Saggi di storia e critica del cinema. Cineasti russi a Parigi (1917-1950), Ėjzenštejn teorico, Tra gelo e disgelo e altri saggi [Vol. 4] 1976922615, 9781976922619

Antonio Napolitano (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Ha pubblicato, fin d

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Italian Pages 120 [85] Year 2018

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Table of contents :
IN MEMORIAM
DELLO STESSO AUTORE
INDICE
AVVERTENZA
BIOGRAFIA
"A GUISA DI PREFAZIONE..."
CINEASTI RUSSI A PARIGI (1917-1950)
BORIS BARNET AL FESTIVAL DI LOCARNO '85
SERGEJ MICHAJLOVIC EJZENSTEJN
Ejzenstejn teorico
Analisi semantica di due sequenze dell'"Aleksandr Nevskij"
LA TERRA NEL CINEMA SOVIETICO
TRA GELO E DISGELO
INDICE DEI NOMI
INDICE DEI FILM
NOTE
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Saggi di storia e critica del cinema. Cineasti russi a Parigi (1917-1950), Ėjzenštejn teorico, Tra gelo e disgelo e altri saggi [Vol. 4]
 1976922615, 9781976922619

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Copyright – 2017 Marina Napolitano Doriomedoff Tutti i diritti riservati Edizione, fotografie, progetto grafico e traduzioni dal russo a cura di Marina Napolitano Doriomedoff 2 IN MEMORIAM … “Et si, par mort, l’un d’eux est départi, Le survivant jà autre n’aimera, Ni ne prendra jamais autre parti Car en son cœur l’amour de l’autre aura… … Voyez la teurtre, qui tant ce fait escorte ; Quand l’une d’elles sa compagne tôt perd, La survivante toujours sur branche morte Prendra repos en grand regret expert. Chacun connaît que c’est un fait apert Car sa nature à telle amour ouverte Qu’el’ ne s’assied plus dessus branche verte.” SIMON BOUGOING (14??-15??) A mio marito 1 dicembre 1928 –1 dicembre 2017 3 DELLO STESSO AUTORE Totò, uno e centomila Tempo Lungo, Napoli 2001 G. Leopardi. Un taccuino napoletano Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2007 Il memoriale di Seneca. Un galateo del ben vivere e del ben morire Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2008 Shakespeare: specchio del mondo. Lo stile come messaggio Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2010 Cinema d’autore off Hollywood Ist.Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2012 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume I: Ingmar Bergman, Robert Bresson, Andrej Arsen’evič Tarkovskij Amazon – Ebook Kindle - 2015 ANSIA VIVA – Momenti lirici

Amazon – Ebook Kindle – 2016 IDEOGRAMMI esercizi a mente libera POLITICOPOLI epigrammi sale e pepe Amazon – Ebook Kindle - 2016 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 2: Shakespeare sullo schermo, Laurence Olivier, Akira Kurosawa,… Amazon – Ebook Kindle – 2016 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 3: Film significato e realtà Amazon – Ebook Kindle - 2017 4 INDICE IN MEMORIAM 3 Dello stesso autore 4 AVVERTENZA 6 BIOGRAFIA 7 “A GUISA DI PREFAZIONE…” 10 CINEASTI RUSSI A PARIGI (1917–1950) 12 BORIS BARNET al Festival di Locarno ‘85. 33 SERGEJ MICHAJLOVIČ ĖJZENŠTEJN 46 Ėjzenštejn teorico 47 Analisi semantica di due sequenze dell’“Aleksandr Nevskij” 51 LA TERRA NEL CINEMA SOVIETICO 70 TRA GELO E DISGELO 81 Indice dei nomi 107 Indice dei film 113 Note 117 5 AVVERTENZA “E io sono soltanto un mortale. Ma rispondo di me stesso, a una cosa sola nella mia vita mi dedico: a quel che io sò più di ogni altro al mondo. E lo voglio dire. E nel modo che io voglio.” ALEKSANDR TVARDOVSKIJ Questi versi di Aleksandr Tvardovskij per dissipare ogni malintenso sugli scritti di mio marito, il Professore Antonio Napolitano : non è mai stato comunista, ne marxista, né iscritto ad un qualunque partito anche se c’è chi lo crede ancora o lo scrive, senza averlo mai conosciuto (cf. Birgitta Steene).

Da studioso serio citava le fonti e questa etichetta abusiva lo infastidiva molto, come sottolineava spesso. 6 BIOGRAFIA Antonio Napolitano (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Tra 1947 e il 1959, Antonio Napolitano è socio poi dirigente del “Circolo Napoletano del Cinema” e di altri cineclub. Nel 1959, già insegnante abilitato in inglese, va a diplomarsi in Inghil-terra in “General linguistics” . Dal 1956 inizia a collaborare a riviste letterarie e di cinema, tra quali “L’Italia letteraria”(FI), “Il Letterato”(CS), “L’altro cinema”(MI), “Cinema Sud”(AV) etc. Nel 1961 vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese negli Istituti Superiori statali. Nel 1960, ha ottenuto il “Premio Pasinetti-Cinema Nuovo”1 a Venezia, per la saggistica filmica e collabora a “Cinema Nuovo”(MI), “Civiltà dell’immagine” (FI), “Le Artinews” (RO) e, in seguito a “Filmcritica” e altre pubblicazioni specializzate. Per conto di tali riviste, è stato, fin dal 1959, più volte inviato alle Mos-tre di Venezia, Locarno, Karlowj Varj, Salerno etc. Per lunghi anni ha collaborato a quotidiani con articoli di cinema e di linguistica (da “Il Matti-no” di Napoli a “Il lavoro” di Genova, “La Voce della Campania” e altri. Vari suoi saggi sono tradotti in danese, svedese, inglese, e russo. Nel 1969 ha consegnato la libera docenza universitaria in “Storia e Critica del cinema” e ha tenuto corsi e seminari presso Università statali e private. Dal 1963, per oltre un decennio, è stato nel Direttivo degli “In-contri internazionali del Cinema” di Sorrento e in quello del “Centro di filmologia”. E’ stato chiamato numerose volte a tener conferenze e pre-sentazioni di film in istituti di cultura in Italia e all’estero. Il suo è stato un lavoro di decenni teso ad una seria valutazione e degli autori partendo da valide basi di Estetica, al di là delle mode, dello “up to date” e della “novità” ad ogni costo. E’ deceduto il 31 marzo 2014 dopo una lunga malattia.Il suo ultimo saggio scritto in 2013, su Roberto Rossellini è stato pubblicato dalla rivista “Arte e carte”. 7 8

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“A GUISA DI PREFAZIONE…” Nota sull’ “Andrej Rublev” di Andrej Arsen’evič Tarkovskij Tarkovskij (1932-1987) va alla ricerca delle radici più profonde dell’arte e del sentimento religioso russo, comunque dei valori che diano senso al-l’esistenza. Non “tableaux vivants” ma recupero di una verità fisiologica della storia del XV secolo, tra misticismo, umanesimo, e crudeltà militare. L’Arte è espressione dell’aspirazione degli uomini che vogliono andare al di là della mera esistenza pratica, materiale (il simbolo del contadino che vorrebbe volare…). Poesia, musica, pittura possono essere le ali per innalzarsi al di sopra della polvere e del fango del mondo. È una domanda sul genio, sulla sua lunga pazienza, su i suoi tormenti. La Storia lo travolge spesso con le sue violenze, le sue battaglie: ad un certo punto l’artista pare rinunciare alla missione più alta che gli è affidata (perché il vecchio maestro Teofane il Greco è scettico) ma l’ardimento-sa ostinazione del giovane fonditore di campane Boriska lo incita a riprendere il lavoro interrotto e lo porta al compimento del suo capolavoro che è “la Trinità” (al monastero della Trinità di San Sergio). Tarkovskij sa che le icone moderne sono quelle immagini in movimento che egli può manovrare in modi simbolici più ricchi e significanti. Ma vuole fare omaggio, al contempo, a un grande pittore del passato. “La bellezza salverà il mondo”2 il testamento spirituale di Dostoievskij risuona nel film del regista russo che mostra di possedere nell’intimo la vocazione spirituale necessaria alla costruzione di una vicenda che orienti 10 gli uomini verso i valori alti dell’umanesimo e dell’Arte (che se è suprema è testimonianza di religione, di attaccamento a quanto di meno deperibile l’uomo può costruire).

La storia dell’invasione tartara della Russia rappresenta per Tarkovskij l’allegoria del male immanente nelle vicende terrene e, all’altro polo, c’è necessariamente - il diagramma di un corso e ricorso psicologico di un artista che ritroverà, dopo averla perduta, la fede nel bene e nel Bello. Una convinzione profonda che risorge dalle ceneri, dopo esserci bruciata nell’atmosfera rovente delle guerre e delle invasioni, quando lo slancio del giovane fonditore di campane, resuscita la parte aurea della coscienza del monaco Andreij Rublev. La lotta con il materiale da “girare”, da riprendere è quella antica lotta che è condotta dallo scrittore con le parole, dal pittore con i colori, dallo scultore con il marmo. Quando il regista padroneggia il panorama, gli attori che agiscono sul suo sfondo, gli oggetti che costellano le inquadrature e le sequenza, dive-nendone punti focali di simbolizzazione. È così egli instaura il ritmo giusto nello svolgimento e lo svolgimento di-viene narrazione articolata e allegoria della vicenda umana che si ripete da secoli e secoli (la tranquillità della meditazione, la rottura dell’equilibrio, la guerra, la ripresa del lavoro pacifico, la tranquilla fede ricostruita nell’anima). Parigi-Napoli 1991 11

CINEASTI RUSSI A PARIGI (1917–1950) 12

Un fenomeno culturale di notevole rilievo caratterizza i primi decenni del potere sovietico in Russia: l’esodo di numerosi intellettuali, artisti, coreografi, cineasti verso l’Occidente. Nella storiografia della settima arte appare alquanto trascurata la diaspora dei molti attori, registi, scenografi, costumisti dopo la rivoluzione del 1917. Nei testi ufficiali essa subisce la ben nota “damnatio memoriae” inflitta ai disertori della patria socialista, avviata verso un “radioso avvenire” . In altri testi, anche francesi (G.Sadoul) o italiani (G.Aristarco), la “di-menticanza” è, forse, frutto di una connivenza ideologica da parte di studiosi e storici del cinema che simpatizzano con la “dittatura del proleta-riato” instauratosi nella Russia bolscevica. Certamente, non tutti profughi erano professionisti d’alto livello, ma i loro “curricula” avrebbero meritato almeno qualche citazione. In un primo periodo, tali cineasti si erano trasferiti in Crimea, tra Yalta e Odessa, per passar poi a Istanbul, al momento del consolidamento del nuovo potere in Russia. Tra questi emigrati si trovavano personalità ben note del “muto” , da Jacov Protazanov ad Alexandre Volkoff, da Viaceslav Turžanskij, registi, fino a ad attori già famosi, da Ivan Mozžuchin a Vera Orlova, a Nicolas Rimsky etc. [p.12] Fu proprio Mozžuchin a scrivere nelle sue “Memorie” : “Eravamo quasi senza bagagli; qualche oggettino d’oro lo nascondevamo nei tacchi delle scarpe e vivevamo a stento…”. La situazione nella metropoli turca ebbe ad aggravarsi quando arriva-rono centinaia e centinaia di militanti nelle “armate bianche” di Vrangel’ e Denikin ormai sconfitte dai “rossi” di Trockij. La “colonia cinematografica” decise allora di lasciare quel luogo che presentava sempre maggiori problemi. Grazie al produttore Josif Ermoliev [p.12] furono reperiti i mezzi per raggiungere la cosmopolita (e più tollerante) Parigi anche se qualcuno della “troupe” preferì partire per Berlino o Praga (G.Chmara e D.Bucho-wetzki). Il menzionate produttore portò con sé delle pellicole realizzate nel corso degli anni precedenti per farle circolare in Francia, allo scopo di far meglio conoscere i suoi compatrioti e racimolare il denaro utile a riprendere la propria attività. L’accoglienza fu positiva: Louis Delluc, critico e animatore dei primi cineclub, ebbe parole di omaggio per gli artisti arrivati nel suo paese. 13 Soprattutto, mise a loro disposizione un teatro di posa dove potessero lavorare a tempo pieno. Il luogo prescelto fu l’ex-studio di Meliès a Montreuil-sous-bois, pro-prietà della Pathé-film. Questa ditta accettò una tale sistemazione a patto che le venisse concessa la distribuzione in esclusiva delle pellicole che lì sarebbero state realizzate. Il pubblico, è comunque, non poteva mancare perché, come ha notato una memorialista dell’epoca, Nina Tikanova si contavano allora a Parigi più di 100.000 immigrati dall’URSS. Per i cineasti russi tale situazione significava, oltretutto la garanzia di una omogeneità etnica e culturale nel loro operare e produrre. Per quel gruppo professionale era una ottima svolta di vita rispetto al destino di altri connazionali, scrittori, ballerini, intellettuali spesso costretti ad accettare lavori non consoni al loro status sociale (meccanici, tassisti, camerieri ecc.). Così, a Montreuil nasceva la “Ermoliev Film” , poi denominata “Albatros” [p.19] sotto la direzione amministrativa di A.Kamenka. Il suo motto era “In piedi nella tempesta” . Una delle prime pellicole prodotte fu “L’angoissante aventure” (1920) di Protazanov con Ivan Mozžuchin. Continuava così la collaborazione tra l’attore e il regista già ampiamente sperimentata in patria, fin da “La da-ma di picche” del 1916. L’anno seguente lo stesso “divo” fu il protagonista di “Kean” (1921) di Alexandre Volkoff, tratto dal dramma di Dumas [p.23].

È rimasta famosa la sequenza in cui venivano coinvolti in una danza velocissima perfino gli oggetti intorno ai ballerini. Mozžuchin rappresentava, alla grande, quel mostro sacro del teatro d’altri tempi “simbolo di tutti gli eccessi” . Kean, infatti col suo talento è il suo entusiasmo quasi “borderline” era stato capace di cambiar pelle volta per volta impersonando Tristano e Amleto o il giovane Werther. Tra l’altro, egli volle provarsi nella regia dirigendo “L’enfant du carnaval” (1922) [p.24]e, poi, “Le brasier ardent” (1923) [p.24], mostrando di saper utilizzare gli esperimenti più arditi della tecnica d’allora, il “flou” , il “ralenti” e il “négatif” . Intanto, Volkoff dirigeva “La casa dei misteri” (1922), cineromanzo a episodi dalle agitate vicende, tra le quali una rocambolesca evasione di forzati. E Protazanov aveva diretto altresi “Il senso della morte” (1920) dal 14

15 romanzo di Paul Bourget, con un attore che doveva percorrere ben altre vie di gloria, René Clair. Maggior originalità e migliore qualità, secondo lo storico Carl Vincent, si potevano riscontrare ne “L’ombre du péché”

(1922). Ma dagli studios di Montreuil-sous-bois veniva fuori anche una produzione di tipo medio e popolare. Rappresentativi di tale tendenza erano i film di S.Nadejdine, “Lo straccivendolo” (1924) [p.25], “L’ubriacona” (1924) e quelli di V.Striževskij, “Taras Bulba” e “Delitto e castigo” (1928), nonché “Troika” (1929) [p.25] e “Caterina I” (1929). Quest’ultimo, però, dallo stile figurativo assai curato, al punto di sfiorare il calligrafico. Un altro filone fu quello inaugurato da Viktor Turžanskij, ex allievo di Stanislavskij e pittore, emigrato in Francia con la moglie Nathalie Kovanko. Di lui pare giusto ricordare “Le chant de l’amour triomphant” (1923) (da Turgenev) e “Le prince charmant” (1924), nonché “Michel Strogoff” (1925) [p.26]. Opere segnate dalla cifra “mélo” con delle preziosità espressive cer-tamente interessanti, presenti anche ne “La dame masquée” (1927) [p.20] e “Les mille et une nuits” (1927) [p.26]. . Dopo un poco fruttuoso soggiorno in Germania, egli tornò in Francia ai primi degli anni 30 e vi diresse ancora “L’Aiglon” (1931), “Le chanteur inconnu” (1932), e “Hôtel des étudiants” (1933) nonché “Volga in fiamme” (1934) e “Les yeux noirs” (1935). Alcuni suoi film, le cui trame erano tratte da Maupassant quali “L’ordonnance” e “Ce cochon de Morin” (protagonista N.Rimsky) erano stati accolti con favore dall’avant-garde di quegli anni. Non pochi artisti francesi ammisero di esser stati influenzati dalla sequenza di una rêverie in cui le inquadrature delle ruote di un treno in corsa si sovrimprimevano alle gambe di danzatrici in rapido dinamismo. Turžanskij rimase famoso anche per aver diretto alcuni divi destinati a una grande carriera quali A.Préjean e D.Darrieux, oltre all’italiana Isa Miranda ne “Le mensonge de Nina Petrovna” (1936) [pp.29,32]. Scorreva in questi film una vena di corrivo romanticismo ben manovrato ai fini di una facile presa sul pubblico. Nella stessa direzione cosmopolita agiva Alexej Granowsky [p.22], ex-collaboratore di Tairov e Meyer, autore di “Le chant de la vie” (1932) (co-produzione franco tedesca) e poi di “Notti moscovite” (1954) con Anna-bella, H.Baur e ancora con quest’ultimo grande attore un “Taras Boulba” (1936) in cui recitavano i giovanissimi Danielle Darrieux e J.P.Aumont. 16 Per la “Albatros” , prima di ritornare in Russia, Protazanov aveva anche realizzato “Vers la lumière” (1921). Intanto, sempre a Parigi, Volkoff dirigeva una pellicola spettacolare utilizzando di nuovo il grande Mozžuchin insieme con una “vedette” fran-cese Suzanne Bianchetti. Si tratta di “Casanova” (1927) [p.27] definito un “film flamboyant” da un critico dell’epoca, tutto giocato su ricercati costumi, la ricca scenografia nonché la bravura virtuosistica del protagonista. Egli proseguirà su questa linea dispendiosa con “Shéhérazade” (1929) [p.28] e “La mille et deuxième nuit” (1931) [p.28] nonché col rifacimento più lussuoso de “L’enfant du carnaval” (1932). L’attore Mozžuchin , invece, prima di trasferirsi a Hollywood (che non gli avrebbe portato fortuna) darà un’ulteriore prova del suo talento di interprete ne “Feu Mathias Pascal” (1927) [p.29], (da Pirandello), diretto da Marcel L’Herbier, che - si può dire - resta una delle opere più fascinose dell’intero cinema muto.

Altro regista assai attivo in Francia sarà Dimitri Kirsanoff [p.22], lì ospitato - in realtà fine del 1912 - per studiare violoncello al Conservatoire de Paris. Egli si formò, suonando per anni nell’orchestrina che accompagnava i film di Max Linder, studiandone la tecnica e i trucchi. Dirigerà numerosi film, da “L’ironie du destin” (1922), purtroppo anda-to perduto fine a “Brumes d’automne” (1929) [p.30], ora finalmente privo di didascalie, il che renderà l’azione più continua e drammatica. La protagonista della pellicola era la moglie del regista, Nadia Sibirskaja . Il sonoro segnerà per lui un declino evidente ( “La plus belle fille du monde” , 1938) e, così, accetterà più volte di lavorare anche in Svizzera (“Rapt”, 1934), tentando esperimenti di asincronismo tra immagini e colonna sonora (a cura di Arthur Honegger, che usava per la prima volta le onde Martenot e una “musica concreta” , ai limiti del rumore). A lavorare in Francia, arriva nel 1929, Leonide Moguy (Moguilevskij) [p.22], nato a San Pietroburgo nel 1899 e, per anni, autore in patria di cortometraggi e di cineattualità. Dopo un duro tirocinio di montatore e poi di sceneggiatore, dirigerà il film “Le mioche” nel 1936 e inaugurando una serie di opere “larmoyan-tes” . Così saranno pur non prive di pregi, “Prison sans barreaux” (1937), “Je t’attendrai” (1939) fino a al più noto “Demain, il sera trop tard” (1950) [p.31] che riscuoterà un ampio successo internazionale. Altro nome da non dimenticare è quello di Fedor Ozep nato a Mosca nel 1895 e attivo lì fino agli anni 30. Dopo aver girato in Germania “Il delitto 17 di Dimitri Karamazov” (1931), passerà in Francia dove dirigerà varie cose discrete: “Mirages de Paris” (1932), “Amok” (1934) [p.31] e una nuova versione de “La dame de pique” (1937), e, dopo un breve soggiorno in Italia, “Gibraltar” (1938). Spesso accusato di “calligrafismo” , è stato comunque - un attento compositore di inquadrature, anche se scarsamente dotato di intuito psicologico negli snodi delle trame poco plausibili. E numerosi sono gli attori russi giunti a lavorare a Parigi, da Nicolas Rimsky ( “L’heureuse mort”1926, di Nadejdine) a Kissa Kouprine, a Olga Belajeff, a Genia Nikolaeva, a N.Kovanko fino a Vladimir Sokoloff, pre-sente nel famoso “Napoléon” di Abel Gance. Anche attivi a Montreuilsous-bois saranno Vera Orlova e O.Gzovskaïa e Vladimir Gajdarov. [pp.21,22] Così, pare poco conosciuto il fatto che la famosa madre dolorosa del film di Pudovkin, Vera Baranovskaja si rifugerà in Francia anche lei nel 1929. Purtroppo, verrà male utilizzata in pellicole di non grande pregio da “Monsieur Albert” (1932) di Carl Anton a “Les aventures du Roi Pausole” di Granowsky, già citato. Morirà, precocemente, a Parigi nel 1935, già lontana da tempo dell’ambiente cinematografico. Ugualmente Valerij Inkijinoff [p.21] ben noto in URSS come il protagonista di “Tempeste sull’Asia” (1929) di V.Pudovkin , prenderà dimora in Francia fin dal 1934 dove lavorerà in film di Ozep, Turžanskij, Striževskij, ecc. Così, altri buoni attori quali Alexandre Milovanoff e Ivan Petrovich reciteranno in pellicole francesi dei registi Léonce Perret e G.Ravel. Tra gli scenografi e costumisti emigrati dall’Unione Sovietica e operosi in Francia sono da menzionare Sergej Pimenoff, G.Wakhevitch [p.22] e soprattutto Jurij Annenkov [p.22] stabilitosi a Parigi fin dal 1925. Egli contribuì a dar valore a non poche pellicole di suoi compatrioti, lavorando altresì con Murnau, L’Herbier, J.de Baroncelli, J. Delannoy, eccetera. [p.32] Ha lasciato un interessante volume di memorie “En habillant les vedettes” (1951). Anche da non trascurare tra i cineasti emigrati, gli operatori N.Topor-koff, Sergeij Bourgassoff e R.Barski, anche spesso assistenti alle regie.

Tra gli sceneggiatori è d’uopo ricordare Nikolaij Evreinov, drammatur-go d’avanguardia che, tra l’altro, nel 1929, diresse “Fécondité” , interprete 18 Diana Karenne, e nel 1931 “Pas sur la bouche” . È d’obbligo, infine, ricordare l’attività in Francia, fin dal 1919 di Ladislav Starevič [p.22], già brillante pioniere in patria del cinema d’animazione. Con disegni, pupazzi, marionette composte e manovrate con uno stra-ordinario senso del linguaggio filmico, egli creo cose deliziose da “La petite parade” (1929) a “Fétiche” (1933) [p.32] e, più tardi, la sua opera più bella “Zanzabelle à Paris” (1950). Napoli, 15 agosto 2007 19

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BORIS BARNET AL FESTIVAL DI LOCARNO ‘85. 33 Una puntuale retrospettiva alla rassegna svizzera dell’agosto ‘85 è stata dedicata a Boris Barnet. Dimenticato, trascurato, espunto da non poche storie ed enciclopedie del cinema (si controlli il pur informato Larousse du cinema) Barnet è stato comunque uno dei registi più originali negli anni tra le due guerre. Dopo esperienze varie di pittura agli inizi della rivoluzione, si interessa poi delle tecniche di Mejerchol’d e lavora come attore con Kulešov e Pudovkin. Un tragicomico incidente durante la lavorazione di un altro film sotto la direzione del “padre del montaggio” lo induce a licenziarsi da Kulešov e a riavvicinarsi a Protazanov che va sperimentando allora i prototipi della science fiction sovietica. Nel 1926, esordisce finalmente come regista in collaborazione con Ozep in “Miss Mend” [p.38] una sorta di remake satirico dei film di avventura hollywoodiani (Pear White etc.) che allora inondavano anche il mercato russo. In esso vengono riprese le procedure dei serials ma con un intento non dissimulato di palinodia e di brillante dissacrazione, che alloca il film tra il ”pastiche” e il vaudeville. L’intersecarsi veloce di mélo, di giallo, di horse opera e di pura farsa two-reels assurge nel film risso ad un ritmo visuale degno della miglior fantasia espressionista quello che poi Alexandrov otterrà nuovamente nel suo ”Ragazzi allegri” . La prima opera tutta di mano di Barnet è ”La ragazza con la cappelliera” (1927) [pp.39,40]. Esteriormente motivata dall’incentivo ad acqui-stare buoni del tesoro nazionale, la pellicola muta riesce ad evocare in modo sapido e gustoso l’atmosfera NEP in tutti i suoi strati e tutte le sue componenti. Il gioco interpretativo degli attori è manovrato con manierismo d’alta classe, sul modello della commedia alla Harold Lloyd e riesce a scavalcare ogni tecnicismo e ogni meccanicità. Con la solita acribia critica, Glauco Viazzi, in un suo saggio del lontano ’50, parlava di “commedia estremamente sottile e sensibile” . La vedette del film è Anna Sten che di lì a qualche anno Hollywood avrebbe tentato di portare ai fasti della Garbo e della Dietrich, ma oggi non viene quasi più menzionata. Quello che maggiormente colpisce a rivedere le sequenze è il loro autentico livello linguistico: siamo di fronte al cinema non al teatro cinemato-grafato, che finirà con l’occupare gran parte dello schermo sia con prodot-ti Mosfilm che Warner o Pathé. Il movimento millimetrato, le rapide associazioni visuali, il crescendo delle corse e degli sdrucciolamenti sulla neve di Mosca sono colti da Bar-34 net nel loro più giusto momento e nel loro svilupparsi in balletto. Le inquadrature hanno lo splendore del contrasto più vivido: il bianco è pura farina, o neve fresca o gesso o calce e il nero è pece, antracite o cattiveria totale e fuliggine d’animo. Questa dialettica cromatica sottolinea il divenire comico della vicenda e l’aggregarsi musicale dei tasselli rappresenta-tivi. Essa corre veloce come il tocco di un pianista jazz sulla tastiera zebrata di un pianoforte. L’universo cittadino scorre rapido, assurdo, ridicolo sotto l’occhio insieme benevolo e implacabile di Barnet che taglia, cuce, giustappone e con-disce con sale effervescente. Altre gustosa commedia è risultata, nello svolgersi della rassegna, ”La casa sulla Trubnaja” (1928) [pp.40,41]. Si snodano in essa i trucioli degli episodi più comuni in un caseggiato, dai piccoli

traffici, ai pettegolezzi, ai litigi da cortile. Il regista anche qui riesce ad imprimere una cadenza di satira e un suo marchio personalissimo. La vicenda dell’arricchito parrucchiere che assume una giovane fantesca da comandare a bacchetta è il pretesto per un continuo andirivieni di personaggi da commedia dell’arte che si sfogano in frenesie, in vortici, in fughe quanto meno paradossali. La luce manovrata intuitivamente dal regista suscita metamorfosi d’ogni genere e riverberi e chiarità ora illumi-nanti ora accecanti. Già un pò meno vivace e carismatica è la materia che fluisce nel pur conclamato “Sobborghi” (1933) [p.41]. Si avverte bene come l’aria di libertà comincia a rarefarsi e che la pressione propagandistica è in aumento. Si chiede anche troppo al regista quando chiaramente lo si è invitato a piegare il suo genio satirico a livello d’impegno drammatico. Le connessure tra questi due materiali non sempre sono invisibili e talvolta è proprio come si si assistesse a due film diversi montati in parallelo. Non riescono a fondersi e neanche a collimare i gag e la guerra, le trova-te farsesche e le storie sentimentali. Nonostante l’evidente bravura dell’autore c’è un controcanto che va oltre i righi, una armonizzazione forza-ta che poi perde colpi qua e là. L’epica, anche se ben padroneggiata, non è la corda primaria di Barnet: si pensi, a quanta aria majakovskjana si respirava nelle commedie precedenti! Nei film seguenti “Vicino al mare più azzurro” (1935) [p.42] e ”Il vecchio fantino” (1936) [p.42] il regista salva ancora il suo tono disinvolto e il piacere del raccontar spontaneo. E’ chiaro che le difficoltà stanno aumen-35 tando nel reperire spazi di libertà espressiva. Le direttive del tempo dico-no che il ”comico” non può più considerarsi come un settore a sè che altri-menti tradirebbe tendenze escapiste se non controrivoluzionarie. Su di un piano più pragmatico, quello che veramente è d’intoppo è che viene sempre più osteggiata l’assenza di una sceneggiatura preventiva. Così, è evidente la ragione per cui Barnet tacerà per diversi anni. E’ il tempo in cui scompaiono, in un modo o nell’altro, Esenin, Bulgakov, Majakovskij e Mandel’štam e Mejerchol’d e centinaia d’altri, intellettuali ed artisti. Sono gli anni in cui anche ad Ėjzenštejn riesce impossibile portare a termine alcuni suoi film. Lo stalinismo, come nota Medvedev, ”ormai è una malattia di estrema serietà che minaccia la totale distruzione d’ogni conquista rivoluzionaria” . Non si trovano anticorpi nè antibiotici a questo morbo politico che si es-pande e non solo a causa delle direttive del despota ma soprattutto ”dei vantaggi che molti avventurieri e carrieristi trassero dall’atmosfera di spiomania e sabotaggiomania che si era diffusa nella URSS.” (Medvedev). Verso la fine del 1939 Barnet riprende il lavoro con “Una notte di settembre” che è un panegirico dello stakanovismo. Si sente che egli ha do-vuto mutare registro e solo in filigrana si percepisce quello humour ar-gentino che era la tessitura delle sue cose migliori. Ci saranno ancora altri anni di silenzio, e poi nel ‘47 c’è una riaffacciata con l’apologia del controspionaggio sovietico: “Atto eroico di un agente segreto” [p.43]. Può bastare come epitaffio la chiosatura di un “critico” della Pravda che riporta dopo la prima visione: “Nel film i personaggi dei nemici sono rappresentati con tutte le caratteristiche e le varietà dei sentimenti e delle idee opposti a quelli del nostro eroe” . Solo dopo il XX congresso e il rapporto Chruščëv, Barnet sembra recuperare la sua linfa di un tempo. “Poet” (1956) [p.44] è anche il suo primo film a colori. Il plot è imperniato su una vicenda lontana, che si svolge al tempo della guerra civile. In un piccolo porto della Russia meridionale, dei poeti locali si incontrano e si scontrano, mentre gli alti e bassi del conflitto interno vengono sempre più lambendo il piccolo centro. Riaffiora lo spirito ironico e parodistico e si mescola gustosamente con certe tinte ce-choviane, in una ricerca di fermenti e di illusioni perdute. Nel ‘57 Barnet conduce a termine un film sul circo: “Il lottatore e il clown” [p.45], una pellicola che era stata affidata in prima istanza ad un altro regista, Judine. Opera riuscita sia dal punto vista documentario che formale. L’ormai anziano autore ritrova il gusto per una vivacità 36 scapigliata, per una freschezza d’immaginazione in non poche sequenze dalla bella baldanza mimico-gestuale e dalla simbologia brillante come una girandola.

Gli ultimi due film del regista, presentati anche a Locamo, sono “Alienka” ( 1961) [p.45] e “La fermata” (1963) [p.43]. E’ la sintesi dei più diversi motivi toccati da Barnet nella sua vita d’autore e in alcuni tratti quasi un ritorno a vecchi temi, quelli delle commedie rurali. Questo ripiegarsi sempre più accentuato verso il passato è l’indizio della fine. E, infatti, nel ‘65 Barnet muore. Ma, come abbiamo visto, era il caso di non lasciarne sbia-dire il ricordo tra i mille anonimi rulli delle cineteche. Non si sa, però, se consigliarne una rassegna TV dato che il piccolo schermo tritatutto opera livellamenti indiscriminati. Locarno-Napoli 1985 37

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SERGEJ MICHAJLOVIČ ĖJZENŠTEJN 46 Ėjzenštejn teorico Ciò che appare a prima vista da “Forma e Tecnica del film” di S.M.Ėjzenštejn (Einaudi 1964) pubblicato direttamente in inglese a New York dal grande regista russo che non trovava editori nella Russia di Stalin - è che, nelle sue ricerche teoriche egli non si lega mai ad una formula-zione dogmatica del linguaggio filmico: sia il montaggio delle attrazioni che il “tipage” sono importanti ma non imprescindibili, dato che “lo spe-cifico cinematografico non sta nel processo stesso ma nel grado d’inten-sità delle caratteristiche”. Il merito primo di Ėjzenštejn è quello di parlare di cinema non col cinema, di saper bene come le nozioni sintattiche, il gergo da iniziati possano “épater le bourgeois” ma non dar conto dei problemi di cultura e di sensibilità che sono alla base della questione creativa. Per questo, si induce a sottolineare le strette analogie intercorrenti tra il linguaggio delle immagini, e quello delle arti e l’idioma comune: “una finestra scura non è una finestra non illuminata e nemmeno una finestra senza luce”. Così “un balenare di facciate, mani, gambe, cupole, teste e colonne… si trova già nell’opera di Gogol ma ce ne rendemmo conto quando Andrej Belyj ci ebbe illuminato circa lo speciale cubismo dello scrittore”. Nè l’autore è meno cosciente degli eccessi di costruzione da lui stesso commessi nel tentativo di collegare l’uomo e il suo ambiente in un’unica complessa visione: “Il fatto che il film ’ Sciopero” fosse pieno di complessità di questo tipo dimostra come la malattia infantile del sinistrismo esistesse in questi primi stadi del cinema”. Ėjzenštejn ben conosce il lato delle soluzioni interiori e sfugge dalle mezze verità; i suoi non sono schemi di impostazione matematica ma centri di gravità di vaste esperienze culturali: “l’inquadratura è un minusco-lo oggetto rettangolare che racchiude un brano di realtà organizzato in un certo modo e già all’interno dell’inquadratura si scorgono i conflitti cinematografici che sono la traduzione in immagine del principio dialettico: conflitto di direzioni grafiche, conflitto di piani, di volumi, di masse, di profondità e inoltre conflitti tra un oggetto e le sue dimensioni, tra l’avvenimento e la sua durata (i primi ottenuti con una lente deforman-te, i secondi con la ripresa a fotogrammi singoli o col rallentato). Viene così individuata l’idea di movimento cinematografico in un “processo di sovrapposizione, sull’impressione conservata della prima posizione dell’oggetto, di una nuova posizione visibile successiva dell’oggetto stesso”. La tendenza che è sempre da evitare è “la calcificazione in manierismo 47

48 stilistico privo di vita” , poi che il cinema vivo, completo - detto da Ėjzenštejn “intellettuale” - al contrario di quello convenzionale che dirige solo le emozioni, offre al tempo stesso la possibilità di incoraggiare e dirigere l’intero processo di pensiero”. Da ciò discende che il montaggio, di cui il regista-teorico non intende sostenere l’egemonia, può essere in accordo col ritmo o con la tendenza principale nell’interno dell’inquadratura o in accordo con la lunghezza delle inquadrature: cioè in combinazione con le loro indicazioni denomi-nanti; e l’inquadratura “non può mai essere un’invariabile lettera dell’al-fabeto, deve sempre rimanere un ideogramma dai significati multipli”. E si veda poi, in anticipata risposta alle insinuazioni di uno Zolla e dei vari detrattori del linguaggio filmico, come Ėjzenštejn concepisca la funzione della carrozzina sulla scalinata di Odessa (“Potëmkin” ): “… progressivo acceleratore dei piedi cosacchi che avanzano, per cui la discesa dei piedi si trasforma in una discesa di ruote” : tutt’altro che un espediente di bassa manovra melodrammatica. A proposito del film stalinista, cioè teologico, dall’ottimismo natalizio e senza conflitti interiori ed esterni: “Ben imbottite come sono di banali ci-tazioni, le nostre opere fanno pensare al filo spinato di un’aspra verità coperto di percalle: e ci meravigliamo che il sangue non circoli attraverso il filo e che il percalle non palpiti di vita”. Ed è sintomatico che mentre un Lebedev cita numerose volte Stalin e mai Engels, Ėjzenštejn fa esattamente il contrario. Nè sembra meno interessante l’analisi che, prendendo spunto dalla sceneggiatura del mai compiuto “Una tragedia americana” , Ėjzenštejn conduce nei riguardi del “monologo interiore” : “solo nel film esso trova la sua completa espressione, perchè solo,il sonoro è in grado di ricostruire tutte le fasi e gli elementi specifici del corso del pensiero… attraverso il sincronizzato o il non sincronizzato… con immagini sonore, con suoni obiettivamente rappresentati… poi di colpo con parole formulate in mo-do chiaramente intellettuale, con uno schermo nero, una precipitosa visività priva d’immagini, poi legata a suoni polifonici, poi a immagini polifoniche, poi contemporaneamente ad entrambe”.

E per la semantica, anche se la questione è appena sfiorata: “In quanto eredi letterarii, ci serviamo spesso delle immagini e del linguaggio culturale delle epoche precedenti. Questo determina naturalmente gran parte dell’atmosfera delle nostre opere”. E quanti altri squarci di luce non sono visibili in queste pagine: osserva-zioni essenziali, pensieri correlati in un ordito dalle vastissime implican-49 ze: “la mitologia non è che il complesso della conoscenza corrente dei fenomeni, ad un determinato stadio…” ; “non attribuiamo alla fisiogno-nomia (del Lavater) nessun valore scientifico obiettivo, ma non appena, nel corso della rappresentazione completa di un personaggio che incarna un certo tipo, cerchiamo le caratteristiche esterne di un volto, immediatamente ci mettiamo ad usare le fisionomie, esattamente come faceva Lavater” . E altrove: “Le immagini della “foresta scura” e la tecnica del ’ cercatore di piste”, tratte dalle opere di J. F. Cooper, servono a grandi romanzieri come Balzac, Hugo e Sue come una specie di metafora ini-ziale per il loro intrico di costruzioni d’ avventure e di scoperte nel labirinto di Parigi”. Riguardo poi alla “transustanziazione” dell’attore-io nel lui-personaggio, viene delineata “una dialettica degli opposti che si penetrano a vicenda, simultaneità dell’io e del non-io nella creazione ed esecuzione di una parte”. Profonde indagini si ricapitolano quindi in queste idee che affiorano sul confluire di teoria e di pratica; e sono appena pochi stralci qui di un volume che riconferma, pagina per pagina, rigo per rigo, la validità e l’altezza creativa di quella che è forse la maggiore personalità che il cinema abbia avuto. In ogni cellula di quest’opera che giunge finalmente al lettore italiano sono presenti i succhi e i fermenti di un testamento spirituale: un retaggio, un’anticipazione e uno sprone per quanti vogliono che il film soprav-viva al riflusso di banalità, di mercificazione e di meretricio che lo assale da ogni lato, cancellandone la funzione storica oltre che estetica. Napoli – 1967 50

Analisi semantica di due sequenze dell’“Aleksandr Nevskij” I.Sequenza del “Lago Plestceevo” La presentazione del protagonista in “Aleksandr Nevskij” di Ėjzenštejn, segue tutto un ritmo di progressioni concentriche: fin dai primi elementi della sequenza de “il lago Plestceevo” , l’orizzontalità dell’inquadratura, punteggiata dai pescatori bianchi in lontananza (campo lunghissi-mo), gli strati che sfumano in chiarore verso l’alto, danno una sensazione complessiva di serenità, che viene a raddoppiarci per l’implicito confronto che si pone con le immagini precedenti dei resti umani dopo le grandi stragi avvenute ad opera dei mongoli, sul territorio russo.

La struttura cadenzata, suggerita dal muoversi lentissimo dei lontani pescatori, induce all’attesa della nuova inquadratura che porterà in sé, un più manifesto contenuto simbolico, prefigurante i temi dell’intero film: è sintomatico - anzi - come questa sequenza sia quasi un prologo - per via d’immagini - al discorso epico integrale che Ėjzenštejn farà nel corso dell’opera completa. Ecco, allora, apparire a dosso del lago Plestceevo, due immagini che contrastano per schema, colore, altezza: 1) la prima è nel triangolo che si ottiene dalla diagonale destra e comprende gli scheletri imponenti di due imbarcazioni (il rostro a becco di uccello rapace; 2) la seconda è quella che è inscritta nel triangolo dato dalla diagonale sinistra ed è una bassa collina sfumata di grigioperla che sembra opporsi con calma all’aggressività scomposta delle due imbarcazioni; su di essa troneggia una capanna fatta di tronchi robustissimi. 51

La linea dell’orizzonte, un pò meno netta che nella precedente inquadratura è marcata da una seconda linea ad essa parallela a cui fa da sfondo un gioco di nuvole, lucenti, non troppo dense ne troppo grigie che na-vigano nel cielo. La diversa accentuazione ritmica interna all’immagine ci fa ora pensare alla premonizione del movimento d’impatto che s’instaura tra i cavalieri teutoni (estranei, rapaci,minacciosi) caratterizzati dal candore gelido dei costumi, delle armature e il contromovimento, calmo, solido, dei difenso-ri del suolo russo. Su questo sfondo si agita il gruppo dei pescatori che porta pesanti tron— chi in fila ordinata e per via di montaggio attrattivo, viene poi data, la fi-52

gura del vecchio dai bianchissimi capelli e dall’ancor più nivea barba che è presso la capanna, prima vista nel contesto delle altre iconi. I ritmi qui sono lineari, con effetti di superfie: il ritmo motorio del vecchio s’innesta con quello più fluido dei pescatori e ne viene un senso di ieraticità, di tradizione, di cose antiche che vanno difese. La struttura cadenzata (il passo umano è la notazione musicale di questa sequenza) è l’unica possibilità di articolazione nel vasto quadro del paesaggio. La variante alla battuta di due tempi visivi (navi rostrate - collina scura; capanna-pescatori; capanna-vecchio) è introdotta con uno stacco (presagito però dallo sguardo del vecchio verso la riva del lago): la dinamica di apparizione è stavolta dall’alto in basso: tagliati vicino al 53

margine inferiore del quadro appaiono i volti e i corpi dei compagni di Aleksandr che pescano; in primo piano, la testa bruna del capo-rete e dietro, più sfocati ma più compresi nello spazio, gli altri giovani pescatori. Il risalto delle figure è rafforzato dal raggruppamento in poco spazio, al bordo dello schermo e il cielo tutto espanso dà un significato di libertà; solo due brevi cumuli tratteggiano la parte superiore e solo in prosieguo di tempo il simbolismo di questo gruppo sarà evidenziato con maggior spirito di dettaglio. La modificazione interna alla sequenza è causata qui per ritorno all’immagine precedente (la capanna) che viene stagliata in tutto il suo complesso geometrismo: una specie di ottagono possente con in cima una pi-ramide, quasi un bruno elmo impenetrabile, difensore di un volto inattac-cabile (sarà l’antecedente figurativo della celata che coprirà il volto di Nevskij nelle fasi culminanti della battaglia). Gli elementi di richiamo sono sempre presenti fra il lago, l’elemento umano e la capanna, simile ad una fortezza di annosi, asciutti tronchi. Il primo momento iconico è quello verticale (la capanna); il secondo è orizzontale (il lago) il terzo è il giuoco dinamico misto verticale-orizzontale dei corpi umani. La polifonia qui è data dalla variabilità della luce (manovrata dai filtri dell’obbiettivo) e dall’andatura particolare dei grigi ora in progressione ora in regresso, nella loro intercambiabilità tra inquadratura e inquadratura. Lo sviluppo spazio-temporale del movimento (finora ristretto a poche dislocazioni di figure) viene introdotto da Ėjzenštejn col ritmico battere 54

sui tronchi da parte degli uomini vicini alla capanna. La combinazione motorio-spaziale è resa in modo tale da non sovrapporsi ai significati precedenti delle immagini: per questo pur volendo inserire i simboli dell’energia, della capacità reattiva e del vigore guerriero, il regista lo pone negli angoli dell’inquadratura quasi, a sottenderli ai temi della pace, del lavoro sereno che solo se minacciato darà risposte di violenza e di forza. Finora si ha, quindi, un rapporto organico di piena fusione tra gli elementi leggibili: da quelli di pura forma, a quelli di movimento a quelli iconologici e simbolici veri e proprii. Ėjzenštejn, con geniale insinuazione, avvia il discorso in sordina, giuo-cando sulla facoltà mnemonica dello spettatore, sull’esperienza culturale che produce associazioni lì dove i nessi sono appena percepibili. Il suo modo di far coincidere il reale e l’astratto, il naturale e l’umano in un complesso figurativo che è chiaramente manovrato (non manipolato) dà la riprova della sua puntigliosa abilità. Anche le immagini che sembrano di mero raccordo tra capanna, lago e pescatori, hanno un loro interno movimento ondulatorio che rispecchia le sistole e diastole tra serenità e oscurità, tra pace e guerra che è questo il vero battito arterioso della sequenza. Il curvilineo si oppone al rettili-neo, il tipico all’atipico (o al generalizzante, com’è degli stereotipi iconici; nuvole etc.), la consonanza all’incongruenza: il metro è quindi quello della dialettica di tensione, dei conflitti interni ed Ėjzenštejn ne è quasi del tutto consapevole come si può ricavare dalle sue annotazioni di lavoro. Verso la conclusione di questa sequenza, l’obbiettivo si sposta di nuovo sul gruppo dei pescatori, ora - non senza ragione - al centro dell’inquadra-55

tura, alcuni in M.P.P. altri in P.M. o Piano Americano, con luce piena di fronte, a taglio obliquo, in modo da riempire tutta la circonferenza inscritta nel rettangolo. L’obbiettivo viene ad evidenziare nello muoversi in-contro allo spettatore e nel graduale amplificarsi degli elementi figurativi, che le reti trasportate sono robuste, ben collegate, simbolo della saggezza di Nevskij che trarrà l’invasore teutone in una ragnatela d’acciaio. L’immediata evocazione degli invasori non è data con letterale e frettolosa citazione diretta,ma facendo apparire altri invasori ormai in fuga dalla terra russa, i mongoli. Le prime inquadrature relative a questa seconda sequenza hanno una straordinaria emotività di natura schiettamente filmica. La maniera in cui sono ripresi, dopo lo stacco, i cavalieri mongoli è un modulo di presentazione per scorcio dinamico di grande effetto: la rappresentazione - po-tremmo dire- è quasi di natura ponderale; i cavalli vengono infatti inqua-drati dall’alto in basso e, in moto curvo, appaiono ingrandendo gradual-mente, sul margine inferiore della fotografia. La dilatazione e compressione dello spazio su cui vengono a gravare, in-trando in scena è quella estremamente ricca imposta dal galoppo, anzi dal tipo particolare di galoppo. Ma anche la posizione verticale delle lance, contribuisce al procedimento più costruttivo che descrittivo, tipico di un episodio fortemente caratterizzato. L’apparizione della carrozza-baldacchino ha una sua impellente motiva-zione interna: la contrapposizione simbolica di questo trabiccolo frivolo alla rude robustezza della capanna dei

pescatori russi, vista nella sequenza prima analizzata. 56

La tracotanza di questi invasori, la loro sfrenatezza è connotata ampiamente (ma senza sensazionalismo spettacolare, com’è dei film “colossali” ) dal volto del mongolo che, armato di scimitarra, ordina al vecchio della capanna e poi ai due giovani biondi pescatori di inchinarsi al passaggio del capo. Qui siamo di fronte al consueto modulo narrativo cinematografico ed è per questo che le inquadrature seguono alle inquadrature con un ritmo di notevole accelerazione; ma l’intervento di questo nuovo modulo non è correttivo, solo integrativo ai fini della necessaria coscienza del mezzo tecnico a disposizione, si ha (con) un doppio uso dei segni nel loro contesto dinamico interno all’immagine e nel loro connettersi con movimenti interno ed esterno di montaggio. 57

Tutto il breve episodio intorno alla capanna è essenzialmente descrittivo eppure nella ribellione orgogliosa dei russi e nella mischia che si ac-cende si può ritrovare un valore di indice e di tematizzazione anticipata dei grandi eventi che saranno al centro della storia narrata da Ėjzenštejn. Si riconferma così la tessitura organica (non metamerica) di tutto il “Nevskij” in cui ogni fatto, ogni rappresentazione, è richiamato dall’altro fatto, e dal contesto intero, in modo che la vicenda proceda concentrica-mente verso il suo significato globale e si componga di tante parti non staccate ma correlate via di allusioni interne, che solo ad un’analisi appro-fondita risultano con piena evidenza, sebbene nella visione sintetica se ne avverta sempre il sussistere. 58 Le sequenze, per Ėjzenštejn, sono orbite in cui si muovono i segni, le iconi e i simboli: esse quindi si muovono in quanto si muove il tutto e, senza rigidità di articolazione, senza difficoltà di trapassi e di rispondenze. Quelli che possono apparire sbalzi sono intermediazioni, quelle che sembrano antitesi sono continui rimandi ad una volontà compositiva più grande che le assorbe e le amalgama in un significato più ampio. La nota, la battuta, il ritmo sono tutte elaborate in una partitura visuale che annulla l’eterogeneità di partenza: il film è una struttura divisa in più parti non è un aggregato di tante cose diverse e l’agglutinarsi delle componenti avviene quasi per fenomeno naturale, com’è dell’arte quando si libera dall’artificio e trova la sua coerenza senza lacune e senza sma-gliature. 59

II. Sequenza della “Messa al campo teutone” (prima dell’imboscata alla pattuglia mandata in avanscoperta da Nevskij) Qui, nella “sinfonia in bianco maggiore” , può e anzi deve farsi riferimento a quanto annotato dallo stesso Ėjzenštejn a proposito dell’uso rife-ritivo del colore: “Mentre nella “Linea Generale” il nero era associato a tutto ciò che rappresentava reazione, anacronismo o criminalità e il bianco era il colore in cui si incarnava la felicità, la vita e le forme nuove di organiz-zazione, nel “Nevskij” al contrario - i mantelli bianchi dei cavalieri sono associati ai temi della crudeltà, dell’oppressione e della morte. E il colore bruno, attribuito ai combattenti russi, incarna i temi positivi dell’eroismo e della difesa della patria.” “Ciò - chiosa acutamente lo stesso Ėjzenštejn - vuol dire che non si obbedisce ad una legge onnipotente delle si-gnificazioni in assoluto, quanto alle corrispondenze più varie nell’ambito del contesto…” Esiste, comunque, secondo noi, un sistema aperto per rintracciare questa impostazione riferitiva: dato che tutta l’azione del film ha luogo in pieno inverno, la costante di evocazione più vicina al bianco è il ghiaccio, e quest’elemento non può - nel contesto suddetto - non rimandare che ad impressioni negative: morsa del freddo, desolazione, rigidità, (si potrebbe qui ricordare la pagina di Frazer, ne “Il ramo d’oro” a proposito delle ceri-monie folkloriche russe in cui il nome di Marena indica Inverno e Morte e richiama in fatto il concetto di battaglia fra Inverno e Primavera). 60

I cavalieri teutoni, per la loro caratterizzazione cromatica, aderiscono quindi alla tipizzazione di una natura matrigna, gelida, che aggredisce anch’essa periodicamente la terra russa e cerca di sopraffarla. Il monaco nero che è tra loro, rappresentando l’eccezione, intensifica - per contrasto - il loro biancore e viene a sottolineare con ancor maggiore energia il messaggio negativo di questo biancore. Inoltre, gli aggruppamenti dei teutoni sono sempre visti in configura-zione geometrica da parte del regista; ciò per opporre il rigore, la determi-natezza astratta al flusso disordinato ma vitale che caratterizza l’apparizione e il movimento delle masse russe. Si può verificare l’implicazione simbolica di questo geometrismo anche all’inizio della sequenza della “messa al campo”, prima dell’imboscata al-la pattuglia mandata in avanscoperta da Nevskij. L’inquadratura cui ci riferiamo è quella in CLL del vescovo che, in stola e mitria si volge a benedire le file dei cavalieri dopo che questi hanno po-sato a terra le lance. Alle spalle dell’officiante c’è il cuspide della scena, cioè la tenda triangolare con sopra gli scudi crociati; altre croci rispondono a queste dai margini dell’inquadratura, tenute in mano da chierici incappucciati, e per congruenza simmetrica anche l’organo manovrato dal monaco nero – è di struttura triangolare. Gli angoli acuti di cui è gremita l’inquadratura costi-tuiscano, in ridondanza, il concetto di aggressività che pone il conflitto col contenuto proprio da un punto di vista ideologico: la messa al campo in cui vibra un’attesa come di massacro, di aspra violenza. 61

Viene già abbozzato, fin da questa scena, l’intimo amalgama tra individuo e struttura figurativa: il primo cui è affidata la traccia del movimento e la misura del ritmo, la seconda cui è deferita la

funzione correlativa e contestuale. L’arsi dell’inquadratura è tutta sul lato sinistro, al centro della tenda altare da campo: poi cala con tutto il suo peso verso la parte inferiore con la punteggiatura scura delle teste dei cavalieri e con la siepe delle piccole croci che ombreggiano appena i loro bianchi mantelli per risalire perfine perpendicolarmente versò la figura a funzione di contrasto, cioè il monaco che suona l’organo. 62

Tutte aree espressive a carattere non ripetitivo e di tipo dinamico, dato che esse prestabiliscono il movimento nell’ambito del riquadro. Per via di stacco, il regista mette a fuoco poi un particolare che sottin-tende il nucleo evolutivo della scena (il clima, infatti, psicologicamente inerte, palpita solo per empatia con lo spettatore). Ed il particolare è - stavolta - una sorta di paliotto di altare da messa ne-ra e tetra, la figura del traditore che avverte con un colpo sul braccio il suo complice che la pattuglia russa è stata avvistata ed è già in buona parte nei lacci della trappola. Sullo sfondo, dietro i due traditori seminginocchiati c’è la parte sinistra della tenda con alcune figure di frati teutoni salmodianti,col rosario fra le dite adunche. La sbieca verticalità dell’immagine, l’articolazione a tutto pieno del foto-gramma danno il senso dell’oppressione, dell’inganno e della subdola ma-lignità e risolvono lo schema di significato della più ampia inquadratura della “Messa al campo” . La maniera ponderale di rappresentare questi personaggi laterali viene a dare la chiave d’interpretazione dell’intera sequenza. I costumi complicati, le tessiture delle maglie, delle cotte, il giuoco fra le mani dei grani di finta devozione, di perfidia ipocrita non fermano il tipo di informazione che Ėjzenštejn vuole comunicare allo spettatore. L’ispessimento del campo figurativo rispetto alla diradazione precedente, dà anch’esso una spia all’intendimento delle relazioni connotative tra quadro e quadro. 63

La composizione dell’inquadratura che segue, col volto mascherato di uno dei traditori che nasconde i suoi lineamenti bovini sotto la cotta e l’atteggiarsi pantomimico dell’informatore-spia sono accostamenti e sovrapposizioni parziali di figure che si sviluppano il movimento all’interno e lo giustificano all’esterno, producendo effetti dinamici per la disposizione, per il ritmo strutturale e per passaggi da chiaro a scuro e vice-versa. La costruzione della sequenza – come è spesso per Ėjzenštejn - non avviene per addizione ma per produzione dall’interno dei particolari: così si comprende la ragione del passaggio al primo piano ravvicinato dei due volti (e qui potrebbe innestarsi il discorso, già fatto, sulla scelta delle fisionomie che nelle opere del regista russo, è un segnale della sua capacità di realizzare la soluzione dei problemi espressivi). Ci intratteremmo, invece, ad evidenziare la forza d’attrazione simile ad un campo magnetico, fra la tensione fisionomica dei due volti, l’alternan-za delle espressioni degli occhi, e la consueta bravura del regista di dare torsione dinamica e insieme condizione di equilibrio figurativo alle teste, divenute corrugamenti orografici, dove i lineamenti sono indotti a prendere le risorse non dal singolo elemento ma dalla tensione dialettica che risulta importata per decisione del regista. La funzione del film è soprattutto il modo di comunicare all’occhio la costruzione temporale del movimento, e non nel senso di effetto o di sor-presa ma di svolgimento e di evoluzione analitica. L’incentivo all’acutizzazione della facoltà percettiva è dato da Ėjzenštejn in più modi: col togliere uno dei due personaggi dal campo visivo, come 64

accade nell’inquadratura immediatamente successiva di quella di cui abbiamo parlato, con un’antitesi formale di situazione minima, ad esempio il sollevamento del capo rovesciato: da una posizione di finta umiltà a quello di deliberata violenza, con un senso interno del collegamento di una immagine all’altra (e di vera e propria connessione dialettica si tratta qui), con un ritorno di ricapitolazione alla scena di partenza (la “Messa al campo” ) e recupera tutto la serie delle impressioni ricevute durante l’av-vicendamento dei particolari e si son mossi nel suo ambito. Tutto ciò, nel senso che i dettagli non assumono a posteriori un’impor-tanza decrescente ma, al contrario la ravvivano, e diventano in un secondo momento i propulsori di tutto il dinamismo narrativo. 65

Il ritorno al bianco polifonicamente incorniciato dei pochi elementi chiaroscurali che con illuminazione quindi per via di trasparenze, ricon-fermano il carattere di centro espressivo alla scena della Messa: la levata in piedi dei cavalieri teutoni porta per corrispettivo lo spostamento in un’altra figura che appare – appunto - in primo piano (e per evidente con-trocampo): il comandante della spedizione. Lo schema drammatico si ripropone con i suoi valori concentrici: ogni volta il movimento, nella sequenza comporta una dislocazione dell’obiettivo verso il raggio dal quale partirà il nuovo movimento, alla mediazione tra centro di gravità e forze centrifughe. Già la figura esterna - (MPP) - del comandante teutone - suggerisce l’azione che verrà fra un momento: il gesto del braccio, la posizione dell’el-mo quasi in sospensione sull’altro avambraccio,

che dà un senso di equilibrio che sta per spezzarsi e di instabilità che deve precedere il moto vero e proprio. La tensione dinamica è evidentemente al suo climax: le linee irregolare presenti nel cerchio sottinteso danno via libera all’inquadratura seguente che è di secco scatto: gli elmi a tronco di cono che ritornano sincronica-mente sui capi dei teutoni, con la battuta di attesa spasmodica (non più di due secondi), primo che compaia la selva delle lance e dei gagliardetti. Questi elementi ultimi sono ripresentati di continuo nell’opera di Ėjzenštejn perché danno un senso di durata e di direzione alla forza degli uomini, quasi ne prolunghino la limitata portata dei corpi e ne preannunciano gli scopi, il bersaglio: è un meccanismo di amplificazione dei significati. I lievi triangoli di stoffa che sono legati alle lance raddoppiano, rispetto alle 66

linee oblique, il senso di sfida, di penetrazione aggressiva (per questa, in contrappunto, i russi verranno più spesso ripresi in cerchi, semicerchi che comportano l’idea di difesa). Tali simboli sono correlati a tutti quelli che restano evidenziati nei ci-mieri dei comandanti teutoni, zampe d’aquila (emblemi di dominio e dall’autorità indiscussa), mano levata (regno di pretesa), corno di toro (regno di forza indomabile) ecc. Ma c’è di più, nell’affilato volteggiare delle lance si riscontra più rimar-cata l’annunzio di una vegetazione viva e vitale che è sottostante per cru-do compenso, da questo rigoglio fitto di armi. 67

L’inquadratura successiva è il raccordo ideologico che ribadisce il senso deviato del religioso che guida questi uomini rapaci e devastatori: ed è la frettolosa benedizione che taglia a metà la messa al campo, dato che l’ag-guato alla pattuglia russa ha senz’altro il sopravvento su ogni altro pensiero, su ogni altra meditazione. E senza frapporre indugi la selva ferrosa di armati si precipita verso destra in una moltiplicata intrecciarsi di simboli di guerra. La traiettoria vera della sequenza è ormai enucleata, sfondata da tutte le falde e gli orpelli figurativi: il concentrarsi verso destra di tutti gli armati dà il senso di oppressione e di carneficina imminente; quasi l’offuscarsi in una aria immonda di nugolo di feroci insetti che fanno corpo unico e sono senza vita perché senza individualità, segmenti che si alimentano dell’al-trui presenza e trovano nella ferocia collettiva l’unica estrinsecazione della propria vitalità. Ciò nonostante, l’accorrere, l’attruparsi non ha del tumultuoso: domina sempre il geometrismo e la nota dominante resta la tenda a cuspide triangolare dove il vescovo ancora esegue gesti ritmati di consacrazione. Però è evidente che alla tendenza concentrica il regista ha ormai sostituito quella eccentrica, la tendenza direzionale corre al di fuori del inquadratura che ha preceduto allo sviluppo della sequenza analizzata, indica che un nuovo episodio che vicino e non concerne più solo i teutoni. Sullo sfondo dell’altare, le figure sono sempre meno numerose e più pallidi, più abbagliate: i capi e la supremazia informe della luce biancas-tra, livida, ghiacciata premonizza sullo sviluppo dei fatti. 68

Appaiono non più volti obliqui, e ambigui ma solo gli elmi con gli emblemi di cui si è detto e in alto le quadrate e rettangolari bandiere anch’es-se rigide, congelate che ripetono l’araldica bestiale dei cimili. I piani sopraelevati, i triangoli col angoli slargati che puntano verso l’al-to, accentuano il carattere della rappresentazione ideologica, la riparti-zione delle linee e dei volumi dà al contenuto una particolare energia communicativa ed un particolare chiarezza di significati. Napoli 1967 69

LA TERRA NEL CINEMA SOVIETICO 70 “Che cosa significa penetrare nella profondità della vita ? Significa saper estrarre dalla vita tutte quelle cose che, comunicate attraverso i complessi ritmi del cinema, renderanno la vita più comprensibile, più ricca di significato di quanto non sia nella solita, affrettata esperienza quotidiana dello spettatore. Il vero artista non si limita a riprodurre la vita, si sforza di rifletterne le leggi, di indicare il corso del suo sviluppo, esattamente come i filosofi, gli scienziati e i politici”. 3 Così Grigorij Rošal’ nella sua acuta analisi dei primi anni del cinema sovietico che si riassumono, per fortunosa, eccezionale sintesi, nei nomi di Ėjzenštejn, Pudovkin, Dovženko. E proprio nei riguardi di Ėjzenštejn, Rošal’ commenta: “I film di Ėjzenštejn, magnifici nella loro semplicità e nella loro forza, pieni di fuoco, del vitale fuoco dell’arte, scoppiarono come una bomba in un mondo senz’aria… Ėjzenštejn aveva cacciato dal cinema tutte le opprimenti banalità, tutte le passioni di poco prezzo, tutte le fantasie mondane”. 4 Gli apprezzamenti di Rošal’ che sono diretti, nel caso particolare, al “Po-tëmkin” , ci sembra che possano essere trasportati senza minimizzazioni di sorta, nei riguardi de “La linea generale” o “Il vecchio e il nuovo” [pp.76,77] (titolo preferito da Ėjzenštejn e che ben svela la dialettica storica insita nell’opera). La struttura del film è compatta, ideologicamente seria, quanto mai lontana da un realismo di carattere empirico o da una sociologia di tipo “volgare” , o schematica o settaria. Ėjzenštejn realizza, per la seconda volta, appena quattro anni dopo il “Potëmkin” quel “cinema intellettuale” di cui così parla nelle sue “Memorie” : “…si può creare dunque un cinema di questo tipo, un cinema che induca l’astrazione della tesi a sbocciare immediatamente sul piano emotivo”. 5 Del resto l’opera di Ėjzenštejn, non solo è quella che più fedelmente si trova sulla linea dì sviluppo culturale del problema, sulle tracce di nomi che vanno da Tolstoj a Turgenev, da Gogol a Gor’kij, ma è anche quella che maggiormente si avvicina alle parole che Lenin stesso aveva pronun-ciate nel 1922: “La trasformazione della psicologia e delle abitudini dei contadini ri-chiederà generazioni. Servirsi della forza non varrà a nulla. Il compito che dobbiamo imporci è quello di svolgere opera di convincimento morale presso i contadini. Dobbiamo scegliere a punto di riferimento il contadino medio. Il contadino “abile” deve costituire la figura centrale della nostra ripresa economica”. 6 71 Il contrasto tra il vecchio e il nuovo nella terra russa non è, infatti, uno stacco operato semplicisticamente da parte di Ėjzenštejn: c’è in esso il senso più profondo della storia che non è solo movimento al vertice ma espansione del progresso in tutti gli strati e influenza reciproca fra essi, nonostante i loro differenti gradi di maturazione. Partecipazione intima alla vita rituale eppure mossa ormai in avanti del contadino russo per cui ogni passaggio evolutivo ha curve che prevalgono ma non eliminano del tutto quelle di regresso. La scelta dei tipi si rivela già come la più esatta impostazione di un problema espressivo: così le sequenze della processione, della monta del to-ro, dell’aratro trascinato a forza di braccia dai due vecchi e quella, assai più nota, della scrematrice meccanica sono sempre fusioni compiute di valori emotivi e di valori intellettuali.

Quei volti non sono affatto volti di “uomini-maschere” , come li classi-fica il Lebedev, ma sono i tratti sofferti di persone vive, con dentro una storia antica che non rifiuta per questo un avvenire; la loro forza di impatto è quella di un realismo essenziale, arricchito da simboli ben incar-nati nell’immagine (tanto che questi simboli possono ricavarsi solo da un’indagine a posteriori). Ėjzenštejn usa il montaggio non come mezzo formale ma come mezzo di comunicazione linguistica e proprio meditando sulle sue opere Pudovkin arriverà ad asserire che “riguardo al pensiero dialettico, bisogna dire che solo il cinema può forse fornire un quadro integrale ed immediato dell’esistenza, raffigurandola come un processo dialettico di eccezionale complessità”. 7 Non si può, per queste ragioni, accettare la, quanto meno, strana analisi che del film stesso fa il Lebedev, il quale dopo aver ammesso un sostrato di autentici valori culturali capovolge il suo giudizio e passa a conclusioni inconcludenti: “…tuttavia il film, nel suo insieme, deludeva lo spettatore. Anzitutto appariva tematicamente invecchiato (!)… i particolari nascon-devano e distruggevano l’insieme…”. 8 Del resto, impacciato da preclusioni nazionalistiche il Lebedev sa portare a convalida della sua contraddittoria stroncatura solo i giudizi di tre cronisti sovietici probabilmente tesi a conformarsi al sovrano disgusto di Stalin, secondo il quale, come riferisce il Lebedev stesso, Ėjzenštejn non avrebbe compreso niente nè della Russia nè dei contadini russi. Non si riesce veramente, nemmeno con tutta la cattiva predisposizione possibile a notare, come fanno i tre, sproporzioni continue nell’uso del “montaggio delle attrazioni” : i fuochi di artifìcio (nella sequenza del 72 toro), gli zampilli luminosi della fontana (in quella della scrematrice) so-no usati con rara fìnezza, con poetica parsimonia, con quella grande capacità che il regista russo ha, di trasmutare i concetti in immagini (e si veda pure l’abbattimento dell’isbà sconquassata a significare l’irreversibile abbattimento delle fradicie istituzioni zariste o quei primi piani giganteschi di timbri e di macchine da scrivere, a rappresentare il pletorico forma-lismo della burocrazia cui, nello stesso anno, Majakovskij dedicava quei suoi splendidi versi pieni di costruttivo sarcasmo: “Io come un lupo - divorerei tutto il burocratismo. - Per i mandati - non ho alcun rispetto. Vadano al diavolo - con le madri a tutti i diavoli - tutte le carte…”. 9 La disperata ironia che traluce dall’autocritica di Ėjzenštejn è la riprova che egli andava orgoglioso di tutte le sue cose e perciò si pentirà di “tutte le sue cose” , aggiungendo perfino: “solo il Potëmkin mi pare faccia eccezione…” e riducendosi a cenere dirà: “nelle mie opere la generalizzazione distrugge l’individuo e mi ha portato al distacco, all’astrattezza…”. 10 Ma nei fatti, nelle opere egli continuava imperturbato secondo il suo giusto cammino. Sembra poi strano che, accanendosi contro Ėjzenštejn, i suoi oppositori non avvertissero che Dovženko, ne “La terra” [pp.78,79] avesse seguito, pur caricandola di un romanticismo liricamente rivoluzionario, la traccia stilistica e ideologica di Ėjzenštejn; per quanto non mancassero i detrattori e qualcuno parlò addirittura di “naturalismo” . Se Ėjzenštejn ha dalla sua una più provata e riprovata cultura, una in-tuizione più incisiva, c’è in Dovženko più umana commozione, più abbandono emotivo ad un tema direi “materno” della terra, di cui egli ascolta il respiro sensuale eppure casto, il pulsare rigoglioso esuberante eppure tenero. Se per illustrare il momento di crisi acuta nelle campagne, Dovženko è portato a separare buoni e cattivi, kulaki oppressori e contadini liberatori, non si può dire che perciò eluda le diffìcili trasmissioni tra vecchio e nuovo, quelle per cui anche nel nuovo restano frammenti di vecchio, come in questo c’erano semi del nuovo. Come aveva visto anche Gor’kij, nel suo saggio del 1922 “Il contadino russo nella rivoluzione d’ottobre” il mugik se non aveva più mille superstizioni ed una idea, aveva poche buone idee e non poche superstizioni. Anche il linguaggio simbolico di Ėjzenštejn, tutto teso alla sineddoche, ha fatto lezione ma di personale nel regista ucraino, legato a certa poesia di Gogol ( “Le veglie alla fattoria di Dikanka” ) e di Ševčenko, c’è una visione corposa della vita dei campi, turgida di luce, di frutti su cui gronda 73

una pioggia gioiosa e per cui, come ben dice Rošal’, “neanche la morte, la comune morte dell’uomo può oscurare la radiosa felicità di una vita completa”. 11 Ancora più caratteristico della personalità di Dovženko è, ripetiamo, quello che Fadeev volle chiamare “romanticismo rivoluzionario” , quella capacità che, nelle parole del regista stesso, consiste nel “cercare di strap-pare l’uomo alla miniera di carbone, opponendo alla teologia cittadina un rito paesano di candida sensualità”. 12 A confronto dei due precedenti autori, la figura di Julij Rajzman si col-loca in secondo piano; lo stesso Rošal’ ne tralascia il nome e il Lebedev ne cita opere e dati quasi “en passant” . E’ la sorte di un eclettico: Rajzman è passato con troppa faciltà da una esperienza espressionista (quale assistente di Protazanov) ad una docu-mentarista (qual’è nei suoi momenti migliori “La terra ha sete” ) ad un direttore di commedie ottimiste e brillanti ( “Un treno va ad Oriente” ) [p.80] e ad una, infine, di facitore di western patetici e costruttivi ( “Il cavaliere della stella d’oro” ) [p.80]. Rispetto al problema della terra, egli prende atteggiamenti pedagogici e estremamente fiduciosi anche se da questa fiducia vengono fuori spesso sequenze di notevole interesse; ma esagera chiaramente nel cucire personaggi positivi con una tendenza che è venuto ribadendo anche in anni più recenti e in scritti teorici; sostenendo, ad es. che: “quando lo spettatore mette se stesso al posto del personaggio, partecipa alla sua vita e lo cor-regge, gli autori del film possono dire con sicurezza di aver creato l’im-74 magine di un uomo effettivamente vivo, che incarni le caratteristiche di molti uomini del nostro paese”. 13 E invece, proprio quando (ne “La terra ha sete” ) la storia cerca di diri-gersi (o viene manovrata dall’esterno) verso la costruzione dei caratteri, il film perde il vigore che aveva nelle precedenti descrizioni in cui il docu-mento acquistava profondità grazie ad un poetico discernimento

d’immagini: le zolle travolte, incrinate da un’arida pena, il grande ventoso deser-to del Turkestan o la finale sinfonia dell’acqua che prorompe spumante, turbinosa, violentemente viva: tutte fasi che indicano l’assimilazione pre-stigiosa della tecnica del “cine-occhio” amalgamata ad una rapida sensibilità di cronista. Ma deriva da ciò che le code del discorso finale siano fastidiosamente superflue e banalmente incitatrici. La visione realistica di un problema, e perciò anche quello della terra, non può esimersi dalla visione simultanea del problema umano: altri-menti si corre il rischio di congelare l’opera in un teorema, tanto più insi-gnificante quanto più mescolato ad un discorso per immagini. Doveva essere proprio Dovženko a dire, infatti, nel suo intervento al II Congresso degli autori sovietici: “Perchè abbiamo smarrito il tema essenziale? Perchè il nostro cinema si è ridotto negli ultimi anni alle proporzioni della balzacchiana pelle di zigrino ? Il mestiere di sceneggiatore si è impoverito. L’aspirazione agli elementi figurativi, alla ricerca di forme nuove alla innovazione, esigenza prima della fantasia umana, si è smar-rita; è svanita la passione… la drammaticità, la poesia, la passione hanno ceduto il posto allo spirito di subordinazione”. 14 Oggi, intanto, con i Čuchraj, con i Kalatazov, con i Bondarčuk, dopo cioè i chiarimenti, le confessioni, lo snebbiamento di un clima rigidamente conformista, sembra che anche il cinema sovietico entri nelle premesse di un autentico disgelo, pronto a superare “il primo giorno della creazione” . Avremo, allora, per mezzo di uno sguardo di “aquila tenera” di un nuovo Ėjzenštejn, un altro poema sulla terra russa nuova ma dal cuore antico ? Napoli, 1965 75

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TRA GELO E DISGELO 81 Note sul cinema sovietico tra il ’30 e il ’60 Nell’agosto del 1934, un breve discorso di Ždanov, al congresso dell’unione degli scrittori sovietici, fissa i criteri del “realismo socialista” . Mentre Radek, Gor’kij, Bucharin, Babel’, Oleša parlano della letteratura mondiale, delle linee di evoluzione delle diverse poetiche in atto e Fadeev li vede “uniti della virile, ferrea, gaia amicizia degli eroi epici” , rendono quasi in sordina installati i rigidi binarii di un sistema, sui quali accadranno non pochi infortunii umani, blocchi ideologici, ritardi creativi. Viene, infatti esaltata da Ždanov la “tendenziosità bolscevica” , l’unica che permette di produrre “opere che rispondano alle esigenze delle masse, la cui cultura si sta progredendo” .15 Nel settore cinematografico sorge il “Comitato per gli affari artistici” la cui “attività di controllo e di direzione deve avere inizio fin dalla prepa-razione dalla sceneggiatura, per sterminare con la comparsa del film sui nostri schermi. Solo così eviteremmo l’eliminazione di un gran numero di pellicole già pronte, come avviene oggi.” 16 Nel suo indirizzo del 1936, lo stesso Stalin ricorda ai lavoratori del cinema che “il potere sovietico attende… nuovi successi, nuovi film che, co-me “Čapaev”, non rifiuteranno la grandezza delle geste storiche compiute dagli operai e dei contadini dell’Urss nella lotta per il potere”. 17 L’ingenuità di chi ha salutato nello scioglimento della RAPP l’eman-cipazione dagli infantilismi dell’arte su ordinazione viene in luce aperta: si tratta dei controlli da parte degli organismi degli autori che vengono sempre più rimpiazzati con funzionari e burocrati. E il secondo stadio dell’attacco alla concessione pluralistica della ricerca e della creatività poetica, teatrale, filmica. Dopo la liquidazione delle esperienze del “Lef” (Majakovskij et alii) dal FEKS (la cosiddetta “Fabbrica dell’attore eccentrico” , dirette da Trauberg e Kozincev), si viene preparando lo smantellamento delle ultime posizione di autonomia espressiva. Si avanza a gran passi proprio quella censura, temuta da Engels come massima alienazione dell’operare estetico: “essa non solo abolisce i conflitti ma li rende unilaterale, trasforma i conflitti di principii in conflitti tra il principio privo di potere e il potere senza principi. Il peggiore dei vizi, l’ipocrisia, e da ciò è inseparabile e da qui il vizio della passività; il governo ascolta soltanto la propria voce, e ingannevolmente pretende che sia questa la voce del popolo e ancora chiede che la gente sottoscriva l’inganno. Da parte sua il popolo cade nella superstizione e nello scetticismo politico, ho volta del tutto le spalle 82 ai problemi dello Stato, si trasforma in una folla di individui gli eventi la propria vita privata. ” 18 E di censura si tratta in tutti quegli interventi, in quelle pressioni o co-artazioni dirette o indirette, in quei consigli personali che si moltiplicano in quel periodo, sfumano sotto i sorrisi, le grinte minacciose, suasive, irri-tate verso registi, critici, documentaristi. In un articolo apparso sulle “Isvestia” , dal 5 novembre 1936, il cui titolo riferito a Iosif Vissarionovič, è quello illuminante di “Il maestro e l’amico degli artisti” , Dovženko racconta una sua emblematica convoca-zione al Cremlino, dove Stalin lo ammonisce a lungo e severamente sul protagonista di un film in corso di lavorazione.

Con una svolta ad angolo retto, Kozincev e Trauberg dagli sperimen-talismi linguistici e dal laboratorio dell’avanguardia sboccano in temi edi-ficanti quali quelli di “Odna” (1932), dedicato all’entusiasmo pedagogico di una maestrina sperduta nelle più remote plaghe siberiane. L’unico frutto interessante delle nuove direttive è “Čapaev” [p.94] di Sergej e Georgij Vasil’ev, trasposizione per immagini di un romanzo di Furmanov. Si tratta, come annota acutamente Jay Leyda, della “storia dell’individualistico comandante dell’Armata rossa, scritta da un uomo che era stato accanto a lui in veste di commissario politico.” 19 Già ai primi accordi della sceneggiatura, aumenta l’effetto di monumentalità “Čapaev, da altissima statura, montato su un cavallo colossale - ripreso dal basso -, produce un effetto grandioso…” 20 “Il successo del film che Stalin addita come modello contribuisce in maniera determinante all’affermazione del realismo socialista come unico metodo di creazione artistica. Le ultime associazioni di tendenza vengono sciolte e riassorbite all’insegna della tendenza vittoriosa.” 21 L’opera, ha, in effetti, non poche qualità; lo stile è scarsamente celebra-tivo, la sottolineatura va ai particolari vivaci, agli aneddoti simbolici che sono ben dosati tra un umorismo paesano e un gusto schiettamente popolare. La stessa angolazione dei nemici è fatta con deliberata sagacia e senza alcuna volgarità (rimane famosa la scena che caratterizza il colonnello “bianco” Borozdin, ripreso mentre esegue Beethoven al piano, mentre in sequenza parallela il servitore gli lucida il pavimento al ritmo delle arpeg-giate e scopre, tra le carte sparse dell’ufficiale, la condanna a morte del proprio fratello. Non va taciuto, del resto, che era stato Ėjzenštejn a guidare i primi passi dei Vasil’ev ed era ancora lui a parlare acutamente del film come di “un 83 primo esempio di un terzo periodo nella storia del cinema sovietico, sintesi del film di massa del primo periodo con le storie individualistiche e naturalistiche del secondo periodo” . 22 Come spesso capita, gli epigoni di questi due autori si snatureranno il genere seguendo passivamente la scia, introducendo nei loro “eroi positivi” un numero crescente di tratti schematici, di teoremi con soluzioni prefabbricate, da cui risulta immune il film dei Vasil’ev. Altro tipo di opere filmiche di indubbie interesse sono al di fuori di questi solchi: è il caso della “Trilogia di Massimo” [p.95] di Kozincev e Trauberg, in cui sarà illustrata con perspicuo equilibrio cronistico, la vita di un militante del partito. Assume indubbio rilievo il livello linguistico conno-tativo adoperato dagli autori, la chiara strutturazione degli episodi senza digressioni e lapsus ma tale impresa rivela un tirocinio espressivo che ha riscontro nella media culturale del periodo che viene esaminato. Proprio nelle cinque anni che occorrono a completare la “Trilogia” , si perfeziona il processo di deterioramento del cinema sovietico: l’equivoco dell’eroe si infiltra come un rivolo di schiumeggiante accademismo ingrossandosi finisce col cancellare quasi ogni vestigia di realismo critico e dialettico. Estremamente sintomatici a questo riguardo sono gli scritti di un Lukacs e di un Lifshitz che portano avanti le loro indagini di teoria estetica presso l’istituto Marx-Engels di Mosca. Le preoccupazioni per l’insorgen-za di una retorica manichea, di gusto tardo ottocentesco, traspaiono sempre più chiaramente negli scritti di quel periodo. Nel suo saggio “Narrare e descrivere” , lo studioso marxista dice testual-mente: “Si pensi alla composizione della maggior parte delle nostre ope-re letterarie. Esse concernono per le più un ambiente materiale sul mo-dello naturalistico del romanzo documentario alla Zola…non mettono in primo piano vicende umane, rapporti tra uomini illustrati mediante le cose, ma danno monografie di un kolchoz, di una fabbrica eccetera. Gli uomini costituiscono per le più un accessorio, un materiale illustrativo che l’intera situazione di fatto.” 23 Sono riserve che si possono trasferire al tipo standard dei film della produzione corrente negli anni 1934-1940, da “I contadini” di F.Ermler (1935) a “Gli accaparratori” di A.Medvedkin (1934) ai “Cercatori di felicità” di Korsh-Sablin (1936). Sono anche gli approdi effettuali della feroce critica, ad opera di valore quali quelle di Ėjzenštejn che mostrava come esprimere computamente la dialettica storica insita nelle lotte in atto nella campagna russa, con il loro 84

strascico di sangue, di dolore, di alto dramma umano. Non si ha bisogna di un’ottica speciale per verificare l’abbandono progressivo del cosiddetto “cinema intellettuale” che non era la proposta di un modulo estetizzante, ma “un cinema che induce l’astrazione della tesi a sbocciare immediatamente sul piano emotivo.” Si finisce col negare “la struttura compatta, ideologicamente seria, quanto mai lontana da un realismo di carattere empirico e sociologicamente “volgare”, da ogni tipo di schematismo e settarismo.” 24 La mancanza di un centro di gravità impiantato sull’individuo fatto di carne e ossa, di sentimenti e risentimenti, porta alla pratica nebulizza-zione del personaggio, conduci fino a quella “biografia delle cose, dei trattori, delle centrali elettriche” che non riesce a interessare lo spettatore, lo strania nel senso più letterale della parola, avulsa com’è dalla vera storia possibile che è quella degli umani che lavorano con quelle cose, per quelle cose. Nella produzione media citata, la monotonia risulta connaturata alla descrizione affatto espositiva, enumerativa degli elementi del paesaggio, dei pallidi esangui profili umani che si spostano sullo sfondo mentre si prospettano in primo piano fisionomie di macchine, turbine, trebbiatrici. Al fondo delle vicende, rimane un sedimento di trivialità ideologica, smateriata delle sue contraddizioni, del ritmo cardiaco di sistole e diastole, appare in controluce, sullo schermo, un manichino da manifesto, che blatera slogan e frasi gloriose senza alcuna apparenza di creatura umana. Si comprendono, così, anche se “a contrario” i motivi delle sottile per-secuzioni contro artisti della tempra di un Ėjzenštejn, di un Mejerchol’d, di un Nil’sen. Artefice di queste supreme bassezze e un alto papavero dal nome di Shumiatskij, uno di quelli in cui l’amore per il capo diventa legge dello Stato, un uomo dal complesso del ciclista ( “china la testa e scalcia di sotto” ), che per anni diventa committente e despota, testimone e giudice d’ogni attività cinematografica. In un articolo della “Pravda” del 5 marzo 1937 egli attacca l’autore del “Potëmkin” con queste parole: “Invece d’imparare dall’esperienza della vita, Ėjzenštejn si è fidato troppo della sua profonda erudizione e ha realizzato un film (“Il prato di Bežin”) [p.95] che è tutta un’esercitazione formalistica dannosa.” Quella che gli Shumiatskij cercano non sono delle prospettive di sviluppo, che le analisi dialettiche della situazione sociale, ma una verità oggettiva appiccicata al tema narrativo come un’etichetta, una pura astrazione che sventoli come un vessillo. Nelle loro superficiali disquisizioni il momento storico è visto sempre 85 come la scienza del poi, una sorta di utopia escatologica, come un ciclo concluso senza tappe d’evoluzione interna; per loro il socialismo è una formula magica che realizza in un istante tutto il programma di progresso di cui sia capace un popolo; profeti immaturi essi stanno a “colmare le lacune della storia, in pieno sindrome d’ottimismo palingenetico”. Quando un’arte presenta come accaduta realtà un postulato program-matico di massima essa non rappresenta un passo reale in avanti, è sem-mai un’obliterazione dell’autocoscienza, un autoinganno; l’ottimismo pra-tico, dell’impegno quotidiano non può escludere il “pessimismo dell’intel-ligenza” , né è da confondere l’impostazione positiva e propulsiva dei conflitti con l’esclusione aprioristica dei drammi individuali. E i risultati di una mentalità dogmatica come questa non si fanno atten-dere: messa al bando di sceneggiatori come Šklovskij, Tynjanov, spari-zione di Babel’, di Mejerchol’d, di Nil’sen, accuse di nazionalismo a Dovženko, in attività dal ‘33 al ‘38 che dovrà poi “sacrifier malgré lui à la mode des grands sujets historiques” (G.Sadoul). Correlativamente si ha l’affermarsi di attori che si specializzano nella parte di Stalin: è il caso di Mikheil Gelovani che compare ne “La grande alba” di Čiaureli (1938), ne “Il quartiere di Vyborg” (1939), in “Lenin nel 1918” (1939), mentre viene messo al bando il volume di John Reed, “I die-ci giorni che fecere tremare il mondo” in cui l’autore, testimone oculare della grande rivoluzione, non menziona Stalin neppure di sfuggita. Sono i primi germi del “culto della personalità” , che accompagna come una imprescindibile superfetazione quel centralismo burocratico che è all’opposto del centralismo democratico e il cui carattere regressivo verrà sempre più a galla.

Gli effetti di questa degenerazione politica sono ormai più che noti: i tre quarti del Comitato Centrale eletto nel ‘34 vengono arrestati ed eliminati, lo stesso avviene per lo Stato Maggiore sovietico e per i quadri dirigenti dell’agricoltura. Nel campo della letteratura tacciono molte voci: da Oleša a Mandel’štam, da Bulgakov a Platonov, tacciono i suicidi da Majakovskij ad Esenin, si autoesiliano uomini come Pasternak e Marshak. La critica è un’attività da nemici del popolo, spesso articoli e saggi sono prove di cospira-zione antipatriottica. L’oligarchia del potere, questa elite che ha perduto i contatti col popolo, che si lascia sopraffare da una sete di potere sovruma-na vuole vittime in tutti i campi del sapere, dalla linguistica all’architettu-ra, dalla musica alla fisica nucleare. Dopotutto, nel cinema fa meno peggio che altrove: la trilogia di Dons-86 koij su Gor’kij ( “L’infanzia di Gor’kij”[p.96], “Tra la gente” , “Le mie università” 1938-1940) mantiene una certa dignità narrativa, senza confer-marsi ai soliti complimenti ai totem politici. In un altro film “Biancheggia una vela solitaria” (1937) [p.96] il regista Vladimir Legoshin attinge a cadenze di verace lirismo popolare nel campare l’epopea rivoluzionaria nella fresca e genuina visione che di essa hanno due fanciulli. Ma il tema predominante nelle altre decine di film e quel sorriso d’Arca-dia collettivo, la parola d’ordine è “il superamento delle difficoltà” sia che si tratta di bulloni non disponibile che della morte di una madre, e la contrapposizione tra i caratteri dei personaggi è spesso limitata alla ironica dialettica tra il buono e il migliore. Il sistema è in piena febbre autoritaria; in nome del popolo si nega una autentica rivoluzione popolare, la realtà viene calcificata in schemi sem-plicistici, il divenire del pensiero è un flusso a tendenza unidirezionale e sbocca sempre nello stesso alveo. Come poter credere, infatti, che edifici banalmente neoclassici interpretino il gusto del nuovo uomo sovietico, il suo senso dell’era moderna ed una avanzata volontà d’arte? Il carrierismo, gli abusi di potere, la violazione della legalità socialista, la congiura del silenzio e della paura che si generano con procedimenti a valanga sono i contrassegni tetri del difficile momento politico, solo in parte giustificabile con la teoria dell’accerchiamento, del permanente complotto troskista, con la fobia della controrivoluzione. La disciplina fino a se stessa, l’autocritica spinta fino all’autolesionismo sommergano in quel periodo ogni strato di consenso assembleare, ogni partecipazione pubblica alla formazione e gestione dello Stato; il cittadino vive come un soldato in caserma e sui muri sono verniciate le parole d’ordine di un umanesimo senza riscontri concreti, se non nella resistenza dolorosa di molti accusati, estraniati, misconosciuti. I tratti dominanti nei film sono quelli apologetici, encomiastici, comme-morativi sia che si tratti di “Pietro il grande” [p.97] di Vladimir Petrov (1937) o de “L’uomo col fucile” di S.Jutkevič (1939) e dello stesso “Minin i Požarskij” (1939) [p.97] di Pudovkin o de “I trattoristi” di Ivan Pyr’ev. Solo la intatta genialità di Ėjzenštejn riesce a trovare il giusto metro, la dimensione connotativa esatta per la rievocazione storica di “Aleksandr Nevskij” (1938) [p.98] e ad indicare, quasi con lucida premonizione, la via della lotta patriottica mentre al vertice si sta per firmare il patto di non aggressione col nazismo che dilaga furiosamente in Europa. È solo la non ancor repressa cultura di un regista immigrato dalla Germania (H.Rappaport) trova accenti e configurazioni adeguate ad una 87 linea di realismo critico ne “Il professor Mamlock” (1938) [p.98] . Per tutti gli altri registi funzionari la parola “partito” pronunziata con ritmo vertiginoso dai censori, dai catoni, dagli inquisitori come una “me-ra metafora di carattere mitologico” . I personaggi sono sempre più raffi-gurati come fisionomie rettilinee,a monoblocco, le questione argomen-tate in maniera settaria, il bene sottolineato con enfasi, in oleografie celebrative. Come una nemesi, un tragico richiamo alla realtà si abbatte sul suolo russo, la grande marea dei Barbarossa motocorazzati e gettano via quella maschera di compromesso in cui, molte stranamente, ha voluto credere un uomo dal fiuto sottile come Iosif Džugašvili. Quando i nazisti arrivano alle porte di Mosca, la mobilitazione umana, eroica del popolo sovietico è unanime ed è stavolta più che naturale trovare nella produzione filmica un’atmosfera di propaganda e di esortazioni.

Talvolta, anzi, si rompe in modo interessante l’isolamento culturale e filtrano informazioni e immagini d’altri paesi (Vedi “Londra non si arrenderà” (1941), “Schweik in campo di concentramente” (1941) ). I protagonisti di alcune opere, nelle circostanziate vicissitudine del dramma che non può essere occultato, si fanno molto più umani, soffro-no, esitano, imprecano, muoiono senza aver più di fronte allo sguardo ir-rigidito quella “tabella del bene e del male” che era il barometro bloccato della produzione degli anni precedenti. I grandi operatori sovietici danno lezioni di stile e di coraggio nel riprendere i momenti salienti delle battaglie (Roman Karmen) sono presenti sia a Mosca che a Stalingrado, incidono sulla pellicola saggi di gior-nalismo cinematografico d’altissimo livello, un cinema verità scritto tra il sangue ed il fuoco. Un po’ artificiale, gessose restano le angolazioni del “generalissimo” (impersonate dal solito Gelovani) nelle battaglie sceneggiate, tipo “La difesa di Tsaritsin” (1942) dal vecchio nome di Stalingrado, baluardo dell’indomita resistenza all’aggressione nazifascista. Dovženko riprende la cinepresa per quel grand reportage de “La battaglia per l’Ucraina sovietica” (1943) e “canta altissimo tra l’infuriare del massacro i suoi ulivi in fiore, i suoi poeti contadini, le sue bianche raga-zze colchosiane tra i neri fumi degli incendi e le macerie della civiltà. ” 25 Ma appena finita la guerra vittoriosa, l’ombra di Ždanov si profila ancor più plumbea e grigia sull’ambiente dei cineasti. Nelle 46 vengano bocciati, la prima parte dell’ ”Ivan il terribile” [p.99] di Ėjzenštejn, “L’ammiraglio 88 Nachimov” [p.99] di Pudovkin, “Gente semplice” [p.100] di Kozincev e Trauberg, “La grande vita” [p.100] di Leonid Lukov. Poche settimane prima di questa risoluzione, il dittatore letterario ha attaccato un gruppo di letterati che collaborano agli rivisti di Leningrado. Gli anatemi, le invettive con cui vengono ingiuriati autori e personaggi fanno da spia al tipo di dibattito culturale che può instaurare il burocratismo: “è difficile trovare nella nostra letteratura qualcosa di più ripu-gnante della morale che Zoščenko va predicando nel racconto “Prima dell’alba” dove raffigura gli uomini e se stesso come bestie immonde e lascive, senza pudore e senza coscienza…Perché i compagni di Leningrado hanno tollerato questi fatti vergognosi, questo furfante letterario senza principi… questa monaca e sgualdrina insieme (la Achmatova), queste opere putride, vuote, senza contenuto, scadenti, reazionarie… Co-me ha potuto la redazione del “Leningrad” lasciare passare questa mal-vagia calunnia contro Leningrado e la sua magnifica gente?” 26 Nello stesso tempo, Ėjzenštejn è costretto ad un’autocritica feroce che da lui viene risolta in marcata, sapida ironia: “…solo il Potëmkin mi pare faccia eccezione…” . “Il giuramento” [p.101] di M. Čiaureli (1946), l’opera che dà il titolo a tutto uno periodo, mostra ormai la figura divinizzata di Stalin che appare ora taumaturgico ora epifanico agli occhi attoniti del popolo, in pose statuarie, cesariane di un cesarismo aggiornato tecnologicamente (in piedi su di un trattore che ne guida altri mille o coll’innaffiatoio in mezzo ad un prato tutto bianco e rosa). Si afferma quell’atteggiamento pontificale che Dostoievskij riferisce nella “Leggenda del grande Inquisitore” : nutrire il popolo di miti e verità al-terate è una necessità a tutto vantaggio del popolo stesso. Gli oggetti emergono sempre più in primo piano: “In molti film - annota Dovženko i protagonisti si confidano il loro amore mentre controllano le analisi di un metallo” e prosegue con punte di giusta indignazione: “Abbiamo tolto della nostra tavolozza artistica la sofferenza, dimenticando che essa è un attributo altrettanto grande dell’essere quanto la felicità e la gioia. Abbi-amo sostituito la sofferenza con una sorta di “superamento delle diffi-coltà”. Voliamo tanto una vita bella e luminosa che le cose desiderate e attese ci sembrano già realizzate”. 27 Nel complesso, quindi, gli autori “schillereggiano” invece di “shakes-peareggiare” , i loro attori diventano “quei meri portavoce dello spirito del tempo, pieni di aureole e di coturni” , si ribaltano insomma i consigli engelsiani sulla drammaturgia dialettica. 89 Ne “La caduta di Berlino” (1949) il carismatico Maresciallo impartisce i suoi ordini da una sala dove tutte le altre sedie sono vuote; ne L’indimenticabile 1919” (1951) con una sciabola mette in

fuga, da solo, tutti i nemici. Alla morte di Ždanov, quindi, hanno continuate ad operare i suoi sub-alterni; tra questi nel rame cinema, infuria il superburocrate Bolshakov, sodisfatto solo dei cascami filmici in forma di manifesti e di cartelloni messi in sequenza e adirato centro “la trascuratezza e lo scarso senso di responsabilità dei migliori maestri”. Il Glavlit, le commissioni di varie grado gerarchico, i revisori, premono verso una produzione apologetica, accademica; gli studiosi dell’Istituto Marx-Engels sono inattivi, dispersi, sparpagliati, risuonano le più varie accuse nelle più diverse direzioni, massimalismo, cosmopolitismo, antipatriottismo. Finalmente, “Il ritorno di Vassili Bortnikov” (1953) [p.102] segna il ritorno di Pudovkin ad argomenti sentiti in profondità, con serietà di uomo e di militante con protagonisti recuperati nelle loro precise e problematiche dimensioni. Non è per case che il film appare sugli schermi sovietici una settimana dopo la morte di Staline. Uno zelante critico, Michail Papava, ad uso a rivedere le bucce dei meno conformisti, ne dà un ambiguo resoconto ed un’oscillante valutazione: “Nel film non vengono rivelati i tratti essenziali della campagna colcosiana… Pudovkin e l’operatore Urusevskij sono riusciti a comunicare allo spettatore il loro amore per il bel paesaggio russo… Nel tessute artistico del film si possono indicare alcuni errori di svolgimento…L’azione drammatica, la sua tensione interna sono presentate come un interessante messa in scena, precisione compositiva, con una pienezza d’individuazione dell’immagine”. 28 Lo scandaglio della critica di sinistra a Venezia, dove il film è presentato afferra più acutamente i sommovimenti di fondo che l’opera comunica. Siamo all’ampio preludio del “disgelo” ; la locuzione è tratta dal titolo di un romanzo - di Ilia Ehrenburg, presentato nel ‘54 ma in gestazione da lungo tempo, libro che propugna una più attenta analisi dei rapporti umani, pur senza ergersi a denuncia esplicita degli anni di assolutismo staliniano. La parola è emblematica, dinamica, rende bene: “l’idea di uno scioglimento, dell’avvicinarsi del calore e della primavera, di un miglio-ramento generale, di un alleviamento di pesi, di un’attenuazione di rigori, di un’apertura, di una ripresa di sviluppo, di un ringiovanimento, di una rinascita, di una generale distensione”. 29 Sarà solo al XX congresso del PCUS (1956), nella requisitoria di Chruščëv che verranno esposti a chiare lettere gli abusi di potere, le infrazioni 90 alla legge, le colpe della burocrazia e la complicità dei pavidi, degli ingenui, degli arrampicatori, degli invidiosi, dei masochisti politici. Le vicende del cinema ne sono state influenzate, forse, in modo meno brutale e repressivo, ma le censure, le epurazioni, gli oscuramenti delle maggiori personalità, le autocritiche coatte hanno preceduto in parallelo con ogni impennata autoritaria, accentratrice, con le marce forzose in avanti e sono risultate delle marce indietro, delle deviazioni sullo sfondo di una crescente presunzione bonapartista. Ora, dopo la chiara denuncia si cerca di metter via i luoghi comuni che, il periodare standardizzato, lo stakanovismo dell’eroismo, la retorica mil-lenarista (e sempliciotta): inizia M. Chuciev con “I due Fiodor” (1959) [p.103] di cui parla bene uno scrittore coetaneo al giovane regista, V.Ne-krassov. Nello stesso anno Bondarčuk dirige “Il destino di un uomo” [p.103] da un romanzo di Šolochov, uno dei pochi autori che ha saputo mantenersi sulla scia di un realismo complesso alla Tolstoij. Sempre nel ‘59, riprende vita il festival di Mosca (dopo 25 anni di sospensione) e le opere presentate in quell’occasione dimostrano che la maggior parte dei personaggi è scesa da quel piedistallo di metafisica infallibi-lità per immergersi in una sequenza di avvenimenti dal tono, suono e colore umani. G.Čuchraj riprende ne “Il quarantunesimo” (1956) [p.102], il filo di un discorso problematico che pareva essersi interrotto a causa del prolificare numeroso di quel feticcio narrativo che era “l’eroe positivo” . Non che la storia sia nuova, ma essa si vuol richiamare ad un’epoca di maggiore libertà espressiva, in cui era possibile aver conclusioni non mitiche dello svolgimento dei fatti. Al miglior narratore sovietico si rifà S.Guerassimov ne “Il placido Don”

(1957) [p.104], per dare una descrizione delle lotte nella campagna, da un punto di vista senza diaframmi e lenti anamorfiche. Così, Kozincev30 ritrova una misura aurea di trasposizione linguistica in un testo caro ai padri del socialismo scientifico, “Amleto” (nella versione di Pasternak). Lo stesso Jutkevič, seppur abbagliato dal troppo acceso entusiasmo, intende recuperare in “Otello”31 l’ordito di una narrazione drammatica, quanto mai distante dalle riduzioni semplificatorie e dalle direttive di “metalmeccanici delle anime” . Non pochi autori, inattivi da lustri, riprenderanno a girare: è il caso di M.Kalatozov con il suo “Quando volano le cicogne” (1957) [p.105], dove, se ancora abbondano le sfumature e i sovratoni patetici, si può notare 91 un’atmosfera di sincerità narrativa che elimina circospezioni e riserve mentali Lo stesso buon livello di spontaneità raggiunge un’opera come “La ballata di un soldato” di Čuchraj (1960) [p.105]: “in questo film ho voluto parlare - ha detto il regista - dei miei compagni, uomini divenuti soldati nel momento in cui lasciavano la scuola. Ho voluto mostrare quel tipo d’uomo era il mio eroe. Rinunciando alle scene di battaglia, ho cercato un soggetto che inveisse contro la guerra”. 32 Insistendo, con avvertita coscienza politica sulla demistificazione dello stalinismo, lo stesso regista in “Cieli puliti” (1961) [p.104], assume “ben altro impegno ideologico nell’opera che fa da spia al disgelo politico ancora in atto nella Russia di Chruščëv, dopo il rapporto al XX congresso. La seconda parte, ci rivela il lento sfacelo della speranza, il chiudersi delle porte amiche, il progressivo e angoscioso isolamento del giovane pilota (ingiustamente infamato come codardo e traditore)” . 33 Nello stesso anno, a Venezia, riceve il premio speciale della giuria il film di due allievi di Savčenko, Alov e Naumov, “Pace a chi entra” [p.106], un acute apologo antimilitarista, dove - tra stilemi gogoljani e ricerche ico-niche - si conduce avanti un discorso più sottile nei confronti dei responsabili del secondo conflitto mondiale. Viene abbandonato il manicheismo, la netta e troppo discriminante separazione tra buoni e cattivi, tra il tutto positivo e il tutto negativo. Aiutare una donna tedesca a partorire vuol dire aiutare la Germania a crearsi una nuova coscienza ed è questa la consapevole superiorità del vincitore. L’opera è un salto di qualità rispetto alle precedenti prodotte dalla stessa coppia di registi: “Pavel Kortchagin” (1956) e “Vento” (1958) dove ” i tratti erano abbozzati, si lasciavano indo-vinare, la figura di Kortchagin perdeva la sua pienezza… gli autori non riuscivano a rendere l’epoca…”34 Lo stesso intimismo, un po’ di maniera e a quoziente emotivo prepon-derante, di un’altra coppia cinematografica, Kulidzhanov e Segel “La casa dove abito” (1961) [p.106], dimostra che i temi dell’uomo nuovo hanno perso quella vernice dei colorati riflessi che caratterizzava le storie del periodo precedente. Le vicissitudini di più gruppi familiari, uniti da intrecci sentimentali d’ogni segno (fidanzamento, adulterio, consuetudine coniugale) indicano un approccio diverso alle questioni psicologiche, pur nella cornice di certe condizioni profonde che non si vogliono mettere in giuoco. 92 Il rischio che avvertono di correre molti di questi registi è quello, appunto, che della cieca fede si passi ora ad una totale e ugualmente acce-cante incredulità. Ma, sul piano del linguaggio, è significativo che sia Kalatozov, che Čuchraj, come Tarkovskij e Alov e Naumov, riprendano la via di un equili-brato sperimentalismo, recuperando in parte la grande lezione dei Vertov, degli Ėjzenštejn, dei Dovženko. Se il linguaggio è la forma strutturale del flusso di idee, di concetti ed emozioni compresenti in simultanea nel discorso dell’artista, risulta ben valida testimonianza il fatto che si ritrovino nelle opere del “disgelo” le configurazioni, le scansioni, i traslati che erano stati il contrassegno del cinema sovietico nell’epoca autentica della rivoluzione. Ciò vieni a riconfermare, ancora una volta, che i fermenti e le contraddizioni presenti anche nelle opere più recenti sono la prova della vitalità di un’arte che non si vuol nascondere dietro i miti o le facili consolazioni. Napoli, 1970

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106 INDICE DEI NOMI * illustrazioni + victime del regime comunista A ACHMATOVA Anna Andreevna (1889-1966), 89 ALOV Aleksandr Aleksandrovič (1923-1983), 92, 93, *106 ANDREJ RUBLEV (1360-1430), 10, 11 ANNABELLA Suzanne CHARPENTIER, (1907-1996), 16 ANNENKOV Jurij Pavlovič (1890-1974), 18, *22, *32 ANTON Karl, (1898–1979), 18 ARISTARCO Guido (1918-1996), 13 AUMONT Jean-Pierre (1911-2001), 16 B BABEL’ Isaak Ėmmanuilovič (1894-1940 +) , 82, 86 BALZAC Honoré de (1799-1850), 50 BARANOVSKAJA Vera Vsevolodovna (1885-1935), 18, *21 BARNET Boris Vasilevič (1902-1965), *33, 34, 35, 36, 37 BARONCELLI Jacques de (1881-1951), 19 BARSKI R., 19 BAUR Harry (1883-1943), 17 BEETHOVEN Ludwig van (1770-1827) , 83 BELAJEFF Olga (1900- ???), 19, *21 BELYJ Andrej (1880-1934), 47 BIANCHETTI Suzanne (1889-1936), 17 BOLSHAKOV Ivan Grigorievič (1902-1980), 90 BONDARČUK Sergej Fëdorovič (1920-1994), 75, 91, *105 BOURGASSOFF Fédote (1890-1944), 20

BOURGET Paul (1852-1935), 16 BUCHARIN Nikolaj Ivanovič (1888-1938), 82 BUCHOWETZKI Dmitrij Savel’evič (1895-1932), 13 BULGAKOV Michail Afanas’evič (1891-1940), 36, 86 C ČAPAEV Vasilij Ivanovič (1887-1919), 83 CHMARA Grigori Michailovič (1893-1970), 13 CHRUŠČËV Nikita Sergeevič (1894-1971), 36, 91, 92 CHUCIEV Marlen Martynovič (1925), 91, *103 ČIAURELI Michail Ėdišerovič (1894-1974), 86, 89, *101 107 CLAIR René (1898-1981), 16 COOPER James Fenimore (1789-1851), 48 ČUCHRAJ Grigorij Naumovič (1921-2001), 74, 90, 91,92,*101, *103, *104, D DARRIEUX Danielle (1917-2017), 16 DELANNOY Jean (1908-2008), 19 DELLUC Louis (1890-1924), 14 DENIKIN Anton Ivanovič (1872-1947), 13 DIETRICH Marlene (1901-1992), 34 DONSKOJ Mark Semënovič (1901-1981), 87, 96 DOSTOIEVSKIJ Fedor Michajlovič (1821-1881), 10, 89, 114 DOVŽENKO Aleksandr Petrovič (1894-1956),*70, 71, 73, 74, 75,*78, *79, 83, 86, 88, 89, 93 E EHRENBURG Il’ja Grigor’evič (1891-1967), *81, 90 ĖJZENŠTEJN Sergej Michajlovič (1898-1948), 5, 36, *46, 47, *48, 49, 51, 54, 55, 58, 59, 60, 63, 64, 66, 71, 72, 73, 75,* 76, *77, 83, 84, 85, 87, 89, 93, *98, *99 ENGELS Friedrich (1820-1895), 49, 82, 84, 90 ERMLER Fridrich Markovič (1898-1967), 84 ERMOLIEV Iossif Nikolaïevič (1889-1962), 13, *12, 14 ESENIN Sergéj Aleksándrovič (1895-1925 +), 36, 86 EVREINOV Nikolaj Nikolaevič (1879-1953), 18 F FADEEV Aleksandr Aleksandrovič (1901-1956), 74, 82 FRAZER Sir James George (1854-1941), 60 FURMANOV Dmitrij Andreevič (1891-1926), 82 G GAJDAROV Vladimir Georgievič (1893-1976), 16, *22 GANCE Abel (1889-1981), 18 GARBO Greta (1905-1990), 34 GELOVANI Michail Georgievič (1893-1956), 86, 88 GOGOL Nikolaj Vasil’evič (1809-1852), 47, 71, 73 GOR’KIJ Maksim (1868-1936), 71, 73, 82, 87

GRANOWSKY Alexej Mikhaïlovič (1890-1937), 17, 18, *22 GUERASIMOV Sergej Appolinarievič (1906-1985), 91, *104 GZOVSKAÏA Olga Vladimirovna (1883-1962), 18, *21 H HONEGGER Arthur (1892-1955), 18 108 HUGO Victor (1802-1885), 50 I INKIJINOFF Valerij Ivanovič (1895-1973), 19, *22 J JUDINE Konstantin Konstantinovič,(1896-1957), 36 JUTKEVIČ Sergej Iosifovič (1904-1985), 92, 97 K KALATOZOV Michail Konstantinovič (1903-1973), 75, 92, 93, *105 KAMENKA Aleksandr Borisovič (1888-1969), 14 KARENNE Diana (1888-1940), 19 KARMEN Roman Lazarevič (1906-1978), 88 KIRSANOFF Dimitri, Markus David Zussmanovič KAPLAN, (1899-1957), 17, *22 , *30 KORSH-SABLIN Vladimir Vladimirovič (1900-1974), 84 KOZINCEV Grigorij Michajlovič (1905-1973), 82, 83, 84, 89, 91, *95, *100 KOVANKO Natalia Ivanovna (1899-1967), 16, 18, *21 KULEŠOV Lev Vladimirovič (1899-1970), 34 KULIDZHANOV Lev Aleksandrovič (1924-2002), 92, *106 KOUPRINE Kissa, Ksenia Alexandrovna (1908-1981), 18, *20 L LAVATER Johann Kaspar (1741-1801), 49 LEBEDEV Nikolaj Alekseevič (1897-1978), 49, 72, 74 LEGOSHIN Vladimir Grigorievič (1904-1954), 87, *96 LENIN Vladimir Il’ič UL’JANOV, (1870-1924), 71, 89 LEYDA Jay (1910-1988), 83 L’HERBIER Marcel (1888-1979), 17, 18, *29 LIFSHITZ Michail Aleksandrovič, (1905-1983), 84 LINDER Max, Gabriel-Maximilien LEUVIELLE (1883-1925) , 17 LLOYD Harold (1893-1971), 34 LUKACS György, (1885-1971), 84 LUKOV Leonid Davydovič (1909-1963), 89, *100 M MAJAKOVSKIJ Vladímir Vladímirovič (1893-1930 +), 36, 73, 82, 86 MANDEL’ŠTAM Osip Ėmil’evič (1891-1938 +), 36, 86 MARSHAK Samuil Jakovlevič (1887-1964), 86 MAUPASSANT Guy de (1850-1893), 17

MEDVEDEV Roj Aleksandrovič (1925), 36 MEDVEDKIN Aleksandr Ivanovič (1900-1989), 84 109 MEJERCHOL’D Vsevolod Ėmil’evič (1874-1940 +), 34, 36, 85, 86 MELIÈS Georges (1861-1938), 14 MEYER Georges (1886-1967) , 17 MILOWANOFF Sandra, Aleksandra MILOVANOV, (1892-1957), 19 MIRANDA Isa, Ines Isabella SAMPIETRO (1909-1982), 17 MOGUY Léonide, Leonide MOGUILEVSKY, (1900-1976), 18, *22, *31 MOZŽUCHIN Ivan Il’ič (1889-1939), *12, 13, 14, 17, *23 MURNAU Friedrich Wilhelm (1888-1931), 19 N NADEJDINE Serguei Michailovič (1880-1958), 16, 18, *25 NAUMOV Vladimir Naumovič (1927), 92, 93, *106 NEKRASOV Viktor Platonovič (1911-1987), 91 NEVSKIJ Aleksandr Jaroslavič (1220-1263), 54, 56, 60, 61 NIKOLAEVA Genia, Evgenia (1904-2001), 18, *21 NIL’SEN Vladimir Semionovič (1906-1938 +), 85, 86 O OLEŠA Jurij Karlovič, (1899-1960) 82, 86 ORLOVA Vera Georgievna (1894-1977), *12, 13, 18 OZEP Fёdor Aleksandrovič (1895-1949), *12, 18, 19, *31, 34 P PAPAVA Michail Grigorievič (1906-1975), 90 PASTERNAK Boris Leonidovič (1890-1960), 86, 91 PERRET Léonce (1880-1935), 19 PETROV Vladimir Michailovič (1896-1966), 87, *97 PETROVICH Ivan (1896-1962) , 19 PIMENOFF Serge (1895–1960), 19 PIRANDELLO Luigi (1867-1936), 17 PLATONOV Andrej Platonovič (1899-1951), 86 PRÉJEAN Albert (1894-1979), 17 PROTAZANOV Jakov Aleksandrovič (1881-1945), *12, 13, 14, *15, 17, 34, 74 PUDOVKIN Vsevolod Illarionovič (1893-1953), 19, 34, 71, 72, 87, 89, 90, *97, *99, *102 PYR’EV Ivan Aleksandrovič (1901-1968), 87 R RADEK Karl Berngardovič SOBELSOHN (1885-1939 +), 82 RAJZMAN Julij Jakovlevič (1903-1994), 74, *80 RAPPAPORT Herbert (1908-1983), 88, *98 RAVEL Gaston (1878-1958), 19 110

REED John (1887-1920), 86 RIMSKY Nicolas, Nikolai Alexandrovič KURMASHOV (1886-1941), *12, 13, 16, 18 ROŠAL’ Grigorij L’vovič (1899-1983), 71, 74 S SADOUL Georges (1904-1967), 13, 86 SAVČENKO Igor Andreevič (1906-1950), 92 SEGEL Jakov Aleksandrovič (1923-1995), 92, *106 ŠEVČENKO Taras Grigorievič (1814-1861), 73 SHUMIATSKIJ Boris Zacharovič (1886-1938), 85 SIBIRSKAJA Nadia, Germaine Marie Josèphe LEBAS (1900-1980), 18, *21 ŠKLOVSKIJ Viktor Borisovič (1893-1984), 87 SOKOLOFF Vladimir Aleksandrovič (1889-1962), 18, *22 ŠOLOCHOV Michail Aleksandrovič (1905-1984), 91 STALIN Iosif Vissarionovič DŽUGAŠVILI (1878-1953), 47, 49, 72, 82, 83, 86, 89, 90 STANISLAVSKIJ Konstantin Sergeevič (1863-1938), 16 STAREVIČ Vladislav Aleksandrovič (1882-1965), 19, *22, *32 STEN Anna Petrovna FESAK (1908-1993), *21, 34 STRIŽEVSKIJ Vladimir Fjodorovič RADČENKO (1892-1977), *12, 16, 19, *25 SUE Eugène (1804-1857), 50 T TAIROV Aleksandr Jakovlevič (1885-1950), 17 TARKOVSKIJ Andrej Arsen’evič (1932-1986), 4, 10, 11, 93 TEOFANE IL GRECO (circa 1340- circa 1410), 10 TIKANOVA Nina Alexandrovna TIKHONOVA (1910-1995), 14 TOLSTOJ Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910), 96 TOPORKOFF Nikolaj Pavlovič (1885-1965), 19 TRAUBERG Leonid Zacharovič (1902-1990), 82, 83, 84, 89, *95, *100 TROCKIJ Lev Davidovič BRONŠTEJN (1879-1940), 13 TURGENEV Ivan Sergeevič (1818-1883), 16, 71 TURŽANSKIJ Viktor, Vjačeslav Kostantinovič (1891-1976), *12, 13, 16, 19, *26, *29, *32 TYNJANOV Jurij Nikolaevič (1894-1943), 86 U URUSEVSKIJ Sergej Pavlovič (1908-1974) , 90 V VASIL’EV Sergej Dmitrievič (1900-1959), 83, 84, *94 VASIL’EV Georgij Nikolaevič (1899-1946), 83, 84, *94 111 VERTOV Dziga, David Abelevič KAUFMAN (1896-1954) , 93 VIAZZI Glauco, Jusik Hovrep ACHRAFIAN, (1920-1980) 34 VINCENT Carl (1901-1967) , 16 VOLKOFF Aleksandr Aleksandrovič, (1885-1942), *12, 13, 16, 17, *23, *27,

*28 VRANGEL’ Pëtr Nikolaevič (1878-1928), 13 W WAKHEVITCH Georges, Georgij Leonidovič (1907-1984), 19, *22 Z ZDANOV Andrej Aleksandrovič (1896-1948), 82, 88, 90, ZOLA Emile (1840-1902) , 84 ZOLLA Elémire (1926-2002) , 49 ZOŠČENKO Michail Michajlovič, (1894-1958), 89 112 INDICE DEI FILM *illustrazioni A Aleksandr Nevskij (1938), 51, *52, *53, *54, *55, *56, *57, *58, 60, *61, *62, *63, *64, *65, *66, *67, *68, *69, 87, *98 Alienka (1961), 37, *45 Amleto (1964), 91 Amok (1934), 18, *32 Andreij Rublev (1966), 10, *81 Atto eroico di un agente segreto (1947), 36, *43 B Biancheggia una vela solitaria (1937), 87, *96 Brumes d’automne (1929), 17, *30 C Čapaev (1934), 82, 83, *94 Casanova (1927), 17, *27 Caterina I (1929), 16 Ce cochon de Morin (1924), 16 Cercatori di felicità (1936), 84 Cieli puliti (1961), 92, *104 D Delitto e castigo (1928), 16 Demain, il sera trop tard (1950), 17, *31 F Fécondité (1929), 18 Fétiche (1933), 19, *32 Feu Mathias Pascal (1927), 17, *29 G Gente semplice (1945), 89, *100 Gibraltar (1938), 18 Gli accaparratori (1934), 84 H Hôtel des étudiants (1933), 16

I I contadini (1935), 84 I due Fiodor (1958), 91, *103 I trattoristi (1939), 87 Il cavaliere dalla stella d’oro (1951), 74, *80 113 Il lottatore e il clown (1957), 36, *45 Il delitto di Dimitri Karamazov (1931), 18 Il destino di un uomo (1959), 91, *103 Il giuramento (1946), 89, *101 Il placido Don (1957), 91, *104 Il prato di Bežin (1935-37), 85, *95 Il professor Mamlock (1938), 87, *98 Il quarantunesimo (1956), 91, *102 Il quartiere di Vyborg (1939), 86 Il ritorno di Vassili Bortnikov (1953), 90, *102 Il senso della morte (1920), 14 Il vecchio e il nuovo (1929), 71, *76, *77 Il vecchio fantino (1936), 35, *42 Ivan il terribile (1945-58), 89, *99 J Je t’attendrai (1939), 17 K Kean (1921), 14, *23 L L’indimenticabile 1919 (1951), 90 La ballata di un soldato (1959), 92, *105 La battaglia per l’Ucraina sovietica” (1943), 88 La caduta di Berlino (1949), 90 La casa sulla Trubnaja (1928), 35, *40, *41 La casa dei misteri (1922) , 14 La casa dove abito (1957), 92, *106 La corazzata Potëmkin (1925), *48, 49, 71, 73, 85, 89 La dama di picche (1916), 14 La dame de pique (1937), 18 La dame masquée (1927), 16, *20 La difesa di Tsaritsin (1942), 88 La fermata (1963), 37, *43 La giovinezza di Maksim *95 La grande alba (1938), 86 La grande vita (1940-46), 89, *100 La linea generale (1929), 59, 71

La mille et deuxième nuit (1931), 17, *28 La petite parade (1929), 19 La plus belle fille du monde (1938), 17 114 La ragazza con la cappelliera (1927), 34, *39, *40 La terra (1930), 73, *78, *79 La terra ha sete (1930), 74, 75 L’Aiglon (1931), 16 L’ammiraglio Nachimov (1946), 89, *99 L’angoissante aventure (1920), 14 Le brasier ardent (1923), 14, *24 Le chant de l’amour triomphant (1923), 16 Le chanteur inconnu (1932), 16 Le mie università (1938-40), 87 Le mioche (1936), 17 Le prince charmant (1924), 16 L’enfant du carnaval (1921), 14, *24 L’enfant du carnaval (1932), 17 Lenin nel 1918 (1939), 86 Les aventures du Roi Pausole (1933), 18 Le chant de la vie (1932), 16 Le mensonge de Nina Petrovna (1936), 16, *22, *32 Les mille et une nuits (1927), 16, *26 Les yeux noirs (1935), 16 L’heureuse mort (1926), 18 Linea Generale (1929), 60 L’infanzia di Gor’kij (1938-40), 87, *96 L’ironie du destin (1922), 17 Lo straccivendolo (1924), 16, *25 L’ombre du péché (1922), 16 Londra non si arrenderà (1941) , 87 L’ordonnance (1921), 16 L’ubriacona (1924), 16 L’uomo col fucile (1939), 87 M Michel Strogoff (1925), 16, *26 Minin i Požarskij (1939), 87, *97 Mirages de Paris (1932), 18 Miss Mend (1926), 34, *38 Monsieur Albert (1932), 18 N Napoléon (1927), 18

Notti moscovite (1954), 16 115 O Odna (1932), 83 Otello (1955), 91 P Pace a chi entra (1961), 92, *106 Pas sur la bouche (1931), 19 Pavel Kortchagin (1956), 92 Pietro il grande (1937), 87, *97 Poet (1956), 35, *44 Prison sans barreaux (1937), 17 Q Quando volano le cicogne (1957), 92, *105 R Ragazzi allegri (1934), 34 Rapt (1934), 17 S Sciopero (1924), *48 Shéhérazade (1929), 17, *28 Sobborghi (1933), 35, *41 T Taras Boulba (1936), 16 Taras Bulba (1928), 16 Tempeste sull’Asia (1929), 18 Tra la gente (1938-40), 87 Trilogia di Massimo (1935) , 84 Troika (1929), 16, *25 U Un treno va ad Oriente (1948), 74, *80 Una notte di settembre (1939), 36 V Vento (1958), 92 Vers la lumière (1921), 17 Vicino al mare più azzurro (1935), 35, *42 Volga in fiamme (1934), 16 Z Zanzabelle à Paris (1950), 19 116 NOTE 1 “Il Premio Pasinetti venne istituito nel 1949 all’indomani della morte di Francesco Pasinetti, lo studioso che contribuì autorevolmente alla formazione in Italia di una coscienza cinematografica. Attraverso il premio si sono rivelati alcuni dei nomi dell’attuale critica cinematografica: esso venne

assegnato, tra gli altri, a Vittorio Caldiron, Guido Gerosa, Guido Oldrini, Antonio Napolitano, Ernesto Ferrerò, Giuseppe Feruzzi. In generale, anche questa IV edizione ha confermato la sua duplice funzione: segnalare nel campo della critica cinematografica nuove forze e fresche energie, e mantenere vivo il colloquio e la collaborazione che “Cinema Nuovo” intende avere con i suoi lettori.”(“Cinema Nuovo N.151”- maggio-giugno 1961) 2 A proposito di questa citazione dal romanzo “L’idiota”, usata a torto per qualunque cosa, da chi non ha letto seriamente Dostoievskij: “Come è stato precisato dai curatori dell’Edizione completa delle opere dello scrittore, nel materiale preparatorio per il suo successivo romanzo “I demoni” , Dostoievskij aveva scritto: “La Bellezza di Christo salva il mondo.” - (Новикова Е.Г. –“Nous serons avec le Christ”. Роман Ф.М.Достоевского “Идиот” −Томск: Изд-во Том. ун-та, 2016. – Novikova E.G. – “Nous serons avec le Christ”. Il romanzo di F.M.Dostoievskij “L’Idiota” , 2016.) “…io ho concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere.” F.M.DOSTOEVSKIJ - Lettera a Natalija Dmitrievna Fonvizina (1854) …”Cristo, il sublime ideale finale dell’evoluzione di tutta l’umanità, che si è presentato a noi, in forza della legge della nostra storia, rivestito della nostra carne….” F.M.DOSTOIEVSKIJ. “Dal secondo taccuino. Anni 1863-64” 3 G.ROŠAL’ - “Il film sovietico” - in “Nascita del Cinema” . Milano 1961. 4 G.ROŠAL’ - ibid. 117 5 S.M.ĖJZENŠTEJN - “Memorie” - Roma, 1961. 6 LENIN - “Opera completa”- Vol.XVIII -ed. 1923 7 V.PUDOVKIN - “Il Montaggio” ne “La Settima Arte” - Roma 1961. 8 N.LEBEDEV – “Il cinema muto sovietico” - Torino 1962. 9 V.MAJAKOVSKIJ - in “Poesia russa del ’90” - Milano 1960. 10 da “Il cinema sovietico prima e dopo” - Ed. Carucci - Roma 1961. 11 G.ROŠAL’ - op. cit. 12 A.DOVŽENKO –“Idées sur le cinema” - Paris 1937. 13 J.RAJZMAN -“Il regista e l’attore” ne “Il mestiere di regista” - Milano 1954. 14 A.DOVŽENKO - ne “Il cinema sovietico prima e dopo” - cit.. 15 in Hayward e Labeda, “Letteratura e Rivoluzione” , Milano, 1965, p.118 16 A.S.STCERBAKOV in “Literaturnaia Gazeta”, № 20, 1936 17 cit. in “Le cinéma en URSS” , ed VOKS, Moscou, 1936, p.16 18 cit. in A.VEDENIN, “Godj i liudj” , Mosca 1964, p.58 19 J.LEYDA, “Storia del cinema russo e sovietico”, Milano 1964, pp. 474 ss; 20 ibidem, p. 476 21 U.CASIRAGHI, voce “URSS” (cinematografia), in “Enciclopedia dello spettacolo” , Roma 1962 22 J.Leyda, op.cit., p.480 23 G.Lukacs, “Il marxismo e la critica letteraria”, Torino 1964, pp.314 ss. 24 A.NAPOLITANO, “La terra nel cinema sovietico” , 1961 25 U.CASIRAGHI - luogo citato 26 A.ZDANOV, “Politica e ideologia” , Roma 1948, pp.43 ss. 27 A.DOVGENKO, ne “Il cinema sovietico prima e dopo” , Roma 1961, pp.43-44

28 nella “Pravda” del 27 marzo 1953 29 G.GILBIAN, “La letteratura sovietica durante il disgelo” in “Letteratura e rivoluzione” cit., pp.197-8 30 A.NAPOLITANO –“Un omaggio all’Occidente di Grigorij Kozincev” – “Saggi di Storia e critica del Cinema” Vol.2, 2016 31 A.NAPOLITANO – “Shakespeare sullo schermo” – “Saggi di Storia e critica del Cinema” Vol.2, 2016 32 cit. in G.SADOUL, “Dictionnaire des films” , Paris 1965 33 V.n/s recensione da Venezia ‘61, “Outsiders a Venezia”, Cinemasud, Nov. 34 N.ABRAMOV, ne “Le film soviétique”, № 12, dicembre 1961. 118

Document Outline IN MEMORIAM DELLO STESSO AUTORE INDICE AVVERTENZA BIOGRAFIA “A GUISA DI PREFAZIONE…” CINEASTI RUSSI A PARIGI (1917-1950) BORIS BARNET AL FESTIVAL DI LOCARNO ‘85 SERGEJ MICHAJLOVIC EJZENSTEJN Ejzenstejn teorico Analisi semantica di due sequenze dell‘“Aleksandr Nevskij” LA TERRA NEL CINEMA SOVIETICO TRA GELO E DISGELO INDICE DEI NOMI INDICE DEI FILM NOTE