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MODERNITÀ E SOCIETÀ
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a cura di Roberto Cipriani
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Maria Luisa Maniscalco
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EUROPA, NAZIONALISMI, GUERRA Sociologie a confronto tra Otto e Novecento
ARMANDO EDITORE
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MANISCALCO, Maria Luisa Europa, nazionalismi, guerra. Sociologie a confronto tra Otto e Novecento ; Roma : Armando, © 2013 144 p. ; 20 cm. (Modernità e società) ISBN: 978-88-6677-321-4 1. Cosmopolitismo e impossibilità sociale della guerra 2. Nazionalismo e Grande Guerra 3. Società industriale / militare / democratica
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CDD 300
Volume realizzato con il contributo del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi Roma Tre. © 2013 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-06-036 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
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Sommario
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Introduzione
7
PARTE PRIMA: SPIRITO COSMOPOLITA E ‘IMPOSSIBILITÀ SOCIALE’ DELLA GUERRA
13
Auguste Comte: l’anacronismo della guerra
15
L’uomo e il suo tempo; La guerra nel contesto della teoria evolutiva dei tre stadi; Il ruolo della religione; Opinione pubblica ‘cosmopolita’ e declino della guerra; L’utopia comtiana
Herbert Spencer: società industriale versus società militare
31
L’evoluzionismo sociale spenceriano; La guerra come modalità di evoluzione sociale; La società militare; La società industriale; Tra pace e guerra
Alexis de Tocqueville: società democratica e guerra
47
Originalità del pensiero di Tocqueville; Libertà e uguaglianza nel contesto americano; Dottrina del benessere e trasformazione del senso dell’onore; Democrazia, guerra e professione militare
PARTE SECONDA: LA VERTIGINE NAZIONALISTICA E LA CATASTROFE DELLA GRANDE GUERRA
63
Émile Durkheim: ragione e resistenza
65
Uno spirito pacifico, libero e antimilitarista; La scelta patriottica; Dottrina dello Stato e concezione della guerra in Germania; Il valore della resistenza; La lezione durkheimiana
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Max Weber: una politica di potenza per la Germania
83
La passione nazionalistica; La sociologia weberiana del conflitto; Politica di potenza, cultura e libertà; Il coinvolgimento intellettuale ed emotivo; L’orgoglio di essere tedesco fino alla fine
Georg Simmel: la guerra come ‘rinascita’
103 L’impegno nazionalistico; Specificità dell’identità tedesca; La teoria simmeliana del conflitto; Una Germania ‘nuova’; Gli effetti della guerra in Europa
Vilfredo Pareto: lo sguardo di un’altra sociologia Documento acquistato da () il 2023/04/23.
121 Un osservatore disincantato; Sentimenti e ragione; La guerra e la sociologia paretiana; La brama di potere; I problemi del dopoguerra
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Introduzione
Mentre l’Europa della crisi torna ad interrogarsi sui nazionalismi, questo libro analizza le narrazioni sulla guerra, la pace e il patriottismo di due diverse generazioni di sociologi: gli autori dell’Ottocento e i ‘padri’ della moderna sociologia. Le loro opposte visioni mostrano i percorsi di un’‘immaginazione sociologica’ su due posizioni polari di quel processo trasformativo che portò, nella maggior parte dei paesi europei a partire dal Diciottesimo secolo, ad uno spostamento dalla centralità degli ideali a sfondo cosmopolita e universalistico in direzione di orientamenti particolaristici con a fulcro l’idea di nazione. Auguste Comte, Herbert Spencer e Alexis de Tocqueville vissero e descrissero importanti processi di cambiamento a livello economico, politico, socio-culturale e psicologico. L’Ottocento fu un secolo in cui trovarono compimento gli impulsi generati da trasformazioni di lungo periodo – che si sono sviluppate in Europa a partire dal basso Medioevo attraverso il Rinascimento, la Riforma, le scoperte geografiche e l’industrializzazione – e da eventi storici più puntuali, ma non per questo meno epocali, quali l’Illuminismo e la Rivoluzione. La storia europea ne fu profondamente segnata: era stata impressa una svolta al suo sviluppo e si era affermata una nuova e autonoma soggettività. Sulla base della condivisione transnazionale di ideali politici e di interessi commerciali emersero sistemi concettuali che assicurarono un entusiastico appoggio all’ideologia del progresso, sostennero il tramonto di ogni particolarismo e l’ineluttabilità della pace e della solidarietà tra i popoli. La nascente sociologia bene esprimeva lo spirito del tempo: teorizzava che con l’evoluzione sociale aumentasse il ruolo delle singole individualità, mentre una progressiva sostituzione della mentalità magico-religiosa con una meno caratterizzata dall’influenza dell’immaginazione e in minor grado collegata all’emotività delle passioni avrebbe fa7 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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cilitato l’affermazione di nuove forme di autoconsapevolezza e di capacità critica nei confronti dei governanti, rendendo progressivamente più pacifiche le società. Fu espressa allora un’intenzione non radicalmente nuova, ma sicuramente originale nelle sue formulazioni: quella di una conoscenza puramente scientifica della realtà sociale in quanto tale, nel duplice e talvolta contradditorio carattere di relazioni elementari tra gli individui e di entità globale. La sociologia si propose e si affermò come forma di conoscenza ‘scientifica’ della vita sociale in un periodo in cui un clima culturale fiducioso, nutrito di aspettative per un futuro migliore, alimentate anche dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, aveva reso possibile un processo di reinterpretazione e di ridefinizione della società alla luce delle istanze sociali emergenti e delle nuove esigenze ad esse connesse. D’altronde ogni società che vuole migliorarsi ha bisogno di avere fiducia nei propri progetti e di credere nella possibilità di un cammino evolutivo nella storia. Per i nuovi interessi scientifici il discorso sulla guerra perse parte della sua secolare centralità ed autonomia per essere un aspetto di una più generale riflessione sulla società e sul suo sviluppo; molti tra i pensatori sociali che se ne occuparono lo fecero con un’ottica strumentale, considerando la presenza o l’assenza della guerra un buon indicatore del livello raggiunto nel processo storico-evolutivo che concepivano secondo un modello fortemente influenzato dalla fede nel progresso e dalle aspettative di pace del secolo Diciannovesimo. Secondo gli autori qui presi a testimonianza dello spirito dell’epoca, la società moderna con il suo carattere democratico e cosmopolita contrastava la logica dell’esclusione e la chiusura tipiche degli orientamenti bellicisti tradizionali per i quali la guerra necessitava di organismi improntati a principi collettivistici. La trasformazione della società avrebbe respinto la guerra al rango di fenomeno residuale. Comte, Spencer e Tocqueville, fiduciosi nella forza della ragione soggettiva e nell’affermazione della società industriale e democratica, tendevano a considerare la guerra, e le forti passioni che da sempre l’hanno accompagnata, come un’eredità di altre epoche che l’evoluzione storica e una diversa mentalità avrebbero progressivamente minimizzato. La pace all’interno della società e tra gli Stati sarebbe stata una sorta di esito naturale di una diversa organizzazione sociale, basata su valori nuovi e su habitus mentali ad essi coerenti. La storia, come è noto, con la brutalità del primo conflitto mondiale, per non parlare 8 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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di quanto accadde dopo, smentì clamorosamente le loro previsioni per lasciare spazio alle riflessioni di quanti – più o meno riluttanti – considerarono la guerra e la violenza elementi ineliminabili della condizione umana. La generazione successiva di sociologi – quella dei grandi ‘padri’ della sociologia – si è trovata a vivere una più matura consapevolezza circa l’ambiguo destino della ragione e del progresso, dello sviluppo della società industriale e della stessa modernità; soprattutto sperimentò la forza dei sentimenti nazionalistici e la relativa capacità di trasformare un popolo in un ‘corpo belligerante’. A fine Ottocento entrò in crisi la società europea in concomitanza con una più generale rivoluzione del pensiero scientifico e filosofico. Freud in particolare dimostrò che l’uomo non è un’unità, né agisce esclusivamente in base alla razionalità, minando la concezione antropologica intorno alla quale era stata costruita l’immagine unitaria di una società in evoluzione. La crisi fu l’esito di una sofferta transizione che portò l’Europa a perdere il comune linguaggio in una babele vernacolare e ad eclissarsi come idea nel vortice di nazionalismi olistici che inghiottivano tutto ciò che prima aveva goduto di dignità e valore, di unità e concordia. Le riflessioni sulla guerra di Durkheim, Pareto, Simmel e Weber facilitano la comprensione di un evento epocale: nel 1914 finì un’epoca storica incominciata nel 1789 e si aprirono processi che segnarono significativamente il ‘secolo breve’. L’ascesa politica delle classi borghesi giocò un ruolo fondamentale per l’affermazione di un amore di patria tradotto in dedizione alla collettività nazionale. Queste nuove dirigenze, decisamente più inclini ed esperte negli affari interni, si trovarono di fronte alla responsabilità di gestire rapporti interstatali senza aver avuto la possibilità di elaborare dottrine e prospettive autonome. A differenza dell’aristocrazia – sensibile ai rapporti internazionali seppure dedita, in connessione ai valori militari delle caste guerriere, alla piena realizzazione dei propri interessi – le classi borghesi non poterono contare su una tradizione che, pur nel crudo perseguimento dei propri obiettivi, aveva creato una sorta di solidarietà trasversale tra la nobiltà e le élites militari europee e aveva sviluppato consuetudini e pratiche che favorivano la limitazione delle perdite di vite umane. A loro volta le spinte ugualitarie e l’emergere delle masse sulla scena politica resero le logiche di potenza – non più concepite e sostenute 9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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esclusivamente nell’interesse di un ‘signore’ – espressione delle pulsioni e della politica di una collettività, oggetto di investimenti affettivi e di vincoli emotivi e sacralizzata come ‘patria’, ‘popolo’, ‘nazione’. Questo cambiamento – che per alcuni rappresentava quel riferimento e quel conforto necessari a compensare le perdite subite con un crescente processo di razionalizzazione societaria – non poteva non alterare profondamente il tono emotivo delle società e, con esso, gli equilibri internazionali; sotto la spinta delle pulsioni nazionalistiche le diplomazie apparivano esangui figure di un passato irrimediabilmente lontano. Infatti non solo esiste un intimo legame tra nazionalismo e guerra, ma il primo introduce nella seconda quella passione di popolo che la rende feroce; una passione, come sosteneva il prussiano von Clausewitz, sconosciuta finché le guerre erano state combattute nell’esclusivo interesse della nobiltà. In questo periodo si alterò anche l’ideale aristocratico della scienza; la cesura tra filosofo e cittadino, quale soluzione per tenere al riparo la conoscenza più elevata, si era rivelata inadeguata alle esigenze e ai processi della società di massa. Scriveva Freud negli anni di guerra: «Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tale misura il così prezioso patrimonio comune dell’umanità, turbato tante delle più lucide intelligenze, inabissato così profondamente tutto quanto vi è di elevato. Persino la scienza ha perduto la propria serena imparzialità; esacerbati nell’intimo, gli uomini al suo servizio cercano di usarne le armi per contribuire alla lotta contro il nemico. L’antropologo è spinto ad individuare nell’antagonista un essere di natura inferiore e degenerato, e lo psichiatra ne diagnostica le perturbazioni dello spirito e della mente»1. La sapienza europea aveva subìto una sorprendente torsione; da parte di quei popoli che per cultura e tradizioni si erano distinti nei secoli, proseguiva amaro Freud, ci si sarebbe aspettata una capacità di regolare i conflitti in altro modo. Invece, la guerra ‘impossibile’, quella che non sarebbe mai dovuta scoppiare, si era manifestata come «la più cruenta e disastrosa di tutte le guerre sperimentate […], a causa della micidiale perfezione raggiunta dalle armi». Essa oltrepassando ogni limitazione a cui ci si obbliga in tempo di pace, non riconosceva le prerogative del ferito e del medico, né faceva distinzione tra popolazione pacifica e 1
Cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, tr. it., Roma, Editori Riuniti, 1991, pp. 3-4.
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popolazione in armi. Spezzando ogni vincolo comunitario che ancora legava i popoli in lotta, minacciava «di lasciare dietro di sé un rancore tale da rendere ancora per lungo tempo impossibile il ripristino di quelle relazioni»2. Di fronte alla sfida di questo nuovo tipo di guerra la maggior parte degli intellettuali aveva reagito come il resto della popolazione; lo scoppio del conflitto, che aveva visto dileguarsi l’internazionalismo socialista e pacifista, li aveva ‘contagiati’ e si erano allineati nella difesa dei rispettivi paesi. I ‘padri’ della sociologia non si sottrassero all’atmosfera generale; coinvolti nella catastrofe di quel terrificante conflitto, pur cercando di non rinunciare alla loro identità di uomini di scienza, vissero a pieno le vicende belliche e si dedicarono a sostenere la causa nazionale. Con la sola eccezione dell’italiano Pareto (più ironico, disincantato e, per certi aspetti, ancora ‘cosmopolita’ alla maniera ottocentesca) la scelta patriottica sembrò al francese Durkheim e ai tedeschi Simmel e Weber, sia pure con enfasi e prospettive diverse, quasi uno sbocco naturale, una presa di posizione obbligata e per ciò stesso in un certo senso irriflessa. Nell’affermazione della priorità dell’unità spirituale e culturale della propria nazione era implicita la negazione di ogni cosmopolitismo illuminista. I tedeschi rivendicavano la loro ‘diversità’, la passione eroica e la dedizione metafisica di cui si sentivano capaci, con toni tristemente anticipatori della superiorità ariana; Durkheim – che pure aveva ereditato la visione positivista che intendeva la guerra solo come patologia – nel momento della massima sfida chiamava la società francese alla coesione assoluta per la sopravvivenza e negava all’Altro, al nemico, ogni sua eventuale ragione. Omogeneità, pensiero unico, compattezza estrema furono le parole d’ordine di un terribile tempo: Weber, Simmel, Durkheim, distanti uno dall’altro – negli approcci, negli interessi conoscitivi, nelle tematiche – risposero in maniera emotivamente analoga e combatterono fino alla fine con le armi del pensiero a fianco dei connazionali. Diversa fu invece la via alla riflessione sulla guerra indicata da Pareto, con la sua critica corrosiva nei riguardi delle potenzialità civilizzatrici della ragione e del progresso scientifico-tecnologico. Biasimando quanti, sulla base di un presupposto cambiamento sostanziale dell’umanità, avevano dimenticato che per ciò che riguarda istinti e 2
Ivi, p.10.
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sentimenti l’uomo rimane sempre uguale a se stesso, ricordava come la sete di potere e la brama di dominio restassero sempre latenti nei governanti e nei popoli. A distanza di un secolo appaiono deboli quelli che pure furono antagonismi forti, distillati dal profondo humus della tradizione europea; tuttavia i nazionalismi emersi con virulenza alla fine del secolo Ventesimo – e in particolare quelli dell’Est europeo negli anni Novanta – mostrano la persistenza della fenomenologia nazionalistica e la relativa capacità di influenzare marcatamente le dinamiche interne degli Stati e i rapporti tra di essi e di coinvolgere emotivamente le popolazioni. Come aveva notato Simmel, nella dinamica sociale tra micro e macro livelli tende a prodursi negli individui una sorta di adattamento interiore a quei sentimenti che sono i più opportuni ad una data situazione. Ne deriva che se pure, come emerge dalla lettura degli autori qui considerati, la ragione non appare in grado di arginare la forza dei sentimenti, nondimeno essa ha i suoi doveri. Primo tra tutti quello di riconoscere la propria fragilità e, con questa forte consapevolezza, di impegnarsi a decostruire preventivamente qualsivoglia processo di escalation conflittuale e la relativa alea di un aumento di intensità e di violenza che può sfociare in quella tipologia di processo ‘cieco’, per utilizzare la terminologia di Norbert Elias, che, una volta avviato, presenta un’evoluzione che sfugge agli stessi attori. Per la sociologia questo potrebbe significare un impegno lungo la direzione indicata da Pareto di un’analisi che tenga conto dei sentimenti delle popolazioni; infatti come mostrano anche più recenti studi3 le condizioni oggettive – di esclusione, ingiustizie, sfruttamento, conflitto di interessi – trovano nei sentimenti collettivi quei catalizzatori incredibilmente efficaci e quelle energie sociali necessarie per l’avvio di una conflittualità violenta.
3 Cfr., per esempio, E. Lindner, Making Enemies, Westport (Connecticut) & London,
Praeger Security International, 2006.
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PARTE PRIMA SPIRITO COSMOPOLITA E ‘IMPOSSIBILITÀ SOCIALE’ DELLA GUERRA
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Auguste Comte*: l’anacronismo della guerra
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L’uomo e il suo tempo Auguste Comte, ‘creatore’ della parola sociologia, è il sociologo cosmopolita dell’unità dell’umanità pur nella diversità dei popoli1 e il fondatore di una ‘religione’ che celebrava l’uomo nella sua espressione migliore. Il ‘Grande Essere’ che ci invita ad amare è, come sostiene * Auguste Comte (Montpellier 1798 – Parigi 1857), filosofo positivista, fu il ‘fondatore’ della sociologia. Nato da una famiglia cattolica si allontanò presto da quella fede per aderire ad idee liberali e rivoluzionarie. Studiò all’École Polytechnique di Parigi dal 1814 al 1816, anno in cui fu chiusa provvisoriamente per sospetto giacobinismo. Tornato a Montpellier frequentò nell’Università del luogo corsi di medicina e fisiologia. Di nuovo a Parigi, dove si manteneva dando lezioni di matematica, divenne segretario, poi collaboratore e amico di Saint-Simon dal 1817 al 1824, anno in cui la relazione tra i due si ruppe. Aron ricorda che, a partire dal contrasto per l’attribuzione scientifica di un testo che segnò la fine del loro rapporto, Comte parlò della «‘disastrosa influenza’ esercitata su di lui da un’‘amicizia funesta’ con un ‘pagliaccio depravato’» (cfr. R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, tr. it., Milano, Mondadori, 1989, p. 80). Dal 1827-1828 fu colpito da una grave crisi nervosa e tentò il suicidio. Da allora per prevenire le crisi si impose uno stile di vita molto severo. Negli anni a seguire fece domanda, senza successo, per una cattedra di analisi all’École Polytechnique dove però nel 1836 ottenne il posto di esaminatore per le prove d’accesso, posto che perse nel 1844, anno in cui conobbe Clotilde de Vaux di cui si innamorò, non ricambiato. Alla morte della giovane donna, due anni dopo, Comte le dedicò un vero e proprio culto e ‘ispirato’ dalla memoria dell’amata formulò un nuovo sistema religioso. 1
Tre temi, presenti in ciascuno dei diversi momenti dello sviluppo del pensiero di Auguste Comte, rappresentano tre possibili interpretazioni dell’idea dell’unità dell’umanità: a) il modello di società che si sta sviluppando in Occidente è paradigmatico per tutte le altre società; b) la storia dell’umanità è la storia della mente, intesa come divenire del pensiero scientifico-positivo; c) la storia dell’umanità rappresenta il pieno dispiegamento della natura umana.
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Raymond Aron, ciò che gli uomini hanno fatto di meglio2, mentre la sua ‘religione positiva’ esprimeva un’esigenza di solidarietà transnazionale e la promozione di un ambito di appartenenza universalistico in grado di favorire l’amicizia e la pace tra i popoli. L’epoca in cui visse risentiva degli influssi dell’Illuminismo; il suo tempo fu quello dell’ideologia della scienza in cui era ancora perdurante la fiducia (seppure incrinata da dubbi e da timori generati dall’esperienza degli anni del Terrore durante la Rivoluzione) nella forza e nelle capacità della ragione. Fu però anche un’epoca di grandi trasformazioni e di sconvolgimenti sociali e di una certa apprensione per il futuro; consapevole di vivere in un periodo di considerevoli mutamenti sociali e culturali, Auguste Comte, che aveva ereditato la sensibilità politica illuminista per il problema dell’ordine, era particolarmente attento alle tematiche del consenso e dell’organizzazione sociale. Il suo impegno scientifico fu sostanzialmente rivolto a due obiettivi: riformare la società e operare una sintesi delle conoscenze; volle essere scienziato e riformatore. Alla sociologia che aveva fondato, Comte, fiducioso e propositivo, affidò il compito di risolvere la crisi del mondo moderno, attraverso un sistema di idee scientifiche adeguato a sostenere razionalmente una riorganizzazione sociale all’altezza del livello dello sviluppo scientifico e tecnologico raggiunto. La riforma della società richiedeva in primo luogo una nuova mentalità che poteva formarsi solo con l’abbandono del vecchio modo teologico di pensare e la diffusione di un sapere ‘positivo’ consono ai tempi e alla sensibilità dell’epoca. A questo doveva provvedere la nuova scienza, la sociologia, che nella concezione comtiana doveva essere per il mondo moderno «quello che la teologia era per il mondo medievale: la regina delle scienze»3. Basata su metodi analoghi a quelli delle scienze naturali – e in particolare della biologia – la sociologia, secondo Comte, consisteva nello studio delle leggi dello sviluppo storico; in quanto scienza di sintesi, partendo dalle leggi fondamentali dell’evoluzione umana, portava a scoprire il determinismo che regola la totalità. Utilizzava la metodologia dell’osservazione e del confronto sia per lo studio della statica sociale sia per quello della dinamica, entrambe considerate in un approccio sintetico; la statica era l’analisi delle strutture e degli elementi che 2 3
R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 131. Cfr. S. Moscovici, La fabbrica degli dei, tr. it., Bologna, il Mulino, 1991, p. 335.
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fanno di parti eterogenee un’unità: si risolveva quindi essenzialmente nello studio di quello che definiva ‘consenso sociale’; la dinamica decifrava le modalità delle tappe dell’evoluzione dello spirito umano e della società. Trasportando in sociologia i modelli di analisi e di spiegazione della biologia – per cui un fatto biologico viene conosciuto solo se rapportato all’insieme dell’organismo nella sua totalità – volle farne una scienza in grado non solo di dare spiegazioni di ciò che è stato e di ciò che è, ma anche di prevedere ciò che sarà. Si trattava dunque, secondo Comte, di elaborare una teoria per comprendere sia le caratteristiche di una determinata società, sia le grandi linee della sua storia evolutiva: in entrambi i casi però, è lo spirito che subordina le osservazioni parziali alla comprensione preliminare del tutto. Nell’ottica di un individuo come progetto incompiuto di libertà spirituale e intellettuale, Comte maturò l’idea di un moto storico di progresso dell’umanità. La storia dell’uomo divenne la storia dell’affermazione della sua intelligenza; è questa che sviluppa le conoscenze per il dominio del mondo naturale e porta a identificare le forme migliori di vita associata. Comte era assolutamente convinto che la maturazione di capacità critiche e di una piena autoconsapevolezza avrebbe permesso l’emergere e il diffondersi di una dottrina di rifiuto della violenza e della guerra. Questa convinzione lo portò a proclamare nelle ultime pagine del suo Corso di filosofia positiva «l’incompatibilità della guerra con la costante disposizione delle popolazioni civili […] e la scomparsa delle cause della guerra»4. In questa affermazione, come in altre prese di posizione universalistiche e pacifiste, Comte fu influenzato dal pensiero di Claude Henri de Saint-Simon5 che anticipò molte delle concezioni che il nascente 4 Cfr. A. Comte, Corso di filosofia positiva, tr. it., Torino, Utet, 1979, vol. 2, p. 425. Se il suo annuncio della scomparsa della guerra si è rivelato fallace, un’altra sua profezia ha avuto una sorte migliore. Comte sosteneva che i conflitti tra i popoli dell’Europa occidentale – che definiva l’avanguardia dell’umanità – sarebbero scomparsi; questa previsione ha trovato nel processo di unificazione europea, iniziato circa un secolo dopo la sua scomparsa, una soddisfacente realizzazione. 5 L’aristocratico Claude Henri de Rouvroy conte di Saint-Simon (Parigi 1760 – 1825) da giovanissimo capitano di cavalleria dell’esercito francese aveva combattuto valorosamente a fianco degli insorti americani per essere poi fatto prigioniero dagli inglesi nel 1782 e trattenuto in Giamaica per circa un anno. Presumibilmente in quel periodo iniziò a sviluppare attitudini pacifiste e un’inclinazione allo studio e alla ricerca nel tentativo di lavorare al ‘perfezionamento della civiltà’. Alla sua morte il suo pensiero fu estremizzato dai discepoli, un gruppo di giovani entusiasti che diede vita ad
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pensiero sociologico portò poi a maturazione. Come scrive Giddens, le idee di Saint-Simon sono state influenti in maniera significativa sullo sviluppo del pensiero sociale; hanno lasciato «una duplice eredità, in quanto da esse sono scaturite da un lato il positivismo di Comte e successivamente, attraverso Durkheim, le teorie moderne della ‘società industriale’, e dall’altro l’analisi e la critica del capitalismo formulate da Marx e dalle successive generazioni di studiosi marxisti»6. SaintSimon fu il primo teorico dell’industrialismo e attribuì al passaggio dalla società militare a quella industriale – e parallelamente da un potere spirituale superstizioso ad uno scientifico – il segno del cambiamento di epoca. Nel suo Du Système industriel del 1820-22 scriveva che «non ci sono e non possono esserci altro che due sistemi di organizzazione sociale realmente distinti, il sistema feudale e militare e il sistema industriale e, per quanto riguarda il potere spirituale, un sistema di credenze e uno di dimostrazioni positive»7. Secondo Saint-Simon, l’Illuminismo aveva reso inutili le dottrine teologiche e feudali, senza però sostituirle con un adeguato complesso ideologico culturale. Da ciò era scaturito un disordine morale generalizzato e la diffusione dell’egoismo e dell’isolamento. Saint-Simon intravedeva in quella che definiva la ‘dottrina industriale’ quel complesso di idee e principi in grado di costituire le basi per un nuovo sistema sociale, per rigenerare la società da un punto di vista morale, politico e sociale. L’emergere dello ‘spirito industriale’ risultava coerente con la sua idea della nuova società, nella quale lo scopo dell’organizzazione sociale era di operare per il soddisfacimento dei bisogni degli individui. Per la crescente diffusione, per i valori di cui si fa portatrice, per i risultati che produce l’industria era considerata un fattore centrale della vita associata; attorno ad essa si andava una sorta di ‘setta’ politico-religiosa guidata da Saint-Amand Bazard e da Barthélemy Prosper Enfantin. Sul piano etico, le convinzioni personali e i comportamenti dei saintsimoniani erano ispirati a principi pacifisti e esplicitamente nonviolenti: ripudio di ogni tipo di violenza, sostituzione dell’amor di patria con l’amore per la famiglia universale. L’esperimento romantico di una comunità a cui avevano dato vita fallì dopo un anno con l’arresto, per oltraggio alla morale, di Enfantin che fu poi condannato ad un anno di carcere. In seguito a questa sfortunata vicenda i saint-simoniani si trasformarono in industriali e finanzieri. 6 Cfr. A. Giddens, La struttura di classe nelle società avanzate, tr. it., Bologna, il Mulino, 1975, p. 29. 7 Cfr. C.H. de Saint-Simon, “Il sistema industriale”, in Opere, tr. it., Torino, Utet, 1975, pp. 591-592.
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strutturando un nuovo modo di fare società. Saint-Simon sosteneva che la disponibilità finanziaria che aveva consentito all’industria di svincolarsi dal potere politico l’aveva resa un fattore di liberazione dell’intera società dal dispotismo dei governanti. Comte sviluppò queste idee di Saint-Simon in un clima culturale generale in cui si riteneva il pensiero teologico, la struttura feudale e l’organizzazione monarchica retaggi di un passato in via di dissoluzione; fatte sue queste convinzioni, elaborò una visione tecnocratica della società del futuro e del suo governo in cui gli scienziati e gli industriali – categoria quest’ultima in cui venivano ricompresi imprenditori, banchieri e altre figure professionali – avrebbero costituito le nuove élites.
La guerra nel contesto della teoria evolutiva dei tre stadi Le riflessioni comtiane sulla pace e sulla guerra si svolgono sulla base di una teoria evolutiva a tre stadi – teologico, metafisico, positivo – a cui corrispondono l’ordinamento militare, quello feudale e quello industriale8. La vita sociale, secondo Comte, è stata a lungo condizionata dal prevalere dello ‘spirito militare’ che però nei secoli ha conosciuto un lento declinare. Sebbene la società militare e la società industriale si presentino connesse nel processo evolutivo, la differenza tra loro si configura così radicale che il passaggio definitivo dal primo tipo di società al secondo ha necessitato di uno stadio intermedio parallelo allo stadio metafisico che, nel campo dell’evoluzione spirituale, ha separato lo stadio teologico da quello positivo. In questa fase di transizione un’organizzazione militare difensiva si è sostituita a quella offensiva e progressivamente si è registrata una crescente subordinazione dell’apparato bellico a quello civile e produttivo9. 8
Comte sviluppa e conferma la legge dei tre stadi nel Cours de philosophie positive pubblicato dal 1830 al 1842 seguendo le linee che aveva già precedentemente esposto negli Opuscules del 1820-1826. Secondo la legge dei tre stadi lo spirito umano è evoluto passando per tre fasi successive. La prima è quella in cui i fenomeni vengono spiegati attribuendone la causa ad esseri o a forze paragonabili all’uomo stesso; nella seconda vengono invece invocate forze astratte. Nella terza fase – quella positiva – l’uomo si limita ad osservare i fenomeni e a fissare le connessioni regolari riscontrate tra di essi. 9 Secondo Comte in tutti gli Stati europei era ormai riscontrabile la relazione civile/ militare individuata da Machiavelli come anomalia transitoria degli Stati italiani in cui
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Dal ragionamento del fondatore della sociologia come primo importante punto si evidenzia che le finalità e le modalità delle guerre mutano significativamente in relazione ai cambiamenti delle condizioni sociali, economiche e politiche; ognuno dei tre stadi presenta caratteri specifici che influenzano le disposizioni delle collettività nei confronti della guerra. Ne deriva che la modalità dell’evoluzione storica dello spirito umano avanza parallelamente ad una scansione delle diverse trasformazioni del fenomeno guerra; in altri termini è la storia del suo cambiamento. Il raggiungimento dell’ultima fase, lo stadio positivo in cui si assiste al completo sviluppo delle potenzialità della ragione umana, contempla la scomparsa dei conflitti armati. Secondo il modello comtiano di evoluzione sociale ognuno dei tre stadi è caratterizzato da un particolare rapporto con la religione, analizzando il quale è possibile individuare nel corso della storia un percorso orientato in direzione di una progressiva emancipazione dell’uomo da vincoli e norme trascendenti fino alla definitiva affermazione della ragione come unica guida e come unico principio di orientamento. L’evoluzione della guerra risulta intrinsecamente collegata ai cambiamenti che si verificano nello spirito umano e nelle società con il passaggio dall’una all’altra forma religiosa e ai corrispondenti specifici habitus mentali. Lo stadio teologico, caratterizzato da una forte preponderanza nell’agire delle dimensioni emotive e da un pensiero organizzato in base ad idee religiose, rappresenta l’ambito che più degli altri ha favorito l’attività bellica. Le passioni ‘forti’ – volontà di potenza, odio, collera, desiderio di vendetta, spirito predatorio, ira, terrore – tipiche di questa fase iniziale della storia dell’umanità trovavano un’espressione esemplare negli atteggiamenti e nei comportamenti dei guerrieri. Tra i tre sistemi religiosi (totemismo, politeismo, monoteismo) che compongono lo stadio teologico, il politeismo presenta i più forti legami con la guerra predatoria e offensiva. La guerra costituiva per le popolazioni antiche l’attività principale sia dal punto di vista economico, sia da quello politico e, secondo Comte, il politeismo era la religione più adatta alle esigenze di quella specifica organizzazione sociale. Gli dei del politeismo presentavano «il giusto grado di generalità che permetteva «i capi militari, ormai profondamente subordinati al potere civile, sono stati assoggettati […] ad una specie di sistema continuo di sospetto e di sorveglianza»; cfr. A. Comte, op. cit., vol. 2, p. 77.
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di richiamare sotto la loro bandiera popolazioni sufficientemente vaste e, nello stesso tempo, quel tanto di nazionalità che li rendeva adatti a stimolare ancora più il sorgere spontaneo dello spirito guerriero»10. Nel sistema politeistico inoltre qualsiasi divinità poteva essere introdotta nel pantheon e questo favoriva l’assimilazione delle popolazioni conquistate che attraverso la presenza delle loro divinità sentivano riconosciuta la propria specificità. Comte sosteneva inoltre che in un sistema politeista «l’intelligenza viene sempre assillata […] da una grande quantità di spiegazioni teologiche molto dettagliate in modo che anche le sue azioni più comuni costituiscano, per così dire, altrettanti atti spontanei di un’adorazione speciale […] Il mondo immaginario occupava allora certamente, rispetto al mondo reale, molto più spazio nel sistema intellettuale dell’uomo che sotto il regime monoteistico»11. L’elaborazione di questa particolare teodicea, che offriva spiegazioni dettagliate per ogni evento della vita quotidiana, soddisfaceva a priori ogni quesito, facilitando l’omogeneità di visioni del mondo e la stabilità sociale; concetti quali ‘destino’, ‘fatalità’, tipici di questa fase, motivavano gli individui all’azione bellica, rendendo accettabile, nel quadro di un disegno divino, anche la possibilità della morte. Chi mandava a morire infatti era anche chi donava la vita eterna. Per di più, laddove regnano condizioni di caos e di incertezza e la spiegazione logica degli accadimenti può essere difficoltosa, l’imperscrutabilità degli dei e il loro volere capriccioso possono rappresentare una valida giustificazione di vicende e avvenimenti altrimenti privi di senso. Funzionale al mantenimento di un ethos guerriero era la cosiddetta ‘facoltà di apoteosi’12 che prometteva vita e glorificazione eterne ai combattenti eroici; in essa Comte vedeva la base dell’entusiasmo, elemento che considerava centrale dello spirito militare.
10
Ivi, p. 535. Ivi, p. 503. 12 Con il termine apoteosi si intende sia il riconoscimento della condizione divina a particolari persone, sia la cerimonia con la quale veniva divinizzato un eroe defunto. Comte scrive che l’apoteosi «pur soddisfacendo pienamente il desiderio universale di una vita infinita, aveva inoltre il privilegio speciale di promettere alle anime vigorose l’eterna attività degli istinti di orgoglio e di ambizione, il cui sviluppo costituiva per loro la principale attrazione dell’esistenza»; cfr. ivi, vol. 1, p. 537. 11
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Il ruolo della religione L’affermazione dello stadio metafisico – quello caratterizzato dalla prevalenza dei principi astratti – è stato accompagnato, secondo Comte, da un lungo e complesso processo di transizione dalla guerra offensiva a quella difensiva, con la perdita della funzione economica della guerra quale attività principale per l’approvvigionamento di risorse. Anche in questa fase di transizione risulta rilevante il ruolo della religione. Per il sociologo francese l’avvento del monoteismo cristiano ha rappresentato una tappa fondamentale nell’evoluzione dello spirito umano; egli lo definiva come «il primo grande tentativo dell’umanità di costruire direttamente e generalmente un sistema razionale e pacifico»13. Per quanto riguarda l’Europa, dalla caduta dell’impero romano a tutto il Medioevo, l’istituzionalizzazione e il radicamento del Cristianesimo hanno influenzato in maniera significativa l’evoluzione della condotta bellica. Comte mostra come, gradualmente, ma in modo costante, la Chiesa riuscì ad imporre il primato spirituale su quello temporale, trasformando parallelamente anche i comportamenti dei credenti nelle pratiche quotidiane e il modo di valutare e di porsi nei confronti della guerra, della violenza e dell’uso delle armi14. La Chiesa aspirava al monopolio dell’autorità morale e volse la propria azione al contenimento delle attività belliche che venivano ritenute una riduzione dell’influenza religiosa sulla politica. Le guerre dovevano essere esclusivamente difensive. In questo processo di progressiva pacificazione persino le crociate non vengono considerate un’anomalia; esse, a suo parere, rappresentarono una logica – e doverosa – conseguenza della tutela del pellegrinaggio quale atto di devozione di rilevante valore religioso. Anche se non dovuto nei termini in cui lo è per i musulmani, il viaggio nei luoghi santi era una pratica importante per i cristiani del tempo. In seguito ad un cambiamento ai vertici del potere musulmano, il timore di comportamenti ostili nei confronti dei pellegrini cristiani e dei luoghi santi avrebbe prodotto la spin13 Cfr. ivi, vol. 2, p. 8. Sul ruolo dei monoteismi nel processo di razionalizzazione del pensiero e delle società è fondamentale la ricerca di Max Weber sulle religioni universali. 14 Per esempio, al tempo di Carlo Magno a chi aveva commesso gravi colpe veniva interdetto l’uso delle armi e nel periodo di turbolenze e di frammentazione politica dopo la sua morte i vescovi promossero ‘movimenti per la pace’ e minacciavano la scomunica a chi avesse usato le armi nei confronti di quanti non potevano difendersi.
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ta originaria alle crociate; si sarebbe, quindi, trattato, secondo Comte, di un comportamento di ‘difesa’15. Durante tutto il Medioevo, come è noto, l’autorità politica si decompose in sovranità territoriali frazionate, con una pluralità di centri di potere che tendevano a sovrapporsi in un complesso sistema di gerarchie; in questo periodo l’azione della Chiesa a favore del passaggio dalla guerra offensiva a quella difensiva è stata potenziata da un fattore esterno, cioè dall’esigenza di risolvere il problema della salvaguardia delle terre conquistate. Il feudalesimo sviluppò forti legami personali tra il signore e i suoi vassalli che gli dovevano l’aiuto militare in cambio del feudo; l’organizzazione feudale, quale sistema destinato principalmente a scongiurare e contenere eventuali invasioni, restrinse progressivamente l’attività militare alla difesa del territorio, anche se non mancarono dispute circa i confini di quest’ultimo. Ma, sebbene prevalentemente difensiva, la guerra continuava a mantenere una certa centralità nella vita delle popolazioni e con essa la violenza armata. Da una parte il bisogno e la richiesta di tutela delle popolazioni e dall’altra l’accettazione di un ruolo che, a fronte del dovere morale di protezione, assicurava prestigio e potere – strutturavano comunità in cui la reciprocità delle aspettative manteneva un’accettazione di fondo dell’attività bellica e una disponibilità di signori e sottomessi ad impugnare le armi in caso di necessità. Comte affermava che per giungere da un semplice contenimento ad un significativo rifiuto della guerra si dovettero produrre notevoli mutamenti sociali e culturali; fondamentalmente doveva depotenziarsi una mentalità caratterizzata da atteggiamenti di sottomissione, timore reverenziale e deferenza nei confronti delle autorità. In altri termini doveva emergere e giungere a compimento un processo di emancipazione degli individui e la rottura della specifica relazione tra sovrani e sudditi. Anche in questo caso la teorizzazione comtiana fa riferimento al fattore religioso quale elemento chiave nei movimenti di trasformazione socioculturale. Nel processo di emancipazione dell’individuo, la Riforma protestante viene vista giocare un ruolo di big bang socioculturale. Sia pure come conseguenza inintenzionale, cioè nei termini di Merton 15 Nel formulare questa sua tesi giustificativa delle crociate, Comte ha anticipato, sia pure in maniera appena abbozzata, il principio della ‘dottrina dell’offesa difensiva’ che ha motivato, a partire dal secolo Ventesimo, la corsa agli armamenti.
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come effetto inatteso e non cercato16, diede vita ad una mentalità nuova a cui si deve anche il cambiamento di approccio nei confronti dell’autorità e della guerra. L’individualismo e l’autonomia della coscienza individuale, la libertà filosofica di esame e discussione dei testi sacri, tipici di tutte le aggregazioni religiose scaturite dalla Riforma17, erano antitetici alla mentalità militare caratterizzata dalla disciplina e dall’eterodirezione. La libertà di speculazione religiosa, al di fuori di ogni mediazione istituzionale, esercitava una potente attrazione in quanto sollecitava la vanità degli uomini «il cui personale intelletto veniva così a trovarsi innalzato alla posizione di arbitro supremo delle più importanti discussioni»18. Gli effetti del libero pensiero nel campo religioso produssero un dissenso crescente nei confronti delle basi intellettuali dell’antico ordine sociale accelerando il processo di disgregazione del sistema teologicomilitare. Comte richiamava esplicitamente l’‘antipatia naturale’ del protestantesimo per qualsivoglia sistema politico-militare e per ogni attività di tipo bellico, ad eccezione delle guerre per far trionfare il nuovo spirito filosofico di libertà. Metteva però in guardia sul rischio di scambiare la vis cruenta delle guerre di religione con un’inclinazione per i conflitti armati; queste erano state guerre civili per la difesa di principi e, in quanto tali, non avevano affatto influito sul trend di lungo periodo del declino dello spirito bellico. In questa fase collocava anche l’origine delle guerre rivoluzionarie in cui conflitto civile interno e guerra esterna possono anche sovrapporsi; nelle rivoluzioni l’affermazione di un’idea, la difesa di un principio o l’intenzione di cambiare l’assetto politico e sociale giungono a coinvolgere attivamente le popolazioni nonostante siano diffuse in esse inclinazioni pacifiche. Seguendo il percorso evolutivo delineato da Comte un ulteriore passo in avanti fu fatto quando, a partire dalla pace di Vestfalia del 1648, cessarono ufficialmente le guerre di religione, mentre il concetto di tol16
Cfr. R.K. Merton, Teoria e struttura sociale, tr. it., Bologna, il Mulino, 1959. Lo sviluppo dell’individualismo presenta forti nessi con le istanze portate avanti dalla Riforma: l’assenza di mediazione sacerdotale nel rapporto con Dio centra l’individuo su se stesso; con le dottrine della predestinazione aumenta la distanza tra gli esseri umani – ognuno spera di essere l’eletto e teme nell’altro il dannato – e la chiusura in se stessi; inoltre la ricerca, attraverso il successo mondano, di conferme circa la propria condizione di ‘eletto’, spingendo ad un agire in maniera programmata, ha sostenuto lo sviluppo della razionalità. 18 Cfr. A. Comte, op. cit., vol. 2, pp. 120-121. 17
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leranza19 iniziò a diffondersi tra le popolazioni e tra i governanti, che maturarono progressivamente la convinzione che l’assolutismo religioso non fosse più proponibile. Una tale modificazione produsse effetti anche nei principi di legittimazione del potere: il sovrano perse la forza della sanzione religiosa, il potere si desacralizzò, con significativi risvolti anche in termini di capacità effettiva di mobilitazione delle masse. Altri processi trasformativi iniziarono progressivamente a prodursi; Comte ricorda che all’inizio del Diciottesimo secolo l’incremento dei commerci e la diffusione della stampa, con il relativo ricorso alle lingue ‘volgari’, favorirono la circolazione delle idee, producendo una certa omogeneizzazione culturale20.
Opinione pubblica ‘cosmopolita’ e declino della guerra In questo periodo iniziò a consolidarsi l’‘opinione pubblica’, nell’accezione che oggi viene data all’espressione, quale attore sociale dotato di capacità critica e di reale influenza sulle dinamiche politiche21. Questa opinione pubblica, permeata nel suo sviluppo dagli ideali di uguaglianza e dagli orientamenti cosmopoliti propri dei pensatori illuministi, giunse a problematizzare i fondamenti della legittimazione delle élites di potere, ponendosi il quesito se fossero da ricercarsi nella nascita o nell’intelletto22. Il protestantesimo, divenuto anche uno stile di vita, e la crescita di capacità critiche e di autoconsapevolezza degli individui erosero il rapporto di timore reverenziale che per secoli aveva 19 Nel 1689 John Locke (1632-1704), padre del liberalismo democratico, pubblicò in latino l’Epistola de tolerantia (A letter Concerning Toleration), subito tradotta in molte lingue. 20 Molte idee di Comte hanno trovato sviluppi successivi nel pensiero di diversi autori. Anderson, per esempio, sostiene che con la nascita del libro stampato si sarebbe prodotta una forma di comunicazione che ha unificato ambiti linguistici diversi dal latino, dando luogo a comunità di lettori che si riconoscevano in una lingua; queste comunità avrebbero costituito i nuclei generativi delle ‘comunità immaginarie’ delle Nazioni. Cfr. B. Anderson, Comunità immaginarie. Origine e fortuna dei nazionalismi, tr. it., Roma, Manifestolibri, 1995. 21 Su questo tema è fondamentale il saggio di Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, tr. it., Bari, Laterza, 1969. 22 A fronte di questa maturazione dell’opinione pubblica uno dei problemi che si è posto l’Illuminismo ha riguardato proprio la possibilità di impiego dell’opinione pubblica per indurre cambiamenti sociali e politici.
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caratterizzato le relazioni tra sovrani e sudditi; si diffuse e si radicò fondamentalmente l’idea di diritti inalienabili propri di ogni essere umano, idea che si presentava incompatibile con il dispotismo. In questa fase i guerrieri persero parte delle loro funzioni, per divenire semplici strumenti del potere civile; contemporaneamente i giuristi acquisirono status di rilievo all’interno della sfera politica. Questi, con il bagaglio di una formazione essenzialmente metafisica, maestri nell’argomentare in base a principi astratti e generali, ben rappresentavano, secondo Auguste Comte, lo spirito di un periodo in cui i concetti astratti avevano preso il posto delle credenze religiose. Il declino della guerra trovò uno sbocco finale nello stadio positivo che lentamente, ma inesorabilmente, ha sostituito quello metafisico; lo stadio positivo è caratterizzato dal predominio del pensiero scientifico e da una preminente attitudine della popolazione alla pace e alle attività pacifiche. Comte individuò nello ‘spirito dell’industria’ un elemento importante contro la guerra anche perché induceva, a suo parere, una caduta di interesse nei confronti della vita militare come fonte sia di potere e prestigio, sia di reddito23. Come già Saint-Simon, anche Comte associava alla vita industriale una passione per la libertà e per l’emancipazione individuale che male si adattavano alla vita militare, tra l’altro resa meno appetibile dalla diffusa possibilità di svolgere lavori più gratificanti. Il mestiere, assai monotono, delle armi era diventato il rifugio di chi non possedeva le doti necessarie per emergere in una società sempre più in movimento. D’altronde dinamismo e libertà avevano aperto la via alla società industriale; lo ‘spirito dell’industria’ era stato preparato da un’intensa attività in campo commerciale che a sua volta aveva già comportato significative trasformazioni sociali. Alla ricchezza dei commerci era collegata la libertà delle città; già molto prima dell’avvento della società industriale in Europa occidentale la maggior parte delle città era governata da piccoli gruppi di mercanti inseriti in una fitta rete di relazioni commerciali con altri paesi europei. Comte evidenziava come questa nuova classe di persone benestanti, in grado con la loro ricchezza di finanziare anche i re, fosse strettamente dipendente 23 Comte ammetteva che la società militare presentava un’organizzazione sociale più metodica e codificata e quindi più efficiente rispetto a quella industriale, ma riteneva la morale industriale superiore. «L’ardore guerriero al di là della disciplina e della finalità sociale è solo avversione al lavoro e istinto brutale di dominazione, quindi nocivo e ignobile come la cupidigia industriale»; cfr. A. Comte, op. cit., vol. 2, p. 336.
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da una serie di condizioni collegate ad una situazione di pace: tempestività e sicurezza dei trasporti, arrivo delle materie prime anche da aree extraeuropee, andamento stabile dei mercati. Grazie allo sviluppo delle attività commerciali le città si trasformarono: battevano moneta, fondavano banche e borse valori, accreditavano i loro ambasciatori; così poco per volta, ma inesorabilmente, persero le loro funzioni tradizionali di quartieri generali militari. Nella teoria evoluzionistica comtiana l’affermarsi del mondo industriale stava portando alla definitiva scomparsa dei motivi economici che erano stati all’origine di molte guerre; l’industria, rappresentando un equivalente funzionale della guerra nei confronti dell’acquisizione di ricchezze e di prestigio, creava le condizioni sfavorevoli allo sviluppo dell’ethos guerresco. L’evoluzione politica dal Diciottesimo secolo in poi, nonostante le lotte a cui pure aveva dato vita, anche per il pragmatismo economico e per l’orientamento favorevole al compromesso, rappresentava secondo lui una significativa testimonianza del predominio dell’interesse per l’attività industriale sulle aspirazioni di potenza. Nello spirito di libertà che si andava affermando individuava il consolidarsi di una preponderante attitudine delle popolazioni alla pace. Così la concezione comtiana della società industriale si legava strettamente all’idea che la guerra fosse ormai diventata anacronistica: a suo avviso le guerre commerciali24, le attività belliche collegate al colonialismo25 e le crisi rivoluzionarie, sebbene testimoniassero la permanenza dei conflitti armati, segnavano in ogni modo la fine del predominio del sistema teologico-militare. Nel passato le conquiste belliche erano state un mezzo legittimo, o almeno razionale, per accrescere le risorse; ma, in un’era in cui l’economia di spoliazione violenta era declinata e la ricchezza dipendeva dall’organizzazione scientifica del lavoro, la ricerca di un bottino di guerra aveva perso rilevanza ed era diventata anacronistica. La trasmissione dei beni avveniva ormai con il dono e 24 Questa tipologia di guerre attestava, a suo parere, la supremazia dello spirito commerciale su quello guerriero e cercava di «amalgamarsi alla nuova economia sociale, grazie alla sua attitudine a conquistare basi utili e a distruggere la concorrenza»; ivi, p. 258. 25 Comte fu molto contrario al colonialismo europeo; riteneva estremamente nocivo imporre i propri modelli culturali e il proprio dominio con la forza delle armi. Era convinto che la politica imperialistica non solo avrebbe ritardato il naturale processo di pacificazione universale, ma sarebbe stata foriera di disastri nei paesi colonizzati e per i colonizzatori stessi.
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lo scambio; anzi, secondo Comte, il dono avrebbe dovuto svolgere un ruolo sempre più importante, riducendo persino, sia pure entro certi limiti, l’area dello scambio.
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L’utopia comtiana La teoria di Comte sulla società industriale e la crescente indisponibilità delle popolazioni nei confronti della guerra, sia pure con tutti i limiti teorici e metodologici che presenta, fa emergere alcuni interessanti spunti di riflessione. Un primo riguarda le funzioni della guerra che possono essere economiche (come strumento per procacciarsi risorse), sociali (come mezzo per educare ad attività regolari), politiche (come fonte di affermazione di potere). Queste funzioni, che in alcune condizioni possono essere svolte esclusivamente, o comunque in maniera più agevole, tramite la guerra, nelle società più evolute, anche a seguito dell’ascesa al potere della borghesia e dei relativi valori e stili di vita, hanno trovato altre modalità di attuazione con la conseguente definizione di nuove priorità e di nuovi indirizzi per la politica. Un secondo aspetto è rintracciabile nel particolare tipo di rapporto tra potere civile e potere militare delineatosi nei regimi costituzionali europei a partire dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo che prevede la funzione di controllo politico sull’organizzazione militare. Comte enfatizzava l’importanza di questo rapporto che avrebbe attestato la natura antimilitarista delle società moderne in cui la guerra «costituisce necessariamente uno stato sempre più eccezionale, i cui rari e brevi periodi non offrono nella loro durata se non un interesse sociale sempre più accessorio salvo che per la classe particolare e sempre più circoscritta che vi si dedica esclusivamente»26. Un terzo aspetto infine riguarda il legame tra progresso, crescita delle conoscenze e ruolo della ragione; questa tematica, di stretta derivazione illuministica, era alla base della convinzione comtiana che la storia dell’uomo fosse la storia dell’affermarsi dell’intelligenza che portava ad individuare organizzazioni sociali migliori; in una società fondata sulla conoscenza scientifica e sulla razionalità organizzativa, la guerra, in quanto disordine, costituiva un elemento perturbatore da eliminare. 26 A.
Comte, op. cit., vol. 2, p. 78.
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La guerra, per affermare a pieno il suo potere, necessita di una mentalità ad essa adeguata diffusa in tutta la società; ora questa mentalità, da lui risolta fondamentalmente in un habitus mentale incline all’obbedienza e alla deferenza nei confronti del potere e alla prevalenza delle esigenze collettive su quelle individuali, rappresentava valori e dimensioni comportamentali decisamente residuali nelle società moderne. Comte, nella sua veste di profeta di pace, non riuscì certo ad immaginare le capacità di trasformazione e di morfogenesi di cui la guerra e l’ethos militare hanno dato prova nei secoli successivi, né che proprio dal connubio tra mondo militare e industria bellica sarebbe scaturito quel ‘complesso militare industriale’27 che tanta parte ha avuto nelle guerre del Ventesimo secolo e del nuovo millennio. Come sottolinea Aron, «per un’ironia della storia, l’eliminazione dei nobili ad opera degli ingegneri, immaginata da Auguste Comte, si era in un certo qual modo realizzata, ma l’industria era diventata militare e non la società pacifica. L’industria era mobilitata per la guerra e la guerra impregnata di spirito industriale»28.
27
A partire dalla seconda Guerra Mondiale negli Stati Uniti si iniziò a parlare del cosiddetto complesso militare industriale (military-industrial complex). Il presidente Dwight Eisenhower parlando al paese nel gennaio del 1961 sottolineò la conjunction tra mondo militare ed industria quale esperienza assolutamente nuova nella storia degli Stati Uniti. Richiamò l’attenzione sull’importanza di non sottovalutarne le implicazioni: il rischio era che emergesse e si strutturasse un misplaced power. L’avvertimento colpì molto l’opinione pubblica, provenendo il presidente dai ranghi militari ed essendo considerato friend of big business. 28 Cfr. R. Aron, Pace e guerra tra le nazioni, tr. it., Milano, Comunità, 1970, p. 359.
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Herbert Spencer*: società industriale versus società militare
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L’evoluzionismo sociale spenceriano Herbert Spencer fu senza dubbio una figura fondamentale tra gli evoluzionisti sociali; sviluppò un suo originale approccio che mescolava i principi economici del laissez-faire – collegati ad un convinto individualismo – con una visione evoluzionistica. Molti autori hanno sottolineato numerose similitudini tra Auguste Comte e Herbert Spencer: entrambi positivisti ed evoluzionisti, elaborarono una teoria sociologica in stretta connessione con il divenire storico, individuando, attraverso la successione di diversi stadi1, un processo di progressivo migliora*
Herbert Spencer (Derby 1820 – Brighton 1903) filosofo e massimo esponente dell’evoluzionismo. Tutta la sua formazione avvenne all’insegna della libertà di pensiero: ereditò dal padre William George l’opposizione ad ogni forma di autorità e frequentò una scuola basata sui metodi progressisti di Johann Pestalozzi. Suo zio, il reverendo Thomas Spencer, completò la sua educazione formale, insegnandogli la matematica, la fisica e mettendolo in grado di tradurre testi semplici dal latino. Fondamentalmente Spencer fu però un autodidatta. Fu segretario della Derby Philosophical Society fondata nel 1790 da Erasmus Darwin, nonno di Charles. Inizialmente si impiegò come ingegnere civile nelle ferrovie e poi dal 1848 al 1853 lavorò nel giornale “The Economist”. Nel 1851 pubblicò il suo primo libro, Social Statistic; il suo editore John Chapman lo introdusse nel suo salotto frequentato dai pensatori progressisti e radicali più noti, come per esempio John Stuart Mill. A partire dal 1870 divenne molto famoso e i suoi libri furono tradotti in molte lingue compreso il russo, il cinese e il giapponese. Nonostante i successi, la vita di Spencer non fu felice; di salute precaria, non si sposò, nel tempo perse molti amici e soffrì di solitudine. Nel 1902 fu candidato al premio Nobel per la letteratura. 1 Rispetto al modello a tre stadi di Comte (teologico, metafisico, positivo) con le rispettive società militare, legale, industriale, Herbert Spencer, come ha sostenuto Jonathan Turner, ne presenta uno formalmente più completo, articolato su cinque stadi.
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mento dell’umanità. Esistono tuttavia tra i due significative differenze: soprattutto è diversa l’impostazione di fondo delle rispettive teorie che si basano su presupposti profondamente dissimili. Spencer fu decisamente lontano dall’umanesimo razionalista comtiano di stampo prettamente francese; non interessato, come invece era Comte, al progresso dell’uomo in quanto soggettività in grado, grazie alle proprie capacità cognitive e al sempre maggior impiego della ragione, di influire su se stesso e sul divenire storico delle società, preferì indagare l’evoluzione sociale da un punto di vista ‘oggettivo’ di stampo naturalistico. Basava questa scelta a favore dell’empirismo, tipico della cultura inglese, sulla convinzione che la volontà umana sia irrilevante nei processi di trasformazione evolutiva delle società e che le azioni, per quanto bene intenzionate, non siano in grado di raggiungere i loro obiettivi se questi ultimi sono contrari alle leggi naturali. Se al centro dell’interesse del sociologo francese si poneva, come si è visto, il progresso delle soggettività e delle società originato dal crescente emanciparsi della ragione, per lo studioso inglese la storia non rivelava affatto l’affermazione di una ragione trionfante, ma si presentava soltanto come l’esito di un continuo divenire prodotto dalla lotta per la sopravvivenza tra gli organismi. La vita degli uomini è regolata da leggi e da necessità immanenti riconducibili alla natura; quindi anche la loro storia doveva essere considerata in termini di evoluzione. Essa era la prova dello sviluppo del grande organismo chiamato società, della sua progressiva differenziazione e crescente integrazione che avveniva con il passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, passaggio non qualitativo, ma quantitativo, essendo l’eterogeneo solo un omogeneo più complesso. Secondo questa concezione, caratterizzata dal mutamento secondo leggi prefissate, la stessa intelligenza umana si manifestava nell’adattamento e come adattamento. Per Spencer persino i sentimenti morali sono riconducibili alla natura; mondo morale e mondo naturale venivano da lui posti in linea di continuità nel processo di sviluppo: il
Questi stadi sono rappresentati da: a) società semplici (senza nessun capo); b) società dirette (con un capo permanente); c) società composte (con una gerarchia di capi); d) società composte doppiamente (Stati politici); e) società composte triplicemente (società moderne). Cfr. J.H. Turner, Herbert Spencer: A Renewed Appreciation, Beverly Hills, Sage, 1985.
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primo è più evoluto del secondo, rappresenta uno stadio più avanzato, ma non è, per questo, qualitativamente diverso2. L’evoluzione storica delle società è analoga alla crescita degli organismi e avviene attraverso il meccanismo della differenziazione organica che prevede, per fronteggiare necessità e sfide, l’apparire di organi differenziati e specializzati funzionalmente. Come qualsiasi altra entità biologica anche la società deve misurarsi con le condizioni esterne e vede le sue possibilità di sopravvivenza dipendenti dalle capacità di adattarsi ad esse, cioè di mutare, in risposta alle diverse sfide, le proprie configurazioni interne. Le sfide provengono dall’ambiente naturale – clima, natura del terreno, fauna – e dai rapporti che si instaurano con le comunità limitrofe, rapporti che, come nel mondo animale, sono frequentemente caratterizzati dalla lotta per la sopravvivenza. Spencer, che più volte ha negato la pura e semplice equiparazione tra organismo biologico e organismo sociale, identificava tuttavia alla base dell’evoluzione dell’uno e dell’altro la medesima legge generale dell’organizzazione per la quale funzioni distinte esigono di essere svolte da strutture diverse. Nel processo di differenziazione attraverso la specializzazione funzionale, individuava una prima fondamentale distinzione tra le strutture – o gli organi – deputati al rapporto con l’esterno, cioè alla difesa e all’attacco, e le strutture – o gli organi – interni il cui compito è il sostentamento; questo processo si compiva sia nei singoli organismi viventi sia nelle società. L’evoluzionismo spenceriano è comunque meno unilineare di quanto comunemente si è ritenuto; la sua teoria dell’evoluzione è incentrata su un moto ascendente verso la differenziazione e la complessità, ma è scandita dalla possibilità di un’oscillazione pendolare tra i due poli dell’evoluzione e dell’involuzione; prevede cioè la possibilità di ritardi, di battute di arresto, di inversioni di tendenza. Questi andamenti sono riscontrabili sia nel mondo inorganico, sia in quello organico, sia infine in quello superorganico (sociale), come testimonia per quest’ultimo caso il precario e spesso alterabile equilibrio tra i due sistemi, interno ed esterno, incessantemente soggetti all’espansione e al dominio dell’uno 2 L’idea di una forte interconnessione tra sentimenti etici e meccanismi evolutivi non è mai stata abbandonata; è stata riproposta anche recentemente da un saggio che ha riletto i rapporti tra filosofia e neuroscienze alla luce delle più avanzate scoperte della genetica e della neuroendocrinologia; cfr. P.S. Churchland, Neurobiologia della morale, tr. it., Milano, Cortina, 2012.
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ai danni dell’altro, a seconda della supremazia della funzione di sostentamento o di quella di difesa e di aggressione. Nelle società a lui contemporanee considerava esempi significativi di questa dinamica le trasformazioni prodotte sia con il passaggio dalla società militare (dove prevalgono le esigenze e le strutture adeguate a fronteggiare le sfide esterne) a quella industriale (dove invece sono essenziali la prosperità e il benessere dei cittadini) sia viceversa. Al primo processo apparteneva la trasformazione in senso liberale degli ordinamenti politici inglesi durante il periodo di pace iniziato dopo il Congresso di Vienna; ma, già a partire dalla metà del secolo Diciannovesimo, le guerre combattute – e quelle che si profilavano come possibili – provocarono in Europa un’involuzione verso il militarismo in paesi come la Germania e la Francia che non se ne erano mai del tutto liberati, ma anche in Gran Bretagna dove pure lo sviluppo industriale e le conseguenti libertà erano molto progrediti. Spencer notava puntualmente lo scivolamento delle istituzioni verso i modelli tipici della società militare, sottolineando, con disappunto, il ritorno dell’amministrazione accentrata e del governo coattivo e la rinascita di uno spirito predatorio.
La guerra come modalità di evoluzione sociale Herbert Spencer nacque e trascorse gli anni della formazione in un’Inghilterra che, uscita vittoriosa sul piano militare e politico dalle guerre napoleoniche, incontrastata dominatrice delle rotte commerciali e marittime, avanguardia nello sviluppo di innovazioni tecnologiche e organizzative nella produzione industriale, si dichiarava pacifista in politica estera così come era moderatamente liberale in politica interna e liberista in economia. Questo imprinting pacifico e ottimista – che portava ad essere fiduciosi circa il futuro delle società più sviluppate – ricevuto negli anni della gioventù costituì un carattere costante della sua postura intellettuale e rimase tale anche quando in Europa una mutata atmosfera e le minacce provenienti dai possedimenti coloniali dei maggiori Stati europei condussero ad un rafforzamento dello spirito militare, ad un incremento di spese per le forze armate e le fortificazioni, all’istituzione di corpi volontari e ad una regolamentazione invasiva della sfera civile da parte di un militarismo aggressivo. 34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Nonostante l’opzione scientifica empirico-naturalista incentrata sulle dinamiche evolutive delle collettività, Spencer fu fondamentalmente un individualista3 che restò coerente per tutta la vita alla matrice ideologica del dissenter della sua socializzazione primaria; tuttavia questo orientamento di fondo, se pure gli procurava una decisa ripulsa verso quella forma estrema di statalismo costituita dal militarismo, non gli impedì un’interpretazione realistica del ruolo che nell’evoluzione sociale aveva rivestito la società di tipo militare. Seppure critico della guerra quale fattore di distruzione e generatore di caos, Spencer ne teorizzò il ruolo essenziale nel processo evolutivo delle società umane: la guerra è stata, almeno inizialmente, il principale mezzo di questa evoluzione. Infatti l’esercizio di funzioni difensive e aggressive ha favorito lo sviluppo in un corpo sociale inizialmente omogeneo di caratteri differenziati e di organi specializzati; ciò ha messo in moto meccanismi a favore dell’emergenza di strutture complesse. La guerra, quale modalità di relazione estrema di un gruppo con l’ambiente sociale esterno, è un fenomeno che genera e modifica nel profondo l’organizzazione e la struttura interna di una società. In base alla legge generale dell’organizzazione per cui “funzioni distinte esigono strutture distinte”4, ha indotto le prime forme di differenziazione e di stratificazione sociale in seno alle comunità (uomini e donne in principio e, in seguito, guerrieri, liberi e servi) e successivamente ha tracciato le modalità organizzative più idonee per favorire l’integra3 La coesistenza di questo suo orientamento con l’evoluzionismo si presenta difficile da un punto di vista teorico e politico. Nell’ideologia individualista di Spencer all’individuo viene attribuito il primato sulla società, ma la lotta per la sopravvivenza impone che il singolo si sacrifichi per la propria comunità; infatti se la sopravvivenza di quest’ultima richiede un’azione collettiva, un orientamento individualista non si addice ad un’entità che deve armonizzare l’azione delle parti per rispondere alle sfide esterne. Se da un punto di vista teorico Spencer non aveva dubbi – l’individuo è subordinato alla specie – in un’ottica politica però emergeva in lui la preoccupazione per l’incremento del potere statale, per l’ipertrofia dell’apparato legale e della burocrazia che limitano la libertà individuale. Riteneva pericolosi questi aspetti dell’organizzazione sociale in quanto manifestazioni di ciò che definiva un ritorno all’omogeneità primitiva. Spencer nutriva interesse per l’evoluzione delle forme della vita associata; la sua ricerca fu quindi anche un tentativo di rintracciare nelle società l’esistenza di condizioni che, pur consentendo una vita compatibile con un orientamento individualistico, assicurassero al tempo stesso un adeguato livello di sicurezza – in termini di sopravvivenza – alla società come entità olistica in un contesto caratterizzato dalla lotta per la vita. 4 Cfr. H. Spencer, Principi di sociologia, tr. it., Torino, Utet, 1967, vol. 1, p. 661.
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zione di queste parti distinte. Se è vero che non può esserci una vera società senza unione, consenso e cooperazione, è pur vero, secondo Spencer, che questi hanno inizio e si rafforzano con la collaborazione nell’offesa e nella difesa e, proprio sulla base di questa primaria intesa, si sviluppano forme di integrazione più intense e più complesse e di relativo coordinamento e gestione. In linea generale, quando le società si diversificano, a fronte della necessità di controllo e di direzione dei diversi settori, si origina un sistema deputato a regolamentare l’interdipendenza e nascono quindi forme embrionali di governo; le esigenze belliche accelerano e rendono possibile questo processo di specializzazione organizzativa che in altre condizioni tenderebbe, a suo parere, a restare latente. La guerra inoltre accresce la consapevolezza della necessità di fronteggiare pericoli che sono comuni e induce gli individui, fondamentalmente restii a qualunque tipo di imposizione, ad accettare un’autorità forte e accentrata. Infatti «il buon successo in conflitti con le altre società richiede rapidità, accordo e adattamento particolare alle condizioni di fatto, sempre mutevoli. Le informazioni sui movimenti del nemico debbono essere prontamente trasmesse; le forze debbono essere rapidamente concentrate in certi punti; bisogna avere provviste di qualità bene adatta e di quantità sufficiente; debbono concordarsi le manovre militari; e per questi fini vi dev’essere un potere centrale istantaneamente obbedito»5. Le attività degli organi militari all’esterno producono quindi concrete conseguenze anche nelle relazioni e nell’organizzazione interna. Attraverso gli effetti della guerra si delinea una società militare e, con la separazione di uno strato di combattenti dal resto della comunità, inizia una prima differenziazione politica con la casta dei guerrieri che si struttura anche come classe detentrice del potere. Secondo Spencer, tutto questo senza guerra non si sarebbe mai verificato; presso le società non costrette all’azione collettiva bellica non esistono forme di autorità centralizzata, né rilevanti distinzioni di classe e l’azione di chi governa è volta esclusivamente alla protezione dei diritti dei singoli che rimangono egoisticamente orientati. La guerra, che ha promosso lo sviluppo di forme sociali più complesse e ha consentito la nascita di un’articolata struttura sociale e politica, nel tempo ha svolto anche il ruolo di ‘agente’ di selezione naturale: nella competizione tra le collettività, permetten5
Ivi, p. 630.
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do che tra di esse sopravvivessero le migliori, ha favorito l’affermarsi sulla scena mondiale dei popoli più potenti e intelligenti. Si è quindi configurata come strumento dell’evoluzione; ma, proprio in base alla logica evolutiva, Spencer era convinto che la guerra avesse esaurito il suo compito e che i risultati raggiunti tramite essa dovessero essere migliorati attraverso altri meccanismi, cioè con nuove modalità di integrazione e nuove forme politiche. Nel pensiero spenceriano la dicotomia società militare/società industriale fondava gran parte della sua rilevanza su questa emergente esigenza6.
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La società militare Nel secolo Diciannovesimo la coppia dialettica società militare/ società industriale non era certo una distinzione innovativa e Spencer non fu il solo a ricorrervi, ma il suo approccio presenta sicure note di originalità. Saint-Simon e Comte assegnarono alla dicotomia militare/ industriale una base di natura storica, collegando, come si è visto, lo sviluppo del sistema sociale con quello delle vicende materiali e intellettuali, dando un grosso peso alla sfera cognitiva delle concezioni e delle credenze. Spencer invece collocò altrove le origini del processo che gradualmente, seppure in maniera non irreversibile, avrebbe condotto dal predominio degli organi e delle funzioni del tipo militare alla prevalenza degli organi e delle funzioni del tipo industriale. Si rifece ad un modello evolutivo naturalistico che prevedeva la progressiva emergenza di organismi più complessi nei quali è chiara la differenza tra il sistema esterno degli organi a contatto con l’ambiente circostante e quello interno degli organi addetti al sostentamento. Anche nelle società umane, superata la fase originaria in cui i due sistemi della difesa e del sostentamento coincidono, il sistema esterno diventa autonomo. La differenza essenziale tra società militare e società industriale è quindi rintracciabile nella presenza o meno di questa separazione funzionale e organizzativa. In altri termini, nelle società militari le attività belliche sono fonte sia di sostentamento sia di difesa/attacco, nelle società industriali il sostentamento – cioè la produzione dei beni necessari alla vita 6 Dichiarava infatti che «i due tipi sono diametralmente opposti […] e i contrasti tra i loro caratteri sono i più importanti tra quelli di cui la sociologia deve occuparsi»; ivi, p. 661.
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delle popolazioni – avviene invece attraverso attività distinte da quelle della guerra. Spencer dedicò molta attenzione alla società di tipo militare; coerente con la logica della sua teoria evolutiva, non ne elaborò i lineamenti sulla base delle numerose espressioni che il mondo antico presentava; preferì invece dedurne a priori i lineamenti all’interno della logica del principio evoluzionistico dell’adattamento attraverso la differenziazione, per poi sottoporre le sue deduzioni alla prova empirica, ricercando nelle società storicamente esistite la presenza o meno di quei caratteri definiti attraverso il puro ragionamento. Sulla base di questa opzione metodologica, giunse ad individuare nell’azione collettiva e nella coesione i requisiti indispensabili per la sopravvivenza di società inserite in un contesto di lotta con altre società. Ipotizzò che, in caso di confronto violento, a parità di altre condizioni, sarebbero riuscite vincitrici – e quindi sarebbero sopravvissute – solo quelle società che potevano contare sul contributo di tutti i membri indipendentemente dalle reali capacità e possibilità individuali di combattere. L’azione combinata e coerente di tutti i componenti di una collettività per un fine comune è però possibile solo in presenza di forti legami tra loro, cioè di una intensa coesione sociale, e di un’unità di intenti, condizioni realizzabili solo quando lo spirito di cooperazione prevale sull’individualismo egoistico. In una visione evoluzionistica quello che è necessario si afferma; la non realizzazione di suddette condizioni produce infatti l’eliminazione delle forme sociali che non risultano adeguate alla situazione, cioè delle società non in grado di sviluppare strutture e organizzazioni adatte alle sfide che devono affrontare. Ne deriva che altruismo e capacità di cooperazione si sarebbero stabilizzati nelle società come disposizioni delle popolazioni in quanto risultato della selezione naturale che avrebbe fatto scomparire quelle collettività che ne erano sprovviste. Spencer delineava, in tal modo, un modello di organizzazione sociale, definita società militare, basato su una concezione puramente funzionale dei membri della società, la cui vita può assumere senso solo in quanto utile alla sopravvivenza collettiva; in tale tipo di società è assente qualsiasi possibilità di sfere di autonomia, sia pur limitate, per la vita personale. Libertà individuale e proprietà privata vengono sacrificate alle esigenze collettive, mentre sentimenti e mire personali sfumano nella sottomissione alla volontà collettiva. Inoltre i regimi militari, e le 38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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esigenze belliche che rappresentano, necessitano di una gestione autoritaria della società e a tal fine si dotano di sistemi politici particolarmente accentrati; le loro possibilità di sopravvivenza sono tanto maggiori quanto più questi sistemi si avvicinano a forme di dispotismo con azioni di controllo che si realizzano non solo come divieti e repressioni, ma anche attraverso l’imposizione e la regolamentazione, in maniera estesa e imperativa, di determinate attività. Infatti la capacità di agire collettivamente in modo efficace presuppone un controllo capillare di quanto accade e un’influenza marcata sulle azioni dei singoli membri, indipendentemente dal fatto che siano o non siano guerrieri. Ogni società in cui l’attività preponderante sia quella bellica vede ogni ambito della vita civile subalterno alla disciplina e agli interessi militari e quando il capo militare diventa anche capo civile tutta la società risulta irreggimentata. In essa il processo di accentramento amministrativo e l’assenza di burocrazia civile facilitano la colonizzazione e il controllo pan-ottico di ogni ambito, anche delle sfere più private della vita domestica. Con la regolazione positiva nasce quella cooperazione obbligatoria che costituisce una caratteristica della società militare. L’individualista Spencer era convinto che la cooperazione e la subordinazione di se stessi, delle proprie aspirazioni e dei propri diritti alle esigenze collettive di sopravvivenza e di potenza non emergono spontaneamente, ma richiedono la presenza di un efficace apparato coercitivo e verticistico che nelle società militari trae frequentemente, come pure aveva evidenziato Comte, la sua legittimazione dall’unione tra potere politico e potere religioso. Definite a priori queste caratteristiche attraverso un ragionamento deduttivo basato sulla logica evoluzionistica, Spencer cercò – e trovò – la conferma delle sue ipotesi nelle società antiche. Nell’irreggimentazione della società degli Incas riscontrava un esempio della totale soppressione dell’individualità: «Così gli individui, ridotti nella condizione di proprietà dello Stato quanto alla persona, ai beni ed al lavoro, trapiantati da questo a quel luogo a seconda degli ordini dell’Inca, e quando non servivano all’esercito soggetti ad una disciplina simile a quella dell’esercito, erano unità di un meccanismo centralizzato ad immagine d’un reggimento ed agivano per tutta la vita mossi il più possibile dal volere dell’Inca e il meno possibile dal proprio volere»7. Sia gli Incas sia gli antichi Egizi offrivano anche esempi significativi di unione 7
Ivi, vol. 2, p. 347.
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tra autorità militare, politica e religiosa. Nella società dei primi «il capo dell’impero, d’origine divina, sacro, assoluto, era al centro di un sistema che regolava minuziosamente tutta la vita. La sua autorità era ad un tempo militare, politica, ecclesiastica, giudiziaria. Tutta la nazione si componeva di coloro che, in qualità di soldati, lavoratori, funzionari erano suoi schiavi e dei suoi antenati divinizzati». In Egitto «il sovrano di origine divina, limitato nei suoi poteri soltanto dagli usi trasmessi dai suoi antenati divini, era ad un tempo capo politico, gran sacerdote e comandante in capo»8. Per la regolazione positiva delle popolazioni Spencer portava gli esempi degli Incas, degli Egizi e di Sparta; nell’irreggimentazione di queste società individuava l’annullamento totale dell’individuo e l’assoggettamento delle piccole comunità. Presso gli Incas «appositi regolamenti prescrivevano la forma degli abiti, delle decorazioni, delle insegne, ecc., che le persone dei diversi gradi dovevano portare. Oltre a questa regolamentazione per la vita esterna ve n’era una per la vita domestica. La gente era obbligata a cucinare i pasti a porte aperte affinché i giudici potessero entrare liberamente e questi giudici dovevano vedere se la casa, gli abiti, i mobili erano tenuti con ordine e pulizia e se i fanciulli erano convenientemente educati. Quelli che tenevano male le loro case venivano frustati»9. A Sparta «esistevano dei regolamenti che prescrivevano l’età per il matrimonio, che vietavano la vita domestica, che interdicevano ogni industria o ogni occupazione lucrosa, che proibivano di uscire dal paese senza permesso e che facevano pesare una censura legale sui giorni e le notti del lacedemone»10. Simili caratteristiche erano riscontrabili però anche in periodi più recenti; Spencer ricordava che in Russia, durante il regno dello zar Nicola, il sistema militare era applicato a tutte le classi sociali, anche a quelle che non andavano mai in guerra, mentre sotto il regno «di Pietro e dei suoi successori furono istituiti regolamenti concernenti la vita domestica; il popolo dovette cambiare la foggia del vestire; il clero dovette tagliare la barba»11. Nelle società antiche tutti i maschi adulti erano guerrieri e in Egitto, in Grecia e a Roma erano anche proprietari di terre. Spencer considerava questo nesso non privo di significato: i proprietari terrieri erano 8
Ivi, p. 346. Ibidem. 10 Ivi, p. 349. 11 Ivi, p. 350. 9
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più interessati degli altri alla difesa del territorio; inoltre essendo anche individui dotati di un certo potere nella collettività, le riunioni militari assumevano anche una valenza politica. La conseguenza più evidente, secondo Spencer, era che nella posizione di vertice le due autorità – civile e militare – risultavano accentrate in una stessa figura mentre nei livelli inferiori i capi guerrieri minori erano anche capi civili delle località di appartenenza. Può accadere che il regime militare perduri anche in tempo di pace; Spencer sosteneva che quando ciò accade l’organizzazione militare ‘colonizza’ e modifica la struttura della società in maniera piuttosto permanente. Nata per far fronte ad una congiuntura bellica, la sovrapposizione tra potere militare e potere civile, se perdura, ‘deforma’ la società, riproducendo l’organizzazione militare del tempo di guerra come organizzazione politica in tempo di pace, con forti limitazioni della libertà. Ma non solo; sottoposti ad un regime militare, attraverso un processo di ‘contaminazione’, si trasformano anche gli habitus mentali: patriottismo, coraggio, fedeltà, obbedienza diventano i valori sociali portanti; soprattutto il cittadino/soldato, che è abituato alla brutalità e alla sopraffazione del campo di battaglia, senza un adeguato mutamento delle istituzioni, tende a riproporre gli stessi comportamenti anche nella vita civile con un generale imbarbarimento dei costumi. Spencer sottolineava il grave rischio rappresentato dalla permeabilità tra contesto bellico/ militare e pacifico/civile12.
La società industriale Secondo Spencer solamente nelle società più evolute emerge e si afferma la tipologia di società industriale più significativa, quella in cui allo sviluppo delle attività industriali in senso economico si accompagnano istituzioni e valori ‘industriali’ in senso politico e sociale. Il passaggio dalle società militari a quelle industriali è però lento e graduale; frequentemente ci si trova in presenza di coesistenza o sovrapposizione 12 Le notazioni di Spencer anticipano molte delle problematiche fronteggiate nelle cosiddette war-torn societies: clima sociale surriscaldato, illegalità diffusa, difficoltà nella smobilitazione, nel disarmo e nella riconversione dell’economia. Anche la gestione e il reinserimento dei veterani costituiscono sfide complesse con le quali molte società si sono dovute misurare e a tutt’oggi si misurano.
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di caratteri dell’uno e dell’altro tipo. Nonostante questa possibilità di coesistenza fattuale, esiste tra i due tipi di società una netta antitesi: l’organizzazione sociale di tipo industriale è completamente inadeguata ai compiti esterni di difesa dai nemici ed è esclusivamente idonea alla funzione interna di mantenimento e di miglioramento della vita dei cittadini e, conseguentemente, anche della collettività13. La permanenza di spinte militariste nelle società industriali è il segno di una lotta evolutiva tra i due opposti principi: quello dell’individualismo e della libertà e l’altro del collettivismo e della sottomissione. Dall’esito di questa lotta dipende il progredire del processo evolutivo a favore della società industriale e, con essa, dell’individuo. Se analisi e descrizione della società militare si presentavano relativamente facili, per le società industriali erano necessarie alcune premesse metodologiche; infatti il carattere distintivo di queste ultime andava ricercato nel particolare tipo di valori e di relazioni sociali che sviluppava, nelle modalità di organizzazione del lavoro e non nella quantità di lavoro svolto, cioè nel livello di produttività. Se il requisito fondamentale della società militare è la capacità di assicurare un agire collettivo e coordinato in vista della difesa e dell’attacco, questa caratteristica si è ridimensionata nella società industriale dove declina anche l’ideologia collettivistica e il singolo non viene più sacrificato per la comunità, ma al contrario viene da questa riconosciuto come un ‘valore’, tutelato e difeso. Nella società militare la priorità del bene comune, realizzabile anche attraverso la cooperazione forzata e il sacrificio individuale, è il solo strumento attraverso cui le persone possono vedere assicurati la sopravvivenza e un eventuale benessere; in quella industriale il rapporto si inverte: si tende a proteggere innanzitutto i cittadini e i loro interessi privati e indirettamente quelli della società nel suo insieme, sul presupposto che questi ultimi siano per tale via realizzabili. Dal momento che la libertà individuale, tipica di ogni transazione economica, orienta l’insieme delle relazioni sociali, la cooperazione, necessaria all’esistenza di ogni società, viene perseguita non su base coattiva, ma in ragione dello scambio di benefici equivalenti tra le parti; è, quindi, una cooperazione volontaria. All’istituto del contratto, tipi13
Spencer definisce l’organizzazione sociale di tipo industriale un’organizzazione «completamente inadatta alla difesa contro nemici esterni ed esclusivamente atta al mantenimento della vita sociale»; H. Spencer, Principi di sociologia, cit., vol. 2, p. 370.
42 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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co dell’era industriale, Spencer, come molti altri autori contemporanei, collegava l’autonomia del singolo, il mutamento dei sentimenti nei riguardi dello Stato e il riscatto da ogni sudditanza. Abituati a difendere i propri diritti nelle transazioni economiche e a rispettare quelli degli altri, i cittadini sono liberi dalle forme di soggezione tipiche delle società militari e capaci di manifestare apertamente il loro dissenso civile e politico. Con la fine di ogni subordinazione al potere politico e con una diminuzione della fiducia nelle virtù dei governanti (in termini comtiani con la desacralizzazione del potere) diminuisce anche il patriottismo14. In siffatto contesto il governo non si configura più come un apparato tirannico di vigilanza, ma diventa un organo rappresentativo teso alla tutela di tutti e di ognuno attraverso un’attività di controllo e di garanzia della giustizia nei rapporti tra i cittadini. Nella spenceriana società industriale, nella quale l’individuo è un valore assoluto, il concetto di bene è connesso a quello di giustizia, per cui è bene per la società quanto consente e assicura rapporti giusti tra i cittadini. Questa giustizia, che viene intesa come un retto rapporto tra impegno e guadagno, realizzato in un contesto basato sulla prevalenza di forme contrattuali di relazione, rappresenta una sorta di meccanismo di selezione; chi più produce è ‘migliore’ ed ha ‘giustamente’ maggiori possibilità di sopravvivenza15. La società industriale si caratterizza dunque per l’assenza di regolazione positiva e per la conseguente scomparsa dell’accentramento amministrativo. L’unico intervento governativo ben accetto dalla popolazione è rappresentato dalle operazioni di sicurezza in contrasto alle attività criminali. La diminuzione delle attività di controllo sulla popolazione e il sostegno all’iniziativa individuale, conseguenti alla sostituzione della cooperazione obbligatoria con quella volontaria, aprono ampi spazi che vengono occupati da associazioni private. Ad un processo di crescente privatizzazione dello spazio pubblico si unisce quello dell’indebolimento della divisione in classi tipica della società militare. Questa divisione 14
«Lo spirito di autocritica che conduce spesso gli inglesi a fare dei paragoni fra loro e i vicini del continente, li porta ora più che mai a rimproverarsi la condotta verso i popoli più deboli. Le proteste numerose ed energiche, che ha sollevato la condotta del governo inglese verso gli Afghani, gli Zulù ed i Boeri, mostrano l’intensità del sentimento che gli chauvins chiamano antipatriottico»; ivi, p. 396. 15 In questa concezione ogni forma di redistribuzione del reddito mediante azione pubblica viene vista negativamente in quanto contrasta il processo di miglioramento della società.
43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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che si basava sulla proprietà della terra è sfidata dalla presenza di nuove ricchezze fondate sulle attività economiche e sui capitali finanziari. Spencer non abbandonò mai l’ottica evoluzionistica e reputava anche la società industriale sottoposta alla legge della lotta per l’esistenza; mutavano però i parametri più significativi di questo confronto: la lotta industriale per l’esistenza si misura sulla capacità di una società di avere il maggior numero di membri adeguati alle nuove condizioni sociali – cioè dotati di valori ed habitus mentali, quali libertà e indipendenza del singolo, consapevolezza dei propri diritti, affrancamento da ogni obbedienza e subordinazione, capacità di critica e di manifestazione del dissenso nei riguardi dei governanti, intraprendenza e volontà di impegnarsi – e perciò in grado di sostenere lo sviluppo e il consolidamento del modello industriale.
Tra pace e guerra Spencer era convinto che la guerra avesse esaurito il suo compito evolutivo, educando le popolazioni alla disciplina, favorendo la ‘selezione naturale’ dei popoli più intelligenti e più potenti e consentendo la nascita di organizzazioni politiche e sociali. Arrivate allo stadio evolutivo in cui la guerra era ormai superflua all’evoluzione, le società più sviluppate erano chiamate a procedere mediante un nuovo sistema politico e nuove forme di integrazione. Permanendo, la società di tipo militare non avrebbe potuto che nuocere al progresso economico, politico e sociale, imbrigliando le spinte all’innovazione con i vincoli della coercizione e dell’accentramento. Al contrario solo l’inibizione delle attività militari – con la conseguente decadenza dell’organizzazione relativa – avrebbe potuto condurre ad un miglioramento delle istituzioni politiche e della società in generale. Ciò non toglie, secondo Spencer, che le società di tipo industriale possano, in caso di conflitti internazionali, tornare ad assumere momentaneamente gli assetti tipici della società militare per poi riprendere il percorso evolutivo al cessare delle necessità derivanti dalla situazione bellica contingente. Mentre formulava la sua teoria, Spencer non poteva non notare la ripresa in Europa di un diffuso militarismo che, come gli indicavano molteplici fatti storici, riteneva producesse trasformazioni politiche in senso involutivo, con pesanti ricadute sull’autonomia e la libertà dei 44 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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cittadini. La comparazione tra lo sviluppo storico della società francese e quello della società inglese offriva ampie conferme alla sua tesi. Le guerre, intestine e non, che caratterizzarono la storia francese tra il Decimo e il Quindicesimo secolo condussero all’interruzione di molte attività economiche mentre le conquiste politiche e sociali si produssero in Francia più lentamente di quanto si andavano realizzando, nello stesso periodo, in Inghilterra che godeva di una relativa tranquillità, con la sola eccezione del periodo della Guerra delle due Rose (1455-1485) che portò anche un ritorno dell’assolutismo. Ulteriore conferma circa la contrazione delle libertà sociali e politiche gli proveniva dall’analisi degli effetti prodotti in Inghilterra dalle guerre che si erano combattute tra il 1775 e il 1815; durante quel periodo la condizione di ogni singolo cittadino diventò quella del militare sottoposto a rigidi controlli, le riunioni pubbliche vennero proibite, fu ridotta la libertà di stampa e la proprietà privata fu tassata. Ci fu un inasprimento delle leggi e la legislazione penale divenne più estesa e più severa. Spencer sottolineò efficacemente l’ondata di militarismo istituzionale, sociale e culturale che registrava nell’Europa a lui contemporanea e gli effetti di una propaganda aggressiva e bellicista sulle disposizioni delle popolazioni: «Nelle scuole l’organizzazione e la disciplina militare sono venute coltivando l’istinto di antagonismo in ogni nuova generazione. […] la letteratura e l’arte hanno portato il loro contributo. Libri che trattano di battaglie, di conquiste e degli uomini che le condussero sono stati ampiamente diffusi e avidamente letti. Periodici pieni di storie rese interessanti dalle uccisioni, con illustrazioni relative, hanno ogni mese servito a soddisfare il desiderio di distruzione; come pure hanno fatto i giornali illustrati settimanali. In tutti i luoghi e in tutti i modi è andata procedendo durante gli ultimi cinquant’anni una recrudescenza di idee e sentimenti ambiziosi da barbari e una spinta perenne alla sete di sangue»16. Eppure tutto ciò che notava scrupolosamente non minò minimamente la sua fiducia nell’ineluttabilità del processo di evoluzione sociale; come Comte restò ancorato all’idea che le leggi dell’evoluzione non possano essere invalidate da eventi e processi che pure riescono a ritardare quest’ultima, ad ostacolarla e persino ad invertirne, per qual16
Cfr. H. Spencer, “Ritorno alla barbarie”, in Fatti e commenti, cit., pp. 127-128, in M.A. Toscano, Malgrado la storia, Milano, Feltrinelli, 1980.
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che tempo, il senso. Era convinto che lo sviluppo industriale avrebbe portato lunghi periodi di pace, che a loro volta avrebbero modificato sentimenti e attitudini delle popolazioni fino alla scomparsa totale della guerra. Infatti se i sentimenti aggressivi sviluppati dalla ‘cronicità’ della guerra «rendono una tale azione necessaria […] essa diminuirà a poco a poco, nella misura in cui questi sentimenti diminuiranno, per effetto di una esistenza pacifica durevole»17. Spencer tendeva ad enfatizzare l’orientamento tendenzialmente pacifico delle società essenzialmente liberali e individualiste del suo tempo e non riuscì ad immaginare le modificazioni della guerra e le sue possibili nuove matrici economiche, né ad ipotizzare il sorgere di élites di potere capaci e interessate a manipolare gli interessi e i sentimenti nazionalistici delle popolazioni per poter sostenere lunghi e sanguinosi conflitti, in tal modo allontanando di molto quella condizione di pace durevole che aveva previsto.
17
Cfr. H. Spencer, Principi di sociologia, cit., vol. 2, p. 371.
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Alexis de Tocqueville*: società democratica e guerra
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Originalità del pensiero di Tocqueville Le analisi di Alexis de Tocqueville completano le riflessioni sulla pace e sulla guerra sviluppate da Herbert Spencer e da Auguste Comte, anche se l’accostamento ai sociologi positivisti può apparire discutibile, non essendo pienamente né sociologo, né positivista e ponendo prevalentemente l’attenzione alla democrazia e alle istituzioni politiche. Tuttavia, per quanto rimanga estranea a Tocqueville ogni filosofia della storia, la sua illustrazione della nascita e dello sviluppo della democrazia in America lascia supporre che avrebbe concordato sulla definizione di un processo socio-politico evolutivo che, sulla scia di quelli delineati da Auguste Comte e da Herbert Spencer, avesse visto le società antiche strutturate in vista della guerra e quelle moderne e democratiche mag* Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville (Verneuil-sur-Seine 1805 – Cannes 1859), appartenente alla cosiddetta petite noblesse, terzo figlio di un alto funzionario governativo (prefetto in numerosi dipartimenti) che durante il Terrore fuggì in Inghilterra, studiò legge e divenne magistrato. Nel 1831 prese un periodo di congedo per partecipare ad una commissione inviata in America per studiare le riforme penali e viaggiò per nove mesi negli Stati Uniti. Dall’esperienza di questo viaggio, dalle testimonianza raccolte e dai documenti consultati Tocqueville trasse il materiale per il suo De la démocratie en Amerique edito in due parti: la prima nel 1835, la seconda nel 1840. Nel 1832 diede le dimissioni da magistrato per solidarietà con l’amico Gustave de Beaumont, destituito per aver rifiutato di prendere la parola in una questione che gli sembrava poco onorevole per la funzione di pubblico ministero. Tocqueville si dedicò alla carriera politica e dopo un primo insuccesso, nel 1839 fu eletto deputato di Vologne, posizione che mantenne in diverse tornate elettorali fino al 1851, quando si ritirò dalla politica. Fu anche ministro degli Esteri per pochi mesi nel 1849. Dal 1852, dopo il ritiro dalla vita politica, si dedicò agli studi sull’ancien régime. Tocqueville fece diversi viaggi (da giovane in Italia, poi Inghilterra, Irlanda, Algeria, Germania); quasi tutti gli offrirono spunti per ulteriori pubblicazioni.
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giormente orientate al commercio, piuttosto scettiche nei riguardi del patriottismo nazionalistico e caratterizzate dalla crescita dell’industria e da un orientamento pacifico. Tocqueville rifiutava le vaste sintesi miranti a definire processi storici e a delineare scenari futuri ed era privo del tranquillo ottimismo di Comte e Spencer circa l’avvenire prospero e pacifico delle società occidentali; ciononostante le sue osservazioni sulla problematica militare e bellica nel nuovo mondo e le ipotesi generali che ne trasse – e che considerava estensibili a molti paesi europei – non sono molto lontane dal pensiero dei due sociologi. Si deve ai suoi studi un significativo contributo alla riflessione sui rapporti tra la guerra e la moderna società democratica, anche se il tema resta decisamente marginale nell’insieme della sua opera, essendo lo sviluppo dell’uguaglianza nel ‘nuovo’ come nel ‘vecchio’ Mondo, con le trasformazioni sociali e politiche ad esso connesse, il reale centro dei suoi interessi scientifici. Seppure non del tutto consapevole, Tocqueville formulò, in base alle osservazioni e alle informazioni dirette che assumeva dalle conversazioni effettuate durante il viaggio negli Stati Uniti, la descrizione sociologica di una realtà in cui la dinamica del principio dell’uguaglianza si poneva come elemento regolatore dell’intera società. Nell’introduzione al fondamentale testo De la démocratie en Amerique un passo è particolarmente esplicativo: «Tra le novità che attirarono la mia attenzione durante la mia permanenza negli Stati Uniti, nessuna mi ha maggiormente colpito dell’uguaglianza delle condizioni. Senza fatica constatai la prodigiosa influenza che essa esercita sull’andamento della società: essa dà allo spirito pubblico una determinata direzione, alle leggi un determinato indirizzo, ai governanti dei nuovi principi, ai governati abitudini particolari. […] Ripensai allora al nostro emisfero, e mi parve di scorgervi qualche analogia con lo spettacolo che mi offriva il Nuovo Mondo. Constatai che anche qui l’uguaglianza delle condizioni, pur senza aver raggiunto come negli Stati Uniti i suoi estremi limiti, vi si avvicinava tuttavia ogni giorno di più; mi sembrò inoltre che questa stessa democrazia che regna nelle società americane, anche in Europa avanzasse rapidamente verso il potere»1. Muovendo l’analisi all’interno dei processi generati dalle trasfor1 Cfr. A. de Tocqueville, “Introduzione”, in La democrazia in America, tr. it., Torino,
Utet, 1991, p. 15.
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mazioni epocali di cui era testimone, Tocqueville giunse a delineare in maniera magistrale anche quelle ragioni e quei principi che, a seconda delle situazioni politiche, economiche e sociali, possono costituire, di volta in volta, motivi di rifiuto o elementi a favore della guerra. L’originalità della sua trattazione al riguardo risiede nel fatto che, anziché assegnare una priorità causale al fenomeno industriale, come Comte e Spencer, egli si dedicò all’analisi della democrazia in generale e degli habitus mentali ad essa connessi e, prendendo lo spunto dall’azione di questi fattori nel contesto americano, evidenziò con efficacia il nesso pace/società democratiche, anticipando tematiche sviluppate dal pensiero contemporaneo al riguardo2. Se Spencer e Comte, come prima di loro Saint-Simon e sia pure in maniera diversa Proudhon3, avevano individuato nell’avvento dell’era industriale un fenomeno destinato a sancire l’anacronismo della guerra, della quale sottolineavano l’incompatibilità sia con lo spirito, sia con le strutture sociopolitiche delle società industriali, Tocqueville indicò nella democratizzazione e nelle trasformazioni della vita quotidiana e della mentalità in società democratiche e dedite alle attività economiche un processo che conduceva a risultati pressoché analoghi. Mentre Comte e Spencer erano convinti delle potenzialità del modello di società industriale di espandersi a livello globale, Tocqueville rintracciò nell’affermazione dell’uguaglianza, come principio e come dato di fatto, un aspetto fondante di un processo più generale di un profondo 2 Ancora oggi il nesso pace/democrazia è al centro di numerose riflessioni; in linea generale il principale riferimento è alle teorizzazioni per le quali la pace internazionale sarebbe il risultato della natura democratica degli Stati; la democrazia opporrebbe alla guerra vincoli normativi, culturali e vincoli strutturali a livello di decision making. In particolare è stato sviluppato il teorema della cosiddetta ‘democratic peace theory’ o più semplicemente della ‘democratic peace’ per il quale le democrazie non si combattono una con l’altra. In argomento cfr., per esempio, D. Archibugi, The Global Commonwealth of Citizens. Toward Cosmopolitan Democracy, Princeton, Princeton University Press, 2008. 3 Pierre-Joseph Proudhon (Besançon 1809 – Parigi 1865) considerava la guerra come motore del divenire storico e le aveva conferito natura giuridica in quanto giudizio in grado di assegnare la supremazia e il potere al popolo migliore sotto tutti gli aspetti. Nella sua epoca però registrava un’avversione della popolazione nei confronti della guerra; basava le sue osservazioni sul fatto che il progresso, collegato alla crescita economica, produceva rilevanti cambiamenti nella modalità della sua gestione che modificavano a loro volta le caratteristiche in virtù delle quali la guerra può essere accettata, o più spesso ricercata, dai popoli.
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mutamento delle società che – foriero di significative conseguenze sia in politica interna, sia in politica estera – riteneva inarrestabile, una sorta di frutto di un ‘disegno divino’ di cui gli uomini sembravano solo meri strumenti. «Dappertutto si è visto come i diversi avvenimenti della vita dei popoli contribuiscano alla fortuna della democrazia. Tutti gli uomini l’hanno aiutata con i loro sforzi, quelli che si proponevano di contribuire al suo successo, e quelli che non pensavano affatto a servirla, quelli che per essa hanno combattuto, e quelli che si sono dichiarati suoi nemici; tutti sono stati spinti alla rinfusa sulla stessa via e hanno lavorato insieme, gli uni loro malgrado, gli altri a propria insaputa, ciechi strumenti nelle mani di Dio»4. L’autonomia intellettuale che Comte vedeva realizzarsi nella società industriale per Tocqueville era la base e il motore delle istituzioni e delle prassi democratiche. In questo senso si potrebbe sostenere che, nella sua visione, l’America raffigurava il luogo della realizzazione di un progetto universale e ‘necessario’ della storia dell’umanità, anche se era pienamente consapevole che le conseguenze prodotte dal processo crescente di democratizzazione erano diverse a seconda dei differenti contesti5.
Libertà e uguaglianza nel contesto americano Alexis de Tocqueville giunse nel 1831 in America, in un ambiente socio-politico in cui la democrazia aveva già salde radici e si era sviluppata in tutte le sue forme fondamentali; per approfondire la cono4 Cfr. A. de Tocqueville “Introduzione”, cit., p. 18. È significativo inoltre notare che, ad ulteriore conferma di queste sue opinioni, Tocqueville parla di “una specie di terrore religioso” scaturito nella sua anima di fronte al montare inarrestabile della democrazia. Ivi, p. 19. 5 Va ricordato che Tocqueville era sensibile alla differenze tra le diverse società e il metodo comparativo che utilizzava per studiarle lo invitava proprio a individuare similitudini e differenze. «Mi sembra fuori dubbio che presto o tardi arriveremo anche noi, come gli Americani, all’uguaglianza quasi totale delle condizioni: ma con questo non affermo affatto che anche noi dovremo un giorno derivare necessariamente, da un simile assetto sociale, le conseguenze politiche che ne hanno tratto gli Americani»; ivi, p. 26. Nell’altra sua fondamentale opera edita nel 1856, L’Ancien Régime et la Révolution, si interrogò a lungo sul perché la Francia, durante il suo procedere verso istituti democratici, faticasse tanto a mantenere un regime politico di libertà. Notava infatti come la Rivoluzione francese, il cui interesse era l’affermazione dei principi di uguaglianza, libertà e fratellanza, di fatto era sfociata in un regime di terrore.
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scenza delle istituzioni democratiche di quel paese, svolse la sua analisi con modalità sincroniche e diacroniche, riservando particolare interesse alle premesse storiche della nascita degli Stati Uniti e alle più generali condizioni dello sviluppo della società che di quelle istituzioni democratiche costituiva il fondamento. Nella società americana cercò – e trovò – la conferma di una sua intuizione: da molti secoli era in atto in occidente un processo di crescita dell’uguaglianza che avrebbe portato all’abolizione di qualsivoglia forma di differenza e di privilegio in ogni ambito della vita quotidiana. «Se, partendo dall’XI secolo, esaminate gli avvenimenti che si svolgono in Francia di cinquanta in cinquant’anni, dovrete constatare che, alla fine di ognuno di questi periodi, si è operata una duplice rivoluzione nelle condizioni sociali. Il nobile sarà indietreggiato nella scala sociale, il plebeo vi sarà avanzato; l’uno scende, l’altro sale. Ogni mezzo secolo li avvicina e ben presto si troveranno fianco a fianco. Questa non è una caratteristica della sola Francia. Infatti, da qualsiasi parte si guardi, si vede sempre la stessa rivoluzione che continua in tutto il mondo cristiano»6. Nei due volumi intitolati De la démocratie en Amerique racconta che durante il soggiorno negli Stati Uniti era stato fortemente colpito non esclusivamente dall’uguaglianza delle condizioni, ma anche dall’influenza che dette condizioni egualitarie avevano sulle istituzioni, sull’intero assetto e sulle modalità di sviluppo della società, sulle sue usanze e, infine, sulla psicologia e sugli habitus mentali di governati e governanti. Nelle riflessioni che dedicava alla società americana, l’idea di democrazia combaciava con quella di uguaglianza nei diritti7, mentre questa uguaglianza diventava, a sua volta, uguaglianza sociale, espressa attraverso la tendenza all’uniformità nel modo e nel tenore di vita, e forgiava personalità isomorfe a siffatte condizioni. Attraverso un’indagine storica di lungo periodo e andando oltre la mera diagnosi di un presente che registrava attentamente, Tocqueville mise magistralmente in luce come strutture politiche, strutture sociali, economia e psicologia individuale fossero strettamente interconnesse e si trasformassero contemporaneamente attraverso complessi mecca6
Cfr. A. de Tocqueville, “Introduzione”, cit., p. 18. Con il termine uguaglianza – che Tocqueville usa spesso in modo intercambiabile con quello di democrazia – intendeva indicare: estensione dei diritti politici dai pochi ai molti; fine delle differenze legali di status, di rango e dei titoli nobiliari con gli annessi privilegi. 7
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nismi di feedback, rendendo il sistema sociale e l’assetto istituzionale piuttosto stabili. Individuò le ragioni della particolare configurazione democratica degli Stati Uniti nelle premesse che stavano alla base dello sviluppo del sistema politico americano, facilitato in questo suo procedere dal fatto che «l’America è il solo paese in cui si è potuto assistere allo svolgimento naturale e pacifico di una società e dove sia stato possibile precisare l’influenza esercitata dal ‘punto di partenza’ sull’avvenire di uno Stato»8. Era infatti profondamente convinto che le condizioni che accompagnarono i primi colonizzatori fossero state particolarmente idonee alla formazione e alla stabilizzazione di un sistema socio-politico basato sull’uguaglianza; in particolar modo è «nelle colonie inglesi del Nord, più conosciute col nome di Stati della Nuova Inghilterra, che si sono concretate le due o tre idee principali che oggi formano le basi della teoria sociale degli Stati Uniti. I principi politici della Nuova Inghilterra si sono dapprima diffusi negli Stati vicini; in seguito hanno conquistato, uno dopo l’altro, i più lontani, e hanno finito […] per compenetrare l’intera Confederazione»9. Gli emigranti che si stabilirono nella Nuova Inghilterra si distinsero per la cultura, per la moralità e per l’amore dell’ordine10; costituirono fin dall’inizio una società senza significative differenze in termini di prestigio e di ricchezza tra i membri. Tocqueville sottolineò un fattore ideologico fondamentale; questi ‘padri pellegrini’ – come si erano auto-denominati – intendevano far trionfare un’idea: formatisi sulla base delle dottrine protestanti, e in particolare del puritanesimo, le interpretarono anche come una forma di dottrina politica che favorì l’instaurarsi di una società omogenea nella quale tutti erano ugualmente soggetti alla legge e ai principi democratici11. Da questa spinta egualitaria iniziale, gli americani svilupparono una vera e propria passione per l’uguaglianza – superiore persino a quella per la libertà – che costituì da un punto di vista politico e sociale la base dell’ideologia americana: negli Stati Uniti 8
Cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 44. Ivi, p. 48. 10 Queste stesse osservazioni sulle qualità morali dei gruppi protestanti, raccolte durante un viaggio negli Stati Uniti, spinsero Max Weber a formulare la sua nota tesi sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. 11 Sulle spinte all’egualitarismo tipico di molti gruppi settari cfr. M.L. Maniscalco, Spirito di setta e società, Milano, Franco Angeli, 1992. 9
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l’uguaglianza si configurava come progetto, come ideale e come sistema. Scriveva: «La prima e la più viva passione che l’uguaglianza delle condizioni fa nascere […] è l’amore di questa stessa uguaglianza»12. I risultati di questo processo furono rilevanti; Tocqueville notava che in America tutti erano uguali di fronte alle opportunità offerte dalla società come mai era accaduto nella storia prima di lì e di allora. Questo aveva prodotto significative caratteristiche dell’auto-immagine degli americani: ad un’alta valutazione delle proprie possibilità si accompagnavano modalità diverse nella gestione di sé e delle nuove autonomie che, a loro volta, si traducevano in nuove forme di relazionalità. L’abitudine a fare affidamento solo sui propri mezzi si era trasformata in una serena fiducia nelle proprie capacità di giudizio che, a sua volta, generava un atteggiamento disincantato nei confronti di ogni principio gerarchico. Il «metodo filosofico» americano consisteva nello «sfuggire allo spirito di sistema, al giogo delle abitudini, alle regole familiari, alle opinioni di classe e, fino a un certo punto, ai pregiudizi nazionali; non prendere la tradizione se non come informazione […] cercare attraverso se stessi, e in se stessi soltanto, la ragione delle cose»13. Questo ‘metodo’ era poco incline a sostenere passioni collettive totalizzanti quale per l’appunto è il nazionalismo. Il passo successivo del ragionamento esplicativo di Tocqueville si basava sull’idea che l’uguaglianza e la sua più completa realizzazione non potessero essere conseguite al di fuori di un contesto di assoluta libertà. Introdotta di fatto dai primi coloni, anche la libertà, come l’uguaglianza, si era trasformata in dottrina politica e in ideologia. Il logico risultato di questa trasformazione consisteva nel fatto che cittadini orientati così 12
Cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 585. Più avanti però specifica: «Parlo qui degli Americani che abitano nei paesi in cui non esiste schiavitù. Sono i soli che possono offrire l’immagine completa di una società democratica»; ivi, p. 728, nota a. Non gli sfuggirono di certo due enormi contraddizioni allora presenti all’interno del sistema dell’uguaglianza negli Stati Uniti: la condizione dei nativi americani e, negli Stati del sud, quella degli schiavi di origine africana. Sui conflitti che prevedeva ne sarebbero scaturiti ha scritto pagine particolarmente significative. Tocqueville era molto sensibile al problema della schiavitù; durante il periodo in cui fu deputato si fece relatore della proposta di legge per l’abolizione della schiavitù nelle colonie. 13 Ivi, p. 491. Come sempre Tocqueville cerca di tratteggiare luci ed ombre della nuova realtà; a questo proposito non manca di notare che l’atteggiamento di autoreferenzialità distrugge ogni possibilità di credere e di affidarsi a qualsivoglia autorità. Ognuno si rinchiude in se stesso e, pretendendo di giudicare il mondo senza mediazione alcuna, perde il piacere di credere ad un altro sulla parola.
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profondamente alla libertà e all’uguaglianza potevano accettare leggi e governanti solo se convinti dell’equità di entrambi. Notava Tocqueville che in siffatto contesto maturò quel rapporto particolare tra individui e istituzioni politiche che caratterizzava la società americana; laddove gli europei vedevano la forza, gli americani vedevano il diritto. A qualsiasi ambito si riferisse l’obbedienza, essa risultava sempre imputata alle leggi, mai al potere di un individuo. Il cittadino americano tratteggiato da Tocqueville era ben lontano dalla soggezione e dalla deferenza che caratterizzavano il suddito della società militare e del regime teologico rispettivamente tratteggiati da Spencer e da Comte, ma anche dall’esperienza della cittadinanza francese. Il cittadino americano poteva vivere solo in un sistema all’interno del quale veniva garantita la possibilità di perseguire in piena libertà obiettivi determinati in maniera autonoma. In una società di uguali una delle prime classi sociali a venire meno è l’aristocrazia e la realtà sociale che si crea intorno ad essa; le conseguenze di questo processo erano chiare a Tocqueville: la società democratica aveva meno ideali di grandezza, non coltivava virtù eroiche, ma era orientata alle necessità della vita materiale14. Negli Stati Uniti si era affermata una società in cui alcuni valori tipici dell’aristocrazia, come la ricerca della gloria, la fierezza dei sentimenti e l’attrazione per le grandi imprese eroiche, rimanevano sconosciuti alla massa della popolazione, o venivano, come nel caso dell’onore, ripensati e riadattati ad esigenze meno nobili e più pratiche.
Dottrina del benessere e trasformazione del senso dell’onore In un contesto, come quello americano, in cui uguaglianza e libertà conferivano valore soprattutto al presente si sviluppò una ricerca del benessere come passione che si auto-alimentava e si sostituiva anche alla passione politica. «In America» scriveva «la passione del benessere 14 Pur se benevolo osservatore, anche se senza troppi entusiasmi, della democrazia, Tocqueville non nascose la sua prudente opinione: se il raggiungimento dell’uguaglianza costituiva un’enorme conquista, la scomparsa dell’aristocrazia era stata una grossa perdita. Per i valori che aveva conservato e tramandato, l’aristocrazia rappresentava la ‘struttura’ morale della società. Nel suo studio L’Ancien Régime et la Révolution si rammaricava del fatto che invece di piegare l’aristocrazia alle leggi si fosse preferito sradicarla e abbatterla.
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materiale […] è generale; se non tutti la provano allo stesso modo, tutti però la sentono». Infatti «l’amore del benessere è diventato la tendenza nazionale e dominante; la grande corrente delle passioni umane spinge da quella parte, trascina tutto nel suo corso»15. Tocqueville è riuscito a delineare efficacemente il clima creato da una situazione sociale estremamente fluida: scomparsa delle classi, abolizione dei privilegi, frammentazione della proprietà fondiaria ad opera della legge sulla successione16, forte mobilità sociale, moltiplicazione degli ambiti e delle opportunità di potere, aumento generale della ricchezza, diffusione della conoscenza. Con una sempre maggiore attenzione da parte dell’opinione pubblica al problema dei diritti e delle opportunità, il benessere veniva tematizzato sia dai ricchi sia dai poveri, quale motivo di preoccupazione per coloro che temevano di perderlo e quale oggetto di desiderio per chi cercava di raggiungerlo. «Quando […] i ceti sono mescolati e i privilegi aboliti, quando i patrimoni si suddividono e il sapere e la libertà si espandono, la fantasia del povero allora si accende per la voglia di ottenere il benessere, l’animo del ricco per la paura di perderlo»17. Queste ‘passioni sociali’ non sempre però possono contare su condizioni favorevoli come quelle che negli Stati Uniti d’America avevano facilitato l’instaurarsi di una società libera; in Europa, notava con disappunto, queste stesse passioni si politicizzavano e portavano ad una catena di rivoluzioni, mentre, per una sorta di forza di inerzia, le tensioni tipiche delle transizioni sfociavano nel dispotismo. Si deve a Tocqueville l’approfondimento di un ulteriore importante aspetto della mentalità americana: il benessere non solo veniva inseguito freneticamente, ma si cercavano altresì strade sempre nuove e migliori per raggiungerlo. L’attivismo eccitato che caratterizzava il popolo americano era dovuto a questa continua ricerca di vie e di possibilità migliori di guadagno. L’amore per il denaro costituiva lo scopo e il motore di questa ricerca; esso si era trasformato in un fine in sé,
15
Cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., pp. 619 e 621. Fondamentale in proposito riteneva la legge che aveva abolito il diritto di primogenitura, legge che, consentendo il passaggio della proprietà terriera indivisa, aveva rappresentato il prerequisito per l’esistenza dell’aristocrazia. La suddivisione della proprietà terriera tra tutti gli eredi aveva invece comportato una ridistribuzione della ricchezza ed una diffusa mobilità. 17 A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 620. 16
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non era più un mezzo18; la passione per il denaro era l’ideologia che modellava la vita politica e sociale dell’intero paese: l’interesse per il benessere collettivo era legato alla speranza di trarne utili individuali. In un contesto in cui l’ideologia egualitaria e l’uguaglianza delle condizioni avevano eliminato ogni possibilità di distinzione, la quantità di denaro posseduto era l’unica modalità di creazione delle differenze, mentre il ricorso alla leva finanziaria assicurava fedeltà ed appoggio in un sistema sociale caratterizzato dalla contrattualizzazione dei rapporti. Nella società americana studiata da Tocqueville l’obbedienza non era dovuta né sempre da parte delle stesse persone, né sempre nei confronti delle stesse persone; veniva quindi a mancare il tempo per la creazione di profondi legami di sudditanza, fondati sulla durata di posizioni gerarchiche; infatti quando il rapporto tra chi comanda e chi obbedisce è basato sul contratto, si perde la dimensione morale dell’obbedienza che non è più né santa né giusta. La dottrina del benessere influenzava le decisioni politiche come i valori e i principi morali; le doti maggiormente apprezzate erano allora il buon senso, il pragmatismo, l’intraprendenza. Il senso stesso dell’onore si era trasformato; da aristocratico europeo, Tocqueville notava che nelle società democratiche le regole dell’onore si intravedevano a malapena, dal momento che era venuto meno il prerequisito essenziale per la loro esistenza, la presenza della disuguaglianza e la strutturazione di un corpo, di una classe, che potesse definire nel tempo cosa rientrasse o meno nell’ambito dell’onore. Dell’onore Tocqueville forniva essenzialmente due interpretazioni: a) onore significa stima, considerazione e gloria tributate dai propri simili; b) onore indica un complesso di regole – che traggono origine dai costumi e dagli interessi della società – seguendo le quali si conseguono stima, considerazione e gloria. Aggiungeva inoltre che quando l’appartenenza ad una collettività è soggetta al pre-requisito della reputazione, l’osservanza delle regole d’onore costituisce le condizioni di base dell’agire; il disonore impedisce ogni possibilità di azione e di relazione finché l’onta non viene ‘lavata’. L’onore deve il suo carattere vincolante al suo essere espressione di un complesso di valori di gruppo che regolamentano e orientano azioni, atteggiamenti e opinioni. 18
Le osservazioni di Tocqueville sulla trasformazione del denaro da mezzo in fine anticipano l’analisi di Georg Simmel.
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Sulla base di queste premesse non sfuggivano certo a Tocqueville le differenze tra la caratteristica concezione americana dell’onore e quella a lui più familiare delle società europee. Nel particolare significato che le molteplici articolazioni dell’onore assumevano presso gli americani, un mix tra segmenti di onore ‘esotico’ (europeo) e nuove concezioni autoctone, registrò innanzitutto un distacco dall’etica militarista. Sia nell’antica Roma, che utilizzò lo strumento bellico come mezzo di dominio imperiale, sia presso l’aristocrazia feudale, che alle armi doveva la propria origine e sopravvivenza, si era sviluppato un concetto di onore correlato al coraggio, al valore militare e alla fedeltà al signore. Nel caso della società americana, basata non sulla guerra ma sulle attività commerciali, i valori che fondavano il concetto di onore erano quelli correlati allo spirito di iniziativa, all’audacia imprenditoriale; il coraggio non riguardava più il rischio di perdere la vita in battaglia, ma di ‘giocarsi’ il proprio patrimonio in attività produttive che potevano risultare infruttuose.
Democrazia, guerra e professione militare Secondo Tocqueville la società democratica americana era concentrata esclusivamente sul benessere dei propri componenti che, anche se perennemente insoddisfatti19, erano inclini alla stabilità sociale interna e contrari alle guerre; era rilevante il numero dei cittadini che non vedeva cosa avrebbe mai potuto guadagnare da una rivoluzione e temeva invece quello che avrebbe potuto perdere a causa di essa. Allo stesso modo gli americani trovavano rischiosa la guerra, da un punto di vista economico, sia per i beni personali sia per quelli della collettività e, da un punto di vista politico, per la possibilità che le autonomie personali e locali subissero una limitazione. Durante la guerra il potere centrale fa sentire tutto il suo peso, ponendo fine, o per lo meno limitando significativamente, quel decentramento amministrativo sul quale la società americana fondava la sua libertà politica e grazie al quale ogni cittadino viveva la comunità e partecipava alla sua gestione. Da un punto di vista sociale, infine, la guerra comporta caos e distruzione dai quali gli 19 Tocqueville, come in seguito Pareto, aveva ben chiaro che una società tendenzial-
mente ugualitaria è attraversata da sentimenti di invidia e da forte litigiosità.
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americani non reputavano di poter ricavare alcunché di utile per le loro attività. La fiducia nella ragione individuale e il carattere pratico di popolazioni abituate a rischiare le proprie fortune rendevano i cittadini della democratica America immuni nei confronti delle suggestioni e dei miti che sono necessari per la mobilitazione bellica; gli ideali di libertà e di uguaglianza, a loro volta, promuovendo i valori della dignità, dell’autonomia e i diritti della persona, li rendevano meno disponibili alla guerra. Secondo Tocqueville in queste società difficilmente il carisma di un capo può trascinare in imprese rischiose; le democrazie sono soggette molto più di altri regimi agli umori dei comuni cittadini e sviluppano una sensibilità maggiore per le problematiche interne. Vedeva nella politica isolazionista proclamata da George Washington il principio ispiratore della politica estera americana; inoltre a suo parere, la stessa struttura di governo, per la sua mancanza di centralizzazione, era inadatta a sostenere una guerra. Come argomentava anche Spencer, una guerra impone grandi sacrifici ai cittadini e per questo necessita di un governo forte in grado di imporre direttive anche dolorose; al contrario nell’America dei primi decenni dal secolo Diciannovesimo era forte il decentramento amministrativo e la stessa centralizzazione politica era parziale20. A testimonianza di questa situazione Tocqueville riportava l’esempio di un evento accaduto durante la guerra del 1812: il presidente James Madison, avendo ordinato alle milizie del Nord di muoversi verso le frontiere, ricevette un secco diniego da parte del Connecticut e del Massachusetts che, vedendo i loro interessi danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare i contingenti. Il governo federale si trovò costretto a cercare altrove le truppe. Sulla base delle sue ricerche in America Tocqueville giunse alla convinzione che in un paese democratico gli unici ad essere favorevoli alla guerra sono i militari di professione, che vedono in essa una possibilità di ascesa sociale e un modo per acquistare quel prestigio e quella considerazione dei quali sono carenti in un periodo di pace. Nelle aristocrazie la carriera militare rappresentava un dovere il cui assolvimento non comportava alcun vantaggio né in termini di benefici economici, né in quelli di considerazione e di potere, essendo questi ultimi già impliciti 20 Non a caso durante la guerra di secessione avvenne un processo di centralizzazio-
ne dei poteri nelle mani di Abraham Lincoln.
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nello status di aristocratico; inoltre il grado raggiungibile nella gerarchia militare era strettamente vincolato alla posizione nella vita civile. Per il cittadino di una società democratica, invece, la carriera militare può costituire un’occasione di mobilità sociale dal momento che la possibilità di raggiungere i vertici dell’organizzazione militare è indipendente dalla posizione nella vita civile. Non solo: la posizione nella vita civile beneficia a sua volta dal grado raggiunto nella gerarchia militare. Ne discende il paradosso politico di una più grande irrequietezza degli eserciti di paesi democratici che pure sono espressione di società inclini alla pace; questa irrequietezza si manifesta in una maggior propensione e interesse nei confronti di una guerra e sul piano interno in un più elevato rischio di ‘rivoluzioni militari’21. Tocqueville denunciava il pericolo rappresentato da forze armate composte per lo più da cittadini provenienti da ceti bassi e marginali, dal momento che la scarsa considerazione della professione rendeva questa carriera poco appetibile per le persone più dotate. Secondo la sua opinione, i primi avevano poco da perdere in una guerra e molto da guadagnare con essa; considerava inoltre questo pericolo tanto maggiore quanto più, al contrario, era pacifica la popolazione e diffuso il senso di uguaglianza. La stessa inquieta vivacità che portava i civili alla continua ricerca di arricchimento conduceva i militari a cercare l’onore e la gratificazione sui campi di battaglia a cui seguivano considerazione e benefici sociali. Segnalava l’effetto paradossale dell’uguaglianza in cui i cittadini «ogni giorno provano il desiderio e scoprono la possibilità di cambiare la loro condizione e di accrescere il loro benessere; ciò li dispone ad amare la pace, la quale fa prosperare l’industria e permette a ognuno di portare tranquillamente a buon fine le sue piccole imprese; […] questa stessa uguaglianza, aumentando il valore degli onori militari agli occhi di quelli che seguono la carriera delle armi e rendendo questi onori accessibili a tutti, fa sognare ai soldati i campi di battaglia. Da ambo le parti, l’inquietudine degli animi è la stessa, l’amore dei 21
«Non bisogna quindi stupirsi se gli eserciti democratici sono spesso irrequieti, se protestano, se si mostrano insoddisfatti della loro sorte, sebbene il trattamento sia generalmente meno duro e la disciplina meno rigida che in qualunque altro esercito. Il soldato si sente in una posizione di inferiorità e il suo orgoglio ferito finisce per fargli provare l’amore della guerra, che lo rende necessario come soldato, o l’amore delle rivoluzioni, durante le quali spera di conquistare, armi in pugno, l’influenza politica e i riguardi personali che gli vengono negati». Cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 760.
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godimenti altrettanto insaziabile, l’ambizione uguale; soltanto il mezzo per soddisfarla è diverso»22. Di qui scaturiva una tensione strutturale interna alla società democratica americana, da cui Tocqueville formulò un’ipotesi generale secondo la quale «se i popoli democratici sono per natura portati verso la pace dai loro interessi e dal loro temperamento, sono però continuamente attirati verso la guerra e verso le rivoluzioni dai loro eserciti»23. Se è vero che le società democratiche sono poco portate alla guerra non significa però che non la facciano mai; quello che Tocqueville riconosceva alle società democratiche era la capacità di dispiegare di fronte all’avversità un’energia maggiore rispetto ai popoli meno liberi e di riuscire a scegliere le persone migliori per il governo. Quando un paese democratico inizia una guerra rischia più degli altri di essere sconfitto, ma il prolungamento di questa aumenta invece le possibilità di vittoria. La distruzione delle industrie, e con esse della possibilità di guadagno, induce i cittadini a ricercare altre opportunità di arricchimento nella guerra stessa. Le attività militari diventano così oggetto di attenzione da parte di persone che in tempo di pace preferiscono dedicarsi ad attività più redditizie. Nelle forze armate arrivano individui dotati di ambizione e intraprendenza che portano nella vita militare la stessa dinamicità e spregiudicatezza che impiegano nel mondo degli affari. A questo si aggiunge che, in caso di protrarsi della guerra, la società democratica mette in campo tutto il potenziale tecnologico e scientifico che ha potuto sviluppare in tempo di pace. Come sostiene Aron, Tocqueville ci offre una descrizione molto efficace “della guerra totale delle società democratiche del XX secolo”24 affermando: «Quando la guerra, prolungandosi, ha finalmente strappato tutti i cittadini alle loro pacifiche occupazioni e fatti fallire i loro piccoli affari, succede che quelle medesime passioni, che facevano loro attribuire tanto valore alla pace, si volgono verso le armi. La guerra, dopo aver distrutto tutte le industrie, diventa essa stessa la grande e unica industria, e appunto verso di essa 22
Ivi, p. 759. Tocqueville non era contrario in assoluto alla guerra («non voglio parlare male della guerra; la guerra apre quasi sempre la mente di un popolo e innalza il suo animo»), anzi le riconosceva la funzione di ‘equilibratore’ di tensioni e squilibri interni tipici delle società democratiche. Ma riteneva passeggeri gli effetti benefici prodotti per cui la guerra «non sarebbe un rimedio che per un popolo che volesse sempre la gloria»; ivi, p. 761. 23 Ibidem. 24 Cfr. R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 248.
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convergono da ogni parte le ardenti e ambiziose aspirazioni suscitate dall’uguaglianza. Ecco perché quelle stesse nazioni democratiche, che si fa tanta fatica a trascinare sui campi di battaglia, compiono poi a volte cose straordinarie, quando si è finalmente riusciti a mettere loro le armi in pugno»25. Le sue riflessioni fanno quindi intravedere la possibilità di una fruttuosa sinergia tra società democratica e mondo militare in quanto «esiste […] tra i costumi militari e i costumi democratici, un rapporto nascosto che la guerra mette in luce. Gli uomini delle democrazie sentono per natura il desiderio appassionato di ottenere in fretta i beni che agognano e di goderne facilmente. […] Con questo spirito si mettono nel commercio e nell’industria; e questo medesimo spirito, trasferito sui campi di battaglia, li porta ad esporre volentieri la loro vita per assicurarsi in un attimo il premio della vittoria. […] Mentre dunque gli interessi e le inclinazioni naturali allontanano i cittadini di una democrazia dalla guerra, le abitudini acquisite dal loro spirito li preparano a farla bene; diventano facilmente buoni soldati»26. La posizione di Tocqueville è dunque sostanzialmente diversa rispetto a quella di Comte e Spencer; unico dei tre studiosi dell’Ottocento qui discussi, sia pure in maniera forse non del tutto consapevole e probabilmente facilitato dal suo particolare ‘osservatorio’, è riuscito a mettere in luce come l’antagonismo società moderna/guerra possa trovare facili modalità di composizioni che contraddicono l’aut-aut prefigurato dall’ottimismo pacifista ottocentesco: l’industria può diventare militare e impregnare la guerra del suo spirito, mentre una nuova élite tecnocratica può sostituirsi all’aristocrazia nella direzione dei conflitti armati27.
25
Cfr. A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., pp. 770-771. Ivi, pp. 771-772. 27 Oltre al già ricordato ‘complesso militare industriale’, un esempio più recente dello sviluppo del connubio industria/guerra è la dottrina della cosiddetta Revolution in Military Affaire, denominazione con la quale negli Usa si è sintetizzato a partire dagli anni Novanta del secolo scorso un cambiamento dottrinale e organizzativo del modo di condurre la guerra. Con essa si mette un forte accento sugli aspetti tecnologici del conflitto; il guerriero cede il posto ad un tecnico che preme dei bottoni. Cfr. J. Arquilla, D. Ronfeldt (eds.), Networks and Netwars: the Future of Terror, Crime and Militancy, Santa Monica, RAND, 2001. 26
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PARTE SECONDA LA VERTIGINE NAZIONALISTICA E LA CATASTROFE DELLA GRANDE GUERRA
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Émile Durkheim*: ragione e resistenza
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Uno spirito pacifico, libero e antimilitarista Émile Durkheim, sociologo delle forme del consenso e dell’integrazione sociale, iniziò ad occuparsi in maniera approfondita e appassionata della guerra quando vi si trovò ineluttabilmente coinvolto sia come cittadino francese, sia a livello familiare (il figlio André, il marito della figlia Marie e cinque nipoti erano sotto le armi), sia come maestro (molti dei suoi allievi combatterono e trovarono la morte in battaglia), sia infine come studioso impegnato a sostenere lo sforzo bellico. Prima di allora aveva sfiorato solo marginalmente l’argomento nel volume De la division du travail social del 1893 e nel fondamentale studio Le suicide del 1897. Nel primo aveva criticato la concezione spen* Émile Durkheim (Épinal 1858 – Parigi 1917), uno dei padri della sociologia moderna, fu titolare nel 1887 del primo corso di sociologia nelle Università francesi, trasformato poi in cattedra nel 1896. Nato in Alsazia da una famiglia di rabbini, avviato al rabbinato vi rinunciò per una professione laica pur mantenendo un forte senso etico e del dovere e una profonda dedizione alla solidarietà della comunità. Si era formato nel solco tradizionale del positivismo; nutrito di studi filosofici nell’École Normale Supérieure di Parigi, dopo aver conseguito l’agrégation in filosofia ed essere stato nominato professore a Sens e a Saint-Quentin nel 1885 prese un anno sabbatico per studiare scienze sociali prima a Parigi, poi, con una borsa di studio governativa, in Germania con Wilhelm Wundt, padre della nascente psicologia clinica, e con altri. Questo soggiorno, durante il quale fece molte letture di autori tedeschi contemporanei, compreso il testo di Tönnies Gemeinschaft und Gesellschaft, fu per Durkheim molto importante. Nel 1896 fondò l’«Année sociologique», prima rivista dedicata alle scienze sociali, intorno alla quale sviluppò una vera e propria scuola. La carriera accademica lo vide studioso apprezzato e molto impegnato nelle vicende universitarie e nel 1913 la sua cattedra assunse il titolo di cattedra di sociologia della Sorbona. Dopo l’affare Dreyfus, Durkheim, attivo sostenitore del laicismo, rimase profondamente turbato e si preoccupò sempre più del problema religioso.
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ceriana delle funzioni della guerra, e delle sue necessità, come fattore alla base dell’emergere di un potere centralizzato lesivo dell’individualismo, sostenendo invece la costitutiva omogeneità de-individualizzata delle società più semplici nelle quali solo il progressivo manifestarsi di un potere dispotico ha rappresentato «il primo passo compiuto verso l’individualismo» dal momento che «i capi sono […] le prime personalità individuali che si sono svincolate dalla massa sociale»1. Nel secondo aveva dedicato alcune pagine all’istituzione militare, analizzandone gli aspetti principali e individuandone la caratteristica costitutiva nell’attitudine al sacrificio, cioè nella disponibilità ad eseguire, in ossequio alla disciplina, ordini anche rischiosi per la propria sopravvivenza, seppure non condivisi, né compresi. Durkheim sosteneva che l’istituzione militare fosse un ambito particolare in cui il suicidio altruistico, come suicidio suscitato da un ‘eccesso’ di integrazione, “si trova allo stato cronico”2. Aveva poi collegato questo ‘stato cronico’ ad una sorta di coscienza collettiva settoriale, che definì ‘spirito militare’, quale «insieme di stati d’animo, di abitudini acquisite o di predisposizioni naturali»3 che assicurano l’abnegazione intellettuale e l’attitudine alla dedizione per la comunità e che caratterizzano la personalità militare. Tale disponibilità all’annullamento di sé era ritenuta dal sociologo francese tipica di società pre-moderne, primitive e tradizionali, in cui la coscienza e le azioni individuali erano ancora pienamente immerse nella coscienza collettiva, e del tutto incompatibile con l’individualismo caratteristico delle moderne società differenziate. 1
Cfr. É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, tr. it., Milano, Comunità, 1971, p. 204. Freud era della stessa idea; nel 1921 nel suo Massenpsychologie und IchAnalyse definiva l’Urvater, il progenitore capo, come il primo uomo libero della storia. «I singoli componenti la massa erano soggetti a legami, allora come lo sono oggi, ma il padre dell’orda primigenia era libero. Anche nella solitudine i suoi atti intellettuali erano liberi e autonomi, la sua volontà non aveva bisogno di venir convalidata da quella degli altri. […] Agli inizi della storia umana egli fu il superuomo che Nietzsche attendeva soltanto dal futuro». Cfr S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, tr. it., Torino, Bollati Boringhieri, rist. 2012, pp. 72-73. 2 Cfr. É. Durkheim, Il suicidio. L’educazione morale, tr. it., Torino, Utet, 1969, p. 284. Durkheim aveva iniziato la sua analisi in proposito partendo dal dato sconcertante di tassi di suicidio elevati e nettamente superiori a quelli della popolazione civile riscontrabili tra i militari di tutti i paesi europei. Attraverso un metodo di esclusione progressiva di ipotesi interpretative giunse a ritenere questi suicidi dipendenti da un’integrazione molte forte. 3 Ivi, p. 277.
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Spirito pacifico, Durkheim aveva direttamente ereditato la visione di Spencer e di Comte per i quali la guerra era un residuo del passato non coerente con i caratteri e con le possibilità della nuova epoca e con la mentalità individualistica e critica diffusa nella popolazione; in una sede non scientifica, ma di impegno civile, nel 1899 definì la guerra un fenomeno «destinato a sussistere sempre, ma occupando un posto via via minore nella vita delle società»4. Laico, dreyfusardo difensore della Terza Repubblica5, amico di socialisti come Jean Jaurés, che aveva conosciuto ancor prima di entrare all’Università, non concepiva i conflitti né tra le classi, né tra gli Stati ed era sostenitore di quei mutamenti sociali che andassero a favore di tutti gli strati sociali. Odiava ogni forma di violenza per educazione e convinzione; fino a poco prima della deflagrazione della Grande Guerra era stato tra quanti avevano vigorosamente promosso le idee pacifiste, internazionaliste e antimilitariste. Criticava il fatto che la memoria degli sfortunati avvenimenti del 1870 e lo spirito di revanche avessero provocato in Francia una sorta di ‘culto superstizioso’ dell’istituzione militare per cui la professione militare aveva cessato di essere una professione come le altre per assumere caratteri di sacralità che l’avevano separata dal corpo sociale6. Come tutti o quasi, a conflitto iniziato Durkheim si allineò all’union sacrée, ma, nonostante il coinvolgimento e la militanza, rimase dell’idea che occorreva sbarazzarsi dell’incubo militarista, tornare cioè al più presto alla ricerca della pace per non rendere inutile il sacrificio di tante vite
4 Cfr. É. Durkheim, [risposta a] “Une enquête sur la guerre et le militarisme”, in «L’Humanité Nouvelle», mai 1899, p. 50. 5 Nel 1894 il capitano Alfred Dreyfus, ufficiale di stato maggiore di origine ebraica, fu accusato di spionaggio a favore della Germania e condannato alla deportazione a vita. Nonostante fossero emersi fondati elementi circa la sua innocenza, gli ambienti militaristi appoggiati dai nazionalisti di destra e dai clericali si opposero ad una revisione del processo. Come è noto il paese si divise, con lotte furiose. Alfred Dreyfus fu poi amnistiato e riabilitato nel 1906. Circa le posizioni politiche di quel periodo, Durkheim era sicuramente sensibile alle esigenze della Terza Repubblica di costruire un ordine stabile, ma senza cedere però, come era accaduto al pensiero politico e sociale dei positivisti, a tentazioni di ricostruzione sociale secondo ideali pre-rivoluzionari e senza rinnegare la tradizione borghese repubblicana che poteva stimolare e giustificare un allargamento della partecipazione popolare – o almeno piccolo borghese – a quell’ordine. 6 Cfr. É. Durkheim, [risposta a] “Une enquête sur la guerre et le militarisme”, cit.
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umane7. Né smise mai di domandarsi come fosse potuto accadere che l’Europa – civile e civilizzata – avesse potuto far crescere dentro di sé una così sconfinata pulsione di distruzione e come lo spazio pubblico europeo avesse potuto trasformarsi così radicalmente e in così breve tempo8.
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La scelta patriottica Francese nel profondo, fin dall’inizio della guerra testimoniò la lealtà e l’attaccamento al suo paese con ogni mezzo e contro ogni accusa; questa sentita cittadinanza era però sfidata dal cognome tedesco, dalla famiglia ebrea, dalla sua precedente posizione pacifista e antimilitarista, elementi questi utilizzati in più modi e in diverse occasioni dai molti avversari9. Durkheim fu osteggiato e criticato da più parti, ma non per questo si lasciò influenzare dalle passioni e dalle distorsioni che le paure di guerra possono generare anche negli spiriti migliori; cercò di comportarsi sempre con equilibrio, secondo coscienza e con onestà mentale. Un esempio fu il ruolo che giocò nell’ambito di una Commissione istituita il 26 dicembre 1915 per decreto ministeriale. La Commissione era incaricata di esaminare la situazione dei residenti stranieri, quasi tutti russi e prevalentemente ebrei, del Distretto della Senna. Questa comunità veniva accusata di svariati comportamenti pe7 «È chiaro che la guerra sarà un inutile stillicidio di vite umane se noi non ci saremo sbarazzati dell’incubo militarista»; cfr. lettera di Émile Durkheim a Xavier Lèon del 2 ottobre 1915, cit. da M.A. Toscano, Trittico sulla guerra, Bari, Laterza, 1995, p. 15 (traduzione mia). 8 Negli stessi anni Freud tentò da professionista della psiche di comprendere come mai la civilissima Europa fosse precipitata in un tale baratro. Ne concluse che la civiltà costruisce solo un sottile velo di costrizione morale sulle passioni degli individui e, soprattutto, dei popoli: «Speravamo che la grande comunicazione di interessi realizzata dai traffici e dalla produzione, segnasse l’inizio di una tale costrizione, ma sembra che i popoli obbediscano per il momento più alle loro passioni che ai loro interessi»; cfr. S. Freud, A. Einstein, Riflessioni a due sulle sorti del mondo, tr. it., Torino, BollatiBoringhieri, 1989, p. 45. 9 In particolar modo i nazionalisti lo accusavano di essere tedesco, di insegnare una ‘disciplina straniera’ e di far parte di una ‘banda’ di intellettuali arroganti che consideravano i generali degli ‘idioti’ (cfr. G. Hawthorn, Enlighten and Despair. A History of Sociology, Cambridge, Cambridge University Press, 1976, p. 166). Inoltre la destra antisemita non gli perdonava di essere ebreo.
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ricolosi per la sicurezza pubblica; a questo si era aggiunto l’addebito ai suoi membri di non voler combattere né sotto la bandiera russa, né con la legione straniera francese. Durkheim chiese garanzie di autonomia per la sua partecipazione alla Commissione, sostenendo che, prima di procedere a qualsivoglia operazione di polizia contro la comunità degli immigrati, fosse necessario procedere con un’opportuna inchiesta per valutare la situazione sotto diversi aspetti. Ottenute questa garanzie, la Commissione lavorò alacremente (furono interrogati più di tremila rifugiati) e concluse che non esistevano condizioni obiettive per procedere con provvedimenti restrittivi di qualsivoglia natura10. All’unanimità sottolineò anche l’opportunità politica di non assumere provvedimenti restrittivi che tra l’altro potevano risultare inadeguati alla sensibilità internazionale per la questione delle minoranze ebraiche11. Scoppiato il conflitto, profuse un forte impegno in favore della difesa della Francia e a sostegno del morale dei francesi e degli alleati. Anche in questa contingenza, Durkheim non rinunciò ad essere uno scienziato: manifestò e sviluppò quello che riteneva un dovere patriottico come tensione intellettuale alla spiegazione delle cause della guerra, all’analisi delle caratteristiche e potenzialità dei diversi attori e alla valutazione della sua possibile evoluzione. Attraverso ricerche e analisi intendeva offrire un contributo alla creazione di un clima di unità e di fermezza in Francia. In quel duro confronto tra Zivilisation e Kultur che infiammò l’Europa, s’impegnò a contribuire alla difesa del proprio paese e della relativa cultura – che a suo vedere era anche la difesa della civiltà in generale – nella qualità di uomo di scienza, sostenendo la battaglia del popolo francese con studi e considerazioni ‘oggettive’, proprio perché
10
N. Elkarati, “Émile Durkheim défenseur des réfugiés russes en France”, in «Genèses», 2, 1990. 11 L’anno seguente (14 luglio 1916), richiesto di un parere in argomento dal governo inglese si espresse ugualmente, sottolineando come fosse necessario che gli alleati agissero con saggezza e prudenza nei confronti dei rifugiati – di cui tra l’altro era pressoché impossibile definire lo status, distinguendo per esempio tra rifugiati politici e religiosi – per evitare speculazioni internazionali. (Cfr. “Durkheim on Russian Refugees in England 1916”, a cura di D. Feldmann, in Études Durkheimiennes, automne, 1993). È interessante notare come Durkheim fosse pienamente consapevole dell’importanza di tener conto dei fattori di immagine e comunicativi per attirare le simpatie internazionali e in particolar modo degli Stati Uniti data l’attenzione della società americana per tutto quello che concerneva la questione ebraica.
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era convinto che la lotta di civiltà non poteva non esplicarsi nell’impiego dell’intelligenza12. Convinto da sempre che una società può conservare struttura e coerenza solo a condizione che i membri si riconoscano in credenze comuni, fortemente avvertite, cercò di assicurare ai cittadini del suo paese fede e motivazioni adeguate per far fronte alla sfida mortale e per respingere l’attacco nemico. Aveva compreso che la guerra sarebbe stata lunga ed aspra, che avrebbe richiesto il supporto di tutta la popolazione e che la ‘tenuta’ della resistenza collettiva sarebbe stata determinante per l’esito del conflitto. Quel consenso e quella solidarietà che reputava fondamentali al mantenimento di ogni ordine sociale erano tanto più rilevanti dal momento che la collettività era sottoposta ad una minaccia gravissima e il rischio dell’anomia interna, combinandosi con gli attacchi esterni, poteva contribuire ad annientarla. Per questa ragione Durkheim si affidò il compito di sviluppare tutti gli strumenti concettuali in grado di sostenere il morale dei francesi e degli alleati e di rinsaldare la necessaria coesione interna nel proprio paese. Ricorrendo alle categorie e agli strumenti metodologici sviluppati nei suoi studi di sociologia, Durkheim riteneva ‘patologici’13 l’ostentata volontà di potenza e quel gusto del sacrificio (che si mescolava con una passione distruttiva) manifestati dal popolo e dai governanti tedeschi; considerava la civiltà espressione della pace secondo natura, mentre non erano ‘normali’ l’assalto della barbarie e quella sconfinata volontà di devastazione che caratterizzava l’agire del nemico. Ma definire 12
Secondo Lübbe un tratto comune della filosofia europea alla vigilia della prima Guerra Mondiale era “un dotto sciovinismo tanto in Francia come in Germania”; inoltre gli intellettuali inglesi come quelli tedeschi erano convinti che il significato della guerra andasse oltre la dimensione nazionale per essere intesa come salvaguardia del mondo. Cfr. H. Lübbe, Politische Philosophie in Deutschland, München, DTV, 1974, p. 171. 13 Durkheim nel 1895, nel terzo capitolo del suo volume Les règles de la méthode sociologique, introdusse la distinzione tra normale e patologico; questa distinzione – che rimase uno dei capisaldi del suo pensiero – fu strettamente dipendente dalle sue intenzioni riformatrici. La sua inclinazione scientista non gli impedì di affermare che il lavoro sociologico non avrebbe valore se non permettesse di migliorare la società. La distinzione tra normale e patologico è per l’appunto lo strumento di intermediazione tra l’analisi scientifica, la prescrizione morale e l’azione di governo. Se un fenomeno è normale non c’è motivo per volerlo eliminare anche se moralmente ripugnante (è il caso di certi tassi di criminalità); se invece è patologico le argomentazioni scientifiche potranno sostenere i progetti di riforma. Cfr. É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, tr. it., Milano, Comunità, 1963.
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contro natura, e quindi patologica, la situazione bellica non esonerava, secondo Durkheim, dal porsi alcune fondamentali domande: come era stato possibile far crescere nel cuore dell’Europa una volontà di dominio così delirante e una passione distruttiva così violenta? A chi attribuire le responsabilità della guerra? Per quali motivi la guerra era stata voluta? Come resistere al vento devastante della barbarie e vincere? Per rispondere a queste inquietanti domande, Durkheim iniziò un percorso di analisi e riflessione che costituisce il suo contributo originale allo studio del fenomeno bellico14. Questo contributo, sia pure eccentrico rispetto ai principali interessi scientifici di Durkheim, trovò nel suo impianto scientifico e metodologico un radicamento e un orientamento che offrono ai suoi scritti sulla guerra significato e spessore che vanno oltre la contingenza.
Dottrina dello Stato e concezione della guerra in Germania Il primo passo di Durkheim nelle ricerche sul conflitto in corso fu un’analisi dei documenti diplomatici per ricomporre minuziosamente i diversi, talvolta timidi, talvolta convulsi, tentativi della diplomazia internazionale di arrestare la possibilità di un’escalation conflittuale quale conseguenza dell’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914; lo scopo dello studio era quello di comprendere dove e perché si era verificata una desistenza che aveva fatto fallire il processo di negoziazione multilaterale che comunque era stato avviato. Si trattava quindi di individuare chi aveva realmente voluto la guerra, comportandosi in modo tale da portare al fallimento ogni tentativo di scongiurarla. Di fronte a questo terribile interrogativo, l’opzione durkheimiana è netta: era innegabile l’esistenza di molteplici cause profonde e pre14
Durkheim, anche in collaborazione con altri autori, elaborò diversi opuscoli, tradotti in sette lingue e fatti rapidamente circolare, che sintetizzavano il suo pensiero e quelli del gruppo in argomento. Il primo opuscolo, dal titolo Qui a voulu la guerre? Les origines de la guerre d’après les documents diplomatiques, dedicato per l’appunto ad indagare le responsabilità dello scoppio del conflitto, fu pubblicato già nei primi mesi del 1915 e tradotto in sette lingue, compreso l’italiano (É. Durkheim, E. Denis, Qui a voulu la guerre? Les origines de la guerre d’après les documents diplomatiques, Paris, A. Colin, 1915). Nel 1916 gli opuscoli furono raccolti in un volume dal titolo Lettres à tous les Français (cfr. É. Durkheim, E. Lavisse, Lettres à tous les Français, Paris, A. Colin, 1916).
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gresse (dalle condizioni economiche e demografiche ai risvegli etnici e nazionalistici, dalla rivalità di potenza ad un diffuso malessere sociale) che, combinandosi nel tempo, avevano solidificato una pluralità di motivazioni conflittuali. Riteneva però che, affinché si compisse quel salto di qualità necessario a produrre l’accensione di una lotta di tale portata distruttiva, azzerando l’efficacia di azioni negoziali e di mediazioni pacificatrici, c’era stato bisogno di un quid aggiuntivo rappresentato dall’intervento della precisa volontà di un attore. In altri termini Durkheim riteneva che la guerra non era stato il tragico esito del combinarsi di processi inintenzionali, ma il risultato di un’azione consapevole. Scriveva: «Queste cause impersonali, qualunque possa esserne l’importanza, non sono efficaci in loro stesse: perché producano effetti, occorre che volontà umane si prestino all’azione loro; perché una guerra scoppi, è necessario che uno Stato la voglia, ed è lui che ne sopporta la responsabilità»15. E questo Stato, la ricostruzione dei ‘fatti’ lo dimostrava, era la Germania. La Germania aveva manovrato l’Austria nella sua intransigenza originaria nei confronti della Serbia, aveva ostacolato l’azione mediatrice della Francia, dell’Inghilterra, dell’Italia e della Russia e i colloqui diretti tra Austria e Russia, aveva rifiutato i negoziati in extremis già accettati dall’Austria per dichiarare infine guerra alla Francia e alla Russia, giustificando tale decisione con le menzogne. Individuato il ‘colpevole’, stabilita l’innegabile responsabilità della Germania, Durkheim proseguì nella sua analisi per individuare le motivazioni profonde che, al di là delle ragioni contingenti, avevano fatto sembrare desiderabile il conflitto, avevano cioè reso il popolo e i governanti tedeschi così fortemente determinati nel tentare l’avventura bellica e così privi di scrupoli nel tirarsi fuori dalla ‘famiglia civile’ che formava lo spazio pubblico europeo. Seguendo le regole del suo metodo sociologico, la ricerca fu indirizzata verso l’individuazione di un ‘fatto sociale’ da porre alla base del processo che aveva avuto come esito quell’evento tanto distruttivo e perturbante16. Questo ‘fatto sociale’ 15 Cfr. É. Durkheim, E. Denis, Chi ha voluto la guerra? Le origini della guerra secondo i documenti diplomatici, Parigi, A. Colin, 1915, p. 3 (versione in italiano). 16 Durkheim, come è noto, differenzia le cause di un fenomeno dalle funzioni che esso svolge; ritiene che la causa di un fenomeno sociale vada ricercata in un fenomeno sociale antecedente, anche se ammette che, a proposito dei fenomeni sociali, l’imputazione causale non è sempre agevole. Cfr. É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, cit.
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Durkheim lo rintracciò nella mentalità tedesca – un insieme di idee e di sentimenti collegati ad una prassi – che ben esprimeva l’imperialismo tedesco, fattore di lungo periodo particolarmente incidente nella congiuntura in atto; questa mentalità, inoltre, era coerentemente collegata con una specifica filosofia dello Stato17. Durkheim, forte anche della sua conoscenza della cultura tedesca18, definì questa mentalità – presente in maniera sotterranea anche in tempi di pace, ma rinforzata ad arte soprattutto a fini bellici – e la specifica filosofia tedesca dello Stato attraverso la ricostruzione del pensiero di un autore, Heinrich von Treitschke, da lui giudicato particolarmente rappresentativo della cultura pubblica e di un modo di pensare da tempo ampiamente diffuso in Germania19. Nell’opera di questo eclettico studioso si ritrovavano tutti quei principi a cui si rifacevano, nell’intraprendere le operazioni belliche, la diplomazia e lo stato maggiore tedeschi; persino molti intellettuali nel sostenere le ragioni della guerra richiamavano, più o meno esplicitamente, le tesi di Heinrich von Treitschke20. Queste tesi definivano lo Stato come un fine in sé e non come un mezzo; esso veniva concepito come un’entità posta al di sopra della morale, al di sopra della società civile, al di sopra delle leggi internazionali. Lo Stato era quindi considerato una sorta di divinità, di totem di gruppo che non poteva conoscere limitazioni al suo potere ed era sciolto da ogni vincolo; un siffatto Stato aveva il solo dovere di essere forte. Su tale autorità suprema e autarchica, non sottoposta alla dinamica e alle verifiche della collettività dei cittadini, nessuna istanza poteva svolgere azioni di limitazione e di controllo, mentre a livello internazionale lo Stato valutava le questioni in base alle forze di cui disponeva e non su principi morali o sul volere dei cittadini. Accettava 17 É. Durkheim, L’Allemagne au dessus de tout. La mentalité allemande et la guerre, Paris, Armand Colin, 1915, ultima edizione, 1991. 18 Come ricorda Thompson, Durkheim conosceva perfettamente il tedesco; cfr. K. Thompson, Émile Durkheim, tr. it., Bologna, il Mulino, 1987, p. 40. Era anche a conoscenza degli scritti di Schmoller e dei membri della “Verein für Sozialpolitik”; recensì sull’«Année Sociologique» (vol. 5, 1900-1901 e vol. 7, 1902-1903) il testo di Simmel, Philosophie des Geldes. 19 Heinrich von Treitschke (1834 – 1896), poeta, storico e scrittore politico, è considerato l’anticipatore del culto della potenza tedesca. 20 Oltre a Max Weber e a Simmel, anche il teologo Ernst Troeltsch e Werner Sombart, tra i molti altri, avevano fatte proprie queste idee.
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vincoli e restrizioni solo se da esso negoziati e comunque soltanto pro tempore. Nella concezione di von Treitschke ogni accordo possiede un limite implicito: nessuno Stato può impegnarsi per l’avvenire. Lo Stato, dunque, legittimato per i suoi fini ad adottare i mezzi che reputava più adeguati, veniva considerato nei termini di potenza ed efficacia. Logica conseguenza era il fatto che uno Stato esisteva solo in quanto disponeva dei mezzi adeguati per affermare la sua esistenza; per questo motivo ogni Stato fa della forza, sia all’interno sia all’esterno, il suo principale carattere. Rispetto alla società civile, pluralistica, conflittuale e antagonistica, lo Stato svolge il supremo ruolo di principio regolatore, facendo valere esigenze di unità, ordine, disciplina; dovere dei cittadini nei suoi confronti è l’obbedienza21. A livello internazionale, come autorità suprema, si misura con altri Stati solo in termini di potenza; ne consegue che la guerra diventa la più efficace modalità attraverso la quale è possibile stabilire diritti e limiti di ciascuno. In siffatta concezione, data la loro intrinseca mancanza di potenza, gli Stati piccoli, deboli, non sono veri Stati e non possono essere considerati tali22. Secondo Durkheim uno Stato così concepito non è solo una mera astrazione concettuale; esprime piuttosto forti e profondi sentimenti diffusi nella collettività. La Germania di allora era un recettore di pulsioni collettive di potenza che per giustificarsi avevano attribuito alla nazione tedesca superiorità di razza e di cultura e avevano forgiato miti per esprimere questa superiorità. Una comunità attraversata da siffatte rappresentazioni e sentimenti collettivi, coagulati nell’idea di Stato come autorità suprema e autarchica, trovava inevitabilmente nella guerra una condizione fondamentale per la sua esistenza ed affermazione. La guerra era considerata in grado di svolgere una serie di funzioni: innanzitutto stabilire a livello internazionale il diritto ad esercitare l’egemonia e, a livello interno, realizzare unione e comunicazione tra gli individui, fondendoli in un corpo unico. Secondo Heinrich von Treitschke, la guerra implicava idealismo politico e spirito di sacrificio, mentre la pace era
21 Su questo punto Durkheim sottolineava l’evidente contrasto con la concezione dello Stato nelle società democratiche, in cui sono i cittadini che si organizzano e si esprimono nella ‘forma’ politica dello Stato. 22 Già Tocqueville in De la Démocratie en Amérique aveva espresso le sue perplessità sui piccoli Stati, incapaci di difendere i propri interessi nell’arena internazionale.
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considerata ‘pericolosa’ perché favoriva l’egoismo e la rilassatezza23. Durkheim, da buon conoscitore della cultura tedesca, era convinto che, nonostante le affermazioni contrarie di alcuni avversari, la mentalità tedesca non avesse un carattere materialista ed esprimesse invece una viva avversione per l’economia e per la ricchezza. In essa riscontrava, invece, una passione metafisica, un idealismo e una tensione interiore e severa che costituivano una miscela pericolosa in particolar modo se questi sentimenti si associavano all’inclinazione a concepire lo Stato come ente senza pari, ossia rivali, e come rappresentante della collettività nazionale. Sulla base di questa mentalità, secondo Durkheim, era agevole comprendere le dinamiche belliche tedesche; l’invasione del Belgio in spregio ai trattati internazionali, giustificata dalla stato di necessità (la Francia si preparava a fare altrettanto e bisognava scoraggiarla – una guerra preventiva, si direbbe oggi), era collegabile anche alla scarsa considerazione per i piccoli Stati teorizzata da Heinrich von Treitschke. Ugualmente lecito, in questa concezione dello Stato, è il ricorso a qualsiasi mezzo pur di ottenere il risultato; per scoraggiare il nemico è lecito terrorizzare le popolazioni civili (nel senso di compiere contro di esse gli atti più efferati) perché in guerra l’unico criterio valido è ottenere la vittoria. Il trionfo del machiavellico ‘fine che giustifica i mezzi’ rendeva il conflitto in atto una guerra totale e senza limiti. Heinrich von Treitschke, secondo Durkheim, non si spingeva a pensare che un solo Stato potesse di fatto dominare il mondo; ma credeva legittimo e ragionevole per la Germania aspirare ad un’egemonia universale. Era questo il terreno di coltura del pangermanesimo in cui il diritto a ‘egemonizzare’ il pianeta sarebbe stato agevolato alla Germania dal riconoscimento universale della sua superiorità. Questa pulsione alla superiorità, ancorata alla razza, alla storia, alla leggenda, fondava la mitologia pangermanista; l’insieme di queste concezioni, definite dal sociologo francese “parfois délirantes”24, esprimeva però un sentimento tenacemente radicato nella mentalità tedesca. Durkheim non aveva dubbi nel concludere che si trattava di un caso straordinario di ‘patologia sociale’. 23
Tra gli altri, Georg Simmel e Max Weber, come si vedrà, riprendono in pieno queste idee di Heinrich von Treitschke. 24 É. Durkheim, L’Allemagne au dessus de tout. La mentalité allemande et la guerre, cit., p. 84.
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La sua teoria sociologica e la concezione di ‘patologia sociale’ che aveva sviluppato gli permisero di formulare ulteriori importanti osservazioni: questa mentalità tedesca andava considerata un ‘fatto’ sociale e non era corretto quindi sostenere che i tedeschi come individui fossero malvagi; come fatto sociale – e in quanto tale oggettivo, esterno e coercitivo – questo insieme di idee e di rappresentazioni in tempo di guerra dominavano le coscienze (“devient maître de volontés”25), facendo compiere agli individui azioni che in tempo di pace avrebbero reputato condannabili26. Queste osservazioni risultano più chiare se si considera un’altra importante formulazione di Durkheim, quella dei due stati del sociale (quotidiano e straordinario), sviluppata in uno studio della sua piena maturità scientifica condotto su quelle che definiva ‘forme elementari’ – cioè di base – della vita religiosa. In esso aveva teorizzato il periodico passaggio dalla quotidiana vita routinaria ad uno stato straordinario di effervescenza collettiva che modifica significativamente la qualità delle relazioni e dell’agire di quanti partecipano a questa condizione di eccezionalità. L’effervescenza «diviene spesso tale che trascina ad atti inauditi. Le passioni scatenate sono talmente impetuose che non si lasciano contenere da nulla: si è tanto al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e se ne ha una tale coscienza, da provare il bisogno di mettersi al di fuori e al di sopra della morale ordinaria»27. La sua teoria sociologica gli permetteva in tal modo di contestualizzare la violenza bellica, anche estrema, e si poneva ad argine dei processi di disumanizzazione del nemico così frequenti in ogni tipo di conflitto28.
Il valore della resistenza Di fronte alla sfida dell’irrazionalità che irrompeva nella storia c’era un risvolto confortante: questa tensione patologica, che pure aveva per25
Ivi, p. 80. Sulla stessa linea si pone la riflessione di Freud che sottolinea il fatto che se lo «Stato combattente si concede ogni illecito, ogni violenza […] non ci si può neanche meravigliare se la dissoluzione di tutte le relazioni etiche tra le grandi individualità dell’umanità si è ripercossa sulla moralità privata». Cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, cit., pp. 11-12. 27 Cfr. É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris, Alcan, 1912, tr. it., Le forme elementari della vita religiosa, Bologna, il Mulino, 1971, p. 239. 28 Cfr. M.L. Maniscalco, La pace in rivolta, Milano, Franco Angeli, 2008, cap. IV. 26
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messo all’armata tedesca e alla sua macchina di guerra di raggiungere risultati impensabili, non poteva durare a lungo. Durkheim non aveva dubbi in proposito; anche sulla base di valutazioni scientifiche comprendeva che questa eccitazione malata non poteva che scomparire29. Gli era ben nota la volatilità degli stati di eccitazione collettiva in cui l’alterazione delle coscienze porta alla resurrezione del gruppo, all’incarnazione di esso in un dio o in una bandiera, alla fusione dell’individuo nel ‘sacro’ sociale. L’effervescenza del popolo tedesco alla notizia della guerra era stato un evento clamoroso, sicuramente fuori dell’ordinario; in Germania aveva piacevolmente stupito studiosi e governanti tedeschi, ma non poteva durare. I suoi studi lo avevano reso consapevole del fatto che società e gruppi vivono alternativamente fasi di effervescenza fusionale in cui gli individui comunicano e si fondono e fasi in cui la coscienza ordinaria si incanala verso gli imperativi (egocentrati) del reale e del quotidiano e che questi ultimi inevitabilmente finiscono per prevalere. Forte di questa consapevolezza individuava la strategia vincente nella resistenza militare e civile; resistere diveniva un dovere di tutti. Come studioso, facendo ricorso agli strumenti della conoscenza scientifica, analizzava, spiegava, esortava. Con particolare devozione e competenza si impegnò, attraverso la stesura e la pubblicazione di alcuni opuscoli – poi raccolti nel volume Lettres à tous les Français – in una battaglia per sostenere i francesi e i loro alleati nella dura impresa di contrastare l’imperialismo tedesco e per controbattere efficacemente, dati alla mano (sulla consistenza delle forze in campo, sulla situazione dell’economia, sulla qualità delle alleanze e sul sistema di relazioni), l’aggressiva e menzognera propaganda tedesca, anch’essa vera e propria arma di guerra impiegata per fiaccare il nemico. In un notevole sforzo di analisi Durkheim, con il gruppo di studiosi da lui coordinato, riuscì a comprendere la novità della guerra il cui esordio aveva fatto credere ad un conflitto di stampo tradizionale, ma che rapidamente aveva mostrato dinamiche e caratteri nuovi. Le novità esigevano nuove strategie e nuove tattiche, ma soprattutto richiedevano un coinvolgimento e un ruolo attivo anche dei non combattenti; mentre le guerre precedenti, nate dalle esigenze di élites dominanti, erano 29
Cosa che puntualmente accadde, gettando la Germania in una condizione caotica e di grave conflittualità interna.
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state combattute da una frazione limitata della popolazione (prevalentemente i professionisti delle armi) e avevano potuto risolversi a seguito di un avvenimento puramente militare (come, per esempio, una disfatta), quella in corso per l’ampiezza del teatro operativo e per la mobilitazione di massa rendeva difficile non solo sbaragliare le forze armate avversarie, ma minava anche la capacità risolutiva di qualsivoglia evento militare. Gli eserciti potevano cedere terreno, indietreggiare, ma questo avveniva solo per resistere, riorganizzarsi e a loro volta ottenere vittorie (sempre parziali) su altri fronti. Secondo Durkheim gli esempi più significativi venivano dai piccoli Stati: le forze belghe, dopo l’eroica resistenza nei confronti dell’avanzata tedesca, erano ripiegate in territorio francese per poi presidiare alcune posizioni al fronte; quelle serbe, a loro volta, si erano ricompattate, concentrandosi verso il mare e continuando a combattere. Questo andamento del conflitto aveva condotto al fallimento della Blitzkrieg (la guerra lampo) sulla quale aveva contato lo stato maggiore tedesco. Sviluppandosi il confronto armato in un teatro operativo immenso, che interessava pressoché tutta l’Europa e milioni di persone, interessando mare e terra, diventava difficile per chiunque distruggere, trasferire o rinchiudere in un campo di concentramento forze armate di così rilevanti dimensioni. La magnitudo della fenomenologia bellica aveva comportato un salto di qualità: la guerra in corso non era comparabile con quelle già combattute nel passato. Si era verificata inoltre una situazione paradossale: anche nei territori occupati dalle truppe tedesche, come il Belgio, il Montenegro, la Serbia, i governi continuavano in qualche modo ad operare, mantenendo persino una certa capacità di comando delle proprie forze armate. Ne conseguiva, secondo Durkheim, che dal momento che in siffatti teatri di guerra un successo o un insuccesso militare non potevano essere considerati definitivi nel determinare le sorti del conflitto, la capacità di resistenza, militare e civile, assumeva una rilevanza inedita: la vittoria sarebbe stata dei popoli che avrebbero resistito alla nefasta potenza di chi aveva scatenato il conflitto; sarebbe stata opera della tenacia e della pazienza. Questa situazione chiamava in gioco tutta la popolazione di cui era necessario il concorso allo sforzo economico, bellico e morale; occorreva agire con coraggio ed energia, mostrando di poter supportare lo sforzo bellico, testimoniandosi a vicenda la determinazione a non cedere anche attraverso un impegno produttivo maggiore. Combattendo e avendo pazienza (che è il coraggio dei non combattenti), determinazio78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ne e spirito di sacrificio, sarebbe stato sicuramente possibile ottenere il risultato della liberazione dall’invasore e della vittoria sul nemico. Per agire con la necessaria energia occorreva credere fermamente che sarebbe stato possibile vincere, evitando la depressione come i facili entusiasmi. Durkheim insisteva su elementi di psicologia di massa, sulla stessa linea di Gustave Le Bon, che osservava come la Germania non fosse stata in grado di tenere in debito conto i contraccolpi psicologici del suo modo di agire a livello internazionale e come rivelasse una sorta di incapacità costituzionale a cogliere l’importanza dei fattori psicologici il cui peso al contrario era tale da sollevare il mondo intero contro di essa30. D’altronde i tedeschi, nella loro superbia, non avevano mostrato alcuna sensibilità nel valutare il peso di quella che Durkheim definiva “l’opinion du monde”31, a cui invece il sociologo francese prestava la massima attenzione. Riteneva che questa opinione pubblica mondiale – che all’inizio era restata silenziosa di fronte al sacrificio del Belgio, ma che nel tempo aveva meglio compreso il pericolo dell’avanzata tedesca – avrebbe fatto poi la differenza: così accadde e poco prima di morire il sociologo francese ebbe il conforto di apprendere l’entrata in guerra degli Stati Uniti. In conclusione il pacifista Durkheim, coinvolto, suo malgrado, in una battaglia difficile e particolarmente dolorosa anche a livello personale32, cercò di combattere al meglio con le armi della ragione e della sua scienza. Considerava la guerra un residuo di altri tempi, una patologia del divenire sociale, e, posto di fronte ad essa, cercò di comprenderla intellettualmente per poi affrontarla praticamente.
30
Cfr. G. Le Bon, Hier et demain. Pensées brèves, Paris, Flammarion, 1918. É. Durkheim, E. Lavisse, Lettres à tous les Français, cit., p. 182. 32 Oltre ai numerosi attacchi personali subiti, la ferita più grave fu la morte del suo unico figlio maschio André-Armand a cui lo legava un intenso affetto e una profonda intimità intellettuale. Dopo alcuni mesi di angoscia a seguito di un comunicato che lo dava disperso sul fronte balcanico, Durkheim ebbe la comunicazione ufficiale della morte del figlio nel febbraio 1916. Sebbene cercasse di far fronte al suo immenso dolore mantenendo fede ai suoi numerosissimi impegni e profondendo come sempre le sue energie a favore della Francia, da quel momento fu un uomo finito. Dal dicembre 1916 dopo un malore non fu più in grado di fare lezione e nel novembre dell’anno dopo morì. 31
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La lezione durkheimiana A Durkheim dobbiamo alcune teorizzazioni sulla guerra, sulle società in guerra e sulle passioni nazionalistiche che si sono rivelate anticipatrici di una fenomenologia ampiamente registrabile nei decenni a seguire. Innanzitutto l’idea di una gerarchia nelle ‘cause’ di una guerra: ogni conflitto si radica in squilibri, tensioni e contraddizioni pregressi – frustrazioni economiche, impulsi espansionistici, squilibri demografici, malessere sociale, rivalità di confini, lotta per le risorse – che operano a diversi livelli, ma lo scatenarsi del confronto violento, che comporta drammatiche distruzioni di vite e di beni, è frutto di una precisa volontà di uno o più attori che scelgono deliberatamente lo scontro armato come ‘giudizio’ della storia anche in presenza di modalità alternative per superare le dispute e le tensioni conflittuali. Da questi attori la guerra ad un certo momento è considerata conveniente e praticabile, un esito fatale a cui può sembrare impossibile sottrarsi. Altro punto importante è che questa ‘convinzione’ non appare all’improvviso; è frutto di mentalità che si vanno strutturando nel tempo, attraverso il lavoro intellettuale e la circolazione di idee, narrazioni, ideologie e miti33. Essa è ‘patologica’: può e deve essere combattuta. Altro punto di interesse, evidenziato nell’analisi durkheimiana, riguarda le caratteristiche delle guerre che sono sì strettamente connesse – nelle modalità di combattimento, nella durata e negli effetti distruttivi – al grado di sviluppo economico e tecnologico delle società che le combattono, ma il cui esito resta comunque fortemente legato al fattore umano, cioè al ‘morale’ dei popoli coinvolti e alla loro capacità di impegno e di sacrificio34. Nel determinare l’esito dei conflitti emersi a partire dall’inizio del Ventesimo secolo, sottolineava il ruolo fondamentale della ‘resistenza civile’, cioè di quella capacità e di quella volontà di un’intera popolazione di opporsi all’invasore con mezzi violenti, ma soprattutto nonviolenti35. Al sociologo Durkheim non sfuggiva nem33
Sul ruolo degli intellettuali e dei mass media nel ‘costruire’ e diffondere narrazioni che contribuiscono a strutturare concezioni, atteggiamenti e disposizioni alla violenza esiste una vasta letteratura; tra gli altri cfr. M.L. Maniscalco, La pace in rivolta, cit. 34 Si pensi per esempio alla guerra del Vietnam, ‘persa’, come è noto, dagli Stati Uniti nel ‘salotto di casa’, cioè per stanchezza e opposizione interna. 35 Anche questo aspetto ha trovato puntuale conferma non solo durante la seconda Guerra Mondiale, ma anche in seguito in molte altre tipologie di conflitto. Come hanno mostrato le esperienze recentemente maturate in Afghanistan e Iraq, la superiorità
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meno l’aspetto psicologico del confronto bellico; ne considerò il peso a diversi livelli. Era particolarmente sensibile all’opinione pubblica nazionale e internazionale e consapevole di come l’immagine di un paese potesse essere fondamentale per attirare le simpatie e quindi per ‘rinforzare’ le scelte strategiche delle alleanze. Delle guerre infine notava la capacità di mutare le società e i legami sociali; resiste e sopravvive la società che si trasforma in comunità, che fonde i suoi membri all’unisono in un’unità per la sopravvivenza. Questo processo rinsalda i confini di gruppo, omogeneizza i comportamenti, differenzia in maniera oppositiva in-group e out-group. Nell’Europa del Ventesimo secolo questo processo fusionale era avvenuto in nome del nazionalismo e aveva trovato nello Stato-nazione il suo totem. Aver osservato questi processi di cui intravedeva la lunga durata rese Durkheim pessimista sul dopoguerra; al di là degli eventuali contenuti dei trattati di pace erano proprio le condizioni dei sistemi sociali, con la sovra-eccitazione dei sentimenti nazionalistici difficile da mitigare, a necessitare di attenzione per sostenere la pace nel difficile dopoguerra che si prospettava. Scriveva all’amico Salverda De Grave: «Ciò che resterà della guerra sarà una sovra-eccitazione delle forze nazionaliste che sopravvivrà»36. Severo e pensoso di carattere, travolto dal dolore per la perdita di suo figlio, amareggiato per le tante incomprensioni e accuse, Durkheim morì lasciando l’Europa ad un destino inimmaginabile persino per le sue più cupe valutazioni.
tecnologica non può sostituire il consenso delle popolazioni; infatti l’idea di una sorta di ‘conquista’ del ‘cuore e delle menti’ delle popolazioni locali è divenuta un aspetto fondamentale della strategia militare. 36 Cfr. la lettera di Durkheim a Salverda De Grave del 9 settembre 1916 in «Études Durkheimiennes», n. 10, 1993 (traduzione mia).
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Max Weber*: una politica di potenza per la Germania
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La passione nazionalistica Max Weber non fu soltanto lo studioso la cui statura è universalmente nota1, ma fu anche un pensatore politico che aspirava ardente* Max Weber (Erfurt 1864 – Monaco di Baviera 1920). Suo padre era un giurista e si
stabilì nel 1869 con la famiglia a Berlino, dove divenne membro della Dieta municipale e deputato alla Dieta di Prussia e al Reichstag. La casa in cui crebbe Max, primo di otto figli, era frequentata dalla maggior parte degli intellettuali e degli uomini politici importanti dell’epoca: Dilthey, Mommsen, Sybel, Treitschke, Kapp e altri. Nel 1882 si iscrisse alla facoltà di diritto dell’Università di Heidelberg, dove studiò anche storia, economia, filosofia e teologia. Partecipava ai duelli della sua corporazione studentesca. Dopo tre semestri svolse un anno di sevizio militare a Strasburgo prima come soldato semplice, poi come ufficiale. Nel 1894 riprese i suoi studi all’Università di Berlino e di Gottinga, ma tra il 1887 e il 1888 partecipò a diverse manovre militari in Alsazia e nella Prussia orientale. L’anno seguente conseguì il dottorato in diritto a Berlino, si iscrisse agli Ordini degli avvocati e imparò l’italiano e lo spagnolo. Nel 1893 sposò Marianne Schnitger, pronipote di suo padre, che gli rimase accanto per il resto della sua vita, curò la pubblicazione postuma di Economia e Società e ne mantenne alta la memoria. Quattro anni dopo si manifestò una grave malattia nervosa che per lungo tempo lo obbligò ad interrompere ogni lavoro e che, sia pure con alti e bassi, non lo abbandonò mai. Nel 1904 compì un viaggio negli Stati Uniti per assistere ad un Congresso di scienze sociali a Saint Louis; ne ebbe una forte impressione e l’esperienza stimolò i suoi studi sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Nel 1907 un’eredità gli consentì di dedicarsi completamente ai suoi studi. Nella sua casa di Heidelberg riceveva la maggior parte degli studiosi tedeschi dell’epoca: Windelband, Jellinek, Troeltsch, Naumann, Sombart, Simmel, Michels, Tönnies. Guidò con i suoi consigli alcuni giovani universitari come Georg Lukács e Karl Löwenstein. Fondò con altri la ‘Società tedesca di Sociologia’ e nel 1910 nel relativo Congresso prese netta posizione contro l’ideologia razzista. 1 La sua produzione fu vasta e articolata; sommariamente è possibile suddividere i suoi lavori in quattro categorie: a) studi di filosofia, critica e metodologia; b) studi di storia economica; c) studi di sociologia generale; d) studi di sociologia delle religioni.
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mente a svolgere un ruolo attivo; di fatto però si limitò ad essere amico, consigliere e ispiratore di uomini politici. La sua partecipazione alla politica fu un impegno essenzialmente privato: stilava documenti, prendeva posizione sui giornali, teneva discorsi, organizzava incontri per mobilitare le persone; tra il 1916 e il 1917 svolse anche missioni ufficiose a Bruxelles, Vienna, Budapest, ma non ottenne mai alcun incarico ufficiale. Alcune possibilità in tal senso gli si aprirono, ma o furono occasioni marginali o non giunsero a configurare quella posizione significativa alla quale in realtà Weber aspirava nell’ardente desiderio di rendersi utile al proprio paese. La possibilità più concreta fu la proposta di una candidatura nelle liste della Deutsche Demokratische Partei nella circoscrizione dell’Assia-Nassau tra il dicembre 1918 e il gennaio 1919; Weber era pronto a candidarsi in quanto, come ricorda la moglie Marianne, vedeva in ciò quella ‘chiamata’ che aspettava nel profondo dell’animo2. In poco tempo però svanì anche questa possibilità. Nonostante la cocente delusione, l’interesse per la politica rimase inalterato, tant’è che poco tempo prima della morte, nel 1919, la definì come il ‘mio antico amore segreto’3. Il suo profilo ideologico è netto: senso dell’onore, vocazione tedesca, devozione alla grandezza nazionale e patriottismo culturale restarono in lui immutati nonostante il trascorrere degli anni, lo sviluppo dei suoi studi e del suo pensiero, il tumultuoso avvicendarsi degli eventi, la disfatta della Germania e i dolorosi lutti che lo colpirono4. Una vena profetica, con tutta la passione e l’emotività che segnano ogni ‘profezia’, basava e dava senso alle sue convinzioni politiche e un sentimento tragico del divenire storico si poneva al fondo di una complessa concezione del conflitto e delle relazioni internazionali. Aveva fama di pessimista; il particolare temperamento e l’inflessibilità gli crearono non pochi avversari; come Durkheim fu spesso non compreso, messo
2 Cfr. Marianne Weber, Max Weber. Una biografia, tr. it., Bologna il Mulino, 1995, p.732. 3 «[…] Ist meine alte ‘heimliche Liebe’», cit. da E. Baumgarten, Max Weber. Werk und Person, Tübingen, Mohr, 1964, p. 671. 4 Nel 1915, a poca distanza di tempo uno dall’altro, Weber perse sui campi di battaglia suo fratello Karl, il cognato Hermann Schäfer, marito della sorella Lili (che poi si suicidò), e l’amico Emil Lask.
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ai margini, contestato e calunniato5, accusato addirittura di essere un traditore6. Weber fu profondamente coinvolto nella passione nazionalistica; il suo nazionalismo affondava le radici nel periodo della prima socializzazione politica ed era anteriore all’impegno scientifico7; lo assorbì dall’atmosfera della Germania guglielmina durante gli studi e lo diede per scontato, consacrando il proprio impegno alla grandezza della Germania. Da sempre fautore di una politica di potenza, fin da giovane era convinto che la Germania avrebbe dovuto necessariamente affrontare il problema cruciale di quale ruolo mondiale attribuirsi; ugualmente era consapevole che nessuno le avrebbe riconosciuto pacificamente un ruolo primario. Di questa opinione rimase anche durante i periodi più difficili del conflitto; in uno scritto della raccolta Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland, che ampliava alcune tesi presentate in articoli pubblicati nell’estate 1917 sul “Frankfurter Zeitung”, Weber ricordava le diverse crisi diplomatiche generate dalle esternazioni puramente personali del monarca tedesco su questioni di politica estera 5 In particolar modo durante l’ultimo periodo della guerra e quando la Germania si trovava in un gran disordine morale e sociale, fu più volte contestato e da più parti. La moglie Marianne, nella biografia che gli dedica, racconta che a seguito del discorso da lui tenuto a Monaco per il partito popolare progressista nel novembre 1918 Weber suscitò notevoli polemiche in un uditorio complesso, composto da intellettuali borghesi, esponenti della Freideutsche Jugend e radicali di sinistra: comunisti e anarchici; allorché si pronunciò contro una pace perseguibile ad ogni prezzo e contro la rivoluzione venne contestato e intorno a lui si creò un clima ostile. Il professore che intendeva stabilire le coordinate di un comportamento retto e degno era divenuto ormai arcaico. I giovani soprattutto non erano più disposti a seguirlo: a Heidelberg, in una riunione di studenti quando Weber espresse con enfasi il suo pessimismo, incitando comunque al sacrificio in nome dell’onore, non fu compreso e gli studenti manifestarono sotto la sua casa. Cfr. Marianne Weber, op. cit., pp. 716-718. 6 Baumgarten nella sua biografia del sociologo tedesco racconta che fu incaricato nel 1921 dalla moglie di Weber di recuperare dal generale Ludendorff una lettera a lui inviata due anni prima dal marito. Nella lettera Weber, a fronte del fatto che era noto che l’Intesa intendeva fare dell’estradizione dei comandanti dell’esercito, dei capi di governo e del Kaiser una condizione per la pace, invitava il generale a consegnarsi spontaneamente ai vincitori per salvare il residuo onore personale e della nazione. Baumgarten era stato congedato bruscamente da Ludendorff che affermò di non ricordare alcuna lettera e che il professor Weber gli era stato più volte segnalato come “traditore della patria”. Cfr. E. Baumgarten, op. cit., p. 512, in nota. 7 Heinrich von Treitschke, teorico dello Stato tedesco (e principale riferimento, come si è visto, della riflessione durkheimiana sulla mentalità bellicista tedesca), frequentava la casa paterna di Berlino.
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che, imprudentemente rese pubbliche, avevano generato forti reazioni nelle potenze straniere. Pur criticando la burocrazia, a cui era imputabile questa incauta pubblicità, non poteva non sottolineare, amaramente, che ogni tentativo della Germania di acquisire un ruolo politico più rilevante in politica estera urtava contro aree di influenza consolidate ed equilibri stabili, scatenando dure repliche e frizioni con altri paesi europei8. Weber, conscio della forza economica strutturale del proprio paese e del patriottismo dei tedeschi, si era ben presto persuaso dell’utilità e della praticabilità di una politica di potenza intelligente e determinata. Fin dagli esordi dell’impegno intellettuale dichiarò apertamente la dedizione al destino della Germania e la consapevolezza della responsabilità della sua generazione; collocava entrambe in un frame di riferimento in cui era ben presente, seppure mai esplicitato, il darwiniano concetto di sopravvivenza dei più adatti. La nota e controversa conferenza di inaugurazione dell’anno accademico a Friburgo del 1895, dal titolo Nationalstaat und die Volkwirtschaftspolitik, anticipava temi che rimasero nel suo orientamento politico per tutta la vita. In quell’occasione delineò in maniera netta la natura non morale della politica; la Stato nazionale non è un’entità mistica, ma rappresenta l’organizzazione di potenza della nazione; la maturità di una classe dirigente a sua volta si misura in base alla consapevolezza e alla capacità di porre gli interessi permanenti di potenza (economici e politici) della nazione al di sopra di ogni cosa9. Ad un certo punto gli sembrò che solo attraverso il conflitto armato la Germania avrebbe potuto reclamare e ottenere quella posizione primaria che le spettava per le doti del suo popolo, per il valore della sua cultura e per la forza della sua economia di cui era particolarmente fiero. Weber non era un guerrafondaio, ma, come sostiene Aron, “la guerra non lo turbava nella sua rappresentazione del mondo”10; in quella specifica contingenza internazionale non vedeva altra alternativa degna di essere perseguita: la Germania non poteva sottrarsi alla ‘responsabilità’ storica, a quello che riteneva fosse il suo dovere di fronte alle genera8 Cfr. M. Weber, “Il potere burocratico nella politica estera”, in Parlamento e governo, tr. it., Bari, Laterza, pp. 79-86. 9 Cfr. M. Weber, “Lo Stato nazionale e la politica economica tedesca”, in Scritti politici, tr. it., Catania, Giannotta, 1970, pp. 71-124. 10 Cfr. R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 531.
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zioni future e alle altre nazioni europee. Alla vittoria bellica della Germania sarebbe stata legata infatti la sopravvivenza della Kultur tedesca, minacciata dall’imperialismo russo e da una progressiva diffusione del processo di Zivilisation che trovava nello spirito della concorrenza economica tipicamente inglese la più dinamica espressione. Prese così parte al movimento di mobilitazione intellettuale del mondo accademico tedesco che, alla vigilia del conflitto mondiale, era assolutamente compatto nella difesa della legittimità – o meglio ancora della necessità – del coinvolgimento armato della Germania. Come molti intellettuali dell’epoca, Weber nutriva una profonda convinzione che la Germania fosse espressione di un popolo ‘eletto’ e che, in quanto tale, fosse detentrice di un destino eccezionale. Questa convinzione determinò un profondo coinvolgimento nel conflitto e ne fondò il rammarico di non poter combattere in quella guerra che gli appariva “nonostante tutto […] grande e magnifica”11. Non potendo essere impiegato al fronte, come ogni ‘buon tedesco’12 aderì spontaneamente alle richieste di sostegno per lo sforzo bellico; allo scoppio della guerra, si arruolò come volontario diventando il responsabile amministrativo dei quarantadue ospedali del distretto intorno ad Heidelberg. Svolse questa attività con scrupolo e senso di responsabilità per quindici mesi e diede le dimissioni quando, a seguito di una riorganizzazione degli ospedali del distretto, comprese che il suo compito era divenuto ormai superfluo. Continuò in ogni modo ad impegnarsi in molteplici forme: scrivendo, tenendo conferenze, dimostrandosi disponibile per ogni attività potesse essere utile alla causa tedesca. Le prese di posizione weberiane danno per certi aspetti una risposta alla primaria e fondamentale domanda che si era posto il francese Durkheim13: come era stato possibile far crescere nel cuore dell’Europa una volontà di dominio così forte e determinata? Quali ne erano le radici e le ragioni profonde? Chi aveva voluto la guerra e quindi ne aveva la responsabilità? Ma, per meglio comprendere questa ‘risposta’, occorre 11
Ivi, p. 603. Dall’inizio del conflitto la parola d’ordine del popolo tedesco fu Burgfriede, richiamandosi alla tregua dei conflitti interni quando si subiva un assedio. Ma la conflittualità tipica della vita politica e sociale tedesca riemerse con virulenza dopo qualche anno come conseguenza della sconfitta e dei problemi ad essa connessi. 13 Sebbene i due autori non si conoscessero personalmente e non esistono documenti che attestino la reciproca ‘valutazione’ dei rispettivi percorsi scientifici, è possibile leggere le loro posizioni sulle cause della guerra come un dibattito a distanza. 12
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a sua volta leggerla alla luce di una più comprensiva concezione del conflitto e del potere e in base alle analisi weberiane sull’economia, la politica e la società. A livello ideologico questa concezione si legava in maniera inscindibile alla passione per il destino della Germania e alla convinzione che essa fosse investita da una missione universale da svolgere anche attraverso la guerra. A conflitto iniziato sosteneva essere stata la guerra una scelta obbligata, una necessità per la difesa del popolo e della cultura tedesca e, durante tutta la sua durata e anche nell’immediato periodo posteriore alla sconfitta tedesca, si oppose in maniera categorica a qualsiasi attribuzione di colpa alla Germania, accusata di aver voluto la guerra e di aver commesso atrocità contro le popolazioni civili.
La sociologia weberiana del conflitto Weber concepiva il conflitto, nei termini di lotta (Kampf), come un agire sociale in vista dell’imposizione della volontà di un attore contro la volontà e la resistenza di una o più controparti14; nella sua sociologia la categoria ‘conflitto’ viene applicata, con un approccio di scala, dal livello micro a quello macro: vale per gli individui, i gruppi, le classi, gli Stati e le alleanze tra Stati. La lotta tra gli individui, i gruppi e le classi segna lo spazio interno, mentre lo Stato nazionale rappresenta, a livello internazionale, l’organizzazione specifica per l’affermazione della potenza della collettività organizzata in forma politica. Ogni lotta è indirizzata alla conquista del potere e, all’interno di uno Stato, Weber individuava tre ambiti diversi (politico, sociale ed economico) 14
L’agire sociale è il concetto chiave della sociologia comprendente weberiana. Secondo la definizione di Economia e Società un agire si può definire sociale quando è «riferito – secondo il suo senso intenzionato dall’agente o dagli agenti – all’atteggiamento di altri individui e orientato nel suo corso in base a questo». Dal momento che il senso dell’agire non è sempre lo stesso, Weber ne definisce quatto tipi in base al grado decrescente di razionalità: a) agire razionale rispetto allo scopo (colui che agisce orienta il suo agire in base a scopi, a mezzi e a conseguenze che valuta razionalmente); b) agire razionale rispetto al valore (colui che agisce opera in base a convinzioni etiche, religiose, estetiche che non mette in discussione e di cui non valuta le conseguenze); c) agire affettivo (quando l’agire è mosso da affetti e da emozioni); d) agire tradizionale (quando colui che agisce si comporta in base ad abitudini acquisite). Cfr. M. Weber, Economia e Società, tr. it., Milano, Comunità, 1961, pp. 14-23.
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come arene conflittuali. Nel campo della politica la posta in gioco è la più alta; consiste nell’acquisizione di un potere sovrano conteso dai diversi gruppi o partiti. Nel settore economico il conflitto può interessare la conquista dei mercati e la regolamentazione della circolazione delle merci, le dinamiche salariali, il controllo del credito e molte altre dimensioni, ma non per questo va considerato meno duro e di minor peso nella struttura della società. Infine, anche l’ordinamento sociale rappresenta un contesto in cui gli attori si scontrano; la posta in gioco può essere lo status e il prestigio sociale di individui e gruppi, o l’affermazione di universi valoriali contrastanti, di stili di vita, di modelli di comportamento e di culture differenti o antagoniste. Weber non considerava il conflitto un’eccezionalità patologica del sistema di interazione, ma un elemento permanente che ne assicura la vitalità, immettendo dinamicità e operando come meccanismo selezionatore per il personale politico più adatto, per l’impresa più efficiente, per i ceti più meritevoli di prestigio e, infine, nel sistema internazionale, per le nazioni più degne di influire sulla politica mondiale. La sua concettualizzazione del conflitto risentiva del già segnalato quadro interpretativo della realtà sociale e del divenire storico segnato da una visione darwiniana e nietzschiana della lotta per la vita (Kampf ums Dasein). Nel modello weberiano questa visione sempre presente, seppure sotterranea, mai approfondita e problematizzata in maniera esplicita, tendeva a ricomprendere anche la marxiana lotta delle classi e si declinava in diverse forme, pur rimanendo nella sostanza fondamentalmente identica. La lotta per il potere tra le classi e gli individui gli appariva come l’essenza, come il dato costante della politica interna, mentre considerava la competizione, anche violenta, tra gli Stati la condizione naturale del sistema internazionale. Questa concezione non era un’anomalia, frutto di un’astrazione ideologica o di un’interpretazione idiosincratica della situazione; Weber argomentava in un periodo in cui l’arena internazionale era un contesto totalmente anarchico in cui gli unici attori, gli Stati, non erano soggetti nel loro agire a forme di regolazione e ad autorità sovranazionali, dipendendo per la sopravvivenza e la sicurezza dalle proprie forze e dal sistema di alleanze che erano in grado di attivare. Esprimeva quindi una posizione allineata con la Realpolitik del tempo per cui, nel confronto di potenza tra gli Stati, le guerre erano considerate una modalità ‘naturale’, non certo una sopravvivenza di epoche passate, né tanto meno una negazione dell’impegno verso la cultura. 89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Secondo Weber non c’era incompatibilità tra guerra e cultura, dal momento che la guerra rappresenta una forma, tra le altre, della lotta per la sopravvivenza che coinvolge nel suo destino anche la cultura. Riprendendo la tradizione di Hobbes, quella dello stato di natura tra le società politiche, Weber riteneva i grandi Stati di potenza perennemente impegnati in una lotta e portatori di differenti culture, ognuna delle quali con pretese di superiorità sulle altre. Ogni comunità nazionale sviluppa il proprio sistema valoriale e si riconosce in certe manifestazioni del pensiero e in certe opere scientifiche, letterarie e artistiche; un confronto o una gerarchia tra i patrimoni culturali nazionali è pressoché impossibile. La posizione weberiana in argomento è molto chiara: ribadisce il pluralismo culturale e l’incommensurabilità degli universi valoriali. In un celebre passo della conferenza a Monaco nel 1918, Wissenschaft als Beruf, la espresse con enfasi: «Come si possa fare per decidere “scientificamente” tra il valore della cultura tedesca e di quella francese, io lo ignoro. Anche qui c’è un antagonismo tra divinità diverse, in ogni tempo»15. Dal momento che una gerarchia oggettiva è impossibile, l’egemonia culturale, come altre forme di egemonia, si ‘gioca’ attraverso la competizione e il conflitto. Weber riteneva che esistesse una connessione tra diffusione e prestigio di una cultura e potenza economica, militare e politica di uno Stato; i popoli vincitori, dominanti, tendono ad imporre la propria cultura, mentre i popoli dominati, o in qualche modo subordinati, ne subiscono il fascino, l’influenza o l’imposizione. Secondo Weber, il dominio culturale è un’espressione, tra le altre, del dominio tout court; il legame tra cultura e potenza produce effetti reciproci di rinforzo nel senso che se la potenza politica, economica e militare aiuta la cultura nella sua affermazione, la cultura a sua volta circonda di un’aura di spiritualità gli interessi di potenza di un paese e li sacralizza. Un ulteriore significativo riferimento da approfondire per la comprensione della Machtpolitik weberiana, di cui la lotta è espressione essenziale, è rappresentato dall’idea del ‘politeismo’ dei valori che si esprimono in una pluralità non componibile. L’esempio di questa concezione era il politeismo greco che «sacrificava ad Afrodite e a Era, a Dionisio e ad Apollo pur sapendo che queste divinità erano non di 15
Cfr. M. Weber, “La scienza come professione”, in Il lavoro intellettuale come professione, tr. it., Torino, Einaudi, 1948, pp. 31-32.
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rado in lotta tra loro»16. Weber era convinto che i diversi universi valoriali fossero in eterna competizione, non riuscendo mai a convivere in forma armonica in quanto ogni sfera valoriale possiede una propria logica e una diversa legittimazione dei mezzi che utilizza. Rifacendosi alla teoria della progressiva differenziazione e separazione dei diversi ambiti della vita sociale e dei diversi ordini di attività, elaborata con gli studi di sociologia comparata delle religioni universali17, sosteneva che ogni sistema di valori comporta una finalità specifica e un senso proprio che pongono problemi di incompatibilità o di contraddizione con altri sistemi; i valori religiosi, i valori politici, economici o scientifici appartengono a sfere diverse: per esempio, la morale dei guerrieri non può essere certo quella dei filosofi o dei santi. In alcune culture, come per esempio in quella induista e castale indiana, questa antinomia veniva risolta attraverso leggi etiche settoriali; Weber ricordava che l’ordine di vita induistico «faceva di ognuna delle varie professioni l’oggetto di una legge etica particolare, di un dharma […] Era perciò possibile conformare il dharma di ogni singola casta, dagli asceti e dai bramini fino ai ladri e alle sgualdrine, in modo corrispondente alle caratteristiche intrinseche di ciascuna professione. Comprese, tra queste, anche la guerra e la politica»18. In base al suo articolato framework conflittuale di lettura della vita sociale – la cui realtà è un mondo segnato dalla presenza di divinità che lottano tra loro – e del divenire storico, Weber ritenne poco significativa una filosofia politica che sottolineasse una totale separazione/ opposizione tra pace e guerra, tra lotta di potenza tra gli Stati e rivalità o conflitti economici tra gruppi, classi, popoli. Dissentendo apertamente con quanti ritenevano lo sviluppo economico foriero di pace e l’interesse per l’arricchimento una ‘passione’ pacificante, sosteneva che la violenza non cessa di essere tale perché mascherata da competizione economica. In ogni caso si tratta di riconoscere chi riesce a sopraffare 16 Cfr. M. Weber, “La politica come professione”, in Il lavoro intellettuale come professione, cit., p. 113. 17 Allo studio delle etiche religiose di più culture occidentali e orientali e ai relativi rapporti con la struttura sociale e l’economia Weber dedicò diversi lavori a partire dal 1904-1905, data di pubblicazione del famoso saggio sull’etica protestante (Die protestantische Etik und der Geist des Kapitalismus). I suoi studi sulla religione sono stati poi raccolti e pubblicati nel 1920-1921 in tre volumi dal titolo Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, tr. it., Sociologia delle religioni, Milano, Comunità, 1982. 18 Cfr. M. Weber, “La politica come professione”, cit., p. 113.
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l’altro, ad impadronirsi a proprio favore dello spazio utile, vitale (Lebensraum), e delle risorse disponibili. Weber sembrava voler quasi provocatoriamente disconoscere l’importanza della differenza tra forme violente e non violente di conflitto; era fermamente convinto che, sotto apparenze pacifiche, la lotta continuasse anche durante il tempo di pace, facendo comunque le sue vittime. In molteplici sedi, scientifiche e non, ebbe modo di reiterare la sua idea della guerra, forma estrema di conflitto, come elemento fondamentale del divenire drammatico della storia e sua modalità ineludibile; così, solo per fare un esempio, l’analisi da lui dedicata allo sviluppo dello Stato moderno, burocratizzato e centralizzato, si basava in larga misura sull’esame dei mutamenti dell’organizzazione militare e sull’emersione della forma politica ‘Stato’ dalla guerra e attraverso la guerra. Weber ci consegna dunque una cruda concezione del conflitto: esso è una forma di agire sociale perenne e pervasivo in ogni dimensione dell’interazione. In questa concezione confluiscono le molteplici componenti del suo pensiero: una prima darwiniana (la lotta ‘biologica’), una seconda nietzschiana (la ricerca della grandezza), una terza politeistica (il pluralismo dei valori in eterna contesa), una quarta economica (la perenne scarsità di beni materiali e l’ineliminabile povertà dei popoli) e infine una quinta marxiana (ogni classe ha interessi in contrasto con le altre classi e anche con l’interesse nazionale). Nel complesso intreccio di opzioni valoriali e di modelli teorici rintracciabile nella teorizzazione weberiana del conflitto è difficile stabilire se e quanto sia stata questa concezione ad infiammare il suo nazionalismo o se invece la passione per la Germania e le contingenze storiche ne abbiano condizionato l’approccio ai fenomeni conflittuali. Resta comunque il fatto che, attraverso le argomentazioni weberiane, è possibile osservare dall’interno un’escalation conflittuale e le motivazioni bellicistiche di un’epoca che ha segnato significativamente la storia del continente europeo.
Politica di potenza, cultura e libertà Nella congiuntura storica in cui si trovava a vivere, Weber si convinse che una politica mondiale di potenza (Weltpolitik), perseguibile anche attraverso un conflitto armato, fosse uno scopo ineludibile per la 92 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Germania. Avendo fin dai tempi della gioventù considerato la politica dal punto di vista nazionale, Weber aveva ben chiaro come la Germania fosse circondata da grandi potenze terrestri e marittime. Questa situazione geopolitica condizionava significativamente le aspirazioni tedesche ad un ruolo mondiale. Ne conseguiva logicamente la necessità di una struttura militare e di un arsenale di armi particolarmente forti e di una politica realistica di sane e durature alleanze, senza però indulgere nell’odio e senza tentazioni pangermanistiche di “uscire”, come sosteneva, “dalle condizioni geografiche della nostra esistenza”19. Il limite di quelli che considerava i confini geografici naturali della Germania si legava coerentemente al problema del giusto equilibrio tra lo Stato, come suprema organizzazione politica, e la nazione, come comunità linguistica e culturale; fu sempre molto presente in Weber il rischio di annettere gruppi etnici diversi e con identità nazionali molto forti; portava l’esempio dell’esercito austro-ungarico per dimostrare la difficoltà di mettere sullo stesso piano Stato e nazione. Era contrario ad insensate annessioni e considerò sempre il Belgio come un ‘pegno mobile’. Con il trascorrere del tempo fu angosciato da un ulteriore pericolo della politica annessionistica: quello di comportare un indefinito prolungamento del conflitto. Proponeva invece l’unità della nazione tedesca affinché questa potesse svolgere al meglio la propria politica di grande potenza e influire sul corso della storia universale. Considerava una siffatta strategia geopolitica la condizione indispensabile anche per la difesa e la diffusione del modello tedesco di cultura minacciato da più parti. Tale valutazione della situazione rispecchiava la sua concezione dell’inscindibilità degli interessi di potenza politica e militare dagli interessi per la difesa e l’affermazione della cultura tedesca. In questo senso il conflitto che si andava combattendo era anche un Kultur-krieg che investiva i reciproci patrimoni artistico-culturali e le tradizioni della sfera politica e sociale: in esso erano coinvolti non solo la lingua, l’arte, la musica, la produzione letteraria e scientifica, ma anche i modelli di organizzazione e coesione sociale, l’idea dello Stato e il concetto di libertà. Con le sue argomentazioni Weber definì con chiarezza dimensioni e caratteristiche dei conflitti tra culture e modelli di vita associata: si 19
Cfr. M. Weber, “La Germania tra le grandi potenze europee”, in Scritti politici, cit., p. 131.
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trattava di una declinazione specifica della più ampia concezione del politeismo dei valori e della loro inconciliabilità. Come si è visto, riportando nella sfera culturale la visione darwiniana e nietzschiana della lotta per la sopravvivenza, rappresentava ogni sistema culturale in lotta per la conservazione e la riproduzione; in altri termini la lotta tra i popoli assumeva aspetti bio-culturali. Di fronte alle generazioni che sarebbero venute, la Germania, in quanto grande potenza, sarebbe stata responsabile del futuro della cultura dell’umanità ed era perciò tenuta ad impegnarsi per evitare che il mondo fosse dominato dalla ‘barbarie’ russa, dalla monotonia inglese e dalla retorica francese. «Non saranno i danesi, gli svizzeri, i norvegesi, gli olandesi coloro che le generazioni future, e principalmente i nostri discendenti, riterranno responsabili se il potere mondiale – ciò che significa in ultima analisi la facoltà di determinare il carattere della cultura del futuro – venisse diviso tra i regolamenti dei burocrati russi, da un lato e le convenzioni della society anglosassone dall’altro, magari con una vena di raison latina. Saremo noi i responsabili ai loro occhi. E con diritto. Perché siamo un popolo di settanta milioni […] possiamo dunque mettere il nostro peso sul piatto della bilancia della storia. Appunto per questo è su di noi […] che cade questo dannato dovere ed obbligo […] di opporci all’invasione del mondo intero da parte di quelle due potenze. L’onore del nostro popolo impone di non sottrarci con indolenza e viltà a tale impegno; è per l’onore che si combatte questa guerra, e non per delle modifiche della carta geografica e del profitto economico»20. Diventare, attraverso la guerra, una potenza mondiale era quindi un dovere da assolvere, era un compito indispensabile per essere un popolo libero, per dominare il proprio destino e per non essere sottomessi ad altri popoli e a culture estranee. Weber era convinto che in assenza di un’adeguata politica di potenza la metà dei tedeschi sarebbe stata assoggettata alla Russia e l’altra metà alla Francia. Da sempre la Russia in particolare attraeva la sua curiosità intellettuale e lo preoccupava; nel 1905 la rivoluzione gli apparve come un fatto di tale rilevanza da meritare un’attenta analisi; imparò il russo in tre mesi per seguire direttamente sulla stampa locale lo svolgersi degli avvenimenti. Pubblicò 20
Cit. da Marianne Weber, op. cit., pp. 664-665. Marianne Weber in questo passo riporta in maniera non letterale, ma sostanzialmente fedele, il pensiero che Weber espresse in un testo apparso sul quaderno 5/1916 della rivista «Die Frau Monatsschrift für das gesamte Frauenleben unserer Zeit».
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nel 1906 alcuni saggi in cui affrontava i difficili sviluppi del processo di democratizzazione della Russia e analizzava i diversi attori coinvolti – zar, classi feudali, borghesia capitalista, polizia, burocrazia, contadini, operai, intellettuali – che si misuravano in maniera confusa; il nodo era quello del capitalismo e della libertà individuale minacciata dalla potente burocratizzazione. Al di là della piega che avrebbero preso gli eventi, era convinto che la Russia sarebbe sempre stata un interlocutore specifico delle relazioni tedesche e sollecitava a non nutrire illusioni: «Qualunque cosa diventi la Russia, noi dobbiamo mantenere un’ottica ‘politicamente realistica’: meglio affrontare subito l’insieme dei problemi che ci dividono (ora possiamo pacificamente intenderci contando sulle nostre forze) piuttosto che scaricarli sui nostri nipoti e nel frattempo mettere in moto contro di noi tutte le forze ideali di questi popoli ambiziosi»21. Come molti contemporanei, il sociologo tedesco legava saldamente la dimensione della potenza politica e militare con lo sviluppo e la forza dell’economia e con l’autonomia di uno Stato. Non dubitava che anche i piccoli popoli potessero avere una missione nella storia universale e raggiungere, sotto l’aspetto culturale, risultati riguardevoli; la potenza però era considerata assolutamente indispensabile per dominare il proprio destino ed essere perciò liberi. Non l’avidità economica, non la malvagità, ma l’irrinunciabile difesa dell’esistenza della Germania come potenza era dunque per Weber all’origine della guerra. Fino all’ultimo rimase convinto di questa tesi; la responsabilità definitiva della guerra, ribadiva, era da attribuirsi all’imperialismo russo e allo zarismo come sistema che nel proprio interesse aveva voluto – e non poteva fare altrimenti – lo scontro armato ad ogni costo. Considerava la nazione tedesca fondamentalmente un popolo di cultura, mosso da ideali, e ne auspicava una rilevanza mondiale. Di qui l’importanza di conseguire un riconoscimento universale di grande potenza. Nella dinamica della politica di potenza il sociologo tedesco non poteva evitare di considerare il ruolo dei cittadini; l’esaltazione delle virtù tedesche faceva da contrappeso alla denuncia dell’incerta condotta della guerra sia sul fronte esterno che in patria. Fortemente coinvolto nella passione nazionalistica, Weber postulava l’assoluta continuità tra 21
Cfr. M. Weber, Sulla Russia. 1905-6/1917, tr. it., Bologna, il Mulino, 1981, p.
139.
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nazione e individuo: il destino della Germania era anche il destino di ogni singolo tedesco. Paradossalmente, il teorico dell’individualità e dell’azione sociale, lo studioso considerato tra gli ascendenti più importanti dell’individualismo metodologico, richiamava e reclamava un concetto olistico di società intesa come unità che si batte e combatte all’unisono22. Non a caso elogiava la dedizione, il senso del dovere, la capacità di obbedire e di conformarsi spontaneamente, come virtù tipicamente, anzi esclusivamente, tedesche. Secondo Weber, queste disposizioni dello spirito tedesco fondavano e davano forza all’intera nazione, la cui identità andava preservata ad ogni costo. Nella sua esaltazione nazionalistica Weber arrivava su questi punti talvolta a raggiungere toni terribili, come quando sostenne che non è la pace, né la felicità che occorreva procurare alle generazioni future, ma la lotta eterna per conservare ed edificare il proprio carattere nazionale23.
Il coinvolgimento intellettuale ed emotivo Durante tutto il periodo bellico Weber fu un attento osservatore e commentò in modo esplicito gli eventi esponendo con chiarezza le sue posizioni. Tutta la complessità del conflitto in cui era coinvolto il popolo tedesco gli era pienamente presente e le sue argomentazioni segnalano una profonda capacità di analisi geopolitica, sensibilità e lungimiranza. Un punto che sollecitò particolarmente il suo interesse fu la questione della conquista austro-tedesca della Polonia russa. Da sempre sensibile ad una protezione del confine orientale contro la pressione russa, aveva seguito fin da giovane la politica prussiana al riguardo spesso criticandola aspramente; dopo la presa militare della Polonia lo affascinava la possibilità di creare uno Stato polacco affrancato dalla Russia e alleato delle potenze centrali in quanto loro ‘protettorato’. Gli era però chiara la necessità preliminare di districare molte spinose fac22
In questo Weber si mostrava sensibile all’avversione diffusa nella cultura politica tedesca per le divisioni interne, caratteristica sulla quale ha richiamato l’attenzione Elias nel suo studio sui tedeschi; cfr. N. Elias, I tedeschi, tr. it., Bologna, il Mulino, 1989. 23 Queste ed altre simili affermazioni di Weber sono più volte ripetute nei suoi Politische Schriften (1921), tr. it., Scritti politici, cit.
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cende tra le quali l’emancipazione dell’industria polacca dall’entroterra russo, l’eventuale restituzione alla Polonia dei territori da tempo incorporati dall’Austria e dalla Germania. Weber, conscio della complessità della problematica, temeva la goffaggine del comando militare tedesco e desiderava ardentemente prestare i propri consigli. Era convinto che i polacchi non potessero più essere trattati come nemici, ma conquistati come alleati; suggeriva come primo passo di trovare un accordo con i polacchi di Prussia. Riporta la moglie Marianne che Weber era intenzionato a studiare il polacco per facilitare i suoi contatti e si diede molto da fare, ma alla fine gli fu negata persino una missione che aveva richiesto per sé e per alcuni colleghi per un soggiorno in Polonia a titolo solamente privato, ma con il consenso del governo e con accesso al materiale di ufficio. A Weber non restò che rimanere a guardare gli errori commessi dalla burocrazia del Reich, criticandola e preoccupandosene24. Al volgere del secondo anno di guerra non nascose le sue apprensioni: c’erano stati entusiasmanti successi militari ad est, ma anche importanti avvenimenti che potevano giocare a favore dei nemici. Criticò severamente il siluramento del Lusitania che aveva generato una forte tensione con gli Stati Uniti e la rottura tra Austria e Italia che si sarebbe potuta prevenire, a suo avviso, con delle concessioni territoriali a quest’ultima. Paventava il prolungarsi eccessivo della guerra che avrebbe giocato a sfavore della Germania, data la superiorità numerica del fronte nemico. Temeva sopra ogni cosa il coinvolgimento degli Stati Uniti; un altro siluramento, quello accidentale del Sussex – un piroscafo passeggeri francese con a bordo molti cittadini di nazioni neutrali, principalmente donne e bambini – aveva indotto gli Stati Uniti a chiedere in maniera categorica la cessazione immediata di operazioni contro navi mercantili. Angosciato e irritato commentava il 5 aprile 1916: «Il siluramento del Sussex è stato dichiaratamente una porcheria senza pari, la cosa più stupida che potesse accadere. […] Se continua così – speriamo di no! – avremo di sicuro guerra con il mondo intero». Ritornava sull’argomento il 10 maggio per affermare «[…] la storia del Sussex: questo stupido negare e dover successivamente confessare; è estremamente penoso. […] E che brutta luce a nostro sfavore questo
24
Cfr. Marianne Weber, Max Weber. Una biografia, cit., pp. 637- 641.
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getta sul Tubantia! Insomma, l’intera faccenda è oltremodo dolorosa, e i tipi che ci hanno procurato la disfatta vanno messi alla gogna»25. Era attento a molte significative questioni come quella delle annessioni; infatti, nonostante con l’entrata in guerra fosse stato proibito ogni dibattito pubblico sugli obiettivi bellici, i grandi gruppi di interesse muovevano clandestinamente a favore delle acquisizioni di territori ad oriente e ad occidente. Ricorda la moglie Marianne che Weber, da sempre contrario ad esse, aveva elaborato una sorta di memorandum da inviare al governo e al parlamento esponendo il proprio pensiero sulla questione della stipulazione di un trattato di pace senza ampliamenti territoriali, ma che poi trattenne lo scritto presso di sé. Era dell’opinione che se si fosse presentata l’occasione di una pace basata sul mantenimento dello status quo, senza annessioni e senza perdite, occorreva approfittarne. Era da sempre convinto che una politica di espansione europea della Germania avrebbe avuto tutte le potenze contro, mentre una politica coloniale su larga scala presupponeva innanzitutto un accordo con l’Inghilterra. Ad una pace negoziata proposta dalla Germania rimasta senza esito positivo, Weber si scagliò contro gli alleati con espressioni pesanti nel “Frankfurter Zeitung” del 18 ottobre 1917: «Al vertice di alcune Potenze nemiche stanno […] vere e proprie canaglie e avventurieri, che parlano di noi solo in termini di offese ingiuriose […] parlano della guerra con le espressioni che userebbe un pugile da circo […] reprimono con violenza il desiderio di pace dei loro popoli e dei popoli loro alleati e da loro violentati»26. Pur non lesinando parole molto dure nei confronti dei nemici, Weber conservava una lucidità critica anche per il ‘fronte interno’. Dall’inizio del 1917 scriveva sul “Frankfurter Zeitung” prendendo più volte posizione sulla politica estera e dall’estate iniziò a pubblicare una serie di riflessioni sui problemi di ordine interno che, di per sé, potevano essere considerati irrilevanti, ma che divenivano significativi con il protrarsi della guerra. Non si poteva chiedere alla popolazione un ulteriore tributo di sangue e di sacrifici per obiettivi che potevano risultare oscuri e senza concedere a tutti, almeno formalmente, di poter influire in egual 25 Ivi, pp. 652-653. Il Tubantia era una nave olandese affondata dai sottomarini tedeschi il 16 marzo 1916 al largo della costa olandese mentre viaggiava da Amsterdam a Buenos Aires. 26 Cit. in W.J. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca. 1890-1920, tr. it., Bologna, il Mulino, 1993, p. 403.
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misura sulla formazione della volontà politica. Questo significava soppressione della burocrazia e del diritto elettorale prussiano delle classi, parlamentarizzazione del governo e democratizzazione di tutte le istituzioni politiche. Weber era polemico nei riguardi degli errori politici accumulati dall’età guglielmina e ne addebitava la responsabilità alla struttura burocratica dello Stato e del governo. I funzionari di professione erano assolutamente inadatti a partecipare alla politica, che è lotta per il potere. Considerava con apprensione le possibili infauste conseguenze del conflitto sulla pace interna e la coesione sociale; la guerra che, come fatto straordinario, aveva visto la fusione del popolo, protraendosi per un tempo eccessivamente lungo avrebbe eroso la resistenza fisica e morale dei tedeschi. Weber temeva che la Germania non fosse più in grado di resistere economicamente, ma soprattutto si preoccupava del consenso e della tenuta della popolazione; si tormentava al pensiero del riemergere della conflittualità politica tipica della vita pubblica tedesca. I fatti gli diedero poi ragione.
L’orgoglio di essere tedesco fino alla fine La sempre più precaria situazione militare e la tattica perseguita dai diversi partiti avvelenavano la lotta politica interna e facevano riemergere i fantasmi della dissoluzione del corpo sociale. Weber con molti altri intellettuali alla fine del 1917 sottoscrisse un appello, lamentando la perdita di quel sentimento unitario che aveva legato i connazionali tra loro all’inizio del conflitto. Con il passare del tempo, la demoralizzazione dell’esercito, la serpeggiante guerra civile, il marasma diffuso e la mancanza di ‘contegno’ – che tanto deplorava – colpirono profondamente Weber che pure continuava a credere nella nazione tedesca e riconosceva al popolo di cui si sentiva parte, in una sorta di proiezione della propria forza morale, qualità ed energie indistruttibili. Il 24 novembre 1918 poteva così scrivere a Friedrich Crusius, professore di filologia classica a Monaco, che gli chiedeva una valutazione sulla situazione del momento e su quella futura, delineando uno scenario particolarmente crudo e realistico: «Al momento la nostra ‘faccia’ è distrutta come mai lo è stata quella di altre nazioni in una situazione simile, né quella di Atene dopo Egospo99 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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tami e Cheronea, né del tutto quella della Francia nel 1871. […] Noi cominciamo ancora una volta daccapo, come dopo il 1648 e il 1807. […] L’autodisciplina alla veridicità impone ovviamente di dirci che il ruolo politico mondiale della Germania è cosa passata; la supremazia anglosassone nel mondo […] è un dato di fatto. Essa è sommamente spiacevole e tuttavia: noi abbiamo sventato qualcosa di molto peggio – la tirannia russa! Nostra rimarrà questa gloria», ma concludendo poi fiducioso: «[…] Centodieci anni fa si dimostrò al mondo che noi – noi soltanto – sapevamo essere una delle grandi nazioni civilizzate anche sotto il dominio straniero. Questo è ciò che facciamo ancora una volta oggi! E allora la storia che già diede a noi – a noi soltanto – una seconda gioventù, ci donerà anche la terza. Io non ne dubito». Fedele fino alla fine alla vocazione per la grandezza della nazione tedesca, il 26 dicembre dello stesso anno scriveva di nuovo a Crusius di prevedere una guerra civile e l’occupazione nemica, sintetizzando in poche frasi il suo sentire più profondo: «Sopporteremo ancora anche questo, per quanto duro e terribile. Perché io credo all’indistruttibilità di questa Germania, e mai l’essere io tedesco mi è parso un dono del cielo così grande come in questi giorni foschi del suo disonore»27. Weber non cedeva alla disperazione continuando a nutrire grande fiducia nella dignità e nella capacità di sacrificio e di riscatto del suo popolo. Il 17 gennaio 1919 pubblicò un intervento sul “Frankfurter Zeitung” sulla questione delle responsabilità di guerra in cui rigettava la ‘confessione’ dei pacifisti tedeschi che considerava un atto indegno di chi non sapeva guardare in faccia la sconfitta28; nel febbraio dello stesso anno nella casa di Weber a Heidelberg venne fondata, per contrastare le tesi sulle colpe di guerra, la Heidelberger Vereinigung für eine Politik des Rechts (Associazione di Heidelberg per una politica del diritto) il cui fine principale era la confutazione del ‘dogma della colpa tedesca’ che dominava all’estero e il contrasto, con ogni mezzo, della cosiddetta Gräuel Kampagne, cioè la campagna nemica sulle atrocità commesse dai tedeschi29. Nel maggio seguente a Weber venne anche chiesto di partecipare, con altri, ad una riunione a Versailles per presentare una memoria tedesca sulla questione della ‘colpa’. Pur non condividendo affatto la tesi delle responsabilità tedesche per aver scatenato la guer27
Marianna Weber, Max Weber. Una biografia, cit., pp. 725-726. Ivi, p. 735. 29 Ivi, pp. 736-737. 28
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ra, scrisse comunque l’introduzione al documento ma con scarsa convinzione perché lo sapeva indirizzato ad ascoltatori mal disposti e lo giudicava di conseguenza inutile. La questione della ‘colpa’ era anche la questione della responsabilità interna per l’incauta gestione del conflitto e per la relativa disfatta; ma nel primo come nel secondo caso Weber dissentiva dall’idea che si potesse trattare di una questione etica. La ‘gestione’ di un passato difficile può essere affidata solo al rispetto della dignità reciproca; la ricerca delle colpe è una perdita di credibilità per vincitori e vinti. La sua posizione risulta manifestata con passione e chiarezza nella conferenza Politik als Beruf tenuta alla fine del 1918, ma pubblicata con notevoli ampliamenti nel 1919. A seguito della sconfitta, mentre era particolarmente vivo il senso della crisi generale del paese e del fallimento della classe dirigente, Weber, pienamente consapevole di ciò, si espresse con forte energia polemica: «Dopo una guerra, anziché andare in cerca del ‘colpevole’, con mentalità da donnicciole […] un atteggiamento virile e austero detta queste parole: “Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta. Questa è cosa fatta; parliamo ora di quali conseguenze bisogna trarne in relazione agli interessi concreti che erano in gioco, e – questo è l’essenziale – in vista della responsabilità di fronte all’avvenire, la quale grava specialmente sul vincitore”. Tutto il resto manca di dignità e si sconta più tardi. […] Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni attizza nuovamente l’indegno accanimento, l’odio e lo sdegno, mentre la guerra, una volta finita, dovrebbe essere sepolta almeno sul piano morale. Ciò è possibile solo mediante l’oggettività e la cavalleria, soprattutto mediante la dignità. Non mai mediante una ‘etica’, la quale in realtà significa mancanza di dignità da entrambe le parti»30. Con questo amaro testamento politico Max Weber si congedava lasciando sul tappeto tensioni e problemi di cui quel nazionalismo che tanto lo aveva catturato aveva serie responsabilità.
30
Cfr. M. Weber, “La politica come professione”, cit., pp. 105-106. Di seguito affermava che la ricerca di colpe ammantata di etica è il risultato di interessi meramente materiali: «Gli interessi del vincitore a trarre il massimo guadagno – morale e materiale –, le speranze del vinto di ricavar qualche vantaggio riconoscendo la propria colpa; se vi è qualcosa di ‘abietto’, è appunto questo, ed è la conseguenza di quel modo di valersi dell’‘etica’ come mezzo per la ‘soperchieria’».
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Georg Simmel*: la guerra come ‘rinascita’
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L’impegno nazionalistico Anche Georg Simmel come Max Weber e molti altri intellettuali tedeschi fu coinvolto nel vortice della passione nazionalistica. Nonostante la ferma condanna della politica di Guglielmo II e il suo habitus mentale incline ad un modo di ragionare e di argomentare alieno da affermazioni drastiche e perentorie e al di fuori di ogni logica binaria, trovò, come gli scrisse con enfasi Bloch, “l’assoluto nelle trincee”1. In questa apparente contraddizione fu probabilmente molto influenzato dall’atteggiamento di impegno patriottico generalizzato nel mondo ac* Georg Simmel (Berlino 1858 – Strasburgo 1918) filosofo e sociologo, figlio di ebrei convertiti al cristianesimo, abbandonò durante la prima Guerra Mondiale il culto evangelico per esigenze di ‘indipendenza spirituale’. Nel 1874 alla morte del padre trovò un tutore in Julius Friedländer, il fondatore delle edizioni musicali Peters, che in seguito lo adottò. Si laureò in filosofia all’Università Humboldt di Berlino, dove approfondì, tra le altre materie, anche la storia dell’arte. Nel 1885 ottenne una cattedra come Privatdozent (docente pagato con le tasse degli studenti) che mantenne fino al 1890. Sebbene molto noto come intellettuale e con i corsi dei suoi insegnamenti molto seguiti, ebbe una carriera accademica particolarmente difficile (ottenne una cattedra a Strasburgo e non a Berlino e solo pochi anni prima di morire) sia per il diffuso antisemitismo delle autorità politiche e dei circoli accademici della Germania guglielmina, sia perché, come ricorda Marianne Weber, moglie di Max, aveva fama di ‘distruttivo’ e gli veniva rimproverato di avere tra i suoi studenti molte donne (fu il primo in Germania ad ammetterle come uditrici alle sue lezioni) e giovani provenienti dall’Europa orientale. Nel 1909 fondò con Max Weber, Werner Sombart e Ferdinand Tönnies la ‘Società tedesca di Sociologia’ di cui fu membro del comitato direttivo, ma dalla quale uscì quattro anni dopo motivando la sua scelta come dovuta ai suoi interessi scientifici che erano ormai totalmente volti alla filosofia. 1
Cit. da L. Perrucchi, “ Nota biografica”, in G. Simmel, Filosofia del denaro, tr. it., Torino, Utet, 1984, p. 57.
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cademico tedesco, mondo al quale teneva molto, pur essendone stato per quasi tutta la sua carriera ai margini fino al conseguimento di una cattedra di filosofia nel 1914 nella periferica Kaiser-Wilhelms Universität di Strasburgo. Trascinato dal clima intellettuale del tempo, si trovò a partecipare in prima persona a quell’incredibile clima di entusiasmo esploso nell’agosto 1914 che si manifestò principalmente come eccitata accettazione della guerra, aspettativa di un futuro grandioso e rinnovata coesione sociale2. In ogni modo, qualsivoglia fossero le sue motivazioni profonde, passato lo choc iniziale, Simmel accettò la guerra come un dato di fatto e condivise l’esigenza diffusa nelle élites culturali non solo tedesche, ma di tutti i paesi coinvolti nelle ostilità, di offrire il proprio impegno intellettuale alla causa nazionale, nella radicata convinzione che per il buon esito del conflitto fosse necessario preservare, in patria come al fronte, uno stato d’animo fiducioso nei riguardi della futura vittoria del proprio paese e disposto al sacrificio personale a favore della collettività nazionale. Probabilmente fu questa la ragione per cui si impegnò anche a tenere conferenze per i soldati. Solo gradualmente si fece strada in lui l’amara consapevolezza di assistere ad un’immane tragedia che aveva portato al “suicidio dell’Europa”, ma, come Weber, non per questo retrocesse dal sostenere la Germania e dall’auspicarne la vittoria. Il comportamento di Simmel all’inizio della prima Guerra Mondiale sembra confermare e conformarsi a quanto aveva scritto anni prima a proposito del rapporto tra sentimenti e conflitto: «Il rapporto reciproco tra gli uomini è spesso comprensibile soltanto per il fatto che un adattamento interno ci educa a quei sentimenti che sono appunto i più opportuni per la situazione data […] che ci procurano le forze richieste dalla realizzazione del compito momentaneo e dalla necessità di paralizzare le tendenze interne contrarie. Così nessuna lotta potrebbe durare a lungo senza essere sorretta da un complesso – sia pure progressivamente crescente – di impulsi psichici»3. La guerra una volta iniziata aveva tra2
Per una ricostruzione del clima sociale tedesco alla notizia dell’inizio della guerra cfr. K. Flasch, Die geistige Mobilmachung. Die deutschen intellektuellen und der erste Weltkrieg, Berlin, Fest Verlag, 2000. 3 Cfr. G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, 1908, tr. it., Sociologia, Milano, Comunità, 1989, p. 228. Simmel in tutto il suo percorso scientifico è stato sensibile agli aspetti psicologici dei fenomeni sociali; aveva studiato psicologia all’Università Humboldt di Berlino con Moritz Lazarus e Heymann Steinthal, fondatori della Völkerpsychologie.
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sformato le disposizioni delle popolazioni, producendo un ‘surriscaldamento’ emotivo che progressivamente aveva mutato rivalità ed ostilità latenti in odio dichiarato. Attraverso il suo pensiero è possibile rendersi conto delle concezioni e delle rappresentazioni della guerra che, almeno inizialmente, erano diffuse in gran parte dell’opinione pubblica tedesca; Simmel ci rappresenta, attraverso un’analisi raffinata e all’interno delle categorie sviluppate nel suo discorso filosofico e sociologico4, quei sentimenti che, sia pure talvolta in modo confuso, definivano lo stato d’animo corrente in Germania e che determinarono una forte coesione in tutta la popolazione. La guerra fin dal suo inizio fu vissuta da molti intellettuali tedeschi, come da gran parte della gente comune, come un’Existenz-kampf; i nemici della Germania erano considerati particolarmente determinati nei loro propositi rivolti non già, come nei conflitti del passato, al conseguimento di singoli e specifici obiettivi di guerra (per esempio, un determinato ampliamento territoriale) quanto piuttosto all’annientamento di quelle particolari potenzialità di sviluppo – materiali e spirituali – tipiche della nazione tedesca che tanto li preoccupavano. Per questo negli scritti sulla guerra Simmel si soffermò ripetutamente ad analizzare la specificità del carattere e dello ‘spirito’ tedesco, specificità che riteneva già di per sé allarmasse le altre potenze europee. Per quanto riguarda il coinvolgimento intellettuale nel sostegno allo sforzo bellico della Germania, va inoltre considerato che la posizione simmeliana è riferibile, almeno in parte, anche ad elementi di valutazione più ampi e più articolati della sola passione nazionalistica. Da un lato c’era senza dubbio la condivisione dei grandi temi sviluppati dalla pubblicistica di guerra tedesca che, sostenendo un’immagine irrealistica della Germania, leggeva il conflitto come evento epocale, che sottolineava il motivo di continuità della guerra del 1914 con quella del 1870 e che esprimeva compiacimento per l’esplosione di una sentita integrazione sociale, scaturita a seguito dell’inizio delle ostilità, dal momento 4
La figura intellettuale di Georg Simmel è particolarmente complessa e i suoi interessi spaziano in diverse discipline. Alessandro Cavalli nella sua “Introduzione” al volume Sociologia di Georg Simmel sostiene che dal punto di vista degli interessi tematici si possono individuare nella sua produzione tre principali nuclei: «Il primo è lo studio della dinamica delle forme della cultura (arte, storia, etica, filosofia, scienza, religione); il secondo è lo studio delle forme di relazione che costituiscono la realtà sociale; il terzo, infine, riguarda il problema dell’individualità e le personalità nelle quali trova espressione»; cfr. A. Cavalli, “Introduzione”, in G. Simmel, Sociologia, cit., p. X.
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che questa integrazione rappresentava un fattore di netta discontinuità nei confronti dell’estrema conflittualità diffusa nel tessuto sociale tedesco nel periodo precedente5. Esempio significativo in tal senso è lo stesso discorso pronunciato il primo agosto 1914 da Guglielmo II alla popolazione che festeggiava la mobilitazione tedesca; in esso sono contenuti un chiaro richiamo e un sentito compiacimento per l’integrazione sociale ritrovata: «Nella battaglia appena cominciata nel mio popolo non vedo più fazioni. Ci sono solo tedeschi»6. Dall’altro lato però Simmel era ben consapevole dell’assoluta novità rappresentata dalla guerra in corso e dallo stravolgimento del contesto europeo che ne sarebbe seguito. Per questo riteneva compito dell’intellettuale in quel tragico, ma possente momento di svolta storica stabilire la verità sull’origine del conflitto, dando voce alla particolarità tedesca, sostenendola anche in prospettiva di sviluppi futuri. Le sue considerazioni in proposito si presentano collegate ad analisi e riflessioni frutto di specifici interessi scientifici e si basano su una diagnosi critica della società moderna e della sua cultura materialistica. Per Simmel, quindi, non si è trattato esclusivamente della partecipazione emotiva al clima diffuso di mobilitazione materiale e spirituale, ma anche della possibilità di sviluppare, su un nuovo banco di prova crudamente oggettivo, idee e valutazioni formulate a seguito della maturazione della sua critica alla modernità, al relativo imperante codice monetario e al conseguente processo del diradarsi del senso7. Nella sua 5 Sull’inclinazione di lungo periodo del popolo tedesco alla violenza nella lotta politica e alla guerra si interrogava, decenni dopo, anche Norbert Elias in I tedeschi. Lotte di potere ed evoluzione dei costumi nei secoli XIX e XX, cit. Attribuiva questa disposizione alle guerre che hanno insanguinato il territorio che divenne poi la Germania, al ritardo nella formazione di uno Stato moderno, al permanere più a lungo che negli altri Stati europei di maggiore rilevanza politica di un ethos aristocratico-militare che favoriva la distanza sociale tra chi comanda e chi obbedisce. Questo ethos penetrò anche negli strati borghesi come attesta, per esempio, l’estensione nella metà dell’Ottocento della pratica della Mensur nell’ambito delle associazioni studentesche. L’insieme di questi fattori favorì un modello di personalità in cui le etero-costrizioni prevalevano sulle auto-costrizioni e si sviluppava la tendenza all’obbedienza acritica e alla devozione. 6 Cit. da S. Giacometti, “Introduzione” a G. Simmel, Sulla guerra (a cura di S. Giacometti), Roma, Armando, 2003, p. 20. 7 Per questi motivi sono limitativi i giudizi di estraneità degli scritti sulla guerra rispetto al corpus della produzione simmeliana; né è corretto riferirsi esclusivamente al clima sociale, politico e culturale del momento, come fa per esempio Patrick Watier nel
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visione la guerra testimoniava in maniera tragica la fine di un’epoca e la possibilità di nuovi promettenti sviluppi.
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Specificità dell’identità tedesca Le riflessioni che Simmel dedicò alle ragioni della prima Guerra Mondiale e all’identità tedesca pur se strettamente connesse ai suoi interessi scientifici risentivano ovviamente della situazione della Germania del tempo e del suo clima ‘spirituale’8. Si situarono in maniera ortodossa all’interno di una tematica cara all’élite intellettuale dominante che considerava questo conflitto come uno scontro tra culture in cui era in gioco la peculiarità della Kultur tedesca contro la Zivilisation occidentale; in base a questo confronto una cittadinanza fondata sull’ethnos e sui legami emotivi si contrapponeva ad un’altra incentrata su valori individualistici e insieme universalistici. Nel riconoscersi nella Kultur, la Germania si identificava in uno stile di vita politica impetuoso e semplice in contrapposizione alla Zivilisation – che si dichiarava pacifica, democratica e parlamentare – della tradizione illuminista. Queste due idee-forza così significative nella storia del pensiero europeo rappresentarono i simboli di una concezione del mondo e della politica ispirata a valori universalistici e cosmopoliti da una parte e dall’altra di un credo nazionalista e bellicista proteso ad affermare la supremazia della Germania e il suo diritto all’egemonia in Europa. Lo scontro ideologico di fondo rivelava inoltre anche la contrapposizione tra il concetto di libertà individualistica, tipicamente espresso dalla democrazia inglese, e la deutsche Freiheit, di natura olistica, in cui la libertà veniva definita dalla relazione che lega ognuno, come parte di un’unità articolata, allo Stato sovrano e che lo vincola ad uno spirito di comunità. La guerra assumeva così i connotati di una prova decisiva tra la concezione idealistica tedesca dello Stato e quella considerata più utilitaristica degli avversari. suo saggio “The War Writings of Georg Simmel”, in «Theory, Culture and Society», 1994, n. 3. 8 L’opera di Simmel, Der Krieg und die geistigen Entscheidungen (La guerra e le decisioni spirituali), edita nel 1917, raccoglie quattro saggi composti a partire dal 1914 e pubblicati in sedi diverse; per la traduzione italiana cfr. G. Simmel, Sulla guerra, cit.
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Simmel propose la sua particolare ‘spiegazione’ di questa polarità; assunto come punto di partenza la presenza in Europa di culture diverse, attraverso alcuni fondamentali passaggi teorici, sostenne la sostanziale alterità della radice culturale e dell’identità tedesca all’interno di una pur comune realtà europea. Sviluppò il discorso ricorrendo alla sua fondamentale distinzione/opposizione tra vita e forma: la vita per esprimersi ha bisogno di assumere una forma, ma ogni forma tende a trasformarsi in una ‘camicia di Nesso’ da cui la vita fugge. Per Simmel un significativo criterio di distinzione tra le diverse culture era la disponibilità di ‘materia’ spirituale non ancora cristallizzata in una forma ben definita9, cioè di una forza vitale non ancora fissata in una struttura stabile10. Ora mentre riscontrava che le identità francesi e inglesi si presentavano già da tempo definite e, quindi, con un profilo netto, l’identità tedesca si mostrava più complessa, priva di forma e perciò potenzialità ancora allo stato puro; per questo motivo, se da una parte la Kultur tedesca era positiva, vitale, anche se non priva di una sana ‘barbarie’, dall’altra questa specificità – cioè questa potenzialità vitale dai molteplici esiti – preoccupava gli avversari e suscitava perplessità nei popoli neutrali. Probabilmente, anche se Simmel non portò fino in fondo la logica della sua diagnosi, questa forza vitale costituiva la pulsione profonda da cui provenivano il nazionalismo e le relative spinte al pangermanismo e al dominio sull’Europa. La costitutiva assenza di una forma strutturata dell’identità del popolo tedesco era tale, secondo Simmel, da assicurare la possibilità di realizzare agevolmente le più diverse potenzialità dell’essere e di liberare tutte le capacità di sviluppo insite in esso; nello stesso tempo però ne aveva determinato una ‘solitudine’ all’interno dei popoli europei. Inoltre mentre le identità francesi e inglesi si erano costruite e si costruivano 9 «Come nel nostro corpo ovunque sono racchiusi pezzettini di protoplasma non ancora sviluppati, così ogni essere individuale e nazionale raccoglie per così dire quantità di materia spirituale che ancora non è diventata cultura, e gli esseri si distinguono in base all’ampiezza di questo materiale e alla sua capacità di svilupparsi in forme culturali»; cfr. G. Simmel, “La dialettica dello spirito tedesco”, in Sulla guerra, cit., p. 76. 10 In questo periodo i tentativi di spiegazione della specificità tedesca furono molteplici ed ognuno in grado di apportare la propria particolare angolazione interpretativa. Per esempio, il teologo Ernst Troeltsch, nella sua analisi dei patrimoni culturali delle nazioni in guerra, individuò differenze strutturali tra il Geist tedesco influenzato dal luteranesimo e le Weltanschauung europee occidentali animate dallo spirito calvinista anglosassone.
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con una modalità prevalentemente autoreferenziale, quella tedesca restava aperta ad investimenti più complessi ed esprimeva esplicitamente la tensione spirituale al suo opposto. Simmel definiva questa apertura come “nostalgia del tedesco verso ciò che lo completa ed è il suo altro”, verso quel contrasto che “redime”11, con un chiaro richiamo al tema dell’ambivalenza, trasversale a tutta la sua opera12. Sempre a proposito del carattere dei tedeschi, fa un’ulteriore particolare affermazione, individuando gli italiani come polo opposto, ma indispensabile al completamento dello spirito tedesco. «L’intera storia dello spirito tedesco prova […] che l’ideale del tedesco è il perfetto tedesco – e contemporaneamente il suo contrario, il suo altro, il suo completamento. Di qui l’ancestrale anelito tedesco verso l’Italia, non soltanto per la bellezza e lo spettacolo delle terre, ma anche per la vita italiana che è il più possibile opposta a quella tedesca e che la maggior parte di noi ha riconosciuto non sebbene, ma proprio per questo come l’unica adatta a sé, quella unicamente possibile per sé. E non si trattava di nature ibride, quanto piuttosto di nature autenticamente profondamente tedesche»13. 11
Cfr. G. Simmel, “La dialettica dello spirito tedesco”, in Sulla guerra, cit., pp. 80
e 74. 12 Simmel considera il concetto di ambivalenza basilare per dar conto del gioco continuo dell’interazione sociale nelle società moderne attraversate da una progressiva dinamica di differenziazione. Nelle sue due opere più complesse, Philosophie des Geldes (1900-1907) e Soziologie (1908), presenta l’ambivalenza rispettivamente come metodo di analisi e come fondamento del secondo dei tre ‘a priori sociologici’: ‘l’essere per sé e l’essere per la società’. La logica ambivalente come metodo di analisi fonda la sua ragion d’essere sulla complessità della società moderna e sull’ampiezza delle articolazioni delle reti di interdipendenza che obbligano ad abbandonare la ricerca dell’essenza dei fenomeni in favore della considerazione delle dinamiche di relazione e di mutuo condizionamento. A sua volta, il secondo ‘a-priori’ sociologico sta a significare che gli individui nella loro interazione rispondono simultaneamente a due esigenze tra loro incompatibili e imprescindibili: da una parte la percezione di sé come membro e prodotto della società, con i conseguenti bisogni di identificazione, di appartenenza e di riconoscimento, dall’altra la consapevolezza della propria individualità, dell’unicità della propria esperienza e la ricerca di differenziazione e di separazione. 13 Cfr. G. Simmel, “La dialettica dello spirito tedesco”, in Sulla guerra, cit., pp. 73-74. In queste sue affermazioni è probabile che Simmel fosse influenzato dal suo interesse culturale e dal suo amore per l’Italia; giovane studente all’Università Humboldt di Berlino studiò l’italiano del Trecento, che portò come materia secondaria all’esame di laurea, viaggiò spesso nel nostro paese e durante la guerra rilesse in italiano con il figlio Hans la Divina Commedia e la Vita Nuova di Dante. In una sua lettera ad Edmund Husserl definì Firenze la sua patria spirituale. Cit. da L. Perrucchi, “Nota biografica”, in op. cit., p. 51.
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Questa differenza costitutiva del Geist tedesco in quanto profondamente segnato dall’aspirazione ad essere anche altro da sé veniva da Simmel confermata con riferimento all’idea di Europa e ad un futuro progetto di una nuova Europa: «[…] proprio perché noi sappiamo che il carattere europeo non fu un’aggiunta esterna a quello tedesco, che questo vivere al di sopra di sé apparteneva alla sua più profonda, più propria vita – per questo noi sappiamo che il carattere tedesco rafforzatosi nei suoi propri confini, divenuto in sé sempre più autentico, in un giorno lontano darà all’idea di Europa una nuova vita»14. Sulla base di queste convinzioni, Georg Simmel fu molto esplicito su un punto fondamentale: il popolo tedesco combatteva non solo per assicurarsi la sopravvivenza fisica ed economica, ma anche – e soprattutto – per tutelare la sua più alta istanza spirituale e ideale. L’Existenzkampf era un conflitto che coinvolgeva quindi sfera materiale e sfera immateriale; come per Max Weber, questo scontro si manifestava apocalittico, cioè in grado di svelare chi avesse il diritto alla sopravvivenza come potenza e, per questo, ad influenzare la storia dell’umanità. Queste condizioni non potevano che rendere particolarmente cruento il conflitto; cosa che in effetti fu.
La teoria simmeliana del conflitto Quando si impegnò a scrivere sulla prima Guerra Mondiale, negli anni tra il 1914 e il 1917, Simmel aveva già maturato e trattato diffusamente il suo fondamentale approccio all’analisi della realtà sociale15; aveva approfondito sotto molteplici angolazioni anche le tematiche del conflitto, sviluppando le argomentazioni – secondo la sua usuale modalità di analisi dei fenomeni sociali come effetti di interrelazione e di interdipendenza – negli scritti di sociologia, in particolare nel capitolo intitolato Der streit (cioè il contrasto) della sua Soziologie. 14
Cfr. G. Simmel, “L’idea Europa”, in Sulla guerra, cit., p. 109.
15 Alessandro Cavalli distingue nell’opera di Simmel tre tipi di sociologia: «Una so-
ciologia generale, o macro-sociologia, rivolta prevalentemente allo studio dei processi di evoluzione e differenziazione sociale, una micro-sociologia che studia le forme di relazione interpersonale nell’ambito di piccoli gruppi e una sociologia pura o formale, ausiliaria rispetto alle prime due, che studia appunto le forme pure di interazione reciproca. […] Tuttavia la sociologia formale resta analiticamente distinta sia dalla macro che dalla micro-sociologia»; cfr. A. Cavalli, “Introduzione”, in op. cit., p. XXII.
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La tesi di fondo elaborata da Simmel è che il conflitto va considerato una forma particolare di sociazione, cioè un modo di comporsi della relazione sociale e dell’interazione; in maniera esplicita affermava che nessun gruppo poteva essere completamente armonico, dal momento che la mancanza di tensione tra elementi in opposizione lo avrebbe privato di forma e, soprattutto, di possibilità di sviluppo. I gruppi necessitano di armonia come di disarmonia, di associazione e di dissociazione e i conflitti al loro interno non possono essere considerati esclusivamente fattori di disgregazione in quanto invece possono costituire elementi per proficue trasformazioni. La formazione e le dinamiche dei gruppi sono il risultato di processi dell’uno e dell’altro tipo: fattori ‘negativi’ e fattori ‘positivi’ contribuiscono a strutturare la forma dei gruppi e le relazioni nei gruppi e tra i gruppi: «Come il cosmo ha bisogno, per avere forma, […] di forze attrattive e di forze repulsive, così anche la società ha bisogno di un qualche rapporto quantitativo tra armonia e disarmonia, tra associazione e concorrenza, tra favore e sfavore, per giungere ad una determinata configurazione. Ma queste divergenze non sono assolutamente semplici elementi sociologici passivi, istanze negative, cosicché la società definitiva, reale, venga ad esistere soltanto in virtù delle altre forze sociali positive […] la società, quale è data, costituisce il risultato di entrambe le categorie di azioni reciproche, che in quanto tali si presentano entrambe come completamente positive»16. Per meglio comprendere la portata e la novità della proposta simmeliana in argomento – e conseguentemente l’autonomia del suo pensiero – va considerato che la cultura politica tedesca del tempo nutriva una profonda avversione per il conflitto, considerato quale elemento che genera solo disgregazione e lacerazione, e presentava una strutturale incapacità a tollerare e gestire i conflitti interni nonché una permanente disponibilità, più o meno latente, ad una leadership forte in grado di comporre le rivalità17. Simmel cercava invece di dimostrare che i conflitti all’interno di un gruppo non necessariamente agiscono in funzione 16
Cfr. G. Simmel, Sociologia, cit., pp. 214-215. Simmel a proposito della necessità di una leadership in grado di comporre la conflittualità interna parla di ‘dispotismo’, presumibilmente intendendo un potere forte e accentrato, e ne collega l’emergere alla situazione bellica. All’indomani della prima Guerra Mondiale l’impatto psicosociale della crisi del sovrano, come figura paterna in grado di comporre i conflitti, portò alcuni autori a parlare di Die vaterlose Gesellschaft, dal titolo di un volume di Paul Federn pubblicato a Vienna nel 1919. 17
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di una sua dissoluzione, anche se questo aspetto non può essere sottovalutato. Per esempio, sosteneva che ostilità limitate entro limiti ben definiti e antagonismi reciproci sostengono, come per un effetto di volta, specifiche organizzazioni sociali e conservano le divisioni tra gruppi e le forme di stratificazione; in altri termini mantengono un determinato assetto della differenziazione sociale e assicurano una certa stabilità. I conflitti inoltre possono, portandoli alla luce e ponendoli all’attenzione delle parti, rimuovere gli elementi disgregatori di un rapporto, facilitando il ristabilimento dell’unità. A livello collettivo il conflitto può fungere da ‘valvola di sicurezza’ quando agisce come sbocco per ostilità che così si manifestano e possono mitigarsi o decantarsi evitando un sovraccarico ‘esplosivo’; questo meccanismo però è possibile solo nel caso in cui alcune istituzioni riescano a gestire le ostilità, per esempio attraverso la sostituzione del bersaglio dell’aggressività, individuando ‘oggetti’ che possono valere da equivalenti funzionali o fornendo mezzi alternativi per la manifestazione delle pulsioni aggressive diffuse nelle collettività. Altro punto rilevante, messo in luce dalle riflessioni simmeliane, riguarda la differenziazione tra conflitto realistico e non realistico, in altri termini tra conflitto come mezzo e conflitto come fine. Sono realistici i conflitti che sorgono a causa dell’impossibilità di soddisfazione di bisogni o di interessi, o per divergenze negli scopi o nei mezzi per raggiungere obiettivi comuni; questi conflitti si manifestano nei confronti del presunto oggetto di frustrazione quando le esigenze sono ben chiare e basate sul calcolo dei vantaggi e degli svantaggi. I conflitti non realistici invece, benché comportino anch’essi un’interazione tra persone o gruppi, non sono il prodotto esclusivo di scopi contrastanti degli antagonisti, ma si generano dal bisogno di almeno uno di essi di scaricare la propria tensione aggressiva. Nel conflitto realistico esistono alternative funzionali per quanto riguarda i mezzi: vie diverse rispetto allo scontro diretto e violento sono sempre a disposizione degli antagonisti, sebbene in maniera subordinata alla valutazione della loro percorribilità ed efficacia. Nei conflitti non realistici invece esistono alternative funzionali solo nei confronti dell’oggetto; in altri termini è possibile esclusivamente una dislocazione dell’aggressività. Le pulsioni conflittuali in questi casi sembrano esprimere un’esigenza, forte e irrefrenabile, di azioni violente, esigenza che si manifesta nei contesti che appaiono più adeguati a facilitarne lo scarico. Dalle pulsioni conflittuali emerge un 112 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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ulteriore effetto di avvitamento che rende più ampio e più intenso il conflitto: «Dove una lotta scaturisce da un puro piacere formale di lottare, che è perciò del tutto impersonale, indifferente in linea di principio sia al contenuto che all’avversario, nel corso di essa crescono tuttavia inevitabilmente l’odio e il furore contro l’avversario come persona, e possibilmente anche l’interesse a un premio della lotta»18. Simmel però non tentò di applicare questa sua suddivisione analitica e le relative logiche conseguenze alla guerra fortemente voluta dal popolo e dai governanti tedeschi; in altri termini non pose in modo chiaro la cruciale domanda se la posizione iniziale della Germania fosse da considerare appartenente alla prima categoria (conflitti realistici) o alla seconda (conflitti irrealistici). Rispondere a questo quesito avrebbe necessitato una presa di distanza dalla guerra e dai sentimenti nazionalistici che il sociologo e filosofo berlinese non riuscì ad assumere fino in fondo, allineandosi invece sulle posizioni di quanti reputavano la guerra in corso scaturita da un conflitto realistico e inevitabile strumento per la sopravvivenza della Germania come grande potenza. L’analisi del conflitto esterno, quello tra gruppi, nazioni e popoli diversi, offrì invece a Simmel solidi strumenti per contribuire alla causa tedesca; fondamentalmente gli suggerì quanto un conflitto con un nemico esterno potesse contribuire a costituire e rafforzare l’identità di un gruppo, a consolidarne la coesione sociale e a preservarne i confini nei confronti dell’ambiente umano circostante. Come Weber, scelse l’esempio fondamentale dello Stato moderno che nacque con la guerra e dalla guerra: «La Francia deve la coscienza della sua comunità nazionale essenzialmente soltanto alla lotta contro gli Inglesi, e i territori spagnoli sono stati trasformati in un unico popolo soltanto dalla guerra contro i Mori». Lo stesso processo fu riscontrabile per gli Stati federali o per le federazioni di Stati: «Gli Stati Uniti hanno avuto bisogno della loro guerra di liberazione, la Svizzera della lotta contro l’Austria, i Paesi Bassi della rivolta contro la Spagna, la Lega achea della lotta contro la Macedonia; e la fondazione del nuovo impero tedesco ne ha fornito un riscontro»19. La guerra in corso quindi non poteva che giovare alla Germania fondando una nuova unità e una più convinta coesione. Le sue analisi e riflessioni lo misero però anche in guardia contro 18 19
Cfr. G. Simmel, Sociologia, cit., p. 227. Ivi, p. 272.
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i rischi che ogni situazione conflittuale può presentare; i gruppi quando sono impegnati in una lotta con un nemico esterno tendono ad una certa intolleranza all’interno: è improbabile che ammettano più di una certa limitata deviazione dall’unanimità. Questa esigenza contiene in sé esiti incerti; l’unanimità e la coesione non sono il risultato automatico dell’esistenza di un nemico. Perciò quando il gruppo è poco coeso e non raggiunge l’unione nemmeno sotto la minaccia di un avversario, è probabile che, come necessità di sopravvivenza, si imponga, per comporre autoritariamente i dissidi, un potere forte. Così come non sempre i conflitti tra i gruppi e le nazioni rendono un gruppo più saldo, a sua volta non sempre un potere accentrato riesce nel compito di assicurare unione e unità; allora quando il grado di consenso interno e di solidarietà è già molto basso l’esito di un conflitto con un nemico esterno può essere l’emergere di processi di disgregazione e di anarchia. La situazione interna della Germania a partire dalla fine del secondo anno di guerra testimoniò ampiamente questo rischio. Teoricamente avveduto e conoscitore profondo dell’animo tedesco, Simmel, che pure talvolta appariva non esente da dubbi sulla presunta ‘necessità’ della guerra in corso20, mosse il suo impegno intellettuale contro il fantasma della dissoluzione interna.
Una Germania ‘nuova’ Gli scritti di Simmel sulla guerra e ‘per’ la guerra, pur se dettati dalle contingenze, presentano un intimo legame con tutta la sua produzione scientifica e per alcuni aspetti ne costituiscono la ripresa e il conseguente approfondimento. Nella prima fase delle riflessioni sul conflitto mondiale, le sue considerazioni sono organicamente connesse all’analisi della mobilitazione spirituale che chiama ad una trasformazione interiore; di fronte alla grandiosità della sfida, la solidarietà sociale basata sullo scambio di reciproche utilità funzionali e intessuta di antagonismi doveva necessariamente compiere un salto di qualità, facendo emergere una nuova 20
Nel 1915 scriveva: «A dispetto di tutta la profondità del pensiero filosoficostorico, che insiste sulla ‘necessità’ di questa guerra, io rimango dell’opinione che senza l’accecamento, la delittuosa leggerezza di pochissimi uomini europei la guerra non sarebbe scoppiata»; cfr. “L’idea Europa”, in Sulla guerra, cit., p. 104.
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concezione di totalità sovraindividuale. Nella particolare contingenza bellica, secondo Simmel, il legame tra individuo e totalità sociale andava molto oltre il concetto di dedizione, per abbracciare non solo i contemporanei, ma per investire anche le generazioni future. Nasceva l’idea di un popolo con un destino comune e un’identità storica da preservare e tramandare. Con soddisfazione vedeva nella guerra in corso un senso diverso da quello che abitualmente avevano avuto le guerre; essa portava ad un profondo rinnovamento interiore, matrice di unità nazionale: «Soltanto con questa guerra» scriveva «anche il nostro popolo finalmente è diventato un’unità, una totalità e come tale varca la soglia dell’altra Germania»21. Con l’emozione e l’ebbrezza di chi assiste all’inizio di una nuova era, di chi avverte il magma incandescente dei processi sociali di novazione, Simmel descrisse la possibile nascita di un ‘uomo nuovo’; dal fuoco e dal ferro della guerra sembrava emergere una diversa spiritualità, un’unione che faceva ben sperare: la Germania, affermava, “è di nuovo gravida di grandi possibilità”22. L’idea di un’epifania del ‘nuovo’ tedesco, capace pur nella diversità degli intenti di vivere in profondità l’appartenenza nazionale e l’identificazione con la nazione tedesca, catturò nel profondo l’interesse e le emozioni di Simmel che pure non nascondeva a se stesso e ai connazionali le devastazione che stava producendo la guerra, con la grave perdita di imprese e di attività, con la distruzione di beni oltre che, naturalmente, di vite, ed era consapevole dell’impoverimento che ne sarebbe conseguito anche in caso di vittoria. Né si faceva molte illusioni sul lascito di odio della guerra che sicuramente avrebbe reso lungo e difficoltoso il periodo della ricostruzione; era altresì ben consapevole che un certo spirito europeo fosse andato decisamente perduto. Considerava però il risvolto positivo della perdita del benessere e della ricchezza: quella perdita avrebbe potuto rappresentare un’occasione importante per cambiare l’andamento della cultura e uscire da ciò che definiva il dilagante ‘mammonismo’, cioè il culto del denaro e del valore esclusivamente pecuniario delle cose23. Riprendendo i temi a 21 Cfr. G. Simmel, “La trasformazione interiore della Germania”, in Sulla guerra, cit., p. 72. 22 Ivi, p. 70. 23 «[…] almeno la tessera del pane simboleggia l’inutilità della ricchezza anche dei più ricchi. Se all’inizio con il risparmiare e lo sprecare, anche laddove ci si riferiva
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cui aveva dedicato l’intensa riflessione delle pagine della Philosophie des Geldes24, evidenziava come, con l’avvento della modernità, l’intera vita dello spirito fosse stata colonizzata dal denaro che si era trasformato in una divinità; l’adorazione del denaro e del risultato, esprimibile in denaro, di ogni iniziativa, al di là di concrete, soggettive, bramosie, aveva fatto compiere un salto di qualità alla penetrazione dei valori monetari. Era, a suo avviso, avvenuta la trasformazione del codice monetario in un’ideologia trasversale che colorava la concezione del mondo, la politica, le istanze etiche ed estetiche. Uno dei mali fondamentali di cui soffriva la cultura moderna era da individuare nell’avanzamento della cultura delle cose e nell’arretramento della cultura delle persone, cioè nello sviluppo di un soffocante materialismo a discapito della vita dello spirito. Allo sviluppo della tecnica, all’aumento del benessere materiale e delle ricchezze non si era affatto accompagnata, secondo Simmel, una proporzionale evoluzione dello spirito umano. Con toni che ricordano i weberiani accenti profetici descriveva il tempo di pace come periodo di rilassatezza, di indulgenza, in cui era andato perduto il senso adamantino dell’essenziale e in cui era possibile far convivere ciò che era interiormente morto con ciò che era vivo, ciò che era sterile con ciò che invece aveva potere germinativo. Anche nel mondo della cultura, come in quello della scienza, la ricchezza e l’indulgenza del tempo di pace avevano generato un’eccedenza di ‘prodotti’, spesso inutili, una specializzazione insensata, un sovraffollamento; da ambito di pochi, pieni di abnegazione e di ‘sacro fuoco’, era diventato terreno di molti, animati da diverse motivazioni, non ultime quelle superficiali della vanità. Se questi, tra gli altri, erano i sintomi di una cultura malata, la guerra rappresentava l’esito acuto della crisi a cui però poteva far seguito la guarigione. Utilizzando una metafora biblica, suggeriva che attraverso un grande movimento di separazione delle tead oggetti determinati, in fondo era inteso sempre solo il loro valore in denaro, adesso questo retrocede completamente; alla fine si dovrà risparmiare di nuovo carne e burro, pane e lana per loro stessi, una svolta che, sembra così facile, rivolta completamente un sentimento di valore economico del mondo culturale coltivato per secoli»; cfr. G. Simmel, “La crisi della cultura”, in Sulla guerra, cit., pp. 94-95. 24 Philosophie des Geldes fu edito in una prima versione nel 1900 e poi in una seconda riveduta e ampliata nel 1907, anche se il primo scritto simmeliano sul denaro (Zur Psychologie des Geldes) risale al 1889. Gli studi di Simmel costituiscono una pietra miliare per l’analisi dei rapporti tra denaro e cultura moderna. Cfr. G. Simmel, Filosofia del denaro, cit.
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nebre dalla luce, dell’essenziale dal superfluo era possibile far emergere dal relativismo e dall’indistinzione del tempo di pace i reali valori della comunità, come decantati, purificati, esaltati dal sacrificio. La guerra, secondo Simmel, fa sopravvivere solo ciò che ha potere germinativo. Il conflitto in atto, con la sua tremenda realtà, si presentava perciò anche come occasione di riconciliazione, nel senso che la vita poteva recuperare se stessa dallo stato di estraniamento a cui era giunta e ricongiungere l’individuo alla totalità; totalità che, come nel caso di Weber, è la Germania. Una Germania però nuova, diversa, di cui Simmel crede di intravedere il profilo. È molto probabile che se avesse avuto la possibilità di vivere le vicende dei decenni a seguire avrebbe radicalmente riorientato i contenuti della sua meditazione sugli esiti della guerra25.
Gli effetti della guerra in Europa Fedele al suo modo di argomentare che lo portava ad illustrare un’ipotesi e a contrapporle subito dopo una contraria Simmel già nel marzo 1915 – data di pubblicazione di Die Idee Europa – si interrogava sui possibili differenti effetti del conflitto. «Questa guerra è un parossismo, una febbre di quelle che talvolta come epidemie si diffondono tra le popolazioni, come la flagellazione medievale, e da cui un giorno queste si svegliano, spossate e senza comprendere come questa follia sia stata possibile – oppure è uno straordinario rivoltare e arare a fondo il terreno europeo, perché ci restituisca sviluppi e valori, la cui natura oggi neppure siamo in grado di presagire?»26. Anche se con molta prudenza e circospezione, Simmel coltivava speranze per il futuro e non perdeva fiducia nelle virtù del popolo tedesco. Tra le due alternative, che lascia comunque aperte, invitava a perseguire la più saggia e ad operare per rendere possibile quella più positiva e ragionevole, anche se si era allora all’oscuro del mondo in cui ci 25 A prescindere da ogni altra considerazione e dal suo essere ebreo, anche a livello familiare il nazismo ebbe effetti tragici sulla sua famiglia. Simmel ebbe due figli: il primo, Hans, dalla moglie Gertrud Kinel, insegnò medicina all’Università di Jena e durante il nazismo emigrò negli Stati Uniti dove morì per i trattamenti subiti nel campo di concentramento di Dachau. Una seconda figlia, Angi, nata da Gertrud Kantorowicz, morì in Palestina, mentre quest’ultima finì i suoi giorni nel campo di Terezín. 26 Cfr. G. Simmel, “L’idea Europa”, in Sulla guerra, cit., p. 103.
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si sarebbe trovati a vivere nel futuro. «Chi può osare decidere oggi dove dobbiamo pagare ogni vittoria presente e futura con la perdita delle persone più care e con il suicidio dei valori esistenti in Europa, se i nostri pronipoti malediranno o benediranno questa catastrofe?»27. Anche se il bilancio della guerra era ancora incerto e oscuro, una perdita secondo Simmel era sicura: «La forma spirituale unitaria, che chiamammo “Europa” è frantumata e non è prevedibile la sua ricostruzione. […] Si tratta di un’autentica perdita»28. Come molti intellettuali del tempo aveva viaggiato in quella che Freud definì una «patria più vasta […] una patria per la quale girare in lungo e in largo senza essere intralciato o sospettato»29. Questa patria dalle bellezze naturali più diversificate, dall’incanto delle foreste nordiche allo splendore della vegetazione mediterranea, questa patria, che era anche un museo, era irrimediabilmente perduta. L’auspicio che potesse un giorno lontano nascere dalle ceneri di un continente messo a ferro e fuoco un’altra Europa, i cui contorni ancora però non si intravedevano, lo spinse a riflettere sull’idea Europa, sui rapporti di questa idea con il senso delle diverse identità nazionali. L’idea Europa – che Simmel contrapponeva all’internazionalismo senza radici – era imprescindibilmente collegabile ad ogni singola vita nazionale; è innegabile, sosteneva, che i grandi uomini europei degli ultimi decenni fossero definiti secondo la loro nazione; Bismarck, Wagner, Tolstoj, Darwin… non erano figure internazionali o cosmopolite, ma tutti erano assolutamente europei. Essi appartenevano ai creatori dell’Europa pur avendo operato attraverso l’accentuazione della specificità nazionale; infatti «l’idea di Europa, che contiene in sé gli umori più puri della crescita spirituale, senza strapparla però alle sue radici natie, come fa l’internazionalismo, non va vincolata logicamente o con specifici contenuti; come le altre “idee”, essa non va dimostrata con cose concrete, ma sperimentata solo in un’intuizione, che naturalmente è solo la ricompensa ai continui sforzi per i valori culturali del passato e del presente»30. L’idea di Europa, eterna ma vulnerabile, al momento si era eclissata; Simmel era dolorosamente consapevole dell’odio generalizzato che 27
Ivi, pp. 104-105. Ibidem. 29 Cfr. S. Freud, op. cit., p. 7. 30 Cfr. G. Simmel, “L’idea Europa”, in Sulla guerra, cit., p. 106. 28
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aveva diviso gli animi degli europei, rinchiudendoli negli steccati dei nazionalismi, della diffidenza, e della reciproca disillusione che la guerra avrebbe lasciato anche tra gli alleati e i popoli neutrali. Se l’odio nei confronti della Germania li aveva uniti, si sarebbero di nuovo divisi, finita l’emergenza bellica; quel senso di comunanza di cui si era goduto era andato fatalmente perduto. Ma, anche nella riflessione sull’Europa ‘frantumata’, Simmel non perse, come Weber, la fiducia nel popolo tedesco e nel suo spirito; estese il senso dell’indistruttibilità, della forza e della capacità di rinascita della Germania all’Europa, che considerava comunque un’idea ‘immortale’. La specificità, quel tendere all’altro da sé che aveva individuato come caratteristica più profonda e veritiera del Geist del suo popolo, avrebbe reso i tedeschi gli eredi naturali e i promotori di una nuova vita per l’Europa. Scriveva convinto: «Proprio perché noi sappiamo che il carattere europeo non fu un’aggiunta esterna a quello tedesco […] per questo noi sappiamo che il carattere tedesco rafforzatosi nei suoi propri confini, divenuto in sé sempre più autentico, in un giorno lontano darà all’idea di Europa una nuova vita, di certo molto più poderosa e più ampia di ogni precedente e le ricorderà la sua immortalità». Come ad un figlio a cui si chiude la casa nel dissenso e nell’amarezza, così la separazione dall’idea di Europa non poteva che essere temporanea dal momento che in lei risiedeva ogni possibilità di sviluppo futuro. Fiducioso e ottimista il sociologo berlinese affermava: «Verrà il giorno in cui la riconciliazione aprirà di nuovo le porte […] e la voce rinata del sangue dice a lui e agli altri che ciò che egli ha conquistato con il proprio lavoro nella separazione e solo per sé era dedicato dalla sua origine più profonda a sfociare nell’antica comunanza nuovamente risorta»31. Come Max Weber, suo connazionale ed amico, Simmel morì senza aver potuto comprendere fino in fondo la tragedia immane che incombeva sull’Europa a seguito di quella guerra da cui aveva sperato la nascita della ‘nuova’ Germania che avrebbe ricomposto l’Europa.
31
Ivi, p. 109.
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Vilfredo Pareto*: lo sguardo di un’altra sociologia
Un osservatore disincantato
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L’italiano Vilfredo Pareto, diversamente dal francese Durkheim e dai tedeschi Simmel e Weber, si pose di fronte agli eventi bellici della * Vilfredo Pareto (Parigi 1848 – Céligny 1923) nacque da una famiglia di origine ligure diventata nobile all’inizio del Diciottesimo secolo. Suo padre, mazziniano, era stato esiliato a Parigi dove aveva sposato Marie Méténier, madre di Vilfredo. La famiglia pochi anni dopo la sua nascita rientrò in Italia dove il giovane Pareto compì gli studi classici e si laureò in ingegneria nel 1869 al Politecnico di Torino, entrando subito nel mondo del lavoro nella Società Anonima Strade Ferrate di Firenze. La sua attività di studioso iniziò presto nell’ambiente fiorentino e nel 1874 divenne membro dell’Accademia dei Georgofili. Tentò la carriera politica prima a livello locale (fu consigliere comunale a San Giovanni Valdarno dal 1877 al 1881) poi nelle elezioni legislative del 1882 nel collegio Pistoia-Prato, ma fu clamorosamente sconfitto. Nel 1890 conobbe Maffeo Pantaleoni, insigne economista di cui divenne e rimase amico fino alla morte. Con Pantaleoni mantenne una fitta corrispondenza che costituisce un’importante testimonianza della sua vita privata e dello sviluppo del suo pensiero scientifico. Nel 1897 inaugurò il primo corso di sociologia all’università di Losanna e nel 1898 ereditò dallo zio Domenico una notevole fortuna che gli permise di vivere senza problemi. Acquistata una villa a Céligny sul lago Leman, tranne brevi viaggi ed alcuni corsi universitari a Parigi e a Bologna, Pareto non si allontanò più dalla Svizzera. Colto da una grave malattia cardiaca iniziò a vivere in maniera ritirata e, a partire dal 1908, lasciò progressivamente il corso di economia politica e mantenne solamente un insegnamento limitato di sociologia; nel 1916, anno di pubblicazione del suo Trattato di sociologia, abbandonò definitivamente l’insegnamento. Nel 1922 Benito Mussolini gli propose di essere suo rappresentante nella Commissione della Società delle Nazioni per la riduzione degli armamenti, incarico che Pareto accettò; quando però l’anno dopo il Consiglio della Società delle Nazioni, su proposta del suo comitato economico, lo nominò esperto di detta Commissione per la riduzione degli armamenti, fu costretto per motivi di salute a rifiutare la nomina. Nel febbraio del 1923 il Consiglio dei Ministri decise di includerlo nella lista da sottoporre al Re per la nomina dei nuovi senatori del Regno d’Italia e con decreto reale fu nominato senatore. Pareto rifiutò di presentare alla Presidenza del Senato i documenti richiesti e la sua nomina non fu convalidata. Nell’agosto dello stesso anno morì a Céligny dove fu sepolto.
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prima Guerra Mondiale in maniera piuttosto distaccata, privo di forti slanci nazionalistici e di annebbianti sentimenti di appartenenza1. Il suo percorso biografico gli fu di aiuto: professore a Losanna dal 1893 come successore alla prestigiosa cattedra di economia politica di Léon Walras, dal dicembre del 1900 risiedeva in Svizzera a Céligny sul lago Leman e, non ricoprendo alcun incarico ufficiale in Italia, si sentiva libero da doveri e da lealtà di natura politica e, perciò, si impegnò a considerare con oggettività critica lo svolgersi impetuoso degli accadimenti. Dal suo volontario esilio, Pareto non si sottrasse però ad una vivace partecipazione intellettuale, scettica e tragica insieme, nei confronti di ciò che giudicava una pratica sanguinosa e inutile che l’umanità periodicamente rinnova: a causa della guerra troppo sangue era scorso nel passato e troppo ne sarebbe stato versato nel futuro. La vasta corrispondenza privata e i numerosi articoli che pubblicò su riviste e giornali testimoniano un’attenzione costante per gli avvenimenti bellici e per i relativi risvolti nella politica interna e nell’economia degli Stati belligeranti. Particolarmente attento alle questioni connesse alla corruzione e all’arricchimento indebito, fu in grado di cogliere gli interessi dei grandi gruppi le cui speculazioni influivano sulle dinamiche belliche, in ciò sollecitato anche dal fatto che gli armamenti avevano acquisito una centralità impensabile nelle guerre del passato2. Pareto per un breve periodo – dal 4 aprile al 18 maggio 1918 – tenne anche un diario, Mon Journal, in cui, tra l’altro, annotava puntigliosamente i discorsi dei politici dei diversi paesi coinvolti nel conflitto armato, analizzandoli e ‘scomponendoli’ al fine di smascherarne le contraddizioni e gli scopi ideologici e manipolatori a cui miravano. Lucido, ironico ed attento osservatore della realtà a lui contemporanea, allo scoppio della prima Guerra Mondiale percepì con acuta consapevolezza che ci si trovava di fronte ad un cambiamento epocale. Il conflitto avrebbe mutato profondamente l’Europa: niente sarebbe stato più come prima. Scriveva il 19 agosto 1914 al suo amico Maffeo 1
Ciò non vuol dire che Pareto, seppure deluso e amareggiato, non amasse l’Italia; sebbene nascondesse questo sentimento sotto le asperità del carattere, ebbe un’attenzione costante e una velata preoccupazione per le vicende tutte del nostro paese. L’interesse per l’Italia si avverte chiaramente non solo in tutta la sua pubblicistica, ma anche nel suo ampio epistolario privato. 2 «Nelle nuove guerre, differentemente dalle passate, dette di movimento, acquistavano gli armamenti gran potere, appetto a quello del valore degli uomini». Cfr. V. Pareto, “Epilogo”, ora in Scritti sociologici, Torino, Utet, 1966, pp. 908-909.
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Pantaleoni: «È strana la combinazione per la quale a un secolo preciso di distanza dal 1814-1815, si ha da capo un rimaneggiamento intero dell’Europa. Coloro che saranno vivi tra una trentina di anni, potranno discernere in tale avvenimento molte cose che noi, per la troppo vicinanza, non vediamo»3. In realtà aveva in proposito idee molto chiare e già in un articolo di poco più di un mese dopo (25 settembre), pubblicato su “Il Giornale d’Italia” dal titolo Conflitto di razze, di religione e di nazioni4, riusciva a discutere lucidamente le ragioni del conflitto in atto e ne prospettava la sua particolare interpretazione. Già da allora alcuni fenomeni gli apparivano di rilevante significato: il contrasto tra germanesimo e slavismo, tra militarismo aristocratico e democrazia sociale e gli interessi particolari e antagonistici dei vari Stati. Su questi punti la sua attenzione restò costante durante tutto il conflitto. Per il primo contrasto, non addentrandosi a discutere cosa si dovesse intendere per slavi e germani, Pareto si limitò a registrare che le collettività che si riconoscevano in tali nomi presentavano orgoglio di stirpe, senso di unità e tendenza all’espansione in modalità non riscontrabili in altri popoli, come per esempio nei latini. Questi caratteri – che sostenevano un forte senso dell’identità collettiva, causa ed effetto dei rispettivi nazionalismi – non potevano non rappresentare fattori in grado di infuocare un conflitto. Per il secondo non gli sfuggiva la forza dei sentimenti della democrazia sociale che assumevano “tutti i caratteri di una religione”5. In entrambi i casi erano in gioco sentimenti collettivi particolarmente vigorosi, in grado di imprimere agli sviluppi della situazione andamenti difficilmente contenibili. Teneva ovviamente conto anche della struttura antagonistica degli interessi; riteneva questi però in linea di massima più governabili dei sentimenti. Rifacendosi al modello teorico che aveva posto alla base della sua sociologia, era convinto che a rendere improbabile il rapido conseguimento di una pace fossero proprio questi ultimi. Scriveva infatti nello stesso articolo: «Se ci fossero solo gli interessi dei vari Stati, un trattato di pace duraturo sarebbe presto possibile, poiché infine tali interessi non sono inconciliabili; ma l’esserci le due prime cagioni di 3
Cfr. V. Pareto, Lettere a Maffeo Pantaleoni. 1890-1923, a cura di Gabriele De Rosa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962, vol. III, p. 174. 4 Ora in V. Pareto, Scritti politici, Torino, Utet, 1974, vol. II, pp. 523-528. 5 Ivi, p. 525.
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guerra toglie speranza che si possa conseguire una pace duratura, se una delle parti contendenti non è interamente fiaccata»6. Pareto comparava, nell’analisi delle motivazioni dei contendenti, fatti della cronaca e fatti storici, adducendo una molteplicità di esempi del passato per rileggere e comprendere gli avvenimenti in corso. Alla luce della sua teoria sociologica – che vedeva i cambiamenti più nella forma che nella sostanza – cercava di ‘distendere’ l’esperienza del presente congiungendo le diverse tipologie di eventi nel tempo per svelare le ‘leve’ e gli andamenti di una perenne dinamica storico-sociale. La propaganda di guerra con le spiegazioni fantasiose dei vari eventi fornite dai protagonisti del conflitto e il turbinio di sentimenti che le muovevano, sfidando la sua curiosità scientifica, lo affascinarono in maniera costante. Enfatizzava volutamente la sua posizione distaccata e critica; in una lettera all’amico Maffeo Pantaleoni del 2 agosto 1915 confessava: «Intanto mi diverto mezzo mondo nel leggere le menzogne della stampa di tutti i belligeranti. Mi faccio tradurre passi dei giornali tedeschi, che le sballano proprio grosse»7.
Sentimenti e ragione Sebbene avvertisse intensamente il flusso delle passioni che prima, durante e dopo la guerra attraversava l’Europa, Pareto non si lasciò travolgere; di fronte alla catastrofe bellica sulle prime rimase attonito, ma si impegnò poi a guardare e a leggere gli accadimenti alla luce della teoria sociologica che aveva elaborato nei suoi studi. Il fine era quello di evitare che sacrifici e sofferenze fossero offesi da inganni, menzogne e false speranze; inoltre l’immane conflitto aveva dilatato e ingigantito i fenomeni sociali; analizzarli, scomporli, comprenderli era un compito impegnativo, ma irrinunciabile per uno studioso della società. Con il passare del tempo anche l’esperienza bellica gli parve sempre più comprensibile attraverso gli strumenti della sua teoria, il cui nucleo essenziale era rappresentato dalla ricerca del perché l’agire individuale e di gruppo si pone in gran parte al di fuori dalle coordinate razionali; i comportamenti dei paesi in guerra e il corteo delle ideologie e dei discorsi 6 7
Ivi, p. 527. Cfr. V. Pareto, Lettere a Maffeo Pantaleoni. 1890-1923, cit., vol. III, p. 180.
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al riguardo gli offrirono un banco di prova empirico particolarmente ampio e confacente per corroborare i suoi modelli8. Pareto non solo era dubbioso sul trionfo della ragione, ma ne ammetteva francamente la debolezza. Era convinto infatti che per riformare un’organizzazione sociale occorresse cominciare con il riformare il carattere degli uomini: eventuali cambiamenti strutturali imposti dall’alto sarebbero approdati nel nulla9; a sua volta però il carattere degli uomini può essere trasformato solo attraverso quelle che definiva in senso ampio ‘passioni religiose’10, da fattori cioè non strettamente razionali. Nella sua teoria dell’azione definiva ‘logiche’ le azioni che collegano razionalmente il fine con i mezzi sia da un punto di vista soggettivo che da un punto di vista oggettivo. Tutti i rimanenti tipi di azioni sono da considerare ‘non logici’, il che non vuol dire irrazionali11. Dà infatti una definizione molto ristretta dell’azione logica che circoscrive alle 8
Tutta la teoria sociologica paretiana era stata strutturata infatti intorno alla ricerca dei fondamenti ‘non logici’ dell’agire individuale e collettivo. Come è noto, Pareto iniziò il suo percorso scientifico come economista e solo in seguito divenne sociologo; l’insoddisfazione e l’insofferenza per l’incapacità dei modelli matematici dell’economia di dar conto dell’agire sociale lo spinsero verso l’indagine del ‘non logico’ che pose poi a fondamento della sua sociologia. Il riorientamento del suo pensiero fu complesso e laborioso e richiese molto tempo. Se la prima trattazione sistematica della sua teoria dell’azione sociale fu pubblicata nel 1910 nella «Rivista italiana di sociologia» con il titolo Le azioni non logiche (ora in V. Pareto, Scritti sociologici, cit.), già nel 1897 scriveva a Maffeo Pantaleoni: «Il principio della mia sociologia sta appunto nel separare le azioni logiche dalle non logiche e nel vedere che per il più degli uomini la seconda categoria è di gran lunga maggiore della prima». Cfr. V. Pareto, Lettere a Maffeo Pantaleoni. 1890-1923, cit., vol. II, p. 73. 9 «È inutile, e quasi ridicolo» scriveva «sperare la salute da una rivoluzione parlamentare; il mutamento deve seguire nel paese prima che nel parlamento e nel governo»; cfr. V. Pareto, Cronache italiane, Brescia, Morcelliana, 1965, p. 514. 10 Pareto utilizza l’aggettivo ‘religioso’ in riferimento ai sentimenti delle masse con un senso più vicino a quello durkheimiano di ‘sacro sociale’ che come attributo di un senso di appartenenza ad una religione istituzionalizzata. I sentimenti ‘religiosi’ sono radicati nei residui della seconda classe (‘persistenza degli aggregati’) che esprimono il senso dell’appartenenza e dell’identificazione e il bisogno di sostenere i legami che danno significato alla vita. Secondo Pareto le ‘maree di sentimenti religiosi’, che periodicamente si rinvigoriscono, rinnovano la società e rinsaldano i legami collettivi. 11 «[…] daremo il nome di ‘azioni logiche’ alle azioni che uniscono logicamente le azioni al fine, non solo rispetto al soggetto che compie le azioni, ma anche rispetto a coloro che hanno cognizioni più estese […] Le altre azioni saranno dette ‘non-logiche’, il che non vuol punto significare illogiche»; cfr. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, rist., Milano, Comunità, 1964, § 150.
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espressioni di saperi scientifici o tecnici, mentre le azioni ‘non logiche’ sono una tipologia molto ampia e hanno un ruolo preminente nella statica e nella dinamica sociale. Pareto analizzò a fondo una ricca gamma di azioni ‘non-logiche’ trovando in esse una parte costante, da lui definita ‘residui’, che considerava espressione di pulsioni interiori; divise i residui in sei principali classi, a loro volta suddivise in sottoclassi, e ne classificò le manifestazioni principali12. Fondamentalmente considerava le due prime classi di residui – l’‘istinto delle combinazioni’ e la ‘persistenza degli aggregati’ – come maggiormente influenti sulla società. I residui della prima classe presiedono al mutamento sociale e ad ogni forma di innovazione, mentre quelli della seconda assicurano stabilità e cementano i legami. I residui oltre che fondare l’agire (il carattere dei residui determina il carattere dell’azione) si manifestano anche in elaborazioni concettuali (le cosiddette derivazioni) esplicative e giustificative che costituiscono la componente più variabile dell’agire sociale. Con il termine ‘derivazione’ Pareto intendeva ogni mascheramento pseudo-logico, ogni razionalizzazione a posteriori degli impulsi primari che inducono ad agire13. Nella categoria delle derivazioni faceva rientrare un ampio e diversificato insieme di elaborazioni intellettuali, dalle semplici motivazioni individuali ai costrutti ideologici più complessi. Infatti per vivere in società e per produrre senso gli uomini devono razionalizzare i sentimenti che li legano e gli impulsi che li muovono: il non razionale delle istanze più intime e più profonde deve essere razionalizzato per divenire linguaggio sociale. D’altronde, secondo Pareto, il pensiero razionale rappresenta un settore molto limitato nella vasta produzione delle idee; una società totalmente sottoposta ad esso è un’utopia: «Con buona pace degli umanitari e dei positivisti, una società determinata esclusivamente dalla “ragione” non esiste e non può esistere»14. Quanto più forti sono i sentimenti alla base dell’azione, in special 12
L’elencazione delle sei classi di residui prevede: a) istinto delle combinazioni, b) persistenza degli aggregati, c) bisogno di manifestare con atti esterni i sentimenti, d) residui in relazione colla socialità, e) integrità dell’individuo e delle sue dipendenze, f) residuo sessuale. Ivi, § 888. 13 «L’uomo ha una tendenza così forte ad aggiungere svolgimenti logici ad azioni non-logiche, che tutto gli serve di pretesto per dedicarsi a questa diletta operazione»; ivi, p. 180. 14 Ivi, § 2143.
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modo collettiva, tanto più imponente diventa la produzione ideologica di supporto, frutto di una logica affettiva. Inoltre le derivazioni, pur non superando una verifica sperimentale, non di meno sostengono e rinforzano l’agire, mentre l’accettazione e l’efficacia di una teoria non dipendono dal fatto che la teoria sia rispondente a criteri di verifica scientifica, ma piuttosto dall’essere in sintonia con i sentimenti prevalenti in un dato momento storico. La logica dei sentimenti segue principi espressivi, giustificativi e persuasivi e non dimostrativi come quelli della scienza; deve la sua efficacia a meccanismi argomentativi che fanno leva sulle emozioni. Essa si giova di contesti in cui domina l’indeterminatezza concettuale e terminologica, purché le parole siano in grado di evocare sentimenti piacevoli. Pareto parla di “semplice musica di vocaboli”15, rifacendosi più o meno coscientemente alla capacità della musica di ‘parlare’ il linguaggio delle emozioni. La consapevolezza sociologica, saldamente radicata in lui, della potenza degli elementi non razionali nella dinamica sociale ha agito da filtro nei riguardi delle passioni nazionalistiche e ci ha consegnato lo sguardo di un’altra sociologia su un conflitto che aveva catturato le menti e i cuori di molti intellettuali europei, ‘narcotizzandoli’.
La guerra e la sociologia paretiana La guerra offrì a Pareto un ulteriore banco di verifica della sua critica al pensiero sociologico dell’Ottocento, assolutamente inadatto ad assurgere allo status di un sapere scientifico, basato sul metodo logicosperimentale che definiva secondo il modello delle scienze naturali. Era un censore rigoroso delle teorizzazioni di Saint-Simon, Comte, Spencer e di altri che, in sintonia con una concezione diffusa negli europei del Diciannovesimo secolo, a sua volta avvalorata da una congiuntura favorevole, sostenevano l’ideologia del progresso e la possibilità di un crescente ‘miglioramento’ della società proiettando nel futuro i propri desideri e le proprie speranze di pace. In un paragrafo del Trattato Pareto illustra chiaramente il suo pensiero: «Dal mezzo del secolo XIX in poi, i popoli dell’Europa occidentale hanno veduto le loro condizioni di vita progressivamente migliorare, e tale miglioramento è stato in 15
Ivi, § 1686.
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notevole modo maggiore sul finire del secolo XIX e sul principiare del secolo XX. Ciò ha generato un aggregato di sentimenti e di concetti gradevoli, i quali poi si sono cristallizzati intorno a noccioli che hanno avuto i nomi di Progresso e di Democrazia»16. Pareto era convinto che molti studiosi di scienze sociali non fossero immuni dallo ‘spirito del tempo’ e introducessero nelle proprie teorie elementi di distorsione derivanti da valori e aspettative; l’oggetto principale delle sue critiche era rappresentato dalla tendenza a sviluppare deduttivamente il discorso, partendo da principi non strettamente riconducibili a quella che lui definiva la realtà ‘empirico-sperimentale’. Così rimproverava al darwinismo sociale il fatto di ipotizzare funzioni arbitrarie per giustificare l’esistenza di determinate forme sociali e al materialismo storico di mutare l’interdipendenza tra fattori economici e altri fattori sociali in una relazione di causa ed effetto e di generalizzare la lotta di classe come chiave interpretativa di ogni aspetto del mutamento sociale. Agli autori ‘pacifisti’ rivolgeva l’appunto di sostenere una tesi non scientificamente fondata secondo la quale, attraverso un processo di razionalizzazione crescente della vita collettiva e con il conseguente cambiamento delle disposizioni dei cittadini, il conflitto interno e la guerra tra gli Stati, quali mezzi di sopravvivenza e di imposizione della propria volontà, sarebbero stati sostituiti con strumenti di negoziazione pacifici. In particolar modo Pareto criticava Comte e il suo progetto di porre i fondamenti di una nuova morale positiva e di migliorare la società sulla base di una sociologia a suo dire ‘scientifica’ che lo aveva indotto a studiare la società non per quello che è, ma per quello che dovrebbe essere17. Ma l’appunto era estensibile a molti altri; Pareto sosteneva che se un autore «è pacifista come lo Spencer, i […] fatti gli dimostrano che il limite al quale si avvicinano le società umane è quello della pace universale; se egli è democratico, nessun dubbio che il limite starà nel trionfo completo della democrazia, se è collettivista nel trionfo del collettivismo; e via di seguito»18. L’ideologia del progresso forgiava 16
Ivi, § 1077.
17 «La sociologia è stata sinora quasi sempre esposta dogmaticamente. Non t’ingan-
ni il nome di positiva appioppata da Comte alla sua filosofia: la sua Sociologia è dogmatica quanto il Discours sur l’histoire universelle del Bossuet. Sono religioni diverse, ma pur sempre religioni»; ivi, § 6. 18 Ivi, § 832.
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nuove divinità: Democrazia, Libertà, Ragione; proprio a queste entità astratte erano state collegate la scomparsa o la diminuzione della guerra da autori come Spencer, Comte e altri. Questa connessione non solo non convinceva Pareto, ma costituiva il bersaglio di durissime critiche e di ironici commenti. Seppure consapevole, come Durkheim, Simmel e Weber, che il pensiero occidentale era da tempo soggetto ad un processo di progressiva razionalizzazione, Pareto intendeva sottolineare che, comunque, le persone, cittadini e governanti, nel loro concreto agire rimanevano frequentemente preda dei propri sentimenti. Così, nelle sue riflessioni, la guerra e i fenomeni bellici furono visti come ennesima prova della fallacia delle teorie sociologiche basate su una sopravalutazione del ruolo della ragione. Riferendosi alle dichiarazioni prebelliche dei governanti e degli strateghi tedeschi affermava: «Chi non vede, in tale operare, prima e dopo la dichiarazione di guerra, i segni di sentimenti analoghi ai religiosi, che prevalgono sulle combinazioni della realtà? La fede nei ‘destini della Germania’, nella sua potenza militare e di ‘organizzazione’, il dogma dei suoi ‘vitali interessi’ annebbiarono la vista dei suoi governanti»19. A suo parere, sia nei governanti della Triplice Intesa sia in quelli dell’Alleanza i ‘residui’ dominavano i processi decisionali; anche i russi favoleggiavano sull’illimitata potenza della ‘Santa Russia’. Durante tutti gli anni di guerra i toni non cambiarono a prescindere dai diversi bersagli dei suoi strali; quando nel dicembre del 1917 il presidente Wilson annunciò al Congresso l’entrata in guerra degli Stati Uniti, ne commentò il discorso con la solita aspra ironia, affermando che sembrava «una predica di quelle in uso al tempo delle crociate. Santa Democrazia è stata sostituita a Gesù Cristo. Intanto, i futuri miliardari si fregano le mani, come i loro antenati usurai che compravano per un tozzo di pane i beni del nobile signore che partiva per la Terra Santa»20. Il presidente americano con i suoi discorsi ‘ispirati’ richiamava l’attenzione critica e sarcastica di Pareto; quando in occasione della celebrazione del primo anniversario dell’entrata in guerra degli Stati Uniti in un discorso a Baltimora aveva affermato con enfasi che «i giovani americani possono essere sicuri, come mai lo sono stati, che questa causa [per cui l’America combatte] è la loro e se si dovesse perderla, il 19
Cfr. V. Pareto, “Epilogo”, ora in Scritti sociologici, cit., p. 896.
20 Cfr. V. Pareto, Lettera a Pansini in Carteggi paretiani, 1892-1923, a cura di G. De
Rosa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1964, p. 138.
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posto e la missione della loro nazione nel mondo sarebbero, con essa, perduti», commentò: «Forse che Wilson è il profeta del Signore il cui eterno consiglio ha stabilito le missioni dei popoli?». Proseguendo nella sua disamina critica si chiedeva retoricamente: «Qual è la ‘missione’ della grande nazione americana?»; procedeva poi affermando che «per qualche tempo è potuto sembrare che la ‘missione’ degli Stati Uniti di America fosse di difendere l’intero continente americano contro l’intervento europeo. Pare ora che a codesta prima missione se ne aggiunga una seconda: quella di gestire l’Europa, di far sì che in essa regni l’ordine, la giustizia, il diritto e la democrazia». Più avanti, dando prova di intuito politico, affermava: «C’è anche molta incertezza sulla missione in Asia. Qui anche il Giappone si ritiene investito di una missione e non si può escludere che le due missioni abbiano ad entrare in conflitto. Non c’è cosa più contenziosa delle missioni. Sotto questo aspetto forse soltanto gli ‘interessi vitali’ gli si possono paragonare»21. La destrutturazione dei discorsi di guerra operata da Pareto si sviluppava, come già detto, sulla base della sua teoria delle ‘derivazioni’ secondo l’abituale criterio: quello di analizzare enunciati, teorie, prese di posizione, esortazioni sulla base del loro rapporto con la realtà sperimentale. Anche nei discorsi di guerra riscontrava non solo la loro scarsa aderenza con la realtà dei fatti, ma la poca rilevanza che questa carenza – e talvolta persino la stessa mancanza di logica nelle asserzioni – aveva nel determinare l’efficacia di una dichiarazione. D’altronde la sua teoria delle derivazioni gli aveva reso ben chiaro che verità scientifica, utilità sociale ed efficacia di una teoria non necessariamente coincidono. Agli inizi della guerra in un articolo su “Il Giornale d’Italia” il 15 ottobre 1914 aveva espresso il suo parere in proposito, parere che non mutò mai negli anni. «Abbiamo avuto bei e ben fondati ragionamenti per dimostrare il delitto compiuto dalla Germania col violare la neutralità del Belgio […] tali ragionamenti furono respinti da chi già era amico della Germania o anche solo inclinava ad essere benevolo; ma furono accolti da chi era nemico della Germania o solo inclinava ad esservi ostile»22. Secondo Pareto, se i ragionamenti fossero realmente indipendenti dai sentimenti sarebbe stato possibile trovare qualcuno dei 21
Cfr. V. Pareto, “Diario”, ora in Scritti politici, cit., vol. II, pp. 826-27. Cfr. V. Pareto, Invece di provvedere artiglierie ed armi si spendevano i quattrini per fini elettorali, ma gli Stati si difendono con le armi non con le chiacchiere, ivi, p. 529. 22
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tedeschi in grado di deplorare l’invasione del Belgio e similmente qualche francese che l’approvasse; ma ciò non era accaduto perché è l’accordo con i propri pregiudizi e sentimenti che fa accogliere una teoria, una spiegazione, e ci convince della sua ‘bontà’ e non viceversa. E in tempo di guerra, o almeno all’inizio di una guerra, quando la violenza delle passioni non fa avvertire ancora la stanchezza e il peso dei morti, i sentimenti delle popolazioni sono omogenei ed esigono risposte ad essi coerenti. In questi casi solo la logica affettiva produce enunciazioni efficaci.
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La brama di potere Pareto analizzò in profondità i fatti bellici della prima Guerra Mondiale e ne ricercò le cause profonde nella rottura del precedente equilibrio politico europeo; considerava questa rottura il risultato della pressione dei sentimenti e degli interessi delle popolazioni che si erano strutturati in maniera così antagonistica da travolgere le spinte e i desideri di pace, comunque presenti nei diversi paesi. Lo scontro feroce per la supremazia che si scatenò vanificò di colpo le aspettative di quanti erano convinti che il consolidarsi delle esigenze del diritto e dei sentimenti di giustizia23 e il rafforzamento dei legami di solidarietà internazionale promossi, in prima ma non in unica istanza, dalle lotte del proletariato si sarebbero opposti a conflitti considerati ‘fratricidi’. Altrettanto era consapevole della fallacia dell’opinione di quanti contavano su una logica di deterrenza, cioè sul fatto che la potenza distruttiva raggiunta dagli armamenti ne avrebbe impedito l’effettivo utilizzo. Pareto constatava che, a fronte della forza dei nazionalismi, le inclinazioni pacifiche si dissolsero o quasi; era un buon conoscitore dei 23 Pareto, riflettendo sulle teorie che sostenevano la “pace mercé il diritto” non escludeva che, almeno in parte, alcune norme del diritto internazionale fossero «imposte dall’opinione pubblica e dai sentimenti esistenti negli individui» e che la guerra sarebbe diventata più rara qualora «una forza internazionale imponesse un certo diritto» nello stesso modo in cui «gli atti di violenza scemano in una società in cui la forza della pubblica podestà s’impone ai singoli individui». Nello stesso paragrafo concludeva però che alla verifica dei fatti i diversi popoli «detti civili occupano territori colla forza, e non è possibile trovare alcun altro motivo per giustificare le presenti ripartizioni territoriali». Cfr. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., § 1508.
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movimenti per la pace e delle dottrine pacifiste del tempo24 e vi rintracciava la presenza di un pluralismo ideologico che, a suo avviso, li indeboliva. Ad un pacifismo filosofico puro, espressione di alcune personalità di spicco ma di scarsa rilevanza nell’azione, se ne affiancavano uno filosofico-politico tipico dei socialisti, marxisti e non, uno esclusivamente politico, espresso dai repubblicani mazziniani, uno cristiano a cui si rifacevano i tolstoiani e infine alcune più generiche correnti umanitarie. Interpretava il transito dai sentimenti pacifisti e internazionalisti a quelli nazionalistici che tendevano a trasformarsi in forza storica in base alla sua teoria dei residui; riteneva il pacifismo sostenuto da un nucleo di “sentimenti di benevolenza e di amore per gli altri uomini” unitamente ai sensi di repulsione e di paura per le eventuali sofferenze proprie e altrui25. Ora un simile attaccamento affettivo si trovava, secondo Pareto, anche alla base dei sentimenti patriottici e questo permetteva di spiegare perché certi pacifisti italiani predicavano la guerra in nome della pace26. A tal proposito scriveva: «Davano il nome di pacifismo ad un aggregato di sentimenti di benevolenza e di amore per gli altri uomini e lo stesso aggregato di sentimenti esiste nel patriottismo. Sono dunque due nomi per una stessa cosa e non si avverte la contraddizione nel seguire i vari impulsi di quest’unico aggregato di sentimenti»27. Le prime avvisaglie di un significativo mutamento nell’equilibrio ‘emotivo’ delle popolazioni, dalla pace alla guerra, furono da lui rilevate a proposito della guerra di Libia del 1911-12 e discusse attraverso una ricostruzione puntuale delle motivazioni e delle giustificazioni (cioè delle ‘derivazioni’) addotte a sostegno di azioni intraprese; queste costruzioni ideologiche accompagnarono e in un certo senso ‘oscuraro24
Nel 1889 partecipò a Roma ad un Congresso per la pace presentando una relazione (“Dell’Unione doganale od altri sistemi di rapporti commerciali fra le nazioni come mezzo inteso a migliorare le relazioni politiche ed a renderle pacifiche”) in cui si fece sostenitore di quel pacifismo economico che rintracciava nel protezionismo un agente primario di conflittualità tra gli Stati in quanto idoneo a spingere gli stessi a procacciarsi con la conquista quanto non ottenuto con il commercio. La sua relazione è ora in V. Pareto, Scritti politici, cit., vol. I. 25 Radicati nei residui della IV classe, ‘residui in relazione colla socialità’. Cfr. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., §§ 1139-1140-1143. Per un approfondimento della teoria dei residui nella lettura paretiana del pacifismo, cfr. M.L. Maniscalco, “Pareto e l’ideologia pacifista”, in AA.VV., Vilfredo Pareto a sessant’anni dalla morte, Roma, Istituto Luigi Sturzo, 1985. 26 Cfr. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., § 1705. 27 Ivi, § 1078, nota 2.
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no’ la metamorfosi che stavano subendo i sentimenti pacifisti e internazionalisti degli italiani. La guerra di Libia presentò fin da subito la natura di una guerra di conquista con alla base sentimenti e interessi espansionistici coloniali, ma fu promossa e razionalizzata attraverso una serie di argomentazioni tese a soddisfare il sentimento di giustizia della popolazione italiana e il desiderio di ottenere riparazioni per le offese subite, vere o presunte che fossero. Queste esigenze di riparazione e di giustizia, che si esprimevano attraverso modalità razionalizzate, si mescolavano e prendevano vigore dal risvegliarsi di quei sentimenti patriottici che Pareto definiva ‘religiosi’. Sotto la pressione di diverse esigenze, scriveva, «la religiosità di un gran numero di socialisti, di liberali, di umanitari, Tolstoiani, ecc., assunse la forma di religiosità nazionalista e belligera»28. Un insieme complesso di fattori contribuì ad attribuire alla conquista del territorio libico il significato alto di una missione civilizzatrice; in altri termini anche quella guerra coloniale italiana fu considerata una ‘guerra di cultura’. Pareto, sia pure con un background culturale diverso e con fini differenti, recepisce, come gli altri grandi della sociologia europea del tempo, la tendenza a considerare i conflitti armati anche come scontro di culture. Per le cause della prima Guerra Mondiale aveva chiaramente indicato il desiderio di affermazione e di supremazia che muoveva popoli e governanti, cioè quelle pulsioni egemoniche che, non filtrate da un freudiano principio di realtà, possono divenire fonte di contrasto insanabile e condurre popoli antagonisti alla reciproca rovina. Come accennato, individuava quali componenti essenziali della situazione conflittuale allora in atto tre elementi: a) una forza espansionistica di determinate popolazioni e la conseguente rivalità tra di esse; b) una disparità nelle ‘religioni’, cioè nelle visioni del mondo e nelle ideologie; c) una differenza nelle istituzioni politiche. In altri termini si trattava dei contrasti: a) tra germanesimo e slavismo espresso da popolazioni con grande forza di espansione; b) tra militarismo aristocratico ed emergente democrazia sociale. Ad essi si mescolavano gli interessi particolari di diversi Stati e di gruppi di speculatori i quali, con manovre economiche e finanziarie ed inducendo per il loro tornaconto una corsa agli armamenti, anche se
28
Ivi, § 1704.
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non direttamente interessati alla guerra, di fatto l’avevano preparata29. Giudicava questa situazione grave; nel complesso e incandescente panorama politico del tempo nemmeno gli interessi sarebbero stati agevolmente negoziabili, ma, combinandosi con alcune classi di residui, avrebbero a loro volta posto in conflitto la plutocrazia militare tedesca, la burocrazia zarista e la plutocrazia demagogica anglo-francese. Il potenziale contrasto tra società in cui dominavano gli impulsi degli ‘istinti delle combinazioni’ (residui della classe prima), e che quindi erano più dinamiche, orientate al mutamento e inclini al compromesso, e società più fideistiche e conservatrici per una predominanza di residui della seconda classe (‘persistenza degli aggregati’) in determinate condizioni, cioè sotto la pressione di spinte egemoniche, avrebbe sicuramente portato ad un conflitto armato. Interessi e sentimenti formavano allora una miscela esplosiva, per cui il pangermanesimo e il panslavismo non avrebbero potuto convivere, così come sarebbe accaduto per due ‘Inghilterre’, nel caso la Germania avesse ancora potuto sviluppare la sua potenza navale30. Se si fosse trattato solo di interessi, essendo essi per natura conciliabili e transigenti, forse sarebbe stato possibile evitare la guerra e risolvere i problemi e i conflitti negoziando; gli antagonismi però avevano coinvolto anche i residui, infuocando i sentimenti che a loro volta si esprimevano in potenti espressioni ideologiche o, nei suoi termini, in un’ampia produzione di derivazioni. La situazione era resa ad esito unico – il conflitto armato – dalle caratteristiche degli attori in campo; Pareto era infatti convinto che solo popoli deboli e con scarse pulsioni all’autoaffermazione, sebbene avversari, possono convivere senza confliggere; al contrario gli antagonismi tra popoli ansiosi di estendere il proprio dominio e non solo disposti ad accettare i sacrifici di una guerra, ma desiderosi di farli, non sono facilmente componibili e tendono quasi inevitabilmente verso un’escalation conflittuale. Nel caso della prima Guerra Mondiale spinte nazionalistiche e compulsivi desideri di supremazia svolsero un ruolo di primo pia29 Ivi, § 2254. Pareto nota in questo paragrafo il particolare interesse degli speculatori per le «piccole guerre coloniali alle quali possono soprintendere senza alcun loro pericolo». 30 «Allo stesso modo che non c’era posto nella regione mediterranea per Roma e per Cartagine, non c’è ora luogo, nel mondo, per due Germanie, per due Russie, per due Britannie». Cfr. V. Pareto, “ La guerra e i suoi principali fattori sociologici”, ora in Scritti sociologici, cit., p. 693.
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no nell’influenzare il corso degli eventi; dietro i grandi ideali del secolo Ventesimo Pareto individuava una brama di dominio incontenibile che spingeva alcuni popoli in modo particolare ad estendere oltre misura la propria egemonia. Era quindi inevitabile che la conflittualità sfociasse in uno scontro armato duro, complicato e prolungato, prodromico di un dopoguerra problematico, gravido di esiti negativi e rischiosi, in un certo senso fautori e matrice di nuovi conflitti. Su questo ultimo punto torneremo in seguito e restando al problema della lunghezza del conflitto, Pareto, forte anche del suo sapere economico e contrariamente all’opinione di quanti pensavano che la guerra sarebbe stata di breve durata, anche a causa della distruttività dei mezzi bellici, ebbe fin dall’inizio l’acuta consapevolezza che le risorse materiali di cui erano dotate le parti in conflitto erano tali da sostenere a lungo lo sforzo bellico, conferendo ai belligeranti grande autonomia e notevole possibilità di resistenza. Inoltre, a dare ulteriore forza al conflitto, venivano schierati in campo apparati ideologici che assumevano la fisionomia di ‘religioni’: erano cioè fortemente interiorizzati, avvertiti e dotati di una grande efficacia rispetto alla mobilitazione per l’azione. I tedeschi, notava in un articolo del 1915, in questo senso erano speciali, i migliori: brandivano la fede nella Kultur come un’arma. Credevano fermamente che, come popolo ‘eletto’ e ‘superiore’, fossero chiamati ad una missione epocale; l’enfasi ‘religiosa’ nella propria vocazione al dominio del mondo rendeva l’avversario non solo un nemico, ma anche l’«eretico scomunicato, il miscredente, il bestemmiatore della santa Kultur, reo di lesa maestà divina». Per questo motivo occorreva «non solo vincerlo, bensì anche spegnerlo, distruggerlo»31. Anche siffatta concezione dell’avversario contribuiva a rendere il conflitto particolarmente cruento e difficile da risolvere. A Pareto, attento e sensibile osservatore dei movimenti della coscienza collettiva, oggi si direbbe dell’opinione pubblica, non sfuggiva agli inizi del conflitto la differenza tra la Germania che poteva contare su un forte senso del dovere e sulla dedizione della propria popolazione e i suoi avversari dei paesi democratici, i cui i cittadini avvertivano con minore intensità i sentimenti patriottici. Questo avrebbe potuto rappresentare un elemento di debolezza dei popoli democratici e dei relativi governanti, più dipendenti questi ultimi dai voleri dei cittadini, più in31
Ivi, p. 700.
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teressati a questioni di politica interna che di politica estera, più inclini agli interessi e alla demagogia, meno convinti nella vis ideologica e più attratti dalle sirene dell’umanitarismo. Ciononostante reputava la plutocrazia demagogica, essenzialmente anglo-americana, coinvolgente e capace di una grande energia espansiva, anche se restava per lo più legata alla dinamica degli interessi32. Pareto era convinto che un impiego efficace della forza armata presupponesse una fede: la capacità di ricorrere in maniera adeguata alla forza è legata alla potenza di un ideale. Senza il valore energetico dei miti, la forza diventa violenza cieca, mera distruzione, e non potenza generatrice di nuovi assetti sociali. Così i due blocchi si misuravano anche in base ai loro ideali: «La verità, la giustizia, il diritto, l’umanità, la democrazia pugnavano per l’Intesa e i suoi alleati; gli interessi vitali, la grande patria tedesca, l’organizzazione, coll’aiuto di un’entità teologica […], cioè del buon vecchio Dio tedesco, stavano dalla parte degli imperi centrali»33. Considerando questi ideali mere elaborazioni ideologiche utilizzate per mobilitare le popolazioni e a fronte di crudeltà e violazioni da entrambi le parti, tra la corruzione e il degrado morale delle plutocrazie demagogiche delle potenze alleate e la brama smodata di potere essenzialmente tedesca Pareto non prese mai posizione, rivolgendo ad entrambi i contendenti le sue pungenti critiche.
I problemi del dopoguerra Riguardo alle sue opinioni sul dopoguerra, Pareto formulava due scenari entrambi poco rassicuranti: nel caso in cui la guerra si fosse conclusa con tutte le forze alla pari non si sarebbe potuto parlare di pace, ma di una tregua più o meno stabile. Anche nel caso di una vittoria schiacciante di una delle due parti, la pace non sarebbe stata stabile. 32
Secondo Pareto nelle democrazie occidentali ci si affidava all’arte delle speculazioni finanziarie, alle clientele e a una catena di favoritismi. L’uso pervasivo della leva finanziaria e della demagogia strutturava una morfologia sociale e politica di ‘nuovo’ feudalesimo. Il tema della plutocrazia demagogica è ricorrente in molti scritti di Pareto ed entra tra le componenti principali del suo modello della trasformazione della democrazia. Cfr. V. Pareto, “Trasformazione della democrazia”, ora in Scritti sociologici, cit. 33 Cfr. V. Pareto, “Epilogo”, ora in Scritti sociologici, cit., p. 924.
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Qualora avessero vinto gli Alleati, si chiedeva Pareto, come sarebbe stato possibile ridurre la Germania all’impotenza? Non avrebbero potuto la sofferenza e l’umiliazione della sconfitta rafforzare i sentimenti patriottici e nutrire un sentimento di rivalsa? E, qualora avessero vinto gli Imperi Centrali, come sarebbe stato possibile pensare di distruggere l’immenso impero britannico, impedendo una sua ricomposizione e una strategia di rivincita resa quanto più efficace e temibile dal possibile concorso degli Stati Uniti d’America? In termini diversi potremmo dire che era consapevole che il ciclo della violenza sostenuto dai nazionalismi e dalle rivalità di potenza non si era ancora concluso e che avrebbe potuto dar luogo ad altri sanguinosi confronti. L’acume politico di Pareto aveva reso profetico il suo pessimismo. A guerra finita osservava che tra le due plutocrazie, quella militare e quella demagogica, aveva prevalso quest’ultima; assumendo la forma di imperialismo si disponeva a governare il mondo secondo i suoi strumenti, sollecitando interessi e sentimenti e ricorrendo alle derivazioni. Contro di essa si ergevano «solo i sentimenti rivoluzionari, che, tra le altre manifestazioni hanno quella detta del Bolscevismo»34. Pareto aveva ben presente la crisi economica35 e sociale che vivevano in special modo alcuni paesi e le relative conseguenze in termini di stratificazione sociale: ‘nuovi ricchi’, nuovi soggetti sociali emergenti, conflittualità diffusa. Il dopoguerra che intravedeva era uno scenario di forte mutamento e di intensa circolazione delle élites. Nella dialettica tra gli Stati ex belligeranti la retorica delle forze del bene e del male, del diritto, della giustizia e della pace lo trovava scettico. In particolare gli apparivano senza senso alcune questioni, come per esempio la definizione di una guerra come ‘giusta’, o ‘non giusta’, esigenza da tempo avvertita nelle popolazioni democratiche. Una volta che desideri e interessi hanno portato i governanti ad intraprendere una guerra, il problema che si pone loro, sosteneva Pareto, è di trovare per essa una giustificazione accettabile agli occhi dell’opinione pubblica. La giustificazione deve essere – o per lo meno apparire – razionale e soprattutto deve porsi in sintonia con i sentimenti prevalenti nella popolazione; ove possibile, la responsabilità del conflitto deve venire ad34
Ivi, pp. 901-902. L’analisi degli aspetti economici della guerra e delle sue conseguenze sono approfondite da Pareto in diversi articoli; per una sintesi operata dallo stesso autore vds. “Cose vecchie e sempre nuove”, ivi, pp. 830-835. 35
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dossata ad altri. Molteplici volte aveva sollevato il ‘velo’, mostrando la fallacia di ogni pretesa di giustificazione per eventi che, come i conflitti armati, trovano la loro ragion d’essere nella brama di dominio e di sopraffazione. «Sogliono i popoli europei ‘giustificare’ le loro conquiste in Asia e in Africa invocando i ‘diritti’ delle razze ‘superiori’ di fronte alle ‘inferiori’; senza che, per dire il vero, si possa capire il senso preciso di questi bei termini; ed osservando che ‘superiori’ e ‘inferiori’ paiono essere semplici pleonasmi per significare più forti e meno forti nelle arti belliche; poiché i Giapponesi che, in altri tempi, stavano coi Cinesi tra le razze ‘inferiori’, ora, dopo e mercé solo la vittoriosa guerra contro i Russi, hanno posto tra le razze ‘superiori’. I fautori di questa teoria si sdegnano quando la Germania vuole volgerla a ‘giustificare’ le imprese per acquistare il dominio sugli altri popoli europei, da essa stimati ‘inferiori’ con quello stesso identico criterio che è della teoria generale di cui si valgono, quando a loro fa comodo, gli altri Stati di Europa»36. Pareto era convinto che l’idea di guerra ‘giusta’ trovasse la sua ragione di esistere solo nelle esigenze di giustificazione e di mobilitazione delle popolazioni; la considerava una derivazione in sintonia con il clima sociale prevalente nei paesi democratici, la cui efficacia era imputabile al fatto di essere stata ben presentata e ben comunicata. Ugualmente criticava fermamente la questione delle colpe della guerra che gratificava i sentimenti dei vincitori e che veniva posta dalle potenze alleate con modalità emotive e demagogiche. Era contrario al fatto che si distribuissero giudizi morali sui popoli e gli Stati in guerra e che si cercassero le responsabilità degli eventi storici37. La ‘barbarie’ tedesca rappresentava una manifestazione ricorrente nella storia, riscontrabile ogni qual volta «le umane belve si dilaniano a vicenda, cioè in tutti i tempi e presso tutti i popoli, poiché ognora e dappertutto gli uomini straziano, uccidono, distruggono i loro simili; e quando ciò non possono fare ad uomini della stessa razza lo fanno ad uomini di razze da loro dette ‘inferiori’, quando non possono inferocire nelle guerre esterne, incrudeliscono nelle civili»38. Pareto ricordava ancora come fosse amaramente divertente il fatto che il generale Sheridan, concittadino 36
Cfr. V. Pareto, “La guerra e i suoi principali fattori sociologici”, in ivi, p. 689. In questa sua posizione Pareto si esprime in maniera opposta a Durkheim che si era impegnato nella ricerca delle responsabilità di chi aveva scatenato la guerra, cioè dei tedeschi. 38 Cfr. V. Pareto, “Epilogo”, cit., p. 921. 37
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di Wilson, il presidente americano fervente umanitario, raccomandasse durante la guerra di secessione di «trattare crudelissimamente le popolazioni civili dei territori nemici»39. La sua critica severa riguardava anche il processo di pace; riteneva la penalizzazione della Germania eccessiva e probabile causa di alimento per il suo spirito di rivincita. Lamentava che gli Alleati, prendendo a pretesto l’affare di Fiume, avevano firmato i trattati in maniera separata escludendo l’Italia e, con un moto di attaccamento al proprio paese, affermava: «Molti incidenti come quelli di Fiume, della Dalmazia, dell’Asia Minore e tanti altri hanno importanza secondaria di fronte alle cause profonde di cui sono la manifestazione; esse sono principalmente l’invidia, la gelosia, il timore che nascono dal sorgere della forza dell’Italia»40. In sintesi, la sociologia della guerra di Vilfredo Pareto conferma attraverso l’attenta lettura degli eventi bellici del secondo decennio del ‘secolo breve’ le sue teorizzazioni circa il fondamentale ruolo svolto dai sentimenti nella storia e nella società. A suscitare il terribile amore per il ‘campo di Marte’ erano state, per usare la sua terminologia, le ‘maree’ dei sentimenti che si muovevano sotto il sottile velo della razionalità e che si erano intrecciate con gli interessi in maniera da fomentare le pulsioni aggressive. La guerra di massa – che rappresentava la novità bellica della prima Guerra Mondiale, resa possibile dall’introduzione della coscrizione obbligatoria e dalla formula della ‘nazione in armi’, per la quale la guerra è guerra di popolo – veniva da lui interpretata come un evento che per scatenarsi ha assoluto bisogno della spinta di forze sociali emozionali che però, una volta sollecitate, sono pressoché ingovernabili. Per questo motivo e in ogni frangente, ai fini del mantenimento della pace gli apparve pericolosa l’esaltazione dei sentimenti patriottici; il processo di sacralizzazione del Noi nazionale per cui la comunità che si riconosce in uno Stato-nazione diventa luogo di identificazione e oggetto di dedizione ‘religiosa’ non solo impone al singolo il sacrificio per la collettività, ma può rendere ciechi anche rispetto ad una visione più ampia e meditata dello stesso bene collettivo. Pareto non era contrario per principio al nazionalismo; rispondendo ad un’inchiesta in argomen39 40
Ivi, p. 922. Cfr. V. Pareto, “Realtà”, ora in Scritti sociologici, cit., p. 836.
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to, lo aveva definito un ideale che riempiva il vuoto che si era creato per l’infiacchirsi delle religioni e per le trasformazioni del socialismo; come “viva e operosa fede”, purché entro certi limiti, poteva contribuire “a fare forti e potenti i popoli”41. Sentimenti e ragione infatti si dovrebbero, a suo parere, bilanciare; purtroppo, ne era amaramente convinto, questo non accade quasi mai e il sentimento nazionalistico, come ogni altra passione, strumentalizza la ragione alle sue esigenze.
41
Cfr. V. Pareto, “Sul nazionalismo”, ora in Scritti politici, cit., vol. II, p. 519.
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