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Italian Pages 204 [145] Year 2018
SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA 3 Film significato e realtà 1 Copyright 2017 - 2018 Marina Napolitano Doriomedoff Tutti i diritti riservati Edizione, fotografie e progetto grafico a cura di Marina Napolitano Doriomedoff 2
3 4 IN MEMORIAM “И сердце то уже не отзовется На голос мой, ликуя и скорбя. Все кончено… И песнь моя несется В пустую ночь, где больше нет тебя.” “E quel cuore più non risponderà
Alla mia voce, esultante e afflitto. Tutto è finito… E il mio canto risuona Nella notte vuota, ove più tu non sei.” ANNA AKHMATOVA “…I, an old turtle, Will wing me to some withered bough, and there My mate - that’s never to be found again - Lament, till I am lost.” W.SHAKESPEARE “THE WINTER’S TALE” ACT V, SC.3 A mio marito 31 marzo 2014 – 31 marzo 2018 5 DELLO STESSO AUTORE Totò, uno e centomila Tempo Lungo, Napoli 2001 G. Leopardi. Un taccuino napoletano, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2007 Il memoriale di Seneca. Un galateo del ben vivere e del ben morire, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2008 Shakespeare: specchio del mondo. Lo stile come messaggio, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2010 Cinema d’autore off Hollywood, Ist.Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2012 ANSIA VIVA – Momenti lirici Amazon – Ebook Kindle – 2016 IDEOGRAMMI esercizi a mente libera POLITICOPOLI epigrammi sale e pepe Amazon – Ebook Kindle - 2016 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 1: Ingmar Bergman Robert Bresson Andrej Arsen’evič Tarkovskij Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 2: Shakespeare sullo schermo, Laurence Olivier, Akira Kurosawa,… Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 4: Cineasti russi a Parigi (1917-1950), Ėjzenštejn teorico
Tra gelo e disgelo & altri saggi Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2018 6 INDICE IN MEMORIAM 5 Dello stesso autore 6 BIOGRAFIA 11 INTRODUZIONE DI G.DORFLES 13 PREMESSA 17 I - CINEMA E SIGNIFICATO 19 Tecnica dell’espressione 42 Il terminus ad quem 47 Contenuto, forma e informazione dell’immagine filmica 50 Forma come contenuto e contenuto come forma 70 Ambiguità o indeterminatezza 105 Identificazione e cinema «intellettuale» 112 Arte di una tecnica 122 La mediazione del critico 133 II - IL FILM E I PROBLEMI DEL REALISMO 137 Roberto PAOLLELA “Antonio Napolitano - «Film, significato e realtà»” 186 Giampiero BRUNETTA “«Film, significato e realtà» di A. Napolitano” 193 Indice dei nomi 196 Indice dei film 203 7 8
9 10 BIOGRAFIA Antonio NAPOLITANO (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Tra 1947 e il 1959, Antonio Napolitano è socio poi dirigente del “Circolo Napoletano del Cinema” e di altri cineclub. Nel 1959, già insegnante abilitato in inglese, va a diplomarsi in Inghilterra in “General linguistics” .
Dal 1956 inizia a collaborare a riviste letterarie e di cinema, tra quali “L’Italia letteraria”(FI), “Il Letterato”(CS), “L’altro cinema”(MI), “Cinema Sud”(AV) etc. Nel 1961 vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese negli Istituti Superiori statali. Nel 1960, ha ottenuto il “Premio Pasinetti-Cinema Nuovo”1 a Venezia, per la saggistica filmica e collabora a “Cinema Nuovo”(MI), “Civiltà dell’immagine”(FI), “Le Artinews”(RO) e, in seguito a “Filmcritica” e altre pubblicazioni specializzate. Per conto di tali riviste, è stato, fin dal 1959, più volte inviato alle Mostre di Venezia, Locarno, Karlowj Varj, Salerno etc. Per lunghi anni ha collaborato a quotidiani con articoli di cinema e di linguistica (da “Il Mattino” di Napoli a “Il lavoro” di Genova, “La Voce della Campania” e altri. Vari suoi saggi sono tradotti in danese, svedese, inglese, e russo. Nel 1969 ha consegnato la libera docenza universitaria in “Storia e Critica del cinema” e ha tenuto corsi e seminari presso Università statali e private. Dal 1963, per oltre un decennio, è stato nel Direttivo degli “Incontri internazionali del Cinema” di Sorrento e in quello del “Centro di filmologia”. E’ stato chiamato numerose volte a tener conferenze e presentazioni di film in istituti di cultura in Italia e all’estero. 1 “Il Premio Pasinetti venne istituito nel 1949 all’indomani della morte di Francesco Pasinetti, lo studioso che contribuì autorevolmente alla formazione in Italia di una coscienza cinematografica. Attraverso il premio si sono rivelati alcuni dei nomi dell’attuale critica cinematografica: esso venne assegnato, tra gli altri, a Vittorio Caldiron, Guido Gerosa, Guido Oldrini, Antonio Napolitano, Ernesto Ferrerò, Giuseppe Feruzzi. In generale, anche questa IV edizione ha confermato la sua duplice funzione: segnalare nel campo della critica cinematografica nuove forze e fresche energie, e mantenere vivo il colloquio e la collaborazione che “Cinema Nuovo“ intende avere con i suoi lettori.”(“Cinema Nuovo N.151”- maggio-giugno 1961) 11 Il suo è stato un lavoro di decenni teso ad una seria valutazione e degli autori partendo da valide basi di Estetica, al di là delle mode, dello “up to date” e della “novità” ad ogni costo. E’ deceduto il 31 marzo 2014 dopo una lunga malattia. Il suo ultimo saggio scritto in 2013, su Roberto Rossellini è stato pubblicato da recente dalla rivista “Arte e carte”. 12 INTRODUZIONE Tra i vari problemi che interessano, e persino ossessionano, l’attuale periodo culturale dobbiamo certo considerare quello del consumo, dell’usura delle forme artistiche (ossia la perdita d’efficacia e di valore, semantica oltre che estetica, delle opere d’arte) e - strettamente legato ad esso - quello dell’importanza dell’elemento cinetico — e cinestesico — nell’operare dell’uomo d’oggi.
Il cinematografo, tra tutte le arti, costituisce oggi senza dubbio l’espressione più paradigmatica di questi problemi; ne costituisce addirittura l’incarnazione: con la stessa rapidità e la stessa fluidità con cui le immagini filmiche s’avvicendano dinnanzi ai nostri sguardi, per poi scomparire, non solo nel nulla della sala immersa nel buio, ma nel nulla e nel buio della nostra memoria, avviene il consumo di molte delle immagini di cui i nostri organi di senso sono partecipi. E questo fenomeno è probabilmente radicato nelle strutture stesse della nostra epoca culturale: viviamo in un mondo dove l’elemento cinetico domina, sicché ne risulta sollecitata la nostra capacità d’una rapida percezione, ma ne viene altresì ottusa la nostra capacità d’una seria e pacata osservazione e ritenzione. Siamo dunque portati a dimenticare - e anche a voler dimenticare per non essere sovraccaricati da un eccessivo peso di ricordi. Non so se questa mia affermazione possa trovare una giustificazione in campo psicologico o fisiologico, eppure mi sembra verosimile ammettere l’ipotesi d’una spontanea volontà di tendere al dimenticare per poter più liberamente accogliere nuovi percetti e nuove stimolazioni che ci vengano offerte. Questa è forse una delle tante cause che ha condotto da un lato al consumo delle immagini (e di conseguenza all’usura delle opere d’arte) e dall’altro all’avvento del nuovo mezzo espressivo artistico cinematografico. Quel mezzo che costituisce, oggi, senz’alcun dubbio, quello di gran lunga più seguito di tutti; tanto che potremo affermare senza tema di smentita come la nostra attuale struttura sociale, anzi estetico-sociale, sia direttamente dominata dalle immagini filmiche o di tipo filmico. L’instabilità e l’ambiguità della visione filmica, gli stati onirici vissuti dallo spettatore, i rapporti tra percezione e movimento, l’indeterminazione dell’immagine filmica, ecc. sono problemi ormai 13 ampiamente investigati e analizzati, eppure non si è ancora giunti ad una loro definitiva sistemazione. È, invece, proprio a una cosiffatta sistemazione che tende questo importante studio di Antonio Napolitano che sono lieto di poter presentare con queste poche righe introduttive (che nulla aggiungono alla densa efficacia del testo). Se anch’egli può piuttosto proporre che decisamente risolvere tali quesiti, bisogna riconoscergli il merito d’avere, tra i primi, avuto il coraggio e l’impegno di affrontarli tutti assieme. Ecco, infatti, che Napolitano, da un lato si vale d’un amplissimo, davvero enorme, bagaglio di letture e di studi per i quali si rifà ai nomi ormai noti anche nel nostro paese, ma il più delle volte purtroppo noti solo “per sentito dire” di: Morris, Cassirer, Hauser, Kaplan, Peirce, Langer, ecc., dall’altro, tiene conto di alcuni classici testi di grandi registi e filmologhi come Ėjzenštejn, Pudovkin, Arnheim, ecc.. È soltanto sulla base di codeste premesse culturali, infatti, che è possibile oggi affrontare alcuni problemi scottanti del cinema, come quello di montaggio, di realtà, di ambiguità, di mezzo espressivo, di forma e contenuto… senza rischiare di trovarsi di fronte al baratro, o al muro d’una insufficiente preparazione vuoi filosofica vuoi tecnica.
Ed è quello che Napolitano ha compreso. Innestare cioè un discorso sui rapporti suono-film, ambiguità e indeterminazione, valore semantico del linguaggio filmico, ma dopo aver posto delle solide basi costituite da un apparato d’indagine maturato attraverso gli studi della semiotica, dell’analisi del linguaggio, dell’estetica semantica. In questo modo molti problemi che erano già stati toccati o sfiorati da altri studiosi (Aristarco, Brandi, et alii) vengono a trovare una più compiuta sistemazione, non rimangono affidati soltanto a sia pur brillanti teorizzazioni astratte o talvolta a troppe e spicciative precisazioni tecniche. Il saggio di Napolitano, per questa sua ampia gamma di interessi, di raccordi, di ricerche ragionate, ci sembra dunque di notevole interesse, vuoi per lo specialista di filmologia che troverà in essi alcune nozioni e alcune notizie che forse gli riesciranno nuove; vuoi per l’estetologo e per il critico che troverà qui estese al linguaggio fìlmico - alcune nozioni di carattere generale (riferite a segno, simbolo, icone, entropia, consumo, ecc.) che sin ora aveva visto applicate soltanto ad altre arti o ad altri linguaggi; vuoi finalmente per il comune lettore che troverà finalmente chiariti alcuni suoi dubbi circa la validità del film realista, l’importanza 14 del montaggio, la necessità d’un’analisi strutturale applicata al cinema e che potrà, così, affrontare in futuro lo spettacolo cinematografico (quello spettacolo che tanti milioni di individui affrontano ogni sera immersi nella più completa “incoscienza” , nella più assoluta inconsapevolezza di quanto vanno a fruire) non più in quelle condizioni di onirismo di cui lo spettatore cinematografico è appunto spesso la vittima innocente, ma con quella “lucidità dell’ascolto ” che dovrebbe sempre essere alla base d’ogni nostro rapporto con le cose dell’arte (e con quelle della vita). Gillo DORFLES 15 16 PREMESSA Questo lavoro è idealmente indirizzato a quelle correnti critiche che invece di confluire in una completezza storica stanno a scontrarsi sull’alveo sempre più arido di una lunga polemica. La comprensione, a tendenza globale, dei fenomeni artistici o artigianali, non può escludere alcuno strumento o veicolo informativo e teorico: Lukacs non deve escludere necessariamente Gramsci, né Della Volpe Croce, né Plechanov Engels. Gli innesti che la storia opera sulla pianta-uomo e, in particolare, sulla piantaartista, sono spesso segreti, sotterranei, fatti all’insaputa della pianta stessa. Così non ci si può basare sui postulati esterni di una teorica per vagliarne il positivo dal negativo, ma occorre pedinarla nel cammino delle sue verifiche pratiche, nella capacità di inserimento nei fenomeni della realtà (che sono sociali anche in quanto individuali e viceversa). Né può rifiutarsi la gradualità nelle tappe di avvicinamento al realismo: la presenza delle colline accanto alle montagne d’alta cima non postula l’annientamento delle colline.
Quanti si affannano a rivendicare un’ascendenza desanctisiana dimenticano spesso il lavoro di comprensione che il critico napoletano andava compiendo nei riguardi delle diverse e contrastanti manifestazioni della realtà storica, nelle testimonianze di scrittori di diversa scuola e tendenza; ma certo non era la sua una battaglia tesa a sradicare determinati rami dal fusto, per una malintesa o presuntuosa “purificazione” dell’albero; così Engels partiva dal presupposto che, pur lavorando a differenti latitudini e longitudini, nell’ambito - s’intende - di una tensione di stile, cioè di composizione organica della conoscenza diretta e indiretta della realtà, gli artisti elaborassero altro che irrazionali astruserie, ma tendessero a portare ad un livello di chiarezza certe zone in ombra o in immersione della realtà. La razionalità dell’atto estetico è già presupposta nella forma o individuazione del contenuto: operazione comunque concettuale, anche se tendente a distaccarsi dal concreto, a sviluppare sovrastrutture da altre sovrastrutture. In questo combinarsi di relays dialettici, il lavoro del critico può essere un sestante per ritrovare i punti di contatto e i significati interagenti tra storia dell’uomo e storia dell’arte. Il processo di sintesi analitica dell’operazione estetica è sempre un processo di sottrazione di materiale conoscibile al caos e all’informe: dato, naturalmente, che si riesca in esso a rintracciare un metodo intuitivo o compositivo, che assuma il ritmo e le scansioni di un linguaggio 17 riflettente la realtà. Dove il critico non possa reperire altro che arbitrarietà, casualità, dilettantismo, astuzia fine a se stessa, allora saprà che nulla è stato sottratto al caos e che si è trattato solo di una comoda e irrazionale (cioè inutile) trasposizione da un vacuum all’altro, un trasferimento in crittogrammi della propria confusione di coscienza, individuale e sociale. A tale grado zero di elaborazione concettuale-emotiva, a tale livello nullo di partecipazione umana, morale e storica, il critico non potrà allora assegnare nemmeno una lode di sforzo, di spinta verso l’assimilazione della realtà nel lavoro di rispecchiamento. Il realismo deve rappresentare, secondo le sue linee storiche di evoluzione morale (cioè di autocoscienza), la realtà così come essa è: complicata, avvicendantesi, eterogenea. Per questo, la lunga conoscenza logica (scienza) non basterebbe: essa parte, infatti, da una negazione di natura intellettuale, astrae le possibilità, le scorpora dalle emozioni, le divide con un atto di pura decisione mentale. Per questi caratteri, può e forse deve essere lavoro collettivo. Il realismo, come tendenza d’arte, è invece aspirazione ad una consapevolezza integrale di valori che danno spessore e profondità al reale; perciò è soprattutto lavoro originale e unificatore di coscienza individuale, cellula in cui vibrano in corrispondenza le correnti dell’emozione e del pensiero. Non si tratta di uno stadio prelogico ma di quello della logica integrata umanamente da emozione, cultura, sensibilità. Come voleva Machado: “Nell’arte non è l’intelletto puro che discorre, ma il blocco psichico nella sua totalità e le forme logiche non sono ponti ancorati al fiume d’Eraclito, ma onde della sua stessa corrente” .
La realtà e il realismo, come suo specchio dinamico, si inseguono per le spire di un elicoide che s’avvita nella storia ed è la storia stessa; i cerchi pur ritornando sui cerchi precedenti hanno una curva che li spinge a progredire verso alto. Le inclinazioni risorgenti dei circoli aperti sono le accumulazioni di valori storici e insieme i caratteri distintivi di ogni epoca; il realismo corre come una vite parallela allo sviluppo elicoidale della realtà, agganciandosi e riflettendo, nei punti critici, il contenuto delle circonferenze, attraverso piani secanti, o tangenti. Per la sua intrinseca qualità di movimento, il cinema è uno di questi piani che liberano dal labirinto dell’oscurità l’uomo deciso a seguire l’evoluzione della spirale storica. Senza una meta assoluta, proprio perché più vasta e più significativa di ogni metafisico approdo, precostituito da una comoda o inerta fede. 18 I - CINEMA E SIGNIFICATO “Non è sorprendente che un critico possa, a proposito di un film, evocare la filosofia”. M. Merleau-Ponty Giudicare il cinema, come fa E. Zolla, “sonnambulismo coatto” o “quella bibbia dei poveri nelle cui pagine la gente viene compitando un abbecedario di analfabetismo intellettuale” è un metodo estremo di critica o di rimedio al male, forse peggiore del male. È oltretutto rimescolare vecchie lance spezzate da un caotico scrittore quale Henry Miller ( … drogati, escono dal cinema come sonnambuli” ). È valutare solo una parte, quella spregevole - anche se quantitativa-mente rilevante - della produzione e non tenere minimamente conto delle prove positive e soprattutto della evoluzione di un linguaggio che ha molto spesso raggiunto se non superato una certa dignità d’arte (cosa che nella sua caotica buona fede, Miller almeno faceva). L’assolutismo di una posizione di questo tipo, che svela il suo fondo e le sue motivazioni in una sorta di profetismo estetizzante, questo venir riscontrando solo le regressioni infantili di una tecnica, non può corrispondere ad una seria e costruttiva missione critica, priva com’è di analisi e di veri esempi testuali. Tralasciando gli autori di rilievo o ridicolizzandoli con una troppo originale (forse unica) presa di posizione, Zolla riduce in poltiglia di celluloide persino le opere di Ėjzenštejn, Dreyer, Chaplin e si pone fra quelle anime elettamente spiritose che vedono nel cinema solo uno spunto per impulsi fisiologici, una buccia di cipolla buona per far piangere o un fuscello atto a solleticare, a far ridere nel modo più viscerale. A tali insinuazioni grottesche, a tale confusione fra segno, significato e stimolo, può rispondere e in modo seriamente approfondito un’intera biblioteca di studi in cui fanno spicco nomi che vanno da Pudovkin a Ragghianti, da Chiarini a Balasz, da Arnheim a Manvell a Hauser a Merleau-Ponty, da Panofsky allo stesso Croce. Il discorso apocalittico e disintegrante dello Zolla è un non volere prendere atto in maniera storicistica, di un linguaggio che è venuto sperimen-tando una sua
validità di comunicazione, di convinzione, e insieme di commozione nel corso di più di mezzo secolo, dando conto di una capacità e non solo di una mera intenzionalità d’arte. Se la mania per il cosiddetto “specifico filmico” ha sviato il discorso critico da una più retta impostazione dei problemi va ancor oggi rivendicato 19 il carattere insieme autonomo e composito del linguaggio cinematografico e la predominanza in esso di un nucleo che può chiamarsi solo in senso lato figurativo, perché più particolarmente legato alla possibilità di restituire i movimenti della realtà e nello stesso tempo di contrali o distenderli e cioè di sintetizzarli o analizzarli nelle forme di un discorso dinamico: proprio quello che ha indotto uno dei maggiori studiosi contemporanei a considerare tutta l’arte del ‘900 come “nata sotto il segno del film”: “la consonanza fra i mezzi tecnici del film e le caratteristiche del nuovo concetto del tempo è così perfetta, che si è portati a pensare i modi temporali dell’arte moderna come nati dallo spirito della forma cinematografica e a vedere nel film la forma d’arte tipica dell’attuale momento storico…” e più avanti Hauser continua: “Il carattere e la funzione che spazio e tempo presentano nel dramma mutano radicalmente nel film. Lo spazio perde il suo carattere statico, la sua inerte passività per farsi dinamico: nasce, per così dire, continuamente davanti ai nostri occhi; è fluido, illimitato, aperto, un elemento che ha la sua storia, i suoi momenti, le sue tappe, i suoi stadi irripetibili”. 2 Né sono rare le citazioni di cinema per richiamare uno stile, un modulo espressivo in uno scrittore (ricordiamo fra gli altri un Dos Passos) ed è certo interessante ricordare quello che un critico d’arte, il Valsecchi, annota a proposito dei mezzi di un Vespignani “suggeriti dalla suggestione dei flash fotografici o ancora da certe inquadrature dei films di Carné: i vagoni ferroviari abbandonati, le case proletarie lungo gli scali merci ecc.” . Infatti, è da tener presente che l’attenzione dedicata dal cinema alla plasticità delle cose comuni, ha ridato il suo posto alle nozioni visive degli oggetti più familiari “casa, strada, scale, finestra, ta vol a ecc.” , cioè a quelle nozioni che rappresentano il lessico più reale dell’uomo e che erano state tralasciate da un’arte più aristocratica che umanistica, più metafisica che storica. Nozioni di linguaggio che erano state, quasi per sistema, depresse o dimenticate, se non cancellate; le care e solide figure quotidiane sono tornate così a riprendere il loro giusto posto, come oggetti o anche dettagli, che, lambendo l’esistenza dell’uomo, ne portano impresso il significato e ne riferiscono la misura naturale. E d’altra parte è da tener presente che ogn i elemento compositivo del 2 A. HAUSER, Storia Sociale dell’arte, Torino 1957. 20
film non è irrigidito in una prospettiva statica, non ubbidisce a semplici criteri spaziali, ma viene a rappresentare uno stadio da raggiungere e superare nel corso della narrazione: in un buon film, ad esempio, i primi piani non sono distribuiti a casaccio né a capriccio, non sono indipendenti dall’intimo sviluppo della scena né inseriti per sole ragioni di carattere tecnico, ma posti dove la loro energia visuale può e deve applicarsi, accrescersi con le sequenze collegate. Così, nelle scene di battaglia di “The Birth of a Nation” la contrapposizione di campi lunghi o lunghis-simi con primi piani o dettagli, differenziati in durata e in modo di composizione, servono a rendere la contrastante e identica furia dei due eserciti, ma soprattutto intensificano i significati di relazione; così l’immagine del soldato confederato caduto assume senso multiplo opposta all’immagine in moto del soldato che s’arrampica sulla trincea come in cerca di più aria e di più vita, e poi, per piantare una bandiera altrettanto vana quanto la morte. Dice bene Edgar Morin a proposito dell’importanza del movimento che “esso ha un duplice aspetto: non è solo potenza di realismo corporeo, ma anche potenza affettiva o cinestesia; è talmente collegato all’esperienza 21 biologica che apporta sia il sentimento interno della vita che la sua realtà esterna; non solo il corpo, ma anche l’anima; non il sentimento solo, la realtà sola, ma il sentimento della realtà” 3. Il criterio nell’uso degli ampi mezzi tecnici resta il fattore determinante e genetico della vera opera d’arte: fatti simultanei possono venir mostrati l’uno dopo l’altro come possono apparire contemporanei fatti distanti nel tempo per mezzo della doppia esposizione o del montaggio alternato. Uno degli equivoci sulla pretesa insufficienza dello “specifico filmico” è stato quello di intendere questo non come complesso delle caratteristiche di un linguaggio, cioè come un’ampia ed inclusiva morfologia, ma come compendio di regole grammaticali: ciò rappresenta il peccato originale delle discussioni sul
cinema che, a nostro modo di vedere, va messo bene in luce, chiarendo le differenze strutturali che intercorrono tra grammatica e linguaggio. La grammatica, e la parte superiore di essa che è la sintassi, descrive solo relazioni fra le parti del discorso che possono essere catalogate come costanti, o almeno frequenze, ricorrenti nel fenomeno linguistico. Ma la grammatica, per ciò stesso, non esaurisce il significato e il contenuto del linguaggio che è lessico e variabilità di lessico, cioè stratificazione semantica, aggregazione neologica e struttura idiomatica. Ciò che è da notare per quanto riguarda il discorso filmico è che ogni parte di esso può assumere più funzioni: l’inquadratura di primo piano come ricerca del simbolo o come contrapposizione differenziale, (il cosiddetto “controcampo” ). Qualsiasi definizione della grammatica cinematografica sarà, et pour cause, incompleta in quanto astrazione dei fenomeni dinamici in atto e schematizzazione di un processo espressivo. La morfologia, cioè, non può prescindere dalle funzioni che le parti del discorso assumono nel contesto concreto del film. Anche nel discorso filmico la grammatica è nello stesso tempo una struttura ed una funzione; può cioè variare nel tempo, mutando la visione del mondo che una società o una collettività si costruisce, in correlazione col dato momento storico; anche in essa si cristallizzano in forme di leggi gli usi espressivi di un dato momento storico o di date circostanze di tempo, così, ad es., la sintassi rivoluzionaria-espressionistica del “Potëmkin” (1925) non corrisponde già più a quella di ampia meditazione 3 E. MORIN, II cinema o dell’immaginario, Milano 1962 22
23 storica e di cantare di gesta dello “Aleksandr Nevskij” dello stesso Ėjzenštejn. Di fronte alle innumerevoli componenti del linguaggio cinematografico: luci, angolazioni, piani visivi, montaggio etc. ci sono poi tutti quegli elementi lessicali che vegetano, come quelli di una lingua, finché non vengano vivificati per mezzo di un’appropriata scelta da parte del regista. La scelta è in genere intuitiva; ma anche l’intuizione non nasce dal nulla, è basata sul processo continuo di selezione che vive ed opera nella personalità del regista, nel senso che scatta all’apice di un’intera catena di reazioni, di accumulazioni culturali e di gusto e s’innesta semanticamente sulle costanti iconologiche della tradizione, solo attraverso interpretazioni e aggiunte: così la teoria delle proporzioni in un’inquadratura si gioverà del tradizionale senso di “appiattito” (non di “piatto” ) della antropometria pittorica moderna, già innovatrice nei confronti di quella antica che voleva la figura esistente come solido tridimensionale. Si evitano così le riprese di tre-quarti che, ridotte ad una prospettiva bidimensionale, possono tradire l’immagine e suggerire convessità non volute. Ciò avviene automaticamente ma il rifiuto è concausato da un complesso meccanismo di memoria selettrice. Ad ogni grado di espressività, le interpretazioni iconologiche (ripresa dall’alto o dal basso, spostamento a destra o a sinistra, uso delle tangenti di luce, dei rapporti di significato tra materiale plastico, spazializzazione etc.) dipenderanno dall’attrezzatura di gusto e di cultura del regista, che sarà integrata e corretta, in fase di montaggio, dal controllo della struttura dinamica (drammatica) che si intende dare alle inquadrature. Si arriverà così a quel carattere di “organicità contestuale-semantica” (Della Volpe) dove si potrà accertare l’incidenza dello stile in senso conoscitivo storico e cioè il livello di importanza, analiticità e vitalità dell’opera stessa.
È in questo senso che scenografia, ritmo, angolature, materiale plastico diventano termini grammaticali, cioè insufficienti o superficiali per indicare una vasta gamma di scelte compositive che danno sostanza e sangue al film; basti pensare ai risultati di bianco e nero che danno luogo a quelle che il D’Ors chiamava “le sorprese dell’acquaforte” “quel gioco così infinitamente variato di tinte, mezzetinte, di spicchi di tinte, di sfumature, di tratti incisivi mischiati a indecisi vapori, a tracce liquide e gassose in cui il segno naufraga per riaffiorare poco più lontano con strana e rara intensità”. Questo giuoco, tramite luce, nebbia e acqua, nel linguaggio del cinema 24 non è affatto escluso e sempre nel tracciato dell’intuizione, come predicato della realtà o sintesi a priori del regista, in partenza dalla realtà. Questa ampia e composita gamma di mezzi figurativi - e non qualche novità di linguaggio tecnico - su cui è stato troppo esclusivamente messo l’accento, è l’autentica peculiarità del linguaggio filmico dato che rappresenta la risultante di mezzi espressivi già noti ed usati in altre forme di comunicazione estetica: segno, immagine, stacco, interpolazione e finanche montaggio che quando vengono aggiunti a quelli nuovi di un ritmo applicato alle cose, agli oggetti, alle persone danno da una parte una possibilità più ricca e dall’altra una controllabilità più difficile delle combinazioni simultanee dei mezzi espressivi. Il cinema si viene così a configurare come un’arte del tipo auspicato da Wagner nella sua “Opera d’arte dell’avvenire”, capace sia di fare a meno della parola che di usarla con nuova risonanza, con amplificazione inconsueta, purché rappresenti un’adeguazione della realizzazione alla realtà interpretata e intensificata attraverso l’occhio e la mente del regista. “Quando si tratta dell’espressione più diretta e quindi più sicura di quello che di più elevato e più vero esiste nell’uomo, l’uomo deve trovarsi intero e perfetto: deve essere l’uomo intelligente unito all’uomo di sentimento e all’uomo fisico, dall’amore più grande e più intenso. L’evoluzione che va dall’uomo fisico ed esteriore all’uomo intelligente tramite l’uomo di sentimento avviene per gradi intermedi sempre più accentrati” 4. Da un punto di vista tecnico, ad es., il missaggio di musica e immagine, si veda quanto afferma per un esempio concreto, lo stesso Ėjzenštejn a proposito della collaborazione di Prokofiev al suo “Alexander Nevskij”: “Non porta alcuna differenza che il compositore scriva la musica per il tema generale della sequenza o per la sequenza già ordinata in montaggio, abbozzato o definitivo che sia; o, se il procedimento è stato seguito all’inverso, che il regista proceda al montaggio visivo della musica già incisa sulla colonna sonora. A questo punto, vorrei dire che in “Aleksandr Nevskij” furono impiegati tutti, letteralmente tutti questi diversi metodi. Nel “Nevskij” infatti, vi sono tante sequenze in cui le 4 R. WAGNER, L’opera d’arte dell’avvenire, Milano 1963 25
inquadrature furono montate sulla colonna sonora precedentemente incisa, quanto sequenze per le quali l’intero pezzo musicale fu scritto dopo che il montaggio delle immagini era stato effettuato. E vi sono sequenze che comprendono entrambi i metodi”5. La musica, insomma, non servirà a colmare le lacune di suono o di immagine ma servirà da connessione tra elementi di significato esterno e di significato interno e come raccordo rispetto ai motivi strutturali o narrativi precedenti o posteriori. Non contribuirà tanto alla scansione metrica della vicenda quanto ad una scansione drammatica degli avvenimenti; a una distinzione di elementi generici e troppo aggregati nell’immagine, una funzione di contrappeso sensoriale. Ecco perché l’esplodere di una musica convenzionalmente tragica nel clima della tragedia sarà non solo una tautologia, un pleonasmo ma una diminuzione di rapporti espressivi afferenti ad una maggiore complessità di significati. In questa direzione e in quest’ambito va inteso anche il contributo di recitazione dato dall’attore, con la mimica, con lo studio, sul suo volto, da parte del regista dei segni più molecolari dell’espressione (un inarcarsi di ruga, un battere di ciglio, un contrarsi della narice, quello che insomma 5 citato da J. LEYDA in “Kino: A History of Russian and Soviet film”, London 1960 . 26 venne ben chiamato micro-fisionomia); ed è proprio per questi elementi che si escludono i rimandi ad una qualunque matrice teatrale del cinema, in quanto linguaggio se non in quanto spettacolo: il cinema ha inventato (scoperto) una nuova distanza fra noi e le cose, fra noi e noi stessi, e fra noi e la realtà, seppure in una ben circostanziata anche se numerosa gamma di convenzioni, alcune delle quali concentriche a quelle del teatro. La possibilità che il regista ha di sostituirsi con l’obbiettivo all’occhio dello spettatore, di frugare, indagare, analizzare una qualsiasi scena presentatagli dallo scenografo, un qualsiasi atteggiamento propostogli dall’attore: quel potere isolare
e raffrontare i tratti essenziali dì un oggetto, o di una faccia, darcene la suggestione di riflesso con un velocissimo controcampo, quel poter padroneggiare le successioni di luce e di ombra, quel poter distribuire le zone di degradante o di crescente buio, quel poter sottolineare una situazione psicologica, o diluirne il ritmo, o quel rendere una fissa immobilità di simbolo; l’ottenere un’imposizione visuale di ambiente, variabile a suo comando o il suggerire attraverso la molteplice fusione di simboli e di sineddochi, fino a geometrizzarli o barocchizzarli, in contrappunti di dimensioni, nell’ambito figurativo del fotogramma, come linee di grigio e di nero, o come tagli dell’inquadratura stessa (obliqua, sghemba, a mascherino); o lo scegliere un nucleo di volumetrie e rapporti di distanza di tipo singolare (il pan-focus) o il sincopare i movimenti scenici, sono solo alcune modulazioni delle possibilità interpretative, delle dimensioni di espressione di un linguaggio. Si può essere abbastanza convinti del fatto che è questa poliedricità ad avere assicurato ai nostri giorni una prevalenza al cinema e ciò serve a giustificare se non a spiegare la diagnosi che Stanislavskij operava sul teatro: “È chiaro che oggi la crisi del teatro concepito come puro spettacolo è già in atto e che, d’altronde, essa era inevitabile. Il cinema ha vinto il teatro per ciò che riguarda il complesso scenico e l’aspetto più professionale della recitazione. La messa in scena sia naturalistica che filtrata attraverso la stilizzazione, la visione di masse, di sfilate, le scene di vita quotidiana, gli aspetti meno calmi della natura come venti e tempeste, tutto questo pone il cinema fuori di ogni confronto con il teatro. E perché esso divenga sonoro non c’è che da aspettare pochi anni. Solo il cinema permette la ripetizione infinita di quelle emozioni che fanno vibrare l’attore fin dai primi momenti del suo lavoro e danno 27 freschezza alla sua recitazione, poi i suoi sentimenti diventano fissi, stereotipati.Inoltre, il cinema permette all’attore di vedersi recitare e gli dà modo di giudicarsi e di migliorarsi” 6 Ancora, un passo di Bergson ci aiuta a comprendere meglio lo sforzo che deve imporsi il vero creatore cinematografico per far sì che l’immagine filmica sia transvalutazione simultanea di intuito e di coscienza, di sensibiltà e di cultura, di senso del concreto e di possesso di fantasia; è evidente che trasportiamo su un piano di analogie, il ragionamento del filosofo francese: “L’immagine ha almeno questo vantaggio: di tenerci nel concreto. Non vi è immagine che sostituisca l’intuizione della durata: ma molte immagini diverse tratte da ordini di cose per se stesse differenti, potranno con il convergere della loro azione dirigere la coscienza sul punto preciso dove c’è una certa intuizione da cogliere … ’ (è il concetto che viene sviluppato oggi della “ serendipity ” cioè della manovra dell’intelligenza accidentale) - Continua Bergson: “Facendo in modo che tutte (le immagini) nonostante la loro differenza d’aspetto, esigano dalla nostra mente la stessa specie d’attenzione e, in qualche modo, lo stesso grado di tensione, si abituerà a poco a poco la coscienza ad una disposizione di spirito tutta particolare e definita, quella precisamente che essa dovrà assumere per apparire a se stessa senza veli. Ma ancora, sarà necessario che la coscienza acconsenta a questo sforzo, perché non le si sarà mostrato nulla: la si sarà semplicemente collocata nell’atteggiamento che deve assumere per compiere lo sforzo richiesto e giungere essa stessa all’intuizione” 7.
Uno dei fatti che viene a confermare la complessità (e il carattere composito) dell’autentica creazione filmica può essere esemplato sulla enorme differenza che passa fra le rilevazioni analitiche che si possono compiere alla moviola e quelle schematiche e, forzosamente, scheletriche annotazioni che si desumono dalla sceneggiatura di partenza. E questo, sempre, senza tener presente la legge di coalescenza di James che “procura l’implicazione sul piano dell’azione e il sincretismo sul piano della rappresentazione” , legge che è connaturale al discorso filmico, dal quale non si può staccare, se non per astrazione, la qualità 6 K. STANISLAVSKIJ, “Appunti di recitazione” ne “Il corriere UNESCO” , nov.1963. 7 H.BERGSON, Saggio sui dati immediati della coscienza, Bari 1931. 28 dinamica. (Anche se l’anticipazione percettiva che s’instaura nel film si basa su nient’altro che su schemi di sviluppo presenti nella realtà o sperimentati anche nella memoria, attraverso un recupero di carattere semantico). Ma ritornando alla rilevazione in sede di analisi, alla moviola, di una sequenza, nonostante la sua staticizzazione, il processo d’indagine strutturale, anche non approfondito, mostra, e sia pure in modo descrittivo, quanta ricchezza di annotazioni e cioè di soluzioni concrete, immesse nel contesto fìgurativodinamico-verbale corrisponda a quello spunto così minimo e così semplice che è la sceneggiatura: Questa è, appunto, la sequenza penultima del film “Ladri di Biciclette” : P.P. di Ricci che guarda lo stadio f.C. il rumore che viene dallo stadio, come un boato e poi musica in crescendo C. L. e pan. sullo Stadio MPPA Ricci: E che ci hai, Brù - guarda una bici appoggiata Carr. ad un portone nella strada vicina C. L. Ricci cammina sotto e sopra, guarda e riguarda, si passa inq.(2) la mano sui capelli; si siede, si rialza, curvo - Tiè, Brù – pija il tramve e va a Monte Sacro e aspettami là MPPA Bruno: Papà, papà … C.L. di gente che comincia a defluire dallo stadio carr. su Bruno che si avvia verso il tram gru sullo stadio e sulla gente che ne esce MPPA di Ricci che guarda Bruno e poi si volta verso la bici appoggiata al palazzo CLL di Ricci che si avvia verso il portone e carr. gira intorno alla bici e poi… l’inforca senza abilità CL di un uomo, vestito di scuro, che esce dal portone gridando “Al ladro, acchiappatelo, prendetelo, al ladro! …
Controlliamo allora quante attuali risultanti corrispondano a questa schematica indicazione, cioè quale sia la vera struttura espressiva, il concreto materiale d’indagine per un completo apprezzamento dell’opera “Ladri di Biciclette” di Vittorio De Sica - C.Zavattini. Anzitutto viene in primo piano, l’esatto dosaggio della durata di ogni 29
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inquadratura che in funzione e in correlazione ad ogni altra si viene cari-cando di un contenuto di tensione e di ansia senza, comunque, traboccare nel melodrammatico. Ciò viene raggiunto colla ripresa degli stadi di nervosismo, tra il doloro-so e il rassegnato, che il regista ottiene sulla maschera mimetica di Ricci (l’operaio che è stato derubato della bicicletta); ciò è chiaro fin dall’inizio della sequenza finale, quando Maggiorani (l’attore) vien mostrato in mezzo primo piano mentre svolta dalla via laterale alla Flaminia e si trova di fronte (fuori campo) il chiasso festivo dello Stadio, dove si disputa una partita di calcio di campionato; le voci dei tifosi si fondono continuamente in cupi boati di gioia, da cui sarà escluso (come dallo Stadio) l’operaio che progetta di rifarsi, ad ogni costo, una bicicletta. In questa inquadratura iniziale, lo squallore, il tormento sono rappresentati dal cappello ancora calcato con rabbia sulla testa (ed è un particolare iconologico di tipo tradizionale); non così le rughe verticali di questo volto di autentico lavoratore, scavate sulle guance dai lunghi sacrifici, dai duri scontri con la vita; non così le gualciture della giacca umida di inutile e amaro sudore. In corrispondenza d’incrocio o correlazione moltiplica-trice degli effetti, viene l’inquadratura di Bruno, il piccolo, accasciato sul marciapiede col capo fra le mani, invaso da una disperazione più grande 31
di lui, dovuta solo al senso di dovere e alla coscienza dei problemi degli adulti. Lo sguardo di Ricci è sempre più smarrito, perplesso, accarezza, per ora senza progetti chiari o con progetti inavvertiti, l’enorme parcheggio di biciclette che è al centro della piazza dello Stadio. L’essere queste così ammassate, così anonime, così folte, come una boscaglia in cui rubare non può far male a nessuno, suggerisce a Ricci l’idea concreta da attuare. Ma vicino alle bici c’è un custode, ed è significativo che sia stata scelta per costui una divisa di aspetto chiaramente poliziesco; allora l’inquadratura soggettiva dello sguardo di Ricci si volta automaticamente ad una so-la, forse orfana, bicicletta appoggiata, libera e pronta, presso un portone nella via lì vicina: a destra, ad un breve tiro di sasso, quasi a portata di mano Il montaggio riporta di nuovo il volto di Ricci e il grande parcheggio delle biciclette per esprimere lo sviluppo del piano che gli matura dentro e sta diventando deliberazione, non più puro proposito; infine, negli occhi dell’operaio scatta quella luce forte e amara della determinazione, Ricci si volta di tre quarti, poi di spalle come lasciandosi dietro i timori, le remore e il falso disappunto del pubblico: allora la bicicletta da lui prescelta appare sullo sfondo della sua persona, piccola, leggera, 32
atta a concedersi purché lui si sbrighi. Come per togliersi da un angolo di incubo, Ricci si volta di nuovo verso l’obiettivo e si risiede accanto al figlio Bruno, sul marciapiede: i pensieri scorrono simultanei sul viso del grande e del piccolo che vivono la stessa angoscia, la stessa rabbia tormentosa mentre, di fronte a loro, lo Stadio comincia a restituire i primi spettatori. La musica ha, intanto, ripreso in sordina il motivo della solitudine, mentre ancora grida, attuite dalla lontananza, arrivano dagli spalti del campo sportivo e suonano ostili, ambigue come le voci interne di Ricci, lacerato tra la rassegnazione e la brace di un giusto risarcimento alle sue disgrazie, non venute fuori dal caso, ma direttamente generate dall’incomprensione, dall’indifferenza di una società che lascia germinare nel suo seno tanta miseria e tanti soprusi in una confusa ma inconfrontabile catena di cause ed effetti. L’operaio, nella inquadratura seguente, si porta le mani alle orecchie come per non sentire e non vedere le voci, gli atti, i suoi stessi disperati pensieri mentre il piccolo Bruno lo guarda con muta, mesta interroga-zione. Nell’ambito del grigio marciapiede si intravvedono solo le gambe di frettolosi passanti che si incrociano senza che un attimo di perplessità le 33 trattenga per il trauma, a loro sconosciuto, che ha dovuto colpire padre e figlio seduti presso il bordo del marciapiede. E sopravvengono, come a rincalzare il progetto dell’operaio, le gambe dei ciclisti che passano come in un sogno, gambe sciolte, veloci, che can-cellano il volto dei due umiliati ed offesi e rappresentano quasi il simbolo maggiore della bicicletta, del suo valore, della sua quasi magica utilità. Ricci le fissa prima quasi distratto, poi con intensità crescente e di scatto si rialza: tutto congiura a motivare, a giustificare l’atto di rivolta ch’egli vorrebbe compiere; lo scatto stesso col quale si leva dal marciapiede indica l’alto grado della decisione presa, la sua, d’un tratto rinata, aggressività, il bisogno urgente di vendicarsi della società sia pure con un gesto sbagliato, che può trascinarlo nel gorgo, che, insomma, può costargli molto, molto più della bicicletta e che per questo ha generato, non senza fondamento, una simile tensione d’atmosfera. Di nuovo guardiamo il suo primo piano teso a osservare la folla che ormai viene defluendo dallo Stadio quasi a premere, a sollecitare la sua azione. Altro stacco d’inquadratura: Ricci si è voltato a controllare che “quella” bicicletta sia ancora lì, a quel posto e in questa inquadratura la bici appare nella striscia di sole pomeridiano che lambisce l’altro lato della strada, mentre l’operaio è nella zona d’ombra: saltare nella prima, in-forcarla, correre via verso la speranza sarebbe passare nella luce; ma il muro sul quale è “inchiodata” l’immagine di Ricci è pieno di graffi, di grumi, di luridi segni; sgretolato, livido, cancrenoso, quasi una premonizione di quello che potrebbe essere il suo destino, sul binario della sorte sfavorevole sul quale si sente ancora scorrere con tutti i suoi tormenti. Di nuovo egli torna a guardare verso lo stadio, quasi termine di confronto sociale, di tutti quelli che lavorano in pace godendosi il proprio tempo libero; e sono
questi cittadini che riprendono in tranquilla fretta le proprie biciclette dal grande parcheggio custodito e si avviano pedalando verso le proprie famiglie. Nel frattempo, dal punto di vista della struttura formale si è potuto notare che col ripetere gli spazi scelti, con lo spostare la macchina a stacco, a salto fra quei pochi oggetti “della sensibilità” che servono a creare l’atmosfera drammatica e il suo “fisso” svolgimento, si è venuto a comporre un montaggio funzionale, in chiave di crescendo emotivo, di confronto e di conflitto di stati d’animo; e tutto ciò, come stiamo cercando di chiarire, si può desumere dal film effettivo non dalla sceneggiatura che è come un ramo nudo su cui il regista è tenuto a far crescere foglie, frutti e non sembri strano… l’albero stesso. Continuiamo, pertanto, ad esaminare come le oscillazioni della 34
35 coscienza turbata dell’operaio vengano espresse e risolte dall’occhio del regista, di cui l’occhio del critico non è che uno strumento sovrapposto e solo più analitico e più descrittivo nella ricerca delle configurazioni; quasi lungo un tracciato lineare, logico e conseguenziale di placche fuse di immagini, una travasazione di sostanza amalgamata, filtrata secondo le sue componenti di rilievo espressivo. Nell’inquadratura che viene subito dopo l’ultima citata, sullo sfondo di gente che gli dà le spalle, (figure cioè di totale indifferenza che acuiscono il dramma con questo loro grigio alone produttivo non solo di solitudine psicologica ma morale), vediamo Ricci che prova in sé la marea montante dell’inquietudine, della rabbia e ne risente fisicamente: si leva il cappello, si volta, si rigira, si passa con forza disperata, la ruvida mano sui lisci capelli, poi si gira di nuovo a guardare le mille e mille biciclette e poi “la bicicletta” . L’immagine del piccolo Bruno che lo guarda tenero, accorato con un mezzo sorriso spento e sperduto sul volto, con un mezzo incoraggiamento tra le righe di questo pallido sorriso, non servirà a salvarlo dall’atto di disonestà anche se di valida protesta. E, in piena crisi, viene l’ultima decisione: lo farà, lo farà senz’altro ma non davanti al figlio: “Tè, Bruno, con questi, pija il tramve… e aspettami a Monte Sacro” . La folla, intanto passa sempre più numerosa, più inavvertita, ormai il tempo sfida l’azione: lo scalpiccio, i decrescenti rumori dello Stadio, il brusio delle voci che si allontanano accrescono la tensione, sono gli stimoli più immediati alla decisione. In montaggio parallelo, Bruno, il piccolo, si avvia dubbioso, sconfortato verso il tram come con l’intenzione di volerlo perdere per rimanere comunque, per i suoi strani presentimenti di piccolo adulto mentre il padre scantona ormai verso “la bicicletta” appoggiata al portone, nella strada ancora riverberata di sole e vuota di gente. C’è però un palo alto, scuro, minaccioso tra l’immagine dell’operaio e “quella bicicletta” che sembra aver assunto (per cinestesia psicologica) un’aria artefatta, sorniona: è quasi la premonizione di ciò che può accadere di rovinoso, con un solo atto, una sola mossa del braccio. Ricci passa timoroso, alla lontana, intorno a quella “bici” , quasi dovesse afferrare un animale vivo e che può far male; poi si sposta al centro del portone, scuro e profondo come una geometrica fossa, poi finalmente lo scatto ultimissimo della volontà che confina con l’atto stesso: inforca di salto la
bicicletta e comincia a correr via mentre, quasi istantaneamente un uomo scuro esce dal portone come se vi fosse stato acquattato dentro, 36
37 in agguato e mentre Ricci in primo piano stenta a prendere velocità, e suda, straluna lo sguardo, beccheggia e sbanda, quello gli corre dietro gridando “Al ladro, al ladro! ”. La sola sceneggiatura non può quindi, per il suo andamento strettamente allusivo, porre in luce e disegnare l’esistenza delle molteplici relazioni intercorrenti fra gli oggetti e fra gli oggetti e il protagonista; quel trasferimento di realtà viva dalle
cose alle immagini e dalle persone alle loro figure fatte ombra bianca e grigia, o grigio-nera, può essere solo evidenziato a posteriori, quando cioè si ha di fronte tutto l’intero risultato (e siamo ben certi che le nostre rilevazioni analitiche alla moviola si sono limitate alla topografia e alla iconologia essenziale della sequenza). Anche la dissezione descrittiva non può mai considerarsi sufficiente, come una traduzione che non può restituire al senso della frase le sue intime risonanze di ritmo e di accumulazioni semantiche tipiche di un idioma; per questo ci accorgiamo che nel film “l’immagine delle cose è l’immagine della loro durata” proprio perché il film “non si contenta di conservarci l’oggetto avvolto nel suo fermo istante, come, nell’ambra, il corpo intatto degli insetti di un’era trascorsa” 8. E la perfezione della sequenza la si può intendere solo nel contesto del ritmo che ha l’opera integra, perché il regista avrebbe potuto, infatti, sbagliare in due modi: supponendo qualche cosa, o qualche movimento che non è tipico della situazione reale o non includendo ciò che effettivamente avviene di importante tra padre e figlio, rispetto a tutti i loro precedenti rapporti. Ciò che appare positivo, per noi, è che egli non si è limitato ad una conoscenza concettuale dell’ambiente in cui Ricci e Bruno vivono, schematizzandolo come in un tracciato sociologico, ma lo ha rivis-suto comprensivamente nello spessore dei suoi strati; non si tratta infatti di un teorema economico ma di un’intima e intensa immagine del mondo affettivo, sociale e morale di una famiglia romana del ceto operaio. Tale immagine è soggettiva in quanto forza e creazione di un individuo (o di più individui, non è qui il caso da esaminare) ma è oggettiva in quanto con ognuna delle sequenze, delle inquadrature l’artista si sviluppa nel mondo e il suo messaggio soggettivo avvolge e trasforma l’obbiettiva situazione morale, con cui si incontra per recuperare un nucleo narrativo e di possibile comunicazione con gli altri. Per quanto esatta e preveggente, quindi, la sceneggiatura non può rendere conto delle dimensioni e dei rapporti di dimensione che si 8 A. BAZIN, Ontologia dell’immagine cinematografica, Roma 1962. 38
39 istituiscono nello sguardo del regista o le convergenze spaziali di linee e di incroci o gli antagonismi simbolico-figurativi o il tipo di scorcio e di illuminazione e tutta la complessa mimica (del fisico e del volto) che il regista richiederà, di volta in volta, all’interprete perché dia sentimento e vibrazioni di cuore a quelle righe di prosa geometrica che aspettano di essere incarnate in un’immagine in movimento. “Non furono né le tempeste né le eruzioni dei vulcani i veri, nuovi e sorprendenti temi che vennero in luce grazie all’impiego dei mezzi espressivi dell’arte cinematografica. Al contrario, vennero in luce i particolari più nascosti: la piccola lacrima che brilla sul ciglio dell’uomo e che è invisibile e insignificante sulla scena teatrale” 9. Così come l’immagine verbale, di cui parlano diversi linguisti, ha una sua configurazione psichica anteriore alla parola e abbisogna di una tecnica (la scrittura) per essere codificata in segni di comunicazione, così l’immagine dinamico-figurale ha, nella mente del regista una configurazione anteriore al fotogramma, e quanto più questo assomiglia a quella, ne assume gli stessi rapporti di composizione, tanto più sarà riuscita e realizzata.
Né va confuso, come fanno alcuni oppositori del cinema, il segno col simbolo, che pur convivendo hanno diversa vita e diversa funzione; ben dice il Wittgenstein “il segno è ciò che di sensoriamente percettibile si trova nel simbolo” . Così, per esempio - nota il Mitry nel suo studio sul problema della significazione cinematografica - il Barthes, tanto per citarne uno solo confonde costantemente il segno psicologico (l’analogon) col segno linguistico (simbolo). E non poche volte è poi portanto a contraddirsi: “Si une realité est toute entière dans le cursus du film, pour ainsi dire inventée, créée par lui elle ne peut faire l’objet d’une signification. Par exemple, si le film raconte en acte, la rencontre amoureuse de deux per-sonnages cette rencontre est vécue devant le spectateur, elle n’a pas à être notifiée, on est ici dans l’ordre de l’expression, non dans celui de la signalisation; mais si la rencontre a lieu hors du film, soit avant, soit entre deux séquences elle ne peut être apprise au spectateur qu’à travers 9 B. BALASZ, Il film: essenza d’un’arte, Torino 1955. 40
un processus précis de signification, elle définit expressément la part sémiologique du contenu filmique” 10. In sostanza si può accettare pacificamente che i mezzi stilistici siano quelli che servono a trascendere i fatti osservabili otticamente e non solo quelli che sono chiamati stile dell’azione (moduli epici, metaforici, inti-misti) ma proprio gli stilemi d’immagine, d’inquadratura quelli che decidono della graduatoria dei valori visivi, delle relazioni tra i varii piani della inquadratura stessa, dell’accentuazione dei particolari sia come cifre di atmosfera che come possibilità associative o dimostrative indirette. Tanto per fare un esempio concreto, non può venir sottovalutato il contributo della mimica, quella che è stata chiamata (dal Fano) la “polimorfa
flessibilità del gesto” che non si scinde dalla istintiva solidarietà con le parole da pronunciare, ragione principale della imperfezione e della in-completezza di quelle pellicole mute che non sapevano fare a meno dei significati verbali e ridondavano di didascalie, vere e proprie fratture del ritmo dinamico-figurativo. Il gesto, anche nel “parlato” può essere il 10 R. BARTHES, Le problème de la signification au cinéma, in “Revue de Filmologie” , n. 24, Paris 1950. 41 contenuto reale della frase, dato che l’espressione mimica può mutare o condizionare il significato delle parole; e di qui la loro interdipendenza per una sintetica e completa realizzazione espressiva. È chiaro d’altronde che un regista come Chaplin sapeva usare la pantomima in funzione totale, senza cioè ricorrere ad una commistione spuria (e pleonastica) di linguaggio gestuale e linguaggio verbale; ma è sintomatico che ad un certo punto della sua attività creativa ha sentito la necessità di inglobare il discorso verbale per poter comunicare altri impianti emotivo-ideologici e più complicate vicende di rispecchiamento di una società sempre più “verbale” nelle sue comunicazioni, ma, appunto, sempre meno sincera. Per quanto sia prevalente la forma “verbale” nel mondo contemporaneo, non si può per questo dire che il linguaggio gestuale sia affatto arbitrario o limitato, perché anch’esso, come quello delle parole, si allarga e si accresce e si complica per via di molteplici rimandi o associazioni. Non possiamo dimenticare l’affermazione di un linguista dei più acuti, che così concludeva un suo studio sulla genetica del linguaggio verbale: “Since all real emotions and intentions get them selves involuntarily expressed by gesture, look or sound, voluntary communication such as language must have been invented for the purpose of lying or deceiving.” ( E.H.Sturtevant). Così, l’inarcamento, non retorico, non esibizionista di un sopracciglio può dare la giusta misura e il più sintetico riferimento di un giudizio non solo emotivo e non solo legato ad un semplice riflesso fisiologico; in ciò la cultura iconologica, la sua antichissima tradizione sta a convalidare la valida e sempre viva genealogia della mimica. Tecnica dell’espressione Ogni arte ha, infatti, i propri mezzi d’espressione con le incluse difficoltà o possibilità e il successo dell’autore dipende proprio dal saper trarre fuori del materiale usato tutte le qualità e le significazioni più vive. Anzi, si potrebbe dire, (e a proposito di ogni forma d’espressione) che se l’artista non avesse da lottare con i mezzi materiali e la materia che gli resiste gli verrebbero meno gli incentivi a dispiegare le sue energie fino in fondo; verrebbe cioè privato di una fonte fondamentale di emozioni e di ripensamenti e in sostanza, più difficilmente, riuscirebbe ad elaborare esperienze autentiche. Proprio dalla profondità del suo sforzo deriva la maggiore o minore 42 profondità delle idee-sensazioni trasmesse e la maggiore o minore chiarezza della trasmissione e l’intensità di essa.
Il lavoro stesso di scelta e di composizione delle immagini, anche di un solo monogramma può essere rintracciato, per parallelo, col lavoro di alto artigianato operato dallo Steiner nei suoi studi per il marchio grafico del Teatro Popolare Italiano .11 Le indagini di mera antropologia che mettono in luce solo certe modalità automatiche della composizione d’immagine, nelle forme visive di comunicazione non riescono o non vogliono tener conto della continua trasformazione intellettiva degli impulsi emotivi, avvenuta nell’uomo attraverso il processo storico di evoluzione concettuale. Ad ogni impulso corrisponde un ripensamento, un’analisi istantanea, una correzione, una limatura; così nell’ideazione di un monogramma come nella rappresentazione di un fenomeno atmosferico; riprodurre il tuono o la pioggia non serve soltanto per comunicare un’emozione primitiva di paura o di impulso al rifugio ma semmai apre la via ad una suppo-sizione o a una serie graduale di supposizioni simboliche, dalla premonizione di avvenimenti negativi, ad una analogia con stati d’animo, con situazioni calate nel reale e non necessariamente disorganiche o asin-crone rispetto al contesto, così come ostacolo all’azione che era immi-nente, blocco di determinati movimenti etc. nell’ambito di una sequenza di sviluppo o di raccordo tra avvenimenti che si snodano sullo schermo. Il processo mentale di metafora iconologica è un processo acquisito dall’uomo medio per via di lunga e consolidata discendenza evolutiva: i fattori neurovegetativi rispetto alla percezione concettuale, - simbolizzante o interpretativa — sono zone limitrofe o di emergenza marginale, non certo come al tempo del “buon selvaggio” : gli sviluppo intellettivi sono predo-minanti nei confronti degli schemi-motori, dei fattori sensorio-percettivi o psico-affettivi; la stessa visione di un “lager” rimanda oggi più ad una scelta ideologica che ad un effetto di simpatia emozionale e di compas-sione lagrimosa per le vittime della furia nazista. Se l’uomo contemporaneo soffre di qualche eccesso è proprio nell’esercizio intellettuale delle facoltà affettive; dell’analisi concettuale degli avvenimenti e dei valori che si pongono di fronte (e l’ironia così diffusa, a tutti i livelli, ne è una prova lampante); i fatti di natura passionale vanno perdendo, nella sua struttura psichica, la prevalenza che potevano avere al 11 vedi “Almanacco Letterario Bompiani” 1963, “Civiltà dell’immagine” (Milano-1962). 43 tempo del Rinascimento, o del Medioevo o della mistica rivoluzione cristiana. Ci sembra pertanto sempre verificabile la sovrapposizione di una comprensione (intuitiva o riflessiva) ad una ricezione sensoria d’immagini in movimento, in ispecie quando essa non è subliminare né avulsa da un contesto di significati, o meglio, di elementi narrativi. È proprio la interrelazione tra quest’ultimi, il loro comporsi in discorso che aiuta a espandere concettualmente un’idea primitivamente delineata introducendo una garanzia di attività raziocinativa rispetto agli elementi che possano essere usati per via di impatti emozionali o misti. Anzi, l’attività psichica dello spettatore comune di fronte ad una novella o romanzo cinematografico è proprio quella della normale (e, spesso, banale)
concettualizzazione del racconto per cui i criteri valutativi sono soprattutto quelli della coerenza e della verosimiglianza, che non sono certamente criteri emotivi. È solo ad un gradino superiore che lo spettatore meglio preparato riesce a seguire le formulazioni di struttura meno ovvie e perfino gli elementi simbolici o metaforici che l’autore ha inserito nei raccordi dello sviluppo contenutistico. Le manifestazioni organiche dell’emozione o gli atteggiamenti posturo-affettivi (identificazione, odio, risentimento riflesso e immediato contro le immagini o le figure inscritte nell’immagine) sono nella realtà meno frequenti di quanto si supponga e, in genere, sono diffuse fra quelle persone che anche nella propria vita reale di relazione agiscono e reagiscono in maniera endocrina più che sotto il controllo del raziocinio. Tali reazioni sono registrabili, per tali persone, anche di fronte alla lettura di un qualsiasi romanzo, attraverso il quale s’identificano col protagonista (o, comunque, con l’eroe), al racconto un po’ vivace da parte di un amico o amica etc. etc. È strano che lo stesso Cohen-Séat parli di una tecnica cinematografica come di una manipolazione meccanica delle immagini in cui “non regnano che l’ispirazione e il caso, la scommessa e la preferenza, l’alchimia e il sortilegio” e si domandi “dove sono quella perizia controllata dall’intelligenza, quel controllo sistematico del mezzo per il fine previsto?” Non si pone, cioè, nemmeno per inciso il problema di quel che voglia significare il montaggio nel linguaggio dinamico-visivo del film, perdendo completamente di vista gli esempi testuali e teorici (“Film Form”) di un Ejzenštejn. E certo, una delle questioni “tecniche” più scottanti che oggi sembra riproporsi è proprio quella del montaggio: il montaggio non è affatto scomparso anche se si è avvicinato di più alla tecnica narrativa letteraria 44 ed è spesso diventato, per così dire, “invisibile” , tendendo cioè a seguire più fedelmente lo sviluppo di ogni scena, così da farsi più connaturale alla logica di attesa dello spettatore; abbandonando cioè quel ritmo metame-rico, tutto sbalzi e stacchi (e attrazioni) che aveva nel periodo degli anni tra il ‘20 e il ‘30. Ma il montaggio resta ancora e nettamente una continuità di sutura fra le immagini, voluta e pensata e talvolta prearchitettata in termini concettuali o logico-discorsivi. Il montaggio è quello che conferisce senso, sentimento, tono e intenzioni attraverso la simbolizzazione di riferimento e di correlazione: è quello che opera la connessione tra l’esistenza presente, passata e futura delle cose, degli eventi e delle condizioni, ha una funzione che i linguisti, tipo Morris, chiamerebbero designativo-valutativa. Il montaggio di tipo più recente si avvale di una logica che lo spettatore ha acquisito a furia di esser lettore di “cinema” , e qui, forse, varrebbe la pena di ricordare che anche il romanzo come “tecnica narrativa” non risale per la sfera di diffusione, oltre la fine del ‘700 e che i soliti critici millenaristi vedevano in esso un’arte destinata al fallimento e a stento riuscivano a salvare la dignità del romanzo storico, l’unico “all’altezza dei poemi o della tragedia classica, cioè dei canoni espressivi marmorizzati per il lungo uso e per l’assenza di innovazioni tecniche”. Proprio il montaggio sembra dar più noia delle altre cose ai denigratori di professione del linguaggio filmico, perché è la sua funzionalità su piani plurimi
di espressione che dà al racconto cinematografico una singolare bivalenza come storia di fatti e storia di cause e concause ed effetti di natura etico-sociali e insieme concentrabili in un individuo “tipico” (ma non medio). È chiaro d’altronde che non sempre la struttura ideologica, tematica ed emotiva raggiunge il livello che assume nelle opere di un Dreyer, un Ėjzenštejn, uno stesso Visconti, ma è importante che si possano far nomi concreti per rimandare la verifica su opere esistenti, opere in cui si ha questo senso di un’esplorazione più vasta della realtà, di un mondo aperto a scontro di problemi, un senso della storia “in fieri” . Così il montaggio, come ha mutuato una logica di linguaggio dalla letteratura così, in situazione reciproca, è venuto influenzando buona parte dei tagli e degli stacchi della narrativa del ‘900, stimolandola a superare la barriera di un pedissequo svolgimento temporale. E sembra un fatto non contestabile che pian piano, quei punti di vista strani, bizzarri, fuori del normale modo di guardare che alcuni registi 45 venivano proponendo, sono stati accolti sempre più dalla coscienza comune come naturali, spontanei e necessarii (cioè, verosimili sul piano estetico), sempre che lo spettatore avesse la convinzione che essi venis-sero giustificati dalla geografia (o dalla topografia) dell’azione o dallo spostamento ritmico dell’azione drammatica. Proposte che comunque scansavano il limite dell’indistinto e dell’informe, e insieme quello del naturalismo illustrativo, pur suggerendo uno scandagliamento non superficiale del mondo, della realtà. Il vero atto estetico, per quanto innovatore, ha sempre in sé questi germi di persua-sione ché risolve in sintesi le molteplici contraddizioni della vita; né la tecnica del film si risolveva in questi autori nell’assemblage di materiale plastico, nella ostentazione causale di oggetti, nella disponibilità totale dell’ordito reversibile in tutte le direzioni, secondo tutti gli stili e proce-dente da una indifferenza morale d’avvio, o da un’antistoricità programmatica. Lavorare sulla realtà oggettiva con l’occhio della camera non è compiere atti di complicità con il caos, non è ripercorrere il processo dell’accaduto senza mutare virgole, parentesi, incidentali e causali, ma è un distaccarsi dal senso di ambiguità per recuperare un senso dialettico negli avvenimenti; non è estraneità, neutralità, fissità cadaverica di fronte al movimento della storia ampia o meno ampia, emblematica o lineare. Le impressioni di distanza, le minime differenze di posizione, l’entità e la velocità degli spostamenti, la cd prospettiva aerea (lo sfumare i contorni degli elementi compositivi lontani), l’inquadratura e l’angolazione, l’apertura di campo e l’entrata di un personaggio da un determinato lato di ripresa non sono frutto di un atteggiamento automatico ma di una valutazione intuitiva del regista; questi vuole che la rappresentazione emozionale corrisponda alla sua stessa vista mentale e che le immagini si configurino in modo da rinviare a delle idee, a dei concetti oltre che a delle emozioni. L’occhio, in genere, è incapace di fissare il ricordo preciso di un colore, di una linea, di un disegno e di paragonarli alle loro riproduzioni matematiche; associa, invece, a simili immagini altre impressioni, di tipo simbolico, sia acustico, sia visuale, che strettamente sensoriale e il buon regista deve ben sapere che si può essere fuorviati dalla passiva registrazione fotografica alla quale venga a mancare
questo ricco strascico di sensazioni e di associazioni; per questo si induce a giuocare sui fenomeni di contrasto simultaneo, per suggerire, per trasmettere i segni e i rapporti della realtà con una energia superiore alla semplice specularità. 46
Fare un film, possederne, l’intima tecnica, infatti, non è soltanto creare delle inquadrature, ordinarle, montarle, dare ad esse una carica emotiva, ma è soprattutto far risaltare i rapporti di significato, proporre senza ostentazione l’alone etico, ideologico, concettuale da cui si è staccato quel particolare tipo di discorso che assume la sua ragion sufficiente in ogni elemento della sua forma. Il vero ritmo non è quello temporale aggiunto meccanicamente a quello spaziale ma è quello che sia contemporaneamente funzione di tutte le coordinate spaziotemporali (cioè storiche); non si tratta cioè, come credevano gli sperimentalisti puri alla Fishinger, od onirici alla Richter, di un mero accumulo di variabili geometriche ma di una strutturazione drammatica dove ogni giuntura, ogni nodo faccia riferimento ad un segno o ad un simbolo precedente e nell’atmosfera umana di emozioni control-late, questi facciano riferimento a dei valori e a delle prese di posizione nei confronti dell’evoluzione o dell’involuzione della realtà. Il terminus ad quem Qui potrebbe, di fatto, inserirsi un lungo e non inappropriato discorso sulla cultura cinematografica dello spettatore, sulla sua capacità di ricezione analitica, intellettiva e non soltanto emotiva dell’immagine filmica. 47 Si tratta di quello che in studi comportamentistici viene denominata “disposizione a rispondere” , cioè - oltre i termini di mera psicologia - lo stadio culturale e di sensibilizzazione di una persona perché essa dia luogo ad aperture e ad assorbimenti.
In questo senso è stata giustamente tirata in campo, e nel campo della responsabilità etica, l’educazione dello spettatore comune dato che come si può mancare di “orecchio” per la musica, si può mancare di “occhio” per l’immagine, pur ascoltando note e vedendo film. Esiste, cioè, un processo maturativo nella ricezione (nell’apprendimento) delle immagini che è ben diverso da quello rappresentato dalla cosiddetta assuefazione o condizionamento dei riflessi; il progresso viene ottenuto, come è naturale, con l’esercizio e col seguire un metodo di pratica pedagogia, anche se le curve individuali mantengono un indice differente da quelle medie, quelle sulle quali innestano la loro polemica diversi sociologhi, più o meno “volgari”. La facilità, la rapidità e l’intensità di una reazione analitica si rafforza secondo il potenziale d’abitudine, cioè d’allenamento; saremmo inclini a dar ragione a C.E.Osgood che viene postulando resistenza, nell’ambito delle grandi reazioni, di reazioni tempuscolari, non rintracciabili col sistema dell’autocoscienza ma che fungono da “mediating responses” fra le percezioni di vario grado e possono venire apprese per il principio del “rinforzo delle reazioni” ; una sorta di suoni enarmonici presenti nel quadro ricettivo. Si può dire che la cibernetica possa servire ad esemplare come siano collegati i processi di apprendimento con i fenomeni di chimismo neuro-vegetativo e come la struttura psichica sia presente con tutte le sue dira-mazioni nel momento di risposta ad una rappresentazione esterna e come questa struttura sia suscettibile di accrescimento coordinativo, di molti-plicazione delle organizzazioni analitiche, in proporzione con la tensione e con la concentrazione. L’occhio, il meno sensuale dei sensi, che “compie infinite operazioni più veloci che siano e in un punto vede infinite cose” (Leonardo) non è affatto “l’organo più ostile e più estraneo ai significati” (Moravia) ma il tramite più analitico tra la realtà e il pensiero; l’em-pirismo, l’unica filosofia dalla quale il mondo moderno ha ereditato i concetti di realismo (e da cui ha imparato a temere della metafisica sotto ogni forma, teologica o idealistica o astrattamente razionalistica), ha sempre utilizzato le cognizioni visive e sensoriali per fare i conti col concreto, senza peraltro cadere in tautologie logiche o in giochi nominalistici; al contrario, molta speculazione fatta ad occhi chiusi, molto pensare fatto di 48 sole concatenazioni logiche ha dato i frutti sterili dell’accademismo o della retorica; basti pensare al fatto, fisiologico e inoppugnabile che un cieco nato cui ritorni la vista, deve abituarsi a vedere il mondo nella sua tradi-mensionalità, perché a lui esso appare, all’inizio, irrimediabilmente piatto. Ad occhi chiusi, il cervello finisce col tessere il proprio filo di reale, senza più correlazioni con i problemi che vivono e urgono all’esterno, e la cui assimilazione e transvalutazione rende realistica sia l’operazione scientifica che quella estetica; l’algebra, dopotutto, può applicarsi alla fisica ma non può sostituirla o sovrastarla. Per tornare all’educazione all’immagine, si può quindi presumere che si vengano sviluppando nell’uomo nuove facoltà per accogliere e comprendere.
Insomma, l’educazione estetica, l’affinamento delle capacità analitiche è un lavoro vero e proprio che va fatto con sforzo e costanza per diventare appropriazione non indebita del significato dell’opera d’arte, e cioè della realtà interpretata dal regista (o musicista, o romanziere che sia). L’analisi sarà un procedimento in cui però non si separi la ragione dalla emozione, il concetto dal sentimento globale della vita, ché altrimenti si avrebbe da una parte lo spettatore di eccessiva raffinatezza, quello per il quale il mondo è un recipiente vuoto o baroccheggiante e dall’altra lo spettatore “sentimentale e passionale” per cui i fatti contano nella loro qualità primaria e inducono ad una visione univoca, cieca e arbitraria della realtà, senza contraddizioni dialettiche, senza antitesi e pertanto senza possibilità di vere sintesi e di vero sviluppo storico. Nello spettatore critico, o - almeno - non sprovveduto, i dati emozionali devono essere sempre integrati, sorretti, illuminati dalla operatività concettuale che essi integrano e chiariscono con costante reciprocità. E proprio nel senso in cui Marx scriveva: “Come la musica stimola il senso musicale dell’uomo e per l’orecchio non esercitato la più bella musica non ha senso (non è un vero oggetto), giacché il mio oggetto è solo la conferma di una mia forza essenziale e, di conseguenza può essere per me soltanto come la mia forza essenziale, facoltà soggettiva, è per sé, dato che il significato di un oggetto per me (oggetto che ha un significato solo per un senso che gli corrisponde) si estende tanto quanto si esercita il mio senso. Così i sensi dell’uomo sociale sono ben diversi dai sensi dell’uomo aso-ciale; solo per il tramite della completa ricchezza oggettiva dell’ente 49 umano accade che la ricchezza soggettiva dell’umana sensibilità e cioè che un orecchio musicale (o un occhio “filmico”) - un occhio teso alla bellezza della forma - che insomma i godimenti estetici dell’uomo diven-tino sensi operanti, sensi che si affermano come forme essenziali dell’umanità e sono in parte educati e in parte prodotti” 12. Insomma, l’educazione estetica, l’affinamento delle capacità analitiche è un lavoro vero e proprio che va fatto con sforzo e costanza per diventare appropriazione non indebita del significato dell’opera d’arte, e cioè della realtà interpretata dal regista (o musicista, o romanziere che sia). L’analisi sarà un procedimento in cui però non si separi la ragione dalla emozione, il concetto dal sentimento globale della vita, ché altrimenti si avrebbe da una parte lo spettatore di eccessiva raffinatezza, quello per il quale il mondo è un recipiente vuoto o baroccheggiante e dall’altra lo spettatore “sentimentale e passionale” per cui i fatti contano nella loro qualità primaria e inducono ad una visione univoca, cieca e arbitraria della realtà, senza contraddizioni dialettiche, senza antitesi e pertanto senza possibilità di vere sintesi e di vero sviluppo storico. Nello spettatore critico, o - almeno - non sprovveduto, i dati emozionali devono essere sempre integranti, sorretti, illuminati dalla operatività concettuale che essi integrano e chiariscono con costante reciprocità. Contenuto, forma e informazione dell’immagine filmica
L’immagine filmica, allorché risulta fusa, consistente, coerente con le strutture precedenti e successive non è priva di spessore culturale: dall’impressionismo, ad esempio, il buon cinema, i buoni registi hanno derivato la capacità di promuovere a materia estetica i paesaggi quotidiani, la luce fresca del “plein air” , hanno imparato a proiettare l’uomo nella prospettiva dei luoghi a lui connaturali. Né può essere tralasciata la profondità semantica del fotogramma (riuscito sul piano della configurazione artistica): esso ha non solo un significato immediato, ma un significato di riferimento; la qualificazione formale dell’inquadratura, nell’ambito della coerenza stilistica dell’opera, è data dagli stimoli, dai rinvii culturali che accrescono, in progressione geometrica, la ricchezza dell’immagine e la riempiono di molteplici risonanze nell’attenzione dello spettatore quanto più ampia, come abbiamo visto, è la sua educazione estetica. 12 K. MARX, Manoscritti economico-filosofìci, Roma 1946 50 Il problema si può semplificare facendo appello all’interpretazione, più o meno istintiva, degli schemi figurativi: cerchio, quadrato, piramide e poi onde, nuvole, etc. che possono considerarsi categorie “ataviche” più che archetipi dell’anima individuale e collettiva. Ciò che è stato chiamato nel cinema “materiale plastico” corrisponde a questi paradigmi di riferimenti simbolici, e qui simbolo va inteso, come abbiamo detto, nella sua più capiente accezione non certo come semplice segnale o informazione ma collegamento con una storia di significati di cui il più complesso sarà scelto dallo spettatore più istruito e quello più semplice verrà posseduto dal meno “istruito” come accade anche per le metafore dell’uso comune (ad es. “fondo dell’anima” ), su cui l’uomo di cultura può intuitivamente trarre rapporti di significato, mentre l’uomo comune non riesce a concentrarvi la sua riflessione, per “analfabetismo analitico”. E così come la metafora verbale, anche il simbolo iconico è un procedimento, insieme di fantasia, sentimento e ragione, col quale riusciamo ad afferrare ciò che si trova oltre l’arida capacità di sillogizzare, cioè oltre la sequenzialità del mero calcolo combinatorio di natura concettuale. Anche il movimento interno delle inquadrature, la loro “misura metrica” , le prospettive che esse aprono su certi angoli o certi settori della realtà sono elementi non certo ornamentali ma vere e proprie funzioni di linguaggio, componenti di una morfologia tanto più complessa quanto più comprensiva di mezzi di altre tecniche espressive. Ecco quanto nota una saggista e romanziera francese: “Ces mouve-ments sousjacents, ce tourbillonnement incessant, semblable au mouve-ment des atomes, que toutes ces grimaces mettent au jour, ne sont eux-mêmes rien d’autre que de l’action et ne diffèrent que par leur délicates-se, leur complexité, leur nature pour employer un mot cher a Dostoiev-ski, “souterraine”, des grosses actions de premier plan que nous montre un roman de Dos Passos ou un film” 13. E un teorico francese ha potuto osservare nel “Aleksandr Nevskij” di S.M.Ėjzenštejn come l’aggressività dell’inquadratura sia sostenuta con composizione ad angoli acuti o a triangoli chiusi (tema che si ritrova nell’iconologia delle lance, dalle linee oblique) e come l’atteggiamento difensivo sia suggerito attraverso quadrati o cerchi e semicerchi e l’autorità per per mezzo di piani sopraelevati o triangoli ad angoli larghi puntati verso l’alto.
13 N. SARRAUTE, L’ère du soupçon, Paris 1956. 51
Il timore che molti hanno nutrito per la nascita del cinema sonoro – che sembrava dovesse venire a contaminare due linguaggi diversi, derivava appunto da questa debole presa di coscienza del cinema come “linguaggio composito” , una lingua cioè priva di scrupoli e di inibizioni “razzistiche” , pronta ad assimilare e ad incorporare, per la sua natura dinamica, qualsiasi altra strutturazione di qualsiasi altro linguaggio. Ciò non toglie che il cinema ha sempre corso, per questo motivo, i maggiori rischi di compromesso, di fallimento, di facile resa alla pigrizia immaginativa (nel senso di lasciar lavorare “l’opera aperta” , di puntare su una casuale combinazione di significati, semmai pienamente involontarii) ma ha dimostrato nelle sue opere impegnative una maggiore capacità di rispecchiamento, di intensificazione, scansione e scandaglio della realtà secondo un ritmo più quotidiano, cioè meno stretto in regole dipendenti dall’artificio e meno legato ad esclusioni di argomenti, materie o figurazioni. Data la complessità tecnica che offre il cinema, lo strumento cinematografico, il regista non può giuocare facilmente con un concetto spurio di creatività: essa non può intendersi, come è per i teorici di un’avanguardia antirealista (e quindi, antistoricista) come mera spontaneità o assoluta novità, concepite come modi esteriori e materiali, come segni inadeguati, 52 ma imposti attraverso bizantinismi subvocali, pieni insomma di “con-traddittorie significazioni apprezzative e descrittive” . La creatività del regista verrà fuori dal duro tirocinio di far convergere tanti elementi discordi, non omogenei in una ben fusa rappresentazione dei tratti essenziali di ciò che si pone di fronte all’uomo come problema umano reale, cioè casi morali, psicologici e sociali interagenti a tutti i livelli di incidenza storica.
Così avranno solo vita da “laboratorio” quegli esperimenti puramente formali e “in vitro” dove la musica si trasforma in linee e le linee in colori o vibrazioni; esse saranno solo “esercitazioni” utili ad integrare il linguaggio, ma non linguaggio filmico concluso. Così non potrà essere rifiu-tato l’antecedente dialogico del teatro ma dovrà essere innestato sulla scoperta ed esplorazione del volto umano, del sentimento filtrato attraverso la misura mimica che terrà a bada e sotto controllo la misura delle parole, in un giuoco difficilissimo di commisurazione e rispondenza tra parola e gesto, gesto e parola. Ci piace citare, a questo proposito, la parola di un critico recentemente scomparso: “Nel 1928 l’arte muta aveva raggiunto il suo apogeo. La disperazione fra i migliori di quanti assistettero allo smantellamento di questa perfetta città dell’immagine si spiega, anche se non si giustifica. Sulla via estetica, sulla quale il cinema si era allora impegnato, sembrava loro che essa fosse divenuta un’arte estremamente adatta alla “squisito impedimento” del silenzio e che, dunque, il realismo sonoro non potesse che rigettarla nel caos. Infatti, ora che l’uso del sonoro ha dimostrato a sufficienza che esso non veniva ad annullare l’Antico Testamento cinematografico ma solo a completarlo, sarebbe opportuno chiedersi se la rivoluzione tecnica intro-dotta dalla banda sonora corrispondesse effettivamente ad una rivoluzione estetica, se, in altri termini, gli anni 1928-30 siano effettivamente quelli della nascita di un altro cinema. Esaminata dal punto di vista del decoupage, la storia del film non lascia apparire una soluzione di continuità così decisa come potrebbe credersi, fra il muto e il parlato. Al contrario, potrebbero scoprirsi dei rapporti tra certi registi degli anni ‘25 e altri del ‘35 e soprattutto del periodo 1940-50: per esempio, tra Eric Von Stroheim e Jean Renoir o Orson Welles, fra Carl Theodor Dreyer e Robert Bresson. Ora queste affinità più o meno nette provano innanzi tutto che è possibile gettare un ponte al di sopra delle fenditure degli anni ’30, 53 e che valori del cinema muto rimangono in quello parlato…” 14. Ciò per quanto riguarda le analogie di spettacolo, ma le analogie di struttura discorsiva e di valori discorsivi sono molto più in profondo. Ricordiamo, per cominciare (ci si scusi delle frequenti citazioni, ma quando si tratta di una battaglia culturale, non si può fare a meno di questi così saldi ausilii polemici) quanto scrive uno dei massimi semioticisti, Charles Morris: “Gli entusiasti della parola pronunciata hanno cercato spesso di far derivare ogni altra forma di segno dai linguaggi parlati-uditi. Questo può essere vero per alcune forme di linguaggio; ma non è sempre vero per i segni in generale. I segnali, così come noi abbiamo usato il termine, possono essere uditivi senza essere segni linguistici e i meccanismi psicologici per cui un suono diviene segno, si applicano egualmente bene e altrettanto direttamente agli stimoli visivi. Sembra probabile che i suoni e le cose viste siano due sorgenti indipendenti di segni e che sebbene l’una, potendolo, abbia usato l’altra (come il disegno è divenuto in parte subordinato al parlare nello sviluppo della scrittura), i due sviluppi abbiano proceduto parallelamente divenendo l’uno o l’altro relativamente più importante in certi stadi della storia umana. La semiotica non deve trascurare né l’uno né l’altro, né la complessità delle loro interrelazioni”15.
Per ritornare alle analogie, e alle equivalenza dei valori e funzioni (non alla similarità), si può ricordare inoltre che non è da poco tempo che i linguisti parlano di frase segmentata, cioè di una frase che risulta dalla condensazione di due coordinate, ma in cui la saldatura è imperfetta, per guadagnare in dinamismo: questo è tipico di quelle sequenze filmiche in cui si riprende, en passant, qualche elemento anticipato per rendere conto di un certo sviluppo e di un certo snodamento di accadimenti successivi, quell’elemento diventerà così l’origine concettuale di uno svolgimento di azioni per quanto imperfettamente coordinate con le precedenti (segmentate). E ancora, per quanto riguarda i dati emotivi, non sono certo sconosciuti in linguistica i monoremi e i diremi, cioè quegli istantanei e brevissimi periodi esclamativi attraverso i quali il lettore si immedesima nello stato 14 A. BAZIN, op. cit. 15 C. MORRIS, Segni, linguaggio, comportamento, Milano 1963. 54
d’animo del protagonista o comunque del personaggio della vicenda, e pur ignorando talvolta le ragioni che conducono a tali interiezioni (cosa che accade frequentemente quando lo scrittore usa il discorso à rebours). Né il linguaggio d’immagini manca di “discronia” , come sostiene il Kracauer, perché si può benissimo rendere, attraverso variazioni simboliche della iconologia presentata, il passaggio del tempo per una persona, una cosa e in modo non meno conciso che in letteratura. Così il cumulo di significati, il condizionamento reciproco, l’ellissi, il segno zero, l’anticipazione sono forme analitiche e sintetiche che non si possono non rinvenire anche nel linguaggio filmico anche se, in esso, più inclini ad una linearità di posizione, meno distassici, insomma, di quanto lo siano generalmente nella lingua parlata e scritta.
Così, è interessante notare come i possessivi, gli articoli, i dimostrativi siano chiamati in semantica “attualizzatori” cioè elementi che tendono ad attrarre nella coscienza istantanea e contemporanea anche fatti accaduti nel passato, prossimo o remoto che sia. Né sono estranee al linguaggio filmico costruzioni avviluppanti o ad incastro e le “sequenze progressive” tipiche delle lingue più dinamiche e moderne, meno impacciate da vieti tradizionalismi e più rispondenti ad esigenze di realtà. Considerazione quest’ultima che vale anche per la già menzionata 55 “segmentazione” che, per analogia, si può assimilare al montaggio per stacchi immediati. Dice infatti il Bally: “La segmentazione, così caratteristica della lingua francese (in opposizione alla frase tedesca) è un procedimento eminen-temente espressivo; A z e Z a (cioè le curve ascendenti e le curve discendenti dell’enunciazione) derivano dalle tendenze opposte dell’espressività, l’attesa e la sorpresa. In A z il tema produce un effetto di tensione e fa desiderare il proposito, che acquista tutto il suo valore con questa preparazione. Al contrario, in Z a, il proposito si rivela all’improvviso, violentemente e il tema è come l’eco di questa esplosione” 16. Sembra di ascoltare l’analisi di un brano cinematografico e in particolare di uno di quelli a contenuto e a temperatura altamente emozionale, (cioè non dei più realistici). Ma ciò che ci interessa è rilevare le affinità strutturali che spesso vengono negate sul piano teoretico per inficiare la qualità e il carattere di linguaggio al discorso per immagini. Affinità strutturali il cui uso è stato ben chiarito dal Kaplan nel suo ottimo saggio su “Il Significato riferitivo nelle arti” : “La tesi - dice Kaplan - è semplicemente che dove esiste riferimento nelle arti, esso è veramente essenziale, non in quanto riferimento ma in quanto contributo all’espressione, ma che l’espressione può aver luogo anche senza riferimento…” .Più avanti, il Kaplan insiste contro la concezione “dualista” del discorso in cui “vengono distinte più o meno recisamente due specie di significato “emotivo” e “cognitivo” . Poiché si riconosce che entrambi possono ricorrere congiuntamente ed interagire fra loro essi vengono concepiti come separati e distinti e vengono posti in relazione solo quando ciò sia richiesto da fenomeni specifici del significato” 17. “Da ciò, - continua Kaplan - si hanno le due correnti del “letteralismo” e dello “emotivismo” nel primo si assimila l’arte alla scienza secondo l’identità “riferimento = significato-cognitivo = discorso scientifico si considerano allora i segni estetici come segnali che trasmettono messaggi isolabili e benché si riconoscano gli elementi formali e sensorii essi non formano parte del contenuto trasmesso”, in questo modo, ad es., la pittura viene assoggettata ai criteri della mera fotografia o dell’illustrazione e la letteratura diviene scienza sociale o politica, etica o religiosa. 16 C. BALLY, Linguistica generale e linguistica francese, Milano 1963. 17 A. KAPLAN, Estetica Semantica, in “Nuova Corrente” , 1963. 56
L’emotivismo, in opposizione al letteralismo, sostiene invece che il soggetto trattato dall’artista è irrilevante agli effetti del valore estetico e, in aggiunta, esso è considerato irrilevante altresì agli effetti del significato estetico. “Al contrario, - osserva giustamente Kaplan - oggi un Rouault non è usato per gli scopi religiosi cui servivano un tempo le pitture del Beato Angelico, tuttavia sarebbe ozioso negare che il suo argomento religioso sia in qualche modo importante per il suo contenuto estetico, quale che possa essere tale contenuto. La più debole versione dello emotivismo è quella incapace di distinguere le emozioni esteticamente espresse da quelle evocate mediante il riferimento, perché associate con ciò a cui si fa riferimento” 18 . Continuando ad esaminare gli elementi strutturali del linguaggio filmico, si può considerare la cosiddetta trama come lo schizzo genetico del racconto, e la sintassi, (pause, stacchi, scelta dello sfondo, ambiente, gradi variabili di luminosità, presenza di ritmi paralleli o contrastanti, osservazioni intermedie), lo sviluppo effettivo di quell’embrione; nel romanzo co-me nel racconto cinematografico esse non possono venir separate senza che l’uno perda il significato che è anche dell’altro. Anche nell’immagine esistono, insomma, le “valenze significanti” cate-gorizzate dal Peirce e cioè: “1) indice 2) icone 3) simbolo: elementi che producono significato, rispettivamente, mediante 1) connessione fisica, 2) somiglianza; 3) riferimento molteplice, e che stanno, proporzional-mente parlando, ai tre tipi di riferimento chiamati: 1) indicazione; 2) rappresentazione 3) menzione ( o, secondo noi, meglio “rinvio”)”. Come ben spiega il Kaplan: “Un’icone è in parte un segno naturale - la somiglianza su cui riposa il suo significato è un dato di fatto non una decisione ma è anche, in parte, convenzionale, perché la sua interpretazione richiede l’appuramento di quali caratteristiche del veicolo sono iconicamente significative (per es. l’aureola, nei ritratti religiosi); richiede la conoscenza della correlazione in termini della quale esistono le somiglianze (per es., il tipo di prospettiva nella pittura bizantina e nella egiziana) e richiede una partecipazione, all’organizzazione percettiva, della cultura di ciò che viene rappresentato (ad es. i diversi tipi di acqua e di montagne come vengono percepiti dai cinesi e riprodotti nelle loro 18 A. KAPLAN, ibidem. 57 pitture). Le convenzioni della rappresentazione possono essere chiamate la sua stilizzazione. Ogni rappresentazione, nelle arti, è stilizzata; la sola icone interamen-te non convenzionale è una mera riproduzione e, qui, la funzione segnica corre il rischio di andar perduta del tutto in quanto la somiglianza viene sostituita dalla identità percettiva (le maschere di cera dei musei tipo Grévin non sono più considerate opere statuarie e tutta la pittura trompe-l’oeil ha un valore di tipo particolare, psicologico ma scarsa-mente estetico). Allo stesso modo anche l’indicazione può contenere elementi convenzionali importanti, per esempio, nell’arte dell’attore; possiamo considerare anche queste convenzioni come stilizzazioni e distinguere gli indici completamente non convenzionali come sintomi;… vi sono poi differenze di grado esteticamente importanti: un’icone può esaurire le proprietà percettive di ciò che rappresenta
facendo astrazione solo da quelle non percettive: ciò è esemplificato, di nuovo, dalla pittura “fotografica” la quale, a causa della irrilevanza per l’arte di ciò che non compare nell’esperienza immediata, non è affatto chiamata astratta. All’estremo opposto, vi è la redazione di carte geografiche, nel senso matematico dell’iso-morfismo, dove tutte le qualità percettive vengono trascurate. Una forma d’arte che si avvicini a questo polo dell’astrazione è probabile che manchi di ogni riferimento (musica) oppure che si appoggi tanto alla convenzione da perdere l’iconicità (le decorazioni geometriche della porcellana)” 19. Ciò che Kaplan indaga nel linguaggio (graduale) dell’arte si può constatare anche nel lessico comune dove l’emozione in una parola è accompagnata sempre ad un giudizio che chi parla sarebbe pronto a sostenere con argomenti di logica concettuale. L’accumulazione semantica dei significati concettuali e dei riferimenti emotivi è un fondo molteplice di esperienza storica, di spessori di significato che conferiscono ricchezza di umanità, al discorso; la struttura delle espressioni emotive si rivela ad un’indagine semantica un’elaborata accumulazione di significati connessi. Una conseguenza cospicua dell’analisi del discorso poetico è quella di aver mostrato che la forza emotiva della lingua viene rafforzata precisamente col rilevare le sue implicazioni, cioè i suoi significati riferitivi che sono, nel loro nucleo, dei veri e propri rap-19 A. KAPLAN, ibidem. 58 porti concettuali, dato che ciò cui si fa riferimento può essere il centro focale di un insieme indefinito di atteggiamenti e situazioni la cui selezione è operata dallo stesso contenuto espressivo. Anche l’icona, come la parola, ha questa capacità di accumulazione e di implicanze di significati o di incorporazione di riferimenti come “qualitàvalori” e in tal senso la metafora “iconologica” (o rinvio) non è affatto una semplice circonlocuzione ornamentale per esprimere ciò cui si potrebbe accennare per via diretta, essa è un predicato multiplo, una stratificazione di qualità espressive che rimandano ai polisemi che l’immagine ha assunto durante la sua storia e nella risonanza di trasmissione da una generazione all’altra. Così in “Poetry Imagery” , Thomas S. Eliot ripercorre il suo stesso cammino d’artista,quando dice: “E solo una parte delle immagini di un autore vengono fuori dalle sue letture. Esse vengono dall’insieme della sua vita sensitiva fin dalla prima infanzia; perché, per tutti noi, di tutto ciò che abbiamo udito, visto, o sentito, in un’intera vita, vengono a ricorrere solo certe immagini cariche di emozioni e di significati, piuttosto che altre? Tali memorie possono avere un valore simbolico, anche di ciò che non possiamo dire perché vengono a rappresentare la profondità della sensazione e del sentimento” 20. C’è infatti una storia delle immagini che è storia della coscienza che di esse si è avuta, di volta in volta, donde non solo un rimando ma un sovrapporsi di rimandi rispettivamente incrociantisi con rinvìi affettivi e concettuali. Esiste, insomma, anche una dimensione “geologica” dell’immagine, così come della parola, così come esiste una sorta di coscienza verticale per esempio “nel rapporto tra croce e
cristianesimo; il cristianesimo è sotto la croce come una massa profonda di credenze, di valori e di pratiche” (Barthes). L’immagine implica sempre l’esistenza di un serbatoio di memoria organizzata, conscia o inconscia, dove è sufficiente il più piccolo mutamento di stimolo per operare un mutamento di risposta analitica. L’icone, dal punto di vista linguistico, può considerarsi l’attualizzazione di un concetto: il concetto ha sempre in sé qualcosa di freddo, di virtuale ed esprime l’idea di un genere, ma la realtà ignora i generi nella sua calda vita, nel suo procedere dinamico e offre entità individuali suscettibili di 20 T. S. Eliot, Poetry Imagery, in “Selected Prose”, Penguin Bks 1953. 59 tipizzazione, ma rifuggenti dalla scarnificazione, o dal congelamento della astrazione. L’aspetto primario della realtà estetica è la caratterizzazione qualitativa e quantitativa dei suoi processi di rispecchiamento simbolico, puntualiz-zante oggetti essenziali, tipi umani, individualità e rapporti interindivi-duali e interoggettivi; pertanto non si può confondere questo aspetto della realtà estetica con la definizione operativa del linguaggio scientifico o matematico, come una certa corrente estetica cerca di fare a tutto vantaggio dell’essiccazione del realismo in formulette complicate ma non per questo meno schematiche. In questo senso, anche il linguaggio cinematografico, come quello verbale è una rielaborazione costruttiva della realtà, perché i segni linguistici e soprattutto i simboli semantici sono sempre una trasformazione di materia, rapporto o gesto umano in veicolo significante, cui è conferita una struttura ed una funzione appropriate alla finalità estetica. Anzi, il linguaggio per immagini, o composito (verbale-figurativo) avendo una più ampia sfera di comunicazione è in grado di considerarsi come intersoggettivo e in senso lato, istituzionale, fondato cioè su molteplici regole d’uso che non vengono fuori da semplici stipulazioni relative al modo di usare o interpretare i segni, ma dal più ampio contesto della storia dell’uomo. Per esemplificare, queste osservazioni decisamente difficili e non chiare, si può dire che le immagini del “Gabinetto del Dr. Caligari” di Wiene, si rifanno oltre che ai moduli pittorici e illuminativi dello espressionismo, a certe acqueforti del periodo preromantico, alle incisioni della “blacknovel” o “gothic tale” , e giù, giù fino al gusto per l’irrigidimento figurativo del medioevo, e - ciò che più conta - propongono nella loro prospettiva tutta l’iconografia scenica che sarà proprio dell’hitlerismo, il cui germe ideologico, la cui visione del mondo si rintracciano in questo film testimone di una paranoia lucida e fanatica che serpeggia nella storia tedesca. Senza essere un doppione della realtà, una inutile duplicazione o super-fetazione, l’immagine è quindi un contesto linguistico, dove è individua-bile un processo discriminativo di valori; ma si differenzia dal contesto del linguaggio scientifico dove i valori multipli sono resi tutti espliciti, dove ogni capacità allusiva è accantonata e anche i cosiddetti «simboli» sono intesi quali equivalenti di rapporti, funzioni e parametri determinati o da determinare, con un minimo di eccesso o di difetto.
In più nel linguaggio scientifico manca proprio la possibilità del “rinvio” ché una formula geometrica esatta esclude proprio, sul piano 60
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concettuale, le poste arcaiche o quelle comunque precedenti; mentre lo stesso proprio non può dirsi del linguaggio d’immagini: quando vediamo un film francese degli anni‘30, un Carné, un Renoir, un Duvivier sentiamo in esso le suggestioni del raccontare visualizzato degli impressionisti da “La vue de Montmartre” di un Sisley, che prefigura i metodi d’inquadratura alla Carné, a quel “14 Juillet au Havre” di Dufy che ha la stessa vivacità di ritmo, la stessa leggerezza di volumi di una sequenza di Clair (di opera quasi omonima); e così certe strade cupe, solitarie, tutte a svolte di certa pittura italiana riappariranno, più malconce ma non meno vere, nella Ferrara di “Ossessione” o nell’Aci Trezza de “La terra trema”. Ma, soprattutto, riappariranno sotto la scandaglio della memoria semantica certi effetti di neve di Pissarro o la sua visione dall’alto della ban-lieue, o quella consapevolezza, già comune a tanti ritrattisti, del taglio di persona che dal lato mancante assume slancio e senso di racconto in avanti. Vere e proprie pagine di letture a ritroso nella memoria sono state per i registi di gusto oltre che di talento, certi interni olandesi così attenti al più minuzioso décor, ai dettagli borghesi o le composizioni dinamiche di 63
artisti come Degas o Toulouse-Lautrec; o certi tagli “precinematografici”
di un “Dall’alto della diligenza” di un De Nittis o del “Cavaliere fuori strada” di Stefano Della Bella. Del resto già la pittura aveva influenzato la fotografia; come si espri-meva C. Alvaro “basta dare un’occhiata ai gherrotipi di Napoleone III o di Carlotta al Messico per leggervi le varie tendenze della pittura di quegli anni e non soltanto dell’arte ufficiale, che è la meno significativa, ma di quella eccezionale, di un Renoir, per esempio”. E del resto, il rinvio a De Nittis apre la strada a successivi rimandi ad es. ai giapponesi, al loro saper sfruttare i giuochi d’ombra, allo sfiorare le rocce con una certa luce etc etc. Con rara forza di sintesi, dichiarava uno dei grandi operatori messicani Gabriel Figueroa, coautore, in sostanza, di molti film firmati da altri registi, “il nostro cinema è essenzialmente pittorico. Diego Rivera, Clemente Orozco, Alvaro Siqueiros hanno creato uno stile che traduce perfettamente l’animo e le aspirazioni del paese. A noi non rimane che trasferire nel cinema il loro insegnamento”. Anche dove l’operatore riprende come “vede” , non può distaccarsi 64
65 quindi dalla tradizione figurativa nazionale, per una più completa e cioè più storica valutazione della realtà. Per quanto riguarda la nostra tradizione iconologica, ha notato molto acutamente un critico letterario che non disdegna di interessarsi di cinema: “Il Rosai ha impresso un movimento alla sua strada, e persino alle sue case, ai suoi angoli e agli spigoli che si incontrano e si minacciano e tagliano diversamente il cielo e il fondo del quadro: il nastro inferiore, il pavimento stradale pare soggetto a un movimento e tutto il quadro, a chi lo guardi con attenzione, sembra racchiudere qualcosa in più che la rappresentazione statica di un attimo… non altrimenti la macchina cinematografica ci suggerisce il movimento della vita e riprendendo la strada ce la mostra diversa, colorata variamente dalle luci e dalle ombre del giorno, ma sempre umana e viva” 21. Ciò non toglie, d’altronde che anche le descrizioni letterarie siano i re-servoirs semantici dell’immagine filmica; da Poe a Verga; da Hawthorne allo stesso Pavese (si veda Antonioni, per es.) dai meridiani più distanti e nelle parentesi inclusive delle più diverse connotazioni speculari della realtà. È chiaro che interviene nel processo mnemonico-formativo quello che uno studioso di estetica semantica ha chiamato “l’omogeneizzatore estetico-espressivo di un materiale eterogeneo” (Raffa) che ha altresì visto la non districabilità dello stile dal materiale semantico organizzato inducen-dosi ad annotare: “Così che non potrei descrivere e interpretare, poniamo, il linguaggio di Caravaggio senza tener anche conto della conversione, secondo certi schemi formali, dei personaggi della mitologia cristiana, in personaggio-popolo, il che costituisce un luogo iconografico tipico di questo linguaggio” 22. Il linguaggio cinematografico, proprio per la sua qualità semantica, si è rivelato un linguaggio di inclusione più che di esclusione perciò i suoi errori sono più spesso quelli della ridondanza, della sottolineatura, del pleonasma, più che quelli della carenza; la sua forza d’impatto, il suo vi-21 C. VARESE, Cinema Arte e Cultura, Padova 1963. 22 P. RAFFA, Per una fondazione dell’estetica semantica, in “Nuova Corrente” . 66 gore di comunicazione sono le sue note primarie rispetto a quelle secon-darie della misura e del giusto calcolo. Si spiega, con questa sua natura globale, come esso abbia potuto dare una resa sensibile di certi fenomeni della realtà con una percezione vivis-sima del
particolare e del totale e con quella multilateralità che è propria del più acuto sguardo dell’uomo, come abbia potuto rettificare la nostra distanza rispetto a certi accadimenti, togliendoli spesso da quell’atmosfera sacra, liricheggiante, teologica che induceva a crederli non transeunti, imbalsamati in una sorta di misteriosa perennità. Fin qui sembra di aver mostrato come, distinta l’immagine dal mero segno, e anzi accettatala come composizione di simboli oggettivi avvolti in aloni di ricezioni concettuali-emotive, il discorso si complica e si diversi-fica da quello di puro e semplice “tecnicismo” ; esso viene esaminato in quanto trasportatore di idee, di costrutti ideologici, in quanto incanala-tore della pienezza della vita reale con le sue connessioni dialettiche di struttura e di sovrastruttura. Ed è anche verificabile che siamo al di là di ipotesi “gestaltiche”, perché la connotazione di forma nell’ambito della sequenza dinamica delle inquadrature non è più “un attributo passivo delle cose” , ma un’impronta volontaria, una tendenza di significato ad esse impresse dal regista; questi più che isolare certe entità unitarie nell’infinito gruppo dei fenomeni, tende proprio a prescindere dagli automatismi degli schemi mentali e si indirizza verso una combinazione personale degli elementi espressivi. L’organizzazione formale che ne risulta non è solo quella del giuoco meccanico dei rapporti mentali, ma ai suoi più alti livelli giunge a incor-porarsi con i valori morali, con le scelte ideologiche (non partitiche), con le chiavi culturali e storiche d’interpretazione che vivono e operano nella personalità dell’autore. Proprio in base a ciò, il cinema ha frequentemente permesso di capire certe complesse situazioni sociali ed umane, di portarne alla luce le loro più nascoste infrastrutture evidenziando come la manifestazione estetica esprima insieme i modi di pensare e di sentire non come attività indipendenti, in vacuo, ma interagenti rispetto ai modi di pensare e sentire degli altri e coi modi della realtà naturale e sociale che viene tanto più rappresentata in profondo quanto più identificata con la rete dei rapporti intercorrenti tra uomo e uomo, e uomo e storia e uomo e società. Proprio riflettendo sul fatto filmico, il filosofo francese M. Merleau-Ponty ha notato, con limpido acume: 67 “Il film appare come una forma estremamente complessa, all’interno della quale azioni e reazioni estremamente numerose s’esercitano ad ogni istante, le cui leggi restano da scoprire e sono state finora indovi-nate soltanto dal fiuto o dalla sensibilità del regista che maneggia il linguaggio cinematografico come l’uomo che parla maneggia la sintassi, senza pensarci espressamente senza essere in grado di formulare le regole che osserva spontaneamente”. E più avanti: “Analogamente, c’è sempre in un film una storia o un’idea ma la funzione del film non consiste nel farci conoscere o fatti o l’idea. Kant dice con profondità che, nella conoscenza, l’immaginazione lavora a vantaggio dell’intelletto, mentre nell’arte l’intelletto lavora a vantaggio dell’immaginazione; tale a dire: l’idea o i fatti prosaici vi figurano solo per dare al creatore l’occasione di cercare i loro emblemi sensibili e di tracciarne il monogramma visibile o sonoro”.
Poi purtroppo, ci sembra, che il pensatore francese voglia arrivare a concludere che il cinema “che ci dà una così intensa espressione dell’uo-mo” non presenta, come il romanzo ha fatto a lungo, i pensieri dell’uomo ma la sua “condotta o comportamento”. Perché non questo e quelli uniti insieme? Perché non il potere di vivere un’idea anima e corpo? che è poi il postulato più fermo della psicologia accettata dallo stesso Merleau-Ponty? Come è possibile che non ci sia pensiero nel dramma cinematografico, quando esso, per ammissione dello stesso Merleau-Ponty “ha una trama più serrata dei drammi della vita reale e si svolge in un mondo più esatto del mondo reale”? Dopotutto, il filosofo francese conclude il suo vasto saggio asserendo, con una contraddizione di cui non s’avvede: “il cinema è particolarmente adatto a far apparire l’unione di spirito e di corpo, l’unione di spirito e di mondo, e l’esprimersi dell’uno nell’altro. Ecco, perché non è soprendente che il critico possa, a proposito di un film, evocare la filosofia” 23. Ci sembra, pertanto dovuto solo ad un malinteso linguistico il portare avanti come assioma che “solo la parola persuade, ossia non opera sui sensi bensì sulla mente e dunque sui sentimenti e che l’immagine agisce sui sensi un po’ come l’alcool, gli stupefacenti e certe materie chimiche moderne” (Moravia). 23 M. MERLEAU-PONTY, Senso e non senso, Milano 1962. 68
(Partendo da queste premesse teoriche, non si comprende poi come lo stesso Moravia abbia scelto proprio la pratica di recensore cinematografico e non si capisce come riesca a conciliare i suoi non rari articoli elogia-tivi con quella sua così radicale sfiducia di partenza). Nelle stesse contraddizioni ci sembra cadere un egregio critico teatrale, quale il Chiaromonte, che si trova ad affermare in un suo saggio: “il teatro è considerazione dell’uomo attraverso la sua azione; l’azione, non la parola, non le idee. Sulla scena come sulla vita, la parola di un uomo vale solo in quanto
s’accorda con i suoi atti, li accompagna, li spiega, li accentua con giustezza. E come nella vita, così sulla scena, quel che conta non è ciò che l’individuo pensa di sé, ma il modo in cui si manifesta agli altri attraverso il suo agire” 24. Sembra perlomeno strano che Chiaromonte non si accorga che queste parole si attaglino con più aderenza al linguaggio del cinema che a quello del teatro, dove la parola sembra regnare sovrana, dato che l’azione, il volto, (lo sguardo), i gesti del personaggio sono lontani dallo spettatore che può solo seguire con attenzione le inflessioni, i toni, gli accenti della voce, cioè l’aurea scansione dei dialoghi. 24 N. CHIAROMONTE, La situazione drammatica, Milano 1962. 69 Questi critici, invero un po’ frettolosi, o troppo legati al buon senso più che all’analisi filosofica, non hanno presente che dall’indagine lockeana in avanti, è il contenuto semantico che dà colore umano e significato alla parola o al suono e che esso non può essere negato all’immagine in movimento quando sia adeguata ad una sagace concezione della realtà e che, inoltre, sbandierare una “assoluta castità della parola” ed una non meno “assoluta sensualità dell’immagine” significa quanto meno buttare a ma-re secoli di arte figurativa e significa soprattutto non volere e non sapere discriminare tra parola e parola, quella di Shakespeare e quella di Goeb-bels, cioè dei più isterici oratori della reazione, o, anche, dei lirici distrut-tori della ragione; e non saper discriminare tra immagine e immagine: quella realista di Dreyer o di Renoir e quelle ossessive e iperemotive di un Richter o peggio di un qualsiasi stimolatore di organismi solitarii, all’altezza di un qualsiasi scrittore pornografico dei tempi andati o presenti. Del resto, le parole di mero impatto emotivo, e di reattività lacrimogena sono d’uso comune presso commediografi e autori di facile successo com-merciale, la cosiddetta letteratura “rosa” e “gialla” che, statisticamente parlando, controbilancia esattamente in “consumo” percentuale i fumet-toni “rosa” e “gialli” della produzione cinematografica. Forma come contenuto e contenuto come forma Abbiamo già visto che l’immagine non si può ritenere affatto un “doppione” inerte della realtà, e in ciò ci può soccorrere la lettura di un intero capitolo sulla creazione artistica, inserito da Susan Langer nei suoi studi d’estetica che hanno il grande pregio d’essere particolarmente semplici e persuasivi. Se al posto di “quadro” si sostituisce il termine di “inquadratura” , la tesi sulla “virtualità dell’immagine” , sullo spazio virtuale che è quello effettivamente “creato” , corrisponde al nostro discorso con simmetrica precisione. L’inquadratura, infatti, anche la più realistica è una composizione di oggetti “virtuali” , i quali proprio per questo hanno la naturale funzione di specchio e di simbolo. Dove, naturalmente, non si può essere d’accordo con la Langer è quando essa assegna al cinema un carattere “onirico” , prescindendo così dalla genesi involontaria del sogno opposta alla intenzionalità del linguaggio filmico che nessuno penserebbe di considerare automatico. L’intenzionalità è una tendenza che incide sulla gradazione qualitativa dell’opera; e questo problema di “dignità formale” ci sembra sia stato ben visto e chiarito dal
Panofsky, in un suo recente studio, con parole di leonardiana perspicacia: 70 “L’elemento “forma” è presente, senza eccezioni, in ogni oggetto in quanto ogni oggetto consiste di materia e forma e non è possibile determinare, con precisione scientifica, in qual misura, in un determinato caso, l’elemento formale sia prevalente. Perciò non è possibile, né si dovrebbe tentarlo, definire il momento preciso in cui un veicolo di comunicazione o un apparecchio comincia ad essere un’opera d’arte. Se scrivo ad un amico per invitarlo a pranzo, la mia lettera è anzitutto una comunicazione; da quanto poi io insista sulla forma della mia scrittura, tanto più diventa un’opera di calligrafia e quanto più insisto sulla forma della mia lingua (potrei perfino arrivare ad invitarlo con un sonetto), tanto più essa si avvicina ad un’opera di letteratura o di poesia. Dove cessi la sfera degli oggetti pratici e dove cominci quella dell’arte, dipende dalla intenzione del creatore” 25. Per ciò che riguarda poi le questioni formali di “linguaggio” e le obie-zioni sollevate da un Cohen-Séat non possiamo non rimandare il lettore alle brillanti e insieme solide confutazioni operate da Jean Mitry nel suo davvero esauriente capitolo su “Cinéma et langage”, incluso in “Esthéti-que et Psichologie du Cinéma” , in cui paragona l’antiquato armamentario d’indagine dei detrattori (ancora avvinti dalla definizione leibniziana del “discorso” ) agli sterili sforzi fatti per esaminare problemi di fisica nucleare con le istanze interpretative di Democrito d’Abdera. Come si ricava dalle delucidazioni precedenti, l’altezza e la dignità di una forma estetica, sia essa cinema, narrativa, pittura o musica, dipendono non dalla aprioristica posizione gerarchica dei mezzi tecnici ed, espressivi peculiari di ciascuna di esse, ma dalla coscienza e dalla intenzionalità dell’autore che si serve delle tecniche per rispecchiare quella parte, maggiore o minore, di realtà ch’egli stesso si pone di fronte, intenzionalità che non va intesa solo come sforzo volontaristico ma come capacità di estrin-secazione della visione del mondo, sentimentale, culturale e ideologica che si è venuta sviluppando nel suo pensiero e che si concentra, come su un obbiettivo, sull’argomento (porzione di realtà) che risulta occasione e ragion sufficiente per il suo mettersi in attività. Si veda, per un raffronto concreto, come la diversa cultura, la diversa angolazione dei problemi storici porti ad un determinato stile, - ad una determinata forma compositiva, - un regista d’indubbio valore quale C.T.Dreyer rispetto alla “illustrazione” avventurosa, fantastorica e 25 E. PANOFSKY, Il significato nelle arti visive, Torino 1962. 71 pseudorealistica di uno qualsiasi dei varii (per così dire) registi di “colossi biblici o tardoromani” , impiastricciati di eros di bassa lega. Ne “La Passione di Giovanna d’Arco” , l’esplorazione, in primissimo piano del volto della pulcella e di quello dei suoi accusatori, serve in quelle sequenze di “ritratti” , così fittamente intrecciati, a costituire non solo una splendida galleria d’esposizione ma ad istituire, fin dalle prime sequenze, la situazione morale dell’epoca.
Attraverso quei controcampi così messi a fuoco vengono colti dal regista, da vicino e nella complessità delle loro stratificazioni, gli interessi, le ipocrisie, i complessi sadistici e la volontà di potenza di tutto un preciso periodo della storia europea. Il candore di Giovanna, la sua sofferenza in ogni poro della pelle, gli occhi su cui vibra spesso la luce della raggiunta verità pongono, per contrasto, maggiormente in risalto quella corruzione di valori umani e religiosi che avvolgeva la Francia in una crisi decisiva per la linea del suo sviluppo nazionale. Lo stile di Dreyer, la sua coerenza tecnica, l’indissolubile unità interna dell’opera nascono da un’alta tensione etica e intellettuale, da un umane-simo che è studio e passione per le vicende e il destino dell’uomo. Il pensiero, anche sotto forma d’immagine, il linguaggio iconico è un rapporto che ha luogo non coll’estraneo mondo oggettivo, ma con la parte di esso che è stata assimilata in valori morali e sentimentali. È una sorta di analisi genetica quella che attua Dreyer, con la scomposizione in quadri di un processo di coscienza, che è processo etico e sociale ad un tempo; il realismo gli deriva dalla consapevolezza di non essere fuori dall’orizzonte che egli vede, ma di essere nel bel mezzo di esso; i modi con cui ricondurrà ad esso la sua immagine del mondo influenzeranno il circolo dell’orizzonte, il suo presentarsi alle generazioni future. Lo stile è non solo appercezione sensoriale degli elementi scelti per la composizione ma valutazione, grado d’impegno, prospettiva che affluisce per via di situazioni, ma situazioni che dipendono anch’esse dalla scelta continua operata nel cammino d’orientamento sui sentieri della storia. L’essenzializzazione della scenografia, quella luce bianca che sembra la volontà di mettere a nudo i caratteri, i particolari delle bocche tartufes-che, inquisitorie che grufolano nel confuso e palpitante dolore di Giovanna, il lento oscillante processo di dedizione alla verità; quei pochi eppure folgoranti particolari della debolezza della carne: l’estrazione delle gocce di sangue dal braccio, il taglio dei capelli, il sorso d’acqua bevuto con l’angoscia di chi fra breve berrà solo il fuoco del supplizio, sono tutti 72 elementi che non si riducono a ingenua cornice del dramma, ma si impas-tano in esso e lo lievitano di qualità superiori. In questo film, insomma, come in ogni opera di cinema autentico, ogni gesto ha un’origine ed un effetto di simbolo e rappresenta in termini di spazio e di contrasti di grigio e bianco, di perlaceo e di nero tutte le gam-me del mondo psichico: quel velo di vibrazioni metaforiche in cui gli avvenimenti reali vivono ravvolti. Proprio perché è evitata ogni esagerazione, ogni emozione convenzionale, la tensione sotto la superficie è continuamente avvertita; al dramma storico viene restituita la sua valenza intima; ogni gesto ha un suo significato di pudore, di forza, di cinismo, di sete di dominio e ogni inquadratura richiama con esattezza l’epoca in cui si svolge: il ritmo di movimento dei giudici, dei soldati ha la cadenza lenta tipica di un’epoca non certo dinamica come quella postmedioevale. Si può ricavare da ogni sequenza un vero e proprio lessico dello sguardo umano: da quello dolce, tenero, indifeso, fiducioso, e infine rassegnato di Giovanna, a quello prensile, aggressivo, corto, indifferente o violento dei giudici, a quello che svilisce, a quello che vaga, scivola. E poi lo sguardo chiaro, il riflessivo, l’acuto, il distratto, il torbido, l’iracondo; e lo sguardo che vede al di là dei fatti e quello che
non sa distogliersi dal presente; qui insomma la tecnica si fa gnoseologia, pur senza schemi e senza repertori prefissati. Come tutte le pagine di energica verità, anche la “Passione di Giovanna d’Arco” attirò su di sé le antipatie e l’odio dei vari “ordini” costituiti: i francesi risentirono il fatto che i giudici della martire fossero la quintes-senza della cultura dell’epoca, “la Sorbonne” . I cattolici non riuscirono a sopportare che un’eroina santificata, sia pure con fallibile ritardo, fosse così volgarmente maltrattata da ecclesiastici visibilmente fradici, malvagi e intrisi d’ogni perversione. Né sarebbe possibile assimilare, per via di scolastiche cronologie, come ha fatto arbitrariamente qualche critico, l’opera di Dreyer ai contemporanei prodotti dell’espressionismo, in specie tedesco. Non si riesce, infatti, a rilevare nessuno schematismo aggressivo nei costumi, nessun accessorio, nessun trucco. Manca quello “aspetto spettrale dell’accadere” che è tipico dei Lang, o dei Wiene, quel rendere calcarei i volti, quel fissare in areole di carbone le fisionomie; in Dreyer anzi, l’assenza di cosmesi porta a raddoppiare l’effetto di documento vivo e completo. 73
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“Cosa strana - scrive lo stesso Dreyer -, gli attori cinematografici, in genere, si truccano per il fotografo, il quale li illumina in modo che il trucco non si veda. Ma il pubblico colto ha imparato ad apprezzare la bellezza del volto naturale, con tutte le sue rughe e i suoi solchi. Le rughe - grandi e piccole rivelano spesso importanti lati del carattere: il viso di un uomo buono, sorridente, gioviale, ha delle rughe minute intorno agli occhi e alla bocca, un uomo arcigno, duro o maligno ha le sopracciglia corrugate e delle rughe verticali. Facendo sparire queste rughe, si can-cellano anche gli elementi caratteristici del volto, ed è evidente quanto ciò influisca sui primi piani” 26. Nella “Giovanna” l’isolamento dei gesti, degli sguardi, di ogni più molecolare atteggiamento è teso a scoprire la collocazione morale dei personaggi, la loro vita interiore che è la linfa degli avvenimenti esterni. Il discorso profondo del film è questo inserirsi per mezzo di un fatto individuale, in uno spaccato di storia, visto non come fatto archeologico, ma come radice dei tanti altri dialoghi o scontri che s’instaureranno nei secoli 26 C. T. DREYER, Due scritti, in “Cinema ’60” , Roma 1962. 76
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successivi tra autorità e coscienza, tra teologia e fede, tra sincerità e cinismo, tra ragion di stato e verità. In questo senso il film ha radici nel realismo storico e si alimenta del suo humus, dei suoi conflitti, delle sue evoluzioni e involuzioni, intorno alla cui spirale gravitano, in ascesa, i valori sempre più chiarificati del cammino umano. In questo senso, la coscienza complessa del fenomeno, senza rese al metafisico e allo schematismo ideologico, testimonia di una tendenza che mette a dura prova i ricercatori di formule politiche, gli incasellatori dell’operato artistico, gli inquisitori di ogni eresia commessa contro le loro “tavole sacre” e che ammettono solo tardive autocritiche. A proposito, infine, dello spessore semantico delle immagini di Dreyer, si veda quello che, con precisione di storico dell’iconologia, scrive il Varese: “La precisa intenzione stilistica e l’espressa volontà di ritratto, nell’inquadratura delle figure dei giudici o del comandante delle truppe inglesi in Francia, ci richiama, fra i tanti esempi, il Ritratto di un Cavaliere del 78
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80 Toson d’Oro di Jan van Eyck o un altro di Petrus Christus, e il ritratto di Ruggero Froimond, di Ruggero van der Weyden nel Museo Comunale di Bruges. Persino certi particolari fisiologici, su cui il truccatore e ilfotografo hanno insistito, come i porri di alcuni volti, hanno un esplicito, consapevole riferimento ai porri celebri dei pastori dell’Adorazione Portinari di van Der Goes o a quello dell’uomo con il garofano di Jan van Eyck. In alcuni di questi pittori fiamminghi c’era il gusto del primo piano, il compiacimento di spingere avanti un volto, come si può vedere in maniera esemplare nei ritratti del van Eyck, di Hans Memling o di Peter Christus. Alcune fisionomie dei personaggi paiono anch’esse rievocate dai quadri fiamminghi: la figura del donatore van der Paele nella “ Ma-donna” di Jan van Eyck, nell’Accademia di Bruges, sembra ritornare in uno dei giudici di Dreyer; ma i rapporti tra la pellicola di questo regista e la pittura fiamminga non si riducono a questo studio di ritratti e di primi piani: dopo il primo tempo, dove predominano i piani stagliati e contrapposti, nella seconda parte, nelle scene di folla, nelle sfilate di facce popolane, nella repressione della rivolta, appaiono altri elementi pittorici desunti dal gusto, anch’esso tutto fiammingo, della deformazione realistica della folla e del compiacimento degli sfondi” 27.
Infatti, anche il più ardito primo piano, “tecnicamente” parlando, se prescinde dalla scelta del volto come realizzante l’intenzione dell’autore, può essere psicologicamente anonimo o al massimo rispecchiare solo le “esigenze di consumo sentimentale” della più inerte massa di spettatori; così, appunto, nei “varii” Ben Hur oltre che al mancato affioramento di un qualsiasi significato morale o storico sul volto dei protagonisti, si ha la netta impressione che il centro di gravità sia spostato sul gratuito sensazionale (corsa di bighe), sull’erotismo amalgamato alla mercificazione dei sentimenti, il tutto teso solo a eccitare fisicamente ed emozionalmente lo spettatore e a sradicarlo da un qualsiasi clima di realtà passata, a indurlo ad un pieno abbandono sensoriale. Non si riesce a notare, in queste pellicole nessun elemento di rinvio semantico, gli atteggiamenti sono così “attualizzati” , così vicini alle bel-lurie della moda più corrente che è impossibile in questi scimmiotta-menti solitamente a livello di una pubblicità cosmetica trovare, come in Dreyer, l’uso di un qualsiasi stilema espressivo (torsione scopadea 27 C. VARESE, op.cit. 81 della Falconetti, uso simbolico del materiale plastico, erosione dei contorni, riprese in leggero obliquo del busto in corrispondenza con le mani e - sempre per restare a Dreyer, - l’irrigidimento di certe maschere pietrose di sfondo che hanno il riso disumano di quelle che Ensor vede accogliere, fra dileggi e minacce, il Cristo a Bruxelles). Mentre nei “colossi storici” c’è solo il gusto da Luna Park archeologico, del cartone che rifà il verso alla pietra simulando una freschezza che, proprio alla sensibilità dello storico, diventa repulsiva, in Dreyer lo scenario ricorda lo stile di certe miniature medioevali, con i loro effetti di incon-gruenza ingenua tra personaggi e porte, personaggi e mura, personaggi e stanze. E ciò che è da sottolineare è che, nonostante tale gusto per la “ricostruzione” , per la meticolosità figurativa, non si tratta di un “saggio” , di una relazione ma c’è sempre un motivo di creazione: la realtà, gli ambienti, i fatti sono restituiti con una profondità che non può essere prodotto solo dell’indagine accurata. Nella “Giovanna” gli elementi espressivi autonomi sono molteplici: le labbra febbricitanti dell’eroina, il sottile giuoco del volto di Loyseleur, il frate che cerca di accattivarsi Giovanna e ancora, a più alto livello, lo stile dialogico che è come il binario ideale per il montaggio e per l’intelaiatura etica dell’opera, per cui si ricava - al fondo della fruizione estetica - come Giovanna sia la tesi del valore umano, delle capacità evolutive dell’uomo, anche nel tragico e mortale scontro con l’antitesi del conformismo, e anche nella disperazione degli attimi incerti, delle intermittenze del dubbio. A questi apprezzamenti positivi qualche teorico o storico, legato a forti o senili nostalgie per il bel tempo andato, potrà opporre che nell’opera di Dreyer presa ad esempio si tratta di cinema muto, cioè “puro”. Ma è così ovvio rispondere che avremmo potuto analizzare “Dies Irae” o “Ordet” e ugualmente trovare differenze abissali tra esse e i “cinema-scope storici” ; è nota la coerenza organica tra le opere di Dreyer “mute” e “sonore” . E così vorremmo lasciar parlare lo stesso Dreyer a questo proposito:
“Dal momento che io definisco il vero cinema sonoro come un cinema che è capace di cogliere l’azione nel suo contenuto psicologico, senza l’ausilio di effetti sonori esagerati - un continuo accompagnamento musicale o brani di musica - la “pièce” del teatro psicologico ne deve essere certamente considerata come il materiale più adeguato, a condizione però che l’idea dell’opera, la sua materia informe si svincoli dalla forma teatrale e divenga cinematografica… La caratteristica di un buon film è una certa inquietudine ritmica che deriva sia dai movimenti dei 82
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personaggi all’interno dell’inquadratura sia dall’alternarsi, più o meno rapido, delle inquadrature stesse… È in questo modo che si configura la posizione del cinema nei confronti del teatro. Una rappresentazione teatrale è un’immagine vista da lontano. Perché l’effetto globale sia vivo è necessario dipingere con un grosso pennello, spargere il colore in grandi macchie; tutti i dettagli devono essere ingranditi o esagerati. In teatro tutto è falso e si tratta di accor-dare tutti i falsi dettagli perché producano un’illusione colorata della realtà, mentre il cinema presenta la realtà stessa in una stilizzazione di bianco e nero” 28. Per quanto riguarda i cosiddetti “Ben Hur” , si può notare come l’ambizione stessa del colossale, del gigantesco, del grande spettacolo uccida o deformi la realtà che viene modellata secondo una tipologia solo presun-tamente antica; e qui si può introdurre un altro termine di paragone. Si confronti, infatti, per saggiare la differenza, la via scelta da Ėjzenštejn nel suo “Aleksandr Nevskij” : è chiaro che il regista russo ha compreso che voler ritrovare i dettagli della cronaca, le minuzie è cosa impossibile o peggio, di tendenza falsificatrice, così ha scelto le grandi linee epiche di un cantare di gesta, senza mai comodamente adattarlo alle esigenze di autoidentificazione degli spettatori. Le psicologie dei personaggi non vengono duttilizzate (o zuccherate) secondo i più vieti e stantii canoni dello “star-system” ed è così che sentiamo sincero l’eroismo del “Nevskij” proprio perché si presenta come una sorta di rozza esuberanza e perché l’idea centrale è quella del sentimento nazionale, dell’odio contro tutti gli invasori e gli oppressori. Il coraggio qui si transvaluta in intuizione storica: il coraggio, cioè, di rifiutarsi ad una facile adeguazione a schemi automatici di psicologia e 28 C. T. DREYER, Lo stile nel film, in “Cinema” n.s. 1954 (Nov.). 84
di compiere, invece, a ritroso, i difficili salti che hanno costituito le trasformazioni qualitative della civiltà. In Ėjzenštejn, queste scelte erano, appunto, preparate da anni, con un lavoro di raffronti tra cinema e letteratura, cinema e tradizione pittorica. Si ricordino i suoi ben noti esempi di traslazione visuale dei versi di Puskin: “Nessuno seppe allora come e quando fosse fuggita, Solo un pescatore, di notte udì un galoppo di corsieri, cosacchi accenti e mormorii leggeri di donna…” in tre precise inquadrature: 1) lo scalpitare degli zoccoli 2) il parlare dei cosacchi 3) il bisbiglio di donna e, aggiungiamo noi, almeno altre due inquadrature tese a dare il senso più che la rappresentazione descrittiva della notte e dei pescatori, cui giungono le tre immagini sonore dedotte dal teorico e regista russo. 85 Ciò serve a svelarci almeno i prometti di dettaglio tecnico, la tendenza a combinare diversi elementi ossia diverse “riprese” di oggetti, rappresentati figurativamente e delimitati dall’inquadratura oltre che dalla “postazione” della macchina. È chiaro che questo sottofondo tecnico implica uno sforzo di assimilazione semantica che va al di là di “quell’aria di famiglia” di cui parla il Croce e che deriva “dalle condizioni storiche tra cui nascono le varie opere o dalle parentele d’anima degli artisti”. La traduzione filmica non può essere mera riproduzione di un’originale o “approssimazione che ha valore autonomo e può stare da sé” ma deve coinvolgere altri modi di percezione che importano altri valori semantici e che innestano altre strutture ideologiche, non solo utilizzando il calco dell’opera prescelta per la traduzione ma ricercando nel suo ambito diverse e, talvolta, più profonde dimensioni storiche. È questa la ragione per cui lo stile “composito” del film può riuscire a complicare le “icone” e gli “indici” di rappresentazioni presenti nello spunto letterario, a dare
cioè particolari interpretazioni e peculiari correlazioni audiovisive del testo implicanti funzioni sintattiche, articolazioni ritmiche e rapporti di strutture, non necessariamente presenti nell’opera di partenza. Si veda, per un altro esempio, a questo riguardo, la trasformazione di una stessa opera quale “Ordet” del commediografo danese Kay Munk da parte di un onesto artigiano quale Gustav Molander e da parte di un regista creatore, pieno di interessi storici e di agganci speculativi e sincera-mente (e laicamente) religioso quale Carl T. Dreyer. Viene utilizzato da Molander quello che a lui sembra l’ordito essenziale del dramma ma che non è se non l’impalcatura esterna dell’azione. Al contrario, Dreyer sottolinea, col suo ritmo austero, sui volti gravi, segnati da esistenziali dolori, negli occhi corsi da solenni dubbi, da lancinanti perplessità, il significato “interiore” del pietismo di Munk, approfonden-dolo nei suoi nessi con la “missione interiore” , cioè quel ricorrere alla esperienza dei sentimenti per analizzare il valore di una fede, sia pure non religiosa in senso rituale o dogmatico. Il modo di vedere di Molander è una piuttosto semplice suddivisione tra esseri positivi e negativi, tra normalità e anormalità, in facile approdo ad emozioni e conflitti drammatici. Il modo di guardare di Dreyer, quel suo corposo e afoso chiaroscuro tende a recuperare la molteplicità della natura umana chiusa in un clima ostile, difficile, grigio. Lasciamo anche stavolta la parola a Dreyer, proprio a proposito di questa “trascrizione” filmica: 86
“Il terzo atto di “Ordet” di Kay Munk, si svolge nel salone della fattoria della famiglia Borgen. Dalle conversazioni delle persone presenti apprendiamo che la giovane donna, prossima a partorire si è ammalata improvvisamente e che il medico, accorso in fretta; teme per la sua vita e per quella del nascituro. Più tardi, apprendiamo la morte del bambino e quella della madre. Se si dovesse filmare “Ordet”
bisognerebbe inserire nel film tutte le scene della camera dalla malata, che gli spettatori a teatro conoscono soltanto attraverso i dialoghi. L’avvicendarsi degli attori al capezzale della malata contribuirebbe a creare quelle forme di inquietudine che condizionano in gran parte il ritmo di un film. L’ampliamento dell’arco narrativo del film con nuove scene esige una fortissima concentrazione del dialogo ma è stupefacente constatare fino a qual punto sia possibile tagliare da un dialogo parole, frasi e risposte con il solo risultato di far apparire più chiaro il pensiero dell’autore. Il film sonoro apparirebbe così come un concentratodella pièce teatrale” 29. A opere concluse, quella di Molander la vediamo sovrapposta meccanicamente all’opera di Munk, come un’escogitazione tecnica avvenuta in 29 C.T. DREYER, Due Scritti, in “Cinema 60”, Roma 1964. 87
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gran parte a tavolino, quella di Dreyer la troviamo arricchita di significati, di correlazioni con la situazione morale, di conflitti che non sono assolutamente emozionali ma in cui si proiettano le fasi più intime della riflessione, della coscienza, dell’inconscio e il fluttuare dei motivi tipici della metafisica nelle forme dell’autoillusione o dell’autoinganno. C’è tutta la storia di una comunità che si è staccata, per orgoglio religioso, dalla più ampia comunità sociale ma che non riesce a sollevarsi a quel livello evangelico che pure afferma essere il suo piano normale; in Dreyer prende risalto il personaggio della giovane madre (Inger) che con la sua dedizione, la sua laboriosa pazienza è l’unica atta a cancellare la superbia sterile e polemica di quelli che si proclamano investiti di una esclusiva missione. Proprio questo senso di «missione» teleologica viene criticato da Dreyer perché esso viene a vanificare la coscienza etica del presente, il senso e l’importanza dell’esistenza che si attua minuto per minuto, e viene a offuscare le decisioni e le responsabilità di una vita che non può esser chiusa in un programma definitivo e categorico ma deve essere aperta ad un dialogo quotidiano con gli altri: Inger vivrà perché ama la vita e il miracolo avrà questo significato d’amore, di conciliazione.
Insomma, non attraverso l’imitazione pedissequa di Munk, ma attraverso un’affinità d’interessi e una analogia di mezzi strutturali, il 89
discorso di Dreyer riesce a spostarsi molto in avanti grazie ai suoi valori espressivi, al suo sottendere un maggior numero di problemi e di idee nonché di sentimenti. Ne deriva un approfondimento iconologico, per cui le ombre, le sfumature di luce fanno da simbolo alle concavità o convessità spirituali, e da esse emergono i personaggi. Le variazioni di ambiente, “plein air” , interni, luce artificiale o grande luce naturale sono modi di far vibrare l’atmosfera psicologica, di evocare al contempo il più ampio clima storico (morale-religioso) e il più intimo discernimento (lo schizofrenico misti-cismo di Johannes). Dreyer ritrova ancora una volta l’istinto felice di significare il mondo invisibile, ma concreto, dell’uomo; i suoi problemi morali, i suoi soprassalti di coscienza, le sue intermittenze di fede, di dubbio o di passione; quel renderlo visibile attraverso gesti, movimenti, atteggiamenti; attraverso la tragica solenne dignità dei personaggi. Così in una novella cinematografica, come il già esaminato, “Ladri di biciclette” , opera dal respiro breve ma intensissimo (che per questo suo carattere supera i limiti del bozzetto) si può agevolmente scoprire che esiste nella sua struttura narrativa una continua preoccupazione di autenticità, alone che serve a garantire il realismo di ogni sequenza e a 90
conferir loro i toni di una tensione non derivante da mere astuzie tecniche o da suspenses emozionali. La storia dell’amore tra Ricci e la moglie non è la solita, vieta, stereotipa straripanza di tenerume hollywoodiano: essa è quasi sottintesa, eppure si muove come una energia compressa sotto ogni momento in cui i due si trovano insieme, in quel senso di solidarietà, di ruvida comprensione, di sacrificio reciproco. Risulta chiaro dalla narrazione che i sentimenti non sono, come nelle contraffazioni della realtà, le uniche cose che valgano e che essi non vivono nel vuoto torricelliano; risulta che essi sono in costellazione con tutti gli altri e complicati valori della vita dalla dignità del lavoro, alla responsabilità, al giudizio su una società malfatta, all’amicizia con chi soffre le stesse ingiustizie. E tutto ciò non viene spiegato dal regista dall’esterno ma è “trovato” nella fetta di vita che vivono i personaggi, nella loro apparentemente semplice eppure aggrovigliata stratificazione sociale; dai netturbini, ai ladri, dai ragazzini che lavorano ai mendicanti, ai ricchi borghesi e blasonati intenti ad una carità pelosa, discolpatrice, fino ai borghesucci in trattoria o all’ambiente della malavita romana. 91 Non si tratta, come potrebbe desumersi da questo diagramma, di una serie di tableaux vivants ma di un dinamico e ben aggregato svolgersi di una indagine: indagine umana indispensabile all’artista ma non tratteggiata su moduli sociologici, attraverso lo “spaccato” degli ambienti più diversi (eppure connessi per mille tramiti invisibili), dalla casa di tolleranza, forse l’unica del cinema neorealista disegnata senza sbavature zoliane, fino alla trattoria tipica del lungotevere, fino alle stanze dell’indovina, tra “assistita” e truffatrice e alla sagrestia della chiesa “nobiliare”.
La differenza con un gruppo di assiomi sociologici è che i termini non tendono a distaccarsi dall’interpretazione che di essi danno i sentimenti, e le sequenze nascono da una salda e viva coerenza interna, non da fortuite incursioni nei più disparati settori della realtà sociale, e senza che appaia alcuno sforzo per stabilire una continuità dialettica nello svolgersi di un singolo (e apparentemente insulso) destino fra tante traiettorie di vite diverse che lo condizionano con la loro indeterminata eppure tangente presenza. I simboli proprio in quanto si allontanano da una violenta espansione lirica, più lambiscono i risultati di un discorso “realista” e quindi “tipico” ; e, in generale, proprio allontanandosi da una concezione del lirismo fine a se stesso, cioè di mero impressionismo, e da una concezione di cultura politica, stricto sensu, cioè di dottrinarismo, la visione del regista viene a rafforzarsi e a trovare la sua fusione nell’amalgama di giudizio sensibile e di giudizio intellettivo, il cui concorso simultaneo è indispensabile per una operatività di carattere estetico. Il sensibile e l’intellettivo sono gli elementi complementari e, anzi, coniugandi, dato che senza le loro nozze non si avrebbe nessun parto e ciascuno dei due rimarrebbe, per proprio conto, sterile sul piano dell’arte. È quanto riconosceva lo stesso Croce quando, nei suoi “Problemi di Estetica” si induceva a scrivere: “Un’opera d’arte ha certamente valore per se stessa; ma questo suo se stesso, non è qualcosa di semplice, astratto, un’unità aritmetica; è anzi qualcosa di complesso, di concreto, di vivente, un tutto composto di parti. Ora, se il tutto non si conosce se non attraverso le parti (è qui la verità della prima proposizione), le parti non si conoscono se non attraverso il tutto (e qui è la verità della seconda proposizione). L’antinomia è di tipo kantiano, la soluzione di tipo hegeliano. Questa soluzione stabilisce l’importanza dell’interpretazione storica per la critica estetica; o 92 meglio stabilisce che la vera interpretazione storica e la vera critica estetica coincidono” 30. Cioè, esperienza immediata ed emotiva ed esperienza intellettiva, culturale o semantica - coincidono sia nell’esegesi che nel processo di creazione dato che l’esegesi è un rintracciare in linee sequenziali quello che è avvenuto in un canale di linee multiple parallele o intrecciate durante la creazione. C’è quindi, anche nel film, bisogno di quella presenza che i matematici chiamano biunivocità, fra il sensibile (cioè l’alone emotivo) e l’intellettivo (cioè il filtro strutturante e discriminante del pensiero-memoria) perché si raggiunga una piena e realistica rappresentazione. Un linguista quale il Bally conforta questa credenza quando nella sua opera fondamentale afferma: “Tous les phénomènes de la vie étant caractérisés par la présence con-stante, souvent par la prédominance des éléments affectifs et volontaires de notre nature, l’intelligence n’y joue que le rôle, d’ailleurs, fort important, de moyen; il s’ensuit que ces caractères, en se reflétant, dans le langage naturel, l’empêchent et l’empêcheront toujours d’être une constru-tion purement intellectuelle” 31. E così chiosa uno studioso nostrano, il Segre: “è tra i due poli della affettività e dell’espressione intellettuale che oscilla nelle sue viventi attuazioni (una tela di
Penelope) la lingua”. La tecnica del regista, quindi, pur consistendo dei più disparati mezzi ed effetti meccanici (cioè strettamente logici) si rivela come scelta fra quelli di essi che egli riconosce come i più adatti e anzi i soli che possano spia-nargli la via alla meta, così che anche la tecnica diventa una libertà mediatrice fra necessità e attuale capacità senza peraltro dominare con un rigore di tipo deterministico e strettamente causalistico. Il momento di libertà creativa è potenzialmente implicito dell’attività continua di trasformazione dei difficili mezzi materiali in strumenti ausiliarii della visione del mondo. È tipico, del resto, di ogni campo di produzione artistica (architettura, scultura, pittura etc.) servirsi del contatto con la materia fisica e con gli strumenti, per quanto ridotti possano essere (scalpello, mazzuolo, pen-30 B. CROCE, Problemi d’estetica, Bari 1949. 31 C. BALLY, Le langage et la vie, Zurich 1952. 93 nello etc.) senza che questi debbano necessariamente diventare ostacolo alla produzione; così come è carattere comune alle arti di assimilare le contingenze di luogo e di tempo presenti nella situazione storica e che sono quelle che permettono una più agevole trasmissione e ricezione dell’opera. Nelle intuizioni vi sono concetti, nella tecnica si possono ritrovare segni espressivi, poiché anche la manovra di uno strumento ha una tendenza simbolica, come filtro di scelta del reale, come sua interpretazione particolare, dato che: “l’uomo vive comunque immerso in un universo simbolico di cui la lingua, il mito, la religione, la scienza sono partecipi, e costituiscono la rete simbolica della sua esperienza. Egli anziché venire in contatto con le cose stesse, è sempre posto in colloquio con se stesso; è talmente inviluppato da forme linguistiche, da immagini artistiche, da simboli mitici, da riti religiosi che non è più in grado di vedere o conoscere checchessia salvo attraverso l’interposizione di codesti mezzi artificiali” 32. E il Cassirer vede chiaro nella concettualità dell’arte quando del concetto egli dà la seguente nozione: “Quella rappresentazione nella quale viene rappresentato l’insieme delle caratteristiche essenziali, cioè l’essenza degli oggetti (o della realtà) a cui si riferisce. E soltanto se sussistono certi segni distintivi, mediante i quali i concetti possono essere riconosciuti come simili o dissimili, come congruenti o incongruenti, è possibile il collegamento di ciò che è analogo” 33 . (Questo sembra rinviare al processo di “tipizzazione” lukacsiana; mentre al contrario, non senza significato nella cultura di un Kracauer è assente il nome di Cassirer, suo vicino compagno di esilio, espatriati come erano entrambi dalla Germania di Hitler). L’apocalittica visione dello Zolla, quel suo catalogare il cinema tra i “persuasori occulti che ci inducono a sprofondare orizzontalmente” o quel suo qualificarlo tout court “modulo onirico per essere psichicamente anchilosati fino alla statuarietà” è un sermone che fatta la giusta tara del sensazionale e dello stupefacente a tutti i costi, può adattarsi - senza mutare virgole o punti - a qualsiasi
manufatto pseudo-artistico, sia esso 32 E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, Firenze 1961. 33 E. CASSIRER, Linguaggio e mito, Milano 1961. 94 romanzetto giallo, o insulso rimescolio di colori sulle tele di cento “mostre d’arte” , o conato isterico-mongoloide che affolla il repertorio di tanti moderni “troubadours” . La tecnica, ogni scoperta tecnica è, come ha ben visto il Varese, ambi-valente: “se è vero che da una parte può corrispondere ad una esigenza spirituale espressiva, dall’altra può aiutare a favorire la pigrizia. Il dover sfruttare al massimo un accorgimento tecnico già acquisito, il dover restare entro limiti già prefissati e prestabiliti può stimolare la facoltà creativa, purché il mezzo tecnico non sia mai adoperato come ripiego di comodo ma sempre come una soluzione nuova per problemi nuovi”. E il Varese in particolare nota: “…l’approfondimento insieme tecnico e spirituale dello strumento cinematografico conduce a una forma nuova di interpretazione, a una ricostruzione sentimentale e mentale degli elementi della vita … i ritrovati tecnici debbono diventare linguaggio, disporsi secondo coerenza e omogeneità e venire a costituire tradizione e storicità di linguaggio… dominare il corpo e addestrarlo può essere un modo per non sentire il peso e superarlo, come il perfezionare la macchina può essere un modo per oltrepassarne la tecnicità e per alleggerirne la fisicità” 34 . Non è quindi soltanto col cinema che si bara, “mentre con le parole si gioca a carte scoperte”, né esso può venir considerato, sempre e comunque, “come una comunicazione tra muti nella quale si perde ogni incanto e sfumatura di linguaggio”. Pare che lo Zolla perda di vista che “non c’è pensiero che non sia segno e non c’è segno che non sia pensiero” e che si tratta solo di esaminare la qualità e il grado d’espressione di ciascun segno e di ciascun pensiero; si potrebbe del resto rimandare questo catastrofico demolitore a quelle pagine di vera maestria critica e storica di un Balasz quando scriveva: “Il cinema renderà di nuovo visibile e leggibile il volto dell’uomo, dato che cultura visiva non vuol dire sostituire i gesti alle parole, come ad es. fanno i sordomuti nel linguaggio figurato. I gesti non esprimono concetti e vengono solo, quindi, ad integrare la raffigurazione del reale, ma ciò che il volto dell’uomo e i suoi movimenti dicono nasce da uno 34 C. VARESE, op. cit. 95 stato d’animo che, nella sua sintesi, mai potrebbe essere rivelato dalle parole. Lo spirito diviene allora simile al corpo: visibile” 35. E già anni prima Ortega y Gasset scriveva a proposito del futuro teatro: “Sarebbe meglio che gli artisti giovani, invece di perdersi per quelle strade dall’uscita problematica, si dedicassero dedicassero a creare il nuovo teatro dove tutto è plasticità e suono, movimento e sorpresa… è giusto anzitutto che l’attore smetta di essere quello che è oggi, semplice realizzatore di un’opera scritta e si
trasformi in qualcos’altro, per meglio dire in mille cose: acrobata, danzatore, mimo, giullare, facendo del suo corpo elastico una metafora universale” 36. E si intravvede in questa definizione anticipata una descrizione del cinema che ha contribuito senz’altro a negare quello che lo stesso Ortega y Gasset chiamava “il profilo scultoreo della persona” , cioè a negarne il tratto statico realizzando dell’uomo un ritratto dinamico, variabile come nella realtà, nella successione vera di stati d’animo, nel loro mescolarsi o articolarsi e nell’intreccio delle emozioni, idee, piani o speranze; e nell’intersecarsi dei caratteri umani con i diversi ritmi e i diversi piani della realtà oggettiva, sociale, economica, storica. Ugualmente di ben altro valore culturale, di ben altra approfondita indagine che non quella dello Zolla sono le conclusioni cui giunge uno studioso d’estetica quale il Dorfles quando dice del cinema: “Per il fatto stesso di essere un’arte nuova, è logico che quest’arte abbia leggi sue e suoi attributi specifici ed inediti. E, in effetti, ritengo di considerare — per il bene come per il male — la necessità di un’autonomia del linguaggio filmico che va nettamente distinto da quello plastico, figurale, letterario, musicale, anche se si vale di numerosi elementi tolti a prestito da essi” 37. Se poi si tratta, come qualcuno ha fatto, di istituire una arbitraria gerarchia di dignità espressiva fra la parola e l’immagine, si potrebbe rispondere con uno degli studi più esaurienti e a più alto livello che fino ad oggi si possiedono su questi due mezzi di espressione come “prese di 35 B. BALASZ , Der Sichtbare mensch oder die Kultur des Films, Wien 1927. 36 ORTEGA Y GASSET, Lo Spettatore (vol. II), Milano 1960. 37 G. DORFLES, Il divenire delle arti, Torino 1955. 96 coscienza” della realtà, pur ammettendo la più retrodatabile accumulazione semantica della parola. Si tratta, cioè, dello studio di Sartre su “Immagine e coscienza” : “Le parole non sono immagini: la funzione della parola, fenomeno acustico e ottico (allorché scritta) non somiglia punto a quella di quest’altro fenomeno fisico: il quadro. Il solo aspetto comune fra la coscienza del segno e quella della immagine è che ciascuna, a modo suo, mira ad un oggetto attraverso un altro oggetto. Ma nell’una, l’oggetto intercalare funziona da analogon, riempie cioè la coscienza al posto di un altro oggetto che è in definitiva presente per procura; nell’altro tipo di coscienza, l’oggetto si limita a dirigere la coscienza su certi oggetti che rimangono assenti. Dimodoché la coscienza di segno, cioè di parola, può benissimo rimanere vuota, mentre la coscienza di immagine conosce in pari tempo che un certo nulla, una sorta di pienezza” 38. Il valore dell’immagine è infatti quella sua induttività, quello spingere l’esperienza immaginativa a saltare oltre le figure proposte e di spaziare, nell’ambito degli strati semantici, fra figure, forme, concetti impliciti; ché altrimenti l’esperienza estetica, per qualsiasi campo, rimarrebbe una semplice e banale esperienza sensoriale. E come ricorda Alain: “L’image n’est donc point donnée non plus, mais toujours supposée et pensée, d’après l’impression et selon seulement une enquéte moins suivie.
Imaginer c’est donc percevoir, imaginer c’est donc encore juger et penser. Par ces vues, imagination et perception tendent a se confondre, comme elles se mêlent dans le fait; car il n’y a point de paysage que je perçoive sans erreur sur les distances, les grandeurs et la nature des objets. Le soleil refleté dans un carreau de vitre fera croire à une flamme et ainsi du reste” 39. Nell’immagine che si riferisce ad una porzione ristretta della realtà, ma tende ad indagare la potenziale realtà (o quella quasi totale), può venir alla luce tutto quanto nell’istante isolato è collegato alla coscienza di tutti gli altri istanti. È per questo, in rispondenza all’energia visiva del regista, che sono distinguibili serie o gradi d’immagini i quali ci indicano i rapporti di conoscenza e di sensibilità con cui quell’immagine è legata alla 38 J. P. SARTRE, Immagine e Coscienza, Torino 1960. 39 ALAIN, Système des beaux arts, Paris 1926. 97 personalità del suo autore. Del resto ciò che si chiama immagine non sta di fronte al regista come qualcosa di estraneo o di indifferente, ma cresce insieme con lo sviluppo della sua personalità, si chiarisce o si complica, si definisce o si agglutina, nel processo di ideazione e di sensibilizzazione emotiva che è in atto in lui fin dalla prima decisione di realizzare un racconto, un ambiente, dei caratteri. Si sviluppa, cioè, a più o meno alta temperatura, in funzione della sua effettiva esperienza e del suo sentimento della vita, intesa come storia, non come frammento isolato dalle vicende altrui; può essersi anche svi-luppata in precedenza o può essere stata intimamente vissuta senza venire estrinsecata, purché poi progredendo verso l’attuazione susciti un ulteriore sviluppo di immagini. L’immagine è un mondo in continua crescita, in continuo perfezio-namento e in continua rielaborazione finché non è fissata nell’oggetto esterno, e non vive affatto ai margini dell’attività intellettuale, ma al centro di essa e si nutre di coscienza, di sensazioni e di emozioni come attirando dei cerchi che si avvolgono intorno a quel centro. Infatti, un mondo che sia soltanto un nudo, scarno punto di conoscenza e non sia sperimentato nella complessità della vita, ha scarsa efficacia di comunicazione umana, è piuttosto un teorema, uno stimolo utilizzabile in elettronica non in interreazioni psicologiche. Le immagini false saranno appunto quelle matematiche, astratte, geometrizzanti che non senza significato diventano immagini decorative, cioè involucri senza midollo e che non possono incidere sul blocco psichico dello spettatore perché non provenienti dal processo pieno dell’esperienza. Al contrario, con l’estendersi e l’approfondirsi della cultura visiva del regista, va avanti il processo di partecipazione alla sfera multipla dei significati, e la realtà insita nella immagine così costituita non sottostà a quella spoliazione di riferimenti che è presente nella fotografia più ovvia o in quella a carattere documentario. In questi casi, al mondo vivo non sottentra uno schema freddo e restrit-tivo, ma una serie di rimandi immediati a problemi e a più ricche impo-stazioni dei problemi stessi. Sono rimandi che aprono una catena di reazioni, di fissioni concettuali e insieme emotive e che combattono la cecità e la comoda aridità dello spettatore comune
che vorrebbe solo gioire di una facile identificazione con tutti i personaggi e con tutti gli oggetti date le sue poche e cattive idee, statiche e gonfie di inutile certezza. 98
Come ben dice Jaspers: “Il processo di differenziazione oscilla tra due estremi. Da un lato è lo svilupparsi di un’immagine del mondo indirizzata e ordinata, dall’altro il ribollire di una massa di contenuti caotici che non sanno far altro che aumentare di numero, senza diventare totalità, che esistono soltanto come quantità e sono incapaci di un processo di crescita e di una forza propulsiva qualsiasi. In effetti, l’aspirazione alla unità e la correlazione e l’aspirazione alla pienezza sono nello sviluppo antitetiche ma solo nell’effettuazione della sintesi è possibile un genuino processo di differenziazione. Non c’è oggetto che non sia compreso nella totalità dell’oggettivo. Solo mediante le correlazioni il contenuto prende essere. L’opera di controllo e di assimilazione mediante il tutto determina i contenuti singoli, mentre i contenuti nuovi rinnovano e trasformano il tutto stesso. L’oscillazione tra il singolare e l’individuale da un lato e il tutto e il generale da un altro, è l’elemento di vita del processo di differenziazione. Nella differenziazione che cresce, l’immagine del mondo si sviluppa quale tutto e determina l’intelligenza di ogni soggetto individuale. L’oggetto singolo muta per la psiche a seconda della nostra immagine del mondo totale della psiche stessa. Lo stesso oggetto appare diverso in 99 immagini del mondo diverse e con l’evolversi della nostra immagine del mondo, anche l’oggetto singolo si evolve” 40. La differenziazione di cui parla Jaspers è quindi l’analisi sintetica, l’accumulazione chiarificata dei significati insiti in ogni porzione della immagine. La sintesi analitica sarà invece una qualità complementare della differenziazione. Essa è lo svilupparsi di una concentrazione di significati, con un moto che va dal perimetro al centro e viceversa e costituisce la plasmazione degli elementi
compositivi; è il conglobamento del passato, del presente e del prospettico sottratti alla tangibilità casuale del mondo circostante, è la capacità di stratificare i rimandi simbolici con un’energia di compressione che sottintende la potenziale espansività dei significati stessi. Nell’immagine, e in particolare in quella cinematografica, varrà pertanto quella maggiore o minore gradualità che è presente in ogni struttura-valore e per cui il grado sarà funzione della maggiore o minore fusione degli elementi compositivi, nella fusione che è considerata dal Dewey, nella sua “Arte come esperienza”: “il movimento realizzato della materia attraverso le sue intime relazioni”. La fusione è quindi il ponte fra l’unicità della qualità di un’esperienza e l’analisi relativa ad essa. Se la qualità di un esperienza della realtà non consistesse nella fusione dei particolari che possono rientrare in altre esperienze (richiami semantici multipli) ogni qualità verrebbe a rimanere isolata senza speranze di interazione con gli altri elementi; l’intuizione delle qualità nell’immagine verrebbe ad essere inesprimibile in maniera così rilevante che nessun simbolo potrebbe venir suggerito come presu-mibile al fine di rappresentarla come viva e comunicante. La capacità di fusione dell’immagine dovrebbe quindi consistere nel maggior grado di possibilità che tutto ciò che faccia parte dell’intera immagine imponga il suo aspetto complessivo a ogni singola parte o parti-cella costitutiva dell’immagine stessa. (Ci sembra che in questo senso si leghi il concetto di semantica al concetto di stile). D’altra parte per ciò che concerne l’immagine filmica, questa fusione dovrà essere presente anche nel flusso temporale delle sequenze; la realtà è un processo dialettico e di qui consegue che il linguaggio filmico è tecnicamente e virtualmente tra i più aderenti allo sviluppo stesso della realtà. In esso lo spazio e il tempo possono presentarsi, così come sono nella realtà, cioè sotto forma di relazioni reciproche. 40 K. JASPERS, Psicologia delle visioni del mondo, Roma 1950. 100 Potrebbe qui valere il ragionamento del Whitehead sulla durata reale: “Così la durata è spazializzata e col termine “spazializzata” si vuol dire che la durata è il campo destinato al tipo realizzato che costituisce il carattere di un avvenimento. Una durata, in quanto è il campo di tipo realizzato, rendendo reale uno degli avvenimenti che contiene, è un’epoca cioè un arresto. La durata è la ripetizione del tipo negli avvenimenti successivi. Così la permanenza esige una ripetizione di durate e ciascuna manifesta un tipo. In tutto ciò, il tempo è stato separato dall’estensione e dalla divisibilità che proviene anch’essa dal carattere spazio-temporale dell’estensione” 41. Per quanto riguarda poi l’interazione tra sensi ed intelligenza, essa potrebbe venir esemplificata da una considerazione di carattere comune: se l’immagine filmica dell’orizzonte appare alla nostra vista, solo gli occhi si fermano sulla linea curva dell’orizzonte, ma il pensiero spazia al di là e al di qua di esso, e tende a riflettere sulla natura, sul carattere infinito, sulla distanza, sul tempo, sulle sfumature di grigio e di bianco, e, nel caso di un’intelligenza esteticamente esercitata, sui simboli e sulle accumulazioni di significato che un orizzonte, cioè l’idea di esso,
può suggerire, specie in correlazione con la sequenza d’immagini che ad essa necessariamente si collegano. Si può, infatti, sempre partire dall’intero per arrivare al frazionario (o viceversa), e se ben si riflette è questo l’iter normale del pittore, del disegnatore, di chi si trova, insomma, a lavorare con le immagini, cioè di chi si trova (coscientemente o meno) a sviluppare i significati visivi della immagine. Il concetto di intuizione, cioè di istantanea correlazione con la realtà scelta (da rappresentare), viene spesso, e superficialmente, accettato nel significato di intuizione sensoriale, cioè di reazione o percezione fisiologica. Ma nel campo dei fenomeni reali, come ben sanno pittori, disegnatori etc., si può dire che siano intuizioni anche quei contenuti della coscienza che hanno in sé una parziale pienezza dell’oggetto reale, che può venir descritto anche mediante definizioni concettuali, ma non può esaurirsi in esse. La vera pienezza è conquistata dall’autore solo quando si sente di poter restituire tutto quello strascico di sensazioni, quel corteo armonioso di impressioni tattili, acustiche, visive che costituisce però già una 41 A. N. WHITEHEAD, La scienza e il mondo moderno, Milano 1943. 101 selezione ordinata rispetto al confuso magma di partenza sensoriale. È allora come un reticolato di correlazioni che si infittisce intorno ad uno schema concettuale (lo scheletro dell’immagine) sostenendolo e incarnandolo del suo vero significato. Ciò vale forse, e ad un livello più ridotto, anche nel linguaggio d’ogni giorno in cui nessuna comprensione reciproca sarebbe attuabile attraverso le pure definizioni formali degli oggetti: essa può sorgere e istituirsi solo sulla base di una memoria comune che unifica le sensazioni ai più semplici e lineari elementi di percezione. Così che la definizione semantica può essere spesso in contrasto con quella logica: piatto come oggetto cavo in cui porre degli alimenti cotti o meno; biancheria colorata come vestimento da indossare sotto gli abiti etc. etc. A seconda poi della quantità accumulata di significati percettivi, emozionali e concettuali, si costruisce la scala di valori intellettuali e simbolici delle immagini e quindi il grado di “comunicabilità” e di “impatto” estetico. Il carattere di questo “impatto” è quello di una coazione naturale: l’uomo è guardato nella sua storia interna ed esterna, e con riguardo alla molteplicità della sua natura. La sua “imprecisione scientifica” , cioè la assenza di astrazioni concettuali è compensata da uno sguardo aperto a tutto ciò che costituisce la sostanza reale dell’uomo, istinto, sentire, coscienza innestati nella ragione per farla fruttificare in modo vivo, non geometrico o neutro. Né l’intuizione, come abbiamo già detto, nasce per partenogenesi; si alimenta delle svariate forme di esistenza che sono state presenti nella storia dell’uomo senza peraltro ripercorrerle in una sorta di circolo con-chiuso ma aprendo nuovi sentieri di comprensione, dove il futuro è visto non come una ripetizione del passato ma come aggregazione di nuova realtà a quella già vissuta.
L’intuizione è spesso il prodotto, solo esteriormente istantaneo, di un lungo processo interiore di assimilazione, di una attuata disposizione a reagire, di un’immagine del mondo, covata al di dentro per lungo tempo e non improvvisata d un tratto, come può equivocare perfino lo stesso soggetto che la esprime. È il rinserrarsi finale di molte trame complesse, i cui nessi singoli, politici, storici, morali, religiosi e biologici, sono visti insieme e non più in modo virtuale. Questo peculiare fenomeno di comprensione, di coordinamento, è sot-toposto nel suo farsi ad un parallelo giudizio di valore, anch’esso solo apparentemente estemporaneo. È invece un processo intrinseco che lo 102 determina, che intende vedere la realtà non come frammento, come fenomeno meccanico e naturale, ma come un tutto da cui è possibile trarre accenti, sottolineature, succhi, condensazioni. Tutte le intuizioni, per rapide che siano, sono cariche di correnti valutative perché è stato certo il giudizio a dare avvio ai processi di osservazione e questi, a loro volta, sono stati la strada attraverso la quale è giunta quell’energia di confluenza emotivo-intellettuale che è appunto l’intuizione. La nozione di intuizione visiva (e quindi di intuizione filmica) vive in questo intreccio: l’ottica assume una funzione che pur essendo normale non è usuale, afferra le cose da più lontano o da più vicino, garantisce una possibilità di rapporti, di angolazioni, di punti di ripresa che è un modo per leggere i tratti essenziali della realtà naturale o umana, e soprattutto i tratti del continuo ricambio tra natura e uomo; l’occhio accede alle regioni interiori della fisionomia, ma non appanna con fantasmi l’oggettività che sta a lui di fronte, non la violenta fino ad ignorarla del tutto, ma vede in essa l’unica occasione per suscitare un dialogo con la realtà. Così la nebbia, una finestra di scorcio, un particolare di fiore, e il filo invisibile tra queste cose e lo sguardo e lo sguardo e queste cose, vengono espansi nel tempo, stratificati nello spazio senza per questo venir meno il loro significato, anzi evidenziandosi in modo proporzionale alla capacità di costituire rapporti, simboli, rinvìi, metafore. L’immagine filmica è un sistema d’interpretazione del reale che non pretende di far blocco con gli oggetti, con le figure (e in ciò supera la visione naturalistica o quella estremista del materialismo tipo “pop art” ), ma ricava dal reale concetti-emozioni senza stamparli in teoremi e senza nemmeno reinventarli in modo astratto, cioè senza idealizzarli in modo da strappare ad essi ogni radice di storia e di significato umano. L’occhio del regista lavora comunque a rendere meno opaca, meno confusa e meno affollata di cose inutili la materia stessa della storia, quello che si muove al vaglio della ragione e del sentimento, per sedimentare rapporti e valori ricollocabili oltre la loro temporalità. Non si tratta del mero apparato ottico dove può accatastarsi tutto ciò che si vuole o che non si vuole ma di un filtro che lascia passare solo i nodi evolutivi, le con-fluenze, i risalti di ciò che vale per il presente e insieme per l’avvenire, di ciò che è vitale, organico, propulsivo scartando ciò che è deperibile, inor-ganico, retroflesso, destinato cioè a rifondersi nel caos, a distaccarsi dal moto della storia. Davanti a un simile occhio il flusso dell’esistenza svela la sua dialettica, i suoi intimi conflitti, coinvolge altri problemi e gli oggetti stessi non sono 103
lo sfondo dell’azione ma vivono nella stessa azione, toccando o circondan-do i problemi stessi ed essendo essi punti del problema. Così le azioni non vengono inventariate in atti notarili, ma connotate nei confronti dei personaggi, ricomponendo l’unità tra biografia e storia, tra biografia e natura; così le immagini sono dei “correlativi oggettivi” delle cose e degli uomini e dei loro rapporti, non dei doppioni della realtà. L’occhio sonda e radiografa la realtà, tipizza i caratteri, va alla ricerca di spessori sempre più grandi di significato, non scheda e classifica in inerti dogmi od assiomi. Questi sono gli approdi della autentica intuizione visiva, dove il significato semantico è il timbro dell’apporto umano a tutte le cose, azioni e situazioni e dove l’uomo persiste con la sua forza centripeta, partecipe di una struttura insieme naturale, sociale e coscienziale. Perciò nell’immagine filmica si possono trovare diverse gradazioni di energia comunicativa, in quanto prodotte dalla diversa selettività dei fattori “differenzianti” che il regista usa spesso senza avvertirli come deter-minanti del significato esatto che vuole comunicare ma come impliciti in un giudizio che egli dà sulla realtà; ché prima di essere oggetto di giudizio, l’opera è essa stessa giudizio: giudizio estetico “produttivo” che nel sistema kantiano era rettamente distinto dal “gusto” come quella “felice disposizione a rintracciare idee in un concetto dato e a trovare per questo, l’espressione mediante la quale può essere partecipato ad altri lo stato d’animo soggettivo raggiunto per questa via come congiunto ad un soggetto” 42. Per quanto riguarda la suggestione concettuale del bianco e del nero, si pensi al giuoco di rovesciamento operato da Ėjzenštejn nel suo “Nevskij” quando capovolgendo il luogo comune di nero-morte e bianco-vita, affida al nero (con una sottile inclusione di rosso “pancromatico” ) il significato di vita e al bianco gelido e spettrale dei cavalieri teutonici il significato di morte. È un’operazione tipicamente concettuale ottenuta attraverso procedimenti di associazioni e di analogie che sono valide se instaurate nel contesto dei rapporti presupposti nell’opera: ghiaccio, neve = morte; albero, fumo = vita; si tratta di una brillante complicazione di simboli ma non di un giuoco gratuito o di un’arbitraria assunzione di significati. Né d’altra parte l’oggetto perde la sua concretezza nella evocatività di cui è dotato; siamo cioè nel campo del “figurale” che per Auerbach è la capacità per una persona o per un oggetto simbolico di non diventare 42 E. KANT, Critica del giudizio (par. 49), Bari 1907. 104 mera astrazione “in virtù della pari storicità tanto della cosa significante che della cosa significata”. Il problema fondamentale per una critica aperta e senza pregiudizi, è quello di rendersi ben conto dell’interazione dei simboli: si dovrebbe comprendere come il significato delle immagini viene modificato dal loro contesto reale che è la sequenza e come il montaggio tenda ad essere una subordinazione di simboli raggruppati e disposti in modo da diventare elementi di un contesto più ampiamente simbolico.
La critica dovrebbe saper dare in risposta all’immagine e alla sequenza una “reazione semantica” , una risposta che sia determinata in parte dalla figura, in parte maggiore dal simbolo e in più larga misura ancora dalle esperienze culturali precedenti. Una reazione di natura insieme intellettuale e complessa ma inserita in un vivo alone di natura emotiva, tale che possa reagire con tutte le risultanti dell’esperienza culturale. Ambiguità o indeterminatezza. Il carattere semantico dell’immagine ha un riscontro positivo, secondo noi, nell’escludere che si parli di ambiguità per ciò che concerne l’elemento del linguaggio filmico. Una delle più recenti interpretazioni estetiche vede, infatti, un senso di disfacimento di significati in questa esistenza di ambiguità: “Nel mondo del linguaggio che è sì ordine, e tuttavia tenderebbe a ba-nalizzarsi, a non essere avvertito come ordine, l’opera d’arte rappresenta secondo la teoria dell’informazione una eccezione analoga: l’opera d’arte come organismo vivente ed improbabile (ciò in analogia col principio dell’entropia per cui il mondo fisico tenderebbe alla degradazione termica, a diventare uniforme e confuso). Ma la differenza tra arte e vita sta in ciò: che l’arte quale ordine eccezionale in un ordine costituito e degradato, che ci garantisce tuttavia la chiarezza significativa del messaggio artistico, si presenta come ambiguità in cui si perde l’univocità di significato, come possibilità di opera d’arte, cioè come «opera aperta», suscettibile di essere creativamente manipolata dal pubblico che diventerebbe così suo coautore. Che l’ambiguità sia un carattere proprio dell’opera d’arte contemporanea è un fatto: ma può davvero fondare l’atto civile e razionale con cui si produce l’opera d’arte?” . Sembra che l’equivoco riposi sulla confusione tra “indeterminatezza” e 105 “ambiguità” : mentre l’ambiguità, infatti, rappresenta una costante di oscillazioni tra significati diversi, l’indeterminatezza include invece solo una serie (anche larga) di variazioni semantiche ma nell’ambito di un contesto culturale. L’attività estetica è proprio quella di porre confini ad un ambito di possibili variazioni: “Riccardo ha cuore di leone” è una metafora suscettibile di molteplici interpretazioni: dato che leone: indica semanticamente coraggio, regalità, forza, e anche solitudine nel dominio, ma non può arrivare a intendersi come un concetto contrario: debolezza, codardia etc.: quindi, l’indeterminatezza è una pluralità nella univocità. L’opera d’arte, e diremmo soprattutto il film, con la sua tecnica di sequenze, montaggio etc. è ad un grado di organizzazione opposto a quello dell’entropia eventuale, è un sistema di differenziazioni non di disgrega-zioni, ha un potere di trasmettere informazioni multiple e a vani livelli, come passaggio implicito dall’omogeneo all’eterogeneo, come, ripetiamo, sintesi a carattere analitico. Nella sua rappresentazione c’è già il complesso reso unificato, e la partecipazione dello spettatore è in questo discernere i varii strati, sfogliare lo spessore dei significati, non di sovrapporne, creandoli, altri simboli e altri messaggi. Nella rappresentazione piena della realtà l’intuizione è intelaiata alla logica, rigorosa per quanto complicata; l’opera soddisfa sia le nostre percezioni minime che quella tendenza a ridurre il complesso a semplici principii concettuali.
Così, sembra chiaro che “l’indeterminatezza” esclude il ricorso al concetto di “entropia” , cioè al concetto di degradazione semantica; l’ambiguità infatti è costituita dalla incapacità di scelta tra un numero finito ma oscillante di significati non solo diversi ma opposti; l’indeterminatezza invece include un profilo di consistenza in cui può venir rintracciata sempre una approssimazione di significato. Anche nel linguaggio comune, aggettivi, avverbi indeterminati di grado e di numero come: “alcuni - pochi - quasi – abbastanza” - possono in una attenta ricerca semantica arrivare a restituire un quasi preciso significato nell’ambito contestuale in cui sono usati; al contrario, quelli di natura ambigua come “genericamente, comunque, tuttavia” non sono traducibili in simboli d’altri linguaggi (il matematico ad es.) e quindi non sono decifrabili né per difetto né per eccesso. Ciò, ad ogni modo, attiene al processo genetico dell’opera d’arte che si inserisce in un problema di psicologia formale più che in un sistema di 106 carattere storicista, quello solo, in fondo, atto a dare la misura della complessità dell’opera. Il “visibile” parlare dell’opera filmica, fatto di passaggi dal maggiore al minore da punti di riposo a punti di moto, dalla sineddoche al tutto, dall’astratto al concreto è un linguaggio ricco di libertà ma non necessariamente di ambiguità, il meno impacciato da regole di logica, di grammatica o di stilistica: è solo la negligenza di chi non è uso a distinzioni e a differenziazioni che procura la sensazione (anche davanti ad opere di Dreyer, Ėjzenštejn o Chaplin) di un modo espressivo semplificato fino alla volgarità. Chi si situa di fronte a cose poste fuori della sua portata diventa lento o inetto a comprendere; peggio ancora quando finge di non comprendere e esalta il suo snobismo in una forma di sistema filosofico o in una “weltanschauung” tutta personale e perciò viziata di originalità. Per il linguaggio filmico (e s’intende che ci riferiamo a quello delle grandi opere realizzate non di un qualsiasi spettacolo dell’industria “onanis-tica” ) si pongono le premesse del dove agire, del quando agire, del come agire e cioè della materia scelta, dell’uso opportuno di essa, della finalità nell’uso. Ma il mezzo tecnico non è determinante ma solo coefficiente delle rea-lizzazioni, e resta pertanto alla responsabilità e alla sensibilità del regista la scelta dell’uno o dell’altro sistema: così, per esempio, se è vero che l’a-dozione delle lenti grandangolari (che aumentano la profondità di campo) ha contribuito ad una maggiore consistenza dell’inquadratura, facendo risaltare con più nitidezza il background dell’immagine, è ancor più vero che al regista resta il problema espressivo di fondere la simbologia della scena col significato delazione che su di essa si svolge. Resta cioè la responsabilità di fare della scenografia non più un’illustrazione, un fregio sovrapposto alla realtà della situazione o dello stato d’animo, ma una struttura ambientale del dramma reale, di farne cioè lo habitat storico dello svolgimento psicologico che altrimenti resterebbe come in vitro, staccato dal suo alveo concreto e da ogni concatenazione effettiva con ogni altra scena. L’indeterminatezza dell’immagine (o della sequenza) significa, per il risvolto creativo, che il regista lavora con uno sforzo di approssimazioni successive e che è
ben consapevole di quanto sia difficile arrivare alla fusione dei troppi mezzi che sono a sua disposizione: la stessa mimica dell’attore, ad esempio, più che seguire una codificazione teatrale, ha dovuto evolversi verso nuove scoperte di rapporti e adattarsi alla 107 peculiarità e all’originalità del mezzo espressivo usato. In questo senso, il cinema ha portato un contributo al realismo, niente affatto irrilevante: lo stesso sforzo di trarre dagli oggetti, dalle parti di realtà, dal numero incalcolabile di particolari che ogni scena può offrire quelli che abbiano un carattere sintetico, e che riescano a compenetrarsi fra loro in un discorso insieme di vasto raggio ma non ambiguo, ha contribuito ad una conoscenza più diffusa di certi significati e di certe correlazioni esistenti fra le cose e l’uomo. Si è potuto così sgombrare l’estetica del cinema (e non solo del cinema) dalle definizioni troppo chiuse, legate al gusto dell’autosuggestione più che ad una analisi storica delle opere, sgombrando il campo da quelle formulette tautologiche quali “sinfonia visiva”, “musica degli occhi” o “arte del movimento”. Questa terminologia si può definire estetizzante perché serve solo a staccare un piccolo attributo fra i tanti predicabili al cinema e a gonfiarlo di vapori esilaranti che fanno perdere di vista la correlazione più ampia e più profonda con tutta la realtà dell’uomo. Esse, oltretutto, come notava giustamente Guido Aristarco nella prefa-zione 1951 alla sua “Storia delle teoriche del film” : “finiscono col negare una vera e propria capacità narrativa al cinema” . E, del resto, per ciò che concerne l’antinaturalismo, cioè l’antiambiguità del cinema, basterebbe richiamare anche una piccola parte dei ricchissimi saggi dello Arnheim o certe acute pagine del Morin. A proposito, infatti, della “passiva oggettività” del cinema, mi pare che la questione si ponga solo come un equivoco concettuale: il fatto che i grandi pittori del Rinascimento, con l’istaurazione della prospettiva, re-stituissero le dimensioni e le forme apparenti, dette allora “reali” agli oggetti da ritrarre non toglie comunque che fossero presenti “fattori differenzianti” tipici di qualunque procedimento estetico. Quest’ultimo è sempre una correlazione tra il soggetto (l’artista) e l’oggetto (la realtà nella storia) che implica una continua e dinamica scelta di punti di vista e di elementi compositivi e la condensazione di alcuni di questi elementi in energie simboliche, pur nell’organicità del tutto. In questo senso si può intendere la proposizione hegeliana che “il bello è l’idea che penetra nella materia e la trasforma a sua immagine”. L’intuizione allora, se viene estratta dal contesto di ambiguità metafi-siche che purtroppo - le ha conferito l’idealismo trascendente, si rivela appunto come l’idea (il concetto nell’accezione più ampia e più reale) che 108
lambisce le sponde della realtà con ondate successive di formazione e di specializzazione. Per questa assenza in essa di contraddizione, non può venir confusa col momento irrazionale dello spirito, anzi, è una capacità percettiva dotata di un istantaneo potere organizzativo delle diverse attività psichiche. La sua attività selezionatrice, sulla base di accumulazioni di esperienze positive e negative, è però indeterminata cioè ha una più vasta gamma di azione di una qualsiasi macchina elettronica (tipo “sorting out electric brain” , e ciò perché c’è alla base una lunga sensibilizzazione della personalità. Si tratta di un filtro indeterminato che tende ad utilizzare ciò che è essenziale e ciò che è in movimento evolutivo; donde la facoltà analogica, metaforica e simbolica dell’intuizione visiva (come di quella poetica etc.). Naturalmente le complicazioni che s’introducono nel processo intuitivo cioè nelle concatenazioni di percezioni, quando esse si collegano con concetti o sistemi simbolici di più alto grado aumentano in maniera proporzionale le possibilità di errori o di distorsioni. Così ad un livello normale di intuizione “indeterminata” (ma non ambigua) vediamo come il linguaggio filmico può ricostruire non solo il concetto di velocità ma i suoi rapporti interagenti con l’uomo; ciò avviene 109 attraverso l’uso di molteplici dettagli che hanno però qualità di simbolo e provocano reazioni semantiche nello spettatore (ruote - tachimetro specchio retrovisivo - acceleratore - concentrazione del volto) ricondu-cendo così i significati a quelli di una tensione non solo fisica e non solo in connessione con i dati esteriori. L’indeterminazione del linguaggio cinematografico serve a rendere i ritmi e le connessioni, le crisi e la profondità di una situazione umana; quanto più i rimandi vengono fatti ad esperienze fondamentali, decisive, “tipiche dell’uomo” , tanto più il linguaggio assumerà spessore e sarà capace di restar vivo per le generazioni successive.
L’indeterminazione di struttura può partire dalla impressione d’insieme per passare poi, attraverso i raccordi di sequenza ad analizzare i legami tra i fatti e a tessere la costruzione del racconto come il racconto di un’idea ma sempre in un ampio diagramma interpretativo dei dati di partenza. L’immagine, allora, sarà divenuta una cristallizzazione esterna di fatti interni e risultante in un’aggregazione molecolare in cui, pur avver-tendoli, non sarà facile scomporre l’emotivo dal razionale, l’idea dal flusso del sentimento, il particolare dall’organico. Solo tra tali elementi potrebbe essere possibile ipotizzare una gerarchia di valori come in una figura geometrica di cerchi fra loro tangenti, dai cui scambi di posizione deriverebbe il dinamismo dei significati e l’alternarsi di una prevalenza sia pure provvisoria fra emozione o idea, tra struttura lirica (o emotiva) e struttura ideologica (o razionale). La tecnica cinematografica sarà allora come la tecnica di qualsiasi altra arte: cioè il veicolo più adatto per portare le idee fino al punto critico di attuazione; e quanto più vicino sarà questo punto, quanto più comoda sarà l’azione del regista, tanto meno la realizzazione sarà di alto livello. Convogliate e concretizzate le varie idee nei varii mezzi, esse si muove-ranno sul terreno dell’organicità e dai varii punti critici radianti il vero artista saprà trarre l’energia necessaria per operare quel salto qualitativo in avanti che costituisce la prerogativa del genio e che, per questa concreta ragione, è spesso difficile ad essere seguita e partecipata dal pubblico. Così, per una spiegazione dalla pratica, nel campo della scenografia cinematografica: il materiale preparato dal buon scenografo sarà già un avvicinamento al punto critico di una parte della realizzazione; a sua volta, la scelta di un determinato angolo della scenografia, di un certo particolare risulterà ancora più selezionata e quindi più “critica” (cioè analitica e sintetica al tempo stesso); allora, ricollegando i punti critici nel discorso d’insieme, cioè la scelta del particolare scenografico, della tan-110 genza delle luci, del movimento degli attori, nell’ambito del montaggio e infine della humus culturale e ideologica, il contesto propriamente realizzato potrebbe divenire terreno adatto a quel salto qualitativo che il regista deve operare. È per questo che il regista che accetta una materia di compromesso, o elementi costitutivi di altrui scelta (quello che si lascia dirigere dal produttore nella selezione degli interpreti o di qualsiasi altro materiale necessario a realizzare l’opera), si è già precluso, per la resistenza che questo materiale, a lui estraneo, offrirà, il raggiungimento di quei “punti critici” da noi definiti. La conseguenza sarà che l’opera resterà staccata vitalmente e storicamente dallo spettatore, si risolverà in un fenomeno indifferente, che si svolge al di fuori di ogni sfera affettiva, intellettuale e sociale di quelli ai quali viene indirizzata come merce di consumo sensuale e non come completo messaggio umano. Sembra ovvio che ciò viene avvertito dallo spettatore che sa discriminare tra sincerità e artificio, tra lusinga dei sensi e costruzione della personalità, tra coscienza e ghiandole endocrine o lacrimatorie, da quello spettatore non docile agli slogan che, per dirla con Ortega y Gasset “non sente annegare la sua anima in un apocrifo piacere che lo tranquillizza rispetto alla sua incapacità di sentire l’arte”.
Per questo spettatore sprovvisto, torbido, pigro anche l’immagine che mette a fuoco una determinata realtà, filtrata attraverso una determinata ideologia, ricca di significati semantici può apparire noiosa, semplice rappresentazione di un pensiero o rappresentazione schematica di vicende. È questo lo spettatore che cerca solo i fatti emotivi, quelli che si scate-nano ad alta temperatura nella mente inerte, confusa non abituata al ricco alfabeto delle immagini. L’emozione, come ha ben dimostrato Janet, è una reazione di disorganizzazione che interviene quando il soggetto percipiente ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa (per lui) inintelligibile. E in tal senso, quanto più astratta e più vuota di significati, tanto più l’opera si tramuterà per lo spettatore, in un mero impatto sensuale o sensorio; quanto più l’associazione dei varii materiali sarà lontana da una tela di connessioni necessarie e non si avvertirà la «kunstwollen» tanto meno l’immagine si collocherà nella coscienza dello spettatore e colta nelle basi essenziali di movimento. Si veda, al contrario, l’esperienza di un Dreyer, quel suo mettersi in un contesto sottilmente laico, raziocinativo nell’alone passionale di un dibat-111 tito sui valori religiosi, cioè sull’idea di Dio come vita, amore, e sull’idea di giustizia come tolleranza, senso del bene e ripulsa della oppressione. In questo isolare dei casi storici (“Giovanna d’Arco” ) o individuali (“Ordet” ), in questo intrecciarli con cento connotazioni interiori, nel rendere gli inestricabili passaggi dal bianco al nero o dal al bianco attraverso cento gradazioni intermedie che simboleggiano i cento stati d’animo dei personaggi, Dreyer non si affida ad una totale sospensione del giudizio morale, ma al contrario cerca di reperire, al di fuori di ogni macchinosità, i congegni più profondi e più segreti del divenire dei sentimenti e delle azioni. È una esplorazione faticosa, che impegna mente e cuore e che mira a trovare il significato autentico del tempo, come in quegli orologi di cristal-lo che mostrano l’ora e il farsi dell’ora e i cui preziosi bilancieri sono ris-chiarati dal fascio di luce che promana dall’interno ma ha una sorgente esterna. Identificazione e cinema “intellettuale” Con registi del livello di Dreyer, Ėjzenštejn, Chaplin, Visconti etc. siamo fuori da quelle sinestesie semplicistiche che hanno fatto parlare di “identificazione emotiva” , quella per cui la resistenza logica dello spettatore cede e il filtro dei significati visivi e il linguaggio iconico e semantico si disperde, si dissolve, si rarefà in una nebbia di apprensioni, di eretismi nervosi (o neurovegetativi) o di dilettazioni oniriche. È stato notato anche dal Morin, il fenomeno della proiezione-identificazione nel “transfert” cinematografico. Ma è proprio l’immagine del sogno, passività limite, che ci serve da elemento di scrutinio rispetto alla ricezione controllata da ragione dell’immagine filmica. La capacità emotiva, la carica affettiva di cui è integrata è solo un tramite, per lo spettatore adulto nel senso più auspicabile del termine, tra i contenuti “concettuali” e quelli più indistintamente emozionali. Voler negare questa interazione significa voler negare le qualità reali dell’uomo; non si può dimenticare il grande monito del De Sanctis che voleva il critico prima spettatore comune, uomo pronto a sentire col cuore e col cervello per poi tendersi
ad innalzare verso l’analisi culturale e l’approfondimento dei significati più complessi. L’immagine filmica del regista creatore è a molti gradi al di sopra del caos onirico, così come l’acqua corrente è a molti gradi al di sotto del va-pore d’ebollizione: torbido, fumoso, sfuggente questo quanto l’acqua tende ad una sua limpidezza, ad una sua scorrevolezza pur avendo in sé com-presso questo potere di mutazione. 112 Il merito del Morin è, semmai, quello di confessare candidamente che dopotutto la “partecipazione affettiva” (- così come egli definisce quella che Adorno e altri chiamano “identificazione” -) gioca senza discontinuità nella nostra vita quotidiana, privata e sociale; con questo riducendo il margine di emotività ad un fenomeno normale e racchiuso nell’involucro delle nostre decisioni razionali. Più in là il saggista francese, nota, senza accorgersi della contraddizione: “Sono le stesse tecniche della macchina della presa e del montaggio, sono gli stessi piani carichi di affettività che tendono verso il segno e l’intelligibilità razionale… possiamo persino seguire in certi casi (dissolvenza, dissolvenza incrociata, sovrimpressione etc.) il ciclo perfetto, lo sviluppo integrale che va dalla metamorfosi fantastica al segno grammaticale». E ancora: « Il cinema partecipa a due universi, quello della fotografia e della pittura non realista, o piuttosto esso li unisce in forma sincretica. Esso rispetta la realtà, se così può dirsi, dell’illusione ottica, mostra le cose separate e isolate dal tempo e dallo spazio ed è qui il suo primo aspetto di cinematografo, cioè di fotografìa animata. Ma esso corregge incessantemente l’illusione ottica mediante i procedimenti della pittura ingenua: piani americani, primi piani, etc.; ristabilisce incessantemente il valore in funzione dell’attenzione e dell’espressione, oppure, come la pittura realista quando vuol ritrovare i significati della pittura arcaica, utilizza le inquadrature dall’alto o dal basso” 43. Si va quindi oltre la percezione del segno come semplice stimolo sensoriale e si arriva a quello che uno studioso di estetica semantica, il Raffa, ha definito “il fantasma” cioè la costituzione dell’oggetto psichico, dove comincia la percezione estetica propriamente detta. «Si tratta di un’immagine non solo molto vivida in quanto immediatamente radicata in una percezione, ma altresì accompagnata da un intreccio pregnante di affettività (qualità fisiognomica o espressiva inerente allo stile) e di evocazioni associative, indotte sia dalla struttura stilistica sia dal materiale semantico in essa incorporato… La vera interpretazione o esperienza semiotica dell’arte comincia con la costituzione del fantasma, ma comincia solo nel senso che la costituzione 43 E. MORIN, op. cit. 113 di quest’oggetto psichico è la premessa indispensabile per poter interpretare i segni secondo la loro natura particolare. Fin qui entra in gioco semplicemente la struttura dell’interprete, come si è visto: abbiamo quindi una percezione estetica, sia pure di segni (quindi in qualche modo già pregnante di potenzialità semanticità) ma non ancora – stricto sensu un’interpretazione.
Quest’ultima ha inizio allorquando alla struttura psichica costituita subentra la struttura psichica attribuita, precisamente quando il “fantasma” viene analizzato in quanto appartenente ad un soggetto umano, produttore del segno. L’analisi del “fantasma” serve a intenderlo in termini di consapevolezza semantica. Si tratta di ridescrivere, il che vuol dire che da esso si ricava induttiva-mente un’ipotesi o schema provvisorio relativo al senso antropologico del fantasma stesso. In parole povere, riferiamo “il fantasma” alle conoscenze che possediamo intorno alla costituzione psichica umana (primo presupposto della comunicazione) … ma poiché gli uomini vivono in società e nella cultura, è soltanto con riguardo a questo contesto che l’atteggiamento psichico può avere un senso concreto e che la comunicazione ha luogo di fatto. Il passaggio dal “fantasma” al significato eidetico si compie, appunto col riferire la struttura psichica attribuita o atteggiamento psichico, ad un contesto socioculturale adeguato. …così il circolo della percezione-interpretazione si conclude: un circolo nel quale i vari momenti-grado si condizionano e si verificano reciprocamente in un seguito di percezioni-affezioni-fusioni-immagini-riflessioni riaggiustantesi incessantemente come un’onda dai cerchi concentrici” 44. Era già questo, forse, il senso della “oscillazione capillare dell’attenzione fra i due poli del segno (percezione) e del significato (immagine)” di cui parlava il Morpurgo-Tagliabue, ma purtroppo con una non riscontrabile dicotomia tra figura e immagine, mentre quest’ultima non può essere identificata con la semplice memoria pratica di essa, cioè con quello scheletro che resta nel ricordo dello spettatore e che fà sì che egli spesso recrimini sulla povertà di espressione dell’immagine. E ciò, di rimando, prova che al contatto vivo, complesso con l’immagine non è tanto uno scatenarsi di tempeste emotive quanto un’intensificarsi di recettività di segni e simboli estetici che procura la comprensione effettiva dell’opera filmica.
44 P. RAFFA, op. cit. 114 Come bene ha puntualizzato il Dorfles: “ammettiamo che la nostra funzione percettiva sia già di per sé carica di significati, e questo ci permetterà di considerarla ben diversa dalla semplice stimolazione sensoriale del nostro occhio e del nostro orecchio - stimolazione sprovvista di qualità significanti e puramente sensoriale - e ci farà propendere per una netta distinzione tra la sensazione “bruta” a livello fisiologico e la percezione costituita sempre dalla somma di dati sensorii con elementi innestici, volizionali, etici e quindi anche estetici” 45. Attraverso l’innestarsi della percezione nel circolo aperto della memoria, si spiega ad esempio come abbiano avuto un’eco profonda nella coscienza (e non certo nei sensi) certe opere del neorealismo italiano da “Paisà” a “Roma città aperta”, a “Ladri di biciclette” data la scelta emotivo-razionale di un dato tema da trattare, e di elementi e simboli essenziali da configurare (gli elmetti tedeschi, lo stridio dei camion, il grigio silenzio delle strade, i poveri abiti di quei giorni, etc.) tutti elementi in cui si erano accumulati molteplici significati e che come una molla da poco compressa scattavano vivi all’apparire delle loro immagini, trascinandosi dietro un corteo di ricordi, di amare riflessioni, di sempre presente indignazione morale. Quella connessione indivisibile di quegli oggetti agli avvenimenti, a tutte le vicende della guerra, del patire, del sopruso tedesco, operavano nello spettatore a tutti i livelli e con una espansione nella coscienza adeguata alla concretezza e alla sincerità della rappresentazione. In questa direzione si chiarisce anche che per simbolo non s’intende solo quello di tipico rimando storico-culturale, ma quello in cui, ad ogni modo, si è accumulata una storia di significati e che possa essere filtrato nelle sue componenti da chi lo percepisce (e lo analizza). Dalle contraddizioni di fondo, dalle antinomie culturali che viziano una parte dei giudizi ostili al cinema, per ciò che attiene alla pretesa passività “fisiologica” dell’occhio dello spettatore, possiamo risalire alla insufficienza lamentata da Croce, nell’uso dei termini del problema estetico: “Nel caso della pittura o delle arti figurative c’è a questo proposito una facile tentazione alla quale più volte si è ceduto, di ricondurre quel godimento di forme a uno dei cosiddetti sensi dell’uomo, all’occhio. Ma io non farò il torto di attribuire ai nuovi critici un così grossolano sensismo e fisiologismo; e credo che anche essi siano, come me, persuasi, che 45 G. DORFLES, op. cit. 115
116 l’occhio fisiologicamente concepito e il piacere dell’occhio non hanno niente di comune con la pittura o con altra arte. Piacere dell’occhio nel significato sensistico e pratico, potrà chiamarsi quello che si prova a ritrarsi al riposo dell’ombra quando si è offesi o stanchi dalla troppa luce, o quello che di gaia espansione per converso si prova quando dalle tenebre usciamo al chiarore; ma tutto ciò è diverso ed estraneo alla gioia che suscitano un dipinto o una scultura. Allorché essi parlano dell’occhio, evidentemente intendono, come anche lo Her-bart intendeva, di un occhio non materiale e fisiologico, non pratico ma teoretico e sognante e fantasticante: al quale non sarebbe da muovere altra obiezione se non che esso è poi una metafora per designare lo spirito intero, o almeno lo spirito come fantasia. In verità una pittura non si vede con l’occhio ma si apprende con tutte le forze dello spirito atteg-giate in quella forma loro particolare che si chiama l’intuizione lirica o l’immagine estetica. E altresì metafore sono, in estetica, linee e colori, toni e ombra e ogni altra determinazione siffatta, di provenienza fisica, metafore, metonimie, sineddoche per designare le figurazioni dei moti dell’anima” 46. Se si sfrangia questo paragrafo dei suoi contorni idealistici, e si prende per il termine fantasia l’equivalente vichiano di “memoria dilatata o compressa” , si realizza che il ragionamento di Croce è la risposta più op-portuna a quanti si beano nella dottrina dell’identificazione o del puro godimento sensuale (aconcettuale) dell’immagine in movimento. L’occhio, quello esercitato 47, è lo strumento che pone in correlazione il percipiente coll’oggetto, che dà vita ad un processo a metà strada tra organo sensorio e cervello (serbatoio mnestico), ad un ridimensionamento della esperienza cognitiva in un flusso di mediazioni tra l’ambiente esterno e il soggetto. Ciò sembrerebbe rinviare, sic et simpliciter, al concetto di “Gestalt” (percezione che può venir spiegata in termini di fattori neurologici ten-46 B. CROCE, Nuovi saggi di estetica, Bari 1958. 47 È illuminante a questo proposito quanto scrive C. G. Jung del selvaggio cacciatore di teste: “Si è anche detto che ì suoi sensi siano più acuti o diversi dai nostri. Ma egli non ha che una differenziazione professionale del senso locale o dell’udito e della vista. Posto di fronte a cose situate fuori della sua portata, è incredibilmente lento ed inetto. Ho mostrato a cacciatori indigeni, dagli occhi di falco, dei giornali illustrati dove da noi ogni bambino avrebbe subito riconosciuto delle figure umane. Ma i miei cacciatori giravano le figure per ogni verso finché uno di loro, seguendo i contorni col dito d’un tratto esclamò: “Sono uomini bianchi!” e sembrò una grande sorpresa”. 117 denti a produrre modelli organizzati o separati gruppi di modelli o “interi organici visuali” ) ma, in ultima analisi, si va ben più in là se, richiaman-do la definizione di intuizione, come oscillazione
selettrice di elementi semantici e organizzatrice di alte fusioni qualitative, non si includesse tutto il massimo di coscienza storica del percipiente, ad essa occasionato dalle facoltà di sensibilizzazione (processo di avvio) dell’occhio. L’organo terrà fronte a tutte le interferenze “atipiche” che cercheranno di trasmetterglisi dal campo di azione della realtà e che non renderebbero ragione del linguaggio estetico, appesantendolo con comici o corpi estranei. Una correlazione, quindi, che riflette dalla parte del percipiente non tutto il vasto panorama, ma i tratti essenziali di esso; operazione che avviene attraverso un nucleo conoscitivo ma entro un elicoide emozionale, inter-secantisi senza elidersi a vicenda. Questa “indeterminatezza” di operatività giustifica creazioni (rielabora-zioni) complesse e, apparentemente atipiche, proprio in dispetto di quella logica matematica della forma tanto cara alla “Gestalt” . E in questo quadro di risultanze si può arrivare a comprendere come l’arte astratta sia una pura “Gestalt” emotiva dato che essa prescinde integralmente dal nucleo conoscitivo che invece non può non gravitare in quello che è l’ampio significato storico dell’uomo. È questa sua qualità unilaterale che la pone nella maggior parte dei casi sul piano della mera decoratività, così anche per la scelta di oggetti geo-metrici, punti e linee, che non hanno e non sono suscettibili di una stratificazione di significati. Dall’altro lato, quello puramente razionale, è da osservare come sia possibile a macchine calcolatrici a sistema binario (logico) tradurre informazioni e messaggi di contenuto pratico (indici o rappresentazioni ma non simboli) e come sia loro impossibile rendere in altre lingue testi d’arte (ad es. i drammi shakespeariani) dove l’accumulazione semantica nelle parole esclude il solo carattere di comunicazione o lo sposta sul livello della comunicazione istantaneamente molteplice. Il che viene reso evidente dalle dichiarazioni di un noto cibernetico che è possibile operare binariamente su discorsi “sequenziali” cioè lineari-logici ma non è possibile operare su discorsi “a canale” cioè a parallele multiple e a multipli intrecci, date le interazioni di significato che comporta un contesto semanticamente correlato. Così, nel cinema “intellettuale” , nel senso auspicato da Ėjzenštejn, nell’ambito di una sola inquadratura possono essere presenti e analizzabili 118
cento connessioni fuse in un tutto organico, inscindibile e, dal punto di vista spazio-temporale, ininterrotto. Da ciò procede che la tecnica inizia appunto dall’embrione del racconto cinematografico, dalla risoluzione del problema espressivo della scelta di chi e che cosa inquadrare, di quale segno del volto ritrarre, di quale movimento, di quale densità di illuminazione etc. Se si considera l’altro aspetto della questione, quello sociologico, non si può non rammaricarsi che la corrente che tiene per “l’identificazione” emotiva dello spettatore, in tutti i casi, non si induce a nessuna discriminazione di natura statistica.
È certo che la produzione cinematografica può essere considerata per il 90% una “letteratura” da vertigine mentale, secondo la definizione di Gilbert Cohen-Séat, ma alla stregua, dopotutto, del 90% della narrativa vera e propria che dal punto di vista della produzione è composta, come sappiamo, di gialli, rotocalchi, fumetti e romanzi rosa o “neri”. Così come il buon 10% riscatta la produzione “stampata” ugualmente il buon 10% riscatta l’impegno serio e realistico dell’opera cinematografica. Ben fu detto che De Sica era “il miglior narratore italiano” degli anni ‘45-55 e ben si può accettare lo scrupolo di chiarificazione, l’engagement analitico e sottile degli Antonioni, Visconti, Bergman, etc. 119 Purtroppo, anche studiosi prima dalla parte del linguaggio filmico hanno finito per estraniarsi, a furia di motivazioni originali, da un’indagine oggettiva. Fra questi, ricordiamo il Kracauer che in un suo recente saggio fa appello ad una psicologia di tipo primitivo, così che finisce col non rendersi più conto del carattere composito del linguaggio filmico e si ricon-duce ad esemplificare certa “sensualità” del cinema col citare una “signora francese” di sua conoscenza che gli confessava: “A teatro sono sempre io, mentre al cinema mi dissolvo in tutti gli esseri e in tutte le cose”. A parte il grave torto dello studioso tedesco-americano di non aver riconosciuto una boutade lirica di Valéry e di non aver valutato appieno l’emotività della natura femminile, si potrebbe troppo facilmente obbiet-tare che se la signora avesse dovuto presentare dei riferimenti concreti di individuazione sarebbe arrivata a concludere che al teatro “Grand Gui-gnol” gli sarebbe potuto accadere di identificarsi più facilmente con i protagonisti di quanto le sarebbe potuto accadere vedendo “Il posto delle fragole” o “Aleksandr Nevskij” e cento altri film. O ancora che forse le era successo più facilmente di chiudere a doppia mandata l’uscio di casa dopo essersi divorata un romanzetto giallo che di aver sofferto di claustrofobia vedendo “Un condannato a morte è fuggito” di Robert Bresson, dove scansando tutte le suggestioni emotive, con uno stile lucido, essenziale, illuminato, il regista escludeva ogni ovvia “suspence” e ogni cattivo gusto del “batticuore” per giungere alla intelaiatura e finitura di una storia rischiarata dalla fiducia nella ragione come fiducia nella libertà. L’orientamento dei veri narratori cinematografici ha un ben diverso “nord” di quegli industriali che sfruttano il cinema come bagno ottico e acustico di colori, rumori e palpitazione cardiache. Non è a caso che lo schermo dei grandi registi resta quasi sempre nella linea della tradizione e che il loro angolo visivo sia eccezionale non dal punto di vista “strumentale” ma storico umano intellettivo. Chaplin, Dreyer, Visconti, Ėjzenštejn non si sono mai occupati di Cinerama o Circarama, respingendo così proprio gli allettamenti più volgari che il cinema poteva offrire a menti grossolane: fasto, spettacolo, meraviglia e cerimoniale. Ciò che di esatto ritroviamo in Kracauer (e negli altri) sono quelle considerazioni riferibili ai prodotti indegni, quelli che effettivamente tendono a surrogare gli oppiacei;ma non riferibili certamente a quelle opere che formano l’autentica storia del cinema, la storia cioè del suo cammino verso la comprensione, la scoperta e l’analisi della realtà umana. Nel tono di polemica totale, le annotazioni di Kracauer vengono a con-trastare, e in modo stridente, con quanto egli stesso era venuto 120
121 annotando a proposito del cinema tedesco, per i cui maggiori registi da Wiene a Murnau, da Pabst a Lang, non era stato avaro di elogi. Così veniva allora scrivendo: “Grazie alle molteplici possibilità della macchina da presa e del montaggio e ai diversi artifici loro proprii, i film possono e debbono quindi frugare l’intero mondo visibile… Nel corso delle loro conquiste spaziali, sia i film romanzeschi che quelli documentarii colgono innumerevoli componenti del mondo che rispecchiano: enormi manifestazioni di masse, accostamenti fortuiti di corpi umani e di oggetti inanimati e un’infinita varietà di fenomeni prima poco appariscenti. La vita interiore si manifesta in varii elementi e combinazioni di vita esterna, specialmente in quei dati superficiali quasi impercettibili che sono parte essenziale del linguaggio cinematografico” 48. E più recentemente, continuando nel suo doppio e contrastante binario il saggista tedesco se da una parte afferma : “L’arte tradizionale opera dall’alto in basso: parte con una idea che deve essere proiettata nella materia informe e non con gli oggetti che costituiscono il mondo fisico. Il cinema, invece, ci aiuta a vedere quello che non vedevamo o quello che non vedevamo più (Marcel), a scoprire il mondo materiale con le sue corrispondenze psico-fisiche”. Dall’altra ribadisce: “Per quanto le immagini dei momenti materiali, quali si rivelano sullo schermo, abbiano un significato per conto loro, in realtà non ci limitiamo ad assorbirle ma ci sentiamo stimolati ad intessere quel che ci dicono in contesti riferentisi al complesso della nostra coscienza” 49. Arte di una tecnica C’è insomma l’accettazione del fatto che la tecnica si sostanzia con la capacità espressiva e che è presente anche quando è meno accertabile; in tal senso si intende rifiutare la dogmatica dello “specifico filmico” che fraintendendo come esclusivo linguaggio filmico la prevalenza del dinamismo fine a se stesso (Hathaway, Stevens, Hitchcock, etc.) ha perduto di vista la scelta dell’elemento compositivo dell’inquadratura come realtà correlata alla realtà da rispecchiare, scelta non di mera natura tecnica ma scaturente dal contesto culturale,
48 S. KRACAUER, Storia del Cinema Tedesco, Milano 1954. 49 S. KRACAUER, Film: ritorno alla realtà fisica, Milano 1962. 122
123 sociale e ideologico in cui si trova l’autore. Nel film, la natura non viene privata delle sue doti qualitative, non è disanimata; c’è, anzi, qualcosa in più; il film diviene strumento dell’atto conoscitivo, senza peraltro procedere per astrazioni; il regista sceglie i contrassegni essenziali del mondo (calato nella storia), in modo che tra visione e cosa vista ha luogo un’influenza reciproca e continuativa, non sterile e non banale allorché la visione ha energia, cultura, sensibilità. Non si tratta di una tecnica sensoriale, di mosaico, ma di scegliere, comporre, staccare, congiungere elementi come esperimenti di valore. Solo così ci si sottrae al meccanicistico e si ha la storia (minima o massima), ma concreta e perspicua. Le connessioni che si ricercano sono allora quelle molteplici ed effettive che sussistono nella realtà, non quelle di carattere rigidamente teoretico; sono tipi non figure immobili; situazioni dinamiche non leggi ed assiomi o operazioni algebriche; sono logaritmi in sviluppo non numeri fermi.
La posizione del regista di fronte alla realtà è quella di una reattività complessa e colorita, sfumata nei riguardi degli aspetti del reale, della società, dei suoi problemi. È una situazione di correlazione che ha solo l’apparenza di una arbitrarietà soggettiva; non quindi identificazione della struttura psichica con quella della realtà ma interscambio di stimoli e reazioni. Né si può affermare pacificamente che questi processi di interpretazione del reale confluiscano in una globalità generale e indifferenziata o che, al contrario, vengano usati per scopi di previsione o di soluzione politica dei problemi; sono solo dei filtri che si interpolano ai problemi oggettivi e li chiariscono senza scheletrirli e senza calcificarli in formule. La discriminazione e l’aggregazione degli elementi compositivi dell’immagine è dovuta al grado di capacità selettiva di ciò che essenziale e di ciò che non lo è, di ciò che ha possibilità di evoluzione (e quindi di ricollocazione nel tempo) e di ciò che non lo ha. Spesso si tratta, come per qualsiasi altra tecnica di altra arte, di un processo di verifica degli elementi rappresentativi: tali ad esempio le sequenze di prova, o le inquadrature di prova da parte dell’autore del film, degli schizzi, dei disegni di scena, come nel loro modello più alto ci vengono dai quaderni di S.M.Ėjzenštejn. Si tratta, in generale, di una completa assunzione di. responsabilità, non solo intellettuale ma anche morale, nei confronti della realtà storica e del «terminus ad quem» del rapporto estetico: il pubblico. Il regista vero, creatore scrupoloso, non si lascia sommergere da ondate di inerte proba-bilismo, ma opera perfino sui corpuscoli, sulle vibrazioni, sulle tensioni 124
nell’ambito delle quali si tratta di far gravitare la vicenda; con una continua attività di controllo del comportamento dei personaggi e del risalto delle cose, e ciò che più importa, dei loro significati di relazione. Le difficoltà dell’uomo-individuo sono problemi reali, così come le difficoltà reali sono problemi per l’individuo: si devono allora riannodare fili sottili, trame a più strati e a più nodi fra individuo e società; il lavoro del regista realista è quello di metterli a fuoco, darne l’esatto ricambio dialettico, il movimentato ondeggiare senza spezzare la rete organica, senza amplificare nessuno dei termini anche se talvolta tende a prevalere quello individuale, o altra volta quello oggettivo o sociale. Non potrà bastare la raccolta dei dati di un solo ordine siano pur essi cifrati d’alto stile (“Marienbad”) o tendenti ad una sociologia da materialismo volgare (i tanti film del cinema staliniano). L’operazione di verifica da parte dell’obbiettivo è confermata dal discorso esegetico che esso può dare in relazione ad opere d’arte figurative, il cosiddetto critofilm. Così esordiva Cesare Brandi in una sua intervista, contraddicendo le sue vaste reticenze nei confronti del cinema: “Il cinematografo, avendo felicemente imprestato sia dal metodo critico che da quello giudiziario, l’uso di presentare particolari, prese d’immagini desuete e accostamenti significativi, potrebbe essere adatta-to magnificamente a creare il “convincimento ragionato” che la critica d’arte vuoi filologica vuoi estetica intende perseguire in relazione all’inquadramento storico e comunque esegetico dell’opera d’arte” 50. 50 C. BRANDI, in “Cinema” , n.s. Dicembre 1951. 125
Dove, sia pur rispondendo alla possibilità di un criterio per documentari d’arte, si può ricavare un “convincimento ragionato” sulle doti di analisi del linguaggio filmico, ribadendo anzi che l’analisi del materiale visivo parte da un “metodo critico” , da un metodo d’indagine, da accostamenti significativi, da scelte insomma che sono ad un tempo partecipi del sensibile e dell’intellettivo. La tecnica autentica del cinema si volge al dialogo di confronto più che a quello di esposizione, più al rilievo delle differenze tra i vari elementi e attori del dramma che all’informazione delle circostanze delle azioni avvenute o “in progress” ; i registi più dotati sanno arrivare al “dialogo di tono” come quello che domina Proust e che ci dà l’accento di ciascun personaggio; così, nel parlato, la voce (non la recitazione) può assumere un rilievo dominante dato che lo spessore, le sfasature, i toni di una voce servono a identificare un «tipo umano» meglio del suo modo stesso di ragionare. L’energia trasmettitrice delle immagini, sarà proporzionale alla loro coerenza, ma anche all’approfondimento della visione dei contenuti; e così, reciprocamente, lo sfaldamento della capacità d’indagine sarà un venir meno della compattezza stilistica. Il saper fondere l’alone emozionale con le qualità concettuali dipenderà dalla capacità di concentrazione dell’autore; si avranno allora ripetuti effetti di contestualità (ad esempio, il variabile significato di una linea obliqua in differenti posizioni nell’inquadratura). Lo stesso processo per cui un autore di musica sa distinguere nello “accordo perfetto maggiore” una fusione di do, mi e sol, e semmai altre concomitanti frange di note, utilizzandole per un dato effetto al tempo stesso emotivo e concettuale. Se la fusione è lo stato di coscienza normale, ad essa il regista non può arrivare se non attraverso un processo di percezioni discriminanti: l’intensità di approccio, la percezione valutativa dei significati, degli equilibri e delle correlazioni portano alla totalità dei particolari; quindi il grado di fusione dipenderà non solo dall’attenzione ma dalla volontà d’indagine della realtà. Il regista dovrà sapersi disfare delle evocazioni di natura fisiologica o sensoriale che producono gli oggetti; dei loro stimoli che, ad un basso livello, possono essere anche solo termici, olfattivi o uditivi. L’idea immaginativa dell’autore deve saper volere gli sviluppi cui arrivare; né il giuoco delle scelte sarà un’abile alternanza nell’uso di regole. Si tratta di arrivare ad un accordo con la realtà attraverso un gruppo di 126 esperienze visive collegate ad esperienze di carattere ideologico, culturale e di sensibilità. Il pensiero e l’emozione, riuniti in consapevolezza estetica, oltrepassano i puri dati esterni, raggiungono la interazione nell’immagine ideata-sentita. Allora “la quantità è qualità superata” , allora anche i punti impercettibili dell’inquadratura si organizzano in significati, oltre il comodo calcolo delle sensazioni. Il processo creativo è un portare a termine le immagini nel modo più ricco e meno superfluo, un tradurre in icone vive e in simboli vitali anche i segni più remoti e più inconsueti, quello “accedere alle sorgenti più profonde della vita che altrimenti resterebbero per ciascuno e per tutti, interdette” (C. G. Jung). Ciò non postula affatto che l’organizzazione della immagine filmica debba tendere verso una formulazione dal carattere inaspettato, insolito o addirittura straordinario (concettualmente insostenibile); al contrario, il contenuto e le forme della rappresentazione hanno affinità e ascendenze nel contenuto e nelle forme iconiche precedenti, per quanto intensificate e sviluppate nella elaborazione per via di una tecnica spontanea, autonoma che sa di tutt’altro che di ricalco. Il “tipico” è, appunto, un rifuggire dalle variabili inutili, eliminate come per un principio di economia culturale e creativa; è un trovato sperimentale che parte da un complesso, di sensazioni, sentimenti e cognizioni non solo proiettate all’esterno dall’interno, ma correlate con questo esterno in quanto oggettività da interpretare e con l’interno, in quanto personalità del regista, cioè istinto, temperamento, formazione e convincimento ideologico. Il “tipico” scaturisce quindi da questa coordinazione con un’esperienza filtrata, storicamente aggregata e attivamente selettrice, non con una esperienza allo stato “puro” , cioè di mera definizione psicologica o di mera estrazione biografica. In questo senso la ricerca del “tipico” raggiunge e gravita nella sfera del semantico, ne partecipa per la quasi totalità, data la capienza che in essa trova dei suoi passaggi dall’individuale al generale proprio in quegli strati, concentrici, di significato che si allargano da individuali a collettivi.
Con ciò non si intende peraltro cadere nell’errore di identificare il realismo con la scienza, dato che quest’ultima tende ad un inquadramento di concetti tutti determinati o da determinare, di cui, per usare il lessico kantiano, l’arte dà solo un “trascendimento” o “un’estensione” nel senso che l’esibizione di idee estetiche dà molto da pensare, pur non essendo concettualmente determinata, essendo un’esibizione di significati 127 non riconducibili al discorso logico-matematico. Per questo ci sembra che sia esatta la proposizione del Raffa quando sostiene che: “è vero invece che alcuni tipi di linguaggio artistico possono comportare un quoziente di conoscenza quale dimensione semantica qualificante nei confronti dell’atteggiamento; e fra i tipi che richiedono tale quoziente di conoscenza quale condizione necessaria per la loro costituzione strutturale vi è il realismo che non a caso rappresenta un vero scandalo per le teoriche idealistiche e affiliate” 51. Né può venir presa come buona o giustificata l’asserzione che il cinema dà il mondo come “un fatto compiuto” , perché ciò equivarrebbe a negare il minimo di umanità e di responsabilità in qualsiasi regista; questi al contrario, per il fatto di aver libero arbitrio nelle angolazioni, nella posizione di ripresa, nella scelta degli interpreti e del materiale narrativo tutto, non può dare mai l’esatto, matematico corrispondente del “fatto compiuto”, cioè la sua identità percettiva (ammesso poi che esista un tale noumeno), ma solo una sua interpretazione, per quanto sbagliata (questo sì) o meschina, o prolissa della realtà che gli si pone di fronte. L’immagine ha in sé germi prepotenti di simbolizzazione, per il fatto di escludere necessariamente molte cose, ritenute insignificanti o poco significanti, e per il fatto di includere rimandi immediati ad altre immagini e ad altre situazioni. Dice bene Morin: “L’immagine non è che un’astrazione, alcune forme visuali. Queste poche forme sono tuttavia sufficienti perché si riconosca la cosa fotografata. Sono dei segni; ma più che dei segni sono, anzi, dei simboli. L’immagine rappresenta - è la parola esatta: essa restituisce una presenza. È infatti simbolica ogni cosa che suggerisce, contiene o rivela altra cosa o più di se stessa. Il simbolo è al tempo stesso segno astratto, quasi sempre più povero di ciò che simboleggia e presenza concreta perché sa restituirne la ricchezza” 52. Ci sembra inoltre non potersi negare che le immagini visive rappresen-tino spesso un modo analitico di esaminare situazioni complesse: il cinema tecnologico e la microcinematografia si sono rivelati indiscutibilmente strumenti rivelatori di tutta una realtà tempuscolare e molecolare prima affatto ignota. Su altro binario e in altra tendenza tipica del cinema, le forme filmiche 51 P. RAFFA, op. cit. 52 E. MORIN, op. cit. 128 hanno portato l’uomo a più stretto contatto con la realtà esterna: ad Urban Gad, il cinema sembrava aver restituito all’uomo il senso della natura, senso che l’uomo moderno veniva perdendo. E se Aragon s’induceva a dire: “Il cinema ci ha insegnato di più sull’uo-mo in pochi anni di quanto non ci abbiano insegnato certi secoli della pittura: espressioni fuggevoli, atteggiamenti quasi incredibili eppure reali, fascino e meraviglia” , Marcel aggiungeva: “A me sempre pronto a stancarmi di ciò che vedo abitualmente, e che in realtà non riesco più a vedere, questa capacità particolare del cinema appare letteralmente redentrice: salvatrice” . E, infatti, il trasferimento immediato di certe esperienze, senza lambic-camenti raffinati, la qualità di captazione della realtà e di partecipazione insieme emotiva e intellettuale, l’allontanamento da certe rarefazioni liriche che la letteratura aveva subito nel corso degli ultimi trent’anni hanno fatto del cinema, s’intende di quello a buon livello, un linguaggio più comunicativo, più familiare e, in fondo, più attivo nella restituzione di certe verità sofferte o percepite dall’uomo. Esso ha mostrato, proprio per le sue caratteristiche di fatto composito, un’analogia più vicina al linguaggio dell’uomo che non si svolge mai in modo filiforme, per segmenti puri e nudamente concettuali, ma è avvolto in un alone di memoria e di emozione. Tali caratteristiche ricordano, dal punto di vista gnoseologico, le tesi con cui L. Feuerbach “inizia la critica positiva, umanistica e naturalistica”:
“È l’intuizione sensibile che ci dà l’essenza immediatamente identica con l’esistenza, la passività che è identica all’attività, il senso identico con l’intelletto e mette perciò, alla fine, d’accordo il cuore con la mente… Allora il reale nella sua realtà è ciò che è oggetto dei sensi, dato che verità, realtà e sensibilità coincidono. Soltanto un essere “sensibile’ è un essere vero, reale cui è dato un oggetto col senso e non col solo pensiero o col pensiero per se stesso” 53. Giustamente Feuerbach vede alla radice teoretica di Hegel l’errore di aver relegato nel non-vero l’intuizione sensibile, di aver sacrificato la “coscienza sensibile” alla dialettica del concetto puro, il cui “essere” è dato per vuoto e indeterminabile e diventa quindi preda del non-essere. 53 L. FEUERBACH, Vorläufige Thesen, Stuttgart 1903. 129 All’esperienza sensibile è, d’altronde, connaturale un’esperienza conoscitiva, cioè una conoscenza lunga, varia e approfondita con le circostanze da rappresentare o quasi un’affinità con la cronaca che si imprende a nar-rare e che si deve tradurre in linguaggio filmico. E sono le scelte delle situazioni o dei contesti figurativi, segnici, verbali che localizzano, mostrano, presentano situazioni reali o riescono a richia-marle associandole ad un contesto già presentato. La capacità di ellissi contestuali, di coordinazione di situazione (cioè la capacità di montaggio), la forza di rappresentazione simbolica, parzial-mente esplicita o totalmente implicita, l’attualizzazione del fatto, non la sua falsificazione, i criteri di caratterizzazione o di legamento fra le strutture sono tutte qualità indispensabili al vero regista, doti virtuali da rendere effettive ed operanti. E in ciò la difficoltà notevole del dominio di quel mezzo tecnico-linguistico che è il cinema, coi suoi troppo ricchi apparati meccanici, colle pressioni e compromissioni industriali, con tutte quelle limitazioni materiali che solo un vero artista può tramutare in suggerimenti e stimoli ad una più condensata forza di espressione e di comunicazione. Per ogni artista il primo compito consiste proprio nel discriminare le influenze esterne e di saper utilizzare i limiti estrinseci e le circostanze di tempo e di luogo a fine di un discorso più conciso e vibrante, tanto più pieno di esperienza immaginativa quanto meno ricorrente a maîtrises tecniche. Non si vede perciò come possano respingersi, tout court, le considerazioni di un grande teorico e regista cinematografico, quale V. Pudovkin che tratteggia con felici intuizioni il moderno approccio che il cinema opera verso la realtà: “Pensiamo invece che, in prima istanza, (nel cinema), la teoria non possa essere separata dalla pratica. Ciò significa che noi, osservando e studiando il divenire dei fenomeni, siamo sempre pronti ad accogliere i fatti nuovi, siamo sempre pronti a collaudare la teoria, a modificarla di continuo, in modo da farla una guida per l’azione pratica. A nostro parere la teoria dell’arte non è una ripetizione di canoni stabiliti una volta per tutte, ma il frutto di un’elaborazione continua strettamente connessa alla nostra realtà” 54. Il regista autentico sa quindi che l’immagine è il nucleo del suo mondo 54 V. PUDOVKIN, “Il cinema e l’uomo moderno” , in “La settima Arte” , Roma 1961. 130 poetico, cui può venir aggiunto il suono, non solo nel senso di dialogo ma di rumori, di voci di natura, ma sempre come interpretazione fonica di questi elementi; l’immagine sarà una vivida rappresentazione della realtà in fieri, nata sulla spirale evolutiva dell’intuizione, spirale che sarà stata costruita mediante la scelta dei materiali più adatti a tale composizione di natura speculare; concretazione visibile del modo di guardare alle cose e ai sentimenti e al moto dialettico che vibra fra di loro e in loro. Solo in questo senso, dialettico, complesso, generato da una lunga osservazione della realtà, nelle sue più intime e più sintetiche implicanze, si riesce a comprendere e a condividere l’entusiasmo di studiosi di arte figurativa quali il Ragghianti e il Panofsky. Quest’ultimo parla infatti, e a ragione, come abbiamo visto, sia pure con un vocabolario formale di “una drammatizzazione dello spazio” operata dal linguaggio filmico, dato che “lo spettatore, in un cinematografo, ha un posto fisso ma solo dal punto di vista fisico… Esteticamente egli è in
movimento perché il suo occhio si identifica con la macchina da presa che cambia continuamente distanza e direzione. E lo spazio offerto allo spettatore è mobile quanto lo spettatore stesso”55. E basterebbe, per rivendicare dignità espressiva al cinema, riandare di nuovo all’influenza da esso avuta sulla narrativa contemporanea, per le infiltrazioni in essa operate del “pensiero parlato” , dei salti di tempo e di luogo e di azione, del gusto per “immediati controcampi” di conversa-zione e soprattutto per il ritmo dinamico impresso a tutta una generazione di scrittori. Questo gusto per le immagini, che si sono sentite non più come corpi fisici inerti, o sostituti di corpi fìsici ma sempre come oggetto di un’esperienza interiore stimolata dall’esterno e riflettente la realtà, percepita e assimilata con moduli di tendenza emotivo-concettuali. E del resto la simbologia stessa non è operazione così estranea alle menti “ingenue” come credono di sapere gli Zolla, i Miller, e tutti i detrattori del fatto filmico. Come ben dice la Langer: “La comprensione di una cosa attraverso un altra pare sia un processo profondamente intuitivo nel cervello umano; ed è così naturale che spesso ci riesce difficile distinguere la forma espressiva simbolica da ciò che essa rappresenta. Ci pare quasi che il simbolo sia la cosa stessa o la contenga o ne sia contenuto. Un bimbo, ad esempio, che osservi un 55 E. PANOFSKY, Style and Medium in Moving Pictures, New York 1937. 131 mappamondo non dirà: “Questo rappresenta la terra”, ma dirà: “Guarda, questa è la terra”” . E più avanti: “Io credo che la nozione comune di immagine come replica ad un’impressione sensibile abbia indotto in genere gli epistemologisti a perdere di vista il carattere principale delle immagini: quello di essere simboliche…”. E ancora: “Il valore d’un’opera d’arte è la sua vita che, come la vita vera e propria è un fenomeno indivisibile… ma i simboli, in arte, stanno ad un livello semantico differente dall’opera che li contiene. I loro significati non fanno parte del suo valore, sono elementi della forma che ha valore, la forma espressiva” 56. Per quello che riguarda poi la scelta, la selettività dell’intuizione nei suoi risvolti tecnici, ci sembra interessante riportare il brano di una intervista di un celebre operatore italiano, a proposito delle modalità di ripresa di un grande regista, quale Visconti: “Disponendo durante le riprese di tre macchine collocate in posizioni diverse, si possono cogliere certi aspetti, certe espressioni che capitano e si verificano per caso. In “Rocco” ad esempio, in una scena della lavande-ria avevamo disposto una macchina di fronte a Delon e una alle sue spalle: proprio con questa seconda macchina abbiamo potuto sorpren-dere un’espressione della ragazza che avanza verso di lui; questione di un attimo, le si vede solo una parte del volto, ma era un’espressione che non avevamo previsto e che invece risultava estremamente efficace. Naturalmente le cose, le scene vanno sempre preparate altrimenti si diventa schiavi dell’occasionale. Con Visconti si organizza “un blocco”, un po’ come in teatro, lo spaccato di una certa scena; quando si è raggiunto il ritmo, la vibrazione particolare necessaria si gira tutto: campi lunghi, campi avvicinati, controcampi; e si è in grado di farlo, appunto perché si è predisposto tutto quanto, si sono previste le varie possibilità, e le tre macchine da presa possono intervenire simultaneamente o quasi. Il metodo diventa un fatto concreto, utile e in funzione espressiva. È un po’ come le tre prove stabi-lite per una gara di salto: capita il momento, non si sa quale, in cui si batte il record” 57. 56 S. LANGER, Problemi dell’arte, Milano 1962. 57 G. ROTUNNO, in “Cinema Nuovo”, N. 169, Giugno 1964. 132 La mediazione del critico Nella ricerca delle tendenze realistiche, anzitutto il critico non catapul-terà le valutazioni politiche presenti al passato; pur analizzando la humus storica in cui nasce un regista, ricorderà spesso che grazia, ingegno, agi-lità, sfumature sono qualità di carattere modesto, mentre il realismo autentico dà la sensazione di entrare in contatto col sistema arterioso della storia dell’uomo.
L’atto interpretativo del critico dovrà quindi tener conto dei molteplici fattori che concorrono a portare in alto l’indice di valore di un’opera; né potrà attenersi alla sola descrizione minuziosa dell’opera, per quanto analitica, ma dovrà collegarle il significato intrinseco, la particolare orditura storico-sociale (il contenuto) considerato come mondo di valori umani. Non potrà essere sottovalutato lo sviluppo dello stile, ma non come semplice formale procedura espressiva di coerenza ma come rispondenza dell’immagine all’idea e al contesto d’idee, come involucro che aderisca in modo inscindibile, in modo da non potersi più distinguere se non per un semplice atto di comodità mentale. Dovrà esser tenuta presente la storia dei sintomi culturali, in mezzo ai quali e attraverso i quali è nata l’opera filmica, le evoluzioni e le involuzioni di fatto e di tendenza; la dialettica più complessa della gestazione, in modo che si spieghino le direzioni verso modi sempre più ampii di rappresentazione (ad es. la direttrice che dal neorealismo porta al realismo critico e al realismo tout court). Dovrà inoltre ricordarsi che la causa dell’entusiasmo “consiste nella utilità di assumere una tesi senza ricorrere ad un ragionamento certamente lungo ed eventualmente anche infruttuoso” . Tener presente che le bizzarrie, l’esperienza per l’esperienza contano poco, o quanto delle follie a fior di pelle: che ugualmente l’importante è il quadro, non il semplice colore attaccato ad esso per caso, o qualsiasi sfondo estraneo, sia pure filosofico o ideologico. Per quanto attiene alle tentazioni politiche, dovrà dirsi che nel mondo moderno anche il più intimo sentimento d’angoscia se artisticamente enucleato, è essenziale non solo alla vita individuale ma a quella sociale del personaggio che, con la sua forza di convinzione, entrerà a far parte del patrimonio d’idee e di sentimenti della collettività. Né sarà male tener presente questo acuto e giustamente incitatorio paragrafo di G. Lukacs: 133 “È superficiale criticare un cattivo autore solo per i suoi difetti di forma. Se, invece, alla vuota e superficiale raffigurazione della vita con-trapponiamo la vera realtà umana e sociale, di cui il cattivo autore, anche inconsapevolmente fa la caricatura, le deficienze di forma appariranno come una fondamentale mancanza di contenuto: l’appello alla vita svela da sé il vuoto della riproduzione artistica insignificante” . Né va sempre elogiata e comunque la tecnica simbolistica, quella che cioè procede per astuzie, quasi per via di un giuoco simile alla carambola dove per partito preso e pregiudizialmente per colpire il pallino si tira alla sponda. Per ciò che attiene alla pretesa che l’artista dia tesi e soluzione della tesi, sarà bene appellarsi a quanto diceva Engels nella lettera a Minna Kautsky: “L’artista deve tendere a far scaturire la tesi dalla situazione e dall’azione stessa, senza che vi insista sopra in modo esplicito, in quanto egli non è obbligato a mettere in mano al lettore la soluzione storica avvenire dei conflitti da lui descritti”. L’artista è l’abile tecnico, che si esercita, mentre mantiene intatto il dialogo con tutta la sua personalità, a far incontrare le cose con la sua mente e col suo cuore; non lavora a casaccio, né per esibizionismo, diffida delle immagini torbide, dove è possibile pescare tutto o niente. Il critico diffiderà naturalmente della produzione “industriale” che come giustamente asseriva Sainte Beuve «è una forma mercificata, leggibile e dimenticabile che evita di porre problemi e obbedisce ad un segreto precetto: interessare l’uomo a ciò che per lui non ha alcun interesse né economico né estetico né morale”. Diffiderà di quelle convinzioni che rassomigliano all’accettazione di luoghi comuni, degli ideali che nascondono incallite abitudini, di tutto ciò che automaticamente tende ad identificarsi col mondo esterno. Anche la storia del cinema sarà per lui non un retaggio da genio a genio ma espansione orizzontale della coscienza nei vari strati e nei vari luoghi; e influenza scambievole tra artigianato e arte e viceversa. In casi particolari, potrà essergli utile la conoscenza delle fonti letterarie dell’opera soprattutto nel senso di familiarità culturale con l’ambiente in cui temi, concetti e sentimenti sono stati generati e trattati, sia pure tramite altri mezzi di espressione.
Non potrebbe essere che questo ritorno a un linguaggio d’immagini 134 significhi ritorno a quel lessico figurale che per decine di secoli, prima dell’invenzione di Gutenberg, aveva stimolato gli artisti a comunicare con gli uomini attraverso graffiti, affreschi, bassorilievi, mosaici, dipinti, acqueforti, miniature, pale d’altare, arazzi e semplici disegni? E forse ritorno dovuto proprio al fatto che tutte le emozioni più vere e più spontanee, le più riposte ed autentiche intenzioni vengono involonta-riamente espresse dall’uomo medio per via di gesti, sguardi, movimenti, tratti del volto minimi e semiminimi, o di suoni quasi impercettibili, o di scatti di rughe, o di palpiti di ciglia, narici; mentre un linguaggio troppo «intenzionale» quale lo scritto è potuto sembrare spesso un mezzo atto a trasporre scopi di menzogna o di inganno, scopi che purtroppo si sono presentati quotidianamente nel commercio fra le persone. Così l’immagine è riapparsa come la comunicazione di un più sincero linguaggio, originato dai moti più profondi del proprio intero blocco psichico, come sfocio di quei moti interni vivi che l’uomo ha spesso temuto di aver persi per sempre. Così in opposizione alla polemica brillantemente detrattrice del linguaggio filmico, originata da una forma di perverso snobismo culturale teso alla sterilità completa, e che taglia alla radice problemi umani, il buon critico terrà presente che la gradualità è modo comune ad ogni espressione dell’uomo e quindi fra più buono e meno buono occorre saper distinguere, e non fra inferno e paradiso: chi si pone la scelta tra simili assoluti soffre di metafisica e solo per autoinganno può credersi incline alle scienze sociologiche e morali. Sarà motivo di conforto per lui vedere come, sul piano della battaglia per il progresso culturale, perfino la cultura più accademica, più chiusa, superando le sue iniziali perplessità, i suoi sospetti, si è venuta liberando dai pregiudizi verso il cinema. Così se apriamo uno dei ponderosi volumi della più recente Enciclopedia Filosofica, potremo ben metterci alla ricerca della voce “Cinema” e alla sottosezione “Estetica” di questa voce, troveremo ampii e interes-santi riconoscimenti, di questo tipo: “Il problema più delicato per una estetica del cinema è, indubbiamente, quello della tecnica, la quale non potrà essere idealisticamente negata nella sua natura e nella sua funzione, bensì obbiettivamente rico-nosciuta nelle sue possibilità pressoché inesauribili… Ove poi si voglia ricercare il carattere distintivo dell’arte cinematografica nei confronti delle altre arti, si potrà notare che il cinema si costruisce secondo una 135 prospettiva spazio-temporale che non è quella della comune esperienza umana (non si dà solo immagine spaziale ma svolgersi temporale di immagini spaziali…)”. E si conclude affermando: “Così le enormi possibilità rappresentative ed espressive del cinema, indubbiamente superiori a quelle di ogni altra arte, vengono riconosciu-te permettendo di spiegare in tal modo anche l’enorme diffusione e il successo che il cinema ha avuto in questi ultimi decenni” 58. E lo stesso Gilbert Cohen-Séat ha scritto, altrove, quasi a recidere alla radice i molti dubbi che hanno sempre animato la sua indagine: “In complesso, dunque, la civiltà si è impegnata con il cinema in una di quelle avventure sconfinate che segnano la svolta del suo destino… La scrittura ha un freno nella propria lentezza perché bisogna comprendere le lingue, piegarsi alla lettura, saper leggere. Il film invece deve dominare tutto lo spirito: ha conquistato l’universalità e l’immediatezza… in una singolare sintesi dei due prodotti principali della intelligenza umana: il linguaggio e la scienza” 59. 58 Voce “Cinema” , Enciclopedia Filosofica, Venezia-Roma 1958. 59 G. COHEN-SÉAT, Essai sur les principes d’une Philosophie du Cinema, Paris 1946, 136 II - IL FILM E I PROBLEMI DEL REALISMO In uno dei suoi ultimi saggi, e dei più maturi, Umberto Barbaro scriveva: “È un grosso errore quello di considerare la concezione marxista dell’arte come una vecchia posizione positivistica alla Taine o comunque come una posizione non nuova, in quanto già teorizzata o affermata da altre estetiche. Bisogna approfondire il concetto di sovrastruttura e la specificazione dell’arte in esso, non contentarsi dell’osservazione superficiale per cui essa sembra consistere nel semplice riconoscimento del legame dell’arte col tempo che l’ha prodotta e teorizzata” 60.
E un altro studioso, pochi anni prima, a proposito dei cicli di organicità e di astrazione presenti nella storia dell’arte, aveva affermato: “se non ci soddisfa certamente più la metafisica idealistica dell’arte come intuizione e trasfigurazione, non ci soddisfa nemmeno la semplicistica teoria dello specchio (l’arte riflesso della società) che sta ora diffondendosi insieme ad un superficiale sociologismo alla moda” 61. Si intravvedeva, quindi, - in questo sapere ciò che l’arte non è - una esigenza più pienamente storicistica che, per non tralasciare gli intimi criteri dialettici, intende scoprire la realtà dell’uomo nel suo collegarsi a quella della società ma anche a quelle di ogni altro uomo, con un lavoro di spola fatto di movimenti interiori ed esterni e nell’uso di un linguaggio chiaro che trovi non solo nel segno ma nel simbolo l’esplicazione emotivo-concettuale della realtà. L’esigenza, cioè, di uno specchio che sia esso stesso in movimento, in vibrazione e sappia non solo riflettere ma sondare i segmenti e gli strati più riposti ma decisivi dello sviluppo della storia umana. I nessi che collegano il divenire artistico col divenire della società sono talvolta i più complessi, i più intrecciati eppure sono i soli attraverso i quali è possibile ricomporre la dissociazione dell’uomo come individuo partecipe ad un tempo di una struttura collettiva e di una struttura coscienziale e di un habitat naturale, dai quali può sottrarsi a poco a poco ma non staccarsi senza tradire il proprio significato. La conversione della realtà in linguaggio filmico, e comunque in qualsiasi tipo di linguaggio, consiste - come abbiamo visto nel primo saggio di questo volume - in una trasposizione semantica di quegli oggetti o situazioni o rapporti che, nel quadro della “oggettiva realtà” , non hanno 60U. BARBARO, Il film e il risarcimento marxista dell’arte, Roma 1960. 61 R. BIANCHI BANDINELLI, Organicità e astrazione, Milano 1956. 137 spessore; tali elementi, nella trasposizione, perdono una parte della loro concretezza ma acquistano, in compenso e in di più, una vitalità una organicità ed una capacità di risonanza che senza percezione, stile e forma non possono avere. La tendenza realista è quella per cui il regista domina le reazioni più soggettive (le pure emozioni liriche) e pur se parte da impulsi non del tutto consapevoli li attua attraverso richiami e rinvìi sempre meno inconsci, sempre meno irrazionali. L’esperienza interpretativa del realismo non può essere quella che giunge a vedere l’intero panorama dell’uomo storico ma quella che perviene, anche in un settore limitato, ad una unicità di visione che nel suo contesto includa gli elementi evolutivi e involutivi della realtà, nel loro dialettico e complesso atteggiarsi. Né l’immagine realistica tende - come quella naturalistica o documen-taristica - a prescindere da un’organizzazione del materiale scelto: l’immagine è costituita di cose, situazioni e rapporti rese simboli e che hanno connessioni multiple colla realtà e, insieme, coi presupposti di tempo, ambiente e cultura dell’autore. In questo senso l’opera realistica non svaluta né pone in disparte la fantasia dato che questa, in quanto prodotto umano, è anch’essa frutto e causa di realtà; piuttosto essa evita la confusione, l’abbozzo, l’iperbole e l’allegoria così come evita il giuoco astratto. La confusione è il contrario dell’organicità, l’abbozzo è solo l’approccio iniziale, per via di tentativi non verificati, con la realtà, l’iperbole è la così grossolana sottolineatura del tipico che finisce per esserne una cancella-tura; l’allegoria, infine, rappresenta la troppo semplice giustapposizione di un’immagine ad un concetto, cioè d’immagine definita a concetto definito, mentre il simbolo - come abbiamo cercato di dimostrare nel precedente saggio - suggerisce idee molteplici e indeterminate nel senso accol-to da noi. Così “L’amor sacro e l’amor profano” del Tiziano sono simboli che rinviano a molteplici significati: erotismo, affezione, sentimento, religione, costume, moralità etc. - mentre le funerarie figurazioni della “Giustizia” negli edifici pubblici ad essa destinati sono mere e antiartistiche allegorie, dato che il richiamo non rimbalza oltre la funzione dei tribunali. L’occhio del regista realista, attraverso la sua naturale analiticità, procede alla rielaborazione sintetica nella quale, al di là delle apparenze e degli accessorii, riesce a dar vita a ciò che è veramente essenziale nella specularità: solo in questo senso di humus da scavare, rovistare e vagliare può dirsi che l’immaginazione ha una sfera d’azione limitata dalla realtà; essa può organizzare le impressioni ricevute dall’esperienza e può modificare, 138
estendere o comprimere l’oggetto del suo lavorio ma non trasformarlo in una cosa del tutto differente senza negare, al tempo stesso, la presenza di valori oggettivi. L’opera realistica verrà altresì individuata nelle più profonde e diffuse motivazioni ed aspirazioni dell’epoca ad essa contemporanea, sempre però da identificare a posteriori, non a priori come un puro atto di volontà ma proprio come incarnazione spontanea dei temi viventi e fermentanti nel periodo storico. Per il suo dinamismo, per la sua naturale forza di propulsione, da essa verranno aperti nuovi territori morali e sociali e verranno forniti nuovi strumenti di conoscenza destinati a sopravvivere in quella spirale di valori che è il retaggio dei significati umani positivi. Da ciò dipende che l’inquadramento dell’azione, nel cinema realistico o, almeno, a tendenza realistica, si svolge con uno sforzo di partecipazione alla vita non consueto ma neppure meramente fantastico: alla ricerca, appunto, di quei motivi interiori e collettivi che permettono di osservare (e radiografare) l’individuo e il gruppo impegnati in attività, passioni, vicende ideali e sentimentali che sono prodotti di una determinata società in un luogo e in un tempo determinati o determinabili. Tali tramiti, tali correlazioni si sono avute spesso in opere cinematogra-fiche; se si riflette alla vasta bibliografia che in questi anni si va accumu-lando sulla questione del realismo nella narrativa, si può notare che il cinema - nonostante le sue carenze e i suoi scompensi di arte adolescente - è stato uno degli stimoli più frequenti, sia avvertiti che inavvertiti – all’approfondimento di tale questione. Il fatto stesso di aver colto gli snodi di conflitti sentimentali, i moti browniani della cronaca, o perfino della storia ( “Potëmkin” o “Roma città aperta” ) ha riproposto la validità di un linguaggio quale quello filmico che è servito da baluardo a certe estreme rarefazioni o deteriorazioni della realtà prodottesi in altri campi (pittura, scultura, poesia etc.) dove il segno semantico per salire verso vertici assoluti è rimasto dominio di pochi, gergo da iniziati e ha perso in verità e in possibilità di comunicazione quanto ha guadagnato in raffinatezza. Il legame tra individuo e storia e tra società e storia è proprio quello stabilito dal linguaggio (nel caso del cinema; dalla particolare iconologia, dai suoi valori semantici) ed è possibile solo in quanto esso accetti e venga accettato dalla realtà. È sintomatico che l’avanguardia, proprio per il poco conto che della realtà faceva e fa, non ha potuto che operare poche pallide apparizioni 139
nella storia del cinema: il problema del realismo è infatti un problema di di comunicabilità di contenuti oltre che di recepimento di tratti e simboli strutturali e sovrastrutturali e si pone nell’ambito di una scelta non solo estetica ma etica.
L’immagine filmica ha qualità realistica quando può esser considerata un “correlativo oggettivo” di una data situazione drammatica, non un doppione o una mera ripetizione fotografica di essa; quando col suo atteggiamento critico, si evidenzia una conciliabilità dell’uomo col proprio ambiente, non in senso passivo ma dinamico, salvando comunque la figura umana da quella serie di sistematiche distruzioni e deformazioni operate in altre tecniche espressive. Il cinema, per se stesso, non ha avuto pretese supercivili, snobistiche di sdegno o di sublime solitudine; ha evitato l’attitudine narcistica di chi si aspetta che il mondo si muova verso di lui, per non muoversi lui; ha assunto molto spesso una consapevolezza di ciò che è esterno all’uomo, ma anche del persistere di certi valori, unico gradino dal quale partire per non rendere l’arte vuota, per non proiettare il vuoto sugli uomini, per prendere atto del reale e per trasformarlo. L’attitudine realistica è stata quella di fare i conti con le stratificazioni oggettive della storia, comprendendo che il linguaggio, i simboli, la tradi-140 zione iconologica sono appunto creazioni e matrici della storia. Il cinema, pochi oggi lo ricordano e come in un soprassalto della memoria, è nato come esplorazione conoscitiva della realtà - come indagine analitica di essa; in ciò ha ristabilito una misura più scientifica del reale, del suo sviluppo (i primi documentari scientifici sulla corsa dell’uomo, sul fiorire delle piante etc.); quando poi - come nell’epoca d’oro del cinema russo o in quella del nostro dopoguerra - ha saputo valersi di una scelta di contenuti, determinata da una precisa preoccupazione realistica, esso è servito a documentare, attraverso la sua forza d’analisi, il versante più in rilievo della condizione umana. In tali casi, il cinema ha saputo accostarsi alla realtà con un calore di familiarità che si era perduto in certi squisiti teoremi intellettuali, in certe esercitazioni di geometria tipiche di periodi di decadenza. Il suo successo è stato, allora, quello di non deformare le cose e le situazioni fino ad estraniarle dall’uomo, di non staccarle - per partito preso o per fraintesa originalità - dall’ordine morale e temporale che ci ritroviamo come proprio dei nostri giorni e che va corretto o riformato secondo quelle linee evolutive che la storia stessa offre. Sottraendosi ai pericoli dell’obiettivismo fotografico, il cinema ha assunto decisi valori interpretativi tesi a significare gli interscambi continui e drammatici fra il mondo e la coscienza dell’uomo e viceversa. Né al di là di questa attitudine, esso avrebbe potuto avere o assumere una prospettiva concreta di qualche genere. Nello stesso tempo - non possiamo nascondercelo - il cinema ha corso tutti i rischi di un linguaggio “volgare” : eccesso di aggressione drammatica, sensazionalismo, emotività gratuita o fine a se stessa, lenocinii di ogni genere, dall’erotico al sentimentale, e quell’infelice destino di essere spesso strumento di mani rozze o di dover fare i conti con le rigide pretese dell’affarismo industriale. Gli antidoti a questa diatesi erano le gradazioni e distinzioni operate dagli autentici autori, il conservare un “tatto” verso la tradizione narrativa e verso i valori iconologici, il saper cedere solo in aspetti di dettaglio e sperimentali a brevi apocalissi estetiche (che sarebbero poi stati i rami più caduchi dell’albero: i Fishinger, i Richter etc.). Come la parte più permanente della letteratura esso ha mirato a non isolarsi, a non staccare la sensazione o il sentimento dal contesto dell’esperienza vissuta dai più; strumento magico quanti altri mai ha saputo e potuto fare a meno di quella magia linguistica che ha eccitato e sedotto coi sortilegi dell’informale, una buona parte della cultura contemporanea. 141 I dettagli della vita quotidiana, i riflessi di azioni al livello comune, gli oggetti umili e scontati hanno potuto assumere in esso un valore e una funzione narrativa: tutto ciò che maggiormente avrebbe irritato un’anima eccezionalmente delicata e esclusivista come quella di Valéry. Il modo stesso di percepire dell’obbiettivo cinematografico si è rivelato come un modo di “inclusione” più che di “esclusione” che ha dato adito ad un linguaggio centripeto più che centrifugo dove possono esser di casa quelle che in etnologia sono dette “immagini antropomorfe” cioè i simboli e i miti tradizionali, scelti però tra quelli che rifiutano il supermondo, il metafisico. Approfondire la realtà, del resto, non vuol necessariamente dire respin-gerne le sue regole, i suoi contesti, le sue leggi di sviluppo o fratturarne i rapporti, sbriciolarne gli organismi sia pure per ricavarne i cristalli più rari e più lucenti. (Val la pena a questo proposito di ricordare come poco resti del raffinato giuoco linguistico degli Herbert e dei Crashaw nella coscienza culturale degli inglesi, e
come invece vi lieviti ancora il “blank verse” corposo artigianale e senza “precisa intenzionalità d’arte” dei Webster, dei Ford e dello stesso non raffinato Shakespeare. Con le sue presenze più valide, il cinema è venuto riproponendo, nella sua traiettoria realistica, il concetto di verosimile, edificio estetico le cui fondamenta sono state ricostituite proprio dalla ricca problematica in cui si manifestano acutizzate e arricchite certe convergenze tra società e individuo. Il concetto di verosimile è quello che riesce a restituire il massimo dei valori di razionalità e chiarezza all’arte, come ha ben visto il Della Volpe; quando nell’errore o sfasatura contestuale ha individuato: “Un tradimen-to, si noti, che non concerne (nell’arte che sia arte) il vero, cioè una qualsiasi situazione reale, bensì concerne, insomma, la coerenza intima, la ragionevolezza dell’assunto stesso del regista: e quindi l’effetto finale, il fine di credibilità, di commozione, di interesse cui egli mira (in quel mo-do di artista). Dunque noi reagiamo negativamente a quel dettaglio visivo non soltanto con gli occhi ma insieme con la nostra esperienza e il nostro senso unitario, razionale (ideale) delle cose, con la nostra (speri-mentata) ragione; il che ci conferma ciò che si è visto sopra: che l’arte è nei suoi modi- rapporto di idea (ragione) e materia, concetto empirico. Ma questo ora significa anche ch’essa è verosimiglianza (nel complesso senso suaccennato). Così che tutti gli effetti filmici, grandi e minimi, se artistici saranno sottoposti alla complessa legge della verosimiglianza, cioè saranno del verosimile filmico. Anche il leone – di – pietra – che -si-142
143 muove di cui sopra? Anche l’impossibile, dunque? Anzi. Quel leone, in quantoè un simbolo effettivo, e quindi “ una somiglianza ”, un nesso di cose (reali) lontane tra loro, è un approfondimento di quell’esigenza di coerenza intima, o di razionalità interna, dell’immaginato o assunto, che è il lato più caratteristico della verosimiglianza come condizione costitutiva dell’arte” 62. Il vocabolario delle immagini che, in altre arti, gode della propria oscurità o si frantuma in slanci lirici incontrollati, ritorna nella immagine filmica, al suo alveo di più storici significati, di più umane idee aderendo al concetto del verosimile. Mezzo per se stesso anormale e a sorpresa, aperto a tutti i trucchi e a tutte le “imageries” , il cinema deve invece trovare la sua autentica ragion d’essere nel radicare nello spettatore un concetto di chiara, tipica, fluente normalità. Ciò non vuol dire farne un meccanismo di mera riproduzione: l’uso stesso dei simboli è nell’inquadratura un fatto complesso che non si può ridurre a schema, dato che rimanda alla storia culturale e figurativa. Il simbolo (come già inteso nel nostro primo saggio sul linguaggio filmico) è il tramite significante con la realtà, non si può confondere con la metafisica: “espressione dell’Idea attraverso la forma; soggettiva, perché concepita come segno dell’Idea, recepita dal soggetto” , definizione usata dal capostipite dei simbolisti francesi, per correre a tuffarsi nel gran mare della lirica pura. Il simbolo invece, nel senso da noi voluto, resta al punto d’incrocio tra correlazione percettiva, uso dell’iconologia semantica e capacità di rinvio ad altri significati storici; così, proprio perché non si svapora la realtà oggettiva e l’accrescersi della sua complessità, all’approccio dell’autore, non sarà facile dire in questo crocevia se e quando una linea ascendente rappresenti gioia, una orizzontale calma, ed una obliqua discendente tristezza. Il simbolo di cui può far uso la tendenza realista deve nascere e vivere e avere il suo nutrimento in una rete di significati presenti nell’opera e deve trovare un riscontro non fittizio né arbitrario nei valori sociali dell’uomo e degli oggetti e della natura che lo circondano, lo ambientano, lo collocano nella sua prospettiva umana. Si tratterà quindi di una speciale metafora con più lati di intersecazione che non potrà mai essere tanto sublime da rimanere immotivata o priva 62 G. DELLA VOLPE, Il verosimile filmico, Roma 1954 144
di qualsiasi addentellato con la situazione reale. Un esempio; anche se non del livello del leone-dipietra-che-si-muove del geniale Ėjzenštejn, ma più vicino alla comprensione e alla conoscenza dello spettatore comune: “Il Cristo sospeso all’elicottero” nella sequenza iniziale de “La Dolce Vita” di Federico Fellini: concreto, perde valore e assume degradazione nei rimandi figurativi ad un oggetto igienico-pubblicitario (dentifricio etc.), per il fatto stesso di essere sospeso non ha più lo slancio verso il cielo, la banalità della sua fattura rivela il logorio della fede religiosa, nel contesto audiovisivo dell’elicottero dà l’idea dell’impossibilità di meditazione, di colloquio intimo con la divinità etc. etc.. E normalità, chiarezza, simbolizzazione sono le vie attraverso le quali, il cinema può correre al realismo, ma il flusso è difficile da secondare, da controllare visto che il nemico principe del realismo non è il suo opposto, ma il suo vicino, il suo quasi-simile, quello che in una nota - al solito inci-siva - Adorno definisce, tout court, pseudo realismo: “Esso è lo stile dell’industria culturale, che non ha bisogno dell’intervento o della falsificazione esplicita dei magnati del cinema e dei loro lacchè, ma, nell’attuale produzione è una conseguenza necessaria del principio, naturalistico” . (È evidente che Adorno reagisce qui a tutto uno standard di tipo hollywoodiano). “Se il film - continua la nota - si abbandona ciecamente alla rappresentazione della vita quotidiana, come coi mezzi della fotografia mobile e della ripresa sonora è certamente in grado di fare, ne risulterebbe un quadro insolito, estraneo alle abitudini visive del pubblico, diffuso e inarticolato verso l’esterno. Il naturalismo radicale che la tecnica rende possibile, dissolverebbe alla superficie ogni contesto significativo ed entrerebbe violentemente in contrasto col realismo familiare. Siamo invece in una trappola: il conformismo è operato 145 a priori dall’atto di significare in sé, indipendentemente dal significato concreto, mentre - d’altra parte - solo lo sforzo di significare potrebbe scuotere il conformismo, la rispettosa ripetizione del fatto” 63. Ecco quindi i veri pericoli della tendenza realistica: un concetto confor-mista della realtà, la rispettosa ripetizione del fatto: il non sapere o il non volere riannodare tutti i fili segreti ma esistenti e intercorrenti tra l’uomo, la sua complicata coscienza e le strutture e sovrastrutture sociali dalle quali egli non può prescindere nel suo fare, anche quando è convinto di prescinderne. E allora il doppio binario dei rischi: da una parte, le vicende che scatu-riscono da un nucleo troppo “interiore” ; dall’altra le avventure a risvolti pedagogici o edificatorii i quali più che rispecchiare la realtà, riflettono solo gli articoli di una ideologia statica e, a fortiori, schematica se non ipocrita. E, al contrario, le basi per un lavoro di avvicinamento ad una schietta visione realistica: consapevolezza simultanea dei problemi morali, storici ed esistenziali presenti nel tempo con le loro connessioni e interreazioni. Così, contro la tradizione melodrammatica del personaggio che si determina solo attraverso le peripezie o la finale catastrofe, c’è la possibilità di un racconto che non configuri l’esistenza come fatalità o curva cogente verso la morte, ma come conflitto contro determinate strutture sociali e coscienziali. Allora la morte stessa può venir dialettizzata, e transvalutata in stimolo alla presa di coscienza degli autentici valori della vita (“Il posto delle fragole”). Si scansa così il modulo metafisico e quel flusso e riflusso di vero e di finto, di voluto e di subito, di attivo e di passivo che è l’andirivieni meno persuasivo di tante sequenze, di tante descrizioni.
L’immagine allora è lontana dalla calligrafia che è la sua forma trascendente (e sterilizzante), si induce a vivere di ricambi empirici, cioè di tempi e di presenze concrete; evita la programmazione stilistica e il giuoco magico ma disumano di far scomparire l’uomo dal contesto narrativo o di polverizzarlo in una piccola, impercettibile eco. Né questo vuol dire che l’immagine debba descrivere l’uomo secondo canoni di teorie economiche o di teorie psicologiche, o secondo le lusin-ghe di una adesione mimetica ad una comoda realtà senza interrogativi, e senza dubbi. Essa non può farsi diagramma, non può lasciarsi surrogare 63 T. W. ADORNO, Minima Moralia, Torino 1956. 146
da una grammatica figurativa tutta automatica e tutta congegnata che dia programmi o, inversamente, divertimento alla moltitudine. Ciò significa che l’immagine realista è la meno adatta a farsi inglobare da un impegno politico stricto sensu, data la sua costanza di osservazione critica, dato che come ha notato acutamente E. Vittorini: “un’esigenza storica può avere, a volte, un più appropriato effetto artistico dove essa agisce come forza di contestazione che dove agisce come forza di edificazione”. Per essa, anche il labirintico, misterioso territorio dell’inconscio è una frontiera da conquistare, per ricomporla, assestarla entro linee di demar-cazione chiare, resistenti al caos, alle incursioni devastatrici della tradizione narrativa che è uso di ragionamento e di ordine. Ma la sua energia non può derivare dalla furia incomposta dell’io, perché anche al livello della “psicologia del profondo” l’arte presuppone e anzi postula una sua innata interpretatività. E tale interpretatività non è però di tipo psicanalitico, cioè di tipo che tende ad integrare e completare con intervento terapeutico o con progno-si determinata, i fatti, ma è di tipo analiticosintetico, che serve cioè ad impostare il problema in modo da chiarirlo, da predisporne l’eventuale soluzione, pur senza suggerirne una bella pronta. 147 Per queste ragioni genetiche, la visione dell’uomo sarà dinamica e realistica, tesa fra le avversità e le occasioni che regolano il ritmo dell’esistenza: miseria, solitudine, egoismo, incomprensione e quei legami sociali e valori positivi che servono a superare le forze ostili o aiutano a sopportare le vicende negative. È una visione quindi che rifiuta sia la mistificazione che il nichilismo: nella prima, dato l’autoinganno individualistico le condizioni sociali sono sentite come blandi vincoli dai quali ci si può - con slancio lirico e folle volo - liberarsi con estrema e voluttuosa faciltà; nella seconda, invece esse sono sentite come catene demoniache, insopportabili, e rescindibili solo con atti di pura (se non gratuita) violenza. Si tratta quindi di una visione equilibrata che rifiuta gli aspetti, in fondo complementari, di uno stesso
“mito” sociale: a) le difficoltà - sociali e individuali - configurate come ombre leggere di un primordiale principio cosmico; b) le stesse difficoltà suaccennate come malattie congenite che vanno cauterizzate, operate chi-rurgicamente anche a costo di distruggere l’organismo sociale, quello individuale e soprattutto la fiducia nel corso evolutivo della storia. Il realismo è perciò l’opposto di una “fuga dalla società umana”, è anzi l’ingresso in essa, il concentrarsi sui suoi orditi visibili e invisibili, senza arrendersi alla “assurdità” della sua costituzione ma contemporaneamente senza sottrarsi allo studio del proprio “io”, come responsabile tes-sitore di una parte modesta ma non stralciabile di quella vasta tela. Sono questi significati di solidarietà, di ricerca dei valori, di ripresa di coscienza che si leggevano in filigrana nelle pellicole che dettero il via al cosiddetto “neorealismo” e che riproponevano da un locus minor un discorso di portata maggiore, suscettibile di più ampi sbocchi, di più vasta portata. Era proprio la testimonianza diretta, viva, di una cronaca vissuta da tutti ma in cui, come è nella storia, si fondevano i destini collettivi e singoli; la restituzione di un tempo non fuori del tempo, ricco di tutti i valori formati dall’uomo nel corso dei suoi lunghi secoli: libertà, dignità, giustizia erano esse a far comprendere in che modo l’artista fosse tenuto a comportarsi di fronte alla realtà e a trascriverne anche per i posteri il travaglio di rinnovamento, le istanze di riassetto sociale. Era lo sganciamento dall’assurdo biunivoco di considerare la realtà o come esperienza immediatamente ed autonomamente vissuta su piani di mera attenzione egocentrica o come fatto che si adegui conformistica-mente ad una impostazione ideologica prefissa e perciò immobile, proprio quel difetto che constatava Marx a proposito del vecchio materia-148 lismo: “difetto che sta nel fatto che l’oggetto, la realtà e il mondo sensibile vi sono considerati solo nella forma o di oggetto o di intuizione, ma non in quanto attività umana concreta, non in quanto pratica o maniera soggettiva”. 64 Era giustamente operato questo sganciamento da alternative senza via di uscita, dato che la prima si risolverà nell’effetto di volatilizzare i rapporti concreti, storici dei protagonisti nelle loro vicende e la seconda si appiattirà in una superficie forse esatta ma senza dimensioni, senza radici, senza autentiche prospettive; la prima si allaccerà troppo alla dogmatica del singolo uomo che così diventa istituto chiuso, limite invalicabile mentre può trovare invece vita e vitalità solo nel suo divenire sociale, la seconda prescindendo dal contenuto individuale, dai problemi del singolo che informano e formano i problemi della collettività, tralignerà necessariamente in una serie anonima di opuscoli illustrativi, di progetti politici non calati nella pienezza e complessità del reale. E proprio di fronte a certe prese di posizione che ricorrono con frequen-za alla distorsione del senso e dell’accezione di realismo, non si può fare a meno di ricordare le note introduttive di Gramsci a “Letteratura e vita nazionale” : “Un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista “personalità”, è un momento dello svolgimento, per il fatto che una certa attività fondamentale della vita vi predomina sulle altre, rappresenta una “punta storica”: ma ciò rappresenta una gerarchia, un contrasto, una lotta. Dovrebbe rappresentare il momento dato chi rappresenta questa attività predominante, questa “punta storica”; ma come giudicare chi rappresenti le altre attività, gli altri elementi? Non rappresentativi anche questi? E non è rappresentativo del momento anche chi ne esprime gli elementi reazionarii e anacro-nistici? Oppure sarà da ritenere rappresentativo chi esprimerà tutte le forze e gli elementi in contrasto e in lotta, cioè chi rappresenterà le contraddizioni dell’insieme storico-sociale?” 65. È del resto il problema nodale della cultura contemporanea, trovare una sutura ed una giustificazione all’incontro, senza prevalenze preordinate, delle varie correnti di pensiero che non rappresentano necessariamente degli sviamenti di civiltà ma sono anzi il rispecchiamento di un fascio di 64 K. MARX, Prima tesi su Feuerbach, in “Oeuvres” , Cortes-Paris 1946. 65 A. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale, Torino 1949. 149 esigenze, di stati d’animo diffusi, di realtà strutturali e sovrastrutturali riscontrabili nei varii e diversi settori dell’esperienza umana, anche al livello della normalità quotidiana: democrazia, marxismo, psicanalisi, esistenzialismo che, dopotutto, solo una mente pessimisticamente mani-chea può ritenere orizzonti opposti e assolutamente inconciliabili.
In arte, tale dualità o pluralità è quella esemplificata dal critico francese, Jean Paulhan con le sue categorie di tendenza nei confronti del linguaggio: quella “terroristica” , cioè tesa a distruggere il luogo comune, le convenzioni, le forme stereotipe “cristallizzatrici della fluida, viva vita dello spirito” e quella “retorica” che considera tali forme come “il giusto prezzo da pagare per farsi intendere, per comunicare con gli altri” 66. Ma mentre Paulhan accetta senz’altro, con una dicotomia facile e diremmo di tipo moralistico, la “retorica” , non è piuttosto lecito doman-darsi se la tendenza a carattere vitale dell’arte, cioè il realismo come da noi inteso, non sia invece una forma di “retorica” articolata al di dentro, cioè semanticamente, perfino di molte esperienze terroriste? Sembra del resto un interrogativo in parallelo con quello che spinge a chiedersi quanto Marx possa fare a meno di Freud o dello stesso Kierke-gaard, dato che considerati alla luce di uno storicismo comprensivo, essi nascono tutti da una particolare crisi che ancora lievita il nostro tempo, per cui, presi insieme, probabilmente potrebbero riuscire strumenti più precisi ed esaurienti per lo smascheramento e la rivelazione di una realtà più profonda, più correlata, come è quella dell’arte. Con particolare riguardo al cinema, si può dire che i caratteri dei segni e dei simboli realistici hanno in comune l’aggancio coerente (o in polemica di “tatto”, nel senso usato da Adorno) con la storia culturale e semantica dell’immagine. Così del resto, anche la fotografia pura e semplice ha sempre una paren-tela con la pittura dell’epoca ad essa contemporanea o con quella di epo-che precedenti. “Si pensi - diceva D.Purificato in un suo interessante saggio su “Pittura e Cinema” - a “Dall’alto della diligenza” di G. De Nittis, in cui il punto di vista, potremmo dire l’obbiettivo, è come installato al posto del cocchie-re, onde nell’inquadratura appaiono in primo piano, viste naturalmente dall’alto parte dei colli e le due cervici dei cavalli che si suppongono aggiogati alla diligenza, sullo sfondo di una lunga strada deserta che si 66 J. PAULHAN, Les fleurs de Tarbes, Paris 1941. 150
perde all’orizzonte, un po’ al lato destro del quadro, come le strade care alla poesia charlottiana” 67. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi solo pensando a Dreyer, a Renoir (è tutto chiaro quel magnifico testo che è “Une partie de campagne”); ma è utile specificare che per rinvio semantico non si può intendere solo il particolare riferimento pittorico e in questo senso si comprende come non si tratti allora di derivazione manieristica ma di espressione realistica arricchita dalla lunga linfa dei significati precedenti. Non si può quindi essere d’accordo col Calogero che esclude, per ciò che concerne l’immagine, un suo possibile valore semantico:
“Nella cinematografia - egli sostiene - la sostanziale figurazione semantica si vale dei sussidii più o meno grandi della semanticità letteraria o musicale” 68. A parte il fatto che si potrebbe smentire immediatamente questa asserzione con l’esempio concreto de “La Passion de Jeanne d’Arc” , probabilmente mai visionato dal Calogero, e che è nella sua stesura originale priva di commento musicale e di dialogo letterario 67 D. PURIFICATO, “Pittura e Cinema” , in “Cinema” v.s., N.95. 68 G. CALOGERO, Estetica, Semantica, Istorica, Torino 1947. 151
(le didascalie sono appena, appena esistenti). Pur prescindendo dal fatto che l’espressione del cinema sonoro è una forma d’arte “composita” , come abbiamo tentato di dimostrare nel primo saggio, e che quindi le varie forme linguistiche non potrebbero, a regola, essere scisse, si può comunque affermare che il testo visivo ha suoi simboli, sue immagini, suoi raccordi che rinviano a una molteplicità di significato: si pensi ad un film - in parte letterario - quale “Senso” di Visconti, all’arricchimento che la novella di C.Boito ha ricevuto nella trasposizione cinematografica e si capirà come non è dissociabile l’uso degli specchi, degli elementi tortili, dei tendaggi, dei veli, della barocca toilette-ballerina di Livia Serpieri dalla accumulazione di metafore che questi oggetti hanno operato durante tutta la loro lunga storia di cose vissute in contatto con una determinata classe sociale; alla loro assimilazione di significati che è trasmigrata perfino in certe allusioni del linguaggio comune. (E rimandiamo il lettore al nostro saggio su Visconti, per continuare l’esemplificazione testuale, che in un saggio teorico come il presente, ris-chierebbe di appesantirlo oltre i suoi limiti). Il realismo non superficiale si avvale di strutture espressive tipiche proprio per assumere consistenza storica: ci sono superfici che restano piatte e superfici che possono condurre in profondità: la stessa inquadratura di 152 un mare in burrasca data da un documentarista frettoloso o dallo stesso Visconti nel suo “La terra trema” hanno un linguaggio assolutamente differenziato per significato, spessore, capacità di rimandi storici. Quindi, se è vero che “il grande pubblico segue il film…come un racconto asemantico, contesto di diretti quadri di vita” (Calogero) ciò non vuol dire che questo valga anche per la platea meno sprovveduta e che il realismo debba venir confuso con una restituzione meccanica di ciò che viene inquadrato dall’obbiettivo, senza cioè la minima manovra dei valori espressivi. Ciò che costituisce una graduatoria d’impegno, fra le varie opere e ciò che decide dell’artisticità di un film è proprio la ricchezza di significati cioè di pensiero ed emozione non staccate dal contesto storico e sociale e che il regista è riuscito a racchiudere in ogni capitolo o sequenza del film, in ogni pagina (o inquadratura).
Realismo è così un termine complesso, parametrico in cui si possono avere passaggi dal maggiore al minore e viceversa, dal centro alla circon-ferenza; è campo di alternanze induttive che pongono comunque l’uomo nello spazio inscritto dell’io e della società, ricercando l’equilibrio nei processi conoscitivi della società, fra impressioni dall’esterno e interno operare della mente e della coscienza. Per ottenere una nozione quanto più ampia della tendenza «realistica» si potrebbero amalgamare alcune delle definizioni adoperate parametri-camente dall’Auerbach: “Esperienza sensibile della vita terrena, ai cui essenziali contrassegni ben appartengono la sua storicità, il suo evolversi… in una serietà problematica della vita quotidiana, non aliena dalla comprensione della situazione economica e dei problemi elementari dell’umanità. Una direttiva d’orientamento per l’analisi del destino in formazione di tutta la società moderna” 69. E questa risultante combinata non potrebbe nemmeno essa aver la pretesa di esaurire la nozione. Lo specchio sarebbe mobile, vibratile, come uno specchio d’acqua in movimento ma non proteso verso l’alto - (cosa innaturale) tranne che per una confusa aspirazione trascendente - né proteso verso il basso come una cascata, per una sorta di deterministico fatalismo o di degradante ricerca del letto più fangoso, ma appunto come un fiume calmo, costante, chiaro e fertilizzante quanto lo è la storia stessa. 69 E. AUERBACH, Mimesis, Torino 1956 153
Il presente storico, così come lo si ritrova nell’ambito delle opere realistiche, non è coniugato nel modo di uno stanco, inerte indicativo ma secondo le scansioni e il metro di un impegno vivo, di coscienza, moralità e senso del sociale, come è del modo congiuntivo, pur senza raggiungere i toni troppo evidenti e fastidiosi di un esortativo cattedratico. Realismo significa, dunque e soprattutto per il cinema, allontanamento da quella presuntuosa valutazione a priori del mondo, da quel delirio di fideismo rivoluzionario che, a lungo andare, può diventare monotono e sterile quanto una litania (e di ciò fu prova il cosiddetto “realismo socialista” dell’epoca staliniana). Se si considerano, infatti, - in una veloce panoramica - la caratteristica più costante dei film che hanno retto alla prova degli anni, e cioè di quelli in cui è più marcato lo sforzo di approssimazioni ai moduli di un genuino realismo, si troverà che essa consiste proprio in quell’armonico trapasso dalla descrizione ambientale all’approfondimento di una data (e in esso ambiente inscritta) tematica psicologica: ciò vale sia per il “Nevskij” che per “Giovanna d’Arco” quanto per “Ladri di Biciclette”, “Umberto D.” e “Rocco e i suoi fratelli”, “L’Avventura” o “I vitelloni” . E spiace dirlo ma va detto, non si tratta qui della poetica zavattiniana “dell’uomo che si incontra all’angolo della strada” o del “coinquilino guardato attraverso un buco del muro” : questi portano solo ad viaggio dell’attenzione verso cose quotidiane, inedite ma che finiscono per essere i connotati più superficiali della realtà; né basta “una trepida tensione per 154
scoprire qualche utile segreto nella vita degli uomini in una città”. Si tratta del più teso lavoro d’invenzione, operato nei confronti della realtà, lavoro in cui s’instaura un centro di gravità e un discorso tipico e simbolico ad un tempo, quell’opera, insomma, che studia per via di simboli certi avvenimenti, senza lasciarsi avvincere dal momentaneo, dal transitorio per quanto brillante e umoroso esso appaia. Ben possono coesistere, s’intende, varie unità di misura del fatto espressivo e senza dubbio anche il proposito zavattiniano, di entrata in contatto con la realtà, può condurre a scoperte non passeggere. Ma resta il principio che un filtro, sia pur minimo, non può non esser presente ed è solo questo filtro “storico, coscienziale e morale” che secondo noi può condurre a quella che Zavattini stesso chiama l’ ”intervento” cioè “quella capacità di suscitare un processo particolare nell’animo delle persone incontrate, e quel saper vivere le cose con animo comprotagonistico” 70. Intervento che è una barriera efficace per evitare una inerte obbiettività e una esatta temporalità, ma che è mancato proprio nelle prove concrete di Zavattini regista mentre si è sentito fortemente in quelle opere che egli ha predisposto per la sua collaborazione con De Sica, quel suo contributo realistico che va da “I bambini ci guardano” a “Sciuscià” a “Ladri di biciclette” a “Miracolo a Milano”, “Umberto D.” etc. e che ha salvato questo filone da ogni anchilosi intimista come da ogni deviazione spettacolare. La pratica di Zavattini è più ricca e realistica della sua teorica e si è 70 C. ZAVATTINI, ne “I Misteri di Roma” , Bologna 1963 155
156 manifestata spesso in quella sua tendenza ad interrogare il presente, a trarre dalla più volatile circostanza il succo più umano, più tipico; a cercare di diminuire la distanza e i pregiudizi che separavano l’opera dalla persona, l’uomo dal cittadino e l’artista dall’uomo. Il realismo è quel modo per cui molte cose possono essere di rilevanza espressiva, anche il più intimo, il più nascosto dei sentimenti, sempre che esso non risulti fine a se stesso e appaia in un contesto in cui trovi un nesso con una situazione riscontrabile nella realtà; quel modo per cui si scansano le spurie contorsioni del sentimentalismo che porta soltanto ad un compiacimento emozionale più che ad una chiarificazione di coscienza e spinge al massimo verso un “animus” di beneficenza più che verso una convinzione di riforme e di autocritica. Nel realismo autentico si avverte quella partecipazione al tempo presente insieme come ansia per un migliore tempo futuro; una non inerte quo-tidianità ma una temporalità attuale che includa nel presente i tratti basi-lari del passato e gli sviluppi e gli orientamenti appena accennati della storia avvenire; quella rappresentazione della vita come atto che si va compiendo e non come atto tutto catalogato, tutto pienamente giudicato (o, che è lo stesso, tutto pienamente accettato). Quella partecipazione che, nelle parole di un saggista americano vivace-mente inseritosi nella ricerca dei significati del mondo moderno, viene definita “immaginazione sociologica” e più specificamente: “quella facoltà che permette di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi nella vita interiore e nel comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane” e, in modo ancor più sintetico, “quell’afferrare biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società” 71. Al tempo stesso che snebbia la ragione, il realismo non pretende sostituire il pathos al posto del dramma o del conflitto sociale, né mimetizzare i più ampi e più sofferti problemi dell’uomo in una foschia di abnegazioni altruisticamente esemplari o di comodi ripiegamenti sulla propria anima bella e bellamente torbida. Esso tende ad una rappresentazione in cui le figure umane non siano vaghi colori su sfondi ad esse estranee, ma campeggino proprio per la molteplicità dei loro rapporti col mondo, non per la preponderanza delle loro soggettive passioni. Il richiamo è perciò ad una interpretazione quanto più larga del tipico e 71 C. WRIGHT MILLS, L’immaginazione sociologica, Milano 1962. 157 della situazione tipica, che non sono tali per il loro carattere medio “ma bensì perché in loro confluiscono e si fondono tutti i momenti determinati, umanamente e socialmente essenziali di un periodo storico; per il fatto che essi rappresentano questi momenti nel loro massimo sviluppo, nella piena realizzazione delle loro possibilità immanenti…” (Lukacs). E, altrove, con maggiore precisione ha ribadito lo studioso ungherese: “Per tipo intendiamo il compendio concentrato di quelle qualità che per oggettiva necessità derivano da una posizione concreta, determinata della
società… il concetto di tipo è subordinato a quello della conformità a leggi universali. Esso ha dunque, immediatamente, nella vita come nella scienza, il carattere della particolarità. Ma poiché, come abbiamo visto, la definizione del tipo è scientificamente più giusta quanto più alto è il livello di generalizzazione al quale questa definizione e la sua sintesi nel tipo viene elevata, negazione reciproca dialettica che così sorge deve prevalere il momento dell’universalità, per quanto anche quello della particolarità resti una caratteristica ineliminabile del tipo. Quanto abbiamo detto per il tipo umano vale anche per la situazione tipica; tanto più recisamente potremo definire tipica una situazione quanto più prevalgono in essa le definizioni universali; se queste mancano, se vi appaiano debolmente, se in essa ha gran parte la contingenza, allora essa diventa più o meno tipica e si avvicina alla singolarità” 72. Il tipo, quindi, non è da confondere, nemmeno nel linguaggio cinematografico realista, con quel prodotto umano medio (e mediocre), estratto dalla massa, amorfa con cui si è venuto confondendo e della quale accetta i fatti e i principi non solo senza criticarli ma quasi senza più avvertirli. Il termine tipico corrisponderà, tenute le debite differenze di linguaggio (accennate nel primo saggio) a quello che nella filosofia matematica è la “definizione intensiva” come contrapposta alla “definizione estensiva” o per enumerazione. La prima è infatti quella che dà gli indici delle qualità e dei caratteri, mentre la seconda non è operativa ai fini della conoscenza di una classe e può correre spesso il rischio di elevare ad universale qualunque dato insufficiente. Per questo, i bozzetti dialettali, dettati da un conformismo arrendevole, idolatra del frammento, dove è assente ogni impulso evolutivo e si trova di consueto una benevola degradazione caricaturale della figura umana, si risolvono, nella totalità, in schizzi statici, retrivi, e, in ultima analisi anti-realisti. 72 G. LUKACS, Saggi sul realismo, Torino 1954. 158 E non sono poche le altre vie trasversali e oblique attraverso le quali certe superate convenzioni comiche cercano di camuffarsi per vivaci rappresentazioni della realtà. Attraverso l’uso del “tipico” non solo si possono configurare realisticamente i personaggi della vicenda ma gli stessi avvenimenti; né si può sostenere come usano fare i “volgari marxisti” che le convinzioni ideologiche dell’autore sono, a questo riguardo, pregiudiziali e influenti in modo sicuro dato che lo stesso Lukacs, sulle orme di Engels, tiene a preci-sare che “ai fini dell’autoconoscenza del presente e della storia, ciò che è di decisiva importanza è l’immagine che l’opera ci dà del mondo, ciò che essa proclama, mentre è del tutto secondario quanto tutto questo si accordi con le opinioni dell’autore” 73. In una lettera a Miss Harkness, Engels aveva illustrato questo punto di vista, facendo un concreto riferimento a Balzac: “Certo, Balzac era legittimista in politica; l’intera sua opera è un’elegia sull’inevitabile decadenza della buona società; tutte le sue simpatie vanno alla classe condannata alla rovina. Ma nonostante tutto ciò la sua sa-tira non è mai più aspra né la sua ironia più amara di quando egli mette in moto proprio quegli uomini e quelle donne con cui profondamente simpatizza: gli aristocratici. Mentre al contrario egli rappresenta i suoi avversari politici, i rivoltosi repubblicani, come gli unici veri eroi del tempo” . E, a proposito del “realismo” egli annota ancora: “Il fatto che Balzac sia stato costretto ad agire contro le sue proprie simpatie di classe e contro i propri pregiudizi politici; che egli abbia visto l’inevitabilità della fine dei suoi cari aristocratici e che li abbia rappresentati come uomini che non meritavano un destino migliore; che egli abbia visti i veri uomini dell’avvenire là dove soltanto si potevano trovare in quel tempo -, ecco ciò che io considero come uno dei massimi “trionfi del realismo” e come uno dei tratti più grandiosi del vecchio Balzac”. E, molto esattamente chiosa Lukacs, il trionfo del realismo “…è la onestà estetica incorruttibile, e spoglia di ogni vanità, degli scrittori e degli artisti veramente grandi. Per costoro la realtà, così come essa è, così 73 G. LUKACS, ibidem. 159
come si è loro rivelata nella sua essenza in seguito a faticose e profonde indagini, si antepone a tutti i loro desideri più cari, più intimi, più personali. L’onestà propria del grande artista consiste appunto nel fatto che, non appena l’evoluzione di un personaggio viene a contraddire le conce-zioni illusorie per amor delle quali esso si era formato nella fantasia dello scrittore, questi lascia che il personaggio in questione si evolva liberamente, fino alle conseguenze estreme, senza minimamente curarsi che i suoi più profondi convincimenti svaniscano così in fumo, perché sono in contraddizione con la vera e profonda dialettica della realtà. Tale è l’onestà che possiamo constatare e studiare in Cervantes, Balzac e Tolstoj” 74. Perciò nelle vere, grandi opere realistiche l’ideologia politica non può presentarsi come qualcosa di già risolto o anche di chiaramente progettato, ma deve battervi dentro come il polso profondo della storia, il suo complesso sistema sanguigno. L’unico programma dell’artista realista può essere solo quell’attitudine a collegare a situazioni generali i fatti singoli, per metterne in rilievo il loro aspetto significativo, “non per elencare - sono ancora parole di Engels - in un arido e noioso registro singole disgrazie e casi sociali”. Così, nel film, il regista non potrà procedere ad un montaggio predeter-minato di fatti, ma cercherà una configurazione organica che prenda le mosse dai grandi problemi del contenuto stesso, delle sue interne contraddizioni, dei suoi conflitti ideali ed emotivi. Solo così il «tipico» diventa, nel suo nucleo generativo, un’aggregazione unitaria di elementi semantici, quella dove ogni icone, ogni angolazione, ogni raccordo si coordina in una sua costruzione interna con gli altri elementi in un equilibrio espressivo che restituisca l’equilibrio dei fatti di rilievo, di tendenza evolutiva, quelli suscettibili cioè di un rapporto vivo con la storia che si proietta da loro e su di loro. Proprio invece il cosiddetto “realismo socialista” di zdanoviana memoria, fa pensare a quanto scriveva la “Nuova Gazzetta Renana” a firma di Marx ed Engels, i quali volevano che anche le figure rivoluzionarie venis-sero rese “una buona volta con crudi colori rembrandtiani e… in tutta la loro vitalità, dato che finora le descrizioni avute non ci descrivono mai queste personalità nel loro vero aspetto, ma solo in quello ufficiale col coturno al piede e l’aureola intorno alla testa. In queste celestiali immagini, degne di Raffaello, ogni verità della rappresentazione va perduta” . 74 G. LUKACS, Il marxismo e la critica letteraria, Torino 1964. 160
Sembra di udire una indignata protesta contro il cinema di ispirazione staliniana, sul quale è bene insistere come contraffazione, dall’altro lato della questione, del genuino realismo; come allegorismo di cattiva lega. Il realismo comporta particolari significanti ed essenzializzati, non frammenti di poliedrica natura (come crede Ciaureli) né intelaiature pre-fabbricate; solo così esso diventa la coscienza parlante del tempo, ne conferma i dubbi, ne commenta il malcontento, lo migliora senza redarguirlo e senza frustarlo, senza innalzare un vessillo programmatico sull’opera che deve esprimersi senza intermediari.
Da questi postulati si deduce che l’opera realistica può avere un volto bifronte di passato e avvenire, una forma insieme regressiva e progressiva che riveli la complessità della vita individuale e della storia collettiva, nella loro talvolta indisciplinata dialettica. Già alcuni decenni fa, così ammoniva Antonio Labriola, da Engels definito “un marxista rigoroso”: “La struttura non è un semplice meccanismo da quale saltino fuori a guisa di effetti automatici e macchinali, istituzioni e leggi, costumi e sentimenti, arti e ideologie. Da quel sottostrato a tutto il resto, il processo di 161 derivazione e di mediazione è così complicato, così spesso tormentoso e non sempre facilmente decifrabile” 75. E altrove ricordava: “…gli uomini, vivendo socialmente, non cessano di vivere anche nella natura. A questa non sono certo legati come gli ani-mali, poiché vivono sopra un terreno artificiale… ma la natura è sempre il sottosuolo immediato del terreno artificiale ed è l’ambito che tutti ci recinge… e la nostra dipendenza dalla natura per quanto diminuita dall’epoca della preistoria in qua, si continua nel nostro vivere sociale; come in questo si continua anche l’alimento che dallo spettacolo della natura stessa viene alla curiosità e alla fantasia. Ora cotesti effetti della natura, coi sentimenti mediati e immediati ne risultano, per quanto avvertiti, da che c’è storia, solo attraverso l’angolo visuale che ci è offerto dalle condizioni della società, non mancano mai di riflettersi nei prodotti dell’arte e della religione; la qual cosa complica le difficoltà dell’interpretazione realistica e piena dell’una e dell’altra” 76. Questo senso biplanare appare anche nei migliori esempi di quella cinematografia che è incamminata verso il realismo lungo un sentiero che spesso si dirama per rette distinte seppure parallele; e da questa dirama-zione promanano e si spiegano le differenze di impostazione, di stile, di scelta dei contenuti anche nel dettaglio. E ben dice Barbaro, a proposito di un dettaglio che poi è, invece una spia a tutta la questione: “Per il cinema, talvolta, si è cercato di spiegare la fotografia degli operatori come una diretta e mera conseguenza della luce, del sole italiani. E certamente, all’aperto la luce del sole è quella che è ed ha certamente la sua parte nel risultato di quella fotografia. Ma questo non ci spiega perché “mai si è visto piovere tanto in Italia come nei film realistici”, non ci spiega ad esempio perché l’operatore Terzano abbia una così bella fotografia contrastata e affettata (V. “Acciaio” di W.Ruttman) e invece Arata una fotografia, lampante morbida e lumino-sa ( v.“Cantieri dell’Adriatico” e “Roma, città aperta”- aggiungiamo noi). .. perché la fotografia di Portalupi sia così ricercata e preziosa (v. i documenti di Paolucci “Portofino” e “Cinque Terre” e “Non c’è pace tra gli ulivi” di De Santis) e perché così concreta la fotografia di Tonti (“Ossessione” di Visconti etc. etc. ” 77. 75 A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, Napoli 1896. 76 A. LABRIOLA, ibidem. 77 U. BARBARO, op. cit. 162 Esse procedono, dunque, dall’atteggiamento che il regista prende nei confronti della realtà ed è per questo che perfino “l’importanza del fattore geografico senza che possa essere in toto esclusa, va ridotta in termini più consentanei e soprattutto va considerata nel suo divenire storico, che è poi un diverso modo di dire la stessa cosa come una delle media-zioni attraverso le quali si attua il rapporto struttura-sovrastruttura” 78. Questo viene a confermare la nostra tesi che vede anche le immagini, (icone, indici, rappresentazioni) coinvolte nell’evoluzione culturale di tutto un periodo e di un autore. Esse subiscono una variazione perché non è la stessa immagine quella che esprime lo stesso luogo angolato da due punti di ripresa differenti o dallo stesso punto ma con una decisa differenza d’illuminazione e di tipo d’illuminazione. L’immagine è, infatti, supporto e luogo di un’idea e di un’emozione, o di più idee e più emozioni fuse insieme, cioè di una concezione culturale e di un temperamento sentimentale che filtrano il mondo. Filtraggio che come abbiamo già affermato non avviene in modo fisiologico bensì sulla
base di un accumulo di precedenti analisi e distinzioni già operate nei confronti della stessa realtà e dello stesso periodo di storia o di cronaca, da scrittori, saggisti, pittori etc. La modificazione dell’immagine dipende quindi dal significato che si può trarre da un determinato agglomerato di oggetti presenti nella realtà e sarà tanto più intensa e comunicante quanto più sarà avvenuta (sia pure in un processo ideativo-emozionale rapidissimo) sulla base di concentriche selezioni di «gusto», cultura, senso storico o, che è l’equivalente, sulla base del discernimento delle insite possibilità semantiche. È così che il realismo, come storia dei rapporti, prospettiva concreta, come significato molteplice correlato ai significati sviluppati dall’uomo, si assimila - sul piano del linguaggio - colla concezione del tipico e del semantico. Per ciò che riguarda la questione delle reciproche influenze, si può considerare come non a caso siano stati dei letterati, come un Salinari, a riconoscere che una delle spinte al movimento realistico, fra quelle di più rilevante portata, è venuta alla narrativa proprio da parte del cinema: “Il neorealismo è sorto come espressione di una profonda frattura storica, quella crisi che fra il ‘40 e il ‘45 con la guerra e la lotta antifascista investì, sconvolse fino alle radici e cambiò il volto dell’intera società ita-78 U. BARBARO, ibidem. 163 liana. Il neorealismo si nutrì, anzitutto, di un nuovo modo di guardare il mondo, di una morale e di una ideologia nuova; vi era l’esigenza della scoperta dell’Italia reale nella sua arretratezza, nelle sue contraddizioni, nella sua miseria e insieme una fiducia schietta, rivoluzionaria nelle nostre possibilità di rinnovamento e nel progresso dell’intera umanità. Il tono poteva variare dall’epico al narrativo o al lirico, ma la posizione ideale rimaneva la stessa” 79. Ora ci sembra questo l’ambito nel quale ricercare la più ampia accezione di realismo come tendenza e come metodo; i dubbi non sono assenti ma sono di altra natura, a posteriori, sono quelli che sorgono dal considerare le distanze che separano molte delle opere di questa corrente dall’optimum che si può raggiungere e che serva però come indice vettoriale e non come metafisico traguardo da attingere nel cielo di un assoluto artistico empireo. Un’assoluta razionalità non potrebbe essere auspicata come fondamento del realismo perché esso verrebbe fuori da uno sforzo di frigida fantasia, di quella dogmatica immaginazione che vuol foggiarsi un mondo passivo e grigio, senza contrasti, senza conflitti, senza dubbi; un mondo ipotizzato come fermo nella sua cristallina limpidità, non come luogo della gloriosa inquietudine umana, non come movimento per superare il limitato. Dubbi ne sono sorti sempre, così ad esempio, anche nell’interessante inchiesta condotta, in un difficile periodo della cinematografia italiana, da una ben nota rivista di studi cinematografici, a proposito del “Realismo nel cinema e nella letteratura” . Si potrebbe tentare di selezionare alcuni di quei giudizi, di quelle opinioni - anche di quelle negative - dalle quali sarebbe possibile ricavare (anche e contrario) altre indicazioni nel senso di una maggiore approssimazione all’area più densa e più duratura del realismo. Ciò sposta l’indagine su un piano più problematico ma anche più concreto, nel senso di un invito a chiarire i limiti e i campi delle traiettorie autentiche. Varrà la pena, comunque, per non appesantire la questione, scegliere risposte dai settori più varii della cultura ottenendo opinioni brevi e concise che possano servire come campioni-ipotesi sia per la verifica di una direttiva sia per il rifiuto di un’altra. Così, Rosario Assunto notava che: “Il merito del cinema realistico o, 79 C. SALINARI, La questione del realismo, Firenze 1960. 164 meglio, quello di De Sica, del primo Rossellini, di Visconti e di altri… consiste nell’essere riuscito ad assorbire per intero una realtà di vita nell’immagine cinematografica, nella forma e nello stile cinematografico, diciamo, nell’avere imposto attraverso il cinematografo la forma e lo stile ad una realtà agitata, convulsa che pareva sfuggire ad ogni ordine, ad ogni interpretazione e… mentre questa (la narrativa) pretendeva di andare dalla forma alla realtà, di umiliare la forma alla realtà e si è suicidata come arte, il realismo cinematografico proprio per il suo amore alla realtà, per la sua fede nella realtà, ha voluto riscattare la realtà nella forma e riscattandola si è salvato come arte” 80.
E Giorgio Soavi opinava che “se certi romanzi… sono le grandi verità intorno alle quali l’uomo vive e si esercita, il cinema con i suoi film coraggiosi può fargli vedere quale effettivamente potrebbero essere nella realtà del paesaggio, degli uomini di fronte ad altri uomini, le minori verità”. Minori, in quanto asseriva che “il film è storia recitata e non tragedia tragica” 81. A sua volta, Vittorio Sereni, dopo considerazioni “appassionate e volutamente acritiche”» metteva col suo intervento il dito nella piaga dello pseudo-realismo, parenetico ed edificatorio, annotando che “l’ostentazione di coscienza, che spesso è improvvisazione e che il cinema mette spie-tatamente a nudo, uccide la felicità espressiva non meno, qualche volta più, dell’assenza di coscienza” 82. E Claudio Varese, dopo aver parlato, dello humus critico nel quale erano radicate le premesse del neorealismo affermava: “L’importanza storica e artistica del nostro realismo come scuola cinematografica è nel suo carattere polemico, nell’affermazione di un’Italia amara e reale, di un’arte non predeterminata illustrazione di schemi mentali già prefissi. L’impegno civile e morale, l’amore per l’Italia reale, si fusero con la ricerca di un linguaggio nuovo, ci fu il senso di qualcosa di nativo e di fresco, scoperta di una realtà e invenzione di sentimenti” 83. Tempo dopo sembrava concludere i diversi interventi, Luigi Chiarini con una illuminante considerazione su “Realismo e Stile” ; prendendo le mosse da quel detto di Francesco De Sanctis per cui “l’arte non rappresenta la vita in modo assoluto ma la vita come è concepita e spiegata in questo o in quel tempo» passava ad osservare: «che oggi la vita e la con-80 R. ASSUNTO, in “Cinema Nuovo”, Luglio 1953, N.14. 81 G. SOAVI, ibidem, Marzo 1953, n.6. 82 V. SERENI, ibidem, Aprile 1953, n.8. 83 C. VARESE, ibidem, Febbraio 1953, n.5. 165 cezione della vita siano dominate dal problema sociale nessuno creda che possa contestare. Cattolici, idealisti, esistenzialisti, neopositivisti e insomma quanti si rifanno alle tendenze di pensiero più diverso, pongono l’accento della loro indagine più sui problemi dei rapporti umani che su quelli del trascendente o dell’assoluto… A codesta concezione più avanzata della vita che investe tendenze diverse ma progressive del pensiero, corrisponde in arte la concezione realista” 84. Proseguiva poi con la messa a punto dell’esigenza di analisi stilistica che, in fondo, è quella che tende a far riconoscere le possibilità, data l’angolazione realistica, di un’indagine differenziata sui vari e non irrelati settori della realtà compresi nel rapporto bipolare individuo-individuo e individuo-società. Rapporto, ripetiamo, in cui anche ammesso che l’uno sia il meno e l’altro (la società) sia il più, l’importante è non perdere di vista la loro interdipendenza, l’essenziale è non scinderli con una decisione mentale che non troverebbe riscontro né giustificazione nella più duratura realtà che è la storia dell’uomo e che è storia anche delle sue immagini, delle sue parole in quanto, a loro volta, operatrici di storia e di significati storici. Il realismo è quindi “ars in re” , non “ante rem” : bellezza delle cose che si generano e muoiono ma non senza lasciare un significato, un’orma, che non possono vanificarsi in un universale vago, che non possono venir trascinate nello sterile problema dell’infinito e dell’eterno; bellezza della dignità dell’uomo, del suo sforzo, dei suoi valori visti però non in modo ottimistico né aleatorio ma secondo le giunture, gli snodi, i ritorni della loro comunque progrediente dialettica. Il realismo è la bellezza del particolare sensibile appercepito nei modi del concetto e dell’emozione e non nascente dal vuoto ma radicato nel passato ancora vivo e volto coi suoi rami verso il futuro; ma particolare che pur avendo capacità di metonimia non allude al generico tutto o dovunque o sempre ma ad una scelta di luogo, tempo e materia operata attraverso una selezione che è insieme conoscitiva, morale e sociale cioè attraverso una decifrazione dei rapporti umani validi in funzione non mistica seppure tollerante, comprensiva sebbene non scettica, generosa ma non per questo aliena da giustizia. Si comprende perciò che su questi presupposti sia i frutti maturi che quelli acerbi, sia quelli piccoli che quelli definitivi, possano assumere, dal punto di vista critico, una effettiva capacità di orientamento. 84 L. CHIARINI, ibidem, Giugno 1955, n.61.
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E va notato come il polo nord sia indicato ancora da quegli aghi cui si è fatto cenno nelle pagine precedenti; ad esaminare la produzione più recente, vien fatto di accorgersi che se qualcuno dei registi della prima generazione neorealista ha declinato, nuovi nomi si sono aggiunti a con-futare le direzioni sbagliate, a dar corpo con i loro film alla pluralità delle corsie che conducono al realismo: Antonioni, ad esempio, che dal suo strumentale pessimismo non giunge all’arcadia dell’angoscia ma ritrae con rigore di moralista le immagini della “casualità morale, della rabbiosa rassegnazione di una classe ben definita”. È certo tendere al realismo rappresentare i soprassalti a vuoto della coscienza borghese, l’inautenticità dei rapporti che essa nutre nel suo seno. Lo stile è conseguenziale al contenuto: analitico e “laico” cioè scrupoloso, preciso, lontanoquanto è più possibile da ogni formula stracca e irresponsabile. Così ugualmente l’attualità del tema non si disperde in mera passività cronistica, ma è anzi la forza, il midollo di “Rocco e i suoi fratelli” dove la carica di spietatezza aggressiva è in rapporto direttamente proporzionale al senso di una polemica civile sentita con un’intensità di fuoco che vuole bruciare le scorie del melodramma; intessuta di simboli che recuperano, per via di lunghe accumulazioni, la lunga storia e preistoria dei cafoni del sud sradicati dal loro ambiente naturalmente trapiantati nella nebbia e nell’umido della vasta metropoli lombarda. Del resto, e ciò non manca di interesse, anche una visione a volo d’uc-cello del cinema italiano d’anteguerra, permette di verificare come esso 167 abbia conquistato qualcosa di duraturo quando si è venuto allineando con quei filoni letterarii che vanno dal verismo di “Assunta Spina” o “Sperduti nel buio” al documentarismo risorgimentale delle “Noterelle” ( “1860” di Blasetti) al contributo sia pure disorganico e sfiduciato di un Pirandello e su fino alla riscoperta e al recupero della lezione verghiana attraverso i coefficienti più diversi e talora anche più strani (si veda “Ossessione” prima che “La terra trema” ). Tali tappe di avvicinamento al realismo o almeno di discostamento dal manierismo dannunziano o fogazzariano o psico-melodrammatico, avevano già agito da vero e proprio ricambio culturale, avevano giovato al metabolismo dei più vitali succhi della tradizione narrativa. Abbiamo creduto opportuno fare, sia pure per inciso, tali excursus sulla situazione di fatto per non perdere di vista come le teorie tengano conto della pratica e cioè delle effettive risultanze del cinema e come proprio l’uso della nuova e più ampia visibilità nella conoscenza del reale abbia condotto avanti in termini anche più cogenti la questione del realismo. Questione in cui sembra essere chiaro che ci si è liberati almeno dall’involucro delle polemiche sterili, dalla ricerca di un sistema ferreo e in cui pertanto ciò che sembra positivo è accertare fatti, linee d’evoluzione e tendenza in un diagramma quanto più largo di accezioni e significati. Pare così d’esserci emancipati da un repertorio d’idee convenzionali e dogma-tiche e di esserci incamminati sulla via di una discussione scientifica e di seria ricerca. Perciò nel realismo così largamente inteso può trovar luogo l’angoscia senza che l’ottimismo avveniristico la cancelli; ma un’angoscia le cui componenti siano chiarificate e in cui il percorso sia dalla paralisi alla speranza e non viceversa, che non tenti il volo nel vuoto credendo che in esso
sia più facile mentre è addirittura impossibile; un’angoscia, cioè, dove il prendere atto della solitudine o della difficoltà di comunicazione sia un ribadire la necessità della relazione, l’importanza di saldare i contatti umani. In un tal modo di rappresentare, le cose e con esse la stessa angoscia non potranno comportarsi in maniera estranea o opposta all’uomo, ma l’uomo si impegnerà a dirigerle nella sua direzione, in modo che i dati della sua personalità e della sua storia non si smarriscano, per mancanza di strumenti o di oggetti, in un caos compiaciuto o meno, volutamente disorganico o volutamente astratto. “L’insegnamento che possiamo trarre da questo esempio di Tolstoij (l’epilogo di “Guerra e Pace”, dice Lukacs ne “Il problema della prospet-168 tiva”),è quello che la prospettiva risulta genuina e concreta solo quando sorge dalle tendenze di sviluppo degli individui rappresentati nell’opera d’arte, e non quando è appiccicata ad essa come verità sociale oggettiva e a determinati uomini che hanno con essa solo un tenue legame personale”. E più avanti afferma : “In realtà gli uomini possono comprendere solo lentamente, dopo aver superato gravi resistenze, i veri obbiettivi… e lentamente si mettono per via e hanno sovente bisogno di compiere dei lunghi giri prima di capirla bene. La realtà è questa. Invece nella nostra letteratura (realismo socialista) ci sono una quantità di casi in cui, in base ad intenzioni quanto mai rispettabili, la trasformazione avviene così rapidamente che l’obbiettivo, appena posto, viene subito facilmente raggiunto. Si può capire come molti autori scelgano questa seconda via per rappresentare la prospettiva: scelgono una via che presenta la prospettiva del nostro sviluppo come realtà già attuata…” 85. Nel primo caso soltanto, ci pare, gli avvenimenti rappresentati avranno una loro solida, seppure sottile (cioè non appariscente) conseguenzialità dialettica: sintassi viva e non gelida paratassi delle vicende umane: “essere radicali - dice un passo di Marx - significa afferrare le cose alla radice; ma per l’uomo la radice è l’uomo”. Il valore più autentico del realismo sarà allora nel fatto che, operando con immagini, si affermerà la forza di ciò che si rappresenta ma al cui negativo non ci si rassegna senza illuminarlo, analizzarlo, controllarlo; e proprio perché verrà necessariamente evitato il gusto per il sensazionale e l’avventuroso (i due principali sviamenti drammatici) cioè il gusto per la violenza della coartazione meramente esterna, verrà evitata una comoda deformazione dell’interno e il mondo apparirà non come un mostruoso ostacolo ma la naturale antitesi perché si realizzi la sintesi. E proprio in funzione di questa “tipicità” non preconcetta, ci sarà una visione piena della vita in tutta la sua complessità e in tutti i suoi contrasti effettuali e potenziali e così si arriverà a quel traguardo antimetafisico e antifatalista per il quale, nelle parole di un grande regista e teorico del cinema russo “Ispirazione e lo slancio creativo non scendono da un angolo inesplorato del cielo e non indossano vesti d’angelo ma sono fatti della carne e del sangue di un interesse sociale, umano, di una necessità essenziale del popolo” 86. 85 G. LUKACS, Il marxismo e la critica letteraria, Torino 1964. 86 V. PUDOVKIN, Il cinema e l’uomo moderno, ne “La VII arte” Roma 1961. 169 E in questo senso il realismo procede dalla coscienza “nazional-popo-lare” , concetto espresso già un secolo fa da Bielinskij e ripreso con nuove motivazioni dal Gramsci. In questo senso si inserisce senza discrepanze l’analisi lukacsiana del “rispecchiamento” : “Nel rispecchiamento artistico, il terminus a quo è pur sempre inevi-tabilmente un certo stato dell’umanità e il terminus ad quem un altro stato cui si aspira, con la differenza che questo percorso fra i due termini non è ancora in maniera assoluta il percorso tra un certo punto cui era arrivata la coscienza artistica e quello cui ora l’opera dell’artista lo ha portato. Per questo, il carattere di approssimazione dell’arte, vale solo nel senso che essa si avvicina più o meno a rispecchiare i reali moti e le forze di un dato momento storico ma non nel senso - tipico dell’attività scientifica - che ogni fatto estetico copre una certa tappa nel processo dell’acquisizione conoscitiva dell’oggetto.
Ad un’opera d’arte che abbia perfettamente rispecchiato un certo momento del processo potrà far seguito un’altra che lo rispecchi meno perfettamente, senza che per questo cada nella nullità o negatività estetica, anzi in ciò consiste il carattere di definitività dell’opera d’arte e in ciò si fonda il giudizio di valore. Giudizio che rimane invece escluso dall’attività scientifica ove un rispecchiamento meno perfetto che succede ad un altro più perfetto farà semplicemente parte della storia dell’errore e non della scienza”. E meglio ancora, poi, lo studioso ungherese chiarisce nei suoi “Prolegomeni” le diversità che intercorrono fra i due metodi d’indagine: “La generalizzazione dell’arte e quella della scienza, come abbiamo osservato più volte, seguono vie diverse. Nella questione decisiva del rapporto tra fenomeno ed essenza la specificità dell’arte si manifesta in ciò che l’essenza si dissolve completamente nel fenomeno, mentre nella scienza essa ne può essere separata concettualmente e gli intimi legami logici, metodologici e oggettivi tra l’una e l’altro non debbono sopprime-re questa separazione concettuale. L’arte appare così più vicina della scienza alla vita. Ciò corrisponde a verità in quanto la distruzione cosciente della figura autonoma dell’essenza sottolinea, nella struttura della realtà, il momento per cui l’essenza ha esistenza reale solo nel fenomeno. Ma è solo apparenza perché questa immanenza ha qualità molto 170 diverse nella vita e nell’arte; nella realtà fenomeno ed essenza formano una unità reale realmente inseparabile e il grande compito del pensiero è di estrarre concettualmente l’essenza da questa unità e di renderla così conoscibile. L’arte invece crea una nuova unità di fenomeno ed essenza, nella quale l’essenza è contenuta e celata nel fenomeno come nella realtà e in pari tempo penetra tutte le forme fenomeniche in modo tale che esse in ogni loro manifestazione - ciò che non accade nella realtà stessa rivelano immediatamente e chiaramente la loro essenza” 87. Al realismo resterà quindi estranea ogni pedanteria psicologica e sociologica e ogni trasformazione dell’uomo in manichino attraversato da correnti di futili fantasticherie: la psicologia dei personaggi sarà una psicologia complicata ma concreta dato che rispecchierà la psicologia di intere classi sociali o, almeno di certi ambienti sociali, e per conseguenza i processi che si svolgono nell’anima dei differenti personaggi sono i riflessi, per quanto lontani, dei movimenti storici e degli aloni emotivi che sono ad essi naturalmente circoscritti. La vita intima del personaggio servirà a far luce sulle “linee essenziali dei conflitti essenziali” , verrà cioè concepita in organica fusione con i momenti di evoluzione o di crisi della società. Ciononostante, il realismo, anche per ciò che concerne il cinema e forse soprattutto a suo riguardo, non sembra poter escludere né l’uso di quella fantasia che il Vico chiamò “risalto di reminiscenze reali, memoria dilatata e compressa” né l’obbligo di una matura e non sperimentale consapevolezza stilistica. Questa, pur partendo spesso, da elementi passivi o negativi li farà elementi di costruzione, di autocoscienza, attraverso un lavoro di cernita continua riuscirà a fonderli in un’esperienza che risulti dalla seria volontà di porsi in rapporto morale oltre che ideologico (ed emotivo) col mondo. Il realismo combatterà allora anche le pseudoinnovazioni, ad es. il voyeurismo alla Robbe-Grillet che vive di vuoti repertori, di vuote elenca-zioni perché si rifiuta per partito preso di cogliere le situazioni umane nei loro nodi dialettici e drammatici. E chi nega il dramma nega ogni sviluppo al presente, non sa portarsi oltre un determinismo spicciolo, di marca capitalista che degrada l’individuo a macchina consumatrice e tende a dargli stimoli più che immagini su cui riflettere. Nel narratore voyeur si sente la manovra a freddo dei congegni linguis-87 G. LUKACS, Prolegomeni ad un’estetica marxista, Roma 1957. 171 tici, l’uso zelante della normatività psicologica ma l’allontanamento pro-gressivo da ogni normatività morale. Il male, in effetti, se può essere scu-sato secondo metodi psicologici, perché visto come il complesso delle tendenze alla colpa che corrodono la personalità e non le permettono di rea-lizzarsi positivamente, non è egualmente giustificabile sul piano etico; moralmente - cioè in un incrocio di relazioni e di responsabilità - esso non può venir descritto con puro distacco biologico, perché si configura sempre come mancanza di umanità, come volontà se non di opprimere e torturare almeno di lasciar soffrire il prossimo.
Ciò non vuol dire, come abbiamo già detto, che al realismo si accosti la retorica (neanche quella umanitaria), perché la retorica è sempre una deformazione deliberata della realtà, basata su una falsa idealizzazione dell’uomo, su un suo concetto unilaterale e quindi scevro di dialettica (e intrinsecamente vuoto di qualsiasi merito): il tutto spirituale o il tutto materiale è il campo unilaterale dove allignano i frutti della delusione infantile, della testardaggine intellettuale se non della malafede. Unilateralità che è sterile nella maggior parte dei casi, dato che in tutti i settori delle attività umane si sviluppano e resistono solo quelle qualità che hanno un vivo legame con l’indirizzo della storia e con lo sviluppo della società, con quelle caratteristiche che derivano dalle esigenze generali del tempo né importa che esistano uomini per cui possano non aver rilevanza gli interessi sociali. Il realismo, infatti, per la sua stessa natura, come ogni altra attività intellettuale o morale rilevante ai fini del progresso, rispecchia le aspirazioni più diffuse dell’epoca, ne riflette le idee vitali e ne intensifica il significato; ad esse non appare nessun ornamento, nessuna decorazione, neppure di tipo matematico. Nello stesso, e proprio per l’assenza in esso di un geometrismo inter-cambiabile, rifiuta le facili simmetrie della metamorfosi. La metamorfosi, come acutamente si espresse Goethe, “è un dono massimamente nobile ma anche massimamente pericoloso: esso porta all’informale, distrugge il sapere, lo dissolve. È uguale alla vis centrifuga e si perderebbe nell’infinito se non gli fosse dato un contrappeso: cioè l’impulso alla specificazione, la tenace capacità di persistenza di ciò che una volta è entrato nella realtà, una vis centripeta che nella sua base più profonda non può avere in sé alcunché di superficiale” . E per ciò che riguarda la causa attiva precipua delle tendenze evolutive che il realismo tiene a rappresentare, va ricordata la chiara asserzione di Engels nella sua lettera a Starkenburg: “L’evoluzione politica, giuridica, 172 filosofica, religiosa, letteraria e artistica riposa sulla evoluzione economica; ma esse reagiscono tutte tanto l’una sull’altra quanto sulla base economica. Non è che la situazione economica sia la sola causa attiva e che tutto il resto non sia che effetto passivo”. Così sembra accertabile che realismo anche nel linguaggio filmico significa uso di segni e simboli che abbiano un’accumulazione umanistica, che conservino cioè nel loro centro di gravità il valoreuomo e siano stati generati nel corso del miglioramento (e non della mercificazione) della vita umana. Solo con questi simboli e questi significati, avrà la possibilità di sopravvivere, di ricollocarsi continuamente nell’attenzione degli uomini e nel cammino della storia. L’opera realista apparirà dunque come una riproduzione abbreviata, compendiata della rappresentazione che il regista sì fa, nel suo lavoro creativo, del molteplice sentiero su cui marcia l’umanità. “L’opera d’arte con la sua generalizzazione del particolare innalza bensì la materia rappresentata sollevandola da tutto quello che in essa vi è di quotidiano e le dà una vita propria fondata in apparenza, su se stessa, riposante su se stessa. Questa apparenza realmente esistente, nel senso di Lenin, viene esagerata nelle teorie dell’arte per l’arte, trasfor-mata in principio unico, fondamentale e quindi falsificata. Ma questo innalzamento del mondo quotidiano in una sfera autonoma è pura apparenza (sia pure esistente) in quanto è il vero presupposto per il ritorno dell’opera d’arte alla vita, per una sua attiva efficacia nella realtà sociale. Infatti solo innalzando così nella sfera della generalizzazione artistica (del particolare, del tipico) le figure e gli eventi, il loro modo di attu-arsi, la loro causa, la loro direzione e prospettiva, solo così l’opera d’arte diventa una riproduzione della vita nella quale gli uomini trovano se stessi e i loro destini spiegati con una profondità, una comprensività ed una chiarezza illuminante che non si possono avere nella vita stessa” 88. Così appunto Lukacs a proposito della concretizzazione della particolarità come categoria estetica e raggiungendo in tal modo la più vasta e insieme profonda accezione del realismo. E solo così si possono riconoscere quelle qualità che il realismo possiede e che nel vago linguaggio idealistico venivano definite di “trasfigurazione ed intuizione” cioè quelle qualità di intensificazione e particolarizzazione della realtà quotidiana e della storia. 88 ID., ibidem.
173 In ciò, del resto, Lukacs sembra sulla scia del Černyševskij che considerando i rapporti tra arte e realtà nell’estetica, aveva asserito: “La forza dell’arte è quella dei luoghi comuni; le opere d’arte hanno però un lato che le rende… superiori ai fenomeni della vita e della realtà. In esse tutto è esposto chiaramente, tutto è spiegato dallo stesso autore mentre la vita e la natura devono essere decifrate con le proprie forze. La forza dell’arte è la forza del commento, la forza della memoria” 89. All’arte concepita unilateralmente, soggettivamente si viene sostituendo un’arte concepita in modo biplanare su una linea di evoluzione selettrice che corre parallela alla dialettica della storia, al movimento della società e alle trasformazioni della natura. In essa, l’individuo finisce di un essere un mondo a sé, un “eterno prototipo” , per diventare una cellula viva di un organismo che esiste per il ricambio e l’alimentazione con l’ambiente, soggetto e oggetto del processo conoscitivoemozionale innestato sul ritmo dialettico. Il realismo, in tal modo, pur comprendendo il momento affettivo ha una tendenza alla intelligenza del reale e non può venir classificato come una categoria ma un obbiettivo di chiara natura vettoriale, cioè una progressiva rivelazione e affermazione di strati storici, umani e sociali. Lottare per estendere la nozione di realismo, d’altra parte, non significa affatto voler far rientrare in essa tutto, significa discernere fra una direzione vitale e dinamica ed una schematica, limitatrice, che tende a dissol-versi e proprio per questo ha moti di protesta, febbrili, caratterizzati appunto dal disordine, dal voltafaccia contro l’uomo e la sua figura storica, dal gusto per “l’entropia” o il suicidio (che è lo stesso). Il cinema nel suo essere linguaggio è appunto comunicazione, ricambio, rapporto esplicito con la società, con l’uomo, con la natura; è correlazione con la realtà; e la realtà non è affatto “troppo sconcertante, troppo ambigua perché ognuno ne possa trarre un insegnamento” (Robbe-Grillet), la realtà porta lo stampo della storia, della nostra passione morale, del nostro impegno di uomini del presente e di quello del passato che è stato non un affastellarsi di lotte gratuite e senza significato, ma un processo comunque fruttuoso di selezione e di costruzione di valori. Il realismo nutre quindi in sé questo scopo di mettere 1’arte su un piano più alto della vita ma non tanto da dover finire col non servire più a nulla: 89 N. I. CZERNICZEWSKIJ, “Arte e Realtà” , Roma 1954. 174 senza le catene di una sociologia pragmatica ma senza nemmeno quelle ossessioni introspettive che confinano con la patologia. Partendo da queste ragioni intrinseche, sembra chiaro come il contenuto sarà forma e la forma sarà la scelta dei contenuti, e la tecnica sarà l’unico mezzo materiale ma anch’esso inconfondibile perché complesso dei procedimenti peculiari atti a realizzare quella data opera e lo stile non sarà cancellato solo in quanto modo coerente ed essenziale di composizione degli elementi particolari scelti per la trasposizione della realtà nel linguaggio filmico. L’immaginazione funzionale del linguaggio realistico si alimenterà dal contesto semantico, non attraverso una sistemazione di parole o immagini in ordine bello e gradevole, ma attraverso una concatenazione di significati complessi. Nei ponti che l’immagine getta verso le altre immagini che la precedono o la seguono, verso le matrici sottintese della sua stessa iconologia, la creazione di linguaggio diviene immaginazione profonda, intessuta di simboli, di cifre, di emblemi aderenti alla natura dinamica del linguaggio stesso. Così si avrà, nel cinema realistico, una semantica storica e psico-sociologica del figurativo che sarà non un fraintendere ma un includere in esso i dati essenziali e vivi della tradizione culturale; e attraverso il son-daggio semantico si passerà dalle strutture alla sovrastrutture e viceversa, scansando il metodo comodo e semplificato dell’automatismo deterministico e quello riduttivo e deduzionistico del “lirismo soggettivo” e del “mistero estetico” . L’accumulo delle “informazioni” contenute nel linguaggio delle immagini non sarà solo un risultato operante nell’attualità ma rinvierà storicamente ai significati man mano evolutisi e
arricchitisi intorno al segno figurativo, non semplice codice di decifrazione ma storico approccio globale all’intero significato dell’uomo ripristinato fin dalle radici nel suo con-vivere con la società e la natura. Solo in questa vasta accezione di linguaggio realistico potranno trovare giustificazione i vari concetti di “specifico” così come ai vari livelli di intensità anche nel cinema si potrà avere la distinzione posta dal Croce tra “poesia” e “letteratura” , la quale ultima trova la sua motivazione e il suo limite nella mera significazione di una data corrente culturale che può essere solo psicologica o solo politica e proprio in virtù di questa dicotomia potrà essere ammessa solo ai gradini iniziali dell’opera d’arte, prescindendo dal suo valore di codice documentaristico di una determinata o di determinate situazioni. 175 Per “letteratura filmica” si potrà intendere la raccolta di immagini con significati ben circoscritti e non penetranti la realtà oltre il suo guscio: contesto di descrizioni, di analisi più che di ricavo dei significati ai vari livelli della “geologia” storica. Per ciò che concerne l’uso dei mezzi segnici è chiaro che si potrà adope-rare quello più libero possibile che non comporti se non una stretta coerenza col tema e col suo sviluppo. In questa accezione si situa un’ampia gamma di interpretazioni per ciò che è stato denominato “specifico filmico” e che è stato troppo a lungo equivocato per un breviario di regole grammaticali e non invece come una serie aperta di possibili exploits tecnici, congeniali non tanto ai movimenti dello strumento da ripresa o ai mezzi esterni quanto alla personalità dell’autore, alla sua “weltanschauung”. Sembra per lo meno opportuno ricordare quanto sinteticamente andava affermando Umberto Barbaro in uno dei suoi saggi: “Si fa dell’arte, se si fa, facendo prevalere questo o quello tra i mezzi specifici; si può fare del bianco e nero, e quadri a colori, si può sottomet-tere la linea al colore e il colore alla linea e così via. E, per restare nel problema del film, si possono fare film “anticinematografici” come quelli di Charlot о film in cui il montaggio ha un valore predominante come “La fine di S. Pietroburgo” о film in cui la recitazione stravinca su quelle come “Sciuscià” e così via” 90. Nel discorso artistico, e anche in quello realistico, la ragione о le ragioni degli stili valgono quando non prescindono dall’esame dell’uomo e del suo significato storico quando si coagulano in un linguaggio capace di assorbire i rinvii culturali presenti nei segni che lo compongono. Sono così diverse e numerose le vie attraverso le quali potrà essere evitato quella forma di cinema mercificato, trangugiabile con tiepida faciltà e con maggior faciltà deperibile e che tende solo a scansare i problemi e sembra interessato solo ad uno scopo mistificare la morale, intessere una rete di ipocrisie e di suggestioni pubblicitarie intorno all’uomo e alla società in cui vive. A questo riguardo, non è di poco rilievo la crisi che travaglia quella fabbrica di sogni pseudo realisti che è Hollywood, indizio di una più decisa presa di coscienza da parte dello spettatore in diverse parti del mondo; 90U. BARBARO, ne “Il cinema di fronte alla realtà” , in op. cit. 176 presa di coscienza che il cinema neo-realista ha avuto il grande merito di stimolare e di tener desta. Il realismo, in ultima analisi, e proprio al punto di confluenza tra stile e linguaggio, tra cernita semantica e rapporti di significato, diventerà sempre più sullo schermo quel cinema intellettuale di cui parlava Ėjzenštejn definendolo “un cinema che induca l’astrazione della tesi a sbocciare immediatamente sul piano emotivo… attraverso la rifusione immediata dell’idea in un sistema di immagini visive” 91. Un’eco immediata di quanto Plechanov veniva scrivendo sull’arte in generale: “Non è vero che l’arte esprima soltanto i sentimenti dell’uomo. Essa esprime i sentimenti e le idee e non certo in modo astratto ma per via di immagini” 92. L’arte infatti non è un mondo condizionato dalla natura ma una conciliazione tra mondo umano, storia e natura; conciliazione fondata sulle normatività preesistenti al fatto artistico e spontanee senza essere irri-flesse. Essa coglie anche nei sentimenti le idee, i progetti vitali dell’uomo che
spesso inesattamente vengono classificati come semplici “stati d’animo” e sono invece i risultati degli orientamenti della volontà, le espressioni del carattere, le risposte alle mutazioni d’ambiente naturale e ideologico. Per mezzo del linguaggio realistico passeranno alla storia, consegnati dalla forza dell’arte, gli atti e i significati di quella che era ritenuta, in una concezione antiumanistica, la folla anonima; ma passeranno anche i lieviti dell’angoscia individuale, esponenti di problemi diffusi e portati dal linguaggio ad un livello di chiarezza analitica, e che saranno anch’essi semi positivi quando lo spettatore non sprovveduto ne avrà compreso le cause, le connessioni con le situazioni e con le vicende sociali. Per mezzo di questo linguaggio, il regista non potrà seguire come in un sogno l’aspirazione all’isolamento, alla torre d’avorio perché come uomo e come autore non potrà isolarsi pena la deformazione di se stesso come individuo membro di una comunità con la quale dialogare, il che avrebbe per conseguenza anche l’isterilirsi delle sue capacità intellettive ed emozionali. Su questa rotta il realismo verrà operando, come già viene operando con le sue opere migliori, una rivoluzione assai più consistente del ro-manticismo (comprendente, per noi, anche le tarde nostalgie romantiche 91 S. M. EISENSTEIN, Memorie, Roma 1961. 92 G. PLEKHANOV, Lettres sans adresse, Paris 1903. 177 dei tanti cerebrali contemporanei) e che, dopotutto, come è stato giustamente notato, non ha operato che una sostituzione di oggetti poetici senza mai scardinareilconcetto di materiale poetico specifico. Lo stile del realismo si indirizzerà verso quell’equilibrio tra capacità di esclusione e capacità di inclusione, verso un linguaggio palese senza essere slogato, forte senza essere contorto, senza essere piegato all’idea di partenza senza tener conto della complessità dell’uomo e della sua storia. Non che la vita esisterà solo per fornire immagini ma il film esisterà solo in quanto non si chiuderà alle implicazioni coscienziali, morali e sociali della vita e i rapporti intercorrenti fra questi termini risulteranno espressi con tanta maggiore energia quanto più verrà fatto risaltare il momento oggettivo che funge da elemento mediatore della dialettica. Quello che verrà a perdersi sarà la trascendenza, quello schema ontolo-gico che sottostà anche ai più banali prodotti dell’industria pseudorealistica e che li giustifica sul piano di “un alto colloquio, morale, istruttivo ed edificatorio” col pubblico. Nel realismo resterà ritratta la vita dell’epoca, in un’analisi di passioni ed idee che non vengano “trasferite nell’assenza” , che non si brucino nel vacuum ma che siano sempre in reazione diretta o indiretta all’ambiente (anche nel senso di tendenze psicologiche), alla presenza dell’uomo; non quindi corrispondenza oggettiva e meccanica con la natura, con gli “stati d’animo” , i moti storici ma corrispondenza critica, selettiva, e al contempo sintetica. L’attuazione di queste correlazioni verrà operata attraverso la conoscenza e la padronanza del linguaggio filmico (inteso così come l’abbiamo inteso nel saggio precedente). Il tangibile l’emblematico, l’individualizzato (il particolare) saranno strutture ed aspetti di un’unica rappresentazione. L’immediatezza della sperimentazione non escluderà lo scandaglio, servirà anzi a renderlo più penetrante e a farlo sopravvivere. Il raccordo semantico dell’immagine servirà da cinghia di trasmissione dei significati che saranno quelli che permetteranno allo spettatore di individuare nella storia dell’icone, dell’oggetto, della situazione e nell’ambito dell’alone emozionale il proprio passato come passato del genere umano, così come nella parola del dialogo ognuno riconosce sfumature, colorazione ed affetti comuni in quello spessore di rapporti che servono ad arricchire l’indagine dell’uomo su di sé, attraverso il patrimonio di immaginazione e di sentimento che si ha in comune con gli altri e con gli altri del passato più o meno remoto, più o meno prossimo. In tal modo, il realismo opererà una rivalutazione, una umanizzazione 178 dell’arte e sottrarrà l’autore alla degradazione di fronte alle cose, con quel capovolgimento di rapporti gerarchici tra soggetti ed oggetto, così frequente nelle opere decadenti o cosiddette “sperimentali” . Produrrà insomma un distacco dal «mare dell’oggettività», ma non un distacco agnostico, simile alla paura di affrontare ciò che pure sussiste, ma un distacco motivato dall’esperienza accettata di
esso, delle sue tempeste, delle sue ondate, teso a ritrovare più veri ancora “i termini del discorso etico-poetico che ci è sempre stato a cuore, quella tensione tra individuo e storia e natura che usavamo per ordinare, come filo conduttore, il nostro albero genealogico… e che continuiamo a ritenere validi” 93. Per questo, nel realismo potrà trovare il suo posto e la sua migliore utilizzazione la metafora; ma una metafora demistificata, liberata cioè dall’equivoco romantico di fantastico ed inconscio incontro di immagini “metafora con la sua caratteristica di nesso di un molteplice che crea un genere sia pure non scientifico ed occasionale” 94. Caratteristica, come ha osservato recentemente il Salinari che “insieme col processo di generalizzazione di Lukacs, è proprio la strada che può portare alla soluzione giusta” . Processi e caratteristiche che fanno sì che la tesi venga incorporata in un’unità inscindibile nel contenuto e non sovrapposta dall’esterno. Caratteristica che equivale a comprendere come, attraverso la scelta delle immagini, delle angolazioni, dei volti, del materiale plastico e così via, la realtà sia viva dialettica di fatti ed idee, di analisi e di sintesi, di in-duzioni e deduzioni che agiscono e reagiscono tra loro en risposta a tutte le azioni e le reazioni dell’epoca storica in cui esse si generano; ma che, nonostante tale complicata attività di complementari controcampi, essa segua linee di evoluzione che precedono sempre quelle di involuzione e che partono dalla fiducia nelle facoltà di superamento del negativo, insite nella coscienza storica e nella ragione empirica di ogni uomo di buona fede e buona volontà. In questo senso inoltre per realismo non si può accettare ciò che “i politici del materialismo estetico” vorrebbero che sia, dimenticando l’ampio insegnamento di Gramsci, anche a questo proposito: “Per l’uomo politico ogni immagine fissata a priori è reazionaria: il 93 I. CALVINO, Il mare dell’oggettività, ne “Il menabò 2” , Torino. 94 G. DELLA VOLPE, ne “Il contemporaneo” del 16 febbraio 1957 179 politico considera tutto il movimento nel suo divenire. L’artista deve invece avere immagini fissate e calate nella loro forma definitiva… così che dal punto di vista del politico, il politico non sarà mai contento dell’artista e non potrà esserlo: lo troverà sempre in arretrato coi tempi, sempre anacronistico, sempre superato dal movimento reale. Se la storia è un continuo processo di liberazione e di autocoscienza, è evidente che ogni stadio, come storia, in questo caso come cultura, sarà subito superato e non interesserà più” 95. Chiarificare quindi le interazioni di struttura e sovrastruttura è portare più luce al concetto di realismo; intendere il significato e le funzioni del linguaggio come incidenti sul processo conoscitivo, ma non confondere linguaggio e grammatica e pertanto, nel saggio introduttivo abbiamo tenuto a parlare di proprietà semantiche più che di regole morfologiche e abbiamo considerato le intuizioni come atti di intelligenza, volontà, affet-to nei quali il regista fonderà le immagini e i collegamenti di immagini secondo un complicato tramite di cultura, convinzioni e non secondo semplici meccanismi fisico-psichici che darebbero luogo al naturalismo più vieto e più inerte, quello della fotografia doppione della realtà. Sono queste le implicanze estetiche contenute nei suggerimenti che Engels dava a Bloch per intendere la concezione dialettica della storia e i rapporti intercorrenti fra strutture e sovrastrutture: “Secondo la concezione materialistica della storia, il fattore determinante della storia è, in ultima analisi, la produzione e la riproduzione della vita reale. Né Marx né io abbiamo detto di più. Se, in seguito qualcuno sforza ciò fino a dire che il fattore economico è il solo determinante egli trasforma questa proposizione in una fase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base, ma i vari aspetti della sovrastruttura esercitano anch’essi la loro azione nel corso delle lotte storiche e ne determinano, talvolta in modo preponderante, la forma” 96. Attraverso questa concezione più dinamica, più reattiva di sovrastruttura si giunge così ad una concezione più vasta ed insieme più approfondita di realismo, quella cui talvolta approda anche il Lukacs come quando verso la conclusione di un suo mediato studio dice:
95 A. GRAMSCI, Letteratura e Vita nazionale, Torino 1949 96 F. ENGELS, Epistolario, in “Opere di Marx, Engels e Lassalle” , Milano 1925. 180 “Nell’efficacia esercitata dalle opere d’arte s’innalza e si risveglia l’autocoscienza umana; quando il soggetto recettivo sperimenta una tale realtà in sé, nasce in lui un per sé del soggetto, un’autocoscienza la quale non è separata in modo ostile dal mondo esterno, bensì significa un rapporto più ricco e più profondo di un mondo esterno concepito con ricchezza e profondità verso l’autocoscienza così approfondita e arricchita, dell’uomo in quanto membro della società, della classe, della nazione, in quanto microcosmo autocosciente nel macrocosmo dello sviluppo dell’umanità” 97. Il realismo salva, quindi, lo spettatore inerme dai pericoli della identificazione e della mistificazione: droghe illusorie che sviano dalla consapevolezza e dallo sforzo per il miglioramento; ma lo salva altresì da un senso di cosa fatta e irreversibile, da un gusto per la comoda e assoluta rassegnazione. Il tipico infatti non deve affatto rifarsi alle abitudini collettive, alle con-venienze collaudate; il tipico non è osservanza di regole normalizzanti ma nasce solo dalla rigorosa conoscenza della propria storia comune indispensabile a scandagliare i molteplici sensi della propria coscienza, il tipico è la capacità di conferire ai rapporti tra uomo e uomini, tra uomini e cose, e tra uomo e natura il grado più alto di significato storico, cioè di significato collegato al suo passato evolutivo e alla sua prospettiva (intesa non in senso puramente avveniristico bensì anche in senso tragico) che il personaggio nulla perde di tipico nella situazione più tragica e più luttuosa se quest’ultima ha una molteplice risonanza nell’ambito della vicenda e pone interrogativi e stimoli che spingano verso il contesto di tutta intera una produzione estetica di un determinato periodo. Il tipico serve invece ad escludere l’arte “monologica” quella cioè del dialogo con il sopranna-turale o del diario mistico e serve altresì ad escludere l’arte demagogica che rinvia ad un univoco discorso del demiurgo e che rappresenta la massima abdicazione a qualunque facoltà critica e la delega ad un “eroe mito” di tutte le capacità emotive, intellettuali, cioè approda infine ad una spersonalizzazione in nome di una teologia terrena dove si è fatto il solo passo di sostituire la divinità con l’idolo e dove, pertanto, il mito si impoverisce anche di fantasia e di vero entusiasmo, e diventa “alienato” nel senso più ovvio della parola. Il film realista non sarà quel prodotto onirico temuto da Adorno, 97 G. LUKACS, Il significato del realismo critico, Torino 1958. 181 quell’oggettivazione assoluta e quella assoluta conferma di alienazione spacciata come un tranquillante a spettatori docili e impotenti; proprio perché il film realista si tiene fuori dall’esperienza mistica, e insieme dalle superstizioni naturaliste, dai pregiudizi del materialismo volgare e da quella bigotteria laica fatta di pedanterie e grettezze così simili alle doti piccoloborghesi. L’opera realista non avrà “coturni né aureole” né “immagini celestiali” e l’autore terrà bene a mente che “nella vita i ciarlatani simulano le malattie ma nell’arte simulano la salute”. Poco posto, in essa, pertanto a quell’ottimismo programmatico, “nata-lizio” ; per questo e per gli altri motivi il film realista non potrà venir tran-gugiato e digerito con faciltà, ma proprio per questo e altri motivi esso richiederà sempre da parte del fruitore l’intervento benefico della riflessione ed eliminerà quella confusione tra “escape” e “messaggio” . Per una tale opera potrà forse valere l’integrazione delle due distinte affermazioni di Gramsci, in modo che si potrà essere indotti a ritenere finalmente che “il giudizio positivo di bellezza artistica” sarà al contempo “l’entusiasmo morale e cioè la compartecipazione al mondo ideologico dell’artista” 98. Opera che come abbiamo già tentato di chiarire starà ugualmente lontana da una interiorità tutta unilaterale come da una estroversione tutta in superficie; le cui qualità di nucleo saranno appunto quelle razionali della perspicuità, della plasticità, del rinvio semantico; opera in cui sarà presente uno stile ma non come ossessione per la purezza formale né come riflesso immediato e automatico della personalità esterna del regista.
Riflesso che non potrà essere considerato come una rispondenza meccanica ma come una corrispondenza complessa con la personalità del regista, con la visione soggettiva, con le domande poste dalla sua completa personalità e che oltrepassano spesso i limiti comodi della sua stessa ideologia, specie se accettata dogmaticamente. Domande, interrogativi, dubbi che una volta trasfusi nell’opera possono assumere l’aspetto di contraddizioni oggettive che configurino una realtà ideologicamente diversa da quella originaria del loro autore e abbiano quindi in sé la sostanza storica e umana dell’autentico realismo. Anche nel cinema il realismo consisterà soprattutto nel portare il caos soggettivo ed oggettivo al livello della coscienza e della mente, quindi al livello della chiarificazione. “Se c’è un progresso nella storia dell’arte 98 A.GRAMSCI, op. cit. 182 scrive Hauser - (e proprio con riguardo al cinema) «è appunto questa crescente conquista nei domini del caos, con la sua analisi del tempo, il film si inserisce in questo processo: sono ormai traducibili in immagini visive esperienze che prima si potevano esprimere solo in forma musicale” 99. La vera tendenza realistica, nel cinema, sarà appunto quella che si avvicinerà al caos sempre più audacemente e gli sottrarrà sempre più vaste regioni, liberandosi nel contempo dalle reti dei compromessi onirici, dalle gradevoli esagerazioni sensorie, dai pregiudizi sulla forzosa banalità del pubblico, dalle mille snervature calligrafiche, da quel giuoco di perle di vetro che a soffiarci sopra dilegua come un giuoco di bolle di sapone. D’altra parte, il realismo non potrà sopportare “ricette di fabbrica-zione” né seguire pedissequamente regole narrative per quanto speri-mentate o modelli letterarii nobili quanto si vuole. L’ubi consistam dello stile realistico si porrà su un vasto campo di azione, vasto ma non per questo incoerente o privo di qualsiasi organicità. Lo stile suo sarà quello della struttura mediatrice fra regista e realtà, il modo in cui l’immagine mostrerà non solo l’oggetto naturale ma una sua raffigurazione semantica (cioè di multipli significati) in un contesto di sintesi analitiche. La capacità di simbolizzare gli oggetti, le situazioni, di comporli in un discorso che si ricolleghi al procedere dei valori storici richiederà un’attitudine alla composizione che tenga conto del disegno e dei rapporti di proporzione narrativa non come moduli a sé stanti ma correlativi a quelle convinzioni morali e ideologiche che l’autore abbia sviluppate in se stesso, proprio a contatto col materiale narrativo. È questa la ragione base per cui lo stile del realismo non potrà adagiarsi mai in quello del puro visibilismo ma dovrà fare continuamente i conti con le leggi della coscienza individuale e collettiva, pur senza rifiutare un significato formale nel sostanziale. Né potrà adeguarsi al puro filologismo che vede solo l’astratta serie storica degli oggetti rappresentati senza darne i valori di prospettiva e di ricollocazione, senza cioè documentarne le crisi interne e i travagli (e semmai le involuzioni), e senza registrarne le risonanze più complesse. È questa la ragione per cui lo stile realista troverà il suo sviluppo interno nella concomitante e sincrona scelta degli oggetti, situazioni e relazioni in quanto significanti e non transeunti, azioni drammatiche di spessore 99 A.HAUSER, Storia sociale dell’arte, Torino 1956 183 non limitato. In questo senso lo stile si confonde con la selettività semantica come sgorga dall’intuizione intesa nell’accezione da noi proposta nel saggio precedente. La storia genetica del realismo è una storia di tendenze che non esclude affatto altre corsie, altre carreggiate anzi cerca di associarsene i valori vitali, dato che il principio da cui nasce è quello che l’arte ha sempre una sua positività, un suo incontrovertibile valore vettoriale essendo sforzo «in progress» di comprensione e di chiarificazione. Ed è la stessa natura temporale di racconto drammatico che vieta al film di inglobare il decorativismo, il puro giuoco tattile e visivo, che lo spinge a scansare l’impianto teatrale, quegli interni che non danno mai l’impressione della quarta parete e svelano tutte le “convenzioni” dalle quali sono generati; che gli fa evitare l’impostazione teatrale della voce, che l’induce, anzi, a dare
a questa una sua “socialità” accettandone le deformazioni dialettali come accenti più spontanei e anche più significativi di una data realtà. La natura, nello stile realista, non potrà esser mai ridotta a forme geometriche, espressive di soli rapporti spaziali, ma dovrà essere ricostruita come grado della coscienza, valore ambientale che si fonde e si attua nell’organicità dell’inquadratura e della sequenza. Realismo quindi non come resoconto dei fatti o serie indiscriminata di accadimenti, ma intervento interpretativo e selettivo dell’autore nei confronti della realtà, secondo il registro culturale della sua personalità e non secondo il solo indistinto timbro del temperamento. Da queste considerazioni ne discende come conseguente un’altra e cioè che il montaggio nel cinema di tendenza realista - senza che venga messa in discussione la sua importanza - è solo un metodo per enucleare il significato di ogni inquadratura attraverso il suo collegamento ad altre e per coordinare il racconto; in questo senso la dinamica dello sviluppo narrativo non può essere legata ad una teoria prefissata (montaggio delle attrazioni, montaggio interno etc.) ma dovrà correre parallela al modo interpretativo globale che senza essere necessariamente esplicativo o informativo ha dentro di sé una capacità di orientamento e di giusta impostazione dei problemi vivi dell’uomo. Così discende anche che la funzione ritmica, scansiva del montaggio segue i rapporti di significato e non i semplici canoni di una astratta estetica che coinvolga tutto in “espressione musicale” : ciò d’altra parte non postula che, per partito preso, vengano elimi-nati elementi tipici della linguistica musicale quale silenzio, pausa, rap-184 porti di tono etc. ma implica che essi non si usino come cose a se stanti e che siano fine a se stesse. Si ricollega a questa concezione dello stile la giusta correzione che Brecht portava a Lukacs quando si domandava se potesse essere che solo certi romanzieri dell’ottocento davano norme di realismo. Dice Brecht: “Non possiamo desumere senz’altro da determinate opere esistenti il realismo, ma utilizzeremo in maniera viva tutti i mezzi vecchi e nuovi, sperimentati e non, attinti all’arte e altrove per consegnare nelle mani degli uomini viventi, affinché sappiano padroneggiarla, la realtà. Ci guarderemo dal definire, per esempio, realistica soltanto una determinata forma storica del romanzo di una determinata epoca diciamo pure quella di un Balzac o di un Tolstoj - elaborando così per il realismo criteri puramente formali e letterarii. Né parleremo di stile realistico soltanto quando, per esempio, sia possibile odorare, gustare, sentire “tutto”, quando ci sia atmosfera o quando l’intreccio sia condotto in maniera tale da determinare solo una descrizione spirituale dei personaggi. Il nostro concetto di realismo deve essere largo e politico, liberale da un punto di vista estetico, sovrano di fronte alle convenzioni”. E aggiungeva: “I criteri di popolarità e di realismo devono essere scelti con generosità e nel medesimo tempo con oculatezza e non devono venir desunti soltanto da opere realistiche e popolari già esistenti, come spesso succede. Procedendo in questa maniera si elaborerebbero criteri del tutto formalistici ed una popolarità ed un realismo determinati unicamente dalla forma” 100. Ci sembra pertanto che non sia stata del tutto paradossale la nostra limitata esemplificazione sul piano delle opere esistenti, dato che nei pochi film citati e nel periodo esaminato abbiamo tenuto ad individuare soprattutto il realismo come una tendenza, un orientamento più che una astratta mèta raggiunta. Resta sempre che il diventare è più importante dell’essere, più vivo e, in fondo, più umano: marcia di avvicinamento ad un orizzonte che esso stesso è in movimento, cammino non disordinato ma senza termine, dialettico e non freddamente progettato, che è l’autentico carattere di struttura della storia dell’uomo. 100 B. BRECHT, Popolarità e realismo, in “Europa Letteraria” , N.1. 185
Roberto PAOLLELA “Antonio Napolitano - «Film, significato e realtà»” La premessa dettata da Antonio Napolitano come introduzione al suo studio: Film significato e realtà vale subito a conciliargli la simpatia del lettore perché denota in lui certe doti di equilibrio e di interiore distensione ormai rare in quelle correnti critiche le quali “invece di confluire in una completezza storica stanno a scontrarsi sull’alveo sempre più arduo di una lunga polemica”. Invece, per Napolitano “la comprensione a tendenza globale dei fenomeni artistici o artigianali non può escludere alcun istrumento o vincolo informativo e teorico; e Lukasz non deve escludere necessariamente Gramsci né Della Volpe, Croce, né Plechanov, Engels”. Questo armonico punto di vista presiede infatti al lungo capitolo (il secondo) che l’A. dedica ad Il Film e i problemi del realismo; al punto che esso può anche esser letto,
almeno in parte, in chiave idealistica senza che per questo l’autore incappi in un superficiale eclettismo, e tanto meno dia luogo ad equivoci sul suo atteggiamento, come meglio vedremo nel corso di questa trattazione. Innanzi tutto, Napolitano disconosce, anche in altri suoi scritti, la teorica dell’arte come semplice specchio della realtà sociale che costituisce la base di tutte le estetiche così dette “ingaggiate” , in speciale modo “del realismo socialista di marca staliniana” e di un “certo neorealismo nostrano, imbevuto di fideismo rivoluzionario” il quale “più che rispecchiare la realtà riflette solo gli articoli di una ideologia statica ed a fortiori schematica se non ipocrita” per quanto “cara ai ricercatori di formule politiche, agli incasellatori dell’operato artistico, inquisitori di ogni eresia commessa contro le tavole sacre e che ammettono solo 186 tardive auto-critiche”. Per lo meno egli postula l’esigenza di uno specchio “che sia esso stesso in movimento, in vibrazione, e sappia non solo riflettere ma sondare i segmenti e gli strati più riposti ma decisivi dello sviluppo della storia umana” al punto, ci permettiamo di aggiungere, di non essere più specchio. In proposito Ernst Fischer, a buon diritto ritenuto oggi il pioniere dell’estetica marxista, pone ben in luce le due diverse interpretazioni correnti su di essa: quella di Lukasz, per cui l’arte è solo “una forma di conoscenza e quindi lo specchio di una realtà obiettiva già data e cioè bell’e fatta” e quella contraria, condivisa tra gli altri anche da Brecht, per cui l’arte è concepita «come un atto creativo e quindi non come imitazione della natura” . Inutile dire che questa interpretazione appare all’esame di Fischer assai più vicina al pensiero di Marx per cui “la realtà attraverso il processo dell’arte viene umanizzata dall’uomo” ; e Napolitano condivide pienamente questo secondo punto di vista, là dove, venendo a parlare della posizione del regista cinematografico, nella impostazione dell’opera di arte, esige che egli proceda alla rielaborazione sintetica dei così detti valori obiettivi, organizzando le impressioni ricevute dall’esperienza, modificando estendendo o comprimendo l’oggetto, sulla base di concentriche selezioni di gusto, cultura e senso storico, o, il che è l’equivalente, sulla base delle insite qualità semantiche. E quanto poco sia equivoco ed eclettico l’atteggiamento del Napolitano, sul punto, risulta là dove egli critica la poetica zavattiniana oggi degenerata nel film inchiesta, e cioè “dell’uomo che si incontra all’angolo della strada” o del “coinquilino guardato attraverso il buco del muro” e che poi è ancora quella di Dziga Vertov; e cioè della scena non voluta né ordinata dall’arte e sorpresa dall’occhio della camera così come l’occhio umano registra senza volerlo, a somiglianza di uno specchio, qualunque fatto del mondo esterno. Invece Napolitano conferma il principio che anche nel più scialbo documentario un filtro (creativo) sia pur minimo non può non essere presente: e cioè sempre “il filtro storico, coscienziale e morale dell’artista creatore”. Con questo egli è però lungi dal sostenere che l’arte non debba riflettere le aspirazioni dell’epoca ad essa contemporanea (e come potrebbe non farlo, ci accingiamo a chiedere) sempre però “da identificare a posteriori, non a priori come puro atto di volontà, ma proprio come incarnazione spontanea dei temi viventi e fermentanti in un periodo storico” . Qui è il punto. In altri termini “occorre partire dall’uomo per illustrare l’idea e non viceversa” . La differenza di questo atteggiamento con la posizione idealistica 187 consiste, secondo il Napolitano, proprio in questo: che l’artista realista non crea per creare (in senso, per così dire, intransitivo) per generare “cioè passioni ed idee trasferite nell’assenza e che bruciano nel vuoto per non servire a nulla” in nome della teoria dell’arte per l’arte fine a sé stessa, ma crea per creare ciò che crea, e cioè “passioni ed idee che siano sempre in reazione diretta ed indiretta con l’ambiente, lungo una linea parallela alla dialettica della storia, al movimento della società ed alla trasformazione della natura”. Noi naturalmente contestiamo che questa (così detta) posizione dell’arte per arte coincida con quella dell’Idealismo. E Napolitano riporta onestamente il brano di Croce, tolto dai Problemi di
Estetica; con cui egli rivendica “l’importanza dell’interpretazione storica per la critica estetica o meglio stabilisce che la vera interpretazione storica e la vera estetica coincidono”. Bisogna cioè diceva Francesco De Sanctis “approfondire la Storia per conoscere gli incentivi dell’alta Creazione”. Con quanto finora abbiamo detto, pensiamo di aver inquadrato con una certa aderenza gli orientamenti del Napolitano sul piano esegetico ed estetico. Ma conciò non abbiamo ancora affrontato il nucleo centrale dell’opera che è la trattazione del cinema sul piano della sua struttura semantica. E’ noto come la semantica linguistica era ritenuta fino a qualche tempo fa la semantica per eccellenza. Ma in seguito quasi tutti gli studiosi convengono acché “il termine venga applicato ad ogni genere di segni. Così si paria della funzione semantica dei colori nei blasoni, o nei vessilli della marina, del valore semantico di un gesto, di un grido, di un segno qualunque attraverso il quale noi trasmettiamo un messaggio agli altri” . Il linguaggio parlato dice lo Jacobson rappresenta solo un rapporto di sovrastrutture all’Interno di una struttura più ampia. E la lingua non è che uno di questi sistemi di segni. Alcuni studiosi però non sono precisamente di questo avviso, ritenendo che le espressioni linguaggio della musica o semantica della pittura siano ancora delle metafore, mentre sarebbero più appropriate le espressioni semantiche della danza o del teatro, dato che la parte di simbolizzazione è grande in tutte le arti spettacolari. Ne deriva che anche per costoro si potrebbe sempre parlare e a buon diritto, di semantica del cinema. Certo, dice il Della Volpe, occorre uno sforzo inconsueto per rintracciare il pensiero non più nel segno verbale ma poi anche lui conclude affermando la possibilità di valutare, con lo stesso criterio della contestualità semantica, 188 opere non letterarie (non verbali) pittoriche, scultoree, architettoniche, musicali, filmiche. La forma di linguaggio corrispondente, grosso modo, alla sfera di ciascun senso comporta - ad un esame dettagliato eseguito da moderni autori - diverse gradazioni nell’interno di ciascuno di esso. Linguaggio visuale era per esempio quello gestuale del vecchio cinema muto, il cui carattere universale venne dimostrato attraverso la famosa esperienza svolta al collegio dei sordomuti di Washington101, con la partecipazione di sette indiani e di alcuni sordomuti; durante la quale i due complessi riuscirono a spiegarsi perfettamente solo attraverso i gesti. Linguaggio visuale è anche quello grafico della scrittura, sistema convenzionale e variabile per associare delle figurazioni grafiche ai diversi fonemi. Infine linguaggio visuale è pure quello che si svolge attraverso la comunicazione per mezzo delle immagini, di cui io riportavo l’esempio capostipite102 nelle storie senza parole dei giornali illustrati fin di secolo (oggi fumetti). A questo linguaggio visuale a base di immagini fotografiche, animate con l’apparecchio che ingiustamente passa col nome di Lumière, Napolitano dedica le sue notazioni semantiche sul piano cinematografico, gettando le basi di una trattazione rigorosamente scientifica - è tempo di chiarirlo - la quale non ha nulla a che fare con quella grammaticale o sintattica. Questa distinzione è essenziale per approfondire il pensiero del Napolitano e la sua decisa originalità. “In genere, egli dice, il pubblico crede che lo studio del linguaggio sia un’attività normativa, orientata verso la conoscenza e l’insegnamento di una corretta scrittura, senza cogliere le differenze strutturali che intercorrono tra grammatica linguaggio. Ma la grammatica, egli chiarisce, e la parte superiore di essa che è la sintassi, descrive solo le relazioni tra le parti del discorso che possono essere catalogate come costanti o almeno frequentemente ricorrenti nel fenomeno linguistico” secondo una tradizione descrittiva su basi, noi crediamo, prevalentemente logiche. Ma la grammatica — continua Napolitano non esaurisce “il significato ed il contenuto del linguaggio - che è lessico e variabilità di lessico, cioè stratificazione semantica, aggregazione neologica e struttura idiomatica” . Siamo così giunti al nucleo essenziale della materia prescelta che Napolitano investe con ferma sicurezza. E data la sua preparazione 101 Vedi Roberto PAOLELLA - Storia del Cinema Muto - Capitolo l°: Le origini e le funzioni del linguaggio mimicogestuale. 102 Roberto PAOLELLA - op. citata - Cap. 1°
189 non si tratta di un’ambizione sbagliata ma di una vocazione autentica di fronte ad una problematica che oggi appassiona gli studiosi del mondo intero, per quanto si tratti di una scienza ancora tutta da edificare. Intanto essa risponde ad un bisogno sentito dagli stessi artisti creatori. Così Pasolini considerando che gli uomini, oltre ai segni scritti (grafe-mi) e parlati (fonemi), adoperano anche le immagini «imsegni» opina che la differenza tra lo scrittore e l’autore cinematografico consiste nel fatto: che, mentre il primo lavora su materiale preesistente codificato (la così detta doppia articolazione fonica e grafica), il secondo, non disponendo di una vera e propria tradizione filologica, è tenuto a scoprire nel corso stesso dell’atto creativo i segni del suo linguaggio che sarebbero appunto gli imsegni. Solo che, continuando su questo piano, Pasolini incorre nell’errore diffuso tra i neo-semantici del cinema di applicare le descrizioni e i paradigmi propri della linguistica alla sua cinelingua dimenticando il suo stesso punto di partenza; che cioè noi non disponiamo attualmente di alcun mezzo tradizionale, ed elaborato in base a vere e proprie strutture semio-tiche, per tradurre la continuità del cinema in discrezione. Al contrario Napolitano rimane rigorosamente fedele alla sintagmatica propria del cinema; giungendo inoltre a constatare come il montaggio abbia addirittura influenzato buona parte degli stacchi della narrativa del 900, stimolandola a superare le barriere di un pedissequo svolgimento temporale. Buona parte, ma non tutta - ci permettiamo di aggiungere giacché il pedissequo svolgimento temporale era stato già superato da Joyce con l’Ulisse sin dal 1903, quando il cinema non poteva averlo influenzato.Il che non toglierebbe poi a Joyce il merito di aver inaugurato il primo cinema di Dublino!! Reagendo poi ad un certo atteggiamento della critica contemporanea che nega all’inquadratura un proprio valore semantico, Napolitano sottolinea l’importanza del montaggio interno, realizzato cioè nell’interno dell’inquadratura; e che consente al regista di ottenere una decisa imposizione visuale di ambiente o di atmosfera. Di questo assunto, egli ci offre un luminoso esempio, a proposito di una inquadratura di “Ladri di biciclette” ; quando “la bicicletta prescelta appare leggera ed atta a concedersi purché Ricci si sbrighi; mentre il palo, alto, scuro, minaccioso, sembra rappresentare la premonizione di ciò che può avvenire di rovinoso attraverso una sola mossa del braccio” . Sempre su questo piano rigoroso, che esclude i facili riferimenti analo-gici agli schemi della linguistica Napolitano passa poi all’esame di tutte le 190 altre forme del linguaggio cinematografico: primo piano, stacco, dissolvenza etc. Coerente infine a quella che poi sarà l’impostazione dell’altro capitolo, il Napolitano è lungi dal considerare l’arte cinematografica come specchio della realtà obiettiva o passiva registrazione fotografica. E questo perché anche il linguaggio cinematografico, come quello verbale, è una “rielaborazione costruttiva della realtà, dato che i segni linguistici e soprattutto i simboli semantici sono sempre una trasformazione di materia, rapporto, o gesto umano, in veicolo significante cui è conferita una struttura e una funzione appropriata alla finalità estetica”. Resta piuttosto da prendere in esame proprio sul piano semantico i rapporti tra gli elementi visuali della composizione filmica e quelli sonori ai quali l’autore fa spesso riferimento nel corso della vasta trattazione. Ora a noi pare che, nel film sonoro-parlato, il testo visivo e quello sonoro diano, allo stato attuale della tecnica concernente il secondo, l’esempio di una profonda alienazione - giacché mentre la parte visuale del film è pervenuta ad una purezza e raffinatezza di linguaggio esemplare, la colonna sonora è ancora allo stato di barbarie. In effetti, l’attuale mondo sonoro ridotto a pochi rumori standardizzati, ed a un dialogo di voci il cui ascolto sembra provenire da ogni posto della sala (perfino dai gabinetti di toletta, in virtù della colonna stereofonica) tranne che dal soma dei personaggi, è di una scoraggiante inadeguatezza. E questo senza dire della qualità dei suoni per cui le scale di legno emet-tono il sibilo dei serpenti a sonagli, i bicchieri cozzano con il rumore dei carri ferroviari e le bottiglie si svuotano col rantolo dei moribondi. Quale sincronismo è allora possibile tra i due mezzi di espressione l’uno perve-nuto all’apice della perfezione semantica, l’altro ancora allo stato, diremo, trogloditico?
Allo spettatore attento ipotizzato da Napolitano questa «disalleanza» deve proprio dare l’impressione di un’arte bastarda più che composita i cui elementi figurano assai male assortiti. Questa un’altra delle riflessioni che mi suggeriva il libro di Napolitano. E, infine, come può essere impiantato un serio discorso semantico sulla parte linguistica della composizione filmica, se essa è ancora comunicata agli spettatori, che non siano i nativi del paese di produzione, attraverso il doppiaggio; la cui fondamentale aberrazione si manifesta al momento in cui la parola, definita da Valéry l’onore degli uomini, viene fatta abortire sulle labbra della creatura umana, per essere sostituita dal suo surrogato acustico?! Ogni volto ha la sua voce: si dice. Questo mistero così profon-191 damente umano risulta intimamente profanato da un siffatto trucco dia-bolico e grottesco destinato solo a perpetuare l’espediente di Cirano con i mezzi del baraccone foraneo. Per il fatto stesso di essere un’arte nuova dice Gillo Dorfles è logico che “questa arte abbia leggi sue e suoi attributi specifici ed inediti. In effetti egli continua - io ritengo di considerare, per il bene e per il male, la necessità di una autonomia del linguaggio filmico che sia nettamente distinto da quello plastico-figurale, letterario, musicale, anche se si avvale di numerosi elementi tolti in prestito da essi” . Lo sforzo inconsueto di Napolitano è appunto destinato a costituire questo vero e proprio corpus semantico dell’arte cinematografica. Anzi riteniamo che il presente volume sia solo un proemio alla trattazione completa e definitiva della materia prescelta: alla quale l’A. vorrà ancora dedicare le risorse del suo talento e della sua non comune preparazione culturale. 1967 192
Giampiero BRUNETTA “«Film, significato e realtà» di A. Napolitano” L’originalità e l’importanza di “Film, significato e realtà” di Antonio Napolitano nel campo della nostra pubblicistica cinematografica sono quelli di utilizzare per la prima volta in modo organico i risultati di studi e di discipline sinora applicati ad altri campi di indagine e di sollecitare una discussione sugli aspetti propriamente semantici dell’opera cinematografica (aspetti semantici come elemento di coagulazione di tutti i problemi sollevati dal linguaggio cinematografico) innestando positivamente i contributi di semantica, di sociologia,in un rigoroso discorso sull’opera cinematografica. Vorremmo limitarci, in questa breve nota critica, a porre in rilievo le caratteristiche generali dell’opera di Antonio Napolitano, anche perché dato l’interesse del volume ci ripromettiamo di tornarvi sopra e di analizzarlo con una certa attenzione; per questo ci pare che il merito maggiore di questo volume, ed in particolare della prima parte (cinema e significato) consista nella sua straordinaria apertura problematica. Ossia nella dialetticità di impostazione, nel prevalere di quello che è l’interesse metodico su quello sistematico: si ha la sensazione seguendo il discorso dell’autore, che una volta che egli ha dato una sua risoluzione di un problema (il prevalere ad esempio dell’aspetto iconico nel film) non escluda affatto la possibilità di allar-gare i termini del problema, di negare sempre, a contatto con l’opera particolare i postulati generali della discussione. Ci pare che l’intenzione dell’autore sia di chiarificazione e di auto chiarificazione nel senso di creare un terreno base di discussione su alcuni problemi nel cinema da osservare da più punti di vista, non per imporre un metodo critico che di necessità escluda automaticamente tutti gli altri, ma per sollecitare il confronto di più metodi critici capaci di portare ognuno, nel modo più pertinente 193 alle proprie possibilità di applicazione un contributo attivo alla conoscenza del cinema come fenomeno estetico linguistico. Il libro si struttura in due parti: nella prima (cinema e significato) l’A. esamina il valore semantico dell’immagine cinematografica nella opera filmica, la specificità di alcuni stilemi linguistici ed il loro rapporto funzionale rispetto alla struttura dell’opera. Il ricorso ad alcune esplificazioni di analisi di sequenze di film ( Ladri di biciclette e La Passione di Giovanna d’Arco) non solo ha il compito di mostrare concretamente il senso preciso di rispondenza della materia cinematografica alla teorizzazione generale, ma di stimolare ad una utilizzazione conforme su altre opere cine-matografiche. Così l’analisi dei rapporti tra il momento emozionale e quello intellettuale della fruizione filmica viene proposta non in termini di contrapposizione, ma di integrazione in mode da suscitare nello spettatore “il senso globale della vita”.
Il paragrafo più interessante di questa parte del volume è quello dedica-to all’esame del contenuto, forma, informazione dell’immagine filmica: l’immagine come segno iconico e come segno preciso e razionale quindi linguistico, l’immagine nella sua qualificazione polisemica, ossia nella sua possibilità di significare oltre alla realtà immediatamente rappresentata, (il concetto di “rinvio” che dispone nella opera più livelli semantici), qui la caratteristica dell’immagine cinematografica è evidenziata in una indagine di scomposizione e ricomposizione del discorso che ci pare lo esaurisca nei suoi termini più centrali. Interessante è la presenza di riferimenti alla teoria della informazione, al concetto di entropia, le cui possibilità di utilizzazione nel campo della critica cinematografica sono piuttosto notevoli per studi a carattere sistematico e non inficiati da un facile impressionismo. Nella seconda parte (il film ed i problemi del realismo) l’autore sembra mosso più che da intenti di sollecitazione alla discussione da una intenzione di fare il punto di concludere una discussione riproponendo il senso più vitale e dialettico del concetto di realismo come poetica, come arte che si fa raccogliendo l’eredità del passato e disponendosi come progetto per il futuro, come interpretazione complessa e aperta del mondo. Questo argomento - ovviamente - si inserisce su un terreno di discussione in cui i contributi non si contano, per questo rispetto alla prima parte la seconda è meno riera di indicazioni problematiche, mira piuttosto alla definizione, alla sistemazione di questo concetto. Nonostante questo, anche in questa parte - di cui peraltro alcune affermazioni storiche ci sembra che vadano integrate - la capacità di sintesi 194 organica delle diverse testimonianze e citazione in un discorso personale e ben preciso, emerge questa capacità di organizzazione della materia che. nasce solo da una perfetta consapevolezza critica e di assimilazione di tutti i contributi più importanti per la messa a fuoco del problema. La nostra speranza ed augurio è che l’Autore faccia di quest’opera il progetto per studi più comprensivi, nei quali intervengano alla luce della medesima esigenza storicistica, anche i metodi di studio strutturalisti, le cui possibilità di utilizzazione sono grandissime, e dei quali per il momento l’autore non si è ancora interessato in funzione di un discorso cinematografico. 1966 195 INDICE DEI NOMI ADORNO Theodor Ludwig Wiesengrund, 113, 145, 146, 150, 181 ALAIN, Émile-Auguste Chartier , 97 ALVARO Corrado, 64 ANTONIONI Michelangelo, 66, 119, 167 ARAGON Louis, 129 ARATA Ubaldo, 162 ARISTARCO Guido, 14, 108 ARNHEIM Rudolf, 14, 19, 108 ASSUNTO Rosario, 164, 165 AUERBACH Erich, 104, 153 B BALAZS Béla, 19, 40, 95, 96 BALLY Charles, 56, 93 BALZAC Honoré de, 159, 160, 185 BARBARO Umberto 137, 162, 163, 176, BARTHES Roland, 40,41, 59 BAZIN André, 38, 54,
BEATO ANGELICO Giovanni da Fiesole, 57 BERGMAN Ingmar, 6, 119 BERGSON Henri, 28 BIANCHI BANDINELLI Ranuccio, 137 BIELINSKIJ Vissarion Grigor’evic, 170 BLASETTI Alessandro, 168 BLOCH Joseph, 180 BOITO Camillo, 152 BRANDi Cesare, 14, 125 BRECHT Bertold, 185, 187 BRESSON Robert 6, 53, 120 C CALOGERO Guido, 151, 153 CARAVAGGIO Michelangelo Merisi, 66 CARNÉ Marcel, 20, 63 CASSIRER Ernst, 14, 94 CERVANTES Miguel de, 160 196 CHAPLIN Charles, 19, 42, 107, 112, 120, CHIARINI Luigi, 19, 165, 166 CHIAROMONTE Nicola, 69 CHRISTUS Petrus, 81 CIAURELI Michail Edišerovic, 161 CLAIR René, 63 COHEN-SÉAT Gilbert, 44, 71, 119, 136 CRASHAW H. , 142 CROCE Benedetto, 17, 19, 86, 92, 93, 115, 117, 175, 186, 188 ČERNYSEVSKIJ Nikolaj Gavrilovic, 174 D DEGAS Henri, 64 DELLA BELLA Stefano, 64 DELLA VOLPE Galvano, 17, 24, 142, 144, 179, 186, 188 DEMOCRITO, 71 DE NITTIS Giuseppe, 64, 150 DE SANCTIS Francesco, 112, 165, 188 DE SANTIS Giuseppe, 162 DE SICA Vittorio, 29, 119, 155, 165 DEWEY John, 100 DORFLES Gillo, 13, 96, 115, 192 D’ORS Eugeni, 24 DOS PASSOS John, 20, 51 DOSTOÏEVSKI Fiodor Mikhaïlovitch, 51
DREYER Carl Theodor, 19, 45, 53, 70, 71, 72, 73, 76, 78, 81, 82, 84, 86, 87, 89, 90, 107, 111, 112, 120, 151 DUFY Raoul, 63 DUVIVIER Julien, 63 E ĖJZENŠTEJN Sergej Michajlovic, 14, 19, 24, 25, 45, 51, 84, 85, 104, 107, 112, 118, 124, 145, 177 ELIOT Thomas Stearns, 59 ENGELS Friedrich, 17, 134, 159, 160, 161, 172, 180, 186 ENSOR James, 82 ERACLITO, 18 197 F FALCONETTI Renée, 82 FANO Giorgio, 41 FELLINI Federico, 145 FEUERBACH Ludwig, 129, 149 FIGUEROA Gabriel, 64 FISCHER Ernst, 187 FISCHINGER Oskar, 47, 141 FORD John, 142 FREUD Sigmund, 150 G GAD Urban, 129 GOEBBELS Joseph Paul, 69 GOETHE Johann Wolfgang von, 172 GRAMSCI Antonio, 17, 149, 170, 179, 180, 182, 186 GUTENBERG Johannes, 135 H HARKNESS Margaret, 159 HATHAWAY Henry, 122 HAUSER Arnold, 14, 19, 20, 183 HAWTHORNE Nathaniel, 66 HEGEL Georg Wilhelm Friedrich, 129 HERBERt George, 142 HITCHCOCK Alfred, 122 HITLER Adolf, 94 J JACOBSON Roman Osipovič , 188 JAMES William, 28 JANET Pierre, 111 JASPERS Karl, 99, 100 JOYCE James, 190
JUNG Carl Gustav, 117, 127 K KAPLAN Abraham, 14, 56, 57, 58 KANT Immanuel, 68, 104 KAUTSKY Minna, 134 198 KRACAUER Siegfried, 55, 94, 120, 122 KIERKEGAARD Soren, 150 L LABRIOLA Antonio, 161, 162 LANG Fritz, 73, 122 LANGER Susanne, 14, 70, 131, 132 LASSALLE Ferdinand, 178, 180 LENIN Vladimir Il’ic Ul’janov, 173 LEONARDO di ser Piero DA VINCI, 48 LEYDA Jay, 26 LOYSELEUR Nicolas, 81 LUKACS György, 17, 133, 158, 159, 160, 168, 169, 171, 173, 174, 179, 180, 181, 185, 187 LUMIÈRE fratelli Auguste e Louis, 189 M MACHADO Antonio, 18 MAGGIORANI Lamberto, 31 MANVELL Roger, 19 MARCEL Gabriel, 122, 129 MARX Karl 49, 50, 148, 149, 150, 160, 169, 180, 187 MEMLING Hans, 81 MERLEAU-PONTY Maurice, 19, 67, 68 MILLER Henry, 19, 131 MITRY Jean, 40, 70 MOLANDER Gustaf, 86, 87 MORIN Edgar 21, 22, 108, 112, 113, 128 MORAVIA Alberto, 48, 68, 69 MORPURGO-TAGLIABUE Guido, 114 MORRIS Charles William, 14, 45, 54 MUNK Kaj, 86, 87, 89 MURNAU Friedrich Wilhelm, 122 N NAPOLEONE III, 64 O OROZCO José Clemente, 64 ORTEGA Y GASSET José, 96, 111 199
OSGOOD Charles Egerton, 48 P PABST Georg Wilhelm, 122 PANOFSKY Erwin, 19, 70, 71, 131, PAOLLELA Roberto, 189 PAOLUCCI Giovanni, 162 PASOLINI Pier Paolo , 190 PAULHAN Jean, 150 PAVESE Cesare, 66 PEIRCE Charles Sanders, 14, 57 PIRANDELLO Luigi, 168 PISSARRO Jacob Abraham Camille, 63 PLECHANOV Georgij Valentinovic, 17, 177, 186 POE Edgar Allan, 66 PORTALUPI Piero, 162 PROKOFIEV Sergej Sergeevic, 25 PROUST Marcel, 126 PUDOVKIN Vsevolod Illarionovic, 14, 19, 130, 169 PURIFICATO Domenico, 150, 151 PUSKIN Aleksandr Sergeevic, 85 R RAFFA Piero, 66, 113, 114, 128 RAGGHIANTI Carlo Ludovico, 19, 131 RENOIR Jean, 53, 63, 64, 70, 151 RICHTER Hans 47, 70, 141 RIVERA Diego, 64 ROBBE-GRILLET Alain, 171, 174 ROSAI Ottone, 66 ROSSELLINI Roberto, 10, 162 ROTUNNO Giuseppe, 131 ROUAULT George, 57 RUTTMANN Walter, 162 S SAINTE-BEUVE Charles Augustin de, 134 SALINARI Carlo, 163, 164, 179 200 SARRAUTE Nathalie, 51 SARTRE Jean Paul, 97 SEGRE Serge, 93 SERENI Vittorio, 165 SHAKESPEARE William 5, 6, 70, 142 SIQUEIROS David Alfaro, 64
SISLEY Alfred, 63 SOAVI Giorgio, 165 STANISLAVSKIJ Konstantin Sergeevic, 27, 28 STARKENBURG Hans, 172 STEINER Alberto Massimo Alessandro, 43 STEVENS George, 122 STROHEIM Erich von, 53 STURTEVANT Edgar Howard, 42 T TAINE Henri, 137 TERZANO Massimo, 162 TIZIANO Vecellio, 138 TOLSTOJ Lev Nikolaevic, 160, 168, 185 TONTI Aldo, 162 TOULOUSE LAUTREC Henri Marie Raymond de, 64 V VALÉRY Paul, 120, 142, 191 VALSECCHI Marco, 20 VAN DER GOES Hugo, 81 VAN DER PAELE Joris, 81 VAN DER WEYDEN Rogier de la Pasture, 81 VAN EYCK Jan, 81 VARESE Claudio, 66, 78, 81, 95, 165 VERGA Giovanni Carmelo, 66 VERTOV Dziga, 187 VESPIGNANI Lorenzo, 20 VICO Giambattista, 171 VISCONTI Luchino, 45, 112, 119, 120, 132, 152, 153, 162, 165 VITTORINI Elio, 145 201 W WAGNER Richard, 25 WEBSTER John, 140 WELLES George Orson, 53 WHITEHEAD Alfred North, 101 WIENE Robert, 60, 73, 122 WITTGENSTEIN Ludwig Josef Johann, 40 WRIGHT MILLS Charles, 157 Z ZAVATTINI Cesare, 29, 155 ZOLLA Elémire, 19, 94, 95, 96, 131 202
INDICE DEI FILM 1 “1860”(1934) di Alessandro Blasetti, 168 A “Acciaio” (1933) di Walter Ruttmann, 162 “Aleksandr Nevskij” (“Александр Невский” - 1938) di Sergej Michajlovic Ėjzenštejn, 24, 25, 51, 84, 104, 120, 154, 190 “Anno scorso a Marienbad”(L’) (L’année dernière à Marienbad - 1961) di Alain Resnais, 125 “Assunta Spina” (1915) di Francesca Bertini e Gustavo Serena, 168 “Avventura” (L’) (1960) di Michelangelo Antonioni, 154 B “Ben Hur” (1959) di William Wyler, 81, 84 “Birth of a Nation” (The) (1915) di David Wark Griffith, 21 C “Cantieri sull’Adriatico”(1933) di Umberto Barbaro, 162 “Condannato a morte è fuggito” (Un) (Un condamné à mort s’est échappé - 1956) di Robert Bresson, 120 “Corazzata Potëmkin” (La) (Броненосец “Потёмкин - 1925) di Sergej Michajlovic Ėjzenštejn, 22, 139 “Cinque terre”(Le) (1942) di Giovanni Paolucci, 162 D “Dies Irae” (Vredens Dag - 1943) di Carl Theodor Dreyer, 82 “Dolce Vita” (La) (1960) di Federico Fellini, 145 F “Fine di S. Pietroburgo” (La) (Конец Санкт-Петербурга - 1927) di Vsevolod Illarionovic Pudovkin, 176 G “Gabinetto del Dottor Caligari”(Il) (Das Cabinet des Dr.Caligari - 1920) di Robert Wiene, 60 L “Ladri di biciclette” (1948) di Vittorio De Sica, 29, 90, 115, 154,155, 190, 194 M “Miracolo a Milano” (1951) di Vittorio De Sica, 155 203 N “Non c’è pace tra gli ulivi”,(1950) di Giuseppe De Santis, 162 O “Ordet” (1955) di Carl Theodor Dreyer, 82, 112 “Ordet” (1943) di Gustav Molander, 86, 87 “Ossessione” (1943) di Lucchino Visconti, 63, 162, 168 P “Paisà” (1946), di Roberto Rossellini, 115 “Partie de campagne” (Une) (1936) di Jean Renoir, 151
“Passione di Giovanna d’Arco” (La) (La Passion de Jeanne d’Arc - 1928) di Carl Theodor Dreyer, 72, 73, 76, 82, 112, 151, 154, 194 “Portofino”(1939-1941) di Giovanni Paolucci, 162 “Posto delle fragole” (Il) (1957) di Ingmar Bergman, 120, 146 Q “Quatorze Juillet”(1933) di René Clair, 63 R “Rocco e i suoi fratelli” (1960) di Lucchino Visconti, 132, 154, 167 “Roma città aperta”(1945) di Roberto Rossellini, 115, 139, 162 S “Sciuscià”(1946) di Vittorio De Sica, 155, 176 “Senso” (1954) di Lucchino Visconti, 152 “Sperduti nel buio” (1914) di Nino Martoglio, 168 T “Terra trema” (La) (1948) di Lucchino Visconti, 63, 153, 168 U “Umberto D.”(1952) di Vittorio De Sica, 154, 155, V “Vitelloni” (I)(1953) di Federico Fellini (I), 154 204
Document Outline IN MEMORIAM Dello stesso autore Indice BIOGRAFIA INTRODUZIONE DI G.dORFLES PREMESSA I - CINEMA E SIGNIFICATO Tecnica dell’espressione Il terminus ad quem Contenuto, forma e informazione dell’immagine filmica Forma come contenuto e contenuto come forma Ambiguità o indeterminatezza Identificazione e cinema “intellettuale” Arte di una tecnica La mediazione del critico II - IL FILM E I PROBLEMI DEL REALISMO R.PAOLLELA - “Antonio Napolitano - “Film significato e realtà” G.BRUNETTA - “Film significato e realtà” di A. Napolitano” Indice dei nomi Indice dei film