Novelle d'autrice tra Otto e Novecento 8883191943, 9788883191947

Collana "Culture Regionali D'Italia. Saggi E Testi". Brossura Editoriale Con Bandelle, 304 Pagine. Esempl

211 108 12MB

Italian Pages 304 [312] Year 1998

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Novelle d'autrice tra Otto e Novecento
 8883191943, 9788883191947

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NOVELLE D’AUTRICE TRA OTTO E NOVECENTO

a cura di

ZAMBON

Ras

PATRIZIA

|

General

PO | 4253 .AB N68 1998

BULZONI

EDITORE

Uno degli aspetti più interessanti tra quelli che caratterizzano la storia letteraria italiana dell’ultimo Ottocento è la consistente presenza di scrittrici, che trova una sua ragione anche nella individuazione nella professione della scrittura di aspetti particolarmente congeniali alle donne. Tra Otto e Novecento — come era nel gusto dell’epoca — molto ricca è la produzione di racconti e novelle. Ci sono le novelle d'ambiente e di gusto scapigliato, di toni iperrealistici, intente non solo ai colori dell’inquietudine, ma anche a racconti umoristici paradossalmente e vagamente surreali. Ci sono le novelle di stampo e ambientazione realistica, con esiti a volte di vero e proprio epigonismo veristico, ma anche con realizzazioni nelle quali l'invenzione di ‘realtà’ minute e oscure dà vita a una scrittura volutamente antiretorica e tangibile come quella di Maria Torriani, o di irrisolta cupezza, come quella di Carola Prosperi, o dì intima liricità come quella di Matilde Serao. C'è il realismo sospeso tra quotidianità e tragicità di Ada Negri, quello di scavo e pensiero di Vittoria Aganoor o di Clarice Gouzy, quello dedicato ai suoi vinti da Maria Messina; e l’uso conoscitivo e disvelante del cozzo tra aulico e prosaico delle pagine concrete e crepuscolari di Eugenia Codronchi Argeli, di quelle irridenti eppure cordiali di certe novelle di Teresa Ubertis, di quelle giocose di Annie Vivanti e della Anna Zuccari che qui si è scelta. E contiguo, intrecciato, c'è il grande campo della novella intessuta di psicologismo, di ambientazione e di décor spesso decadenti: Cattermole, Guglielminetti; e Maria Majocchi, con le sue recessive figure; e Grazia Deledda, la più nota fra tutte; eccetera. Le scrittrici sono dotate ognuna di personalità propria, hanno gusto e individualità, hanno anche visioni del mondo spesso non sovrapponibili; e tuttavia si configura nella ricca e mossa, incalzante produzione delle novelle d’autrice tra Otto e Novecento una circolazione di temi, modi, motivi, situazioni narrative anche, così insistita, per certi versi così serrata, da costituire, è sembrato alla curatrice, uno specifico (sotto)sistema culturale nella civiltà letteraria del periodo, con î suoi significati perché con le sue ragioni. x

PATRIZIA ZAMBON è dottore di ricerca in Italianistica. Ha pubblicato: Enrico Pea (Firenze 1983), Romanzo storico, d'appendice, di consumo: guida bibliografica 1960-1980 (Milano 1983), 7! sogno aristocratico. Angiolo Orvieto e Neera. Corrispondenza 1889-1917 (Milano 1990), con A. Arslan: Letteratura e stampa nel secondo Ottocento (Alessandria 1993); Neera e Marino Moretti. Il sogno borghese. Corrispondenza 1910-1914 (Milano 1996, con C. Pegoraro).

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/novelledautricet0000unse

Ù

CULTURE REGIONALI D’ITALIA SAGGI E TESTI PA

A cura della Società italiana per gli studi di cultura regionale

SOCIETÀ ITALIANA PER GLI STUDI DI CULTURA REGIONALE

COMITATO SCIENTIFICO Gianni Oliva (Presidente), Pietro Gibellini, Giovanni Tesio

NOVELLE D’AUTRICE TRA OTTO E NOVECENTO

a cura di

PATRIZIA

ZAMBON

BULZONI

EDITORE

Volume pubblicato con il contributo del Ministero dell’ Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica - Università “G. D'Annunzio” di Chieti Dipartimento di Studi Medievali e Moderni.

In copertina: Copertina del primo numero di “La Vita italiana”, 15 novembre 1894

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica,

la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 88-8319-194-3 © 1998 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14

http://www.airweb.it/bulzoni e-mail: [email protected] L’Editore è a disposizione degli aventi diritto Trascodifica, impaginazione e grafica: PRIMAPAGINA - Roma - 06/27 .45.52 e e-mail: [email protected] Pellicole e Foto: Computer SERVicES - Roma - 06/27.45.55 © e-mail: [email protected]

INDICE

iMrodidone=>oneeo Semo iL NoldDibloo reo rea, NGI

e

bia

NOVELLE D’AUTRICE TRA OTTO E NOVECENTO Maria Antonietta Torriani, Un velo bianco.......... Maria Antonietta Torriani, Una vocazione. ........... Maulde:sSerao Unafiondiat::. 00 pn. Nanlde/SeraosCanilucci, Eva:Cattetmole»Distateo sens, PERI O

EVvaCatte mole

tia VIGO orarie

Vittoria -Aganoor. Dal veros NauNoapechit&o/ra

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Cloriee GOuzy DIEZUANOT SOIN illa Graziaibeledda Mic C416

MUOVA,

Ad&NEegI APPIANO

»

Maria Messina, Demetrio Càrmine ............................

»

205

Maria Messma

»

227

Amalia Guglielminetti, // ritratto a pastello .......

»

245

Eugenia Codronchi Argeli, La sposa del LION LMR

»

259

Carola Prosperi,

»

267

Annie Vivantis Note diVigilig;. uc

»

246

Teresa Ubertis, Le due signore Derossi...................

»

291

/Cosg Perna II

Una donna di'casa......-«a

INTRODUZIONE

Uno degli aspetti più nuovi tra quelli che caratterizzano la storia letteraria italiana dell’ultimo Ottocento, del periodo

postunitario,

è la consistente

presenza

di scrittrici

donne — e mi si passi l’uso dei due sostantivi, ché se è certo ridondante, permette però un rafforzamento semantico che mi pare necessario. Non che comincino a scrivere ora le donne: da Saffo in avanti la letteratura non ha avuto solo autori, ma certo ogni epoca della civiltà letteraria risponde anche sotto questo profilo a caratteristiche proprie. Una di quelle che appartengono, mi pare, con particolare determinazione all’epoca in argomento è il fatto che è sul finire di un secolo come l’Ottocento, pur tutt’altro che privo di carriere letterarie di rilievo, se nomi come

quelli di

Diodata Saluzzo, Erminia Fuà, Caterina Percoto, Luigia Co-

demo, altri, dicono di un interesse letterario non occasionale e per molti versi non di maniera, che scrivere diven-

ta una professione non più strettamente riservata agli uomini. Del resto il gran numero di testate giornalistiche che sorgono e si sviluppano nell’ultimo quarto del secolo, il moltiplicarsi dei lettori dopo l’unificazione, il nascere delle edizioni economiche a grande tiratura favoriscono, e per certi versi perfino determinano, il definirsi nell’attività letteraria di caratteristiche realmente professionali.

E a ben guardare quella dello scrivere può apparire una professione con aspetti — allora — particolarmente congeniali alle scrittrici. Aspetti contingenti anche: si può esercitare nella propria casa, non richiede necessariamente regolarità nella strutturazione del tempo che le si dedica, non richiede apparentemente, a differenza di quanto si potrebbe pensare, una competizione, allora nelle premesse destinata alla sconfitta, con il mondo maschile che tale professione già esercita, perché presso direttori di riviste e giornali, come presso gli editori, i critici e il pubblico, è presente l’idea che quella femminile sia un produzione diversa rispetto a quella degli scrittori, e che anzi il «punto di vista femminile» costituisca un settore preciso del vasto mondo della scrittura, interessante in quanto qualificabile autonomamente, e quindi, ovviamente, richiedibile solo a donne scrittrici, senza nessuna possibile concorrenza di sesso (il fatto poi che dalla distinzione la scrittura femminile possa risultare nella prassi di lettori e critici impoverita e guardata con una certa sufficienza appartiene ad un altro ordine di considerazioni) !. Direttori di riviste e giornali, si è detto. L’esplosione dell’attività letteraria femminile in Italia coincide infatti, in questi anni, anzi ne è proprio in relazione, con l’esplosione della stampa periodica. Anch’essa, è ben noto, non inventata ora. La stessa già richiamata Caterina Percoto fu collaboratrice di buona assiduità?,ad esempio, di quei periodici di

' Una curiosa riprova: nel 1855, 1856 Ippolito Nievo curò sul settimanale «La Lucciola», di Mantova, che non aveva collaboratrici

donne, una rubrica di Libri nuovi, intenzionalmente rivolta ad un pubblico di lettrici, e coniò di conseguenza per essa uno pseudonimo e un travestimento femminili, quelli di Quirina N.: cfr. Patrizia ZAMBON, Per l'edizione degli «Scritti giornalistici» di Ippolito Nievo, in «Quaderni veneti», VII, 14, 1991.

? Ma anonima. Si v. ora Caterina PERCOTO, // giornale di mia Zia, a cura di Rossana Caira Lumetti, Roma, Bulzoni 1984, e R. CAIRA LU-

10

«mode e amena lettura» che già nella Milano degli anni Cinquanta furono diretti da Giuditta e poi Alessandro Lampugnani, il futuro editore del primo Verga, con l’intento speci-

fico, e di successo, di sollecitare / determinare una letteratura di buona leggibilità, ma non appendicistica, di buon mestiere e buona fattura, e capace di rivolgersi a un pubblico vasto, non specialistico ma di gusto affinato, di sensibilità e interessi, non raramente, femminili: anzi, quanto ai periodici dei Lampugnani si trattava specificamente di «riviste femminili» *. Ma anche in quest'ambito, l’ultima stagione del secolo ha una sua specificità storico culturale, alla quale vanno pur ascritte, pur ovviamente nella lettura bidirezionale che a questi eventi appartiene, e ci si limita ad esemplificare, la

pubblicazione dal 1877 a Torino della «Gazzetta letteraria»

METTI, Le umile operaie. Lettere di Luigia Codemo e Caterina Percoto, Napoli, Loffredo

1985

(accanto: Esmeralda

PAGANO,

Ottocento al

femminile. Lettere inedite di Luigia Codemo a Giannina Milli, in «Critica letteraria», XIX, 72, 1991). Percoto più volte non firmò le sue, non

occasionali, collaborazioni a «La Ricamatrice», che ne seguì peraltro a fondo l’attività anche in sede critica; si segnalano l’ampia recensionepresentazione, senza firma, Bibliografia. Racconti di Catterina Percoto, in «La Ricamatrice», IX, 20, 16 ottobre 1858 (sui quali si può v. anche T[iberio] R[OBERTI], «Racconti» di Caterina Percoto, in «L'Età presente», II, 6, 12 febbraio 1859), e il “dibattito” costituito da Pacifico VA-

LUSSI in La Donna Italiana considerata in riguardo all’ Educazione civile e sociale. Lettere a Caterina Percoto, in «La Ricamatrice», X, 46, 16 febbraio,

1° e 16 marzo

1857.

*

? Specificamente su questo — molto vasto — settore di attività si v. Rita CARRAINI e Michele GIORDANO (a cura di), Bibliografia dei periodici femminili lombardi: 1786-1945, Milano, Editrice Bibliografica 1993; Ada GIGLI MARCHETTI, La stampa lombarda per signorine, in AA. Vv., L'educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell'Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, Franco Angeli 1989; Antonia

ARSLAN,

Scrittrici e giornaliste lombarde

tra Otto

e Novecento, in AA. Vv., Donna lombarda 1860-1945, a cura di Ada Gigli Marchetti e Nanda Torcellan, Milano, Franco Angeli 1992.

11

di Bersezio, dal 1879 a Roma del «Fanfulla della Domenica» diretto da Ferdinando Martini, e poi Nencioni, Capuana, altri, nel 1881, ancora a Roma della celebre «Cronaca bi-

zantina» di Angelo Sommaruga e nel 1894 di «La Vita italiana» di Angelo De Gubernatis, nel 1896, a Firenze di «Il

Marzocco» di Angiolo e Adolfo Orvieto, e da lungo tempo a Firenze e poi a Roma della prestigiosa ma non strettamente specialistica «Nuova Antologia» delle direzioni Protonotari, di Domenico Gnoli, di Maggiorino Ferraris; e poi, affastellando, oltre che cronologicamente anche tra colto e ‘“popolare”4, «Il Convito», di De Bosis, «La Domenica letteraria»,

anch’essa di Sommaruga e diretta da Martini, e poi da Barrili, la «Vita nuova», il «Museo di Famiglia», l’«Illustrazio-

ne

popolare»

e «L’Illustrazione

italiana»

dei Treves,

la

«Roma letteraria», «Natura ed Arte», la «Rassegna settimanale», «La Lettura» di Giacosa, una miriade d’altre’, più o

meno diffuse, più o meno rilevanti. Alle quali vanno aggiunti quotidiani spesso bene attenti alla produzione letteraria coeva, da «Il Pungolo» delle celebri appendici che pubblicano i “capolavori” inediti di Tarchetti e poi di Emilio Praga °, quanto meno, a «Il Fanfulla» di Capuana e Verga, oltreché di Neera, e alla nascita della Terza pagina su «Il Giornale d’I-

4 Il termine fa riferimento a un pubblico di lettori non “professionali”, non di letterati, non ad una classe sociale. “Al femminile”, si pos-

sono cfr. Daniela MALDINI CHIARITO, Lettrici ed editori a Milano tra Otto e Novecento, in «Storia in Lombardia», VII, 2, 1988; P. ZAMBON, Let-

teratura e stampa nel secondo Ottocento, Alessandria, Edizioni Dell’Orso 1993; Adriana CHEMELLO, «Libri di lettura» per le donne, Alessandria, Edizioni dell'Orso 1995. ° Per un vasto repertorio, si può v. Alessandra BRIGANTI, Camilla CATTARULLA,

Franco

D’INTINO,

/ Periodici

Letterari

dell’ Ottocento,

Milano, Franco Angeli 1990. ° Fosca, di Tarchetti e con la conclusione di Salvatore Farina, uscì tra il 21 febbraio e il 6 aprile 1869; Le memorie del presbiterio, di Emilio Praga e Roberto Sacchetti, dal 26-27 giugno al 13-14 novembre 1877.

12

talia» di Bergamini, e subito dopo, dal 1905 sul «Corriere

della Sera», e su «La Stampa» gozzaniana, e di Guglielminetti; eccetera. È un discorso noto; e che riguarda in molteplici modi la letteratura. Uno di questi modi è la notevole commissione di novelle che questa stampa costituisce. Si tratta in realtà di una cosa diversa dalla commissione di romanzi da pubblicare a puntate in appendice. I romanzi, i buoni romanzi editi a puntate non sono una cosa così comune in questo scorcio del secolo: senz’altro se ne occupa la «Nuova Antologia», la sede di prima edizione — citiamo tra tutti il più grande — del verghiano Mastro-don Gesualdo; a puntate il «Corriere della Sera» pubblica Arabella di De Marchi, o Spasimo di De Roberto”. Ma è la misura breve e conchiusa della novella che permette di coniugare qualità e leggibilità: la pienezza del testo libera di per se stessa dalla necessità di puntare sugli artifici della letteratura popolare per coinvolgere il lettore in una lettura a puntate, permette alle riviste di rivolgersi ad altri autori (che generalmente retribuisce), ri-

volgendosi, si è già detto, a un altro pubblico. Accanto ad esse — spesso collateralmente

perché gli

stessi editori reggono le une e le altre, cosicché ne derivano, tra l’altro, pubblicità e rimandi, recensioni e segnalazioni sollecitabili, in qualche modo ‘’dovute’’, o comunque di age-

vole attuazione, non raramente l’impegno contrattuale a collaborare alle une e alle altre — accanto ad esse, dicevo, si in-

dividua una ricca gamma di collane editoriali, di case editrici specifiche perfino, calibrate in fondo sulla stessa esigenza di una larga diffusione di pubblico, di una leggibilità di buo-

? Arabella

di De

Marchi

nel

1892,

Spasimo

di De

Roberto

tra

1896 e 1897 (ora, con prefazione di Carlo A. Madrignani, Roma, Lucarini

1989). De

Marchi,

peraltro, come

si ricorderà,

fu autore

pro-

grammaticamente inteso all’edizione a puntate dei suoi romanzi, anche del più rilevante, Demetrio Pianelli (in «L'Italia», con il titolo La bel-

la pigotta, nel 1888).

185)

na tenuta, appunto, in entrambi i significati dell’espressione, intesa cioè ad una funzione “larga” ma non «popolare» *. Le grandi

raccolte

di novelle,

alcuni

dei capolavori

della letteratura del periodo, Vita dei campi e le Novelle rusticane, Don Candeloro e C.i, quelle di Capuana e di De Roberto, le Storie di ogni colore di.Emilio De Marchi e le

Storielle vane di Camillo Boito, i Racconti di Fogazzaro, le novelle di D’ Annunzio e tutti i racconti di Gozzano,

le

Novelle per un anno di Pirandello, sono state scritte per questo sistema di riviste e quotidiani, per queste destinazioni editoriali. Come Serate d'inverno di Maria Antonietta Torriani, Piccole anime e Il romanzo della fanciulla di Matilde Serao, Chiaroscuro di Grazia Deledda, Così è di Evelina Cattermole, Le solitarie di Ada Negri, Voci della

notte di Anna Zuccari, Anime allo specchio di Amalia Guglielminetti, Le briciole del destino di Maria Messina’; mol-

8 Esemplari potrebbero essere «Le spighe», già primonovecentesche, dei Treves, che peraltro annoverano alcune delle raccolte qui citate anche sotto la “bugiarda” sigla della collana «Nuovi romanzi italiani», ma davvero numerose sono anche quelle ottocentesche, dalla «Biblioteca della letteratura contemporanea» di Triverio a Torino alla «Biblioteca popolare contemporanea» («Semprevivi») di Giannotta a Catania, dalla Milano della «Piccola Biblioteca Popolare» di Paolo Car-

rara e delle collane della Galli, di Cogliati, di Sanvito, di Baldini e Castoldi che stampavano la Marchesa Colombi, Neera, Matilde Serao, alla Firenze di Barbèra e della Successori Le Monnier e alla Rocca San

Casciano della Cappelli “di” Jolanda, dalla Napoli di Pierro alla Roma di Sommaruga e Perino o ancora alla Torino di Roux, eccetera. Non insignificanti furono in questa attività anche alcune figure di editrici, donne che le vicende famigliari portarono in primo piano in importanti aziende, come Giuditta Lampugnani (madre di Alessandro), come Virginia Tedeschi, Cordelia, moglie di Giuseppe Treves, come Luigia Cogliati Sanvito (si v. Una editrice e le sue ultime edizioni, di Grazia DE-

LEDDA, in «Roma letteraria», II, 17, 15 giugno 1894). ° Indico come bibliografie: Marie Gracieuse MARTIN GISTUCCI, L’@uvre romanesque de Matilde Serao, Grenoble, Presses Universitai-

14

te, molte altre, unite spesso in raccolte di fortunata vicenda editoriale, o solo di belle speranze; rimaste spesso — ma

è giusto rilevare che in questi casi si tratta generalmente di una produzione minore, di scarso interesse, di una scrittura, ahimè, femminilmente dilettantesca — disperse sulle pagine delle riviste. Di questa vastissima produzione che cosa è possibile leggere oggi? Alcuni testi sono stati riproposti, in buone edizioni. Sistematica la riproposta delle novelle di Ada Negri nell’ormai lontano, però, volume delle Prose, curato da Bianca Scalfi e Eugenio Bianchetti ed edito da Mondadori nel 1954; e sistematica è stata anche la recente riedizione del-

le novelle di Maria Messina realizzata da Sellerio: nel 1988, con il titolo Piccoli gorghi !°, l’editrice siciliana ha pubblicato la raccolta di Pettini — fini, 1909, Piccoli gorghi, appunto, 1911, Le briciole del destino, 1918; l’anno seguente,

res 1973; Eurialo DE MICHELIS, Bibliografia redatta in calce a Grazia Deledda e il decadentismo, Firenze, La Nuova Italia 1938; Elena CAZZULANI e Gilberto COLETTO (a cura di), Opere scelte di Ada NEGRI, Lo-

di, Edizioni Lodigraf 1988; Daniela CURTI, Bibliografia di Amalia Guglielminetti, in Marziano GUGLIELMINETTI, Amalia. La rivincita della femmina, Genova, Costa & Nolan 1987; A. ARSLAN, voce Neera, in AA. Vv., Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, Utet 1986; An-

na SANTORO e Francesca VEGLIONE, Catalogo della scrittura femminile italiana a stampa presente nei fondi librari della Biblioteca Nazio-

nale di Napoli, Napoli, Amministrazione Provinciale di Napoli - Centro per i Problemi dell’Educazione 1990; Emmanuelle GENEVOIS, B7bliographie des a@uvres de la Marchesa Colombi - Maria Antonietta Torriani - Amelia Lorrit - Torelli-Viollier, in «Chroniques Italiennes», XII,

46, 1996. !0 E un’Introduzione di Annie Messina. Due di questi testi, La Mèrica

e Nonna

Lidda,

erano

già stati riediti, presentati

da Leonardo

Sciascia, in AA. Vv., Partono i bastimenti, Milano, Mondadori

1980, e

altri tre, Casa paterna, Gli ospiti, L'ora che passa, avevano formato il volume Casa paterna, Palermo, Sellerio

1981, anch’esso con una No-

ta di Sciascia.

15

con il titolo Gente che passa, quella dei volumi // guinzaglio e Ragazze siciliane, del 1921. Due belle antologie, condotte sul filo di una rilettura critica delle scrittrici riproposte e delle loro pagine nel genere della novella, hanno realizzato Antonia Arslan e Anna Folli per l’opera di Neera, con Monastero e altri racconti, e di Ada‘Negri, con La Cacciatora e altri racconti, entrambe per i tipi di Scheiwiller, rispettivamente nel 1987 e nel 1988; // cuore tardo di Ama-

lia Guglielminetti è stata riproposta da Carlo A. Madrignani nel 1985 !!; La Messa a Psiche di Emma da Fabio Finotti

nel 1989 !2. Una riflessione specifica suggeriscono le novelle di Matilde Serao, e soprattutto di Grazia Deledda. Sono sta-

te, queste, autrici di ininterrotta considerazione nella nostra vicenda letteraria — ma Deledda ben più di Serao — cosicché loro testi vengono generalmente inseriti nelle collezioni di organico svolgimento della storia della letteratura italiana; ma non sono molte le riproposte di volumi di novelle. Francesco Bruni ha realizzato nel 1985, presso Liguori, l’accurata edizione di // romanzo della fanciulla e La virtù di Checchina ?3 di Matilde Serao; mentre è interessante rilevare che di Grazia Deledda, scrittrice i cui romanzi, am-

piamente e continuamente ristampati dalla Mondadori anche in una collana a larga diffusione come gli «Oscar», han-

no goduto e godono di un largo successo di lettura, la casa milanese per lungo tempo incaricata delle edizioni deleddiane non ha proposto singolarmente alcun volume di no-

LAPisaMBist !'? Abano Terme (Padova), Piovan.

!° Questa, forse la più conosciuta delle novelle di Serao, e certo una delle più note del periodo in esame, più volte ripresa, anche come volume: si v. Matilde SERAO, La virtù di Checchina, a cura di Natalia Ginz-

burg, Milano, Emme Edizioni 1974; La virtà di Checchina. Terno secco, Roma, E/o 1995; si v. anche O Giovannino

16

o la morte, ibid. 1995.

velle !*; solo recentemente, e altrove, sono stati riediti Chia-

roscuro e Il fanciullo nascosto 5. Una antologia specifica, infine, avevo proposto io, nel 1987, in una prima, “precaria” edizione di Novelle d’autrice tra Ottocento e Novecento *6; mentre un taglio storico diverso, con la scansione

secolare

dell’Ottocento, che nella seconda parte riguarda quindi il periodo in argomento, ha ritenuto di assumere Riccardo Reim nell’antologia di novelle Controcanto, pubblicata nel 1991 !.

!* Diverse raccolte di novelle sono accolte nei cinque volumi dei Romanzi e novelle, di “antica” fattura, pubblicati, a cura di Emilio Cecchi, Milano, Mondadori, tra 1941 e 1955, e poi 1969; mentre nella seconda silloge di Opere scelte, curata da Eurialo De Michelis nel 1964, in 2 voll., di contro a dieci romanzi, fu accolta una sola raccolta di novelle, Chiaroscuro,

1912. Nei due volumi di «I Meridiani» de-

dicati a Grazia DELEDDA, Romanzi e novelle e Romanzi sardi, curati, rispettivamente, da Natalino Sapegno, nel 1972, e da Vittorio Spinazzola, nel 1981, non si hanno che alcuni testi tratti da Chiaroscuro, e da Il fanciullo nascosto, 1916.

!î Entrambi a Nuoro, Il Maestrale

1994. Nel 1992, nel volumetto

titolato da Un grido nella notte, a cura di Francesco Iengo — Chieti, Solfanelli — sono state ripubblicate Un grido nella notte, appunto, Lo spirito della madre, La cerbiatta, La festa del Cristo, Il fanciullo nascosto; nel 1994 Bruno Rombi ha costituito con novelle tratte da raccolte o riviste e parti di romanzo il volume deleddiano Fiabe e leggende, Milano, Rusconi, e nello stesso anno Cristina Lavinio ha curato Bestiario.

Novelle scelte, Cagliari, Demos; nel 1995 sono usciti Ferro e fuoco. Racconti e novelle, Nuoro, Il Maestrale, Leggende sarde e Sangue sardo e altri racconti, Roma, Newton Compton, La volpe e altre novelle, Milano, Opportunity Book. 16 Padova, Nuova Vita.

!? Roma, Sovera. Una novella di Amalia GUGLIELMINETTI, La signora della «Quiete», presenta l’antologia curata da Giuliana Morandini, La voce che è in lei. Antologia della narrativa femminile italiana

tra ’800 e *900, Milano, Bompiani 1980; un novella di Elda GIANELLI, Fior che uccide,

e due di Evelina CATTERMOLE,

Un’ eredità e La vigi-

lia, l'antologia curata da Anna Santoro, Narratrici italiane dell’ Otto-

cento, Napoli, Federico & Ardia 1987, entrambe altrimenti formate su

Ie)

E questo, se ho ben visto, è (quasi) tutto. Il resto è sommerso; ed è molto. Del resto, si è detto, è molto vasta in generale tutta la

produzione di novelle e racconti di questo periodo; ma in essa, ritengo, la letteratura femminile si configura con ca-

ratteristiche peculiari rispetto alla coritemporanea letteratura d’autore, che non prescindono né dai modi né dalle linee

passi e brani tratti da romanzi e novelle; quattro novelle della CONTES-

sA LARA, Le prime bruciate, Su la fabbrica, La promessa, Miracolo di Natale, una di Matilde SERAO, Un suicidio (Julian Sorel), e una di Emma PERODI, La vedova De Carliis, sono nell’antologia “a tema” Novelle

della Roma umbertina, a cura di Anne Christine Faitrop Porta, Roma, Salerno Editrice 1992; una novella di Maria LOPEZ, Amore pazzo, è riedita, a cura di Mariarosa Masoero, nell’antologia // «genio muliebre». Percorsi di donne intellettuali fra Settecento e Novecento in Piemonte, Alessandria,

Edizioni

dell'Orso

1993.

Buona

attenzione

alle novelle

d’autrici dà anche l’ampia antologia curata da Gilberto Finzi per le Novelle italiane. L’Ottocento, Milano, Garzanti 1985, che ripropone Paolina di NEERA, Il vezzo di corallo di CONTESSA LARA, O Giovannino 0

la morte di Matilde SERAO, Botta e risposta di REGINA DI LUANTO, Cara speranza di LA MARCHESA COLOMBI (tutte — tranne il testo di Matilde Serao, della quale si inserisce invece Una fioraia, questa già nella citata edizione di Novelle d’autrice fra Ottocento e Novecento — riproposte poi nell’antologia Conirocanto); le ha fatto seguito Novelle italiane. Il Novecento,

Milano, Garzanti

1991, nella quale Finzi ha inse-

rito Lasciare o prendere? di Grazia DELEDDA e Cardiopalmo di Annie VIVANTI. Alcune tra le più “rare” novelle, infine, sono state riproposte in volumi antologici dedicati, appunto, alle riviste del tardo Ottocento: i “bozzetti” Voci delle cose e Gli spostati di Matilde SERAO sono in Cronaca Bizantina, a cura di Vincenzo Chiarenza, San Michele Arcangelo di Grazia DELEDDA è in La Riviera Ligure, a cura di Edoardo Villa e Pino Boero, Ritratto di donna, di nuovo di SERAO, in La Domenica Let-

teraria, a cura di Carlo A. Madrignani, Un bacio in cambio di una definizione, sottoscritto dal duplice pseudonimo di EMMA e PLEIADES (è pseudonimo di Paolo Mantegazza), Un bacio e Il bacio di Medea di Ida BACCINI in Fanfulla della Domenica, a cura di Antonia Arslan e Mariagrazia Raffele, Treviso, Canova, rispettivamente 1975 (i pimi due citati), 1978, 1981.

18

estetiche

proprie

del

periodo,

ma

ne

costituiscono,

se

sfrondiamo i casi di più banale epigonismo "5, utilizzi inediti, spesso davvero interessanti, con originalità di temi, dato che profondamente diversa è l’esperienza che sostanzia la letteratura, e profonda originalità di sguardo. Dunque, profondamente diversa è l’esperienza che sostanzia la letteratura, e ridotta è la tradizione in proprio sulla quale questa esperienza può contare: sono questi due fatti, molto lineari, di piana constatazione, due punti cardine, però, ritengo, nella configurazione di questa produzione. Spesso amiche o almeno conoscenti tra di loro !°, certo

!#* Quello dell’epigonismo è, ritengo, uno dei problemi critici più ingombranti, anche se certo non dei più difficili. «Letteratura femminile» può essere una categoria interpretativa farraginosa; a volte ha finito per porre l’accento sull’aggettivo a discapito del nome. Il rischio, e sarebbe profondamente insoddisfacente, è quello di fare un corpo unico di una produzione che ha invece, vista nell’insieme, forti aspetti di discontinuità, sulla quale deve essere svolto un profondo lavoro di va-

lutazione; tra i cui criteri, ritengo, debba assumersi anche quello della discriminante della letteratura di consumo, così precisamente esercitato peraltro in altri ambiti.

!° Di particolare interesse, in questa prospettiva, sono i carteggi tra le scrittrici, quali, ad es., quelli documentati dalle lettere conservate nel ricco archivio di Neera: si v. in particolare A. ARSLAN, Un'amicizia tra letterate: Vittoria Aganoor e Neera. (Con appendice di lettere), in «Quaderni veneti», IV, 8, 1988; A. ARSLAN, Tra Nord e Sud: un epistolario ritrovato, in AA. Vv., Album Serao, a cura di Donatella Trotta, Napoli, Fiorentino 1991, per il carteggio con Matilde Serao: della quale si v. anche il testo Ricordando Neera, Milano, Treves 1920; le lettere di Matilde Serao a Ida Baccini nel libro di questa La mia vita, Roma-Milano, Società Editrice Dante Alighieri 1904; Lettere di Matilde Serao a Olga Ossani Lodi (Febea), a cura di Anna Garofalo, in «Nuova Antologia», LKXXV, 1790, 1950; A. ARSLAN, // racconto del silenzio, in A. NEGRI, La Cacciatora e altri racconti, Milano, Scheiwiller

1988, per le lettere di Ada Negri a Neera; tracce dei rapporti di Sibilla Aleramo con Ada Negri, Matilde Serao, Amalia Guglielminetti sono nel volume Sibilla Aleramo e il suo tempo, a cura di Bruna Conti e Alba

19

lettrici l’una dell’altra, le scrittrici tra Otto e Novecento de-

vono anche affrontare il problema di una individuazione della loro scrittura,

posta com’è

nei fatti, ognuna

singolar-

mente a dover determinare — ma certo in parte non irrilevante, anche formare — i materiali, tematici stilistici linguistici, globalmente estetici, della sua letteratura. Insomma,

partecipi all’interno di una vicenda culturale che, per mantenere l’espressione usata, è sostanziata da un’esperienza coeva ma diversa, che ha, naturalmente, elaborato i mate-

riali letterari di quest’altra — contigua, vitale — esperienza, le scrittrici si trovano a far erompere nella letteratura significati inediti e, per questo, a lavorare materiali narrativi che contengono una condizione comune. Se ne rendevano conto anche i contemporanei, se tanto spesso i carteggi tra scrittrici e scrittori, direttori, editori, critici, che ci sono pervenuti fanno riferimento alla lettura, o alla richiesta del «punto di vista femminile» °°. Il

Morino, Milano, Feltrinelli 1981, che pubblica alcune loro lettere. La Marchesa Colombi, del resto, recensiva Neera (Vecchie catene) già nel

1878, in «Il Fanfulla», 22 gennaio 1878; Ida Baccini Fior di passione di Matilde

Serao, in «Fanfulla della Domenica»,

X, 48, 25 novembre

1888; Virginia Olper Monis // marito di Bruno Sperani, in «La Tavola rotonda», IV, 31-32, 29 luglio 1894; Gemma Ferruggia scriveva su Matilde Serao, studi e ricordi, in «Nuova Antologia», XXXV,

20, 16 ot-

tobre 1900; Clarice Tartufari su La poesia di Ada Negri, in «Nuova Antologia», XLVI, 9, 1° maggio 1911; Neera presentava nel 1906 Mario di Ines Castellani Fantoni (Milano, Baldini e Castoldi), nel 1914 le poesie L’occulto dramma

di Alda Rizzi (Milano, Treves); Ada Negri, con

una lettera — prefazione, Le briciole del destino di Maria Messina (Milano, Treves) nel 1918, mentre A Margherita Sarfatti aveva intitolato,

l’anno prima, la lettera — prefazione del suo Le solitarie — Milano, Treves; Jolanda dedicava già nel 1896 gli scritti critici di Da/ mio verziere — Rocca

San

Casciano

(Forlì), Cappelli

—- Ad E/da

Gianelli,

nel

1898 Le spose mistiche a Vittoria Aganoor; eccetera. °° Per i riferimenti bibliografici, si v. le voci sub 1. 7, nella Nota bibliografica di questo volume.

20

concetto è da intendere in modo decisamente più largo ed approfondito di quello schematizzante (e produttivo) che si sente emergere in diversi documenti critici e manageriali dell’epoca,

ma

certo

la convinzione

tardoottocentesca

e

primonovecentesca della peculiarità della scrittura letteraria delle scrittrici va confermata. E si tratta degli aspetti non contingenti, più propriamente culturali, che le scrittrici sentono e individuano nella professione letteraria. In questo senso la loro specificità è quella che emerge dalle loro opere, ed esiste solo in quanto nei testi raggiunge una intelligibilità espressiva che, come sempre avviene, è per al-

Aggiungiamo due elementi. Eva Cattermole — la scelta è solo esemplificativa — in «La Nuova Rassegna», I, 32, 27 agosto 1893, sotto il titolo Per la proprietà letteraria, e in forma di lettera al direttore Luigi Lodi, scriveva tra l’altro: «Il signor Ferdinando Bideri, editore a Napoli, non contento d’aver ristampato, alcuni mesi addietro e senza affatto interrogarmi, il mio primo volume di Versi in quattro volumettacci da due soldi, torna ora a ristamparlo in un volume

che vende per una

lira. Quando protestai per la prima pubblicazione, il Bideri mi rispose che faceva il comodo suo, e che della roba mia egli credeva di poter servirsi a suo bell’agio. [...]. Non potendo altro, io protesto per l’arte — giacché quel volume, pubblicato senza il mio permesso, contro ogni mio desiderio da un editore senza scrupoli, io, per conto mio, né l’avrei ripubblicato in quella forma, né l’avrei dato a ripubblicare al Bideri [...]». La stessa Contessa Lara, sulla stessa rivista, nel numero I, 24, 2 luglio 1893, nella stessa forma, sotto il titolo Per una novella (chiamata

in causa per La figlia del Professore, da poco ripresa dal «Corriere di Napoli»,

dove,

La figliuola

del Professore,

era

uscita

il 20 marzo

1888), scriveva: «Caro Lodi, Lafontaine, che era Lafontaine, si appropriò, senza scrupolo, ne’ suoi Contes, la più parte de’ soggetti del nostro Boccaccio; [...] Balzac ha tratta la tela e qualcos’altro de’ suoi Con-

tes drolatiques: dal Boccaccio, da Poggio, dalla Regina di Navarra, dalle Piacevoli noîti dello Straparola.

[...].. Che male, dunque, ci sarebbe

se io avessi rimaneggiato nella furia del lavoro quotidiano per i giornali, e senza, certo, nessuna intenzione di servirmene

in un volume, il

soggetto d’una vecchia novella francese? Ma le cose non istanno neanche così...».

9A|

cune compiuta, e ricca, e significante, mentre per altre rima-

ne scelta tematica e scelta stilistica che quasi solo a livello di storia letteraria appare degna di nota; senza dire poi che, anche questo come sempre avviene, ogni buon testo ha spessori e valenze proprie, e molteplici, che rimandano senz'altro a letture individuali. Vorrei che questo restasse confermato preventivamente. Ma certo, ribadite queste ovvietà, ritengo sia utile, in chiave storica, ma anche estetico interpretativa, come sfondo e piano di riferimento, rilevare che si configura nella più propria produzione di novelle delle scrittrici, grosso modo dell’ultimo ventennio dell’Ottocento e dei primi vent’anni del Novecento — poi, netta è la percezione di una virata, nei temi e nei modi —, una circolazione di temi, modi, situazioni

narrative anche, così insistita, per certi versi così serrata, da costituire, mi sembra, davvero uno specifico (sotto)sistema

culturale ?!, con i suoi significati perché con le sue ragioni.

2 È una — piccola — spia il riprodursi perfino di titoli uguali? Addio! scrive NEERA nel 1877 (Milano, Brigola), e Addio, amore! SERAO nel 1890 (Napoli, Giannini); // castigo luna nel 1881 (Milano, Ottino), Castigo l’altra nel 1893 (Torino, Casanova); Ne/ sogno l’una nel

1893 (Milano, Libreria Editrice Galli di C. Chiesa e F. Guindani), Ne/ sogno l’altra nel 1897 (è il testo di una conferenza: Firenze, Paggi). Paolina è una novella di NEERA in Iride, Milano, Ottino 1881, e Paolina è una novella di Paola DRIGO nella tarda raccolta La signorina Anna, Vicenza, Jacchìa 1932; anche Nora è una novella di NEERA, nella stessa raccolta, e Nora è un breve romanzo di Anna VERTUA, Milano,

Brigola 1888. Da/ vero è una raccolta di Matilde SERAO, Milano, Perussia

e Quadrio

1879, Dal vero è una raccolta di racconti per bam-

bini di LA MARCHESA COLOMBI, Milano, Hoepli 1884, e Da/ vero è una novella di Vittoria AGANOOR,

in «Roma letteraria», III, 19, 10 ottobre

1895; /n provincia è una novella di SERAO pubblicata appunto in Da/ vero, e In provincia è una novella della MARCHESA COLOMBI in Serate d'inverno, Venezia, Segré 1879; anche Apparenze è una novella di SERAO pubblicata in questa raccolta, e Apparenze è una novella della MARCHESA COLOMBI, in Racconti popolari, Milano, Paolo Carrara 1900; nel 1877 La MARCHESA COLOMBI inserisce Fiore d'arancio in

22

Seguendone la storia a grandi linee: ci sono le novelle di gusto scapigliato, di toni iperrealistici, che vanno non solo verso i colori del macabro, ma anche verso racconti umoristici paradossalmente e vagamente surreali, come l’esemplare Un velo bianco della Marchesa Colombi, in Scene nuziali”, del 1877, o, all’altro estremo cronologico, l’a-

Scene nuziali, Torino, Roux e Favale, nel 1913 Paola DRIGO Fiori d’arancio in La fortuna, Milano, Treves. Zingaresca pubblica Fanny MussinI,

Milano,

no, Quintieri

Dumolard

1891, Zingaresca Annie

VIVANTI, Mila-

1918. Andante appassionato e Allegro, ma non troppo

scrive Amalia GUGLIELMINETTI nel 1915 (in Anime allo specchio, Milano, Treves), Andantino appassionato TÉRÉSAH nel 1917 (in La casa

al sole, Milano, Treves), e Allegretto, ma non troppo nel 1920 (Milano, Sonzogno); Il nome e L'ospite sono, appunto nel 1915, nella stessa raccolta di GUGLIELMINETTI, /l nome aveva scritto Caterina PERCOTO (Novelle scelte, Milano, Carrara 1880), e L'ospite è una raccolta di

Grazia DELEDDA, Rocca San Casciano, Cappelli 1898; La porta chiusa e Le scarpe pubblica Grazia DELEDDA in Chiaroscuro (Milano, Treves 1912), La porta chiusa e Le scarpe Maria MESSINA in Le briciole del destino

(Milano, Treves

1918); Nella nebbia

intitola Beatrice

SPERAZ una sua raccolta del 1889 (Milano, Civelli), Nella nebbia Ada NEGRI una novella del 1917 (in Le solitarie, Milano, Treves); /ncon-

tro pubblica Elda GIANELLI

nel 1892 (Trieste, Tipografia Balestra),

L'incontro Ada NEGRI nel 1917 (in Le solitarie, Milano, Treves), /n-

contro Maria MESSINA nel 1921 (in // guinzaglio, Milano, Treves). Eccetera, eccetera.

2° Torino, Roux e Favale

1877; e in Serate d'inverno, Venezia, Se-

gré 1879; e vi va senz'altro affiancata la coeva Una lezione di lingua tedesca di NEERA, in Novelle gaje, Milano, Brigola 1879, anch’essa dedicata a giocare su «le vaporosità sentimentali», romantiche per giunta. L’equivoco di un fraintendimento sentimentale è alla base anche di Sic vos non nobis... della CONTESSA LARA, in Storie d'amore e di dolore, Casa Editrice Galli di C. Chiesa e F. Guindani 1893. E si v. poi, di Torriani, Cavar sangue da un muro, in Racconti di Natale, Milano, Paolo Carrara 1878, { morti parlano, in La cartella n.4, Cesena, Gargano 1880, o /l «curare», in Cara Speranza, Milano,

Chiesa-Omodei Zorini-Guindani 1896. Storia, tragica, della emarginazione persecutoria di un vecchio che alla fine, nella follia (ma con rea-

25

cuto Le due signore Derossi, di Teresa Ubertis, del 1921, in La piccola dama *. Ci sono le novelle di stampo e am-

listica ragione), vede letteralmente uscir sangue da un muro il primo; storia “meccanicamente” surreale il secondo, con il ladro smascherato dalla riproduzione fatta da un fonografo della voce del cadavere derubato: storia di una morte apparente il terzo, con lo spirito vivo imprigionato nel corpo incapace di muoversi e marmorizzato sul tavolo anatomico, sono, ritengo, testi significativi nel senso di una vicinanza di Maria Torriani ai modi dei racconti di Scapigliatura. Almeno assieme al racconto Un velo bianco, appunto, con la sua divertita ironia esercitata sui motivi della novella di stampo sentimentale, e fino all’uso — sotteso e netto — di un testo di Tarchetti, frammento di un romanzo che lo scrittore piemontese avrebbe dovuto scrivere con Eugenio Torelli Viollier, il marito della Torriani, edito da Salvatore Farina nella «Rivista minima di Scienze, Lettere ed Arti», V, 15 e 16, 1° e 15 agosto 1875 (si

legge ora in Igino Ugo TARCHETTI, Tutte le opere, a cura di Enrico Ghidetti, Bologna, Cappelli 1967, in Appendice II, con il titolo Pagine di romanzo) nel romanzo Prima morire, Napoli, Morano 1881. È possibile, del resto, individuare un indubbio contributo di que-

sto “sistema” d’autrici alla letteratura fantastica dell'Ottocento, come attestano

recenti

fantastici

dell'Ottocento,

antologie

del genere: a cura

Notturno

di Enrico

italiano.

Ghidetti,

Roma,

Racconti Editori

Riuniti 1984 accoglie Leggenda di Capodimonte, 1881, di Matilde SERAO; Racconti fantastici di scrittori veristi, a cura di Monica Farnetti, Milano, Mursia 1990, Barchetta-fantasma e Lu munaciello di Matilde

SERAO; Da uno spiraglio. Racconti neri e fantastici dell’ Ottocento italiano, a cura di Riccardo Reim, Roma, Newton Compton 1992, riprende Leggenda di Capodimonte di SERAO, e propone La locanda dell’ Orso, 1878, di Luisa SAREDO. Si v. inoltre Emma PERODI, La fidanzata dello scheletro, presentazione di Miriam Poloniato, Chieti, Solfanelli

1988, che ripubblica L'ombra del sire di Narbona e, appunto, La fidanzata dello scheletro, traendoli, racconti fantastici, da Le novelle della nonna, Firenze, Perino 1892 (riedite, Fiabe fantastiche, saggio introduttivo di Antonio Faeti, Torino, Einaudi 1974; con introduzione di Annamaria Andreoli, Roma, Newton Compton 1992), e la stessa, già citata, riproposta di Un grido nella notte di Grazia DELEDDA, Chieti, Solfanelli 1992. 2 Roma, Mondadori

1921. Non rarissima, ma è altra cosa, è anche

una sorridente ironia — più o meno anche autoironia — di stampo mondano, molto usata, ad es., da Annie Vivanti; oppure si v. Un’eredità del-

24

bientazione realistica, con esiti di vero e proprio epigonismo veristico, come quelle di Giselda Fojanesi, per esempio, in Cose che succedono, 1886 #, o di antica “memoria” come alcune delle Novelle umili di Grazia Mancini ”, o di

la CONTESSA LARA, in Così è, Torino, Triverio 1887; o Allegretto, ma non troppo di TÉRÉSAH, nella raccolta omonima, Milano, Sonzogno 1920. 2 Poi In Toscana e in Sicilia, Catania, Giannotta 1914 (ora: Catania, Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale 1993). Ma si v. an-

che, ad es., novelle “popolane” come // vezzo LARA, apparsa sulla «Cronaca bizantina» nel che il D’ Annunzio che nell’ 82 pubblicava di Terra vergine) e ripresa in Così è, Torino, distruttiva protagonista, «giovane lupa [...]: sto da ricordare quelle caratteristiche figure no gli amori, l’ardimento e i delitti de’ ribaldi

di corallo della CONTESSA 1883 (cui collaborava anda Sommaruga le novelle Triverio 1887, con la sua un insieme superbo e tridi femmine che dividevadelle nostre provincie me-

ridionali»; 0 // merciaiolo ambulante e La roba, di NEERA, in Voci della notte, Napoli, Pierro 1893, incentrate sull’amore alla roba, l’attac-

camento meschino a meschini interessi; o le novelle di Peztini-fini di Maria MEssINA, Palermo, Sandron 1909; oppure si valutino le ascendenze primoverghiane che si riconoscono in una novella di stampo mondano come Le prime bruciate della CONTESSA LARA, in Così è, Torino,

Triverio 1887; o quelle demarchiane sparse nella pur tanto dissimile Un suicidio (Julian Sorel) di SERAO, in Gli amanti, Milano, Treves

1894;

eccetera. Più volte ripresa, peraltro, anche la componente regionale: in raccolta: le Leggende napoletane di Matilde SERAO, Milano, Ottino 1881, i Racconti sardi di Grazia DELEDDA, Sassari, Dessì 1894, le Novelle

romagnole

di Eugenia

CODRONCHI

ARGELI,

Ancona,

Puccini

1912, eccetera.

? Catania,

Giannotta

1904:

si v. particolarmente

La signorina

Toujours e Cristina; o Nell’azzurro di Grazia DELEDDA, Milano-Roma, Trevisini 1890. È un campo, come si potrà immaginare, piuttosto fecondo quello della “sceneggiatura” — ma di narrativa in questi testi si tratta — di spunti a movimento autobiografico: dalle vicende che appartengono alla storia (risorgimentale), come ad es. Molti anni dopo di Matilde SERA0, in Donna Paola, Roma, Voghera 1897 (ma già, con altro titolo, in Fior di passione, Milano, Galli 1888), o Altri tempi di HAYDEE in Dal-

la vita, Rocca San Casciano, Cappelli 1898, a quelli della cronaca, generalmente personale: Annie VIVANTI in Zingaresca, Milano, Quintieri 1918, e in Gioia!, Firenze, Bemporad 1921, incornicia spesso le sue di-

25

patetica, dolorosa presa: tra le non poche, si vedano, ancora nel 1918, Codino *, di Paola Drigo, o, del 1878, Carmen”, della Colombi, Luciuzza della Messina, 1921 ’*8. Ma

anche con realizzazioni nelle quali l’invenzione di “realtà” minute e oscure dà vita a una scrittura volutamente antiretorica e tangibile come quella della Marchesa

vertite novelle nelle forme di un incontro amicale (si v. particolarmente Lo «scoop»: il trionfo giornalistico di Gladys nella prima raccolta, e Notte di Vigilia nella seconda); come, in altro, doloroso tono, e si tratta di un incontro occasionale, nell’anonimato di un grande albergo in una città straniera, fa Ada NEGRI nei racconti Un rimorso e Gelosia, in Le solitarie, Milano, Treves

1917 (vi si v. anche L'assoluto e Clara Wal-

ser); abbrivio uguale anche in La falena e il lume di Amalia GUGLIELMINETTI, in Anime allo specchio, Milano, Treves 1915, mentre la figura di una lunga conoscenza è protagonista in Una cicala di NEERA, in Fiori, Firenze, Salani 1921. Grazia Deledda, su questa linea, spesso da lei ribadita, inserisce, specie nelle prime raccolte, la dimensione folclorica,

che regge, a lungo, i suoi esordi letterari («Vicino ad uno dei più pjttoreschi villaggi del Nuorese, noi abbiamo un podere coltivato da una famiglia dello stesso villaggio. Il capo di questa famiglia, già vecchio, ma ancora forte e vigoroso... viene ogni tanto a Nuoro... e ogni volta ci racconta bizzarre storie che sembrano leggende...»); ecc. Peraltro le leggende della tradizione popolare, a volte anch’esse offerte nella cornice della memoria, storie che si sono sentite raccontare dai vecchi, possono costituire di per sé una ragione narrativa: si v. in particolare la produzione di Maria LOPEZ, raccolte come Leggende delle Alpi, o Leggende del mare, Torino, Loescher, rispettivamente 1889 e 1894 (queste riedite: Sala Bologese (Bologna), Forni 1980; a cura di Antonino Buttitta e Salvatore Mazzarella, Palermo, Sellerio 1995), altre.

26 In Codino, Milano, Treves

1918.

2? In prima edizione, a puntate in appendice ad un quotidiano: in «La Perseveranza», 9, 10, 11 aprile 1878; poi nei Racconti di Natale,

Milano, Treves 1878. È interessante che questo nome, così simbolicamente determinato nella vicenda letteraria d’autore dell'Ottocento (da v. senz’altro la Carmen di VERGA, in / ricordi del Capitano d’ Arce, Mi-

lano, Treves 1891), cogente, sia in questa scrittura d’autrice — polemicamente? — quello di una tenerissima bambina. 2 In Ragazze siciliane, Firenze, Le Monnier

26

1921.

Colombi,

o di irrisolta cupezza,

come

quella di Carola

Prosperi, o delle novelle realistiche della Contessa Lara o di Paola Drigo, o di intima liricità e di corale quadro d’ambiente come è in Matilde Serao. C’è il realismo sospeso tra quotidianità e tragicità di Ada Negri, quello dedicato ai suoi «vinti» da Maria Messina, gente senza epopea, piccoli protagonisti di drammi che non fanno rumore, quello irridente eppure cordiale di alcuni racconti di Térésah. Da Maria Torriani, a certo periodo della scrittura di

Neera e di Serao, della stessa Negri, di Grazia Deledda, di Maria Messina, di “minori” come Carola Prosperi o Clarice Tartufari o Térésah appunto, anche Emilia Ferretti o Paola Drigo, le autrici individuano infatti all’interno del realismo ultimo ottocentesco °° le ragioni narrative ed estetiche per il racconto delle vite senza storia, quotidiane, oscure,

2° Presente anche il racconto ‘a tranche de vie”, d’ambientazione rigorosamente legata ai piccoli mondi popolari o piccolo borghese di grigi quartieri cittadini, o di avide campagne, non raramente racconti «giudiziari», come d’uso: si possono v., ad es., Raffaele e Dopo la sentenza di Beatrice SPERAZ, l’uno in Sotto l'incubo, Cesena, Gargano 1881, l’altro in «La Tribuna illustrata», VI, 8, agotso 1893; La vedova de Car-

liis di Emma

PERODI,

in Spostati. Scene della vita, Milano, Treves

1887; Tra i contadini, Su la fabbrica e Il vezzo di corallo di Eva CAT-

TERMOLE, la prima in «Gazzetta letteraria», XVII, 17, 29 aprile 1893, la seconda in Storie d'amore e di dolore, Milano, Casa Editrice Galli di C. Chiesa e F. Guindani 1893, la terza in Così è, Torino, Triverio 1887; Angelica e La roba di Anna ZUCCARI, in Voci della notte, Napoli, Pierro 1893; Miserie borghesi di Virginia OLPER MONIS, in Racconti veneziani e novelle sentimentali, Milano, Casa Editrice Galli di C. Chiesa e F. Guindani 1893; anche il più tardo, e già modificato, Anima

bianca di Ada NEGRI, in Le solitarie, Milano, Treves 1917; anche le pur particolari La moglie e La veste del vedovo di Grazia DELEDDA, rispettivamente in Chiaroscuro, Milano, Treves 1912, e in // fanciullo nascosto, Milano, Treves

1916; anche, ma più raro, non a tranche de vie,

«giudiziario» su uno sfondo aristocratico, Dopo il verdetto di Eugenia CODRONCHI, in L'onore, Rocca San Casciano, Cappelli 1914; eccetera.

27

soffocate

anche, qualche

volta violentemente,

o coperta-

mente, ferite, nelle quali si individua l’esperienza — letteraria — femminile 3; vite disattese, sfiorite e inadeguate an-

che, com’è ad esempio nei racconti di Negri o di Messina o di Prosperi, a sostenere già pienamente il primo Novecento; anche in toni e sensibilità dichiaratamente crepuscolari, come

in certi testi di Teresa Ubertis *!.

E poi c’è il grande campo della novella intessuta di psicologismo, di ambientazione

e di décor spesso decadenti:

Contessa Lara, Guglielminetti; anche alcuni dei rari testi in prosa di Vittoria Aganoor; o, in un senso carico di inconsa-

pevole ambiguità, e non sradicato, Jolanda, che dedica un’intera raccolta, Le spose mistiche *, a identificare l’i-

3° È l’ambito tematico al quale si rivolgono, se ho visto bene, anche il maggior numero delle novelle d’autrice che hanno figure d’uomini come protagonisti; accanto ad alcune figure d’uomini che soffrono, abbandonati o traditi, disillusioni d’amore.

ì! Addirittura costitutivi i richiami gozzaniani di una novella come Pietro e Maria, in TÉRÉSAH, // corpo e l'ombra, Milano, Treves

1911;

oppure si v. il tema del tempo e dell’attesa in Tardi di Carola PROSPERI, in La profezia e altre novelle, Torino, Lattes 1907. Una sua crepuscolare individualità invece ha il tema della vecchia signora di La giovinezza, nella citata raccolta di Térésah, che a «settant'anni [...] seguitava a chiamarsi

la signora Ninì, senza che alcuno trovasse a ridirvi e

senza che il lieve vezzeggiativo gettasse la minima ombra di ridicolo sulla vecchietta ancora bionda, ancora elegante, ancor civettuola, che

lo portava da mezzo secolo, più quattro lustri». E si v. anche La Nonna di NEERA, in «Il Marzocco», XIII, 19, 10 maggio 1908 (e nella raccolta postuma Fiori, Firenze, Salani 1921), e Gli occhiali e Vecchio wal-

zer, in La sottana del diavolo, Milano, Treves 1912. Di lì a poco, negli anni Venti, in Ada Negri, in Maria Messina..., diventerà il tema della vita che sarebbe potuta essere, e non è stata.

® Rocca San Casciano, Cappelli 1897. Riprendeva il titolo (ed alcune suggestioni) del primo volume di poesie di Angiolo Orvieto, La Sposa Mistica e altri versi (1890-1892), Roma-Firenze-Torino,

Bocca

1893; e in effetti sull’orvietano «Marzocco» trovò — critica — attenzio-

28

dealità con un continuo, interminabile vagheggiamento dell’amore, che solo in quanto non ha concretezza ha la pretesa di dirsi ideale *. Il volume porta in epigrafe una frase di Neera, tratta da Anima sola, che recita: «Conosci tu la gioia, / La malinconica gioia / Del n0?», buona epigrafe anche per noi, a richiamare i toni recessivi, non raramente ci-

miteriali, spesso fortemente crepuscolari, della poesia, e della narrativa, simbolista # femminile di fine secolo, con le sue ragioni di assenza — annullamento, affermazione at-

ne: si v. GaJO [Adolfo ORVIETO], Donne letterate e spose mistiche, in «Il Marzocco», II, 47, 26 dicembre 1897 (dove si legge, tra l’altro: «La [...] raccolta pecca a/ solito per innegabile prolissità. Due casi o tre di questa curiosa malattia, che è la gioia del no, potevano interessare molto: ma tutta una serie, ma un’intera corsia di ospedale era destinata fatalmente ad apparire alquanto monotona. [...]. Né mancano nel libro le pagine soavemente femminili nel buono e nel vero senso della parola, quelle pagine cioè dove gli affetti e i sentimenti più delicati assumono le forme più squisitamente gentili», corsivo mio). Si può v. anche Acacia di Matilde SERAO, in Dal vero, Milano, Perussia e Quadrio 1879; o anche Duello di Beatrice SPERAZ, in «Gazzetta letteraria»,

XVIII, 38, 22 settembre 1894, nel quale non una rinuncia ma l’allontanamento è operato dalla donna per poter assumere valore nel pensiero di lui.

33 E si cfr. il rovesciamento, solo in parte ironico, del tema in Un romantico di Teresa UBERTIS, in La casa al sole, Milano, Treves

lui rimane mantico

legato e tutto sacrifica all’amore

nome

di Enrichetta, li vive entrambi:

1917:

impossibile, lei, dal rol’amore disperato effu-

sivo e impossibile nelle lettere che scrive a lui “esiliatosi”” in Cina, e quello appagato e sereno con il marito, felice elegante moglie borghese e madre di quattro figli; oppure, ma siamo già in un’altra temperie culturale, il gustoso, programmatico ribaltamento operatone in A/legretto, ma non troppo, sempre di TÉRÉsAH,

3 D’obbligo per l’individuazione

Milano, Sonzogno

1920.

di una linea simbolista

nella

narrativa d’autrice la citazione di La messa a Psiche di EMMA, Città di Castello, Lapi 1892, e di Ne/ sogno e Anima sola di NEERA, Milano, Libreria Editrice Galli di C. Chiesa e F. Guindani, 1893 il primo, 1894 il secondo.

29

traverso il segno in negativo (e nella dimensione onirica), o rinuncia che sia. Ha molti toni, del resto, il tema del va-

gheggiamento d’amore: in L’ombra sul muro di Térésah ®, 1911, la fanciulla con il volto sfigurato dalla malattia si autoreclude nella casa alta sui tetti e si innamora dell’ombra dell’inquilino dirimpetto, indegno nella “realtà”, morendo-

ne d’amore, essa stessa coperta ombra cui «piaceva immaginare che realmente l’ombra sul muro amasse quell’altra ombra mobile e viva, animata dal desiderio assiduo di lui». Anche i temi, infatti, si dispongono a formare un’im-

magine del periodo, con articolazione però non sempre coincidente con quella stilistica. Certo ci sono testi fortemente individuali; ma più spesso, forse, si danno elemen-

ti ricorrenti, a volte anche con frequenza molto alta. Primo fra tutti la scelta come protagoniste di figure femminili. Pur se non solo, in grande parte però, tanto grande da essere specificamente significativa (e perciò qui privilegiata), queste novelle raccontano

storie di donne, a tutte

le età. Bambine: e anzi sono numerose le storie di bambini — spesso bambini poveri e sofferenti, come le piccole protagoniste di Una fioraia e Canituccia di Matilde Se-

® Nella raccolta // corpo e l’ombra, Milano, Treves 1911. Il motivo del volto sfigurato, dalla malattia o da una ferita, è fondamentale anche in Nella nebbia di Ada NEGRI, in Le solitarie, Milano, Treves 1917, e in La verità, di Amalia GUGLIELMINETTI, in Le ore inutili, Milano, Treves 1919, novella «di guerra» curiosamente omologa — si trat-

terebbe dell’utilizzo da parte dei due autori dello stesso spunto di cronaca — a Gli occhi dell'anima di Guido Gozzano, in L'ultima traccia, Milano, Treves 1919. E si v. poi anche, a proposito “d’ombre”, il singolare gioco di specchi, di proiezioni, di La gabbia aperta di Carola PROSPERI, in / lillà sono fioriti, Milano, Treves

1921.

Ripreso più volte anche da Ida FINZI (Aidea / Haydée), il tema della rinuncia, soprattutto nella sua prima produzione: si v. ad es. Un testamento, in «L’Illustrazione italiana», XVI, 47, 6 novembre

30

1887.

rao °°, quella di Miracolo di Natale della Contessa Lara, in Storie di Natale”, o di I saltimbanchi della stessa rac-

colta, dove dei piccoli Azalea di 1888, o in Térésah,

s’incontra un’altra situazione ripetuta, quella «artisti» girovaghi, o del circo, come anche in Memini, in Un tramonto e altri racconti *8, La piccola dama * dell’omonima raccolta di

1921, i molti bambini di Novelle e poemetti * di

Haydée, 1895, o di La profezia e altre novelle*' di Carola Prosperi, 1907, la protagonista di // fermaglio di Gra-

3° In Piccole anime, Roma, Sommaruga

1883; o si v. Nicoletta, in

La vita è così lunga!, Milano, Treves 1918. In Piccole anime — come anche altrove: si v. in particolare Mosaico di fanciulle, in Pagina az-

zurra, Milano, Quadrio 1883 — viene più volte usato da Serao il ‘“genere” del racconto come serie di ritratti, brevi e proposti «da/ vero», non inseriti o funzionali a una trama, cioè; o, al contrario, in Apparenze, in Dal vero, Milano, Perussia e Quadrio

1879, la trama costruita sul con-

trasto dei ritratti; da v. a questo proposito anche Anime in maschera di Eugenia CODRONCHI,

in Qui non si trova!, Milano, Treves

1920. Da una

dualità oppositiva sembra anche prendere avvio l’inquieto tema delle sorelle rivali, per il quale si possono v. Nora di NEERA, in /ride, Milano,

Ottino 1881; In famiglia di Eva CATTERMOLE, in Novelle, Napoli, Bideri 1914; Libeccio di Grazia DELEDDA, in Chiaroscuro, Milano, Treves 1912; Un lampo nella notte di Carola PROSPERI, in / lillà sono fioriti, Milano, Treves 1921, particolarmente significativa, specie di riscrittura novecentesca, ma dal versante femminile, della verghiana // canarino del n. 15, di Per le vie; Luci e specchi di Clarice TARTUFARI, in «Nuova Antologia», LVI, 21, 1° novembre 1921 e LVII, 3, 1° febbraio

19223 3 Rocca San Casciano, Cappelli 1897. 38 Milano, Galli 1888; si v. anche MEMINI, Racconti, Milano, Dumolard 1884. 3 Roma, Mondadori

1921; vi si v. anche La domenica di Marta.

4 Torino-Roma, Roux e Frassati 1895; della FINZI, su questa linea si v. anche Serata d'addio, in Dalla vita, Rocca San Casciano, Cappelli

1898. 4 Torino, Lattes

1907.

Sil

zia Deledda, in / giuochi della vita *, 1905, ecc. — attra-

verso le quali si potrebbe compiere un autonomo percorso di lettura che dovrebbe dare esiti interessanti #*; bambine, si diceva, ragazze, donne già vecchie #, ma certo uno

spazio preponderante lo hanno le figure di mogli, di donne nel matrimonio, dopo la sospensione del fidanzamento, in un’età mai precisata che le lascia però sentire tutte giovani, inquiete. Le figure maschili che stanno loro accanto appaiono nella maggioranza negative; spesso anzi la novella è un racconto d’amore che è però prima di tutto un racconto di delusione e fallimento: gli uomini vi sono falsi, insensibili, dispotici4°. Dalla presenza maschile,

4 Milano, Treves

1905.

4 Si tenga presente a questo proposito che non poche delle scrittrici tra Otto e Novecento sono — anche — scrittrici di racconti per bambini. 4 Si v. la nota 31. In La Rosona di Eva CATTERMOLE, in Storie d' amore e di dolore, Milano, Casa Editrice Galli di C. Chiesa e F. Guin-

dani 1893, argomento unico del racconto è una — non frequente (e infatti l’autrice la fa precipitare in un finale ad effetto) — figura di vecchia contadina, «ruvida e solitaria».

4 Rilevante il tema della sudditanza economica; rimando in particolare, oltre alla nota La virtù di Checchina

di Matilde

SERAO, Ca-

tania, Giannotta 1884, a Casa paterna di Maria MESSINA, in Le briciole del destino, Milano, Treves 1918, e a Una donna di casa e Una crisi di Carola PROSPERI, in Vocazioni, Milano, Treves 1919. In Grazia DELEDDA, invece, particolarmente nei racconti di Chiaroscuro, Milano,

Treves 1912, non è rara la condizione opposta, l’amministrazione della casa — contadina — in mano alla padrona; ma si v. che cosa diventa quest’ultimo tema, corruzione del cuore, in Le leggi della natura di Eugenia CODRONCHI ARGELI, in L'onore, Rocca San Casciano, Cappelli 1914. In Nella piccola vita di Elda GIANELLI,

in «Nuova Antologia»,

XLIII, 8, 16 aprile 1908, la protagonista, impiegata per la contabilità in un magazzino, rompe il fidanzamento con il giovane che era decisa a sposare perché lui è, secondo lei, un debole amministratore del denaro comune.

52

dalla quale e per la quale sono state e si sono plasmate, le protagoniste aspettano tutto, e sempre sono deluse dagli uomini “reali” che sono loro vicini, i quali del resto non le rispettano e non le sentono accanto a sé: queste scrittrici mettono in scena la subordinazione delle loro protagoniste, la padronanza degli uomini. Ci sono

anche,

riprese, nelle raccolte

di Amalia

Gu-

glielminetti ‘, ma anche nelle pieghe della scrittura fin de siècle, storie di adulteri, donne bellissime e di estenuata ele-

ganza che tradiscono il marito con giovani uomini del bel mondo, o di donne sole‘ con fascinosi amanti, ma anche qui, nei testi del dannunzianesimo che richiamano, i toni

come

sovraccarichi di sete e gingilli non sciolgono il sostanziale squallore, e queste donne sono comunque perdenti, oggetti di lusso — si veda la vicenda di // ritratto a pastello in Le ore inutili * di Amalia Guglielminetti, per un buon esempio narrativo — a livello dei quali esse stesse paiono porsi; smarrita, pare, l’indignata volontà di richiedere valore. Me-

glio allora la lettura realistica del tema, la fondamentale amarezza che pervade L'appuntamento di Ada Negri ‘°, co-

Non numerosissimi, ma presenti comunque anche i quadri d’ambiente famigliare, marito e moglie, pianamente quotidiani, in fondo sereni: si può v., ad es., La montagnola

di Grazia DELEDDA,

in «La Ri-

viera ligure», VII, 32, 1901.

4 Se ne v. soprattutto il tardo La porta della gioia, Milano, Vitagliano 1920; e più che la novella eponima, vi si v. Lettere d'amore, con il suo moltiplicato intrigo. 47 Non raramente donne rimaste sole dopo la separazione conseguita a un matrimonio fallito; a una giovane donna approdata ad una di queste solitudini, e al suo difficile rapporto con la società aveva dedicato una novella, // licof, già Caterina PERCOTO:

cfr. Novelle scelte, Milano,

Carrara 1880.

4 Milano, Treves 1919. 4° In Le solitarie, Milano, Treves

1917.

33

sì simile nella situazione — ma non nel nucleo figurativo, al disarmato — e noto — racconto di Matilde Serao La virtà di Checchina*%, del 1884.

È uno degli aspetti più tangibili di questa produzione, questo della presenza di situazioni e di figure che tornano e circolano tra queste scrittrici e che danno alla loro narrativa — pur nell’individualità di ognuna, anche di ideali propri, talora addirittura opposti — il sapore di una ragionata contiguità. Situazioni e figure, dicevo, che con il loro ritornare rendono evidente come questa narrativa sia anche orientata a sentire o a far sentire le sue singole storie come parte di un discorso più vasto, quello che già alla fine del secolo scorso si chiamava «sulla condizione femminile» (date già per scontate, naturalmente, le ragioni e le implicazioni da sistema semiotico, e da pura occasione imitativa, che ci sono nella ripresa di temi e motivi). Così ci sono molte figure, e con esse motivi, ricorrenti.

Quello della fanciulla che si avvicina al matrimonio trepidante e tenera, turbata dall’imminente intimità con un uomo che le è di fatto estraneo, e di contro l’assuefazione disincantata di lui alle avventure galanti; della fanciulla —

50 Catania, Giannotta

1884. È una situazione lungamente ripresa,

come noto, colpa, passione e dramma, anche da Grazia DELEDDA: Si v. in particolare Libeccio, in Chiaroscuro, Milano, Treves 1912, e, appunto, Dramma, in Il fanciullo nascosto, Milano, Treves 1916; mentre in Triangolo di Eugenia CODRONCHI, in L'onore, Rocca San Casciano, Cap-

pelli 1914, l’adulterio della — fatua — protagonista è tanto in rapporto con la volontà di trasgressione, «pericolo, ribellione

e menzogna»,

che

solo per essi si motiva; tutt’altro che rara, comunque, la fatuità sociale: si possono v. anche — almeno — Apertura di caccia di Eva CATTERMOLE, in Così è, Torino, Triverio 1887, e Tango di Paola DRIGO, in Codino, Treves 1918.

° Un racconto paradigmatico per questo tema è La vigilia di Evelina Cattermole, in CONTESSA LARA, Novelle, Napoli, Bideri 1914; si v.

poi anche L'indomani di Neera, Milano, Galli 1889; 0, sempre dalla pro-

34

e sono tra le novelle più corali, nelle quali maggiormente si intrecciano voci femminili, madri zie sorelle, con le vo-

ci dei padri — posta al centro della ricerca del buon matrimonio, della sistemazione programmata su criteri di con-

venienza”.

spettiva della progressiva “scoperta” della giovane donna già moglie, La moglie di un grand’uomo di Matilde SERAO, in Dal vero, Milano, Perussia e Quadrio 1879, o le più tarde La malattia e La moglie ingenua nella raccolta di Anita DE DONATO, Donne di mare, Milano, Treves 1919. Un ribaltamento sarcastico il racconto di Cattermole pare avere in L'erede di Amalia GUGLIELMINETTI, in La porta della gioia, Milano, Vitagliano 1920; non sarcastico, ma fermo e forte in /n porto di Carola PROSPERI, in / lillà sono fioriti, Milano, Treves 1921. La tenerezza è — può essere — nel mondo popolare: si v. /n sartu (Nell’ovile)

di Grazia

DELEDDA,

in Racconti

sardi,

Sassari,

Dessì

1894, il migliore di questi racconti giovanili; vi si v. anche // padre. Ma in Q0 Giovannino o la morte di Matilde SERAO — in All’erta sentinella!, Milano, Treves 1889 — il motivo si incupisce nel dramma di un sordido interesse, nel fidanzato che tresca con la ricca matrigna usuraia; da

v. anche, di SERAO, l’antecedente Figliastra, in «La Domenica letteraria», II, 23, 10 giugno 1883; o la vicenda “a tre” di Duetto di salone, in Fior di passione, Milano, Galli 1888; anche in Dopo il «No!» di Adelaide BERNARDINI, in La signora vita e la signora morte..., Milano, Tre-

ves 1920, l’opposizione tra l’appassionata, donna d’avventura culmina in tragedia.

splendida fidanzata e la

5 È un tema dalle angolazioni molteplici:

i matrimoni combina-

ti, la corte alla fanciulla ereditiera, le figlie difficili da accasare, le ra-

gazze sognanti, la ragazza senza dote, la convenienza economica della famiglia paterna decaduta, in ambito popolare: della famiglia paterna miserabile o squallidamente occhieggiante alla roba (a volte, come in Verga, al prezzo di qualunque, coperta, degradazione), le donne non più giovani da usare nel governo della casa; financo — nella

novella di rinvigorire cazioni la cendo leva

Drigo — la giovane contadina data al rampollo nobile per il sangue dell’antica casata; in quella della Prosperi di Voragazza non più giovanissima cercata dalla “suocera” fasulla sua solitudine e sul suo desiderio di famiglia per dar-

le, tacendo, il figlio che «beve»;

in quella di Neera la forte zitellona

«senza garbo né stampo» che arriva ad un matrimonio di ragione per la passione di maternità: si possono v. Un matrimonio di convenien-

35

Quello della giovane donna in costante soggezione davanti ad un marito al quale si sente sottoposta; della giovane donna tutta dedita in un amore sognante e incantato ad un marito che la tradisce abitualmente; della giova-

ne donna che cerca un amante come evasione dalla prosaicità 5 o dalla delusione di un matrimonio non voluto, o che non si è saputo vivere, trasferendo lè proprie attese vitali, puntualmente enfatizzate da una volontà di fuga nel sogno — anche nel romanzo — che non ha consapevolezza di sé, su un uomo nuovo, che nelle novelle del

za di Luisa SAREDO,

in Racconti,

Firenze,

Successori

Le Monnier

1878; Marianna di Fanny MuSSINI, in «Fanfulla della Domenica»,

IX,

44, 6 novembre 1887; Incontro di Elda GIANELLI, Trieste, Tipografia Balestra 1892; Don Evéno di Grazia DELEDDA, in L'ospite, Rocca San Casciano, Cappelli 1898, o A/fresco, in «Fanfulla della Domenica», XXX, 52, 27 dicembre 1908, o Le tredici uova e La porta chiusa, in Chiaroscuro, Milano, Treves 1912, o ancora // voto, in // fanciullo nascosto, Milano, Treves

1916; Un bel caso di Anna ZUCCARI, in La sot-

tana del diavolo, Milano, Treves 1912; La fortuna di Paola DRIGO, eponima alla raccolta, Milano, Treves 1913; Naufraghi e I lillà sono fioriti di Carola PROSPERI, rispettivamente in Vocazioni e, appunto, in I lillà sono fioriti, Milano, Treves 1919, e 1921; La fontana del mistero di Clarice TARTUFARI, in «Nuova Antologia», LIV, 13, 1° luglio 1919; Camilla

e Il telaio di Caterina

siciliane, Firenze, Le Monnier

di Maria MESSINA,

in Ragazze

1921; eccetera.

% Non è raro, seppure non singolarmente trattato, il tema della noia, inteso come indifferenza del marito, assenza di fantasia, spegnimento nel possesso della dolcezza sentimentale dell’innamorato; per una sorta di “teorizzazione” del tema si può v. Lo specchio della giovinezza di TÉERÉSAH in Allegretto, ma non troppo, Milano, Sonzogno 1920. Esiste, più rara, anche la situazione ribaltata: in A quarantacinque anni di Emi-

lia FERRETTI, in «Nuova Antologia», IX, 1 e 2, gennaio e febbraio 1874, è il marito «giovane entusiasta e ardente», e lei «donna di mente fredda, mediocre, ordinatissima; era nata buona massaia, sposa docile, fe-

dele, severa»: pratica e prosastica insomma (ma con la nostalgia del sogno). Contiguo (e diverso) il tema del corteggiamento galante, “di so-

cietà”: si v. Amicizia, della CONTESSA LARA, in «Fanfulla della Domenica», X, 13, 25 marzo 1888.

36

realismo si rivela più squallido del marito, in quelle decadenti, fatuo 5.

Ci sono — ma non numerosissime, tutto sommato; e ancorate a una ripetuta nota dolente di ridotta individualità — le figure delle madri, viste soprattutto in situazioni dram-

matiche — e a volte segnate di patetismo: dolenti madri di bambini

affamati:

La promessa

della

Contessa

Lara,

in

Storie di Natale, il già citato Codino, di Paola Drigo, la fa-

mosa, ed “antica”, La donna di Osopo ©, di Caterina Per-

coto, prototipo al “genere”; o vecchie madri viste accanto ai figli nel momento

della tragedia °°, della malattia, della

% Questi sono proprio temi diffusissimi, si potrebbe dire costituenti il “sistema”, tanto che per essi si ritiene di ripetere solo indicazioni esemplari: si v., quindi, Un lampo nella notte e L’insetto e la rosa di Carola PROSPERI, in / lillà sono fioriti, Milano, Treves 1921; Dal vero di Vittoria AGANOOR, in «Roma letteraria», III, 19, 10 ottobre 1895; La

virtù di Checchina di Matilde SERAO, Catania, Giannotta 1884 e L’appuntamento di Ada NEGRI, in Le solitarie, Milano, Treves 1917; Il ritratto a pastello di Amalia GUGLIELMINETTI, in Le ore inutili, Milano,

Treves 1919. 55 In Racconti, Firenze, Le Monnier

1858; si legga ora, accompa-

gnata da un’acuta introduzione di Grazia Livi, in AA. Vv., Le stanze ritrovate. Antologia di scrittrici venete dal Quattrocento al Novecento, a cura di A. Arslan, Adriana Chemello, Gilberto Pizzamiglio, Mirano-Venezia, Eidos 1991. Di CONTESSA LARA si v. anche Una madre, in

«Gazzetta letteraria», XVI, 3, 16 gennaio 1892.

5 Esemplare L’intrusa, di Amalia GUGLIELMINETTI, in Le ore inutili, Milano, Treves

1919: le due donne del bel giovane morente, la ma-

dre e la moglie; da v. anche, almeno, in tutt'altra prospettiva, pacificante, Le rose del Natale di Evelina CATTERMOLE,

in Storie di Natale, Rocca

San Casciano, Cappelli 1897; o, ancora a tutto tondo, nella tragedia, la figura della madre protagonista di Le sette spade di Clarice TTARTUFARI, in // giardino incantato, Roma, Armani e Stein 1912. Nella potente Una

crisi di Carola PROSPERI, in Vocazioni, Milano, Treves 1919, la situazione è rovesciata ed è il figlio ragazzino a farsi carico del dolore della madre (abbandonata dal marito); ma della PROSPERI si v. anche la figura della giovane balia di Conforti, in I lillà sono fioriti, Milano, Treves 1921.

37

morte, della colpa di questi. Oppure il tema è trattato dall’angolazione figliale, e si fa difficile: bimbe, come

men

della Colombi,

o qualcosa

di più, fanciulle

Car-

come

Paolina”, di Neera, come Titina, in La bimba **, di Messina, incantate dalla bellezza della- madre (nel caso del

racconto neeriano della matrigna) °°, proiezione nell’età adulta, immagine del proprio destino di donna, rivale °°. E poi c’è il motivo della donna che lavora. Qualche rara operaia °!, la modista, la sartina, la fine ricamatrice di bian-

5? In Zride, Milano, Ottino

1881.

58 In // guinzaglio, Milano, Treves 1921.

5° Ma non manca la prospettiva della forte complicità della madre con il bimbo piccolo che “esclude” il padre; o che la ripaga del disamore del marito: cfr. Lippy e la già citata La malattia di Anita DE DoNATO, in Donne di mare, Milano, Treves 1919. “Complicità” che ha ac-

centi indubbiamente singolari in Fior che uccide di Elda GIANELLI — in Incontro. Racconti e bozzetti, Trieste, Tipografia Balestra 1892: novella dolorosa, ha al centro la figura di una donna non bella, mite e cal-

pestata che perde il fidanzato svisceratamente amato per una rivale di prorompente bellezza; quando questa seconda, giovane donna muore, l’uomo sposa l’antica fidanzata con l’unico intento di procurarsi una governante per la casa e per il figlio, e l’acerba frustrazione dell’amore della protagonista si ripete fino al dramma nell’irrisione del ruolo riservatole dal marito, al cui amore

aveva

creduto di esser finalmente

giunta, e nell’ostilità del bellissimo bimbo figlio della prima moglie. In Una bimba scontenta di TÉRÉSAH, in La casa al sole, Milano, Tre-

ves 1917, la madre sacrifica la relazione che aveva avuto dopo la fine di un matrimonio di liti; poi anche la figlia vive un matrimonio infelice, e ripete l’esperienza materna; la scrittrice riprenderà il tema in Capelli bianchi, in Allegretto, ma non troppo, Milano, Sonzogno 1920.

Adulto e tragico il tono di quest’ultimo tema in Per monaca di Matilde

SeRrAO,

in // romanzo

della fanciulla,

Milano, Treves

1886.

©! “Eponima” // posto dei vecchi di Ada NEGRI, in Le solitarie, Milano, Treves 1917; la si cfr. con Cavar sangue da un muro, di Maria TORRIANI, in Racconti di Natale, Milano, Paolo Carrara 1878; lavandaia

è la protagonista di Le sette spade di Clarice TARTUFARI, in // giardino incantato, Roma, Armani e Stein 1912.

38

co, indipendente e volitiva, o sola ad affrontare la vita, ne-

gli scenari della grande città: // sabato di Carolina ®, di Neera, Una sartina ®, della Cattermole, Lo scialle di Maria Messina *. Le serve, flaubertiani c@urs simples: Cara spe-

ranza di Torriani, Una serva e Clarissa di Ada Negri *, debitrici direi anche a Semplice storia di Verga, in Per le vie ©”; E tutto per non servire di Luigia Codemo ®, La balia ancora della Marchesa Colombi ®, L'educazione di Rosina di Neera”, Un po’ a tutti di Grazia Deledda”!. E soprattutto il ceto medio, la maestra: Alla scuola di Matilde Serao,

€ In Iride, Milano, Ottino 1881. 6 In Novelle, Napoli, Bideri 1914: cfr. Matilde, in Storie d'amore e di dolore, Casa Editrice Galli di C. Chiesa e F. Guindani 1893. % In Le briciole del destino, Milano, Treves

liano” Madama

1918. Nel “pirandel-

di Clarice TARTUFARI, in // giardino incantato, Roma,

Armani e Stein 1912, è protagonista la sarta d’alto nome d’un prestigioso atelier, elegante donna non più giovane, vittima supina delle infedeltà e degli sperperi di un marito bello, giovane e opportunista, pur di non perderlo. $ In Cara

speranza,

Milano,

Chiesa-Omodei

Zorini-Guindani

1896. S Rispettivamente in Le solitarie, Milano, Treves 1917, e in Finestre alte, Milano, Mondadori 1923.

£? Milano, Treves

1883.

6 In Racconti, scene, bozzetti, produzioni drammatiche, Treviso, Ti-

pografia L. Zoppelli 1882. 8 In Racconti popolari, Milano, Paolo Carrara 1900. 7 In Conchiglie, Roma, Voghera

1905.

? In Chiaroscuro, Milano, Treves 1912; questo racconto continuazione in Ritorno, in Il fanciullo nascosto, Milano,

ha una Treves

1916. Grazia Deledda riprende in più di una occasione il cupo tema della sottomissione della serva al padrone maschio: si v. Freddo, in «Fanfulla della Domenica»,

XXVI,

52, 25 dicembre

fanciullo nascosto, Milano, Treves

1904; // padrone, in Il

1916.

39

in Piccole anime,

1883, Scuola

normale femminile,

in Il ro-

manzo della fanciulla, 1886”; Viaggio della Contessa Lara, in Così è, 1887 7; Maestra e In santa pace di Clarice Tartufari, 1887 e 1912”; Anima bianca di Ada Negri, in Le so-

litarie del 1917; Maestra di campagna e La madre di Carola Prosperi, in Vocazioni, 1919, l’uno, in / lillà sono fiori-

ti, 1921, l’altro 79; insegnante di Inglese è la protagonista di Gli occhiali di Delia di Térésah, in La casa al sole, 1917,

di Italiano quella di Leggendo Dante, in Anime buone di Emma Tettoni, 1910”; istitutrice è Miss Eliza in Il guinzaglio di Maria Messina, 1921. L’impiegata — delle poste: Telegrafi dello Stato (Sezione femminile) di Serao, nel citato Romanzo della fanciulla, L'incontro della Negri di Le solitarie, con una percezione della fatica del lavoro drammatica, dilatata;

Chi lascia la via vecchia per la nova..." di Maria Torriani, con la sua figurata polemica contro le ragazze che lavorano con gli uomini; L'avventura” di Maria Messina. Impiegate delle poste (con altro tono) anche in Andantino appassionato di Térésah, nella raccolta La casa al sole, 1917, nella qua-

le si veda anche il doloroso Stefania Zen, dattilografa, con

?? Milano, Treves

1886.

3 Torino, Triverio

1887.

7 Rispettivamente: Roma, Perino 1887, e in // giardino incantato, Roma, Armani e Stein 1912. 7 Milano, Treves

1917.

?° Entrambi: Milano, Treves. Diverse di queste scrittrici, come noto, hanno compiuto gli studi di maestra, da Torriani a Serao, da Ada Ne-

gri a Carola Prosperi, Luisa Gervasio, Ida Baccini, altre; alcune ne hanno esercitato anche per qualche tempo o a lungo la professione. ? Firenze, Successori Le Monnier 7 In LA MARCHESA

1910.

COLOMBI, La cartella n. 4, Cesena, Gargano

1880.

? In /! guinzaglio, Milano, Treves 1921.

40

la sua storia di sconfitta emotiva — tragica, nella follia 8° — del-

l’indipendenza affermata dalla giovane protagonista con la scelta del lavoro professionale; dattilografa è anche Raimonda di Ne/la nebbia*', di Ada Negri. C’è anche qualche artista, d’arte figurativa, della musica, del teatro, se non della penna: in Storiella pedante *° della Marchesa Colombi, Odda è una pittrice, come Vally in // ramo di lillà* di Amalia Guglielminetti; in Quintetto** di Haydée c’è una pianista, in Lettera smarrita, della stessa scrittrice, che spesso peraltro torna a questi temi, un’attrice *°; in L'amore di Grì*° di Térésah una poe-

tessa, in // denaro*’ di Ada Negri una scrittrice. In Fuori del nido di Emma Tettoni 8* il tema della donna che lavo-

8° Non è un esito rarissimo, in questa temperie tra Otto e Novecento, quello della follia, emersione, chiarificazione o disperata fuga al cospetto di disagi esistenziali che non hanno parole; si v. anche L'altra vita di Ada NEGRI, in Le solitarie, Milano, Treves

8! In Le solitarie, Milano, Treves

1917.

1917.

82 In Scene nuziali, Torino, Roux e Favale 1877. In Da un Natale all’altro di Virginia TEDESCHI, in Racconti di Natale, Milano, Treves 1886, la protagonista si mette a scrivere e a pubblicare — sotto

pseudonimo — novelle, specificatamente come una delle poche professioni possibili ad una ragazza di buona famiglia, quando un rovescio di fortuna ne impoverisce il padre («Se potessi guadagnare anch’io qualche cosa! diceva spesso fra sé, non so far nulla, ho imparato a far la signora; ecco, se potessi far la ricamatrice, la pittrice, dar lezioni di musica!...»).

8 In Anime allo specchio, Milano, Treves 1915. 84 In Zl ritorno, Torino, Roux e Viarengo

1903.

85 Lettera smarrita è in Racconti di Natale, Milano, Treves 1908; più avanti si v. Le quasi artiste, Milano, Treves 1925. 86 In La casa al sole, Milano, Treves

87 In Le solitarie, Milano, Treves

1917.

1917.

88 In Anime buone, Firenze, Successori Le Monnier

1910.

41

ra è specificamente trattato scegliendo come protagonista un medico. E, per citare almeno uno ancora dei motivi caratterizzanti la narrativa femminile fra i due secoli, il tema della zitella — fondamentale Zia Severina, di Neera *, immagine

quasi metaforica dell’esclusione e della rinuncia, sempre raccontato in ambientazioni realistiche, in piccoli mondi in cui il tema realista della provincia °° diventa anche corre-

8 In Voci della notte, Napoli, Pierro 1893; e poi si v. ancora almeno Storiella pedante, di Maria TORRIANI, in Scene nuziali, Torino, Roux e Favale 1877; La zia Antonietta, della CONTESSA LARA, in Novelle, Napoli, Bideri 1914; Le calze, di Teresa UBERTIS, in // corpo e l'ombra, Milano, Treves 1911; Due mondi, sempre di NEERA, in La sottana del diavolo, Milano, Treves 1912; Demetrio Càrmine, Una gior-

nata di sole — questa così simile, in certi passaggi, al racconto di Neera —, Rose rosse di Maria MESSINA, rispettivamente in Le briciole del destino, Milano, Treves 1918, // guinzaglio, Milano, Treves 1921, Ragazze siciliane, Firenze, Le Monnier 1921; e poi Teresa (1886), le zie di Un matrimonio in provincia (1885), di Una giovinezza del secolo XIX (1919), di Canne al vento (1913), ecc. In // volto della felicità di Flavia STENO, nella raccolta che ne riceve il titolo, Milano, Treves 1920,

la zia non più giovane che regge la casa della cognata e accudisce i bambini, paziente operosa silenziosa, attiva e indispensabile, è sposata («si era sposata non più giovane, già sfiorita, e non tanto per amorg quanto per non essere d’aggravio ai fratelli e per avere anch’essa la sua casa») e abbandonata in gioventù dal marito, che ritorna solo vecchio, «ricco e vecchio, cioè stanco, pacificato con sé stesso, colla sua

irrequietezza perpetua, e desideroso soltanto di pace». In La signora della Quiete di Amalia GUGLIELMINETTI, in / volti dell’amore, Milano,

Treves 1913, la fragile aristocratica, «con la sua dolce grazia sfiorita di vecchia fanciulla nobile», si perde per vivere l’illusione di un amore vitale e approda alla follia; in Gli occhiali di Delia di TÉRÉSAH, in La casa al sole, Milano, Treves

1917, l’occhialuta, goffa insegnante di

Inglese vive a trent'anni la sua febbrile stagione di trasgressione: poi rientra, sola, nell’ordine. °° Per un uso «programmatico» di questo tema si possono v. Silvia, di Matilde SERAO, in Dal vero, Milano, Perussia e Quadrio 1879, e so-

prattutto le forti novelle di Maria MESSINA: rimando in particolare a Ca-

42

lativo ambientale di una chiusura che si compie nel taciuto, nel coperto, ed opprime perché esclude. Il massimo dell’esclusione, che è tanto più incupita quanto meno ha parole ed azioni esplicite, è raggiunto poi con un motivo difficile e però lungamente presente, con altri esiti, nella narrativa ottocentesca, in novelle, come Ritorno di Paola Drigo, in La fortuna del 1913”, o Vocazio-

ni di Carola Prosperi, nella già citata raccolta omonima, 1919, che raccontano di donne che escono dai conventi in cui erano entrate prive di ragioni autentiche, e ritornano nel-

la casa materna per esservi «sepolte». In linea generale, allora, sembra apparire — con determinata, seppur non unica, ricorrenza di rappresentazione, analisi, denuncia, ricerca o affermazione, spesso attraverso il segno in negativo, di identità — un mondo femminile

passivo sul quale poi il fallimento delle attese, dei sogni, e della propria realizzazione domina e sparge a larghe mani la sofferenza. Ma bisogna a questo proposito fare ancora almeno due considerazioni. Prima di tutto: queste scrittrici sembrano in gran parte intendere la letterarietà ancorata alla drammaticità: una narrativa — ed è anche questo tipico della loro temperie culturale — che connette al dramma

sa paterna, in Le briciole del destino, Milano, Treves

1918, e all’ante-

cedente Gti ospiti, in Piccoli gorghi, Palermo, Sandron 1911. °! Vicino, quasi derivato da questo tema parrebbe quello del rapporto della donna sola, priva di una famiglia “sua”, con il fratello (e la cognata) in casa con il quale rimane ad abitare. In realtà il tema del rapporto tra fratelli adulti, tra fratello e sorella, soli entrambi, in una dif-

ficile stagione affettiva, dai sogni giovanili alla “realtà”, ha anche una sua approfondita individualità in novelle come Demetrio Càrmine di Maria MESSINA,

in Le briciole del destino, Milano, Treves

Il maestro dei ragazzi di Verga, in Vagabondaggio, 1887), o come

1918 (si v.

Firenze, Barbèra

Tre cuori di TÉRÉSAH, in La casa al sole, Milano, Tre-

ves 1917. 9 Milano, Treves

1913.

43

maggiore dignità letteraria, e individua le ragioni del narrare soprattutto nel negativo, nella focalizzazione di un disagio vitale che, se ha profonde motivazioni sociali e individuali, rischia a volte di avere anche una sua maniera. Ma accanto ad esso, e pure se in subordine, risultano tutt'altro che rare le pagine orientate ad una qualche riflessiva gaiezza, al gioco narrativo, alla corrosione divertita 0 ironica di situazioni e funzioni: autrici — vicende e personaggi, quali si leggono, determinate, in alcune novelle di Torriani, come Un velo bianco, o di Neera, che vi dedica gran parte delle Novelle gaie, con le quali esordì, o La scelta di una professione in Conchiglie, o ambigua ma vi-

tale /potenùsa, va! che qui si presenta”, o di Ubertis, come appunto Le due signore Derossi, o come la quasi programmatica La sposa del grand'uomo* di Codronchi Argeli, o più volte nelle prose / novelle di Annie Vivanti, e si rimanda in particolare a Zingaresca, 1918 e a Gioia!, 1921® —, che puntano sul sorriso, divertissement, intelligente critica, autoironia. È vero che per dare l’azione alle donne in questi testi le scrittrici sono dovute ricorrere all’ironia, ma indubbiamente il punto di vista dal quale guardano queste storie di donne, unendosi all’analogo, pur in tanta diversità, punto di vista che nelle novelle drammatiche percepisce nelle situazioni rappresentate il dramma appunto, indica come effettivamente «il punto di vista femminile», che con altro

5 Novelle gaje, Milano, Brigola 1879; Conchiglie, Roma, Voghera 1905; La sottana del diavolo, Milano, Treves 1912.

* In Qui non si trova!, Milano, Treves 1920, con il suo piglio d’antidannunzianesimo gozzaniano; da cfr., nel divertito rovesciamento, con La moglie di un grand'uomo di Matilde SERAO, in Dal vero, Milano, Perussia e Quadrio 1879; e con // sentiero e la strada di Carola PROSPERI, in / li/là sono fioriti, Milano, Treves 1921. ” Rispettivamente:

19216

44

Milano,

Quintieri

1918;

Firenze,

Bemporad

significato richiedevano e individuavano critici e direttori ottocenteschi, possa porsi come reale specificità narrativa”. Patrizia Zambon

Questo

volume

riprende

l’idea,

e modifica

“bozza di lavoro” realizzata, ed edita,

i risultati,

di una

a Padova, già nel 1987; il

saggio che lo introduce — anch’esso con qualche variante — è stato presentato in anteprima alla Sorbonne Nouvelle, a Parigi, nel corso del Colloque Les femmes-écrivains en Italie (1870-1920):

ordres et libertés, nel maggio nemmeno

1994. L’antologia non intende, e

potrebbe, essere esauriente; non intende, cioè, avere una

funzione documentaria ed esplorativa, per riportare alla luce opere, nomi e date; altre antologie hanno già coperto tale funzione per questo periodo. Vuole piuttosto costituire un percorso di lettura di carattere tematico, stilistico, storico, nel quale non tanto

il documento ma piuttosto lo spessore narrativo di questa produzione sia al centro dell’attenzione; un libro dalla fisionomia specifica, non una rassegna storiografica.

% Gli pseudonimi: Anna Zuccari: Neera; Maria Antonietta Torriani: La Marchesa Colombi;

Cordelia;

Eva

Cattermole:

Maria Majocchi: Jolanda; Virginia Tedeschi:

Contessa

Lara;

Emilia

Ferretti:

Emma;

Guendalina Lipparini: Regina di Luanto; Vincenza (Beatrice) Speraz: Bruno Sperani; Rina Faccio: Sibilla Aleramo; Luisa Emanuel:

Ludovi-

co de Rosa; Teresa Ubertis: Térésah; Eugenia Codronchi Argeli: Sfinge; Ida Finzi: Haydée; Ines Castellani Fantoni: Memini; Luisa Gervasio: Luigi di San Giusto; Amelia Osta: Flavia Steno. Pubblicarono con il cognome del marito Luisa Emanuel: Luisa Saredo; Clarice Gouzy: Clarice Tartufari; Paola Bianchetti: Paola Drigo.

45

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NOTA BIBLIOGRAFICA

1.

bibliografia della scrittrice !: 1.1 raccolte di novelle; 1.2 poesia; 1.3 romanzi, racconti lunghi, prose; 1.4 teatro; 1.5 letteratura per l’infanzia; 1.6 scritti vari; 1.7 lettere (non i fram-

2.

menti o gli usi inseriti in studi e testi critici). bibliografia contemporanea: riedizioni dal 1970 (quando si

3.

completi, si escludono cioè antologizzazioni di passi e brani d’opera; esclusa anche l’antologizzazione dei testi poetici) ?. bibliografia della critica contemporanea, dal 1970.

tratta di testi in antologia, si indicano

solo edizioni di testi

MARIA ANTONIETTA TORRIANI Generalmente con lo pseudonimo LA MARCHESA COLOMBI. 1.1

Avventura d’un giornalista, Torino, Bona 1873; Scene nuziali, Torino, Roux e Favale 1877; Racconti di Natale, Milano, Carrara 1878; Dopo il caffè, Bologna, Zanichelli 1879; Serate d’inverno, Venezia, Segré 1879; La cartella N. 4, Cesena,

Gargano 1880; Cara speranza, Milano, Chiesa-Omodei Zorini-Guindani

1896; Racconti popolari, Milano, Carrara

1.2 Lungo la vita, Milano, Galli 1891. 1.3 Il carnovale d’un capitano, Milano, Tip. Lombarda

1900.

1873;

Tempesta e bonaccia, Milano, Brigola 1877; In risaia, Milano, Treves 1878; Piccole cause, Milano, Tip. Lombarda

! Solo le opere in volume, in prima edizione; fanno storia a sé le voci sugli epistolari.

? Non si dà conto delle edizioni in traduzione. ? Non vengono registrati le trattazioni e le citazioni nelle opere generali di storia della letteratura (testi che si danno come preventivamente acquisiti), e gli articoli di quotidiano; prefazioni, introduzioni, postfazioni, note, saggi che accompagnano le riedizioni delle opere si intendono citati nel dar conto dei loro autori come curatori di queste.

47

1879; Troppo tardi, Cesena, Gargano

1880; Prima morire,

Napoli, Morano 1881; // tramonto d’un ideale, Cesena, Vignuzzi 1882; Senz'’amore, Milano, Brigola 1883; Un matrimonio in provincia, Milano, Galli 1885; Le gioie degli altri, Torino, Paravia 1900. 1.4 La creola, Milano, Ricordi 1882 [in collaborazione con Eugenio Torelli Viollier]; // violino di Cremona, Milano, Ricordi

1882. 175 I più cari bambini del mondo, Milano, Trevisini 1882; Giornate piovose, Milano, Hoepli 1883; Da! vero, Milano, Hoepli 1884; / bambini per bene a casa e a scuola, Milano, Hoepli 1884; Addio, mia bella, addio!, Milano, Carrara 1885; Chi era la Rosa, Milano, Carrara 1885; Le beneficenze della Gemma, Milano, Carrara 1885; La festa della Mia. Chi va piano va sano, Milano, Carrara 1885; Le mele dei vicini, Milano, Carrara 1885; Un triste Natale, Milano, Carrara 1885; Raccontini e commediole, Milano, Hoepli 1887; / ragazzi d’ una volta e i ragazzi d’adesso, Milano, Galli 1888; Una clessidra, Milano, Carrara 1889; Bene, Milano, Galli 1891; Un ideale, Palermo, Sandron 1896; Mangascià, Palermo, Sandron

1898;

Dopo

la tempesta

l’arcobaleno,

Palermo,

Sandron

1899; Il maestro, Palermo, Sandron 1899; La voce delle cose, Palermo, Sandron 1899; Umani errori, Palermo, Sandron 1899; Il bimbo della Pia, Milano, Carrara 1900; // piccolo eroe, Palermo, Sandron 1900. Giulia Modena, Milano, Tip. dell’Eco dell’Olona 1870; Del/-

la letteratura nell’educazione femminile, Genova, Stabilimento Artisti Tipografi 1871; La gente per bene, Torino, Tip. Giornale delle Donne 1877. Libere traduzioni e riduzioni dall’inglese e dal francese: L'età del marito, di Rhoda Broughton, Milano, Brigola 1881; La vita in famiglia, di Zénaîde Fleuriot, Cesena, Gargano 1881. Rodolfo RoGoRA, Corrispondenza del Carducci con la scrittrice novarese Maria Torriani, la «Marchesa Colombi», in «Bollettino storico per la Provincia di Novara», LXKVII, 2, 1976; Emmanuelle GENEVvOIS, Lettres inédites de la Marchesa Colombi, in «Chroniques Italiennes», X, 37, 1994. Un matrimonio in provincia, a cura di Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi 1973; a cura di Giuliana Morandini, Novara, Interlinea 1993; Cara speranza, in Novelle italiane. L’ Ottocento, a cura di Gilberto Finzi, Milano, Garzanti 1985; in

48

Controcanto, a cura di Riccardo Reim, Roma, Sovera 1991; Prima morire, a cura di Giuliana Morandini, Roma, Lucarini 1988; /n risaia, a cura di Antonia Arslan, Abano Terme (Padova), Piovan 1990; a cura di Riccardo Reim, Milano, Lombardi 1992; /n risaia, dall’ed. 1890, a cura di Silvia Benatti e Cesare Bermani, Novara, Interlinea 1994; La padrona. Lettera aperta a Matilde Serao, a cura di Emmanuelle Genevois, in AA. Vv., Les femmes-écrivains en Italie (18701920): ordres et libertés, Paris, Chroniques Italiennes - Uni-

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in «Carmen»

della

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Colombi,

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49

à propos d'une polémique entre Matilde Serao et la Marchesa Colombi («La Stampa» 1905), in AA. Vv., Les femmes-écrivains en Italie (1870-1920):

niques

Italiennes



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de la Sorbonne

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ta 1884; /l romanzo della fanciulla, Milano, Treves 1886; Fior di passione, Milano, Galli 1888; Allerta sentinella!, Milano, Treves 1889; Da! vero, Milano, Galli 1890; La donna dall’abito nero, Napoli, Chiaruzzi 1892; Piccolo romanzo, Na-

poli, Pierro

1892;

Gli amanti,

Milano,

Treves

1894;

Le

amanti, Milano, Treves 1894; L’indifferente, Napoli, Pierro 1896; Donna Paola, Roma, Voghera 1897; L’infedele, Mila-

no, Brigola 1897; Lettere d'amore, Catania, Giannotta 1901; Novelle sentimentali,

Livorno, Belforte

1902; Cristina, Ro-

ma, Voghera 1908; /! pellegrino appassionato, Napoli, Perrella 1911; La vita è così lunga!, Milano, Treves 1918; Preghiere, Milano, Treves 1921. Cuore infermo, Torino, Casanova 1881; Fantasia, Torino, Casanova 1883; La conquista di Roma, Firenze, Barbèra 1885; Vita e avventure di Riccardo Joanna, Milano, Galli

50

1887; Addio, amore!, Napoli, Giannini 1890; // paese di Cuccagna, Milano, Treves 1891; Castigo, Torino, Casanova 1893; La ballerina, Catania, Giannotta 1899; Suor Giovanna della Croce, Milano, Treves 1901; L'anima dei fiori, Milano, Libreria Nazionale 1903; Storia di due anime, Roma,

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1.6 Il ventre di Napoli, Milano, Treves 1884; L'Italia a Bologna, Milano, Treves

1888; Le Marie,

Napoli, Pierro

1894; Bea-

trice, Napoli, Pierro 1895; Nel sogno, Firenze, Paggi 1897; Come un fiore, Firenze, Landi 1900; Nel paese di Gesù, Firenze, Landi e Napoli, Tocco 1900; Saper vivere, Firenze, Landi e Napoli, Tocco 1900; Fascino muliebre, Bergamo, Isti-

tuto italiano di Arti grafiche 1901; La Madonna e i Santi nella fede e nella vita, Napoli, Trani 1902; Santa Teresa, Catania, Giannotta 1904; // giornale, Napoli, Perrella 1906; Sognando, Catania, Giannotta 1906; Sterminator Vesevo, Napoli,

Perrella 1906; Lettere di una viaggiatrice, Napoli, Perrella 1908; San Gennaro nella leggenda e nella vita, Lanciano (Chieti), Carabba 1909; Evviva la guerra!, Napoli, Perrella 1912; Parla una donna, Milano, Treves 1916; Ricordando

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63

CLARICE GOUZY Generalmente con il cognome assunto con il matrimonio: Clarice TARTUFARI. pesi Maestra, Roma, Perino 1887; I! giardino incantato, Roma, Armani e Stein 1912; L'albero della morte, Roma, Voghera

1912.

n

12 Versi nuovi, Roma, Loescher 1894; Vespri di maggio, Roma, Loescher

1897.

153 Ebe, Palermo, Sandron 1902; Roveto ardente, Torino-Roma, Roux e Viarengo 1905; Fungaia, Roma, Voghera 1908; // volo d’Icaro, Torino, Sten 1908; // miracolo, Roma, Romagna 1909; Eterne leggi, Roma, Romagna 1911; All’ uscita del labirinto, Bari, Humanitas 1914; Rete d'acciaio, Milano, Treves 1919; // dio nero, Firenze, Bemporad 1921; /! gomitolo d’oro, Milano, Trevisini 1924; /l mare e la vela, Firenze,

Bemporad 1924; La nave degli eroi, Foligno (Perugia), Campitelli 1927; Lampade nel sacrario, Foligno, Campitelli 1929; L’imperatrice dei cinque re, Roma-Foligno, Campitelli 1931; «Ti porto via!», Milano-Roma, Rizzoli 1933; L'uomo senza volto, Roma, Tosi 1941. 1.4 Dissidio, Roma, Società Editrice Dante Alighieri 1901; Logica, Roma, Società Editrice Dante Alighieri 1901; Le modernissime, Roma, Società Editrice Dante Alighieri 1902; L’ eroe, Torino-Roma, Roux e Viarengo 1904; La testa di Medusa, Torino, Unione Editoriale 1910; Arboscelli divelti, Milano, Barbini 1913. 1.6 Italia Vitaliani, Palermo, Biondo 1902; La rivelazione di Beatrice, Firenze, Olschki 1913.

La fontana del mistero, in Novelle d’ autrice tra Ottocento e Novecento, a cura di Patrizia Zambon, Padova, Nuova Vita 1987; Maestra, in Controcanto, a cura di Riccardo Reim, Ro-

ma, Sovera 1991.

GRAZIA DELEDDA Nel primo periodo, anche con lo pseudonimo ILIA DI SANT'ISMAIL. i

Nell’azzurro,

Milano-Roma,

Trevisini

1890; Amore

regale,

Roma, Perino 1891; Amori fatali. La leggenda nera. Il ritratto, Roma, Perino 1892; Sulle montagne sarde, Roma, Perino

64

1892; Racconti sardi, Sassari, Dessì

1894; L'ospite,

Rocca San Casciano, Cappelli

1898; Le tentazioni, Milano,

Cogliati 1899; La regina delle tenebre, Milano, G. Agnelli 1902; / giuochi della vita, Milano, Treves 1905; Amori moderni, Roma, Voghera 1907; Il nonno, Roma, Ed. Nuova Antologia 1908; Chiaroscuro, Milano, Treves 1912; // fan-

ciullo nascosto, Milano, Treves 1916; /l ritorno del figlio. La bambina rubata, Milano, Treves 1919; Cattive compagnie, Milano, Treves 1921; // flauto nel bosco, Milano, Treves 1923; Il sigillo d'amore, Milano, Treves 1926; La casa del poeta, Milano, Treves 1930; La vigna sul mare, Milano, Treves 1931; Sole d'estate, Milano, Treves 1933; Il cedro del Libano, Milano, Garzanti 1939.

12 Paesaggi sardi, Torino, Speirani 1896; Versi e prose giovanili,

a cura di Antonio Scano, Milano, Treves

13 Stella d'Oriente,

Cagliari, Tip. dell’ Avvenire

1891; Fior di Sardegna, Roma,

Milano,

Cogliati

Perino

1938.

di Sardegna

1892; Anime

oneste,

1895; La via del male, Torino, Speirani

1896; I! tesoro, Torino, Speirani 1897; La giustizia, Torino, Speirani 1899; // vecchio della montagna, Torino, Roux e Via-

rengo 1900; Dopo il divorzio, Torino, Roux e Viarengo 1902; Elias Portolu, Torino, Roux e Viarengo 1903; Cenere, Roma, Ripamonti e Colombo 1904; Nosta/gie, Roma, Ripamonti 1905; L'edera, Roma, Colombo 1906; /! nostro padrone, Milano, Treves 1910; Sino al confine, Milano, Treves 1910; Ne/ deserto, Milano, Treves 1911; Colombi e sparvieri, Milano, Treves 1912; Canne al vento, Milano, Treves 1913; Le colpe altrui, Milano, Treves 1914; Marianna Sirca, Milano, Treves 1915; L'incendio nell’oliveto, Milano, Treves 1918; La madre, Milano, Treves 1920; // segreto dell’uomo solitario, Milano, Treves 1921; /l Dio dei viventi, Milano, Treves 1922; La danza della collana, Milano, Treves

1924; La fuga in Egitto, Milano, Treves 1925; Annalena Bilsini, Milano, Treves 1927; Il vecchio e i fanciulli, Milano, Treves 1928; // paese del vento, Milano, Treves 1931; L'argine, Milano, Treves 1934; La chiesa della solitudine, Milano, Treves 1936; Cosima, Milano, Treves 1937.

1.4 L’edera

[in collaborazione con Camillo Antona Traversi], Milano, Treves 1912; Odio vince, in Il vecchio della montagna, Milano, Treves 1912; La Grazia [in collaborazione con Claudio Guastalla e Vincenzo Michetti], Milano, Ricordi 1921; A sinistra, in La danza della collana, Milano, Treves

1924.

65

JeS: Giaffàh, Palermo, Sandron 1899; / tre talismani, Palermo, Sandron 1899; Le disgrazie che può cagionare il denaro, Palermo, Sandron 1899; Nostra Signora del Buon Consiglio, Palermo, Sandron 1899; // dono di Natale, Milano, Treves

1930.

1.6 Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, Roma, Forzani 1894. Traduzione di Eugenia Grandet, di Honoré de Balzac, Mila-

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1937; Lettere, in

Versi e prose giovanili, a cura di Antonio

Scano, Milano,

Treves 1938; Lettere a Pirro Bessi, a cura di Corrado Tumiati, in «Il Ponte», I, 8, 1945; Lettera della Deledda, a cura di Attilio Momigliano, in «Il Convegno», I, 7-8, 1946; Lettere

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Ciusa Romagna, Nuoro, s.e. 1959; Marcello SPAZIANI, Con Gégé Primoli nella Roma

bizantina, Roma, Edizioni di Sto-

ria e Letteratura 1962; Lettere a Epaminonda Provaglio, in Opere scelte, a cura di Eurialo De Michelis, Milano, Mondadori 1964; Grazia Deledda. Premio Nobel per la Letteratura 1926, a cura di Francesco Di Pilla, Milano, Fabbri 1966; Lina SACCHETTI, Grazia Deledda. Ricordi e testimonianze, Milano-Bergamo, Minerva Italica 1971; Gaetano MARIANI, Ottocento romantico e verista, Napoli, Giannini 1972; Lettere a

«La Riviera Ligure». I. 1900-1905, a cura di Pino Boero, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1980; Jean Jaques MARCHAND, Edouard Rod et les ecrivains italiens, Genève, Droz 1980; Lettere a Giovanni De Nava, a cura di Ludovica De Na-

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ra, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1971; a cura di Angela Cerinotti, Bussolengo (Verona), Demetra 1995; Milano, Mondadori 1995; Colombi e sparvieri, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1972; La festa del Cristo e altre novelle, a cura di Luciano Nicastro, Milano,

66

Edizioni Scolastiche Mondadori 1972; Romanzi e novelle, a cura di Natalino Sapegno, Milano, Mondadori 1972; Tradi-

zioni popolari di Nuoro, a cura di Francesco Alziator e Fernando Pilia, Nuoro, Rotary Club di Nuoro

1972; Versi e pro-

se giovanili, a cura di Antonio Scano e Carmen Scano, Milano, Virgilio 1972; Cenere, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1973; Milano, Mondadori 1995; Annalena Bilsini, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1974; Cosima, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1975; a cura di Nanda Torcellan, Milano, Mondadori 1981; Cinisello Balsamo (Milano), Edizioni Paoline 1990; San Michele Arcangelo, in La Riviera Ligure, a cura di

Edoardo Villa e Pino Boero, Treviso, Canova

1975; Marian-

na Sirca, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1976; a cura di Anna Dolfi, Roma, Newton Compton 1994;

Il segreto dell’uomo solitario, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1977; L'incendio nell’ oliveto, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1977; // vecchio della montagna, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1978; La chiesa della solitudine, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1978; Milano, Mondadori

1995; Naufraghi in porto, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori 1979; Sino al confine, a cura di Anna Dolfi, Milano, Mondadori 1980; // paese del vento, a cura di Anna Dolfi, Milano, Mondadori 1981; a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton 1995; Romanzi sardi, a cura di

Vittorio

Spinazzola,

Milano,

Mondadori

1981;

La danza

della collana, a cura di Anna Dolfi, Milano, Mondadori 1982; La via del male, a cura di Anna Dolfi, Milano, Mondadori 1983; a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton

Compton 1994; // Natale del malato, a cura di Francesco Di Pilla, in «Otto-Novecento»,

VIII,

1, 1984; Canne

al vento,

Novara, Mondadori-De Agostini 1986; a cura di Lucia Genovese e Elisabetta Erre, Milano, Ghisetti e Corvi 1993; a cura di Anna

Maggiore

Dolfi, Torino,

1993;

a cura

Sei

1993; Torriana

di Angela

Cerinotti,

(Forlì), Orsa

Bussolengo

1994; a cura di Pino Boero e Bruno Rombi, Milano, Garzanti

1994; a cura di Dolores Turchi e Marta Savini, Roma, Newton Compton

1994; a cura di Maria Grazia Cerruti, Milano,

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67

Marta Savini, Roma, Newton

Compton

1991; Amori moder-

ni, Cagliari, Gia 1989; Battesimi, in In terza pagina, a cura di Robin Pickering Iazzi e Lawrence Baldassaro, New York, Holt, Rinehart and Winston 1989; Sangue sardo, in Controcanto, a cura di Riccardo Reim, Roma, Sovera 1991; Un grido nella notte, a cura di Francesco Iengo, Chieti, Solfanelli

1992; Vimercate (Milano), La Spiga 1994; / grandi romanzi, a cura di Giacinto Spagnoletti e Marta Savini, Roma, Newton Compton

1993; La madre, Novara, Mondadori-De

Ago-

stini 1993; a cura di Maria Grazia Cerruti, Milano, Opportunity Book 1995; Bestiario, a cura di Cristina Lavinio, Cagliari, Demos 1994; Chiaroscuro, Nuoro, Il Maestrale 1994; Dieci romanzi, a cura di Anna Dolfi, Roma, Newton Compton 1994; Fiabe e leggende, a cura di Bruno Rombi, Milano, Rusconi 1994; // fanciullo nascosto, Nuoro, Il Maestrale 1994;

Ferro e fuoco, Nuoro, Il Maestrale 1995; La giustizia, a cura di Anna Dolfi, Roma, Newton Compton 1995; La volpe e altre novelle, a cura di Maria Grazia Cerruti, Milano, Opportunity Book 1995; Leggende sarde, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton 1995; Sangue sardo e altri racconti, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton 1995;

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1947. 1.2 Fatalità, Milano, Treves 1892; Tempeste, Milano, Treves 1895; Maternità, Milano, Treves 1904; Dal profondo, Mila-

69

no, Treves 1910; Esilio, Milano, Treves 1914; I! libro di Mara, Milano, Treves 1919; / canti dell’isola, Milano, Mondadori 1925; Vespertina, Milano, Mondadori 1930; // dono, Milano, Mondadori 1936; Fons amoris, Milano, Mondadori

1946.

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MARIA MESSINA

5

1.1 Pettini-fini e altre novelle, Palermo, Sandron gorghi, Palermo, Sandron

1909; Piccoli 1911; Le briciole del destino, Mi-

lano, Treves 1918; // guinzaglio, Milano, Treves 1921; Per-

13

soncine, Milano, A. Vallardi 1921; Ragazze siciliane, Firenze, Le Monnier 1921. Alla deriva, Milano, Treves 1920; La casa nel vicolo, Milano, Treves 1921; Primavera senza sole, Napoli, Giannini

1920; Un fiore che non fiorì, Milano, Treves 1923; Le pause della vita, Milano, Treves

Ceschina

1926; L'amore negato, Milano,

1928.

155) I racconti di Cismè, Palermo, Sandron lermo, Sandron

1912; Pirichitto, Pa1914; Cenerella, Firenze, Bemporad 1918; /

figli dell’uomo sapiente, Palermo, Sandron

1920; // galletto

rosso e blu, Palermo, Sandron 1921; // giardino dei Grigoli, Milano, Treves 1922; / racconti dell’ Avemaria, Palermo,

Sandron 1922; Storia di buoni zoccoli e di cattive scarpe, Firenze, Bemporad Giovanni GARRA

1926. AGOSTA,

Un idillio letterario

inedito

ver-

ghiano (Lettere inedite di Maria Messina a Giovanni Verga), Catania, Greco 1979. La Mèrica e Nonna Lidda, tono i bastimenti, a cura di Milano, Mondadori 1980; Sciascia, Palermo, Sellerio

a cura Paolo Casa 1981;

Sellerio 1982; Piccoli gorghi,

di Leonardo Sciascia, in ParCresci e Luciano Guidobaldi, paterna, a cura di Leonardo La casa nel vicolo, Palermo,

a cura di Annie Messina, Pa-

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Salvatore

CATALDO,

Una

dimenticata

scrittrice

del primo

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Messina,

in AA.

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siciliana

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e Pirandello (1887-1944), in «Letture», XLIX, 505, 1994; Mariella MUSCARIELLO, Vicoli, gorghi e case: reclusione elo identità nella narrativa di Maria Messina, in AA.

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1919; La

porta della gioia, Milano, Vitagliano 1920; Quando avevo un amante,

Milano,

Mondadori

Sonzogno

1923;

Tipi

bizzarri,

Milano,

1930.

Voci di giovinezza, Torino, Roux e Viarengo 1903; Le vergini folli, Torino, Società Editrice Nazionale 1907; Emma, Torino, Bona 1909; Le seduzioni, Torino, Lattes 1909; L’amante ignoto, Milano, Treves 1911; L’insonne, Milano, Tre-

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1928; // pigiama del mora1927. Nei e cicisbei. Il baro dell'amore, Milano, Mondadori 1926. aA U

La reginetta Chiomadoro, versi, Milano, Mondadori

Mondadori 1925.

Milano,

Treves

1916; Fiabe

in

1922; // ragno incantato, Milano,

1922; La carriera dei pupazzi, Milano, Sonzogno

il1574 Lettere d'amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, a cura di Spartaco Asciamprener, Milano, Garzanti 1951. La signora della «Quiete», in La voce che è in lei. Antolo-

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Aleramo:

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intellettuale,

Milano,

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1988; Piero LUXARDO FRANCHI, Le figure del silenzio, Padova, Cleup 1989; Marziano GUGLIELMINETTI, Per Amalia, an-

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sciano, Cappelli 1929. IS) II colpevole, Bologna,

Zanichelli

1900; Dopo

la vittoria,

Milano, Treves 1903; La vittima, Palermo, Sandron 1907; L’anima gemella, Milano, Società Ed. La Grande Attualità 1911; La costola d’Adamo, Milano, Treves 1918; La vietata soglia, Milano, Treves 1922; Voglio una stella!, Milano, Treves 1925. 1.6 Femminismo storico, Milano, La Poligrafica 1901; Per un monumento a Dante in Roma, Milano, G. Agnelli 1905; Ersilia Caetani Lovatelli, Imola (Bologna), Galeati 1928.

CAROLA

PROSPERI

sNBUI La profezia e altre novelle, Torino, Lattes 1907; // cuore in gioco, Milano, Società Editoriale Italiana 1913; Vocazioni, Milano, Treves 1919; Amore...amore, Firenze, Battistelli 1920; Dimenticare, Firenze, Battistelli 1920; / lillà sono fioriti, Milano, Treves 1921; Tormenti, Firenze, Battistelli 1921; La felicità in gabbia, Milano, Mondadori 1922; Stagione al mare, Cremona, Edizioni Librarie Italiane 1944.

ISS) La paura d'amare, Torino, Lattes 1911; La nemica dei sogni, Milano, Treves 1914; L’estranea, Milano, Treves 1915; La ca-

sa meravigliosa, Firenze, Battistelli 1920; // fanciullo feroce, Milano,

Treves

1921;

L'amore

1922; Una storia appena

di un’altra,

cominciata,

Torino,

Agile

Firenze, Le Monnier

1923; Vergine madre, Milano-Verona, Mondadori 1924; // pianto di Lilian, Milano-Verona, Mondadori 1931; Tempesta

intorno

a Lyda, Milano-Verona,

Mondadori

1931; Agnese,

amante ingenua, Milano, Rizzoli 1934; /! secondo amore, Milano, Rizzoli 1934; Amanti nel labirinto, Milano, Rizzoli 1937: Domani ci ameremo, Milano, Rizzoli 1938; Rose bianche, Milano, Rizzoli 1938; L'altro sogno, Milano-Roma, Rizzoli 1939; L’indifesa, Milano-Verona, Mondadori 1940; La ma-

TS

schera d'amore, Milano, Rizzoli 1941; /ncomprensibile cuore, Milano, Rizzoli 1942; La donna forte, Milano, Rizzoli 1942; La sua sconosciuta, Milano, Rizzoli 1942; Graziella, Milano, Rizzoli 1943; Ho guardato nel tuo cuore, Milano, Sonzogno 1943; Qualcuno ti attende, Milano, Rizzoli 1944; Il cuore ascolta, Milano, Rizzoli 1945; La colpa segreta, Milano, Rizzoli 1947; La signorina Chiara,-Milano-Roma, Rizzoli 1947; Per un altro amore, Milano, Rizzoli 1947; L'amore sbaglia, Milano, Rizzoli 1948; Le due suore; Torino, Sas 1950; Eva contro Eva, Torino, Sas 1951; Fiamme bugiarde, Milano, Rizzoli 1951; Angeli senza cielo, Torino, Sas 1952; La

freccia spezzata, Torino, Sas 1952; Un marito per Patrizia, Milano, Rizzoli 1953; L'angelo della televisione, Milano, Rizzoli 1956; Buona fortuna, Natalia!, Alba (Cuneo), Edizioni Paoline 1967; Storia di Selvaggia, Alba, Edizioni Paoline 1969.

Attraverso

un velo, Torino,

Ed. L'Unione

dei Maestri

Ele-

mentari d’Italia 1899; Chi è causa del suo mal, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1899; // naso rivelatore, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1899; Il Natale di Clarina, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri

Elementari d’Italia 1899; // piccolo sonatore ambulante, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1899; La catenella d’oro, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1899; Lontano, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1399; Speranza, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1899; Un’eredità, Torino, Ed.

L’Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1899; Che bel viaggio!..., Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia, 1910; /l minuetto di Lulù, Torino, Ed. L'Unione

dei Maestri

Elementari d’Italia 1910; Le avventure di Carboncino, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1910; Le casseruole a parlamento, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1910; 7re fiabe, Torino, Ed. L'Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1910; Su/ fiorire, Palermo, Sandron

1913; La storia dell’ochina nera, Ostiglia (Mantova), Mondadori 1918; Storia del cavalier Grifù che una volta c’era e adesso non c’è più, Roma, Mondadori 1920; /! più felice bambino del mondo, Firenze, Bemporad 1921; Reucci e fatine al chiaro di luna, Firenze, Bemporad 1923; Codaditopo, Fi-

renze, Bemporad 1930; L’agnellino nero e altre fiabe, Torino, Paravia 1930; Un monello alla corte d’ Inghilterra, Torino, Sas 1951; La seggiolina d’oro e altre fiabe, Torino, Sei

76

1954; La colombina nel serpentaio e altre fiabe, Vicenza, Edizioni Paoline 1960; La fata del rondinaio e altre fiabe, Vi-

cenza, Edizioni Paoline 1960; // principe Zuccherino e altre fiabe, Vicenza, Edizioni Paoline

1960.

Programma didattico per le scuole rurali e festive, Torino, Ed. L’Unione dei Maestri Elementari d’Italia 1899; / Santi, Torino, Paravia 1926; Regine di cuori, Milano-Roma, Rizzoli 1943; Maria Clotilde di Savoia, Torino, Edizioni Palatine 1948; Racconti del Piemonte, Torino, Sei 1955. Traduzione di La vagabonda, di Colette, Milano, Club degli

Editori 1966. Ricordo

di Guido

no, Torino, Marzocco

Gozzano,

Viglongo

in Guido

1975;

Gozzano,

Codaditopo,

Cara Tori-

Firenze,

Giunti

1985; Un lampo nella notte, in Novelle d’ autrice

tra Ottocento e Novecento, a cura di Patrizia Zambon, Padova, Nuova Vita 1987; Ricordo di Guido Gozzano e Per il cinquantenario della morte di Guido Gozzano, a cura di Mar-

ziano

Guglielminetti,

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Una

scrittrice non «femminista», Firenze, Olschki 1995. Traduzione di La vagabonda, di Colette, Milano, Mondado-

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ANNIE VIVANTI dal Zingaresca, Milano, Quintieri 1918; Gioia/, Firenze, Bemporad 1921; Perdonate Eglantina, Milano, Mondadori

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ez: Lirica, Milano, Treves 1890. IS; Marion artista di caffè concerto, Milano, Galli 1891; / divoratori, Milano, Treves 1911; Circe, Milano, Quintieri 1912; Vae victis!, Milano, Quintieri 1917; Naja tripudians, Milano, Quintieri 1920; Fosca sorella di Messalina, Torino, Letteraria Casa Editrice Italiana 1922; Terra di Cleopatra, Milano, Mondadori 1925; Mea culpa, Milano, Mondadori 1927; Salvate le nostre anime, Milano, Mondadori 1932.

sh)

L’invasore, Milano, Quintieri 1915; Le bocche inutili, Milano, Quintieri 1918. Sua Altezza!, Firenze, Bemporad 1923; // viaggio incantato, Milano-Verona, Mondadori 1933. Giovanni Pascoli, Roma, Carra 1912.

Pietro PANCRAZI, Un amoroso incontro della fine Ottocento. Lettere e ricordi di Giosue Carducci e Annie Vivanti, Firenze, Le Monnier 1951.

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MOLESINI, /dillio e tragedia: verifica di uno schema, in AA. Vv., Dame, droga e galline. Romanzo popolare e romanzo di consumo tra Ottocento e Novecento, Milano, Unicopli 1986; Anne URBANCIC, «L’Invasore» di Annie Vivanti, in AA. Vv., Donna. Women in Italian Culture, Ottawa, Dovehouse 1989; Gianni VENTURI, Serpenti e dismisura: la narrativa di Annie

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ris, Chroniques Italiennes - Université de la Sorbonne Nouvelle 1994.

TERESA UBERTIS Con lo pseudonimo TÉRÉSAH. Ti

Rigoletto e altre novelle, Palermo, Sandron 1903; // corpo e l'ombra, Milano, Treves 1911; // salotto verde, Milano, Treves 1913; La casa al sole, Milano, Treves 1917; Allegretto,

ma non troppo, Milano, Treves 1920; La piccola dama, Roma, Mondadori 1921; L'ombra sul muro, Firenze, Bemporad 1921; Tre cuori, Firenze, Bemporad 1931; La luna, Firenze, Vallecchi 1941. 522 Il campo delle ortiche, Milano, Brigola 1897; Nova lirica, Torino, Roux e Viarengo 1903; // libro di Titania, Napoli, Ricciardi 1909; Ji cuore e il destino, Lanciano, Carabba 1911; Strade mie, Firenze, Vallecchi 1942.

78

153 Al «Piccolo Parigi», Livorno, Belforte 1901; Pare un sogno, Roma, Voghera 1906; Sergina o la virtù, Firenze, Bemporad 1923; Il glicine, Firenze, Bemporad 1926; Dobbiamo vivere la nostra vita, Milano, Mondadori

1941.

1.4 Il giudice, Torino, Roux e Viarengo 1903; // pane rosso. Sul Gorner, Livorno, Belforte 1904; L'altra riva, Torino, Società

Tip. Ed. Nazionale 1907; Oriana e il Saggio, Venezia, Istituto di Arti Grafiche 1909; La felicità. Per non morire, Napoli, Ricciardi

1910;

Pierozzo,

Alessandria,

Ferrari

1922.

IBS I racconti di Sorella Orsetta, Firenze, Bemporad 1910; Come Orsetta incontrò Fortuna, Firenze, Bemporad

1912; Ridibene

e Quasibel, Ostiglia, La Scolastica 1914; / racconti della foresta e del mare [in collaborazione con Ezio Gray], Firenze, Bemporad 1915; Piccoli eroi della grande guerra, Firenze, Bemporad 1915; La ghirlandetta, Firenze, Bemporad 1916;

Storia di una bambina belga, Firenze, Bemporad

1916; // ro-

manzo di Pasqualino, Firenze, Bemporad 1917; Storia di una coccarda, Firenze, Bemporad 1917; Canzoncine, Firenze, Bemporad 1918; Soldati e marinai, Firenze, Bemporad 1918;

Il Natale di Benno Claus, Firenze, Bemporad 1920; L’omettino senza un quattrino, Roma, Mondadori 1920; La leggenda dei tre specchi, Firenze, Bemporad 1921; La leggenda dei due Pierotti, Firenze, Bemporad 1922; La leggenda del giullaretto, Firenze, Bemporad 1924; Balillino del suo papà, una ne pensa una ne fa, Firenze, Bemporad 1928: Apparizioni del viandante, Milano, Mondadori 1939.

1.6 Essi e noi, commemorando Editta Cavell, Firenze, Bemporad 1916.

79

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MATILDE

SERAO

UNA FIORAIA

Date lilia... La bimba camminava lentamente, rasentando il muro, per

la via stretta e tortuosa dei Mercanti !. Ella non guardava nelle botteghe, non alzava gli occhi a quella lunga striscia di cielo che appariva fra le alte case, non guardava neppure dinnanzi a sé. Guardava

le pietre, come

se le contasse. Cam-

minava, senza curarsi del fango del selciato, degli urtoni che le davano, di qualche rara carrozza che passava. Quando ar-

rivò alla chiesetta del Cerriglio, dirimpetto alla statua dell’Ecce Homo vestito di rosso, coronato di spine, con gli oc-

! la via stretta e tortuosa dei Mercanti: a Napoli, una delle vie principali del quartiere Porto; sulla topografia socialmente connotata della città è retta — in modo evidente anche per il lettore che non conoscesse Napoli — la strutturazione della novella. A questa stessa struttura topografica, e il raffronto è illuminante, con taglio e ragioni giornalistiche, Serao dedica le prime pagine — Sventrare Napoli — della coeva inchiesta su // ventre di Napoli, Milano, Treves 1884: la via dei Mercanti: «Sarà larga dieci palmi, tanto che le carrozze non ci possono passare, ed è sinuosa, si torce come

un budello: le case altissime la immer-

gono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato: è fat-

to di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce».

417

chi pieni di lagrime immobili, la fronte e il petto macchiati di sangue coagulato, la bimba gli dette uno sguardo indifferente e tornò indietro, con la stessa andatura rigida. Fra una mendica. Aveva fame, aveva freddo, aveva se-

te. Aveva le gambe nude, i piedini scalzi che si deformavano nella mota. In quel gelido giorno di febbraio, ella non portava che una camicia e un sottanino lacero e sfrangiato, mantenuto su, alla cinta, da uno spago. Aggrovigliato al collo, un brandello di ciarpa all’uncinetto. Niente altro. La bimba era molto magra, quasi stecchita: dagli strappi della camicia e del sottanino si vedeva una carnagione esangue, cinerea; sotto la ciarpa si vedevano le due ossa clavicolari sporgenti, come se volessero bucare la pelle; s’in-

dovinava la meschinità malaticcia di quel busto legnoso di bambina. Le spalle erano aguzze, curve, come quelle di chi si raggricchia sempre per freddo o per chetare lo spasimo dello stomaco. Un volto serio e grave, con la medesima tin-

ta plumbea del corpo; rugata la fronte breve; corrugate le sottili sopracciglia, troppo grandi gli occhi dalla palpebra bigia, sottolineati di bistro, incavernati, profondi; duro, rigido il profilo, già formato come quello di una donna; la bocca stretta, chiusa, le labbra pallide, senza fremiti, con

due rughe agli angoli. Ella aveva sette anni. Un giorno aveva avuto una madre scarna, mendica an-

che lei. Vagavano ambedue per le vie di Porto, cercando l’elemosina. Mangiavano spesso del pane e dormivano in un sottoscala, sulla paglia, la figlia col capo in grembo alla madre. Poi la madre era morta, di tifo; la bambina era rimasta sola, sul lastrico. Non pianse, non gridò, uscì per cercare l’elemosina, non ebbe nulla: quel giorno non mangiò e dormì all’aria aperta, sullo scalino della chiesa di Portanova, arrotondata come un cane. Per tre anni la vita della bambina non aveva avuto varianti. Ella non sapeva nulla, non ricordava nulla, altro che

un lunghissimo giorno in cui aveva avuto sempre fame. Dalla mattina cominciava le sue peregrinazioni. La strada

118

dei Mercanti, lungo budello contorto, era la sua casa, ed el-

la ne conosceva tutte le viuzze, i vicoli ciechi, gli angiporti paurosi, le botteghe nere, i ruscelli fetidi, i portoncini angusti e bruni, illuminati da una luce fioca e grigia, le scalette smussate. Andava e veniva, senza posa, dalla piazzetta

di Portanova, donde era il suo punto di partenza, sino alla cappella del Cerriglio, dove era il suo punto di arrivo. Si fermava

a piazzetta di Porto, faceva un mezzo

giro e rie-

sciva all’antico Sedile, dava uno sguardo al simulacro del dio Orione attaccato alla muraglia che il popolo chiama Pesce Niccolò, poi saliva per Mezzocannone, bagnandosi i piedi nelle acque azzurre, rosse, violette dei tintori che lavoravano in certi antri lugubri, intorno a caldaie nere, agi-

tandovi un miscuglio misterioso. Arrivata su, non osava andare più oltre e ridiscendeva ai Mercanti; non dava neppure un’occhiata alla taverna aperta sotto un porticato dove si friggevano pesci e pastette?, dove si espandevano le vivezze rosse del soffritto? e gli acuti odori delle pastinache* in ace-

? pastette: in corsivo nel testo; d’origine napoletana, la voce non

è solo vernacolare. 3 soffritto: in corsivo nel testo. Ne dà la spiegazione Matilde Serao in // ventre di Napoli, Milano, Treves 1884: «La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima al-

l’occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi». 4 pastinache: in corsivo nel testo, è però anche parola della lingua italiana. Si v. anche in apertura a /! paese di Cuccagna, Milano, Treves 1891: «I facchini dei mercanti, seduti per terra, sulla soglia della bottega, addentavano lungamente una pagnotta di pane, spartita in due, contenente qualche companatico asprigno, zucchette fritte e immerse nell’aceto, pastinache in salsa brusca, melanzane condite con aceto, pepe e aglio»; e già in // ventre di Napoli, Milano, Treves 1884: «Dall’oste, sempre per un soldo, si compra la spiritosa; la spiritosa è fatta di pastinache gialle cotte nell’acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano, aglio e peperoni».

149

to. Voltava a destra per la scaletta lurida di Santa Barbara, s’inerpicava fino al famoso biscottaio, ma i biscotti le facevano troppo gola e scappava via: al ridiscendere, si fermava innanzi alla porta dello stabilimento di bagni, guardando una vasca di macigno artificiale, dove non ci era ac-

qua, ma dove si ergeva una musa dalle larghe foglie verdi: continuava la sua via sino al Cerriglio e tornava indietro, sempre col suo passo guardingo, sfiorando i muri, sci-

volando fra le gambe dei viandanti. Quelle

viuzze

nere,

quella strettezza,

quella miseria,

quelle case stillanti umidità, quei cattivi odori, quei portoni sospetti, quelle tinte cupe, quell’assenza di sole, quelle faccie usuraie dei commercianti, quelle faccie losche dei lo-

ro mediatori, quelle faccie ebeti di male femmine, quella merce gretta, impolverata, avariata, erano tutto il suo mondo. Sentiva vagamente che di sopra Santa Barbara, di sopra Mezzocannone, di sopra il Cerriglio, alla fine di via Principessa Margherita, vi era un altro mondo, ma ella temeva di arrischiarvisi, ne aveva una paura selvaggia. Anche giù nei Mercanti, ella aveva paura delle altre mendicanti che la picchiavano, dei cani che volevano morderla,

delle guardie che potevano arrestarla: ma ella era furba a schermirsi da questi pericoli. Lassù, il pericolo era ignoto. Quando arrivava a quei limiti, dava uno sguardo sospettoso in su, poi fuggiva, nascondendosi il capo ricciuto nel braccio come se la perseguitassero. Chiedeva l’elemosina, ma non gliela davano spesso. Tutta quella gente affaccendata a guadagnare una dura giornata, bottegai accaniti a imbrogliare i compratori contadini, facchini curvi sotto le balle, serve luride e straccio-

ne, non badavano a lei. Qualche galantuomo la prendeva per una piccola ladra e si tastava le tasche, dicendole una

© musa:

120

il corsivo è nel testo; il termine, peraltro, non è dialettale.

parolaccia; qualcuno, anche vestito decentemente, ma povero, la guardava e si stringeva nelle spalle. A qualcuno faceva disgusto, e la scacciava con un gesto di noia. Ella chiedeva prima a voce alta, quasi imperiosa, un soldo per mangiare, non avendo mangiato il giorno prima, nella tortura dello stomaco che si ribellava: poi la voce si abbassava, diventava supplichevole, ansante, lamentosa, poche e gelide lagrime le scendevano per le guance. Essa continuava ad andare e venire, come per istinto, balbettando parole in-

distinte, sino a che la voce le si seccava nella gola riarsa: allora chiedeva l’elemosina con la intensità dello sguardo. Verso la fine della giornata, quando non le avevano dato nulla, era presa da una grande stanchezza, il capogiro la faceva vacillare, ella si trascinava sino ai gradini della chiesa di Portanova e vi rimaneva, immobile, accoccolata, come un batuffolo di stracci, donde sfuggiva un sordo lamento. Si rialzava, per girare ancora, fra i lumi che si ac-

cendevano, gli operai che ritornavano dal lavoro e l’odore di mangiare che usciva dalle botteghe socchiuse. Allora arrivava a raccogliere due centesimi o una fetta di pane o un osso di costoletta o uno scampoletto di trippa, e scappava a divorarlo, provando un bruciore insopportabile allo stomaco. Ma venivano spesso i giorni in cui non aveva nulla e si addormiva

giato celli bato torno nella

in un torpore malaticcio, senza aver man-

altro che le bucce di aranci fradici, o masticato i bacdei piselli. Il sabato era il migliore suo giorno: al sauna femmina giovane, col fazzoletto di seta rosso atal collo, la gonna corta e legata sullo stomaco, la piacol tacco e il fiocco verde, la pettinessa d’argento ° nel-

6 la pettinessa d’argento: è un pettine ricurvo, variamente ornato, usato per fissare i capelli e abbellire le acconciature. Si v. anche // paese di Cuccagna, Milano, Treves 1891: «I capelli castani [della balia di Frattamaggiore] erano tirati strettamente, sulla nuca, da una grande pet-

tinessa di argento e un grosso fiocco di raso azzurro ne pendeva».

121

l’alto cocuzzolo dei capelli impomatati, le guance cariche di carminio, le dava un soldo. La giovane femmina stava per lo più accantonata a un portoncino, le mani nelle taschette del grembiule, lo sguardo vagante, la fisionomia stupida, canticchiando dalla mattina alla sera una canzoncina

lenta: Spina de pesce, Sta vita desperata quanno fenesce?

Ogni giorno, molte volte, la bimba le passava daccanto. Ma solo il sabato l’altra le dava un soldo: questo per cinque o sei mesi. Poi la donna scomparve. L’avevano buttata o s’era buttata nel pozzo. In quella giornata di domenica, la bimba si sentiva morire. Ogni tanto le mancavano le forze e si sedeva per terra. Le botteghe erano chiuse, i viandanti frettolosi non le davano retta, dirigendosi tutti alle strade superiori, scomparendo /asswù: ella li seguiva macchinalmente, con lo sguardo. Entrò nella chiesa di Portanova. La chiesa era vuota, le parve immensa e paurosa; ebbe una sensazione di freddo, co’ suoi piedini nudi sul marmo; il sagrestano l’ac-

chiappò e la mise fuori. Ella riprese la sua corsa nelle strade spopolate: si vide sola, disperata. Tutti erano andati lassù. Allora, dimenticando la sua paura, spinta dalla fame, dall’istinto, superò la frontiera, e oltrepassato il larghetto di Rua Catalana, salì gli scalini di San Giuseppe. Fu stupefatta: vedeva quello che non aveva mai visto, la strada larga, i ma-

gazzini puliti, i palazzi bianchi, i giardini, il cielo. Dimenticava la sua fame davanti a così mirabile spettacolo: non vi pensò più dinnanzi a un negozio di giocattoli. Lassù tutto era bello: ed ella seguì la folla che si avviava per Fontana Medina, fermandosi ogni momento, eccitata, curiosa, scordandosi di chiedere l’elemosina. Solo le carrozze la spa-

ventavano

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col continuo

loro incrociarsi;

ma

seguiva

il

marciapiede. A piazza Municipio, vinta di nuovo dalla stanchezza, sedette sopra un banco, presso il giardino; ma dopo un poco saltò giù e corse anche lei verso San Carlo: là si perdette, piccina come era, nella folla che la trascinò verso San Ferdinando.

Non vedeva niente, annullata fra la

gente; aveva caldo, stava bene. Ogni tanto vedeva passare nell’aria un mazzetto di fiori, poi un altro, poi una pioggia di fiori: ogni tanto la folla si gettava da parte, per lasciar passare un equipaggio, dentro una signora bellissima, seduta in mezzo alle stoffe e ai fiori: visioni rapide, fuggevoli, fulgide, che quasi sgomentavano la bambina. Passò il tempo, così. Imbruniva: i fiori cadevano più lenti, il clamore

era più basso, la folla si diradava. Accanto alla bimba passò una leggiadra apparizione di donna, dall’abito nero, succinto e ricco, dal volto bianco e sorridente, dagli enor-

mi brillanti alle orecchie delicate: portava in mano un cestino di fiori, a mazzetti e disciolti. Era una fioraia meravigliosa, che accumulava denari nel fondo del cestino. — Signora, signora — mormorò una voce infantile — dammi un fiore. E la fioraia, con un moto gentile e svelto, lasciò cadere nelle mani della bimba un manipoletto di garofani. La bimba sorrise, ficcò un garofano in un bucherello della sua camicia e volle anch’essa vendere i fiori, poiché ne aveva

tanti. Ma da lei la gente non ne comprava. Uno studente le disse: — Quando sarai più grande, potrai vender fiori. Un grasso signore si pose a declamare contro l’accattonaggio e contro l’inerzia della questura. La bimba non comprese il senso, ma intese che la maltrattavano. Neppure lassù erano buoni con lei. Ella era lacera, scalza, brutta: i suoi grandi occhi spalancati mettevano paura, la sua testolina arruffata e selvaggia faceva paura. Ora la fame riappariva feroce, mettendole un fuoco nel petto, straziandola. Si trovava presso la Boulangerie francaise, donde usciva un odore di pane e di pasticcini che la faceva sve-

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nire. Offriva i suoi fiori macchinalmente, senza poter più parlare, con un singhiozzo lento che le sollevava il petto. Un soldato passò e comprò un garofano: dette un soldo. La bimba entrò nella panetteria e comprò un panino da un soldo. Le bastava. Voleva andar via, Ricominciava ad aver paura. Quelle carrozze la stordivano, lei che voleva passare dall’altra parte. Prese la rincorsa, abbassando il capo... Nella carrozza una signora gittò un grido e svenne. Ma sulla via, presso il marciapiede, agonizzava una innocente

creatura, con

la gambina

sfracellata. Agonizzava,

giacente fra i garofani che le si erano sparsi d’attorno, stringendone uno sul petto, tenendo il panino nell’altra mano, con la faccia bianca e seria, la bocca socchiusa, coi gran-

di occhi meravigliati e dolorosi che guardavano il cielo.

? cielo: Contessa Lara, Capo d’ Anno, in E ancora

versi, Firenze,

Sersale 1886: «Con li occhi sotto il feltro scintillanti Da ’1 gioiellere uscì. Spandeva un grato Profumo di pellicce, e i provocanti Stivalini battea su ’] lastricato. // Poi stesa in legno le passò davanti Più di un nasin di femmina arricciato: E rise... Una fortuna di brillanti Il re, quel giorno, non le avea mandato? // In quel mentre una lurida bambina In pochi cenci rattoppati avvolta Trema tutta rimpetto a la vetrina, // E roca, offre una povera raccolta Di mammole mezz’arse da la brina A chi s’affretta a pranzo e non ascolta».

124

MATILDE

SERAO

CANITUCCIA

Nella penombra, seduta sulla panca di legno, sotto la cappa nera ed ampia del focolare, Pasqualina, con le mani sotto il grembiule, recitava il rosario. Non si udiva che il

pissi pissi delle labbra sibilanti le preghiere. La cucina tutta affumicata, con la larga tavola di legno verde-bruno, con

la madia oscura, con le sedie a spalliera dipinta, senza un punto luminoso, s’immergeva nella notte. Il fuoco, semispento, covava sotto la cenere. Un zoccolo di legno urtò contro la portella chiusa. Pasqualina si alzò ed aprì. Teresa, detta la capa de pezza, perché aveva servito le monache in un monastero di Sessa, entrò con la secchia dell’acqua sulla testa: si curvò un poco, perché era alta, magra ed ossuta. Pasqualina l’aiutò a deporre la secchia per terra, e Teresa rimase un momento immobile, ma senza ansare, malgrado il peso enorme che

aveva portato sul capo. Poi disciolse lo strofinaccio che le era servito da cercine e lo tese sopra una sedia, perché era bagnato fradicio. Ed era bagnato il fazzoletto di cotone che portava annodato sul capo e bagnati i cernecchi arruffati dei capelli grigi. Intanto Pasqualina aveva acceso una di quelle lucerne di ottone a tre becchi, col lucignolo di bambagia che bagna nell’olio, tenendo in alto, sospesi con catenine di ottone, lo spegnitoio, le forbici da smoccolare e l’attizzatoio.

025

Poi aveva aperto la madia, tagliato un lungo e grosso pezzo di pane bruno raffermo, ci aveva aggiunto un pezzetto di cacio forte e aveva dato a Teresa la cena. — E Canituccia? — chiese. — Non l’ho vista. x — È tardi e quella malandrina non torna. — Mo’ verrà. — Terè, ricordati che domani, a tredici ore, devi anda-

re a Carinola', a portare quel sacco di granone. — Gnorsì. Senza mangiare, Teresa mise il pane e il cacio nella ta-

sca profonda del grembiule. Rimase ancora un poco, con la bocca semi-aperta, tutto il volto inebetito, senza nessu-

na espressione, neppure quella della stanchezza. — Me ne vado. Felice notte a signorìa. — Felice notte. E se ne andò lentamente verso la via della Croce, dove in una stanzuccia l’aspettavano quattro marmocchi con cui dovea pranzare. Pasqualina restò sulla soglia e chiamò: — Canituccia! Nessuno rispose. La sera di una giornata di febbraio era discesa. Pasqualina si arrovellava a guardare nella oscurità. Chiamò di nuovo a distesa: — Canituccia, Canituccia! Allora, borbottando improperi, scese per la viottola che dalla porta di casa, tagliando in due parti l’orto, con-

duceva al portone. Lì guardò verso la via di Carinola, verso la traversa della Madonna della Libera, verso la unica via che taglia in due parti il piccolo villaggio di Ventaroli. Canituccia non si distingueva.

! devi andare a Carinola: Carinola, Ventaroli, più avanti Cascano,

Sessa, Sparanise, Nocelleto: sono paesi a Nord di Caserta.

126

— Sarà morta ammazzata, quella tignosa — mormorò. Un gemitìo sommesso le rispose. Canituccia era seduta sullo scalino del portone, accovacciata, col capo quasi tra le ginocchia e le mani nei capelli, lamentandosi. — Ah, stai qua? E non rispondi, che tu possa essere impiccata? Di°? perché piangi? T’hanno bastonata? E Ciccotto dove sta? Canituccia, una bambina di sette anni, non rispose e si

lamentò più forte. — Perché sei venuta così tardi? E Ciccotto? Di’ la verità, hai perduto Ciccotto? — e la voce rabbiosa di quella vecchia zitella contadina divenne tremenda. Canituccia si gettò per terra bocconi, con le braccia aperte, singhiozzando. Aveva perduto Ciccotto. — Ah, scellerata, assassina della casa mia, figlia di ma-

la femmina, che non sei altro! Hai perduto Ciccotto? E tieni. Hai perduto Ciccotto? E piglia. Hai perduto Ciccotto? E afferra. La caricava di pugni, di calci e di schiaffi. Canituccia si d'batteva,

si avvoltolava,

strillava, ma

senza

piangere.

Quando Pasqualina si fu stancata, le dette uno spintone e disse con voce arrantolata: — Senti, malandrina,

io ti tengo in casa per carità: se

mo’ non ti parti e non vai cercando Ciccotto per la campagna, se non lo riporti a casa, ricordati che ti faccio mo-

rire crepata sulla via, come una figlia di cagna che sei. E Canituccia, strillando ancora per le busse avute, coi

piedi scalzi, rialzando il suo cencio di panno rosso, si avviò verso la strada della Libera. Camminava guardando a destra ed a sinistra, nelle siepi, nei campi coltivati, chiamando Ciccotto a bassa voce. Lo aveva perduto, tornando

a casa: non si era accorta che Ciccotto non la seguiva più. Ma nella notte non distingueva nulla. Camminava macchinalmente: fermandosi ogni tanto a guardare, senza vedere. I suoi piedi nudi, diventati color di salmone pel freddo di una intiera invernata, non sentivano più il terreno che

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si faceva glaciale, né le pietre dove inciampava. Non aveva paura della notte, della campagna solitaria: non voleva che ritrovare Ciccotto. Udiva solo le parole di Pasqualina, che le dicevano non avrebbe mangiato se non riportava Ciccotto. Aveva una fame acerba e intensa che le torceva lo stomaco.

Se riportava

Ciccotto,

avrebbe

mangiato.

Questo

solo pensava, questo solo. E chiamava, chiamava, camminando rapidamente fra le alte siepi, punto minuscolo che si agitava in quella calma notturna: — Ciccotto bello, Ciccotto mio, Ciccotto di Canituccia tua, dove stai? Ciccotto, Ciccotto, Ciccotto, vieni da Cani-

tuccia! Se non ti porto a casa, mamma

Pasqualina non mi

dà da mangiare. O Ciccotto, o Ciccotto!

Fra uscita sulla via maestra che mena a Cascano, a Sessa, a Sparanise. Nella oscurità la via biancheggiava, e la piccola ombra di quella bambina desolata prendeva contorcimenti strani sulla terra. La voce le si affannava. Correva all’impazzata, ora, chiamando Ciccotto con tutte le forze. Due

volte, disfatta, disperata, sedette per terra: due volte riprese la corsa. Finalmente, nel campo di Antonio Jannotta, udì

come un piccolo grugnito, poi un piccolo galoppo, e Ciccotto venne a lambirle i piedi col grugno. Ciccotto era un porcellino bianco-roseo, con una macchia grigia sulla schiena, grassottello e rotondetto. Canituccia gridò dalla gioia, prese nelle braccia Ciccotto e se ne tornò indietro, con l’ultimo sforzo delle sue gambe di bambina. Rideva, parlava, si stringeva al petto Ciccotto per non farlo scappare, e Ciccotto, con le corte gambe pendenti, grugniva tranquillamente. Canituccia correva di nuovo, pensando che avrebbe mangiato. Di lontano vide la figura di Pasqualina sul portone e a tiro di voce le gridò: — Ho trovato Ciccotto, ho trovato Ciccotto bello!

Ben presto raggiunse Pasqualina e le consegnò trionfalmente

il porcellino.

Pasqualina,

all’oscuro,

sorrideva.

Rientrarono in casa e Ciccotto fu portato nel suo stabbiolo, dove mangiò e si addormì immediatamente. Canituccia,

128

ansante, aveva seguito tutte quelle operazioni. Aveva fame anche lei come Ciccotto. Seguì Pasqualina in cucina, guardandola coi suoi grandi occhi selvaggi che non sapevano chiedere.

Poi sedette sullo scalino del focolare, senza dir

nulla. La contadina si era seduta sulla panca ed aveva ricominciato il suo rosario. Pregava monotonamente e senza fervore. La bambina, curva per non sentire lo spasimo dello stomaco, seguiva con gli occhi quella preghiera. Non pensava neppure più: aveva semplicemente e unicamente fame. Solo dopo mezz'ora, quando la Salve Regina fu recitata, Pasqualina si alzò, aprì la madia, tagliò un pezzo di pane, raccolse in un piattello certi fagiuoli freddi e dette il pranzo a Canituccia. Costei, seduta sempre sullo scalino del focolare, mangiò avidamente. Aveva una testa piccola, con

una faccia minuta e bianca, tutta macchiata di lentiggini, con certi capelli ispidi, un po’ rossi, un po’ giallastri, un po’ castano sporco: una testa troppa piccola sopra un corpo molto magro. Portava una camicia di cotone bianco tutta toppe, un corpetto di teletta marrone e per gonnella un panno rosso, tenuto su alla cinta da una cordicella. Si vedevano le gambe stecchite: si vedeva il collo nudo e magro, dove i tendini parevano corde tese. Mangiava con un cucchiaio di legno nero. Dopo andò a bere alla secchia. — Vattene a dormire — disse Pasqualina, che aveva pre-

so la conocchia e filava. Canituccia aprì la porticina della dispensola, dove si conservavano le mele, buttò via il panno rosso, si sdraiò so-

pra un paglioncino gramo, si tirò un cencio di coperta gialla sui piedi e si addormentò. Pasqualina filava e pensava con una certa diffidenza a Canituccia. Questa servet-

ta era la figlia bastarda di Maria la rossa: Maria, dai capelli ardenti e dalle labbra di garofano, aveva peccato prima con Giambattista, il calzolaio; Giambattista era andato a fare il soldato e Maria era divenuta l’amante di Gasparre Rossi, un signore. Poi anche Gasparre aveva abbandonata Maria, malgrado si dicesse che Candida, detta per diminutivo Ca-

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nituccia, fosse figlia di lui. È certo che quella Maria, dopo essere stata un mese a Sessa, aveva lasciato Canituccia e se n’era andata, chi diceva a Capua, chi diceva a Napoli, a

far vita disonesta. Gasparre non si era voluto curare della bambina abbandonata, la quale venne su in casa Zampa, Pasqualina e Crescenzo Zampa, fratello e sorella. Ma il volto bianco macchiato di lentiggini ricordava sempre la sua mamma, la rossa, le mani nodose e carbone, che non va negato la dote, le follie amorose

e Pasqualina, zitella, casta, magra, dalrosse, dai denti gialli, dagli occhi neri di si era maritata perché Crescenzo le avefremeva di terrore isterico, pensando aldi Maria la rossa, e diffidava della pic-

cola bastarda. Così, il giorno seguente, temendo che Canituccia non perdesse di nuovo Ciccotto, con una funicella legò da un

capo il piede di Ciccotto, dall’altro legò la vita di Canituccia, perché non avessero a separarsi. Il porcellino sgambettava dietro la bambina per andare al pascolo. Passavano la giornata insieme, nei campi, cercando le prime erbe. Molte volte Canituccia attirava Ciccotto verso un posto, dove aveva visto l’erba che poteva piacergli: qualche volta Ciccotto trascinava Canituccia verso un campo verde. A mezzogiorno la bambina mangiava un pezzo di pane. Erravano insieme nel pomeriggio di primavera, sino all’imbrunire. Non si lasciavano che alla casa, quando Ciccotto andava a dormire, e Canituccia, dopo avere ingoiato

una minestra di cicoria fredda, o pochi ceci, o un po’ di cotenna

col pane,

andava

anch’essa

a dormire.

Certo

Pa-

squalina non era più avara e più feroce di altre contadine, ma ella stessa non era agiata e non mangiava un pezzetto di carne che la domenica. Batteva qualche volta Canituccia, ma non più che le altre contadine battessero le proprie creature. Più tardi, nell’estate,

Canituccia

e Ciccotto

stavano

più lungamente insieme. Se ne andavano all’alba a cercare granone, fichi e mele primaticce cadute dagli alberi, poi-

130

ché Ciccotto era diventato forte, grande e grosso, mentre Canituccia rimaneva magra e debole. Talvolta Ciccotto correva troppo per la bambina e questa si sentiva trascinare, spossata sotto il sollione bruciante, sulla terra secca e screpolata. — Aspetta, Ciccotto, aspetta, bello mio — diceva sfinita.

Poi Ciccotto si metteva a dormire e la bambina si stendeva per terra, lungo i solchi del grano mietuto, con gli occhi chiusi, sentendo sotto le palpebre la vampa bruciante del sole. Si rialzava stordita, con le guance rosse e la lingua gonfia. Ora non ci era più bisogno della funicella, perché Ciccotto si era fatto ubbidiente: solo che Canituccia si era provveduta di un lungo ramoscello per regolare il cammino di Ciccotto e non farlo andare sotto le ruote dei carri che passavano per la via maestra. Ritornavano alle ventiquattro, Ciccotto lentamente, Canituccia un po’ più innanzi spinta dalla insaziabile fame che le mordeva lo stomaco. Una volta aveva provato a rubare certe sorbe acerbe nel campo di Nicola Passaretti, ma le sorbe

erano amarissime e Nicola l’aveva picchiata come una piccola ladra. Anzi Nicola ne aveva detto a Pasqualina Zampa, che aveva anch’essa battuta Canituccia. La bambina se

n’era andata pei campi con Ciccotto, dogli: — Pasqualina m’ha battuto perché Ma Ciccotto aveva scosso il capo scolare. Pure, ogni tanto, quando nella

piangendo e dicensono una ladra. e si era messo a pamente chiusa di Ca-

nituccia sorgeva un’idea, lei ne parlava a Ciccotto. Quan-

do se ne tornavano a casa, gli teneva questo discorso: — Mo’, andiamo alla casa e Ciccotto se ne va alla stal-

la e mamma Pasqualina gli dà la cena e poi mamma Pasqualina dà la minestra a Canituccia, che se la mangia tutta tutta.

E la mattina: — Se Ciccotto non corre, se se ne sta sempre vicino a Canituccia, Canituccia lo porta alla Montagna Spaccata, al131

l’arbusto? di don Ottaviano il parroco e gli fa mangiare tante tante mele, mentre Canituccia si mangia il pane. Quando

venne

l’autunno,

Ciccotto

si era fatto molto

grasso e un po’ pesante. Una volta, con un colpo di testa, buttò a terra la bambina che si rialzò, si allontanò e gli scagliò una sassata. Ma fu l’unica loro lite. Canituccia mangiava sempre meno e Pasqualina era sempre più aspra con la figlia della rossa, poiché la raccolta era stata cattiva e la casta zitella aveva un terribile sospetto, che suo fratello Cre-

scenzo avesse preso una relazione amorosa con Rosella di Nocelleto: erano spariti dalla dispensa due caciocavalli e un prosciutto: poi Crescenzo aveva comperato al mercato di Sessa, per tre lire, un anello d’oro. Nella casa, Pasqualina

diventava sempre più rabbiosa e avara. Se la prendeva con Teresa la serva, con Giacomo l’ortolano, con Canituccia, con tutti. L'ultima domenica, don Ottaviano non aveva

voluto darle la comunione per i tanti peccati di pensiero. Poi pioveva sempre e ogni giorno Ciccotto e Canituccia ritornavano a casa bagnati fradici. Canituccia si metteva il panno rosso sul capo, ma rimaneva con la sola camicia attorno alle gambe, camminava nelle pozze d’acqua e fango, sferzata dalla pioggia, dicendo a Ciccotto: — Corriamo,

Ciccotto

bello di Canituccia,

corriamo,

perché piove e ho tutto il corpetto bagnato. Corriamo, perché a casa ci sta il fuoco e ci scalderemo. Ma spesso il fuoco era spento e Canituccia andava a dormire, ancora inzuppata dalla pioggia. In quel mese di novembre, dissero in Ventaroli che Maria la rossa era morta a Capua di una tifoidea, e il parroco, dopo la messa, aveva portato l’esempio nella predica, facendo arrossire Concetta di Raffaele Palmese e Nicoletta di Peppino Morra che

°? arbusto: in corsivo nel testo, a sottolinearne l’accezione particolare, di terra ad alberi probabilmente.

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avevano qualche rimorso sulla coscienza. Dissero a Canituccia che la madre era morta, ma lei non capì nulla e stet-

te ad ascoltare come una stupida. In quel mese, però, Ciccotto era diventato così grasso e grosso, che non si poteva più menarlo a pascolare molto lontano: passeggiava gravemente. Invano Canituccia lo chiamava: esso non aveva più forza. La prima volta che lo lasciò per andare alla montagna a far legna, Canituccia nel bosco gli raccolse una quantità di ghiande e gliele portò in uno strofinaccio. Prima di uscire per correre alla fontana,

per portare il mangiare a Crescenzo nei campi o per altro incarico, essa andava a dare un’occhiata a Ciccotto. Ritornando, prima di entrare in cucina, andava di nuovo a salutarlo. Si sgomentava un poco a vederlo così grosso, tanto più di lei, che era sottile come un manico di scopa. Una sera, nel dicembre, venendo dalla fontana, trovò don Ottaviano il parroco, Nicola Passaretti e Crescenzo che

discutevano vivamente: questi tre andarono poscia a visitare Ciccotto e parlarono di nuovo. Lei non comprese. Ma la sera del giorno seguente venne da Carinola Sabatino il macellaio e a Teresa si aggiunse Rosaria, la serva di Gasparre Rossi. Vi era una grande agitazione nel cortile e nella cucina: sul focolare una grande caldaia sopra un fuoco vivissimo: tutt’i grandi piatti, tutte le catinelle, tutt’i secchi disposti: in un angolo la stadera: sulla tavola coltelli, coltellacci, imbuti: Pasqualina, Teresa, Rosaria con le

gonne succinte e i grembiuli bianchi. Sabatino andava e veniva con un’aria d’importanza. Canituccia guardava tutto e non capiva. Poi chiese sottovoce a Teresa: — Che facciamo stanotte? — È venuto Natale, Canitù. Ammazziamo

Ciccotto.

Allora, traballando un poco, Canituccia andò ad accovacciarsi in un angolo del cortile per vedere ammazzare Ciccotto. Vide al vagante lume che lo trascinavano in cortile, che Nicola Passaretti

e Crescenzo

lo tenevano.

Udì i

grugniti disperati di Ciccotto che non voleva morire, vide

133

il coltello di Sabatino che lo ferì nella gola. Vide che gli tagliavano la testa, in tondo in tondo, al collo, e che la de-

ponevano sopra un piatto con un sostrato di lauro fresco. Poi vide squartarne il corpo in due parti e pesarle sulla stadera; udì le esclamazioni di gioia al risultato; un cantaio e sessanta rotoli 3. Ella rimase all’oscuro, nel cortile, nel-

l’angolo. Passò il tempo, in quella notte di dicembre gelata. La chiamarono in cucina. Rosaria e Teresa, coi piccoli imbuti, ficcavano nei budelli la carne della salsiccia. Sa-

batino e Crescenzo badavano ai prosciutti e ai pezzi di lardo, mentre Nicola sorvegliava nel caldaione i lardelli bianchi che si squagliavano, diventando strutto e siccioli. Pasqualina, sopra un angolo del focolare, faceva friggere del sangue nel tegame. Tutti parlottavano vivamente, allegramente, presi dalla gioia di quella carne, di quel grasso, di quella prosperità, infiammati dal fuoco e dal lavoro. Canituccia restava sulla soglia, guardando,

senza entrare.

Allora Pasqualina, pensando che la bambina non mangiava da un giorno e che era momento di festa, prese un pezzo di pane nero, vi mise su un pezzetto di sangue fritto e disse a Canituccia: — Mangia questo. Ma Canituccia che moriva di fame, disse di no, semplicemente, col capo.

è un cantaio e sessanta rotoli: come noto, le unità di misura, delle lunghezze, dei pesi, delle aree (agricole), del denaro, persistono a lungo nella memoria di una civiltà, anche quando le vicende politiche giungono a cambiarle; nella letteratura italiana del tardo Ottocento a matrice realistica sono quasi un topos espressivo; questo maiale, comunque, pesava centoquarantadue chili.

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EVA CATTERMOLE

DISTACCO

Dopo che egli ebbe, uscendo, sbatacchiata in faccia alla donna la porta del loro salotto, ella appoggiò alla spalliera d’una poltrona le spalle che trasparivan bianche come alabastro sotto l’accappatoio sottile di seta giapponese, mentre con una mano si premeva convulsamente su la bocca un fazzoletto, a segno di soffocare, e con l’altra palpava a lato nel vuoto: quasi una cieca che cerchi qualcosa da torno. La porta delle scale rintronò pure, sbattuta fragorosamente. Egli era partito. Non sarebbe tornato a chieder perdono come tante altre volte. Era partito. Allora in fretta e in furia ella corse

in camera,

buttò

dentro una borsina da viaggio de’ piccoli oggetti indispensabili a una signora: un pettine di tartaruga, delle pezzuole di battista, delle calze di seta, una scatola di cipria e uno

specchietto; poi con la cura che si ha nel toccar qualcosa di delicatamente sensibile, collocò, amorosa, fra i fazzoletti

e le calze un medaglione prezioso da cui si affacciava una bella testa canuta di vecchia gentildonna da’ larghi occhi bruni e dalla bocca affettuosa; un ritratto che In quel piccolo avello fatto d’oro e d’argento Pareva dir: Son morta, ma ancora vedo e sento.

E così come si trovava per casa, gettatosi a dosso un mantello, col viso coperto d’un fitto velo, sollevò il lungo

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strascico della veste tutta merletti e fiocchi di raso, e sce-

se le scale barcollando come ubbriaca. Una carrozzella stava lì ferma innanzi al portone: — All’Albergo di Francia — ordinò al cocchiere protendendosi sotto il mantice !. E il povero cavalluccio sfiancato, con una mossa stanca, prese il trotto lento e ineguale. Passavano a canto al legno de’ trams stipati di figure indistinte, equipaggi signorili con entro donne dalle acconciature eleganti, carri e carretti carichi di materiale, le vetrine del-

le te di la

botteghe sfilavano ai due lati come rapide visioni coloradel gran caleidoscopio umano; nella strada sui marciapieera un brulichio di gente che andava e veniva su e giù. Elassorta, fissa in quel suo unico pensiero, si sentiva pur non

di meno il cervello vuoto, senza provar altra sensazione che

uno stordimento profondo. Così giunse all’albergo. — Una stanza che guardi su la via — chiese con voce monotona, bassa, di sonnambula, e a pena reggendosi in piedi salì dietro a un cameriere fino al secondo piano. — La signora si trattiene molti giorni? — domandò il servo porgendole il registro dove ella vergò il suo nome patrizio con uno scarabocchio convulso. — No!... Sì... Non so... Poi rimase sola, e gettati su il letto il cappellino e il mantello, vide la sua figura entro lo specchio d’un armadio che le stava dinanzi, e le parve singolare di trovarsi nella negligenza elegante dell’abito casalingo in quella camera volgare che non aveva nulla di suo, dove chi sa quante persone prima di lei eran passate, chi sa quante ne passerebbero dopo. Il luogo era degno dell’ambiente; e nei molti viaggi che avea fatti, la signora avrebbe pur dovuto abituarvisi. Ma non

! all’Albergo di Francia: anche la madre di Pietro Brusio, in Una

peccatrice di Giovanni Verga, Torino, Negro 1866, a Catania incontra il figlio nell’Albergo di Francia (cfr. capp. Il e IV).

136

mai quanto quel giorno una stanza d’albergo le aveva tanto stretto il cuore nel confronto con la dolce casa propria. Il solito letto dal baldacchino a forti tinte e le portiere eguali; un cassettone di noce a tiretti vasti, fatti per conte-

ner molta roba che né pure esce mai dai bauli; sopra al cassettone uno specchio con cornice dorata, di pessimo gusto, e dalle parti due vasi di porcellana del Ginori dentro cui si spampanavano due mazzi di fiori artificiali; un canapè e qualche poltrona di damasco vecchio — non antico — un armadio senza stile; a terra un tappeto a fiori, leggermente sbiadito; e su le mura certa carta a fondo di oro che male imita una stoffa; né più né meno.

La signora, zitta, girava gli occhi da torno come trasognata. Oh, Dio mio! Che mai le era accaduto? O perché si trovava ella colà, vestita a quel modo e sola? Un’ora, non

più d’un’ora prima, l’eleganza della sua casa la circondava come uno scrigno che contiene una gemma; si godeva la pace beata di una felicità senza contrasti; guardava l’avvenire più remoto, simile a chi dalla riva del mare guarda con un sorriso la curva luminosa dell’orizzonte, un giorno di piena estate. Ma una scena inaspettata, immeritata era sopraggiunta; un’intimazione giusta e superba era uscita di bocca alla donna; qualche parola triviale ed un riso stupido e cattivo fu la risposa dell’uomo. Dopo di che si eran separati. Con quel colpo dell’uscio che si richiudeva su lui, el-

la si era pure sentito serrare il cuore all’ultima illusione. Era fuggita pazza di dolore. E non di meno le restava l’idea, amorosa viltà, che ei sarebbe venuto a cercarla, a tentar di ricondurla in casa. Sì, sì, doveva venire; non si abbandona

a quel modo la propria signora; marvi troppo!... a un terrazzino

propria donna; non si perde di proposito la tanto più quando questa ha il solo torto d’aE pensando, pensando ella si era appoggiata di pietra sporgente sulla via. Aspettava. *

*

*

137

Dinanzi al sontuoso fabbricato dell’albergo, come spesso si vede nelle grandi città meridionali, sorgevan delle case modeste e non belle; alte, irregolari, con sotto tut-

ta una fila di botteghe. In una di queste botteghe s’allargava una mostra di pizzicagnolo, variopinta e smagliante: rosea per i prosciutti e i salami, gialliccia a più gradazioni per le forme di cacio e le ruote di burro, dorata e argentata per le larghe aringhe di Russia e le sottili acciughe di Sicilia. Non lontano dallo sporto, alla cassa, sedeva, come

sur un trono, una don-

nona enorme, con tirato il vestito sui guanciali del seno; e mentre i clienti pagavano gli acquisti, la donnona chiacchierava placida, girando lentamente sul collo corto la faccia

ebete

e serena,

incorniciata

di ciuffi

bruni

sulla

fronte e di grasso roseo sotto il mento. Accanto al pizzicagnolo si trovava una specie di androne, bottega di un ortolano, con le pareti verdi e fresche tappezzate a folti cesti d’insalata, biancastri nel centro; a mazzi rossi di radici e arancioni di carote; a rami penden-

ti, corallini di pomidoro; a gruppi violacei di carciofi; su su da terra, scalati, vi salivano i canestri dei piselli, delle

fragole, delle patate, delle fave, delle nespole, e un giovanotto imberbe, scamiciato, con un cappellaccio a cencio in testa, canticchiava sull’uscio, poi serviva con mal garbo la gente che si era fermata a comprar erbaggi e frutta. A un mezzanino, nella vasta casa vicina, su lo sfondo nero d’una stanza cui la finestra faceva da cornice, spiccava il profilo regolare d’una gracile ragazza fulva, chinata sur un lavoro d’ago che non si vedeva; forse era un’operaia, e il lavoro, pur costandole qualche fatica materiale che si rivelava dai tratti del viso affilato e pallido, doveva però tenerle buona compagnia, da ch’ella era tranquilla come una madonnina, e su l’oscurità della stanza il biondo della sua testa sembrava quasi risplendere. Molto più su, al quarto piano della casa medesima, un’altra donna s’affacciava a un balconcello fiorito.

138

Era una

robusta

bruna

da’ grossi

occhi

bovini,

non

soltanto neri per natura ma tinti altresì da un’imitazione di kodol? che vie più gl’ingrandiva, dando un risalto di cattivo genere alle guance coperte di cipria e alla bocca color fragola per il carminio. La bruna indossava un vestito scarlatto guarnito di trine bianche, e con un cannocchiale da teatro guardava ora a destra ora a manca giù nella via. Avrà certo aspettato qualcuno; probabilmente un qualcuno che per essa non aveva ancora

nome:

perché,

non

ostante

il suo

sfarzoso

abito

rosso, forse le mancavano i soldi per la cena... *

La signora rendersene

vedeva

*_*&

e osservava

conto, tra una confusione

queste

figure senza

d’idee che a baleni

aveva una lucidità dolorosa: come il senso di un ferito che nel voltarsi tra sonno si strappi qualche punto dei due margini sanguinolenti. Quella gente dirimpetto, quell’altra che passava era tutta più felice di lei, qualunque ne fosse la posizione; e smaniosa, delirante, cominciò a passeggiare su e giù per quella camera d’albergo, presa da una voglia matta di battersi le tempie contro lo spigolo marmoreo del cassettone e finirla una buona volta. Poi tornò sul terrazzo. Passava sotto, in quel momento un /andau con entro due giovani e belle signore in gran lutto; un alto levriero biondo trottava a canto allo sportello, agile, sottile, nervoso, col

lungo muso alzato a guardar dolcemente le sue padrone.

? kodol: è il kajal, il cosmetico nero d’origine indiana che serve a sottolineare, ingrandendola, la linea degli occhi; altrove anche kohl: cfr. «Mon caprice», in «Cronaca bizantina», III, 5, 16 agosto 1883: «un ve-

lo fra le cui candide pieghe brillavano due occhi bruni, a mandorla, con una bella frangia di ciglia, allargata da un’ombra di ko4/, che compiva l’aspetto orientale di quel volto».

139

— Oh, il mio Velox! — mormorò la signora, evocando un

suo bel levriero del Caucaso morto a punto in quei giorni. Con quanta tenerezza soleva ella accarezzar quella bella testa serpentina dagli occhi bruni, lunghi, obliqui di gazzella; quella testa che le si posava confidente su le ginocchia mentre ella era intenta a leggere o a scrivere! La bianca mano inanellata lisciava e rilisciava quel pelo rasato d’un bigio metallico, e il grosso animale, contento, faceva udir, come segno di piacere, un sordo brontolio della

gola. A un tratto la testa a riflessi argentei si sollevava; una zampa fine e nervosa veniva in vece a posarsi su le ginocchia muliebri: quasi una mano leale che ringraziasse delle amorevolezze ricevute. — Povero Velox! Povero amico! — E alla memoria di quel fido morto, le lacrime di lei, che per tutta una scena

che le spezzava la vita non avevan potuto sgorgare, proruppero con un subitaneo scoppio di singhiozzi, copiosi, cocenti, disperati. Si era ritratta dalla finestra. Seduta sur una poltroncina, badava a piangere, a piangere, sentendo che il cuore le si annegava in quelle lacrime. — Morto, come

Velox, anche

il suo amore!

— ripeté a

mezza voce, volendo proprio persuadersi che tutto era finito tra loro. — Morto!

Morto!

— E abbattuta, inerte, affranta, rima-

se così un gran pezzo, senza coscienza della vita che fuori di lei seguitava indifferente la sua corsa eterna verso il nulla: mentre nella mente sconvolta le tornava a strappi una frase allegra di ballabile quasi una atroce ironia. Imbruniva. Lo specchio dell’armadio le stava ancora davanti. Ormai la sua persona vi appariva, tra la pallidezza cerea del volto e il candor diafano della veste, quasi una parvenza spettrale. Ebbe paura. Un senso infantile la colse con un gran brivido ghiaccio che la scosse da capo ai piedi. — Oh, Dio, m’ha uccisa! — esclamò soffocata. — Non son

più che l’ombra di me stessa!... — E avvedendosi dall’o140

scurità che la circondava ch’era passato tanto tempo, capì che ormai era inutile di più aspettare. Con uno sforzo supremo s’alzò in piedi, e brancolando trovò su la parete il bottone d’un campanello elettrico che premé lungamente, fortemente, come un appello disperato. Il solito servo apparve su la soglia con in mano un candeliere acceso di cui la luce entrò come un getto di spilli in que’ poveri occhi che avevan pianto tanto. — Quando parte il treno per Pisa... Ventimiglia?... — domandò la signora con un fil di voce, ma risoluta. Il treno partiva di lì a mezz'ora. Era a tempo. Si tornò a mettere il cappellino, a gettar a dosso il mantello, e ridiscese le scale dell’A/bergo di Francia, ripetendosi macchinalmente col più scorato de’ pensieri di Byron? che non avrebbe potuto né pure da morta esser più morta: More than this I scarce can die!

ì Byron: è il verso che chiude il lungo, dolente abbandono di Fare thee well, in Poems,

1816 (successivamente in The Works of Lord Byron.

Poetry, edited by Ernest Hartley Coleridge, London, J. Murray - New York, C. Scribner’s Sons

1898-1904);

noi l’abbiamo letta in The Poeti-

cal Works of Lord Byron. Miscellaneous Poems, edited by Mathilde Blind, London, Walter Scott 1886. Il riferimento a Byron è una costante

nella vicenda letteraria di Evelina Cattermole, quasi un segno di riconoscimento: dal 7a/e del 1814 che si titola dal protagonista, Lara, è tratto lo pseudonimo di Contessa Lara che firma il volume dei Versi del 1883 - Roma, Sommaruga; a // «Giaurro» di Giorgio Byron. Traduzione di Andrea Maffei la scrittrice dedica uno dei suoi interventi critici - in «Fanfulla della Domenica», VI, 51, 21 dicembre

1884 -; da Byron già altra vol-

ta, quando ancora firmava come Eva Cattermole, aveva tratto l’epigrafe («All except thy sun is set») che intesta un — rarissimo — carme declama-

torio dedicato a Roma, scritto per 1’Albo Cairoli. Ad Adelaide Cairoli le donne italiane, Padova, Tipografia alla Minerva 1873 (e nella raccolta giovanile, Canti e ghirlande, Firenze, Cellini 1867, sono fatti numerosi, in-

sistiti richiami — ne traduce anche due testi — alla poesia di Tnomas Moore); mentre all’autore del Manfred fa diretto riferimento il testo del sonetto Why did she love him? in E ancora versi, Firenze, Sersale 1886, e a quel-

lo del Don Juan l’articolo // bacio, in «La Tribuna», I, 20, 14 maggio 1893.

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EVA CATTERMOLE

LA VIGILIA

... Per l’ultima volta ella dormirà in quella camera;

e

codesto luogo virginale, pronto ad essere abbandonato, dice all’anima sua più cose di molti lunghi discorsi e di molte allusioni che le han fatto. Essa sa d’esser su ’1 punto di fare un gran passo, di cominciare una vita nuova, di camminar verso l’ignoto; glielo hanno ripetuto Dio sa quante volte; ma questi luoghi comuni esistenti da quando esiste il matrimonio,

scivolava-

no su di lei come scivola la pioggia su le penne d’un uccello. Ed ecco che tutt’a un tratto, per la prima volta, ella si

prova a leggere fra le linee del gran libro... Dove sarà ella domani? In casa di lui, in un antico villone ch’ella non ha mai visto, o pure con lui, in una camera d’albergo ch’ella

non rivedrà mai più! Non le hanno né pure detto dove egli l’avrebbe condotta così sola, la prima volta... tanto più che l’austerità della famiglia è tale da non permettere a lei, la sposa, di portare i propri pensieri virginali verso codesto nuovo ordine d’idee. Ben che la missione della donna sia d’essere sposa e madre, il principio fondamentale d’una buona educazione

è di non lasciar supporre a una giovinetta né i doveri della moglie, né il mistero della maternità. 143

Ella, dunque, non è mai stata messa su la via delle co-

gnizioni coniugali; sì che il suo fidanzato non è per lei che un signore piacente, il quale ha voluto offrirle un’infinità

di cose graziose e che, per di più, la farà ricca... Non si è giammai trovata sola con lui e non lo conosceva sei mesi addietro. Da sei settimane in qua lo ha visto regolarmente due ore al giorno, e quel ch’egli le ha detto lo hanno udito una ventina di persone che entravano e uscivano visitando la mamma; non per questo le fa paura, ma si sente parecchio imbarazzata con lui. Le amiche, in tanto, la invidiano perché il suo promesso

era quotato una cifra assai elevata su la pista del matrimonio; e madri e figliuole gli tenevan gli occhi a dosso... Si raccontano meraviglie del palazzo di lui, restaurato da cima a fondo; le carrozze sono arrivate da Londra in questi giorni; 1 brillanti sono splendidi! O di che cosa, dunque, s’impensierirebbe codesta spo-

sa felice, mentre ogni ragazza vorrebbe esser le1?... I suoi sguardi girano malinconicamente per la cameretta, la cui stoffa di seta celeste sparsa di bocciuoli di rose vien dalla sua bisavola e le è stata data da un suo zio. Si ferma dinanzi ad un piccolo scrittoio Luigi XVI a fregi di bronzo su ‘1 quale ieri stesso ella faceva le sue lezioni, e dice addio alla pettiniera di marmo bianco, regalo della sua nonna. Mai nulla le era stato gradito come quella pettiniera, a causa delle bottigliette da essenze; le bimbe si sa, vanno matte per i profumi: da che l’olfatto è un senso di cui non è loro vietato l’uso. Un gabinettino-salotto, trasformato in cappella a tempo della sua prima comunione, è adesso consacrato al mese di Maria; e ogni sera ella ha posto il mazzo

di fiori of-

fertole dal fidanzato a’ piedi della Vergine d’alabastro. De’ giocattoli sono ancora misti alle reliquie: qui i candelabri della sua bambola a canto alla corona benedetta da Sua Santità Leone XIII; là il tappeto della sua carrozzella di bimba davanti all’inginocchiatoio stemmato datole dal pa-

144

dre; sur una parete è una piletta per l’acqua santa, tutta di lapislazzuli, ricordo prezioso del suo prozio l’arcivescovo, e sotto vi si vede una croce composta di conchigliuzze incollate dalla sua vecchia governante durante una bagnatura a Viareggio... Ella s’inginocchia e sogna; il pensiero le ondeggia in uno spazio vago; ed eccola che rientra in camera e fissa il letticciuolo stretto. Allora il domani le si delinea più nettamente davanti agli occhi; ed ella si domanda che cosa sarà il domani. Lo ignora, ma presente un cambiamento totale in tutto il proprio essere... E lo spirito le si intorpidisce; un languore insormontabile la invade; poi, riscotendosi a un tratto da quel dolce accasciamento, le sembra di sentire un

braccio che l’allaccia, un cuore che batte contro il suo, e vicino alle labbra, l’odor dei baffi che ogni giorno, all’ora del baciamano ufficiale, lasciano un profumo penetrante su le dita sottili ma ancora rosse. Una vertigine la piglia... Riversa la testa sulla spalliera della sua poltrona, ella

guarda il vestito preparato per il domani; il lungo strascico di moerro ondeggia su ’l tappeto; le guide di fiordarancio corron su le pieghe come rami d’ellera sur un albero niveo; que’ fiori d’arancio par che voglian morire dove sono attaccati... A canto all’abito da sposa, bene steso, è gettato sur una sedia il vestito da viaggio; è semplice, ma singolarmente casto e civettuolo a un tempo. Gli è più che altro su questo vestito che si ferman gli occhi della fanciulla. Domani, a quest’ora stessa egli sarà solo vicino a lei! Che cosa le chiederà? Che potrà ella rispondergli?... Vorrebbe saper tutto,

e non è certa che d’un’unica cosa; cioè

ch’egli le chiederà di non più lasciarlo... Ben che si faccia coraggio, le rincresce l’idea che da sei settimane non abbian mai data al suo futuro marito l’occasione di farsi accordare qualche favore di minima importanza... Un bacio su ’l polso, per esempio, e senza che nessuno vedesse, invece del bacio sulla mano e in presenza di tutti; un bacio in fronte 145

fra le ciocchette de’ capelli... o su ’1 collo. Ah, su ’1 collo, no! fa un solletico! Ma il trovarsi così in un paese lontano, in una casa ignota, loro due soli, di sera... Brrr! E gli occhi le si chiudono, per non vedere né pure i pensieri. Ma sarà bella quell’ampia camera del castello ereditario dov’ella è chiamata a diventar signora; ci sarà un letto immenso nel quale c’è da perdersi... se le braccia di lui non la ritrovassero... Coraggio! Coraggio! Bisogna scacciare certe timidezze. Certo, è stata felice nella cameretta ch’ella è su ’1 punto di lasciare; ma lì tutto è piccino e non vi sarebbe posto

per due. Adesso il suo fidanzato le appare sotto un aspetto nuovo. Non è più il personaggio imponente cui ella non osava rivolgere quattro parole; è il suo bene, la sua vita, il suo avvenire! E sotto gli alberi ombrosi del parco dove domani ella passeggerà appoggiata al braccio di lui, già intravede un bambinello roseo e biondo, vestito di merletti, che si prova a fare i primi passi... Poi il bimbo, cresciuto, galoppa,

galoppa sur un puledro inglese... e i fratellini sorridono... Suo marito, in tanto, è sempre innamorato di lei, anzi, più innamorato che mai!... Ah, com’era grullina, lei, da ragaz-

za, a tremare al pensiero di appartenergli! Ah, com’è beata ora fra tutte le donne! Com'è bello il mondo! Come Dio è buono! Ora non le importa più del corredo, dei brillanti, delle carrozze, dei palazzi; non vede più che lui, lui! L’avvenire sarà un incanto di tutte le ore. Fra lei e lui, nessuno! Lei e lui, tutto uno per l’altra, e fuor del loro amore, nulla. Questo, sicuramente, gli è quel che vuole anche lui, dal

momento che l’ha scelta per compagna. È così nobile e buono, lui! Ed è così bello! Oh, sì, ella lo ammira,

lo ama!

Inclinato, lo specchio della pettiniera le mostra il suo viso trasfigurato. Lo sguardo non ha più l’incertezza dell’innocenza; alla sua bellezza ignara, s’aggiungon le sedu146

zioni della bellezza conscia. Ella vede tutto ciò, lo sente, ne gioisce, e alzandosi lentamente, s’avvicina al cristallo ri-

velatore. Allora comincia a slacciarsi il vestito; si scioglie i capelli su le spalle, su il seno ancor piccolo, acerbo... Bisognerà pure dormire, perché domani avrà bisogno di tutte le sue forze per la cerimonia così commovente del mattino. Terminando di spogliarsi ella pensa a lui e si domanda come farà a star in tanta libertà quando egli sarà lì a osservarla?... Oh, no, mai! È impossibile!... Impossibile!... Impossibile!...

Egli rincasa a mezzanotte,

stanco e molto seccato. Ne

ha fin sopra i capelli di quello stupido preludio: da sei settimane si logora il cervello per trovare qualcosa da dire a quella bambina; e non ha ancora trovato niente. È bellina, quella bimba; ma a lui le bimbe urtano i nervi, è una cosa più forte di lui: non le può guardare in faccia. Sì che non è per gusto suo ch’egli si sposa; ma con la sua posizione e col suo nome non poteva fare a meno di finir così; ha aspettato, è vero, quanto più ha potuto; e un po’ più rischiava di farsi respingere dalle ereditiere di primo grado... Mentre ei si ripete tutte queste cose, belle e brutte, getta nei cassetti gli oggettini che potrebbero dispiacere a sua moglie o destarne la gelosia; da che non vede la ragione di distruggere i ricordi d’un passato assai simpatico. Gli autodafé, secondo lui, non son buoni che in teatro, per pre-

parare «una situazione»; gli è più comodo di chiudere a chiave un mobile che di perder tempo a far ardere delle lettere, dei ritratti, delle ciocche di capelli; senza calcolar che certe cose, massime i capelli, mandano del cattivo

odore... 147

D'altra parte, soltanto all’ultima ora egli si è occupato d’una certa liquidazione... Quella che lo impacciava di più era la povera duchessa, così graziosa, così devota. Per fortuna ella comprende tutto; giammai non le è venuto in mente d’ostacolar la carriera d’un amico; e per lui il matrimonio è una carriera; da che un-giorno o l’altro, quando ci saranno meno nuvoli per aria, egli si porterà candidato e giungerà, senza troppe lotte, alla deputazione. Questa volta, no, non gli conveniva, e aveva ragione. Entrare alla Camera gli è come pigliar il ritiro degli oziosi; ma in provincia, fin che un uomo non ha preso moglie non ispira una fiducia seria;

e anche a sessant’anni un ce-

libe è considerato come un rompicollo. Non ha nulla da rimproverasi, ecco; s’è portato bene...

raddoppiando in questi ultimi tempi le attenzioni delicate e le tenerezze, raddoppiando, magari di passione; sì che la duchessa, persuasa ch’egli prende moglie con la soddisfazione con cui un cane si fa frustare, accetta il proprio partito valorosamente. Si tratta di passare un cattivo quarto d’ora, nulla più. S’egli fosse soldato, lo potrebbero mandare fin là giù in Sicilia; bisogna prendere con calma i contrattempi della vita, nevvero? Poi le sue amiche la osservano e sarebbero troppo felici di vederla con le lacrime agli occhi: senza contar che i dispiaceri imbruttiscono una donna da un’ora all’altra... Anche con Sofia ha fatte le cose ammodo. Che diamine! Sofia sa benissimo ch’ei tornerà a lei verso l’ultimo quarto della luna di miele. Egli l’aspetta stasera stessa... Poi che la poverina gli ha chiesto di venire anco una volta in quella cara casa dove, del resto, non è mai entrata di giorno. Le sta a cuore di ringraziarlo delle sue premure, d’assicurarlo ch’egli è uno di quegli uomini che non si dimenticano e di fargli capire, discretamente, che se più in là gli convenisse di... Capirà lui. Eccola!... 148

Alquanto animata da una buona cena, ma non troppo però, ella è rosea, con gli occhi luminosi, più bellina che mai! Che donna di spirito! E una così buona figliuola! Sì ch’egli le dice addio calorosamente, con un’ombra di commozione vera, sentita, profonda. Ma si rivedranno. Oh, se si rivedranno! La vita è lun-

ga! Un altro saluto: il bicchiere della staffa. E domani, voghi la barca!

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— Senti — disse lei, sbarrandogli il passo, mentre lui pigliava il cappello per uscire — Senti!... c’è stato un giorno che con Alberto di Crestelle ci siamo dati del tu. Lui, alzò le spalle, incredulo, impazientito; voleva an-

dar via. — Senti — replicò lei con un tremito nella voce — ora va pure, ma ho voluto dirtelo, giacché ora siamo pari. Che gl’importava, a lui? Quell’altra lo aspettava, era tardi. — Ah, sì? — chiese in atto di sfida, tanto per dire qualcosa; e senza aspettare risposta, quasi ad esprimere: dunque ora lo vedrai! si chiuse dietro l’uscio del salotto con impeto. Commedie sciocche o verità, cui era meglio non replicare; più eloquente la dignità del silenzio. Stupida! Ora anche quell’ombra di rimorso che gli annebbiava le sue ore d’amore, con quell'altra, dileguerebbe per sempre. Stupida! Il solo ritegno a più libere gioie con quell'altra; il solo legame che ancora lo riconduceva, la sera, tardi, alla sua

casa, sua moglie lo aveva rotto con quelle parole sfacciate... Tanto meglio!... Che cosa mai poteva sperare di più comodo, di più delizioso?... Vero o no, d’ora in avanti più nessun riguardo; non lo aveva tradito anche lei?... non s’era fatta sposare senz’amarlo... amandone un altro?... e forse l’altro non l’aveva voluta sposare... e lui?... lui s’era lasciato

Lai

illudere da quella sua aria di candore... e tutto era stato falso?... che gl’importava?... Tanto meglio!... Passò dinanzi

un teatro; dalla gran porta uscivano,

e

fluttuavano nell’aria fresca dell’aprile, tepide emanazioni di buon tabacco di Smirne e di Tabasco, miste ai mille profumi indefinibili che si lasciano dietro le belle signore impellicciate e ridenti. Una folata fragrante passò sul volto di Guido, ma la scena che gli suscitò in mente di palchetti e di luce, di dame ingioiellate, di falsi sorrisi e di false parole, tutte le nauseanti commedie della commedia mondana, fu stranamente fuggevole, e lasciò subito il posto a una più dolce visione... Là, tra quelle colline, in quell’angolo cheto di mondo, in quel viale di vecchie quercie, s’eran dette le parole sante che il cuore non dimentica più! Non deliri, non ebbrezze spensierate, ma il forte, il serio sentimento di due cuori buoni, di due intelligenze robuste che s’incontrano, s’intendono, si stimano, e s’amano anche per questo. Quanti

ostacoli avevan dovuto superare, quanti dubbi, quanti affanni, quante speranze rotte prima di raggiungere quella mèta cara! E lui, quando fuggendo dalla città, dal rumore, dalle leggierezze mondane, giungeva a quel cantuccio di paradiso, da lei, che lo attendeva in fondo al giardino, sotto le querce e lo accoglieva sempre con quelle parole così semplici e così innamorate, le parole che sapeva dire lei sola, con quegli sguardi ardenti e casti ad un tempo, e gli parlava seria di quel suo amore immenso, e gli baciava le mani, con quella sua espressione altera del volto, che, anche inginocchiata innanzi a qualcuno, l’avrebbe fatta parere una regina o una santa, lui si sentiva rinascere, si sentiva feli-

ce; un’onda di fede, di tenerezza purissima lo avvolgeva tutto, una grande smania lo prendeva di ringraziare qualcuno, di conoscere Dio, di gridargli la sua gioia. Erano sposi da tre anni. Si sa, il tempo... Ormai niente e nessuno più gliela contendeva; per tre anni s’erano amati liberamente, scambiando pensieri e carezze, racconti e ba-

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ci, rimembranze e sospiri. Poi si sa, seguitando pure ad amarla, un’altra gli era parsa desiderabile, gli era piaciuta, lo aveva amato, e lui... anche lui, si sa. Ma per questo si doveva insudiciargli quell’immacolato sogno di tanti anni? Così, era stato tutto falso? la passione, l’alterezza, il candore? Quei vesperi indimenticabili, quando tornavano silenziosi da una lunga passeggiata insieme agli altri, e a uno svolto di via, dietro un folto, le ombre della sera facendolo audace,

egli stringeva rapidamente alla vita la sua fanciulla, e la sentiva fremere d’amore e di sgomento? E quando la sera, prima di lasciarsi, si stringevan la mano, guardandosi negli occhi, vibranti d’un solo desiderio: rivedersi presto il domani! e quando poi, lontani, vivevano lunghi giorni, scambiandosi rari segni di ricordo d’amore, ma sempre sicuri, sempre tranquilli, fra dubbi passeggeri e passeggere paure, fidenti in fondo nel proprio carattere e forti del loro amore... Tutto era falso, tutto era falso? Certo, d’ora innanzi, la

libertà sarebbe maggiore... Ma quando, uscendo dalla casa di quell’ altra, che per lui tradiva il marito, s’avvierebbe alla casa propria, quel senso indefinibile di sicurezza e di pace non l’avrebbe più ritrovato... Il suo mondo buono, glielo avevano distrutto... E... se non fosse vero? se fosse soltanto smania di vendetta?... pure era così sincero l’accento!... ma... se il veleno che gli aveva messo in cuore ella lo avesse attinto dalla gelosia solamente? Ma, Dio! che doveva importare di quell’altra? lei, sua moglie, /ei?/... oh non capiva dunque come l’amava? come era diverso l’amore per lei, la fiducia in lei, il bene immenso e alto che le voleva?! che le aveva voluto!... adesso non più, s’intende, adesso era fi-

nita; tutto quel dolce passato infangato, non più un ricordo santo, non più una dolcezza vera da rigustare con la memoria, non più un’ora d’intimi colloqui da cuore a cuore, nella piena fede dell’intelletto che c’intende, dell’anima che ci ama... Che porta era quella? Ebbene, sì! giacché senza avvedersene era tornato a casa, giacché la sorte lo ri53

conduceva da lei, saprebbe il vero finalmente; doveva, vo-

leva sapere. Mise la chiave nella toppa ed entrò. Mezz'’ora innanzi, lei era corsa a rinchiudersi in camera sua, con la febbre. Pallida, le labbra tremanti, stretta la

gola da un singhiozzo che l’orgoglio ricacciava indietro ostinatamente, andava ripetendo a bassa voce, con la con-

citazione dello smarrimento: — Infame!... Infame!... — e quasi ad inacerbire quell’angoscia intensa che già provava, rievocava il passato, le promesse, le carezze appassionate, le lunghe

conversazioni

piene

di fiducioso

abbandono,

confessioni di pensieri segreti, di aspirazioni intime, d’idee strane e formulate appena, in nebbia, nella propria mente. Poi tutte le vanità ch’essa aveva saputo schiacciare, le seduzioni cui essa aveva potuto resistere, le battaglie della ragione, della logica, dell’orgoglio, della materna esperienza, ch’essa aveva dovuto combattere e vincere, per giungere ad esser sua, per potergli dare la sua anima vergine e i suoi primi baci, per chiudere in lui tutto il suo mondo e non aver altro padrone, altro sovrano, altro Dio che lui solo. No, non poteva più stare là; sarebbe tornata dalla sua mamma; solo allora, nella casa che l’aveva vista bambina,

la casa cara e santa che essa aveva lasciata per correr dietro a quell'uomo; solo quando avesse potuto buttare le braccia al collo della sua mamma, sola con lei, strappata quella pesante maschera di sdegnata alterezza, avrebbe finalmente potuto piangere, piangere dirottamente, con l’abbandono della disperazione lungamente nascosta e frenata da quel demone dell’orgoglio, del risentimento feroce, che adesso le serrava la gola e non le permetteva le la-

grime. — No, no, lui non meritava di sapere quanto lei lo avesse amato! — E mentre il pianto le gonfiava ormai gli occhi, e mentre, colle mani tremanti, metteva alla rinfusa in

una valigia oggetti disparati ed inutili, quasi a convincersi che la sua ragione l’avea tutta, e una volta fermato un piano sapeva ad ogni costo seguirlo, la sua mente mutava pensiero. Bisognava lasciarlo, oh questa sì, ma quel sospetto

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odioso non doveva restargli: e tolto da uno stipo, fra molte carte una lettera, l’aveva portata correndo sulla scrivania del marito, poi era tornata nella sua camera a chiudere

la valigia... singhiozzando. *

*

*

Rientrando Guido nel salotto, lo trovò deserto. Meglio;

avrebbe avuto il tempo di calmarsi prima di parlare con lei. Il cameriere, accorso all’impaziente squillare della soneria, stette invano paziente e rigido cinque buoni minuti sull’uscio. Il padrone stava evidentemente cercando un libro o un giornale, o forse chiedendosi perché mai avesse chiamato quel servo. Finalmente, trovato quel che cercava, ordinò si accendesse la lampada dello studio e s’avviò poco dopo anche lui. Nello studio, quando fu solo, e mentre si toglieva i guanti, pensando a ciò che avrebbe detto a sua moglie, vide la lettera e subito la prese e l’aprì. Era d’Alberto. Una lettera un po’ ingiallita e gualcita, che portava la data di tre anni innanzi, il venti d’aprile, la vigilia del matrimonio. Lesse: «Signorina Bice, Quando con la spavalda sicurezza che m’avevan dato molte turpi anime, e molti falsi e facili trionfi, vi offersi un none, che, essendo illustre e glorioso, credevo allora dovesse bastare a rendermi glorioso ed illustre a mia volta, e vi offersi la mia fortuna, che stupidamente

colossale, credevo

dovesse

affasci-

narvi senz'altro; voi, senz’ombra di civetteria, senza beffardi sogghigni, senza ingenerosa crudeltà, né per niente eccitata dalla vittoria che in certo modo riportavate sulla mia sciocca imprudenza, voi mi rispondeste, tranquilla e seria, franca e mitissima, che mi eravate grata della fiducia che riponevo nel vostro carattere, offrendovi la custodia di un nome così immacolato ed illustre, ma che voi... non m’'amavate, e che per me non avreste sentito mai altro che amicizia costante, serena. Allora come

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un gran velo mi cadde dagli occhi; io scettico, nauseato, cattivo, io nel dolore di quella rovina di amore e di certezze, più che di speranze, provai come una forte gioia, un sentimento nuovo e possente che mi prese con la soavità d’una carezza materna. Un sano alito di lealtà e d’innocenza mi passò nell’anima e vi suscitò un mondo di dolcezze sopite, di credenze buone; molte serene immagini viste e sognate da fanciullo mi si riaffacciarono alla memoria, molte parole profonde mi suonarono nel cuore con più chiaro senso. Un gran rivolgimento si fece nel mio carattere, nella mia indole non perversa, ma sviata, ma guasta dalle lusinghe e dalle bestemmie del volgo, oltre il quale non aveva pensato potesse essere un altro mondo, più intimo e vero, più sicuro ed onesto. Da quel giorno è passato un anno. Ora so che domani andate sposa a Guido Alvieri, che mi dicono degno di voi. Invece di mandare alla sposa un sonetto, o un mazzo di fiori, io le mando questa mia dichiarazione di ravvedimento. Parto domani per un lungo viaggio in Oriente; mi stabilirò in Inghilterra, tornando. A voi sarò grato sempre. Pensate se non v’auguro di tutto cuore la gioia che meritate tanto. Alberto di... »

Quando Guido entrò in camera di sua moglie, la trovò seduta innanzi al tavolino, col volto nascosto tra le mani,

e volto e mani come affondati tra i libri e le carte della scrivania. Aveva pianto lungamente come una bambina, e quel forte martellare delle tempie che segue il gran piangere, così doloroso e stupefacente, l’aveva finalmente immersa nel faticoso sopore, pieno di fantasmi affannosi, d’incubi e di sussulti, che riempie le brevi tregue delle for-

ti angoscie. Furono i baci di suo marito che la svegliarono. Sono scene che non si raccontano. La cessazione del dubbio e del dolore (s’è detto) è la vera e sola felicità. Lui

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ormai era sicuro, più sicuro di prima. Lei aveva ben visto, non è vero? che egli era tornato subito, pazzo di gelosia? e quanto aveva sofferto! una eternità di spasimo in quell’ora. E credesse, lo giurava, quell'altra era stata un capriccio, un breve capriccio, una leggerezza che malediceva furiosamente, ma sapeva bene, /ei era una cosa così diversa!... ma come mai poteva essere gelosa? gelosa lei, lei il suo amore bello e santo, la sua vita e la sua fede unica, l’intelligenza, la bontà, la donna ideale? ma, Dio buono, come mai, come mai?...

E tutte le parole di tre anni innanzi, le parole che trovava laggiù, al cospetto del libero cielo, delle vecchie quercie severe, le parole che gli erompevano calde dal cuore profondo, nell’abbandono innamorato di tutto il suo essere, tornavano adesso alle sue labbra felici, dalla sua anima rassicurata e alleggerita da quell’enorme valanga di vergogne e d’incertezze ineffabili, che gli si era ingrossata dentro, nel breve giro di un’ora... Fu un ringiovanimento di amore,

un nuovo e forte ri-

goglio di perdono, d’espansioni, di sconfinata fiducia, come un largo appianarsi d’onde tempestose al soffio d’una primavera serena, un rifornimento trionfale di felicità. E una se-

ra, dopo un colloquio giocondo tutto intimità adorabili e adorabili confessioni, un colloquio in cui ciascuno avea messa

la più sincera e viva parte della propria intelligenza e del proprio sentimento; lui, pasciuto di sante gioie e alte gioie, di sana tenerezza e di legittimo amore, lui più sicuro che mai,

e più che mai pago del suo passato e del suo presente invidiabile, della sua donna e del suo domestico nido, lui provò

come un senso delicatissimo di pietà profonda, per chi era tanto, oh tanto meno felice di lui, e... tornò da quell'altra che,

poveretta, gli aveva scritto venti lettere invano; tornò... persuaso di non offendere, di non tradire niente affatto i/ suo amore bello e santo che lui amava in modo diverso, oh più

che mai, più che mail!... ch’egli adorava tanto più fortemente e nobilmente di quell'altra... di quell'altra cui «il suo amoDI

re bello e santo» non doveva pur confrontarsi in pensiero, di cui non doveva, oh no, essere gelosa... Dio buono! come mai? come mai?

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MARIA MAJOCCHI

L'ALTRA

Quando Piero Casalis lesse nel bigliettino acutamente profumato della bella contessa l’indirizzo dell’albergo dove era scesa per poche ore e dove lo attendeva, provò una puntura d’amaro ricordo. Non era più stato da a/lora a quell’albergo: aveva perfino evitato di tornare in quella piazza, di passare di là, per non alterare il ricordo di que! giorno, per non farvi una sovrapposizione d’altri ricordi banali — per custodire luoghi e persone intatti nel recesso più saero della sua anima. Ed ecco che il caso lo costringeva all’infrazione del tacito voto, inevitabilmente. Piero Casalis

aveva fatto troppe esperienze dell’indole bizzarra ed estrosa della sua amante per arrischiare una modificazione al programma; e quella donna gli piaceva ancora troppo per rinunziare al convegno, sebbene fuggevole. Rispose una riga d’ardente gratitudine, rassettò con cura minuziosa la sua giovanile ed attraente persona; salì in una vettura chiusa di cui calò tutte le tende, per non vedere, e andò.

Mentre il veicolo lo trasportava poco rapidamente sulla strada invisibile, ma così cognita al suo spirito, egli fece il conto esatto di quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva percorso quella via, a piedi, di sera, fra la nebbia,

col cuore

infranto

da una

separazione

suprema.

Due anni e trentacinque giorni erano passati, in alternative di tristezza e di calma, di sconforti e di ebbrezze, di spa059

simo e di rassegnazione sull’inalterabilità del ricordo che lo sbattimento della vita non turbava: come gli sconvolgimenti del mare non turbano il riposo profondo dei naufraghi che giacciono in qualche meraviglioso antro subacqueo fra l’alghe e i coralli. ì La carrozza inoltrava, tutta chiusa, nascondendogli il cammino, ma Piero lo vedeva, ne seguiva lè traccie, le cur-

ve, i progressi verso la meta, cogli occhi dell’anima. Anche quel lontano giorno piovigginoso vi si era recato in vettura chiusa, ma allora aveva abbassato i cristalli perché l’a-

ria umidiccia gli rinfrescasse la testa in fiamme, e la sua mano non aveva lasciato la maniglia dello sportello nell’ansia di aprire, di slanciarsi, attirato anche allora da qualche linea di calligrafia femminile e da un fascino... oh ben diverso da quello che lo attirava nel presente. Quanto aveva sofferto, quanto! e sinceramente

soffer-

to. Era forse per questo, chissà? che non aveva potuto dimenticare, giacché non è tanto l’individuo o l’avvenimento che fissa un’ora e una visione nella nostra memoria, co-

me il ricordo di ciò che provammo in quell’istante, nel mistero del nostro mondo

interiore: di ciò che sussultò, che

rivisse o che morì di noi. Ed ora egli rivedrebbe quei luoghi, quell’atrio, quelle scale; quelle persone, forse... ed ora, dopo un così geloso culto del sogno era costretto a profanarlo, a demolirlo, giocondamente. Il biglietto della bella contessa odorava forte dal portafogli di Piero Casalis, ma quell’andare nella carrozza chiusa, sulla strada invisibile, verso il luogo troppo conosciuto — quell’isolamento brusco e temporaneo fra i rumori della città popolosa, avevano accresciuto così le molteplici agitazioni del suo pensiero e gli assilli del ricordo, che egli quasi si pentiva d’aver obbedito con slancio inconsiderato a quel richiamo, di non aver almeno cercato un ri-

piego, di essersi esposto a quel sottile martirio... La carrozza si fermò.

160

Il giovine chiuse gli occhi un momento e rimase immobile. Ma lo sportello fu aperto subito da una mano premurosa, ed egli scese, pagò la corsa, entrò nell’atrio del grande albergo come un sonnambulo. Era ben quello, era ben quello: fiancheggiato da piante esotiche, lo stesso tappeto, gli stessi gran globi di cristallo. Anche uno dei camerieri era lo stesso. Per fortuna non lo riconobbe e fu un altro, un viso nuovo, che gli chie-

se inchinandosi che cosa desiderava. Piero Casalis diede la sua carta di visita e ordinò la recassero alla contessa, «alla contessa Hermosa» — un nome

falso ch’ella aveva dato per precauzione. Nel breve momento in cui rimase solo, un’inaspettata e pallida dolcezza gl’invase lo spirito. Era l'atmosfera del passato, l’atmosfera dell’ora più intensa del suo passato. Ed egli riflettendo come nell’affrettata e randagia vita moderna le ore del sogno o della passione si vivono quasi sempre in un ambiente banale o provvisorio dove non si ritorna, pensò ch’egli, invece, avrebbe dovuto ritornarvi; santificarlo del

suo ricordo e ricercarvi le traccie della soave Sparita... Il cameriere ridiscese subito, lo pregò di salire. Ed egli salì lo scalone, rivide il grande specchio sul pianerottolo,

e la pensosa statuetta d’Ebe, bianca fra il verde: rivide la sala di mezzo, coi divani ricoperti delle fodere di tela, i cor-

ridoi interminabili. Ma dove lo conducevano dunque? Un dubbio che fu dolore gli traversò la mente... Il cameriere si fermò a una vetrata — a quella porta. — Come è qui?! — c’era dello sgomento e dell’ira, quasi nella richiesta — è qui? — Sì, signore, è qui. La signora contessa Hermosa ha il 10 e 1’11 — spiegò l’uomo attonito. E spalancata la porta si ritirò. Dapprima Piero non vide che lei, Alessandra, in piedi, nella sua florida bellezza: ancora vestita da viaggio, di scuro, con la borsetta di velluto alla cintola. Ella mosse ver-

161

so di lui con le mani tese, un raggio negli occhi, le labbra rosse e carnose schiuse ad un sorriso: — Ma che fretta, ma che fretta! — non mi avete concesso nemmeno il tempo di fare un po’ di toilette... Sono ancora sudicia, impolv... La parola morì sotto i baci del giovane che parevano suggerla avidamente. Alessandra, sempre ridendo, tentava di sottrarsi, di sciogliersi da quelle braccia che l’avvince-

vano: — Su... che ragazzo...

finiscila, lasciami

adesso... — E

quand’egli la lasciò e rimase a guardarla un momento, serio e tutto pallido, fu lei che gli si abbandonò pazzamente contro il petto, che lo baciò sul collo, che lo strinse con tut-

te le sue forze: — Finalmente,

amore,

amore... — Poi si scostò brusca,

si ricompose: — Abbiamo giudizio per un mezzo minuto — continuò con quel suo fare gaio e franco che s’accordava con la opulenza, con la paganità della sua bellezza: — Ti sarai sorpreso molto, suppongo, nel ricevere il mio bigliettino di qui? — M°è sembrato di sognare — mormorò l’amante portandosi le mani alle tempie, smarrito. — Sei stata così spietata con me, così bizzarra in questi ultimi tempi, che non mi aspettavo una dolcezza simile. Poteva anche essere un inganno, una di quelle tue cattiverie raffinate ed inutili... Pure non ho esitato a venire, hai veduto? Egli aveva impreso a parlare quasi triste — ora finiva con durezza, con una specie d’astio latente. Alessandra lo ascoltò appoggiata con le reni a una tavola a cui si reggeva pure con le palme, chinando la fronte nell’atteggiamento d’un’accusata che serbò per pochi istanti in silenzio. Levò poi gli occhi, gli sorrise, come una bimba che vuol farsi perdonare, seducentissima.

— Ti dirò poi — proruppe con una mossa imprevista e risoluta passandogli la mano sotto il braccio e conducendolo a un divanino accanto alla finestra — ti spiegherò... Tu

162

capisci spesso a rovescio... Tu spesso tirannia ciò che non è che necessità stanze, da misure di prudenza... Che gnarti di me? Se non ti amassi ti avrei

giudichi capriccio o imposta dalle circomotivi hai tu per lachiamato? Sarei qui?

Sedettero lentamente, vicini. Egli l’allacciò alla vita, re-

clinò la testa sulla spalla di lei. — Non ho che cinque ore — continuò Alessandra — guadagnate nel viaggio a costo d’una levataccia. Dovrei essere ancora a Milano. Mi aspettano questa sera col treno delle undici e mezzo. Piero le mormorò qualchecosa all’orecchio, fra due baci. — È impossibile... non capisci? devo essere a casa alle undici e mezzo! E siccome il giovine implorava ancora sommessamente, piegandola verso di sé, ella si sciolse e balzò in piedi: — Mai contento, mai... io lo sapevo: sei sempre il solito... Tu guasti il momento presente con la preoccupazione del futuro — non è possibile un’ora di gioia con te, è una

cosa insopportabile...

— Alessandra, Alessandra... — Niente, niente; per vostra penitenza mi aspetterete qui finché mi piacerà... Più tardi riparleremo. Piero rimase seduto sul piccolo divano nell’atteggiamento umile e domo che la sola presenza di quella donna, che gli addormentava l’anima e gli accendeva i sensi, pareva imporgli. Ella era uscita in fretta, era passata nell’altra stanza, aveva chiuso l’uscio a chiave. Solamente allora, nella nuova solitudine, le pareti, i mobili, l’aspetto della stanza dove nulla era mutato, parvero

! col treno delle undici e mezzo: è la situazione di Meno di un giorno di Camillo

Boito, in Senso. Nuove

storielle vane, Milano, Treves

1883.

163

al giovane quelli d’un tempo, come

se, solamente allora,

nella solitudine, volessero mostrarsi al suo spirito. Gli oggetti, i colori, parevano una testimonianza, una riconferma alla continua visione, per due anni, nelle ore migliori, evo-

cata: e sebbene fluttuasse ancora nell’atmosfera il profumo d’ Alessandra, l’aroma indistinto del passato soverchiava, ri-

destava l’anima, per la rivincita, pel trionfo di quell’ora spirituale. E l’imagine dell’altra, della lontana, della perduta, adagio si ricomponeva, tornava nell’ambiente ch'era stato

suo sino a quel momento, in quel volgare salottino d’albergo che a Piero era parso un tempio, dove ancora, ancora la rivedeva evidente, come se appena ne fosse uscita invece di Alessandra. La rivedeva, esile, troppo esile nell’a-

bito nero, quasi portasse il lutto del loro amore condannato a morire — seduta sulla poltrona accanto al tavolino, poi ritta, con le mani intrecciate, gli occhi dolorosi — poi di nuo-

vo seduta vicino a lui — su quel divano dove aveva avvinto desideroso Alessandra, dove a//ora, egli, in ginocchio per

terra, aveva coperto le mani dell’altra di baci e di lagrime. Che ora fu quella! Essa, la donna onesta, l’immacolata, la buona, che da un anno egli amava d’una tenerezza ineffabile, senza speranza, e che lo amava, gli aveva scritto:

«Piero, venite, ci vedremo, ci parleremo, soli per la prima volta, per l’ultima volta». Ed egli era andato in preda a un’ansia confusa, a una dolcezza senza nome, a uno sbigottimento senza limiti. Era andato e l’aveva trovata sola, in quel salottino d’albergo, triste, dignitosa, soavissima. Gli aveva detto tutto, tutto quello ch’egli sapeva già, ch’egli sperava, ch’egli sognava, ma che mai labbra gli avevano detto. Tutto quello che di più profondo e di più ardente e di più nobile e di più bello un’anima possa dire a un’altra anima in un momento supremo, nell’ora unica della vita. Ella partiva, seguiva il compagno che la sorte le aveva dato, il padre dei suoi figliuoli che l’amava fedelmente e fidentemente. Il loro sogno d’amore non confessato, non

164

determinato colle parole che bruciano e disperdono, finiva: e poiché finiva, ella parlava, voleva dirgli tutto: la falsità della sua indifferenza, della sua freddezza, del suo orgoglio,

del suo equilibrio morale, di tutto il suo contegno verso di lui: le lotte combattute, i divieti ripagati con abbattimenti di morte, gl’impulsi di gioia sovrumana ad ogni conferma d’essere amata come

amava,

di sentire continuamente,

in-

defessamente, delicatamente, l’altro pensiero che incontrava il suo, l’altro desiderio che incontrava il suo, sulla tra-

ma del sogno medesimo divino e irraggiungibile. Tutto gli disse: dai primi turbamenti all’acerbo irrompere della passione gagliarda e schietta come una fiamma, all’intima tragedia dell’imminente

abbandono.

E fu spietata, fu in-

flessibile in quella regale elargizione di tutti i tesori dell’anima sua. Anche il ricordo delle parole, adesso, gli veniva insieme all’incerta eco della voce dileguata nella lontananza del tempo, la voce che non riudirebbe mai più: «Lascia ch’io m’illuda d’essere

d’essere esplicarsi,

in una

plaga

effondersi

fuori dai confini

libera

come

dove

della terra,

il sentimento

la fragranza

dal fiore;

possa dove

l’anima possa volare all’anima senza leggi e senza freni e senza peccato. Ti parlo come se fossi morente: come ti avrei parlato prima di morire, se solamente la morte ci avesse divisi. E perché io ti dica queste cose che non ho detto a nessuno, che non dovevano uscire dalla mia esistenza segreta se non in un’ora solenne, bisogna proprio che la nostra separazione sia senza ritorno. Sentimi: io voglio lasciarti di me un ricordo che non si cancelli — voglio che nessun avvenimento o nessuna creatura possa più togliermi da te; e che il ricordo di queste mie parole ti torni incessantemente, come torna il ricordo delle parole dei morti che amammo e che ci amarono. Nella lontananza, nell’ignoto, io continuerò a farti vivere nel mio pensiero e nel mio cuore;

continuerò a benedirti per le rivelazioni che il tuo amore mi ha dato, nella gioia sovrumana

del mio spirito, nel dolore

ineffabile; per quello che mi ha fatto divinare e compren165

dere: quello che non avrei saputo mai... Vedi, è come l’Agave questo nostro amore, triste e sublime, preparato nel mistero, alimentato di luce, ingagliardito dalla solitudine...

come l’Agave miracolosa che sboccia il giorno che muore... ». Lucidamente la rivedeva, coprirsi il volto con le ma-

ni pallide e sottili, le fini mani che si erano poi posate in così blando e pietoso atto di carezza sul suo capo, dimenticando la propria ferita per la ferita altrui. E lo aveva ammonito dolcemente, persuaso; aveva anche sorriso con qualche parola di speranza ingannevole come quella spera di sole che filtrava attraverso le nubi cariche ancora di pioggia a far scintillare un vasetto di vetro verde, quello stesso, sul tavolino, e che pareva a lei un buon augurio. Si ricordava di averla veduta affacciarsi un attimo in cerca d’aria al balcone di pietra, mentre egli con la testa fra le ma-

ni cercava nel disordine folle della mente accesa un aiuto, una difesa contro l’impossibile. Ella aveva poi parlato ancora, gli aveva detto: «Tu mi dimenticherai, forse, sei gio-

vine! o almeno la mia immagine s’offuscherà tanto in fondo alla tua memoria che sarà come se tu mi avessi dimenticata. Amerai di nuovo: avrai degli amori più floridi, più giocondi, più consentanei all’indole della tua giovinezza. Pure io so che in qualche ora dell’avvenire ti ricorderai di me, risentirai vivo e possente il mio impero, la fratellanza

del mio spirito: saranno forse ore di contrasti e d’angoscie e di amarezze, ma saranno ore buone, le migliori della tua vita. E forse un avvertimento segreto me le additerà». Che

strazio

lasciarsi,

obbedirle!

Ma

poiché

ella era

eroica e immutabile, poiché l’elevazione dell’anima di Lei attirava nelle fredde e lucenti sfere del dolore e della bontà l’altra anima avvinta alla sua, conveniva accettare la

prova superiore alle forze umane, grandiosamente. Si dissero addio. Piero la ricordava, nell’estremo momento, ritta in mezzo a quella stanza, bianca nel viso sul suo abito

nero, immobile. 166

Ed ora un rammarico, un rimorso, tanto più aspro perché tardivamente inutile, lo assediava: quello di non avere scongiurato abbastanza; di non averle espresso abbastanza la sua disperazione, la sua passione, il suo soffrire. Oh se avesse saputo essere eloquente — audace forse... — ella avrebbe certo revocato la sentenza inumana, ella sarebbe stata debole e amante, semplicemente, e non si sarebbero

lasciati mai più. Eppure, in mezzo all’ira dell’irreparabile, Casalis sentiva che il possesso più completo e più durevole non gli avrebbero fatto amare quella creatura più intensamente di quello che l’amava in quel momento di rievocazione quasi inconscia e fedele, provocata dalle cose: in quel momento

di disfatta, di vergogna e di tristezza, in cui tutto quello che c’era di più luminoso nella sua individualità si rifugiava in lei, si proclamava suo. Fluttuava ancora vagamente il profumo d’Alessandra, ma l’anima riconosceva soltanto 1° Al-

tra, l’assente, la perduta, come la sua propria sovrana. E quando l’uscio adagio si schiuse, e la bellissima donna emerse dal fondo d’ombra della stanza, provocante nelle nu-

dità mal celate dalle trine dell’accappatoio, e sorrise al giovine, tentatrice, egli la raggiunse, ma solo col corpo la raggiunse, e la vittoria rimase ancora all’altra, alla tradita.

167

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ANNA ZUCCARI

IPOTENÙSA, VA!

Quando la signora Bettina ebbe chiusi gli occhi per sempre, suo fratello, l’illustre Spiridione Tomei, stentò molto a darsi pace. Prima di tutto c’era l’affetto di famiglia, questo non è da mettersi neppure in dubbio; poi la consuetudine della vita in comune che quando non vi sia aperta incompatibilità di carattere crea pur sempre un vincolo. Quel vedersi tutti i giorni, prendere i pasti assieme, sapere che all’uno piace l’aglio e che l’altro non lo può soffrire, udir ripetere certe frasi ingenue: «Vuol piovere, il mio callo mi dà noia», oppure: «Oggi è Sant'Antonio, la giornata si allunga di un’ora», avere infine qualcuno a cui confidare che si è passato una cattiva notte o che si ha un principio di infreddatura, è vero, sono cose molto semplici, ma legano incredi-

bilmente a quell’età che non si interessa più delle vicende d’amore e con un temperamento

alieno dalla politica, ché

tale era appunto quello di Spiridione Tomei. Egli era vissuto fino allora così tranquillo accanto alla buona sorella, in un quartierino solitario rimasto incolume da un secolo nel centro della città, col Naviglio sotto le finestre e un giardinetto decrepito pieno di erbe parassite che si incappucciavano a primavera di un ridente padiglione di glicine sufficiente a dargli l’illusione del paradiso terrestre, perché — era questo un canone fondamentale della filoso-

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fia di Spiridione Tomei — tutto ciò che ci rende felici non è che illusione. Egli si appoggiava anche per far valere la sua teoria all’autorità di un proverbio indiano il quale dice: «Checché l’uomo faccia non potrà trasportare delle acque del Gange più che un vaso per volta». Dunque un ciuffo di erbe e una pianta di glicine moltiplicate nella fantasia fino a dargli la visione di parchi infiniti abbellivano a’ suoi occhi di saggio un vecchio appartamento privo di ogni moderna comodità, coi pavimenti di mattonelle rotte e le

finestre che non chiudevano. È però vero che la sua buona Bettina aveva disteso lungo i vetri parecchie listerelle di cimosa avanzate dalla stoffa di un antico soprabito. Ed ora non c’era più la Bettina!... Un'altra cosa che sconcertava le abitudini di Spiridione Tomei era la necessità di dover conferire direttamente colla donna di servizio. La sua vita morigerata di uomo di studio lo aveva tenuto così lontano dalle esperienze femminili che dinanzi a una donna egli si trovava sempre un po’ imbarazzato. Nei primi giorni, siccome l’Agata gli stava intorno continuamente: «Signor padrone questo, signor padrone quello» e gli parlava con singolare volubilità della povera signora morta e del burro rincarato, nonché del garzone del macellaio che aveva preso il volo con cinquanta lire del banco e due vitelli e mezzo, gli sembrava proprio di avere aperto l’uscio a uno stormo di passeri. Si sentiva incretinire. — Ti prego, — disse alla fine colla sua voce più melliflua, non volendo a nessun costo offendere una donna: — ho

un lavoro importante da finire. Quasi non bastasse l’urbanità della frase la accompagnò con uno sguardo umido e tremolante, uno sguardo pieno di tenerezza umana, interpretato chi sa come dalla servetta, la quale scoppiò a ridere irriverentemente e questo riso inopportuno finì di sconvolgere le idee del filosofo che stava preparando un importante lavoro dal titolo: La coscienza nei rapporti colla volontà.

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— Le donne — egli concluse asciugando la penna con un rosolaccio di panino rosso e nero (lavoro della defunta) — sono assolutamente incomprensibili. Incominciato sotto tali auspici il governo domestico di Spiridione Tomei non somigliava né ad un regno né ad una repubblica né a qualsiasi altra forma di reggimento riconosciuto, perché, se non vi erano i termini dell’imperiali-

smo, mancavano pure le forze civili di una repubblica, e solo l’anarchia, che è negazione di governo, potrebbe paragonarsi a ciò che succedeva in quella casa, ammesso che si possa mettere a confronto la tragedia colla farsa. — Agata, — diceva il padrone, — le calze che mi hai da-

te stamattina sono piene di frinzelli. — Fringuelli?! O come vi potrebbero essere dei fringuelli nelle sue calze? Se li è forse sognati? — Non ho detto fringuelli, — spiegava serio il padrone, — ho detto frinzelli, che sono, guarda qui, queste accapponature del tessuto le quali mi fanno l’effetto di avere una nocciuola nelle scarpe. Alla seconda parola difficile 1’ Agata aveva preso un’aria di sussiego, come di persona offesa, brontolando: — Allora si parla chiaro e non abusare di una povera ragazza che non ha avuto tempo di andare a scuola per mortificarla col suo latino. E se le calze sono bucate io non ne ho colpa, che non sono io che le porto, né che le compero, né che le faccio; Dio guardi, ci mancherebbe altroché dovessi anche sferruzzare a farle le calze, che del resto lei

sarebbe capace di pretenderlo perché i signori al giorno d’oggi non hanno più carità del prossimo e se c’è tanta anemia intorno, come dicono i dottori, che l’ho anch’io, è per-

ché i padroni ci fanno lavorare come bestie. Ci vuol altro che stare a tavolino a scrivere. Quello è un mestiere da nulla; dovrebbe essere nei miei panni; ma loro sono senza cuore tutti dal primo all’ultimo. Oh! verrà anche per loro il

giorno!

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Esterrefatto,

Spiridione

strano discorso, che,

aveva

seguito quello

iniziato brontolando,

Tomei

si era a poco a

poco alzato di tono fino a diventare una minaccia. E non capiva in qual modo avesse fatto 1’ Agata per passare così rapidamente dalla condizione di accusata a quella di accusatrice, girando la questione in guisa che il punto di partenza era scomparso affatto. Tuttavia, persuaso che un buon ragionamento aggiusta ogni cosa, si arrischiò a incominciarlo così: — Ragazza mia tu manchi di logica. Ma l’Agata non lo lasciò proseguire. Rompendo in uno scoppio di pianto e implorando l’anima della defunta padrona, che almeno quella di parolacce non glie ne aveva mai dette, uscì sbattendosi dietro l’uscio.

— Forse — argomentò il valent’uomo grattandosi un orecchio — avevo torto, per il passato, quando mi pareva che Bettina non usasse la debita pazienza. L’affare è più serio di quanto credessi. Sicuro, sicuro. Il male è che non

vi sono termini fissi, né giusta proporzione di piani, poiché è ben vero che i padroni comandano, ma non è detto che i servitori obbediscano; ovverossia è detto ma non fat-

to; ovverossia ancora il fatto quando avviene è come certe operazioni nelle quali l’operatore trionfa ma l’operato muore. Contento della sua piccola diagnosi psichica e con quel felice potere di astrazione che hanno i pensatori, Spiridione Tomei si persuase di sfuggire alle noie domestiche comperando dodici paia di calze nuove e non pensandoci più. Si sprofondò allora tutto quanto nel lavoro al quale voleva confidare la gloria maggiore del suo nome: La coscienza net rapporti colla volontà. L’ora per lui propizia alla occupazione intellettuale essendo quella che segue immediatamente

il levarsi, aveva raccomandato all’ Agata di

scaldargli bene la stufa del suo studiolo e per alcuni giorni la faccenda camminò liscia. Poi a poco a poco avven172

nero dei ritardi, insensibili dapprima, notevoli in seguito e

sempre crescenti. — Agata, questa mattina il termometro del mio studiolo misurava sei gradi di calore. È indispensabile che tu accenda la stufa più presto. — Non posso mica accenderla di notte. — Né vorrei. Ma dopo la notte viene l’alba, poi il mattino fatto, e mi pare che per le nove si potrebbe avere una discreta temperatura. — Alle otto è ancora buio, miracoli non ne fa nessuno.

Egli avrebbe potuto provarle che non c’era bisogno di miracoli per esaudire il suo modesto desiderio; tuttavia preferì aspettare tempi migliori, per amor della pace. Verso la metà di febbraio, essendo nevicato sui monti,

l’aria fattasi più frizzante che mai e lo studiolo a nove ore ancora freddo, egli arrischiò l’osservazione che le giornate essendosi allungate il miracolo di tenere la stufa calda per le nove non era proprio di quelli che possono pretendere alla canonizzazione. E sorrise dello scherzo innocente, soddisfatto di poter

temperare con esso l’insistenza della richiesta. Ma l’Agata non la prese per questo verso. — Mi faccia il piacere! — esclamò con quanto maggior disdegno poté raccogliere sulla sua faccia di mela cotogna: — come può ella sapere che le giornate si sono allungate se si alza che è giorno fatto? A tale incredibile sortita Spiridione Tomei eresse le braccia al cielo e ve le tenne un istante, quasi la terra gli

traballasse sotto e andasse annaspando un sostegno lassù; poi lasciandole cadere con una espressione così compunta e rassegnata che avrebbe ammansato il furore di un tribuno popolare, con una voce dolce dolce, ammonendo sé stesso del dovere che incombe a chi sa di istruire coloro che non sanno, rispose:

— Senti, ragazza. Tralasciando certi calcoli per te difficili basta guardare i/ doppio Pescatore di Chiaraval173

le! per sapere che col mese di febbraio il sole entra in Pesci e il giorno cresce al sei di ore 1,18, al dodici di 1,34,

ecc. Oggi siamo al sedici e mi pare... — OA! — interruppe l’Agata seccata: — queste sono sciocchezze. Né lei né il Pescatore di Chiaravalle possono sapere quanto tempo occorre per riordinare una casa. — Ma che le giornate si allungano sì. Lo diceva anche mia sorella, ti ricordi? A Sant’ Antonio un’ora buona”.

— Come non si lavorasse già abbastanza, c’è proprio bisogno di far crescere le ore. — Ma no, non è così, dà retta...

— Non v’è peggior mestiere che quello di servire. — Infatti, c'è anche una musica? su queste parole. Ma

! il doppio

Pescatore

Chiaravalle. Almanacco

di Chiaravalle:

Il doppio

astronomico(-agronomo),

Pescatore

di

stampato a Milano

dalla tipografia Motta di Marsilio Carrara, poi da quella di Carlo Borroni, riprendeva nella seconda metà dell’Ottocento uno dei nomi più famosi degli almanacchi popolari italiani (si rinvia particolarmente a Giuseppe Baretta e Grazia Maria Griffini, Almanacchi dell’800 a Milano, Milano, Scheiwiller

1987, e a Gabriella Solari, Almanacchi,

lu-

nari e calendari toscani tra Settecento e Ottocento, Milano, Editrice Bibliografica - Regione Toscana 1989): tra le rubriche fondamentali quella dedicata a Solstizi ed equinozi. Ad alcuni almanacchi — quando sul finir del secolo venne via via più in uso l’inserimento nell’almanacco di brevi testi letterari, quando non addirittura una sua identificazione con il genere delle strenne di fine anno — collaborò anche Neera: all’Almanacco popolare illustrato (L'amico della pace) edito da Sonzogno nel 1890, all’Almanacco illustrato della pace per il 1893 (Giù le armi!), edito da Arturo Demarchi nel 1892, al Calendario universale per le famiglie edito come gli altri a Milano, da Manini, nel 1894, ? un'ora buona: è a metà gennaio, il 17, sant’ Antonio abate.

è una musica: il contrappunto musicale, d’opera buffa — si pensi a La serva padrona di Pergolesi e Gennaro Antonio Federico, al Così fan tutte di Mozart e Da Ponte (Atto I, Scena VIII; Despina: «Che vi-

ta maledetta È il far la cameriera! Dal mattino alla sera Si fa, si suda, si lavora, e poi Di tanto che si fa nulla è per noi»)... —, percorre come

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dà retta, tutto si può aggiustare con della buona volontà. — ... fin da quando — interruppe l’ Agata seguendo il suo furore — mia madre mi mandava a attingere acqua lontano un chilometro con una secchia pesante che mi faceva traballare spargendo l’acqua su tutta la strada, che poi ne pigliavo delle busse e alla mattina dovevo alzarmi col canto del gallo... — Vedi? Vedi? — interruppe a sua volta Spiridione Tomei sembrandogli di avere afferrato un buon argomento per dimostrarle che la di lei condizione come si era già avvantaggiata poteva migliorare ancora. Ma sì, acchiappa una vespa a volo se ti riesce! — E se non le accomoda il mio servizio lo dica subito che per me me ne vado senza un rammarico al mondo. — Eccoti, secondo il solito, fuori d’argomento. Non si parlava del giorno che cresce? E dunque che c’entrano le minaccie? — La colpa è sua. — Mia? — Sua, sua. — Agata, fammi

il piacere...

— OA! ia finisca. Vuole che glie la dica? Con lei non si può ragionare.

vena sotterranea tutta la novella, e affiora qui in modo trionfale anche

su possibili suggestioni del teatro in prosa (goldoniano). Ad esso del resto facevano già ammiccato riferimento i nomi dei protagonisti: entrambi — tra i possibili scegliamo l’autore cui la stessa Neera altrove ci conduce — nelle pièces giocose di Donizetti, Agata in Le convenienze e inconvenienze teatrali, 1827, Spiridione in // campanello, 1836 (e non si dimentichi che la pur solo citata sorella si chiama Bettina; della sua passione per la musica di Donizetti — e si tratta però d’altra opera — Neera parla in una lettera ad Angiolo Orvieto del 2 giugno 1894; si può leggere in #/ sogno aristocratico. Angiolo Orvieto e Neera. Corrispondenza 1889-1917, a cura di Antonia Arslan e Patrizia Zambon, Milano, Guerini a Associati 1990).

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Cercando un libro sull’alto palchetto della sua libreria,

Spiridione Tomei era caduto una volta da una scala a piuoli e ne aveva risentito un forte intontimento al cervello; e un’altra volta, ancora ai tempi del collegio, un compagno gli aveva assestato un colpo di regolo sulla nuca che dopo aver visto quelle stelle mai più sperava di rivederne altre; ma tutto ciò era nulla in confronto allo stupore sba-

lorditivo da cui fu preso l’onesto filosofo quando l’Agata gli ebbe scagliata contro l’accusa di non saper ragionare. — Si passa il segno, si passa il segno, — mormorò egli tra sé tamburellando colle dita sui vetri della finestra alla quale si era avvicinato mentre l’altra si allontanava nel trionfo della sua ultima frecciata. Fu precisamente allora che gli venne la prima ispirazione di quell’ironico opuscolo L'ignoranza forma di indipendenza che ebbe un sì largo successo, specialmente perché non si conosceva Spiridione Tomei come umorista. Un uomo per quanto filosofo prova in qualche momento della sua vita il bisogno di sfogarsi di un sopruso o di una ingiustizia o di una villania. Così Spiridione si liberò dell’amarezza versatagli in cuore dall’ Agata scrivendo un opuscolo — mite vendetta di intellettuale — e da allora, ogni qual volta i suoi occhi cadevano sulla ragazza li acuiva in uno sguardo malizioso e gonfiando le gote tratteneva giubilando uno scoppio di risa. Non avrà riso forse anche Michelangelo dopo di avere disegnato sulle pareti della Cappella Sistina l’effigie del suo detrattore nientemeno che nel ceffo del diavolo? A primavera avanzata, quando il sole entrava di buon’ora nell’appartamento e la glicine del giardino mandava il suo saluto olezzante fin dentro le finestre, 1’ Agata si decise ad alzarsi presto. Giusto allora che non c’era più bisogno di accendere la stufa. Il guaio però stava questa volta negli zoccoli dell’ Agata che trotterellando innanzi e indietro turbavano il suo padrone in quell’ultima ora di sonno tanto benefica per un cervello affaticato. 176

— Agata, se volessi smettere gli zoccoli mi faresti una carità fiorita. Io me li sento penetrare alla mattina tra il sonno e la veglia come tanti chiodi nella testa. — Che c’entro io se lei ha la testa debole? Devo forse andare a piedi nudi? Egli non stette a rilevare la solita esagerazione della frase, pur deplorando che ognuna delle sue osservazioni fosse accolta con una scarica di artiglieria, e si accontentò di

soggiungere con semplicità che vi sono altre forme di calzature oltre gli zoccoli. Naturalmente 1’ Agata saltando di palo in frasca arrancò subito una dozzina di scuse una più strampalata dell’altra, col razzo finale delle lagrime perché «le si voleva negare a lei poveretta che era orfana e senza appoggi quel po’ di economia escogitata surrogando agli stivaletti costosi gli zoccoli a buon prezzo». Il colpo toccò il centro. Spiridione Tomei che era di cuore tenero si rassegnò al tacchettio degli zoccoli pensando ad ogni protesta dei nervi: «È un soldo che quella poveretta risparmia per la sua vecchiaia». Pochi giorni dopo era Pasqua ed egli aveva lasciata libera la sua domestica di andarsela a spassare a proprio agio. Credeva che fosse già uscita di casa quando, avendo bisogno di un po’ d’acqua per bagnare la gomma, andò lui stesso in cucina a prenderla e nell’attraversare un corridoio non troppo illuminato cozzò improvvisamente contro uno di quegli immensi cappelli femminili che egli aveva bensì incontrato in istrada ma la cui presenza in casa sua doveva colmarlo di stupore. — Prego, signora... scusi... a che posso attribuire... Egli strisciava contro il muro, rimpicciolendosi per far posto alla catapulta di nastri e di piume che aveva minacciato l’integrità della sua fronte, ma di sotto a quella macchina di guerra scoppiò un tale scompisciamento di risa sciocche, irriverenti, aggressive, che tutto il sangue gli si rivoltò nelle vene. — Come! Sei tu? In maschera! E77

— Che maschera d’Egitto! — rispose l’ Agata: — è anche diventato orbo? — Ma quel cappello? — Ebbene? — Tu col cappello? 1 — E perché no? Non porta il cappello lei? Ecco, gli argomenti oratori di quella ragazza erano così bizzarri, così pieni di imprevisto, che l’uomo di studi ne rimaneva sempre un po’ allocchito e non trovava subito la replica. Gli faceva l’effetto di aver ricevuto un pugno di sabbia negli occhi. Finalmente si credette sicuro di possedere la rimbeccata giusta: —- Ma io non porto gli zoccoli. — Lei non incominci a confondere le idee, — disse 1’ Agata colla maggior disinvoltura, — e mi lasci passare. Il contegno sprezzante della ragazza, poiché giunge un momento in cui anche la pazienza di un santo si esaurisce, faceva prudere le mani a Spiridione Tomei. Ciò che lo feriva soprattutto, che gli faceva veramente male, era quella mancanza assoluta di raziocinio congiunta a tanta impudenza. Sperò ancora di convincerla colle buone: — Vedi, bisogna essere coerenti. O sei povera o non lo sei. — Quanti discorsi inutili! — No, che non sono inutili se volessi darti solamente la pena di riflettere. — Mi lasci andare che ho fretta. Il tacchettio degli zoccoli passò in quel momento attraverso la mente del filosofo come una canzone di scherno. — Allora non porterai più gli zoccoli? — Porterò quello che mi pare e piace. — Ragioni col cervello di un infusorio. — E la finisca di insultarmi, altrimenti le dirò che è un villano. Questa volta egli credette proprio di commettere uno sproposito mentre ella salvandosi nelle profondità del cor-

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ridoio continuava a gridare come un’ossessa. Tutto il suo passato di prudenza, di moderazione, di compatimento, gli insorse contro dandogli un tale sapore di amarezza che comprese in quell’istante di quanto sollievo possa essere il gesto ampio di uno schiaffo. Ciac! E così, all’improvviso, come sorgono talora non cercate

le memorie più lontane, si risovvenne di certe studentesche battaglie nei tempi in cui stava alle prese coll’abborrita matematica; e una parola nella quale aveva condensato tutta la sua avversione, che era la sua invettiva maggiore per confondere un avversario, gli balenò dinanzi col tentante invito di una lama snudata. Le piume del cappello dell’ Agata ondeggiavano ancora sotto l’arco del corridoio quando sibilò sovr’esse con terribile scoppio di voce questo oscuro anatema: — Ipotenùsa, va! Spiridione Tomei si era vendicato come aveva potuto.

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