Saggi di storia e critica del cinema. Festival di cinema di Venezia 1961, 1962, 1965 e 1969. Napoli-Sorrento 1963, 1964, 1965 e 1969. Salerno 1974, 1975, 1991 e 1993 [Vol. 7] 1704524369, 9781704524368

Antonio Napolitano (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Ha pubblicato, fin d

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Italian Pages 137 [118] Year 2019

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Table of contents :
IN MEMORIAM
DELLO STESSO AUTORE
Indice
BIOGRAFIA
"A GUISA DI PREFAZIONE..."
VENEZIA XXII: FUORI PALAZZO
"OUTSIDERS" A VENEZIA
VENEZIA XXIII: UN SAPORE DI SMOG
VENEZIA XXVI: "VENTI ORE" DI "FEDELTA" PREZIOSE
VENEZIA XXX: NOTE SUL CINEMA AFRICANO
IL CINEMA E LA REALTA ITALIANA
I FILM
INTERVENTO AL CONVEGNO "CINEMA E LETTERATURA
SI RIVEDE IL CINEMA INGLESE
IL MEZZOGIORNO E IL CINEMA ITALIANO
IL SUD NEL CINEMA
I PROBLEMI DELLA COMMUNICAZIONE AUDIOVISIVA
TECNICHE ELETTRONICHE E DIMENSIONE CREATIVA
INDIGESTIONE UFFICIALI STAGIONALI
Indice dei nomi
Indice dei film
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Saggi di storia e critica del cinema. Festival di cinema di Venezia 1961, 1962, 1965 e 1969. Napoli-Sorrento 1963, 1964, 1965 e 1969. Salerno 1974, 1975, 1991 e 1993 [Vol. 7]
 1704524369, 9781704524368

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SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA 7 FESTIVAL DI CINEMA VENEZIA 1961, 1962, 1965 e 1969 NAPOLI – SORRENTO 1963, 1964, 1965 e 1969 SALERNO 1974, 1975, 1991 e 1993 Copyright 2019 Marina Napolitano Doriomedoff Tutti i diritti riservati Edizione, fotografie e progetto grafico a cura di Marina Napolitano Doriomedoff Si ringrazia la gentile Professoressa Daniela Menetto che mi ha concesso l’uso di una sua fotografia per il testo “Splendori e miserie dei cinefestival” 2

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4 IN MEMORIAM Du soleil la céleste flamme Avec les jours revient et fuit; Mais mon amour n’a pas de nuit, Et tu luis toujours sur mon âme ALPHONSE DE LAMARTINE A mio marito Firenze 1 novembre 1989 – 1 novembre 2019 5 DELLO STESSO AUTORE Totò, uno e centomila Tempo Lungo, Napoli 2001 G. Leopardi. Un taccuino napoletano, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2007 Il memoriale di Seneca. Un galateo del ben vivere e del ben morire, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2008 Shakespeare: specchio del mondo. Lo stile come messaggio, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2010 Cinema d’autore off Hollywood, Ist.Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2012 ANSIA VIVA – Momenti lirici Amazon – Ebook Kindle – 2016 IDEOGRAMMI esercizi a mente libera POLITICOPOLI epigrammi sale e pepe

Amazon – Ebook Kindle - 2016 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 1: Ingmar Bergman Robert Bresson Andrej Arsen’evič Tarkovskij Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018 Volume 2: Shakespeare sullo schermo, Laurence Olivier, Akira Kurosawa,… Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018 Volume 3: Film significato e realtà Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2017-2018 Volume 4: Cineasti russi a Parigi (1917-1950), Ėjzenštejn teorico Tra gelo e disgelo & altri saggi Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2018 Volume 5: Napoli nello specchio del cinema (Registi e film nel II dopoguerra dal 1945 al 1990), I circoli del cinema a Napoli (1947 – 1968) e altri saggi Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2019 Volume 6: Registi francesi - C.Autant-Lara, J.Becker, R.Bresson, R.Clair, H-G.Clouzot, J-L.Godard, J.Renoir, A.Resnais, J.Tati, F.Truffaut, J.Vigo e altri saggi Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2019 6 INDICE IN MEMORIAM 5 Dello stesso autore 6 BIOGRAFIA 9 “A GUISA DI PREFAZIONE…” 11 MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA 1961 - VENEZIA XXII: FUORI PALAZZO 16 1961 - “OUTSIDERS” A VENEZIA 23 1962 - VENEZIA XXIII: UN SAPORE DI SMOG 31 1965 - VENEZIA XXVI: “VENTI ORE” DI “FEDELTÀ” PREZIOSE 50 1969 - VENEZIA XXX: NOTE SUL CINEMA AFRICANO 64 INCONTRI INTERNAZIONALI DEL CINEMA DI SORRENTO 1963 - IL CINEMA E LA REALTÀ ITALIANA 73

1964 - I FILM 86 1965 - INTERVENTO AL CONVEGNO “CINEMA E LETTERATURA” 93 1986 - SI RIVEDE IL CINEMA INGLESE 99 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL CINEMA DI SALERNO 1974 - IL MEZZOGIORNO E IL CINEMA ITALIANO 104 1975 - IL SUD NEL CINEMA: L’EMARGINAZIONE DI UN CONTESTO 109 1991 - I PROBLEMI DELLA COMUNICAZIONE AUDIOVISIVA 121 1993 - TECNICHE ELETTRONICHE E DIMENSIONE CREATIVA 124 INDIGESTIONI UFFICIALI STAGIONALI 127 Indice dei nomi 129 Indice dei film 134 7

8 BIOGRAFIA Antonio NAPOLITANO (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Tra 1947 e il 1959, Antonio Napolitano è socio poi dirigente del “Circolo Napoletano del Cinema” e di altri cineclub. Nel 1959, già insegnante abilitato in inglese, va a diplomarsi in Inghilterra in “General linguistics” . Dal 1956 inizia a collaborare a riviste letterarie e di cinema, tra quali “L’Italia letteraria”(FI), “Il Letterato”(CS), “L’altro cinema”(MI), “Cinema Sud”(AV) etc. Nel 1961 vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese negli Istituti Superiori statali. Nel 1960, ha ottenuto il “Premio Pasinetti-Cinema Nuovo”1 a Venezia, per la saggistica filmica e collabora a “Cinema Nuovo”(MI), “Civiltà dell’immagine”(FI), “Le Artinews”(RO) e, in seguito a “Filmcritica” e altre pubblicazioni specializzate. Per conto di tali riviste, è stato, fin dal 1959, più volte inviato alle Mostre di Venezia, Locarno, Karlowj Varj, Salerno etc. Per lunghi anni ha collaborato a quotidiani con articoli di cinema e di linguistica (da “Il Mattino” di Napoli a “Il lavoro” di Genova, “La Voce della Campania” e altri. Vari suoi saggi sono tradotti in danese, svedese, inglese, e russo. Nel 1969 ha consegnato la libera docenza universitaria in “Storia e Critica del cinema” e ha tenuto corsi e seminari presso Università statali e private. Dal 1963, per oltre un decennio, è stato nel Direttivo degli “Incontri internazionali del Cinema” di Sorrento e in quello del “Centro di filmologia”. E’ stato chiamato numerose volte a tener conferenze e presentazioni di film in istituti di cultura in Italia e all’estero. Il suo è stato un lavoro di decenni teso ad una seria valutazione e degli autori partendo da valide basi di Estetica, al di là delle mode, dello “up to 1 “Il Premio Pasinetti venne istituito nel 1949 all’indomani della morte di Francesco Pasinetti, lo studioso che contribuì autorevolmente alla formazione in Italia di una coscienza cinematografica. Attraverso il premio si sono rivelati alcuni dei nomi dell’attuale critica cinematografica: esso venne assegnato, tra gli altri, a Vittorio Caldiron, Guido Gerosa, Guido Oldrini, Antonio Napolitano, Ernesto Ferrerò, Giuseppe Feruzzi. In generale, anche questa IV edizione ha confermato la sua duplice funzione: segnalare nel campo della critica cinematografica nuove forze e fresche energie, e mantenere vivo il colloquio e la collaborazione che “Cinema Nuovo“ intende avere con i suoi lettori.”(“Cinema Nuovo N.151”- maggio-giugno 1961) 9 date” e della “novità” ad ogni costo. E’ deceduto il 31 marzo 2014 dopo una lunga malattia. Il suo ultimo saggio scritto in 2013, su Roberto Rossellini è stato pubblicato nel 2014 dalla rivista “Arte e carte”.2 2 Per evitare ogni confusione sul nome, mio marito non ha mai scritto su pagine web come taxidrivers, lospaziobianco, close-up e altre simile. Ne si è interessato a questo tipo di film.

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“A GUISA DI PREFAZIONE…” SPLENDORI E MISERIE DEI CINEFESTIVAL 11 A leggere le cronache del recente Festival del Cinema di Venezia (2009), si è avuta l’impressione che il Lido sia stato invaso da una folla di alieni ed estranei alla Decima Musa patrona, un tempo, della “Mostra d’Arte cinematografica” in atto fin dal 1932 e dal glorioso percorso durato circa un settantennio. Come hanno meglio documentato telegiornali e rubriche ad hoc, sono sfilati davanti al Palazzo del Cinema stilisti, miliardarie americane, e fi-danzate italiche di divi americani, perfino “escort” (dal latino “scortum” , a quanto pare) e fans imbucatisi oltre le transenne. Un’altra particolare sensazione l’ha trasmessa la dichiarazione preliminare del direttore M.Muller, esperto sinologo (non filmologo) che manife-stava il suo entusiasmo per essersi assicurato ben sette (7) “horror film” e che due premi speciali riguardavano il porno-soft di Tinto Brass e lа “nobile arte” di un Sylvester Stallone. Così, infatti, C.Moretti sintetizzava il contenuto culturale del Festival: “sesso, cannibalismo e scandali” (“La Repubblica” del 2.09.09). Qualche compensazione appariva nell’aver incluso nel concorso alcune opere di registi italiani, dai validi Tornatore e Maselli, ai meno consolidati C.Comencini e M.Placido. A visionare poi tanti film proiettati nei giorni susseguenti, non si poteva non dare ragione a P.Mereghetti che aveva, a metà festival, annotato che “la grande dimenticanza, ormai, era il cinema d’autore, che era stato la forza e l’orgoglio della Mostra” .

Comunque, alla conclusione il “Leone d’oro” era andato all’interessante film israeliano “Lebanon” sulla vita di alcuni giovani soldati reclusi per ore e ore tra le pareti di acciaio di un carro armato. E, seppur postumo, i giornali di metà settembre riportavano il ramma-rico del Presidente della Giuria che ammetteva, col senno di poi, che il massimo premio sarebbe spettato all’opera di Tornatore “Baaria” . Per un confronto, forse oggettivamente non benevolo, si vuol qui ricordare che, alla prima Mostra del 1932, vennero presentati, tra il 6 e il 21 agosto, “A nous la liberté” di R.Clair, “Ragazze in uniforme” di L.Sagan, “Verso la vita” di N.Ekk, “La terra” di A. Dovženko, nonchè “Gli uomini, che mascalzoni!” di M.Camerini (con Vittorio De Sica) e altre commedie di E.Lubi-tsch, F.Capra, opere tutte destinate ad entrare nella Storia del Cinema. Nel 1934, sarebbe stata la volta de “L’uomo di Aran” di R.J.Flaherty, di “Estasi” di Machaty, e ancora di pellicole di F.Capra, G.Molander e così via grazie al criterio di rigorosa selezione in base alla qualità delle realiz-zazioni. 12 Alla ripresa, nel dopoguerra, i “Leoni d’oro” verranno assegnati a “Amleto” di L.Olivier (1948), “Rashomon” di A.Kurosawa (1951), “Ordet” di C.T.Dreyer (1955), “Aparajito” di S.Ray (1957) e così continuando magni-ficamente. Intanto, dal 1945 nascono vari Festival in concorrenza con Venezia, ad esempio quello di Cannes (all’inizio con “Le grand Prix” poi divenuto “La Palme d’or” che mantiene però, un livello più che dignitoso). Il primo film premiato dalla giuria sarà “Marty” di D.Mann, poi “Quando volano le cicogne” di Kalatozov, e ancora “La dolce vita” (1960) di Fellini, e “Il Gattopardo” (1963) di Visconti eccetera. Anche lì come a Venezia, per i primi decenni le scelte saranno operate da giurie competenti composte da registi e soprattutto da storici, studiosi e critici di cinema dall’indubbio prestigio internazionale. Nel 1951, nascerà “Il Festival di Berlino” con l’assegnazione degli “Orsi d’oro” , dati, ad esempio, nel 1958, a “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman e poi ad opere di Antonioni, Godard, Polanski e De Sica. E’ dal 1970 che inizia la strabiliante proliferazione di Festival: ogni centro d’interesse turistico nè creerà uno, da Agrigento ad Amiens, da Bilbao a Torremolinos, fino a raggiungere nel 1991 la cifra di 129 festival solo a considerar l’Europa. Le motivazioni dei premi conferiti saranno del più strambo tipo, prove lampanti dell’analfabetismo cinematografico di gente che va improvvisan-do giudizi, senza conoscere i termini di confronto nè possedere strumenti critici adeguati. Al contrario, è interessante scorrere gli elenchi dei nomi dei giurati delle principali Mostre fino agli anni ‘80. A titolo di cronaca, si reperiscono quelli dei presidenti: nel 1946 a Venezia: F.Pasinetti noto storico del cinema, nel 1956 J.Grierson, con componenti la commissione del calibro di un André Bazin, Luchino Visconti, G.B.Cavallaro e il russo F.Ermler, o nel ‘62 il professore Luigi Chiarini, autore di libri sull’estetica del cinema, coadiuvato da critici quale G.Cha-rensol e registi come il russo I.Chejfic (autore de “La signora col cagnolino” dallo squisito clima cechoviano e premiato l’anno precedente). O, ancora, per amore di sintesi, quella giuria del 1965 con Carlo Bo, presidente e L.Jacobs storico del cinema americano e Jay Leyda, storico e E.Morin, studioso di mass-media, così sempre volando ad alta quota. Purtroppo, già nel ‘68, le contestazioni e ribellioni contro “le cinéma de papa” fecero saltare Cannes e Venezia. Qui si aprì un “Festival alternativo” e si pretesero le dimissioni di Chia-13

rini e di altri studiosi di valore, da F.Di Giammatteo a V.Marinucci. Lo stesso “Leone d’oro” fu abolito per vari anni e ripristinato solo nel 1980 ( “abbasso la meritocrazia” gridavano i figli di papà che sarebbero stati garantiti dalle raccomandazioni per portare “la loro immaginazione al potere” in vari campi della società, con le conseguenze ancora visibili al tempo nostro.). D’altra parte occorre ammettere che ci furono, fin dagli anni 60, alcune Mostre con una notevole serietà di intenti, da Pesaro, attenta alla più impegnata produzione europea e diretta per anni da L.Miccichè fino a Sorrento. Qui, nel 1963, un’équipe formata da E.Fiore, R.Paolella, F.Frascani e il sottoscritto dette vita agli “Incontri internazionali del Cinema”. Solo nel 1966 ne prendeva le redini G.L.Rondi che da pedissequo consi-gliere di Andreotti, avrebbe cancellato il triennio precedente al suo suben-tro (la “damnatio memoriae” tipica degli stalinisti nostrani alunni dei gesuiti.). Comunque, sarebbero continuate le retrospettive e le monografie nazione per nazione. E dal 1970, anno della sua scomparsa, sarebbe stato assegnato oltre alla “Sirena d’oro” anche un premio “Roberto Paolella” in memoria dello storico napoletano del cinema, oggi spesso dimenticato ma volentieri “sac-cheggiato”. Il primo “Paolella” veniva dato al grande attore I.Smoktunov-skij, per il complesso delle sue prestazioni shakespeariane. Pian piano arrivò anche il declino degli “Incontri” e negli ultimi anni Rondi lasciò l’incarico a Valerio Caprara, critico de “Il Mattino” che lo ha retto fino a pochi anni fa. Altri festival minori ma di qualche rilievo sono stati Locarno, Karlovy Vary, San Sebastiano e Mosca. Quest’ultimo ha mostrato una tenuta di serietà, tipica di un paese che ha avuto grandi registi e scuole di cultura cinematografica ineccepibili. Al contrario, ci pare che un segno della demagogia pedagogica degli ultimi tempi, è quella giuria poco più che infantile di Giffoni Vallepiana, composta da ragazzini tra i 7 e i 15 anni: una conferma del disorientamento della cultura in Italia (e della scuola divenuta sede di “enciclopedici ignoranti” nei banchi e, talvolta, perfino in cattedra, tipi, cioè che sanno sciorinare a memoria la formazione del “Torino” nel 1947 e non distin-guono Carlo Magno da Carlo V). La conseguenza peggiore ad ogni modo, resta la sempre più scarsa influenza esercitata da tanti premi inflazionati e da segnalazioni fasulle sul-14 la effettiva circolazione delle “grandi opere” proiettate nei detti Festival, scialacquatori - però di belle somme di denaro pubblico, con l’astuzia di farsi belli con le piume di qualche divo inconsapevole del trucco ed invita-to ad uso promozionale dagli illuminati promotori della manifestazione. La confusione crescente tra valore veri e transeunti e il degrado progressivo del gusto già propagato dai miseri palinsesti delle TV, caratterizza oggi gran parte della “civiltà dell’immagine” e, quindi, dei cinefestival. E l’Italia, purtroppo, è più che matura per indossare la “maglia nera” anche in questo campo, a disdoro del suo prestigioso passato e dei suoi Maestri dello schermo. Napoli, 26 settembre 2009 15

1961 VENEZIA XXII: FUORI PALAZZO 16 Da un osservatorio minore e quasi clandestino rispetto a quello ufficiale e mondano del Palazzo del Cinema, è stato possibile dare uno sguardo su alcuni film che, per le loro peculiarità, per gli elementi evolutivi o anche involutivi in essi presenti, danno adito e giustificazione a più di un ragionamento. Intendiamo riferirci a quella serie di proiezioni che ha avuto luogo al cinema “Excelsior” del Lido e che ha annoverato “outsiders” co-raggiosi e rifiutati ostinati o soltanto pretenziosi. Di due film italiani (uno d’intreccio e uno documentario) si può forse parlare in maniera più sistematica, quali esponenti di una corrente che si va ampliando nell’attuale produzione (e questo è certamente un bene) ma che non si sottrae a certi rischi, a certe soluzioni di ripiego. Discorso questo che vale soprattutto per “Un giorno da leoni” di Nanni Loy, che si rifà appunto a quel filone che va da “Tutti a casa” a “Che gioia vivere” o a “II federale” . In esso, se è encomiabile lo sforzo di assorbire la pesante colo-ritura di un certo genere comico-pittoresco in opere che facciano da spia a convinzioni e idee di linea antifascista, non ugualmente lodevoli sono l’o-neroso compromesso con il gusto per la farsa alla romana o la transazione con i punti di vista al di là della barricata. La storia di questi resistenti per forza o per amore (due soltanto sono i convinti, quelli che trascineranno con sé tutti gli altri) i quali devono far saltare un ponte nel Lazio e arrivano al compimento della missione attraverso un groviglio di troppe coincidenze e concomitanze, se da una

parte è gradevolmente scorrevole, cede dall’altra a una convenzione spettacolare pericolosa, evitata, infatti, da registi quali Lizzani o Vancini entrati in contatto con la stessa materia narrativa o con la stessa temperie storica. Non a caso, poi, questi ultimi autori si sono serviti di solidi impianti letterari, scansando cosi le secche del racconto dialettale o di mera discendenza cinematografica. Se, quindi, con la sostanza e con le conclusioni di questa “avventura” partigiana si può essere d’accordo, non si possono accettare le sue cadenze, i suoi eccessivi “giustappunto” , le indorature comiche del dramma che servono solo a sbiadire la dignità della vicenda. Per di più, causa un’altra malattia che si va diffondendo tra certi registi minori della nuova leva, - la malintesa passione per l’oggettività, l’unica atro-cità cui si assiste nel film è proprio l’uccisione a sangue freddo di un fascista, svista che fa il paio con il linciaggio del gerarca ne “Il federale” e che rappresenta qualcosa di veramente atipico. Una controprova dell’assoluta drammaticità di quel periodo di storia è stata offerta da “All’armi, siam fascisti!” che tre giovani (Del Fra, Mangini e Miccichè) hanno ricavato montando con gusto, sagacia e acume film-17

18 giornali di varia provenienza e affidandone il commento al testo, asciutto e tagliente, di Franco Fortini. Sono le immagini salienti degli anni che vanno dal ’22 al ’45 (nella primitiva intenzione

degli autori si doveva risa-lire agli episodi dei fasci siciliani) e, se dal punto di vista dello stile si nota una frattura, si comprende bene come essa sia voluta: alla grande farsa farà séguito la immane tragedia. Nella prima parte, infatti, viene posto sotto il fuoco della satira tutto il provincialismo fascista, dalla truculenta mimica mussoliniana (che si affinerà solo con gli anni) al la retorica da strapaese e alla marea montante del servilismo, indulgendo qualche volta all’aneddoto e saltando più grossi problemi di valutazione: cosi, se sono mostrati come simboli i volti di un Matteotti, di un Gramsci, di un Gobetti (profeti non certo disarmati), nessun riferimento appare a Salvemini o a Croce mentre sarebbe stato interessante “vedere” qualcosa a proposito del “contromanifesto” e della polemica che da essa germinò e che immu-nizzò comunque una buona parte della cultura italiana dal conformismo e dal parassitismo. Con questi appunti non si vuol negare l’alto impegno civile dell’opera: le lacune si possono presumere facilmente dovute allo sforzo di condensare in due ore un cosi lungo e frastagliato periodo: omissioni e semplificazio-ni che risultano perfino in testi riassuntivi di storici di chiara fama. L’os-satura del documento si fa, del resto, più salda nella seconda parte quando, cancellata l’infarinatura grottesca delle dittature, si svela il sangue sparso d’Europa e la critica viene così a incidersi all’interno del problema stesso. Il commento, allora, si fa più virilmente intonato anche se ritorto un po’ contro tutti, per esuberanza di rigore morale, senza graduare torti e responsabilità ma per ciò stesso conservando l’accento di una robusta e scarna oratoria come si conviene ancora oggi a troppi italiani tranquilli. Vengono così date immagini inedite dei fatti di Spagna (abbandonata, in verità, da tutte le potenze democratiche), come le sequenze della ritirata verso la Francia e i suoi campi d’internamento degli ultimi, gloriosi gruppi di resistenza antifranchista. O il contrappunto fortemente, giustamente marcato tra l’ariana, frigida salubrità di Eva Braun “in privato” e la deva-stata, lacerata umanità dei poveri corpi ebrei nei campi di sterminio nazisti. Infine la cronaca rapida ma toccante di quel risorgimento che fu la Resistenza, tappa fondamentale nella crisi di crescenza democratica italiana, e quindi il richiamo finale a questa vera nobiltà. dello spirito, fatta di sensi di giustizia e di libertà e che ha ritrovato corpo e vigore nei fatti del luglio ‘60. Un film polacco, “Odwìedziny Prezydenti” ( “La visita del presidente” ), già premiato a San Sebastiano ha riproposto, invece, il problema della ca-19 renza di affetto da parte dei figli: argomento questo ben più degno di attenzione e di diffusione di certe questioni estremamente drammatizzate sullo schermo maggiore del Lido (ben tre pellicole dedicate alla omoses-sualità). Il valore psicologico e pedagogico della pellicola riscatta, secondo noi, non poche delle sue ingenuità narrative: il piccolo Jacek che sente mancare l’affetto del padre (divorziato e con una nuova moglie e un altro bambino), si è costruito con l’immaginazione un suo personaggio, il Presidente, a somiglianza fisica del padre ma senza i bruschi fastidi, le nervose ripulse di lui e che non trascura gli impegni presi e che, insomma, nella propria voce paziente esprime tutto il calore umano dovuto a un figlio. Nell’opera è agevole trovare connessioni che vanno da “I bambini ci guardano” a “I 4oo colpi” ma il regista Jan Batory ha saputo conservare un timbro e soprattutto un’ambientazione originale che consentono di pe-netrare a fondo nella misura quotidiana della vita polacca di oggi. Batory, che è stato, fra l’altro, aiuto regista della Jakubowska per “L’ultima tappa” , ha tratto dai modi lirici della novella di Zawjeyski un sobrio ritmo realista, intaccato solo da qualche indugio onirico, e ha porto un piccolo specchio alla coscienza degli adulti che è cattiva anche quando è solo distratta o trascurata nei confronti dei piccoli. Quello che risulta veramente fuor del comune è la recitazione, di una dolorosa, angosciante compostez-za da parte del piccolo Janusz Pomaski, merito anche questo, riteniamo, del calore con cui il regista ha approfondito il difficile mondo dell’infanzia. Al contrario gli attori adulti (tutti provenienti dalle scene teatrali) risultano spesso irretiti in una recitazione angolosa e che tradisce lo stereotipo. Altra pellicola indenne da presunzioni di sorta è l’americana “The Illegals” , dell’indipendente Meyer Levin. Si tratta di un documentario “pris sur le fait” , che descrive l’esodo clandestino degli ebrei dell’Europa centrale verso la nuova terra promessa di Israele, dopo la fine del secondo conflitto mondiale: una “underground railway” ancora più massiccia di quella che vide la migrazione dei negri degli Stati del Sud verso quelli del Nord, dopo la guerra di secessione. Nessun compiacimento per l’avventura è dato rilevare nelle peripezie di una coppia di sposi, Sarah e Micah, decisi a rifarsi una vita nel nuovo stato: il loro “cammino della speranza” sarà vigilato dagli

uomini dell’Aganah. Senza “happy ending” , senza sbanda-menti patetici o melodrammatici questo “travelogue” è una pagina scritta dalla “filmstylo” con rara modestia e onestà e che sarebbe opportuno ricordare a proposito del già tanto pubblicizzato “Exodus” che, al confronto, perderà di verità nella stessa misura in cui guadagnerà in spettacolo. 20

21 Esemplarmente negativo, al contrario, può considerasi “Le goût de la violence” di Robert Hossein che, dopo le prove superpirandelliane de “La notte delle spie” , è trasvolato, con autentica “nonchalance” , a un Messico di maniera, in cui si è lasciato sopraffare da ogni sorta di ridondanze amorose, anarchiche e “pistolere” senza avere dalla sua nemmeno un Figueroa (mai come stavolta il paesaggio è improbabile e il film si avverte “girato” altrove, in Jugoslavia per la cronaca). La posta in palio è enorme e falsa: arrivare al midollo esistenziale del melodramma latino, ricercare il giuoco dell’indifferenza e dell’amore nelle vene surriscaldate di ipotetici rivoluzionari. Il trucco mostra le corde, e sono particolarmente logore: la recitazione della Ralli (una Del Rio in sedicesimo) che contrabbanda il suo impaccio per estasi erotica inutilmente inibita e inutilmente esplosiva, e la ovvia intelaiatura musicale sono le cifre più lampanti della grossolana ingenuità o malafede liceale dell’autore. Sembra quasi superfluo

sottolineare che sono queste le vie che portano al commercialismo più spurio, quello cioè imbottito di pretese sofisticate e polemiche. Venezia – Napoli - Cinema nuovo, Settembre-Ottobre 1961, n.153 22 1961 “OUTSIDERS” A VENEZIA L’informativa e la retrospettiva Il difetto che, a giudizio di molti, pesa sulla Mostra, quello, cioè, di essere troppo gremita di film, tra i quali riesce ugualmente difficile sceverare il capolavoro, si riscontra, in misura ancora maggiore, nella sezione del Festival veneziano conosciuta ormai col nome di “informativa” . Ciò non toglie che, spesso, proprio per la strana miopia dei selezionato-ri, essa presenta non poche e gradite sorprese. Così quest’anno, va detto subito che film come “II posto” di E.Olmi, “Chronique d’un été” di Jean Rouch, “Accattone” di Pasolini, “Cistoie niebo” di G.Ciukraj potevano senz’altro rimpiazzare quelle pellicole di infima rilevanza che erano riuscite ad inserirsi nel calendario della rassegna principale. Tra le circa trenta opere che si sono susseguite sullo schermo pomeri-diano del Palazzo del Cinema, anche un osservatore non troppo severo potrebbe operare tagli con l’accetta: solo una politica sfumata di diplomazia internazionale ha infatti potuto permettere l’inclusione di opere che dopo dieci minuti di proiezione avevano già esaurito tutte le loro infantili ambizioni o le loro pretenziose speranze. Opere appartenenti, in maggio-ranza, a quelle cinematografie minori che si trovano a dover superare un’adolescenza difficile divisa spesso tra torbidi inviti alla calligrafia o al documento spiattellato come in un edificante abbecedario. Per questa buona ragione si possono saltare a piè pari diversi film di provenienza argentina, messicana, greca, etc. (coreana per es.). E in ordine di interesse cercheremo di parlare, appunto, delle cose più vive: constatando subito come anche in questa mostra minore il cinema italiano ha dato altre concrete prove del suo rinnovato rigoglio. “II posto” di Olmi è stata un’autentica sorpresa; si conosceva un già personale narratore nel giovane regista della Edison di Milano per il suo precedente “II tempo si è fermato” , ma ora si può dire con serenità di esser di fronte ad una vena insolita di autore nella congerie indifferenziata dei banali ricalcatori della commedia neo-romanesca. Olmi svela infatti un suo umoroso e insieme patetico temperamento con l’introspezione che opera in quel mondo che già Gogol e Courteline avevano compreso come “tipico” di tutta una condizione borghese: il mondo degli impiegati. In questo medaglione di un quasi imberbe e ancora svagato aspirante al “posto” , travolto subito dall’ovattata violenza delle prove 23

24 psicotecniche e poi dall’arida, chisciottesca routine dei “ronds de cuir” , Olmi ha saputo scavare con mano leggera, con ritmo tutto suo: la malde-stra grazia del protagonista, la sua incantata timidezza fanno presagire un Tati nostrano e meno staccato dalla realtà quotidiana. Un esordiente (nella regia) chè nel cinema Montaldo ha una lunga pratica di attore, aiuto-regista etc., ha riproposto un tema di indiscutibile importanza, con “Tiro al piccione” , tratto dal libro omonimo del mercuriale Giose Rimanelli. Il film viene ad accentuare, secondo noi, i difetti latenti nel romanzo: quel tono di esasperata oggettività che rende la cronaca della Resistenza “dall’altra parte della barricata” e che nel suo amore per lo psicologismo, viene a defraudare la Storia del suo tutto tondo. La vicenda si rivela inol-tre aduggiata da una storia d’amore trita quanto “avventurosa” e condotta per inespressivi moduli di recitazione da una Rossi Drago congelata nel suo destino di bella Narcisa. Un film invece, che, a parte le riserve e le discussioni che possono essere sollevate, è indubbiamente un film da festival è “Accattone” di Pierpaolo Pasolini. Rispetto ai temi della sua narrativa Pasolini non devia di un centimetro: si tratta appunto della vita violenta di giovani “papponi” , chiusi nelle mi-serabili borgate di Roma come in “veri e propri campi di concentramento morale” , dall’anima intorpidita per troppa fame e per troppo lunga assenza di umanità. Dal punto di vista tecnico lo scrittore si rivela particolarmente abile, an-zi familiare col nuovo mezzo espressivo come se, usando la penna, avesse visto anche allora prima le inquadrature dei suoi personaggi e poi il loro riflesso nell’inchiostro della pagina scritta. Ciò non toglie che rischi ne corre anche lui, proprio per la forzatura di certe cifre stilistiche: la musica di Bach che controcanta quella abietta vita va oltre i righi della polemica; la sovrana esposizione dell’obbiettivo dà un’inutile aura dreyeriana all’ambiente, (e le suggestioni espressioniste del sogno).

La figura di Stella resta anch’essa un po’ staccata dal quadro narrativo, quasi venisse fuori da quella vena verginale di poesia che dettava al primo Pasolini le liriche in lingua o in dolcissimo dialetto friulano. Fra i film delle selezioni straniere ha fatto spicco in modo particolare “Chronique d’un été” di Jean Rouch, il caposcuola del cinema-verità: un autentico saggio di spregiudicatezza linguistica che, se per certi versi si ri-fà al manifesto zavattiniano, per una realtà presa sul fatto, mostra ten-25

26 denze di più ricca natura: si veda con qual senso di humour, di tenera simpatia vengono condotte le interviste sulla felicità dei parigini e poi con quale partecipazione vengono registrati i crucci, i dolori, i soprassalti del cuore. Siamo veramente al limite superiore dell’inchiesta e a parte qualche snodo posticcio o qualche raccordo di comodo, nel film scorre un vivo senso di una scienza (la sociologia) portata al livello della calda e impro-grammabile verità umana. Ben altro carattere e impegno ideologico si trovano in “Čistoe nebo” (Cieli Puliti) di Grigorij Čuchraj. La vicenda dell’aviatore sovietico che so-lo alla morte di Stalin otterrà la revisione dell’ingiusto processo che lo in-famava come codardo o quasi traditore e che

riconquisterà così il suo diritto alla vita e alla stima dei compagni è l’opera che fa da spia al disgelo politico ancora in atto nella Russia di Chruščëv, dopo il rapporto al XX congresso. La prima parte, che rivela il lento sfacelo della speranza, il chiu-dersi delle porte amiche, il progressivo e angoscioso isolamento del giovane pilota, è forse la parte migliore, più limata, più sentita, meno corriva. Nel finale, con le immagini del ghiaccio che si trasmuta in chiari torren-ti, in fresche acque di fiume e con l’annunzio della morte di Stalin, resta solo un’appendice vagamente oratoria in cui si innesta il simbolo: la fine dell’opaco clima di quegli anni di gelo. Ma una sottile analisi stilistica sarebbe un’ingiustizia nei confronti di un racconto che assume tanta rilevanza di tesi e di contenuto e che è indubbiamente di solida fattura. “Piel de Verano” di Leopoldo Torre Nilsson è un’opera strana, in cui la latente sincerità del regista risulta impastoiata spesso in reminescenze letterarie e decadenti, fuori moda. Così nel film del messicano Rodriguez, “Animas Trujano” si salva appena qualche episodio, proprio per la presenza di quell’attore dalla multipla vitalità che è Toshiro Mifune. Ad un ottimo livello si possono collocare anche i due esponenti degli USA: “The Exiles” di Kent Mckenzie e “The connection” l’allucinante documento girato da Shirley Clark e e la sua troupe, un gruppo di uomini destinati tutti a tragica fine per l’incancrenito vizio della droga: la stessa tecnica di ripresa è ovviamente confusa, approssimativa, ma il peso umano di queste pagine di abiezione, di vittimismo, il loro tono di degradato “De Profundis” ne fanno una testimonianza non facile a cancellarsi nella memoria. La retrospettiva di quest’anno si è articolata, come è noto, in due distinti cicli: uno dedicato alla personale di Mack Sennett ed una al cinema cecoslovacco dai primordi ai nostri giorni. 27 L’irlandese Michael Sinnott, meglio conosciuto come Mack Sennett è, per luogo comune storico, il papà della “comica finale”. Noto ancor più come allevatore di genii o quasi genii: Chaplin, Harold Lloyd, Fatty Arbu-ckle, Buster Keaton e Harry Langdon: questi ultimi due detti “dead-pans” , espressione che si potrebbe tradurre in “facce di padella morta” . Altre filiazioni illustri di Sennett sono i Keystone Gops e le “Bathing Beauties” , prototipi di tutte le bellezze al bagno di marca rivistaiola. A rivedere, come in una girandola, queste vecchie comiche piene di meccanismi di precisione, di acrobatiche fughe e di ancor più acrobatiche cadute, si comprende quale salto qualitativo abbia fatto, dopo alcuni anni, Charlot con la sua carica di consapevolezza umana. Se si supera il fastidio di certi effetti frigidamente clowneschi, nelle cose minori in cui le torte in faccia o le dinamiche accelerazioni lasciano im-perturbato o addirittura allergizzato lo spettatore, si possono ancora go-dere certe parodie (soprattuto quando a cadere o a prender bagni sono “i pops” ) e si avverte allora come una certa reazione alla compassata e deso-lante legalità puritana bolliva pure nell’animo bonaccione di Sennett. “Una avventura movimentata” è quasi il paradigma di questa involontaria eversione del costume; per quella figura di giudice (autore lo stesso Sennett) ridotta ad uno straccio per via di quelle funamboliche avventure di sapore sfacciatamente e grottescamente erotico. Ma l’intelaiatura di molte di queste farse si rivela già sconquassata dagli anni e talvolta pleonastica: alcune si possono digerire solo con beneficio dell’inventario storico. E infatti sappiamo bene quale importanza possono assumere questi incunaboli di un’arte che allora lottava per la sopravvivenza, anche per merito del coraggio inventivo che Mack dimostrava nel ricreare a distanza di pochi giorni (se non di poche ore), le gags più logo-rate e più risapute. Ma se è vero che si può rintracciare, a ritroso, l’ascendente di questo efficace seppur grossolano humour nella splendida matrice shakesperiana (ad es. i meccanici di “A midsummer Night’s dream” , come ha sostenuto per primo T.Dreiser) si farà bene a distinguere, per evitare l’iconoclastia, il gusto dell’iperbole dalla utilitaria tendenza al paragone. Un ben più nutrito interesse ha suscitato, nel suo complesso, la retrospettiva del cinema cecoslovacco: a parte le curiosità filologiche o erudite delle primissime pellicole, dalle quali peraltro

è risultata una indubbia serietà industriale che doveva continuare e rinvigorirsi poi con la nazionalizzazio-ne, si è potuto veder nascere i rami di questo fertile albero europeo. Fra i film del periodo muto “Il bravo soldato Svejk” (1926) di Karel La-28 mac ha riconfermato la impressione del solido legame che unisce il cinema boemo alle sue radici letterarie; un’altra sorpresa positiva, almeno per noi che mai l’avevamo visto, è stato “Erotikon” di Machaty, ben più anali-tico squisito, diremmo proustiano (V: s. come per Shakespeare) del tanto conclamato “Estasi” che per inciso, era una delle opere stranamente o pu-dicamente assente. Machaty, con “Erotikon” segna forse il limite delle sue possibilità e sganciandosi da un naturalismo di maniera ritrova in un linguaggio di primi piani, di continui controcampi, di particolari, di acuti dettagli la forma che gli consente di recuperare, su un piano di raffinatezza espressiva, il logoro giuoco del triangolo e la disperata sortita del borghese dalla sua angoscia solitaria con un gesto di ancor più disperata protesta. Altro midollo e altro sangue ha “Questa è la vita” di Junghans, una delle poche opere naturaliste che, nell’arco dell’affollato e talvolta tedioso festival, ci ha suggerito l’idea della migliore corposità zoliana e ci ha convinto per l’accurata ricostruzione di un ambiente operaio ai limiti della corruzione o almeno della perdita di coscienza. Sorretto da una vigorosa autenticità lo stile riusciva spesso a transvalutarsi in realismo, smussando i compiacimenti da “assommoir” , evitando le troppo facili traiettorie del positivismo fine ottocento. Merito fra l’altro dei misuratissimi interpreti fra cui spiccava il volto naturalmente doloroso, grigiamente sorridente della grande Baranovskaja che tutti ricorderanno come protagonista della “Madre” di Pudovkin. “Reka” (amor giovane) di Rovenský ha riconfermato il tenero lirismo della natura e degli affetti come una delle costanti più immediate del cinema cecoslovacco: la storia di questo suicidio per amore contrastato, portata avanti con una leggerezza di tocco, un senso puro e struggente dell’idillio è cosa quanto più lontana dalla maniera “naturista” e dal lenocinio erotico. La prima impressione che si ricava a rivedere, dopo molti anni, “Janosik, il ribelle” , è che nei verdi anni l’entusiasmo da cineclub ci aveva spin-to ad una sopravvalutazione (ma vedremo che non è così): nei primi dieci minuti, infatti, si teme di dover assistere ad una opera diretta malamente, connessa ad un tema di riscatto nazionale ma pian piano il film impone il suo ritmo, la sua coerenza; le facili melodie, a ripensarci bene, (scansando cioè la nostra talvolta eccessiva e talvolta squisita malafede o la nostra troppo scattante ironia) si rivelano ingenue ma autentiche voci popolari; il folclore drammatizzato, mescolato alla schiettezza della leggenda, rispecchia bene questa giovane fede nella giustizia e nella libertà. Le riserve mentali vengono rimosse quasi del tutto e resta forte l’impressione che Martin 29 Fric abbia saputo coniarsi un linguaggio di schietto jongleur dello schermo. Poi il vuoto nelle date segna la lunga oppressione nazista della Cecoslovacchia, lo strangolamento operato dalle SS nei confronti della cultura di quel paese: di questo periodo passato sotto l’ombra della forca, di questa epopea resistenziale saranno testimoni i film del dopoguerra dal famoso “Barricata muta” di Vavra a “Giulietta, Romeo e le tenebre” di Jiri Weiss, di cui abbiamo potuto vedere una delle prime prove: “La frontiera rubata” . Così come, di Jiri Krejcik, regista de “II Principio Superiore” abbiamo visto “La coscienza” che documenta l’assiduo impegno altamente civile di questo “artigiano al servizio dei valori umani”. Napoli - Cinema-Sud, Ottobre-Novembre 1961, n.26 30

1962 VENEZIA XXIII: UN SAPORE DI SMOG 31 La cifra che ha contraddistinto questa XXIII rassegna veneziana è stata, si può dire, l’impostazione su nomi di media grandezza e di medio splendore. E i risultati, in atmosfera di aurea mediocrità, non hanno deluso, in buona parte merito anche questo della rappresentativa italiana. Senza poter parlare di affollamento di capolavori, senza arrivare al gra-dino maestoso di un autentico Leone d’Oro, ci si è tenuti su di un piano di gusto, di dignità e soprattutto di interesse. Ad aprire il ciclo delle proiezioni, in quest’anno che ha segnato il tren-tennale di un’attività condotta su un piano di organizzazione internazionale, è stato il film di Franco Rossi, “Smog”. Rossi è regista di gusto letterario ben definito, anche se talvolta aggrovi-gliato in una problematica al di là del suo controllo; di lui molti ricordano ancora i “Notturni dell’Usignolo” (alla RAI) in cui era una ben mescolata intenzione di reperire segni ed emblemi contemporanei nella letturainterpretazione di testi sacri del decadentismo. Nel cinema, Rossi è andato avanti con dosi di encomiabile coraggio, ap-prodando, dopo le prove e le riprove de “Il seduttore” , di “Amici per la pelle” (ancorato alle suggestioni de “Le Grand Meaulnes” ) e di “Morte di un amico” , robusto racconto in colori pasoliniani fino a quella ricerca lirica e moraleggiante nei Mari del Sud (di conradiana memoria) che è “Odissea nuda”. Gli squilibri che erano rintracciabili in questa opera, possono dirsi elimi-nati in “Smog” che si avvale di una struttura narrativa più leggera, più di piglio documentario e, in un’ultima analisi di spontanea marca neorealista. L’avventura americana del borghese avvocato Ciocchetti, uomo arido in modo insieme brillante e conformista, serve a scoprire in agile panorami-ca, certe situazioni di coscienza (e d’incoscienza) proprie di un ceto varia-bile di immigrati, adattati, semiadattati e non adattati. La staticità del personaggio centrale, riflesso in parte della talvolta le-gnosa recitazione di E.M.Salerno, è riscattata di tanto in tanto dai sottili ricambi dialettici con l’ambiente “in loco” e con gli altri personaggi, i cui difetti di avidità, di grettezza, di impotenza spirituale fanno da spia a tutte le tare di una classe sociale che trapiantata in altro suolo si svela ancora più estranea ad ogni speranza di autentico significato umano.

Il film di Rossi conferma, in prevalenza, non solo la capacità del regista fiorentino di illuminare, seppure di scorcio, certi “tipi” presi dal vivaio del nostro neocapitalismo, con dettagli che insinuano discorsi alla carta ve-trata, ma soprattutto la molteplicità delle vie che possono continuare e consolidare l’arteria di riflusso fra neorealismo e realismo, sia esso 32

33 dimensionato nelle forme della novella, del saggio, del romanzo o del reportage non cronistico come è nel caso di “Smog” . In questo senso l’eclettismo produttivo di Rossi può venire accettato senza riserve come dintorno di un’onesta sperimentazione culturale man-tenuta saldamente in chiave di accostamento alla realtà. I tramiti di avvicinamento sono, nel caso di “Smog” , quelli caustici di un più disteso ritratto alla Zavattini, i modi di una notazione di costume insieme amara e distaccata, senza ri chiare il freddo del “vitro” sotto cui lasciar scorrere tutto un tratto di contemporaneità. Su altra via, con impegno figurativo e culturale di altra estrazione con un avventarsi e impennarsi di estremismi lirici (che scivolano spesso in deter-minismi anche se non schematici) è il film di P.P.Pasolini “Mamma Roma” . Film che, sulla linea di “Accattone” accentra il bruciante fuoco del obbiettivo su quella che Carlo Levi ha definito “la razza grigia” : quel popolo di uomini, donne, adolescenti e bambini che vivono

di stenti, di malavita, di degradazioni nelle borgate delle zone depresse e atrofiche del Mezzogiorno. La tessitura ideologica è stavolta meno tesa al di dentro, meno metafisi-ca e cattolica al di fuori, in questa povera vicenda di una prostituta romana che tenta con tutti i mezzi di dare un senso e una dignità alla vita del figlio, di farlo entrare nella razza dei “bianchi”. Ma è proprio in questo tentativo di insinuare una dialettica più ampia, di rompere, almeno ai bordi, il cerchio di una costrizione sociale senza sbocchi se non di turpitudine che l’autore è rimasto ancora un pò imbri-gliato da quel suo costante orientarsi a narrare solo in grigio: il violento, emozionale affetto che egli porta ai suoi personaggi lo spinge, infatti, a ca-ricare esplosivamente il linguaggio non solo del parlato ma del visivo; ciò fa aggio sulla recitazione della Magnani, appesantita nella prima parte in una sorta di repertorio manieristico dei suoi exploits ma che pian piano si svincola da questo piombo nelle ali e più tralascia le trivialità verso il figlio e più si commuove e più diventa vera e comunica con lo spettatore. Resta infatti da dire che proprio verso i figli le prostitute hanno slanci di puritano affetto materno, traumatizzate come sono nei loro sentimenti più interiori. Nella seconda parte, l’amore di Mamma Roma per il suo “bastardo, tenero, elegante cucciolo di gente povera” , la conduce senza più grevi ripieghi dialettali, a lasciarsi andare, come in silenzio, a quella sua grande esperienza di dolore che sola potrà farle trascendere le norme de suo destino. Ed un acuto ripensamento ci sembra sia stato quello di Pasolini di eli-34 minare il lungo grido finale di Mamma Roma davanti alla martirizzata morte del figlio sul letto di contenzione, perchè quell’angoscia fissata co-me per eterno negli occhi della disperata madre e contrappuntata allo squallido, calcinato cemento della città risulta più gridata di ogni grido e s’imprime più che nelle vene nella coscienza umana e sociale di chi guarda senza falsi cinismi la tragica conclusione di questa storia. Come già per “Accattone” , ciò che manca, soprattutto nella prima parte di “Mamma Roma” , non è certo la grande forza espressiva, anzi di impatto emozionale che Pasolini sa come racchiudere nelle sue immagini, nella cornice di una attitudine narrativa neozoliana, ma piuttosto proprio quella impostazione di impianto marxista che l’autore vuole, per forza e in pa-tente buona fede, vederci. Proprio perchè poeta (e di razza) Pasolini usa l’estrapolazione di una parte minima della realtà e la sconnette dalle molte implicazioni dialettiche che essa può avere; ma sul piano di una accorata epica sottoproletaria l’opera trova una sua piena giustificazione e raggiunge quel climax di denuncia e di protesta attraverso quella allucinata, abbacinante teoria di volti, di luoghi, di sciolte arditezze di ripresa e di ribellioni grammaticali. Di “Cronaca familiare” di Zurlini non ci è possibile parlare, purtroppo, avendo noi lasciato il Lido qualche giorno prima della fine di questo lungo, e diciamolo, troppo lungo festival, in cui tra Mostra principale e cd “Informativa” erano presenti più di quaranta pellicole, a voler digerire le quali nemmeno “una bestia da cinema” (o un fanatico) ce l’avrebbe fatta conservando al contempo vitalità, lucidità e spregiudicatezza critica. Ci sembra, comunque, un’ipotesi di criterio raggruppare almeno per na-zionalità queste opere, per cui prima di passare a quelle straniere della Mostra principale, ci conviene esaminare le altre italiane presenti nella proiezione pomeridiana (e in cui, del resto, non poche volte appaiono pellicole in tutto degne di sostituire quelle meno valide della rassegna maggiore.) “La commare secca” di Bernardo Bertolucci, giovanissimo poeta di recente laureato a Viareggio e già assistente di P.P.Pasolini per “Accattone” è un pezzo di cinema che, se risente un pò troppo de vicino di certe influenze, se si spinge, fuorviandosi in più direzioni, non può non rivelare come opera prima una naturale immaturità non solo di tecnica ma di ispirazione, di capacità ad apprestare dei centri di forza su cui impostare, senza slittamenti collaterali, una completa vicenda. E’ per questa ragione che, se si salvano egregiamente dei brani come quello della colazione a quattro dei ragazzini e delle ragazzine, nel con-35

36 torno amoroso di Villa Sciari’a, sequenza in chiave di tenerezza zavattiniana o quella dello svagato vagabondaggio del marmittone per le vie e i fatali monumenti di Roma, ben si manifestano lungo tutto il racconto frammentarietà, crepe, voli da un ritmo all’altro, da un modulo stilistico ad un altro che rende i risvolti presuntuosamente saturi di allusioni e gli aloni insufficienti ed in complesso servono a sgretolare il concentramento su poche idee ciò che avrebbe consentito a “La commare secca” di assumere quelle proporzioni e squadrature che le necessitavano per non rimanere nell’ambito della sagace esercitazione d’ingegno. D’altra parte, questo risultato acerbo, sparpagliato in gibigianne raggian-ti, in fotogrammi alla Lang e in “braci” pasoliniane è più che naturale in un esordiente nè pregiudica un eventuale assestamento di sostanza narrativa. Un più approfondito impegno sociale risulta invece nello sfondo e nelle intenzioni dei tre giovani registi toscani, autori di “Un uomo da bruciare” : V.Orsini e Paolo e Vittorio Taviani. Dopo esperienze lodevoli di sceneggiatura e di attività per cortometraggi e documentari, fra cui si possono ricordare “Lavoratori della pietra” e “Carvunara” , questo primo lungometraggio rappresenta una scia sulla rotta segnata dal Rosi di “Salvatore Giuliano” e dal Castellani de “Il brigante”.

Ma, a mezza strada fra l’eroe positivo e i compromessi cui egli stesso è costretto o si induce per ambiguo e malinteso senso della realtà, la figura del Salvatore presente nell’opera non rispecchia e non può rispecchiare quella del sindacalista siciliano che ha dato lo spunto e forse la struttura alla vicenda. Sdoppiato su piani di immaginazione onirica e di densa ed afosa realtà quotidiana, di engagement politico e di descrizione intimistica del passato (che racchiude i sogni di evasione del protagonista (la sua permanenza a Roma) il film viene a perdere consistenza di adesione ai fatti e coerenza interna. Non sembra che i giovani autori del film abbiano letto o meditato la parte finale de “Le parole sono pietre” di C.Levi, dove l’immagine di questo clima feudale in dolorosa revulsione umana più, che in organizzata rivoluzione è piena di prospettive profonde, sanguigne e terrestri; in “Un uomo da bruciare” , invece, la figura del sindacalista, della madre e delle altre donne è un quadro fatto più di cornice che di compatto e raggrumato colore, quasi un’interpretazione in chiave di moderna ideologia di un mondo in cui ancora le ore passano lente, e più lenti ancora i giorni difficili del riscatto sociale. La scansione nervosa non si adatta troppo a rintracciare fin nelle radici 37 il movimento vero di questa gente, il cui senso della storia è conficcato in un suolo di strati complessi, grezzi, avviluppati; se può senza altro giusti-ficarsi il lampeggiamento da reportage in Rosi, ma si adegua uno schema romanzesco a restituire il clima più interiore della Sicilia di Salvatore Carnevale; i volti risultano allora quello che sono: volti recitanti; la madre è più una mediazione letteraria del personaggio che una scultura in bianco e nero di queste donne fatte di scorza d’ulivo e di pena secolare. Con questo, non si vuole imputare ai registi uno sbaglio nel senso comune della parola; anzi l’animosità, il messaggio civile da cui sono spinti, è indubbiamente di natura autentica, ma si intende invitarli ad una più complicata penetrazione di un mondo che non può essere risolto, aperto e riscattato con il solo entusiasmo. Stiamo attenti, insomma, alla lezione del Visconti de “La terra trema” , opera fra le pochissime che ci ha dato una storica e non solo ideologica rappresentazione di una realtà piena di tanti nodi, di tanti grovi gli di preistoria sociale che sono ancora remore realmente esistenti nel cammino del popolo siciliano e di ogni individuo che lo rappresenti. Complicare intellettualmente (e ambiguamente) un Salvatore Carnevale non è, dopotutto, il modo di rendergli piena giustizia. Con molta più abilità, con mano che svela quasi la maîtrise, la mano già fatta del “réalisateur” , Eriprando Visconti si è delimitato l’angolo visuale ad un mondo a lui vicinissimo e dal quale si è venuto lui stesso estraendo con molta fatica: il mondo dell’alta borghesia lombarda. “Una storia milanese” ha un assunto molto acuto, alla Musil: studiare l’oscillazione del sentimento nei giovani di una città avvolta nella nebbia morale del “miracolo economico” , quel rifiutarsi ad una decisa passione non proprio per calcolo ma per una sorta di fraintesa libertà, quel volere e disvolere solo per timore di una retorica che ancora l’esperienza di un giovane non può valutare in termini di raffronti concreti. Lo sviluppo di un amore è visto come un crisi dell’adolescenza, ma le misure espressive se ambiscono al rigore e al criticismo di un Antonioni, non danno i retroscena, i backgrounds della noia, del sorgere improvviso dei crudeli dubbi che rarefanno gli slanci e tingono di piombo le ore in cui la serenità, la fiducia, l’amore si fanno cose estranee come vapori brillanti ma dispersi su altri pianeti. Così, s’insinuano in questo racconto di stati d’animo, di difficile coesistenza affettiva per faciltà di possesso, senza sforzo, senza concatenazioni di sangue, di intelligenza, di cuore, si insinuano come schegge di vetro opaco in un legno lucido e terso, i battibecchi più sciatti e 38

39 che sono in sostanza più umori bisbetici che vero e fatale “tedio di vita”. Insomma, in “Una storia milanese” la bravura nel raccontare, nel guidare alla recitazione, non serve a recuperare quel sottofondo velare e pie-gnevole che è diaframma e base delle malattie del sentimento e che nel ben costruito contrasto di grigi e di neri e di lattescenti nebbie padane (aloni perpetui alle confortevoli ville dei ricchi) avrebbe dovuto essere scanagliato con occhio più attento ai tremiti e ai timori del cuore. Dalla compiaciuta polivalenza de “la nouvelle vague” , attraverso le teo-rizzazioni del “cinemaverità” di Jean Rouch, che con i suoi film etnogra-fici ha profondamente influenzato alcuni dei giovani “vagueurs” e soprattutto, per sua personale ammissione, Godard, si è giunti ad una direzione meno sfilacciata in tanti versi (e, spesso, in tanti cascami.) “Vivre sa vie” di Jean Luc Godard è un saggio sulla “Nana 1962” , una inchiesta sulla nascita della fille de joie, in quella che potrebbe venir definita l’industria della prostituzione. I problemi, le distorsioni di personalità che sottostanno allo sboccio (o alla coltivazione in vitro) di questo fiore del male, così sterilizzato, senza rugiade e senza rossori, sono indagati con distacco, con meticolosità, con graffiante bravura d’immagini dal giovane autore di “Le petit soldat” e di “A bout de souffle”.

Che cosa è questo stoicismo di “voyeur” che può confinare con le terre bruciate del cinismo, dell’indifferentismo morale? Una sorta di gusto del reportage per cui le partecipazione del cronista è lucida, impietosa,tutta tesa all’obbiettività; dove egli scansa i commenti, le inserzioni di un qualsiasi traliccio etico, un filo umano di giudizio. Così filtrato, sul piano dello stile, “Vivre sa vie” termina purtroppo con un exploit da “mélo-noir” : una qualsiasi tragedia deve pur venir sovrapposta al finale perchè ci sia un simbolo almeno, una filigrana di chiusura che possa incidere il significato della storia. Tolti di peso dall’atmosfera delle scottanti questioni del giorno, immessi in un’aria torricelliana e translucida, questi volti inodori dietro i quali l’anima si è fusa alla matematica del solo dio denaro, abbandonando deliberatamente ogni speranza, come in un campo di concentramento etico, pieno di ogni comfort materiale dal pernod alla macchina fuoriserie, al facile guadagno nel facile (e talvolta piacevole) lavoro, questi volti hanno bisogno di esser riportati in una realtà dove alla pelle resti attaccato il sudore, allo spirito le lacerazioni affettive perchè possano airsi vivi e reali, di una realtà che abbia la temperatura degli esseri umani e non viva in una splendida ibernazione intellettuale. 40 Sulla stessa linea di illuminismo essenzializzato ma riscaldato da un’im-bastitura di verve che corre lungo tutto “Cléo de cinq à sept”. Agnès Varda ha saputo ritrovare una nota personalissima in questa donna cui anche il senso della morte assume un che di frivolo e di elegan-temente civettuolo. La Varda si immette, con raro equilibrio letterario, in quella tradizione fatta di spirito di finezza e di geometria e col quale i migliori talenti d’ol-tralpe hanno saputo ricavare paesaggi non futili dell’uomo, anche se in to-no minore ma non certo corrivo. In sostanza, e anche se Sadoul si è già indotto e parlare per questo film, di “neorealismo poetico” , siamo sempre nel campo della costruzione ai una acuta personalità di autrice che sa contemperare le naturali rivolte con il rispetto per le linfe culturali del suo paese. Ed è in questo saper da-re alle inquietudini tecniche e di ricerca, una sostanza antica che “Cléo” ritrova un solido approdo di forma e di contenuto. Su un modulo ben più deciso, quanto più lontano da un giornalismo fatto d’inerzia fotografica e disattento о sfruttante le contraddizioni più de-peribili de costume, è il film (presenta anch’esso nell’Informativa): “Un coeur gros comme ça” di Francois Reichenbach. I pericoli cui l’autore sfugge sono quella compiacente faciltà che già Sadoul rilevava in “L’America vista da un francese” e altresì quella malposta ambizione esistenziale che è spesso proprio la molla che non scatta nei più letterati della “nuova ondata” . La storia di questo giovane e proletario pugile di colore, vittima del mondo della boxe e che riesce, nonostante tutto, a salvare i suoi sentimenti, si colloca, per la sua forza di convinzione, per la semplicità dei suoi mezzi fra le opere che, senza proporselo di puntiglio, meglio riescono ad aprire una finestra su certe condizioni speciali e insieme normali della in-dattibile Francia di De Gaulle. Nella risultante, e senza tener conto di qualche pellicola minore (di un nero più nero del nero, alla Clouzot) si può dire che quel nervosismo creativo che da qualche anno si manifesta nel cinema francese quasi emblema della produzione corrente, non si è lasciato soggiogare del riflusso dannunziano ed esasperatamente decadente di “Marienbad” . Anzi, a riconferma di un solido anche se artigianale legame col passato si è presentata la trasposizione, senza lode ma pur senza demerito, del romanzo di Mauriac “Thérèse Desqueyroux” , operata da Georges Franju che si è avvalso di quell’attrice di modulabile sensibilità che è Emanuelle Riva. Senza alti voli, questo prodotto di onesta fattura, manovrato sullo schema 41

42 di uno sceneggiatura affaidata allo stesso romanziere, nei suoi solidi risvolti, nel suo odore di cuoio antico e provinciale, ha lasciato intrasentire che una nuova verità e una nuova semenza d’uomini non nasce ogni settimana (come al principio del mondo) e che quindi la stessa storia non sia tanto déracinée come si pretende da parte di certi giovani pieni d’improntitu-dine e pronti a ribaltarla ad ogni occasione. Ad un’altra latitudine di gusto e di robustezza narrativa si richiama e si sostiene la rappresentativa britannica; anche qui, per essere già apparso in altri Festival (Cannes e Karlovy Vary) il miglior film era quello della sezione Informativa ( “A Taste of Honey” ). Non seguendo noi questo criterio di divisione, che come abbiamo detto ci sembra non solo di puro ma arbi-trario comodo, parleremo del complesso delle opere presentate. Prodotto da Gran Bretagna ed USA in cooperazione è il film di Stanley Kubrick “Lolita” : rispetto al testo d’avvio, il notissimo romanzo di Nabokov, il regista di “Orizzonti di gloria” e di “Spartacus” ha impiantato dei particolari e personali registri di auscultazione della realtà americana, quell’incubo ad aria condizionata che genera dal suo vortice di benessere, di conformismo, di esibizionismo e infine di pedagogismo libertario (un Dewey equivo-cato fino al completo tradimento rousseauiano), piccoli talenti di cinismo automatico, di spontanea incoscienza, di lassismo adolescenziale.

In questa direzione, Kubrick he riconfermato le doti di acuto osservatore di certi problemi sociali, di deterioramento psicologico e nella prima parte del film gli è stato di valido ausilio il doppio controcanto ironico sia del sottile intellettuale europeo (James Mason) in molecolare contrasto con lo sciatto snobismo dei una bas-bleu di provincia americana (Shelley Winters) e uno del scetato, smerigliato e raspante humour del cinico dis-soluto, interpretato con sfumature di sapiente gigionismo da Peter Sellers. Dall’altra parte, Kubrick è andato incontro all’industria senza creare quelle “disturbances” che potevano giustificare il suo inserirsi all’interno del Le-viatano come un cavallo di Troia; è sempre la scottante arte del compromesso quella che si deve esperire quando le esigenze del box-office non possono essere aggirate del tutto; e le trincee di resistenza morale sono sempre quelle recinte dal reticolato dell’indipendenza. Una riprova di questa tesi si è avuta a Venezia col film “David and Lisa” del giovane cineasta off-Hollywood, Frank Perry. Il film, senza inutili or-namenti e senza pelletterie d’uso e consumo per un pubblico di facili gusti psicanalitici, narra il lento, arduo recupero alla normalità di un ragazzo e di una ragazza in un centro di rieducazione psichica. “David and Lisa” è fra i prodotti, più serii, più bilanciati del “new ameri-43 can cinema” , proprio per l’introspezione accurata, paterna che l’obbiettivo opera sui volti dei due efficacissimi e giovani interpreti; senza sbavatu-re ottimistiche, solo con qualche rara ingenuità di espressionismo vengono resi i travagli interni e i reticolati esterni che la gente “normale” frappone per non essere scossa o forse contagiata da tali problemi. Perry per quanto giovane sa insistere sul dramma con misurata passione umana, con un senso della realtà tanto più adeguato e credibile quanto meno gridato, o artificiosamente concitato. Difetti questi che si stagliano netti, e senza sfumature, in un film lam-pantemente sbagliato qual’è “Third of a man” ; quella frenesia di gratuito freudismo che assume i tratti grotteschi di una notte di Valpurga piena di Dracule più che di poveri dementi. Un “happy ending” predicatorio e panglossiano è il giusto coperchio per questa pentola piena di vapori al magnesio che abbagliano ma non possono ingannare nessuno. Sul piano del grande interprete che sostiene, come una cariatide, tutta un’impalcatura di poncifs alla Reader’Digest, è “Birdman of Alcatraz” : che, nella personalità, certo grandiose di un Burt Lancaster, scopre tutto il metodo di un artigianato, assimilato con troppa precocità da un giovane com’è il regista John Frankenheimer. Di produzione ìndipendente è anche il film “The Time and the Touch” di un certo Carlo Arconti (pseudonimo usato dal regista Benito Alazraki, autore di “Raíces” . Il tema, torbido, ha in se stesso tutte quelle componenti che aduggiano oggi la mente di certi intellettuali che vedono nei casi limite il clou intensificato della vita comune (la sfrenatezze erotica di persone ormai mature, l’avidità precoce di ragazzi assetati di vita, le perversioni sociali della gente d’ingegno), eppure Arconti, (cioè, Alazraki) ha saputo scivolare con prudenza attorno a tutte le insidie del cattivo gusto, del sen-sazionale, ritagliando qua e là, nella vicenda, dei particolari di forte incisi-vità, di “insight” che rivelano un occhio “indipendente” anche se ancora vólto a certi rapporti, che, occorre ripeterlo, per la loro atipicità rappresentano un metro ben limitato per dare la misura esatte dell’umano. La selezione sovietica è stata presente solo nella Mostra principale (sarebbe stato, invece, utile vedere nell’Informativa qualche spunto diverso del cinema russo contemporaneo, che se dirige il suo sguardo e la sua attenzione ad argomenti che dalla guerra prendono il via proprio per parlare di pace) non pare troppo ancora interessato ai fermenti di rinnovamento interiore e “civile” che si muovono nell’ambito della società russa d’oggi). Due erano i film in gara: quello di un anziano, Gerasimov e propria-44 mente “Uomini e bestie” (“Lyudi i Zveri” ) e quello di un giovane Andrej Tarkovskij, anzi il più giovane regista presente al Lido (23 anni): “L’infanzia di Ivan” ( “Ivanovo Destvo” ). “Lyudi i zveri” ( “Uomini e bestie” ) è un film congegnato troppo su larga scala dal regista Gerasimov (che ricordiamo autore de “Placido Don” e de

“La giovane guardia” ); egli si è spostato dalle “parole grandi” alle “parole semplici” , ricercando una problematica attuale nel difficile reinserimento di un reduce (già prigioniero di guerra) e poi emigrato in Argentina e in altri luoghi dell’Occidente. Il film varrebbe solo per questo voluto adeguarsi del vecchio regista al clima del disgelo; questo preferire il suono amaro della vita, questo evitare il patetismo invocativo, la magniloquenza, l’enfasi di altri tempi sono però sommersi dall’ambizione di costruire comunque un’epopea, anche se negativa (o di ricerca), di dare tutto il tracciato di un esistenza difficile. Sono questi progetti che hanno condotto l’autore ad un discorso talvolta polemico, con puntate d’incastro o di retromarcia troppo lunghe, pleona-stiche e talvolta assolutamente schematiche (la figurazione degli ambienti occidentali). Nonostante ciò, è interessante vedere come si sia lontani da quella “ta-bella del male e del bene” canonizzata da certi autori (e che fu denunziata do Paustovskij) al punto tale che il personaggio più vivo e più duttile del film, Tanja, rifiuta di condividere l’arroganza e la superbia ottimistica di un giovane “costruttore” , nella scena che serve da climax alla vicenda e in cui appare più realistico l’atteggiamento pensoso e dubbioso del “reduce” che quello irruente e avveniristico del “costruttore” . Non si può, e di ciò oggi sono coscienti molti artisti sovietici, “combina-re il servizio alla semiverità e al semi-falso con il servizio al proprie vero benessere” (sempre Paustovskij, al III Congresso degli autori sovietici del maggio 1959.) Sono “lepri” cioè animali intrinsecamente dannosi, seppure quieti ed e-steriormente simpatici, quelli che fanno “i loro complimenti al lettore o allo spettatore, ammannendogli un cielo caramelloso, sotto il quale rido-no come automi e senza soffrire mai, uomini e donne combattivi” . (ibid.) Non è certo una “lepre” il giovanissimo regista Tarkovskij che scopre nei soprassalti della terribile guerra, nei risvolti sanguinolenti delle sue piaghe, la mutilata e martirizzata “Infanzia di Ivan” . Perduti tutti gli affetti familiari, il dodicenne Ivan si dedica alla guerra come ad un terribile giuoco di vendetta. Eppure, fra incubi e sogni gli ritorna come in una giornata di primavera l’immagine della madre, simbolo 45

46 di quell’infanzia dolce e verde che gli sarebbe spettato di vivere se il male non fosse stato in agguato. Ed è in questa oscillazione lirica tra la grigio-nera realtà delle notti in cui la battaglia non trova riposo e li candore mattinale delle nostalgie che si fanno allucinata e, pure quieta visione agli occhi di Ivan, che Tarkovskij ha saputo trovare una fusione d’impasto affettivo e figurativo, per il cui tramite la commozione si fa convinzione in un alone di tenerezza e di invitto amore per la vita. Quando, nel finale, nell’archivio della polizia speciale tedesca, la povera foto di Ivan dirà della sua atroce morte, il messaggio di pace avrà trovato i più sommessi canali per giungere, col chiaro linguaggio del cinema fino al più incredulo e indifferente spettatore. Il volto pulito, teso verso una giusta speranza, del piccolo Kolia Burljaev è un volto sul quale vibra una luce di vero, una pagina sullo quale è stata segnata, con morbida matita grigia, la denuncia del dolore più stupido e più sterile che l’uomo, con la guerra, infligge a se stesso. Uno shakai-mono (film di impegno sociale) molto complicato da fantasie surreali è il film giapponese “La trappola” che narra dell’uccisione di un operaio, sottrattosi alla angheria dei proprietari della miniera in cui lavorava. Allorchè il giovane viene lasciato morto sul terreno dal “killer” mandato dai vendicativi e feroci padroni, inizia la vera storia che è quella dello spirito dell’operaio che vaga e segue (aiutandole) le indagini di polizia: si scopre allora che la questione implicava persone ben più importanti (il dirigente del sindacato minatori) che rassomiglia come una goccia d’acqua al-l’operaio ucciso. Il regista Teshigara, che è anche lui al suo esordio, non ha saputo svin-colarsi dal rigurgito di peripezie e dalle tentazioni di costruire un “thril-ler” dalla tessitura un pò troppo originale. Ma non si può dire tedioso questo strano racconto in cui sembrano confluire gli interessi sociali di denuncia con quel senso del meraviglioso e del metafisico che serpeggia co-me una striscia d’argento vivo in tutta la tradizione d’arte nipponica, tesa all’evasione, al rituale e al magico presente in ogni azione o fatto dell’uomo. Un altro regista, questo di ben datata anzianità, quell’Uchida che nell’anteguerra aveva diretto “La terra” e che ispirò una corrente di alto livello letterario, ma di tendenze escapiste, ha riproposto temi di favola moraleggiante nell’ambito di quello che viene chiamato il jidai-geki (o film di costume). L’opera è tratta da “Jorruri” una classica ballata drammatica del teatro 47 giapponese e conserva tutte le stimmate di una tragedia kabuki inserita in una favola tenue e didascalici alla La Fontaine. Pur nello stilo brillante, Uchida rivela la stanchezza, il girare un pò a vuoto della sua personalità, fuori servizio per tanti anni di lunga prigionia in Cina.

Dopo Francia, Inghilterra, USA e Giappone restano ancora da esaminare le cinematografie minori dell’America Latina ( Argentine e Brasile) e dell’Europe Orientale: Jugoslavia, Polonia e Grecia. Un’operina di sorprendente freschezza è venuta dall’Argentina “Los inundados” del giovane regista Fernando Birri che pur risentendo delle influenze di alcune correnti neorealistiche italiane (egli è stato per quasi due anni nel nostro paese), è comunque riuscito a recuperare un ritmo tutto proprio e di diretta discendenza picaresca. Nell involucro zavattiniano della vicenda scorre un senso vivo dello umore sfacciato (o solo disinvolto) degli “alluvionati”, del querulo ed impudico promettere delle autorità, della non esemplare condotta sociale di nessuno. Eppure, come nelle satire più mordaci e più vive della letteratura del “picaro” , anche qui gli alluvionati, nel loro viaggio sul vagone abbandona-to che, per errore si è messo in moto, attraversando tutto il paese, finiran-no per accorgersi come sia diverso l’atteggiamento caritatevole (e in sostanza indifferente) delle autorità dalla ingenua e spontanea solidarietà dei contadini. Sarà questa solidarietà che li riporterà al loro paese a ricostruire da soli la loro casa, visto che le acque del fiume si sono ritirate. “Homenaje a la hora de la siesta” è una prova fallita proprio perchè il regista si è proposto di scalare nello stesso tempo due pareti di sesto grado. Si tratta dell’argentino Leopoldo Torre Nilsson (che l’anno scorso aveva presentato un più modesto e più efficace “Piel de Verano” il quale si è lasciato sedurre dalla struttura eccessivamente drammatica del tema (l’omaggio di quattro vedove ai loro coniugi, pastori protestanti uccisi da tribù selvagge dell’Amazzonia), slittando poi verso agganci svventurosi e grotteschi (l’episodio della guida) e verso un pirandellisno che specie in questo contesto sembra aver fatto il suo tempo. Peccato, perchè non si può negare tout court a Torre Nilsson una stima capacità di uso dell’obbiettivo e un saper angolare certe scene naturali e psicologiche con uno ricercatezza espressiva che non sempre è deforma-zione del reale. Mette conto di dir poche parole di quel melodramma messicano “La Bandida”, assurdamente pistolero, intriso di tutte le platitudes del sangue caliente degli uomini e delle donne (di vita, naturalmente) di quelle latitu-48 dini. La cinematografia messicana, abbandonando le dignitose composizioni calligrafiche di “Maria Candelaria” o de “La perla” e tuffandosi in un fiume di ribollenti colori, ha tradito, nel modo più sfacciato, la sue po-chezza di background culturale. E lo stesso discorso può valere senz’altro per “Três Cabras de Lampião” presentato dal Brasile. Nel gruppetto di opere presentato da nazioni dell’Europa Orientale (e relegato, questo sì, a ragione, nel ciclo minore) “Città in fiamme” dello jugoslavo Veljko Bulajić, prolisso racconto di un populismo a metà spontaneo e a metà oratorio ed esortativo, ha, ancora una volta ribaditi i confini di questo artigianato senza forti succhi, senza radici di cultura. Ciò nonostante, in diverse parti, nella figurazione, ad es., di un anarcoi-de organizzatore di altiforni, si ha un carattere disegnato senza conformismi e con una piacevole immediatezza di tratti. Anche i due film polacchi “L’estremo combattimento” di Lesiewicz e “Il coltello nell’acqua” di R.Polanski sono serviti a dare, seppure a latere, gli elementi di una crisi espressiva che travaglia gli artisti di questa nazione, quasi come in un riflesso della problematica situazione politica. Film, comunque, ad un notevole livello di dignità. Infine, last… and least, i due greci, centrati tutti e due, sul capolavoro sofocleo “Elektra” . Il primo, di un novizio, Ted Zarpas che ha ripreso senza consapevolezza di linguaggio filmico e, quindi, “tel quel” lo spettacolo che ha luogo ad Epidauro, omaggio della madre patria al grande commediografo dell’antichità. L’altra opera, del regista Cacoyannis, più esperto e più smaliziato nella composizione trasposta dell’opera si è giovato, forse, di una ridondante libertà di resa, il che non ha giovato, nonostante la bella autenticità del paesaggio. E, del resto, l’attrice Papas, ha ben altre doti e ben altro temperamento che quello di una stilizzazione dei personaggio che ispirò col suo denso sangue di

eroina, per il suo cuore crisoelefantino, tutti é tre i grandi tragediografi del periodo aureo dell’Ellade. Napoli – Ottobre 1962 49

1965 VENEZIA XXVI: “VENTI ORE” DI “FEDELTA” PREZIOSE 50 La cortina di prevenzioni, di supposizioni e di rumori (per nulla) - eretta intorno al Festival di Venezia di quest’anno si è dissipata appena conosciuto il programma. Seria, imperniata su nomi di rilievo (anche se hanno dato adito a delusioni), la XXVI rassegna si è trovata solo mancante di quell’alone mondano e perciò snobistico che, se gradito agli albergatori del Lido, non è certo il fine previsto da una mostra d’arte, anzi dell’unico festival, ricordiamolo, che abbia tale premessa nel suo atto costitutivo. Ma il resoconto che a noi interessa non può essere zavorrato con accen-ni a queste annose e pletoriche polemiche ed eccoci perciò ai film. Si è dato il via con “La vieille dame indigne” di René Allio, nuovo al cinema ma non all’esperienza espressiva: pittore e scenografo, già autore di trattamenti per documentarii, il quarantenne Allio ha intelaiato in una cornice di provincia francese uno scarno ma stimolante apologo brechtia-no. Il tema - come conviene al drammaturgo tedesco -rappresenta il rovesciamento di certe posizioni morali: l’indegnità della vecchia “serva di famiglia” sta non nel concedersi il lusso di una libertà anarchica e spregiu-dicata negli ultimi mesi della sua esistenza, ma proprio nell’essersi arresa per tutta una lunga esistenza ai più stantii conformismi imposti dalle re-gole e dalle abitudini di una borghesia frustrata, vuota e in fondo parassita (gli stessi figli di Madame Bertin avrebbero tutto l’interesse ch’ella con-tinuasse il suo tran-tran di “altruista senza ricompense” ). Questo per quanto riguarda la struttura, per quanto invece concerne i modi della narrazione, non si può non osservare che l’esile spunto di Brecht non è stato arricchito di troppa immaginativa visuale e lo stesso giuoco della veterana attrice Sylvie è un pò monocorde, tirato per le stesse fila e gli stessi scorci di mimica. I piccoli fatti che avrebbero dovuto rim-polpare la vicenda, non sono tutti alla stessa temperatura e ne deriva spesso un senso di scollamento, come se lo sviluppo cronologico fosse avulso dalla presenza nella coscienza di una così stravagante ma giustifi-cata ribellione.

Se ad Allio si può condonare la sua acerbità e qualche squilibrio o lacu-na nell’amalgama narrativo, è più doloroso constatare in “Kapurush”(“Il vile”) del regista indiano Satyajit Ray, una caduta di tono e di gusto che ha deluso quanti - come noi - avevano apprezzato, a Venezia, il denso lirismo di un “Aparajito”. Occorre anzi divaricare, nella memoria, quella riuscita da questo salto contorto nell’intimismo di piatta marca occidentale. Quello che Ray viene a perdere di più consistente è il senso della tradizione nazionale, la radice più piena della sua personalità di autore. Il significato del film si fa quasi 51

52 inesistente, sommerso com’è da un sentimentalismo a tutto spazio, non puntellato nemmeno da una recitazione persuasiva o credibile. Lo scacco della passione si risolve tutto in vapore emotivo (raggrumato spesso in lacrime copiose), in una svalutazione del prima e del poi che rende impossibile situare in qualche modo le fisionomie e le azioni e le anonimizza su di un piano cosmopolita (non certo “universale” ). La controprova è fornita dal sottostrato sonoro delle immagini, un dialogo intarsiato di varii linguaggi che, mentre vuol rendere il dramma di una generazione alienata anche foneticamente, concorre con la sua greve cadenza ad avvalorare la tesi di una dissociazione culturale, pericolosa ai fini di un discorso auten-ticamente contemporaneo.

Non si tratta infatti solo di anemia o di sensibilità in ritardo, ma di un fenomeno che pone grossi interrogativi per il futuro di un regista che finora - almeno nelle cose conosciute in Europa - aveva posto salde ipote-che. Il male non è di aver corteggiato e rasentato il fumetto ma di aver perso contatto e comunicazione con un mondo più vasto che imponeva appunto altre scelte di stile (l’epicità dei film precedenti) e un diverso orientamento nella selezione dei contenuti. Lo stile è una tecnica non solo formale ma sostanziale (emotivo-concettuale) e se muta in maniera così violenta reca con sè una estraneazione dalla storia intellettuale e sentimentale del proprio io che, una volta rin-negata, non può che fruttare - come tutti i tradimenti - se non sterilità e degradazione. E’ così che in “Kapurush” , i profili e i motivi della vicenda si rivelano ge-nerici e sfuggenti, privi di una qualsiasi inquadratura morale che non sia quella dello stereotipo hollywoodiano di “boy meets girl, boy loses girl” , fra l’altro ripetuto come ossessionante “leitmotiv” nel corso del film. Fuori concorso è stato poi presentato “Knack” , già premiato a Cannes, opera dell’inglese Richard Lester, aiuto di Richardson e già operatore do-tato di una verve più gallica che albionica. In “Knack” , viene portata avanti una storiella (quasi una gag) arguta e maliziosa che sottintende con finezza una critica di costume a tutto un mondo perso tra le scappatelle dei “mods and rocks” e il moralismo démodé e vittoriano degli adulti, ostile quanto ottuso. L’uso libero e arioso dell’obbiettivo, la saporosa personificazione degli attori (fra cui spicca ancora una volta la talentosa Rita Tushingham) danno un mordente fresco e spigliato al film, pieno di sequenze tutte godibili, quale quella dell’attraversamento di Londra a bordo di un letto a rotelle. Il dosaggio tra clownerie, patetico e satirico è di buon impasto e ciò per-53 mette di trangugiare anche qualche trovata non nuova come quella, sen-nettiana, delle tante porte false e vere messe una appresso all’altra. Il giuoco non stanca perchè eccentricità ed assurdità non sono qui in funzione di fuga totale dall’attuale evolversi dei valori: nella commedia si ha sempre l’impressione che l’altro occhio del regista, quello che pensa (non quello che guarda), ammicchi in sordina ad aver pazienza e comprensione per certe intemperanze dei giovani d’oggi che, dopotutto, devono liberarsi da soli delle scorie della futilità e dell’inesperienza se vogliamo dar loro la responsabilità del domani. Un’eco a queste proposte viene, e non casualmente, dal punto opposto del continente europeo, dalla Cecoslovacchia che ha presentata in “Lásky jedné plavovlásky” (“Gli amori di una biondina”) del quasi debuttante Milos Forman, - notato l’anno scorso per “Asso di picche” - una puntata verso i problemi sentimentali e sessuali dei giovani. La storia dell’operaia adole-scente, reclusa -a ragione del suo lavoro in un calzaturificio in un piccolo villaggio nei pressi di Praga e che aspira a vivere i suoi sogni e le sue spe-ranze, e poi si trova di fronte la prima esperienza concreta non così rosea, è una storia narrata con “humour” delicato e anticonvenzionale. Ciò che vale la pena di rilevare in un’impostazione di questo genere è l’interesse in una cinematografia solida e d’alto rendimento come quella boema, per una molteplicità di questioni; l’attenzione rivolta da Forman alle componenti più originali dei caratteri, depurata di ogni tendenziosità riconduce il film su di un percorso tutto umano anche se inserito in un contesto sociale ben perimetrato. Ne viene fuori una fetta di vita vista senza paraocchi, senza i continui balenii dell’Idea che non potrebbe inserirsi anche nelle più intime sensazioni dei piccoli ingranaggi della società senza ridursi essa stessa ad una condizione di provvisorietà o di frammentazione depauperante. E’ il senso delle proporzioni quello che guida Forman e gli permette di mantenersi vivace e garbato senza perdere in realismo, senza obbligarsi al distacco deliberato dall’atmosfera del proprio tempo e della propria storia. Sono proprio film come questi che risultano riflettere più da vicino i segmenti nascosti di un tessuto, i segni non calcati nè profondi ma genuini di tutto un costume rinnovato e rinnovantesi per legge intrinseca di vitalità e di progresso, e fluttuante in una psicologia culturale in cui non possiamo non riconoscere i nostri stessi più minuti ma non secondarii problemi. Altro film in concorso “Good times, wonderful times” di Lionel Rogosin, del gruppo del “New American Cinema” e già favorevolmente noto per i 54 suoi incisivi documentarii “On the Bowery” e “Come back, Africa” .

Il titolo riporta tra sarcastiche virgolette la battuta del vecchio militare nostalgico dell’esercito “vera fucina per veri uomini” . La ripresa dei brani di conversazione e la relativa mimica (in gran parte svolgentisi in un lungo cocktail privato a Londra) vengono chiarite per connessioni ed intarsii di pezzi di repertorio con un montaggio a contrasto che decifra i significati più veri delle parole dette con nonchalance dai partecipanti alla frivola festicciuola. Così i poncifs mentali “l’esercito ti fa uomo” o “la guerra serve a mantenere il giusto livello di popolazione” vengono decodificati nella maniera più realistica e risolti nelle più impressionanti equazioni: soldati nazisti che tengono sotto la minaccia dei mitra piccoli ebrei affamati o i carnai di Dachau ed Auschwitz dove si accumulano in un incubo subumano milioni di cadaveri e relitti di umanità strazianti. Si tratta perciò di un giusto “pamphlet” politico, motivato dalla brutale insipienza degli attuali guerrafondai e che si nutre, nei suoi motivi di fondo, delle più sacrosante arrabbiature. E’ un esercizio spirituale laico che un uomo propone ad altri uomini perchè non anneghi nella routine quotidiana, nella verve galante o nel paradosso il ricordo dell’immane notte di nebbia e di dolore che avvolse il mondo dal ’39 al ’45. Qualcuno può accusare di parzialità questi documenti perchè come fonti di rilevazione non vengono egualmente mostrati i collegi militari sovietici per bambini da 5 anni in su e gli analoghi istituti cinesi, ma l’assenza può pesare sulla bilancia politica del regista, non annullare - secondo noi - la veemenza sincera del messaggio che ha fra l’altro un’ampia sventa-gliatura simbolica come di un discorso fatto sul passato da intendersi con i personaggi ed i fatti del più immediato presente. Un altro abbassamento di tensione stilistica in un regista appartenente ormai di diritto alla storia del cinema per almeno 3 o 4 opere di fortissimo respiro, si è verificato per il Bunuel di “Simeon del desierto” . Rispetto alla complessità delle cose precedenti (da “Viridiana” a “Los olvidados” a “Il diario di una cameriera” ), si è potuta constatare una semplifi-cazione dell’impalcatura narrativa che rischia di ridurre a schemino la molteplicità delle istanze di rivolta e di passione che sono alla base della formazione del regista. La prepotente, grottesca eticità di Bunuel qui si impoverisce in un apologo che sembra, fra l’altro, non concluso e scarso oltre il richiesto; nati da una soggettività discutibile i gesti di Simeone lo stilita si rivelano in-chiodati ad una oggettività di allegoria più che di metafora e, pesanti e 55

56 sottolineati come sono, non riescono a fornire la sottile misura del confronto che dovrebbe istituirsi tra presente e passato. Dicevamo altrove che la polemica del regista spagnolo sembra quella di un profeta represso, armato solo di delusioni messianiche, ma l’operazione estetica da lui compiuta era oltremodo importante in quanto veniva in-serendo le componenti più disparate (Bibbia, Sade, Freud e Marx) in con-testi barocchi o ridondanti figurativamente: qui, invece, il filiforme ordito non consente la ricerca e il risultato di reazioni e di controreazioni e tutto sembra più formulato che composto in unità, più progettato che elaborato nel perimetro spesso incompleto dell’immagine. Il diavolodonna che offre poppe e cosce, il nano deforme pastore di capre solforose, la figura del frate ossesso appaiono come cifre del suo più denso discorso ma trapian-tate in una tela deserta di evocazioni, di suggestioni di quei recessi e die-troscena tenebrosi che altrove erano stati creati con vigore unico. Si tratta di una crisi di transizione o irreversibile? E’ difficile e forse ar-bitrario pronunciarsi; piuttosto, ripetiamo, la magrezza stessa delle sequenze sta a testimoniare che il problema della santità (in tutti i suoi am-bigui risvolti) è più certificato che impostato, più escogitato che svolto secondo una trama evolutiva e soddisfacente. Peggiore pomeriggio, perchè noioso e amorfo è quello passato poi a seguire il prolisso “Domenica pomeriggio” del portoghese Antonio de Mace-do. Non è che spunti felici non affiorino di tanto in tanto dal discorso in chiave antonioniana ma viene continuamente meno la capacità di morde-re nel profondo sconvolgimento della vita, così che il dramma si drappeggia di troppe descrizioni laterali, di troppi sviamenti e fughe verso altri centri d’interesse. Interessi che sembrano prevalentemente di documentarista clinico (l’azione ha luogo in un ospedale diagnostico per i tumori) e che mal si me-scolano ai rapporti umani intercorrenti tra i protagonisti. La ricerca di uno sfogo calligrafico balza evidente nella sequenza a colori che, come un corpo estraneo, viene proiettata, tutto ad un tratto, per rendere più marcato l’avvenimento di una trasfusione ematica: il cromati-smo, seppur interessante per se stesso, non trova un vero appiglio nel fatto di raccordo e scade così ad episodio di bravura più ingiustificato che mai. Ad un livello di buona fattura e incorporato del sano e sincero romanti-cismo dei sovietici resta “Fedeltà” di P.Todorovskij, opera prima e come tale premiata dalla giuria maggiore di Venezia. Siamo al consueto spunto contro la guerra, sul binario di “Ballata di un soldato” : l’idillio adolescente della recluta con la ragazza stavolta si colora 57 di certi viraggi di humour ed è soprattutto questo fatto nuovo che fa spe-rare nella positiva evoluzione del giovane temperamento d’autore.

Lo slancio pacifista, per il suo carattere retrospettivo, non sempre appare tanto efficace negli effetti quanto nelle intenzioni, la polemica va iniettata più al modo di Rogosin che in quello del racconto patetico, proprio perchè i documenti parlano in modo inoppugnabile; ma è vero che l’im-peto sentimentale del giovanissimo Todorovskij brucia tutti i residui di un militarismo oltranzista e burbanzoso e nel sottofondo della sua commossa perorazione si ode un mormorio molto più tagliente che vorrebbe scrollar via armi, divise e regolamenti per stimolare ad un dialogo di pace senza remore e senza puntigli di diplomazia ginevrina. Anche fuori concorso, è stato visionato il polacco “Salto” di Tadeusz Konwicki, suggestivo per certi scorci ma in gran parte astruso, parenetico e frammentario. Esso viene a segnare, soprattutto, il limite (che i mate-matici chiamerebbero “superiore” ) dell’attore Cybulski che qui rasenta spesso il gigionismo di mattatore incontrastato. Konwicki è al suo secondo film, pur avendo quaranta anni, perchè il cinema è il suo “violon d’Ingres” e la letteratura la sua occupazione profes-sionale. In questa storia del simulatore, fra schizoide e surreale, che si improvvisa medico delle sofferenze altrui fisiche e psichiche per poi rivelarsi solo un marito squilibrato che fugge moglie e figlie, ciò che sedimenta senza evaporare è solo il clima sovreccitato e qualche maschera del dopoguerra, nuda in tutta la sua angoscia. L’incastro di un tassello nell’altro è, invece, oltremodo artificioso e gli avvenimenti gratuiti (la chiromante, il bagno delle tre “grazie” , l’amplesso nella cameretta della ragazza), per non far pensare ad una prova sbagliata. E neppure tanto originale, se si pensa ai molti nomi cui rimandano alcune sequenze tanto fantasiose quanto bizzarre: dal Fellini di “8 ½” al Wajda o al Munk più estrosi e più “tecnici”. Non ci sembra questa la strada migliore per fare i conti col passato della occupazione nazista e, insieme, col problema della solitudine dell’uomo di fronte alle nuove condizioni di struttura. Un’altra caduta di gusto, un altro sfaldamento di personalità registica di primo piano ci è apparso “Le dément de onze heures” (o “Pierrot le fou” ) di Jean Luc Godard. Autore nervoso, inquieto e inquietante, teso a cogliere aspetti inediti (anche se parziali) di una certa realtà ( “Vivre sa vie” , “La femme mariée” ) con quest’ultima pièce, Godard si è impelagato nel mare delle astruserie stilistiche, tra umorismo nero e rosa, tra incertezze di impianto in cui l’unica cosa 58 sicura è l’evidente, brutale cinismo nei confronti di ogni engagement. La vicenda è più risibile che divertente (e non si perdona al comico noioso, che è un genere deprecabile quanti altri mai); impastata di ges-sose parodie dei generi cinematografici o anche letterarii di basso conio (fumetti etc. ). Così, la storia di Ferdinand ( “Je m’appelle Ferdinand” è la sua ossessiva tiritera) e quella della ragazza che dipana bugie su bugie, e i loro tentativi falliti dei più diversi tipi d’esistenza (gangsteristica, robinsoniana o ja-mesbondiana) sono superfetazioni forse brillanti ma vane di una mente distratta da altri pensieri o di un giovane troppo presto celebre che si prende giuoco del suo pubblico e gli dà di sgambetto, di un regista cioè che vuol agire sul conformismo badiale della platea per un suo godimento egoistico e perciò infantile. Un saggio involontario di dissociazione di personalità, di dispersione linguistica ma tanto infarcito di stramberie e di ir-ritanti manierismi da seccare ad ogni modo. Ciò che potrebbe ancora correr via liscio, in quanto divertissement poco riuscito, se non si dessero sequenze indignanti sul piano umano come la compiaciuta “pantomima del marinaio americano e la giovane vietna-mita” che - più dello stesso inserto sui marines - fa risaltare la disumana indifferenza ai dolorosi sconvolgenti problemi di nostri simili indotti al massacro per una malintesa questione di prestigio. Il modo sgarbatamente evasivo in cui Godard ha replicato ad alcune acute domande nel corso della conferenza stampa non ha fatto che confermare la sua attuale dispersione morale. In più e peggio, “Pierrot le fou” rifacendosi, in quanto a temi e personaggi, ad “À bout de souffle” , con un processo a rebours sgretola in buona parte de motivazioni sociologiche messe alla base di quell’opera, comunque ben altrimenti orchestrata e condotta verso una consapevolezza drammatica che non questa anfibia pochade carica di reduplicazioni, di espedienti fiacchi per dinamizzare il proprio inerte contenuto.

Ben altra solidità, anche se di tenore un pò tradizionale, diremmo zolia-no, ha l’ungherese “Husz Hora” (“Venti ore”), di Zoltan Fabri, primo premio ex-aequo al Festival di Mosca di quest’anno e perciò anch’essa, come molte delle opere più interessanti, fuori concorso. L’azione è situata in un villaggio ungherese, in cui dopo il ’45, il latifon-do del conte è stato diviso tra i braccianti del luogo e istituito in una sorta di cooperativa. Ma il dogmatismo chiuso e testardo di Varga, uno di essi, fa tralignare anche i rapporti di amicizia; germina così il dramma che culminerà nell’uccisione di Kocsis da parte dello “staliniano” Varga e nella 59

60 sparatoria di Balogh contro il “presidente” Joseph. Sarà questi, alla fine, con gesto di comprensione e di maturità, a riprendere il discorso interrot-to ed il lavoro con la stessa fiducia di quando la terra era stata divisa. Due appunti si possono fare al robustissimo racconto (reso fortemente credibile dai magnifici volti degli interpreti, intensi ed espressivi al più al-to grado): quello sul piano stilistico, di aver usato un troppo facile conge-gno di collegamento nella inchiesta condotta dal giornalista di Pest, che sa anche troppo di coro affettivo e di testimone; e quello sul piano più strettamente ideologico di aver voluto adombrare, per analogia, i fatti del gelo e del disgelo, riducendo a proporzioni psicologiche quello che resta un problema politico nel senso più sistematico del termine (dato l’intervento esterno dei sovietici e l’enigma della selezione “negativa” dei capi: la frase non digeribile che

Balogh rivolge a Varga: “sei sempre stato il peggiore” ). Ma occorre dire che sul piano della confessione delle debolez-ze, degli squilibri e dell’inquinamento di un carattere accentratore, Fabri non poteva condurre in porto un discorso più complesso senza far pesare dei sospetti di alibi premeditati. La poliedricità dei punti di vista, l’interrelazione tra fattori emotivi e ideologici, la dialettica intrinseca ad ogni sviluppo dell’azione spingono a considerare questo film una delle più interessanti e meno schematiche narrazioni sullo status interno di un paese comunista colto nelle sue contraddizioni strutturali e sovrastrutturali. A conclusione della prima settimana del Festival, si è poi avuta la proiezione (fuori concorso) dell’opera più attesa: “Gertrud” di C.T.Dreyer, già vincitrice del massimo alloro danese ( “Bodil” ) e che, al contrario, ha ricevuto accoglienze così poco lusinghiere alla première di Parigi dove si è parlato di “ieraticità polverosa che annulla i personaggi” (M.Martin) o di “una bellezza insistita e orgogliosa al servizio della peggiore mediocrità” (P.Marcabru) e del regista danese come di “un caro scomparso” . (M.Counot). Nelle loro annotazioni troppo frizzanti per essere profonde, sembra che questi critici francesi non abbiano saputo (o voluto) rintracciare i veri significati del film. Non di “commovente antichità” si tratta, nè di un roman-ticismo disarmante, cioè di un Ibsen degradato al livello del più patetico intreccio ma del discorso esistenziale che Dreyer porta avanti con coerenza ammirevole. Stavolta esso s’insinua nelle vicende di una donna che deve compiere il passo dall’estetico all’etico, dal “solo vedere possibilità di vita come contenuti di un futuro, al vedere compiti dovunque” . (E’ il dramma kierkegaardiano di sciogliersi “dal mito degli oscuri sentimenti” perchè essi 61 sarebbero troppo dolci per venir tradotti in senso del dovere). Storia essenziale di una lunga delusione, di quell’avventura di angoscia attraverso la quale è necessario passare perchè la coscienza si affini al fuoco vero della vita. Per questa sua angoscia, (il vuoto d’amore che deve essere riempito di consapevolezza), Gertrud è comunque l’unico essere vivo tra tante cele-brità funeree: nella sequenza del banchetto in onore di Lidman e dell’in-scritto corteo dei bolsi e retorici studenti, la chiave è data senza veli e senza tentennamenti ed è la chiave etica che sta fra l’estetica e la religione; il misticismo è solo dato come elemento possibile ma non come soluzione, e in un acme di dialogo col fedifrago pianista Janson, Gertrud si pronuncia: “vorrei credere in un dio per chiedergli di proteggerti”. Non si tratta quindi della romantica fierezza donnesca che è in giuoco (come nelle pièces di Ibsen) ma di quei gridi muti che si levano quando siamo, fra timori e tremiti, al limite estremo, all’aut aut con la nostra personalità; non è per caso che alle spalle di Gertrud e di Lidamn, immersi nel loro penoso, irreparabile colloquio di addio si profila una figurazione di Edward Munch, il pittore dell’ansia con una coppia di quelle sue dram-matiche silhouettes, grigie sul grigio. Le alternative nella vita della donna sono state molteplici, ora sono soltanto due (un amore senza dignità e senza corrispondenza o una austera ricerca del vero) e la scelta morale viene fatta senza lacrime, con un paca-to distacco da tutte le ambizioni, non escluse quelle emotive. Gertrud dovrà persuadersi che il senso della vita può non consistere nel suo piccolo, egoistico orticello amoroso ma in una più ardua e solitaria vocazione e solo così l’amicizia che manterrà con gli uomini autentici della sua vita (il neurologo Nygren) varrà più di tanti legami fittizi e sarà forse il vero amore che è tutto ( … gli uomini che diventano celebri… non disprezzano il desiderio della carne… è l’amore che disprezzano” ). L’obbiettivo di Dreyer esplora con serena energia i pochi oggetti degli appartamenti, fatti di legno scuro, di curve nodose e che finiscono col formare un paesaggio di simboli familiari, col restituire i riflessi di tutto un modo di sentire, di pensare (angoloso, chiuso ed austero). Il bianco vibra più forte proprio nei momenti di più acuta tensione esistenziale, nell’inutile splendore dei lampadarii o dei Gobelin e corrisponde ai momenti di massimo contenuto mondano per i tre uomini entrati nella vita di Gertrud senza mai viverla insieme a lei. Le inquadrature sono esempi di coesione percettiva d’alto grado e da ciò è intensificata quella sensazione di statico che il regista impone delibera-62

tamente a tutta l’atmosfera, ma che è una “pressione formativa” perchè ogni parte non diventi un frammento da staccare dall’immagine e perchè predomini la qualità del tutto su quella delle componenti. Le costellazioni di segni, le oscillazioni di tono sono interne agli avvenimenti, concatenate nei minimi valori, nelle minime trasposizioni. Anche se i dialoghi prendono una netta prevalenza, non li si può ritenere pleona-stici nei confronti del testo visivo: essi si inseriscono come coespressivi nel linguaggio dei gesti pacati, nella mimica trattenuta dei protagonisti, nella polimorfa flessibilità delle ombre e delle luci che suggeriscono, de-notano e comunicano. Non intendiamo con ciò porre “Gertrud” all’altezza di “Dies Irae” o della “Passione di Giovanna d’Arco” , ma non si può non rilevare come sullo schermo del Lido, l’opera ultima di Dreyer abbia rappresentato uno dei momenti più alti per la nobiltà dello spirito che la pervade, per i valori che propone nella struttura ricorrente del riscatto umano nel dolore. Per quella corrente fluida e luminosa che percorre tutte le sue sequenze quasi ad assorbire in sè la fuggevolezza del tempo e il suo continuo ricomporsi, in modo che tutta una realtà intima diventa densa, presente, penetrante grazie alla precisione, al dignitoso calore e alla finezza che caratterizzano i moduli espressivi del grande maestro danese. Napoli-Venezia, Cinemasud ottobre-novembre 1965 63

1969 VENEZIA XXX: NOTE SUL CINEMA AFRICANO 64

Queste brevi riflessioni sulla sintetica ma succosa rassegna del film africano, nell’ambito della XXX mostra di Venezia, vogliono esulare, per par-tito preso e per limiti specialistici, da una presa di posizione sui complessi problemi politici ed etnologici di cui si è venuto occupando con rigore e serietà di intenti il Centro di Sociologia delle comunicazioni di massa, presso l’Istituto di Pedagogia dell’Università di Roma. Si cercherà, piuttosto, di prendere spunto da alcuni film, tra i più significativi (non tra i più “riusciti” sul piano estetico), per analizzare certe questioni di linguaggio a livello denotativo e connotativo, Che esse abbiano poi implicazioni d’altro genere è un portato naturale di ogni discussione culturale che non può vivere se non nelle coordinate di una più vasta rete antropologica. Da uno sguardo d’insieme (e da tutte e tre le “tendenze narrative” di cui si dirà), sembra evidenziarsi che il salto al di là del colonialismo è stato operato da tutti gli uomini di cinema che hanno presentato le loro opere e i loro “documenti” a Venezia ’69. Non si tratta più di quella sorta di “linguaggio zoologico” col quale certi autori europei trattavano le vicende africane impregnandole di esotismo e di facile folklore, allorché si decidevano a sfruttare il vasto filone del continente nero. Essi, come sottolineava Fanon, ponevano l’accento tonico sui movimenti zoomorfi, sul pullulare dei bambini, sul brulicare dei mercati, sul ser-peggiare di una colonna o sul gesticolare scimmiesco degli indigeni. Si venivano coniugando inquadrature “da bestiario” , sia pure guardato con pietosa degnazione, con sensuale compiacimento e con un frainteso spirito di fratellanza che rassomigliava al più vieto paternalismo. E sarebbe qui del tutto superfluo tirare fuori i titoli del “cinema africano” girato dagli occidentali (le eccezioni, tipo Rouch o Resnais, confermavano le re-gole correnti della produzione). Il contraccolpo naturale a tale impostazione è giustamente presente in tutte le opere dei registi africani invitati a Venezia XXX. I decolonizzati, nei loro discorsi quotidiani, nelle loro fantasie, nei loro comportamenti hanno cifre che non rassomigliano a quelle imposte dai coloni ormai lontani (né gli stessi strumenti tecnologici possono riproporgli, di riporto, certi valori in cui non hanno mai potuto credere). Basterebbe esaminare un po’ più da vicino i risultati del linguaggio mimico negli stessi primi piani che potrebbero credersi “occidentalizzati” per quella sovrastruttura (o vernice) della comunicazione verbale che avviene in francese. Una storia anche banale come quella di un’allucinazio-65 ne ossessiva - “La femme au couteau” di Timitè Bassori rivela costantemente nello snodarsi dei primi piani e m. p. p. l’autenticità di origine di una forma di comunicazione non verbale che conserva tutte le caratteri-stiche di una cultura sviluppatasi (emozionalmente e cognitivamente) al di là dei modi di sentire e di esprimersi propri dell’occidente. La codificazione di un tale linguaggio è quindi nei termini della “segna-letica” facciale: i particolari giuochi muscolari del volto, le contrazioni, e rilassamenti, i cipigli, i corrugamenti, le aperture dei muscoli orbitali etc. Ci sarebbe da ’riflettere a lungo sulle ipotesi di B.L.Whorf a proposito del “pensiero silenzioso” che si raccoglie dietro ogni espressione facciale, co-me di un’idea-emozione sedimentata nei muscoli prima di essere trasmessa nel codice fonetico. Certe forme di attonito stupore, certe espressioni di sorpresa, di disin-cantamento sono rese in modo così peculiarmente africano nel film citato che esso potrebbe forse venire analizzato seriamente solo mediante il confronto di tale mimica con quella di un attore europeo immerso in un’identica (o analoga) situazione. È proprio in questo riscontro di differenziazione nei movimenti del corpo (e del volto) visibilmente percettibili, che si viene ad instaurare una possibilità di accesso alla comprensione non superficiale di un “linguaggio espressivo” africano, non mediato da interferenze linguistiche europee (il francese o l’inglese) che, comunque, in un discorso per immagini come è prevalentemente quello filmico, possono assumere solo una rilevanza accessoria e perciò marginale. È qui, ad un livello chiaramente comportamentistico, che anche il pro-fano può distinguere un messaggio autentico di umanità negra (négritude? ) senza lasciarsi fuorviare da quell’impasto di

stereotipi prefabbricati che era la lezione media del cinema colonialista. In questo senso, i raggiungimenti stilistici di film come “La femme au couteau” o “La bague du Roi Koda” (opere, rispettivamente, di Timité Bassori e Moustapha Alassane), non rientrano nel campo d’indagine di queste riflessioni. Proprio perché l’interesse che suscitano simili pellicole è di natura schiettamente linguistico e non solo per le ragioni precitate, quanto anche per la genesi di un periodare ancora in fase di strutturazio-ne, quindi alla ricerca dei propri nessi sintattici, di proprie categorie temporali, aspettuali, modali insomma di quelle proprietà morfosemantiche che autocomplicandosi inducano poi ad una configurazione di vero spessore narrativo in quanto fusione di comunicazione e di espressione. Nel cinema africano, per riprendere una distinzione appena accennata, 66

67 cioè nel cinema fatto da africani, si individuano altre due tendenze oltre quella della introspezione: quella storico-documentaria e quella più schiettamente favolistica. La storico-documentaria (con i suoi sottogruppi di documentarismo tout court e di cortometraggi didattici) è bene esemplificata da “Le vent des Aurès” , film di M.Lakhdar-Hamina (Algeria) anch’esso presentato in questa rassegna veneziana. In quest’opera la ricerca è tesa verso l’ieri immediato, verso un’attualità che si è

conclusa (l’occupazione francese dell’Algeria) ma che ancora brucia intatta e con dolore nelle carni di coloro che hanno dovuto sacrificare un figlio, un parente, un amico al trionfo della causa nazionale. L’andamento descrittivo, il ritmo di rappresentazione degli avvenimenti sono alquanto ricalcati su quelli che in Italia sono stati gli stilemi del neorealismo: sia per la ragione interna (le condizioni di articolazione del linguaggio documentario) sia per quelle esterne (il successo di un film di coproduzione quale “La battaglia di Algeri” e il ritorno dei borsisti algerini dalle scuole europee di cinematografia quali IDHEC, il Centro Sperimen-tale etc.). Sotto questa solida copertura stilistica, non si perdono però le tracce di un discorso autoctono, la lucida diagnosi, ad es., di Fanon su ciò che rappresenta per un africano il concetto di “dignità umana” e si ripercorrono, sia pure con emozionalismi elementari, quegli stadii di tensione nei quali il colonialismo per la sua intrinseca logica, induce le sue vittime. “Quello che il colonizzato ha visto sulla sua terra è che potevano impunemente arrestarlo, picchiarlo, affamarlo; e nessun professore di morale mai, nessun prete mai, è venuto a ricevere i colpi al suo posto né a dividere il suo pane con lui”. È quello che fa invece con persecutoria deliberazione la madre del giovane internato nel campo di concentramento sui monti Aurès. Simbolo forse artigianale, ma efficace, della nazione-madre di stesso sangue, di stesso sviluppo e di identiche tradizioni che sola può dividere il sacrificio col sacrificato. La comunanza emblematica, in una stessa morte, per identici motivi, sta ad indicare che la decolonizzazione può avvenire, tragicamente o paci-ficamente, solo quando la messa al bando degli “estranei” (i coloni), riu-nifica il mondo in base ai suoi contenuti omologhi e ne fa sparire quella “eterogeneità” che è l’elemento di distruzione e di dissociazione di una nazione come entità storica che ha diritto alla sua identità. “La verità è dovuta solo ai connazionali”. Questa asserzione apparente-68 mente manichea di Fanon, fà luce sugli intrighi, sui sotterfugi che anche ne “Le vent des Aurès” sembrano aduggiare gli algerini decisi a soccorrere la madre alla ricerca del figlio. Ma la trasparenza dell’anima è dovuta, appunto, solo a chi riconosce l’esistenza dell’anima, non a chi si rivolge alla persona come ad un oggetto inanimato, ad un insetto da schiacciare con gesti infastiditi della mano o col calcio del fucile. Il manicheismo potrà scomparire quando cesserà la situazione di falsa bilateralità istituita all’origine e con la violenza dai coloni. A questi assiomi etici, sia pure con collegamenti sotterranei o malcelati si rifanno anche opere quali “Concerto pour un exil” di D.Ecaré, e “Le troisième jour” di E.Sailly e qualche altra. All’atmosfera di mito e di magia che resta una delle realtà incontrovertibili del continente africano, si ispirano altre opere oltre la già citata “Femme avec le couteau” di T.Bassori quali ad es . “La bague du Roi Koda” di Alassane e altri mediometraggi. Manie peculiari e paure ancestrali che, dopotutto, come rilevava lo stesso Fanon sono anch’esse vere e proprie capacità emozionali di integrare l’africano alle sue tradizioni, alla storia della sua contrada o della sua tribù, rilasciandogli nello stesso tempo uno statuto, un certificato di stato civile o almeno una chiara carta d’identità. Anche in altre opere che, per un verso o per l’altro, sembrano distaccar-si da tali tematizzazioni, come ad es. “Point de vue” di U.Mokouri o “La grande case bamileke” di J.P.Ngassa, ciò che conta sembra quel sottofondo angoscioso, sia pure contraddittorio, in cui l’uomo è irretito dalle “tremende avversità delle strutture mitiche” e, talvolta, perciò, secondo il lucido paradigma del grande sociologo delle Antille, tutto viene a risolver-si in uno “scontro permanente sul piano fantasmagorico”. I tre filoni, quello sociale, quello fantastico (o fiabesco o (meglio) egoti-co), quello documentario offrono quindi le facce di una piramide che nel suo movimento, nel suo faticoso decollo, in cerca di vertici più alti, riflette le contraddizioni della decolonizzazione. È per questo che il messaggio più decifrabile, meno viziato da ridondanze resta quello del linguaggio che si conglomera come testimonianza di una fondamentale unità di coscienza e di comportamento. Ed è per la stessa

ragione che, come ha ben notato Romano Calisi nella “Tavola Rotonda” , seguita alle proiezioni, “si può e si deve rimanere lontani da un tentativo di tipologia cinematografica del fatto africano”. Così, la proiezione di “Le Mandat” di Ousmane Sembene ha riproposto la peculiarità della situazione produttiva di uno stato quale il Sénégal che 69 ha la strana ventura di avere al culmine del suo potere esecutivo un poeta come Senghor. La lirica storia di questo vaglia che giunge inopinatamente ad uno zio che vive a Dakar da parte di un nipote che risiede a Parigi e lo scialacqua-mento inconsapevole della somma è un pretesto intorno al quale il realiz-zatore ordisce con gusto un tessuto di episodi che riflettono, seppure non in profondità, certe cadenze dell’esistenza quotidiana. Raggiungendo dei confini superiori negati agli altri registi, meno smali-ziati e forse anche meno dotati, si possono intravvedere delle sovrimpres-sioni di preoccupazioni estetiche che vengono ad obliterare quelle che so-no le strutture puramente linguistiche. (E, quasi per assurdo, film di questo genere sono i meno adatti alle nostre particolari riflessioni, così come quelli che, per altre vie si staccano dalla tematica africana venendosi ad ambientare all’estero come ad es. “Concerto pour un exil” di Désiré Ecaré)3. Comunque , “Le Mandat” parla delle cose dell’Africa senza quelle misti-ficazioni care ai registi bianchi che partivano col presupposto di trovare dovunque “il sacro e il rituale” per poi ridurre tutto ad un comune deno-minatore di bizzarria esotica. Va peraltro qui doverosamente ricordato come gli unici autori occidentali che si erano avvicinati ad un punto di vista di reale compartecipazione erano stati i Rouch (de “Les Maîtres fous” o di “Moi, un noir” e i Resnais-Marker de “Les statues meurent aussi” ). L’autenticità attuale di Sembene sta nel saper scansare i risvolti compli-cati e problematici: il danaro del vaglia è una causa direttamente alienan-te che combacia con quel tradizionale potere malefico, iettatorio e magico che il danaro ha conservato nelle tradizioni primitive. Ogni personaggio viene ridefinito e ridimensionato proprio in misura del suo interessamen-to al danaro (quella somma presente ed assente al contempo, rappresen-tata dal mandato per un certo tempo inesigibile). L’idioletto che i protagonisti utilizzano per comunicare è un linguaggio “reificato” dato che è tutto centrato e concentrato sul danaro, è quasi - come dice un critico francese - “la langue de l’argent.” E si tratta, come ha ben osservato Calisi, di uno dei film più autentica-mente africani data “la critica all’interno del sistema” cioè più aderente ai rapporti intrinsechi di quella società. Proprio in base a tali riflessioni, ci pare che si possa rispondere in maniera meno scettica alla domanda che si è venuta ponendo all’inizio della 3 * Cfr. per Ecaré Filmcritica n.193. 70 discussione, presenziata, scarsamente da giornalisti, critici e pubblico. Domanda così formulata: “È possibile un cinema veramente africano e che significa cinema africano?” “Proprio come forma di espressione - ha risposto per parte sua il relatore (Calisi) - il cinema non può essere africanizzato così come non può essere americanizzato… perché si tratta di un prodotto della civiltà occidentale nel senso della sua genesi tecnologica”. Qui, ci sembra, si è venuto a confondere il mezzo (come per la lingua la voce, le corde vocali, così per il cinema il complesso audio-visivo) col codice linguistico (segni, simboli, semantemi, morfemi etc. ) e si è sfiorato il nuovo paradosso per cui il messaggio sia il trasmettitore. Al contrario, l’analisi anche imperfetta dei film visionati a Venezia ci sembra abbia detto sul piano semantico, molte cose di rilievo, mostrando un contesto di eventi, azioni, comportamenti gestuali, mimici (microcine-sici) che nella loro semanticità non possono non rimandare ad un particolare tipo di cultura, “une façon d’assumer notre négritude” come è venuto affermando Désiré Ecaré. Ciò che è possibile nelle arti figurative e nella musica, non può non es-serlo nel cinema che è un linguaggio composito per eccellenza e fra i cui elementi di struttura primaria ci sono l’immagine e la modulazione tonale del sonoro. L’altra questione, affrontata dal prof.Rainero, se la produzione africana sia assolutamente francofona o anche anglofona risulta marginale per questo tipo di annotazioni, non certo per il problema in se stesso. Interessante sapere che esiste, tra gli altri un film curato (in inglese) dal

narratore e poeta nigeriano Amos Tutuola. Opere, comunque che rarissimamente riescono a raggiungere l’Europa. Il festival Panafricano di Algeri ha dato la possibilità a chi vi ha partecipato di chiarirsi molti interrogativi e molti dubbi. Ciò non toglie che ha avuto piena ragione Fulchignoni nell’augurarsi che le strutture e le infra-strutture si consolidino al fine che si possa allargare il discorso del cinema africano (e sul cinema africano). Anche per eliminare quel filone di “cinema ciclico” (western, gialli e pseudo-storici ripetuti all’infinito nelle sale di proiezione): proprio questo tran tran è stato denunciato da un regista della Côte d’Ivoire come uno degli strumenti più efficienti per addormen-tare e drogare le coscienze africane. Senza voler nulla dire dei monopoli (oligopolii) delle reti di distribuzione, la COMACICO e la SEMCA, alle quali si sottomettono volentieri anche i produttori italiani che ad esse vendono direttamente. 71 L’altra interessante ammonizione - o invito, per il garbo parigino con cui è stata insinuata - è quella venuta da un competente quale Jean Rouch al riguardo dello snellimento della tecnica di realizzazione e, conseguen-temente, dei costi: rifiuto dei sistemi “arcaici” , assunzione di strumenti sempre più maneggevoli, caméra-stylo, 16 mm, ampex portatili, magnéto-scopes e cinemacassette. Discorso che per il relatore non è soltanto un discorso tecnologico ma un discorso squisitamente politico e di base per liberarsi dagli ostacoli più ampi posti dal sistema capitalistico vigente nei molti paesi di nuova indipendenza come residuo del più radicato colonialismo. Un tale discorso è stato recepito molto favorevolmente dai registi presenti i quali hanno chiaramente lasciato intendere che qualsiasi innova-zione scientifica sarebbe gradita purché capace di dar loro, sul piano linguistico ed espressivo quell’autonomia creativa effettuale che è una delle componenti primarie di quella più vasta autonomia umana che essi au-spicano per tutto il loro grande continente. Venezia-Napoli, “Filmcritica” settembre 1969, N.200 72

1963

IL CINEMA E LA REALTÀ ITALIANA PRIMO INCONTRO INTERNATIONALE DEL CINEMA A NAPOLI 73 Anche per il cinema italiano, nel ‘45, sotto le ceneri, sotto l’ardente dolore fermenta una rigenerata speranza civile, nascono frutti nuovi e nuovi semi germinano in solchi profondi. “Si tratta - dirà in quello stesso anno Thomas Mann - di giungere, al di là di ogni fascismo, ad un patto della ragione col sangue che solo merite-rebbe il nome di piena umanità” . Trent’anni di cinema, dal ‘14 (dalla dannunziana, retorica, imperiale “Cabiria” all’ultimo rifacimento, in Venezia - estrema cinecittà di Salò - di un risibile telefono bianco, riflettevano con opaca ma esatta rispondenza i dissesti, le fratture di un regime tirannico, bellicoso, estraneo al libero giuoco democratico, vòlto per costituzione verso la catastrofe. E i rari momenti di consapevolezza, corrisposero, anche in quel periodo, ai pochi momenti di chiarezza, di critica. Come tutti i fenomeni storici, il fermento vitale che si verificò in Italia a guerra finita era stato preparato da forze nascoste, energie represse, da una antica fame e da una lunga attesa di sincerità. Le braci erano state covate in profondo da narratori, saggisti, critici: so-no di prima del ‘40 “Gente in Aspromonte” , “Tre operai”, “Natale in casa Cupiello”, “Fontamara” e “Pane e Vino” . Dopo il ’40 trovavano un’accensione più vasta nella rovente indignazione di uomini tesi a superare un’ansia fatta di astratti furori e di artisti de-terminati a porre più concreti inter rogativi alla coscienza collettiva. Sono gli anni di “Paesi tuoi” (1941) di “Conversazione in Sicilia” (1941) di “La Siccità” de il sequestro di “Americana” di Vittorini, per il suo “corredo di note critiche” . “Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso; tutti soffrono, ognu-no per se stesso ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso” . (Così, appunto, Vittorini in “Conversazione in Sicilia” ). E “Ossessione” e “I bambini ci guardano” (1943) rappresentavano parti non minime di questo mondo offeso: il primo col suo panorama della de-pressione sociale che, in certe zone del Nord, rispecchiava quella assai più endemica e diffusa del Sud; il secondo che addensava, in un lacerato cuore di bimbo, le incrinature di un ceto piccolo-borghese, uso a raccogliere frutti di cenere e tosco dalle sue radici d’egoismo di squallido particulare. Questi anni di transizione servono a chiarire come il problema delle connessioni tra la realtà e un linguaggio d’arte non si possa imprigionare in sistemi a circuito chiuso, specie quando s’intende dare, in breve, i connotati più in vista di una situazione storica. 74 Resta il fatto che la libertà del regista, come dello scrittore, non si può staccare dall’attività del suo pensiero, del suo carattere, dalla sua condotta individuale e sociale. Anche se i legami con la vita collettiva sono mediati e complessi, non suscettibili di venire incasellati in una sociologia astratta o meccanica, in linea generale, non si può non considerare che essi, quali uomini, vivano nell’ambiente comune, ne respirino l’aria e le correnti, vengano con esse in contatto; anche se poi l’adattamento possa manifestarsi non solo nel rispetto ma nel rifiuto più o meno aperto, più o meno simbolico. Per queste vie, si possono spiegare prima del ‘45, opere come “1860” di Blasetti, o molto più addietro, “Assunta Spina” e “Sperduti nel buio” che emergono sull’altro versante dello spartiacque giolittiano, quello della pic-cola Italia, provinciale e antidannunziana, che porta al “verismo sentimentale” e passionale di un Di Giacomo o al confuso naturalismo di un Bracco. In genere, queste opere servono solo a confermare, con la loro apparizione senza sviluppo, la diffusa anche se differenziata ipocrisia degli autori negli anni tra il ‘14 e il ‘44. I grandi film rappresentativi della realtà italiana saranno perciò quelli legati alla fioritura dello “stil nuovo” del cinema italiano che verrà più ge-neralmente conosciuto (e spesso combattuto) come neorealismo. E’ la pianta del film popolare e nazionale che non nasce più nel tepore malato delle serre o negli studi abbagliati da false luci ma nelle strade, sui volti senza trucco e senza

maschera, davanti a un obiettivo che fruga la realtà con l’ansia che viene dal rimorso, per trovare verità umane. Il neorealismo nasce sullo stesso terreno di “L’Età breve” , de “Le terre del Sacramento”, de “Il vecchio con gli stivali” , di “Napoli milionaria” e di “Cristo si è fermato ad Eboli” : anche i narratori abbandonavano i viaggi solitarii all’interno delle proprie stanze o in contrade esotiche, ponevano da parte le distillazioni sapienti, l’arcadia dell’angoscia, per iniziare un più virile colloquio con la realtà. E da questo rapporto con le cose più vive di quegli anni, con il dolore, con la lotta nasce “Roma, città aperta” , risentimento lirico ed epico ad una ferita non rimarginata, ad un sacrificio sofferto con ferma dignità di uomini o di cristiani ( “chi credeva al Cielo e chi non vi credeva, la rosa e la reseda” come cantò Aragon). Il neorealismo, in Rossellini, fu questo istintivo aderire alla realtà più immediata della Resistenza, vissuta dal di dentro come crisi di crescenza di un’intera nazione. 75 In “Roma, città aperta” , come in diversi episodi di “Paisà” , questo riscatto politico diventava il simbolo dello spirito di un popolo (della parte migliore di esso), assumeva il significato del più pieno rifiuto al conformismo, al sopruso, al disumano. Il rovesciamento dei luoghi comuni, della retorica era stato possibile non solo per una conoscenza a viso aperto con la gente più minuta ma soprattutto grazie ad una comunanza di ideali con essa; e la capacità di com-penetrazione morale diventava stile, coerenza di ritmo, autenticità di discorso. Si capiva, dal contesto delle opere, come una realtà storica non può con-fondersi con quella dei fatti fisici o atmosferici: essa è infatti determinata o almeno condizionata dal concetto che gli uomini, i cittadini se ne vanno facendo giorno per giorno, anno dopo anno e, in periodi acuti, ora dopo ora. Non si tratta di freddo documentarismo ma della necessità intima di documentarsi sul proprio significato di uomini e di membri di una comunità da ricostruire; si tratta di sottrarsi al caleidoscopio, al sogno ai calcoli combinatori di una teatrale o meschina fantasia, si tratta di fissare sulla tela bianca le testimonianze più concise della nascita di una nazione alla democrazia. E questo fa Rossellini in “Paisà” in cui viene seguendo, come in un diario ancora gremito di gridi, di emozioni a nudo, la marcia verso il Nord delle armate angloamericane. L’ultimo episodio, dei partigiani accerchiati senza scampo nelle paludi del delta Padano, è la più rovente lettera mai scritta da condannati a morte, il più alto, intenso racconto della Resistenza europea; incide il senso tragico di necessità da cui prorompe la nobiltà dello spirito alla ricerca di uno libertà senza calcoli e senza baratti. Mai come in questo memento, il petrarchismo (compreso quello epico e declamatorio) è lontano, e sembrerebbe per sempre; non si coltiva più la maniera, il vezzo della bella pagina, splendente e neutra come un fiore senza sapore nè vita. “La maschera è caduta e l’ipocrisia è stata dimostrata dai fatti, e dan-ni e dolori preveduti e inevitabili ci colpiscono; ma la situazione, benché sembri peggiorata, si è rivolta invece in nostra superiorità perché non siamo più pazienti ma operanti e possiamo contrastare e combattere”. Sono le parole di Benedetto Croce del 10 ottobre 1943 che hanno trovato il loro figurativo equivalente in “Roma, città aperta” e “Paisà” e “Il sole sorge ancora” . Il cinema italiano, per parafrasare il De Sanctis, non poteva risorgere che 76 con la resurrezione della coscienza nazionale; solo quindi un forte, onesto interesse ai problemi umani, solo una misura reale del dolore e delle sue risonanze, solo la volontà di risanare squilibri e ingiustizie, poteva opporsi ad un nuovo ristagno della vita pubblica e privata, al molle ed effeminato gusto per l’idillio, che quando non evapora, si scioglie in gretto melodramma o canzonetta. “Sciuscià”, pur in certe sue cadenze patetiche, recava l’impronta di un simile interesse; pur nell’impasto di simboli troppo evidenti, conservava lo spessore grigio della denuncia, non meno precisa perché accorata.

La realtà, anche se crudele, anche se accusatrice, va conosciuta, analiz-zata e con “Sciuscià” De Sica e Zavattini si staccano dal mondo piccolo-borghese per scrutare il mondo dolorosamente adulto dei piccoli lustra-scarpe romani, anche se ciò serva a costituire un bilancio negativo delle nostre responsabilità. L’obiettivo sembravo guadagnare vita, vigore mettendo a fuoco questa dura realtà del dopoguerra; ma il merito non nasceva automatico o inconsapevole, era l’impegno etico che allontanava l’espressione stracca e irre-sponsabile, le accezioni equivoche, gli artifici di linguaggio e di tecnica. L’operazione poetica dei registi partiva da queste modifiche di moralità, da questo slargarsi del concetto di cultura come “verità che si sviluppa e muta non solo grazie ai mutamenti del mondo o alle esigenze di mutamento che si presentano, ma grazie al suo proprio impulso, ovvero nello misura in cui non si placa, non si soddisfa, non si cristallizza in possesso o sistema. Impulso che è la forza umana che scopre nel mondo le esigenze di mutamento e ne dà coscienza al mondo” (E.Vittorini). Il tono stilistico non è casuale, fortunoso: viene fuori dallo sceverare con scrupolo, in termini oggettivamente adeguati e concisi e da vicino, i conflitti, le tensioni, le tracce color sangue che gli avvenimenti lasciano sul tessuto (e non sul solo epitelio) della società. Lo forza dei migliori è proprio questo partire dai dati immediati della sensibilità intesi come dati della coscienza, questo esplorare le proprie più spontanee esperienze alla luce di una pronta riflessività e quel sentire che “il noi vale più dell’io” . La guerra era stata come un vaglio crudele ma efficace che avesse liberato la verità dall’ornamento, la passione dalla convenzione, la poesia dal metro obbligato e dal suono ermetico. La Napoli, pochi giorni prima di morire Giaime Pintor, aveva scritto nel novembre del ‘43: “La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i 77 presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento. Nei più deboli questa violenza ha agito come una rottura degli schemi esteriori in cui vivevano… nei più forti ha portato una massa di materiali grezzi, di nuovi dati su cui crescerà lo nuova esperienza”. E il neorealismo fu, appunto, un nuovo modo di guardare la realtà italiana, comprenderne gli assilli, analizzarne le contraddizioni, l’arretratez-za e insieme lo slancio verso una nuova effettuale unità; non pessimismo programmatico ma strumentale, al quale si connetteva una segreta ma generosa fiducia nelle nostre possibilità di rinnovamento e di progresso. Da ciò il suo atteggiamento polemico, i suoi strappi, i suoi estri, impeti; da ciò il gusto di dimensionarsi in modo del tutto autonomo rispetto alla tradizione. Da ciò la sua lezione di metodo e di orientamento che i maggiori registi cercheranno, in seguito, di approfondire, spingendosi al di sotto della scorza dell’attualità, per saggiare i gradi complessivi della temperatura sociale, per cercare una misura narrativa che, pur essendo legata al mondo contemporaneo, non fosse registrazione passiva e sopravvivesse e si ri-collocasse al di là del proprio tempo nell’attenzione degli uomini. Il biennio 46-47 con “Mio figlio professore” di Castellani, con “Il bandito” e “Senza pietà” di Lattuada, con “Gioventù perduta” di Germi e “Caccia tragica” di De Santis, rivela già il diramarsi delle tendenze, il frangersi dello specchio in molteplici scaglie, tutte però pronte ancora a cogliere il proprio segmento di realtà quotidiana. Negli anni seguenti, riaffiorano i piccoli problemi, la casistica privata e familiare, i dilemmi di fronte all’avvenire e all’esistenza (un diagramma esemplare ci viene offerto dalla parabola di Rossellini: dallo straniamente di Karin in “Stromboli” al tuffo all’interno dell’Irene di “Europa ‘51” ). Le ragioni narrative si moltiplicano, spesso perdendo compattezza, pressione, tralasciando talvolta i postulati più concreti e incamminandosi fatalmente verso risultanze di netta mediocrità o addirittura di contraffazione.

Questo vale, però, solo per i minori, gli imitatori, i talenti improvvisati e orchestrati dalla produzione meno responsabile; accanto ad essi cominciano a profilarsi le personalità più permanenti e rilevanti del nostro cinema: Visconti con “La Terra trema” e poi “Bellissima” , De Sica con “Ladri di biciclette” e “Umberto D.” e Antonioni con “Cronache di un amore” e “Le amiche” . Se si guarda bene, questi tre registi scelgono, osservano, analizzano i tre strati più in evidenza della nostra società: i diseredati di Verga, i suoi “vin-78 ti” che in Visconti acquistano l’amara coscienza del cammino da intra-prendere: un disoccupato e un pensionato che rappresentano la zona umana più problematica del nostro paese, i timori e i tremiti di una coppia adultera, legata da una solidarietà egoista, messi al microscopio da un moralista quale Antonioni con quella sua lucida, impietosa geometria di bianchi e di neri. E’ l’avvio alla grande, molteplice strada del realismo, fatto di corsie spa-ziose e distinte, ma tutte dirette a scoprire l’uomo nel suo più ampio colle-garsi alla realtà e insieme ad ogni altro uomo, con un lavorìo di spola fatto di movimenti interiosi ed esterni e nell’uso di segni complessi ma chiari e razionali. Un linguaggio questo che, nella sua dinamica specularità, nelle sue risultanze Roentgen, serve da rimonta a certe rarefazioni e deterioramenti dei dati, dei fatti, operate in altri campi (il boom dell’astrattismo, ad es. ), dove la cifra semantica, per salire verso vertici assoluti o aristocratici, rimane dominio di pochi e perde in verità, dialogo e possibilità d’azione quanto guadagna in raffinatezza. E’ la scoperta della geografia umana del Sud, non quello “fra larghi colli pensile sull’acque dell’isole dolci del dio” ma quello “stanco di solitudine - stanco di catene, stanco nella sua bocca delle bestemmie di tutte le raz-ze” (Quasimodo); ma è, sopratutto, ad ogni latitudine, il riportare il voca-bolario delle immagini al suo confronto diretto con la nostra vita italiana, liberandosi da un concetto conformista del mondo, senza peraltro insistere in ideologie statiche o in costruzioni schematiche o derivate. E’ la testimonianza, insomma, di un presente vissuto ad alta temperatura e in cui, come è nelle onde più vaste della storia, si intravedono fusi (ma non coordinati dal di fuori) i destini collettivi e singoli degli uomini. E i fatti, gli ambienti si sviluppano, nei registi citati, non in funzione della pura suggestione drammatica, emotiva o dell’impatto spettacolare ma co-me verifica (e chiarifica) di una situazione individuale concreta che comunica dall’esterno e dall’interno con un problema sociale. Ne risulta, in essi, un linguaggio in cui non è affatto bandita l’immaginazione, come volevano i procedimenti zoliani, ma in cui l’immaginazione è tutta articolata sulla realtà e ne serra le cerniere visibili, ne porta alla luce le trasmissioni segrete, rifiutando solo il gioco della scelta astratta e la tecnica delle deduzioni arbitrarie. In una sua nota su “Realismo e Stile” così scriveva Luigi Chiarini alcuni anni orsono: “Che oggi la concezione della vita sia dominata dal problema sociale, nessuno credo possa contestare. Cattolici, idealisti, esisten-79 zialisti, neopositivisti e, insomma, quanti si rifanno alle tendenze di pensiero più diverse, pongono l’accento della loro indagine più sui problemi dei rapporti umani che su quelli della trascendenza o dell’assoluto: le ideologie, le fedi, insomma, si misurano ormai per quello che possono operare sul progresso di questa società terrena”. E se per Visconti e De Sica, almeno nelle loro cose più importanti, il contatto (o l’attrito) con la realtà italiana sembra fuori discussione, anche in Antonioni, ci sembra difficile, sia pure attraverso il suo moralismo di illuminista moderno, smentire l’esame di un versante in emergenze della nostra complessa organizzazione comunitaria. Egli passa sotto il suo terso, penetrante cristallo gli scompensi e le crisi della borghesia, le sue am-biguità, i suoi soprassalti a vuoto. Incide così la critica al l’interno del problema stesso, senza sventolare vessilli di prospettive e di soluzioni che l’artista non può dare (e sempre che la giusta impostazione non sia, dopotutto, una proposta di prospettiva e di soluzione). Del resto, come ribadisce uno dei maggiori studiosi contemporanei d’estetica: “La visione soggettiva o irrazionale di un autore non va mai giu-dicata dogmaticamente. Le domande in lui

rimaste irrisolte, possono trasformarsi nell’opera come contraddizioni della vita stessa, in un contenuto organico tendente all’unità, artisticamente omogeneo e tale da determinare realisticamente la forma” . (Lukács) Nei tre registi citati, infatti, “i personaggi agiscono e si formano nella direzione e subiscono quella sorte che impone la dialettica interna della loro sostanza sociale e psichica, poi che non è vero realista, non è autore veramente notevole quegli che riesce a guidare e regolare il corso dell’evoluzione dei propri personaggi, riuscendo sempre a conciliare la propria visione del mondo con la realtà, ossia a imporre quella alla immagine corrispondentemente contrafatta o alterata della realtà.” Questi registi, infatti, hanno ben visto come la storia infiltri dei suoi più profondi significati i più minuti casi individuali, così come De Sanctis rilevava per “I Promessi Sposi” del Manzoni: “Senza i grandi fattori della storia - dice il critico napoletano - Lucia e Renzo sarebbero stati sposi felici, predestinati all’oblio… E qui è appunto l’interesse di questo racconto che le avventure non prodotte ma patite da questi personaggi non sono l’effetto del caso o di combinazioni fantastiche dette anche romanzesche, ma sono il risultato palpabile di cause storiche rappresentate nel loro spirito e nella loro forma con una connes-sione così intima e così logica che il racconto ti dà l’apparenza di una ve-ra e propria storia” . 80

Ed è questo il carattere che informa opere come “La terra trema” , “Ladri di biciclette” o, perfino, “Le amiche” ; questo legare le sofferenze, le inquietudini o le amarezze del nostro tempo alla visione del cerchio di storia in cui esse s’inscrivono; senza condiscendenze, senza adulazioni, senza pieti-smi per l’amor proprio, sia privato che nazionale. Ma dopo il ‘50, si diluiscono le basi di un cinema tutto attento ai problemi della nostra realtà; dai gorghi dell’egoismo, dal repertorio delle piccole virtù, nemiche della solidarietà vengono fuori commedie insulse che con-traffanno la mimica popolare, la vivezza del nostro dialetto impoverito 81 nella plumbea ironia del romanesco; si gioca l’atout del sex-appeal più ipocrita e più scurrile.

Eppure proprio mentre declinano gli slanci temperamentali di un Rossellini, di un De Sica, si consolida il raccordo di Visconti con una autentica vena popolare ( “Bellissima” ) e i neologismi di Fellini assumono quell’a-cre ma fresco sapore che talvolta è la caratteristica più penetrante di certe lezioni morali. “I vitelloni” (1953), “Lo sceicco bianco” (1952), “Il bidone” (1955) porgono il loro piccolo, ironico specchio a certi angoli ottusi ma te-naci della nostra provincia addormentata fra illusioni, gallismo, fumi di facile successo. Lo stesso Lattuada, nel suo alto mestiere di regista letterato, nel ricercare le strutture utilizzabili di una narrativa pur così lontana dalla nostra nel tempo e nello spazio, si induce a trasporla in termini di vivace attualità italiana ne “Il cappotto” (1952); Castellani, pur calcolando gli effetti brillanti e abusando di scaltri impasti tra il boccaccevole e il dialettale, riesce a contaminare il ritmo della commedia a braccio con certi disagi sociali presenti e serpeggianti nella cintura fra il contado e la citta. ( “Due soldi di speranza” - 1952). Ma soprattutto in “Bellissima” (1951) troviamo la figura a tutto tondo di una madre della classe media romana, “sullo sfondo di alcune giornate di vita e di un piccolo romanzo di illusioni e delusioni quotidiane” e così prosegue Corrado Alvaro “… alla fine, abbiamo un ritratto di donna italiana, di quelle che hanno spazientito tanta letteratura e che è stato sempre ambizione di scrittori italiani e stranieri poter raffigurare.” Investendosi, insomma, delle responsabilità più acute nei confronti dell’individuo come della società, l’artista ritrova la naturalezza e restituisce, intero e non agghindato, il groviglio di emozioni e di idee che corre per le nostre strade; ritrova quel dialetto cantabile e vigoroso che lambisce la nostra lingua ufficiale, le dà succhi e vita, energia e cuore. Si avanza quindi, sia pure fra perplessità, remore e divagazioni, verso quell’alveo di opere meridionaliste che saranno la risultante di maggiore livello negli ultimi anni (e di cui sarà trattato nella specifica relazione del collega Frascani). Il realismo continua quindi a vivere come tendenza sia pure non come metodo, e proprio dal confronto col bozzettismo, coll’aneddoto frivolo e friabile, colla letteratura di ricalco esistenziale, estrae i suoi toni più fusi. Per la sua via giusta si libera dalle scorie del naturalismo, del picaresco, del coloristico; s’imparenta con la storia la metafora, la tradizione: è “Senso” (1954) - ad esempio - dove il melodramma, la pittura d’ambiente, la 82 polemica risorgimentale hanno il loro caldo stampa nella coscienza irritata degli anni ‘50. Ma gli alti e bassi, i flussi e i riflussi continuano, come è naturale, nella dialettica dei fenomeni storici: ne “Il generale Della Rovere” (Rossellini 1959) abbiamo il relativismo, il giuoco pirandelliano in ritardo, ambiguamente recuperato per uso apologetico; ne “La provinciale” (Soldati) la banalizzazione di un autore di aspro spicco contemporaneo; uno sfiduciato Pavese ha detto appena qualche anno prima: “Invece di mettere a cultura nuove province, ci si specializza nella conservazione del passato”. Troppo spesso la fantasia, dimessa la sua vichiana veste di “memoria dilatata e composta” , si avvilisce in leggerezza di gonne e gambe contadi-ne o balneari, viene ridotta a companatico, ristretta in operette che ripe-tono, in moduli solo più astuti, le viete farse paesane. Il Sud smette, così, di essere la cattiva coscienza del Nord, diventa solo un pretesto per ralle-grare con le sue stranezze, i suoi tabù, il suo lieto vivere alla giornata. E ugualmente, mai come in questo periodo, un fenomeno umano e storico, come la prostituzione, viene drappeggiato coi sette veli di una generica pietà da fotoromanzo: si può rimpiangere il realismo di un Defoe, qualcuno dei nostri scrittori, come Rea, invoca ad antidoto una “Moll Flanders” napoletana. L’oro di Napoli scorre a rivoli tra le mani dei registi locali (e non locali); ma sembra che la conoscenza del cuore antico e del dolore moderno di questa città si possa ottenere con troppa poca spesa d’ingegno e poco tra-vaglio; quella realtà che Marotta stesso scopre nei disegni di un Thermes che ritrae in un nero tagliente “la purgatoriale giornata di Napoli” quieta e drammatica, alleviata e furiosa come un urlo di mezzanotte nel guanciale.” Eppure “Anni difficili” di Zampa (1948), “Processo alla città” (Zampa, 1952), “Napoli milionaria” (1950), “Filumena Martorana” superano la gora morta del qualunquismo, del

pittoresco, la conciliazione con lo scet-ticismo ereditario. Eduardo si preclude la via al folklore, fa intuire che “la nottata può continuare” (ma “adda passà” ); Zampa con l’aiuto di un giovanissimo Rosi mette a nudo delle situazioni di camorra nient’affatto estinte. Insomma, la discussione sulla realtà continua, in modo alternato, inco-stante, controverso ma continua. Il pessimismo, di cui è stata accusata la tendenza realistica italiana, è infatti uno stato d’animo attivo integral-mente umano che non respinge speranze concrete, ma diagnostica il male con lo scopo di rimuoverlo, documenta la società contemporanea con la 83 aspirazione di darle un più civile ritmo, una più esatta individuazione del suo vero percorso. Senza inarcarsi in un catechismo tutto precetti e rime-dii, rappresenta il proficuo tirocinio di una comunità che non vuole co-struirsi sul vuoto, sull’enfasi, sull’isolamento. In questa direzione si nuove, con tutte le sue piccole proporzioni, anche la poetica zavattiniana, da cui deriverà, dopo “Amore in città” (1953), il recentissimo film-inchiesta che può correre (o ha già corso) tutti i pericoli dell’elzeviro di humour o di cronaca minuta. Libertà o mobilità di appunti visivi possono anche essere qualità “per piombare a picco sui fatti” , per evitare una inerte obiettività ed una astratta temporalità. Entrare in contatto con il presente o con la memoria, senza filtri nè diaframmi, può condurre a scoperte non passeggere, sempre però che le immagini fondano, all’istante, emozione e conoscenza, poesia e presa di coscienza. Altrimenti si cade in un “realismo” triturato, di briciole sparse che sta al lavoro d’invenzione come l’aneddoto sta alla storia. Ed è in quest’ultima che s’instaura un centro di gravità e un discorso tipico e simbolico che studia, per via di richiami complessi, il cammino dell’uomo e si colloca oltre ogni sensazione di momentaneo, di fluttante, di evaporabile. Ed è in essa che si ha l’eco di un congiuntivo energico, esortatore invece di uno stanco indicativo che esaurisca le sue frecce in se stesso. E’ constatazione non faticosa a farsi, sul diagramma della memoria, che degli anni tra il ‘46 e il ‘55 ci restano al fianco, come in stimolante colloquio, il volto di ‘Ntoni Valastro vogante con tensione sulla luce nerastra del “mare amaro” di Acitrezza; o la fronte sudata di A.Ricci alla ricerca della sua bicicletta e ansioso che la sua rabbia non straripi sul piccolo animo, già incrinato, di Bruno; o l’aprirsi di uno spiraglio di chiaro negli occhi di Moraldo in partenza per la città, dopo la scoperta che fin dall’alba ci son ragazzini in cammino verso il lavoro; o perfino, le facce non più estranee e distaccate de “Le Amiche” che si rivolgono mute, ma brucianti domande, dopo il suicidio di Rosetta. E ci siamo tenuti, deliberatamente, a distanza di una decina d’anni perché la prospettiva risultasse da un’angolazione meno estemporanea, più riveduta. Ma è un fatto che in questi ultimi anni da “Rocco” (Visconti) a “Giuliano” (Rosi), da “La lunga notte del ‘43” (Vancini) a “Banditi ad Orgosolo” (De Seta) a “Le quattro giornate” (Loy) sia il film di ampia, matura costruzione che quello di drammatico impatto di lampante reportage, se-guono la curva di un progressivo approccio ai cento problemi della nostra realtà. 84 Per Rosi come per De Seta, per Vancini come per Loy, come per Petri accertare un fatto, estrarne il suo significato interno e di relazione è più importante che conformarsi a qualsiasi estetica di progettazione; è l’unico nodo, anzi, di restituire dei vivi e veri documenti delle vicissitudini italiane di oggi (o di un ieri che si ritrova nell’oggi), attraverso un rigore d’immagini che si alimenta di passione civile. Ed è in questa direzione che si sostanzierà una energia fattiva, ampia visione della nostra realtà, sempre che in ogni artista - secondo il monito del grande umanista europeo Eric Auerbach “si risvegli la comprensione dell’agire di forze storiche, non raffrontabili e continuamente mutevoli… si acquisti la convizione che ciò che è importante ed essenziale non si può rintracciare nelle conoscenze generali ed astratte e che la materia non si deve cercare soltanto sulle vette della società… ma anche nell’economia, nella cultura materiale e spirituale, nelle profondità della vita quotidiana e popolare, perché soltanto là si può vedere quello che è peculiare, quello che è agitato da forze profonde ed è universalmente valido; ed è giusto allora aspettarsi che tali conoscenze vengano anch’esse trasportate nel presente e appaiano agitate o sviluppate da forze intime,

appaiano cioè come una parte di storia, fornita d’un’intima struttura, che divengono interessanti tanto nel loro nascere quanto nella direzione. del loro sviluppo.” Napoli 1963- 1997 85

1964 I FILM DE “GLI INCONTRI INTERNAZIONALI DEL CINEMA” DI SORRENTO 86 Hanno avuto luogo a Sorrento dal 19 al 25 Settembre gli “Incontri internazionali del Cinema” , già alla loro seconda edizione. Non è nostra competenza giudicare sulla riuscita dal punto di vista organizzativo di tali “incontri” che hanno avuto però l’indiscutibile merito di promuovere un accelerato ricambio di interessi tra cinema e pubblico meridionale, senza pretendere di sostituirsi a manifestazioni internazionali di più lunga e collaudata tradizione. La selezione di opere presentate, pur se di disuguale livello e non del tutto inedita, può venir considerata stimolante: dal film su testo di Genêt al film russo di originale impianto coreografico, all’ottimo americano sul problema razziale, allo strano e verboso film sudcoreano, documento comunque interessante di una situazione culturale ai suoi primi albori (o conati) di linguaggio filmico. Ma procediamo con ordine: il film che ha aperto la manifestazione, do-po un omaggio alla nostra Giulietta Masina, è stato “The Balcony” : uno strano impasto di tendenze culturali se si pensa che il testo su cui vengono intelaiate le immagini appartiene a quell’autentico anarchico, a quello idealista invertito che è Jean Genêt, mentre la regia è del tedesco-americano Joseph Strick, già coautore di quel “Savage Eye” che aveva portato a punte di rottura il documentarismo sociale americano, collegandosi alla nuova impostazione visiva di certa realtà colta nel suo divenire. Ne “Il balcone” , Strick, ribaltando appieno la concezione dell’istantaneo evolversi della realtà, ha immobilizzato in una scenografia di teatro, tra e-spressionista e costruttivista, le scene del racconto

energicamente simbo-lizzate. La casa chiusa, rimasta attiva ai margini di una sanguinosa quanto atemporale rivoluzione, è una Borsa-mercato di illusioni non solo car-nali ma di coscienza: metafora delle tre direttrici che per un nichilista qual è Genêt, srotolano la storia sui binari dell’assurdo: violenza, lussuria e mercimonio. Il film, pur irrigidito in schemi rappresentativi, non soffre certo di velleità: la denuncia delle ipocrisie, delle riabilitazioni post-mor-tem, del patetismo borghese uso a vedere la prostituzione come un semplice prodotto dell’indigenza e non come una urgente predestinazione al male per abuso di libero arbitrio, risulta tagliente come uno scalpello, non come un bulino e ha dentro di sè lo slancio incontrollato ma sincero di una cultura illuminista rivoltatasi contro se stesso, contro le sue illusioni costruite dalla “ragione” . Fra le sequenze che possono essere menzionate per la loro efficacia di impatto è quella del finto giudice che interroga la finta-imputata, in una tensione di erotismo che mette fuori causa tutte le carnevalate sexy della 87

88 produzione più commerciale; un esempio di come, senza alcun denuda-mento, si possa alludere ai più abietti tossici secreti dai nostri istinti. Di altro e differente rilievo, il film russo “Il Moro di Venezia” : esso pone il problema tipico e spesso teoricamente mal risolto, delle trasposizioni: è chiaro che in questo caso, il canovaccio sotteso alla pantomima e all’ampio respiro coreografico è solo quello della leggenda di Otello, lo

stesso ordito che già aveva utilizzato, prima di Shakespeare, lo stesso G.B.Giral-di Cinzio per i suoi “Ecatommiti” . Altra considerazione preliminare che ci sembra dovuta è quella di stare in guardia verso la “etichetta russa” da attribuire a quest’opera. Essa rientra infatti nella produzione nazionale della cinematografia georgiana che ha annoverato e annovera temperamenti notevoli di registi da Dzigan a Kalatozov, da Gelovani a Barskij. L’opera del coreografo e pantomimo Vakhtang Chabukiani si innesta felicemente, almeno nella prima parte, sul ceppo delle tradizioni nazionali senza peraltro sottomettersi ai lenoci-nii di una tematica e di una caratterizzazione pseudoorientale. Lo studio ravvicinato di una più ampia tradizione figurativa (da Carpaccio, a Tinto-retto a Rembrandt) ha permesso alla coreografia di sottrarsi ad uno sfondo di facile folklore. Il gusto cromatico, la visione fusa degli aspetti drammatici ricavati soltanto dai gesti e dalla musica (Matchvariani) indicano uno studio attento del materiale da ritrarre e da comporre prima ancora di passare all’occhio dell’obbiettivo stadio ultimo e non primo dell’autentica tecnica registica. Al primo blocco fa però seguito un allentamento dell’impegno e tutta la sequenza dei balletti sul molo di Famagosta risente di una lampante stanchezza inventiva e si prolunga in una restituzione di un corpo di ballo operistico intento alle sue accademiche evoluzioni e privo perfino di co-stumi adeguati. In ogni modo, la pellicola rimette in giuoco - con le sue sequenze migliori - la questione del colore, mostrando come il tecnicismo possa non solo essere aggirato ma scartato di un balzo da una fantasia creatrice che sappia assimilare il costume di un popolo come storia profonda e significato valido della sua cultura. Ad un problema attuale e ad una ferita tragicamente aperta, si riconnet-te invece l’americano “One potato, two potato” di Larry Peerce, regista del “new look” , almeno per quanto ci risulta personalmente. Il film, già presentato a Cannes, si avvale della interpretazione di Barbara Barrie che ricevette un meritatissimo premio in quel festival. Il regista fa infatti perno sul volto di questa giovane donna, singolar-89 mente vibrante e comunicativo, capace delle più sottili sfumature di sentimento: i suoi stati d’animo sono verosimili in quanto non semplici aloni di una vicenda ma veri e propri progetti di esistenza. Il dramma nasce da questo amore così umano che stringe la giovanissima divorziata (o, meglio, abbandonata dal marito) ad un suo collega di ufficio che ha il solo torto di avere la pelle scura. La stessa famiglia di lui è contraria all’unione, ma più che per un razzismo di rivolta, per la premonizione delle conseguenze che non potranno, in quell’ambiente, non essere negative. Ma l’amore dei due prevale e tutto va bene fin quando non si rifà vivo il primo marito che reclama, sul filo dell’indignazione, la figlia nata da lui e che vive ormai da tempo nella fattoria insieme col padre e coi nonni di colore. Ne seguirà una battaglia legale cui il giudice darà il sigillo finale, concedendo la custodia della ragazza al primo marito. E’ evidente in Peerce l’inserimento di una tesi in un contesto drammatico, e di una tesi al limite critico delle possibili evenienze in una comunità mista. Ma egli sa riscattare tale programmaticità con un lavoro di lima dei caratteri principali: non è poco - ad esempio - aver presentato il primo marito, bianco, lontano dal tipo del solito mangia-negri, piuttosto come un uo-mo debole alieno dall’assumersi responsabilità e testardo solo quando si è convinto di un suo diritto naturale. Così il personaggio della giovane donna è di tale disarmante candore, di tale pudore d’anima che riesce a rendere assolutamente credibile la sua mancanza di calcolo e di buon senso. Il problema viene insomma spostato sul piano coscienziale più che su quello sociale: anzi l’unico che fa da specchio al credo di una società che anela solo al benessere e all’ordine è il giudice, passivo esecutore dei det-tami della tradizione collettiva. Corrispondente invece, ad una realtà storica in cammino è l’atteggiamento del pastore che invita il marito bianco a desistere da ogni azione in nome di una comprensione che può essere non solo pietas ma indice e concetto di una più alta democrazia. Un po’ impacciati in gamme ristrette di atteggiamenti sono invece gli interpreti di colore che non sfuggono ai tranelli del luogo comune e appesan-tiscono talvolta lo svolgersi dell’opera. Così il vero acme del dramma sembrava raggiunto con l’acuto dolore della donna quando il verdetto del tribu-nale le sottrae la figlioletta ed essa si rivolta contro l’amato marito in un im-peto di amaro sconforto per tutto e tutti. Peerce ha voluto mettere una coda esplicativa a questo accadimento, rappresentando come in un melodramma la sequenza della consegna della bimba e cadendo in un ritmo strappa-lacrime che incrina, à rebours, anche parti antecedenti del racconto.

Sul piano dello zero estetico e della piena (inconsapevole) accettazione 90

del ridicolo è invece il film di fanta… scemenza giapponese “Atoragon” (o “Il sommergibile invitto” ): siamo al di là di ogni giuoco di vera immaginazione e al di qua di ogni fantasia scientifica. In uno stucchevole “remake” di film americani di ben altro impegno e significato (vedi “L’ultima spiaggia” ) “Atoragon” si rivela una inutile amplificazione di storielle da ciarla-tani, una forma di delirium tremens a buon mercato; si rifugge da un campo di vere tensioni e di propagazioni di fondate paure collettive, si abbandona qualsiasi metafora per correre in braccio al più vieto spettacolo dove l’orrore e l’assurdo sono circostanze imbevibili e solleticano il senso della comicità anche nello spettatore più sprovveduto. Perfino sul piano tecnico le deficienze sono macroscopiche: così i modellini traspaiono evidenti perchè mancano i rapporti di proporzione e i trucchi sono il frutto della più grossolana banalità e del raffazzonamento più intraprendente. Le armi segrete dell’ “Atoragon” si riducono a gonfiare, su scala iperboli-ca, i quotidiani insetticidi o spruzzatori da sifone che servono a ghiacciare lucertoloni giganti contrabbandati come serpenti… di mare. Purtroppo un solo veleno si cela nelle pieghe di questo film dozzinale che, nelle sequenze dell’antico e sommerso Impero dei Mu, scopre nel suo regista un attento frequentatore di cineteche ove si proiettino interi cicli di Ma-ciste alternati a cicli di “grandopéras” di meyerbeeriana memoria: è il veleno di un nazionalismo senza mezzi termini, dissimulato in vaga simpatia per l’ONU, dato che l’unico messaggio chiaro che si ricava da “Atoragon” ci dice che il solo Giappone potrebbe salvare il mondo, con la sua dedizione e con i suoi moderni samurai, da una futura e non ben specificata aggressione. “Il servo” di Joseph Losey, su sceneggiatura di H.Pinter, è, al contrario, un’introspezione analitica del processo di disgregazione di un uomo a ciò predisposto dagli agi e dall’accidia di una vita aristocratica. L’elemento demolitore è raffigurato nel “maggiordomo” Barrett; un’anima viperina, sulfurea, tutta tesa a rendere gli altri succubi della sua sete di comando. Lo strumento ambiguo che Barrett userà

per neutralizzare l’influenza umanizzante di Susan, la fidanzata di Tony, sarà la sua falsa sorella - Vera - una ragazza disponibile a tutto, incarnazione delle più basse sedu-zioni femminili. Il piano inclinato su cui scivola, senza soluzioni di continuità, il giovane epigono di una nobile famiglia, è predisposto con troppa tattica e con troppa volontà di potenza per non condurre alla degenerazione: è questo il traguardo finale cui Barrett sospinge il suo “padroncino” che, rimasto solo, immerso nella melma e nell’angoscia vaporosa dell’alcool, è oramai il vero servo di quell’uomo satanico. 91 Il pregio del film è di essere condotto con una rara coerenza di stile e senza salti di sviluppo: la materia nel bianco e nero, l’uso deambulatorio e circospetto della camera, la capacità di scrutare sul volto degli interpreti i loro più nascosti impulsi e pulsioni, fanno de “Il servo” una pellicola fuori del comune, dove il filo d’acciaio che s’intravede in filigrana è questo moralismo obiettivo che mette a nudo, con una spietatezza levigata, gli scompensi e gli arbitrii di una determinata classe sociale, vista in uno dei suoi più fragili esponenti. Sono spesso sequenze da Hogarth moderno: senza una sola frangia, senza un solo cascame, frugate nei particolari da una lu-ce tagliente, intensa che costringe gli ambienti a confessare il loro vuoto, la loro inerzia, la mancanza di ogni giustificazione sociale. Losey raggiunge qui una delle sue prove migliori, più concise e insieme più concentrate; mostrando gli effetti degradanti dell’edonismo, il suo an-gusto anche se luccicante universo, dove il sesso è un estremo sortilegio tentato per dannarsi: ciò che è in chiave con la denuncia, da parte degli “angry young men” del privilegio sterile e decadente di certa “upperclass” britannica. Fuori programma è stato poi presentato il film sudcoreano “A mani nude” testimonianza - come abbiamo detto in apertura - degli sforzi di una nuova cinematografia: è la storia di semplici manovali che si spostano da un luogo all’altro in cerca di un’occupazione e vendono le loro braccia per pochi soldi. La presa di coscienza dei

loro diritti, indotta dai discorsi dei più giovani fra loro, alimenta il malcontento che serpeggia e scoppietta di tanto in tanto senza mai esplodere in rivolta totale. A fianco di queste tracce principali, sussistono purtroppo numerosi e superflui risvolti senti-mentali: l’amore della figlia del caposquadra per il presunto studente, le amare esperienze coniugali di Takson etc. Sono rivoli che annacquano l’impalcatura realistica, ne diluiscono l’impostazione sociologica e spesso incrinano addirittura il tema centrale. Il regista Lee Man Hee non sa far parlare i luoghi, le cose, i rapporti tra uomo e natura e tra uomo e fatica: organizza una sorta di continui dibattiti tra i suoi interpreti, senza nemmeno sostanziarli di un dialogo drammatico. Si ha sovente l’impressione di ascoltare delle riunioni di cellule poco mature politicamente, mentre il punto sarebbe stato di far vedere come a tali insofferenze e a tali proteste si era giunti, attraverso quali snodi, quali interne ed esterne motivazioni umane. Napoli – Sorrente – Cinemasud, ottobre-novembre 1964 92

1965 INTERVENTO AL CONVEGNO “CINEMA E LETTERATURA” 93 SORRENTO 20-21 SETTEMBRE 19654 Credo che il mio intervento sia più che altro doveroso, nel senso che so-no io il responsabile della pubblicazione offerta a voi in omaggio (e gentil-mente stampata a cura degli Incontri Internazionali del Cinema). Come si dà spesso nella vita, la pubblicazione è un fenomeno strano di anacronismo, cioè essa viene dopo - nel mio lavoro sul linguaggio del cinema - una pubblicazione molto più vasta, che vedrà la luce fra qualche mese, con un’ampia introduzione del Prof.Dorfles. Gillo Dorfles è, attual-mente, uno dei maggiori studiosi dei problemi che stanno alla base di e-quivoci, bisogna dire frequentissimi, nei dibattiti sulla estetica e che sono frutto delle lacune culturali, delle incapacità di agganciare il problema nelle sue vere strutture. Ciò a volte dipende dalla nostra tradizione culturale, di tipo, direi, strettamente idealistico, ed è con piacere che da napoletano, di nome e di fatto, smentisco quella inerte convinzione che hanno molti (e occorre dire soprattutto gli intellettuali del Nord) di credere che a Napoli ci siamo fer-mati al Benedetto Croce. Mi sembra che i problemi del genere “Cinema e Narrativa” debbano essere visti nell’ambito di problemi che sono analoghi a quelli già dibattuti in altro campo: perciò il mio capitolo introduttivo s’intitola “Teoria della traduzione”. Mi sono rifatto nel mio libro alle idee di Arnheim e di Panofsky, studiosi certamente conosciuti, i quali si basano a loro volta sulle

teorie della Gestalt. Ora non voglio entrare in un lungo discorso teorico, però mi pare significativo che il Panofski, come molti sapranno, è uno studioso anche di cinema, non solo uno dei maggiori studiosi di storia dell’arte. E anche Ka-plan, Korzybski o Barthes nelle loro teorie si rifanno ad una equivalenza dei problemi di immagine, di “icone” , come dicono, cioè l’apparizione del-4 Il Convegno “Cinema e Letteratura” si è svolto nei giorni 20 e 21 settembre 1965 nei saloni dell’Excelsior Vittoria di Sorrento e vi hanno partecipato i signori: Alberto Ar-basino, regista; Gabriele Baldini, scrittore; Giorgio Bassani, scrittore; Alessandro Blasetti, regista; Giulio Cesare Castello, regista e critico (relatore); Sandro De Feo, giornalista; Luigi Chiarini, giornalista; Enrico Falqui, scrittore; Alberto Lattuada, regista (relatore); Gianna Manzini, scrittrice; Camillo Marino, giornalista; Walter Mauro, scrittore; Domenico Meccoli, critico; Eitel Monaco, Presidente dell’ANICA; Alberto Mario Monconi, scrittore; Antonio Napolitano, scrittore; José Pantieri, scrittore; Domenico Rea, scrittore; Paolo Ricci, giornalista; Filippo Sacchi, critico; Gino Visentini, giornalista. La Presidenza del Convegno è stata tenuta, tutti e due i giorni, dal dott. Gino Visentini. 94 l’immagine sia dal punto di vista visuale che dal punto di vista letterario. Ed è questo un problema di diversi codici di trasmissione, cioè un problema che oggi una scienza come la cibernetica ci sta portando a capir be-ne (quando si può ricordare che l’Accademia Francese degli Immortali ri-fiutava fino al 1900 qualsiasi lavoro che vertesse sul linguaggio, perchè per essa il linguaggio era un fenomeno divino, scendeva dall’alto e non doveva essere indagato). Panofsky, precorrendo gli studi di semantica estetica che oggi soltanto cominciano a diffondersi in Italia, ha questa ge-niale intuizione, cioè che esistono soggetti primari dal punto di vista del linguaggio iconico, (ad esempio quelle strutture indagate da Wertheimer) e quello che in cinema può essere l’inquadratura obliqua, quel determina-to oggetto plastico, la forma triangolare o come dice lui “la sgradevole sensazione di un triangolo” o ancora il moto comune delle cose, la forma buona, tutte cose che per i psicologi della Gestalt sono ormai scontate. Quegli stimoli o sensazioni che provocano, quelle che si chiamano in gergo - scusate la specializzazione - reazioni semantiche, cioè in fondo “quella parola” o “quella immagine” non solo come

concetto, ma come concetto che ha la possibilità di avere un eco, una risonanza che è allo stesso tempo emotiva e concettuale, cioè con un alone emotivo intorno a un nucleo concettuale. E da ciò una polivalenza di significati accumulati nella coscienza storica dello spettatore o del lettore, che vengono risvegliati con “quella immagine” o “quella parola” , selezionate - fra le tante dall’artista. Infatti, una delle ragioni per cui viene disdegnato il cinema (che effettivamente finora ha dato poche opere valide), è quella della supremazia della parola sull’immagine, come se non esistessero parole di mera pre-gnanza emotiva - ad es. una parola di Hitler o la parola di qualsiasi incita-tore emotivo di folle (come hanno spiegato anche gli psicanalisti) - ed esistessero invece soltanto parole di tipo geometrico, senza nessuna sfalda-tura emozionale, senza nessun contorno diciamo di tipo surrettizio, di ti-po mistificante: quello che in cibernetica sarebbe il “noise” (il rumore della comunicazione, il disturbo) cioè il fatto di trasportare al ricettore il messaggio, il tema, ma portandolo però su un settore falso, cioè su un settore di significato falso della parola. Dicevo questo perchè naturalmente avrebbe dovuto essere nelle premesse teoriche di questa pubblicazione (che sono appunto nel libro che uscirà fra qualche tempo); ora quindi i rapporti “Cinemanarrativa” sono quelli che si chiamano rapporti di omologia, cioè di analogia tra struttura e struttura, rapporti che esistono anche nella traduzione quando si prende un sonetto di Shakespeare e lo si traduce in italiano; se tradotto da Ungaretti o 95 Montale, e rifatto strutturalmente in una nuova poesia, ciò non toglie che sia poesia anche quella del sonetto portato in italiano (i fatti della realtà sono duri e non si possono annullare con una boutade) e il fatto esiste in quanto problema estetico e va studiato ed è un problema di rapporti tra due realtà valide. Per ritornare nell’ambito del cinema, è interessante studiare alla movio-la uno stesso lavoro teatrale, quale “Ordet” che, forse, - non molti sanno -, è stato realizzato in immagini da un regista svedese, Molander, ed è stato tradotto in cinema dal grande regista danese C.T.Dreyer. Ora il problema è quel problema che esiste nella coscienza, cioè il grado di avvicinamento ad una certa resa della realtà; non si può dire tout court che Kay Munk (l’autore teatrale) sia superiore a Dreyer; cosi com’è ridotto da Molander, un artigiano in fase di senescenza, è qualcosa di veramente strano, di abominevole; ridotto o tradotto da Dreyer assume invece i valori di

una profondità, spessore significativi di rinvii culturali, spirituali, emotivi, di certe finezze di raccordo che il testo originario non ha. D’accordo, invece, con Castello sul fatto che nel cinema esistono elementi come il ritmo, la spazializzazione del tempo (studiata da Hauser) che non si hanno in letteratura, così come in letteratura esistono valori tipici e peculiari che non sono trasponibili. Non sono d’accordo con lui, quando fa una scelta un pochino polemica dei nomi, perchè se lui cita dei grandi del cinema come Rossellini, Antonioni, Bergman (e anche di Antonioni si può ricordare “Le amiche” da Pavese) si potrebbero ricordare i nomi di Stroheim, di cui molti avranno visto “Greed” (dal romanzo “McTeague” di Norris), di Bresson ( “Il diario di un curato di campagna” , “Un condannato a morte è fuggito” etc. ), di Renoir ( “Une partie de campagne” , “La bête humaine” da Maupassant e Zola etc.) o i film dello stesso Visconti o di tanti altri grandi registi, quale Pudovkin “La madre” etc. e lo stesso De Sica de “I bambini ci guardano” o di “Ladri di biciclette” e così via. In sostanza il problema resta aperto su questa via, che cioè le vie della arte sono infinite, che si può camminare su doppio binario, su multiplo binario, ma l’importante è di acquisire il valore di significato, di polisemia (sia nella parola che nell’immagine) e questo naturalmente lo sentono anche scrittori come Moravia che fa continuamente premesse teoriche ostili (soprattutto sull’ “Espresso” ) in cui critica le possibilità del linguaggio filmico, e poi - scusate appunto la polemica - la sua contraddizione con se stesso è notevole perchè ogni tre settimane trova un’opera cinematografica che riesce a convincerlo del tutto o quasi. 96 Ora il problema sul piano del linguaggio è questo, che ad un certo momento è questione di onestà intellettuale rendersi conto di come un linguaggio che naturalmente persuada sia un linguaggio valido e che devono esistere premesse teoriche e strutturali attraverso le quali si arriva a qualcosa di valido. D’accordo anche su molte altre cose della relazione Castello; d’accordis-simo, le sceneggiature valgono per quel che valgono, cioè come tracce di studio per le persone che vogliono capire il contenuto mentale, il nucleo diciamo ideologico di quello che può

essere l’opera di un regista; anch’io, analizzando in un lontano saggio su “Cinema Nuovo” “Il posto delle fragole” , consideravo appunto i valori di nucleo, cioè quel mondo che non era il mondo completo del regista perchè la parola naturalmente ha un valore relativo mentre l’immagine è quella che svela appieno il significato. D’accordo quindi con Antonioni quando dico che “non esiste un film che non sia proiettato” , perchè un film che non esista sullo schermo è un assurdo. Non sono invece d’accordo con Aristarco, citato da Castello, quando presume un valore letterario della sceneggiatura, (sulla falsariga di Dovženko); ciò sarebbe un falso scopo dell autore: cioè, lui parte verso un racconto per immagini e invece arriva a un racconto letterario, lo scopo secondario sarebbe così lo scopo già ultimato (e su queste contraddizioni mi pare che sia stato definitivo Aristotele). Non sono d’accordo col modo d’impostare troppo crudamente certi problemi: si può filmare “la notte dell’Innominato” o “l’addio monti sorgenti dalle acque” ? Forse no, ma ciò non toglie che “la notte del pastore di “Dies Irae” di Dreyer” è una equivalenza estetica (livello espressivo, problema emotivo concettuale) della “notte dell’Innominato” e che un alto momento lirico di Flaherty (ne “L’uomo di Àran” ) possa evocare gli stessi “engrammi” , le stesse reazioni semantiche del brano di Manzoni. E anche se non si può o se è meglio non tradurre “l’Addio, monti sorgenti dalle acque”, devo dire però che guardando l’ “Aleksandr Nevskij” se in quel momento mi rifacessi alle parti “guerriere” del Foscolo ne “I Se-polcri” , mi sembra che si potrebbero impostare delle belle analogie strutturali fra quei momenti epici ( “corrusche darmi ferree vedea larve guerriere cercar la pugna e all’orror dei notturni silenzi si spandea lungo nei campi di falangi un tumulto e un suon tube e un incalzar di cavalli ac-correnti, scalpitanti sugli elmi a’ moribondi…” ) e l’epico racconto visivo di Ėjzenštejn. E per concludere sull’ “Aleksandr Nevskij” , ripeto che i problemi di approccio all’immagine filmica vanno impostati sul piano di Panofsky, cioè 97 di quando Panofsky parla della “triangolarità” come aggressività semantica delle lance, del senso di “difesa” dei cerchi o dei semicerchi o del senso di “autorità” dei piani sopraelevati o della

transizione dei significati; siamo di fronte ad ideogrammi, a schemi percettuali che hanno una viva analogia con i contenuti “mentali” delle parole e da questo si può dedurre un rapporto esistente nella “rete di simboli” che avviluppa l’uomo, questo “time-binding animal” (Korzybski). E, per il resto, poiché vi ho tediato abbastanza, penso che, se avete tempo, potrete leggere questo mio volumetto e poi il libro… (frase interrotta dagli applausi). Sorrento, 20 Settembre 1965 98

1986 SI RIVEDE IL CINEMA INGLESE

INCONTRI INTERNAZIONALI DEL CINEMA 99 Gli incontri intemazionali di Sorrento hanno ospitato, nella prima metà di dicembre ‘86, il cinema inglese che da essi mancava da quasi vent’anni. Si tratta di un’industria-arte che sta cercando di superare una sua cronica crisi per tornare ad onorare una tradizione più che solida. E’ quasi superfluo ricordare nomi come quelli di Hitchcock, Olivier, Lean, o di più giovani leve quali Schlesinger e Reisz, poi emigrati in USA e gli arrabbiati Richardson e Anderson, per non dire della scuola documentaristica di Grierson, Anstey e Wright. Nella frizzante aria prenatalizia si è svolta la ventitreesima edizione di quella manifestazione che fu voluta da Enzo Fiore, cooperato, fin dal ‘63 da critici come Frascani, Paolella, Siniscalchi e il sottoscritto. Opportunamente, l’ultimo catalogo è venuto a correggere la precedente cronologia redatta con diplomatica nonchalance o esimio narcisismo. La selezione britannica è stata operata dal nuovo direttore V.Caprara, su di un ampio paradigma dell’ “output” più recente e più “up to date” . Lo stesso responsabile ha ammesso, però, di aver incontrato non poche difficoltà e renitenze a “far mollare film al festival” . Sono, infatti, mancate all’appuntamento opere di rilievo quali “Comrades” di Douglas e “Coast to Coast” dello scozzese Johnson o lo stesso “Coming up roses” di Bayly, film tutti che hanno ottenuto incondizionati elogi alla première londinese di quest’anno (ennesimo festival dello ’86). Cono-scendo bene la puntigliosa indipendenza di giudizio di Fleet Street e din-torni non è presumibile valutare le calde lodi come frutto di “umoralità empirica” o “sinistrismo di riporto” . A Sorrento, comunque, si è potuto rilevare che la cinematografia albionica mostra non pochi segni di vivace rinnovamento e che, quindi, i “Momenti di gloria” di un Hudson o il “Giardino di Compton house” di Green-away, così come le coproduzioni tipo “Gandhi” e

“Mission” e le stesse fiction svarianti da “Labyrynth” all’ultimissimo “Shanghai surprise” non sono rari soprassalti di un organismo in mera sopravvivenza. Si è, anzi, constatato che si sono aperti spazi creativi per uomini nuovi di indubbio talento e di “outspoken humor” , a riconferma dei caratteri precipui di quella che è stata chiamata “inglesità” (neologismo coniato ex abrupto nel corso dei molteplici dibattiti con i registi britannici presenti agli Incontri). Si è compreso, e in modo non solo intuitivo, che John Bull non viene trattato dai suoi “emittenti” come un destinatario di plateale idiozia cui si possono ammannire commediole regressive e falsamente euforiche. Testimonianze concrete in questo senso si sono srotolate sullo schermo del “Palace Hotel” con coerente continuità. Un’opera come “Boy Soldier” 100 di K.Francis si è rilevata una cronaca approfondita delle demenziali asprezze sofferte da una recluta in servizio in Irlanda (tema di comples-sante attualità che potrebbe interessare anche qualche nostro regista se si tornasse a parlare di persone e fatti non puramente immaginarli). Una pellicola come “Personal Services” di Terry Jones ha ottenuto una calorosa e goduta adesione da parte dell’audience e della critica presenti nella Sala delle Sirene. L’autore, un gallese insieme saturnino e mercuriale, ex alumnus di Oxford ed ex fondatore dei “Monty Python” , ha saputo conferire argentovivo a toni hogarthiani ad una disinibita vicenda. Egli ha tratto spunto dalle memorie fescennine di Cynthia Paine, career woman nel campo del meretricio organizzato in quel di Westminster. Ha saputo dar loro cadenze scattanti, con catenando in burlesca collana gli exploits dell avida maitresse e dei suoi maturi clienti, libertini da routine inclini al masochismo. Jones ha imbevuto di colori e suoni attici le sue sequenze satiriche, mettendo cartine di tornasole in molti fotogrammi per rivelare le cento ipocrisie dei soliti moralisti a mezzo servizio. Altra opera di indubbio fascino si è manifestata “Il giardino dell’Assam” di Mary McMurray, starring la ormai terzenne Deborah Kerr. E parte dello charme è insito proprio nel vedere tali gloriosi tramonti

su volti di grandi e intelligenti dame dello schermo (ma non dive, by Jove), come ne ha contato a decine il cinema britannico (da Celia Johnson alla Tushingham fino all’ancor giovane Rampling). A rappresentare la corrente “outsider” della British way of filming è stato “Knights and Emeralds” di Jan Emes, con le sue nervose carrellate su una Birmingham inedita anche se folkloristica. Ma ci è parso uno “spezza-tino” di cose colte a volo con occhio fresco ma non sempre sollevate ad un livello di convincente espressività e contestualizzazione (date anche le non poche aritmie di montaggio). Ambizioso al di là delle proprie potenzialità anche l’antonioniano “Flight to Berlin” di Chris Petit, viziato da un prolisso intellettualismo e da un labirintismo senza argomentazioni discorsive necessitate. Con barbaglii di immagini ed idee visive, come al solito, al di sopra dei righi e apparso poi il Ken Russell d’annata (o dannato), pronto come un fuoco d’artificio a scatenare tutta la sua policroma fantasticheria (giovan-dosi di un plot basato su Mary Shelley e Co) e tutta la byroniana combric-cola in vena di horror e di “Gothic” (tale il titolo). Molti colpi al plesso solare e corticale dello spettatore sprovveduto, anche se poi costretto a riconoscere un certo ingegnacelo nel boxare ambidestro del Russell. 101

102 Il resto è (quasi) silenzio: di “Castaway” di Roeg si potrebbe salvare forse solo la splendida Miss Venerdì nell’incredibile robinsonata in cui vaga adamitico e straniato un Oliver Reed d.p. Di “Shadey” e “Water” e “Mr.Love” è doveroso solo far menzione come ammonisce l’aforisma 7 del trattato di L.Wittgenstein. Napoli – Sorrento, 28 dicembre 1986 103

1974 “IL MEZZOGIORNO E IL CINEMA ITALIANO” 104 …Le poche parole del regista Prisco mi hanno convinto di qualcosa su cui del resto non avevo molti dubbi, cioè il discorso con i produttori, per quan-to attiene al cinema meridionale, è un discorso impossibile a farsi, si fa a livello non delle riforme, ma

evidentemente delle rivoluzioni, cioè della trasformazione completa di un sistema produttivo; e qui siamo d’accordo almeno sul piano dell’utopia. Ma nell’ambito di una dialettica storica sempre immanente, sempre presente, (e anche questa non discutibile), c’è una responsabilità a livello sovrastrutturale di quelli che fanno la politica culturale, cioè di quelli che si presentano come polo di opposizione alle strutture. Questo era il pensiero che mi dominava alle discussioni interessanti e preoccupanti della giovane critica di Pesaro. Non aveva questo stesso titolo il convegno di Pesaro, ma in fondo c’era quello che manca qui, cioè lo schieramento quasi completo della giovanissima critica italiana, cioè di quelli che fanno la politica culturale; di quelli che devono trasformare le sovrastrutture le quali a loro volta, per usare il linguaggio marxiano, potrebbero modificare, ad un livello non rivoluzionario ma evolutivo la società. A Pesaro si era avuta una visione esauriente di tutti i film del neo-realismo, tra i quali quelli tipicamente meridionalisti che ha citato il prof. Verdone. L’atteggiamento della critica giovane o giovanissima era quasi di assoluto disinteresse e l’obiezione principale era, se abbiamo ben capito, che non si trattava di un cinema politico, perchè il cinema politico sarebbe un “cinema della prassi” e non un “cinema della conoscenza” . Mi pare che anche per porre di nuovo le fondazioni di un discorso culturale sul cinema del Sud sarebbe il caso di chiarire questo problema. Un cinema della prassi, secondo me, non è possibile; questo lo sottoli-neano bene gli studiosi del linguaggio e i semiologi: se l’operazione essenziale di un linguaggio è quella conoscitiva, evidentemente esso non può sostituire l’operare concreto, politico, l’esecuzione di decisioni, di trasfor-mazioni, ripeto anche di rivoluzioni ma che devono essere per forza situa-te in un momento ben differenziato dall’agire umano. E allora il problema è questo: come impostare oggi il problema di politica culturale del cinema del Sud se non si assegna un valore positivo a quei film che sono stati, non dico gli esempi, ma certamente i modelli di un certo comportamento estetico, almeno come tendenza, del realismo e del neorealismo. Ripeto: guardiamoli sul piano del linguaggio: che cosa, per esempio, al di là di qualunque stile, di qualunque formalizzazione dell’immagine accomuna “La terra trema” a “Banditi a Orgosolo” , “La sfida” ad “Umber-

to D.” ? E’ quello che oggi in campo linguistico chiamiamo l’assenza d’in-105 tervento pro-filmico sulla realtà. L’assenza d’intervento pro-filmico è quella che allora i critici chiamavano una forte sincerità, una forte capacità di reagire con immediatezza alla realtà, senza operare in maniera ma-nipolatoria su di essa. Ecco uno dei lati certamente positivi che non mi pare possano essere posti in discussione, cioè i volti di ‘Ntoni Valastro, di Ricci, di Umberto Domenico Ferrari, di Michele Iossu e di tanti altri. Sono veramente questi i volti, il profilo più consistente di una operazione conoscitiva della realtà italiana nei suoi termini di problema meridionale. E sono poi i documenti di maggiore spessore a cui si richiameranno gli storici futuri per comprendere, al di là dei manuali e al di là dei saggi qualche volta troppo aristocratici, quali fossero veramente le determina-zioni economico-ambientali della questione meridionale. La sintassi dei film neorealistici: in questo senso c’è un continuo confronto tra quello che è il procedimento linguistico e il procedimento stilistico, cioè quello che viene influenzato da un’ideologia comunque anche non politica, ma che certamente lambisce la politica. Il procedimento sintattico quale era? Era quello di un cinema non astratto, non divagante, senza intarsi multi-pli che poi è quello che come non mai respinge il pubblico e fa del cinema contemporaneo, qualche volta anche buono, un cinema non popolare. Nel cinema del Sud i nessi sintattici, causali, erano del tutto chiari. Il contesto ambientale, quello che chiamiamo l’elemento della connotazione, era rile-vato in una segmentazione precisa in cui si poteva riconoscere la vicenda, i luoghi, senza naturalmente che ci fosse una banalizzazione della realtà. Il problema “prassi” è un altro: così risponderei ai giovani critici e cioè che veramente c’è stata una battaglia pratica, furiosa anche se sotterra-nea, gesuitica, continua da parte delle nostre amministrazioni, dei nostri governi. Ciò è quanto deve testimoniare lo storico; è emersa una profonda responsabilità della classe che, avendo ricevuto la formulazione e l’impostazione di un problema in termini umani, stilistici, linguistici così precisi, ha voluto autoaccecarsi, ha voluto fuorviare, ha voluto dimenticare. Io penso che in questo senso c’è una vera responsabilità politica e sembra strano che giovani critici di sinistra e di estrema sinistra

non sappiano rispondere sull’altro lato dell’operazione che spetta agli intellettuali, sul piano della storicizzazione di un fenomeno, e quindi della giusta visione delle responsabilità (anche nell’arenamento di progetti dei giovani registi che oggi appunto parlano in termini di crisi). Io penso che Prisco e tanti altri siano estremamente sinceri, ma debbano tener presenti questi precedenti storici. 106 –––…A proposito della linea di sviluppo delle idee cinematografiche, della loro traduzione in inquadrature, sequenze, ecc., mi domandavo se fosse possibile girare con i moduli stilistici e linguistici di “Carosello” un film sul Meridione. Ecco, secondo me, non è possibile. E’ questo il problema di fondo di una scelta operativa da parte dei registi, che deve essere però promossa dai critici. I critici sono, in fondo, i maestri dei futuri registi. Dicevo non è possibile con i moduli di “Carosello” dove non piove mai, dove non si invecchia mai (grazie all’acqua di Fiuggi), dove si è sempre beatamente sorridenti… Ci sono quindi due fronti su cui combattere: del primo si è detto: un linguaggio mistificato che sospende il riferimento alla realtà; del secondo: è l’estremismo verbale o quello che Marx chiamava la critica grobianesca (Grobian era per Marx un uomo dagli scritti arrogan-ti). Non saprebbe donde cominciare anche un regista futuro che leggesse un libro così grobianesco come “Servi e padroni” di un giovane critico, chiamato dai suoi stessi amici “Fra Gottifredi da Populonia” (cioè Goffredo Fofi). E’ evidente che si fa questo nome non per disistima della sua forte intelligenza, ma per questo suo eccesso di intelligenza, cioè l’altra grave piaga della cultura italiana: il Giacobinismo intellettuale che in fondo vive di queste escrescenze mentali, di questa superiorità totale, specie se si abbraccia con i sottoproletari, ai dopo pranzi di una tavola di S.Vincenzo, organizzata per giovani invece che per vecchi. Rispetto all’altro intervento, accetto quello che dice Bruno su “Viaggio in Italia” con alcune riserve, perchè sono propenso a pensare che bisogna stare attenti alle parole mistiche in cui il tempo è fuori del tempo, in cui la storia è metastoria e la grotta della Sibilla ci rivelerebbe addirittura il cuore antico del Sud, mentre invece essa è meta di turisti borghesi che hanno soltanto l’hobby di ricercare il

Sud nel loro “tempo libero” . Forse è proprio questo lo svantaggio del critico, dico di fare questa continua pedagogia, naturalmente in toni non cattedratici, nelle scelte di tendenze. Vedere, ad esempio, se una “linea” Visconti (il quale ha chiuso col realismo quando è andato a Monaco ad incontrare il suo alter ego Ludwig) non era senz’altro migliore quando rifletteva proprio di più sui problemi del Sud e semmai su quelli di “Rocco” . “Rocco”, dove il problema ancora più acutamente individuato è nella degradazione della vita nazionale dovuta allo spostamento addirittura dal Sud al Nord. Quello che oggi i sociologi cominciano ad individuare come la grande vera piaga, l’ottava piaga della storia d’Italia che oggi viene alla ribalta purtroppo in tutta la sua drammaticità. Se questi giovani critici facessero questa lettura contestuale delle opere, 107 naturalmente operando secondo la loro personalità, potrebbero decidere di volta in volta sia l’analisi che la valutazione. Decidere se è più giusto il falso sonoro caroselliano o quella voce che corre un po’ in tutto il cinema sul Meridione (ed è il contrario delle voci stereotipe, uniformi, da accade-mia o da salotto). Mi domando allora come Fofi potrebbe dopo questa analisi dividere solo tra servi e padroni tutti quelli che hanno operato nel cinema italiano. Ci sono stati molti servi, servi sciocchi, servi anche creduloni, ci sono stati e ci sono i padroni, ma ci sono stati quelli che hanno seguito un itinerario ben diverso e si sono opposti per la naturale dialettica dell’intelligenza. Penso che ai giovani registi occorra poi riflettere con chiarezza e senza queste arroganze grobianesche e senza dire “la storia comincia da noi” se vogliono veramente trovare un aggancio con la realtà. Il problema è di volti, d’inquadrature, di sintassi chiara, cioè di cinema realista o meno. Io sono dell’opinione di definire neorealismo la fase di ripresa postbelli-ca del grande, filone realistico nella narrazione cinematografica, ma sono prima di tutto contro il film mistificante, caroselliano, postfreudiano nel Sud. In questo senso posso aderire a quanto diceva Bruno: cioè quando si vede che sono state scelte certe fisionomie che sono jugoslave, austriache o addirittura svedesi ed esse ci vengono proposte come volti meridionali, è chiaro che dobbiamo metterci su un piano di rifiuto. Ripeto quindi che su un piano critico sarebbe bene parlare di questa continua scelta tra opere concrete, altrimenti il film diventa una droga. Una droga che cos’è? E’

appunto un alimento artificiale che non dà sostanza al nostro corpo, che gli dà una spinta apparente di energia e poi lo distrugge. Stiamo attenti dunque al fatto che i giovani partecipanti ai dibattiti, ai ci-neforum non abbiano già, come dicono gli psicolinguisti, degli engrammi tipo “Carosello” nella mente, allora avremo già perso una buona parte della partita. Ecco secondo me un problema di lotta culturale che si pone ai critici sul piano sovrastrutturale nel senso di capire se il cinema della conoscenza deve rispecchiare la realtà e non i sogni come fa “Carosello” , non destrut-turare la realtà al punto tale che non si riconosce più il mare siciliano che potrebbe essere anche il mare dei Caraibi o il Mare del Nord. Scartando tale linguaggio onirico sarà possibile fare i conti con la realtà e di nuovo e più precisamente con la realtà meridionale. Salerno, Tavola rotonda su “Il Mezzogiorno e il cinema italiano”, 10 ottobre 1974 108

1975 IL SUD NEL CINEMA: L’EMARGINATION DI UN CONTESTO 109 In un centro della Sicilia orientale, uno studente si tormenta per naturali problemi di fondo: suo padre, deputato alla Regione, è compromesso in intrallazzi e manovre poco pulite. I rapporti parassitarii del preside con il deputato sono al centro della vicenda. Personaggi di secondo piano: un supplente: semiproletarizzato, un bidello e, di maggior spicco, una insegnante disoccupata che si arrangia con lezioni private. Sintetizzata in questa maniera, sembrerebbe una trama elaborabile in direzioni interessanti. Si tratta invece di una delle tante farsacce semidia-lettali e semi-porno che godono di vastissima circolazione nelle nostre sa-le di prima, seconda e terza visione (più precisamente, de “L’insegnante” di un certo Cicero). I modi in cui viene dipanato il nucleo narrativo sono quelli del nuovo convenzionalismo: quello sessuale, coitale, paraninfico che stinge su tutti i problemi, ne intride la sostanza, li fagocita. E’ un convenzionalismo, un conformismo tematico solo di segno opposto a quello del vecchio cinema sentimentale, ma le sue costanti stilistiche, cioè la sua monomania, la sua cristallizzazione intorno ad una sola nota, il suo privilegiare il merletto invece del tessuto umano, lo appaiano e lo assimilano al primo: a ben guardare la struttura mentale che presiede ad essi, si tratta di due casi analoghi di evasione dal reale, di quel reale in cui va assegnata la giusta percen-tuale a ciascun fenomeno, secondo una scala di valori, e

secondo l’inci-denza che ciascun fatto assume nella vita degli individui e della società. E’ identica, in tutti e due i filoni, la spinta a mettere in dispante ciò che veramente conta, a trascurare gli elementi primari dell’esistenza privata e comunitaria per far galleggiare i detriti e i frammenti di un grande specchio convesso, che fa gibigianna e finisce col funzionare a danno delle allodole. La scatologia più triviale, più insipida domina - di conseguenza - la te-matizzazione della suddetta vicenda: lo studente studia solo i piani più in-sulsi e nevrotici per sedurre l’insegnante, le alunne sono preoccupate soprattutto dello sviluppo del proprio seno (così si esplora il proprio petto; secondo il regista, il Preside è un cordiale mangione, tutto addizionato simpatico, l’onorevole è una vittima del familismo (e dell’autismo erotico), l’emblematico supplente sta tra il subalterno e il subnormale al punto da farsi togliere i calzoni dal bidello, gli alunni sono dei quasi bruti dediti all’analisi chimica dei gas di espulsione anale ecc. ecc. Si obietterà subito - lo immaginiamo - che questo tipo di analisi è fazio-sa, intesa cioè a spostare l’asse di una critica che dovrebbe rimanere adeguata al testo: il filmetto è, infatti, dichiaratamente, una commediola, la sua impostazione non può non essere dettata che da ricerche di effetti 110 comici, in un connaturale impianto parodistico e coprolalico. Eppure queste argomentazioni non sono parse sufficienti per tirar via, per una serie di considerazioni: a parte quella che i veri maestri della commedia (dal pur salace Aristofane a Molière, da Shaw a Pirandello) sa-pevano bene quanto sale e buon aceto può essere usato in canovacci solo apparentemente frivoli, quello che più urta qui contro i canoni di un buon senso - che pur dovrebbe correre per le strade d’Italia - è la degradazione volgare dell’intelligenza che sfocia in una volgarità ripetitoria, stolida, risaputa, e mette in ceppi la varietà e la vitalità del reale. Il comico non deve essere intessuto forzosamente di aneddoti, barzellet-te liceali o gags di basso livello, esso dovrebbe articolarsi con agile leggerezza intorno ad una rete di casi, anche minori, ma che non scindano completamente i loro legami col mondo circostante, col suo ritmo vero. Se, come pare evidente, l’angolo culturale prescelto per questa nostra discussione è quello sociologico, bisogna considerare che film di questo genere sono quelli che si presentano con altissima

frequenza su i nostri schermi nell’annata 74-75. E occorre anche ammettere che l’esempio testuale da noi offerto è un esponente di un filone preponderante in cui si vengono a sedi-mentare tutti i cascami, i frammenti negativi che già tralucevano in certe opere del neo-realismo minore. Il Sud in questo cinema viene filtrato e adulterato attraverso i più vieti luoghi comuni sul sangue bollente, sulla supposta satiriasi dei maschi meridionali, insomma non parte affatto nemmeno in questi campi da esperienze contemporanee, da una reale partecipazione creativa ai problemi dell’oggi che comprenderebbero semmai anche un certo disagio dell’eros e una insufficienza della libido. Bisogna convenire che il tono medio della produzione 74-75 è più conti-guo a quello de “L’insegnante” che ai poli estremi ed eccezionali di opere come “Allonsanfan” o “Perchè si uccide un magistrato” . Il complesso della produzione in esame presenta un profilo di consistenza negativo e frustrante, da “Piedino il questurino” , a “Profumo di donna” , a le stesse “Mille e una notte” (per l’aspetto pretestuoso del parlato meridionale), ai varii “Cavalier Nicosia” , alle balzane riprese de “L’eredità dello zio buonanima” , fino allo stanco e surrettizio “Romanzo popolare” o al decadente (cioè, caduto in una trappola di estenuata calligrafia) “Mio dio come sono caduta in basso” (titolo questo che potrebbe essere l’esclamazione più autocritica e sincera della produzione pseudosudista in questo momento). La tendenza è verso questo tipo di decentramento dalle questioni importanti, verso una coazione a ripetere moduli banali e purtroppo di suc-111 cesso. Riprova dell’accettazione diffusa di comportamenti indotti da una ideologia dominante, praticata da società anonime ed ibride, pronte a vendere qualunque tema pur di coinvolgere tutti e tutto nell’ alienazione, quasi a rincalzo della indubitabile crisi. Sul versante soggettivo, non si pub negare che queste rimasticature ossessive, queste iterazioni di ripetizioni testimoniano l’infertilità di troppi autori e scoprono quel processo di disgregazione molecolare di certi ceti intellettuali, sempre più proni a fidarsi degli incompetenti, dei faccendie-ri, degli arrivisti, dei rubamestieri.

Il loro continuo sottrarsi al confronto con le più ampie coordinate dei fatti sociali e socioculturali equivale appunto a voler progressivamente emarginare dallo schermo il contesto denso e irrisolto della questione meridionale. Allucinati dall’automatico successo dell’erotomania visuale, la loro po-sticcia creatività deraglia dai fatti centrali, devia dai temi nucleari e si pre-cipita nei rosei gorghi delle variazioni sul “coito, ergo zoom”. Sono gli scagnozzi dello pseudorealismo, quello che è sempre alla base della “realtà romanzesca” , che sfrutta i moduli, gli snodi, le atmosfere del realismo ma emargina i segmenti culminativi, i veri paradigmi del problema e si orienta verso l’emozionalismo, l’atipicità, il colpo al plesso solare o il solletico al basso ventre. In esso, la dimensione sociologica viene non solo costantemente scaval-cata da quella psicologica, ma troppo spesso perfino da quella fisiologica: il disorientamento e la sproporzione sembrano programmatici. Dal suo orizzonte sparisce il paesaggio reale, spariscono i volti reali, so-stituiti da maschere e supermarionette, nude e discinte, svanisce il battito del polso di tutta una gente: la cultura diventa cianfrusaglia caleidoscopi-ca per trastullarsi, esibirsi, titillarsi. Viene a mancare una qualunque carta d’identità del Sud: manca il ritratto di un operaio, di un disoccupato, di un contadino, di un medico. L’obiettivo cinematografico sembra autoaccecarsi di fronte alla lampante cronaca d’ogni giorno dove sarebbe agevole ed onesto trovare avvenimenti tipici e de-marcativi della condizione umana in Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia (dalla sottoccupazione alle faide che nascondono lotte d’interessi, da certe connivenze a certi omicidi politici misteriosi, per non dire di quelle zone vulcaniche dal nome di Avola, Battipaglia, Belice, teatri delle crisi periodi-che della nostra terra e grembi oscuri in cui fermentano probabili vandee). Se si eccettuano i Taviani col loro allegorico e dinamico affresco sul movimento di risacca delle ondate rivoluzionarie, viste in un’ottica solo for-112 malmente retrospettiva, o il pur iterativo Damiani, va detto in questa sede che negli ultimi anni gli autori hanno svolazzato come diavoletti euforici e grotteschi sulle città del Sud, senza toccarne le piaghe, senza rilevarne gli squilibri interni ed esterni.

Hanno proceduto come esploratori che usino un cannocchiale alla rovescia: esso ha minimizzato i grossi problemi e ha amplificato a dismisura storielle particolari, futili, intime, anche nel senso anatomico della parola. Un cannocchiale che ha visto solo i margini del vasto panorama, le frange del contesto umano e politico che si muove nel Mezzogiorno, questione sempre più aperta e dolorante. Sono stati messi a fuoco così solo brandelli di colore locale, trucioli di bozzetti e aneddoti corrivi, in una prospettiva che può definirsi, senza moralismi, cinica e falsaria. Eppure, non sono pochi i sociologi - compresi quelli stranieri - che ci vengono dettagliando fenomeni di crescente drammaticità: lo spopola-mento di centri calabresi ad es., come S. Giovanni in Fiore, che ha perso in vent’anni la terza parte dei suoi abitanti, la desertizzazione di molte campagne, l’odissea dei mestieri precari, il crimine spicciolo, effimero e quotidiano dei tanti malviventi (termine questo semanticamente appro-priato anche se recepito con altra connotazione interpretativa). Ma produttori e registi si scostano da una simile realtà, preferiscono ri-mescolarsi in mano le immagini antiquate e artefatte di situazioni anacro-nistiche, di guappi vecchia maniera, di poliziotti incredibili, pasticciando un populismo naturalista logoro, di cui stentano ad aggiornare la vernice, finendo in involontarii (?) toni caricaturali, da “pochade” . Da alcuni anni, le cineprese che si pongono di fronte al problema meridionale non sono più le penne e i pennelli del nostro tempo e del nostro spazio, gli occhi di cristallo che devono rendere testimonianza immediata sui fatti, che devono saper afferrare in una sintesi percettuale quello intreccio tra biografia e costume, tra biografia e storia che talvolta sfugge anche al linguaggio lineare (cioè non coassiale) degli storici e dei saggisti. Non vengono più fuori quelle figure umane a tutto tondo che hanno costituito la filigrana d’acciaio che ha tenuto insieme la tradizione realista del nostro cinema. La società meridionale finisce insomma col presentarsi come un insieme casuale di persone, un incrocio accidentale di destini umani; non è più quel contesto di rapporti, componenti e funzioni correlate (sia pure sot-terraneamente) che gli autori dovrebbero portare in luce, non ci sono le sue lotte, il suo sudore, la sua vera

tensione, mancano insomma i connotati morali e comunitari di quasi mezza Italia. 113 Solo tangenzialmente e di scorcio sono presentati certi luoghi emblema-tici del Sud, certi ambienti peculiari, certi peculiarissimi nodi. Certo, oggi è ancor più difficile scoprirli, valutarli, seguirli nel loro processo di invo-luzione; c’è stato in questo periodo un trasmutare dei termini strutturali del problema, ad es. dalle incognite e variabili della industrializzazione al-le incognite e variabili del dissesto agricolo, quasi in un fatale feedback at-tivato dagli errori strategici nell’intervento e dai ritardi negli adempimenti. Ma questo spiega soltanto fino ad un certo limite l’incapacità dei cinea-sti ad istituire i loro procedimenti conoscitivi, a intensificare nelle loro composizioni narrative gli aspetti in emergenza di un territorio e di così vasti insediamenti umani. Tutto ciò non può da solo motivare il pullulare di nuovi volgari stereotipi e, in reciproca, la scomparsa progressiva degli autentici retroterra di certi fenomeni o la mancata messa a fuoco di meccanismi e di congegni politici di cui, occorre dire, molta stampa si è invece saputa render consapevole con una limpida e coraggiosa messa in causa di uomini, correnti, e responsabili amministrativi e governativi. A furia di emarginare e respingere ai bordi dell’ inquadratura le risultanze più corpose della cronaca, si è ottenuto un linguaggio che sembra abitare fuori del mondo in cui nasce: un mondo fatto di schematismi pseudofreudiani, luoghi comuni travestiti da frasi inventive, confusioni-smo concettuale mascherato da tecnica avanguardistica. In sostanza, una neoarcadia boccaccevole e una spuria commedia dell’Arte, piena di pruriti senili, di lenocini, di perversioni gratuite o a buon mercato, tendenti ad obliterare le vere costituenti del dramma. Spasmi stilistici e crampi mentali che non possono non essere individuati come sintomi di una regressione civile in atto e che va fermata e invertita nel suo corso. Una critica competente, reattiva, non fatta di gommapiuma dovrebbe contrastare molte illusioni, partendo però essa stessa da una affinata competenza culturale, da un quadro di riferimento più ampio di quello del pezzo di cronaca frettolosa, dell’accettazione passiva dell’ intreccio.

Prima fra tutte, contro quell’illusione retorica che si possa volare meglio nel vuoto, che non vale la pena di spaziare di fronte a problemi troppo complessi, contro l’idea che si può sempre giustificare un radicale di-simpegno da spunti, oggetti e personaggi del proprio tempo. Nè va taciuta la politica di troppi produttori che, come ci confessava il regista Prisco l’anno scorso in questa sede, si mostrano sempre più reti-centi e renitenti di fronte a progetti di film che vogliano parlare con serietà e asprezza del nostro Sud. (Qui sembra significativo annotare che, sul 114 piano del rendiconto sociale in immagini, se la cavano certo meglio i valo-rosi fotografi che vanno cogliendo con sguardo aguzzo certe connotazioni socioculturali ed etnologiche del paesaggio meridionale). Va rimesso, altresì, sul tavolo il dibattito con quelle avanguardie che al di là di un mero sperimentalismo, piuttosto legittimo, hanno preteso un’estetica che rompesse i ponti con la realtà, col “percipiendum” , con la coscienza delle cause e degli effetti, con quei duri e concreti fatti che si e-volvono nel mondo esterno e che nessun artista deve esorcizzare, se non vuol restare immerso in una sterile conversazione allo specchio. Come dimostrano appunto i film degli splendidamente isolati Taviani e un po’ più in giù i rari Damiani, le opere non possono partorirsi bell’e pronte dalla mente o dall’occhio della mente, in una introversione troppo pura per essere verosimile e suscettibile di comunicazione, cioè di essere parteci-pata come cosa comune ad ogni altro uomo. Esse si costruiscono con fatica insieme alla costruzione della realtà esterna, facendo i conti minuto per minuto con essa, tenendo lo sguardo fisso sul lento e veloce movimento della società, nelle sue connesse componenti individuali e politiche. Uno spiazzamento troppo intenzionale della logica e della sintassi, un fraseggio pervicacemente avulso dalle circostanze effettive, un ritmo che non tenga conto dei tempi sociali e storici porta solo, come abbiamo detto nella premessa iniziale, alla più spuria convenzionalità, sia essa sentimen-talistica o erotomaniaca. Per fronteggiare questo rischio di emarginazione del contesto meridionale, in cui interagiscono ambiente, individui e comunità, tempi feudali e tempi contemporanei, occorrerà allora comprendere che oltre il coraggio di certi contenuti sarà esigenza imprescindibile formulare un discorso ancorato alle cose, un

linguaggio robusto, sostantivale in cui nocciolo polpa e scorza siano tutt’uno. Anche le commedie, allora, potranno assumere risonanze non risibili, potranno rispecchiare e chiarire grovigli e situazioni negative, perche non è affatto detto che il riso debba essere sciocco, osceno e maniacale per definizione. E se i vari particolari umani dell’ampia questione del Sud, si troveranno configurati e organizzati in termini di un tale linguaggio referenziale, potrà divenire anche più attendibile la soluzione pratica della questione stessa. Perchè l’operatore estetico, cioè teorico, è anch’esso una luce al cui chia-rore possono procedere più sicuri e più decisi quelli il cui compito è di ri-muovere le difficoltà materiali che gravano su questo nostro Mezzogiorno. –––115 … Rispondendo a Piscicelli io dico che prendere come facile meccanismo di tessitura “ironica” (ma ironica in senso sociologico) il mio discorso sul film “L’insegnante” potrebbe anche capovolgerlo completamente. E’ chiaro che questo meccanismo allora farebbe pensare che io sia a favore degli interventi della censura: al contrario, sono a favore dell’assoluta libertà della pornografia, nel senso di darle corda…; ma il discorso che facciamo è veramente un discorso di libertà intellettuale, teso cioè a non adulterare il vino buono con l’acqua sporca. In paesi civili, come Svezia, Danimarca, c’è uno spaccato ben chiaro tra l’assoluto libero esibizionismo di film ormai totalmente pornografici e quelli che sono veramente “morali” . Noi questo speriamo che avvenga anche in Italia, tramite una repulsione ed una reale nausea dell’individuo responsabilizzato che comincerà a individuare uno dei problemi dell’alienazione di massa, quando farà una scelta chiara tra cinema culturale e pornofilm mercificato. Ancora oggi chi dice “quanto è bona Laura Antonelli” è una persona che si è già incamminata su un certo itinerario di alienazione sociale e mentale. Si può dire “quant’è bona” solo

dopo aver palpeggiato una donna non dopo averla vista in immagini filmiche. Ci sono questi problemi di alienazione, stiamo attenti: a livello degli in-terstizi tra strutture e sovra-strutture, dei marxisti avveduti e non “volgari” (in senso storico) devono ben riflettere sulla questione. Ci sono condizionamenti di trapasso, condizionamenti sociali che purtroppo vengono dati proprio dall’assenza di un nuovo tipo di cultura. Mi ricollego, frettolosamente, a quanto diceva Zampa: cioè il problema che noi abbiamo affrontato è non tanto di vedere che il sottosviluppo è ancora immanente in una produzione specifica per il Sud, ma che questo tipo di sottosviluppo, attraverso il suo successo commerciale, riesce a contagiare delle menti libere, ad estraniarle dall’impegno di fondo. I registi italiani se rinunciassero alla seconda villa al mare (come fanno tanti intellettuali che rinunciano semmai alla prima casa di proprietà), modificherebbero anche la loro posizione gnoseologica, cioè la posizione da tenere in un linguaggio di comunicazione di massa. Si indurrebbero a testimoniare con assoluto realismo quel che veramente si muove nella realtà, condizionerebbero anche una struttura di base qual è quella cinematografica. La spia a questo tipo di discorso si ha quando si mettono in parallelo linguistico i due tipi di abbinamento “nobile-volgare” e “novità-stereotipo” . Tra l’uno e l’altro non c’è quella sproporzione di relazioni che apparente-116 mente sembrerebbe ci sia. “Novità-stereotipo” , è veramente il problema della comunicazione di massa (e qui ha anche ragione Bruno): se i registi s’intestardissero a ridarci la solita frittata solo con spezie di tipo diverso noi non staremmo lottando per una nuova cultura, staremmo procedendo verso quella dialettica insita nella realtà che deve essere anche conquista di elementi nuovi: siano anch’essi negativi ma siano di fermento! Questo è il problema dell’intervento creativo nelle. comunicazioni di massa, altrimenti dovremmo accettare un condizionamento che sia un ve-ro e proprio determinismo, cioè una alienazione totalizzante. Ecco allora l’esigenza di un cinema-conoscenza che aiuta (e i veri marxisti vanno indagando su tale questione, non gli estensori di

facili giornalet-ti studenteschi). La prassi intellettuale è un lavoro mentale autentico co-me dice uno dei marxisti più acuti, Morawsky, un lavoro nel senso, che è uno sforzo di conoscenza, cioè di organizzazione e di elaborazione della realtà in modo tale da essere la base su cui procedere per una vera ricon-versione della realtà extramentale. E’ questa una testimonianza della cultura dialettica e non della cultura data sic stantibus rebus, perchè nella dialettica esiste anche la degradazione della cultura popolare e il vero lavoro intellettuale è la lotta contro la degradazione della cultura popolare, (lotta tra film asservito al porno mercificato e film libero, nel senso che si diceva). Era proprio questo il nerbo sotterraneo della relazione: attenti a non fa-vorire la corruzione della cultura popolare. Se venisse avanti questo nuovo tipo di cinema, disalienato e senza remore nei confronti della realtà, di tutta la realtà (con reali fastidi e con estrema irritazione dalla altra parte, quella della desublimazione repressiva) sarebbe una forma di lotta anche democratica. Allora vedremmo che questa “conoscenza” sarebbe non la protesta sterile, ma quella protesta che se per noi italiani è una parola che non assume valenze storiche profonde per quelli che fecero le riforme del pensiero e della realtà dell’Europa del 600 era una “parola” , una conoscenza che assumeva un significato dinamico e non astratto di trasformazione di tatto un ambiente, culturale e socioeconomico, nel cuore del continente europeo. –––Ci sono alcune repliche da fare ad alcuni interventi interessanti; e penso sia meglio impostare il fatto non sul piano polemico ma vedere quella che si può chiamare la parte posteriore del tessuto che conduce qualche relatore a dare una certa impostazione alla propria comunicazione. L’impianto metodologico che sorreggeva il mio breve studio, era innan-117 zitutto angolato sociologicamente, era quindi una campionatura delle risultanze della reale, concreta produzione 74/75. L’operazione di compara-zione era stata volutamente messa da parte. Probabilmente, alcuni disattenti interventori, non hanno afferrato che era ipotizzata come assenza la tendenza positiva che era esistita preventivamente sul piano del neo-realismo e, secondo me, meglio, della “tendenza realista” .

Uno strumento di sutura fra presente-assente è ciò che ha integrato brillantemente Fava quando ha parlato della progressiva perdita di coscienza linguistica da parte di un cinema falsificato quotidianamente. Questa perdita progressiva di coscienza reale era proprio quello che si de-duceva dalla mia relazione dove si voleva chiarire come il linguaggio, sia quel lo dell’immagine, sia quello delle parole, usato o abusato nei film citati, fosse effettivamente una presa in giro, una caricatura sempre più pesante delle porzioni di realtà meridionale inquadrate dall’obbiettivo. Questo era quello che io avevo chiamato un “convenzionalismo linguistico” , che, attraverso la logica del mercato era di segno opposto ma di sostanza omogenea ai convenzionalismi sentimentali. Il convegno aveva da seguire la traccia indicata sulla produzione del cinema meridionalista degli ultimi anni; da controllare e valutare le risultanze narrative come linguaggio che valesse o meno a rispecchiare come un dato di fatto la situazione del Mezzogiorno. Mi sembra una perdita di spessore logico quando cominciamo ad allargare in cerchi concentrici i problemi inerenti alla traccia. Vorremmo proporre qui tutti i problemi, sociologici, politici, partitici ecc….: questa non pare un’operazione dettata dal buon senso nè dalla volontà effettiva di condurre un certo discorso. Quale discorso? Sono d’accordo con Meccoli: qui non c’è inutilità perchè appunto si tratta di un discorso contro una disgregazione molecolare che noi viviamo in atto in un certo momento, in una certa situazione, in un certo spazio che è quello filmico. Non possiamo certamente discutere qui dei problemi della crisi della ricerca scientifica in Italia o di altri problemi come le inadempienze dei Provveditorati agli studi: problemi seri che vanno discussi nelle sedi appropriate. Questa è una delle coerenze logiche che si richiede a qualunque convegno che vuole condurre in porto qualche cosa. (La famosa battuta che dice: “i signori studenti discutano su tutto ma non se Cesare è un numero primo” ) . Prendo soltanto spunti dalle svariate argomentazioni perchè l’ora tarda non mi consente di sgomitolare le troppe linee dei troppi interventi che mettono appunto in ballo tutta una cultura. Essa, semmai, andrebbe approfondita da parte di molti che usano parole molto belle ma che sono la 118 chiave della discrepanza tra “operazione” e “competenza” linguistica.

Tanto per darne un esempio: “tautologico” . In che modo un linguaggio può essere mai tautologico? Un linguaggio è la formulazione intenzionale del ritaglio da un certo continuum della realtà che viene trasportata in un’altra realtà, cioè in quella del segno e il segno è appunto “qualche cosa che sta per un’altra cosa” . Non è mai possibile che il linguaggio sia tautologico anche se la parola è molto bella, molto misteriosa. Essa fa parte di una certa ritualità sacerdotale nuova, del gergo di un certo gruppo di persone che però, eventualmente, non sa-prebbero a lungo dibattere sulla qualità “tautologica” di un linguaggio. (Forse su quella di certe frasi, di certi predicati… ). Questo è un errore metodologico, la carenza di una linguistica generale che andrebbe ben approfondita. La metafora non sta sul piano del linguaggio, ma della stilistica, o della “retorica” che è tutt’altro discorso. Il discorso che, sia pure in maniera un po’ scherzosa, ponevo io, all’inizio, era quello di un linguaggio referenziale, di un massmedium che non perdesse la capacità di rispecchiamento percettuale, sensoriale delle cose che ci stanno di fronte, in quel loro movimento, in quella determinata azione, in quel contesto socio-politico. Qui vorrei riportare la famosa frase di un uomo più citato che conosciuto: “Gli uomini si pongono soprattutto i problemi che possono risolvere” . Si tratta di un certo Dott. Marx, il quale quando voleva analizzare le questioni del momento storico non si rifaceva alle questioni di primigenia genesi come fanno spesso i parroci al momento del discorso matrimoniale richiamandosi ad Adamo ed Èva. Col suo linguaggio ironico, tagliente, neologico, egli cercava di puntualizzare bene i momenti di evoluzione di quel particolare, concreto periodo storico, altrimenti avrebbe perso di vista proprio la primaria concezione metodologica di un materialismo che fa i conti con l’aldiqua e non con l’aldilà, questo sì tautologico ( “Io sono Colui che è” ). La rilettura della produzione filmica in un momento di crisi, quindi, va bene angolata contro tutti quelli che, invece, al di fuori di una reale dialettica, vogliono per forza porsi sulla scia di certi slogans anch’essi abbastanza viziati da estremismo infantile. Che nel cinema italiano ci siano stati servi e padroni, che ci siano stati momenti assolutamente oscuri, addirittura medioevali, metafisici e

non ci siano stati contraccolpi positivi è una presunzione da liceali primi della classe. I critici seri non stanno a colmare le lacune della storia: non c’è presunzione più grave dell’uomo, non c’è momento di crisi intellettuale più forte 119 in cui quelli che si presumono socialisti vogliono colmare le lacune della storia: Le lacune della storia non esistono, esistono le lotte continue, ser-rate nei momenti che si aggregano tra il nuovo e il vecchio, fra sbagliato ed esatto, fra progresso e regresso. In questo senso, il cinema che si è posto come specchio di fronte ad una realtà meridionale ha dato, con tutti i suoi limiti tecnici, “La terra trema” , “Bellissima” etc. (Queste sono le opere che stanno sulla torre e che non si butteranno giù). Ha dato “Rocco e i suoi fratelli” , “Salvatore Giuliano” , “Le mani sulla città” , “La sfida” , “Processo alla città” , ha dato tutti quegli uomini che citavamo prima. Il problema era che bisognava esaminare se c’era una diversa diagnosi da fare qui e ora (1974-75) in questo momento di chiara crisi in atto del cinema meridionalista. Parlare sempre della subalternità degli intellettuali porta a delle contraddizioni profonde nella ricerca culturale perchè se gli intellettuali fossero sempre sull’attenti non si spiegherebbe come possano venir fuori opere rivoluzionarie come “Il manifesto” o “La dialettica della natura” . Ci sono dei salti qualitativi in avanti da una parte come ci sono dei salti qualitativi all’indietro, come è proprio in questa crisi del cinema italiano, che in questo momento sta facendo salti all’indietro. Salti che lo portano fuori da un contesto, da un tessuto. Quale tessuto? quello dei mille fili orditi in ritratto dinamico, filmico su una porzione di realtà, su un personaggio tipico o personaggi che, come crune di un ago siano capaci di far passare in sè tutti i momenti di quella che è la consistenza e l’essenza dell’uomo. Allora “L’insegnante” sarebbe risultato forse un piccolo film sul la scuola che avrebbe restituito la vera durata, il vero battito del polso, la vera sostanza umana degli alunni, degli insegnanti, dei loro problemi. Non sarebbe sceso a livello offensivo e comunque regressivo, reazionario di film che sembra divertente ma forse può pesare drammaticamente sulla preparazione (o sulla impreparazione) democratica del nostro futuro di cittadini non solo genericamente e italianamente europei ma, qui è bene dirlo,

“meridionali” , cioè qui fissati nel nostro momento storico, nella nostra condizione umana che deve svilupparsi anche per mezzo del cinema. Salerno, Secondo Convegno nazionale su “Il Mezzogiorno e il cinema italiano”, 9 0ttobre 1975 120 1991 I PROBLEMI DELLA COMMUNICAZIONE AUDIOVISIVE Piccolo, un pò isolato ma caparbio il Festival cinematografico di Salerno ha realizzato il suo 44° traguardo, puntando soprattutto sulla cultura audiovisiva come problema di coscienza critica. E un riscontro di buon rilievo hanno trovato in esso i videotapes, i documentari d’autore, le opere sperimentali e i film in superotto e in formato normale, provenienti da varie parti del mondo. Nella fascia culturale, che qui interessa, si è operata una verifica a largo campo degli aspetti del linguaggio multimediale. (Lo stesso talk show se-rale, condotto da Grazia Scuccimarra, ha dato spazio a competenze fondate più che ai divismi delle stars). Ai numerosi dibattiti, nel tempio di Pomona, cioè nel centro storicore-ligioso della città, hanno preso parte esperti di pedagogia, filmologia e didattica dell’immagine, dal prof.Acone a G.Cincotti, da M.Rendina a G.Ruggiero e altri. Sul piano più specifico della programmazione legislati-va, sono risultati ben calibrati gli interventi dell’on.Silvia Costa, del regista Vancini e del dott.L.Grassi dell’Anec, nonché le concise richieste dell’organizzatore benemerito del Festival, dott.I.Rossi. Si è in tal modo dipanata una serie ben articolata di riflessioni sul fenomeno della comunicazione audiovisiva che caratterizza in modo precipuo la fine di questo millennio e che ancor più allargherà la sua influenza nel prossimo futuro. Proprio per “entrare nell’avvenire senza camminare all’indietro” , è stata opportuna questa analisi a più voci della situazione e dei problemi ad essa inerenti. Così l’apprendimento multimediale è stato inquadrato in quel più vasto perimetro costituito da una condizione di “ascolto” capace di comprendere e interpretare adeguatamente il linguaggio audiovisivo.

Il rischio più alto in questo campo della comunicazione rimane, infatti, quello della passivizzazione del soggetto destinatario dei messaggi allorché risulti sprovvisto di griglie e codici anche elementari, ma atti ad una loro corretta interpretazione. L’automatismo nella ricezione può indurre a strane forme di deconcen-trazione mentale e ad un tipo di attenzione fluttuante, sporadica o a risacca. Una delle fonti di maggiore distorsione, in tal senso, è stata individuata - nella relazione del sottoscritto - nel modo in cui si viene configurando la pubblicità massmediale. 121 Il fine ultimo di ogni videoclip, spot o “logo” è quello merceologico non quello “disinteressato” che è coessenziale alla funzione estetica propria-mente definita (da Kant fino ai più seri pensatori contemporanei). Se tali micromessaggi fossero separati dagli altri “discorsi” iconici, già ciò verrebbe a costituire un fattore di minore disorientamento. La loro inserzione provoca invece uno sbandamento logico dovuto al fatto che nello “advertisement” c’è sempre un “pre-testo” che condiziona inevitabilmente il testo. “L’ingorgo è stupido, la nostra auto no” : si può condire questa idea con cento salse cromatiche, gradevoli e adescatrici ma sarà ardua renderla ve-ritiera nel contesto referenziale. Di fatto, vengono riprese auto che corrono con souplesse (all’alba) o imboccano a velocità notevole strade (oltre i 2000 metri) o che scorazzano libere e felici, ma su spiagge predesertiche. E’ questa commistione tra fantasia e menzogna che è surrettizia, etero-mana rispetto all’arte e all’onestà del parlare. Così, si può accettare che un certo formaggio sia ottimo ma non che la sua pesante forma rotoli sui tavoli fino ad infrangere piatti, bicchieri, e quant’altro, questo è un tipo di humour paradossale a livello di quel sin-cretismo infantile citato da Piaget ( “l’aglio fa bene, il cioccolato è gusto-so: mettiamo l’aglio nel cioccolato che, così, diverrà meraviglioso!” ). Il problema di fondo, comunque, è stato individuato nel fatto che spot, videoclip e altro sono “corpi estranei” che spezzano il ritmo e

la coordina-zione sintattica di ogni contesto audiovisivo. Sono interpolazioni incon-grue che frammentano le sequenze e le riducono ad una insalata di immagini, oltretutto poco digeribile. Ugualmente (ir)responsabile è quell’utente che con lo “zapping” si diverte a creare un caleidoscopio cromatico davanti ai suoi occhi, quasi pre-gustando un dormiveglia fatto da una ridda caotica di figure, simboli e suoni, difficilmente recuperabili a livello di vigilanza mentale. La prima base dell’autentica fruizione e del vero apprendimento è la chiarezza, senza la quale si finisce per arruffare il gomitolo senza dipanarne i fili in modo semplice e lineare. Le acrobazie linguistiche sono in genere fuor-vianti e confusionarie. Formule magiche, sia reboanti sia appena insinuate, portano fatalmente a quella che De Mauro ha chiamato “la spiazzistica del discorso”. E soprattutto i cervelli giovani sono penalizzati da pensieri contorti e barcollanti, da metafore torbide e arbitrarie. Al contrario, nelle scuole di ogni grado e tipo si ha enorme bisogno di strumenti critico-didattici dove vengano fuse informazione ed educazione in modo che lo sguardo sia 122 sempre comprensivo e non sfuggente ed evasivo, sempre più pronto ad afferrare significati importanti che a ingurgitare elucubrazioni schizoidi. Come è stato prospettato da non pochi dei partecipanti al meeting di Salerno, il pericolo di un nuovo analfabetismo incombe più vicino di quanto si immagini. E’ stato un grande sociologo come D.Riesman a individuare i rischi di una società “eterodiretta” , con i suoi membri divenuti inconsapevoli servomeccanismi di organizzazioni onnipervasive che im-bottiscono i crani di vuoti discorsi e false idee. Non è meno preoccupante l’inquinamento della sfera culturale rispetto a quello della sfera ambientale e il detto sociologico è stato tra i primi a parlare di una ecologia della mente. Rumori indiscriminati, bla bla da cortile, bombardamenti di immagini e lave di striscie colorate finiscono con l’ottenere un effetto deleterio, talvolta opposto perfino a quanto i loro emittenti pensano di conseguire. Contro questa Neo-Babele, i convegnisti presenti a Salerno, nell’ambito del 44° Festival, hanno tentato di fornire i primi piccoli

abbecedari e le prime piccole ma basilari grammatiche. Napoli –Salerno, 21 ottobre 1991 123 1993 TECNICHE ELETTRONICHE E DIMENSIONE CREATIVA E’ evidente che dalle ombre cinesi, al cinema su pellicola e fino agli attuali sistemi digitali di rappresentazione e simulazione si sono avuti notevoli progressi tecnici nel campo dei mezzi di comunicazione estetica. Ai giorni nostri, anche un anziano studioso di cinema si giova di una personale videoteca e si rende conto che la “Giovanna d’Arco” di Dreyer o “l’Amleto” di Olivier arrivano al suo sguardo punteggiati dal pennello elettronico che li ha trascritti sul piccolo schermo, permettendone la registrazione in cassetta. Così, quando si trova in platea gli capita (in “J.F.K.” di O.Stone) di tro-varsi in presenza, amplificata, di non poche sequenze TV che gli danno quell’impressione di realtà colta, dalla telecamera, nel suo farsi, secondo dopo secondo. Nè gli sono sfuggiti certi prodotti multimediali di interessanti innovato-ri quali Peter Kubelka o Woody Wasulka o certe “computer animations” della Disney Feature Co o le “fables géometriques” del Canal + francese. Nel suo dubbio metodico egli continua, però, a chiedersi se bastino quelle strumentazioni tipo “script processor” o “story boarding” o “croma-key” per garantire che i risultati non siano di durata effimera o di superficiale intrattenimento. E’ da considerare, comunque, che l’arricchimento delle procedure tecniche (o il loro “alleggerimento materiale” ) è un contributo alla potenziale creatività degli autori. La possibilità di simulare scene, moduli ambientali, di manovrare movimenti di ripresa è un ausilio operativo che nessun regista rifiuterebbe. E’ innegabile la comodità di manovrare, seduti ad un consolle con speciali “monitors” , sorgenti di luce o parametri di campi lunghi, primi piani o dettagli iconici.

E nonostante ciò, occorre riconoscere che il valore intrinseco di un oggetto artistico non è in proporzione diretta al numero e alla complessità dei congegni e degli effetti speciali utilizzati. L’emozione profonda che lo spettatore riceve da un’inquadratura, da una sequenza d’immagini non può essere solo il frutto di brillanti soluzioni geometriche o di algoritmi informatici. Il potere liberatorio dell’arte non promana dalla perfezione scientifica dei mezzi usati, hardware o software che siano: si pensi alla differenza tra un “Prigione” di Michelangelo, apparentemente incompiuto e l’estrema eppure repellente verosimiglianza di una scultura del Museo delle cere. 124 La capacità comunicativa del linguaggio estetico è soprattutto legata alla profondità dei significati che l’autore ha inteso veicolare; proprio la sua indeterminatezza si transvaluta spesso in una sorta di fascinosa polivalenza semantica. Si sostiene che col digitale-elettronico possono proporsi simulacri del tutto nuovi, “realta virtuali”, ma anche questo eccesso di novità strutturale può presentare dei rischi, dato che comunicare vuol dire mettere in comune (è la radice del verbo stesso), cioè condividere un discorso, un messaggio. Emittente e destinatario, artista e spettatore, per capirsi bene, devono essere connessi a qualche convenzione linguistica preliminare, ad una so-lidale interpretazione del senso della frase o dell’oggetto prodotti. Per l’approfondimento della comprensione devono ben compenetrarsi quelli che sono stati chiamati “l’orizzonte dell’aspettazione e l’orizzonte dell’esperienza” che sono le coordinate di ogni codice: allora solo avviene quel risvegliarsi di reazioni semantiche piene di tensione, emozioni e tropismi della personalità, senza le quali l’opera resta estranea, distaccata, umana-mente inefficiente. Un altro pericolo dei procedimenti tecnotronici è quello della eccessiva “accelerazione” , del compiacimento “stroboscopico” (ai confini dello “psi-chedelico” , che pare già scartato dopo entusiasmi effervescenti) tutto ciò, insomma, che può portare le immagini ad un ritmo che oltrepassi la so-glia della percezione. Solo l’attenzione e lanalisi appassionata di un prodotto artistico possono aiutare a imprimere in profondità il suo effetto, e la

conoscenza estetica, infatti, si avvale assai più dell’attività simbolico-ricostruttiva che non di quella percettivo-motoria (checchè ne pensi Gene Youngblood). La vera “aura” di un’affresco, di una scena teatrale o di una sequenza filmica o audiovisiva, tout court, è costituita, appunto, dalla densità della significazione, cioè dalla pluralità intrecciata di rinvii a idee, sentimenti, ricordi. (E’ più difficile dimenticare la corsa della Magnani e il suo gridare di-sperato dietro il camion nazista in “Roma, città aperta” che lo scintillio ultraspeciale di un duello di “Starwars” riproducibile ad libitum in decine di altre “science fiction movies” ). E proprio perchè lo spettatore risponde alle immagini non come un P.C. ma con tutta la sua struttura mentale ed affettiva, con la sua sensibilità, sia pur sempre in quell’atmosfera di “sospensione volontaria dell’incre-dulità” che resta alla base della ricezione del messaggio artistico. Non si può ritenere che l’armonia particolare che l’atto creativo introduce 125 nel caos del continuum sia misurabile con formule algebriche o quantifica-bile con bit, megabit o megabyte. La cosiddetta neg-entropia estetica non è formulabile con equazioni tratte dalla termodinamica, dato che nello spettatore cognizione ed emozione restano indistricabili e, in fondo, inaccessibili. Così la stessa “interattività” , non senza ragione, si inserisce più nel campo del gioco e delle “illusioni” (in-ludo), più a livello di persuasione e di didattica che a livello di approccio estetico: solo un artista creativo, do-tato di quel quid misterioso che è il genio, riuscirà a far parlare, cantare o danzare gli oggetti del mondo che, senza forma estetica, restano grezzi e pietrificati davanti agli occhi del comune spettatore. Salerno, 1993 126 INDIGESTIONI UFFICIALI STAGIONALI Tra Cannes e Taormina, tra Berlino e Venezia, tra primavera e autunno ritorna la stagione ufficiale dei festivals. La ondata del ‘68 sembrava aver-li messi in crisi, ma solo Venezia ha avuto

ripensamenti totali, per gli altri i mali si sono moltiplicati fino al punto di far affiorare in superficie le più gravi lacerazioni. Che cos’altro è stato lo srotolarsi su “La Croisette” di oltre 600 film se non un self-service della produzione corrente, nel doppio senso del significato? La caratteristica dominante è stata quella del “business” , un bai-lamme di merce forse nuova ma di cui nessuno può garantire qualità e durata. Un inventario casuale, una aggregazione tenuta insieme dal solo fatto che il materiale era tecnicamente proiettabile. Nè il panorama si configura troppo diverso per gli altri centri festivalie-ri. Di fronte a questa prospettiva caotica ed involuta ha cercato di porsi criticamente il convegno di Bologna sui “cinefestival” con l’intenzione di tirare i fili delle mozioni contrarie a queste indigestioni di pellicola. E’ stata giustamente rilevata la sproporzione tra il numero delle manifestazioni e sottomanifestazioni che si svolgono in Italia e l’esiguità dei centri di cultura filmologica. Un dispendio di danaro e di energie che si appa-renta al classico lavoro di Sisifo dato che di tutte queste organizzazioni “stagionali” il frutto risulta assai scarso. (Si pensi soltanto al paradosso dei festivals veneziani dedicati al documentario e al cinema per ragazzi: solo poco più del 2% arrivava ad essere messo in circuito). D’altra parte, la stessa riformulazione di progetti e strutture non ha finora condotto a cose positive: intellettualismo “aeriforme” improvvisa-zione, malcelati sabotaggi burocratici hanno messo continuamente in forse l’operatività reale anche delle Mostre decise a trasformarsi. Un certo profilo originale hanno attinto solo quelle rassegne che si sono date un’autonomia programmatica per mezzo di monografie filmiche o specia-lizzazioni (ad es. Pesaro). Non si può d’altra parte dimenticare gli inconvenienti che i festivals presentano anche sul piano della comunicazione e ricezione: come può ovviarsi ai contraccolpi negativi che stimola un babilonico menu di cellu-loide da smaltire a ritmo accelerato? Tra retrospettive, sezioni speciali, informative e “personali” non basterebbe lo stomaco di un Pantagruele per arrivare ad un metabolismo normale e ad un vero accrescimento culturale. Ecco di qui la stessa cronaca delle giornate fatta di recensioni frettolo-se, approssimate, stanche o addirittura fantasiose: una critica che diventa un filtro alla rovescia.

127 Tutte queste circostanze contribuiscono all’instaurazione di una situazione che nel commento di Casiraghi è stata giustamente definita “anor-male, provinciale, coloniale”. Ma quali allora le possibili strategie per superare ogni decrepita monda-nità e ogni enciclopedismo arruffone? Non certo quelle in atto a Berlino (di cui ha parlato Ulrich Gregor) che portano ad una forzosa centralizza-zione degli organismi culturali; piuttosto è da considerare con ogni attenzione la proposta del regista Orsini relativa alla creazione di centri permanenti di cultura cinematografica che suscitino un nuovo rapporto col pubblico, proprio quello venuto a mancare nelle singole, sporadiche occasioni dei festivals. Al posto di questi bazar annuali, pieni di liturgie invecchiate e di esibi-zionismi travestiti, sarebbe assai più fruttuoso avere organismi stabili quali cineteche regionali collegate però ai circuiti pubblici (cinéma d’es-sai) per coinvolgere una più vasta platea con una periodicità più frequen-te e certamente più educativa. Quel grosso settore del pubblico che viene lasciato al rimorchio delle iniziative dei distributori (specie in estate) le quali finiscono per riportare indietro il gusto e l’informazione dello spettatore medio. Ad esse potrebbe affiancarsi l’opera, già in atto, di circoli del cinema, as-sociazioni, facoltà universitarie etc. Se di tanto in tanto cooperazioni con centri stranieri permettessero visioni “in prima assoluta” di un certo tipo di produzione, queste non costituirebbero più un fenomeno a sè stante ma un anello della naturale catena del meccanismo culturale. Sarebbero allora inserite nel normale ritmo di coinvolgimento dei soci-spettatori, al-largandone la visuale con metodi adeguati e giusta gradualità. Verrebbe meno così quella frattura che, dopotutto, sembra ampliarsi di anno in anno tra la schiera degli studiosi e dei “cinéphiles” e quella dei ca-suali frequentatori di spettacoli in via crescente di sottosviluppo. Si apri-rebbe così un discorso di serio aggiornamento e di reale democratizzazione. Napoli, La voce della Campania, 11 luglio 1976 128 INDICE DEI NOMI

ACONE Giuseppe, 121 BO Carlo, 13 ALASSANE Moustapha, 66, 69 BRACCO Roberto, 75 ALAZRAKI Benito, 44 BRASS Tinto, 12 ALLIO René, 51 BRAUN Eva, 19 ALVARO Corrado, 82 BRESSON Robert, 96 ANDERSON Linsay, 100 BRUNO Edoardo, 107, 108, 117 ANDREOTTI Giulio, 14 BULAJIC Veljko, 49 ANSTEY Edgar, 100 BUÑUEL Luis, 55 ANTONIONI Michelangelo, 13, 38, BURLJAEV Nikolaj Petrovic, 47 78, 79, 80, 96, 97 ARAGON Louis, 75 CACOYANNIS Michael, 49 ARBASINO Alberto, 94 CALISI Romano, 69, 70, 71 ARBUCKLE Fatty, 28 CAMERINI Mario, 12 ARCONTI Carlos, 44 CAPRA Frank, 12 ARISTARCO Guido, 97 CAPRARA Valerio, 14, 100 ARISTOFANE, 111

CARLO MAGNO, 14 ARISTOTELE, 97 CARLO V, 14 ARNHEIM Rudolf, 94 CARPACCIO Vittorio, 89 AUERBACH Eric, 85 CASTELLANI Renato, 37, 78, 82 CASTELLO Giulio Cesare , 94, 96, 97 BACH Johann Sebastian, 25 CAVALLARO Giovanni Battista, 13 BALDINI Gabriele, 94 CHABUKIANI Vakhtang Michailovic, BARANOVSKAJA Vera Vsevolodovna, 89 29 CHAPLIN Charlie, 28 BARRIE Barbara, 89 CHARENSOL Georges, 13 BARSKIJ Vladimir Grigorievic, 89 CHEJFIC Iosif Efimovic, 13 BARTHES Roland, 94 CHIARINI Luigi, 13, 14, 79, 94 BASSANI Giorgio, 94 CHRUŠCËV Nikita Sergeevic, 27 BASSORI Timité, 66, 69 CICERO Nando, 110 BATORY Jan, 20 CINCOTTI Guido, 121 BAYLY Stephen, 100 CLAIR René, 12 BAZIN André, 13

CLARK Shirley, 27 BERGMAN Ingmar, 13, 96 CLOUZOT Henri-Georges, 41 BERTOLUCCI Bernardo, 35 COMENCINI Cristina, 12 BIRRI Fernando, 48 COSTA Silvia, 121 BLASETTI Alessandro, 75, 94 COUNOT M., 61 129 COURTELINE Georges, 23 FANON Frantz, 65, 68, 69 CROCE Benedetto, 19, 76, 94 FAVA Claudio G., 118 CUCHRAJ Grigorij Naumovic, 23, 27 FELLINI Federico, 13, 58, 82 CYBULSKI Zbigniew, 58 FIGUEROA Gabriel, 22 FIORE Enzo, 14, 100 DAMIANI Damiano, 113, 115 FLAHERTY Robert J., 12, 97 DE FEO Sandro, 94 FOFI Goffredo, 107, 108 DE FILIPPO Eduardo, 83 FORMAN Milos, 54 DE GAULLE Charles, 41 FORTINI Franco, 19 DE MACEDO Antonio, 57 FOSCOLO Ugo, 97 DE MAURO Tullio, 122

FRANCIS Karl, 101 DE SANCTIS Francesco, 76, 80 FRANJU Georges, 41 DE SANTIS Giuseppe, 78 FRANKENHEIMER John, 44 DE SETA Vittorio, 84, 85 FRASCANI Federico, 14, 82, 100 DE SICA Vittorio, 12, 13, 77, 78, 80, FREUD Sigmund, 57 82, 96 FRIC Martin, 30 DEFOE Daniel, 83 DEL FRA Lino, 17 GELOVANI Michail Georgievic, 89 DEL RIO Dolorès, 22 GENÊT Jean, 87 DI GIACOMO Salvatore, 75 GERASIMOV Sergej Appolinarievic, DI GIAMMATTEO Fernaldo, 14 45 DORFLES Gillo, 94 GERMI Pietro, 78 DOUGLAS Bill, 100 GIRALDI CINZIO Giovan Battista, 89 DOVŽENKO Aleksandr Petrovic, 12, GOBETTI Paolo, 19 97 GODARD Jean Luc, 13, 40, 58, 59 DREISER Theodore, 28 GOGOL Nikolaj Vasil’evic, 23

DREYER Carl Theodor, 13, 61, 62, GRAMSCI Antonio, 19 63, 96, 97, 124 GRASSI Luigi, 121 DZIGAN Efim Lvovic , 89 GREENAWAY Peter, 100 GREGOR Ulrich, 128 ECARÉ Désiré, 69, 70, 71 GRIERSON John, 13, 100 EJZENŠTEJN Sergej Michajlovic, 97 EKK Nikolai Vladimirovic IVAKINE, HAMINA Likdar, 68 12 HITCHCOCK Alfred, 100 EMES Jan, 101 HITLER Adolf, 95 ERMLER Fridrich Markovic, 13 HOSSEIN Robert, 22 HUDSON Hugh, 100 FABRI Zoltan, 59, 61 FALQUI Enrico, 94 IBSEN Henrik Johan, 61, 62 JACOBS Lewis, 13 MANGINI Cecilia, 17 JAKUBOWSKA Wanda, 20 MANN Delbert, 13 JOHNSON Celia, 101 MANN Thomas, 74 JOHNSON Sandy, 100 MANZINI Gianna, 94

JONES Terry, 101 MANZONI Alessandro, 80, 97 JUNGHANS Carl, 29 MARCABRU Pierre, 61 MARINO Camillo, 94 KALATOZOV Michail Konstantinovic, MARINUCCI Vinicio, 14 13, 89 MARKER Chris, 70 KAPLAN Abraham, 94 MAROTTA Giuseppe, 83 KEATON Buster, 28 MARTIN Marcel, 29, 61 KERR Deborah, 101 MARX Carlo, 57, 107, 119 KONWICKI Tadeusz, 58 MASELLI Francesco, 12 KORZYBSKI Alfred, 94, 98 MASINA Giulietta, 87 KREJCIK Jiri, 30 MASON James, 43 KUBELKA Peter, 124 MATCHAVARIANI Alexei Davydovic, KUBRICK Stanley, 43 89 KUROSAWA Akira, 13 MATTEOTTI Giacomo, 19 MAUPASSANT Guy, 96 LAMAC Karel, 29 MAURIAC François, 41 LANCASTER Burt, 44

MAURO Walter, 94 LANG Fritz, 37 MCKENZIE Kent, 27 LANGDON Harry, 28 MCMURRAY Mary, 101 LATTUADA Alberto, 78, 82, 94 MECCOLI Domenico, 94, 118 LEAN David, 100 MEREGHETTI Paolo, 12 LESIEWICZ Witold, 49 MEYER Levin, 20 LESTER Richard, 53 MICCICHÈ Lino, 14, 17 LEVI Carlo, 34, 37 MICHELANGELO, 124 LEYDA Jay, 13 MIFUNE Toshiro, 27 LIZZANI Carlo, 17 MOKOURI Urbain Dia, 69 LLOYD Harold, 28 MOLANDER Gustaf, 12, 96 LOSEY Joseph, 91, 92 MOLIÈRE Jean Baptiste POQUELIN LOY Nanni, 17, 84, 85 dit, 111 LUBITSCH Ernst, 12 MONACO Eitel, 94 LUKÁCS György, 80 MONCONI Alberto Mario, 94 MONTALDO Giuliano, 25

MACHATY Gustav, 12, 29 MONTALE Eugenio, 95 MAGNANI Anna, 34, 125 MORAVIA Alberto, 96 MAN HEE LEE, 92 MORAWSKY Stefan, 117 131 MORETTI Carlo, 12 QUASIMODO Salvatore, 79 MORIN Edgar, 13 MULLER Marco, 12 RAINERO Romain, 71 MUNCH Edward, 62 RALLI Giovanna, 22 MUNK Kaj, 58, 96 RAMPLING Charlotte, 101 MUSIL Robert, 38 REA Domenico, 83, 94 REED Oliver, 103 NAPOLITANO Antonio, 14, 100, 121 REICHENBACH François, 41 NGASSA Jean-Paul, 69 REISZ Karel, 100 NORRIS Frank, 96 REMBRANDT Harmenszoon van RIJN, 89 OLIVIER Laurence, 13, 100, 124 RENDINA Massimo, 121 OLMI Ermanno, 23, 25 RENOIR Jean, 96

ORSINI Valentino, 37, 128 RESNAIS Alain, 65, 70 PAINE Cynthia, 101 RICCI Paolo, 94 PANOFSKY Erwin, 94, 95, 97, 98 RICHARDSON Tony, 53, 100 PANTIERI José, 94 RIESMAN David, 123 PAOLELLA Roberto, 14, 100 RIMANELLI Giose, 25 PAPAS Irena, 49 RIVA Emmanuelle, 41 PASINETTI Francesco, 9, 13 RODRIGUEZ Ismael, 27 PASOLINI Pier Paolo, 23, 25, 34, 35 ROEG Nicholas, 103 PAUSTOVSKIJ Konstantin ROGOSIN Lionel, 54, 58 Georgievic, 45 RONDI Gian Luigi, 14 PAVESE Cesare, 83 ROSI Francesco, 37, 38, 83, 84, 85 PEERCE Larry, 89, 90 ROSSELLINI Roberto, 75, 76, 78, 83, PERRY Frank, 43, 44 96 PETIT Chris, 101 ROSSI Drago, 25 PETRI Elio, 85 ROSSI Franco, 25, 32, 34

PIAGET JEAN, 122 ROSSI Ignazio, 121 PINTER Harald, 91 ROUCH Jean, 23, 25, 40, 65, 70, 72 PINTOR Giaime, 77 ROVENSKÝ Josef, 29 PIRANDELLO Luigi, 111 RUGGIERO Giuseppe, 121 PISCICELLI Salvatore, 116 RUSSELL Ken, 101 PLACIDO Michele, 12 SACCHI Filippo, 94 POLANSKI Roman, 13, 49 SADE Donatien-Alphonse-François PRISCO Michele, 105, 106, 114 de, 57 PUDOVKIN Vsevolod Illarionovic, SADOUL Georges, 41 29, 96 SAGAN Léontine., 12 SAILLY Edouard, 69 132 SALERNO Enrico Maria, 32 TUSHINGHAM Rita, 53, 101 SALVEMINI Gaetano, 19 TUTUOLA Amos, 71 SATYAJIT Ray, 13, 51 SCHLESINGER John, 100 UNGARETTI Giuseppe, 95 SCUCCIMARRA Grazia, 121

SELLERS Peter, 43 VANCINI Florestano, 17, 84, 85, 121 SEMBENE Ousmane, 69, 70 VARDA Agnès, 41 SENGHOR Léopold, 70 VÁVRA Otakar, 30 SENNETT Mack - SINNOTT Michael, VERDONE Mario, 105 27, 28 VERGA Giovanni, 78 SHAKESPEARE William, 29, 89, 95 VISCONTI Eriprando, 38 SHAW George Bernard, 111 VISCONTI Luchino, 13, 38, 78, 79, SHELLEY Mary, 43, 101 80, 82, 84, 96, 107 SINISCALCHI Vincenzo Maria, 100 VISENTINI Gino, 94 SMOKTUNOVSKIj Innokentij VITTORINI Elio, 74, 77 Mikhailovic , 14 SOLDATI Mario, 83 WAJDA Andrzej Witold , 58 STALIN Iosif Vissarionovic WASULKA Woody, 124 DŽUGAŠVILI, 27 WEISS Jiri, 30 STALLONE Sylvester, 12 WHORF Benjamin Lee, 66 STONE Oliver, 124

WINTERS Shelley, 43 STRICK Joseph, 87 WITTGENSTEIN Ludwig, 103 STROHEIM Erich von, 96 WRIGHT Basil, 100 TARKOVSKIJ Andrej Arsen’evic, 45, YOUNGBLOOD Gene, 125 47 TAVIANI Paolo e Vittorio, 37, 112, ZAMPA Luigi, 83, 116 115 ZARPAS Ted, 49 THERMES Giovanni, 83 ZAVATTINI Cesare, 34, 77 TINTORETTO Jacopo ROBUSTI il, 89 ZAWJEYSKI Jerzy, 20 TODOROVSKIJ Pëtr Efimovic, 57, 58 ZOLA Emile, 96 TORNATORE Giuseppe, 12 ZURLINI Valerio, 35 TORRE NILSSON Leopoldo, 27, 48 133 INDICE DEI FILM *Illustrazioni 1860 (1934), 75 Che gioia vivere (1961), 17 8 ½ (1963), 58 Chronique d’un été (1961), 23, 25, À bout de souffle (1960), 40, 59 *26 A mani nude (1964), 92

Cistoe nebo (Cieli puliti -1961), 23, A midsummer Night’s dream, *26, 27 (1935) 28 Città in fiamme (1961), 49 A nous la liberté (1931), 12 Cléo de cinq à sept (1962), 41,*42 A Taste of Honey (1962), 43 Coast to Coast (1985), 100 Accattone (1961), 23, *24, 25, 34, Come back, Africa (1959), 54 35 Coming up roses (1986), 100 Aleksandr Nevskij (1938), 97 Comrades (1986), 100 All’armi, siam fascisti! (1961), 17, Concerto pour un exil (1968), 69, *18 70 Allonsanfan (1973), 111 Cronaca familiare (1962), 35 Amici per la pelle (1955), 32 Cronache di un amore, 78 Amleto (Hamlet - 1948), 13, 124 Amore in città (1953), 84 David and Lisa (1962), 43 Animas Trujano (1961), 27 Dies Irae (Vredens Dag - 1943), 63, Anni difficili (1948), 83 97

Aparajito (1956), 13, 51 Domenica pomeriggio (1965), 57 Assunta Spina (1948), 75 Due soldi di speranza(1952), 82 Atoragon (Il sommergibile invitto 1963), 91 Elektra (1962), *46, 49 Erotikon (1929), 29 Baaria (2009), 12 Estasi (1934), 12, 29 Banditi ad Orgosolo (1961), 84 Europa ‘51 (1952), 78 Barricata muta (1949), 30 Exodus (1960), 20 Bellissima (1951), 78, 82, 120 Birdman of Alcatraz (1962), 44 Fedeltà (Vernost - 1965), *56, 57 Boy Soldier (1986), 101, *102 Filumena Martorana (1951), 83 Flight to Berlin (1986), 101 Cabiria (1914), 74 Caccia tragica (1947), 78 Gandhi (1982), 100 Carvunara (1958), 37 Gertrud (1965), *60, 61, 63 Castaway (1986), 103 Gioventù perduta (1948), 78 134 Giulietta, Romeo e le tenebre Il giardino dell’Assam (1985), 101,

(1960), 30 *102 Gli uomini, che mascalzoni! (1932), Il Moro di Venezia (1960), 89 12 Il placido Don (1957), 45 Good times, wonderful times Il posto (1961), 23, *24 (1965), 54 Il posto delle fragole (1957), 13, 97 Gothic (1986), 101 Il seduttore (1954), 32 Greed (1924), 96 Il servo (1963), *88, 91, 92 Il sole sorge ancora (1946), 76 Homenaje a la hora de la siesta Il tempo si è fermato (1959), 23 (1962), 48 Husz Hora (Venti ore - 1965), 59, Janosik, il bandito (1935), 29 *60 JFK - Un caso ancora aperto (1991), 124 I 4oo colpi (1959), 20 I bambini ci guardano (1943), 20, Kapurush (Il Vile -1965), 51, 53 74, 96 Knights and Emeralds (1986), 101 I misteri del Giardino di Compton house (1982), 100 L’anno scorso a Marienbad

I vitelloni (1953), 82 (L’Année dernière à MarienbadII Principio Superiore (1960), 30 1961), 41 Il balcone (The Balcony - 1963), 87, L’ultima spiaggia (1959), 91 *88 La bague du Roi Koda (1962), 66, Il bandito (1946), 78 69 Il bidone (1955), 82 La ballata di un soldato (1959), 57 Il bravo soldato Svejk (1926), 28 La Bandida (1962), 48 Il brigante (1961), 37 La battaglia di Algeri (1966), 68 Il cammino verso la vita (1931), 12 La bête humaine (1938), 96 Il cappotto (1952), 82 La commare secca (1962), 35, *36, Il cavalier Costante Nicosia (1975), 37 111 La coscienza (1948), 30 Il coltello nell’acqua (1962) Scie, 49 La dolce vita (1960), 13 Il diario di un curato di campagna La femme au couteau (1969), 66, (1951), 96 *67, 69 Il diario di una cameriera (1963), 55 La femme mariée (1964), 58 Il federale (1961), 17

La frontiera rubata (1947), 30 Il Gattopardo (1963), 13 La giovane guardia (1948), 45 Il generale Della Rovere (1959), 83 La grande case bamileké (1965), 69 La lunga notte del ‘43 (1960), 84 135 La madre (1926), 29, 96 L’estremo combattimento (Aprile La notte delle spie (1959), 22 1961), 49 La perla (1947), 49 L’infanzia di Ivan (Ivanovo Destvo La provinciale (1953), 83 1962), 45, *46 La sfida (1958), 105, 120 L’insegnante (1975), 110, 111, 116, La signora dal cagnolino (1960), 13 120 La terra (Zemlya - 1930), 12, 47 Lo sceicco bianco (1952), 82 La terra trema (1948), 38, 78, 81, Lolita (1962), *42, 43 105, 120 Los inundados (1962), 48 La trappola (1962), 47 Los olvidados (1950), 55 La vieille dame indigne (1965), 51, L’ultima tappa (1948), 20 *52 L’uomo di Aran (Man of Aran -

Labyrynth (1986), 100 1934), 12 Ladri di biciclette (1948), 78, 81, 96 L’America vista da un francese Mamma Roma (1962), *33, 34, 35 (L’Amérique insolite - 1960), 41 Maria Candelaria (1943), 49 Lásky jedné plavovlásky (Gli amori Marty (1955), 13 di una biondina), *52, 54 Mille e una notte (1972), 111 L’asso di picche (1964), 54 Mio dio come sono caduta in basso Lavoratori della pietra (1958), 37 (1974), 111 Le amiche (1955), 78, 81, 84, 96 Mio figlio professore (1946), 78 Le dément de onze heures (Pierrot Mission (1986), 100 le fou - 1965), 58, 59 Moi, un noir (1958), 70 Le goût de la violence (1961), 22 Momenti di gloria (1981), 100 Le Mandat (1968), 69, 70 Morte di un amico (1960), 32 Le mani sulla città (1963), 120 Mr.Love (1985), 103 Le petit soldat (1963), 40 Le quattro giornate di Napoli Napoli milionaria (1950), 83 (1962), 84

Notturni dell’Usignolo (1949), 32 Le troisième jour (1967), 69 Le vent des Aurès (1967), *67, 68, Odissea nuda (1961), 32 69 Odwìedziny Prezydenti (La visita Lebanon (2009), 12 del presidente -1961), 19, *21 L’eredità dello zio buonanima On the Bowery (1956), 54 (1974), 111 One potato, two potato (1964), 89 Les Maîtres fous (1957), 70 Ordet (1955), 13, 96 Les statues meurent aussi (1953), Orizzonti di gloria (1957), 43 70 Ossessione (1943), 74 136 Paesi tuoi (1941), 74 Spartacus (1960), 43 Paisà (1946), 76 Sperduti nel buio (1914), 75 Passione di Giovanna d’Arco (La Starwars, 125 passion de Jeanne d’Arc -1928), 63, Stromboli (1950), 78 124 Perchè si uccide un magistrato The connection (1961), 27 (1975), 111

The Exiles (1961), 27 Personal Services (1986), 101 The Illegals (1947), 20, *21 Piedino il questurino (1974), 111 The Knack…and how to get it Piel de Verano (1961), 27, 48 (1965) , 53 Point de vue (1965), 69 The Savage Eye (1960) , 87 Processo alla città (1953), 120 The Time and the Touch (1962), 44 Profumo di donna (1974), 111 Thérèse Desqueyroux (1962), 41 Third of a man (1962), 44 Quando volano le cicogne (1957), 13 Tiro al piccione (1961), 25 Questa è la vita (1929), 29 Três Cabras de Lampião (1962), 49 Tutti a casa (1960), 17 Ragazze in uniforme (1931), 12 Raíces (1954), 44 Umberto D. (1952), 78 Rashomon (1950), 13 Un coeur gros comme ça (1962), 41 Reka (1933), 29 Un condannato a morte è fuggito Rocco e i suoi fratelli (1960), 84, (Un condamné à mort s’est échappé 107, 120 - 1956), 96 Roma, città aperta (1945), 75, 76,

Un giorno da leoni (1961), 17, *18 125 Un uomo da bruciare (1962), *36, Romanzo popolare(1974), 111 37 Una storia milanese (1962), 38, Salto (1965), 58 *39, 40 Salvatore Giuliano (1962), 37, 84, Une partie de campagne (1936), 96 120 Uomini e bestie (Lyudi i Zveri Sciuscià (1946), 77 1962), 45 Senso (1954), 82 Senza pietà (1948), 78 Viridiana (1961), 55 Shadey (1985), 103 Vivre sa vie (1962), *39, 40, 58 Shanghai surprise (1986), 100 Simeon del desierto (1965), 55, *56 Water (1985), 103 Smog (1962), 32, *33, 34 137

Document Outline IN MEMORIAM DELLO STESSO AUTORE Indice BIOGRAFIA “A GUISA DI PREFAZIONE…” VENEZIA XXII: FUORI PALAZZO “OUTSIDERS” A VENEZIA VENEZIA XXIII: UN SAPORE DI SMOG VENEZIA XXVI: “VENTI ORE” DI “FEDELTA” PREZIOSE VENEZIA XXX: NOTE SUL CINEMA AFRICANO IL CINEMA E LA REALTA ITALIANA I FILM INTERVENTO AL CONVEGNO “CINEMA E LETTERATURA SI RIVEDE IL CINEMA INGLESE IL MEZZOGIORNO E IL CINEMA ITALIANO IL SUD NEL CINEMA I PROBLEMI DELLA COMMUNICAZIONE AUDIOVISIVA TECNICHE ELETTRONICHE E DIMENSIONE CREATIVA INDIGESTIONE UFFICIALI STAGIONALI Indice dei nomi Indice dei film