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Italian Pages 105 [70] Year 2018
SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Vol. 2 Shakespeare sullo schermo Laurence Olivier Akira Kurosawa Orson Welles Grigorij Kozincev Jiri Trnka e altri saggi 1 Copyright 2016 - 2018 Marina Napolitano Doriomedoff Tutti i diritti riservati Edizione, fotografie e progetto grafico a cura di Marina Napolitano Doriomedoff Si ringrazia la gentile Professoressa Daniela Menetto che mi ha concesso l’uso di una sua fotografia per il testo “La cultura cinematografica oggi: una crisi temporanea?” 2
3 4 IN MEMORIAM “…So they lov’d, as love in twain Had the essence but in one; Two distincts, division none: Number there in love was slain.” W.SHAKESPEARE – “THE PHOENIX AND THE TURTLE” “…I, an old turtle, Will wing me to some withered bough, and there My mate - that’s never to be found again - Lament, till I am lost.” W.SHAKESPEARE - “THE WINTER’S TALE” ACT V, SC.3” A mio marito – 1 dicembre 1928 – 1 dicembre 2016
…”Farei torto al lettore se non ricordassi che Antonio Napolitano è un raffinato critico cinematografico: “Film significato e realtà” uscì con una prefazione di Gillo Dorfles,nel settore ha un nome e una ricca bibliografia, il saggio “Cinema e narrativa” è considerato un classico del genere perché la sua analisi filmica con strumenti semiotici è contemporanea alle prime indagini di Emilio Garroni e Umberto Eco”. CESARE DE SETA 5 DELLO STESSO AUTORE Totò, uno e centomila Tempo Lungo, Napoli 2001 G. Leopardi. Un taccuino napoletano, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2007 Il memoriale di Seneca. Un galateo del ben vivere e del ben morire, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2008 Shakespeare: specchio del mondo. Lo stile come messaggio, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2010 Cinema d’autore off Hollywood, Ist.Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2012 ANSIA VIVA – Momenti lirici Amazon – Ebook Kindle – 2016 IDEOGRAMMI esercizi a mente libera POLITICOPOLI epigrammi sale e pepe Amazon – Ebook Kindle - 2016 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 1: Ingmar Bergman Robert Bresson Andrej Arsen’evič Tarkovskij Amazon – Ebook Kindle – 2016-2018 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 3: Film significato e realtà Amazon – Ebook Kindle - 2017 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 4: Cineasti russi a Parigi (1917-1950), Ėjzenštejn teorico Tra gelo e disgelo & altri saggi Amazon – Ebook Kindle - 2018 6 INDICE IN MEMORIAM 5 Dello stesso autore 6 BIOGRAFIA 9 “A GUISA DI PREFAZIONE…” 11 SHAKESPEARE SULLO SCHERMO 13 LAURENCE OLIVIER INTERPRETE E REGISTA 30 UN OMAGGIO ALL’OCCIDENTE DI GRIGORIJ KOZINCEV
39 ORSON WELLES, IL REGISTA “ARRABBIATO” 49 AKIRA KUROSAWA: UN SOL LEVANTE SUL MONDO OCCIDENTALE 57 JIRI TRNKA: UN GRIMM DELLO SCHERMO 74 QUALE CINEMA PER LA TV? 85 LA CULTURA CINEMATOGRAFICA OGGI: UNA CRISI TEMPORANEA? 90 Indice dei nomi 95 Indice dei film 101 Note 105 7 “Un nuovo lutto segna la nostra cultura. Ci ha lasciati infatti Antonio Napolitano, uno degli intellettuali italiani più raffinati e poliedrici. Antonio era un grande esperto di cinema e per anni le sue “cronache” hanno segnato in qualche misura la storia della cinematografia, cosa che gli valse anche in anni ormai lontani il premio Pasinetti cinema. E per lungo tempo è stato responsabile della rubrica sulla nostra rivista. Ma Napolitano era uno scrittore a tutto tondo i cui interessi andavano ben al di là dello specifico filmico. Era un grande esperto di cultura inglese ed ha tale proposito non si può non ricordare almeno il suo fondamentale lavoro sull’opera di William Shakespeare (cit. “Lo stile come linguaggio”). Ma conosceva anche -e bene- la letteratura italiana ed in particolare Giacomo Leopardi a cui aveva dedicato l’originale e immaginario “Taccuino napoletano”. Aveva un garbo non comune sorretto sempre, oltre che da un atteggiamento discreto, da una vena di ironia che gli proveniva dalla consuetudine con il “wit” inglese e sono memorabili del resto i suoi aforismi, un genere di cui si dilettava con passione e successo e per il quale non aveva mai perso il gusto, anche negli ultimi giorni di vita. Proprio in virtù di questa sua predisposizione gli avevamo chiesto di pubblicarli di volta in volta su “Arte&Carte” , un invito al quale Antonio aveva aderito generosamente. E proprio ora che non c’è più ci piace immaginarlo alle prese con l’aforisma più impegnativo, quello dedicato appunto alla sua esistenza. In un paese che troppo spesso ignora i suoi figli migliori e non sa sempre valorizzare il talento, non sarebbe sbagliato riflettere ora più attentamente sul percorso intellettuale e l’opera di questo illustre scrittore.”. ANTONIO FILIPPETTI “Arte & Carte” 03-31-2014 8
BIOGRAFIA Antonio Napolitano (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Tra 1947 e il 1959, Antonio Napolitano è socio poi dirigente del “Circolo Napoletano del Cinema” e di altri cineclub. Nel 1959, già insegnante abilitato in inglese, va a diplomarsi in Inghilterra in “General linguistics” . Dal 1956 inizia a collaborare a riviste letterarie e di cinema, tra quali “L’Italia letteraria”(FI), “Il Letterato”(CS), “L’altro cinema”(MI), “Cinema Sud”(AV) etc. Nel 1961 vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese negli Istituti Superiori statali. Nel 1960, ha ottenuto il “Premio Pasinetti-Cinema Nuovo” 1 a Venezia, per la saggistica filmica e collabora a “Cinema Nuovo”(MI), “Civiltà dell’immagine”(FI), “Le Artinews”(RO) e, in seguito a “Filmcritica” e altre pubblicazioni specializzate. Per conto di tali riviste, è stato, fin dal 1959, più volte inviato alle Mostre di Venezia, Locarno, Karlowj Varj, Salerno etc. Per lunghi anni ha collaborato a quotidiani con articoli di cinema e di linguistica (da “Il Mattino” di Napoli a “Il lavoro” di Genova, “La Voce della Campania” e altri. Vari suoi saggi sono tradotti in danese, svedese, inglese, e russo. 9 Nel 1969 ha consegnato la libera docenza universitaria in “Storia e Critica del cinema” e ha tenuto corsi e seminari presso Università statali e private. Dal 1963, per oltre un decennio, è stato nel Direttivo degli “Incon-tri internazionali del Cinema” di Sorrento e in quello del “Centro di filmologia” . E’ stato chiamato numerose volte a tener conferenze e presentazioni di film in istituti di cultura in Italia e all’estero.
Il suo è stato un lavoro di decenni teso ad una seria valutazione e degli autori partendo da valide basi di Estetica, al di là delle mode, dello “up to date” e della “novità” ad ogni costo. E’ deceduto il 31 marzo 2014 dopo una lunga malattia. Il suo ultimo saggio scritto in 2013, su Roberto Rossellini è stato pubblicato da recente dalla rivista “Arte e carte” 10
“A GUISA DI PREFAZIONE…” da “Shakespeare: specchio del mondo. ..” 11 “…Lo specchio-Shakespeare rivela le parti luminose come le zone in ombra delle diverse coscienze umane, i loro sentimenti nobili come loro istinti più aggressivi, i soliloqui ragionati come le pulsioni più malvagie e non frenate da alcun timore di nemesi o di catastrofe… …È quanto fa di lui un poeta “non di un tempo ma di tutti i tempi” e induce a considerarlo tout court “nostro contemporaneo” (Jan Kott). D’altra parte queste considerazioni non devono affatto portare ad interpretazioni attualizzate delle sue opere. È frivolo discutere, pertanto, di un suo eventuale “colonialismo” ,” antifemminismo” o “antisemitismo”, cosa dalla quale giustamente ci mette in guardia dal fare un recentissimo pre-fatore alle versioni in italiano (P.Bertinetti, 2005).
Perché, ciò che è metа storico e strutturale va sempre tenuto ben distinto da ciò che è transeunte. È ameno e quasi puerile riferire ogni opera d’arte alle mode odierne e agli umori e tic del giorno d’oggi, mere vernici cangianti. Ciò vale ancor più per Shakespeare che arriva fino al midollo delle passioni umane sublimandone l’essenza con la sua umanissima comprensione e offrendole limpide come cristalli che ci possano fare luce sul sentiero arduo della vita. Quei cristalli di cui son fatti i suoi “orologi che indicano lo scorrere del tempo e, insieme, i meccanismi e le molle che lo fanno muovere…” (J.W.Goethe). ANTONIO NAPOLITANO Napoli 2010 12
SHAKESPEARE SULLO SCHERMO 13
Un’opera di gusto esemplare, qual è il “Sogno di una notte di mezza estate” , tradotta dal regista cecoslovacco Trnka in una raffinata coreografia in miniatura e in cui i personaggi della fantasia-shakespeariana si ritrovano stilizzati, ma non traditi, nelle vesti di splendide e mutevolissime marionette, può indurre a considerare, seppure in rapida panoramica, i rapporti intercorsi fra le pagine del grande Bardo e la grande pagina bian-ca dello schermo. Fin dai tempi dei fratelli Lumière, infatti, molti testi (fra i maggiori e i minori) vennero utilizzati e manipolati da produttori privi di scrupoli culturali o pieni di ambizioni sbagliate se non assurde. Alla base di simili irriverenti o inconsapevoli atteggiamenti c’era però, confusa e male indirizzata, un’idea non del tutto errata: quella cioè che alcune di quelle opere contenessero, insieme ai pregi poetico-letterarii, i presupposti per una loro più completa attuazione drammatica e spettaco-lare. Le stesse didascalie e le strutture stesse del teatro elisabettiano sem-bravano invitare al tentativo. Ma la piatta, statica ripresa della rappresentazione teatrale non poteva bastare: ciò fu riconfermato da una opera ( Giulietta e Romeo) del regista americano Cukor che, se per certi versi si distaccava dal ciarpame pseudo-shakespeariano degli anni del muto, rivelava ancora nel ridondante con-testo scenografico, nella quasi completa assenza di ritmo, degli scompensi che non potevano venir pareggiati dalle interpretazioni di un Howard o di un Barrymore, sui cui volti pur vibrava spesso la verità umana della rag-giunta poesia. Del resto, lo stesso invadente commento musicale (l’omonimo poema sinfonico di Čajkovskij) si dimostrava a chiare note un facile surrogato della mancante ispirazione registica. E pur su di un altro piano, gli stessi appunti potevano esse mossi al “Midsummer’s night’s dream” di Reinhardt che nonostante la collabora-14
zione tecnica di un uomo di cinema come Dieterle, restò sopraffatto dalla sua grande e autentica passione per un così differente mezzo espressivo qual è il teatro. “Il sogno di una notte di mezza estate”( 1935) di W.Dieterle, M.Reinhardt Doveva essere un inglese, l’Olivier, formatosi alla scuola dell’ ”Old Vic”
nello studio e nella viva esperienza di quei “sacri” testi, a restituire in modo più fedele sullo schermo il dinamismo dello spirito e della azione e a liberare dai limiti impliciti e forzosi del boccascena l’energia visuale e immaginativa di quella “superna luce del mondo” . Dietro l’obbiettivo si era posto finalmente l’occhio di un poeta. La prima opera fu una acuta trasposizione di un “chronicle play” : l’ “Enrico V” . In essa venne resa col colore la sostanza dei caratteri e col ritmo l’azione interiore che riempie di sè l’azione esterna. I volti furono così quei mira-colosi orologi di cui parla Goethe che coi loro quadranti di trasparente cristallo mostrano insieme l’ora e il farsi dell’ora. E fu ricreata, in un’ora nuovamente e tragicamente grande per la storia d’Inghilterra, l’epopea nazionale piena d’intimo timore, di destino accet-tato, di indomita speranza; vibrò in essa il suono di quel potente eppure agile anello d’acciaio che percepiva l’orecchio del Carlyle. Rare volte fu usato il cromatismo in così evidente funzione espressiva : 15
dal rosso fuoco del cuore agitato e della violenza guerriera, al viola livido del tradimento, al blu cupo del presagio ai toni di dolce pastello dell’amore che germoglia. 16
Non senza ragioni e non certo per un semplice giudizio emotivo un critico d’arte quale il Bonfante si indusse allora a fare i nomi di un Van Eyck e di un Van der Goes. “Enrico V” (King Henry V of England - 1944) di Laurence Olivier Opera di uguale impegno fu il successivo “Amleto” . Se è vero che nella lunga, attenta preparazione Olivier si venne affezionando alla concezione freudiana del principe danese (“la prima nevrosi moderna, il primo tentativo di rifiutarsi alla realtà…” nondimento egli senti pure che in Shakespeare “il destino è l’uomo ed è l’uomo che dà persona ai suoi timori ed ai suoi desideri…” Anche la scelta, certo non casuale, del bianco e nero dimostrava la riso-luzione di un problema che egli si era posto con grande serietà d’intenti. In “Amleto” non sarebbero infatti bastati gli stacchi del colore, occor-reva incorporare la plastica parola- immagine nei cupi, incisi chiaroscuri di un’acquaforte. Indicative in questo senso erano anche le parole del poeta che aveva detto altrove: “We are such stuff as dreams are made of” . (Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni). Ci fu chi volle considerare un vero e proprio arbitrio questa traduzione in immagini operata dal grande regista inglese, per aver reso troppo “oni-rica” l’atmosfera, troppo equivoco il protagonista. A tali argomenti risponde in proposito e con un anticipo di decine d’anni il saggio di uno 17
“Amleto” ( Hamlet - Prince of Denmark -1948) di Laurence Olivier 18
“Amleto” ( Hamlet - Prince of Denmark -1948) di Laurence Olivier 19
studioso shakespeariano di chiara fama quale il Middleton Murry che tende proprio a giustificare quel tipo di ambiguità. Per ciò che riguarda più da vicino l’estrinsecarsi dell’opera cinematogra-fica basterebbe indicare il suo ritmo impeccabile, per cui gli stessi mono-loghi vengono resi come un lento affiorare della coscienza nell’aria umida e marcia di Danimarca. Così Olivier fa che lo spettatore legga la passione in certi bagliori degli occhi, o nei brividi stessi della narice, o nella esasperata tensione della fronte: tutti i simboli della vicenda umana, restituiti intatti dall’arte e da essa anzi fatti più intensi e vivi della stessa vita. L’interpretazione di Olivier, soggettiva come tutte le opere umane, è purtuttavia un dialogo diretto col testo, tesa com’è a sgombrare il campo da una casistica filologica e perciò extraestetica. Si può discutere su di essa ma non si può non ammettere che siano ben lontani da quei tratta-menti di cui parla Granville-Barker nella sua “Introduzione all’Amleto” : “Gli attori lo hanno arricciolato in forme che a loro parevano vaghe, gli eruditi lo hanno spianato fino ad appiattirlo, i registi lo hanno murato dentro le loro scenografie…” “Amleto” ( Hamlet - Prince of Denmark -1948) di Laurence Olivier Il linguaggio filmico di Olivier è dotato di una notevole forza di analisi e 20
per ciò che riguarda lo stile si possono dire evitati squilibri ed intempe-ranze e respinte molte tentazioni di gusto barocco. Il montaggio interno, senza stacchi, sembra guidare senza posa l’occhio dello spettatore sulle vicende di quei personaggi dal cuore dilacerato, creature messe alla luce dal più potente istinto
drammatico che gli uomini abbiano finora conosciuto e che riassumono nella loro emblematica storia i nostri stessi dubbi, i nostri smarrimenti, le nostre ansie terrestri. E così i movimenti di macchina sfuggono al decorativismo per raffor-zare la narrazione e rivelare i nuclei del dramma e i loro intimi raccordi con l’ambiente. L’ultimo lavoro shakespeariano di Laurence Olivier è il “Riccardo III” un testo che, a parte le sue splendide gemme sparse, si può dire minore, per la marca marlowiana che lo imprime e lo lega alla convenzione insieme senechiana e machiavellica dei personaggi principali. “Riccardo III” (Richard III - 1955) di Laurence Olivier Qui l’opera è stata risolta dal regista in maniera teatrale, tutta impernia-ta com’è sulle figure intere dei protagonisti; la stessa scenografia di una rigorosa aderenza al costume e al gusto dell’epoca, serve a concentrare l’azione in limiti ben segnati, quasi da palcoscenico. Ma anche qui, anche se in misura minore rispetto all’“Enrico V” , il colore talvolta suggerisce, talvolta comunica, talvolta assale. La violenza cromatica delle sequenze decisive rende la furia demoniaca dell’ambizione: e questo è il merito di Olivier che ha saputo speculare sui valori anche i più nascosti del testo. 21
“Riccardo III” (Richard III - 1955) di Laurence Olivier Mentre, comunque, tutte e tre queste opere si rifanno al gusto di equilibrato umanesimo che è tipico dell’ “Old Vic” , le due opere shakespeariane di Orson Welles rivelano il talento disuguale ma prorompente di questo “enfant terrible” di Hollywood. “Macbeth” di Orson Welles (1948)
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“Macbeth” di Orson Welles (1948) Il suo “Macbeth” pur viziato, come ebbe a notare acutamentel’Aristarco, da una sorta di barbarico narcisismo è un cupo, violento affresco derivato da un autentico medioevo scozzese, pieno di una spontanea carica emotiva portata al limite della tensione e che riesce a sconfi-nare con successo nel furore epico e primitivo che possiede il sogno folle dei Macbeth. Nell’altra opera di Welles. l’ “Otello” , invece, troppo spesso l’atmosfera tragica si disperde nella studiata composizione dell’inquadratura, in un manierismo calligrafico che denuncia la premeditazione. Ma anche in essa non mancano i pregi della recitazione e certe interessanti intuizioni sul carattere del protagonista. Al contrario, l’ “Otello” del regista sovietico Jutkevič, si rivela subito come frutto di pericolose semplificazioni culturali; in esso resta il melodramma dalle tinte troppo violente, come un “libretto” cui mancasse la forza e la passione della musica verdiana. Gli occhi del protagonista fanno luce solo dal di fuori, non esplorano l’anima del personaggio. Il film, anzi, per questa sia esteriorizzazione, merita di essere additato come un verace paradigma “a contrario” di trascrizione shakespeariana. 23
“Otello” (Othello - 1951) di Orson Welles “Otello il moro di Venezia”( Отелло - 1956) di Sergej Jutkevič 24
L’esempio, invece, di una trasposizione ad alto livello artiginale può ritrovarsi nel “Giulio Cesare” di Mankiewicz, in cui fanno spicco i valori della recitazione di un Mason (Bruto) e di un Brando (Antonio). “Giulio Cesare” (Julius Caesar - 1953) di Joseph L.Mankiewicz Recentemente si è rifatto al Macbeth e con piena libertà d’autore uno dei più validi registi giapponesi, Akira Kurosowa che ci ha dato con “Il trono di sangue” l’equivalente shintoista della tragedia shakesperiana. Le psicologie son state trasportate, in modo per noi altamente suggestivo, in quelle intricate coscienze nipponiche e le nebbie e il fradicio umidore del paesaggio ben sostituiscono il lugubre clima di Scozia in cui nascono sogni mostruosi. Un più forte risalto assume in quest’opera la figura di Lady Macbeth labirintica ed insaziata, spogliata veramente di quegli attribuiti umani che sarebbero per lei solo una remora alla sua vera concupiscenza. E quanto di metafisico ci sia nei personaggi è esemplificato con nudo vigore dal Kurosawa: i riflessi della tragedia sono resi a pieno nel senso di quel sangue denso, malefico che non prende respiro, di quella vocazione al dio del male che i due vedono come l’unico dio vittorioso nel mondo.
L’ineluttabile spingersi degli eventi, l’allusivo disegno delle figure di contorno, lo spento, melmoso grigiore della fine richiamano alla memoria i grandi miti della nemesi. 25
“Il trono di sangue”(Kumonosu-jô - 1957) di Akira Kurosawa 26
Può forse concludersi questo breve ed affrettato excursus con la men-zione di un’opera italiana, al tempo stesso raffinata e sconcertante quale è la “Giulietta e Romeo” di Castellani, un regista che è indubbiamente per molti versi dotato e non sprovvisto di un solido background culturale. L’intuizione che sembra sorreggere e anzi strutturare il suo film è la accettazione incondizionata della tesi che indica in “Giulietta e Romeo” la opera più “italianata” del grande di Avon. “Giulietta e Romeo” (Romeo and Juliet - 1954) di Renato Castellani Nasce da una tale convinzione quella linea idilliaca che percorre tutto il film e quell’atmosfera così squisitamente petrarchesca che riempie di sé non solo il paesaggio ma perfino l’atteggiarsi dei due protagonisti. E solo in questa direzione si riescono forse a giustificare i tagli apportati al testo con una decisione non scevra di audacia. (Il personaggio di Mercuzio è saltato via proprio nei suoi significati più salienti, di ironico controcanto al tenero della storia). Ma l’aura rinascimentale ha un che di autentico, lo sfondo armonioso del nostro grande paesaggio architettonico riesce ad ergersi in sapiente contrasto al senso doloroso della vicenda e quasi a ravvivarlo. Il colore è dominato spesso dal Castellani con un sottile controllo delle sue meno superficiali implicanze: nascono così quelle sequenze di 27
“Giulietta e Romeo” (Romeo and Juliet - 1954) di Renato Castellani 28 indubbio fascino pittorico quale quella del ballo in casa Capuleti e quella della lunga corsa disperata di Romeo nella cattedrale vuota, simile già ad un muto e maestoso sepolcreto. Si può pertanto ammettere che l’abilità maggiore del regista è consistita proprio nel non disperdere del tutto i sentimenti in quella troppo ampia cornice, anzi di fare degli stessi elementi ambientali una parte integrante del suo discorso. E l’interesse principale dell’opera sta forse, oltre che nell’innegabile gusto, nella leggerezza di tono e di mano con la quale si è ricercata la radice italiana della splendida pianta shakespeariana. Napoli 1961 29
LAURENCE OLIVIER INTERPRETE E REGISTA 30
Uno degli ultimi film interpretati da Sir Laurence “Bunny lake è scomparsa” ( Bunny Lake is missing 1965 di O.Preminger) induce a pensare quale poca aristocratica considerazione abbiano del proprio mestiere certi attori anche famosi per doti di cultura e prestazioni non irrilevanti. Al fondo di tale disponibilità, c’è come una sorta di assuefazione all’ambiguità di coscienza che deve essere una delle materie prime dell’interprete: per lui, infatti, la simulazione, l’ipocrisia sono tecniche professionali, e quanto più flessibili, tortuose tanto più pregiate. (Forse, era un pudore istintivo quello degli antichi recitanti di portare una maschera quasi a coprire il giuoco infido del volto, quel giuoco che fingeva disperazioni, passioni non sentite, quello che Amleto stigmatizza nel rovente, indignato monologo di Ecuba.) Ma, a parte queste annotazioni, probabilmente viziate di moralismo, si deve riconoscere che la qualità di attore in Laurence Olivier è proprio in proporzione diretta alla sua versatilità; come ha dimostrato la sia pure scarsa retrospettiva TV a lui dedicata, si tratta di una personalità adat-tabile ad ogni tipo dall’eroe al farabutto in guanti gialli, dal grande ama-tore al buffone, dal malinconico all’euforico. “L’avventura di Lady X” (The Divorce of Lady X - 1938) di Tim Whelan La sua capacità di travestimento ha trovato la sua piena verifica nell’ampia gamma di film cui egli ha partecipato: da “L’avventura di Lady X” 31
“Orgoglio e pregiudizio”(Pride and Prejudice - 1940), di Robert Z. Leonard “Il grande ammiraglio” (That Hamilton Woman, 1941) di Alexander Korda 32
( 1938) da “Twenty-one days” (1940) a “Q Planes” (1938) e nel suo repertorio che spazia dal Darcy di “Orgoglio e pregiudizio” (1940) al Maxim de Winter di “Rebecca” (1940), al Nelson di “That Hamilton Woman” (1941), per non dire ancora dei grandi exploits shakespeariani e delle sue performances teatrali. “Rebecca - La prima moglie” (Rebecca, 1940) di Alfred Hitchcock In queste apparizioni egli già mostra la sua dote precipua che è quella di sincronizzarsi colla partner anche nel senso dialettico di opporle l’esatta complementare di temperamento. In “Rebecca” , ci sembrano esplicativi al riguardo ogni intonazione, movimento ed espressione, in quel rapido trascorrere dal brusco, al laconico,
all’imperativo; ancora, più evidenziate certe sue caratteristiche in “La voce nella tempesta” ( Wuthering Heights 1939) di Wyler, dove tutto concorre a portare i diesis e i bemolle oltre i righi, dato lo splendore titanico che traluce della vicenda. Il libro stesso, come fu detto, non era per consumo umano: mentre la bellezza dei corpi doveva consistere nella loro spiritualità, ciononostante doveva ben tra-sparire come le anime fossero sprofondate nei sensi, data la natura vora-ce, insaziabile di quei sentimenti. Il lavoro interiore ed esterno di Olivier su se stesso è sempre approfondito quasi appare nei termini di quella “tecnica spirituale” (di cui parla Stani-slavskij) e che è la sola a consentire uno stato propizio all’ispirazione. 33
“La voce nella tempesta” (Wuthering Heights - 1939) di William Wyler L’elaborazione esterna consiste nel modificare il proprio fisico e nel personificare la parte: Olivier è un “camaleonte” proprio perchè è coerente con ogni copione e sente e vive ed agisce in unisono con le didascalie e con le battute. “Riccardo III”(Richard III - 1955) 34
Ciò che sorprenderà è il suo debutto in qualità di regista) questo, al contrario dell’attore, non può essere plasmabile, contradittorio, pronto ad ogni deviazione dato che la realizzazione di un testo dipende proprio dalla salda ed unitaria visione di esso. E’ assodato, allora, che coesistono due anime nell’uomo Olivier insieme esse danno vita allo “Enrico V” (1945), all’ “Amleto” (1948) e al “Riccardo III” (1955), cooperando senza confondersi, senza mai sovrapporsi o inter-ferire. Un lungo lavorio di tipo schizoide che darà frutti importanti: al di là delle solite manipolazioni prive di scrupoli culturali o cariche di ambizioni sbagliate, Olivier fornisce tre saggi di traduzione in immagini di alta dignità e al livello del giusto stile. L’esperienza dei testi sacri vissuta nell’ “Old Vic” gli dà modo di non tradire e al contempo di innovare: “Enrico V” viene cosi liberato dai limiti dell’arcoscenico e sviluppa appieno tutta l’energia visuale e immaginativa auspicata nel prologo stesso dell’opera. Il colore rende le gradazioni dei caratteri, varia in funzione espressiva dal rosso cupo dei cuori agitati e della violenza guerriera, al viola livido del tradimento, ai toni di dolce pastello e di miniatura per l’amore che germoglia. I volti (e soprattutto quello di Olivier) sono quegli orologi di cui parla Goethe che con i loro quadranti di limpido cristalli mostrano insieme l’ora e il farsi dell’ora. 35
Opera di pari impegno, sia pure in altra direzione, è il successivo “Am-
leto” (1948): se è vero che nella lunga, attenta preparazione il regista si viene affezionando, tramite il testo di Jones, alla concezione freudiana del principe danese ( “la prima nevrosi moderna, il primo tentativo di rifiutarsi alla realtà…” ) nondimeno egli avverte che nella tragedia il destino è l’uomo ed è l’uomo che da vita ai suoi timori e desiderii e al suo implacato bisogno di giustizia. “Amleto” ( Hamlet - Prince of Denmark - 1948) Anche la scelta del bianco e nero è decisiva: si devono incorporare le parole iconiche di Shakespeare nei decisi chiaroscuri d’un acquaforte e solo cosi si possono evitare casistiche filologiche e questioni extraeste-tiche. I monologhi sono resi come un’affiorare della coscienza umana nell’aria umida e marcia di Elsinore e i simboli della vicenda tragica sono restituiti intatti da certi bagliori degli occhi, dal brivido delle narici, dalla dolorosa tensione della fronte. Col “Riccardo III” si ha un altro salto interpretativo, ma la messa in scena è sul piano di uguale robustezza e plausibilità. La stessa scenografia di rigorosa aderenza al costume e al gusto dell’epoca serve a concentrare l’azione in limiti ben segnati; anche qui il colore talvolta suggerisce, talvolta comunica, talvolta assale! la violenza cromatica delle sequenze decisive rende senza smarginature la furia demoniaca del re usurpatore. 36
Risulta chiaro che Olivier ha saputo speculare sui valori anche più nascosti di questo “chronicle play” intriso di reminiscenze marlowiane (e senechiane). Dopo questi exploits, Sir Laurence torna alla sua routine di “comedian” : dal ritratto dell’avvilimento nella miseria e nella degradazione di “Carrie” (1951) al “Discepolo del Diavolo” ( The Devil’s disciple 1959) di marca prettamente shawiana, a quello romantico-espressionista di Macheath in “The beggar’s opera” (1953). Un’altra prova del suo versipelle talento è offerta in “The Entertainer” (1960) (di T.Richardson): egli si immerge nella parte e pure non perde il suo timbro; la figura di Archie Rice, con la sua volgare vitalità e il suo sincero pathos, trova il climax in quel “blues” cantato in un falsetto che assomma in sè tutti gli strazi di un padre che si è visto derubato del figlio per un motivo assurdo. “Gli sfasati” (The Entertainer - 1960) di Tony Richardson Poi, Olivier darà in “Spartacus” (1960), il ritratto di Marco Crasso, il perverso patrizio romano in cui la scettica, stoica raffinatezza è ai limiti della corruzione; così, “Anno crudele” ( Term of Trial 1962) con le sue cerniere e si suoi trapassi di dramma intìmista e borghese riconferma la molteplicità dei volti che l’attore inglese può assumere. Così che, come notavamo in partenza, una galleria di maschere indos-37
“Spartacus” di Stanley Kubrick (1960) sate con estrema tranquillità ribadisce anche in Olivier, la natura volubile e prestigiosa di chi “per sventure immaginarie o per un vano sogno di passioni” esalta il suo essere al livello della parte che recita e ne dipinge i sintomi, i segni e i moti sul proprio volto illuminato di false luci e inqua-drato da un occhio di impassibile acciaio. Napoli , 7 agosto 1964 38
UN OMAGGIO ALL’OCCIDENTE DI GRIGORIJ KOZINCEV 39
“Amleto” (Гамлет - 1964): Innokentij Smoktunovskij Quasi di soppiatto, fra il lusco e il brusco della stagione cinematografica è stato presentato uno dei film più interessanti degli ultimi anni, l’ “Amleto” del regista russo Grigorij Kozincev, premio speciale della Giuria al XXV Festival di Venezia. Ciò conferma che l’affarismo più miope tende a boicottare le opere di rilievo quasi temesse che l’elevazione del gusto medio possa ostacolare la deglutizione degli sketch del più laido varietà filmico. Non molto conosciuto al di fuori dell’URSS, Kozincev, pur senza rag-giungere il livello della triade Ejzenštejn-Dovženko-Pudovkin, è certamente nella seconda schiera, e non di rincalzo. Nato a Kiev nel 1905 e assistente alla regìa nel teatro della sua città natale, fin dal suo primo ingresso nel campo dello spettacolo, Kozincev si lega di amicizia creativa ad un suo quasi coetaneo Leonid Trauberg. A Leningrado i due presentano sul palcoscenico del Proletkult “Il matrimonio” : “elettrificazione” dell’opera di Gogol, che finisce col trasformarsi in “un trucco in tre atti”. Si tratta della prima manifestazione del FEKS (“Fabbrica dell’attore eccentrico”) cui appartengono per qualche anno anche Ejzenštejn e Jutkevič. La divisa: “ieri, musei, cattedrali, bibliote-che; oggi, fabbriche, officine, cantieri; ieri, la cultura dell’Europa, oggi, la tecnica dell’America… catene, ruote, elettricità, ritmo della produzione”. Di questo atteggiamento meccanico ed avvenirista risentono evidente-mente i primi exploit cinematografici: ad es., “Le avventure di Ottobrina” , una commedia caricaturale, senza vera trama, piena zeppa del repertorio degli effetti speciali (esposizioni multiple, animazioni, riprese accelerate e rallentate…); come contenuto ideologico, la manichea contrapposizione della massaia sovietica ad una figura troppo emblematica dell’Occidente. 40
Il primo film di lungometraggio “La ruota del diavolo” (1926) è una storia avventurosa, non molto dissimile - pare - da certe storie alla Sue sovrapposte ad una corte dei Miracoli populista. (Interprete, un altro regista “in pectore” : S.Guerassimov). “Il cappotto” (Шинель - 1926) Dice il Lebedev: “..un film di citazioni, in cui si potevano trovare non solo estratti da Kulešov ma anche da Vertov ed Ejzenštejn, da Griffith e da Thomas Ince…” . Anche “Il cappotto” (da Gogol) e “Il piccolo fratello” (o “L’unione per la grande causa” ) (1927) sono accusati di estremo forma-lismo, di nudo interesse per la ricerca stilistica. Ma l’acume critico di Kozincev si rivela già nella sua prosa: “il film storico significa per molti riprendere dei bei costumi con dentro degli attori… noi invece vogliamo un’idea precisa di una determinata epoca, senza impelagarci in dettagli naturalistici” . Nasce così “La nuova Babilonia” (1929), racconto in cui i tempi della Comune del ‘71 vengono visti attra-verso gli occhi schietti e sensibili di una commessa parigina. Fra gli attori si distingue Pudovkin e fin da allora il commento musicale, sia pure redatto a parte, è firmato da Šostakovič. La “lotta contro la letteratura neoborghese” , avvisaglia delle rigide direttive di Stalin non colpisce solo Pil’njak e Zamjatin ma dà uno scossone 41
“La nuova Babilonia” (Новый Вавилон - 1929) “Sola” (Одна - 1929) 42
a tutti “gli ingegneri delle anime” : “Sola” (1930) è il primo film sonoro dei due coregisti ma è anche il primo a manifestare sintomi di acerba propaganda. Dice Leyda: “Sola” e “La terra ha sete” presentano forti analogie di soggetto: in entrambi razione si incentra su giovani sovietici entusiasti ma inesperti che affrontano la lotta di classe in regioni remote”. Mentre prosegue la controversia politico-culturale (Litfront, RAPP) e mentre il dittatore propone come “modelli d’arte rivoluzionaria prole-taria” i mediocri testi di Bezymenskij, Kozincev (sempre con la collaborazione di Trauberg) riesce a sfuggire alla stretta e a costruire nel corso degli anni 35-39 uno dei più compiuti cicli filmici con la “Trilogia di Maksim” : un’opera che rompe il perimetro delle ferree richieste ideologiche e senza vistosità, senza affermazioni draconiane fa balzare viva e complessa un’esistenza di primo grado dalle immagini in azione. La concentrazione dei brani, la scoperta di poesia nei particolari, l’orga-nicità ottenuta a dispetto della nonchalance fanno del film un campo lungo continuo dove le vicende di Maksim e di Natascia formano un passato remoto e prossimo visto senza promulgazioni ufficiali, senza timbri a secco, senza corti circuiti dogmatici. “La giovinezza di Maksim” (Юность Максима - 1935) 43
“Il quartiere di Vyborg” (Выборгская сторона, 1939) “Gente semplice” (Простые люди - 1945) 44
Solo l’ultimo episodio ( “Il quartiere di Vyborg” ) risente dell’aumentata pressione dall’alto, col ricatto della imminente chiamata patriottica (ma è da protocollare che il decreto sul cinema del ’46 censura violentemente “Gente semplice” e che il progetto di un film su Carlo Marx viene fatto archiviare dopo due anni di lavoro preparatorio).
Sono le svolte negative che pongono fine ad una cooperazione quasi ventennale; come esile contributo alla propaganda di guerra, Kozincev ha filmato da solo una strana comica. “Incidente al telegrafo” in cui Napo-leone invia frettolose quanto inutili istruzioni al suo emulo Adolfo. Nel ’47, il regista dirige “Pirogov” , una cronaca senza frange e senza vernice della vita di un chirurgo del XIX secolo. “Pirogov” (Пирогов - 1947) Dopo, si dedica ad una fervorosa attività di teatrante e mette in scena a Leningrado “Re Lear”, “Amleto”, “Otello” etc. Nel ’57, “Don Chisciotte” segna il ritorno al cinema: con ardua violenza cromatica il regista cattura la agra e fantasticante vita nel torrido sud della Spagna. E’ un’interpretazione candida ma non linfatica di un testo sacro alla cultura occidentale. Nel frattempo, il regista ha perfezionato la sua educazione shakespeariana e, nel ’63, licenzia un suo volume di saggi sul tragico inglese. Tutto è ormai pronto per l’ “Amleto” , le varie messe in scena teatrali si 45
rivelano nient’altro che esperimenti in vista del film. Ancora una volta Šostakovič lavora gomito a gomito con Kozincev che si giova della ver-sione in russo di Pasternak. Gli attori Smoktunovskij e Vertinskaja si faranno flettere dal regista nella direzione da lui auspicata. “Don Chisciotte” (Дон Кихот – 1957): Nikolaj Čerkasov “Amleto” (Гамлет - 1964) “Amleto” (Гамлет - 1964) 46
Nasce così un’opera romantica nel senso più gotico dell’aggettivo: resta-no “le parole come spade” ma la libera selezione di Pasternak schiuma via tutto quanto di sanguigno e di viscerale ha il dramma del principe danese Il regista inserisce felicemente il dualismo tra interni e natura ed è esso che continuamente affiora nella messa a punto del problema compositivo, quasi in ostilità alla forma conchiusa. Gotica è anche la disposizione a sacrificare i momenti più intensi all’ampiezza dell’arco narrativo, al movimento di fondo. L’intavolatura prospettica è così sempre vivacemente reattiva e impone tagli vigorosi e una luminosità tenebrosa e un giuoco chiaroscurale di grigi che servono a riscattare il ritmo un po’ convenzionale. “Amleto” (Гамлет - 1964) Assimilati in modo perfetto sono altri lati della cultura figurativa dell’Occidente: da certi riquadri minori del Velasquez (la lugubre lezione di danza ad Ofelia fa riandare ad una ambientazione più annerita de “Las Meninas” del Prado), o a certe convesse e baluginanti acqueforti militari di Holbein. “Amleto” (Гамлет - 1964) 47 Sia pure con qualche sovrappiù (la compiaciuta fluttuazione dello spet-tro nell’umida aria notturna), questa interpretazione segna un punto fer-mo nel percorso del regista russo e dà alla storia della traduzione da linguaggio a linguaggio un’altra testimonianza di dignità e vitalità. Napoli , 27 agosto 1966 48
ORSON WELLES, IL REGISTA “ARRABBIATO” 49
“Il Processo” (The Trial - 1962) 50
La programmazione, per la prossima stagione cinematografica, de “Il Processo” di O.Welles riproporrà certamente un esame critico dell’opera di un regista così dotato, cui “rabbie” e sfide hanno procurato una fama di bizzarria che sorvola facilmente sul suo serio studio dei classici. La qualità di ribelle è parsa riconfermata l’anno scorso a Venezia quando, per un complesso di aggrovigliati motivi e di ripicché, il film (tratto dall’opera di Kafka) fu ritirato e si venne così a svuotare l’aspettativa per un finale di grande interesse. Welles ha iniziato come ragazzo prodigio dirigendo, a 16 anni, l’importante festival teatrale di Woodstock ed ha continuato con coerenza la sua carriera di “arrabbiato»” (ante litteram), terrorizzando, la sera del 30 ottobre 1938, i tranquilli Babbitt d’America con un radiodramma centrato sull’invasione di ipotetici marziani e reso con un tale realismo documen-tario da mettere in orgasmo gli ascoltatori fino all’annuncio conclusivo che si era trattato di una innocua trasmissione di fantascienza. “Quarto Potere” (Citizen Kane - 1941) Dopo diverse altre esperienze di teatro, consistenti in interpretazioni e messe in scena shakespeariane ( Macbeth, Giulio Cesare) e marloviane (Doctor Faustus), nel 1941 Welles debutta nel cinema. In questo mezzo d’espressione egli viene inserendo gran parte dei suoi risultati radiofonici e teatrali: “Citizen Kane” (“Quarto Potere”) dimostra, infatti, un’insolita 51
consapevolezza nell’uso del sonoro, una peculiare tensione delle immagini, sullo sfondo di una ritrovata continuità di montaggio. “Quarto Potere” (Citizen Kane - 1941) Il film può considerarsi l’accumulazione di una duplice vocazione al-l’originalità, sia per lo stile che per il contenuto: attraverso inquadrature grandangolari che creavano l’impressione di vasti spazi, l’impiego di un’il-luminazione drammatizzante che suscitava ombre profonde e mobili, il regista veniva rintracciando una biografìa esemplare di “tycoon” , di capi-talista despota e fanatico che rassomigliava stranamente al magnate della stampa gialla, Hearst. Comunque, lo spreco del materiale plastico, delle carrellate ravvicinate, le transizioni brusche di campo, le scene angolate in modo arbitrario e l’assenza deliberata di modulazioni visive, raffreddarono l’entusiasmo dei critici più maturi ai quali l’opera parve viziata da un’assimilazione, sul piano puramente scolastico, di soluzioni espressive nate a caldo nella fantasia creatrice dei grandi registi del muto. Uguali “congelamenti” erano riscontrabili in “The magnificent Ambersons” (1942), acuto studio sulla disgregazione di una famiglia benestante del MidWest americano; purtroppo, non mancavano enfasi figurative, giuochi panfocali fini a se stessi, semioscurità offerte per il solo gusto dell’effetto. 52
“L’orgoglio degli Amberson” (The magnificent Ambersons - 1942) “Lo straniero” (The Stranger - 1946) 53
Ciò non toglie che la censura ritenesse di gran disturbo l’estrosità di Welles e che molti salti, molte scivolate di raccordi fossero dovute proprio ai tagli imposti dal Codice Hays. Dopo il ’42 ci si cominciò ad accanire contro questo “angry young man” di Hollywood: “Journey into Fear” gli venne tolto dalle mani ed affidato all’anonimo N.Foster; nel ’43 i produttori interrompono la lavorazione di “It’s all true” e Welles resta per tre anni senza contratti. “La signora di Shanghai” (The Lady from Shanghai - 1947): Rita Hayworth Nel ‘46, dopo una breve stagione a Broadway, accetta dei soggetti a “sce-nario di ferro” : “The Stranger” e “Lady from Shanghai” : è una estrema scommessa contro la banalità di questi testi; con tutto l’impegno del suo talento egli li rielabora visivamente e fonicamente, con frantumazioni d’immagini, crescendo di rumori, segmenti accavallati di voce. Una vio-lenta amarezza riesce così a vibrare sotto la coltre ipocrita del feuilleton esotico. Ma ciò lo costringerà all’espatrio: cammino già percorso da Stroheim e seguito di li a poco da Chaplin: pur mancando del genio di questi due autori Welles trova consensi, aiuti, e stimoli in Europa: nel ‘48 dirige “Macbeth” che, pur sotteso da un “barbarico narcisismo”, risulta un cupo ossessivo affresco medioevale, pieno di cariche emotive portate al limite della tensione.
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“Macbeth” (1948) “Otello” (Othello 1951) 55
In “Otello” , invece, troppe volte il clima tragico si rarefà nella control-latissima composizione del quadro, in un manierismo calligrafico che denuncia la premeditazione. Nel ’52 torna in USA per dirigere “King Lear” alla TV di New York e scrive una pièce satirica “Miracolo ad Hollywood” , in cui son messi alla berlina i film biblici di quella Mecca pagana del cinema; sotto l’albero dell’Eden ci sarà solo una Eva da striptease “perchè non ci sarebbe un cane disposto a pagare un biglietto per vedere un serpente“. “L’infernale Quinlan” (Touch of Evil - 1958) Nel ‘57 dopo un mediocre “Rapporto confidenziale” e varie robuste prestazioni d’attore, dirigerà “Touch of Evil” (L’infernale Quinlan): un saggio di trascrizione approfondita della corrente letteratura gialla: come in tutti i suoi film, Welles ne interpreta la parte di protagonista. L’esplorazione delle risorse dell’obiettivo e dei microfono è ormai assai più cauta, tesa all’equilibrio più che all’intemperanza; se tale maturità è stata mantenuta ne “Il Processo” potremmo sperare in un’opera interes-sante in cui l’occhio della camera segni l’esatta misura dell’angoscia umana. Napoli, 21 giugno 1963 56
AKIRA KUROSAWA: UN SOL LEVANTE SUL MONDO OCCIDENTALE 57
“Rapsodia in agosto” (Hachi-gatsu no rapusodî - 1991) A Cannes ‘91, poche settimane fa, è stato presentato fuori concorso l’ul-timissimo film di Kurosawa, “Rapsodia d’agosto” . Il grande Akira ha presentato un delicato e problematico ritratto di anziana donna giapponese che non riesce a liberarsi dal tormento del ricordo della bomba sulla sua città di Nagasaki nel lontano 1945. “Sogni”(Yume - 1990): Il Villaggio dei Mulini Lo scontro emozionale, sia pure in sordina, con figli e nipoti ormai ame-ricanizzati è intarsiato nel racconto con una delicatezza cechoviana di toni, che ha fatto citare a qualche recensore il nome di un altro cineasta nipponico, Ozu Yazuhiro. Già nel 1990, ad ottant’anni compiuti, il “Tenno”, ci aveva offerto con “Sogni” una splendida sintesi della sua persona-58
lità di regista visionario confermando, ancora una volta, come la sua sensibilità e la sua cultura spaziano, a volo d’aquila, da oriente ad occidente. A ricapitolare bene le sue opere, ci si accorge, infatti, che Shakespeare, Dostojevskji, Pirandello, Van Gogh sono i numi da lui privilegiati, anche se assimilati per via di un filtro figurativo e cerimoniale tipico di un figlio del Sol levante. E proprio questo cosmopolitismo intellettuale lo ha talvolta reso un pò estraneo ai suoi compatrioti (Kurosawa è premiato ed amato più all’estero che in Giappone). Non deve apparire molto strano questo distacco se si pensa che la tradizione espressiva shintoista è legata a chiusi rituali e a rigidi formalismi, giustificati anche dalla sua stessa insularità e da vari secoli di separatezza dalle altre culture del globo. Nel ’51, quando Kurosawa si impone a Venezia col suo “Rashomon” , egli è già conosciuto in patria, ma sotto altri aspetti: ha lavorato alla “Toho” fin dal 1956 come sceneggiatore e poi assistente alla regia; nel ’43 ha diretto “Sugata Sanshiro” , un mediometraggio sul significato e sul mito dello judo. “L’angelo ubriaco”(Yoidore tenshi - 1948) Dopo due cose minori, egli dà - nel 1948 - con “L’angelo ubriaco” una descrizione, in grigionebbia, del clima morale del Giappone postbellico. 59
E’ la vicenda simbolica di un giovane alla deriva tra TBC e alcoolismo. In merito a quest’opera “gendaj-gekj” (cioè di ambientazione contemporanea), il regista ammette di essere stato “vivamente impressionato dai capolavori di Rossellini, De Sica e Visconti” , circolanti allora nella Tokio dei cineclub e dei circoli culturali. Per la prima volta, in questo film egli utilizza, per una performance da protagonista, Toshiro Mifune che diventerà il suo attore preferito e uno dei suoi più frequenti collaboratori. Con “Rashomon” (1950) Kurosawa ritorna al paesaggio storico del Medioevo giapponese, filtrandolo attraverso un traliccio “giallo” in cui risultano essenziali gli assi portanti del relativismo pirandellinao. (Il racconto di base è di uno scrittore, Akutagawa, vissuto a lungo in Europa negli anni ’30). “Rashomon”(Rashômon - 1950) La vicenda risulta intricata e labirintica come il bosco in cui hanno luo-go gli strani incontri e gli agguati e i duelli. Le versioni che di essi danno i protagonisti sono ancor più contorte come se i fatti fossero stati percepiti da perplessi testimoni attraverso le facce di prismi anamorfici, come se arcani umidori e fronde oscuranti avessero arabescato il cristallo. Il valore figurativo dell’opera consiste, comunque, nel gioco sapiente dei chiaroscuri (quasi alla Lang) e nella capacità di tener fermi i profili nel 60
fuoco variabile delle inquadrature così come nella tensione impressa alla recitazione non tradizionale. “Rashomon”(Rashômon - 1950) Sull’onda del vasto successo, consacrato dal “Leon d’oro” della Mostra lagunare, l’artista giapponese si accinge, nello stesso anno, a girare “L’idiota” , con una personale e perforante rilettura del romanzo dosto-jevskjano (ancora Mifune nella parte di Miskin). I traguardi principali verranno tutti raggiunti: la sensazione delle scom-messe estreme con la vita, le trascendentali allucinazioni e gli attoniti misticismi del personaggio evangelico vengono tutti ad evidenziare quanto piena sia ormai, l’immersione di Kurosawa nella cultura dell’altro emisfero del pianeta. Tre anni dopo il regista ritorna con “I sette samurai” (1954) ai temi dell’arcaica tradizione cavalleresca del suo paese; la storia, però viene srotolata con ritmi di western e con ben dosati interventi di ironico humour. (Si capisce allora come la pellicola abbia sollecitato numerosi remake sia in USA che in Italia). Ma un’altra autentica punta di diamante sarà fatta rilucere, nel 1957, con “Il trono di sangue” , acuta trasposizione shintoista del “Macbeth”, in cui vibrano come spade sottili d’acciaio i riflessi metafisici dell’avidità e 61
“L’idiota”(Hakuchi - 1951) “I sette samurai” (Shichinin no samurai - 1954) 62
dell’ambizione più spietate. Il principe Washizu (di nuovo, T.Mifune), è una sulfurea figura demoniaca ma ancora più acherontica ed implacata appare sua moglie nel sacrificare ogni femminile qualità alla brama apocalittica del potere. “Il trono di sangue”(Kumonosu-jô - 1957) L’obiettivo di Kurosawa scruta con vigore attraverso gli anfratti e le vegetazioni del malefico reame, quasi perseguitando, con una furibonda nemesi, i due feudatarii fino alle loro rispettive, miserande fini: una col perdersi nell’incubo della pazzia più straniante (“nemmeno tutti i profu-mi d’Arabia potranno lavare queste macchie di sangue”) e l’altro che, secondo l’iconografia samurai, finisce, come un immondo ragno, trafitto da cento giuste frecce. Un epico e primitivo ritmo scandisce la diegesi del film e ne svela i meccanismi reconditi, le proiezioni stregoniche; mette in filigrana quelle ruote di freddo fuoco cui sono legati i Macbeth e che sono da essi fatte girare con impulsi di violenta autopunizione. Il nero colore di tragedia si spande su tutte le sequenze della pellicola come avveniva nell’opera elisabettiana e l’autore della trascrizione dimostra di riuscire a scartare tutte le tentazioni di facile melodramma e di catarsi a buon mercato. 63
“Il trono di sangue”(Kumonosu-jô - 1957) Gli stessi interpreti del “great plot” shakespeariano saranno poi inseriti dall’imperatore (del cinema nippon) nel successivo “I bassifondi” (1958), 64
tratto dal romanzo di M.Gor’kij. Anche in questo nuovo “gendaj-gekj” , Kurosawa mette a frutto la finezza espressiva acuita dall’amoroso studio degli autori occidentali; in più, egli dà prova di estrema compenetrazione cogli stilemi del “réalisme noir” di un Renoir o di un Carné, di cui si è confessato più volte ammiratore. Negli anni che vanno dal ’60 al ’65, Kurosawa girerà vari film tra i quali “Yojimbo” , “Sanjuro” e un anomalo “thriller” intitolato “Anatomia di un rapimento” . Con “Akahije” (1965) compone poi un equilibrato affresco su una difficile educazione sentimentale e, in fondo, civile. Nel ’68, con la strana offerta di lavoro da parte di Hollywood, affiorano subito gravi con-trasti con la casa che intende produrre “Tora! Tora! Tora!” L’artista giapponese si rifiuterà di girare le sequenze così come pedissequamente pre-viste dallo “iron scenario” . Emerge una ben distinta concezione del cinema ed è questa che porta alla rescissione del contratto: per Kurosawa ciò che viene prima di tutto non è solo lo schema contenutistico o spettacolare ma la forma delle immagini che ad esso danno polpa, ritmo vitale e umano significato. Non gli interessano gli “effetti speciali” nè la mera-viglia a buon mercato ottenuta con le esplosioni colorate dei colpi eruttati dalle bocche dei cannoni; nè tanto meno l’infantile precisione dei model-lini di portaerei agitati nei bacini artificiali a far da specchietti per le allo-dole sedute in platea. 65
Gli hollywoodiani, dal canto loro, hanno trovato troppo sofisticato il gioco filmico sfumato del regista nipponico, il suo senso verticale delle inquadrature, nonché l’insistere nei campi e controcampi, cioè tutto quello che a loro risulta dal “treatment” proposto da Kurosawa con scrupolo insieme analitico ed estetico. È un colpo economico alle possibilità di lavoro del “Tenno” , e quando poi agli inizi degli anni ’70, egli dovrà registrare l’insuccesso di “Dodes’kaden” , entrerà in crisi depressiva. Forse il trauma più profondo è quello ingenerato dal suicidio di Mishima “genuino figlio del crisantemo e della spada” , come lo appellerà in una concisa commemorazione il regista, anche senza condividere certi radicalismi dello scrittore. “Dodes’ka-den”(Dodesukaden - 1970) E’ un evento luttuoso che metterà in moto, in tutto il Giappone, una drammatica presa di coscienza quasi per indurre a respingere il banale ammodernamento dell’arcipelago, cioè la sua forzata e rapida americaniz-zazione già da tanti osteggiata o sopportata con virile tristezza. Lo stesso Kurosawa sarà tentato di imitare il gesto mortale del roman-ziere ma verrà salvato in tempo, soprattutto dalla sua coscienza di avere ormai un’idea più vasta dell’uomo, per la sua duplice anima di “tenno” e di cittadino del mondo. 66
Seguiranno, comunque, anni di sbandamento fino a quando l’offerta di girare in Siberia “Derzu Uzala” (1975) gli restituirà il piacere del duro ma adorato lavoro alla macchina da presa. Il film viene realizzato, appunto, grazie ad una cooperazione produttiva russo-nipponica, che non pone limiti alla libertà formale del regista. Come ogni autore realmente crea-tivo, Kurosawa si orienta con una virata di 180 gradi verso un nuovo tipo di narrazione, dalla struttura documentaria e dal midollo ecologico. Il filo conduttore è la vicenda dell’amicizia tra una guida siberiana e un capitano dell’esercito zarista incaricato di rilevazioni topografiche nella tajga semideserta. Nelle iconi dinamiche la natura assume valenze antro-pomorfiche, in modo da far emergere altre dimensioni vitali in quelle solitudini spesso inviolate dall’uomo. La camera scandaglia i luoghi con riverente precisione e induce a originali tecniche di ripresa: così, il campo lungo fisso corrisponde alle tappe del percorso esplorativo e le rapide carrellate laterali restituiscono con notevole fedeltà il faticoso inoltrarsi nel selvaggio territorio. Con questi “sintagmi frequentativi e alternati” , Kurosawa riesce a evitare la routine delle inquadrature pittoresche (tanto amate dai camera-67
men delle TV) e ad annodare con maitriserie i punti cruciali della avventurosa suspense che diventano così i cardini di ogni connotazione emotivo - cognitiva: si vedano gli episodi dell’apparizione della tigre, dalla temi-bile flessuosa geometria di linee, o il prorompere delle rapide del torrente che mette in pericolo i due itineranti, o gli intrecci mobili delle mille liane scorsoie che essi incontrano nel cammino. Kurosawa sembra pedinare, con personale prosodia, le tracce umili ma poetiche dei grandi documen-taristi alla Flaherty o alla Ivens che hanno lasciato testimonianze liriche sui percorsi dell’uomo in zone impervie del globo, senza lusinghe tecniche e senza compromissioni col romanzesco. Un piccolo neo, in questo senso, è forse l’epilogo familiare che coinvolge il capitano Arsenev eppure esso serve da controcanto alla stoica fuga del siberiano Urzala verso gli spazi liberi della sua nativa tajga, nonostante la sopravveniente cecità. “Dersu Uzala” (1975) Il successo mondiale di questo “travelogue” ad alta temperatura estetica e dall’affascinante cromatismo serve a spingere qualche produttore a dare altre chances al “Tenno” e a mettere altre troupes e altri studios a sua disposizione. Nel ’70, viene alla luce (dello schermo) “Kagemusha” , un gidaj-gekj imperniato sulla lotta tra due clan nell’Impero del Sol Levante agli inizi del XVI secolo (il medioevo giapponese). Scorre, ad essa parallelo, il plot di un mascheramento umano che ritroverà la sua autentica identità solo quando il destino premerà le esistenze verso le svolte finali.
Le scene dei combattimenti assumono magnifiche campiture, le rettan-golari bandiere dei signori della guerra fluttuano nel vento con tutta la loro violenza cromatica. L’impeto dinamico della cinepresa armonizza e quasi fonde luoghi, luci, suoni e grida conferendo une tensione magnetica 68
“Kagemusha” (1980) a gran parte dei fotogrammi. E’ questo stile fascinoso che motiverà am-piamente l’assegnazione del “Palmarès”, assegnato a Cannes da una giuria stavolta veramente competente. “Ran” (1985) Da saggio, Kurosawa anche dopo un eclatante successo, sa ritirarsi a meditare e a progettare sempre più in profondità; passa così non pochi anni tra esperimenti e silenzi prolungati, poi nel 1985, egli ritorna al suo amato Shakespeare e con “Ran” opera una sapiente contaminazione tra “Re Lear” e un’antica leggenda giapponese (“La prova delle tre frecce”). I conflitti di potere e gli attriti tra le diverse psicologie sono resi con rara efficacia e concisione; lo sviluppo progressivo della vicenda è a moto 69
“telescopico”, in un andirivieni accelerato che finisce col racchiudere in sé passato, presente e qualche segmento di presumibile avvenire. Il regista manovra con perfetta padronanza tutta l’alta tastiera drammatica e ne intensifica i raccordi con implosioni degne del teatro “No” più quintissenziato. Come, ha ben scritto Grazzini: “non è soltanto un senile addio alle macerie del mondo ma anche un addio alla voluttà dei colori, ai voli delle frecce e al galoppo dei destrieri”. Lo stesso tema nucleare dell’ingratitudine filiale assurge così a trenodia assai terrestre sulle fragili illusioni degli uomini. Come nell’opera del Bardo, il Cosmo si rivela un ingannevole travestimento del Caos: “come 70
mosche per maliziosi monelli, siamo noi per gli Dei ci uccidono così quasi per sfizio…” Poi, nell’89, il penultimo film, “Sogni” , opera completata nel suo ottan-tesimo anno di vita, e sinossi superba del suo strumentario d’artista. In essa, infatti, Kurosawa ripercorre le tappe culminative della sua giornata esistenziale, dalle scoperte stuporose dell’infanzia alle venerazioni
della guerra nell’età matura (il tunnel dei soldati morti è un polittico di con-chiuso e livido espressionismo). Col titolo, si può pensare che Kurosawa abbia voluto accettare la definizione di Prospero a proposito dell’essenza umana: “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni…” ( “La tempesta” di W. Shakespeare). 71
Ci sono finezze figurative ispirate alla grande arte degli Hiroshige e dei maestri della linea e dei timbri cromatici giapponesi, ma anche da rimar-care è quel “sogno” centrale che richiama un segmento della vita affan-nata di Van Gogh, altro grande occidentale venerato dal regista (che, da giovane, studiò all’Accademia di pittura di Tokio). Tutto il film sembra infatti percorso da questa doppia fiamma di colori che accendono le immagini, quella della patria tradizione e quella del genio europeo rivissuto qui nel suo oro incandescente, nei suoi vortici di luce e nei suoi verdi elettrizzati. Sembra che il saggio Akira abbia preso per comandamento la frase letta in un brano di corrispondenza di Vincent al fratello Theo, quando ha 72
cercato con umile e grandioso sforzo insieme di “incorporare in ciò che passa quello che non passerà mai” . Ha poi ripreso il suo lavoro quotidiano per darci ancora un film, l’ulti-missimo di cui si è detto all’inizio di questo omaggio ad un “sempreverde” della Settima Arte. Napoli, 1992 73
JIRI TRNKA: UN GRIMM DELLO SCHERMO 74
Non pochi spettatori italiani avranno fatto il loro primo incontro con i “pupazzi” animati di Trnka appena qualche mese fa, quando la TV tras-mise “Vecchie leggende ceche.” “Vecchie leggende ceche” (Staré povesti ceské, 1953) C’è da rammaricarsi che soprattutto i più giovani siano all’oscuro di una produzione di così alto livello e particolarmente adatta per loro. A quale scopo pratico, infatti, vietare o sconsigliare una serie di spettacoli per i “minori” se non si sa organizzare un repertorio d’altro tipo e d’altra ispirazione? Trnka, come tutti coloro che usano fantasia e senso profondo del folk-lore, sa bene di proporre la sua opera a diversi piani d’interpretazione ma sempre nell’ambito di quella castità che hanno le storie piene di significati umani. La tradizione dei burattini in Cecoslovacchia risale ad epoche lontane: il personaggio più popolare, paragonabile al nostro Pulcinella o al Guignol dei francesi o al russo Petrushka, è Kasparek, popolano i cui bat-tibecchi sono ben conditi di sale ed aceto. Karel Drusil ne portò le vicende sullo schermo mentre l’altro maestro di Trnka, Joseph Skupa inventava marionette nuove e puntava su la maggiore fotogenia dei tipi moderni. Tra il ‘29 e il ‘35, Trnka, pur lavorando come assistente di Skupa, frequenta l’Istituo di Belle Arti di Praga, espone suoi quadri a Stoccolma, 75
Lipsia, Hannover e collabora con vignette umoristiche ai principali giornali del suo paese. Illustrazione per “L’usignolo dell’imperatore” di H.C.Andersen Dal ‘36 al ‘45, la sua attività è prevalentemente quella di illustratore di libri di favole: Grimm, Andersen, Glazarova. In mezzo a queste esperienze viene fuori un suo originale personaggio, l’orsacchiotto Misa, protagonista di storie disegnate, la cui popolarità aumenta di anno in anno. Dopo incarichi di scenografo e costumista presso il Teatro Nazionale, passa a dirigere un teatro di marionette di tipo tradizionale. La scuola dei “fantocci” non si era del tutto estinta nemmeno con l’occu-pazione tedesca: Hermyna Tyrlova e il suo collega Karel Zeman portavano a termine nel ‘42 “Ferda e la formica” e “Giardino sotto la pioggia” e “Sogno di Natale” (che doveva imporsi a Cannes nel ‘46). Trnka, dopo il lungo periodo di prove e di preparazione e sulla scia di questi due maestri, fa nel ‘45 i primi tentativi di disegno animato ( “La barbabietola del nonno” e “Darek” ) ma subito avverte che i pupazzi hanno una loro vita plastica più originale, una suggestione espressiva e delle dimensioni che vengono a mancare nel semplice cinema d’animazione. 76
“La volpe e la brocca” (Liška a džban - 1946) “L’anno ceco” (Spalicek - 1947) 77
Su trame filiformi ordisce allora le sue storie, ritmate sugli scatti agili delle sue stilizzate ed affascinanti bambole: “La volpe e la brocca” (1946) è il lavoro d’introduzione e che gli vale subito il conferimento delle direzione dello “Studio per le animazioni” di Barrandov; insieme con Hofman e Krejcik verranno chiamati “il gruppo dei fratelli in maglietta” . E’ dello stesso periodo “Spalicek” ( L’anno ceco) un lungometraggio diviso in sei parti. Il carnevale, la primavera, la festa al villaggio sono tutti soggetti popolari trattati con una limpidezza d’impostazione figurativa che rasenta il realismo più autentico senza cedere agli allettamenti del pittoresco. “L’usignolo dell’imperatore” (Cisaruv slavík - 1949) Due anni dopo, con “L’usignolo dell’imperatore” Trnka mostra quale tensione lirica, quale squisitezza di gusto può offrire la sua arte innestata e risolta con piena compenetrazione nel linguaggio filmico. La favola di Andersen si colora di cento cromatismi orientali, di struggenti nenie; i volti statici dei fantocci sotto il mutare degli angoli di luce sembrano sof-frire un dramma più intenso di quello umano. Il simbolismo, l’ellissi sono così frequenti da indurre a parlare di “decadentismo” : una ciocca di ca-pelli, un telaio di finestra, lo smeriglio d’un vetro sono centri generatori d’immagini favolose. 78
“L’usignolo dell’imperatore” (Cisaruv slavík - 1949) Si ricordi, ad esempio, la sequenza del sogno del giovane imperatore, dal la vita splendida e desolata, in cui la musica si fa magica filigrana dell’immagine e in questa si raddensa tutta l’estasi di quel delirio che germina come un fiore malato nelle visioni del protagonista: chi direbbe più di star di fronte a minuscoli simulacri dell’uomo? Nel ‘49, firma tre opere minori, “Il romanzo di un contrabbasso” (de Cechov), “Il mulino del Diavolo” e un arioso, parodistico rifacimento dello schema western ne “Il canto della prateria” . L’anno dopo, un altro lungo-metraggio “Bajaja” storia di un giovane contadino che, in seguito alla morte della cara madre, affronta cento avventure. Il clima medioevale, gli stilemi sono trattati con grande rispetto e insieme con grande ricchezza d’invenzione; liberata dalla sue bardature la leggenda si riconferma un genere atto alle più brillanti trascrizioni. Dopo nuovi esperimenti con silhouettes a colori e sporadici ritorni al cartone animato, fra cui un godibile “L’uomo a molle e le SS” nel ‘53, è la volta di
“Vecchie leggende ceche” : nella prima parte ci si mostre l’arrivo dei cechi sulle nuove terre, la costruzione dei villaggi, la morte del venerato capo, il Duca Cech. Nelle seconda parte, vibra un’eco della Lisistrata, ma sfrondata d’ogni turgore ironico e buffonesco. L’ultima parte è centrata sul personaggio di 79
“Il romanzo di un contrabbasso” (Román s basou - 1949) “Il Principe Bajaja” (Bajaja - 1950) 80
“Vecchie leggende ceche” (Staré povesti ceské 1953) Neklan, principe pigro e pauroso, che solo in virtù del coraggioso popolano Cestmir, sconfiggerà gli invasori e restituirà la pace al suo paese. 81
Trnka si sottrae ancora una volta ai pericoli del descrittivismo e alla maniera, con ciò limitando le ripetizioni e il frazionamento dei segni formali: ogni piccolo interprete, nel suo indovinato articolarsi, assume un carattere ben dettagliato e in variabile contrasto con le altre psicologie. La scelta dei colori, delle scene, degli incroci visivi, dei movimenti di macchina, si adegua alla narrazione dall’interno, non è provocata dall’esterno per una espansione emotiva in superficie.
L’interpretazione della leggenda qui si fa senso della storia e non rileva più la statura dei protagonisti: anche i lillipuziani, come ben sapeva Swift, possono proporre rapporti e significati ben più in là delle loro misure. “II bravo soldato Scweik” (Dobrý voják Svejk - 1955) Dopo la routine de “I due gnomi del gelo” , verrà nel ‘54 “II bravo soldato Scweik” : per la prima volta la materia di Trnka ha un sostrato satirico e grottesco e l’animatore si riferisce all’iconologia dell’astuto balordo Kasparek; il racconto conserva tutto l’effervescente veleno del libro di Hasek e quel suo messaggio antimilitarista pieno di una verve che grattugia le bucce ai servi del più sciocco ideale. Una delle più recenti realizzazioni è il mirabile “Sogno di una notte di mezza estate” (1959), coreografia in miniatura in cui i personaggi dell’eterea fantasia shakespeariana si ritrovano stilizzati ma non traditi nel 82
“Sogno di una notte di mezza estate” (Sen noci svatojánské - 1959) lenci delle creature di Trnka. I rami magici, il clima di primavera fantastica, l’incanto stellare delle notti boscherecce è ricreato con una sensibilità che non degrada mai in trucco ottico e solo raramente s’accende in gotico fuoco d’artificio. “Sogno di una notte di mezza estate” (Sen noci svatojánské - 1959) “Sogno di una notte di mezza estate” (Sen noci svatojánské - 1959) 83
“Passione” (Vásen - 1963) L’ultimo lavoro del grande artista cèco: “Passione” è un acuto pamphlet contro l’ottuso entusiasmo per la velocità fine a se stessa. Nella corsa sempre più accelerata che ci consente il progresso, perdia-mo di vista la natura, gli affetti, le vere mete della vita. Napoli, 8 maggio 1966 84
QUALE CINEMA PER LA TV? Il cinema di Prospero o quello di Calibano? In questo scorcio di fine millennio, in cui si presentano crisi e mutazioni profonde, è importante porsi alternative per decidere scelte preciso, anche nel campo delle comunicazioni di massa. Quale cinema, allora, per la TV? Il cinema di Prospero o il cinema di Calibano? Sono i ben conosciuti personaggi della “La tempesta” di W.Shakespeare e nel contesto del nostro discorso il loro uso è più simbolico che paradossale. Prospero, come si sa, rappresenta la ricerca del bello, dell’umano, dell’armonico mentre Calibano si compiace della rozzezza, del degrado dell’inquinamento (se non dell’autodistruzione).. Prospero ha fede nell’arte, nella poesia, nella sovrana forza dell’immaginazione mentre Calibano crede, troppo istintivamente, nel dinamismo fine a se stesso, nel kitsch e si avvoltola volentieri nel
cinema spazzatura. Il primo sa che le immagini dei grandi registi (da De Sica a Fellini, da Dreyer a Murnau a Wenders, da Stroheim a Huston) hanno intensificato i significati della vita nel loro linguaggio intrecciato di conoscenza ed emozione e perciò capace di imprimersi nella memoria. 85
L’altro, semicieco brutale,tende a livellare tutto in basso, a porre sullo stesso piano i primi piani della Magnani o della Bergman e i sorrisi melensi e stereotipi di una qualunque starlet o spogliarellista volgare. Il programmista di film in TV si trova sempre di fronte al dilemma di scegliere tra le vie tracciate da questi due personaggi, la via di Prospero o quella di Calibano. Oggi egli sa bene che la decisione dipende soprattutto dalla sua coscienza proprio perchè sono caduti tanti muri, tanti dogmi, tante ideologie. Si dice che la rivolta serpeggi benefica negli uffici dei telegiornali ma sarebbe ancor più proficua se fermentasse nelle redazioni dove si allestiscono programmi culturali. Quando nei momenti di più ampio ”ascolto” si infarcisce il palinsesto di telefilm idioti, violenti ed esplosivi e si relegano le cose migliori nelle ore morte della notte o del primissimo mattino, si agisce senz’altro in nome di Calibano. Anche quando si fanno confluire nel magma visivo che sgorga dal video opere di Bergman, Kurosawa, Welles o Renoir senza una sola nota di distinzione o di commento o di valutazione si contribuisce all’espandersi del dominio del mostro inventato da Shakespeare. “A proposito di tutte queste… signore” ( 1964) di Ingmar Bergman 86
Accade, per esempio, che di recente non pochi hanno perso quattro o cinque gustose, scintillanti commedie del grande Ingmar perchè non informati da nessuno che il regista svedese è autore di pièces brillanti e non solo di tragiche e angosciose storie (ed allegorie)! E, d’altra parte, per mettersi su un piano concreto, alzi la mano quell’allestitore di palinsesti che negli ultimi cinque anni abbia trovato un pò di spazio per film provenienti da quelle grandi scuole di cinema che sono la polacca, l’ungherese o la ceca. Naturalmente, non si è può essere così utopisti da voler instaurare su ogni teleschermo il regno incantato di Prospero, ma sarebbe almeno giusto dare spazio su di essi a quegli autori nuovi che certe reti promuovono e talvolta finanziano, anche, generosamente. Invece, poi quelle pellicole realizzate in tal modo dall’ultima ondata di cineasti italiani (da G.Amelio all’ Archibugi, da Tornatore a Salvatores) vengono in genere proiettate con tante dilazioni nel tempo e dopo così lunghe quarantene che perdono il riverbero del successo o del grande interesse da esse suscitato. Si tratta, forse, in questo caso della strategia più pericolosa del Calibano che si traveste da Prospero e mentre aiuta l’arte, al tempo stesso la boicotta o la sabota, antica tecnica del nostro paese machiavellico. “Umberto D” di Vittorio De Sica (1952) 87 Non è sporadica l’azione del critico capace di sottili discriminazioni di valori quando è in sede di Festival o di recensione scritta ma che appena indossa l’abito del “consulente televisivo” si arrende a tutte le ragioni dell’azienda per cui il profitto o l’Auditel sono monarchi assoluti e indiscutibili. Così da una parte egli esalta ”Umberto D” come un capolavoro ma poi lo esilia alle 4 del mattino in una fascia oraria impossibile e senza nemmeno citarlo nel settimanale per cui lavora. Oggi dovrebbe ritrovare il coraggio di scommettere sul positivo o di interrompere il quotidiano tran tran di conformismo e di ipocrisia. E’il momento, infatti di superare quella sfiducia profonda che una certa sociologia “neutra»” ha ingenerato nei “valori” ; quella incredulità nell’arte con la maiuscola che se non può cambiare il mondo può ancora contribuire a rinnovare l’animo di chi è nuovo al mondo. Il vero Prospero sa quanto numerosi sono quelli che in un secolo di cinema hanno saputo suscitare negli spettatori un moto di liberazione e di purificazione con il fluire di una forma conchiusa e il concertato di splendide sequenze. E’il senso della forma, del giusto ritmo che può impedire a Calibano di fare del rettangolo di opaco cristallo un “buco nero” capace di inghiottire milioni di cervelli. Pattuglie di “resistenza” a questo imbarbarimento nascono da molte parti, persone che si vanno costruendo personali videoteche con nomi e opere non effimere. Sparsi manipoli di critici che non intendono abdicare alla loro naturale funzione di filtri tra spurio e valido, banale ed autentico. Essi non possono credere che i contemporanei hanno fatto passi indietro rispetto a quel pubblico naif che, quattrocento anni fa, applaudiva “Amleto” o la stessa “Tempesta” in teatri popolari fatti di solo legno. Sono in netto disaccordo con quei Calibani-manager che sostengono che si possa sempre contare sul “fascino primordiale della stupidità” . A questi furbi businessmen sfugge che un consumismo estetico, bassamente edonistico può portare ad un deficit morale e intellettuale più rischioso dello stesso debito pubblico nazionale.
La stessa marea che trabocca da negozi ed edicole, di videocassette di ogni tipo è una sorta di crescente opposizione alla “massmediocrazia” , forse confusa ed estremista ma primo sintomo del fallimento di una politica culturale menefreghista del cinema in televisione: è il primo moto di sbandamento verso cento scissioni e separazioni. 88 Nei tanti canali dove scorrono miliardi di immagini, Prospero potrebbe, non diciamo, usare la sua bacchetta magica ma almeno riprendere le redini del buon senso e dell’equilibrata pedagogia che sono i fattori minimi per un’evoluzione civile. Accettando criteri di un successo non disgiunto dalla intelligenza e dalla responsabilità sociale, non disinteressandosi della qualità delle opere da trasmettere e della loro collocazione congrua e logica. Da pochi giorni, una capitale europea qual è Strasburgo va realizzando programmi impostati con tale meritorio impegno (e Calibano mormora che si tratti di progetto astratto o perfino assurdo). A noi pare che questo sia il momento propizio, per ripensare e orientare in modo migliore il proprio comportamento professionale, nei confronti di quel “prossimo” tanto numeroso come è la platea televisiva. Siamo convinti che da tali determinazioni dipenderà la qualità e la sorte della nostra società democratica negli anni 2000 ormai non più lontani. Napoli, 1991 89
LA CULTURA CINEMATOGRAFICA OGGI : UNA CRISI TEMPORANEA? 90 Negli ultimi anni si è assistito ad un forte riflusso di quella che da T.W.Adorno è stata definita : “L’industria culturale” , cioè “la produzione artistica al servizio del cliente” il cui scopo determinante è il business, facendo leva sul gusto mediocre dell’uomo-massa o del pubblico meno acculturato. Ne è una spia, nel campo del cinema, il ritorno al feticismo del “divo” , il biotipo buono per qualunque manufatto in cui venga inserito per adescare i fans o i più sprovveduti tra gli spettatori del grande schermo. Ed è divenuta quasi ossessiva la preoccupazione della classifica degli incassi (box office), presa a indice del valore delle opere. Appare affievolito l’impegno per il film d’autore e ne è sintomo indubbio il venir meno dell’interesse per il regista che pur resta il suo principale creatore. Appare quasi esaurito, purtroppo, quel fermento intellettuale che tra gli anni ‘50 e ‘80, animò riviste e saggisti e circoli del Cinema, propugnatori del discorso sulla qualità delle opere, e sul loro spessore estetico ed umano. Ed è solo la qualità, infatti, la garanzia che il film non si vanifichi in una sola stagione o deperisca come merce di rapido consumo. Tra i fattori antagonistici a tale concezione artistica non poco ha pesato quel “giustificazionismo dell’esistente” portato avanti dal pensiero socio-logico. Esso, in pratica, ha finito per mettere alla stessa stregua ogni di-verso prodotto, una pellicola di serie B (o Z) e un film di ben altro livello e significatività. Ciò ha contribuito alla depressione del gusto e al progressivo deteriora-mento del criterio di giudizio. Da qui, il crescente successo di pellicole dalla “ammiccante popolarità”, “minestrine della strega che intende ammaliare le sue vittime” (Adorno) con il fascino “dei sogni o incubi - sintetici ad occhi aperti”( id.). Perciò, tante cose dalla facile suggestione e dal brutale sensazionalismo quali gli “horror movies” e “thrillers” e “squatters” e via raccapricciando. Solo in base a ciò ci si riesce a spiegare anche l’oblio caduto su grandi nomi anche del recente passato da Bresson a Losey, da Lubitsch a B.Edwards, da Rossellini ad Antonioni etc., citati quali dati archeologici o tout court “museificati” , (termini dalla connotazione negativa presso i nostri recensori up to date!). E abbiamo saputo, in questi giorni, che perfino il museo è stato negato ad Antonioni dalla città natale che ha messo in cantina il suo prezioso lascito. Da simili parametri promanano anche quei palinsesti della TV che 91 sbandiera il suo alibi negli indici di ascolto o di “gradimento” . Così, i programmi filmici del piccolo schermo sono un niagara di banalità e il servizio pubblico appare per lo più finalizzato al rimbambimento del telespet-tatore, che continua ad esser bombardato da migliaia di spot. (Chi si ricorda più dello slogan: “non si spezza una storia, non si interrompe un emozione”? ). Ugualmente carenti paiono, oggi, perfino i cosiddetti cineforum che contrabbandano come “retrospettive” pellicole che nella trascorsa stagione hanno fatto scarsa cassetta ma non per questo sono da ritenersi artisticamente valide. Purtroppo, anche in certa pubblicistica meno corriva si può notare il diffondersi di astrusi principi estetici, quasi che solo “il nuovo” (eccentrico?), il dissacrante, il trasgressivo abbiano le carte in regola per esigere un’attenzione approfondita. In tali casi, si è di fronte ad esasperanti esegesi psicoanalitiche o a criptici funambolismi verbali, che tentano di spiegare l’inspiegabile. In più, in tali oscuri scritti è invalsa un’inflazione del termine “geniale” usato per cose dalla rapida obsolescenza : “Capolavori che durano una sola stagione”( E.Flaiano).
In tal modo, in una società come questa del 2000 che Z.Bauman ha chiamato “liquida” , anche nel campo del cinema non si trova un “ubi consistam” , un nessun solido valore. Così, tante opere filmiche “evapora-no senza condensare” in niente di sempreverde o di duraturo. Infatti, l’impressione è che ogni “nuova” pellicola tenda ad accumulare effetti speciali, exploits tecnici e altri stupefacenti ingredienti che assai poco hanno a che fare con l’autentica creatività. Dall’altro lato, a tale andazzo si accoda gran parte delle recensioni (“instant reviews”) che tradiscono la frettolosità e la superficialità del cronista, spesso costretto a sorbirsi 2 o 3 “pizze” in un solo pomeriggio. (Esiste anche un effetto di rigetto da saturazione audiovisiva!). Sono lontani i tempi degli articoli di un Grazzini o di un Miccichè,di un Casiraghi o di un Viazzi, e gli anni dei dibattiti approfonditi sulle riviste specializzate, allora anche quindicinali. Gli anni di un P. Baldelli, di un A.Ferrero o di un Di Giammatteo, acuti e accurati interpreti delle pellicole visionate e sapienti discriminatori tra cinema e cinema. A tal proposito, è un segnale inquietante che in una recente “Enciclope-dia Tematica” (“Grandi Opere” dell’Espresso dicembre 2005) dedicata al Cinema, tali critici e studiosi di vaglia non siano menzionati, mentre 92 viene inserito il nome di scrupolose schedatrici addette, peraltro, per molti anni a ben altre rubriche. Si può pensare, con fondata preoccupazione, alla consultazione di tale ponderoso volume da parte di tanti cinefili, dato che in esso si presentano vuoti disperanti per la assoluta trascuranza di registi di fama, da Mizoguchi a Kozincev, da Marta Meszaros a J.A.Bardem e di ben noti attori quali Max Linder o Ivan Mozžuchin o Larry Semon o N.Batalov. Ed è lecito, ironicamente, immaginare che un simile testo sia tra i più compulsati da quelle improvvisate giurie dei Festival del Cinema, oggi proliferati all’eccesso. Esse, purtroppo, vengono costituite da starlet, sinologi, giornalisti bulgari o giapponesi e nemmeno per caso viene cooptato in esse uno storico della “Settima Arte” o un saggista di reputazione internazionale. Sono proprio escluse, cioè, le persone senza dubbio capaci di confronti e di motivate valutazioni. La conferma ci pare venga dalla notizia-choc che “Venezia 2007” ha dedicato una lunga retrospettiva allo “spaghetti-western” . In fondo, nell’ondata di trash, kitsch e fumetti a gogo che ha investito le arti, c’è una strabiliante congruenza. Ma per chi è stato ai Festival del Cinema tra il ‘54 e gli anni ‘80, vengono alla mente ben altri film e altre retrospettive, dalle opere di Dreyer, Visconti, Kurosawa, o Tarkovskij e, per le rassegne storiche, quelli di Flaherty, Murnau, Lang o Pudovkin. Testimonial eccellente per i “pistoleros-macaroni” (prima definizione all’apparire dei western all’italiana), sarà il famigerato Q.Tarantino, del quale finalmente - anche recensori di bocca buona cominciano a scoprire i bluff. A lui paiono “masterpieces” quei film che i francesi appellavano “camembert cow-boys” e non gli sembra temerario tranciare giudizi sulla storia del Cinema, in particolare italiano. Del resto, c’era da aspettarselo, da quando - coerentemente - è stata tolta dal titolo della Mostra veneziana la specificazione “d’arte” (cinematografica). In tale situazione di caos culturale, non è strano che, per una sorta di legge di Gresham, si facciano largo tante cose mediocri (o shockanti) a detrimento di quelle più valide e meditate. E son proprio questi prodotti insignificanti che fruiscono di lanci pubblicitari (perfino nei telegiornali!) prima che su di essi sia stato espresso alcun giudizio da parte degli addetti ai lavori. Da ciò discendono le difficoltà in cui operano, specie da noi, non pochi talenti giovanili (o anche maturi) le cui realizzazioni non ottengono la 93 circolazione che meriterebbero. Perciò, è da ritenersi sacrosanta la recente protesta di un B.Bertolucci (firmata poi da altri numerosi cineasti) affinchè il nostro governo provveda a promuovere con gesti concreti il cinema italiano.
E, in più, faccia in modo da non lasciar deperire in archivi polverosi quei film, che dal 1945 in poi hanno portato alto il nome dell’Italia artistica nel mondo. Sperando, così che, che sia solo un fenomeno temporaneo la crisi che attanaglia la nostra cultura cinematografica. Napoli, 20 agosto 2007 94 INDICE DEI NOMI A ADORNO Theodor Ludwig Wiesengrund, 91, AKUTAGAWA Ryūnosuke, 60 AMELIO Gianni, 87 ANDERSEN Hans Christian, 76, 78 ANTONIONI Michelangelo, 91 ARCHIBUGI Francesca, 87 ARISTARCO Guido, 23 B BALDELLI Pio, 92, BARDEM Juan Antonio, 93 BARRANDOV Studio, 78 BARRYMORE Lionel, 14 BATALOV Nikolaij Petrovic, 93 BAUMAN Zygmunt, 92 BERGMAN Ingmar, 86 BERGMAN Ingrid, 86 BERTINETTI Paolo, 12 BERTOLUCCI Bernardo, 94 BEZYMENSKIJ Alexander Il’ič, 43 BRANDO Marlon, 25 BRESSON Robert, 91 C CARLYLE Thomas, 15 CARNÉ Marcel, 65 CASIRAGHI Ugo, 92 CASTELLANI Renato, 27, 28 CECHOV Anton Pavlovič, 79 ČERKASOV Nikolaj Konstantinovič , 46 95 CHAPLIN Sir Charles Spencer “Charlie”, 54 ČAJKOVSKIJ Pëtr Il’ič, 14 CUKOR George, 14 D DE SICA Vittorio, 60, 85, 87 DI GIAMMATTEO Fernaldo, 92 DIETERLE Wilhelm (William), 15
DOSTOIEVSKIJ Fedor Michajlovič, 59 DOVŽENKO Aleksandr Petrovič, 40 DREYER Carl Theodor, 85, 93 DRUSIL Karel, 75 E EDWARDS Blake, 91 EJZENŠTEJN Sergej Michajlovič, 40, 41 F FELLINI Federico, 85 FERRERO Adelio, 92 FLAHERTY Robert Joseph, 68, 93 FLAIANO Ennio, 92 FOSTER Norman, 54 G GUERASSIMOV Sergej Appolinarievič, 41 GLAZAROVA Jarmila, 76 GOETHE Johann Wolfgang (von), 12, 15, 35 GOGOL Nikolaj Vasil’evič, 40, 41 GOR’KIJ Maksim, 65 GRANVILLE-BARKER Harley, 20 GRAZZINI Giovanni, 70, 92 GRIFFITH David Llewelyn Wark, 41 GRIMM Jacob e Wilhelm, 76 96 H HASEK Jaroslav, 82 HAYWORTH Rita, 54 HIROSHIGE Utagawa , 72 HITCHCOCK Alfred, 33 HOFMAN Eduard, 78 HOLBEIN Hans, 47 HOWARD Leslie, 14 HUSTON John, 85 I INCE Thomas, 41 IVENS Joris, 68 J JONES Ernest, 36 JUTKEVIČ Sergej Iosifovič, 23, 24, 40 K KAFKA Franz, 51 KORDA Alexander, 32
KOTT Jan, 12 KOZINCEV Grigorij Michajlovič, 39, 40, 41, 43, 45, 46, 93 KREJCIK Jiri, 78 KUBRICK Stanley, 38 KULEŠOV Lev Vladimirovič, 41 KUROSAWA Akira, 25, 26, 58, 59, 60, 61, 63, 65, 66, 67, 68, 69, 71, 72, 86, 93 L LANG Fritz, 60, 93 LEBEDEV Nikolaj Alekseevic, 41 LEONARD Robert Z., 32 LEYDA Jay, 43 97 LINDER Max, 93 LOSEY Joseph, 91 LUBITSCH Ernst, 91 LUMIÈRE Auguste e Louis, 14 M MAGNANI Anna, 86, MANKIEWICZ Joseph L., 25 MARX Carlo, 45 MASON James, 25 MESZAROS Marta, 93 MICCICHÈ Lino, 92, MIDDLETON MURRY John, 20 MIFUNE Toshiro, 60, 61, 63 MISHIMA Yukio, 66 MIZOGUCHI Kenji, 93 MOZŽUCHIN Ivan Il’ič, 93 MURNAU Friedrich Wilhelm, 85, 93 O OLIVIER Laurence, 15, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 31, 33, 34, 35, 37, 38 OZU Yazuhiro, 58 P PASTERNAK Boris Leonidovič, 46, 47 PIL’NJAK Boris Andreevič, 41 PIRANDELLO Luigi, 59 PREMINGER Otto, 31 PUDOVKIN Vsevolod Illarionovič, 40, 41, 93 R REINHARDT Max, 14, 15 RENOIR JEAN, 65, 86 RICHARDSON Tony, 37
98 ROSSELLINI Roberto, 10, 60, 91 S SALVATORES Gabriele, 87 SEMON Larry, 93 SHAKESPEARE William, 11, 12, 14, 17, 36, 59, 69, 70, 71, 85, 86 SKUPA Joseph, 75, SMOKTUNOVSKIJ Innokentij Michajlovič , 40, 46 ŠOSTAKOVIČ Dmitrij Dmitrievič, 41, 46, STALIN Iosif Vissarionovič DŽUGAŠVILi, 41 STANISLAVSKIJ Konstantin Sergeevič, 33 STROHEIM Erich von, 54, 85 SWIFT Jonathan, 82 T TARANTINO Quentin, 93 TARKOVSKIJ Andrej Arsen’evič, 93 TORNATORE Giuseppe, 87 TRAUBERG Leonid Zacharovič, 40, 43 TRNKA Jiri, 14, 75, 76, 78, 82, 83 TYRLOVA Hermina, 76 V VAN DER GOES Hugo, 17 VAN EYCK Jan, 17 VAN GOGH Vincent, 59, 72 VELASQUEZ Diego Rodríguez de Silva y, 47 VERTINSKAJA Anastasija Aleksandrovna, 46 VERTOV Dziga, David Abelevič Kaufman, 41 VIAZZI Glauco, Jusik Hovrep Achrafian, 92 VISCONTI Luchino, 60, 93 W WELLES Orson, 22, 23, 24, 51, 54, 56, 86 99 WENDERS Wim, 85 WHELAN TIM, 31 WYLER William, 33, 34 Z ZAMJATIN Evgenij Ivanovič, 41 ZEMAN Karel, 76 100 INDICE DEI FILM *illustrazioni A
A proposito di tutte queste… signore” (1964), 86 Akahije(1965), 65 Amleto (1948), 17, 18, 19, 20, 36 Amleto (1964), 40, 45, 46, 47 Anatomia di un rapimento (1963), 65 Anno crudele (Term of Trial, 1962), 37 B Bajaja (1950), 79, 80, Bunny lake è scomparsa (Bunny Lake is missing, 1965), 31 C Carrie (1951), 37 Citizen Kane (Quarto Potere, 1941), 51, 52, D Darek (1945), 76 Derzu Uzala (1975), 67, 68, Discepolo del Diavolo (The Devil’s disciple 1959), 37 Dodes’kaden (1970), 66 Don Chisciotte (1957, 45, 46, E Enrico V (1944), 15, *16, 17, 21, 35, F Ferda e la formica (1942), 76 G Gente semplice (1945), 44, 45, Giardino sotto la pioggia (1942), 76 Giulietta e Romeo (1936), 14 Giulietta e Romeo (1954), 14, 27, 28, 101 Giulio Cesare (1953), 25 I I bassifondi (1958), 64, *65 I due gnomi del gelo (1954), 82 I sette samurai (1954), 61, 62, II bravo soldato Scweik (1955), 82, Il canto della prateria (1949), 79 Il cappotto (1926), 41, Il mulino del Diavolo (1949), 79 Il piccolo fratello (1927), 41 Il Processo (1962), 50, 51, 56, Il quartiere di Vyborg (1939), 44, 45, Il romanzo di un contrabbasso (1949), 79, 80, Il trono di sangue (1957), 25, 26, 61, 63, 64,
Incidente al telegrafo (1941), 45 J Journey into Fear (1943), 54 K Kagemusha (1980), 68, 69, L L’angelo ubriaco (1948), 59, L’idiota (1951), 61, 62, L’unione per la grande causa (1927), 41 La barbabietola del nonno (1945), 76 La giovinezza di Maksim (1935), 43 La nuova Babilonia (1929), 41, 42, La ruota del diavolo (1926), 41 La terra ha sete (1930), 43 La voce nella tempesta (Wuthering Heights, 1939), 33, 34, La volpe e la brocca (1946), 77, 78 102 Lady from Shanghai (1947), 54, L’avventura di Lady X (1938), 31, Le avventure di Ottobrina (1924), 40 L’uomo a molle e le SS (1946), 79 L’usignolo dell’imperatore (1949), 76, 78, 79, M Macbeth (1948), 22, 23, 54, 55 Midsummer’s night’s dream (1935), 14, 15 O Orgoglio e pregiudizio (1940), 32, 33 Otello (1951), 23, 24, 55, 56 Otello il moro di Venezia (1956), 23, 24 P Passione (1963), 84, Pirogov (1947), 45, Q Q Planes” (1938), 33 R Ran (1985), 69,*70, *71 Rapporto confidenziale (1957), 56 Rapsodia d’agosto (1991), 58, Rashomon (1950), 59, 60, 61, Rebecca (1940), 33 Riccardo III (1955), 21, 22, 34, 35, 36, S Sanjuro (1962), 65
Sogni (1990), 58, 71, *72, *73 Sogno di Natale (1942), 76 Sogno di una notte di mezza estate (1959), 14, 82, 83, Sola (1930), 42, 43, 103 Spalicek (L’anno ceco, 1947), 77, 78, Spartacus (1960), 37, 38, Sugata Sanshiro (1943), 59 T That Hamilton Woman (1941), 32, 33 The beggar’s opera (1953), 37 The Entertainer (1960), 37 The magnificent Ambersons (1942), 52, 53 The Stranger (1946), 53, 54 Touch of Evil (L’infernale Quinlan, 1958), 56, Trilogia di Maksim (1935), 43 Twenty-one days” (1940), 33 U Umberto D (1952), 87, 88, V Vecchie leggende ceche (1953), 75, 79, 81, Y Yojimbo (1961), 65 104 NOTE 1 “ Il Premio Pasinetti venne istituito nel 1949 all’indomani della morte di Francesco Pasinetti, lo studioso che contribuì autorevolmente alla formazione in Italia di una coscienza cinematografica. Attraverso il premio si sono rivelati alcuni dei nomi dell’attuale critica cinematografica: esso venne assegnato, tra gli altri, a Vittorio Caldiron, Guido Gerosa, Guido Oldrini, Antonio Napolitano, Ernesto Ferrerò, Giuseppe Feruzzi. In generale, anche questa IV edizione ha confermato la sua duplice funzione: segnalare nel campo della critica cinematografica nuove forze e fresche energie, e mantenere vivo il colloquio e la collaborazione che “Cinema Nuovo” intende avere con i suoi lettori.”(“Cinema Nuovo N.151”- maggio-giugno 1961) 105
Document Outline IN MEMORIAM Dello stesso autore Indice BIOGRAFIA “A GUISA DI PREFAZIONE…” SHAKESPEARE SULLO SCHERMO LAURENCE OLIVIER INTERPRETA E REGISTA UN OMAGGIO ALL’OCCIDENTE DI GRIGORIJ KOZINCEV ORSON WELLES, IL REGISTA “ARRABBIATO” AKIRA KUROSAWA: UN SOL LEVANTE SUL MONDO OCCIDENTALE JIRI TRNKA: UN GRIMM DELLO SCHERMO QUALE CINEMA PER LA TV? LA CULTURA CINEMATOGRAFICA OGGI: UNA CRISI TEMPORANEA? Indice dei nomi Indice dei film Note