmente qualche tempo prima, negli anni 1945-’46 21: La poesia di Sergio Corazzini è quella di un fanciullo ammalato, che si sentiva morire giorno per giorno. Tutte le sue poesie sono variazioni su quest’unico tema [...] Nelle sue poesie […] si ritrova allo stato puro, cioè di necessità e di ispirazione, quello che in altri della sua scuola (Gozzano e Moretti) è già arma per sbalordire, oppure maniera e ricetta. È meno appariscente di essi, ma più essenziale. Insomma più poeta.

Certo il paragone con l’adorato Esenin deve aver assunto agli occhi di Saba l’aspetto quasi di un’eresia; non conosciamo la sua lettera di risposta, ma possiamo intuirne il tono dalla successiva lettera di Visconti, datata 9 luglio 1949, pure conservata al Fondo pavese: Ho letto le poesie di Essenin, con una nostalgia di paradiso perduto, dopo il rimprovero ricevuto da lei nella sua ultima lettera. Non si potrebbe dimenticare l’incidente Corazzini – Essenin? Sono cose che ogni tanto mi succedono proprio dove non sono informato, per il vizio che qualche volta mi prende (raramente, per fortuna) di tirare a indovinare appunto là dove non ne so nulla di nulla. Chissà perché. Chi me lo fa fare? Farò tesoro della lezione, comunque.

La costante predilezione di Saba per Esenin traspare da vari luoghi, in particolare nell’immediato secondo dopoguerra: in un’intervista siglata N.T. [Nino Tullier], La solitudine di Saba, apparsa in «Milano Sera» l’8 febbraio 1946, alla richiesta di indicare il poeta nel quale si riconosca, Saba risponde: «Riconoscermi? Non posso usare questa espressione. Gl’italiani hanno sempre (meno in qualche raro periodo di ascesa) preferito Petrarca a Dante. La fortuna esterna della mia poesia urtò a questo scoglio». L’intervistatore prosegue scrivendo: «Della Francia, Saba ricorda Racine; della Germania, Heine; della Russia, Essenin; dell’Inghilterra, Keats. Shelley e Tasso gli sono insopportabili. Shelley è il poeta dei non poeti: tanta poesia da non essere più poesia». L’amore di Saba per il poeta russo era certo condiviso, e magari alimentato, da Almansi, come prova una lettera a Linuccia del 31 maggio dello stesso anno, nella quale Saba scrive: «Federico mi ha contrapposto Essenin, che vale – dice – 100 volte più di me»22. Il 24 giugno 1949, a Renato Majolo, che gli chiedeva un parere sul suo libretto Pane azzimo, Saba confessa: È difficile – sempre più difficile – che una poesia mi giunga al cuore... La forma – anche Questa la datazione proposta da Stara (ivi, pp. 1431-32; la citazione è a p. 937). Cfr. Umberto Saba, Atroce paese che amo. Lettere famigliari (1945-1953), a cura di Gianfranca Lavezzi e Rossana Saccani, Milano, Bompiani, 1987, p. 62. 21

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8. «di un’altra spece». note su umberto saba traduttore

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se bella – non mi basta in nessun modo; se chiedo ancora qualcosa alla poesia è un impeto umano, per cui l’ultimo poeta che ho amato è stato Esenin. E non l’ho letto che in traduzioni23.

E ancora nel 1955, in una lettera del 12 febbraio indirizzata a Nello Stock, Saba ricorda un verso della Lettera alla madre: «Oggi aspetto il dott. Weiss [...] Ma cosa gli dirò dopo tanti anni? L’unica cosa che potrei dirgli sarebbe quel verso di Essenin, in una lettera a sua madre: “Non toccare quello che non è riuscito”»24. Nella memoria di Saba, a distanza di tanti anni, è rimasta la sua traduzione, modesto calco di una traduzione francese: vale a dire, per l’appunto, l’«impeto umano» della lirica di Esenin, e non la sua «forma». *** La traduzione, in prosa lirica, dei due sonetti shakespeariani cxvi e xl è dattiloscritta sul verso di un foglio di carta recante, sul recto, l’intestazione della Libreria Antiquaria, conservato anch’esso al Fondo Manoscritti di Pavia; tra la versione del primo e quella del secondo sonetto, un asterisco in matita, del tutto simile a quello apposto da Saba in molti suoi fogli manoscritti, come segno di separazione25: Ah, che io non debba mai portare intralci al matrimonio delle nostre anime fedeli! Quello non è amore che muta appena scorge un mutamento, e ad ogni passo indietro risponde con un altro passo indietro. L’amore è un fanale permanente che affronta le tempeste senza che le tempeste lo possano spegnere; stella che brilla per ogni marinaio errante, il servizio della quale è disconosciuto dallo stesso che la consulta in altezza. L’amore non è quel pazzo del tempo, benché le labbra e le guance di rosa dimorino nel cerchio della sua falce ricurva; l’amore non muta con le mutevoli angosce delle ore e delle settimane effimere, ma immobile dura fino all’ultimo respiro. Se qualcosa nella mia vita deve mai smentire quello che ho detto, dì pure che non ho mai scritto, che non ho mai amato26.

23 La lettera, di cui il Fondo Saba pavese possiede una copia, è parzialmente riportata da Stara in Umberto Saba, Tutte le poesie, cit., p. 1068. 24 Questo brano della lettera (della quale il Fondo Saba possiede una copia) è citato in Umberto Saba, Lettere sulla psicoanalisi, a cura di Arrigo Stara, Milano, se, 1991, p. 105. 25 Si veda, per esempio, l’asterisco che separa titolo e sottotitolo nel manoscritto di Quello che resta da fare ai poeti, riprodotto nel catalogo di una Mostra organizzata dal Fondo Manoscritti pavese: Autografi. Letteratura dell’Otto e Novecento in una mostra di carte dei maggiori scrittori italiani (Pavia, Sala dell’Annunciata, 16-30 aprile 1988), Pavia, Tipografia Popolare, 1988, p. 78. 26 Questo il testo originale (si cita dall’edizione curata da David West, Shakespeare’s Sonnets, London-New York, The Overlook Press, 2007, p. 354): «Let me not to the marriage of true minds / admit impediments. Love is not love, / which alters when it alteration finds, / or bend with the remover to remove. / O no, it is an ever-fixed mark / that looks on tempest and is never shaken. / It is the star to every wand’ring bark, / whose worth’s unknown, although his height be taken. / Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks / within his bending sickle’s compass come. / Love alters

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale *

Prenditi tutti i miei amori, o mio ben amato; va, prendili tutti: che cosa puoi avere di più di quello che già avevi prima? Non v’è un amore che non ti appartenga realmente. Tutto quello che è mio era già tuo, prima che tu mi prendessi anche la mia amante. Se è per amicizia verso di me che tu festeggi quella che amo, io non posso biasimarti; è un tributo (così almeno m’illudo) alla nostra amicizia. Ma che tu sia maledetto se tradisci te stesso gustando nel suo letto quelle voluttà che tu stesso riprovi [da disapprovi cassato]. Io ti perdono il tuo furto, ladro gentile, benchè tu faccia mano bassa su tutto il mio povero avere. E pure l’amicizia sa che è un dolore più grande subire il suo oltraggio che l’ingiuria prevista dell’odio. O grazia lasciva nel mio ragazzo, che fa incantevole lo stesso male! Va, uccidimi di disperazione! Io non posso che amarti27.

Non indugerò sullo stile delle due versioni e tanto meno le porrò in confronto con le corrispondenti di altri traduttori, limitandomi invece a due osservazioni funzionali al mio discorso: nella versione del primo sonetto (il n. cxvi) è presente un vistoso errore, là dove il nostro traduttore rende l’inglese time’s fool (“lo zimbello del tempo”) con «quel pazzo del tempo». Nel sonetto xl sono evidenti alcuni forti scarti dalla traduzione letterale: dal confronto con il testo inglese, emerge innanzi tutto che love è tradotto per tre volte con «amicizia». Anzi, la seconda occorrenza è all’interno di una aggiunta del traduttore: «è un tributo (così almeno m’illudo) alla nostra amicizia» si configura come una sorta di glossa, peraltro non funzionale al senso (già molto chiaro), alla protasi del periodo ipotetico. Ma l’inciso in parentesi non ha alcun riferimento nel testo originale, ed è una notazione personale, emotivamente molto marcata, del traduttore. Anche la “sentenza” finale («Io non posso che amarti») ha una struttura sintattica e una valenza semantica molto più forte rispetto alla chiusa del testo inglese. E ancora: «la mia amante» è traduzione di this more (“questo [amore] in più”) e, poco oltre, «quella che amo» rende il semplice love; Saba cioè capovolge la situazione: è un uomo (non una donna) a portare via al poeta la donna amata (non l’uomo amato). Questo slittamento ha un solo precedente in tutta la tradizione dei sonetti shakespeariani: John Benson nella sua edizione londinese del 1640 cambia tutti i pronomi in modo da far apparire la raccolta come indirizzata a una donna, eliminando così ogni possibile riferimento all’omosessualità28. not with his brief hours and weeks / but bears it out even to the edge of doom. / If this be error and upon me proved, / I never writ, nor no man ever loved». 27 Questo l’originale (edizione West, cit., p. 135): «Take all my loves, my love, yea take them all – / what hast thou then more than thou hadst before? / No love, my love, that thou mayst true love call; / all mine was thine, before thou hadst this more. / Then if for my love, thou my love receivest, / I cannot blame thee, for my love thou usest. / But yet be blamed, if thou thyself deceivest / by wilful taste of what thyself refusest. / I do forgive thy robb’ry gentle thief / although thou steal thee all my poverty; / and yet love knows it is a greater grief / to bear love’s wrong, than hate’s known injury. / Lascivious grace in whom all ill well shows, / kill me with spites yet we must not be foes». 28 Devo la segnalazione a Matteo Brera – che qui ringrazio –, il quale da alcuni anni attende a uno studio delle traduzioni italiane dei Sonnets, i risultati del quale sono finora confluiti nelle sue

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8. «di un’altra spece». note su umberto saba traduttore

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Si è detto che il foglio è su carta intestata: possiamo aggiungere che il tipo di intestazione consente di datare il dattiloscritto al secondo dopoguerra, poiché le lettere su carta intestata che Saba scrive prima della sua fuga da Trieste nel 1943 hanno il logo lievemente diverso nel disegno e nettamente diverso nel colore (nero, anzi che azzurro). Il foglio non è firmato, ma, oltre all’asterisco manoscritto probabilmente da Saba (cui si accennava sopra), ritroviamo qui lo spazio lasciato prima del segno di punteggiatura, caratteristico dei dattiloscritti sabiani. Un ulteriore dato significativo è rappresentato dai caratteri della macchina da scrivere: la «l» minuscola è molto scesa rispetto alle altre lettere, e tutte le vocali che andrebbero accentate non lo sono, ma l’accento è sistematicamente sostituito da un apostrofo che segue immediatamente la vocale; se dall’esame dei dattiloscritti presenti nel Fondo Manoscritti pavese risulta che la sostituzione della vocale accentata con la vocale seguita da apostrofo non fa parte delle consuetudini dattilografiche di Saba, emerge tuttavia anche la presenza di due eccezioni, cronologicamente ben definite, che fanno pensare all’uso temporaneo di una macchina da scrivere priva di vocali accentate (e con la «l» scesa: caratteristica anche questa condivisa con il foglio delle traduzioni shakespeariane). Si tratta di due fascicoletti, il primo dei quali29 reca nel frontespizio «umberto saba / tre poesie / Trieste, Novembre 1947» e contiene tre poesie che entreranno nella sezione postuma del Canzoniere, Epigrafe: La ninna nanna (che diverrà Vecchio e giovane; stesura in parte dattiloscritta e in parte manoscritta), Opicina (manoscritta), Lettera (in tre stesure dattiloscritte e una manoscritta, tutte molto tormentate). Il secondo fascicoletto, con intestazione «tre poesie / (Stesura definitiva)», contiene le stesse poesie in una stesura successiva, dattiloscritta con correzioni manoscritte. Occorrerà ricordare che la conoscenza dei sonetti di Shakespeare da parte di Saba risale agli anni dell’adolescenza, come egli stesso rivela in un articolo del 1957 elencando i pochi libri da lui posseduti quando cominciò a scrivere «con la coscienza di scrivere»: Leopardi, Parini lirico, Foscolo, Petrarca con il commento di Leopardi, Manzoni, il Poema Paradisiaco e un altro strano libretto, comperato forse per pochi soldi, su una bancarella, in città vecchia, o saltato fuori non so come e da dove. Erano i sonetti dello Shakespeare, voltati – non ricordo da chi – in prosa italiana. Era un libretto della Biblioteca Sonzogno, con la copertina gialla, sulla quale si vedeva, seduta sopra una pila di libri, una donna (molto simile a quelle che si ammiravano sulle Banconote) che suonava la tromba: e rappresentava – è chiaro – la Fama. Quanto ho poi cercato quel libretto; ma sempre invano! La traduzione doveva essere deliziosa: tanto che ricordo ancora, col suo significato assolutorio, un princidue tesi di laurea (triennale e specialistica) discusse all’Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Lettere e Filosofia (a.a. 2004-05 e 2006-07; relatore: Gianfranca Lavezzi): La fortuna dei «Sonetti» di Shakespeare in Italia: le traduzioni ottocentesche e Per uno studio di Roberto Sanesi traduttore dei sonetti shakespeariani. 29 Lo segnala rapidamente Stara, in Tutte le poesie, cit., p. 1129.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

pio di quei sonetti. Era – come dissi – una traduzione in modesta prosa; ma voler tradurre quei sonetti in versi italiani è come sperare di risolvere la quadratura del circolo: non per “colpa” del traduttore (che può essere anche, per conto suo, un grande poeta); ma perché per svariate ragioni nulla si può fare in questa direzione. Quel libretto non esercitò però su di me allora che poca influenza: è solo ricordandolo dopo molto tempo che compresi il senso – il significato – di quei sonetti30.

Ai sonetti di Shakespeare Saba aveva fatto riferimento anche nel Capitolo introduttivo di Storia e cronistoria del Canzoniere (Qualità e difetti di Saba. Alcune ragioni della sua contrastata fortuna): Anche le poesie [di Saba] meno riuscite possono, per certi aspetti, illuminare il lettore, aiutarlo a comprendere – ad apprezzare – meglio i risultati definitivi. Per ricorrere ad un esempio nel bene e nel male supremo, ricorderemo qui i sonetti dello Shakespeare. È chiaro che, da un punto di vista strettamente estetico, i nove decimi di quei versi potrebbero essere gettati via, senza danno apparente del resto. Ma sarebbe (anche astraendo dalla reverenza dovuta a Shakespeare) un grave errore. Senza quei versi ampollosi e barocchi, la parte vitale dell’immortale “romanzetto” lirico, non solo perderebbe molto del suo valore poetico ed umano, ma riuscirebbe quasi incomprensibile31.

Ancor prima, è molto interessante la “scorciatoia” 137: i poeti (intendo particolarmente i poeti lirici) o sono fanciulli che cantano le loro madri (Petrarca) o madri che cantano i loro fanciulli ([Penna]) o (quest’ultimo caso è meno frequente: Shakespeare nei suoi sonetti?) una cosa e l’altra. Si direbbe che la lirica […] non possa uscire da questo cerchio incantato; e che noi teniamo qui, finalmente, il nocciolo dell’ispirazione poetica32.

Proprio sulla scorta di questi due luoghi sabiani, Mario Lavagetto suggerisce di individuare il modello del nuovo personaggio che domina l’ultima parte del Canzoniere, «privo di una connotazione precisa o ridotto alla connotazione più economica, alla più parsimoniosa e sfuggente forma dell’alterità: tu» proprio nel «protagonista di quel “romanzetto lirico”, di quel parametro della perfetta poesia che sono i sonetti di Shakespeare, dove il poeta […] assume, di volta in volta, il ruolo del figlio e quello della madre»33. È ancora più stringente

30 Cfr. Della Biblioteca Civica ovvero della gloria, ora in Tutte le prose, cit., pp. 1116-1117. L’edizione dei sonetti shakespeariani cui Saba si riferisce è quasi sicuramente la seguente: William Shakespeare, I sonetti, traduzione di Lucifero Darchini, Milano, Sonzogno, 1909; la prima traduzione italiana in prosa era uscita quasi vent’anni prima: Angelo Olivieri, I Sonetti di William Shakespeare tradotti per la prima volta in Italiano. Col testo inglese a fronte riscontrato sui migliori esemplari, Palermo, Libreria Internazionale L. Pedone Laurel di Carlo Clausen, 1890. 31 Cfr. Tutte le prose, cit., p. 118. 32 Cfr. Scorciatoie e raccontini, ora in Tutte le prose, cit., pp. 64-65. 33 Cfr. Introduzione a Umberto Saba, Tutte le poesie, cit., p. lv.

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8. «di un’altra spece». note su umberto saba traduttore

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il rimando, proposto da Luca Baldoni34, al sonetto xxxviii, in cui il ruolo del fair youth (dar “luce” all’invenzione) è analogo a quello di colui che, in Ultime cose, promuove la ripresa dell’ispirazione sabiana. Siamo dunque arrivati a un nome preciso: Federico Almansi. È lui – ormai è noto – la musa maschile dell’ultima parte del Canzoniere: figlio del libraio antiquario Emanuele, nato del 1924, autore di un libretto di versi uscito nel 1946 con la prefazione di Saba (la sola prefazione di Saba a un libro di poesie!), a partire dal ’48 gradualmente tolto alla vita da una grave malattia psichica, che lo rinchiuderà in manicomio fino alla morte (1974)35. Ora: le Tre poesie del fascicolo dattiloscritto datato novembre 1947 sono fortemente legate alla figura di Federico, con una tale esplicitazione (in particolare in Vecchio e giovane, ancora con titolo La ninna nanna e incipit «Un vecchio amava un ragazzo») da renderle per il momento impubblicabili; la terza, Lettera, accompagna le prime due, che il destinatario dovrà aggiungere alle tre poesie a Telemaco di Mediterranee, e si conclude con una speranza e una dolente constatazione: […] In breve, spero, ci rivedremo. Il tuo delitto non è grave: è di avermi un po’ scordato.

A questo punto è davvero molto corto il passo che porta all’ipotesi – indiziaria ma suggestiva – che nello stesso periodo Saba attendesse alla traduzione dei due sonetti shakespeariani, forse per farne omaggio a Federico: una traduzione completamente assorbita nell’orbita di Saba, che interviene con interpolazioni e decisivi scarti semantici, e quindi affatto estranea alle consuete ragioni del tradurre.

34 Cfr. Luca Baldoni, Un vecchio amava un ragazzo. L’omoerotismo nella tarda poesia di Saba (1935-1948), in «Poeti e Poesia», 8, agosto 2006, p. 190. 35 Su di lui si vedano, da ultimo, il saggio di Philippe Renard Il vecchio e il giovane: Umberto, Federico-Vittorio, in “Frammenti di un discorso amoroso” nella scrittura epistolare moderna, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 321-333 e il mio intervento al Convegno Saba extravagante. Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 14-15-16 novembre 2007 (L’ombra azzurra di Federico Almansi, in corso di stampa negli Atti del Convegno).

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9. Occasioni variantistiche per la metrica delle prime tre raccolte montaliane

La disamina delle varianti a stampa di Ossi di seppia, Occasioni e Bufera alle quali conviene un’analisi di tipo metrico rivela un processo di ‘regolarizzazione’ – intendasi passaggio dall’informe alla forma – che investe in particolare gli Ossi, situandosi per lo più all’altezza della prima e della seconda edizione1: alla mas1 L’esempio più significativo è dato dal lavoro correttorio condotto su Fine dell’infanzia, che si ritiene opportuno qui riportare parzialmente, privilegiando appunto le varianti di tipo metrico. Le sigle I e OG indicano rispettivamente la prima edizione degli Ossi (Torino, Gobetti, 1925) e la rivista «Le Opere e i Giorni» di Genova, sulla quale – il 1° settembre 1924 (a. iii, n. 9, pp. 13-17) – venne pubblicata Fine dell’infanzia; come esemplare di collazione si adotta il testo definitivo: 15-16 di tamerici pallide / più d’ora in ora; stente creature] di tamerici che impallidivano / d’ora in ora: stente creature OG, I (endecasillabo ipometro + decasillabo trocaico → settenario + endecasillabo); 24 marina] mare OG (endecasillabo ipometro → endecasillabo con accenti di 2a, 6a, 10a); 31 dorsi] profili OG (ottonario dattilico → settenario); 33 s’un muletto] sul suo muletto OG (verso di 12 sillabe → endecasillabo con accenti di 2a, 6a, 10a); 39 So che strade correvano su fossi] So che correvano strade sopra fossi OG (endecasillabo ipermetro → endecasillabo con sdrucciola sotto accento di 6a); 41-42 mettevano a radure, poi tra botri, / e ancora dilungavano] portavano a radure dove i pini / s’alzavano tra rossi scogli; / poi tra botri ed ancora dilungavano OG (endecasillabo + novenario di ritmo imperfettamente dattilico + endecasillabo → endecasillabo + settenario); 60 solco fisso] fissata traccia OG; solco fissato I (ottonario ritmicamente incerto → ottonario dattilico → settenario); 76 l’estatico affisare; ella il portento] il rifugio, l’estatico affisare. / Ella il portento, il modello OG (endecasillabo + ottonario dattilico → endecasillabo); 81-82 sommerse ogni certezza un mare florido /e vorace che dava ormai l’aspetto] sommerse ogni certezza / il mare fiorito e vorace / che aveva ormai l’aspetto OG, I (settenario + novenario dattilico + settenario → endecasillabo + endecasillabo); 84-85 Un’alba dové sorgere che un rigo / di luce su la soglia] Dové sorgere un’alba / che un fil di luce alla soglia OG, I (settenario + ottonario → endecasillabo con sdrucciola sotto accento di 6a + settenario). All’altezza della prima edizione sono rigorosamente condotti alla misura di endecasillabo o settenario anche tutti i versi di Crisalide, che nell’autografo datato «Primavera-Estate 1924» (pubblicato, in fac-simile e trascrizione, in Autografi di Montale – fondo dell’Università di Pavia, a cura di Maria Corti e Maria Antonietta Grignani, Torino, Einaudi, 1976, pp. 14-21) presenta invece, accanto ai prevalenti endecasillabi e ad alcuni settenari, anche un ottonario dattilico, due versi di 12 sillabe e quattro doppi settenari: «come un

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

siccia e quasi esclusiva instaurazione di endecasillabi e settenari si accompagna una costante attenzione alla normalizzazione ritmica, oltre che al potenziamento timbrico, spesso nettissimo e configurantesi come l’invariante del lavoro correttorio montaliano dagli Ossi alla Bufera2. L’esame variantistico sembra quindi confermare quanto la parte più avvertita della critica ha osservato in relazione alla metrica di Montale: G. Contini3 individua negli Ossi «un lungo persistere frammentario di metrica tradizionale, “mnemonica”, un intermittente ma non estinto desiderio dì chiusura regolare e di ritorno, quasi ad agevolare, su quest’onda persuasiva di facilità, l’opera di penetrazione del mistero»; lo stesso studioso in Innovazioni metriche fra Otto e Novecento4 definisce «moderatamente libero» il verso da cui nasce la poesia montaliana, e ancora, nella Letteratura dell’Italia unita5 osserva come «la radicalità della posizione negativa di Montale» sia «sottolineata dalla mancanza di qualsiasi ostentazione rivoluzionaria tanto nel linguaggio [...] quanto nella metrica, che, sia pure in forme non vincolate, libera frequentemente misure tradizionali e rime». Analogamente, P. V. Mengaldo6 nota che se è vero che Montale «attacca e sconvolge da tutti i lati i comodi schemi tradizionali» è altresì vero che «cerca sistematicamente di sfuggire alla semplice contrapposizione tra rime regolari più o meno canoniche e mere assonanze, consonanze, ecc., inventando o sviluppando tutta una serie di tipi intermedi, di quasi-rime con ricche anche se non “perfette” rispondenze di sostanza fonica», sì che risulta evidente la «priorità che assume, nella tecnica metrica di Montale, l’immediata ricerca ricostruttiva rispetto al momento “critico” dello sgretolamento delle convenzioni tradizionali – di per sé, subito, assai meno spinto che in esperienze poetiche parallele». Né vanno dimenticate alcune significative dichiarazioni dello stesso Montale, tra le quali assume particolare rilievo una risalente al 19317: alcione radente» (v. 61 del ms.), «d’un lontano mattino che non vedremo» (v. 15 del ms.), «Ah mia crisalide, com’è amara questa» (v. 72 del ms.), «Per me che vi contemplo da quest’angolo d’ombra» (v. 8 del ms.), «Vorrei seguirli, dirvi: – volerà senza rombo» (v. 58 del ms.), «che non comporta strepiti. Verrà senza fanfara / la barca di salvezza nel pomeriggio afoso» (vv. 67-68 del ms.). 2 E cfr. anche Xenia: Maria Antonietta Grignani, in Xenia: appunti per uno studio dei materiali elaborativi («Strumenti critici», 25, ottobre 1974, p. 375), rileva che spesso le varianti rivelano come « l a ricerca investa l’interazione [...] tra ritmo e tessitura fonica». 3 Dagli «Ossi» alle «Occasioni», ora in Una lunga fedeltà, Torino, Einaudi, 1974, p. 29. 4 Ora in La letteratura italiana. Otto-Novecento, Firenze-Milano, Sansoni-Accademia, 1974, p. 190. 5 Op. cit., p. 814. 6 Da D’Annunzio a Montale, in La tradizione del Novecento, cit., 1975, p. 66, n. 86. Anche sulla scorta dell’analisi variantistica non risulta invece molto persuasiva l’ipotesi della presunta «ironia metrica» di Montale, sulla quale insiste Bàrberi Squarotti, affermando tra l’altro che nella sua poesia «lo schema tradizionale del verso non è che una spoglia quasi completamente svuotata di realtà ritmica, e l’interno movimento del metro appare quasi una deformazione amaramente parodistica della regolarità tradizionale» (Montale, la metrica e altro, in «Letteratura», xxv, 1965, ora in G. Barberi Squarotti, Gli inferi e il labirinto. Da Pascoli a Montale, Bologna, Cappelli, 1974, p. 198). 7 Della poesia d’oggi, in «La Gazzetta del Popolo» di Torino del 4 novembre 1931, poi – con titolo Che cosa intendo per poesia – nel «Giornale» di Milano del 24 ottobre 1975 (ora in Eugenio Montale, Sulla poesia, cit., p. 558).

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9. la metrica delle prime tre raccolte montaliane

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l’architettura prestabilita, la rima ecc., a parte l’uso che ne hanno fatto i grandi poeti, hanno avuto un significato più profondo di quanto non credano i poeti liberisti. Esse sono sostanzialmente ostacoli e artifizi. Ma non si dà poesia senza artifizio. Il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma deve altresì lavorare una sua materia, verbale, “fino a un certo segno”, dare della propria intuizione quello che Eliot chiama un “correlativo obiettivo”. Solo quando è giunta a questo stadio la poesia esiste [...] i liberisti che rinunziano agli schemi tradizionali, alle rime ecc., non sfuggono alla necessità di trovare qualche cosa che sostituisca quanto essi hanno perduto. Qualcuno trova, e sono i veri poeti; gli altri continuano a effondersi e non approdano a nulla: letterati almeno quanto i vecchi parnassiani.

Osservazioni simili offre un breve articolo del 1958 relativo a Ungaretti8: la lirica ha pochissimo bisogno di libertà, e [...] non si rinunzia a determinati schemi senza che sorga il bisogno di crearne altri, ben più ardui di quelli offerti dalla tradizione, e soggetti a più rapida usura, in ragione della loro troppo evidente singolarità.

Infine in un’intervista del 1968, parlando delle poetiche contemporanee, Montale dichiara tra l’altro9: possiamo concedere, pur non ammettendolo, che la protesta si esprima male in versi regolari, endecasillabi per esempio. Sarà più efficace in versi rotti, rapide enunciazioni, che abbiano l’immediatezza di un manifesto. È anche più semplice. Se prendiamo un annuncio pubblicitario e disponiamo le sue parole verticalmente, una sotto l’altra, invece che orizzontalmente, abbiamo una poesia.

Sulla scorta di tali affermazioni, può apparire contraddittorio – ma lo è solo apparentemente – il frequente ricorso di Montale ai versi ipermetri, funzionale alla resa di «un verso che sia anche prosa»10: in una recensione del 1965, in relazione a Frontiera e Diario d’Algeria di Sereni egli osserva, significativamente, che «la libera alternanza dei vari metri e il gusto di volute ipermetrie permette al poeta di adeguarsi a quell’immagine di una poesia nata dalla prosa che è il miraggio non sempre illusorio di tutti i poeti d’oggi»11. Se l’arricchimento timbrico – vale a dire soprattutto il potenziamento della struttura allitterativa, assonantica e consonantica – è rilevabile 8

p. 306).

Ungaretti, in «Letteratura», v, 35-36, settembre-dicembre 1958, p. 325 (ora in Sulla poesia, cit.,

9 Discorrendo della fine del mondo - Conversazione con E. Montale (condotta da Manlio Cancogni), in «La fiera letteraria» del 12 dicembre 1968, p. 18. 10 Gozzano, dopo trent’anni, in «Lo Smeraldo», v, 5, 30 settembre 1951, poi come saggio introduttivo a Guido Gozzano, Poesie, Milano, Garzanti, 1960 (ora in Sulla poesia, cit., p. 58): Montale afferma che «un verso che sia anche prosa è il sogno di tutti i poeti moderni da Browning in poi». 11 Strumenti umani, in «Corriere della Sera», 24 ottobre 1965 (ora in Sulla poesia, cit., p. 331).

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di volta in volta in relazione alle singole varianti, non consentendo osservazioni di carattere generale non generico, il processo di ‘regolarizzazione’ ritmico-metrica offre invece l’opportunità di avvalersi degli interventi particolari per suggerire l’individuazione di alcune costanti correttorie: ad esempio, soprattutto all’altezza del ’25 e del ’28 si assiste all’instaurazione negli Ossi, per lo più in luogo di versi amorfi, ipometri o ipermetri, di un numero relativamente alto di endecasillabi, non fruiti come semplici tralicci sillabici, ma dotati di canonica regolarità ritmica. Si consideri anche che le liriche entrate negli Ossi nel ’28 constano, con l’eccezione di Fuscello teso dal muro, quasi esclusivamente di endecasillabi (anche se la predilezione per l’endecasillabo non è peculiare di un particolare momento della poesia montaliana): statisticamente, nella prima edizione degli Ossi gli endecasillabi costituiscono il 43,19% della totalità dei versi, nella seconda edizione il 47,8%, nelle Occasioni il 60,29%, nella Bufera il 66,57%. Degli endecasillabi instaurati negli Ossi da interventi correttorii quattro12 sono del tipo con sinalefe di 6a e 7a e accento ribattuto, nel quale «lo stacco rilevato dall’accentuazione della vocale (una sorta di dialefe nella sinalefe) impenna il verso e lo tiene verticalmente sospeso: un attimo, per poi riprendere con più respiro o per scendere rapido alla chiusa»13. G. L. Beccaria14 definisce questa «una figura ritmica dell’endecasillabo rimasta in Italia molto stabile, dalle Origini a fine Ottocento» rilevandone l’assenza, proprio in ragione del suo carattere ormai logoro, nella poesia novecentesca, pur verificandosi «presenze inattive, di puro riporto carducciano-pascoliano» o, soprattutto in Montale, «qualche voluto, ed allora funzionale, acquisto di voce, più che impreziosimento della dizione»: allora il sintagma che soggiace a questo ritmema sarà «di ben segnata memoria letteraria» o «posto in quella sede a chiudere a mo’ d’epigrafe la frase [...] o comunque enunciato dal piglio definitorio e sentenzioso»15. Lo spoglio completo degli endecasillabi di questo tipo16 pare senz’altro confortare tali affermazioni: 12 Cfr. Fine dell’infanzia 76 (si veda la nota 1); Corno inglese 3 (la lezione definitiva «gli strumenti dei fitti alberi e spazza» sostituisce la primitiva «gli strumenti degli alberi,» presente nel n. 2 della rivista «Primo Tempo», Torino, 15 giugno 1922, p. 40 e nella prima edizione degli Ossi); Upupa, ilare uccello calunniato 5 (la lezione definitiva «nunzio primaverile, upupa, come» sostituisce «Upupa, primaverile nunzio incantato,» presente nella prima edizione degli Ossi); Potessi almeno costringere 19 («che potranno rubarmi anche domani» è lezione introdotta in luogo della primitiva «che domani potranno rubarmi» attestata dalla prima e seconda edizione degli Ossi – la seconda è edita in Torino da Ribet nel ’28 –). 13 Dante Isella, L’officina della «Notte» e altri studi pariniani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968, p. 51. 14 L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1970, p. 220. 15 Ivi, pp. 222-223. 16 OSSI DI SEPPIA: In limine 17, Corno inglese 3, Vento e bandiere 22 e 24, II canneto rispunta i suoi cimelli 3, La farandola dei fanciulli sul greto 8, Upupa, ilare uccello calunniato 5, A vortice s’abbatte 14, Giunge a volte, repente 5, Noi non sappiamo quale sortiremo 19, Potessi almeno costringere 19, Fine dell’infanzia 34 e 76, Arsenio 14, Crisalide 7, 13, 17, 28, 38, 42, 46, Casa sul mare 19 e 25, I morti 28 e 29, Delta 8, Incontro 12 e 50, Riviere 22, 33, 34, 45.

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sintagmi letterariamente connotati sono anche, oltre che nei luoghi citati da Beccaria, ad esempio in OS II canneto rispunta i suoi cimelli 3 («l’orto assetato sporge irti ramelli»: cfr. Pascoli, Myricae, Arano 8 «e il tutto spia dai rami irti del moro») e OS Riviere 45 («bellezze funerarie, auree cornici»: cfr. il v. 50 della Notte pariniana – «auree cornici, e di cristalli e spegli » –, in un contesto che probabilmente ha agito sui versi iniziali di OS Caffè a Rapallo17. Questa particolare forma endecasillabica chiude la frase non solo in OS Crisalide 7 e O Dora Markus i 21, addotti ad esempio da Beccaria, ma si conclude con punto fermo anche in OS Vento e bandiere 24, OS Valmorbia, discorrevano il tuo fondo 10, OS La farandola dei fanciulli 8, OS Giunge a volte, repente 5, OS Noi non sappiamo quale sortiremo 19, OS Crisalide 13 e 28, OS Casa sul mare 19, O Corrispondenze 12, B Nel sonno 14, B Due nel crepuscolo 3, B Proda di Versilia 39, B Ezekiel saw the Wheel 6; con punto e virgola in OS Vento e bandiere 8 e B L’anguilla 14, con due punti in O Nuove Stanze 19, con punto interrogativo e chiusura di parentesi in B Se t’hanno assomigliato 18 e con aposiopesi in B La primavera hitleriana 44. È rilevante che in alcuni di questi luoghi la fine della frase coincida con la fine della poesia: Vento e bandiere 24, La farandola dei fanciulli 8, Nel sonno 14, La primavera hitleriana 44; anche in Parini «endecasillabi di questo tipo cadono spesso in posizione finale di strofe, nelle Odi, o di periodo di ampio respiro, nel Giorno, talvolta a due a due»18. Nella poesia montaliana si rileva frequentemente la presenza di tale figura ritmica in versi contigui – intervallati al più da uno o due versi –: cfr. OS Vento e bandiere 22 e 24, OS I morti 28 e 29, OS Delta 5, 6 e 8, OS Riviere 33 e 34, O Vecchi versi 22 e 24, O Carnevale di Gerti 5, 7 e 10, O Stanze 1 e 3, O Sotto la pioggia 3 e 5, O Nuove Stanze 17, 19 e 22, B Nel sonno 11, 12 e 14, B Personae separatae 12 e 14, B Due nel crepuscolo 3 e 5; rivestono particolare interesse i vv. 11-12 e 14 di Nel sonno, dove il ritmema del v. 11 e quello del v. 1219 configurano una sorta di climax, culminante nel sintagLE OCCASIONI: Vecchi versi 22, 24, 42, Buffalo 11, Cave d’autunno 2, Carnevale di Gerti 5, 7, 10, 46, 59, Dora Markus i 21, Lo sai: debbo riperderti 3, La canna che dispiuma 10, Bassa marea 8, Stanze 1 e 3, Sotto la pioggia 3, 5, 10, Punta del Mesco 14, Eastbourne 31, Corrispondenze 8 e 12, Barche sulla Marna 37, Nuove Stanze 17 e 22, Il Ritorno 6 e 25, Palio 11 e 62. LA BUFERA E ALTRO: Nel sonno 11, 12, 14, La frangia dei capelli… 8, II giglio rosso 14, II ventaglio 5, Personae separatae 12 e 14, Due nel crepuscolo 3, 5, 33, Argyll Tour 13, Vento sulla mezzaluna 9, Iride 32, L’orto 4 e 21, Proda di Versilia 24, 35, 39, La primavera hitleriana 28 e 43, Voce giunta con le folaghe 7, L’ombra della magnolia 13, II gallo cedrone 5 e 14, Le processioni del 1949 6, Da un lago svizzero 11. D’ora in poi si adotteranno le sigle OS, O, B per indicare rispettivamente Ossi, Occasioni, Bufera. 17 La memoria dei vv. 48-54 della Notte («Stupefatta la Notte intorno vedesi / riverberar più che dinanzi al sole / auree cornici, e di cristalli e spegli / pareti adorne, e vesti varie, e bianchi / omeri e braccia, e pupillette mobili, / e tabacchiere preziose, e fulgide / fibbie ed anella e mille cose e mille») non sembra infatti estranea ai vv. 1-7 di Caffè a Rapallo («Natale nel tepidario / lustrante, truccato dai fumi / che svolgono tazze, velato / tremore di lumi oltre i chiusi / cristalli, profili di femmine / nel grigio, tra lampi di gemme / e screzi di sete… [...]»). 18 Dante Isella, L’officina della «Notte», cit., p. 51. 19 Il ritmema del v. 12 è introdotto in seguito al processo variantistico che sostituisce, ai vv. 11-13,

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ma – ritmicamente analogo e semanticamente rilevante – che conclude il v. 14 e la poesia. Talvolta Montale itera il ritmema nella stessa lirica, anche se non in versi contigui, ponendo sotto accento di 7a, quindi in massimo rilievo, la medesima parola, con evidente intento retorico; in OS Casa sul mare 19 («del frangente si compie ogni destino») e 25 («ma taluno sovverta ogni disegno») l’identità dell’aggettivo evidenziato, alla quale si accompagna l’analogia semantica dei sostantivi (destino, disegno), si contrappone al rapporto oppositivo dei verbi (si compie, sovverta); in O II Ritorno 6 («in lotta sui suoi remi; ecco il pimento») e 25 («ai margini del canto – ecco il tuo morso») cade sotto accento di 7a l’avverbio che è in capo alla poesia e ne costituisce il traliccio sintattico: «Ecco bruma e libeccio sulle dune [...] ecco il pimento [...] ecco / ancora quelle scale [...] eccole che t’ascoltano [...] ed ecco il sole […] ecco il tuo morso» (vv. 1, 6, 12, 17, 23, 25). In O Sotto la pioggia 3 («e lacrima la palma ora che sordo») e 10 («Sulla rampa materna ora cammina») l’avverbio è posto nella massima evidenza in quanto parolachiave dell’opposizione passato/presente sulla quale è giocata tutta la lirica; in B La primavera hitleriana la configurazione del v. 28 («dalle tue mani – tutto arso e succhiato») è certo funzionale alla mise en relief dell’explicit della poesia (v. 43: «di raccapriccio, ai greti arsi del sud...»), trovando quindi piena giustificazione la presenza in fine di verso della dittologia aggettivale («arso e succhiato»), di per sé figura convenzionale e logora – soprattutto in questo tipo di endecasillabo20 – ma qui finalizzata all’intenzionale innalzamento del tono, del tutto pertinente al contenuto della lirica. Se in Pascoli «la vistosa oltranza ritmico-oratoria dello schema è spesso obliterata [...] per via dei procedimenti iterativi (allitterazioni, riduzioni timbriche, assonanze ecc.)» che «eludono e coprono il sonoro del classico ritmema, [...] smorzato per il legamento timbrico, lo neutralizzano»21, Montale sembra invece, per lo più, evidenziare tale figura ritmica: spesso infatti non livella timbricamente alla testura dominante i due vocaboli sotto accento di 6a e di 7a, anzi li lega con una iunctura fonica particolare e peculiare, entro il verso, degli stessi, esponendoli di conseguenza a forte rilievo: si vedano, ad esempio, OS Riviere 45 («bellezze funERarie, auREe cornici»), O Carnevale di Gerti 7 («il tuo viaggio ed i liEvI EchI si sfaldano»), O Stanze 1 («Ricerco invano il puNTO ONDe si mosse»), O Eastbourne 31 («Tutto apparirà vANo: ANche la forza»), B Nel sonno 12 («d’amaranto nei CHIusi ocCHI, è una nube»), B la lezione definitiva «[...] la luna / d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube / che gonfia […]» alla primitiva «[...] una luna / d’amaranto, è nei chiusi sguardi, ostrude / il mondo […]» (testo pubblicato in «Primato», i, 12, Roma, 15 agosto 1940, p. 5). 20 In esso la dittologia aggettivale occorre altre due sole volte: cfr. OS Crisalide 7 («all’alito d’Aprile, umide e liete») e O Buffalo 11 («attendevano donne ilari e molli»); sulla convenzionalità di tale figura si veda Gian Luigi Beccaria, L’autonomia del significante, cit., pp. 224-225. Si noti però che in questo verso della Primavera hitleriana non sono convenzionali i due componenti della dittologia, né il loro rapporto semantico. 21 Gian Luigi Beccaria, L’autonomia del significante, cit., p. 232.

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Due nel crepuscolo 33 («ritorno. Pochi istANti hANno bruciato»), B Proda di Versilia 24 («A quell’ombre i primi ANni erANo folti») e 39 («bruciati e le cAVane AVide d’acqua»), B Voce giunta con le folaghe 7 («che ti teneva, paDRE, ERTo ai barbagli»). Gli interventi correttorii rendono anche lievemente più alta la frequenza, comunque già elevata, di un altro particolare tipo di endecasillabo, quello con sdrucciola sotto accento di 6a, che «è entità oratoria omologa, sul piano della funzione ritmica, alla figura di endecasillabo con iato di 7a»22: questo tipo di verso è infatti instaurato, negli Ossi, in Fine dell’infanzia 39 e 84 (cfr. la nota 1), Egloga 1223, Marezzo 624 e, nella Bufera, in L’anguilla 2725, mentre in O Costa San Giorgio la redazione definitiva ne presenta otto occorrenze in luogo delle sei della redazione precedente26. Sono di segno contrario invece le varianti di OS Fine dell’infanzia 76 (dove però è instaurato l’endecasillabo, ritmicamente analogo, con sinalefe di 6a e 7a e accento ribattuto27), O II Ritorno 2128 e O La rana, prima a ritentar 1129 (nelle quali peraltro l’eliminazione del ritmema è conseguenza, non certo fine della correzione, ed è compensata da acquisti semantici e fonici). L’incremento si situa soprattutto all’altezza del 1928 (cfr. Fine dell’infanzia 84, Egloga 12, Marezzo 6), stante anche il fatto che questo particolare tipo di endecasillabo conta ben 19 occorrenze nelle poesie aggiunte alla seconda edizione degli Ossi (2 in Vento e bandiere, 7 in I morti e 10 in Arsenio), sì che nella prima edizione degli Ossi ha 60 occorrenze (pari al 10,27% della totalità degli endecasillabi della raccolta), nella seconda edizione 79 (10,5%), nelle Occasioni (edizione definitiva) 91 (12,94%), nella Bufera (edizione definitiva) 62

Ivi, p. 230, n. 60. La lezione definitiva «Ora è finito il cerulo marezzo» subentra alla precedente (doppio senario) «Or pare finito il cesio marezzo» (testo pubblicato in «II Convegno», vi, 2-3, Milano, 28 febbraio 1925, pp. 101-102 e nella prima edizione). 24 L’instaurazione dell’endecasillabo con sdrucciola sotto accento di 6a è determinata dalla sostituzione di «il crepuscolo» a «l’ordinotte» (testo pubblicato in «II Convegno», cit., pp. 104-106 e nella prima e seconda edizione). 25 La lezione definitiva («di quella che incastonano i tuoi cigli») subentra alla primitiva «di quella che incastoni in mezzo ai cigli» (testo pubblicato in «Botteghe oscure», Quaderno i, luglio 1948, pp. 1-2). 26 La redazione definitiva ha questo tipo di endecasillabo ai vv. 1, 7, 15, 21, 25, 27, 28, 30, mentre il testo edito in rivista («Caratteri», i, 4, giugno-luglio 1935, pp. 255-256) manca del v. 21 e in luogo dei vv. 27-28 reca un solo verso («sui cardini, la stupida discesa,»). 27 Cfr. la nota 1. 28 Il processo variantistico che investe, all’altezza della seconda edizione (Torino, Einaudi, 1940), il testo pubblicato in «Letteratura» (vi, 1, gennaio 1940, p. 16) muta i vv. 21-23: il v. 21, che in prima redazione suona «o quando Erinni stridule nel cuore», diventa «o quando Erinni fredde ventano angui». 29 La lezione definitiva dei vv. 10-11 («si prepara a un irrompere di scarni / cavalli, alle scintille degli zoccoli.») si instaura all’altezza della decima edizione (Milano, Mondadori, 1962) in luogo della precedente (i-ix edizione) «si prepara all’irrompere dei tre / cavalieri! Salutali con me». 22 23

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(8,74%). Se ne rileva la presenza già in alcune poesie giovanili: cfr. Elegia30 13 («pullulan forme imagini rabeschi»), Prima della primavera31 2 («colorano i nostri ultimi, sommersi»), Musica silenziosa i 7 («di vecchie enciclopediche ambizioni»), A galla32 12 («e il chiacchiericcio liquido dei passeri»), 19 («che discende sugli alberi sfoltiti»), 29 («se pure ti ripetono che puoi»), Violini 22 («m’è dato nel miracolo del giorno»), Violoncelli 20 («creatura d’un attimo. E saprai»), 22 («ogni esistenza: seguici nel Centro»). Spesso accanto alla sdrucciola sotto accento di 6a l’endecasillabo libera un’altra proparossitona, legata quasi sempre a quella da echi fonici, che può cadere sotto accento di 1a – come in OS CigOLA la carrucOLA del pozzo 1, OS Scirocco 16 («l’AgAve che s’AbbArbicA al crepaccio»), O Notizie dall’Amiata i 6, B Due nel crepuscolo 35, B L’ombra della magnolia 8, B Se t’hanno assomigliato 26 – o di 3a – come in OS I limoni 23 («s’abbandonANO e sembrANO vicine»), O Carnevale di Gerti 22, O Non rECIdere forbiCE quel volto 1, B L’orto 32, B Se t’hanno assomigliato 10 e 20 – oppure, più frequentemente, di 2a – come in OS Dove se ne vanno 7, OS Il canneto rispunta i suoi cimelli 7, OS Fine dell’infanzia 21 («la musIcA dell’anImA inquieta»), OS Flussi 2, OS Arsenio 30, OS Crisalide 39, O La gondOLA che scivOLA in un forte 1, O Tempi di Bellosguardo i 4, O Nuove Stanze 7, B Personae separatae 10. Talvolta la seconda proparossitona cade in fine di verso: cfr. OS Vento e bandiere 6, OS Vasca 3, OS Arsenio 12, O Addii, fischi nel buio 6, O La rana, prima a ritentar 6, O Tempi di Bellosguardo iii 19 («sui libri dalle PERgoIe; dura oPERa»), O Punta del Mesco 17, O Costa San Giorgio 7 («e tutto scende o raPIdo s’inerPIca»), B Vento sulla mezzaluna 5, B Per un «Omaggio a Rimbaud» 1, B Incantesimo 1, B Proda di Versilia 12. È poi degno di nota il v. 1 di Arsenio, che libera altre due sdrucciole, oltre a quella sotto accento di 6a («I turbini sollevano la polvere»): Mengaldo33 lo mette in relazione con un distico del Ditirambo I di Alcyone («II vento turbina, / suscita polvere in vortici»), ma si può anche notarne l’affinità ritmica con Ditirambo II 83 («a mordere. Rigavami le fauci») e con L’otre i 43 («non così vividi ardere mi parvero»), essendo il punto di riferimento comunque sempre D’Annunzio, l’importanza del quale per la poesia montaliana in relazione all’uso di «versi, specialmente endecasillabi, impostati su due sdruccioli successivi, spesso legati poi da echi fonici e timbrici» è stata rilevata dallo stesso Mengaldo34. 30 Pubblicata alle pp. 13-14 dell’Omaggio a Montale, Milano, Mondadori, 1966 e datata «26 i 1918». 31 Pubblicata, insieme con Musica silenziosa, in Due poesie inedite con una Nota di Maria Antonietta Grignani («Strumenti critici », 21-22, ottobre 1973, pp. 217-223). 32 È una poesia del 1915 pubblicata nella strenna Satura (Verona, Officina Bodoni, 1962). 33 Cfr. D’Annunzio e la lingua poetica del Novecento, in La tradizione del Novecento, cit., p. 197. 34 Ivi, p. 212.

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Molto meno persuasivamente l’impiego di coppie di parole proparossitone è ricondotto ad una presunta influenza thoveziana da parte di A. Pinchera35, il quale, dimenticando Pascoli e D’Annunzio, pare privilegiare il verso di Thovez, «ricco di pause, di enjambement, di allitterazioni, di assonanze (in posizione sia finale che interna), di coppie di parole sdrucciole, di rime casuali, di suoni aspri». Certo di ascendenza dannunziana sono le «sequenze del tipo: sdrucciolo sotto accento di sesta – pausa forte logica – parola trisillaba che inizia una frase prolungata con inarcatura nel verso successivo»36 alle quali Montale ricorre, oltre che, come ricorda Mengaldo, in OS Portami il girasole 7, anche in O Carnevale di Gerti 58 («disguidi del possibile. Ritorna / là fra i morti balocchi [...]») e O Stanze 33 («ma sfioccata precipita. Voluta, / disvoluta è così la tua natura»); sequenze molto simili presentano O Vecchi versi 23 («cimata dei pitòsfori. Nel breve /vano della mia stanza [...]»), 41 («si perse nelle tenebre. Dal porto / di Vernazza le luci erano [ . . . ] »), O Verso Capua 10 («farfalle minutissime. Un furtivo / raggio incendiò di colpo il sughereto»), O Infuria sale o grandine? Fa strage 1 (il v. 2 suona «di campanule, svelle la cedrina»), O Stanze 35 («Tocchi il segno, travàlichi. Oh il ronzìo / dell’arco ch’è scoccato [ . . . ] » ) , O Nuove Stanze 12 («non vista e il fumo s’agita. Là in fondo, / altro stormo si muove [...]»), B Due nel crepuscolo 29-30 («tra noi leggere cadono. Ti guardo / in un molle riverbero. Non so / se ti conosco [ . . . ] » ) . Il v. 8 di O Notizie dall’Amiata i ha sotto accento di 6a una bisdrucciola («della cima m’intorbidano i vetri»): torna forse di proposito il rimando ad un luogo dannunziano, Bocca di Serchio 7 («Ho le gambe che sanguinano. Folli»). Alla predilezione per l’endecasillabo Montale accompagna quella per il settenario, confermata dagli interventi correttorii37. Sul ruolo del settenario nella metrica montaliana Pinchera38 offre osservazioni interessanti, sulla scorta delle quali conclusivamente afferma che «alla gradazione ritmica e all’equivalenza dei metri contribuisce in gran parte la presenza del settenario, che funge da elemento di coordinazione»39. Se è vero, come sostiene Pinchera e come pare, che «tra i versi lunghi Montale predilige [...] il doppio settenario (e comunque nei versi lunghi un settenario quasi sempre è nel primo o nel secondo emistichio)»40 è sintomatica la variante, cronologicamente risalente al 1928, di OS La farandola dei fanciulli sul greto 7, che sostituisce un regolare doppio settenario («Nell’età d’oro florida sulle 35 Antonio Pinchera, La versificazione tonico-sillabica nella poesia di Montale: I. Ossi di seppia, in «Quaderni urbinati di cultura classica», 7, 1969, p. 176, n. 17. 36 Pier Vincenzo Mengaldo, D’Annunzio e la lingua poetica del Novecento, cit., p. 215. 37 Cfr., ad esempio, le varianti sopra riportate (alla nota 1) di Fine dell’infanzia. 38 La versificazione…, cit., pp. 170-171. 39 Ivi, p. 171. 40 Ivi, p. 170.

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sponde felici») al verso lungo amorfo presente nella prima edizione («Nell’età dell’oro florida sulle sponde felici»). La volontà di evitare l’amorfia pare innescare anche il laborioso processo variantistico relativo ad un altro verso lungo, OS Maestrale 19: l’incertezza ritmica delle lezioni primitiva41 – «e non sosta mai: ché su tutte le cose pare sia scritto:» – e intermedia42 – «né sosta mai: ché su tutte le cose pare sia scritto:» – è superata infine grazie all’instaurarsi di una sequenza dattilica senza soluzione di continuità ritmica («né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:»), approssimativamente definibile esapodia dattilica catalettica in due sillabe43. La variante conforta l’impressione che Montale consideri l’uniformità ritmica in certo modo sostitutiva della regolarità sillabica in molti dei suoi versi lunghi non canonici: spesso infatti il verso lungo non coincidente con il doppio senario44 o doppio settenario o doppio ottonario, e neppure con il tipicamente montaliano verso di 12 sillabe, si presenta ‘normalizzato’ ritmicamente in quanto formato da una serie di piedi dattilici. Si vedano, oltre al v. 2 della giovanile Oboe («che ogni apparenza dintorno vacilla s’umilia scompare»), OS Ripenso il tuo sorriso 7-8 («o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua / e recano il loro soffrire con sé come un talismano»), O Tempi di Bellosguardo i 10 («questa vita di tutti non più posseduta»), O Elegia di Pico Farnese 6-7 («sportelli tagliati negli usci i molli soriani / e un cane lionato s’allunga nell’umido orto»), O Notizie dall’Amiata ii 18 («e tutto sia lente tranquilla, dominio, prigione»), 27-28 («il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento, / il vento che tarda, la morte, la morte che vive!»), B La primavera hitleriana 4 («come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona»), 8 («Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale»), 10 («e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito»). Questi versi lunghi, variamente scomponibili in due versi dattilici, sono specularmente simili alle sequenze dattiliche che si possono formare allineando più versi contigui: si vedano, negli Ossi, Corno inglese 15-17 («nell’ora che lenta s’annera / suonasse te pure stasera / scordato strumento»), Fine dell’infanzia 3-5 («un mare pulsante, sbarrato da solchi, / cresputo e fioccoso di spume. / Di contro alla foce»), 7-8 («il flutto ingialliva. /Giravano al largo i grovigli dell’alighe»), Egloga 28-29 («S’è ricomposta la fase che pende / dal cielo, riescono bende») e le serie di novenari di OS Caffè a Rapallo 2-9, OS Fuscello teso dal muro 7-11 e 22-27, OS Ciò che di me sapeste 16-19, OS Scendendo qualche volta 16-19, OS Vasca 5-9, O 41 Testo pubblicato in «Primo Tempo» (Prima Serie, 4-5, Torino, agosto-settembre 1922, pp. 114-115). 42 Lezione che si tramanda dalla prima alla quarta edizione (Lanciano, Carabba, 1941). 43 Cfr. Giuseppe Fraccaroli (D’una teoria razionale di metrica italiana, Torino, Loescher, 1887, p. 72) che dà come esempio: «Su, figli di Sparta, con l’armi alla danza famosa di Marte». 44 Il doppio senario ha negli Ossi quattro occorrenze, e non tre come afferma Antonio Pinchera (La versificazione…, cit., p. 167, n. 11), che ricorda solo Ho sostato talvolta nelle grotte 13, Fine dell’infanzia 3 e 8: si aggiunga infatti Tramontana 6 («divelle gli arbusti, strapazza i palmizi»).

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Dora Markus ii 4-8, 12-13, 28-31, O Tempi di Bellosguardo ii 24-37, B Da una torre 3-11, B Nella serra 9-16, B Nel parco 4-10, 12-17. Talvolta in versi lunghi ritmicamente non uniformi è comunque individuabile un novenario dattilico, coincidente con il primo o, più frequentemente, con il secondo emistichio, come si inferisce da Ottoni 10 («dal tuo respiro si plachino, si facciano gli occhi sereni»), O Elegia di Pico Farnese 13 («Torna la salmodia appena in volute più lievi»), O Notizie dall’Amiata ii 15 («Ritorna domani più freddo, vento del nord»), B La primavera hitleriana 7 («negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai»): l’‘archetipo’ di tali versi è forse da ricercare nell’esametro carducciano, nel quale il secondo emistichio è sempre un novenario dattilico. In relazione invece ai versi lunghi nei quali il ritmo dattilico non ha soluzione di continuità, pare più pertinente il rimando a certe strofe lunghe di Alcyone, ad esempio alla Pioggia nel pineto, intessuta di piedi dattilici che si aggregano a formare sequenze interversali: cfr. i vv. 1-7 («[...] Su le soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane; ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane»), 26-28 («su i freschi pensieri / che l’anima schiude / novella»), 37-39 («e varia nell’aria / secondo le fronde / più rade, men rade»), 81-87 («Or s’ode su tutta la fronda / crosciare / l’argentea pioggia / che monda, / il croscio che varia / secondo la fronda / più folta, men folta»). Non è certo estranea neppure la memoria dei celebri ed iterati novenari dattilici pascoliani: il riferimento – lessicale e semantico – a Pascoli è sintomaticamente esplicito in alcuni luoghi montaliani ricordati sopra, quali O Notizie dall’Amiata ii 27-28 («il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento, / il vento che tarda, la morte, la morte che vive!»), che rimanda ai versi finali di Myricae, Scalpitìo45 e, nella Bufera, Da una torre, Nella serra, Nel parco46. Né pare di lieve momento la frequenza altissima di metri dattilici nelle prime due raccolte poetiche palazzeschiane, I cavalli bianchi e Lanterna: statisticamente47 il novenario dattilico costituisce il 33,65% della totalità dei versi nei Cavalli bianchi e il 41,36% in Lanterna, il dodecasillabo rispettivamente il 36,5% e il 29,25%; frequenze minori ma relativamente cospicue presentano anche il senario dattilico e la pentapodia dattilica, dandosi inoltre un’occorrenza nei Cavalli bianchi e tre in Lanterna della esapodia dattilica catalettica in due sillabe con anacrusi monosillabica: cfr. I cavalli bianchi, Il tempio pagano 7 («Son erbe, che al solo toccarle, si dice, ristagnano il sangue») e Lanterna, A 45 La presenza della memoria pascoliana in questi versi di Notizie dall’Amiata è rilevata da Giuseppe De Robertis, «Le Occasioni», in Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, 1962, p. 309. 46 In esse Pier Vincenzo Mengaldo (Da D’Annunzio a Montale, cit., p. 74 e n. 98) individua appunto la presenza di «elementi e moduli pascoliani». 47 Questi dati sono desunti dalle lezioni, inerenti alla poesia di Palazzeschi, tenute dal professor Franco Gavazzeni nell’Università di Pavia durante l’anno accademico 1975-1976 nell’ambito del corso di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea. Sulla metrica palazzeschiana si veda il saggio di Pier Vincenzo Mengaldo, Su una costante ritmica della poesia di Palazzeschi (in La tradizione del Novecento, cit., pp. 217-241), che individua nell’unità trisillabica (U_U) la costante ritmica della prima fase dell’attività lirica di Palazzeschi.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

palazzo Oro Ror 10 («ricopron le vesti cosparse di gemme i ricchi broccati»), 14 («discendon le dame silenti ravvolte nei ricchi broccati»), 26 («Se n’ode soltanto il leggero frusciare del serico manto»). Torna forse di proposito ricordare qui anche la frequente riduzione ritmica alla misura dattilica di uno dei due «piccoli poemi in prosa»48 della Bufera, Dov’era il tennis: all’insistente ricorso alle proparossitone49 si accompagna la possibilità di isolare molte sequenze parzialmente o totalmente dattiliche, soprattutto a inizio e fine di comma: si vedano, per le sequenze ad inizio di comma, le righe 1 («Dov’era una volta il tennis»), 5 («Qui vennero un giorno a giocare»), 7 («Verso levante la vista»), 9-10 («È curioso pensare che ognuno di noi ha un paese»), 12-13 («è curioso che l’ordine fisico sia così lento a filtrare in noi»), 29-30 («Non sempre ci furono eredi»), 42-43 («Sul conchiglione-terrazzo»), 51 («Vennero un giorno i mariti»), 53-54 («Della dueña e degli altri»); sono invece a fine di comma le sequenze individuabili alle righe 4 («conigli nelle ore di libera uscita»), 12 («restare il suo paesaggio, immutabile»), 19-20 («s’accenderanno nel golfo le prime lampare»), 21-22 («l’iniquità degli oggetti persiste intangibile»), 28 («vita di pochi istanti»), 29 («sembrano chiuse»), 33 («segna il passo in altre contrade»), 54 («seppe più nulla»), 55-56 («una delle ultime guerre e fece miracoli»), 59 («vitale, fin ch’esso durò»), 60 («stava per giungere»), 68 («sette centesimi»). Si rilevano sequenze dattiliche all’interno del comma alle righe 5 («sorelle, due bianche farfalle»), 11 («come questo, e sia pur diversissimo»), 15-16 («chiedersi il come e il perché della partita interrotta»: si tratta di un doppio ottonario), 17-18 («vapore che esce dal cargo arrembato, laggiù sulla linea»), 36-37 («di quanto s’accumula inerte e va in cancrena»), 43-44 («Nettuno gigante, ora scrostato»: senario dattilico + quinario dattilico), 46-47 («esorbitante bovindo affrescato di peri»), 61 («forse mio padre»), 62 («finita la cena all’aperto»), 64 («sulle spalle uno scialle di lana»), 65 («sempre in francese»), 66-67 («subito in camera»), 67 («finir di fumarsi a letto»). La tendenza di questa prosa alla misura dattilica è confermata e perfezionata da alcune varianti che investono, all’altezza dell’edizione fiorentina di Finisterre (1945), il testo pubblicato nel 1943 dalla rivista «Lettere d’oggi»50: Montale sostituisce «sorelle, due bianche farfalle» a «S., biancovestita» (riga 5), «perché della» a «perché di S. e della» (riga 16; si crea il doppio ottonario «chiedersi il come e il perché della partita interrotta»), «che esce» a «ch’esce» (riga 17; si perfeziona la sequenza «vapore che esce dal cargo arrembato, laggiù sulla linea»), «seppe più nulla» a «seppe poi più nulla» (riga 54). 48 Così Montale stesso definisce Dov’era il tennis e Visita a Fadin in Dialogo con Montale sulla poesia, in «Quaderni milanesi», i, autunno 1960 (ora in Sulla poesia, cit., p. 580). 49 37 occorrenze; si aggiungano tre bisdrucciole: dominano (riga 2), chiederselo (righe 16-17), accendervisi (riga 35). Per la numerazione delle righe ci si riferisce all’ultima edizione della Bufera [Milano, Mondadori, 1957; ristampa 1973]. 50 Nel n. 3-4 dell’anno v, Roma, marzo-aprile 1943, pp. 8-10.

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9. la metrica delle prime tre raccolte montaliane

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[Questo saggio, risalente al 1981, è l’unico del presente volume a essere riprodotto senza alcuna modifica o integrazione, per le ragioni esposte nella Premessa. È però forse opportuno aggiungere qui un lapidario aggiornamento bibliografico, che si limiti a ricordare l’edizione critica di L’opera in versi, a cura di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini (Torino, Einaudi, 1980) e i soli due volumi finora dedicati alla metrica montaliana: Massimo Antonello, La metrica del primo Montale 1915-1927, Lucca, Pacini Fazzi, 1991 e Quaderno montaliano, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Padova, Liviana, 1989. È noto – e confortante – come, soprattutto negli ultimi anni, l’analisi metrica sia entrata in modo più o meno ampio e approfondito in molti contributi critici montaliani incentrati su altri campi di indagine (e che qui non elenchiamo). Infine, si segnalano le annotazioni metriche della Guida alla lettura di Montale: «Ossi di seppia» di Tiziana Arvigo (Roma, Carocci, 2001) e delle edizioni commentate di Ossi di seppia (a cura di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely, Milano, Mondadori, 2003), Le occasioni e Finisterre (entrambe a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1996 e 2003).]

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10. Rammendo postumo alla «rete a strascico»: una poesia “dimenticata” di Eugenio Montale

Tra le carte generosamente donate da Gina Tiossi al Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università degli Studi di Pavia nel 2004, un foglio (cm. 29,7 x 21) di carta molto ingiallita, dattiloscritto con correzioni autografe in inchiostro rosso, conserva il testo di una poesia montaliana fino ad allora totalmente ignota, datata in calce «2 luglio 1963» e provvista di titolo1. Questo il testo definitivo, seguito dal breve apparato genetico: LA CASA DI OLGIATE In quel tempo era ancora vivo il piccolo Tonino nella casa alta sul cavalcavia. Io la vedevo, la casa, dall’autostrada, ignorando te e lui: non mi balzava il cuore come adesso. L’ignoranza mia occultava l’avvenire, il fildi-ferro del domani, là giunti, si troncava. V’entrai molti anni dopo (il bimbo era morto da tanto,

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1 Il testo, pubblicato per la prima volta nel Catalogo della Mostra documentaria tenutasi nella Biblioteca Universitaria di Pavia dal 13 dicembre 2004 al 15 gennaio 2005 (Da Montale a Montale. Autografi, disegni, lettere, libri, a cura di Renzo Cremante, Gianfranca Lavezzi, Nicoletta Trotta, Pavia, c.l.u., 2004; poi Bologna, Clueb, 2005, pp. 25-27), apre la recente silloge di liriche inedite di Montale La casa di Olgiate e altre poesie (a cura di Renzo Cremante e Gianfranca Lavezzi, Milano, Mondadori, 2006). Riprendo qui, ampliandola, la breve scheda della quale avevo corredato la poesia nel Catalogo. Nell’occasione, desidero ringraziare l’amico Franco Contorbia per le preziose informazioni e i suggerimenti di cui mi è stato generoso nel corso del “rammendo”.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale susurrando ‘mi duole per te, mamma’), conobbi l’orto, il giardiniere, il tuo boudoir di diciottenne, disammobiliato, l’impronta appena visibile di un cerchio sul muro – lo specchio –, e non potevo parlare. Tra quelle stanze una parte alitante di te mi bastava. Il trillo del tuo cardellino più tardi si spense all’ombra del giglio rosso da me lasciato. Famelico delle tue tracce mi affaccio su rettangoli di verze, su cespugli di dalie impolverate, e il vecchio custode mi segue, più inebetito di me nei corridoi, nel solaio mentre dal basso giunge un crepitare isocrono di macchine, ma non bava d’aria nell’afa. Così i destini s’annodano, mia tigre, e intanto tu dietro le lenti affumicate spii nugoli pigri e sull’Olona putrido l’efflorescenza dei disinfestanti. Si snodano i destini. Mai da me intraveduta, la tua casa friulana ora s’allarga nel desiderio, l’aia dove incontro al futuro irruppe la tua infanzia, e già volava.

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v. 3 vedevo, la casa,] vedevo la casa vv. 7-8 fil- / di-ferro] filo / di ferro v. 12 l’orto,] l’orto v. 14] il cerchio dello specchio, più bianco sul muro, visibile, → l’impronta dello specchio, più bianca sul muro, visibile, → l’impronta dello specchio, la macchia del muro, visibile, v. 19 delle tue tracce] dei tuoi ricordi v. 20 impolverate] incanutite → polverose v. 25 mia tigre, e intanto tu] mia cara tigre, e tu intanto v. 32 irruppe la tua infanzia] la tua infanzia irrompeva

La forma metrica tende alla regolarità e ad uno schema latamente ballatistico: quattro strofe di otto versi ciascuna, variamente legate da ritorni fonici; gli ultimi versi delle strofe prima, seconda e quarta liberano una rima facile, verbale (troncava, bastava, volava), mentre nella terza la rima è più dissimulata, interna e rafforzata da due assonanze consecutive (bAVA d’AriA nell’AfA). Particolarmente raffinata la tmesi ai vv. 7-8, introdotta in luogo di un forte ma normale enjambement («filo / di ferro»): «fil- / di-ferro» sembra riprodurre con mimesi grafica lo spezzarsi di un filo insieme tenace (tenuto insieme dai trattini) e fragile («si troncava»). La misura versale parte dal settenario (v. 9) e predilige l’endecasillabo (vv. 2, 5, 6, 11, 12, 23, 26, 27, 28, 30, 32) e soprattutto il verso lungo, di respiro esametrico, talvolta regolarizzato in alessandrino (vv. 8, 20, 29, 31). La topografia montaliana registra dunque qui l’ingresso di un nuovo e inaspettato luogo geografico, dal nome e dall’ubicazione per nulla evocativi

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10. una poesia “dimenticata” di eugenio montale

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per la memoria del lettore: Olgiate Olona, in provincia di Varese (uno dei tre Olgiate dell’alto milanese: il Comasco è in provincia di Como, il Molgora ora in provincia di Lecco). Il paese si trova sull’Autostrada dei laghi, la prima strada a pedaggio destinata al traffico veloce delle auto ad essere inaugurata, in Europa e nel mondo, il 21 settembre 1924. Il dato potrebbe essere non meramente nozionistico, ma di aiuto a un tentativo di definizione cronologica dei vari “tempi” della poesia, scandita in quattro momenti: nel primo, il poeta vede la casa dall’autostrada, ancora ignaro della donna adombrata dal tu e del piccolo Tonino, allora vivo; nel secondo, molti anni dopo, quando il bimbo è morto da tempo, il poeta – che ha conosciuto nel frattempo la donna (la madre?) – entra nella casa ora disabitata, dove la misteriosa protagonista ha trascorso la sua giovinezza, per trasferirsi poi (momentaneamente?) a Firenze, dove anche il poeta ha vissuto per più di vent’anni, dal 1927 al 1948 (lasciandola poi per Milano); segue un terzo tempo, un oggi tristemente caratterizzato dall’inquinamento dell’Olona putrido che la donna vede attraverso gli occhiali da sole (in compagnia del poeta?); infine, nel quarto tempo, si accende la “memoria” virtuale della casa friulana dove la donna ha trascorso l’infanzia, solo immaginata e mai veduta dall’autore. Già sul mero piano temporale, siamo in presenza di un puzzle complicato, che diventa ancora più difficile se tentiamo di dare connotati più precisi ai personaggi e agli oggetti della poesia. Conviene per ora aggirare l’ostacolo cercando in primis di spiegare Montale con Montale, cioè enucleando dal suo corpus poetico elementi affini a quelli presenti in questa poesia. Il titolo è parzialmente condiviso da due liriche celeberrime, Casa sul mare (negli Ossi) e La casa dei doganieri (nelle Occasioni), nelle quali probabilmente il tu femminile non è univoco: Paola Nicoli nel primo caso, Anna degli Uberti2 nel secondo. I legami lessicali e immaginativi con la Casa dei doganieri (vicina anche sul piano formale: quattro strofe, di 5+6+5+6 versi; la misura minore è il settenario, quella predominante – in modo perfetto o approssimativo – è l’endecasillabo) sono molto forti, assumendo talvolta l’evidenza della citazione: la casa dei doganieri è «sul rialzo a strapiombo sulla scogliera», questa è «alta sul cavalcavia», e alla Liguria (dove si trova anche la Casa sul mare) si sostituisce l’alta Lombardia industrializzata e inquinata; al paesaggio marino subentra quello modificato dall’uomo: l’autostrada e «un crepitare isocrono di macchine» (di una fabbrica, presumibilmente), l’«Olona putrido» e su di esso «l’efflorescenza dei disinfestanti»; «il filo- / di-ferro del domani, là giunti, si troncava» riprende – in prospettiva però capovolta, proiettando nel passato l’ignoranza del futuro – la celebre immagine che nella Casa dei doganieri segnava il mancato recupero memoriale («Tu non ricordi; altro tempo frastorna / la tua memoria; un filo 2 Su Anna degli Uberti (Arletta, Annetta) si veda da ultimo il fondamentale contributo di Paolo De Caro, Anna e Arletta, in Invenzioni di ricordi. Vite in poesia di tre ispiratrici montaliane, Foggia, Edizioni Centro Grafico Francescano, 2007, pp. 21-131.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

s’addipana»). Se nella casa dei doganieri, deserta, era entrato «lo sciame dei tuoi pensieri / e vi sostò irrequieto», tra le stanze di questa casa, pure deserta quando il poeta la visita, «una parte alitante di te mi bastava». Sarà disabitata anche la casa di Sul lago d’Orta (in Quaderno di quattro anni), che in realtà non è su quel lago: «La villa l’ho vista da un’altra parte, non sul lago d’Orta. È presso Firenze, a Castello […]. L’ho trasportata ad Orta chissà perché, ma poteva starci benissimo»3. Non mancano nella Casa di Olgiate altri segnali montaliani inequivocabili, a cominciare dallo specchio, in punta del v. 14, in posizione ancora più esposta perché questo verso, con le sue 18 sillabe, è il più lungo della poesia; che l’autore volesse porre la parola in particolare evidenza sembra confermato dal lavoro correttorio, che sposta in fine di verso lo specchio prima in posizione interna, più defilata. Lo specchio qui lascia l’impronta sul muro, mentre negli Orecchini un’altra «impronta» affiorava alla superficie dello specchio, venendo «di giù» (come il volto affiorante nel cerchio d’acqua del secchio in Cigola la carrucola del pozzo…). In Dora Markus II, «[…] un interno di nivee maioliche dice / allo specchio annerito che ti vide / diversa una storia di errori / imperturbati e la incide / dove la spugna non giunge» (vv. 12-17): per il momento osserviamo che le nivee maioliche potrebbero entrare benissimo a far parte dell’arredamento di un boudoir. Grande rilievo ha anche, all’inizio della terza strofa, «il trillo del tuo cardellino»: sembra di risentire non tanto il «trillo d’aria» di Lakmè (in Infuria sale o grandine?…, v. 8) o il «trillo che punge le vene» di Nel parco (v. 12), quanto piuttosto il trillo della capinera di Per un fiore reciso, v. 10 (nel successivo Quaderno di quattro anni). La capinera Annetta e il cardellino Tonino condividono la condizione di “fiore reciso”, cioè la morte in giovane età: morte metaforica, come sappiamo, per Annetta e invece tragicamente reale, come vedremo, per Tonino. Il giglio rosso, simbolo di Firenze, dà il titolo a una poesia di Finisterre; la «bava d’aria» proviene da un vecchio e importante “osso”, Fine dell’infanzia (v. 49: «Rara diroccia qualche bava d’aria»). Nella strofa finale, «i destini s’annodano» e, quattro versi dopo, «si snodano i destini»; è difficile non pensare a una poesia importante come Tempo e tempi (in Satura): Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri che paralleli slittano spesso in senso contrario e raramente s’intersecano. È quando si palesa la sola verità che, disvelata, viene subito espunta da chi sorveglia i congegni e gli scambi. E si ripiomba poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo 3

p. 200.

Cfr. Eugenio Montale, a cura di Annalisa Cima e Cesare Segre, Milano, Rizzoli, 1977,

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10. una poesia “dimenticata” di eugenio montale

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solo i pochi viventi si sono riconosciuti per dirsi addio, non arrivederci.

Sono invece degli hapax assoluti nel corpus montaliano alcune parole presenti in questa lirica, come cavalcavia, boudoir, alitante, inebetito, isocrono, nugoli, putrido, efflorescenza, disinfestanti, aia. Il v. 27 («nUgOlI pigri e sull’Olona pUtrIdO») sembra richiamare antiteticamente, con sensibilità ecologica insolita nei primi anni Sessanta, il luminoso «fioriti nUvOlI di piante agli asOlI» dell’“osso” rievocativo dell’esperienza di guerra (Valmorbia, discorrevano il tuo fondo…, v. 2). L’Olona viene qui ammesso alla simbologia dei «grandi fiumi» quale verrà esplicitata in una lirica successiva (del 1969), L’Arno a Rovezzano, nella quale sarà pure presente una casa già abitata da un tu femminile ed ora in rovina (e uno specchio, sia pure d’acqua, è in punta del v. 5): I grandi fiumi sono l’immagine del tempo, crudele e impersonale. Osservati da un ponte dichiarano la loro nullità inesorabile. Solo l’ansa esitante di qualche paludoso giuncheto, qualche specchio che riluca tra folte sterpaglie e borraccina può svelare che l’acqua come noi pensa se stessa prima di farsi vortice e rapina. Tanto tempo è passato, nulla è scorso da quando ti cantavo al telefono ‘tu che fai l’addormentata’ col triplice cachinno. La tua casa era un lampo visto dal treno. Curva sull’Arno come l’albero di Giuda che voleva proteggerla. Forse c’è ancora o non è che una rovina. Tutta piena, mi dicevi, di insetti, inabitabile. Altro comfort fa per noi ora, altro sconforto.

È ancora più interessante, in relazione alla Casa di Olgiate, una redazione anteriore dell’Arno a Rovezzano, con titolo I fiumi e data «27/3/69», conservata manoscritta in un foglio emerso per la prima volta proprio dalle carte donate da Gina Tiossi al Fondo pavese; la lezione è diversa da quella definitiva, con gli scarti più consistenti nei versi finali, poiché il v. 12 («La tua casa era un lampo visto dal treno. Curva») leggeva La tua casa non l’ho veduta mai. Piegava

e ai vv. 14-15 («[…] Forse c’è ancora o / non è che una rovina. […]») Montale confessava:

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale […] Forse c’è ancora, ma non vorrei mai vederla. […]

Anche qui una casa disabitata vicina a un fiume (come la casa di Olgiate) e mai veduta (come la friulana casa d’infanzia della tigre); addirittura il poeta non vorrebbe mai vederla, in perfetta adesione – si direbbe – al culto mallarmeano dell’«assenza». Ma torniamo alle “novità” introdotte dalla nostra poesia: sconosciuti finora alla botanica di Montale erano le verze e le dalie4, e ignoti al suo bestiario il cardellino e soprattutto la tigre, declinata al vocativo («mia tigre», esito di una precedente lezione più emotivamente connotata: «mia cara tigre»). Con un altro felino selvatico, la pantera, si sono da poco incontrati i lettori del volume montaliano fresco di stampa delle Lettere a Clizia5: Dei Mottetti il i° è tuo, come è facile capire; il 2° e il 3° li avevo abbozzati per commissione quando la cara Mrs. Maria Rosa Solari voleva qualche poesia per lei. Ma ormai il trait-d’union San Giorgio-Costa S. Giorgio ne fa una misteriosa donna unica, anche se tu non sei stata al Sanatorio (mottetto 3°), sopra il lago straniero (mottetto 2°). Misteri dell’autobiografismo! Beatrice e la Donna Velata… Sostituendo alla tubercolosi la spina dorsale e al Sanatorio qualche crociera con Mr. Dunn o qualche mese noioso a Sarah Lawrence, posso illudermi che tutti e tre i mottetti siano scritti per te6.

In seguito alla reazione presumibilmente vivace di Irma, Montale così torna sull’argomento in una lettera successiva7: Mi sono preso filosoficamente la tua furiosa predica del 26 Dic., about la genesi dei Mottetti. Ecco: i famigerati Mottetti furono scritti prima di avere conosciuta I.B. Di quella redazione sopravvisse solo il Mottetto 3°; nel Mottetto n° 2 l’immagine di I.B. (abitante in Costa San Giorgio) andò a coincidere con M.R.S. nata a Genova, «Città di San Giorgio e del Drago». La fedeltà immortale è dedicata al simbolo di S. Giorgio («Imprimerli potessi etc.», i segni di S.G.) piuttosto che a una donna; ma siccome quel verso finale fu scritto after having met I.B., è probabile che ti appartenga anche il senso specifico. […] Se rileggo i 3 Mottetti ci ritrovo una Miss Gatu che sia stata anche in un Sanatorio dove si gioca a bridge; la verità biografica va a farsi f… ma la verità poetica no. […] Io poi ti avevo parlato di M.R., e ti avevo anche fatto vedere una fotografia in pull-over della giovane pantera peruviana. Per due mesi (quelli precedenti il nostro incontro) mi ha fatto rimescolare il sangue, cosa che non mi accadeva dal 1924. Poi, la sera del «parlez-moi d’amour», mi sono accorto che nulla esisteva del passato, e M.R. ne è stata felice perché io non ero «son type» e lei non era certamente il mio. 4 Le dalie sono impolverate nella versione definitiva, dopo essere state incanutite (come le «sterpaglie incanutite» di Proda di Versilia, vv. 15-16) e polverose (come l’antico «polveroso prato» in cui risplende il «croco» di Non chiederci la parola…, vv. 3-4). 5 Eugenio Montale, Lettere a Clizia, a cura di Rosanna Bettarini, Gloria Manghetti e Franco Zabagli, con un saggio introduttivo di Rosanna Bettarini, Milano, Mondadori, 2006. 6 Lettera del 10 dicembre 1934 (ivi, pp. 115-116). 7 Lettera del 15 gennaio 1935 (ivi, p. 122).

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10. una poesia “dimenticata” di eugenio montale

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Responsabile del turbamento del 1924 era stata ovviamente Paola Nicoli8, con la quale la «giovane pantera peruviana» è stata confusa da vari esegeti montaliani, fuorviati forse da alcune dichiarazioni del poeta stesso, peraltro non contraddittorie: Montale infatti non ha mai parlato di origine peruviana della Nicoli («Il ‘tu’ di Casa sul mare e di Crisalide è indirizzato a una donna splendida: era stata attrice […]. Era sposata con un uomo debole, indifeso: andarono in Sud America»9); e mai l’ha sovrapposta all’ispiratrice dei primi Mottetti (della quale finalmente qui conosciamo il nome10), che aveva così tratteggiato a Luciano Rebay: «una donna d’origine peruviana conosciuta a Firenze nel 1929-30, quando ero direttore del Vieusseux. Questa stessa persona compare anche in Sotto la pioggia, che è del 1933, dove si leggono citazioni in spagnolo»11. E si veda ancora quanto Montale aveva scritto a Silvio Guarnieri12: I primi 3 mottetti riguardano una peruviana che però era di origine genovese e abitava a Genova. Nel 3° c’è un confronto tra la vita di sanatorio di lei e la mia vita di guerra […] Brina sui vetri. Gli scogli non erano lontani, l’ala rude è forse il momento dell’opzione, della decisione. Ma non decidemmo nulla, per mia fortuna e sua. […] La donna di Punta del Mesco [ma Sotto la pioggia] è la stessa dei primi 3 mottetti. Perciò la citazione spagnola (dalla sua lingua).

Se una comune conturbante “felinità” lega la pantera e la tigre, certo il Perù è ben lontano dal Friuli, dove si trova la casa d’infanzia della musa femminile della nostra poesia recuperata. Forse nel consueto gioco sincretistico e depistante del Montale “poeta d’amore” si inserisce qui un’altra donna, nota da tempo ai suoi biografi: Lucia Morpurgo, nata nel 1901 a Trieste, dove trascorse l’infanzia, trasferendosi poi (nel 1913) con la famiglia a Genova, e più nota col cognome del marito Paolo Stamaty Rodocanachi13. Sappiamo che a lei Montale fu legato da «una vera intesa foriera d’una liaison forse pericolosa»14, che ebbe la sua acme probabilmente nelle due settimane (24 aprile – 8 maggio 8 9

p. 74.

Ivi, Introduzione, pp. xxiii-xxiv. Giulio Nascimbeni, Montale. Biografia di un «poeta a vita», Milano, Longanesi, 1975,

10 La biografia di Maria Rosa Solari è stata ora ricostruita per la prima volta da Franco Contorbia, Una Donna Velata tra Lucia e Irma, in Lucia Rodocanachi: le carte, la vita, a cura di Franco Contorbia, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2006, pp. 101-128. E si veda anche Paolo De Caro, Maria Rosa e Pilar, in Invenzioni di ricordi, cit., pp. 189-244. 11 Sull’«autobiografismo» di Montale, in Innovazioni tematiche espressive e linguistiche della letteratura italiana del Novecento. Atti dell’VIII Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi della lingua e della letteratura italiana (New York, 25-28 aprile 1973), a cura di Vittore Branca et alii, Firenze, Olschki, 1976, p. 75, n. 6. 12 Lorenzo Greco, Montale commenta Montale, Parma, Pratiche, 1990, p. 42 e p. 46. 13 Cfr. Giuseppe Marcenaro, Una amica di Montale. Vita di Lucia Rodocanachi, Milano, Camunia, 1991. 14 Rosanna Bettarini, Introduzione a Eugenio Montale, Lettere a Clizia, cit., pp. xi-xii.

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

1933) trascorse da Lucia – su invito dello stesso Montale – a Firenze (dove avrebbe dovuto fermarsi un mese e che invece lasciò ben prima, per tornare ad Arenzano). Con doverosa cautela ma anche con sorpresa osservo inoltre che tigre è anagramma di Gerti15, la protagonista della seconda parte di Dora Markus che abbiamo ricordato sopra16, oltre che ovviamente del Carnevale di Gerti, di cui Montale spiega l’antefatto con queste parole17: Il giorno di capodanno [1928, Gerti ed io] avevamo estratto a sorte alcuni doni per gli amici triestini e per gli stessi avevamo fatto un sortilegio abbastanza usato nel nord. Gettare per ognuno una cucchiaiata di piombo fuso in una tazza d’acqua fredda e dalle strane deformazioni solidificate che ne risultano dedurre il destino di ciascuno.

La tigre della Casa di Olgiate non scruta il piombo fuso, ma spia (il verbo indica uno sguardo attento e teso a capire al di là dell’apparenza) «l’efflorescenza dei disinfestanti» sul fiume, triste variante moderna della concrezione del piombo sull’acqua. Le sue «lenti affumicate» parrebbero avvicinarsi non tanto alle spesse lenti da miope di Mosca quanto piuttosto agli occhiali da sole di Clizia: «sovente hai portato / occhiali affumicati e li hai dimessi / del tutto con le pulci di John Donne» (Altri versi, Poiché la vita fugge…, vv. 22-24; identico l’aggettivo)18. La “felinità” di tigre e pantera è attributo ovvio della femme fatale, dunque della belle dame sans merci: il titolo della celebre ode di Keats è mutuato da Montale per la poesia di Satura19 che addirittura sembra – sulla base dei dati cronologici a noi noti – segnare il vero “risveglio” della sua musa, rimasta silenziosa dai tempi della Bufera20. La donazione Tiossi ha fatto venire alla luce un manoscritto finora ignoto della Belle dame sans merci: ebbene, il foglio sul recto del quale è 15 Sulla «semantizzazione del Nome» si veda Maria Antonietta Grignani, Flatus vocis?, in Prologhi ed epiloghi. Sulla poesia di Eugenio Montale, Ravenna, Longo, 1987, in particolare p. 46: «Con l’ilare pessimismo che soggiace al terremoto linguistico dei suoi ultimi anni, Montale compone e scompone i materiali plastici della lingua, mostrando da par suo che il Nome non è privo di significato, ma semmai è una sciarada creatrice di realtà precarie». 16 Sollecitato da Silvio Guarnieri, Montale rivela che, mentre «in Dora Markus i, Dora non è ancora Gerti, […] nella seconda parte è presente solo Gerti, ebrea» (Lorenzo Greco, Montale commenta Montale, cit., p. 41). 17 Lettera di Montale a Barile del 6 luglio 1932, edita in Eugenio Montale, Giorni di libeccio. Lettere ad Angelo Barile (1920-1957), a cura di Domenico Astengo e Giampiero Costa, Milano, Archinto, 2002, p. 93; nella prima nota alla lettera (p. 94) i curatori tratteggiano un profilo sintetico ma esauriente di Gertruden (Gerti) Frankl, nata a Graz nel 1902 e morta a Trieste nel 1989, moglie, dal 1925, dell’ingegnere triestino Carlo Tolazzi e amica di molti letterati triestini, da Italo Svevo a Silvio Benco, da Anita Pittoni a Giani Stuparich. 18 Il luogo è opportunamente richiamato da Paolo Senna, Linee per una rassegna montaliana (1999-2004), con una appendice bibliografica, in «Testo», n.s., xxvi, 50, luglio-dicembre 2005, p. 109. 19 Ed anche dall’illustre anglista Mario Praz, amico degli anni fiorentini, per il capitolo centrale del suo La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, uscito in prima edizione nel 1948. 20 Il silenzio infatti non era stato sostanzialmente interrotto dalla plaquette per nozze Satura del 1962, che recuperava tre poesie della stagione degli Ossi (A galla, Minstrels, Nel vuoto) aggiungendovi

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manoscritta la lirica, anepigrafa e datata «5/1/63», sembra (per formato, qualità di carta e condizioni di conservazione) del tutto identico a quello sul quale è dattiloscritta La casa di Olgiate. La poesia ha qui un incipit più esplicativo rispetto alla lezione definitiva (Forse i gabbiani di Locarno hanno atteso invano…; i gabbiani saranno poi più genericamente cantonali), e sulla sua ispiratrice Montale è molto reticente: «Il personaggio della poesia non è una donna importante. Una poesia vecchia, rifatta e adattata da Keats»21. Ma la reticenza si unisce forse alla volontà di depistare il lettore: è alquanto dubbio che la donna sia «poco importante», anche perché la lezione definitiva della quartina finale («Stupefacente il tuo volto s’ostina ancora, stagliato / sui fondali di calce del mattino; / ma una vita senz’ali non lo raggiunge e il suo fuoco / soffocato è il bagliore dell’accendino») riduce di una tonalità la forte carica emotivo-sentimentale rivelata dalla lezione del manoscritto: «Meraviglioso il tuo volto s’ostina ancora, stagliato / su un fondale di nebbia mattutina22; / ma l’amore senz’ali non può dare che un fuoco / soffocato, il bagliore di un accendino23». Inoltre, la lirica (che in un dattiloscritto non datato pure presente nel Fondo pavese ha titolo Elegia24) sembra condividere l’interlocutrice femminile con la poesia che nella Satura definitiva la precede: Vedo un uccello fermo sulla grondaia…, scritta il 6 febbraio 196825 e forse «dettata dall’amore “de lohn” che unisce il poeta alla sua ispiratrice […], a cui il poeta – s’immagina a Venezia, o in un luogo d’acqua [Locarno?] – augura di vedere, al suo risveglio, un “… uccello fermo sulla grondaia … [che] ha un po’ di ciuffo o forse è il vento…”. Indubbiamente il volatile può subito passare nel più certo bestiario montaliano e il ciuffo e il vento che lo animano somigliano agli attributi un tempo di Clizia, e oggi più modestamente ma sempre funzionalmente, appartenenti al grazioso messaggero animale»26. Nelle Poesie disperse, l’edizione critica montaliana accoglie una Belle dame sans merci II, datata nella stesura primitiva 26 ottobre 1968 e indirizzata ad una donna dal nome spagnolo di Pilar27. Questa la redazione definitiva (del 10 novembre): due sole inedite, una occasionale (per la sposa, Alessandra Fagiuoli: Ventaglio per S.F., 1962) e l’altra di argomento “civile” (Botta e risposta, 1961). 21 Lorenzo Greco, Montale commenta Montale, cit., p. 63. 22 Variante alternativa: «fondale di calce del mattino». 23 Variante alternativa: «ma un amore senz’ali non ti raggiunge, e il suo fuoco / è il bagliore meccanico dell’accendino». 24 Cfr. Eugenio Montale, L’opera in versi. Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 1004. 25 Cfr. ibidem. 26 Marco Forti, Eugenio Montale. La poesia, la prosa di fantasia e d’invenzione, Milano, Mursia, 1983, pp. 397-398. 27 Pilar è il nome di una delle due figlie di Donna Juanita, protagonista dell’omonimo racconto (del 1948) della Farfalla di Dinard (ora in Eugenio Montale, Prose e racconti, a cura e con introduzione di Marco Forti. Note ai testi e varianti a cura di Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995, pp. 18-22); Donna Juanita (con il trasparente eteronimo di Paquita) e le sue due figlie («due bianche farfalle») comparivano già in una delle due prose della Bufera, Dov’era il tennis… (del 1943).

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale Se l’uomo è fatto vivere dalla sua causa e l’atto dal motivo non si torna alle origini, si vive una retrocessione senza arresti. Di te, del tuo segreto ho cercato invano l’archetipo vivente o estinto, quale che fosse. Tra gli animali forse l’unicorno che vive nelle insegne araldiche e non oltre. Per me non c’era dubbio: io ero il tasso, quello che s’appallottola e piomba dalla cresta alla proda tentando di sfuggire al pennello da barba, il suo traguardo. Non per te questo scorno, Pilar, se il nome che tu porti ha ancora un senso.

Dell’unicorno e del nome Pilar non c’è traccia nella prima redazione della poesia, intitolata semplicemente La belle dame sans merci (senza l’indicazione numerica di II), sensibilmente diversa dalla definitiva28: Se l’uomo è fatto vivere dalla sua causa e se l’atto è spiegato dal motivo non si torna alle origini, si entra in una retrocessione senza pause. Ero certo di amarti, ma ti ricalcavo da un archetipo falso ricalcato su un altro. L’immagine testuale, in fondo al pozzo, bravo chi sapeva trovarla. Io ero il tasso che s’appallottola e piomba dalla cresta alla proda per mettersi al sicuro. Tu non eri il cacciatore, tu eri non l’ultimo o il penultimo di un fluido/filo di errori veri o immaginari, senza lampi né spari. Tu eri appena l’eco di un nulla, io molto meno e questo è tutto.

Ancora alcune osservazioni, avanzate con la consueta cautela: Keats tornerà apertamente tra i versi di Montale in apertura dell’ultima parte della “suite” Dopo una fuga, in Satura («Non posso respirare se sei lontana. / Così scriveva Keats a Fanny Brawne»), scritta nell’autunno del 196929 e ispirata alla giovane Laura Papi30, la quale nella prima parte ci viene presentata come malata curata in un sanatorio svizzero; il nome Pilar è parziale anagramma di LauRA paPI. E inoltre: il nono elemento della serie Dopo una fuga, espunto e pubblicato solo Cfr. il relativo apparato nell’Opera in versi, cit, pp. 1172-1173. Cfr. ivi, pp. 1027-1036. Si vedano i suoi Ricordi di Eusebio (1985), in Montale a Forte dei Marmi, a cura di Dominique Papi, fotografie di Giorgio Cipriani, Firenze-Siena, Maschietto&musolino, 1997, pp. 65-96. 28

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nell’apparato dell’edizione critica31, si intitola Piròpo, per concludere, e reca: «Meravigliose le tue braccia. Quando / morirò vieni ad abbracciarmi, ma / senza il pull over». Si ricorderà che la fotografia della giovane pantera peruviana che Montale aveva mostrato a Irma – più di trent’anni prima – la ritraeva in pull-over, e che la quartina finale della Belle dame…, di poco precedente, iniziava, in redazione anteriore a quella definitiva, con «Meraviglioso il tuo volto […]». All’autunno del 1969 risale anche l’ultimo Indice manoscritto di Satura prima della stampa32, che presenta, nel punto che qui ci interessa, la seguente seriazione di titoli: Tempo e tempi; Vedo un uccello; Elegia; La belle dame sans merci. Rispetto alla stampa c’è un titolo in più: Elegia è infatti il titolo originario di La belle dame sans merci33, espunto quando Montale lo sostituisce con il titolo originariamente assegnato alla poesia Se l’uomo è fatto vivere…34, che in extremis decide di escludere dal libro35. I motivi della complessità elaborativa (e poi dell’espulsione dalla rete a strascico di Satura) della originaria Belle dame… sono forse ricostruibili: probabilmente Montale avvertiva di non avere pienamente risolto sul piano della realizzazione poetica il complesso gioco di scomposizione e ricomposizione dei dati reali36 e la sua tipica «tecnica di con-fusione»37. Inoltre, qui il sincretismo del tu femminile appare complesso fino all’inestricabilità per lo stesso autore: «Ero certo di amarti, ma ti ricalcavo / da un archetipo falso ricalcato su un altro. / L’immagine testuale, in fondo al pozzo, bravo / chi sapeva trovarla». O forse, una così forte intrusione della quaestio de mulieribus avrebbe introdotto in Satura una nota troppo acuta dopo il “pianissimo” struggente di Xenia, il canzoniere dell’amore coniugale. L’indecifrabilità di alcuni luoghi della Casa di Olgiate (a cominciare dalla casa del titolo) è dovuta, come sempre in Montale, dall’ignoranza da parte del lettore dell’“occasione-spinta” della poesia, che si ferma al di qua del testo:

A p. 1035. Trascritto da Maria Antonietta Grignani, «Satura»: da miscellanea a libro, in Prologhi ed epiloghi. Sulla poesia di Eugenio Montale, cit., p. 132. 33 Cfr. L’opera in versi, cit., p. 1004. 34 Cfr. ivi, pp. 120-122. 35 Verrà pubblicata solo l’11 febbraio 1973, sul «Corriere della Sera», senza data e con l’aggiunta – che viene introdotta solo a questo punto – del numero ii, indispensabile per distinguerla dall’omonima lirica di Satura, uscita nel frattempo. 36 Cfr. Luciano Rebay, Ripensando Montale: del dire e del non dire, in Il secolo di Montale: Genova 1896-1996, a cura della Fondazione Mario Novaro, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 34: «Montale, al pari di ogni grande autore autobiografico, ha sempre saputo d’istinto che non è possibile giuocare a carte completamente scoperte, ma che al contrario i fatti reali, quando non debbano venire capovolti e poi lasciati a gambe all’aria, vanno continuamente smontati e rimontati sulla pagina». 37 Prendo in prestito la terminologia di Paolo De Caro che parla, a proposito di Montale, di «una poetica del raddoppiamento, del riflesso e del molteplice secondo una tecnica di con-fusione» (Journey to Irma. Una approssimazione all’ispiratrice americana di Eugenio Montale. Parte prima: Irma, un “romanzo”, nuova edizione accresciuta, Foggia, Matteo De Meo, 1999, p. 156). 31

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occasione reale, ma nota solo all’autore38. Proviamo dunque ad alzare, con discrezione, il velo che nasconde oggetti e persone presenti nella lirica39, cominciando appunto dal titolo: la casa, che non esiste più perché demolita negli anni Settanta per far posto a un condominio, era una bella villa a due piani di ben ventiquattro vani, sita nel comune di Olgiate Olona al numero civico 13 di via Roma (già Strada comunale per Castellanza, indi via Luigia Greppi; dal 1943 via Roma). Percorrendo l’Autostrada dei laghi, dopo l’uscita di Castellanza in direzione di Busto Arsizio e dopo il ponte sull’Olona, guardando in alto a destra del primo dei quattro cavalcavia che attraversano Olgiate, si vedeva spuntare sopra gli alberi la parte alta della bella villa bianca, circondata da uno splendido parco. Conosciuta come Villa De Ferneix, dal nome dei proprietari che l’abitarono fino al 1936, venne acquistata nel 1939 da Antonio Tognella, industriale tessile fra i maggiori in Italia, nominato Cavaliere del Lavoro nel 1943, che la abitò con la famiglia fino agli anni Cinquanta40. Successivamente, fino ai tardi anni Sessanta, nella villa rimase il giardiniere, che accoglieva – facendo loro da guida - i visitatori desiderosi di vedere la casa e soprattutto il parco, popolato anche da uccelli esotici. Ed è probabile che si situi in questo periodo la visita di Montale alla casa. Nel 1939 il figlio primogenito di Antonio Tognella41, Piermario, aveva sposato una maestra triestina allora diciottenne (nata il 5 maggio 1921), Dora Zanini; dal matrimonio l’anno seguente, il 26 agosto 1940, a Trieste, era nato un bambino al quale era stato dato il nome del nonno, affettuosamente sostituito dal diminutivo Tonino; il bimbo, biondo e con gli occhi azzurri, ricordato da chi lo conobbe per la sua intelligenza e sensibilità (testimoniata anche dalle strazianti parole rivolte alla mamma riportate al v. 11 della poesia), ebbe un tragico destino da “fiore reciso”: morì per una grave malattia, in un ospedale fiorentino, il 30 dicembre 1947, gettando in una comprensibile disperazione

38 È d’obbligo il rimando a un celebre passaggio dell’Intervista immaginaria del 1946: «[la lirica] è un frutto che contiene i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta» (Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 567). 39 39 Devo l’individuazione della casa e delle persone che l’hanno abitata, e tutte le notizie ad esse relative, alla straordinaria cortesia e alle preziose ricerche del dottor Giuseppe Belloni, presidente della Pro Loco di Olgiate Olona, che qui desidero ringraziare davvero sentitamente. Un grazie particolare anche al signor Giancarlo Grampa e ai molti olgiatesi che hanno collaborato con i loro ricordi a ricostruire i dati, e al sindaco di Olgiate, Giorgio Volpi, per l’entusiasmo con cui ha accolto e favorito il fervore “investigativo” dei suoi concittadini. 40 Quando la famiglia Tognella si trasferì a Milano, nella casa costruita dall’architetto Ignazio Gardella negli anni 1947-48 in via Paleocapa (detta “Casa al Parco”). 41 Antonio Tognella (1877-1964) e la moglie Anita Crespi (1884-1977) ebbero quattro figli: oltre a Piermario (1911-1982), Lucia (detta Cia), Anna e Elena. Alcuni ritratti fotografici di Antonio Tognella e della moglie, eseguiti da Emilio Sommariva a Milano negli anni 1946-1947, sono conservati presso la Biblioteca Nazionale Braidense di Milano (Fondo Sommariva, som. d. 1s. i. 938-949).

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in particolare i genitori e il nonno paterno, di cui era il primo e prediletto nipote42. Questi dati ci consentono dunque di individuare la casa, il bimbo e la figura femminile e spiegano tra l’altro il «giglio rosso» fiorentino e il boudoir di «diciottenne»; una Dora triestina ha poi involontari ma inevitabili legami con Dora Markus e Gerti (che l’anagramma trasforma in tigre…), e condivide la città di nascita con Lucia Rodocanachi e con Drusilla Tanzi. La casa friulana è a San Giovanni di Casarsa, dove Dora aveva trascorso le estati della sua infanzia, ospite degli zii materni. Montale conobbe Dora a metà degli anni Cinquanta all’Hotel Alpemare di Forte dei Marmi, nel quale egli soggiornò con la Mosca per la prima volta nel 1952; l’amicizia che ne nacque coinvolse presto anche la sorella di Dora, Yolanda, direttrice della Galleria d’arte milanese Montenapoleone43. La frequentazione, che fu particolarmente fitta fino alla morte della Mosca, non si limitava al periodo estivo delle vacanze al Forte, ma proseguiva a Milano, alla Scala o in casa Montale, dove spesso Dora e Yolanda condividevano con altri amici del poeta, quali Maria Corti, Goffredo Parise, Paola e Marco Forti, il piacere della brillante e intelligente conversazione di Montale e della Mosca, per i quali Dora assumeva talvolta volentieri anche il ruolo di “chauffeur”. Nella poesia, sarà allora la stessa Dora, probabilmente, a portare in auto il poeta alla villa ormai disabitata, e ad aspettarlo – durante la visita in compagnia del vecchio custode – seduta al volante e guardando l’Olona putrido dietro gli occhiali da sole (che amava portare con montature grandi e talvolta di tartaruga, con effetto “tigrato”, come dettava la moda di allora). Nel 1957 le sorelle Zanini, con i rispettivi mariti, accompagnarono Montale e la Mosca in visita ai coniugi Hoboken44 a Locarno: luogo che, alla luce di quanto ho ipotizzato nelle pagine precedenti, mi pare particolarmente significativo. Potrebbe cioè, questa “coincidenza”, confermare il coinvolgimento del42 Il piccolo Tonino Tognella è sepolto nella tomba di famiglia, al campo xiv, n. 437, del Cimitero Monumentale di Milano. Dopo Tonino, Piermario e Dora avevano avuto un altro figlio, di nome Michele. 43 Proprio alla squisita gentilezza di Yolanda Zanini Bonazzi devo queste e tutte le informazioni biografiche che seguono, assolutamente inedite. Nella Galleria milanese Montenapoleone, dal 18 al 28 gennaio 1957 si tenne una mostra di quadri di Lidia Soavi Olivetti, nel Catalogo della quale Montale scrisse la Presentazione (ora in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, pp. 1423-1424). 44 La nascita di un rapporto amichevole di Montale con il musicologo olandese Anthony van Hoboken (1887-1983) fu propiziata da un incontro “di lavoro” del giornalista Montale, incaricato di fare un pezzo sull’autore del catalogo tematico e critico delle opere di Haydn: Trent’anni per smascherare i 2500 pezzi falsi di Haydn, in «Il Nuovo Corriere della Sera», 26 marzo 1957; poi in Ventidue prose elvetiche, a cura di Fabio Soldini, Milano, Scheiwiller, 1994; ora in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, cit., pp. 1053-1057. Qui un rapido ma bellissimo ritratto della moglie del musicologo: «Nata a Fiesole, ma tedesca, la signora van Hoboken, bionda, elegantissima, ha quel misto di autorità e di dolcezza che deve aver provvidenzialmente circondato la vita di un uomo come van Hoboken, sprofondato in un lavoro senza fine, che nessuno potrebbe compiere senza la protezione di Dio, o di una donna» (p. 1054).

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la cittadina svizzera e del suo lago in una rete avantestuale di grande rilievo. Forse proprio a Dora, di cui apprezzava soprattutto il fascino originale e la fantasia, e che possiamo ormai annoverare tra le sue “muse”, Montale alludeva in una insolita confessione fatta a Dante Isella nel 1969 a proposito del tu femminile di una poesia che abbiamo già ricordato, L’Arno a Rovezzano45: Un tu, mi confida, in cui «si sommano» tre donne venute intorno al cuore: «La prima si chiamava Dea Comune (strano nome, vero?), la figlia di un orchestrale del Carlo Felice di Genova: abitava a Rovezzano». Lui, a Rovezzano, non ci era mai stato, né lei era la donna che corteggiava. La sua serenata telefonica andava a una nobile tedesca, una von Nagel, amica-amante di Loria, bellissima: «ora badessa in un convento del Connecticut, col nome di suor Jerome. Tutti gli anni manda gli auguri». […] La terza donna… Qui la confidenza si chiuse: «la terza è una delle altre donne della mia poesia». Ma si capiva, dall’improvviso imbarazzo, che dall’aneddoto si era giunti alla soglia di una zona gelosa.

Su questa soglia anche noi ci fermiamo. Non recuperata neppure tra le “disperse”, La casa di Olgiate parrebbe, più che una poesia rifiutata, una poesia “dimenticata”: ma poiché spesso dimenticare vuol dire non voler ricordare, deve esser letta – credo – con una lente particolare, nella convinzione che tra il falò delle carte e la forzatura della chiave sia possibile imboccare una terza via, di difficile ma opportuno rispetto.

45 Dante Isella, Ancora sulla struttura di «Satura», Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa – Edizioni Scientifiche Italiane, 1990; poi, con titolo Sulla struttura di «Satura», in L’idillio di Meulan, Torino, Einaudi, 1994, pp. 253-254.

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Il dattiloscritto della poesia con correzioni autografe (Università degli Studi di Pavia, Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei. Fondo Montale, Donazione Tiossi)

La casa vista dall’autostrada (direzione Milano – Varese)

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Dora Zanini Tognella (Locarno, 1963)

Dora Zanini Tognella (Milano, febbraio 1961)

Dora Zanini Tognella, Eugenio Montale e Yolanda Zanini Bonazzi a Forte dei Marmi, nel parco dell’Hotel Alpemare (estate 1959)

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Eugenio Montale e Yolanda Zanini Bonazzi a Forte dei Marmi, nel parco dell’Hotel Alpemare (estate 1959)

L’Hotel Alpemare di Forte dei Marmi nel 1959

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Eugenio Montale alla Scala con Dora Zanini Tognella (Foto di Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati)

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Indice dei nomi

Acchiappati Gianfranco, 69 Adam Antoine, 115n Adami Antonio Filippo, 15n Ady Endre, 207n Agnelli Pietro, 64, 65, 83 Agostini Mezio, 142n Aimaretti Chiara Anna, 103n Alembert Jean-Baptiste Le Rond d’, 18 Alfieri Vittorio, 15, 15n, 16, 20, 23, 77, 145n, 198 Algarotti Francesco, 17, 17n, 38n Almansi Emanuele, 217 Almansi Federico, 203, 203n, 210, 212, 217, 217n Amely Floriana d’, 231 Amigoni Jacopo, 11n Anacreonte, 18 Anderton Isabella, 143 Andreoli Annamaria, 160n Angeli Diego, 177 Angelini Cesare, 43, 43n Anna d’Orléans, duchessa d’Aosta, 210n Antelmy Pierre Thomas, 138n Antonello Massimo, 231 Apostoli Francesco, 65n Aretino Pietro, 98n, 191n Ariosto Ludovico, 27, 29, 66, 94 Aristofane, 147 Aristotele, 12n, 17, 30, 30n Arnaut Daniel, 194n

Arvigo Tiziana, 231 Asor Rosa Alberto, 162n Astengo Domenico, 240n Auzzas Ginetta, 94n Avancini Avancinio, 89n Bacchilide, 154n Bain Alexander, 105 Baldacci Luigi, 91n, 96n, 107n, 110n Baldoni Luca, 217, 217n Balestrini Nanni, 186, 194 Ballerini Luigi, 197 Bandettini Teresa, 72n Baravalle Carlo, 92n Barbarisi Gennaro, 10, 64, 64n Barberi Squarotti Giorgio, 220n Baretta Giuseppe, 84n Baretti Giuseppe, 16 Barile Angelo, 240n Barrett Browning Elizabeth, 141, 141n Bartsch Carl, 123n Bascapè Giacomo, 84n Batoni Pompeo, 11n Baudelaire Charles, 98, 98n, 114, 115 Baudry Frédéric, 138n Bauernfeld Eduard von, 142, 142n Bausi Francesco, 149n, 156n, 160n Beccaria Gian Luigi, 111n, 222, 223, 224n Beccarini Crescenzi Elena, 147 Belli Giuseppe Gioachino, 191n

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Bellina Anna Laura, 16n, 21n, 24 Belloni Giuseppe, 244n Beltrami Pietro G., 197 Bembo Pietro, 193 Bemporad Enrico, 136 Benco Silvio, 240n Benson John, 214 Bentsik Riccardo, 123n, 128n Benzi Elisa, 39, 39n Berchet Giovanni, 104 Berisso Marco, 198 Bernasconi Giuseppe, 64, 65, 67, 67n, 69, 69n, 70, 71, 72, 72n, 73, 74, 75, 81 Berni Francesco, 27 Berta Edoardo Augusto, 83n Bertacchi Giovanni, 83, 89, 92, 92n, 95, 95n, 116 Bertola de’ Giorgi Aurelio, 17, 17n, 28, 28n, 32, 33n Bertoldi Alfonso, 46n, 59n, 60n Bertolucci Attilio, 210 Bertran de Born, 176 Betocchi Carlo, 184, 184n Bettarini Rosanna, 181n, 231, 238n, 239n, 241n Betteloni Vincenzo, 97, 97n, 99n Bettinelli Saverio, 16 Biagini Mario, 132n Bianchetti Enrica, 153n Bianchi Feltri Amalia, 88, 88n, 119 Bianconi Lorenzo, 28n, 34, 39n, 40n Binni Walter, 21n Bodoni Giambattista, 54n, 55n Boiardo Matteo Maria, 192 Boito Arrigo, 108, 111n Bonagiunta da Lucca, 161, 161n Bonaglia Giovanni Battista, 73, 74 Bonaparte Napoleone, 55, 65, 67, 68, 68n, 71, 71n, 72, 72n, 73n, 74, 75, 75n, 76, 76n, 77 Bondi Clemente, 12n Bonsignori Carlo, 86n Borsa Mario, 116n Borsellino Nino, 24n Bosisio Paolo, 18n Bougainville Louis-Antoine de, 19 Branca Vittore, 239n Brandeis Irma (Clizia), 181, 182, 238, 238n, 239n, 240, 241, 243, 243n Braschi Ercole, 85n

Brawne Fanny, 242 Breda Paolo, 208n Brehm Alfred Edmund, 136 Brera Matteo, 214n Briganti Gabriele, 121, 121n, 122, 123n, 130, 132n, 133, 143 Brilli Ugo, 124n Broschi Carlo (Farinelli, Farinello), 11n, 12, 12n, 26n, 31, 31n Brosses Charles de, 20, 20n Brown John, 73, 74 Browning Robert, 221n Brugnolo Furio, 173n Brunelli Bruno, 13n, 19n, 24 Bruni Arnaldo, 55n Bruschi Max, 11n Bulgarelli Marianna, 12, 13, 33, 36n Buonarroti Michelangelo il Giovane, 145n Burney Charles, 11, 12n Burns Robert, 140n Buttura Antonio, 72n, 75, 75n, 78n Cacciatore Edoardo, 192n Cahusac Louis de, 18 Caira Lumetti Rossana, 13n, 23n Cairoli (famiglia), 85n, 86n Caliaro Ilvano, 157n Calzabigi Ranieri de’, 17, 17n, 21, 21n Cameroni Agostino, 88 Campana Dino, 171n Campanini Giuseppe, 27 Cancogni Manlio, 221n Canonica-Sawina Anna, 209n Cantatore Lorenzo, 124n Capecchi Giovanni, 136n Capossela Vinicio, 191n Capovilla Guido, 132n, 136n Capponi Gino, 101n Caprara Antonia, 192 Caproni Giorgio, 178, 178n, 179, 179n, 180n Capuana Luigi, 83n Carboni Giuseppe, 27 Carducci Giosue, 23, 27, 44n, 83n, 90, 90n, 91, 91n, 92, 94, 94n, 100n, 106, 124n, 129n, 130, 132, 132n, 133, 133n, 138n, 141n, 142n, 143n, 152n, 168n, 222, 229 Carimandrei Giuseppe (pseudonimo di Umberto Saba), 204n Carlo vi d’Asburgo, 24n

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indice dei nomi Carpi Umberto, 64n, 71n Carriera Rosalba, 11 Cartesio, vedi Descartes René Caruso Carlo, 16n Casa Federigo, 83n Casanova Giacomo, 16, 16n Caselli Alfredo, 145, 145n Castellani Giordano, 172n Castellini Teresa, 11n Casti Giambattista, 20 Cataldi Pietro, 231 Caterina d’Alessandria (santa), 85 Caterina ii di Russia, 18 Cecchi Emilio, 24n, 64n Cecco Angiolieri, 190 Ceracchi Giuseppe, 11n Ceretti Felice (stampatore in Vercelli), 75 Ceretti Luigi, 72n, 77n Ceroni Giuseppe Giulio, 68, 68n, 69, 72n, 75n Cerruti Marco, 64, 64n Cesare Gaio Giulio, 75 Cesarotti Melchiorre, 50, 53, 54, 75n, 78 Ceserani Remo, 91n Chastellux François Jean de, 32n, 33n Chegai Andrea, 21n Chénier Marie Joseph, 19 Cherubini Francesco, 101n, 102n Chiabrera Gabriello, 154, 155, 155n Chiara Piero, 16n Chiarini Giuseppe, 132n, 141, 141n Chiaro Davanzati, 100n Chigi Sigismondo, 15n, 46, 49, 52, 53, 54 Chiodaroli Gianfranco, 130n, 131n, 137n Chiodo Carmine, 155n Chiummo Carla, 126n Ciaja Ignazio, 75n Ciampoli Domenico, 124, 142n Ciani Ivanos, 46n, 55n Cicognari Eleonora, 44, 45, 54 Cima Annalisa, 236n Cimmino Francesco, 147 Cipriani Giorgio, 242n Clizia, vedi Brandeis Irma Cochetta, vedi Gabrielli Caterina Colautti Arturo, 89n Coleridge Samuel Taylor, 62, 62n Coletti Vittorio, 159n Colombo Angelo, 10 Columbro Marta, 23n Compagnoni Giuseppe, 71, 78n

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Comparetti Domenico, 139, 146, 160 Comune Dea, 246 Condorcet Marie-Jean-Antoine de, 18 Conti Giusto de’, 194 Contini Gianfranco, 97, 97n, 106n, 149, 149n, 160, 160n, 162n, 163n, 181n, 220, 231, 241n Contorbia Franco, 233n, 239n Corazzini Sergio, 171, 211, 212 Corcos Emma, 136n Corneille Pierre, 19, 30 Cortellessa Andrea, 10, 187 Corti Maria, 219n, 245 Costa Giampiero, 240n Costa Rosa, 32 Cremante Renzo, 10, 102n, 177n, 233n Crespi Tognella Anita, 244n Croce Benedetto, 21n, 23, 23n, 92n Cuzzolin Pierluigi, 194n Da Como Giuseppe, 92n Dal Bianco Stefano, 192, 192n, 193n Damiani Mattia, 14n, 42n D’Amico Silvio, 19n D’Ancona Alessandro, 65n, 160 Dani Ivano, 23n D’Annunzio Gabriele, 9, 10, 55n, 142n, 149-164, 165, 166, 166n, 167, 168, 169, 169n, 170, 182n, 215, 226, 226n, 227, 227n, 229, 229n Dante Alighieri, 27, 42, 44, 50, 53, 53n, 59, 62n, 66, 77, 84, 85, 85n, 86n, 89, 98, 106, 106n, 107, 110, 115, 116, 122, 130, 138n, 157, 165n, 168, 174, 176, 177, 180, 181, 185, 186, 187, 189, 191, 199, 212 Da Ponte Lorenzo, 11, 11n Darchini Lucifero, 216n Da Rin Adriana, 146n De Amicis Edmondo, 97, 99, 99n, 110n De Blasi Jolanda, 121n De Bosis Adolfo, 121n De Caro Paolo, 235n, 239n, 243n De Carolis Adolfo, 146n De Felice Renzo, 78n De Ferneix (famiglia), 244 Degli Uberti Anna (Annetta, Arletta), 235, 235n, 236 Del Beccaro Felice, 121n, 122n, 145n Della Casa Giovanni, 172 Della Rocca Castiglione Irene, 25n, 100n, 102n

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

De Luca Iginio, 204n, 209n Del Vento Christian, 64, 64n, 67n, 69n, 71n De Marchi Attilio, 87 De Marchi Cesarina, 119 De Marchi Emilio, 9, 10, 25, 25n, 26, 26n, 83-120 De Marchi Lina, 86, 86n, 87, 110, 111 De Marchi Luigi, 86n De Michelis Eurialo, 157n De Mili Marco (pseudonimo di Emilio De Marchi), 98n De Novi Primo (pseudonimo di Emilio De Marchi), 91, 94n, 95n De Robertis Giuseppe, 175, 229n Desaix Louis Charles Antoine, 68n, 73n, 76, 78n De Sanctis Francesco, 22, 23, 23n, 40, 40n Descartes René, 29 De Vecchi Primo (pseudonimo di Emilio De Marchi), 104n De Vincentiis Gherardo, 139n Diacono Mario, 175n Diderot Denis, 18 Di Paola Gabriella, 160n Dolfi Anna, 184n, 217n D’Olona Marco (pseudonimo di Emilio De Marchi), 85, 85n Donne John, 184, 240 Donnini Andrea, 155n Dostoevskij Fëdor Michajlovič, 206 Dotti Ugo, 159n Dunn Gano, 238 Duphot (Duphaut) Léopold, 79n, 80n Ebani Nadia, 135n, 136n Edison Thomas Alva, 92, 93 Eliot Thomas Stearns, 221 Ellis D’Alessandro Jean M., 19n Empedocle, 153n Epitteto, 102n Eschilo, 203 Esenin (Essenin, Essenine, Jessenin) Sergej, 9, 203, 204, 204n, 205, 205n, 206, 207, 209, 209n, 210, 210n, 211, 212, 213 Esopo, 136, 138, 139, 139n Fabbri Paolo, 39, 39n Facchini Tosi Claudia, 60n Fadin Sergio, 230n

Fagiuoli Alessandra, 241n Fanfani Pietro, 139 Fantoni Giovanni, 65, 66, 66n, 72n, 75n Fantoni Odoardo, 66n Farinelli Giuseppe, 86n Farinelli, Farinello, vedi Broschi Carlo Fasano Pino, 49, 49n, 52n, 54n Fassò Luigi, 15n, 67n Fauriel Claude, 141n Fedro, 28 Felici Lucio, 24n Ferdinando IV, re di Napoli, 75 Ferrari Anna, 160n Ferrari Paolo, 98, 98n Ferrari Severino, 121, 132 Ferrata Giansiro, 83n, 106n Ferri Luigi, 146n Ferroni Giulio, 24n, 25n Fertitta Paola, 24n Festa Nicola, 154n Finali Gaspare, 122 Finzi Giuseppe, 124 Flaubert Gustave, 203 Florio Daniele, 15n Fo Alessandro, 187, 197 Fogazzaro Antonio, 88, 119, 119n Folena Gianfranco, 24n, 33n Forcella Roberto, 153n Fornasiero Serena, 165n Forti Marco, 241n, 245 Forti Paola, 245 Fortini Franco, 180n, 184, 185, 185n, 186 Foscolo Ugo, 22, 22n, 27, 42, 50, 51, 53, 57, 58, 58n, 62, 64, 64n, 67, 67n, 68, 69, 71, 71n, 72, 72n, 74, 75, 77, 93, 96, 105n, 117, 117n, 118, 119, 123, 129, 185, 194n, 198, 215 Fraccaroli Giuseppe, 228n Franchi Giacomo, 73n Francini Antonella, 177n Franco Niccolò, 191n Frankl Tolazzi Gertruden (Gerti), 240, 240n, 245 Franklin Benjamin, 51 Franzoni Olga, 179 Frasca Gabriele, 168n, 177n, 187, 187n Frassineti Luca, 55n, 64, 64n, 65, 66, 72n Fröbel Friedrich Wilhelm August, 105 Frugoni Francesco Fulvio, 18, 54 Fubini Enrico, 12n Fubini Mario, 37n

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indice dei nomi Fucini Renato, 198n Fugazza Adelelmo, 72n Fusinato Arnaldo, 107 Gabrielli Caterina (Cochetta), 32 Gadda Carlo Emilio, 98n Galassi Virgilio, 204n Gallarati Paolo, 34, 34n, 38n, 40n Gallinaro Luporini Bianca, 204, 204n, 205, 206, 209 Gallori Emilio, 11n Gama José Basilio da, 19 Gamberale Luigi, 147 Garboli Cesare, 123n, 131n, 133n, 136n, 145n Gardella Ignazio, 244n Gardini Nicola, 187, 187n, 199n Gasparinetti Antonio, 72n, 76, 79n Gatto Alfonso, 182, 183, 183n, 184 Gautier Léon, 123n Gavazzeni Franco, 22n, 50n, 64, 64n, 123n, 149n, 154n, 160n, 163n, 169n, 229n Gérard Philippe-Louis, 105 Gerroni Giulio, 25n Gerti, vedi Frankl Tolazzi Gertruden Gesù Cristo, 102n, 141, 182 Gezzi Massimo, 195n Ghelli Maria Linda, 121n Gherardini Giovanni, 22n, 64n, 68n, 72n, 73, 73n, 78n Ghimmy Massimo, 191n Ghislanzoni Antonio, 130 Giacomino Pugliese, 161 Giacomo da Lentini, 160, 161n Giacosa Giuseppe, 101, 101n Gianni Francesco, 72n, 75n, 76, 76n, 77, 77n, 78n, 79n, 80 Giannone Pietro, 23n Gibellini Pietro, 23n, 151n, 154n, 157n Giorgio iii d’Inghilterra, 18 Giotti Virgilio, 204, 204n, 205, 205n, 206, 206n, 207, 209 Giovannetti Paolo, 149n, 160n Giovanni, re, 160, 161n Girardi Antonio, 97n, 172n, 173n Giudici Giovanni, 97n Giuliodori Guglielma, 192n Giuseppe ii d’Asburgo, 14, 18 Giusti Giuseppe, 27, 100n, 101n, 102n Gluck Christoph Willibald, 21

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Gnoli Domenico, 83n Goethe Johann Wolfgang, 49, 49n, 54n, 124, 132, 132n, 140n, 141n, 145 Goldin Folena Daniela, 25n, 37n, 39, 39n, 41n Goldoni Carlo, 17, 17n, 18, 18n, 23 Goldwin Paul, 186n Gondolini, 72n Góngora y Argote Luis de, 176 Govoni Corrado, 156n, 165, 170, 170n Gozzano Guido, 104, 106n, 170, 170n, 171, 198, 212, 221n Gozzi Gasparo, 18 Graf Arturo, 27, 130, 130n Grampa Giancarlo, 244n Gravina Gian Vincenzo, 12, 12n, 16, 38 Greco Lorenzo, 239n, 240n, 241n Greppi Giovanni, 72n, 75n, 78n, 79n Griffini Grazia Maria, 84n Grignani Maria Antonietta, 105n, 219n, 220n, 226n, 240n, 243n Grimm, fratelli, 138, 138n, 139 Groth Klaus, 140n Guarnieri Silvio, 239, 240n Guittone d’Arezzo, 169n Hachiya Michihito, 186n Hasse Johann Adolf, 12, 33 Haydn Franz Joseph, 21, 22n, 245n Heine Heinrich, 86n, 140n, 141, 141n, 145, 212 Hellens Franz, 209n Hoboken Anthony van, 245, 245n Hugo Victor, 85n, 86n, 87, 122, 123, 129, 129n, 136, 142, 143 Imbert Gaetano, 155n Imbriani Vittorio, 94n Innamorati Giuliano, 107n Isella Dante, 84n, 92n, 98n, 222n, 223n, 231, 246, 246n Jacobson Herbert, 203n Jakobson Roman, 60 Jannacci Enzo, 62n, 187 Joly Jacques, 36n Jommelli Niccolò, 21 Jones Brian, 191 Kant Immanuel, 104 Keats John, 212, 240, 241, 242

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Kerbaker Michele, 145, 145n Khayyām ‘Omar, 207n Kleist Heinrich von, 86n Kurz Heinrich, 132n La Fontaine Jean de, 102, 102n Lais Giorgio, 177 La Rochefoucauld François de, 102n La Villemarqué Théodore-Claude-Henri (vicomte de), 123n, 125 Lambruschini Raffaello, 105 Lancetti Vincenzo, 72n, 79n, 80 Landolfi Tommaso, 191, 192, 192n Lao-tzu (Laotse), 186n Lattanzi Giuseppe, 64, 65, 71 Lavagetto Mario, 173n, 203n, 216 Lavezzi Gianfranca, 100n, 103n, 162n, 212n, 215n, 217n, 233n Lenau Nikolaus, 132n Leo Leonardo, 12 Leopardi Giacomo, 22, 22n, 24, 24n, 27, 42, 50, 50n, 54n, 62, 96, 106, 107, 120, 122, 125n, 137, 142, 171, 176, 215 Leso Erasmo, 78n Lessing Gotthold-Ephraim, 136, 138, 138n, 139 Levi Carlo, 20n Lipparini Giuseppe, 177 Livio Tito, 27 Lombardi Maria Maddalena, 50n Longfellow Henry Wadsworth, 86n, 131, 140n, 143, 147 Loqman (Luqmān), 138, 139, 139n Loria Arturo, 246 Lucrezio Caro Tito, 30 Luigi xvi, re di Francia, 18, 75, 76 Luporini Bianca, vedi Gallinaro Luporini Bianca Luporini Luigi, 206n, 209n Luti Giorgio, 162n Luzi Mario, 177, 177n Maeterlinck Maurice, 157n Maffei Serafino, 72n, 75n Maggi Anna, 85n Magrelli Valerio, 188, 200, 200n Maione Paologiovanni, 23n Majolo Renato, 212 Malaspina della Bastia Anna, 54 Malato Enrico, 16n, 64n

Mallarmé Stéphane, 169, 176, 238 Mameli Goffredo, 107 Manghetti Gloria, 238n Mantegazza Pietro, 72n, 78 Manzoni Alessandro, 22, 74, 74n, 78n, 79n, 88, 94n, 97, 97n, 102n, 119, 120, 187, 203, 215 Manzotti Luigi, 94n Marabini Claudio, 136n Maragoni Gian Piero, 17n Marazzini Claudio, 171n, 185n Marcenaro Giuseppe, 239n Marco Aurelio, 102n Marcovecchio Aldo, 203n, 209n Marenco Romualdo, 94n Maria Antonietta d’Austria, regina di Francia, 18, 86n Maria Teresa d’Asburgo, 15, 24n, 31 Mariano Emilio, 159n Marino Giambattista, 79, 156n Marradi Giovanni, 167 Martelli Maria, 85n Martelli Mario, 149n, 156n, 160n Martello Pier Jacopo, 40, 85n, 86n, 89, 89n, 98, 101 Martinelli Donatella, 155n Martinez Marianna, 14 Martinez Nicolò, 13, 14 Martini Ferdinando, 101, 101n Martini Stefania, 129n, 138n, 143n Mascheroni Edoardo, 103 Mascheroni Lorenzo, 64, 65, 72n, 75n Masi Glauco, 66n Masi Tommaso, 65, 66, 66n, 68 Massa Flaminio, 72n Matacotta Franco, 210, 210n, 211 Mattioni Stelio, 203n Mazzoni Guido, 194n Melo Paola, 66n Menegazzi Giovan Battista, 83n Mengaldo Pier Vincenzo, 38, 39n, 146n, 149, 149n, 156n, 158, 158n, 163n, 170n, 180, 181n, 182n, 191n, 197n, 220, 226, 227, 227n, 229n, 231 Metastasio Pietro, 9, 11-42, 50, 54, 63, 63n, 77, 78n, 79, 100, 100n, 103 Metcalf John Calvin, 62n Milani Felice, 67, 67n Milizia Francesco, 16 Miloslawsky Maria, 209n

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indice dei nomi Minato Niccolò, 12n Mineo Nicolò, 64, 64n Modena Anna, 102n, 204n, 205n, 206, 206n Modena Giacomo, 20 Mollia Franco, 24n Monaci Ernesto, 160, 160n Montagnani Cristina, 155n Montale Eugenio, 9, 10, 55n, 58, 149n, 158, 158n, 163n, 166, 180, 180n, 181, 181n, 182, 182n, 219-231, 233-250 Montgolfier Joseph-Michel e JacquesEtienne, 45n, 51, 94 Monti Vincenzo, 9, 10, 18, 18n, 27, 41, 43-62, 64, 64n, 65, 65n, 70, 72, 72n, 75, 75n, 77, 78n, 94, 94n Morandi Luigi, 124, 124n, 140, 140n, 141, 142n Moretti Marino, 212 Morpurgo Lucia, vedi Rodocanachi Morpurgo Lucia Morrison Jim, 191 Mosca, vedi Tanzi Marangoni Drusilla Mozart Wolfgang Amadeus, 21, 22n, 34 Muller Daniel, 22n Munch Edvard, 179n Mura Gianni, 199 Muraro Maria Teresa, 25n Muscetta Carlo, 64n, 74n Nagel Mushka von, 246 Nardi Piero, 101n Nardo Dante, 152n Nascimbeni Giulio, 239n Natali Giulio, 11n, 25, 25n Nava Giuseppe, 126n, 133, 135n, 145n Negri Gaetano, 83, 83n, 86, 143, 143n Nencioni Enrico, 132n Newton Isaac, 113 Nicoli Paola, 235, 239 Nicolodi Fiamma, 32n, 33n Nietzsche Friedrich Wilhelm, 154, 157n Nigro Salvatore Silvano, 74n Novaro Angiolo Silvio, 177 Novati Francesco, 16n, 160n Nove Aldo, 200, 200n Ojetti Ugo, 130, 130n Oldani Guido, 196 Oliva Luigi, 72n, 78n, 79n

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Olivetti Soavi Lidia, vedi Soavi Olivetti Lidia Olivieri Angelo, 216n Omero, 55, 57, 58, 58n, 60, 61, 62, 122, 123, 125, 131 Onorati Franco, 23n Onorato Marco, 204n Orazio Flacco Quinto, 12n, 25, 146n Orelli Giorgio, 201n Orelli Giovanni, 197 Ortolani Giuseppe, 17n Ossian (Canti di), vedi Cesarotti Melchiorre Ossola Carlo, 125n, 138n P[?] Giunio, 75n Pacella Giuseppe, 22n Palazzeschi Aldo, 111, 229, 229n Palmieri Enzo, 155 Pancrazi Pietro, 177 Paolo di Tarso (santo), 109 Papi Dominique, 242n Papi Laura, 242 Papini Giovanni, 177 Parietti Luigi, 72n Parini Giuseppe, 23, 27, 58, 77, 88, 92n, 96, 105, 105n, 106, 109, 145n, 215, 222n, 223, 223n Parise Goffredo, 245 Parzanese Pietro Paolo, 96 Pascal Blaise, 122, 140 Pascoli Giovanni, 9, 10, 39, 45, 54n, 94, 94n, 95, 95n, 96n, 97n, 111, 111n, 117, 121-147, 149, 152, 152n, 165, 166, 168n, 171, 177, 201, 220n, 222, 223, 224, 227, 229, 229n Pascoli Maria (Mariù), 54n, 121n, 135n, 138n, 145n Pasini Ferdinando, 46n Pasolini Pier Paolo, 173n, 192, 192n Passow Arnold, 141, 141n Pastonchi Francesco, 177 Pastore Stefano, 177n, 182n, 183n, 184n, 197 Pastore Stocchi Manlio, 94n Pavolini Paolo Emilio, 145, 145n, 146, 147 Pazzaglia Mario, 149n, 157n, 159, 160n, 162n Pegoraro Silvia, 133n, 136n Pelosi Andrea, 170n

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Penna Sandro, 216 Perego Caterina, 84 Pericle, 45 Perucci Cecilia, 105n Perugi Maurizio, 128n, 134n, 137n, 138n, 141n, 145n Perugini Marco, 97n Pestelli Giorgio, 40n Petöfi Sándor, 140n Petracchi Angelo, 72n Petrarca Francesco, 10, 22, 24, 27, 40, 53, 66, 106n, 109n, 131, 165-201, 212, 215, 216 Petrosino Alfonso Maria, 198 Petrucciani Mario, 83n Pezzana Giuseppe, 18n Piccini Daniele, 197n, 200n Pignatelli di Belmonte Anna Francesca, 13n, 33, 33n Pignatelli Marianna, contessa d’Althann, 12, 14 Pinchera Antonio, 149n, 151, 152n, 157n, 227, 227n, 228n Pindaro, 18, 155 Pindemonte Giovanni, 72n, 75n, 76, 77, 78n, 79n Pindemonte Ippolito, 18 Pio ix (Giovanni Mastai Ferretti, papa), 109n Pio vi (Giovanni Angelo Braschi, papa), 14 Pittoni Anita, 204, 240n Piumini Roberto, 197 Pizzagalli Franco, 85n Platone, 122 Plutarco, 75, 104 Poe Edgar Allan, 136 Polimeni Giuseppe, 102n Poliziano (Agnolo Ambrogini detto il), 50 Porpora Nicola Antonio, 12, 33 Porta Carlo, 191n Pound Ezra, 176, 177 Praga Emilio, 83n, 94, 94n, 97, 99, 99n, 108, 108n, 109n, 145n Praloran Marco, 166n Prati Giovanni, 27 Praz Mario, 240n Previtera Luisa, 241n Prina Benedetto, 142, 142n Puccini Giacomo, 99n, 100n, 109n Pulcini Elena, 19n Puškin Aleksandr Sergeevič, 140n

Pusterla Fabio, 187 Quasimodo Salvatore, 179n Quintiliano Marco Fabio, 104 Raboni Giovanni, 191, 192, 192n, 194, 194n Racine Jean, 19, 30, 212 Raimondi Ezio, 28, 28n, 29, 29n Ramat Silvio, 199n Rapisardi Mario, 95, 95n Rasori Giovanni, 64n, 71n, 73, 74 Razzini Vieri, 26 Rebay Luciano, 175n, 181, 181n, 182n, 239, 243n Redi Francesco, 57, 155, 155n Régnier Henri de, 157n Renard Philippe, 217n Repossi Cesare, 102n Resnevic Olga, 210, 210n Reycend (libreria milanese), 68, 69 Ricci Manuela, 177n Richter Mario, 115n Rimbaud Arthur, 115, 115n, 226 Robin Armand, 207, 207n Roda Vittorio, 96n Rodari Gianni, 111 Rodocanachi Morpurgo Lucia, 239, 239n, 240, 245 Rodocanachi Paolo Stamaty, 239 Roggia Carlo Enrico, 191n Rolling Stones, 189, 190, 191 Romagnoli Ettore, 147 Romagnoli Sergio, 21n, 22n Roncaglia Aurelio, 186n Roncoroni Federico, 16n Ronga Luigi, 37n Rossetti Christina, 19n Rossetti Gabriele, 19n Rossi Lauro, 71n Rossi Luigi, 65, 65n, 72n, 75n Rossi Nedo, 66n Rossi Precerutti Roberto, 199 Rossi Santo, 72n Rossini Gioachino, 100n Rousseau Jean-Jacques, 19, 19n, 137n Rubbi Andrea, 16 Russo Francesco Paolo, 23n Saba Lina, 210n Saba Linuccia, 203, 209n, 212

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indice dei nomi Saba Umberto, 9, 10, 171, 172, 172n, 173, 173n, 174, 174n, 175, 175n, 203-217 Saccani Rossana, 212n Sacchi Giovanni, 72n, 78n, 79n Sàdy (Sa’dī, pseudonimo di Musharrif Oddin Muslih Od-din), 139, 139n Saint-Pierre Bernardin de, 123, 137, 137n, 139 Sala Di Felice Elena, 15n, 23n, 30n, 40n Salfi Francesco, 72n Salomone, re d’Israele, 102n Sand George (Amandine-Lucie-Aurore Dupin), 125 Sandron Remo, 122, 122n, 123, 138, 146, 146n, 147 Sanesi Roberto, 215n Sanguineti Edoardo, 186n, 189, 189n, 190, 195, 195n, 196, 196n, 200n Santagata Marco, 64n, 168n, 169n Santato Guido, 173n Santini Emilio, 140n Sapegno Natalino, 24n, 64n Sapienza Camillo, 145, 145n Savino Ezio, 199n Scarlatti Alessandro, 12 Scevola Luigi, 72n, 79n Schiff Paolina, 119n Schinetti Pio, 136n Schlegel August Wilhelm von, 22, 22n Segantini Giovanni, 157 Segre Cesare, 236n Seneca Lucio Anneo, 104 Senna Paolo, 240n Serassi Pier Antonio, 54 Sereni Vittorio, 217n, 221 Serianni Luca, 78n, 97n, 98, 98n, 99n, 100n, 109n Serra Luigi, 72n Shakespeare William, 122, 176n, 180n, 203, 213, 213n, 214, 214n, 215, 215n, 216, 216n, 217 Shelley Percy Bysshe, 121, 124, 133, 137, 212 Silvestri Andrea, 92n Simone Simonetta, 124n Siti Walter, 192n, 197n Soavi Olivetti Lidia, 245n Solari Maria Rosa, 238, 239n Soldani Arnaldo, 46n Soldini Fabio, 245n Solmi Sergio, 209n

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Sommariva Emilio, 244n Soriga Renato, 67, 67n Spaggiari William, 76n Spampanato Tironi Adele, 138n Spampanato Vincenzo, 138n Spencer Herbert, 105 Spinazzola Vittorio, 104n Spitzer Leo, 97 Staël Anna Necker, baronessa de, 64n, 71n Stara Arrigo, 173n, 203n, 209, 212n, 213n, 215n Stella Angelo, 78n, 102n, 108n Stendhal (Henry Beyle), 22, 22n Stock Nello, 213 Storno Bolognini N., 75 Strada Marisa, 24n Stuparich Giani, 204n, 205n, 240n Stussi Alfredo, 64n Surdich Luigi, 178n Svevo Italo, 240n Tanzi Marangoni Drusilla (Mosca), 240, 245 Tasso Torquato, 17n, 22, 27, 40, 54, 94, 212 Tatti Mariasilvia, 75n Tedeschi Michelangelo, 72n Tennyson Alfred, 121, 123, 129, 130, 131, 136n, 140n, 143 Texcier Aline, 209n Teza Emilio, 124, 140, 140n Thovez Enrico, 227 Tiepolo Giambattista, 112 Tintoretto (Iacopo Robusti, detto il), 112 Tiossi Gina, 233, 237, 240, 247 Titta Rosa Giovanni, 26n Toci Ettore, 140, 140n, 141, 141n Tognella Anna, 244n Tognella Antonio, 244, 244n Tognella Elena, 244n Tognella Lucia (Cia), 244n Tognella Michele, 245n Tognella Piermario, 244, 244n, 245n Tognella Tonino, 235, 236, 244, 245n Tolazzi Carlo, 240n Tolstoj Lev Nikolaevič, 206 Tomasoni Piera, 97n, 102n, 105n Tommaseo Niccolò, 122, 123, 123n, 128, 129 Tommasi Rodolfo, 146n Tonelli Natascia, 191n, 192n, 197, 197n

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dalla parte dei poeti: da metastasio a montale

Tongiorgi Duccio, 64, 64n, 65, 65n, 66, 66n, 69n, 71n, 73n Torno Armando, 11n Torti Giovanni, 65, 68n, 72n, 75n, 81 Traina Alfonso, 60n Trapassi Leopoldo, 15n Trapassi Pietro, vedi Metastasio Pietro Trenti Luigi, 162, 162n Treves Piero, 130n Trifone Pietro, 78n Trivulzio Antonio Tolomeo, 32n Trotta Nicoletta, 85n, 233n Trovato Paolo, 33n Tullier Nino, 212 Tummolo Fortunato, 123n Turchi Roberta, 76n Ungaretti Giuseppe, 159, 175, 175n, 176, 177, 209n, 221, 221n Valduga Patrizia, 187, 187n, 191, 191n, 199 Valente Mario, 23n Valenti Teofilo, 177 Valgimigli Manara, 94, 94n, 133, 133n, 141 Vannetti Clementino, 46 Varanini Giorgio, 76n Varano Alfonso, 44, 76 Varese Claudio, 174, 204n Vauvenargues Luc de Clapiers, marchese di, 102n Vecce Carlo, 187 Vela Claudio, 187 Vellani Carlo, 72n, 76n, 79 Verdi Giuseppe, 22, 29, 36, 85n, 86n, 100n, 108, 108n, 109n, 118 Verga Giovanni, 102n Verhaeren Émile, 157n Verri Alessandro, 16n Verri Pietro, 16, 16n Viale Ferrero Mercedes, 34n

Vicinelli Augusto, 95n, 121n, 142n Vico Giambattista, 23n Viganò Pietro, 87, 87n, 88, 88n Vigni Bice, 206 Villalta Gian Mario, 192n Vinci Leonardo, 12 Virgilio Marone Publio, 59n, 60, 60n, 122, 177 Visconti Luchino, 210n Visconti Marco, 210, 210n, 211, 212 Visconti Uberta, 210n Vittorio Emanuele ii, re d’Italia, 85n, 86n Vogl Johann Nepomuk, 140, 141 Volpi Giorgio, 244n Voltaire (François-Marie Arouet), 18, 19, 25 Voss Johann Heinrich, 140n Weiss Edoardo, 213 West David, 213n, 214n Whitman Walt, 147, 157, 157n Wildenbruch Ernst, 86n Wordsworth William, 121, 141n, 142, 143, 144, 145 Zabagli Franco, 238n Zacchiroli Francesco, 75n Zampa Giorgio, 158n, 244n, 245n Zanella Giacomo, 27, 88, 94, 94n, 120, 120n Zanini Bonazzi Yolanda, 10, 245, 245n, 248, 249 Zanini Tognella Dora, 10, 244, 245, 245n, 246, 248, 250 Zanzotto Andrea, 192, 192n, 193, 193n, 194n, 200n Zardo Antonio, 124, 132, 132n Zenari Massimo, 166n Zeno Apostolo, 12, 16n Zuliani Luca, 178n

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studi 1. Anton Ranieri Parra, Sei studi in blu. Due mondi letterari (inglese e italiano) a confronto dal Seicento al Novecento, pp. 188, 2007. 2. Gianfranca Lavezzi, Dalla parte dei poeti: da Metastasio a Montale. Dieci saggi di metrica e stilistica tra Settecento e Novecento, pp. 264, 2008.

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Finito di stampare nel mese di luglio 2008 (Grafica Editrice Romana)

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