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Italian Pages 367 [348] Year 2022
La Sardegna dal Val Xsecolo d.C.
ILISSO
La Sardegna dal Val Xsecolo d.C. a cura di Sabrina Cisci Rossana Martorelli Giovanni Serreli
!LISSO
CULTURA, STORIA E ARCHEOLOGIA DELLA SARDEGNA collana diretta da Tatiana Cossu La preistoria in Sardegna. Il tempo delle comunità umane dal X al II millennio a.C. Il tempo dei nuraghi. La Sardegna dal XVIII all'VIII secolo a.C. Il tempo dei Fenici. Incontri in Sa rdegna dall'VIII al III secolo a.C. Il tempo dei Romani. La Sardegna dal III secolo a.C. al V secolo d.C. Il tempo dei Vandali e dei Bizantini. La Sardegna dal V al X secolo d.C. Coordinam ento scientifico del presente volume Sabrina Cisci, Rossana Mar torelli, Giovanni Serreli Coordi namento editoriale: Anna Pau
Si ringrazia per la preziosa e imprescindibile collaborazione la Soprintendente Monica Stochino, le fun zionarie Maria Passeroni e Maura Vargiu e tutto il personale della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna; il Soprintendente Bruno Billeci, il funzionario Giuseppe Melosu e tutto il personale della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Sassari e Nuoro; la Direzione Regionale Musei Sardegna, la direttrice Luana Toniolo e la funzionaria Silvia Caracciolo; il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, il di rettore Francesco Muscolino e le funzionarie Federica Doria e Manuela Puddu; il 1useo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna" di Sassari e la direttrice Elisabetta Grassi; il Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano e il direttore Stefano Giuliani; l'Antiquarium Arborense e il direttore Raimondo Zucca; il Museo Archeologico Comunale di Dorgali, il direttore Giuseppe Pisanu e la Cooperativa Ghivine del GRA; il Civico Museo Archeologico "Villa Abbas" di Sardara; il Museo Archeologico di Olbia; il Palazzo Baronale di Sorso; il Museo Civico Archeologico "Villa Leni" di Villacidro; l'area archeologica di Sant'Eulalia e il MUTSEU di Cagliari; la Cooperativa Costava] di Bonorva; il Civico Museo Archeologico "Le Clarisse" di Ozieri e il direttore Giovanni Frau; la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e il segretario Mons. Pasquale Iacobone; il parroco della basilica di Sant'Antioco don Mario Riu; il parroco della chiesa Beata Vergine degli Angeli di Maracalagonis don Elvio Puddu; l'Archivio Storico Diocesano di Cagliari e il direttore don Ferdinando Loddo; Giuseppe Lulleri; Franco Niffoi; Mario Pinna (Taulara srl). Un sentito ringraziamento all'associazione Archeofoto Sardegna e a Nicola Castangia per la generosa e costante collaborazione. Le tavole illustrate n. l, 33 , 56, 84, 167, 180, 187, 296, 299, 307 (Inklink Musei) sono state appositamente realizzate per questo volume e afferiscono all'Archivio Ilisso.
Le carte sono state elaborate dalla Ilisso Edizioni su indicazione e cura degli autori. Referenze fo tografiche: Su concessione Ministero della Cultura: Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna: n. 9-14, 63, 65-67, 78, 86, 93-94, 96, 100-108, 148-154, 157, 164-166, 171-172, 174, 216, 218, 278-279, 300,308; Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Sassari e Nuoro: n. 32, 42, 55, 60, 68, 75, 81, 88-91, 110, 117-1 28, 145, 178, 185-1 86, 234, 270-275; Museo Archeologico Nazionale di Cagliari: n. 69-74, 76-77, 85, 87, 97, 129- 130, 135-1 36, 147, 156, 158-159, 162-163, 168- 169, 173, 175-176, 179,184, 188-189, 191-192, 195196, 198-20 1, 205, 215, 219, 225, 244-245, 248-250, 280, 287-295, 306; Museo Archeologico Etnografico azionale "G.A. Sanna" di Sassari: n. 59, 79, 95, 109, 160-161, 170, 177, 181-183, 190, 193-194, 197, 202204, 206-214, 217,246, 277; Museo Archeologico Nazionale Antiquarium Turritano: n. 98-99; su concessione della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra: n. 226-230, 285-286, 309-315.
Afferiscono all'Archivio Ilisso Edizioni: le n. 22-23, 27, 91,146, 160, 181, 190,197,204,209,235,250, 256258, 267-269 (foto Marco Ceraglia); le n. 30-31, 44, 55, 68, 72-77, 109-110, 148,168,170, 178-179, 182183, 188-189, 19 1-196, 198-199, 202-203, 205-208, 210-212, 239-241, 246,277,292 (foto Pietro Paolo Pinna); le n. 12-1 3, 19, 78, 83, 100,147,220,232,245, 302-304 (foto Pierpaolo Tuveri); le n. 62, 98-99, 101, 117- 128, 145, 172, 185-186, 234, 254-255, 260-261, 270, 272-274, 320 (foto Nelly Dietzel); le n. 111-116, 283-284 (foto icola Monari); le n. 65, 93-94, 103, 105-108, 157,171,225,306,308 (foto Nicola Castangia); le n. 59, 66, 69-71, 79, 85-87, 95, 97, 104, 129-130, 149-154, 156, 158-159, 161-163, 173-177, 184, 200-201, 213-219, 244, 249, 280, 287-291, 293-294 (foto Confinivisivi); le n. 318,321 (foto Donatello Tore). Afferiscono all'Archivio Fotografico PCAS: le n. 226-230, 285-286, 309-315 (foto Nicola Castangia). Afferiscono agli archiv i privati dei fotografi che hanno realizzato le immagini: le n. 10-11, 21 , 24, 26, 35-36, 41 , 61 , 64, 164- 166, 224, 233, 236, 248,251-253,259,263-266,271,275,281-282, 295, 297-298, 30 1,306 (foto 1 icola Castangia); le n. 25, 49, 52 (foto Maurizio Cossu). Quando non diversamente specificato i materiali pubblicati sono stati forniti dagli autori.
Grafi ca e impaginazione: Ilisso Edizioni Stampa: Lito Terrazzi
t vietata ogni ulteriore riproduzione e duplicazione.
© 2022 !LISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it
ISBN 978- 88-6202-420-4
Indice
STORIE 10
La Sardegna dall'Impero Romano al Regno dei Vandali Rossana Martore/li
17
La Sardegna bizantina. Esperienza storica e memoria culturale Salvatore Cosentino
24
Ospitone dux Barbaricinorum Giovanni Serre/i
27
La Sardegna fra l'espansione musulmana e il mondo germanico Luciano Gallinari
32
Continuità e rottura con l'antico Sabrina Cisci
TERRITORIO E INSEDIAMENTI 36
Le città nell'età vandala e bizantina Rossana Martore/li APPROFONDIMENTI
41
Cara/es Rossana Martore/li
46
Nora Sabrina Cisci
50
Le città del Sinus Afer Pier Giorgio Spanu
54
Turris Libisonis Pier Giorgio Spanu
58
L'insediamento rurale Pier Giorgio Spanu APPROFONDIMENTI
66
Dalla villa al complesso cultuale di Comus-Columbaris Sabrina Cisci
72
Le ville marittime di Santa Filitica e Sant'lmbenia Elisabetta Garau
75
La Sardegna nord-occidentale Gianluigi Marras, Daniela Rovina
78
Il riuso dei nuraghi Giuseppe Maisola APPROFONDIMENTO
84
Il nuraghe San Pietro di Torpè Dario D'Orlando
86
Il sistema difensivo Marco Muresu APPROFONDIMENTO
91
Il castrum di Medusa Elisabetta Sanna
94
Le vie di comunicazione Marco Muresu APPROFONDIMENTI
99
La Lex Portus Marco Muresu
100
Relitti del Sud Sardegna Ignazio Sanna
102
Porti, approdi e relitti della costa nord-orientale Gianluigi Marras
LAVORO, PRODUZIONE, ECONOMIA 106
Le attività produttive Anna Luisa Sanna APPROFONDIMENTO
112
La fauna e lo sfruttamento delle risorse animali Elisabetta Grassi
114
Le tecniche di costruzione Sabrina Cisci APPROFONDIMENTO
118
I fittili da costruzione: le tegole Claudia Pinelli
119
·
La produzione artigianale Laura Pinelli APPROFONDIMENTI
130
Le officine di lapicidi Claudia Pinelli
135
La pietra ollare Daniela Rovina
137
Le ceramiche stampigliate Laura Pinel/i
139
L'arte del tessere e la lavorazione del bisso Marcetta Serchisu
142
Le matrici per oggetti in metallo Marco Muresu
144
Il commercio transmarino Marcella· Serchisu APPROFONDIMENTI
149
Le anfore globulari Marcella Serchisu
151
Le lucerne fittili Claudia Pinelli
154
La ceramica invetriata: Forum Ware Daniela Rovina
156
La circolazione monetaria Marco Muresu APPROFONDIMENTO
162
La zecca di Sardegna Marco Muresu
SOCIETÀ E POTERE 168
La società Marco Muresu APPROFONDIMENTI
177
Gli apparati amministrativi: l'archivio di San Giorgio di Sinis Pier Giorgio Spanu
180
Il clero Rossana Martore/li
182
La famiglia Piergiorgio Floris
185
Il ruolo della donna Maria Francesca Piu
LA VITA QUOTIDIANA 190
L'ambiente domestico e la vita quotidiana Anna Luisa Sanna
198
L'alimentazione Laura Pinelli
204
L'abbigliamento e gli ornamenti Sara Tacconi APPROFONDIMENTO
218
Le fibbie di cintura cosiddette "bizantine" Sara Tacconi
222
La vita culturale Antonio Piras APPROFONDIMENTO
230
Il bilinguismo Marcella Serchisu
234
Malattie, epidemie: la cura e l'accoglienza dei malati Valentina Spiga
LA VITA RELIGIOSA 240
La Chiesa sarda fra Occidente e Oriente Rossana Martore/li APPROFONDIMENTO
245
Le cattedrali Rossana Martore/li
248
I grandi santuari martiriali Sabrina Cisci APPROFONDIMENTO
254
La devozione religiosa Rossana Martore/li
258
La cristianizzazione delle campagne Pier Giorgio Spanu APPROFONDIMENTO
264
Santa Maria de Mesumundu Marco Milanese
268
Le chiese rurali di piccole dimensioni Nicoletta Usai
276
I monaci occidentali Rossana Martore/li
279
I monaci orientali Silvia Arba APPROFONDIMENTI
284
Su Crastu de Santu Liseu Alberto Virdis
286
La Tomba del Capo della necropoli di Sant'Andrea Priu Alberto Virdis
294
Gli Ebrei, i Giudeo-Cristiani, i Millenaristi Paolo Benito Serra
300
La liturgia: spazi, arredi e suppellettili Nicoletta Usai APPROFONDIMENTO
312
Il recupero marino presso l'isola di San Macario Nicoletta Usai
LA MORTE E I SUOI RITI 320
I luoghi della sepoltura e i riti funerari Maria Francesca Piu APPROFONDIMENTI
332
La catacomba di Sant'Antioco Rossana Martore/li
338
Le tombe "a camera" Marco Muresu
340
Le mensae funerarie Pier Giorgio Spanu
341
Il corallo nel corredo funebre Maria Francesca Piu
LA SARDEGNA DOPO BISANZIO 344
Dalla Provincia bizantina ai quattro "Giudicati" Giovanni Serre/i
349
Bibliografia
Storie
• La Sardegna dall'Impero Romano al Regno dei Vandali Rossana Martore/li
• La Sardegna bizantina. Esperienza storica e memoria culturale Salvatore Cosentino
• Ospitane dux Barbaricinorum Giovanni Serre/i
• La Sardegna fra l'espansione musulmana e il mondo germanico Luciano Galfinari
• Continuità e rottura con l'antico Sabrina Cisci
1. Ipotesi ricostruttiva di un battistero di età biza ntina (particolare della fig. 33).
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La Sardegna dall'Impero Romano al Regno dei Vandali Rossana Martore/li
La prima metà del V secolo: la fine della Sardegna romana Nei primi cinquanta anni del V secolo la Sardegna era parte dell'Impero Romano, ancora unito, sebbene gravitante attorno a due capitali: Costantinopoli, in Oriente; non più Roma, ma Ravenna, in Occidente. L'Isola non sembra risentire degli eventi che videro impegnata la penisola italica con l'arrivo dei Goti, la Gallia con i Merovingi e la penisola iberica con i Visigoti, tanto che ospitò i clarissimi fuggiti alla vigilia del sacco alariciano di Roma del 410. Piuttosto era proiettata verso l'Africa sia per ragioni politiche che commerciali. Le attestazioni di reperti ceramici di matrice africana confermano flussi di scambio continui, anche se non esclusivi. Prodotti dei mercati iberici (anfore), narbonensi (DESP, Derivées des sigillées paléochrétiennes ovvero ceramiche da tavola derivate dai tipi africani) e orientali (contenitori da trasporto) sono lo specchio di una notevole vitalità economica. All'interno la provincia sarda manteneva una sostanziale continuità nelle forme di vita e nel paesaggio urbano e rurale, dove l'unico sensibile cambiamento si registra nell'acquisizione di una fisionomia cristiana, all'indomani dell'emanazione degli editti di Teodosio I, che sancivano il riconoscimento della nuova fede come unica religione di Stato e l'abolizione del paganesimo. Il Martirologio Geronimiano, il primo calendario universale che registra le ricorrenze celebrate in tutto il mondo cristiano, annovera tre santi venerati in Sardegna prima del 451, anno della sua redazione: Lussorio a Forum Traiani (Fordongianus), Gavino a Turris (Porto Torres) e Simplicio in Sardinia (presumibilmente a Olbia, anche se non è specificato) . L'archeologia ha in buona parte confermato che i tre centri urbani avevano un luogo per il culto dei suddetti martiri nel proprio suburbio. Inoltre, sebbene non menzionati nel Geronimiano, anche Saturnino, Antioco e forse Efisio dovevano godere di venerazione da parte degli abitanti rispettivamente di Carales, Sulci (oggi Sant'Antioco) e Nora.
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La devozione in tutte le sue forme influiva sulla topografia delle antiche città, che per il resto mantenevano l'organizzazione urbanistica dell'epoca precedente, creando nuovi poli di aggregazione per una società che, al contrario, stava mutando idee e consuetudini con l'adesione alla fede cristiana e richiedeva diversi edifici, come la cattedrale (nota con certezza solo a Tharros). Almeno da un secolo l'Isola aveva una struttura diocesana, che faceva perno sul vescovo di Caralis, l'unico attestato a partire dal 314, quando Quintasius figurava tra i firmatari del Concilio di Arles. Tuttavia, se il presule Lucifero fra il 353 e il 356 era appellato metropolita, doveva essere referente almeno di una sede suffraganea, forse istituita in una delle altre città importanti, come Sulci, Turris Libisonis, Olbia. Probabilmente entro la metà del V secolo era già compiuta la suddivisione del territorio sardo nelle cinque diocesi rappresentate al Concilio di Cartagine, nel 484, per i motivi di cui si dirà più avanti, sancendo l'avvenuta cristianizzazione dell'Isola, anche se in maniera assai disomogenea fra zone costiere e interne, fra città e campagna. Alla caduta dell'impero, nel 476, la Sardegna non ne faceva più parte da alcuni anni. Il 455, infatti, segnò probabilmente un salomonico spartiacque politico, ma anche culturale, fra il primo e il secondo cinquantennio del secolo, quando l'Isola entrò definitivamente nell'orbita dell'Africa nella quale rimase per tutta l'età vandala e protobizantina, sino alla fine del VII secolo, prima di transitare nella sfera di Bisanzio con la caduta di Cartagine a opera degli Arabi. Le premesse del cambiamento Nel 429 i Vandali erano sbarcati in Africa dalla penisola iberica e nei dieci anni successivi portarono a termine la conquista della Lybia (nome con cui ·gli scrittori contemporanei designavano il territorio delle province romane della Proconsolare, della Numidia, della Sitifiense, parte della Mauretania e della Cirenaica, corrispondenti alle odierne Tunisia, Algeria, Marocco e Libia) . Cartagine, espugnata nel 439, fu scelta come capitale del nuovo
Regnum Wandalorum et Alanorum, mantenendo il ruolo egemone che ricopriva ormai da secoli. I re estesero le proprie mire espansionistiche alle isole maggiori (Sicilia, Sardegna, Corsica) e minori (Baleari, Malta e le microisole siciliane) del Mediterraneo. L'imperatore Valentiniano III nel 440 metteva in guardia sul rischio di incursioni e saccheggi da parte dei Vandali e dava disposizione di rafforzare le difese urbiche e i porti. Le sue preoccupazioni si rivelarono fondate, perché Genserico attaccò la Sicilia, cingendo Palermo e Lilibeo (odierna Marsala) con un lungo assedio, ma poi - dopo ulteriori incursioni - riuscì a mantenere il dominio solo su quest'ultima, situata sulla punta occidentale della regione, più vicina all'Africa e perciò strategica per la difesa dal mare. Nel 442 il Regno venne riconosciuto e legittimato dall'imperatore Valentiniano III, ma i sovrani non si fermarono e puntarono sulla capitale, Roma. Nel 455 la città fu saccheggiata pesantemente e, anche se non riuscirono a espugnarla, l'evento ha lasciato traccia in tutta la sua drammaticità nelle testimonianze degli storici dell'epoca e dei secoli successivi.
Nella doppia pagina seguente:
2. Tavola cronologica .
L'anno 445, spa rtiacqu e fra due epoche In questo scenario si colloca l'annessione della Sardegna al Regnum Wandalorum et Alanorum. Infatti, è ritenuta ormai plausibile, anche grazie al contributo dell'archeologia, l'ipotesi che al ritorno dal sacco di Roma i Vandali di Genserico abbiano attaccato il porto di Vlbìa (Olbia), incendiando e affondando le navi ormeggiate (fig. 55 ), verosimilmente al fine di interrompere i contatti con Roma. Segnali di una discesa verso Carales, sede politico-amministrativa dell'Isola, si possono forse individuare nell'area di Sant'Efis, presso Orune, un piccolo agglomerato situato sul percorso dell'antica via ab Vlbia fino a Carales, che attraversando l'interno congiungeva Olbia con Carales. Le indagini archeologiche condotte dall'Università di Sassari dal 1992 al 2007 hanno riportato in luce testimonianze monumentali e materiali relative a una sorta di "punto di sosta" per il ristoro dei viandanti (ciotole, anfore e lucerne, insieme a residui di derrate) . I reperti, insieme alle tracce sul terreno, inducono a pensare che il sito abbia subito danni nella metà del V secolo, forse proprio durante il passaggio dei Vandali (figg. 30-31). Probabilmente all'imminente arrivo a Carales si ricollega un salvadanaio ridotto in frammenti, perché caduto nella cisterna aperta nel
pavimento della porticus nell'area archeologica sotto la chiesa di Sant'Eulalia alla Marina. Il piccolo recipiente ceramico conteneva alcune monete di epoca tardoimperiale, ma il dato interessante deriva dal fatto che le più recenti si datano all'impero di Valentiniano III, deceduto nel 455, anno degli eventi ricordati. L'assenza di conii posteriori può essere spiegata solo con il fatto che il manufatto cadde o fu gettato nella cisterna in quegli anni, prima che iniziassero a circolare monete vandale. Pertanto, il salvadanaio potrebbe essere stato "nascosto" intenzionalmente proprio per la volontà di salvare i risparmi in un momento di pericolo. Alla vigilia dell'invasione vandalica sotto Teodosio II l'acquedotto di Nora fu restaurato dal principalis et primor Valerius Euhodius. Lo storico bizantino Procopio di Cesarea, qualche decennio dopo, riferiva nel Bellum Vandalicum che l'imperatore Leone nel 466-467 ordinò a Marcellino, diretto in Africa, di passare per la Sardegna, poiché era sotto i Vandali. Egli riuscì senza difficoltà a travolgere le piccole guarnigioni vandale stanziate nell'Isola, ma si trattò di una riconquista effimera. Il progetto di Genserico si realizzò compiutamente nel 474, quando l'imperatore Zenone riconobbe ai Vandali la sovranità di Baleari, Sicilia e Sardegna, precisando che Roma e Cartagine sarebbero state vincolate a non aggredirsi reciprocamente tramite azioni belliche. La Sardegna vandala e la Sardegna nell'età dei Vandali Il quadro storico, insediativo e culturale della Sardegna nel periodo in cui fu parte del Regno (dalla metà del V secolo al 534) non è ancora del tutto chiaro, sia per la scarsezza e la nebulosità delle fonti, sia per la difficoltà di attribuire con assoluta certezza le evidenze archeologiche inquadrabili in questo arco cronologico a interventi o a espressioni culturali dei Vandali o degli autoctoni. In sintesi, alla domanda "Quanto incisero i Vandali sulla storia e la vita in Sardegna?" non è ancora possibile dare risposte univoche. Si può dire che il paziente lavoro di ricomposizione del mosaico, con le tessere a oggi disponibili, è un work in progress, e pertanto è necessaria molta prudenza. Carales rimase la città egemone dell'Isola, sede del potere rappresentato da un funzionario fedele al sovrano. Si conosce il nome dell'ultimo, Goda, inviato dal re Gelimero per difendere l'Isola e riscuotere
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le imposte, che coniò moneta a suo nome. Più difficile, invece, è capire quale incidenza abbia avuto l'etnia vandala sulla compagine sociale e culturale dell'epoca, ovvero se (e in che misura) abbia modificato la vita dei contemporanei negli usi e costumi della quotidianità, attraverso processi di integrazione e acculturazione. Qualche labile indizio consente di affermare che in Sardegna risiedevano individui di origine germanica, come Othila, in un latifondo presso Fiume Santo, forse a lui assegnato dopo la conquista, come avvenne in Africa; Iesmundus, un fanciullo di nove anni sepolto a Cagliari all'inizio del VI secolo; Patriga (la femina honesta, donna d'alto rango, proprietaria dell'ago crinale trovato in una sepoltura di Cornus, figg. 158-159); o, infine, quel Waldaric, che nel 598 chiedeva a Gregorio Magno di intercedere presso il dux Sardiniae per poter tornare dalla moglie sarda, segno di una società mista, grazie a unioni matrimoniali, ma spia forse anche di provvedimenti di espulsione all'indomani della restauratio bizantina. Diverso è, invece, il caso di Vitula, donna africana forse originaria di Sitifis, che andò in sposa al sardo Giovanni, ricordata dal papa Gregorio in una sua lettera, in quanto aveva fondato un monastero a Carales. Certamente la componente africana fu accresciuta nell'età dei Vandali per l'arrivo dei numerosi esuli, tra cui forse anche l' abus Iscribonissa, citato su un'epigrafe di Cornus. La "questione" religiosa Anche i Vandali, come gli altri popoli "barbarici", si accostarono al Cristianesimo (forse durante il passaggio nella penisola iberica), abbracciando la forma dell'Arianesimo, ritenuta però dalla Chiesa di Roma un'eresia. Tale confessione religiosa divenne uno strumento per affermare l'identità nazionale, con le inevitabili conseguenze di prese di posizione rigide e di azioni fortemente repressive nei confronti degli oppositori. Le fonti contemporanee riferiscono del
populus ille crudelis ac saevus Wandalicae gentis (Vittore Vitense), di barbara sceptra (Sidonio Apollinare), di impuritatibus mostruosis (Salviano); di fuga di sacerdoti e monaci per i crimini dei Vandali in Africa (Possidio) . Non si dispone, invece, di informazioni riguardo alla Sardegna, né per quanto riguarda eventuali persecuzioni, né sulla gestione del potere religioso. Non si conoscono nomi di 14
vescovi ariani, o di altri membri del clero, mentre è noto che le diocesi, almeno nel 484, avevano presuli ortodossi. Al Concilio indetto da Unnerico in quell'anno a Cartagine per discutere su questioni dottrinarie, al quale furono invitati i rappresentanti di tutte le sedi del Regno, anche delle provincie, parteciparono
Lucifer Caralitanus, Martinianus de Foro Traiani, Bonifatius de Senafer, Macarius de Minorica, Vitalis Sulcitanus, Felix de Turribus. Sebbene sia plausibile che le disposizioni in vigore in Africa fossero applicate in tutto il Regno, non si sa se anche in Sardegna le autorità abbiano confiscato le chiese ortodosse per destinarle al culto ariano, lasciando ai cattolici sedi più periferiche. Al tempo dei Vandali Letizia Pani Ermini attribuiva l'entrata nell'Isola del culto per santa Cecilia, sulla base di una teoria, che intravedeva nella passio della martire romana il riflesso di una vicenda avvenuta nell'Africa di questi decenni, riportata da Vittore Vi tense nell' Historia persecutionis vandalicae. Secondo il racconto l'armiere Massimiano e la serva Massima, rifiutate le nozze terrene (così come a Roma l'aristocratica Cecilia e il marito Valeriano) e accostatisi al Cristianesimo, vennero puniti e sottoposti a torture dal loro padrone di nome Vandalo, che ricopriva la carica di millenarius (tribunus a capo di lancieri). La studiosa riteneva che la chiesa dedicata alla santa, in località Santa Gilla, vicina a Cagliari, oggi scomparsa - ma nota nel Medioevo da documenti che fanno riferimento all'esistenza di un Palazzo del vescovo nelle sue vicinanze, suggerendo una funzione di cattedrale - fosse nata in età vandala come sede episcopale ortodossa. Pur non potendo escludere l'uso temporaneo di altre chiese quando l'Isola fu sotto i Vandali, tuttavia al _momento non si hanno prove certe. Suscita un certo interesse la basilichetta di Nora, che per il suo impianto a modulo raccorciato richiama edifici di culto ariano di Ravenna e Roma, ma mancano evidenze stratigrafiche e materiali che permettano di precisare il momento della sua costruzione. Se è certo che fu edificata tra la fine del IV e l'inizio del VI secolo, più difficile è stabilire se risalga alla prima o alla seconda metà del V, due cinquantenni che - come si è potuto constatare - riflettono realtà politiche e culturali ben diverse fra loro. E in ogni caso, anche se la sua costruzione fosse da collocare nell'ultimo periodo, e dunque durante il Regno dei Vandali, bisognerebbe avere indizi sicuri per
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11111
s
(Cagliari)
Regno dei Vandali e degli Alani Regno degli Ostrogoti
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Regno dei Franchi
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Regno dei Visigoti
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3. Carta del Mediterraneo occidentale tra il 456 e il 534 d.C.
attribuirla a una o all'altra comunità religiosa. Al contrario, però, l'Isola svolse un ruolo importante come terra di esilio e di frontiera, ovvero di passaggio verso altre regioni del Mediterraneo, come la penisola italica e la Liguria, in mano ai Goti, ariani sì, ma ben più tolleranti in materia religiosa, e la Gallia merovingia, che con il battesimo del re Clodoveo aveva abbracciato l'ortodossia. Le disposizioni assunte dal Concilio del 484, ribadite dal re Trasamondo agli inizi del VI secolo, resero l'Isola protagonista di due episodi importanti, che lasciarono traccia nella sua storia, non solo religiosa. Numerosi esuli (centinaia secondo le fonti, numero forse da ridimensionare) furono inviati in esilio in Sardegna e da qui passarono in Corsica e nelle regioni sopra ricordate. L'eco doveva essere
giunta anche a Roma, da dove il papa Simmaco (498-514), forse con un occhio di riguardo per la sua origine sarda, «omni anno per Africam vel
Sardiniam ad episcopos qui exilio erant retrusi pecunias et vestes ministrabat» ('ogni anno serviva denaro e vesti ai vescovi che erano stati inviati in esilio in Africa e Sardegna'). Il loro percorso dallo sbarco a Carales sino alle mete finali si può seguire tracciando una mappa dei nuovi culti, di matrice africana, che sembrano ripercorrere le due direttrici stradali principali, l'iter ab Ulbia Karalis, che consentiva di raggiungere le regioni più interne (dove si trovano i culti di Mamiliano e Amatore), e l'iter a Turre Karalis, che congiungeva i poli estremi dell'Isola, Cagliari e Porto Torres, sulla quale si incontrano Sperate, Giusta, Giustina ed Enedina, Giulia. Nella fuga dalla patria i fedeli ortodossi portarono con sé
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i propri santi, che arricchirono il patrimonio devozionale sardo e modificarono il tessuto insediativo, soprattutto nelle campagne, dove sorsero nuovi villaggi attorno a edifici di culto. Tra gli esuli era anche il monaco Fulgenzio, vescovo di Ruspe, che introdusse nell'Isola la disciplina monastica agostiniana, dapprima in una piccola comunità nella sua domus a Carales, poi in un cenobio, che egli stesso volle fondare in un terreno longe a strepitu civitatis, donato dal vescovo di Carales Brumasio, iuxta basilicam sancti Saturnini, dedicata al patrono della città e dei suoi abitanti. La fine del dominio dei Vandali in Sardegna Quando Gelimero divenne re con un colpo di stato, dopo aver deposto Hilderico, apparve al mondo coevo come un tyrannus e Giustiniano sfruttò questo evento per intraprendere una guerra di riconquista. Forse i Vandali non si aspettavano l'invasione, tanto che Gelimero si era preoccupato di sedare un'insurrezione in Sardegna provocata da Goda. Quest'ultimo, infatti, spinto da aspirazioni autonomistiche, si era rifiutato di inviare in Africa il tributo annuale, consistente in beni della natura, prima di tutto il frumento, e aveva chiesto aiuto a Giustiniano, giustificando la sua ribellione con il rifiuto di sottostare alla crudeltà del re vandalo. L'imperatore d'Oriente, nel 533, inviò nell'Isola Eulogio, che, però, al suo arrivo trovò Goda con i segni distintivi della regalità, attraverso i quali pretendeva di farsi riconoscere come sovrano dai Sardi e di trattare con Giustiniano alla pari e non da vassallo. Intanto, l'imperatore - considerando la Sardegna un territorio appetibile, al centro del Mediterraneo - distaccò dall'armata di Belisario che si stava dirigendo in Africa un piccolo contingente di 400 soldati, guidati dall'arconte Cirillo, per inviarlo nell'Isola in aiuto a Goda contro i Vandali. Gelimero, appreso della rivolta di Goda, inviò un contingente di 5000 soldati con 120 navi, guidati da Tzatzon, definito da Procopio il fratello, ma forse solo un collaboratore. Questi, sbarcato nella città sarda, la conquistò, eliminando Goda, mentre Cirillo, saputo dello sbarco dei Vandali, pur essendo ormai in vista dell'Isola, preferì raggiungere Belisario in Africa non avendo truppe sufficienti per portare a termine la missione. Tzazon, richiamato in Africa, morì dopo la battaglia di Tricamari, a 30 km da Cartagine, a metà dicembre dello stesso anno. Probabilmente già nella primavera del 534
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Cirillo ritornò nell'Isola, ma questa volta con un esercito consistente e con la testa di Tzatzon per dimostrare ai Sardi la fine del Regno dei Vandali. La tradizione non è stata benevola con i Vandali, attribuendo loro azioni distruttive e un giudizio decisamente negativo. In realtà, almeno in Sardegna, il V e gli inizi del VI secolo non furono affatto di decadenza. Sebbene, come anticipato, non si disponga ancora di un quadro definito, sulla base dei dati disponibili si può affermare che il rapporto privilegiato con l'Africa portò nell'Isola alcune novità, quali, ad esempio, una ripresa della tecnica costruttiva dell'opus africanum (opera a telaio); saperi tecnici e artigianali "barbarici", che si inserirono nella tradizione romana; merci in quantità maggiore rispetto ad altri porti del Mediterraneo, tanto da far riflettere su un possibile ruolo consapevole della Sardegna nella politica economica del Regno. Tale rapporto privilegiato può essere la causa dell'assenza nei contesti sardi di quest'epoca di monete gote, a fronte di una notevole abbondanza nei coevi ritrovamenti in Italia, Francia e Africa e, al contrario, di una cospicua presenza di coniazioni vandale, come se per lungo tempo l'Isola non avesse avuto contatti diretti con la penisola, ma solo mediati dall'Africa. Inoltre, i due eventi già ricordati apportarono innovazioni in campo religioso, che diedero nuovo impulso all'edilizia ecclesiastica e a forme insediative nel territorio.
Fonti Vita Sancti Aure/ii Augustini, Hipponensis episcopi, autore Possidio Calamensi episcopo, XXVIII, XXX (PL, 32, coll . 33-66); Sancti Salviani Massiliensis presbiteri, De gubernatione Dei acta libri, VII, 22, V, vv. 58-59 (PL, 53, coll. 25-238 ); C.S. Apollinaris Sidonii Carmina (PL, 58, coll. 639-718 ); Notitia provinciarum et civitatum Africae, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores Antiquissimi, 3, 1, pp. 63-64, 71; Vittore di Vita, Storia della persecuzione vandalica in Africa, a cura di S. Costanza, Roma, 1981 : I, 1.1; 4.13; 10.5-14 (Collana di testi patristici, 29 ); Procope de Césarée, La guerre con tre les Vandales, trad. e comm. a cura di D. Roques, Paris, 1990, I, 3-5, 11; Gregorii Magni opera, Registrum epistolarum, I-IV, ed. D. Norberg (Corpus Christianorum Latinorum, CXL, trad. e comm. a cura di V. Recchia: Opere di Gregorio Magno, Lettere, I-IV), Roma, 1996-99, I, 46.
Nota bibliografica Della vasta bibliografia si rinvia a: PERGOLA 1981; PA I ERM INI 1988a; SPANU 2005a; PIETRA 2006; MARTORELLI 2007d; AIELLO 2008; SPANU 2008b; IBBA 2010; MARTORELLI 2010c; MARTORELLI 2011b; D'ORIANO, PIETRA 2013; CALIRI 2015; IBBA 2017; M URESU 2017a; MARTORELLI 2021b.
La Sardegna bizantina. Esperienza storica e memoria culturale Salvatore Cosentino
Il titolo 'di questo contributo non è scontato e necessita di precisazioni a èominciare dall'aggettivo "bizantino". Esso è impiegato comunemente nella storiografia per indicare la parte orientale dell'Impero Romano costituitasi alla morte di Teodosio I, nel 395 che continuò la propria esistenza anche dopo che quella occidentale, nel 476, era venuta meno. Tale aggettivo, benché il suo uso sia stato legittimato dalla prassi storiografica, è fortemente anacronistico laddove si pensi che gli uomini che noi definiamo "bizantini" qualificavano sé stessi come "romani" nella consapevolezza della loro discendenza dall'antica storia dei Cesari. Ma anche l'espressione "Sardegna bizantina" ha bisogno di essere chiarita. Essa è qui impiegata per indicare sinteticamente due periodi della storia isolana, strettamente interrelati l'uno all'altro ma sostanzialmente diversi per quanto attiene all'esercizio del potere politico. Il primo, che si circoscrive tra il VI e la fine dell'VIII secolo, coincide con un'età nella quale la Sardegna è a tutti gli effetti una provincia dell'Impero Bizantino, di cui rappresenta anzi uno dei regionalismi più vivaci nel Mediterraneo occidentale. Il secondo, che potremmo fare coincidere con i secoli IX e X, costituisce invece un'età nella quale se da un lato la corte costantinopolitana è in larga misura incapace di esercitare un diretto controllo sulla nostra regione, dall'altro il suo ceto dirigente continua a riconoscerne la sovranità e a ispirarsi a una concezione della politica che da essa deriva. La memoria dell'impero in questo secondo periodo è viva non solo nella sfera politica, ma anche nelle pratiche sociali e religiose, al punto da rendere legittima storicamente, anche per questi secoli, la definizione di "Sardegna bizantina". Il bizantinismo sperimentato dalla Sardegna si concretizzò pertanto sia in una lunga stagione in cui l'Isola fu parte integrante della Rhomania - cioè l'Impero Bizantino sia in un tenace attaccamento della società isolana a quadri di vita improntati ai modelli della cultura romano-orientale.
Dal VI all'VIII secolo La Sardegna cadde sotto la sovranità dei Vandali tra il 455 e il 460 per restarvi fino alla primavera del 534, quando fu conquistata da un contingente bizantino comandato da un ufficiale di nome Cirillo. L'occupazione era avvenuta dopo che l'esercito imperiale, agli ordini di Belisario, aveva strappato Cartagine e il Nord Africa ai Vandali a seguito di una breve campagna militare, risoltasi sostanzialmente dopo due battaglie campali combattute tra il settembre (Ad Decimum ) e il dicembre (Tricamarum ) del 533. Alcuni aspetti della storia sarda che avevano caratterizzato l'età vandalica trovarono continuità nel nuovo regime. In primo luogo, Giustiniano confermò la gravitazione amministrativa della Sardegna verso la metropoli africana, Cartagine. Con un provvedimento emanato il 14 aprile 534 egli istituì la prefettura al pretorio d'Africa, all'interno della quale la Sardegna costituiva la sua settima provincia, sottoposta all'autorità di un praeses ('governatore') per gli affari civili e di un dux ('comandante') per quelli militari. La struttura degli episcopati, che si era formata in Sardegna tra il IV e il V secolo, non fu rimodellata rispetto a quella conosciuta sotto i Vandali, che nel 484 comprendeva le seguenti sedi: Carales, Sulcis (Sant'Antioco), Forum Traiani (Fordongianus), Senafer (nei pressi dell'antica Cornus ), Turris Libisonis (Porto Torres) . A esse si aggiunsero nel corso del VI secolo anche Fausiana (Olbia) e, molto probabilmente, Tharros. Un terzo elemento che i Romano-orientali ereditarono dalla situazione politico-sociale creatasi nel corso dell'età vandalica fu la presenza in Sardegna di una consistente comunità berbera, chiamata nelle fonti greche con il termine di Barbarikinoi (ovvero 'barbari') . Un gruppo di essi era stato inviato in Sardegna dai sovrani vandali alla fine degli anni Ottanta o Novanta del V secolo e insediato «nei monti vicino a Cagliari», forse su terre precedentemente appartenenti al patrimonio della res privata (cioè il ramo dell'amministrazione tardoromana che gestiva i beni della Corona).
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Furono proprio i Barbaricini il primo grave problema militare che i Bizantini dovettero affrontare in Sardegna. Stando al racconto di uno storico dell'epoca, Procopio di Cesarea, la loro comunità si era accresciuta fino a raggiungere i 3000 individui; erano rimasti un gruppo coeso, che si dedicava al periodico saccheggio delle aree circonvicine al proprio insediamento. Per questo motivo, lo stato maggiore bizantino in Africa pianificò contro di essi, nel 534-535, una campagna militare che, però, è incerto se sia stata effettuata veramente. Il governo imperiale sull'Isola fu temporaneamente sostituito tra il 550 e il 551 da quello degli Ostrogoti, i quali avevano occupato Carales nel contesto della seconda fase della guerra greco-gotica. I Bizantini tentarono invano la riconquista della città nel 551; l'Isola, però, ritornò sotto il loro controllo alla fine del 552 o nel 553, quando la resistenza ostrogota nella penisola era stata finalmente vinta dopo l'uccisione sul campo di battaglia di Totila (in Umbria, giugno o luglio 552 ) e Teia (in Campania, ottobre 552) . Le difficoltà militari sperimentate dall'impero nel controllo della Sardegna durante gli anni Quaranta del VI secolo non concernono solo l'Isola, ma anche il Nord Africa. Per questo motivo, l'imperatore Giustiniano si fece promotore di una vasta opera di costruzione o ricostruzione di fortificazioni in tutto l'impero, che riguardò anche la nostra Isola. Fonti scritte e archeologiche provano l'erezione o il restauro di cinte murarie databili al VI secolo nei principali centri costieri quali Carales, Nora, Sulcis, Tharros e Turris Libisonis. Un sistema di torri o piccoli castelli fu costruito anche nelle aree interne della regione, di cui gli archeologi hanno trovato tracce a Fordongianus (Casteddu Ezzu), Samugheo (castello di Medusa), Ales (castello di Barumele), Senis, Santa Vittoria di Serri, Oschiri, Anela, Sa Paulazza (nei pressi di Olbia). Questa intensa attività di fortificazione serviva anche per ovviare la scarsa numerosità dei reparti militari di stanza sull'Isola, che probabilmente non superava i 600-800 effettivi. La località in cui il dux risiedeva è incerta; essa forse variava a seconda della contingenza militare, potendosi questo alto ufficiale spostare da un centro a un altro. In tempi di pace egli risiedeva probabilmente a Carales. La città, sede del praeses, doveva ospitare anche una piccola squadra di dromones ('navi da guerra') . La Sardegna non sembra sia stata interessata dall'occupazione longobarda di ampie aree dell'Italia, avvenuta tra il 568 e gli anni Settanta
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del VI secolo. In compenso, dall'epistolario di papa Gregorio I (590-604) apprendiamo che nel 594 un leader dei Barbaricini di nome Hospiton aveva abbracciato il Cristianesimo. La sua conversione, almeno nelle aspettative del papa, avrebbe dovuto favorire l'evangelizzazione del suo popolo, per la quale Gregorio aveva inviato in Sardegna due suoi emissari, il vescovo Felice e l'abate Ciriaco. Sempre dall'epistolario gregoriano apprendiamo che contestualmente al movimento di conversione dei Barbaricini, un dux bizantino di nome Zabarda aveva concluso con essi una pace tra la primavera del 593 e l'inverno del 594. Forse a tale episodio è da collegare la redazione di un importante testo epigrafico in latino, trovato a Donori, coevo alla pace, che avrebbe regolato i dazi sulla circolazione delle merci introdotte dal territorio barbaricino nel distretto della città di Carales. Lo stesso epistolario di Gregorio Magno - una collezione di circa 850 lettere, di cui 51 concernenti la Sardegna - costituisce una fonte di grande ricchezza per la conoscenza della società isolana tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo. Uno dei fenomeni che esse mettono in rilievo è il malcostume dei governatori isolani che chiedono ai provinciali un'esazione tributaria superiore a quella stabilita dalla legge. Benché l'autore delle lettere, papa Gregorio I, avesse interesse a difendere il ceto dei proprietari fondiari cui lui stesso apparteneva, enfatizzando l'insostenibilità di certe situazioni, non vi è il minimo dubbio che le sue denunce fossero fondate. Lo stesso pontefice fornisce un'interpretazione lucida di questo malcostume, diffuso in tutto l'Impero Romano già dal IV secolo, in una lettera inviata a Costantina, moglie dell'imperatore Maurizio. Gli iudices (i governatori) pagavano un costo talmente elevato per ottenere i propri incarichi che erano poi costretti a chiedere dazioni ai provinciali. È bene però guardarsi dall'interpretare questo fenomeno in una dinamica di contrapposizione tra funzionario "straniero" e contribuente "locale". In molti casi erano infatti gli stessi membri delle aristocrazie locali che detenevano gli officia a compiere gli abusi. Gli imperatori tardoantichi cercarono in ogni modo di estirpare questo malcostume. Proprio nel corso del pontificato di Gregorio I, l'imperatore Maurizio mandò in Italia un suo alto rappresentante di nome Leontius, con il compito di ispezionare i conti dei governatori non più in servizio. Anche questa volta il papa prese carta e penna e scrisse all'imperatore, chiedendogli però di dimostrare moderazione
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Estensione dell'Impero all'ascesa di Giustiniano Le conquiste di Giustiniano
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4. Carta dell'Impero Bizantino al tempo di Giustiniano (VI sec. d.C.).
nell'indagine contro gli inquisiti. Non erano inoltre solo i governatori civili a compiere misfatti, ma anche gli ufficiali militari e persino i vescovi, come dimostrano chiaramente le lettere di Gregorio I. Nella cultura del tempo l'idea che la posizione gerarchica di un individuo gli consentisse lo sfruttamento dei suoi sottoposti per il proprio arricchimento era largamente diffusa in tutti i regimi politici. Nel corso del VII secolo la Sardegna, insieme alla Sicilia, accrebbe notevolmente la propria importanza strategica per l'Impero Bizantino nello scacchiere mediterraneo. In una prospettiva di lunga durata ciò fu determinato dall'essere la regione una retrovia fondamentale nella lotta contro gli eserciti arabo-musulmani che dagli anni Quaranta del VII secolo diedero vita alla conquista del Nord Africa. I legami con la capitale imperiale appaiono stretti. La documentazione concernente la Sardegna testimonia che l'Isola fu investita appieno dalle dispute accesesi attorno alla teologia monotelita, sostenuta dell'imperatore Eraclio (610-641) e, poi, dal suo successore, Costante II (641-668), ovvero la professione secondo la quale in Cristo avrebbero operato due nature distinte, umana e divina, ma un'unica volontà - thelema - divina.
Sappiamo che un certo Anastasio, uno dei discepoli di Massimo il Confessore (580 ca.662), quest'ultimo il teologo più rappresentativo dell'opposizione al monotelismo, scrisse una lunga lettera dogmatica a un gruppo di monaci greci che risiedeva a Carales. Senza dubbio, in Sardegna come altrove nell'impero, le autorità civili si impegnarono a propagandare la teologia imperiale (cioè il monotelismo). Ciò è provato dalla professione di fede del vescovo di Sulcis, Euthalios, scritta verosimilmente dopo il Concilio di Costantinopoli del 680-681 che aveva ristabilito l'ortodossia. In essa il vescovo ritratta una sua precedente confessione che, a suo dire, gli era stata estorta in malafede da Giovanni, exceptor ('stenografo') del duca di Sardegna. Fu proprio nel corso del VII secolo che in Sardegna la diffusione del greco nell'apparato militare, nelle élite, in limitati settori dell'episcopato e del mondo monastico si accrebbe. È probabile che il veicolo principale di tale acculturazione linguistica siano state le componenti militari e dell'amministrazione imperiale. Un riflesso del fenomeno si coglie nel gruppo di 78 sigilli rinvenuti a partire dal 1988 attorno alla chiesa di San Giorgio (comune di
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nBULA (CastelsardofAmpurias?)
•
TURRIS L/8/SON/S (Porto Torresi
•CASTRO (Oschiri)
CAPUTTYRSI • (Buddusò?)
BOSA
•
cqRNUS
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• FORUM TRA/ANI SORABILE
ANNUAGl}AS (Fordongianus} (Nurach1?}
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• VALENTIA
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(Nuragus)
•NEAPOLIS • AOUAE CALIDAE
•
eBIORA (Serri}
NEAPOLITANORUM (Sardara}
• METALLA (Fluminimaggiore)
•
Sedi Episcopali
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Cabras), di cui 68 hanno legenda greca (o greco-latina), 10 legenda latina e 4 in arabo. Sono databili a una cronologia che si estende dalla seconda metà del VI alla fine del VII o inizi dell'VIII secolo e riguardano, quelli greci, per lo più funzionari di corte, ufficiali militari o portatori di dignità. L'importanza dell'esercito sardo nei secoli VII e VIII fu considerevole. Si ricordi che la sollevazione militare che scoppiò in Sicilia, a seguito dell'assassinio dell'imperatore Costante II a Siracusa (ottobre 668 o 669), venne sedata da truppe che provenivano dal Ravennate, dall'Africa e dalla Sardegna. Nella lettera di ratifica dell'imperatore Giustiniano II (685-695, 711-715) degli atti del concilio costantinopolitano del 680-681 inviata a papa Agatone nel 687, troviamo menzionati i principali corpi regionali dell'esercito bizantino di quel periodo: l'imperiale Obsequium, l' exercitus Orientalis, il Thracianus,
l'Armeniacus e l' exercitus Africanus seu de Sardinia. In quest'ultimo caso, è significativo che 5. Carta delle Sedi Episcopali della Sardegna in periodo bizantino.
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per definire l'esercito africano si sia sentita la necessità di aggiungere "o di Sardegna': In effetti, nel 687, circa un decennio prima che Cartagine
venisse conquistata dagli Arabi, le truppe di stanza sull'Isola dovevano rappresentare una componente molto importante del dispiegamento militare nella prefettura africana. Non è dunque un caso che, prima della caduta di Cartagine, nel 698, fosse già attiva in Sardegna una zecca, che restò operativa fin verso gli anni Trenta dell'VIII secolo. L'apertura di una zecca sull'Isola dovette essere pianificata dal governo costantinopolitano per provvedere a un'adeguata disponibilità finanziaria per il pagamento delle truppe di stanza in essa. D'altra parte, disponiamo di diverse testimonianze di doukes della Sardegna databili tra il VII e la prima metà dell'VIII secolo. Si pensi, inoltre, ai cospicui ritrovamenti archeologici recuperati in diversi siti dell'Isola di spade, cuspidi di lancia, cinturoni, coltelli, fibbie e morsi di cavallo. Tutto ciò fa pensare a una significativa importanza della componente militare nella società sarda del periodo, una componente non necessariamente rilevante sotto il profilo della quantità, cioè del numero dei soldati, ma senza dubbio influente nella determinazione delle egemonie sociali. La conquista araba di Cartagine (698) rese più vulnerabile la Sardegna perché da qual momento essa, come la Sicilia, si trovò direttamente esposta allo spazio di espansione mediterranea dell'Islam. È controverso se un primo raid contro Olbia fosse compiuto già nel 66.5/6. È certo, invece, che nella prima metà dell'VIII secolo la flotta omayyade lanciò diversi attacchi contro l'Isola partendo dalla Tunisia (nel 703-4, 705-6, 707-8, 710-11, 732,735,752). Secondo lo storico musulmano Ibn al-Athir questa continua pressione militare si concluse con l'assoggettamento degli abitanti della Sardegna al pagamento della tassa di capitazione, la jizya, l'imposta che ogni suddito ebreo o cristiano pagava alle autorità musulmane. La veridicità di questa tradizione è però incerta. Tra la seconda metà del VII e la prima metà dell'VIII secolo non furono però solo i Musulmani ad attaccare l'Isola. Una celebre epigrafe trionfale proveniente da Porto Torres fornisce testimonianza che anche i Longobardi compirono una spedizione contro l'Isola in quel torno di tempo (fig. 146). La datazione dell'epigrafe è. controversa. Pur non potendosi escludere il periodo tra il 663 e il 668, o quello tra il 672 e il 685, diversi indizi farebbero propendere per una datazione compresa tra il 735 e il 744. Si tratta di un testo che celebra un successo militare ottenuto da un doux di nome Konstantinos "contro i tiranni longobardi e altri barbari". La sua prosa è intrisa di motivi topici
dell'ideologia imperiale romano-orientale. Rilevante in essa è il tema della vittoria imperiale, che viene evocata quasi fosse un talismano magico che protegge contro i nemici. Ma non è solo questo componimento di alta cultura politica a segnalare gli stretti legami tra la Sardegna e Costantinopoli tra la seconda metà del VII e la prima metà dell'VIII secolo. L'attenzione del governo costantinopolitano verso la lontana provincia di Sardegna era legata anche alla salvaguardia di concretissimi interessi economici che il tesoro imperiale aveva in essa. La documentazione sigillografica suggerisce che sull'Isola dovevano esistere vaste tenute di proprietà della Corona, che includevano greggi di pecore da cui ricavare la lana grezza. Quasi sicuramente erano presenti anche laboratori imperiali per la lavorazione del bisso. Vi sono inoltre indizi per supporre che la teologia promulgata dagli imperatori Leone III (717-741 ) e Costantino V (741-775 ), volta a proibire il culto delle immagini sacre perché ritenuto idolatrico - una concezione definita dai moderni con il polemico termine di "iconoclasmo" o "iconoclastia" - avesse influenzato una componente del clero isolano. Ci è stato infatti tramandato il sigillo con legenda greca dell'arcivescovo di Sardegna (Carales) Arsenios, attivo tra 1'815 e 1'843, che era molto probabilmente iconoclasta, come si evince da una lettera di papa Leone IV a Giovanni, successore di Arsenio. Dal IX al X secolo
Fino agli inizi del IX secolo il governo bizantino riuscì ad amministrare in forma diretta la Sardegna. Come in tutte le province dell'impero anche sull'Isola tra il VII e l'VIII secolo la bipartizione tra potere civile e militare era scomparsa, con l'eclisse della figura istituzionale del praeses e l'ascesa di quella del dux. Ma nel corso del IX secolo i legami tra la capitale sul Bosforo e la sua provincia nel Mediterraneo occidentale si allentarono. Questo fu dovuto in larga misura alla conquista musulmana di Creta (824) e della Sicilia (827), le quali fino a quel momento avevano costituito, insieme a Rodi e alla stessa Sardegna, una sorta di "confine" marittimo con il Califfato. La perdita delle due grandi isole era avvenuta per Bisanzio subito dopo una violenta lotta tra due candidati che si erano contesi il trono, il vincitore, Michele II (820-829), e il suo antagonista, Tommaso lo Slavo (820-823 ). Califfato omayyade nel 750 era stato abbattuto dagli Abbasidi, ma un esponente della prima dinastia, 'Abd al-Ra]:unan
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ibn Mu' awiya (756-788), era riuscito a ricavarsi un dominio territoriale in Spagna. Fu proprio un gruppo di emigrati proveniente da alAndalus (Spagna musulmana) a conquistare Creta, mentre la Sicilia fu invasa da truppe che servivano sotto la dinastia africana degli Aghlabiti, il cui capostipite, Ibrahim ibn al-Aghlab (800-812), si era insediato grazie alla nomina del califfo abbaside Harem al-Rashid (786-809) . Anche nel terzo grande spazio politico europeo, l'impero carolingio (814-840), gli anni Venti e Trenta coincisero con il conflitto tra Ludovico il Pio e i suoi figli, Lotario, Pipino e Ludovico di Baviera, e poi tra gli stessi suoi figli. Già la perdita dell'Africa aveva arrecato difficoltà nelle comunicazioni tra l'Occidente e Bisanzio. Le fonti non documentano una linea di navigazione diretta tra la Sardegna e la Sicilia, nemmeno nell'antichità. Fino a quando la Sicilia restò all'Impero Bizantino il viaggio tra la Sardegna e Costantinopoli - benché non si abbiano chiare informazioni a questo proposito - doveva seguire un itinerario che da Carales o Olbia portava rispettivamente a Napoli o a Roma, e di qui in Sicilia. Da quest'ultima isola i viaggiatori potevano giungere a Otranto per poi guadagnare Durazzo e percorrere la via Egnatia fino alla capitale, oppure, mediante una navigazione d'alto mare, arrivare a Modo ne e, attraverso l'Egeo, raggiungere Costantinopoli. Ma la conquista musulmana della Sicilia rese più complicato percorrere sia il primo sia il secondo itinerario. In questo contesto di maggiore frammentazione del quadro mediterraneo si verificò in Sardegna una trasformazione istituzionale di rilievo. Mentre il vertice dell'amministrazione bizantina sull'Isola nell'VIII secolo era rappresentato da un doux, nel corso del IX tale figura fu sostituita da un nuovo dignitario chiamato iudex nelle fonti latine e archon (a.pxwv I:apoav(ac;, 'governatore di Sardegna') in quelle greche. Il cambiamento è segnalato per la prima volta nella documentazione latina da alcune lettere di papa Leone IV (847-855) indirizzate nell'851 e nell'853 a quello che sembra l'uomo politicamente più in vista della Sardegna, anche lui di nome Leone, qualificato con l'epiteto di iudex. Quest'ultimo termine nel lessico della legislazione giustinianea indica in genere il governatore civile di una provincia. Ma è altamente improbabile che la carica attestata nel IX secolo corrisponda al praeses del VI secolo, perché di quest'ultimo non abbiamo più alcuna attestazione a partire dagli inizi del VII secolo. Pertanto, la conclusione più
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X secolo. Essa sembra dimostrare, inoltre, che plausibile è quella di intendere il termine iudex l'arconte di Sardegna faceva dell'esibizione nel significato generico di un individuo che · di un titolo (arconte) e di una dignità di corte detenga un'autorità pubblica, un potere di (protospatario imperiale) gli elementi costitutivi comando e di costrizione. Una simile della legittimità del suo governo. interpretazione è rafforzata dal fatto che Non sappiamo quanto intense fossero state le corrisponde perfettamente alla semantica relazioni tra la Sardegna e Costantinopoli tra della locuzione greca archon Sardanias (colui il IX e la fine del X secolo. In questo periodo che detiene l' arche, il "potere" sulla Sardegna) che troviamo usata in fonti del X secolo. gli arconti certamente sperimentano forme di Una domanda cruciale a questo proposito autonomismo politico, intessendo rapporti con potestà altre rispetto a quella bizantina. Nell'815, consiste nel chiedersi se questo nuovo tipo di governatore fosse eletto direttamente dalla per esempio, i Sardi inviarono un'ambasceria al corte bizantina ovvero da un'assemblea di sovrano carolingio Ludovico il Pio per chiedere aiuto contro i Musulmani, i quali, dopo una maggiorenti locali. Alcuni storici hanno ritenuto pausa nella seconda metà dell'VIII secolo, probabile la prima possibilità (nomina costantinopolitana), altri la seconda (elezione avevano cominciato nuovamente a razziare la da parte dell'aristocrazia locale). In ogni caso, Sardegna, compiendo attacchi contro di essa sia nella prima sia nella seconda eventualità, nell'807, 809,813, 816-817, 821-822. Le già menzionate missive inviate agli arconti sardi l'arconte di Sardegna proveniva sicuramente dal da papa Leone IV e Giovanni VIII riflettono un novero delle famiglie più in vista della Sardegna e non era una figura estranea al suo tessuto alto grado di comunanza tra i primi e i secondi. Nell'agosto del 949, stando alla Cronaca di sociale. L'intreccio tra autorità imperiale, cultura Cordova, un non meglio specificato "signore di bizantina e potere locale è riflesso in una Sardegna" inviò all'emiro cordovano 'Abd altestimonianza concernente un secondo giudice Ra}:unan (929-961) un ambasciatore per chiedere noto dalle fonti, dopo quello menzionato nelle la stipula di un trattato commerciale. Tutte lettere di papa Leone IV. Si tratta di una queste relazioni costituiscono certamente atti di notissima iscrizione incisa su un epistilio di negoziazione politica che non implicano, però, marmo che era parte dell'arredo architettonico di una chiesa, oggi scomparsa, che sorgeva nei un reale antagonismo verso Bisanzio giacché non sono in contrasto con gli interessi degli pressi di Decimoputzu. Essa recita: «Signore imperatori. Nel caso dell'ambasceria cordovana, proteggi i servi di Dio Torchitorio, protospatario bisogna ricordare, anzi, che quella inviata imperiale, e Salusio, nostri nobilissimi arconti. dall'arconte di Sardegna nel 942 fu seguita, Ricordati Signore anche del tuo servo Ortzokor, attorno al 956, da una delegazione mandata amen». Questa formula di invocazione si iscrive nel più tradizionale repertorio espressivo della dall'imperatore Costantino VII Porfirogenito devozione bizantina. Il Torchitorio ivi ricordato allo stesso 'Abd al-Ra}:unan al fine di raggiungere aveva sicuramente ottenuto dall'imperatore la con lui un accordo di cooperazione economica dignità di "protospatario imperiale': Il suo e diplomatica in funzione anti-fatimita. La lettera di papa Giovanni VIII dell'873 è conferimento richiedeva il versamento alla corte indirizzata non a un unico signore, ma «ai di una certa somma di denaro, ma garantiva anche al suo titolare una pensione annua di principi della Sardegna». Questa intestazione ha 72 nomismata (monete d'oro del peso di 4,5 g). fatto pensare che già nella seconda metà del IX secolo il dominio dell'Isola fosse diviso tra più L'epigrafe è priva di elementi di datazione interna; tuttavia, il riferimento all'orgoglio signori territoriali sul modello di quanto sarebbe familiare che da essa traspare - Torchitorio e il accaduto a partire dalla seconda metà dell'XI, figlio Salusio sono ricordati come "nobilissimi quando una missiva di papa Gregorio VII del arconti" - assieme alla sua paleografia spingono 1073 prova in maniera inconfutabile l'esistenza a datarla al tardo IX o al X secolo. La stessa di quattro giudici. Ma una simile conclusione è identica titolatura dell'epigrafe è ricordata in contrasto con altre testimonianze successive nella formula cancelleresca con la quale gli all'873 di cui si è fatto cenno, quali il Libro delle imperatori bizantini si rivolgevano agli arconti Cerimonie di Costantino Porfirogenito, di Sardegna trasmessaci nel Libro delle Cerimonie l'ambasceria inviata dal batrik ('patrizio', cioè "signore") di Sardegna ad 'Abd al-Ra}:unan, dell'imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959). Tale corrispondenza costituisce una l'iscrizione di Torchitorio, Salusio e Ortzocor. Da quest'ultima si evince chiaramente che prova eloquente che le relazioni tra l'Impero Bizantino e la Sardegna erano ancora vive nel Torchitorio aveva associato alla propria carica
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anche il figlio Salusio, secondo una procedura consueta del sistema di successione della monarchia bizantina. In questo meccanismo, benché i sovrani fossero costituzionalmente due - il figlio cooptato dal padre era in effetti ricordato in tutti gli atti pubblici - il reale detentore del potere era solo uno, l'imperatore padre. Questo sistema può spiegare l'intestazione "ai principi della Sardegna" contenuta nella lettera di Giovanni VIII, laddove si ponga mente al fatto che l'epigrafe di cui è questione ricorda effettivamente due arconti. L'onomastica che caratterizza i membri della famiglia arcontale nel X e agli inizi dell'XI secolo (antroponimi quali Torchitorio, Salusio, Ortzokor, Unuspiti, Nispella) deriva dal substrato indigeno della Sardegna documentato da iscrizioni dell'età romano-imperiale. Gli arconti provenivano sicuramente dall'elemento autoctono dell'Isola, benché fossero grecizzati nell'ethos aristocratico e nella lingua. D'altra parte, il superstrato greco della Sardegna tra i secoli VII e X non si limitò solo alla sfera del potere e dell'amministrazione, ma si diffuse alla devozione popolare, con il culto di taluni santi, come Costantino o Teodoro, estranei alla religiosità dell'Occidente latino. Esso agì anche sulla vita delle campagne influenzando alcuni termini dell'allevamento ippico, dell'apicoltura, della viticoltura, nonché della fitonomastica. La ricorrenza del medesimo patrimonio onomastico, nonché alcune fonti dell'XI secolo, fanno ritenere che nelle famiglie arcontali del IX e del X secolo fosse diffusa la pratica dell'endogamia. Si trattava sicuramente di una strategia per evitare la dispersione dei beni della famiglia. L'attaccamento alla tradizione bizantina di questo ceto signorile ebbe ripercussioni di rilievo tanto sull'organizzazione amministrativa del futuro Giudicato di Càlari quanto sulle forme della sua autorappresentazione politica. Derivazioni da istituzioni bizantine sono state argomentate per esempio sia per la guardia personale del giudice, chiamata nei documenti sardi medievali in volgare chita de buiachesos, sia per le curatorias, distretti in cui era diviso il patrimonio dei giudici. Gli antroponimi della famiglia di Torchitorio continuarono a essere tramandati dai giudici di Càlari e di Arborea nei secoli Xl e XII; sigilli con legenda greca caratterizzarono le loro cancellerie. Nel Giudicato di Càlari fu soprattutto la pratica di redigere atti in volgare campidanese, ma scritti con caratteri greci, che segnala la tenace memoria con cui fu tramandato il passato bizantino. In tali atti l'alfabeto greco appare allo stesso
tempo un repertorio di segni che sacralizzano la scrittura e una sanzione dell'autorità degli stessi giudici calaritani nella misura in cui le lettere rievocano un arcano legame tra essi e la lingua della sovranità per eccellenza, Bisanzio. Ma il greco di questi documenti assolse anche a una funzione eminentemente letteraria. Esso, infatti, conferì una nobilitazione al volgare campidanese, facendolo assurgere a lingua di cultura in una cronologia così precoce da non trovare eguali in altri linguaggi cancellereschi dell'Europa romanza. Fonti Codexfustinianus I 27, 1.12-13 (costituzione del 14 aprile 534); Procope de Césarée, La guerre contre les Vandales, trad. e comm. a cura di D. Roques, Paris, 1990, I, 3-5, 11, Il, 13, 44-45); Gregorii Magni opera, Registrum epistolarum, I-IV, ed. D. Norberg (Corpus Christianorum Latinorum, CXL, trad. e comm. a cura di V. Recchia: Opere di Gregorio Magno, Lettere, I-IV, Roma, 1996-99, IV, 27 e IV, 25 (commentate in PINNA 1989); Patrologiagraeca 90, cc. 131-136 (PL 129, cc. 623-626) (lettera di Anastasius, discepolo di Massimo il Confessore, trad. italiana in Guruou 1988a, pp. 396398); VoN SODEN 1911, pp. 638-641 (professione di fede di Euthalios, trad. it. in GurLLOU 1988a, pp. 399-402); Acta Conciliorum Oecumenicorum, series secunda, vol. II/2, pp. 886-887 (lettera di Giustiniano II a papa Agatone del 687); CHALMETA 1976, p. 342 (Cronaca di Cordova, vd. anche RENZI Rizzo 2002, p. 7; ZEDDA 2006, p. 17); Monumenta Germaniae Historica, Epistolae Karolini Aevi, III, n. 18 (lettera di papa Leone IV a Giovanni, vescovo di Carales); Monumenta Germaniae Historica, Epistolae Karolini Aevi, V, n. 27, pp. 288-289 (a. 873) (lettera di Giovanni VIII); Constantine VII Porphyrogennetos, Le livre des cérémonies, edd. G. Dagron, B. Flusin, D. Feissel (Corpus fontium historiae byzantinae 52/1-5), Paris, 2020; MARTIN 2000 (Libro delle Cerimonie di Costantino VII); Annales Regni Francorum inde ab a. 741 usque ad a. 829, a. 815. Monumenta Germaniae Historica, SS in usum scholarum, 6, p. 143 (Ambasceria a Ludovico il Pio dell'8 15); STRINNA 2021; VIRDIS 2021b (atti in volgare campidanese); COSENTINO 1994 (epigrafe di dromones a Cagliari); COSENTINO 2020 (epigrafe di Donorì); FIORI 2001; COSENTINO c.s. (epigrafe di Turris Libisonis); SPANU, ZUCCA 2004 (sigilli).
Nota bibliografia Per una storia generale della Sardegna in età bizantina si vedano: BESTA 1908-09; BoscoLO 1978; GUILLOU 1987; GUILLOU 1988a; GUILLOU 1988b; SPANU 1998; CORRIAS, COSENTINO 2002; CASULA, CORDA, PIRAS 2008; COSENTINO 2008; CORRIAS 2012; MARTORELLI 2013; SIGNES CODOl'JER 2004; MURESU 2018; COSENTINO 2019; fERNANDES CARDOSO 2019; METCALFE, FERNANDEZ-ACEVES, MURESU 2021; SPANU 2021. Sui Barbaricini: SERRA 2006a, p. 65; SPANU 2019, pp. 59-60. Sui raids musulmani contro la Sardegna: K.A.EGI 2001; KAEGI 2002; STASOLLA 2002; METCALFE 2021 a. Sulle famiglie aristocratiche: LOEWENFELD 1885, n. 106, p. 52; PAULIS 1983; GUILLOU 1996, n. 223, p. 239; PAULIS 1997, pp. 63-69; PAULIS 2017; GALLINARI 2021, pp. 211, 235-236; 0RRù 2021; PAULIS 2021, pp. 302-307; ZEDDA 2021, pp. 273-276.
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Ospitane dux Barbaricinorum Giovanni Serre/i
Nel mese di maggio del 594 papa Gregorio Magno scriveva a Hospiton dux Barbaricinorum ('Ospitane, duca dei Barbaricini') per felicitarsi con lui in quanto unico cristiano fra le sue genti, e per esortarlo a convertire il suo popolo, i Barbaricini, che ancora adoravano pietre e legni, agevolando l'azione evangelizzatrice degli inviati papali. «Gregorio a Ospitane, capo dei Barbaricini. Poiché nessuno della tua gente è Cristiano, per questo so che sei il migliore di tutto il tuo popolo, perché sei Cristiano. Infatti, mentre tutti i Barbaricini vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre; tu, per il solo fatto che veneri il vero Dio, hai dimostrato quanto sei superiore a tutti. Ma dovrai mettere in atto la Fede che hai accolto anche con le buone opere [e con le parole], e al servizio di Cristo, in cui tu credi, dovrai impegnare la tua posizione di preminenza, conducendo a Lui quanti potrai, facendoli battezzare, ammonendoli a prediligere la vita eterna. Se per caso tu stesso non potrai fare ciò perché sei occupato in altro, ti chiedo, salutandoti, di agevolare in tutti i modi gli uomini che abbiamo inviato lì, cioè mio fratello e coepiscopo Felice e mio figlio Ciriaco, servo di Dio, e di aiutarli nelle loro mansioni, di mostrare la tua devozione nel Signore onnipotente, e Lui stesso sia per te un aiuto nelle buone azioni come tu lo sarai per i servi consolatori in questa buona opera. Tramite loro ti mandiamo veramente la benedizione di san Pietro apostolo, che ti chiedo di ricevere con buona disposizione d'animo». Si tratta di una fonte preziosissima anche perché è la prima, e finora la sola, che ci attesta l'esistenza nella Provincia di Sardegna di un dux Barbaricinorum ('duca dei Barbaricini'), in questo caso Hospiton ('Ospitane'), nominato in quest'unico luogo; la fonte va quindi utilizzata con prudenza ma anche con attenzione verso le numerose informazioni in essa contenute. Dunque, l'epistola è indirizzata a Ospitane a cui è attribuito il titolo di duca dei Barbaricini. Generalmente il titolo di dux, nell'apparato provinciale bizantino - pur avendo il termine 24
un campo semantico molto vasto e tuttora difficile da definire con precisione - a partire da Giustiniano indicava un ufficiale, talvolta comandato in area di confine. In questi decenni nella Provincia di Sardegna il titolo di dux era dato al comandante militare, sottoposto al magister militum della Prefettura d'Africa; infatti, in un'altra epistola sempre del maggio dello stesso 594, Gregorio Magno si rivolgeva al dux Zabarda, vertice militare della Provincia di Sardegna che aveva anche il potere di stipulare trattati di pace. Ma, nelle fonti coeve, tale titolo poteva anche essere riferito al capo di un popolo etnicamente distinto. Fra le numerose ricorrenze del titolo di dux nelle epistole di Gregorio Magno, questa di Ospitane è senz'altro la più problematica: indica che Ospitane era stato nominato e apparteneva alle gerarchie bizantine, sottoposto al magister militum africano e al dux di Sardegna, oppure designa il leader delle tribù barbaricine, le Civitates Barbariae, in qualche modo autonome dall'Impero? Il tenore della lettera di Gregorio Magno e le altre poche fonti coeve spingono la maggior parte degli storici a propendere per questa seconda ipotesi; come anche in alcuni altri casi attestati sia nell'Impero che in altre realtà coeve euro-mediterranee, Ospitane sarebbe stato il capo dei Barbaricini e da questi eletto. Riconosciuto dagli stessi Bizantini, adottò l'appellativo di dux in ossequio al rispetto per i titoli e le insegne del potere romano che sempre ebbero le popolazioni barbaricine, senza che questo significasse il venir meno della loro identità e della rivendicata autonomia. Pur nell'impossibilità di avere qualche altra notizia che ci permetta di ricostruire almeno i tratti biografici essenziali del dux Ospitane, per la totale assenza, allo stato attuale delle conoscenze, di altre fonti che lo riguardino, possiamo però pensare che si trattasse di un personaggio di notevole spessore e autorevolezza con un discreto grado di istruzione. Probabilmente apparteneva all'aristocrazia di queste popolazioni ed è stato autorevolmente ipotizzato che da giovane sia stato ostaggio dell'Impero - pratica usuale dei Bizantini nei confronti delle popolazioni
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6. Romània e Barbària sarde in periodo biza ntino.
barbariche per favorirne l'assimilazione - a Carales o a Cartagine, dove venne battezzato e educato, per essere nuovamente mandato, al momento opportuno, dopo la sconfitta inflitta ai Barbaricini prima del 594, presso il suo popolo al fine di favorire un trattato di pace. Una strategia di questo genere fu probabilmente pianificata dalle alte gerarchie bizantine, forse dal magister militum della Prefettura d'Africa Gennadio o dallo stesso dux Zabarda. Stando alla fonte, il grande prestigio di Ospitone fra il suo popolo e presso i Bizantini è provato da tre elementi. In primo luogo perché, come detto, venne riconosciuto dalle autorità imperiali e Zabarda stesso, potente dux Sardiniae, in quel momento si apprestava a concludere con lui un trattato di pace, da pari a pari, che aveva anche l'obiettivo di favorire la cristianizzazione delle popolazioni barbaricine, stando alla lettera del papa ancora dedite totalmente ai culti precristiani. In secondo luogo, perché Ospitane è destinatario di una delle epistole di papa Gregorio Magno, che lo definisce unico cristiano fra i pagani e lo esorta a convertire le sue genti o a favorirne la conversione.
Infine, soprattutto perché a lui il papa fa dono della benedizione di san Pietro, nel vasto epistolario gregoriano (circa 850 lettere) concessa solo ad altri tre destinatari di altissima levatura istituzionale: il re dei Franchi Childerico, il patriarca Eulogio e un medico di Costantinopoli. Ma chi erano questi Barbaricini capeggiati e rappresentati dal dux Ospitone? Si trattava di un insieme di comunità organizzate in clan, di popoli non urbanizzati, discendenti dalle Civitates Barbariae, cosiddette in alcune fonti epigrafiche e letterarie di età imperiale romana; popolavano le vaste e impervie aree interne della Sardegna centro-orientale, verosimilmente estese dal massiccio del Limbara e dall' Anglona a nord fino al Gerrei a sud. Il relitto toponomastico permane nelle attuali subregioni delle Barbagie, più limitate geograficamente alle regioni montuose della provincia di Nuoro. Queste Civitates Barbariae avevano probabilmente acquisito maggiori spazi di autonomia e autogoverno con la fine della dominazione romana, nel 456, e con il tracollo dell'organizzazione provinciale, anche grazie al minor controllo delle aree interne durante il periodo vandalico; inoltre, a partire dal 533, si rifugiarono nell'entroterra - nei monti delle Barbagie o del Gerrei - anche i Maurousioi inviati dai Vandali in Sardegna con le loro famiglie tra la fine del V e i primi decenni del VI secolo, i quali si resero protagonisti di azioni di razzia e brigantaggio e verosimilmente si unirono in qualche modo alle popolazioni locali. In questo contesto di mutamento istituzionale, le popolazioni stanziate nella Barbaria tornavano a diventare un problema per i nuovi dominatori bizantini: Giustiniano con la Costituzione del 534 disponeva che il comandante militare della Provincia Sardiniae, il dux sottoposto al magister militum della Prefettura d'Africa, doveva avere la sede presso le montagne dove risiedevano i Barbaricini. Inoltre, contro di loro, fra il 536 e il 537, il generale Salomone venne incaricato di organizzare una spedizione militare per reprimere e riportare queste popolazioni nei loro ristretti ambiti. Per fermare e reprimere la minaccia delle frequenti razzie barbaricine, nel contesto della costruzione o del potenziamento delle opere di difesa nei territori appena riconquistati, venne disposta la fortificazione anche di Forum
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Traiani (l'odierna Fordongianus), la città più esposta in quanto prossima alle aree montuose lungo il corso del fiume Tirso, via naturale di comunicazione fra l'interno e le pianure; si diede, inoltre, avvio alla costruzione o ricostruzione di un sistema di presidi militari e venne restaurata la strada militare interna - alio iter ab Ulbia Caralis, citata nell'Itinerarium Antonini - per organizzare meglio le forze e controllare le aree interne abitate da queste irrequiete popolazioni. L'anarchismo e autonomismo barbaricino vennero ulteriormente favoriti dalle difficoltà causate durante la brevissima conquista ostrogota di Carales e del suo entroterra, nell'ambito della guerra greco-gotica, fra il 551 e il 552, quando i Bizantini sventarono la minaccia e ripresero il controllo del capoluogo provinciale. Per tutte queste ragioni, dunque, come apprendiamo dalle epistole di Gregorio Magno, nella primavera del 594, dopo una vittoriosa campagna militare, il dux Sardiniae Zabarda si apprestava a concludere un trattato di pace con Ospitone, dux dei Barbaricini, che avrebbe favorito la conversione al Cristianesimo di queste popolazioni, ma che di fatto riconosceva ufficialmente l'esistenza di una realtà in qualche modo autonoma all'interno della Provincia. La più recente storiografia, sulla base delle poche fonti disponibili e scevra da improprie mitizzazioni identitarie, è propensa ad attribuire ai Barbaricini una sorta di "gestione a sovranità limitata", presidiata militarmente dall'Impero ma culturalmente permeabile. Infatti, non essendo assolutamente certa l'esistenza di un limes definito e contrapposto, e dunque di ùn Ducatus territoriale, queste popolazioni - probabilmente legate in una sorta di confederazione - mantennero una certa autonomia amministrativa interna, pur riconoscendo il superiore potere prima romano e successivamente bizantino; si trattava, insomma, di un Ducato non territoriale ma tribale - come altri ne sono attestati in quell'epoca nelle aree periferiche dell'Impero che ambiva ad amministrarsi autonomamente secondo proprie consuetudini, organizzazione economica, sociale e religiosa. Come è stato dimostrato anche per la Hispania divisa fra Visigoti e Bizantini, più che limes impermeabile, si potrebbe parlare di «zona elastica di rispetto, sviluppata in profondità» dove il contatto fra nemici era quotidiano; infatti, le recenti acquisizioni archeologiche
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dimostrano che le Civitates Barbariae erano state profondamente romanizzate sin dalla prima età imperiale romana e che si svilupparono diversi gradi di partecipazione, ancora da precisare e approfondire, ai processi economici e culturali di tutta la Provincia e dell'ecumene bizantino. Queste popolazioni non erano rimaste isolate, immutate e uguali a sé stesse ma erano inesorabilmente cambiate nel corso dei secoli grazie alla continuità degli apporti commerciali e culturali esterni e ora, per l'opera di Gregorio Magno e dei suoi inviati nonché per la pace di Zabarda, si avviavano verso la cristianizzazione. Ciò nonostante, il processo di pacificazione e conversione al Cristianesimo non fu generale, facile e immediato, se è vero che ancora nella primavera del 599 si ha notizia della vendita di mancipia ('schiavi') barbaricini richiesti dallo stesso papa. Seppur lentamente, comunque, la cristianizzazione avanzava anche in questi territori, in ossequio al dux Ospitone, grazie all'opera degli evangelizzatori e, successivamente, al monachesimo e all'organizzazione in diocesi rurali, senza sede. Ciò che, invece, rimaneva latente anche nella lunga durata storica era la tendenza delle popolazioni barbaricine a cercare spazi di autonomia e ad auto-amministrarsi, con il conseguente periodico ripetersi di sconfinamenti, razzie e saccheggi nella Romània; labili tracce, soprattutto indirette, di questa situazione si manifestarono fino al Basso Medioevo e alla prima età moderna (XI-XV sec.).
Fonti Codex Iustinianus, recensivit Krueger, Paulus, Berolini, 1877, 27, 2, 3; Procope de Césarée, La guerre contre les Vandales, trad. e comm. a cura di D. Roques, Paris, 1990, II, 13; Gregorii Magni opera, Registrum epistolarum, I-IV, ed. D. Norberg (Corpus Christianorum Latinorum, CXL, trad. e comm. a cura di V. Recchia: Opere di Gregorio Magno , Lettere, nv), Roma, 1996-99, IV, 25, 27 e IX, 123 (le epistole di Gregorio Magno riguardanti la Sardegna sono state pubblicate, con traduzione, da PINNA 1989).
Nota bibliografi ca La bibliografia è, in generale, assai vasta; si rimanda a: ARGIOLAS 1992; MARTINDALE 1992; PETRUCCI 1993; CASULA 1994; GASPARRI 1997; SPANU 1998; TURTAS 1999; ZUCCA 1999; SPANU 2000a; PERRA 2002; ZUCCA 2003; BORRI 2005; SERRA 2006a; PERGOLA 2015; SERRELI 201 5; IBBA 201 7; GALLINARI 2018-19; MURESU 2018; MASTINO 2021b; TRUDU 2021.
La Sardegna fra l'espansione musulmana e il mondo germanico Luciano Gallinari
Il lungo' legame con l'Impero Bizantino tra VI e XI secolo, con modalità e intensità diverse, conferì alla società sarda caratteristiche particolari: 1) l'assenza di una nobiltà di sangue, di matrice germanica, al cui posto vi fu un'aristocrazia caratterizzata da ricchezza e titolarità di cariche pubbliche, imperiali prima e giudicali dopo; 2) la mancanza di istituti propriamente feudali fino al reinserimento della Sardegna nel mondo occidentale nell'XI secolo; 3) l'assenza di un prolungato ed esteso dominio saraceno, diversamente dagli altri territori bizantini del Mediterraneo occidentale: Sicilia, Sud d'Italia, Baleari e Africa del Nord.
Tra due imperi e il mondo musulmano Il periodo tra il VI e l'XI secolo - che si chiude con le prime attestazioni di quattro Iudices alla guida di altrettanti "Stati': chiamati Giudicati - è pieno di avvenimenti di notevole importanza politica per i rapporti tra l'Isola e il mondo musulmano. Essi però, a volte, sono attestati da fonti numericamente abbastanza esigue e con notevoli difficoltà di interpretazione. In molti casi, per di più, alcune fonti arabe furono prodotte a una grande distanza temporale dagli eventi narrati e riproducono quasi pedissequamente testi precedenti del IX e X secolo. Per tutti questi aspetti storiografici, i rapporti tra la Sardegna e il mondo islamico sono da alcuni decenni al centro di nuove teorie interpretative focalizzate, con esiti diversi, sulla duplice questione dell'eventuale presenza di stabili comunità musulmane nell'Isola, soprattutto tra VIII e XI secolo, e del possibile ruolo di Mujahid ibn 'Abd Allah al- 'Amiri, signore di Denia, nella formazione dei Giudicati sardi. Va sottolineato subito come già a fine VI secolo l'epistolario di papa Gregorio Magno mostri una progressiva militarizzazione della società sarda sotto una duplice minaccia: quella interna dei Barbaricini - ribelli al nuovo dominio imperiale e sconfitti dal dux Zabardas nel 594 - e quella esterna, ancor più insidiosa, dei Longobardi che, proprio in quel periodo, cercavano di espellere i Bizantini dai loro possedimenti italici e dalle grandi isole tirreniche.
Nell'ottobre del 598 il pontefice indirizzò amari rimproveri all'arcivescovo di Caralis, Gianuario, e a Gennadio, esarca d'Africa, poiché, ascoltando quanto da lui preannunciato, avrebbero potuto limitare i danni che i Longobardi inflissero all'Isola. Il pericolo era accresciuto anche da un possibile supporto da parte dei Sardi, forse nel Nord-Ovest dell'Isola come potrebbe far pensare il riferimento del pontefice a Mariniano, vescovo di Torres. Per la Sardegna la situazione si aggravò dal 640 con la conquista longobarda della Liguria e la probabile distruzione delle colonie di Aleria e Mariana in Corsica, che, per l'Impero Bizantino, significarono la perdita del Mar Tirreno settentrionale. Questi eventi e l'avvio dell'espansione araba poterono giocare un ruolo nel profondo cambio al vertice della società sarda, dove le fonti collocano alcuni personaggi insigniti di titoli civili e militari, mentre si assiste alla scomparsa del titolo di praeses: Flavio Pancrazio, ànò tna.px( wv) òoù~ Iapòtv[ac; (ex prefetto - titolo onorario - e duca di Sardegna) un funzionario imperiale di alto livello attivo nell'Isola tra fine VII e inizi VIII secolo; Theodoto, ùnarnc; (Kaì.) oou~ Iapòtv[ac; (consul et dux di Sardegna) attivo nella prima metà dell'VIII, e Costantino, ùnmoc; K(al) oou~ [Iapfav[ac;] (consul et dux di Sardegna) attivo forse nella seconda metà dell'VIII, di cui parleremo in seguito. Questi tre funzionari furono insigniti delle loro cariche militari direttamente dal basileus di Bisanzio, a differenza dei praesides. Essi venivano scelti fra le aristocrazie locali e nominati in una cerimonia alla quale partecipavano gli arcivescovi, i loro suffraganei e gli uomini liberi delle province che avrebbero governato, come è testimoniato anche dalle fonti isolane sugli Iudices sardi fino al XIII secolo.
L'VIII secolo: i diversi effetti dell'espansione araba in Sardegna Varie fonti arabe attestano le prime incursioni saracene in Sardegna partite dall'Africa settentrionale (Ifrfqiya) nelle seguenti date: 703/704 (non certa); 705/706; 707/708;
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710/711; 721/722; 724/725; 727/728; 732/733; 735/736; 737/738 e 753. Questi attacchi furono contemporanei ad alcuni importanti eventi causati dal rapido espandersi degli Arabi nel Mediterraneo: a) la conquista di Cartagine, capitale della Prefettura d'Africa bizantina (698) e il trasferimento della zecca imperiale a Caralis, dove continuò la sua attività almeno fino alla prima metà del regno del basileus Leone III (717-720); b) la presa di Septem (Ceuta, 711 ) importante base militare bizantina. Se si prescinde dalla prima incursione - forse posteriore alla conquista araba della penisola iberica - le successive tre spedizioni nell'arco di circa sei anni menzionano saccheggi di centri abitati e edifici e la cattura di importanti prigionieri, definiti "Muluk" ('re', 'signori') delle isole bizantine di Sardegna, Sicilia, Maiorca e Minorca. Poi vi fu una lunga pausa negli attacchi, dovuta alla impegnativa conquista della penisola iberica. Intorno al 720, in concomitanza con la ripresa delle incursioni saracene, il cronista Paolo Diacono data l'acquisto delle reliquie di sant' Agostino, custodite a Caralis, voluto dal re longobardo Liutprando, per timore che i Musulmani le profanassero. Reliquie poi traslate nella chiesa di San Pietro in Ciel d'oro di Pavia, dove si trovano ancora oggi. Sempre in questi decenni tra il 711 e il 732 è attestata a Caralis la presenza di un importante codice manoscritto - il Devozionale visigotico - giunto in Sardegna con profughi provenienti da Tarragona a seguito della conquista araba della penisola iberica insieme, forse, al culto di alcuni santi locali. Sono menzionate altre incursioni in Sardegna fino a quella del 753 che, secondo alcuni cronisti arabi distanti quattro secoli dagli eventi - Ibn al-Athir (m. 1233) e Ibn 'Adhari (m. inizi XIV sec.) -, portò al pagamento da parte dei Sardi della jizya, la tassa corrisposta da tutti i sudditi non musulmani alle autorità arabe in cambio di protezione da attacchi e libertà di culto. A prescindere dal suo eventuale pagamento, le fonti arabe parlano di conquiste di località imprecisate, che sembrano durare il tempo dell'attacco: sull'incursione del 735/736 il cronista 'Abu 'Amr - molto prossimo agli avvenimenti descritti, poiché morì nell'854 - scrisse che i Musulmani conquistarono un villaggio sardo; Ibn al-Athir, di molto posteriore, disse invece che essi occuparono una parte dell'Isola, senza però fornire ulteriori informazioni. Sempre 'Abu 'Amr affermò che
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nell'incursione del 73 7/738 fu presa la "fortezza di Sardegna" ( Qal' at Sardaniya): forse Caralis, in quanto sede principale del potere imperiale? Una notizia ripresa alla lettera dal cronista al-Dhahabi, morto nel 1348. Sulla base di questi esigui dati e pochi altri, alcuni anni fa furono avanzate due ipotesi storiografiche che proponevano un ruolo molto attivo degli Arabi in alcune zone della Sardegna: 1) la penisola del Sinis e la città di Tharros, considerate basi temporanee dell'esercito dell'-lfriqiya diretto alla conquista della penisola iberica nel 710-711; 2) la basilica di San Saturnino, che sarebbe divenuta nel IX-X secolo un tempio in condominio tra Cristiani e Musulmani stanziati nei sobborghi orientali di Caralis. Le poche fonti materiali portate a supporto e l'assenza di echi di questi avvenimenti in altri documenti coevi e posteriori rendono difficile accettare tali ipotesi. Il IX secolo: la Sardegna tra Sacro Romano Impero e a/-Andalus
Dopo una lunga pausa cominciata nel 753, agli inizi del secolo successivo la Sardegna ancora considerata dagli Arabi una terra dei Rum (i Romani, cioè i Bizantini) - affrontò nuove incursioni provenienti dalla penisola iberica musulmana (al-Andalus). Incursioni che mostrano l'interesse suscitato dall'Isola, ma anche una sua reazione ben diversa da quella di decenni prima. Sugli attacchi abbiamo informazioni anche dal Sacro Romano Impero, il più importante soggetto politico del mondo euro-mediterraneo occidentale dell'epoca, governato da Carlo Magno e i suoi discendenti. I Saraceni incontrarono una forte resistenza, ben attestata anche dalle loro cronache che menzionano perfino la sconfitta delle proprie truppe. A darci notizie di ciò sono pure gli Annales Regni Francorum, un'importante cronaca delle vicende dei re franchi tra 741 e 829. Essi evidenziano le difficoltà incontrate in Sardegna dai Saraceni nei loro attacchi dell'806/807 e l'alto numero dei loro caduti: «si dice che 3.000 siano morti lì». Un'esperienza negativa per i Mauri de tota Hispania che, nell'incursione dell'810 contro Sardegna e Corsica- forse memori delle significative perdite subite anni prima nell'isola maggiore - si diressero verso la minore che presero come se fosse incustodita. Sempre gli Annales annotano che nell'812 in Sardegna fu quasi spazzata via una parte della flotta saracena che dall'Africa e da al-Andalus si dirigeva verso
Ql
MEDIOLANUM
(Milano) • RAVENNA
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Conquista sotto Maometto (622-632)
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Conquista sotto i primi quattro califfi (632-661)
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Conquista sotto gli Ommiadi (66 1-750) e gli Abbàssidi (750-945)
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Impero Bizantino (X secolo)
-+ Incursioni arabe )
7. Carta dell'espansione musulmana dal VII al X secolo d.C. nell'Occidente med iterraneo, con le principali città e le direttrici delle incursioni arabe in Sardegna.
la penisola italiana per devastarla e che, l'anno dopo (813), una rappresaglia araba contro le coste controllate dai Franchi fallì nuovamente in Sardegna. Alla luce di queste notizie e di altre che commentiamo di seguito, già da tempo ipotizziamo che l'Isola fosse in grado di difendersi efficacemente dagli attacchi saraceni anche senza l'aiuto del Sacro Romano Impero, con il quale essa entra in relazione nell'815, quando, secondo i suddetti Annales alcuni ambasciatori inviati da Caralis recarono doni a Francoforte, forse per rendere omaggio a Ludovico il Pio, re dei Franchi e figlio di Carlo Magno, che l'anno dopo fu incoronato imperatore: «Legati Sardorum de Carali civitate dona ferentes venerunt». Questo episodio è stato perlopiù interpretato come una richiesta sarda di aiuto e protezione politica per rinforzare il sistema difensivo del Mediterraneo centrooccidentale. Per alcuni studiosi, invece, fu segno di una progressiva autonomia dall'Impero Bizantino dei governanti isolani, favoriti in ciò anche dalle ripetute incursioni saracene.
In realtà il cronista Eginardo affermò solo quanto riportato in precedenza e niente altro; ulteriori conclusioni dedotte sono solo ipotesi storiografiche. L'ambasceria sarda differisce da una omologa delle isole Baleari inviata alla corte franca nel 799, dopo un attacco musulmano dell'anno prima; in quel frangente gli Annales affermarono esplicitamente che le autorità baleariche chiesero e ottennero aiuto, in cambio del quale si sottomisero a Carlo Magno. Niente di tutto ciò è detto per la Sardegna. Inoltre, secondo il cronista Ibn al-Athir (m. 1233) nell'816/817 vi fu anche il respingimento di un'altra incursione saracena proveniente però dall' Ijrfqiya «contro le città di Sardaniya appartenenti ai Rum, dove prima i musulmani massacrarono alcuni infedeli, ma furono a loro volta sbaragliati da loro». Lo stesso cronista menziona un altro attacco saraceno contro la Sardegna negli anni 821/822, ma forse si tratta di quello appena descritto. Non sembra fortuita l'interruzione dei loro raid in Sardegna a partire da questi anni, poiché nell'827 gli emiri Aghlabiti di Ifr'iqiya awiarono
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la lunga e complessa conquista della Sicilia. Le loro forze non consentivano un impegno militare contemporaneo sulle due grandi isole. La Sardegna poté affrontare vittoriosamente vari attacchi saraceni, forse grazie alla presenza stanziale di forze militari imperiali. È possibile che da questo periodo in poi esse si siano regionalizzate in conseguenza della progressiva espansione araba in Sicilia e nel Sud d'Italia, diventando le eredi ristrutturate di quello che alcune fonti di fine VII secolo chiamavano Exercitus Sardiniae, attivo non solo nell'Isola. Secondo il Liber Pontificalis, infatti, esso intervenne a Siracusa nel 668 per domare un'insurrezione del patrizio Mezezio contro il basileus bizantino Costante IL Inoltre, fu nuovamente citato come «de Sardinia atque de Africano exercitu» nella Iussio che il basileus Giustiniano II inviò al papa Giovanni nel 687 per comunicargli gli atti del IV Concilio Ecumenico. Un'altra dimostrazione della operatività di questo esercito sardo potrebbe provenire dalla celebre epigrafe in greco rinvenuta.nel 1927 a Porto Torres (fig. 146). Essa ricorda un attacco longobardo alle coste settentrionali della Sardegna vittoriosamente respinto dal già citato Costantino urra-roc; Kal òou~ (consul et dux), la massima autorità civile e militare bizantina dell'Isola. Un episodio databile agli anni 741-77 5, per la identificazione del basiZeus nominato con Costantino V Copronimo. Tornando ora al IX secolo, le capacità militari e l'indipendenza dell'Isola dal Sacro Romano Impero sembrano essere confermate nell'828 quando il conte franco Bonifacio, incaricato di difendere la Corsica, sbarcò in Sardegna - una "isola di amici" (insula amicorum) senza incontrare Saraceni e chiese alle autorità isolane "alcuni esperti di rotte marittime" per attaccare gli infedeli in Africa. Questa amicizia/alleanza non comporta che si dubitasse dell'appartenenza istituzionale (almeno a livello nominale) dell'Isola all'Impero Bizantino, per quanto i loro legami si fossero allentati. L'immagine di una terra militarmente in grado di non essere sommersa dalla marea saracena potrebbe essere confermata anche da altre due fonti coeve: 1) nell'846/847 il geografo persiano Ibn Khurradadhbih in una lista dei 12 Patrikioi, i supremi comandanti militari dell'Impero Bizantino, citò «il patrizio di Sardaniya che governa tutte le isole del mare». Secondo alcuni studiosi però la lista rifletterebbe la struttura militare della fine del VII secolo; 2) papa Leone IV (847-855) in una lettera con toni di grande
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deferenza e rispetto dovuti a una personalità di rango principesco ( Celsitudinem vestram; tua magnificentia) chiese allo Iudex Sardiniae di degnarsi di mandargli quanti soldati avesse ritenuto opportuno, affinché servissero nella sua guardia personale. Simili toni non appaiono più nella successiva corrispondenza tra Roma e i governanti sardi; al contrario, essa mostra una crescente riduzione della loro importanza politica, specialmente da Gregorio VII in poi (1073-1085). La succitata lettera di Leone IV va collocata in uno dei periodi di più intensi attacchi saraceni contro le coste dalla Provenza al Sud d'Italia (847-850), tra i quali quello contro Roma (845) partito dalla località di Totarum, per alcuni l'isola di Tavolara. Il X secolo: la Sardegna tra l'Impero Bizantino e il Califfato di C6rdoba Se le fonti non attestano ulteriori interazioni tra la Sardegna e il Sacro Romano Impero, quelle tra l'Isola e il mondo islamico proseguono pacifiche dopo l'ultima incursione dell'82 1/822 (o 816/817) fino a quella particolarmente violenta contro Genova nel 934/935 partita dall'Egitto. Secondo alcuni cronisti arabi - Ibn al-Athir, Abu 'l-Fida (m. 1331), Al-Nuwayri (m. 1333), Mu]:iammad ibn A]:imad SamsalDinal-Dahabi (m. 1348), Abu '1-Ma]:iasin Ibn Taghri Birdi (m. 1470) e Idris 'Imad al-Din bin al-}:Iasan (m. 1488) - e uno genovese, Iacopo da Varagine (m. 1298), essa avrebbe riguardato anche la Sardegna, sebbene non vi sia unanimità sulle località attaccate. Secondo al-l)ahabI i Saraceni, dopo aver conquistato Genova, andarono in Sardegna, combatterono con gli abitanti e bruciarono molte navi - un dato interessante, benché non si precisi se fossero militari o mercantili - come fecero anche in Corsica mentre si dirigevano a Genova; Taghri Birdi affermò che gli eventi sarebbero avvenuti ne «la città di Sardegna» (mad'inat Sardaniya), forse Caralis. Il cronista genovese, invece, ambientò gli scontri nelle acque tra Sardegna e Corsica e nelle coste galluresi. Possiamo fare altre due considerazioni su questo attacco: 1) se avvenne nel Sud dell'Isola, poté svolgere un ruolo nel lungo processo di abbandono della Caralis romana e bizantina e della migrazione dei suoi abitanti a Santa Igia (o Gilla) nuova capitale del Giudicato di Calari sita nell'omonima laguna; 2) esso ebbe luogo in un momento di tregua stipulata nel 931/932 tra l'Impero Bizantino e l'Egitto fatimide, dopo
alcune incursioni di quest'ultimo in Calabria e Puglia e l'ascesa al potere del nuovo imam-califfo Abu '1-Qasim, che forse volle inaugurare il suo governo con attacchi di sorpresa a lungo raggio. Pur nella scarsità di fonti scritte sulla Sardegna, sempre nella prima metà del X secolo alcune attestano l'esistenza di un signore dell'Isola che appare ancora legato, almeno su un piano formale', all'Impero Bizantino e che porta il titolo di apxwv Iap&vlac; ('arconte di Sardegna'), corrispondente latino di quello di Iudex Sardiniae usato nei documenti pontifici del secolo precedente. Egli compare in una lista di teorici vassalli, ma in realtà di "alleati" dell'Impero, inserita nel De Coerimoniis Aulae Byzantinae scritto dal basileus Costantino VII Porfirogenito (912-959). L'arconte sardo vi è citato, in ordine, dopo il "nobilissimo" (e molto potente) emiro dell'Egitto ma prima del dux di Venezia, dei principi di Capua e di Salerno, del dux di Napoli e degli arconti di Amalfi e di Gaeta. Data l'importanza del cerimoniale di corte per i Bizantini, la posizione del governante sardo potrebbe riflettere la sua rilevanza politica in quel periodo storico. Quasi in contemporanea, un'importante cronaca sul Califfato di C6rdoba menziona il «signore dell'isola di Sardegna» ($a~ib al-jazfra Sardaniya) che nel 942 inviò una ambasceria al califfo 'Abd al-Ra]:iman III al-Na~ir, per concludere un trattato di pace. Forse fu un'iniziativa personale, poiché nella fonte non si cita il basileus, il quale inviò due sue ambascerie negli anni 947 e 949 con lo stesso fine dopo diverse incursioni saracene dall' Ifrzqiya contro la penisola italiana. L'ambasceria sarda si inseriva in una politica di portata mediterranea finalizzata a risolvere in via definitiva l'annoso problema dell'insediamento musulmano di Fraxinetum (La Garde-Freinet, presso SaintTropez), che flagellava il Mediterraneo occidentale, e a garantirsi pacifiche relazioni commerciali con al-Andalus, come avvenne con l'accordo stipulato dal conte Sunier di Barcellona e Ugo di Arles, re d'Italia nel 940. L'XI secolo: l'alba dei Giudicati Anche questo secolo si apre con incursioni saracene in Sardegna. Il cronista Ibn I:Iayyan ci informa di contatti esistenti tra l'Impero Bizantino, l'Isola e i Musulmani, riferendo che nel 1006 alcuni inviati del basileus Basilio II portarono a Medinaceli, nel Sud della penisola iberica, molti marinai andalusi catturati sulle coste sarde e corse, che
evidentemente erano di nuovo battute dalle flotte imperiali. Un dato molto importante poiché indicherebbe che vi erano rapporti con le autorità isolane, come suggerirebbero alcune epigrafi in origine conservate nelle chiese di San Giovanni di Assemini, Santa Sofia di Villasor e di Sant'Antioco, che menzionano diversi arconti sardi, insigniti personalmente del titolo aulico di "protospatario" concesso dal basileus (figg. 224, 227-230). Inoltre, questo evento potrebbe essere collegato ad altri attacchi simili avvenuti nel Tirreno come l'incursione a Pisa nel 1004 attribuita dalla Cronaca di Ranieri Sardo ai «Saracini di Barbaria e di Spagna e di Sardigna», suggerendo che vi fossero basi arabe nell'Isola. Queste, forse, potrebbero avere giocato un ruolo nella più importante incursione saracena nell'Isola quella di Mujahid, signore di Denia (1015/1016) - che portò a un temporaneo stanziamento di Musulmani in qualche località sarda finora non identificata. Allora nessun aiuto poté giungere dal basileus, intento a difendere la Puglia e la Calabria, attaccate dall'imperatore Enrico II. L'importante effetto dell'azione di Mujahid sarebbe stata la crisi del sistema istituzionale guidato dall'arconte/giudice di Sardegna che, pochi decenni dopo nelle fonti occidentali è sostituito dapprima da due nuovi governanti: 1) Barisone I "rex de Ore" (Logudoro o Torres), in una donazione di chiese ai monaci di Montecassino del 1065, ma già citato nel 1063 come rex Sardiniae dalla Chronica di Leone Ostiense e 2) Orzocco-Torchitorio I che in una copia tarda di una sua lettera del 1066 si indicava come erede dell'arconte di Sardegna (Rex Sardinee), precisando però la portata del suo potere: «de Loco Callaris» ('del Logu o Giudicato di Calari'), traduzione dell'intitolazione apxwv µcpelac; KapétÀrnc:; presente nel sigillo greco del figlio, il giudice Costantino-Salusio II, di fine XI secolo. Nel 1073, per la prima volta questi due nuovi "Stati" e quelli di Arborea e Gallura furono citati insieme da papa Gregorio VII, iniziando quella che la storiografia definisce l'Età Giudicale.
Nota bibliografica COSENTINO
2002b; RENZI Rizzo 2002; ZEDDA 2006;
ZEDDA, P INNA 2007; MARTORELLI, M UREDDU 2013; ORRù 2013; SERRELI 2013; GALLINARI 2017; M URESU
20 18; MARTORELLI 2019c; SODDU 2020; GALLINARI 2021; M ETCALFE 2021a; M ETCALFE 2021b; 0RRù 2021; ZEDDA 2021.
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Continuità e rottura con l'antico Sabrina Cisci
Il lungo periodo trattato in questo volume è caratterizzato dall'esaurirsi degli ultimi bagliori del mondo classico e dall'inizio di una nuova era. I secoli dell'Alto Medioevo furono infatti interessati da eventi decisivi che coinvolsero la sfera pòlitica, sociale, religiosa ed economica, determinando profonde trasformazioni, che avrebbero segnato un punto di non ritorno. Lo studio delle città, delle campagne e della cultura materiale permette di registrare i chiari indizi del cambiamento in atto nella vita pubblica e nella quotidianità, che possono essere assunti come specchio della nuova epoca; un cambiamento che anche in Sardegna prelude alla società medievale. Un esempio evidente di queste trasformazioni si può ritrovare nelle città, anche in quelle della Sardegna romana; Carales, Nora, Sulci,
Neapolis, Forum Traiani, Othoca, Tharros, Cornus, Turris Libisonis e Olbia mostrano fenomeni di "continuità" e "rottura" con il passato, che si esprimono talvolta anche con demolizioni e/o con il recupero dell'antico, ma in una prospettiva di uso diversa, frutto della nuova organizzazione dettata dalle mutate esigenze. Per fortuna, la storiografia in tempi recenti ha rivalutato la città altomedievale, abbandonando interpretazioni negative, motivate anche da quelle apparenti "distruzioni", che pure avevano una loro logica, ma che venivano viste come fenomeni di decadenza e regresso rispetto alla fase romana. Si può affermare che l'Isola mantenne la sua fisionomia urbana, pur affrontando dei fenomeni di trasformazione che investirono sia gli aspetti materiali che funzionali e determinarono una città diversa, in cui aree abitate, spesso gravitanti attorno ai nuovi poli urbanistici, si alternarono a spazi liberi, destinati ad attività agropastorali. Accanto al recupero e al mantenimento della destinazione originaria di alcuni spazi ed edifici e a distruzioni, spoliazioni e abbandoni, nuove esigenze determinarono diverse destinazioni d'uso, spesso variabili nel tempo, in relazione all'evolversi delle condizioni economiche, politiche, demografiche e istituzionali. Fino alla metà del V secolo si registra una continuità di vita nelle città, in cui il potere
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politico assicurò il mantenimento del decoro urbano attraverso un programma di interventi, volto alla salvaguardia degli edifici pubblici e delle infrastrutture, come nel caso di Nora. La normativa vigente fino al VI secolo dimostra la grande attenzione posta nella tutela del patrimonio pubblico, incoraggiandone il restauro e condannando la demolizione, accettata solo di fronte a condizioni rovinose che mettessero in pericolo la pubblica sicurezza. Alcune disposizioni accordavano concessioni di edifici pubblici a privati, come basiliche civili e terme, in rovina o non funzionali all'interesse della città, giustificando in tal modo il loro riuso. La grande novità è rappresentata dall'introduzione del Cristianesimo, ma ancora di più dalla situazione che venne a crearsi in Sardegna, come in altre regioni, quando, dalla fine del IV secolo con gli editti di Teodosio I, esso diventò l'unica religione di Stato; nel tessuto urbano si dovette lasciare spazio agli edifici per la liturgia cristiana e i santuari pagani iniziarono a essere chiusi. Con la conquista vandalica (ca. 455), le città risentirono della crisi politica che si estrinsecò nella lenta perdita della cura per gli edifici pubblici e per il tessuto urbano; le città a poco a poco assunsero una nuova fisionomia, segnando un forte iato con il passato. Continuarono a vivere, ma secondo nuovi modi di intendere l'impianto urbano nelle sue funzionalità. I valori ideologici del passato cominciarono a vacillare a favore di un senso pratico e utilitaristico. Il foro romano, che si caricava di forti significati legati all'impero, fu piegato a usi funzionali alla vita quotidiana. Gli spazi e i monumenti pubblici furono riutilizzati a scopi abitativi e produttivi e, forse, cultuali. Sembrerebbe infatti che, come riscontrato anche in Africa settentrionale, fosse venuta a mancare la netta distinzione tra aree pubbliche e private, con l'inserimento delle officine artigianali nel centro urbano. È soprattutto a partire dall'età bizantina che si verificarono le maggiori trasformazioni. I fulcri urbani, non più costituiti dal foro o dai templi pagani, ora gravitavano su nuovi poli, tra cui gli edifici di culto cristiano, le opere di fortificazione e le vie di comunicazione,
in particolare il porto per le città costiere. Nel quadro degli interventi giustinianei fu dato grande impulso alla realizzazione di strutture difensive. Come è stato notato per l'Africa settentrionale, il fenomeno non fu casuale, ma frutto di una pianificazione che definiva gli edifici da riutilizzare, per il loro stato di conservazione e sulla base della posizione occupata. Dietro c'era una precisa programmazione da parte dell'autorità bizantina, volta alla riappropriazione di aree strategicamente importanti. Oltre alla realizzazione di cinte murarie e castra, alcuni siti venivano dismessi per preferirne altri, più favorevoli per la difesa. Anche alcune terme furono trasformate in abitazioni, in monasteri, in chiese, in spazi funerari o, ancora, in fortificazioni, soprattutto se ubicate in posizione strategica. Nell'ambito della nuova fisionomia urbana i templi pagani, ormai dismessi dalla funzione sacra originaria, furono compresi nel patrimonio pubblico e riutilizzati come strutture difensive o come cava di materiali. In questo periodo continua, altresì, l'inserimento di attività artigianali nelle piazze monumentali, secondo un fenomeno ampiamente attestato a Roma, Herdonia e in varie città dell'Africa settentrionale e di cui si è ipotizzato un controllo da parte delle autorità politiche e religiose. Le strade urbane dall'età vandalica iniziarono a essere abbandonate, occupate da sepolture, o a soccombere sotto i crolli degli edifici in disuso. In epoca bizantina si registra la perdita dell'interesse per la cura del tessuto viario, spesso invaso da edifici. Mura e vie sancivano il rapporto tra la città e il suburbio, utilizzato, almeno fino al VI-VII secolo, prevalentemente a scopo funerario, non di rado con necropoli risalenti all'età romana, nelle quali si assistette ad azioni di recupero dell'antico. Fenomeni di continuità e riuso si presentano negli insediamenti rurali, nei vici, ma soprattutto nelle villae di epoca romana, recuperate per impiantare nuove realtà economico-produttive, guidate di solito da funzionari dell'Impero d'Oriente. Tracce di modifiche strutturali, legate a una nuova destinazione funzionale, si riscontrano anche in campagna in complessi termali in disuso, convertiti in luoghi di culto. Il riuso non coinvolgeva soltanto le strutture della più vicina epoca romana, ma anche quelle di età preistorica e protostorica. Si pensi al recupero delle domus de janas, occupate (dal
VII al IX, forse X sec.) da comunità monastiche di rito orientale, oppure a quello dei nuraghi, riutilizzati spesso per creare una rete difensiva dell'ambito rurale e del sistema stradale, che perpetuava quello romano. Passando ai commerci, in età vandalica si assistette alla continuità degli scambi con l'Africa settentrionale, con cui la Sardegna mantenne un rapporto privilegiato, preservato anche in epoca bizantina, quando si affermarono i prodotti provenienti dall'Oriente. L'equilibrio si ruppe con la conquista araba di Cartagine nel 698, che determinò un mutamento nella produzione e nei traffici delle merci africane; nel contempo si diffusero nuove tipologie ceramiche, come la Forum Ware (VIII-IX sec.) . In età bizantina vennero introdotte novità anche nelle attività artigianali, nel cui ambito si iniziarono a produrre manufatti e gioielli, quali fibbie di cintura, orecchini ecc., che mostrano molte analogie con oggetti del Mediterraneo orientale. Accanto ai nuovi apporti culturali che circolavano e si combinavano con la facies già esistente, creando una società integrata sotto diversi aspetti, il rapporto con il passato si estrinsecò anche nel recupero della tradizione locale; ad esempio, nella produzione della ceramica cosiddetta "stampigliata" è stato visto da un lato il recepimento di influssi esterni, dall'altro il legarne con il substrato autoctono del periodo tardorornano. O ancora, l'opera a telaio, ripresa in Sardegna a partire dall'età vandalica e per tutta l'epoca bizantina, riattecchì facilmente, trattandosi di un modo di costruire ormai radicato nella tradizione isolana, vantando le prime attestazioni già in epoca punica. Nasceva, dunque, un mondo nuovo nel quale era sentita e praticata la continuità con l'antichità classica, richiamata e riutilizzata, ma con evidenti cesure causate dalla nuova temperie istituzionale, economica, sociale e religiosa.
Nota bibliografica Sulle città altomedievali: BROGIOLO, GELICHI 1998, pp. 28-29, 31; PANI ERMINI 1998, p. 214; PERGOLA 1999; BROGIOLO, DELOGU 2006, pp. 623-624; PERGOLA 2006; GROHMANN 2007; BROGIOLO 2011, pp. 33-76, 207-224. Sulla legislazione: CANTINO WATAGHIN 1999, pp. 673750. Per i confronti con l'Africa settentrionale: LEONE 2007,passim; C. Vismara in VISMARA 2007, pp. 505-513. In generale sulle città sarde: SPANU 1998; SPANU 2006. Sul territorio si vedano: SPANU 2012; MARTORELLI 2018a. Per i commerci SORO 2022. Per le attività produttive in generale si vedano: CORONEO 2011; P1NELLI 2021.
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Territorio e insediamenti • Le città nell'età vandala e bizantina Rossana Martore/li APPROFONDIMENTI
Cara/es Rossana Martore/li
Nora Sabrina Cisci
Le città del Sinus Afer Pier Giorgio Spanu
Turris Libisonis Pier Giorgio Spanu
• L'insediamento rurale Pier Giorgio Spanu APPROFONDIMENTI
Dalla villa al complesso cultuale di Comus-Columbaris Sabrina Cisci
Le ville marittime di Santa Filitica e Sant'lmbenia Elisabetta Garau
La Sardegna nord-occidentale Gianluigi Marras, Daniela Rovina
• Il riuso dei nuraghi Giuseppe Maisola APPROFONDIMENTO
Il nuraghe San Pietro di Torpè Dario D'Orlando
• Il sistema difensivo Marco Muresu APPROFONDIMENTO
Il castrum di Medusa Elisabetta Sanna
• Le vie di comunicazione Marco Muresu APPROFONDIMENTI
La Lex Portus Marco Muresu
Relitti del Sud Sardegna 8. Veduta aerea dell 'area archeologica di Camus in territorio di Cuglieri (ri elaborazione di una foto Aeronike del 1991).
Ignazio Sanna
Porti , approdi e relitti della costa nord-orientale Gianluigi Marras
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Le città nell'età vandala e bizantina Rossana Martore/li
Nel paesaggio attuale della Sardegna non è semplice immaginare come apparissero le città a chi giungeva dal mare o percorreva l'articolata rete stradale nell'età dei Vandali e dei Bizantini. Purtroppo pesa sulla conoscenza della fisionomia urbana di questi secoli il destino al quale le plurimae civitates elencate nella Cosmographia dell'Anonimo Ravennate nel VII secolo sono andate incontro. In alcuni casi la continuità insediativa pressappoco sullo stesso luogo ( Carales, Sulci, Othoca, Forum Traiani, -Turris, Olbia) ha occultato le testimonianze, talvolta eliminandole del tutto per le nuove costruzioni. In altri (Nora, Neapolis, Tharros, Cornus, Bosa), invece, l'abbandono avvenuto gradualmente a partire dall'VIII secolo ha condotto al crollo e alla spoliazione degli edifici antichi, fino a diventare ruderi a poco a poco coperti da cumuli di terra, che rimangono invisibili e dunque sconosciuti, così da alimentare quelle leggende che si sono tramandate nella storiografia locale, che attribuiscono agli infedeli invasori (i Saraceni) la distruzione di tali città, ovviamente soprattutto perché cristiane. Le ricerche archeologiche di questi ultimi decenni hanno portato dati numerosi e importanti che, sebbene non abbiano ancora condotto alla ricostruzione completa della topografia urbana dei secoli V-X, permettono di delineare alcuni tratti del volto delle città sarde in età vandala e bizantina. È, infatti, ormai confermato che i centri urbani maggiori, di antichissima origine, non ebbero soluzione di continuità con il periodo romano per quanto riguarda il sito in cui si estendevano, ma la loro fisionomia esterna e interna fu in continuo mutamento, a causa dei nuovi fattori che si inserirono nella vita pubblica e privata di quei secoli.
Le mura Il perimetro murario, di norma già edificato in epoca romana, ma forse non più perfettamente conservato nel V secolo, diventò un elemento caratterizzante dei centri urbani soprattutto in epoca bizantina, quando anche l'Isola si trovò a dover fronteggiare attacchi esterni di Goti, Longobardi e Arabi. Le fonti scritte, sia pure
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scarse e concentrate prevalentemente su Carales, danno alcune indicazioni in merito. Lo storico bizantino Procopio lascia intendere che Carales era una città chiusa, alla quale si accedeva da un ingresso. Il già citato Anonimo Ravennate menziona Nora come presidium, sottolineando un ruolo di difesa. Il papa Gregorio Magno, in una missiva scritta nel 598, si rammarica di quanto i nemici abbiano compiuto in Sardegna (Longobardi?) ed esorta il vescovo caralitano Ianuarius a badare alla vigilia murorum; ancora nel 599 gli chiede che «civitatem suam vel alia loca fortius muniri provideat» ('che provveda a fortificare la sua città e altri luoghi'). Nel VII secolo Giorgio Ciprie scrive, nella Descriptio Orbis Romani, kastron tou Taron, in riferimento a Tharros. Non è certo se il circuito murario delimitasse solo una parte dell'abitato, come si ipotizza per Tharros, Neapolis e Turris, ma è verosimile che nella maggior parte dei casi avvolgesse l'intero ambito urbano. Racchiuse entro un circuito ben definito, in Sardegna come altrove, le città assumevano la configurazione di uno scrinium, che si riflette già nella denominazione di castrum/kastron riportata nei testi scritti. Soprattutto nell'età bizantina l'aspetto della protezione dei confini, in questo caso urbani, e degli individui che risiedevano nella zona, era molto sentito e affidato sia alla difesa attiva (esercito) sia passiva (mura). Nelle città era stanziato un presidio militare, sotto il comando del doux, che dal VII secolo assume anche i poteri civili e amministrativi. Dunque, strutture fortificate minori (i cosiddetti ridotti) dovevano esistere all'interno del territorio cittadino e a custodia di esso, sul modello dei castra africani edificati a partire dall'età giustinianea (di forma trapezoidale, con torri, spesso su altura), per ospitare la guarnigione militare, come il castrum sancti Longini citato s.u un'epigrafe a Carales (fig. 245), il kastron sulle pendici del colle di San Giovanni a Tharros, per la costruzione del quale vennero utilizzati blocchi asportati dalle fortificazioni puniche di IV secolo a.C.; la struttura risulta evidente a Neapolis dalle fo to aeree; il castrum di Sulci, a guardia del ponte cosiddetto romano e del porto.
Le vie e le piazze Il sistema stradale interno allè città nel V secolo mostra una sostanziale tenuta rispetto ali' epoca precedente: la piazza (il foro), i percorsi viari principali e secondari (diverticoli), generalmente lastricati, collegati con le arterie extraurbane, rimangono invariati, come a Tharros. Ben presto, però, i nuovi poli del potere civile e religioso, che diventano a poco a poco i gangli vitali delle civitates, insieme a edifici più consoni alle mutate abitudini della società, generano la dismissione di spazi pubblici, come il foro di Nora, che perde il suo ruolo almeno nella seconda metà del V secolo; l'abbandono di alcune strade, invase da altre strutture (a Carales, la porticus nell'area archeologica di Sant'Eulalia viene chiusa e suddivisa in ambienti abitativi o commerciali; a Nora le vie sono occupate da abitazioni). Al contrario, però, si impiantano ex novo vie e piazze, perno di nuovi quartieri, che vanno ad affiancare o a sostituire l'antico foro, fulcro della città romana, mutando la tradizionale concezione urbanistica monocentrica in una prospettiva policentrica. Il porto Le maggior parte delle città sarde era affacciata sulla costa ( Carales, Nora, Sulci, Neapolis, Othoca, Tharros, Cornus, Turris Libisonis e Olbia-Fausiana), a cui si aggiungono i due centri urbani rispettivamente sul fiume Temo (Bosa) e Tirso (Forum Traiani, l'unica interna, ma in posizione strategica su uno snodo stradale importante). Il porto dunque, marittimo o fluviale, è parte integrante della vita e della fisionomia cittadina e strettamente legato al sistema viario e alla creazione di nuove strade, che talvolta richiedono un mutamento della direzione proprio per assicurare il collegamento con un approdo, nato in aggiunta o in sostituzione del precedente, come a Carales. L'entrata in porto costituiva il biglietto da visita delle. città e dunque richiedeva anche interventi di decoro urbano per l'abbellimento e per garantirne la funzionalità. L'archeologia subacquea ha riportato in luce banchine, moli e infrastrutture (magazzini di stoccaggio) a Carales (viale Cimitero e via Campidano), Nora (vicino alla basilichetta), Sulci, Tharros (presso gli stagni di Mistras), Cornus (in località Su Pallosu) e Turris (vicino alla nuova Stazione marittima). Grazie a essi, le civitates sarde furono floride in tutta l'età vandala e bizantina, perché il commercio transmarino consentiva un'intensa
attività di scambio con l'esportazione di prodotti locali e l'acquisto di merci e manufatti dai maggiori mercati del Mediterraneo orientale e occidentale, come attestano i rinvenimenti in particolare di anfore. In età vandala i collegamenti avvenivano soprattutto con i porti dell'Africa settentrionale e della penisola iberica e, infatti, la Sardegna, diversamente da quanto accadeva nelle altre regioni mediterranee, non registra la flessione di ceramica africana, perché per ragioni politiche (l'Isola era parte del Regno dei Vandali) il legame era molto stretto. Tuttavia, una rete di collegamento doveva esserci anche con la Gallia meridionale, soprattutto da Turris Libisonis e forse da Bosa, città che è ancora in fase di esplorazione. Il caso di Olbia/Fausiana, tuttora in fase di studio, presenta molti aspetti interessanti. Le infrastrutture sono state riportate alla luce durante i lavori per la realizzazione del sottopassaggio funzionale all'attracco delle navi e, come è noto, in quell'occasione sono riemerse numerose imbarcazioni che erano state incendiate e affondate nel corso di un evento traumatico, che si è voluto connettere con l'invasione dei Vandali nel 455. Dopo questi fatti, sembra che l'approdo olbiense sia rimasto inattivo per un po' di tempo, prima di essere ripristinato forse nell'avanzata età bizantina, interrompendo quell'asse Sardegna-Roma che aveva tenuto in età romana, per evidenti ragioni di prossimità geografica. La momentanea cessazione dei rapporti con Roma e con la penisola potrebbe essere confermata anche dall'assenza in tutte le stratigrafie urbane sarde di monete gote, un circolante numismatico invece molto diffuso in tutti i Paesi del Mediterraneo che intrattenevano relazioni commerciali cori la capitale. I porti si mantengono attivi sino alla fine dell'età bizantina, ma i bacini di approvvigionamento in parte cambiano nei cosiddetti "secoli bui" (IX-X). Se gli approdi delle città del Sud dopo la caduta di Cartagine sotto gli Arabi nel 697-698 forse si relazionano maggiormente con l'Oriente, non è escluso che Porto Torres e Olbia siano state nuovamente le porte verso Roma e forse le regioni dell'Europa longobarda (Langobardia del Nord) e della Gallia merovingia e carolingia. Certamente, però, nuovi contatti si stabiliscono con la Campania, la Sicilia e la Puglia, come attestano le anfore globulari ben presenti nelle stratigrafie urbane.
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I nuovi quartieri L'archeologia sta attestando che le città al loro interno "si spostano': creando nuovi quartieri, che qualificano zone in precedenza marginali e/ o depotenziano luoghi tradizionali. Una prima ragione di tali mutamenti risiede nel fattore attrattivo del nuovo porto, verso il quale si proiettano molte attività, che talvolta - come già ricordato - si sposta rispetto alle epoche precedenti. Un altro input può essere determinato dalla nascita di ulteriori poli politico-religiosi. A Carales la riqualificazione dell'area est della città già iniziata almeno alla metà del IV secolo prosegue, creando un nuovo quartiere residenziale, prossimo alle mura, forse legato alla cattedrale. A Nora i dati acquisiti con gli scavi archeologici che da decenni interessano lo spazio urbano dimostrano con chiarezza uno spostamento del centro abitato verso ovest, a ridosso e a nord delle Terme a Mare. L'imponente struttura in laterizio edificata nel III secolo d.C. vede un rafforzamento delle murature, segno evidente della continuità d'uso, ma con diversa destinazione funzionale, dal momento che in quest'epoca è ormai cessato l'uso termale. Delimitato e attraversato da due vie lastricate perpendicolari fra loro, sulla più recente, parallela alla linea di costa, si affacciano sul lato sud le domus e gli ambienti artigianali, sul lato nord la chiesa. Tharros, invece, sembra mantenere la centralità dell'epoca precedente, tanto che presso quello che si ritiene il foro viene impiantata la cattedrale, riusando le Terme n. 1 (figg. 235-236). I luoghi del potere politico Nelle città risiedeva l'autorità con ruoli politicoamministrativi: si ha notizia a Carales di Goda, che rappresenta il re dei Vandali Gelimero negli ultimi anni della dominazione (533 ); nella stessa Carales risiede il praeses, che assolve le medesime funzioni per l'imperatore di Bisanzio; uno iudex è noto a Tharros agli inizi del VI secolo; duces, attestati a Carales, Sulci e Turris, almeno dal VII (forse dopo il distacco dall'Africa conquistata dagli Arabi) diventano la maggiore autorità cittadina. A Carales Flavios Pankratios è ap6 eparchon, cioè "prefetto onorario". Le residenze di tali autorità sono al momento ignote. Qualche suggerimento giunge dalla denominazione di Palazzo di Re Barbaro assegnata dalla tradizione al complesso termale romano nel centro di Turris. Di proporzioni monumentali, restaurato nel tempo, forse aveva affissa su una porta l'epigrafe del doux
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Konstantinos, datata verosimilmente all'VIII secolo (fig. 146). Risulta ancora frequentato nel IX, come si deduce dal ritrovamento di ceramica del tipo Forum Ware, una merce di lusso, prodotta in botteghe laziali e campane fra la metà dell'VIII e la metà del successivo (fig. 109). I luoghi del culto L'introduzione del Cristianesimo causa nelle città sarde - come altrove - la necessità di inserire nel tessuto urbano l'edificio di culto. Nei centri che diventano fra il V e il VI secolo sede di diocesi ci si aspetta di trovare il complesso episcopale, composto da una basilica per la liturgia ordinaria e solenne (la cattedrale), un battistero e la residenza del vescovo e del clero. La situazione "sarda" è ancora perlopiù sconosciuta. L'unico contesto accertato si trova a Tharros; qualche ipotesi è stata formulata per Carales e Turris, dove sulla base della letteratura tradizionale si ritiene che il vescovo officiasse sul Mons Agellus, su cui è tornata alla luce una chiesa, ma nessuna notizia per le altre città, tanto da far nascere la teoria secondo la quale l'Isola avrebbe costituito l'eccezione alla regola, ponendo la cattedrale in area suburbana, cimiteriale, presso i santuari dei martiri. Tale linea di pensiero oggi non è più molto condivisa, ma soprattutto la parola definitiva si potrà pronunciare solo quando il tessuto delle città sarà stato totalmente restituito alla luce dalle indagini archeologiche. In ogni caso, in una società a poco a poco completamente cristianizzata, l'edificio di culto era imprescindibile e non solo nelle sedi diocesane. A Nora, infatti, la ricerca archeologica ha portato alla scoperta di una basilichetta, situata a ovest della città, di modeste dimensioni, a tre navate, monoabsidata, preceduta da un portico. In generale il tessuto urbano è segnato dagli inizi del V secolo ormai dai luoghi per il culto cristiano, in tutte le declinazioni: oltre alle chiese urbane, si conoscono basiliche suburbane, legate alle funzioni funerarie e/o martiriali, rivolte alla devozione per figure locali a Carales (san Saturnino), Nora (sant'Efisio), Sulci (sant'Antioco), Tharros (non si sa a chi fosse dedicata), e Turris (san Gavino), dove un edificio di culto mononave vede un ampliamento in chiesa a tre navate in età protobizantina, per poi essere demolito e lasciar spazio a un'altra chiesa, di cui è sopravvissuto solo un portico, a sua volta occultato dalla basilica romanica di San Gavino. Come si diceva, alcuni studiosi ritengono che in questo
vada riconosciuta l'antica cattedrale e non la prima memoria dei santi. La ricerca archeologica potrà in futuro fornire dati più chiari. Il tessuto cristiano si arricchisce con l'introduzione di nuove figure venerate introdotte dall'Africa in epoca vandalica dai vescovi, monaci e fedeli ortodossi esiliati per ragioni dottrinali. Le notizie si ricavano dalle fonti scritte e dalla sopravvivenza di questi culti, ma purtroppo ben poche sono le testimonianze monumentali. Il caso di Carales, come sempre fra tutti quello più documentato, suggerisce che queste devozioni "importate" trovassero spazio in una zona diversa rispetto a quella dedicata al martire locale, seguendo quasi una logica organizzativa dell'urbanistica. Non poco incisiva fu poi la diffusione della disciplina monastica, che nelle città si espresse nella forma del cenobio, ma soprattutto nella dimensione domestica. Nel primo caso, a partire dal più antico monastero in senso proprio del termine, fatto costruire da Fulgenzio di Ruspe iuxta basilicam sancti Saturnini nel ,suburbio orientale di Carales, si ipotizza poi la presenza di conventi presso le basiliche martiriali di Sant'Efisio a Nora (che peraltro sopravvive anche dopo la fine della città, evidentemente a memoria dell'antico culto e a uso degli abitanti del territorio) e di Sant' Antioco a Sulci. Nel secondo, invece, è l'epistolario di Gregorio Magno a fornire molte informazioni circa la presenza di piccole comunità maschili e femminili, in cui si viveva secondo i principi dei monaci, all'interno di domus private destinate dai proprietari in vita o lasciate in testamento a tale scopo. A Carales esse sembrano numerose, dislocate forse alla periferia della città o nel suburbio, in zone più silenziose, ma pienamente inserite nella vita della società urbana. Anche a Turris se ne conosce una. I monaci di rito orientale, che prediligevano habitat rurali e spesso rupestri, sono attestati in ambito urbano a Carales, forse perlopiù di passaggio, ma non è detto che non avessero uno stanziamento più stabile. Sono documentati xenodochia per l'accoglienza di pellegrini a Carales e Turris. Inoltre, la memoria di un'attività di solidarietà anche a Tharros e Olbia svolta da laici benefattori, i quali dovevano occuparsi della cura animarum e del sostentamento spirituale ma anche fisico e materiale dei bisognosi, insieme probabilmente ai religiosi e al clero, lascia intendere che la rete delle strutture di carità cristiana fosse nelle città abbastanza fitta.
Per quanto concerne le altre confessioni religiose, non si hanno notizie esplicite di presenze ariane, ma solo qualche ipotetico labile indizio; invece esisteva in tutta l'Isola una consistente comunità ebraica, attestata in ambito urbano a Carales, Sulci, Tharros e Turris. Degli antichi templi pagani, come è ovvio, la città in età vandala e bizantina doveva vedere ormai i ruderi (come si legge nelle passiones dei martiri), o forse ne aveva riutilizzato qualcuno, ma al momento non si hanno attestazioni sicure.
Le infrastrutture Le città erano ben servite da un acquedotto: a Carales risaliva all'epoca romana, era collegato con diverse diramazioni a canalette e cisterne (il quartiere della Marina per questo prese poi il nome di Bagnaria); a Nora viene restaurato poco prima dell'arrivo dei Vandali, tra il 425 e il 450 d.C.; a Cornus alcuni blocchi sono stati riusati in una struttura ellittica, forse circuito murario di un castrum. La vita nelle città in età vandala e bizantina Le condizioni di vita delle comunità urbane dovevano essere comunque di buon livello, stando ai reperti che vengono recuperati nelle stratigrafie negli scavi archeologici: come si è detto, merci di ottima qualità giungevano dai migliori mercati del Mediterraneo; inoltre, l'archeologia sta restituendo i resti di molte strutture artigianali, che attestano una intensa produttività locale, come ad esempio a Nora. La cultura scritta era di buon livello, curata soprattutto dai religiosi. La comunità urbana è prevalentemente di matrice latinofona, ma con i nuovi dominatori si introduce il greco bizantino, attestato nelle attività amministrative e talvolta anche nelle epigrafi funerarie, forse relative a individui di origine orientale ormai stanziati in Sardegna. Le abitudini della nuova società cambiano e questo genera la dismissione di edifici usati nel tempo libero e fondamentali nella mentalità romana, come le terme, i teatri e gli anfiteatri, che vengono ridestinati ad altri scopi, quali edifici pubblici fortificati (Nora, Turris), chiese (Tharros, complesso episcopale; Neapolis-Santa Maria di Nabui), sepolcrali (anfiteatro di Carales ), artigianali (teatro di Nora). Lo spazio dei morti Lo spazio riservato alla sepoltura dei defunti e ai riti di commemorazione almeno fino al VII-inizio VIII secolo rimane nel suburbio delle civitates sarde, nei cimiteri dislocati in
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una fascia che circonda l'ambito urbano, all'esterno delle mura, a una distanza che non superi 3 miglia dal limite urbico, rispettando la normativa in vigore nell'Impero Romano. L'organizzazione prevedeva cimiteri in campi aperti, sterrati, delimitati probabilmente da recinti, in cui venivano sistemate sepolture "alla cappuccina", in fossa terragna, in sarcofago e cassone, in anfora, secondo modalità ben conosciute e documentate anche in Sardegna dall'archeologia. Solo uno è ipogeo (la catacomba di Sant'Antioco a Sulci) . In molti sepolcreti sono stati ritrovati anche i dispositivi per i riti di commemorazione, ovvero le mensae per i banchetti presso le tombe dei propri cari, una prassi ben documentata in Africa, ma in generale nelle regioni costiere del Mediterraneo. La chiesa è un elemento caratteristico, necessario per la liturgia funeraria e commemorativa, che costituisce un polo importante della vita sociale della città. La dismissione graduale delle aree funerarie suburbane, che rappresentavano un collegamento costante fra la città e l'esterno, e il progressivo spostamento delle sepolture in città, anche se poco attestato ancora nell'Isola (per ora solo a Carales, Tharros, Nora), accentuò la configurazione della città chiusa e ben protetta, che verosimilmente esse mantennero sino all'ultimo periodo della loro frequentazione.
La fine della città bizantina L'archeologia ha oggi dimostrato l'infondatezza della teoria dell'abbandono delle città sarde a causa delle incursioni arabe agli inizi dell'VIII secolo, all'indomani della conquista di Cartagine nel 697-698, dal momento in cui l'Isola non apparteneva più alla provincia d'Africa. Sulla reale consistenza della presenza araba in Sardegna e nelle sue città al momento si discute molto, ma si hanno solo testimonianze sporadiche e scollegate fra loro, che non consentono di tracciare un quadro unitario. Sembra appurato che non vi fu mai una vera e propria conquista e sottomissione agli Arabi, come nel caso della Sicilia, ma secondo alcune fonti essi avrebbero imposto la jizya, la tassa che garantiva ai Paesi cristiani protezione e libertà di culto. Si è ipotizzata una presenza araba a Carales nel X secolo, forse un contingente che usava la chiesa antica di San Saturnino per i riti musulmani, per il ritrovamento in loco di due epigrafi arabe. L'Isola, in realtà, rimane nell'Impero d'Oriente sino al X secolo, dipendendo direttamente
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dalla madrepatria, e ne costituisce il limite occidentale, condizione che influisce anche sulla vita delle civitates, che nel IX vengono ancora nominate come sedi di diocesi nella
tertia notitia episcopatuum orientalium, all'epoca di Leone il Sapiente, tra 1'866 e il 912. L'archeologia urbana sta evidenziando una situazione molto fluida e non univoca, in cui alcune città, come ad esempio Nora, Neapolis, Othoca, Cornus, cessano di vivere a partire dagli inizi dell'VIII secolo; mentre altre, sia pure attraverso momenti difficili, giungono sino al IX, forse anche al X, come Carales, Sulci, Turris e Olbia-Fausiana, dove è stata trovata la Forum Ware, importante fossile guida. Si ritiene poi che Tharros sia stata definitivamente abbandonata nell'XI con il trasferimento dei poteri a Oristano, anche se da tempo aveva ormai perso la sua dignità urbana a vantaggio dell' oppidum Sancti Marci, noto da fonti seicentesche. La vita urbana negli ultimi tempi fu però segnata da fasi alterne, che sul terreno hanno lasciato traccia in "pieni" e "vuoti': ovvero in fasi attive, con nuove costruzioni edilizie soprattutto di tipo residenziale e di frequentazione, alternate a periodi di crolli, forse causati da attacchi alle coste non molto sicure, ma certamente anche da ingressione delle acque marine, che modificarono la linea di costa (ad esempio a Nora). Le stratigrafie urbane hanno infatti conservato evidenti tracce di abbandoni temporanei e ritorni, fino alla dismissione definitiva degli edifici, al trasferimento degli abitanti in altre zone ( Carales/Santa Gilla, Tharros/Aristiane/Oristano ecc.), che generarono la desertificazione almeno parziale delle aree urbane e spesso la spoliazione delle strutture pubbliche e private. Una serie di concause, dunque, fu all'origine della graduale fine delle antiche città sarde in favore di altri centri urbani, le nuove sedi del potere giudicale, che veniva a sostituire la ormai finita civiltà bizantina.
Fonti CIL, X, 7542; CLE 290; La guerra gotica di Procopio di Cesarea, a cura di D. Comparetti, Roma, 1895-98, IV, 24; Gregorii Magni opera, Registrum epistolarum, I-IV, ed. D. Norberg (Corpus Christianorum Latinorum, CXL, trad. e comm. a cura di V. Recchia: Opere di Gregorio Magno, Lettere, I-IV), Roma, 1996-99, IX, 11 , 196.
Nota bibliografica Per studi di carattere generale sulle città sarde in età vandala e bizantina si rinvia a: PANI ERMINl 1988b; PANI ERMI I 1995; SPANU 1998, pp. 20-38; SPANU 2006; MARTORELLI 2017b.
approfondimenti Cara/es Rossana·Martore/li
9. Cagliari, area scavata negli anni Cinquanta del Novecento per la costruzione della sede della Banca d'Italia (foto Archivio SABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna).
Agli inizi del V secolo Carales insisteva sul sito in cui si era sviluppata dall'epoca repubblicana e dove rimase per tutta l'età vandala e bizantina. Come molte altre civitates coeve, assunse sempre più la forma di uno scrinium, grazie alle mura urbiche, delle quali sopravvivono resti al confine nord (sotto la chiesa di San Michele nel quartiere di Stampace) ed est (viale Regina Margherita, sotto l'ex albergo La Scala di Ferro), ma che dovevano cingerla anche sul lato ovest e forse sud, con una linea marittima. A un ampliamento verso oriente sembra pertinente il tratto aggiunto alla già citata
struttura sotto l'albergo, che doveva concludersi presso la costa in quei ruderi riportati in luce negli anni Cinquanta del Novecento in via XX Settembre (fig. 14). Tale lacerto fu posto su un interro che conteneva reperti databili fino al VI secolo d.C., termine cronologico che suggerisce di collegare l'intervento all'esigenza di rafforzare la sicurezza della città, che il papa Gregorio Magno denunciò con grande preoccupazione in due lettere inviate all'arcivescovo Ianuarius nel 598 e 599. Dal circuito urbico rimaneva però fuori il porto. Secondo il racconto dello storico
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nord-est/sud-ovest, già esistente in età romana, e un altro pereorso nord-ovest/sud-est, verso il nuovo porto. cambio di direzione, ben evidente nelle strutture tornate alla luce durante la costruzione della sede della Banca d'Italia (fig. 9) e nell'area archeologica sotto la chiesa di Sant'Eulalia (figg. 10-13 ), è indizio di uno spostamento della vita urbana sempre più verso est (odierno quartiere della Marina). Infatti, mentre nella zona occidentale le indagini condotte in via Caprera hanno restituito oggetti che non superano il VII secolo, nella porzione orientale il settore impiantato non prima della seconda metà del IV ai lati di una via lastricata vide un continuo potenziamento. Nell'area archeologica di Sant'Eulalia, una via colonnata aperta verso ovest con effetto scenografico, riqualificava il quartiere in forme monumentali, collegando il nuovo porto forse a una piazza, o a un edificio importante, civile o religioso. Carales, infatti, fu la sede della principale autorità politica dell'Isola (in età vandala si conosce lo iudex Goda e in epoca bizantina il praeses), ma circa il luogo di residenza non si hanno dati. Si può solo ipotizzare che si trovasse nel centro, forse presso l'antico foro (che coincide con l'attuale piazza del Carmine), per il rinvenimento di pesi ed exagia (fig. 130) usati solitamente negli uffici per la burocrazia. Agli inizi dell'età bizantina risale una torretta quadrangolare, tornata in luce sotto al transetto sinistro della chiesa di Sant'Agostino Nuovo alla Marina, edificata su un più antico complesso, sicuramente ancora in uso fra il V e il VI secolo, perché l'interro che l'aveva colmato dopo la dismissione ha restituito monete coniate dai re vandali. Per le sue dimensioni, troppo modeste per essere attribuita al lato marittimo delle mura urbiche, potrebbe essere appartenuta a una dimora di lusso, pubblica o privata, affacciata sul Golfo. L'edilizia residenziale comune era distribuita su tutto il tessuto urbano. Ancora abitato era l'isolato all'estremità nord-ovest della città, noto come villa di Tigellio, che ha restituito oggetti di VI-VII secolo; altre case sono state riportate in luce nell'area di Sant'Eulalia. Un elemento connotante la fisionomia di Carales, come tutte le realtà urbane coeve, è l'edilizia ecclesiastica, che all'indomani degli editti di Teodosio I (fine IV sec.) e per tutta l'età vandala si esprimeva almeno nella memoria legata al martire Saturnino, nel suburbio orientale, mentre non si hanno
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10. Cagliari, area archeologica sotto la chiesa di Sant'Eulalia. Imboccatura della cisterna con brocche e anforette ritrovate al suo interno, utilizzate per attingere l'acqua (V sec.). 11. Cagliari, area archeologica sotto la chiesa di Sant'Eulalia. Via lastricata che attraversa il quartiere residenziale abitato dalla fine del IV al VII-VIII secolo. 12-13. Cagliari, area archeologica sotto la chiesa di Sant'Eulalia. Via porticata e una casa privata.
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bizantino Procopio, ove narra il fallito tentativo di conquista di Carales da parte dei Bizantini, nel 552, i Goti, "usciti" dalla città, piombarono sui nemici: molti vennero uccisi, mentre altri si misero in salvo sulle navi. Il riferimento è verosimilmente al nuovo scalo, un'insenatura nel suburbio orientale (oggi viale Cimitero), vicino alle saline, dove le indagini subacquee hanno restituito anfore di VIII-IX secolo. Probabilmente, però, gli approdi erano due, poiché i ritrovamenti marini attestano che il vecchio bacino, prospiciente l'antico foro, veniva ancora utilizzato. La superficie urbana entro le mura disegnava una stretta striscia di terra che tenditur in longum, come alla fine del IV secolo l'aveva già descritta Claudiano nei suoi versi, osservandola dal mare. Sebbene l'archeologia non abbia ancora riportato in luce tutto il tessuto urbanistico dell'epoca, dai dati disponibili si può affermare che la città era imperniata su una griglia viaria con doppio orientamento: un asse
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notizie circa il complesso episcopale, sede del vescovo metro.polita. Tuttavia, già durante la dominazione dei Vandali {e per effetto di essa), ma soprattutto in epoca bizantina, il tessuto cristiano si arricchi. Alla cattedrale, la cui ubicazione continua a non essere sicura per questi secoli, ma che diversi indizi suggeriscono di porre nel "nuovo" quartiere, e al martyrium edificato sulla tomba del patrono Saturnino, ricostruito in forme monumentali fra VI e VII secolo, si aggiunsero nuovi poli religiosi dedicati ai santi africani (santa Restituta, santa Giusta) e orientali (Andrea, Anania, Nicola). I monaci giunti dall'Africa al seguito di Fulgenzio di Ruspe, che aveva fondato vicino alla basilica suddetta un cenobio; le numerose comunità di religiosi insediate in domus private all'epoca di Gregorio Magno, insieme ai funzionari inviati da Bisanzio, furono tra i principali artefici di tale "cristianizzazione" urbanistica. Dal VII al IX secolo, inoltre, Carales accolse gruppi provenienti dall'Oriente, forse solo di passaggio, sebbene non si possa escludere che vi fosse un monastero di disciplina orientale presso la chiesa di Santa Maria de portu gruttis, divenuta poi San Bardilio e demolita definitivamente nel 1929, presso il cimitero di Bonaria, come farebbero pensare alcune anfore destinate a Pateres ('Padri') ellenofoni (che parlavano in greco). Non si sa se nell'età vandala fossero stati costruiti nuovi edifici di confessione ariana, o la comunità avesse requisito le chiese ortodosse (come in Africa), mentre è nota da una lettera di Gregorio Magno e da alcune lucerne con candelabro ebraico la presenza di una sinagoga nel 599. Carales in questo lungo arco di secoli presentava tutti i caratteri di una città "capitale", attiva e coinvolta nelle vicende politiche, religiose, economiche e socioculturali del tempo. Una società multietnica, composta da autoctoni, africani e bizantini, che comunicavano in latino e greco anche nella vita quotidiana, come attestano alcune epigrafi funerarie, viveva in una realtà culturalmente vivace (si pensi all'attività di copiatura dei testi nello scriptorium del cenobio fulgenziano). Le fonti scritte e i ritrovamenti archeologici documentano un buon livello economico: la definizione che il compilatore della passio di sant'Efisio, negli ultimi decenni dell'età bizantina, offre di civitas magna, populo et divitiis florens è confermata dalla circolazione di beni, garantita da un florido commercio, sia su terra 43
(si vedano le merci elencate nella Lex Portus) che per mare. Le anfore recuperate nel tratto davanti al litorale provano contatti con tutti i principali mercati del Mediterraneo orientale e occidentale. Unafonte di reddito doveva essere anche il commercio del sale. Una fascia suburbana circonda r area urbana a nord, est e ovest e costituisce lo spazio destinato ai morti, in continuità con l'epoca romana, almeno fino al VII secolo. In questo frangente, probabilmente la deroga alla normativa vigente consente anche di dare sepoltura in città, come lascerebbe intendere la testimonianza di Nereida, vedova del benefattore Ortolano, proprietario di uno xenodochio, che chiede al vescovo Ianuarius di poter seppellire la figlia nella sua ( del vescovo) chiesa. Fra l'VIII e il X secolo (i cosiddetti "secoli bui"), la città, seguendo le sorti dell'Isola, non sembra essere mai caduta sotto altri dominatori che non siano stati i Bizantini, ma certamente dovette essere necessaria una continua allerta per la difesa, assicurata dall'esercito e dalla flotta di stanza nei suoi porti. Lo status di città portuale la espose a inevitabili attacchi dal mare, da parte di Goti, Vandali, Bizantini, Arabi e Longobardi (questi ultimi portarono via le reliquie di sant'Agostino per trasferirle a Pavia, ufficialmente per proteggerle dagli infedeli). Sebbene sia doveroso sfrondare da facili luoghi comuni l'abbondante letteratura sulle devastazioni operate dagli Arabi e non si
14. Cagliari , tratto murario sotto il Palazzo dell'INPS trovato negli anni Cinquanta del Novecento (foto Archivio SABAP per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna).
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abbiano notizie di una conquista islamica, tuttavia Carales registra la presenza di Arabi, come attestano un'iscrizione funeraria rinvenuta nel cimitero presso San Saturnino e un graffito sempre funerario su un blocco oggi murato nella parete nord del braccio ovest, lasciando intendere una possibile enclave. La ricerca archeologica ha evidenziato alcune tracce sul terreno collegabili a scontri bellici, ai quali potrebbero forse ricondursi anche alcuni poderosi crolli di edifici, mai più ricostruiti, che disegnarono una città a macchie, in cui i "pieni" (ovvero il "costruito") si alternavano ai "vuoti" (aree disabitate e occupate da ruderi), creando spazi destinati a orti presso dimore private: una città ruralizzata, come si è soliti dire, ma comunque ancora abitata e attiva. Peraltro, nella fascia suburbana al suo esterno (a nord, sotto al Bastione di Santa Caterina; a est, ai piedi del colle di Bonaria) sono stati ritrovati recipienti classificabili come Forum Ware, una ceramica rivestita di vetrina verde, prodotto di lusso importato dalla penisola tra la metà dell'VIII e la metà del IX secolo. Le vicende politiche che portarono alla fine dell'età bizantina causarono un graduale trasferimento degli abitanti di Carales verso la laguna di Santa Gilla, dove sarà stabilita nei secoli successivi la sede principale del Giudicato di Càlari. L'abbandono della città provocò una progressiva desertificazione, che però non sembra avvenire prima del X secolo,
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15. cagtiari, veduta area di San
Saturnino e piazza San Cosimo (foto Aeronike, 1990).
16. cagtiari, area archeologica di San Saturnino: settore del cimitero in uso dall'epoca romana all'età vandala e bizantina.
forse in relazione con l'attacco a Genova degli Arabi nel 935, che di ritorno potrebbero averle inferto il colpo di grazia. Sui ruderi con il tempo si depositarono alti strati di terra, sui quali la vita urbana riprenderà in maniera sistematica solo in età pisana.
Germaniae Historica, Auctores Antiquissimi, 10, recensuit Theodorus Nirt, Miinchen, 1995); Gregorii Magni opera, Registrum epistolarum, I-IV, ed. D. Norberg (Corpus Christianorum Latinorum, CXL, trad. e comm. a cura di V. Recchia: Opere di Gregorio Magno, Lettere, I-IV), Roma, 1996-99, IX, 11, 196.
Nota bibliografica Fonti La guerra gotica di Procopio di Cesarea, a cura di D. Comparetti, Roma, 1895-98, IV, 24; Claudii Claudiani Carmina, De bello gildonico, I, 520-524 (Monumenta
SPANU 1998, pp. 20-38; CJSCI, ET AL. 2013; MARTORELLI, MuREoou 2013; SALVI, Fms 2013; SANNA, SoRo 2013; MARTORELLI 2015a; MARTORELLI 2016; MARTORELLI, GIUMAN 2019; MARTORELLI 2019c; MARTORELLI, MUREDDU 2020; MARTORELLI c.s.(b).
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Nora Sabrina Cisci
17. Nora, i resti della basilica cristiana.
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L'antica città di Nora continuò a vivere fino almeno al VII secolo d.C. Intorno alla metà del V si mostrava come un centro rigoglioso; infatti, un'iscrizione ricorda alcuni restauri effettuati nell'acquedotto tra il 425 e il 450 d.C., dimostrando che a quell'epoca era ancora vivo l'interesse per il mantenimento dei monumenti e delle infrastrutture cittadine da parte del potere centrale. L'esecuzione di un programma di interventi strutturali volti alla salvaguardia del decoro urbano è confermata, inoltre, dai dati archeologici che documentano i restauri nel foro e la probabile realizzazione della basilica cristiana (fig. 17). Quest'ultima, infatti, è stata datata intorno alla metà del V secolo oltre che per esigui elementi stratigrafici, soprattutto sulla base di alcune caratteristiche della pianta. Realizzata sopra resti più antichi, in prossimità delle Terme a Mare, presenta un'aula a tre navate (33 x 22 m), che terminava con un'abside ed era preceduta da un portico trasversale in funzione di
nartece, accessibile da gradinate poste negli intervalli di sei pilastri. Pur mancando dati archeologici certi, è stata ipotizzata l'esistenza di un secondo polo cultuale cristiano rispetto alla basilica urbana, incentrato sulla memoria di sant'Efisio. La chiesa medievale, infatti, sorse nell'ambito di un'area funeraria romana e paleocristiana, ragion per cui si è supposto che sia stata impiantata su un edificio di culto precedente, realizzato su una tomba venerata che si ipotizza, appunto, essere quella di Ephisius. Quanto al foro (fig. 18), entro il primo quarto del V secolo fu restaurato nel tratto settentrionale del portico occidentale, nonché nella fronte colonnata. Solo il tempio che lo inquadrava a nord conobbe alcune trasformazioni, tra cui la chiusura della parte anteriore del recinto, precludendo il collegamento con la piazza forense; indizio, per alcuni, della perdita della funzione cultuale. Successivamente, dalla metà del V secolo e per tutta l'età vandalica, il centro cittadino
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18. Nora, veduta dell'area del foro. A sinistra si individua il tempio nella sua ultima fase altomedievale con probabile destinazione difensiva.
con il foro, il teatro e le Terme Centrali fu oggetto di modifiche strutturali e deputato a usi abitativi e/o produttivi, con la perdita della funzione pubblica, fatto che denota la crisi politica in corso. Stesso destino anche per il quartiere occidentale con l'Insula A e le Piccole Terme, dove è stato ipotizzato l'inserimento di una fornace per la cottura di laterizi, cui seguirono fenomeni di crollo e di abbandono. Per quanto riguarda il teatro, sono stati individuati dei focolari ali' aperto. Tra il V e il VI secolo furono realizzati ambienti addossati alle strutture preesistenti, interpretati come abitazioni cui si connetterebbero i grossi contenitori per derrate (dolia) nell'iposcenio, forse ora utilizzato come cantina (fig. 19) . Nel foro il lastricato della piazza non venne più curato, fu asportata la pavimentazione nei due portici laterali e furono inseriti focolari e buche di funzione indefinita. Poco dopo la metà del V secolo vennero realizzati dei pozzi,
nonché degli ambienti con materiali di reimpiego; un chiaro segnale della nuova destinazione produttiva è dato da una fossa colma di frammenti di marmo, forse riservati ai forni per la produzione della calce. Anche le Terme Centrali subirono delle trasformazioni strutturali, verosimilmente dovute alla nuova funzione abitativa e produttiva. È stato documentato anche l'inserimento di una tomba, secondo un fenomeno assai frequente nelle città altomedievali. In questo periodo anche l'edilizia residenziale risentì dell'atmosfera di declino, come attestano i crolli nel quartiere occidentale. Invece in quello centrale si assistette a una riorganizzazione degli spazi, di cui si conservano quelli a destinazione produttiva e artigianale del piano terra. In età bizantina la città mostrò una nuova veste. La fisionomia assunta nella fase precedente, che andò a mutare in maniera
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19. Nora, il teatro romano. Si notano i t,ossi contenitori per derrate nell'iposcenio.
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definitiva l'aspetto urbano di età imperiale, aveva segnato un punto di non ritorno. In questo momento la città sembra gravitare sul porto all'estremità settentrionale, sulla basilica urbana e sulle strutture fortificate che vengono ora realizzate. Tra il VI e il VII secolo d.C. presso il tempio di Eshmun, forse in contemporanea alla perdita della funzione religiosa, vennero inseriti degli ambienti interpretati come alloggi (fig. 20). In questo momento si assistette alla defunzionalizzazione della rete stradale, chiaro segnale della perdita della cura del tessuto urbano. Infatti, se fino al V secolo il sistema viario venne in qualche modo rispettato, anche quando presso il teatro furono inseriti battuti di terra e ghiaia, dal VI si verificò l'abbandono di alcune strade invase da abitazioni, come
sul colle di Tanit, sui cui crolli venne in seguito realizzata una modesta abitazione. L'unica via usata in maniera continuativa fino almeno all'inizio del VII secolo è quella che conduceva al porto. Nonostante l'abbandono degli edifici che vi si affacciavano, la strada continuò, infatti, a essere tenuta sgombra da crolli e macerie. In effetti questo percorso conduceva al porto, alla basilica cristiana e alle Terme a Mare ora ipoteticamente convertite in strutture fortificate. Uno dei dati di maggior interesse per questo periodo è la trasformazione della città in senso militare. Se è testimoniata per il VII secolo dalla Cosmographia dell'Anonimo Ravennate (Rav. Anon., Cosm., V, 26), in cui Nora è definita infatti praesidium, è verosimile che questa nuova funzione sia da collocare nell'ambito
20. Nora, gli ambienti a cellette presso il tempio di Eshmun .
dei provvedimenti giustinianei volti alla realizzazione di fortificazioni in diverse città sarde, sia sulla costa che nell'interno. In età bizantina, infatti, le Terme a Mare e il tempio sul foro furono probabilmente trasformati in strutture fortificate (fig. 18), in virtù della loro posizione sul mare, secondo quanto prescriveva la trattatistica militare dell'epoca (De re strategica, IX, 3, XI, 1), e a controllo della principale via che conduceva al porto. Nora continuò verosimilmente a essere abitata fino all'VIII secolo, quando, forse a causa delle incursioni arabe, fu abbandonata. In effetti, alla fine del VII o all'inizio del secolo successivo viene datato un incendio nelle Terme a Mare. Tale cronologia è confermata dai reperti, tra cui spiccano una brocchetta costolata cosiddetta bizantina e un'anfora globulare con decorazione impressa a pettine con motivi a onda, databile tra il VII e l'VIII d.C. Lo scavo del vano M/a ubicato lungo il lato est della via del porto dimostra la vitalità di questo quartiere fino al VII secolo. Datazione a cui riconducono anche i
rinvenimenti ceramici nel territorio, che portano a confermare che in quel periodo il porto era ancora attivo ed efficiente. Anche le fonti tacciono dopo il VII, per riprendere solo nell'XI, momento in cui compaiono i primi documenti sulla chiesa di Sant'Efisio, databile nelle forme attuali proprio in quel periodo. Nota bibliografica La città di Nora è stata oggetto di numerosi studi che interessano le diverse fasi di vita, da quella fenicia in poi. Per l'età tardoantica e altomedievale una sintesi accurata è presente in BONETTO, GHIOTTO 2013. Si veda inoltre SPANU 1998, pp. 38-47. Per la basilica cristiana si vedano: BEJOR 1994, pp. 854-855; BEJOR 1997; BEJOR 2000; BEJOR 2004, pp. 5-6; M. Novello in BONETTO, GHIOTTO, NOVELLO 2009, p. 437; CORONEO 2010, p. 295. Per la memoria in onore di sant'Efisio si vedano: SPANU 1998, pp. 44-47; SPANU 2000b, pp. 7781; SPANU 2002b, pp. 85-88; SPANU 2010a, pp. 67-69. Sulle fortificazioni si vedano: PANI ERMINI 1988b, p. 436; SPANU 1998, pp. 38, 41-42; GARAU 2007, pp. 61-62, 73; M. Novello in BoNETTO, GHIOTTO, NOVELLO 2009, pp. 445-446. Sull'organizzazione militare bizantina cfr. PERRA 2002, in particolare sulla funzione militare di Nora, pp. 128, 135. Per l'analisi della frequentazione nel territorio si veda GARAU 2007.
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Le città del Sinus Afer Pier Giorgio Spanu
Secondo alcuni la denominazione di Sinus Afer sarebbe riferita nell'antichità al Golfo di Oristano, nel rapporto che tale area poté avere fin dall'età arcaica con r Africa, da un punto di vista commerciale e militare, e il nome sarebbe stato poi eventualmente ereditato dalla diocesi paleocristiana di Senafer, la prima ad essere attestata, fin dal V secolo d.C., nei territori prospicenti il Golfo e forse successivamente estesa nelle aree limitrofe. Seppure non si abbiano elementi sufficienti per accettare tale ipotesi, è invece rilevante il fatto che nel Golfo di Oristano si conosca la maggiore concentrazione di centri urbani della Sardegna antica: Tharros, sicuramente fin dall'ultimo terzo del VII secolo a.C.; Othoca, la cui fondazione è di poco più tarda; Neapolis, che raggiunse forse la dignità cittadina al principio della dominazione cartaginese nell'Isola, entro il VI a.C. Tutte le città erano dotate di un porto, considerato il loro ruolo come collettori delle risorse del territorio e centri di scambio. Per tale ragione possiamo aggiungere a queste Cornus, poco più a nord, centro verosimilmente indigeno costituito come urbs entro il III secolo a.e., in un contesto culturale sardo-punico, che, pur non affacciandosi sul Golfo, gravitava comunque verso le sue aree come centro di raccolta delle risorse minerarie del Montiferru, oggetto di scambio fin dall'età protostorica. Le quattro città sopravvissero in età romana, occupando le stesse aree dei centri arcaici, e ancora fino alla prima età bizantina, seppure con mutate forme rispetto a quelle originarie, anche se i dati a disposizione sono insufficienti per cogliere appieno l'evoluzione urbanistica. Solo Tharros dovette essere abitata fino a età più tarda: la sua storia finì probabilmente intorno all'XI secolo, anche se ormai in tale epoca doveva avere perso già la sua dignità urbana, a vantaggio di quello che in fonti seicentesche è noto come oppidum Sancti Marci. Tharros Ciò che oggi resta della città riflette in gran parte l'assetto urbanistico che il centro aveva in età romana imperiale, tra III e IV secolo d.C.: in alcune aree rimangono però strutture costruite in epoca vandalica e bizantina,
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anche col riuso di materiali spoliati da edifici più antichi, mentre alcuni monumenti di età romana subirono modifiche per essere destinati a nuove funzioni (fig. 21 ) . . Mancando la menzione del vescovo di Tharros tra i presuli sardi che parteciparono al Concilio di Cartagine del 484, è probabile che la sede episcopale venne istituita al principio del VI secolo, in piena età vandalica. L'insula dominata dalle terme settentrionali dietà imperiale, note come Terme n. 1, fu completamente ristrutturata nel momento in cui venne inserito in questa porzione urbana un complesso cultuale connesso alla presenza del vescovo, di cui residua il battistero con vasca esagonale originariamente sormontata da un baldacchino, per la quale vennero reimpiegate lastre asportate dalle strade cittadine, utilizzate anche per la pavimentazione dell'aula (figg. 22, 235236). Per quanto riguarda l'individuazione della cattedrale e del complesso abitativo, rimangono ancora non poche incertezze. Tuttavia non possiamo escludere che evidenti ristrutturazioni delle stesse terme siano da connettere proprio alle esigenze dettate da una nuova committenza, mentre un lungo tratto murario a sud-est del battistero potrebbe interpretarsi non già come muro di contenimento e/o terrazzamento, ma piuttosto come unica parte residua dei muri perimetrali di una grande aula, per il resto completamente distrutta dall'attività erosiva del mare. Il protovescovo di Tharros, che per primo poté insediarsi in quell'insula episcòpalis, potrebbe essere, verosimilmente, quell'Johannes episcopus tarrensis destinatario di una lettera di san Fulgenzio, vescovo di Ruspe, esule in Sardegna per ordine del re vandalo Trasamondo dal 507 fino al 523; in tal caso forse l'impulso per la costituzione della nuova sede vescovile venne dato proprio dalla presenza del clero africano, in un momento particolarmente favorevole per la Chiesa sarda. Non possiamo dunque escludere che l'arretramento della linea di costa dovette essere uno dei motivi che portarono a un precoce abbandono dell'insula episcopalis, se è valida l'ipotesi che vuole il trasferimento del vescovo tharrense in altra area, forse l' ecclesia Sancti Marci edificata tra la fine del VI e il VII secolo
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21. Tharros ,Terme di Convento Vecchio. Ristrutturate in età bizantina forse con funzione difensiva. 22. Tharros , area delle Terme n. 1.
presso l'insediamento attuale di San Giovanni come nuova sede del vescovo di Sinis, citato nelle fonti proprio a partire dal VII secolo. L'aula di culto, poi dedicata al Battista, aveva probabilmente un impianto originario a croce latina con abside semicircolare (e non a croce greca, come inizialmente proposto), mentre la sua trasformazione in chiesa a tre navate avvenne intorno all'XI secolo. L'insediamento in cui sorse la chiesa era probabilmente connesso
alle attività del porto di Tharros, localizzato dove oggi sono gli stagni di Mistras. Posteriore al VI-VII secolo sarebbe invece la piccola aula di culto situata in area urbana a un livello nettamente superiore all'insula episcopalis, che venne costruita quando quest'ultima era stata già abbandonata e probabilmente interrata. Oltre alle Terme n. l, anche altri edifici e strutture urbane, come le Terme di Convento
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23. Guspini, Neapo/is, Santa Maria di Nabui . Una porzione di edificio termale venne trasformato in chiesa intitolata a santa Maria, di cui rimangono ancora parte degli elevati e la volta a botte: tale aula interessò il braccio di un ambiente, forse a pianta centra le, trasformato a impianto longitudinale per il nuovo utilizzo.
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Vecchio e il castellum aquae, la grande cisterna pubblica al centro della città, subirono profonde trasformazioni nella prima età bizantina (fig. 21), per assolvere a nuove esigenze tra cui non si escludono quelle difensive, mentre un quartiere abitativo dovette installarsi sul colle di Su Murru Mannu, con ambienti che in parte si impostavano direttamente sul tempio del tofet punico. Alla difesa della città nella fase protobizantina era preposto un castrum ubicato in posizione elevata, alle pendici del colle di San Giovanni, per la costruzione del quale vennero utilizzati blocchi asportati dalle fortificazioni puniche di IV secolo a.C.; la fortezza poté forse essere all'origine della denominazione del kastron tau Taron (castrum di Tharros) citato da Giorgio di Cipro nel VII secolo. In quel momento la città doveva essere ormai in una fase di decadenza, così come il suo porto, interessato da continui spostamenti a causa della riduzione del bacino d'approdo e delle variazioni della linea di costa. Il definitivo abbandono della città, e di quanto rimaneva del porto, dovette avvenire solo tra la fine del X e il principio dell'XI secolo. Un'ulteriore conferma del fatto
che le trasformazioni urbane fossero già evidenti tra la fine dell'età vandalica e la prima età bizantina può essere data dalla presenza di sepolture di tale epoca all'interno della città. Othoca
Per le altre città del Sinus Africae si hanno meno dati. Per quanto riguarda Othoca, la continuità insediativa del centro tardoantico e altomedievale, almeno fino al Vll secolo d.C., nello stesso sito della città romana è documentata dall'individuazione in diversi punti del centro di vasellame in sigillata africana e ceramica impressa a pettine. Non possediamo invece testimonianze archeologiche della primitiva comunità cristiana di Othoca, benché la tradizione delle martiri Giusta, Giustina ed Enedina potrebbe indicare una precoce diffusione del Cristianesimo nella città, anche se è più probabile l'ipotesi che il culto poté essere introdotto in età vandalica, magari con l'arrivo di reliquie dall'Africa. Non può essere escluso che la basilica romanica di Santa Giusta, sede del vescovo nel pieno Medioevo, possa essere
sorta su un più antico luogo di culto cristiano dedicato alla martire, cui potrebbero riferirsi alcuni capitelli altomedievali reimpiegati nella fabbrica romanica.
Neapolis Anche a Neapolis, come a Tharros, le trasformazioni sono riconducibili a due motivi fondamentali: da una parte il recupero, a opera della locale comunità cristiana, di spazi da destinare al culto, dall'altra ragioni di carattere militare, inseribili in un processo che interessò sistematicamente quasi tutti i centri urbani a partire dalla prima età bizantina. Una porzione di un edificio termale in opera listata, localizzato nel settore sud-orientale della città, venne trasformato in chiesa intitolata a santa Maria (più tardi detta "de Nabui"), di cui rimangono ancora parte degli elevati e la volta a botte: tale aula interessò il braccio di un ambiente, forse a pianta centrale, trasformato a impianto longitudinale per il nuovo utilizzo (fig. 23). Nelle fonti seicentesche si fa inoltre riferimento a una seconda chiesa, intitolata a sant'Elena, che non si esclude potesse essere stata inserita, sempre in età bizantina come l'intitolazione suggerirebbe, all'interno di una fortificazione. Quest'ultima si individua, attraverso la fotografia aerea e poche tracce visibili sul terreno, nell'estrema porzione a nord-ovest dell'area urbana: di forma quadrangolare con spessi muri lunghi circa 50 m e torri angolari, comprende al suo interno una serie di ambienti in opera a telaio, serviti da stretti corridoi, scavati negli anni Cinquanta del XX secolo e databili, in base ai materiali rinvenuti, tra il VI e il VII secolo d.C. Contestualmente venne restaurato un complesso termale di età medio-imperiale, adiacente gli stessi ambienti. La fortificazione, anche nella sua articolazione interna, troverebbe ampi confronti con numerosi castra africani edificati a partire dall'età giustinianea. La città dovette dissolversi nel corso dell'Alto Medioevo, sostituita da un modesto aggregato legato alla coltivazione di fondi che ormai dovevano aver guadagnato gran parte dell'area urbana: tale insediamento può riconoscersi in quella Domo de Neapolis citata nella documentazione di XIII secolo.
archeologiche sul colle di Cordtinas; dove il centro urbano era localizzato. Allo stesso ·secolo si assegna la più tardiva menzione della città, con il riferimento a un episcopus Cornensis che partecipò al Concilio Lateranense del 649. Non abbiamo dati sufficienti per ricostruire l'assetto urbano della fase vandalica e bizantina, difficoltà che comunque esistono anche per la città punica e romana, anche se nella porzione nella parte più elevata del colle, dove viene tradizionalmente ubicata l'acropoli, è evidente un recinto di pianta ellittica: tale struttura, già individuata da Antonio Taramelli all'inizio del XX secolo, è realizzata in un'opera muraria molto rozza, per la quale vennero riutilizzati numerosi elementi di spoglio, tra cui resti dell'acquedotto romano evidentemente ormai in disuso. Tale struttura poté avere in età bizantina funzioni difensive: si tratterebbe in sostanza di un castrum; nello stesso settore, un ambiente absidato costruito in opera a telaio, scavato di recente, è stato interpretato come edificio di culto cristiano, in uso fra la tarda età vandalica e i primi secoli della dominazione bizantina, nell'ambito del VI secolo d.C. A circa un miglio dalla città, in un'area precedentemente occupata da ville, si sviluppò, a partire dal IV secolo d.C., un insediamento cristiano con un grande edificio di culto, cui erano annessi un battistero, una terza basilica funeraria e un quartiere abitativo (figg. 34-36, 300}; l'insediamento, che rimase in vita almeno per tutto il VII (come attesta la vasta necropoli circostante, è stato differentemente interpretato come chiesa rurale destinata alla cura d' anime o in alternativa, dai più, come sede del vescovo di Senafer (menzionata nelle fonti fin dal V secolo e dunque la più antica della Sardegna centro-occidentale), che avrebbe in tal caso preso la denominazione non da un centro ma piuttosto dal territorio di pertinenza del vescovo. Questo poteva estendersi, in un primo momento, fino alle aree meridionali del Golfo di Oristano, passate successivamente alla diocesi di Tharros, quando venne costituita agli inizi del VI secolo d.C.
Nota bibliografica 1991; Z UCCA 1993b; GIUNTELLA 1995; 1998; GIUNTELLA 1999; SPANU 2005b; SPANU 2006; Z uccA 2006; M ARTORELLI 2010b; PINNA 2010a; SPANU 201 la; SPANU, Z UCCA 2011 ; MAR.TORELLI 2012a; BLASETTI FANTAUZZI, D E VINCENZO 2013; SPANU, Z UCCA 2013; BLASETTI FANTAUZZI, D E VINCENZO 2016; SPANU 2020. NIEDDU, Z UCCA
Cornus Infine Cornus, i cui materiali più tardi non vanno oltre il VII secolo, come hanno dimostrato anche le più recenti indagini
SPANU
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Turris Ubisenis Pier Giorgio Spanu
Le fonti scritte sembrano confermare che la colonia romana di Turris Libisonis mantenne, almeno fino al VII secolo d.C., una posizione preminente fra le città della Sardegna, seconda solo a Carales. Significativo a tal riguardo è il fatto che Giorgio di Cipro, geografo bizantino del VII secolo, dopo la definizione di Karallos come metropolis, quindi centro principale dell'Isola e sede delle istituzioni più importanti, menzioni Touris a capo delle altre città, elencate poi in senso antiorario secondo la loro posizione geografica. Nello stesso secolo l'Anonimo Ravennate la cita come unica colonia della Sardegna. La sede diocesana fu forse già istituita nel IV secolo, anche se questa viene nominata per la prima volta solo in età vandalica, quando il suo vescovo compare tra i partecipanti al Concilio di Cartagine del 484; l'episcopo turritano è
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inoltre menzionato in alcune lettere di Gregorio Magno. Non sono note invece fonti scritte altomedievali, mentre l'unica testimonianza epigrafica si riconosce nell'iscrizione trionfale in caratteri greci proveniente dal grande edificio termale di età romano-imperiale noto come Palazzo di Re Barbaro (oggi nella basilica di San Gavino), che potrebbe riferirsi al VII o secondo altre proposte all'VIII secolo (fig. 146). Per quanto concerne i dati archeologici, occorre dire che la continuità insediativa fra Turris Libisonis e l'attuale Porto Torres rende difficile la lettura della struttura urbanistica della città romana, tardoantica e altomedievale; tuttavia non sono assenti resti monumentali ed evidenti segni di ristrutturazione che interessarono edifici romani, indizio di nuove funzionalizzazioni
degli spazi, fenomeno che è documentato soprattutto nella prima età bizantina. Già a partire dal V secolo, ma soprattutto nel VI e VII, si attesta l'abbandono di alcune aree urbane, in particolare nel settore occidentale della città, come dimostrano le numerose
sepolture individuate: dalla necropoli già esistente in età romana a ovest del centro urbano, presso la località Marinella, l'uso funerario si sarebbe esteso dunque anche all'interno dell'antica Turris, da via Ponte Romano fino all'area dell'attuale Stazione marittima.
24-26. Porto Torres, Palazzo di Re Barbaro. La trasformazione delle Terme Centrali , oggi note come Palazzo di Re Barbaro, dovette essere funzionale a esigenze difensive.
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Nel V! secol~ verosimilmente all'atto della conquista della Sardegna a opera dei Bizantini, la necessità di difendere il nucleo urbano - o quan'tO di esso residuava - e il suo porto giustifica l'edificazione di mura, indìviduate al disotto della Banca Nazionàle del Lavoro, che si sovrapponevano a un quartiere commerciale "ormai abbandonato. Tali mura, costruite con grandi blocchi calcarei di riutilizzo, potevano circondare anche solo una piccola porzione della città, di cui però non conosciamo l'estensione in quella precisa fase storica. La trasformazione delle Terme Centrali, note come Palazzo di Re Barbaro (figg. 24-26), dovette essere ugualmente funzionale a esigenze difensive: nel grande edificio pubblico le profonde ristrutturazioni che interessarono il primitivo impianto (nonostante manchino precisi dati stratigrafici), e soprattutto l'iscrizione trionfale di cui si è fatto cenno, dimostrerebbero un suo uso militare in un'età compresa tra il VI e l'VIII secolo: l'iscrizione, che celebra una duplice vittoria dei Bizantini sui Longobardi e altri barbari di cui non viene specificata la provenienza, era probabilmente affissa in questa struttura, che riutilizzava il complesso termale o parte di esso, destinata ad accogliere la sede del doux, il comandante delle truppe bizantine ma forse anche l'autorità che in quel momento governava la città. In tal modo l'edificio si inseriva nel sistema difensivo della città, articolato in una serie di fortificazioni sia urbane, sia dislocate nella pianura circostante. Per il periodo che segue il VII secolo i contesti archeologici diminuiscono nettamente. Riflettendo sulla povertà di fonti materiali nell'Alto Medioevo, ci sarebbe la tentazione di imputare tali "assenze" a una decadenza della città e del suo porto, quest'ultimo declassato in concomitanza con quelle evidenti variazioni degli assetti economici e commerciali conseguenti alla caduta dell'esarcato bizantino d'Africa e alla sempre più forte presenza degli Arabi nel Mediterraneo occidentale. Turris, come le altre città costiere, dovette essere interessata da profonde trasformazioni e da un evidente calo di popolazione, anche se non abbiamo elementi per cogliere le dimensioni di questo spopolamento, in una città che viveva in funzione del porto e che dovette certamente subire un forte contraccolpo come conseguenza del ridimensionamento delle attività commerciali. Queste comunque non dovettero cessare del tutto, come attestano materiali d'importazione, databili all'VIII-IX 56
secolo, rinvenuti in città e nel territorio, che testimoniano presumibilmente arrivo di merci nel porto turritano e la loro distribuzione nei villaggi rurali dell'immediato entroterra: tra questi significativa è la Forum Ware, ceramica con invetriatura di produzione laziale, attestata nel centro urbano di Turris e in numerosi centri rurali della Sardegna settentrionale prossimi alla città (fig.109). Un ulteriore dato per Io stesso IX secolo è fornito dai rinvenimenti monetali"·come il tesoretto inserito in un vaso in terracotta recuperato in località Balai, con monete · bizantine e arabe. Forse Turris doveva sopravvivere come ridotto nucleo insediativo nell'area della città antica, funzionale magari alle attività portuali ma del quale ignoriamo del tuttoforma e dimensioni. Tale nucleo coesisteva con un secondo polo insediativo, sviluppatosi in un'area extraurbana della città antica presso il Mons Agellus, dove la fortuna del culto martiriale di Gavino, Proto e Gianuario e soprattutto la presenza del vescovo furono i fattori che determinarono la nascita del nuovo centro. Come già detto la sede diocesana dovette essere istituita già nel IV secolo e alla fine di questo si fa risalire la prima fase dell'edificio di culto cristiano, originariamente a unica navata con abside orientata a nord-est, rimesso in luce dalle indagini archeologiche, nel quale si è proposto di individuare la primitiva cattedrale, sebbene in assenza di dati completi sulla topografia cittadina non si possa escludere un altro luogo e, invece, una destinazione connessa al culto dei martiri. I muri perimetrali dell'aula vennero nel secolo successivo risegati e utilizzati come stilobati per i colonnati di una basilica trinave, probabilmente preceduta da un nartece (fig. 27). Attorno al luogo di culto si sviluppava intanto fin dal IV secolo una vasta necropoli cristiana, anche con mausolei, che si connetteva sia all'eventuale presenza del vescovo sia al culto martiriale: a proposito di questo si ricorda che in un'altra area suburbana, presso Balai, a est della città, esisteva forse sin dalle medesime fasi cronologiche un secondo luogo di culto dedicato a Gavino e ai suoi compagni di martirio, probabilmente connesso alla tradizione della loro primitiva sepoltura. L'uso della chiesa a tre navate non dovette essere prolungato nel tempo: forse, dopo neanche un secolo, l'aula venne distrutta per cause imprecisate e sulle sue strutture, risegate tutte alla stessa quota, venne successivamente
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27. Portolorres, basilica di San Gavino, lato settentrionale. Nell'area della basilica è ipotizzabile l'esistenza di un edificio di culto, edificato sopra i resti di uno più antico e databile tra la metà dell'VIII e il IX secolo, a cui sembra riferirsi un portico con orientamento nord-ovestjsudest, individuato nel cosiddetto Atrio Camita, a settentrione della basilica romanica.
eretto un nuovo complesso cultuale, di cui non rimane alcuna traccia. Tuttavia, la sua esistenza può essere ragionevolmente ipotizzata in base a diversi elementi scultorei rinvenuti durante gli scavi o riutilizzati nella basilica romanica, pertinenti alla decorazione architettonica di un edificio di culto e databili tra la metà dell'VIII e il IX secolo. Frammenti di affresco possono essere riferiti a una ulteriore ristrutturazione di questa chiesa, avvenuta dopo la seconda metà del X secolo. A tale edificio sembra riferirsi un portico con orientamento nord-ovest/sud-est, individuato nel cosiddetto Atrio Comita, a settentrione della basilica romanica; il portico è stato interpretato come struttura di collegamento tra la chiesa bizantina e un altro corpo di fabbrica, verosimilmente di tipo residenziale, o in alternativa, ma con minore probabilità, il battistero. Alla stessa fase si riferisce anche una contigua area di necropoli, in uso fino all'XI secolo, con tombe che occupavano anche lo spazio soprastante la p rimitiva chiesa orm ai distrutta, evidente indizio del continuato uso funerario dell'area. Pur m ancando elementi strutturali della chiesa e di altri edifici a essa connessi (fatta eccezione
per il portico), non abbiamo elementi per poter ipotizzare che il supposto restauro di X-XI secolo abbia interessato una chiesa ancora in uso o piuttosto in cattive condizioni, magari parzialmente distrutta, ammettendo in tal caso una soluzione di continuità che si potrebbe connettere a una momentanea soppressione della diocesi, anche se si è più propensi a pensare che almeno la fortuna del culto martiriale, e conseguentemente la cura della basilica, non dovette interrompersi nei secoli altomedievali, per giungere infine alla edificazione nell'XI secolo della nuova basilica romanica, con la duplice funzione di cattedrale e sede del culto dei martiri Gavino, Proto e Gianuario. Come indiziato dalle fonti scritte, la ricostruzione della chiesa, dovuta all' evergetismo dei giudici di Torres, è un ulteriore indizio della vitalità di Turris ancora nei secoli XI e XII, quale sede dell'autorità giudicale prim a del suo trasferimento ad Ardara.
Nota bibliografica CAPRARA 1992; SPANU 1998; SPANU 2000b; MI LANESE, ET AL. 2006; P ANI ERMINI, ET AL 2006; B o TNU, ET AL. 2008; B ONINU, ET AL. 2011; BONINU, PANDOLFI 2012; SIMBULA, SODD U 2017; M URESU 2018; SPANU, U SAI 2019.
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L'insediamento rurale Pier Giorgio Spanu
L'Anonimo Ravennate, che compose una Cosmographia entro la prima metà del VII secolo d.C., riferisce che la Sardegna era un'isola ricca di città; il geografo bizantino fornisce poi un nutrito elenco di centri urbani, e allo stesso tempo sembra affermare che quelli che alle soglie dell'Alto Medioevo avevano ormai raggiunto una certa dignità erano ancora più numerosi. In effetti però l'opera riflette l'immagine della Sardegna di piena età romana e tardoantica: in essa vengono infatti utilizzate fonti preesistenti, in particolare itineraria, tra cui certamente l' Itinerarium Antonini, composto probabilmente nell'età di Caracalla, al principio del III secolo d.C., un testo pluristratificato, legato a vari scopi, dei quali è stato evidenziato come prioritario quello funzionale all'Annona. In realtà la situazione doveva essere ben diversa: nella Cosmographia sono riportati, insieme ad alcune città, numerosi altri insediamenti che dobbiamo immaginare di ridotte dimensioni: stationes, mansiones, mutationes, cioè centri che dovettero probabilmente costituirsi in età romana proprio in funzione della rete viaria, caratterizzata da almeno quattro direttrici principali cui si aggiungevano viae secondarie che garantivano una rete di collegamenti anche nelle regioni più interne dell'Isola (fig. 51). Dunque, l'opera del Ravennate può rispecchiare una situazione ormai mutata, ma bisogna anche considerare che la Sardegna conobbe, nel corso della storia antica, una assai limitata urbanizzazione, quasi del tutto concentrata nelle regioni costiere. Nei secoli che videro il passaggio tra l'età tardoantica e l'Alto Medioevo, compresa l'epoca in cui fu annessa dapprima al regno vandalico, divenendo poi una provincia della diocesi bizantina d'Africa, tali paesaggi rimasero sostanzialmente immutati; in particolare, considerando che il sistema fiscale dei nuovi dominatori (Vandali e Bizantini) dovette ereditare sostanzialmente quello romano, si può ragionevolmente ritenere che le strutture economiche della Sardegna correlate al sistema impositivo, comprese
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naturalmente le realtà insediative legate a tali strutture, siano rimaste inalterate almeno fino alla rottura degli equilibri segnata dall'irruzione degli Arabi nel Mediterraneo. Nella quasi totale assenza di fonti epigrafiche, letterarie e giuridiche di età vandalica e bizantina che possano indicare la sussistenza del latifondo imperiale in Sardegna, non è possibile determinare con certezza se e come poté avvenire un eventuale passaggio dei possedimenti imperiali al demanio dei nuovi dominatori, e nemmeno se in età tardoantica e nei primi secoli dell'Alto Medioevo dovettero verificarsi trasformazioni riferibili alla proprietà e all'utilizzo di quelli che erano da considerarsi fondi pubblici. D'altra parte, se esistono reali difficoltà nel definire i limiti dei possessi imperiali nell'Isola, ancora più problematico diventa fare una qualunque ipotesi sull'uso del suolo pubblico, sia in età tardoimperiale, sia durante la dominazione dei Vandali e l'epoca bizantina. Per tale epoca l'unico riferimento rilevante è fornito da un sigillo in caratteri greci rinvenuto a San Giorgio di Sinis nel territorio di Tharros, dove si ricorda un Theophilaktos kourator Ton Marines: il documento sfragistica potrebbe indicare la presenza di proprietà imperiali in Sardegna, appartenenti all'ente costantinopolitano della Domus Marinae, delle quali Theophilaktos era l'amministratore. Si ipotizza allora che le proprietà del patrimonium Caesaris di età romana vennero riassunte dall'imperatore d'Oriente dopo la riconquista bizantina della Sardegna a opera di Giustiniano, mentre durante il dominio dei Vandali, dai decenni centrali del V secolo al 534, dovette essere mantenuto nella disponibilità dei sovrani del regno vandalico d'Africa. È certo invece, secondo le informazioni desumibili dalle fonti, che esistessero fondi privati ed ecclesiastici: già per l'età vandalica apprendiamo, nel De agricoltura di Rutilio Tauro Emiliano Palladio, che lo scrittore stesso era proprietario in Sardegna di estese aree agricole, caratterizzate dalla fertilità del terreno. Possedimenti privati appartenenti alla famiglia degli Aelii dovettero invece passare alla Chiesa, forse all'atto della costituzione
della diocesi di Senaf er tra il IV e il V secolo: nell'area, posta a breve distanza dalla città di Cornus, sorse l'insula episcopalis, che sembra abbia parzialmente rioccupato gli spazi di una villa preesistente; occorre ricordare che secondo altre proposte il complesso paleocristiano prossimo a Cornus sarebbe interpretabile come chiesa battesimale, ma in sostanza, anche in questo caso, si sarebbe verificato un passaggio da una proprietà privata a quella ecclesiastica (fig. 36). Per l'età bizantina, esclusivamente sulla base di alcune lettere di Gregorio Magno, si è a conoscenza della presenza nell'Isola di possedimenti privati o in mano alla Chiesa; non ci è dato comunque sapere con certezza se in quel momento tali proprietà riguardassero esclusivamente la Chiesa locale, ossia i vescovi, o la stessa Chiesa di Roma, in continuità con quanto già attestato nell'Isola fin dall'epoca costantiniana. Per le proprietà ecclesiastiche, probabilmente le più estese nei secoli VI e VII, si può comunque presumere che, in ambito rurale, la loro amministrazione fosse preferibilmente affidata a membri del clero, chierici in particolare, e in casi eccezionali a laici, anche se in tal caso questi dovevano trovarsi sotto la direzione dell'autorità religiosa. È ancora una volta la ricerca archeologica a confermare come nelle campagne avvenne un processo di mutazione delle proprietà, forse in seguito a donazioni di vaste porzioni di latifondi imperiali, o più probabilmente per l'attività evergetica di ricchi proprietari terrieri che, a partire dal IV secolo, all'indomani della Pace della Chiesa, ma soprattutto tra i secoli V e VI, donarono i loro possedimenti. Le fonti materiali indicano in generale come numerose ville rustiche, unitamente ad altri insediamenti produttivi frequentemente dipendenti dalle prime, continuarono fino ai primi secoli del Medioevo non solo a vivere, ma ad avere un ruolo determinante per lo sfruttamento agrario del territorio, in una struttura economica che dovette mutare nella ripartizione delle proprietà, ma non sostanzialmente nei modelli di conduzione. Occorre comunque precisare che, al di là di una generica attribuzione dei resti di edifici individuati nelle campagne, troppo spesso interpretati come ville, appare più plausibile l'esistenza di tipologie insediative differenziate, formalmente e funzionalmente: le villae dunque, insieme a villaggi, fattorie, ma anche
vici, centri legati a comunità organizzate, che coesistevano agli abitati connessi alla viabilità, potevano essere inserite in una organizzazione territoriale strutturata gerarchicamente, nella quale ciascun insediamento aveva il proprio ruolo. Indagini di Archeologia dei paesaggi che hanno interessato in questi ultimi anni alcune aree dell'Isola hanno addirittura permesso di notare che, nei territori ad alta vocazione agricola, i centri produttivi legati a ville/fattorie già esistenti poterono forse aumentare tra i secoli VI e VII: ciò si attesta ad esempio nel territorium della città di Nora, nella Sardegna meridionale, dove sono stati individuati diversi insediamenti sorti in questi secoli, a fronte di altri la cui frequentazione non oltrepassa il V. Le stesse ricerche consentono di confermare in quel territorio la continuità della preesistente articolazione e gerarchia dei centri, con piccole fattorie/centri produttivi rurali dipendenti da grandi fattorie/ville rustiche. Circa l'origine di nuovi abitati, è stato sottolineato che il fattore determinante la loro nascita può ricercarsi proprio nella persistenza di alcune ville rustiche, dotate di grandi estensioni di terreno, che ebbero un potere attrattivo per altre piccole comunità, aggregate per garantire un'organizzazione più articolata dello sfruttamento agricolo, segno evidente della vitalità del territorio, almeno per questi secoli. La continuità insediativa delle ville è ben documentata archeologicamente anche dal significativo caso di Santa Filitica di Sorso, nella Sardegna settentrionale, dove una residenza signorile prossima al mare poté verosimilmente assolvere alla duplice funzione di villa maritima e di centro connesso allo sfruttamento agricolo del fertile entroterra (figg. 37-38). Il settore residenziale della villa ebbe un cambio di destinazione d'uso alla fine del V secolo d.C., in età vandalica, anche con l'impianto di attività metallurgiche; nella stessa epoca furono costruiti nuovi edifici, utilizzati come ambienti di servizio o destinati all'alloggio dei servi. Il centro venne abbandonato sullo scorcio del VI secolo o al massimo al principio di quello successivo; nel corso dello stesso VII si sviluppò nella medesima area, sopra uno strato alluvionale, un piccolo abitato, sul quale si tornerà in seguito. Come nel territorio di Nora, anche nel Sinis, nell'entroterra di Tharros, accanto a ville e insediamenti maggiori, connessi alla viabilità
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oltre che allo sfruttamento delle risorse agricole, tra cui spicca quello di San Giorgio cui si è già fatto cenno, esteso forse sino a San Salvatore e in località Sa Pedrera in prossimità di un importante nodo viario, esistevano probabilmente piccolissimi agglomerati prevalentemente unifamiliari, ai quali poter riferire scarse tracce rilevate sul terreno durante le ricerche di Archeologia dei paesaggi. In quest'area tra i proprietari dovevano esserci anche personaggi di rango militare, probabilmente membri dell'esercito bizantino assegnatari di lotti di terra; tale fatto potrebbe attestarsi anche in altre aree della Sardegna, spiegando così la presenza di corredi militari in numerose località dell'Isola, spesso inseriti in sepolture che potremmo quasi definire "di rango". In questo territorio le medesime ricerche hanno dimostrato come, a partire dall'VIII secolo, le aree agricole non vennero più sfruttate, lasciando spazio all'incolto. Un altro aspetto che si connette alla dinamica degli insediamenti rurali riguarda gli edifici di culto. Si ricorda che la Sardegna dovette avere una tardiva cristianizzazione, da intendersi sia come capillare diffusione della religione cristiana sia come organizzazione ecclesiastica: occorre inoltre considerare che, pur mancando esplicite indicazioni nelle fonti, i vescovi delle sette diocesi sarde, la maggior parte delle quali costituite tra il V e gli inizi del VI secolo, dovevano avere giurisdizione prevalentemente sulle aree costiere prossime ai centri urbani, fatta eccezione per alcune zone interne attorno a Forum Traiani, che comunque si estendeva maggiormente, con ogni probabilità, verso le pianure del Campidano, a sud del fiume Tirso. Gran parte delle aree rurali sarde e quelle montuose dell'interno, in particolare le Barbariae, che dobbiamo immaginare molto più estese rispetto alle attuali Barbagie, dovevano essere scarsamente controllate dalle autorità vescovili, e forse non ricadevano nemmeno in alcun territorio diocesano; tali aree, oltre a non conoscere un'organizzazione ecclesiastica fino all'XI secolo, quando compare nei documenti un episcopus de Barbaria la cui sede era stabilita a Suelli (in posizione decentrata rispetto alle aree di pertinenza), dovettero resistere a lungo alla penetrazione del Cristianesimo, perpetuando forme di paganesimo e di sincretismo religioso attestate ancora all'epoca di Gregorio Magno, ma probabilmente anche nei secoli successivi.
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Per quanto riguarda le strutture della cura d' anime nelle campagne sarde, la ricerca archeologica ha evidenziato diversi edifici di culto cristiani che servivano le esigenze delle comunità rurali. Tra le chiese dotate di battistero, quasi certamente dipendenti direttamente dall'autorità vescovile e dunque pienamente inserite nelle strutture gerarchiche delle chiese locali, sono emblematici i casi di San Giovanni Battista di Nurachi e San Giorgio di Decimoputzu, simili nel semplice impianto mononave e nella posizione del battistero in un ambiente laterale, oltre che per la presenza della necropoli: entrambe vennero inoltre edificate in due insediamenti probabilmente connessi alla viabilità, mansiones o stationes. Lo stesso può dirsi per altri edifici di culto, che comunque, come gli emblematici casi già citati, possono attestare l'esistenza di comunità organizzate. A una ecclesia baptismalis può essere riferito il fonte venuto in luce nel presbiterio della chiesa di San Pantaleo a Dolianova, pertinente a un edificio di culto che precedette la costruzione della cattedrale di Dolia, sede vescovile forse enucleata dalla diocesi di Carales nell'XI secolo. Si citano inoltre l'ancora problematico caso di Santa Maria di Vallermosa, Santa Giulia di Padria, Santi Stefano e Giovanni a Posada. Come le chiese di Nurachi e Decimoputzu, potrebbero riferirsi a insediamenti posti in prossimità di un asse viario evidentemente ancora in uso in età tardoantica anche San Lussorio di Albagiara e Santa Lucia di Assolo, in un territorio più distante dalla costa, a poche miglia l'una dall'altra; in particolare Santa Lucia di Assolo venne edificata entro il VI secolo in un'area certamente appartenuta in precedenza a ricchi proprietari terrieri, come attesta un mausoleo di IV secolo adiacente l'edificio di culto. Quest'ultimo caso confermerebbe che l'opera di cristianizzazione dell'Isola dovette molto all'impegno non solo della gerarchia ecclesiastica e di un clero certamente insufficiente, come attestato ancora nell'età di Gregorio Magno, ma anche dei possessores; a essi si rivolge lo stesso Gregorio affinché si preoccupino di diffondere il credo cristiano presso i contadini che lavoravano le loro terre. Il contesto conferma inoltre quanto già detto circa la continuità in età vandalica e bizantina delle strutture economiche più antiche, con paesaggi rurali dominati da estesi latifondi presso i quali risiedevano i domini, nelle ville, e i contadini che lavoravano le terre,
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28. Forno in un ambiente del nuraghe Cobulas di Milis. La rioccupazione dei nuraghi tra il IV e il VII secolo d.C. , con l'inserimento di strutture produttive e abitative, è un forte indizio dello sfruttamento agrario del territorio. 29. Mensa funeraria nel nuraghe Santa Barbara di Bauladu.
verosimilmente in insediamenti sparsi e di ridotte dimensioni. L'edificio di culto divenne per loro, nelle fasi della prima cristianizzazione del territorio, un punto di riferimento e di aggregazione, come dovette avvenire nella non distante chiesa di San Giovanni di Asuni, forse dotata di battistero, che sembra riutilizzare strutture preesistenti. Nell'insediamento rurale, soprattutto per quanto riguarda le tipologie dei centri, certamente dovevano esistere differenze tra le aree collinari e pianeggianti e quelle montuose, in rapporto alle risorse disponibili e alle caratteristiche economiche dei singoli territori:
nelle prime la fertilità dei suoli e l'abbondanza di acqua consentivano l'intenso sfruttamento agrario, che caratterizzava queste regioni fin dall'età punica, mentre nelle montagne doveva essere maggiormente diffusa un'economia basata sulla pastorizia e sul reperimento di risorse alternative nelle aree boschive. Le fonti antiche hanno però contribuito a dare l'immagine della Sardegna antica divisa tra aree pianeggianti e territori montuosi, questi ultimi abitati esclusivamente da pastori dediti al nomadismo in costante conflitto con i contadini che lavoravano nelle aree a vocazione agricola. Oggi, grazie anche alle indagini 61
archeologiche, questa visione appare superata, e bisogna tener conto, non generalizzando, dei contesti e delle diverse fasi cronologiche. In realtà però possiamo ancora dire molto poco sulle forme dei centri e dei modelli insediativi nelle regioni montuose e nei territori interni dell'Isola, che dobbiamo immaginare ancora più scarsamente popolati delle aree costiere. Con ogni probabilità, considerando anche gli scarni riferimenti in fonti di età bizantina, permanevano quelle civitates Barbariae note in età imperiale, che potrebbero corrispondere a "cantoni" privi di città, ossia circoscrizioni territoriali abitate da popolazioni non urbanizzate, che vivevano in abitati di ridotte dimensioni ma che comunque si erano dati una certa organizzazione; tale situazione è nota anche in altre aree (Germania e Gallia ad esempio), in cui pagi e vici (territori e centri organizzati, che normalmente erano connessi amministrativamente a una città) erano privi di un centro di riferimento, ma avevano comunque un'unità politica e amministrativa, che riguardava anche ampi territori. Nel caso della Sardegna, e non unicamente per i territori della Barbaria che solo parzialmente poté corrispondere alle Barbagie attuali, appare
30-31. Orune, insediamento di Sant'Efis. Il sito è organizzato in numerosi isolati serviti da strade o che si affacciano su piccole piazze; gli edifici sono di forma quadrangolare, articolati in più ambienti e talvolta dotati di piani superiori, come suggerisce la presenza di scale.
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plausibile che tali strutture territoriali perpetuassero forme già esistenti in età protostorica, sopravvissute dunque in età cartaginese e romana, fino all'Alto Medioevo: è opportuno a tal proposito sottolineare che numerosi studiosi sono ormai convinti che l'età nuragica, tra il secondo e il primo millennio a.C., avesse conosciuto forme di popolamento e di organizzazione territoriale di tipo "cantonale", con una gerarchia degli agglomerati insediativi, di numero variabile, quali nuraghi semplici e complessi, villaggi, necropoli, luoghi di culto e centri di mercato, centri produttivi, che erano funzionalmente interdipendenti. È probabile dunque che anche in diversi populi noti in numerose fonti di età romana, localizzati in varie ed estese aree della Sardegna, comprese quelle delle civitates Barbariae, fosse radicata una struttura sociale e territoriale analoga, verosimilmente permanente ancora in età giustinianea tra i Barbarikinoi citati da Procopio. I territori abitati da queste popolazioni indigene erano controllati, in età bizantina, da una serie di piccoli castra presumibilmente presidiati da soldati-coloni che vi si stanziavano con le loro famiglie, sfruttando spesso strutture preesistenti, tra cui i nuraghi.
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Questo ultimo aspetto consente di introdurre un'ulteriore problematica. Significativi contesti archeologici fanno emergere che le medesime scelte insediative dell'uomo nuragico furono fatte da piccole comunità rurali votate prevalentemente all'autoconsumo, in un'economia povera che costringeva a sfruttare al massimo quanto preesisteva sul luogo, comprese le stesse strutture evidentemente rovinate ma con consistenti parti ancora in elevato, riutilizzate per diverse funzioni, come abitazioni, ma anche per lo svolgimento delle attività produttive, come spazi in cui conservare le derrate alimentari e persino come monumenti funerari. I membri di queste comunità erano in grado di produrre gli oggetti necessari al loro fabbisogno, come i contenitori ceramici destinati alla cottura e alla conservazione dei cibi, anche se tali manufatti, benché impoveriti da un punto di vista tecnologico e formale, potevano avere una diffusione a breve raggio. Non si esclude che insediamenti di questo tipo
siano talvolta da riconoscere in quei centri rurali satelliti alle ville/fattorie, abitati dai contadini che lavoravano nelle strutture agrarie connesse ai centri produttivi. Indicativo è quanto si attesta nel nuraghe Nuracale a Scano Montiferro, ubicato in posizione rilevata in un'area centrale della catena del Montiferru. Diversi ambienti della struttura megalitica, in particolare il vano superiore della torre circolare centrale e il cortile adiacente, vennero rioccupati tra il V e il VI secolo d.C., come dimostrano i materiali rinvenuti negli strati di frequentazione, tra cui contenitori per la conservazione di derrate e soprattutto ceramica grezza modellata a mano e al tornio lento, di probabile produzione locale, con forme standardizzate attestate sempre più frequentemente in contesti dell'Isola, definita in modo generico "ceramica grezza modellata" o céramique modelée. Oltre alla rioccupazione della torre e del cortile, negli stessi secoli vennero costruiti con materiali di reimpiego altri ambienti, alcuni dei quali si
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sovrappongono o si addossano alle strutture nuragiche: come queste ultime, anche le capanne costruite tra il V e il VI secolo d.C. avevano una pianta circolare. Tra i monumenti nuragici che possono invece essere stati connessi a insediamenti produttivi possiamo ricordare Su Nuraxi di Sisini, in provincia di Cagliari, accanto al quale vennero costruite probabilmente nel VI secolo d.C. strutture quadrangolari, come indicato dai materiali rinvenuti. È interessante notare che il territorio in cui è ubicato il nuraghe ebbe fin da età antica un'elevata vocazione agraria; tra l'altro il rinvenimento, in un sito non distante, di un sigillo di Nikitas mizoteros, dunque un funzionario addetto al controllo delle attività produttive nelle proprietà imperiali di Bisanzio, riflette un'organizzazione economico-fiscale basata certamente anche sul patrimonium imperiale romano transitato a quello costantinopolitano. Anche le recentissime indagini condotte nel nuraghe Cobulas di Milis, dove si attesta una rioccupazione del sito tra IV e VII secolo d.C. con l'edificazione di strutture abitative e produttive addossate al nuraghe, sembrano confermare una connessione del piccolo insediamento con l'intenso sfruttamento agrario del territorio, al limite delle fertili pianure del Campidano settentrionale (figg. 28, 43). Non si può infine non menzionare il caso del nuraghe San Pietro di Torpè (figg. 45-46), in cui ambienti quadrangolari vennero tardivamente costruiti accanto alle strutture protostoriche, con fasi che arrivano all'VIII secolo d.C. Appare qui interessante l'uso di una torre come magazzino, con anfore destinate alla conservazione di cereali e legumi, ceste in vimini (fig. 178), contenitori ceramici e vitrei forse originariamente sistemati in una sorta di scaffalatura: tale riuso dello spazio interno della struttura protostorica si attesta tra il V e il VII secolo d.C. L'uso delle torri nuragiche come mausolei è noto in diversi casi, e sembra riferirsi soprattutto a personaggi appartenenti alla classe militare, come suggeriscono i materiali rinvenuti al loro interno. Esemplare è il contesto di Sa Domu Beccia di Uras, con corredi militari di VII-VIII secolo: l'insediamento di pertinenza della necropoli, che forse riutilizzava altre porzioni del centro nuragico, poteva avere nei primi secoli della presenza bizantina in Sardegna una funzione di controllo del territorio e in particolare 64
della viabilità, considerato che veniva a trovarsi in prossimità dell'asse stradale più importante della Sardegna romana, la via che collegava Carales a Turris Libisonis, ancora utilizzata nell'Alto Medioevo. Anche nelle aree interne dovettero sopravvivere, almeno fino all'età protobizantina (VI-VII sec.), altri centri funzionali alla viabilità, in particolare lungo l'asse viario che metteva in collegamento Carales con la Sardegna settentrionale per mediterranea, attraverso le impervie Barbagie. Non visse fino a tale epoca però il centro della Sardegna interna che finora ha restituito la maggiore quantità di dati archeologici, Sant'Efis di Orune (figg. 30-31). Esso appare organizzato in numerosi isolati serviti da strade o che si affacciano su piccole piazze; gli edifici sono di forma quadrangolare, articolati in più ambienti e talvolta dotati di piani superiori, come suggerisce la presenza di scale. Dall'area provengono numerosi materiali di importazione, anche di pregio, che indicano come l'insediamento rivestisse un importante ruolo quale centro di redistribuzione per il territorio (fig. 248); il suo abbandono, in base alle ricerche finora condotte, è da collocare nella prima età vandalica, entro la fine del V secolo. Purtroppo non è possibile precisarne lo status giuridicoamministrativo, genericamente assimilato a modelli insediativi britannici o centro-europei, anche se occorre rilevare che con grande verosimiglianza esso dovette la sua fortuna alla prossimità dell'asse viario. Alla viabilità era legata anche la mansio di San Cromazio, nel settore sud-occidentale dell'Isola, forse connessa a uno snodo tra la via a Caralibus Turrem e la via a Sulci Carales. Nell'abitato, che dimostra ancora vitalità nel pieno VI secolo, è oramai venuta meno la funzione primaria nei secoli VII e VIII, quando sopravvivono solo pochi edifici attorno a quella che è stata interpretata come un'aula di culto cristiano; questa, dotata di pavimenti musivi in cui si leggono almeno due fasi, riutilizzava gli spazi di un edificio termale. Un cenno va fatto agli insediamenti monastici. Le fonti riferiscono che fra la Tarda Antichità e i primi secoli del Medioevo i monasteri di tipo cenobitico erano limitati a un ambito urbano, mentre nelle aree rurali sono esclusivamente le fonti archeologiche a indicare che il fenomeno monastico dovette invece essere prevalentemente lavrotico, con
"insediamenti sparsi" attestati in varie parti dell'Isola, concentrati maggiormente nella Sardegna settentrionale. I monaci vivevano in solitudine, verosimilmente entro ricoveri occasionali spesso costituiti da grotte naturali o artificiali, ma facevano riferimento a luoghi di incontro comuni, soprattutto per le pratiche di culto: piccole chiese frequentemente rupestri, in diversi casi ottenute con la trasformazione di ambienti ipogei scavati nella roccia, tra cui si ricordano le camere funerarie di età preistorica note come domus de janas. Si cita il caso di Sant' Andrea Priu, in territorio di Bonorva, la cui chiesa ipogea (nella cosiddetta Tomba del Capo) potrebbe ipoteticamente riferirsi a un insediamento di questo tipo (figg. 269-275). Per i secoli successivi al VII si hanno comunque maggiori difficoltà nella ricostruzione della dinamica insediativa rurale: sono ancora una volta le indagini in territori campione a offrire qualche spunto. Si osserva che, contestualmente alla progressiva decadenza dei centri urbani che portò persino al totale spopolamento di alcuni di essi, si verificò l'abbandono dei centri prossimi alla costa; le entità demiche che abitavano le città e i territori costieri si spinsero in aree più interne e maggiormente protette, mentre con ogni probabilità ci si avviava a un processo di trasformazione delle tipologie insediative, non più connesse (almeno nelle regioni ad alta produttività agricola) al sistema delle fattorie. Dovettero presumibilmente crearsi dei piccoli nuclei abitativi regolati da un'economia di autoconsumo, con scelte che privilegiavano i siti d'altura; il centro che entro il VI secolo si attestò presso il nuraghe Nuracale di Scano Montiferro, di cui si è già trattato, può porsi come un anticipo del fenomeno. Non mancano però esempi di villaggi costieri, in siti precedentemente occupati da forme insediative differenti: è il caso del villaggio bizantino di Santa Filitica, di cui si è già fatto cenno, che rioccupò dopo un periodo di abbandono l'area della villa romana e dell'abitato di età vandalica, vissuto non oltre gli inizi del VII secolo (fig. 38). Il nuovo centro, che cominciò a svilupparsi nello stesso VII secolo, era abitato da una comunità ben organizzata da un punto di vista sociale, come suggeriscono vari elementi, tra cui la disposizione regolare delle abitazioni, servite da assi viari, e la presenza di spazi comuni; una certa pianificazione si nota nell'area funeraria
e nei dispositivi per i riti che vi si svolgevano; le case, edificate con muri a secco, avevano un unico ambiente con copertura straminea, mentre per l'attività funeraria, con sepolture che invadono anche l'abitato, vennero utilizzate ancora una volta le strutture dell'edificio termale della villa, in quel momento ormai in rovina. I materiali rinvenuti indicano ancora per la fase iniziale del villaggio la frequenza di scambi commerciali, soprattutto con l'Africa: questi vengono a cessare entro la fine del VII secolo, per cui la ceramica che si attesta nell'VIII e nel IX, in cui si pone l'abbandono dell'insediamento, è di produzione locale e di rozza fattura, anche se non mancano alcuni manufatti di importazione, magari veicolati attraverso la vicina Corsica. La comunità che abitava quel luogo era sicuramente dedita all'agricoltura e all'allevamento, come indiziato dai reperti faunistici, ma trovava risorse alternative nella caccia e nella pesca, in un'economia votata verosimilmente all'autoconsumo. Considerata la sua posizione, non possiamo escludere che il centro intrattenesse rapporti commerciali a breve raggio con altri abitati costieri, utilizzando una navigazione di cabotaggio; questa poteva giungere anche a Turris, il cui porto, sebbene ridimensionato, poteva essere ancora minimamente attivo in quei secoli. Il contesto è certamente esemplare, ma è possibile che quello che potremmo definire "modello Santa Filitica" si adatti anche ad altre analoghe realtà insediative di età romana, che ebbero continuità di vita nell'Alto Medioevo, sebbene con mutate forme.
Nota bibliografica UGAS, SERRA 1990; SPANU 1998; SERRA 2002f; SPANU 2002c; SPANU 2002d; CAMPUS 2004; SPANU, ZUCCA 2004; SODDU 2005; GARAU, RENDELI 2006; PIANU 2006;
2006b; GARAU 2007; ROVINA 2007; SPANU 2007b; 2008; SERRA 2008b; SPANU, ZUCCA 2008; DELUSSU 2009a; USAI, Cossu, DETTORI 2009: USAI, Cossu, DETTORI 2011; SIMBULA, SPANU 2012; SrANu 2012; Fors, SPANU, ZuccA 2013; TRuou 2014; GARAu, ET AL. 2015; PANICO, SPANU, ZUCCA 2015; MURESU 2016; PANICO, SPANU 2016; SERRA 2016a; MARTORELLI 2018a; MURESU 2018; PANICO, SPANU 2018; SPANU 2019; D'ORLANDO 2021. SERRA
DELUSSU
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approfondimenti Dalla villa al complesso cultuale di Cornus-Columbaris Sabrina Cisci
Nel territorio di Cuglieri, in località Columbaris, si conservano i resti di un vasto complesso cultuale paleocristiano che per dimensioni, stato di conservazione e molteplicità di tipologie arèhitettoniche nelle loro diverse destinazioni rappresenta un unicum in Sardegna, offrendo numerosi spunti di ricerca in diversi campi d'indagine, dagli usi funerari, alla liturgia, all'architettura, alle dinamiche insediative delle comunità cristiane, per citarne solo alcuni. Il sito ricade nell'ambito di quello che in età romana doveva essere il territorio della città di Cornus, situata nelle località di Corchinas, Tonchiu e Campu 'e Corra, mentre per la fase tardoimperiale e quella tardoantica, sulla base dell'analisi della fotografia aerea e delle ricognizioni di superficie, è stata proposta di recente l'ubicazione nella zona presso il Rio Sa Canna. L'area di Columbaris era servita da una strada secondaria (un diverticulum) che a nord metteva in comunicazione Cornus con Gurulis Nova e che collegava verosimilmente anche gli insediamenti romani di Sisiddu e Lenaghe. In essa era probabilmente situata una villa suburbana dotata di impianto termale, datata nel III secolo d.C. Numerosi sono infatti gli indizi che confermano tale ipotesi: oltre all'analisi delle strutture murarie, nell'area, in occasione degli scavi, sono stati rinvenuti resti di cocciopesto (rivestimento impermeabile legato all'uso dell'acqua), materiale da costruzione reimpiegato nelle strutture tarde, nonché cisterne e vasche. In seguito, la villa sarebbe stata ceduta alla comunità cristiana, che agli inizi del IV d.C. impiantò un cimitero, primo nucleo su cui poi si sarebbe sviluppato il più vasto complesso cultuale. Un ambiente quadrangolare in grossi blocchi di calcare rivestito in cocciopesto,
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situato nel settore occidentale dell'area e interpretato come cisterna, venne trasformato in mausoleo, nel quale vennero sistemati successivi livelli di deposizioni. Le sepolture, collocate anche più a est, furono poi incluse in una basilica absidata a nord che in parte le obliterò. L'aula funeraria fu in seguito ristretta forse per motivi di statica e articolata in cinque vani contigui, disposti in direzione nord-sud. Nell'angolo meridionale vennero quindi sistemati un piccolo recinto con sarcofago, un ambiente con vasca (fig. 300) e un forno. Il cimitero continuò a svilupparsi a est del nuovo impianto. A sud, alla fine del IV-inizi V secolo d.C., vennero realizzate altre due basiliche adiacenti, verosimilmente riutilizzando spazi e strutture delle terme preesistenti. La prima è orientata a est ed è divisa in tre navate, con pastofori (ambienti ai lati dell'abside in cui venivano conservati il pane consacrato, i vasi sacri e altra suppellettile liturgica), nartece, cattedra, altare al centro della navata mediana, forse in origine sormontato da ciborio (fig. 34). La seconda aula presenta l'abside a ovest, ha dimensioni inferiori e ospita al suo interno la vasca battesimale. Tra il V e il VI secolo l'area fu oggetto di un intenso programma di restauri, da alcuni messo in relazione all'impulso dato dai vescovi ortodossi esiliati dai re vandali. L'aula di culto fu ristretta con un muro in opera a telaio e lo spazio venuto così a crearsi fu occupato da sepolture. Nella basilica battesimale, una volta tamponato l'accesso del lato est, fu realizzato un percorso per i catecumeni verso la chiesa per la liturgia ordinaria, cui potevano accedere solo una volta ricevuto il battesimo (fig. 36). All'esterno del lato orientale venne collocata una cisterna di
32. Il battistero e la ricca decorazione architettonica presso il sito di ComusColumbaris in una foto d'epoca. Il ciborio posto sulla vasca battesimale oggi non è conservato (foto Archivio SABAP per le province di Sassari e Nuoro).
Nelle doppie pagine seguenti: 33. Ipotesi ricostruttiva di un battistero di età bizantina che, a parte la resa dei capitelli , si basa sui resti trovati a Comus-Columbaris (tavola illustrata di lnklink Musei). 34. Veduta da nord-est della basilica liturgica presso il sito di Comus-Columbaris. 35. La vasca battesimale nella forma assunta dopo i restauri del V-VI secolo presso il sito di Comus-Columbaris. 36. Veduta da est della basilica battesimale di Comus-Columbaris. In primo piano l'ambiente gradinato che doveva costituire il primitivo accesso; la porta fu poi occlusa da un muretto in pietra.
alimentazione della vasca battesimale; vennero edificati ambienti di servizio e, ai lati dell'abside, furono sistemati due pastofori. Anche la vasca battesimale subì delle trasformazioni: l'originaria struttura cruciforme venne inglobata in un'altra in mattoni secondo una pianta poligonale (fig. 35) e fu dotata di baldacchino (figg. 32-33). A sud della basilica battesimale era un portico con tetto a una semicapriata e pavimentato con lastre di fonolite, che metteva in comunicazione l'area funeraria orientale con gli ambienti situati a ovest e a sud del battistero. Tali vani, dotati di pianta quadrangolare, furono anch'essi coinvolti dal summenzionato programma di modifiche e ristrutturazioni. Quattro di essi sono stati messi completamente in luce da recenti scavi, tuttora in corso; la presenza nell'area di numerose creste murarie permette di ipotizzare un vasto sviluppo di questo settore del complesso, per il quale, per caratteristiche strutturali e per tipologia di reperti, si pensa a un uso residenziale e artigianale. Infatti uno dei vani, rinvenuto negli scavi della fine degli anni Ottanta del secolo scorso, era stato interpretato come bottega di scalpellini, vista la quantità di elementi architettonici recuperati in esso. È stato ipotizzato che i restauri menzionati nel testo più antico di un'iscrizione opistografa (scritta cioè in due epoche diverse sui lati
della lastra), rinvenuta nell'area e datata nel 379-383 d.C., vadano legati agli interventi sulle strutture termali funzionali alla realizzazione della prima vasca battesimale, mentre il termine moenia del secondo testo sul lato opposto si riferisca ai muri del battistero restaurati nella metà del VI secolo d.C. Per diversi anni, gli studiosi hanno ritenuto che il complesso cultuale di Columbaris fosse interpretabile come la sede della diocesi di Senafer, citata dalle fonti tra la fine del V e il VII secolo e legata a Cornus, per poi essere designata come sancta Ecclesia Cornensis, quando il vescovo Boethius partecipò al Sinodo Lateranense del 649. Di recente, è stato ipotizzato che invece possa indentificarsi con una ecclesia baptismalis, una chiesa cioè destinata alla cura d' anime, oppure che avesse il ruolo di diocesi rurale. In entrambi i casi, è chiaro che, viste anche le sue dimensioni, il complesso doveva essere al servizio della popolazione di un vasto territorio, considerazione che sembrerebbe trovare conferma anche nello stesso termine di Senafer, che deriverebbe da Sinus Afer, toponimo che denotava la regione prospiciente il Golfo di Oristano. Il complesso restò verosimilmente in uso, a fini cultuali, sino al X secolo, per poi essere definitivamente abbandonato a causa delle scorrerie arabe. A tale cronologia riportano
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Il
202 . Anello, VII-VIII sec. , bronzo , 0 1,9 cm , proveniente dall'area di Saccargia presso Codrongianus, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". Anello con decorazione "a occhi di dado". 203 . Anello, V sec., oro , 0 2,9 cm , Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ". Anello sigillare paleocristiano con castone ovale con incisa la parola ASTER affiancata da una stella e una croce greca. Dotato di un 'appendice laterale per rendere più salda l'imprimitura. 204. Anello , VI-VII sec. , oro e pietra dura, 0 2,3 cm, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ". 205. Anello, VI-VII sec. , oro e pietra dura, 0 2,1 cm , proveniente dalla necropoli di Bruncu 'e s'Olia di Dolianova, Cagliari , Museo Archeologico Nazionale. Nel castone è una gemma di età tardoimperiale raffigurante una Minerva.
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al Signore (Kyrie Boethei, 'Signore, soccorri'). Esistono, tuttavia, motivi decorativi più semplici come gli "occhi di dado", due cerchi concentrici in cui quello interno, più profondo, sembra l'iride mentre l'esterno la pupilla (fig. 202). I bracciali sono documentati più raramente, sia in metallo che in pasta vitrea, e sono generalmente composti da un semplice anello, a volte a terminazioni aperte. L'esemplare rinvenuto negli anni Sessanta del XX secolo presso il colle di San Pietro di Sorres, nei pressi di Borutta, è stato datato al VII secolo e presenta le estremità decorate da tre motivi "a occhi di dado" a formare la testa stilizzata di un serpente, forse con valenza apotropaica. Delle collane, infine, rimangono più spesso i vaghi in pasta vitrea, corallo, ambra o corniola. Fra i tanti esempi a disposizione, all'età vandala (V-VI sec. ) risale un oggetto rinvenuto presso la necropoli di Su Cuguttu (Olbia) e composto da 47 vaghi di diverse forme e dimensioni in pasta vitrea bluastra (fig . 68).
All'epoca bizantina (VIII sec. ) si riferiscono i casi di Cirredis - sepolcreto romano riutilizzato nell'Alto Medioevo presso Villaputzu, dove sono stati trovati numerosi materiali, tra cui centinaia di perline in pasta vitrea di vari colori e forme - e di Serrai, in territorio di Serri, nei dintorni della chiesa campestre di San Sebastiano: qui, all'interno di una tomba che conteneva il corredo di un individuo in armi, è stata recuperata una collanina composta di grani in pasta vitrea e ambra.
Nota bibliografi ca Sull'abbigliamento nella Tarda Antichità si veda: MARTORELLI 1998. Sulla Sardegna si rimanda a: N1ARTORELLI2002;MARTORELLI2003;MARTORELLI20llb; N1ARTORELLI 201 7c. Sulla gioielleria bizantina si veda: BALDINI 1999. Per una analisi specifica degli orecchini "a cestello" : POSSENTI 1994. Sulla Sardegna cfr.: SERRA 1987; SALVI, SERRA 1990; SALVI 2002a; SERRA 2002b; D oRE 2016. Sui monaci, nel dettaglio: N1ARTORELLI 2006b. Su Sant'Andrea Priu: CORONEO 2011; VIRDIS 2021 b. Su San Giorgio di Cab ras: PANICO 201 7.
206-207. Bracciale, VII sec., argento, 0 7,2 cm , Sassari, Museo Archeologi co Etnografico Nazionale "G.A. Sanna".
208. Bracciale, VII sec., bronzo , 0 6,7 cm, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ".
209. Bracciale, VII sec., argento, 0 5,8 cm, Sassari , Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna ".
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approfondimento Le fibbie di cintura cosiddette "bizantine" Sara Tacconi
L'introduzione delle fibbie di cintura nella moda tra l'età romana e il Medioevo corri parve in seguito ai contatti con le popolazioni germaniche: costoro, infatti, introdussero l'impiego dei pantaloni che necessitavano di essere sorretti tramite una cintura agganciata alla vita grazie a una fibbia. Tale moda differiva dall'uso degli antichi; fu, tuttavia, adottata dai Bizantini, che indossarono fasce o cinture provviste di fibbie oltre a tunica e mantello (quest'ultimi in continuità con lo stile precedente). Le fibbie potevano essere realizzate, attraverso l'uso di matrici (fig. 96), in vari materiali, specialmente in metallo: sono attestati esemplari in bronzo, argento e oro, ma in alcuni casi venivano prodotte anche in osso (fig. 79). Erano composte generalmente da placca, anello e ardiglione. Ognuno di questi elementi presentava forme e dimensioni differenti - tali da suggerire, a seconda dei casi, un impiego come accessori di cinturoni, ma anche di calzature o borse -, oltre che essere dotato di cerniere, dalle quali dipendeva la mobilità dell'intero manufatto; poteva essere
210. Fibbia , VIII sec., bronzo, lungh. 5 cm , proveniente dalla necropoli di Laerru, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". Fibbia "lppona ", definizione derivata dall'antica città di Hippo Regius , in Africa, in cui è stato rinvenuto un gran numero di tali manufatti. La decorazione prevede la figura del profeta Daniele tra i leoni, una croce e un 'iscrizione in caratteri greci e latini.
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caratterizzato da placca mobile o fissa, ovvero composto da un unico pezzo in cui anello e placca risultavano saldati insieme. Nel retro venivano disposte alcune maglie a occhiello finalizzate al fissaggio della fibbia alla cintura, solitamente in cuoio, un materiale che, per la sua deperibilità, si conserva raramente, ma anche in stoffa. In Sardegna sono attestati diversi tipi di fibbie, distinguibili in base alla placca, se "piena" o traforata. Al primo gruppo appartengono quelle a "U" o semiellittiche (figg. 179, 182, 211-214), diffuse in maggior numero, "Ippona" (a scudo) (figg. 210,215), "Siracusa': cruciforme, a lira e di altre forme; al secondo sono ascrivibili le "Balgota" (fig. 216), "Bologna" e "Corinto", queste ultime terminanti con un'appendice circolare e note in due versioni a seconda delle forature: due circolari e una in forma di cuore ("tradizionale") (fig. 217), due triangolari in luogo della cuoriforme ("variante sarda") (figg. 218-219). Questa definizione deriva da quella elaborata dallo studioso tedesco Joachim Werner nel 1955, che si basava sul nome della località in cui gli oggetti erano
211. Rbbia, VI-VII sec., bronzo, lungh. 7,8 cm, proveniente da Badde Marine presso Uri, Sassari, Museo Archeologioo Etnografico Nazionale "G.A. Sannan. "Fibbia con placca a ·u· decorata con la figura di un volatile, interpretato come un pavone o drago alato, che stringe un serpente tra le zampe. 212. Fibbia, VIII sec., bronzo, lungh. 8 cm, proveniente dall'area della chiesa di San Pietro di Sorres presso Borutta, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna·. Fibbia con placca a ·u· decorata con la figura di un leone con lunga coda.
stati ritrovati in numero più alto. A tutt'oggi gli studi fanno capire che le fibbie, insieme ai loro portatori, circolavano in tutto il Mediterraneo; tuttavia, per praticità, la denominazione tradizionale è stata mantenuta. Esistono ulteriori esemplari caratterizzati da placche a forma circolare, quadrangolare, ogivale, a croce o, in rari casi, zoomorfe. Le fibbie erano spesso decorate da un'ampia gamma di motivi. Le tecniche utilizzate per realizzarli spaziano dall'incisione - con strumenti di diversa portata, distinguibili a seconda delle dimensioni della punta in bulini o punzoni - all'impressione, passando per il semplice rilievo, fino al più sofisticato cloisonné, che prevedeva l'inserimento di
elementi in pasta vitrea all'interno di incavi predisposti nella placca. Il repertorio comprende scene venatorie e militari, rappresentazioni zoomorfe realistiche e fantastiche, figure di santi e profeti, motivi floreali, geometrici e cruciformi, a volte circondati da cornici a rilievo, zigrinate o perlinate. Dalle scelte iconografiche è possibile individuare la volontà, da parte dei fruitori di questi manufatti, di manifestare lo stato sociale, le attività a esso potenzialmente legate e la fede religiosa. Le scene di caccia e di cavalieri rappresentati al galoppo o nel momento del disarcionamento da cavallo, o le figure di santi "militari" come l'Arcangelo Michele - che sconfisse Lucifero - rimandano alla sfera
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213. Fibbia, VII-VIII sec., bronzo, lungh. 11 cm, proveniente dalla chiesa di Santa Maria de Mesumundu presso Siligo, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". Fibbia con placca a ·u· decorata con motivi geometrici e vegetali.
214. Fibbia, VII-VIII sec., bronzo, lungh. 8,6 cm, proveniente da Tissi, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". Fibbia con placca a "U" decorata con la figura di un cavaliere dotato di scudo e (forse) di elmo, in sella al suo destriero. 215. Fibbia, VII-VIII sec., bronzo, lungh. 9 cm, proveniente dal mastio di Su Nuraxi presso Siurgus Donigala, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Fibbia "lppona" con la rappresentazione di Cristo magister e rex tra due alberi. 216. Fibbia, VIII sec., bronzo, lungh. 5 cm, proveniente dal nuraghe Sa Domu Beccia presso Uras, Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna. Fibbia "Balgota" caratterizzata da un traforo cuoriforme e da una linea incisa che ne segue il profilo. 217. Fibbia, VII-VIII sec., bronzo, lungh. 6,8 cm, Sassari, Museo Archeologico Etnografico Nazionale "G.A. Sanna". Caratterizzata da due fori circolari e uno cuoriforme; la decorazione è resa tramite l'incisione di motivi geometrici. 218. Fibbia, VIII sec., bronzo, lungh. 8,5 cm , proveniente dal nuraghe Sa Domu Beccia presso Uras, Soprintendenza Archeologia , belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagl iari e le province di Oristano e Sud Sardegna. Fibbia "Corinto", variante sarda, caratterizzata da due trafori circolari e due triangolari . 219. Fibbia, VII-VIII sec. , bronzo, lungh. 6,5 cm, proveniente dal nuraghe Su Nuraxi presso Siurgus Donigala, Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Fibbia "Corinto" decorata da un monogramma a croce nell'appendice circolare.
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maschile, in particolar modo ali' ambito militare. Il loro rinvenimento all'interno di tombe come oggetti di corredo insieme ad armi o elementi pertinenti alla cavalcatura, quali gli speroni, costituisce una spia significativa, a livello archeologico, per individuare la presenza di fanti e cavalieri dell'esercito bizantino in Sardegna, finalizzata al controllo dei territori dell'impero. Un altro tema ampiamente diffuso nell'iconografia delle fibbie è sicuramente quello religioso: l'appartenenza alla fede cristiana è riconoscibile sia in scene complesse ispirate all'Antico e al Nuovo Testamento sia nella semplice resa di motivi cruciformi. Particolarmente interessanti risultano le rappresentazioni del profeta Daniele tra i leoni, corredata da iscrizione
bilingue in latino e greco (fig. 210), e quella di Cristo magister e rex ('maestro' e 'sovrano'), che tiene in mano un libro gemmato e ritratto nel gesto dell' adlocutio, mentre predica ai fedeli (fig. 215). Le croci, invece, simbolo cristiano per eccellenza, sono attestate in diverse fogge, a volte come monogrammi arricchiti da elementi vegetali stilizzati e, in un caso, da un'invocazione alla Madre di Dio (8e016Ke po~8et, 'Madre di Dio, dai aiuto'), presente sull'ardiglione di una fibbia a "U" ritrovata in località Su Pardu, presso Sestu (fig. 179). Nonostante in letteratura sia diffusa l'opinione che l'uso delle fibbie fosse prerogativa dei militari, gli scavi archeologici, relativi perlopiù a contesti funerari, hanno permesso di accertare che tali manufatti potevano essere
riferibili anche a individui di sesso femminile e a bambini. Per quanto riguarda la Sardegna, sono documentati casi di rinvenimenti relativi a tombe di fanciulli deposti con una cintura composta da una fibbia e da vari oggetti adattati come pendenti (monete forate e denti di cervo atrofici). Casi simili sono attestati a Selargius (necropoli di San Lussorio), Serdiana (località Sibiola) e Nurachi (necropoli di San Giovanni Battista) e la ricorrente presenza delle categorie di oggetti è tale da suggerire interpretazioni anche differenti rispetto al "semplice" abbigliamento: la valenza dei denti di cervo, unita alle monete, avrebbe infatti potuto rivestire in origine una funzione apotropaica (legata al momento di "passaggio" dovuto all'età prepuberale o all'adolescenza) o simbolica, magari per imitare le cinture "dei grandi': La questione è ancora da chiarire. Si ritiene tradizionalmente che le fibbie di cintura abbiano vissuto il momento di massima diffusione nel Mediterraneo (compresa quindi la Sardegna) intorno al VII secolo. L'avanzare degli studi e le nuove scoperte archeologiche effettuate nell'Isola hanno permesso di operare una ricalibratura cronologica: in alcuni casi, infatti, il rinvenimento di tali manufatti in associazione alle monete ha consentito di datare con sicurezza l'uso di alcuni tipi di fibbie all'VIII secolo, se non fino ai primi decenni del IX. L'esempio più importante è quello del nuraghe Sa Domu Beccia di Uras, indagato da Paolo Benito Serra: nel corso degli scavi all'interno del monumento protostorico furono individuate fibbie a "U", "Corinto" e "Balgota" insieme a due tremissi longobardi, di Astolfo (749-756 ) e Desiderio (757-774). L'avanzamento delle datazioni proposto dal Serra si è rivelato in seguito applicabile anche ai tipi "Bologna" - in virtù dell'associazione di un esemplare di tale tipologia all'interno di una sepoltura della necropoli di SelargiusSan Lussorio, insieme a monete di Tiberio III Absimaro (698 -705 ) - e "Siracusa", quest'ultimo ritrovato a Cagliari, nel corso delle indagini presso il Bastione di Santa Caterina, insieme a manufatti quali ceramiche Forum Ware e sovradipinta e anfore globulari.
Nota bibliografica 198 1; S ALVI, S ERRA 1990; 2002b ; M ARTORELLI 2012c; MARTORELLI 2017c; M URESU 2018. PANI ERMINI, M ARINONE
SERRA
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La vita culturale Antonio Piras
Nei primi due decenni del V secolo i Vandali di Genserico, dopo aver percorso la penisola iberica e attraversato lo stretto di Gibilterra, si stabilirono nella fascia mediterranea dell'Africa, fondando un regno in uno dei territori più romanizzati e culturalmente vivaci dell'impero. Vittore di Vita dipinge del dominio vandalico un quadro a tinte forti: i proprietari terrieri romani sono vessati o cacciati brutalmente dai loro possedimenti e, dal punto di vista religioso, si attua il tentativo sistematico di sostituire al Cattolicesimo un Arianesimo
ormai residuo e sbilanciato su temi prevalentemente cristologici. In esso le popolazioni germaniche, che nel secolo precedente erano state evangelizzate dal goto Vulfila di fede ariana, trovarono una sorta di vessillo che ne rappresentasse la comune identità etnica. Trasamondo, nipote di Genserico, continuò la politica filoariana dei suoi predecessori e proibì alle comunità cattoliche di eleggere nuovi vescovi nella prospettiva di determinarne l'estinzione; ai trasgressori di tale decreto fu imposto l'esilio.
Approdarono così nell'Isola oltre sessanta ecclesiastici esuli, fra i quali erano il vescovo di Cartagine Feliciano e il neovescovo di Ruspe Fulgenzio. È incerto se in questa occasione siano stati portati, tra i bagagli del vescovo di Ippona, anche i resti di Agostino o se invece, come sembra più probabile, la loro traslazione sia avvenuta più tardi durante l'invasione degli Arabi. Gli esuli, aiutati nelle loro necessità materiali dal papa Simmaco, sardo di nascita, dovettero ben presto raggiungere diversi punti dell'Isola (solo una decina o poco più rimase forse a Cagliari), contribuendo verosimilmente alla crescita culturale della Sardegna: uno di questi dovette essere il vescovo di Tharros Iohannes, menzionato nell'epistolario fulgenziano. Fra coloro che furono ospitati a Cagliari dal vescovo Primasio si distinse senza
dubbio per cultura e autorevolezza Fulgenzio di Ruspe: l'antica Vita, redatta da uno dei suoi discepoli, identificabile col monaco di Telepte Redemptus, dice che degli altri vescovi egli era la lingua e l' ingenium e che numerosi fedeli accorrevano a lui come a un oracolo ( Caralitanae civitatis oraculum). Nei circa quindici anni complessivi di permanenza in Sardegna (508-523), inframmezzati da una parentesi di circa due anni a Cartagine dove egli tornò su invito di Trasamondo, Fulgenzio realizzò un cenobio nella periferia cagliaritana, «iuxta basilicam sancti martyris Saturnini procul a strepitu civitatis», come dice il suo biografo (fig. 220). Lungi dalle intenzioni di Trasamondo, l'esilio dei vescovi non solo non impedì, ma anzi favorì la circolazione delle idee e degli
220. Cagliari, basilica di San Saturnino in piazza San Cosimo. Nei pressi della basilica Fulgenzio di Ruspe impiantò il suo cenobio.
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strumenti della cultura. Emblematica a tal riguardo è la vicenda di alcuni monaci sciti che avevano espresso a Fulgenzio i loro dubbi sull'ortodossia degli scritti di Fausto di Riez sulla Grazia e sul libero arbitrio: una vicenda che in un ampio circuito culturale metteva in comunicazione centri e regioni tanto distanti fra loro, come la Scizia e la Sardegna, Costantinopoli e la Provenza, Roma e l'Africa. Si tratta di un episodio che smentisce il luogo comune, purtroppo ancora diffuso, che la Sardegna tardoantica e altomedievale fosse tagliata fuori dal resto del mondo. Il cenobio fondato da Fulgenzio, che si configurava come un centro di cultura oltre che di preghiera, dovette dotarsi di un proprio scriptorium (fig. 221 ); è verosimile infatti che insieme agli esuli siano arrivati in Sardegna anche manoscritti biblici, liturgici e patristici, che, qualora se ne ravvisasse la necessità, potevano facilmente essere copiati. Certo, è difficile pensare a uno scriptorium a carattere intensivo come quelli dei grandi monasteri benedettini di qualche secolo più tardi, ma esso doveva pur sempre essere in grado di produrre all'occorrenza codici di buona fattura. Del resto, la Vita Fulgentii sottolinea la predilezione del vescovo di Ruspe per i monaci dediti allo studium lectionis nonché la sua stessa abilità come copista (scriptoris arte laudabiliter utebatur), un'arte che egli esercitò per vergare le sue lettere e i suoi dotti trattati. Furono con tutta probabilità scritti a Cagliari, durante il secondo soggiorno di Fulgenzio, i tre libri All'amico Mònimo, i due A Eutimio sulle condizioni della penitenza e il Salmo abecedario contro i Vandali ariani, modellato sul Salmo contro i Donatisti di Agostino. È stato riferito all'attività dello scriptorium cagliaritano il celebre codice Basilicano, che contiene alcuni scritti di Ilario di Poitiers, sulla base di una sottoscrizione nel f. 288r: «contuli in nomine domini Iesu Christi aput Karalis (presso Cagliari) constitutus anno quarto decimo Transamundi regis ». Si era addirittura ipotizzato che alcune note marginali del manoscritto si dovessero alla mano dello stesso Fulgenzio. Più recentemente Leonard Boyle, dopo un attento riesame del Basilicano, ha sostenuto che la prima parte in semionciale, contenente il De trinitate e il Contra Constantium di Ilario, sia stata vergata in Africa e che a Cagliari il testo di queste due opere sia stato ricontrollato, da Fulgenzio o da un altro personaggio a lui vicino, sulla base
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di un codice che doveva già trovarsi a Cagliari e che potrebbe essere appartenuto, circa un secolo e mezzo prima, al vescovo Lucifero, lo strenuo difensore della dottrina di Nicea. Siamo infatti bene informati sui rapporti, invero non sempre sereni, tra Lucifero e Ilario e sullo scambio dei rispettivi scritti. Ancora secondo il Boyle, la seconda parte del Basilicano in onciale, contenente il De synodis e altre operette ilariane, potrebbe essere stata vergata a Cagliari, forse dallo stesso vescovo di Ruspe, durante la seconda fase dell'esilio. Sulle vicende del codice dopo il ritorno di Fulgenzio in Africa fino al suo definitivo arrivo a Roma presso l'Archivio della basilica di San Pietro intorno al 1438 sono state formulate diverse ipotesi, sulle quali non importa qui soffermarci. Alla temperie culturale del cenobio fulgenziano si sono voluti spesso ricondurre altri due pregevolissimi codici: il Laudianus (Oxford, Bodleian Library, Laud. gr. 35), contenente gli Atti degli Apostoli, e il Claromontanus (Paris, Bibliothèque Nationale, Grec 107), che conserva il testo delle epistole paoline e della lettera agli Ebrei. L'origine sarda di questi codici è controversa; se tuttavia non si hanno dati incontrovertibili per affermare che questi manoscritti, databili al VI secolo, siano un prodotto dello scriptorium caralitano, non se ne hanno neppure per negarne senza esitazione la provenienza; tanto più che non si può escludere che l'attività del monasterium fulgenziano abbia avuto un qualche prosieguo in età bizantina. Il Laudianus è un codice pergamenaceo bilingue e digrafico greco-latino di 227 fogli, scritto su due colonne da una stessa mano in semionciale per la parte latina e in maiuscola biblica per la parte greca su righe molto brevi con una o due, raramente tre o quattro parole ciascuna, che contiene, come abbiamo detto, gli Atti degli Apostoli, con una lieve lacuna da 26:29 a 28:26. Per quanto di recente sia stata riproposta la vecchia tesi di Pierre Batiffol sull'origine romana del manufatto, resta ancora plausibile la sua riferibilità alla Sardegna, dove dovette restare almeno per tutto il VII secolo: alla fine, in una scrittura più recente, è riportato l'incipit di un decreto in greco di un certo - : r .._ ' Àn.01