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Italian Pages 189 [192] Year 2017
studi storici carocci / 273
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Luca Lo Basso
Gente di bordo La vita quotidiana dei marittimi genovesi nel xviii secolo
Carocci editore
Il presente volume è stato realizzato con il contributo del Programma miur Futuro in ricerca (firb 2012: “Frontiere marittime nel Mediterraneo”), del Dipartimento di Antichità, Filosofia, Storia dell’Università degli Studi di Genova e del Laboratorio di Storia Marittima e Navale (NavLab).
1a edizione, dicembre 2016 © copyright 2016 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Le Varianti, Roma Finito di stampare nel dicembre 2016 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) isbn 978-88-430-7951-3
Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
Indice
Abbreviazioni
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Introduzione. Lo sguardo dell’ignoto marinaio
Ringraziamenti
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1.
I tribunali marittimi tra giustizia sommaria e ordinaria
21
2.
Diventare padroni e capitani: elezione, selezione, istruzione
37
3.
Una vita da capitano: Nicolò Campanella
65
4.
Uno Schettino del Settecento? Un padrone di Chiavari di fronte al naufragio
85
5.
La ricchezza dei marittimi: testamenti e inventari
93
6.
Le pratiche mercantili
105
7
7.
Le pratiche illegali: contrabbando, frodi e bandiere false
129
8.
Identità, nazionalità e conflittualità a bordo
147
Riferimenti bibliografici
179
8
Al capitano Giuseppe «Forza, muoviamoci, che è ora di salpare…»
Abbreviazioni
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Introduzione Lo sguardo dell’ignoto marinaio
Nel 1859, di ritorno da Lipari, il barone Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce il futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco né la sorda stranianza dell’uomo vivente sopra il mare ma la vivace attenzione di uno vissuto sempre sulla terra in mezzo agli uomini e a le vicende loro1.
Lo sguardo del cavatore di pietra, che ebbe davanti a sé il Mandralisca in quel breve viaggio in mare verso Cefalù, era identico a quello del dipinto di Antonello da Messina, appena acquistato dallo stesso barone dal farmacista di Lipari e da quel giorno denominato nella vulgata Ritratto d’ignoto marinaio (fig. 1.1). Qualche decennio dopo, il noto storico dell’arte Roberto Longhi sostenne che difficilmente quel sorriso beffardo presente nel quadro di Antonello sarebbe potuto appartenere a un marinaio, quanto piuttosto a un barone. Ma il Longhi, a mio modesto parere, non tenne conto del fatto che con il termine marinaio si poteva indicare anche chi, dopo aver guadagnato navigando, si era trasformato in padrone, ricco mercante e proprietario terriero, proveniente in tutti i casi da quella categoria sociale poi definita nel corso dell’età moderna “gente di mare”2.
1. Consolo (2004, p. 8). 2. Longhi (1975, pp. 171-7); Lucco (2006, p. 162).
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gente di bordo
figura 1.1 Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto marinaio (1460-70)
Proprietà del Museo della Fondazione culturale Mandralisca di Cefalù.
Al di là delle vicende storico-artistiche di questo celebre capolavoro, che per i cefaludesi ancora oggi raffigura l’ignoto marinaio, quel che appare importante in questa sede è che il quadro di Antonello rappresenta il testimonial perfetto di quella massa di persone comuni, d’ignoti marinai, le cui vite, idee, mentalità e abitudini possono essere ricostruite quasi esclusivamente attraverso le fonti giudiziarie elaborate nelle cancellerie dei tribunali marittimi. Proprio negli archivi giudiziari, e in particolare in quello del Magistrato dei Conservatori del Mare della Repubblica di Genova, è stato possibile osservare i nostri comuni marinai nel loro ambiente di lavoro, nei momenti di tensione, che nella vita di mare erano all’ordine del giorno, ma anche nelle fasi di sbarco a terra, nelle loro case, nelle osterie in compagnia di donne di piacere. È stato possibile, grazie soprattutto ai verbali degli interrogatori tenutisi davanti ai diversi giudici del Mediterraneo, ricostruire alcune storie personali, scaturite direttamente dalla penna del notaio di turno. Si è voluto pertanto lasciare molto spazio alla stessa narrazione 14
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contenuta nella fonte giudiziaria, talvolta trascurando intenzionalmente l’analisi concettuale, che pur è presente e distribuita lungo tutto il volume. Come fece Arlette Farge qualche decennio fa in un piccolo ma intrigante libricino3, ho anch’io sfruttato i frammenti ricavabili dalle fonti giudiziarie per la ricostruzione di un mondo legato al vento, al lavoro manuale e al legno, che ormai non esiste più da secoli. Un mondo alla rovescia, in cui il punto di osservazione degli uomini, e della storia, era dal mare e non dalla terra. I brandelli di storie ricavabili dalle carte della giustizia hanno permesso di provare a capire e indagare chi fosse il marinaio del Mediterraneo del xviii secolo, consentendoci altresì di ricostruire una sorta di categoria antropologica e sociologica proiettata nel passato4. Dal punto di vista concettuale, la metodologia di questo lavoro riprende il filone della “storia vista dal basso” (history from below), che, come è noto, nacque nell’immediato dopoguerra grazie a un gruppo di studiosi inglesi di orientamento marxista desiderosi di focalizzare la loro attenzione scientifica nei confronti delle attività dei ceti subalterni, marginali, nell’ottica di studiarne la resistenza o, ancor meglio, la ribellione nei confronti dei ceti privilegiati, con la chiara volontà di enfatizzare tutti qui fenomeni classificabili entro la categoria della “lotta di classe”, presenti, a loro avviso, anche nel mondo di ancien régime. Indubbio, in questa tradizione di indagine, è stato il contributo di storici come Hobsbawm, Thompson o Hill5 – quest’ultimo, in particolare, con il suo Mondo alla rovescia del 1972 segnò un’epoca storiografica – che in più occasioni accesero i riflettori su quella parte di popolazione mondiale «che collettivamente, se non come singoli», ha avuto un ruolo da «protagonist[a] [n]ella nostra storia». Ciò che quelle persone «hanno pensato e fatto è tutt’altro che trascurabile: erano in grado di influire sulla cultura e sugli avvenimenti»6. Una massa di persone comuni, che però lo stesso Hobsbawm ha voluto definire «non comuni» proprio per il loro fondamentale ruolo all’interno dei fenomeni storici del mondo dell’età moderna e contemporanea. Se, da una parte, tali studi si sono diretti verso la storia più recente – a partire dalle folle rivoluzionarie in Francia fino ad arrivare al Novecento –, dall’altra si sono concentrati in particolare sulla storia del lavoro, così come bene ha sottolineato lo stesso Thompson proprio in un suo celebre saggio 3. Farge (1991, p. 73). 4. Rediker (2014, pp. 23-49); Burstin (2016, pp. x-xi). 5. Hill (1981); Hobsbawm (1997, pp. 237-53); Thompson E. P. (1969); Thompson D. (2001, pp. 481-9); Krantz (1985, pp. 13-28). 6. Hobsbawm (2000, p. 6).
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dedicato alla history from below7. In generale, però, questo filone storiografico aveva trascurato in larga misura il settore del lavoro marittimo, ad eccezione dei contributi di Marcus Rediker, il quale, nell’ambito degli studi atlantici, in diverse circostanze ha tentato di ricostruire le dinamiche sociali della seconda età moderna attraverso i ribelli, i pirati, gli schiavi e i marinai, trasformando pertanto le navi in eccezionali laboratori di opposizione al sistema capitalista8. In particolare, Rediker9, nel suo Between the Devil and the Deep Blue Sea, si era concentrato sui processi lavorativi a bordo delle navi atlantiche nel xviii secolo, sui conflitti interni, sulle dinamiche del reclutamento, sulle ribellioni, in tutte le sue forme, sottolineando il fatto che l’ambiente di lavoro-nave, prima delle fabbriche dell’epoca industriale, riuniva nello stesso luogo una mole non indifferente di manodopera: «La nave forniva un ambiente in cui grandi quantità di lavoratori collaboravano a mansioni complesse e sincronizzate, sotto una disciplina schiavistica e gerarchica in cui la volontà dell’uomo era subordinata all’apparecchiatura meccanica: il tutto per un compenso in denaro»10. Per questo a bordo delle navi – definite non a caso “fabbriche galleggianti” – tra Sette e Ottocento vi sarebbe stata una sorta di auto-organizzazione dei marinai, in contrapposizione con l’“idrarchia” degli Stati marittimi. La risposta dal basso, secondo Rediker, si esplicitò attraverso tutti quei fenomeni di ribellione, ammutinamento, sciopero e adesione alla pirateria; quest’ultima vista come l’unica soluzione sociale, in cui uguaglianza e fraternità sarebbero esistite ben prima degli ideali della Rivoluzione francese. Le fonti giudiziarie del Mediterraneo, a ben vedere, ci presentano però degli aspetti diversi rispetto all’analisi di Rediker. Nonostante confermino un’alta conflittualità tra marinai e capitani/armatori, esplicitatasi in episodi difficilmente rubricabili come lotta di classe, i documenti suggeriscono un’organizzazione sociale, ruotante attorno alle istituzioni dello Stato, che tendeva a tutelare sempre (o quasi) la parte più debole della gente di mare. La presenza di istituzioni marittime statali consentiva ai marinai mediterranei – e in questo senso il caso ligure è paradigmatico – di avere la meglio nelle liti con i capitani/armatori. Pertanto lo Stato non era una mera entità a favore dei capitalisti, ma tutelava anche la classe dei 7. Thompson D. (2001, pp. 481-9). 8. Boelhower (2008, pp. 83-101). 9. Rediker (1996). 10. Linebaugh, Rediker (2000, p. 155).
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introduzione. lo sguardo dell’ignoto marinaio
lavoratori, pur con mille eccezioni, considerato che stiamo parlando della società di antico regime. L’analisi dal basso, ripresa in questa sede, non potendo contare su fonti prodotte dagli stessi attori protagonisti, eccetto il caso del capitano Campanella, è stata effettuata quasi esclusivamente attraverso le fonti giudiziarie, secondo un modello interpretativo usato anche da storici non marxisti, come Peter Earle, il quale, in un suo celebre volume, ebbe modo di studiare i marinai mercantili inglesi tra xvii e xviii secolo11. Questo tipo di fonte, ormai molto usata dagli storici dell’ancien régime, permette, nonostante le note distorsioni, di poter studiare le conflittualità tra i diversi ceti/corpi sociali all’interno di un determinato ambiente lavorativo, così come ben evidenziato anche nello studio di Norbert Elias sulla genesi delle professioni navali12. Tale metodologia, per quanto concerne il settore marittimo, ha recentemente trovato nuova linfa sia nel settore della storia contemporanea, sia negli studi sociologici13 (anche in area italiana), sia nella modernistica, grazie ai contributi del gruppo di ricerca internazionale coordinato da Maria Fusaro14. In precedenza, tra Medioevo e contemporaneità, l’attenzione degli storici nei confronti del lavoro marittimo si era esplicitata – sia nel caso francese (ad esempio, con gli studi di Mollat e Cabantous) sia nel caso olandese (Lucassen, Van Royen e Bruijn) – in una serie di saggi molto attenti, da una parte, agli aspetti culturali e, dall’altra, all’analisi economica basata su dati quantitativi15. Una felice eccezione, in questo quadro storiografico, è il lavoro di Cabantous del 1980 dedicato alla gente di mare di Dunkerque tra Sei e Settecento, che ha invece un taglio prettamente di storia sociale, in cui l’autore stesso si sofferma ad analizzare in modo preciso i meccanismi del mercato del lavoro marittimo16. Cabantous, qualche anno dopo, ci ha regalato inoltre nuove pagine sul tema della conflittualità di bordo in un suo lavoro sugli ammutinamenti, sempre per i secoli xvii e xviii, ma senza l’impianto ideo11. Earle (2007). 12. Elias (2010). 13. Frascani (2001); Rollandi (2003); Zanin (2008); Sacchetto (2009); Giulianelli (2013); Tonizzi (2014). 14. Il progetto di ricerca, finanziato dall’European Research Council (erc), ha come titolo “Sailing into Modernity: Comparative Perspectives on the Sixteenth and Seventeenth Century European Economic Transition”; Fusaro et al. (2015). 15. Mollat (1983, 1993); Cabantous (1984, 1995); Van Royen, Bruijn, Lucassen (1997); Gorski (2007); Van Lottum (2007); Redford (2014); Howell, Twomey (1991); Ragosta (1981); cfr. anche il bel lavoro sulla comunità di San Blas in Messico in Pinzón Ríos (2014). 16. Cabantous (1980); cfr. anche il recente Stanziani (2014, pp. 57-67).
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logico proposto da Rediker17. In tale contesto storiografico si colloca la mia scelta di osservare il lavoro marittimo del xviii secolo partendo dalle carte prodotte dall’istituzione che a Genova, in età moderna, regolava i rapporti tra gli uomini di mare: il Magistrato dei Conservatori del Mare. Dall’osservatorio ligure, intrecciando l’analisi, per quanto è stato possibile, con fonti provenienti da altri archivi mediterranei, si sono potute ricostruire le storie di numerosi “ignoti marinai”, chiamati Jack Tar in area anglofona18, dei quali, ne sono certo, Antonello da Messina avrebbe raffigurato il volto con grande maestria ed efficacia.
17. Cabantous (1984); Buti, Cabantous (2016). 18. Land (2009); Glenn (2010).
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Ringraziamenti
Prima di lasciare la parola ai miei “ignoti marinai” vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato in questa lunga fatica. In primo luogo corre l’obbligo citare tutto il gruppo di lavoro che in questi anni ha dato vita e lustro al Laboratorio di Storia Marittima e Navale (NavLab): Giovanni, Paolo, Emiliano, Gennaro, Danilo, Matteo, Andrea, Diego, Alessio, Fausto, Guido, Claudio, Maarten e Salvatore nella speranza di non dimenticare nessuno. Un ringraziamento particolare va a Paolo Calcagno ed Emiliano Beri, che mi hanno supportato sempre e dovunque, in tutto il percorso di costruzione di questo libro. Vorrei inoltre ringraziare tutti i colleghi di Palermo, con in testa Valentina Favarò, coordinatrice del firb, impareggiabili compagni di discussioni storiografiche, ma anche di “merende pantagrueliche”. Un sentito grazie va a tutti i colleghi italiani, francesi e spagnoli che con me collaborano da anni sui temi della storia marittima e navale. Infine, un affettuoso ringraziamento, che tocca il mio cuore, va ad Elena, paziente nel sopportarmi quotidianamente, anche durante i miei periodi di ricerca fuori sede. Questo libro è dedicato al capitano Giuseppe, mio padre, e a chi come lui ha lavorato sul mare per più di cinquant’anni.
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1 I tribunali marittimi tra giustizia sommaria e ordinaria
Nel corso dei secoli alcune specifiche categorie sociali hanno ottenuto il privilegio di godere di una giustizia diversa da quella ordinaria regolata dal diritto comune. Tra questi particolarismi possiamo senza dubbio ricordare lo ius mercatorum, «direttamente creato», secondo Francesco Galgano, «dalla classe mercantile, senza mediazione della società politica», via via sviluppatosi nel corso del Medioevo ed estesosi, seppur con alcune diversità, sempre più a livello internazionale. Nella successiva epoca moderna, pur rimanendo in vigore molto a lungo, tale diritto particolare fu sempre più regolato dalle leggi “nazionali”, che gli Stati presero ad imporre ai mercanti, fino alla definitiva codificazione avvenuta a partire dal secolo xix1. Il particolarismo giuridico suggerì la creazione di tribunali “speciali”, che iniziarono a giudicare i mercanti attraverso una procedura che, per semplificazione e rapidità, fu chiamata “sommaria” o “alla mercantile”, e differiva da quella ordinaria perché i giudici implicati non erano togati, e il processo rapido non prevedeva la raccolta degli scritti, la presenza di avvocati e la stesura di vere e proprie sentenze. Le cause si sbrigavano in poco tempo sulla base della discrezionalità dell’arbitro e «del giuramento e delle dichiarazioni di uno o di entrambi i contraenti»2. All’interno dello ius mercatorum – oppure autonomamente, secondo molti autori3 – esisteva lo ius maritimum, che prese a regolare i rapporti tra chi navigava, oppure tra chi aveva interessi nel commercio marittimo, creando a sua volta tribunali “particolari”, nati e cresciuti numericamente tra l’età medievale e la successiva epoca moderna. Tali istituzioni vennero regolate da consuetudini che si accumularono a partire dall’età antica – citiamo come primo esempio il Codice di Hammurabi – fino alle soglie della modernità, quando nel Mediterraneo si 1. Galgano (2010, pp. 9-10). 2. Cerutti (2003, p. 55). 3. Bensa (1891).
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solidificarono in una raccolta, pubblicata per la prima volta in catalano nel 1476, denominata Consolato del Mare, dal nome stesso della magistratura di Barcellona (Consolat de Mar)4. Il Consolato, base di tutte le norme che successivamente vennero prodotte dagli Stati nazionali, raccoglieva regole provenienti da altre raccolte medievali, come gli statuti di Arles, Marsiglia o Trani, i ruoli di Oléron o le famose – in area italiana – tavole di Amalfi, compilate forse per la prima volta nel 11325. Le consuetudini del mare, divenute nel corso dell’età moderna la base del diritto marittimo internazionale attuale, servirono come riferimento procedurale per quei tribunali specializzati formati da “consoli”, cioè rappresentanti provenienti dalle file dello stesso commercio marittimo, preposti a giudicare le liti tra i naviganti secondo procedure dette appunto alla mercantile o sommarie. Fiorirono un po’ dappertutto in area mediterranea istituzioni di questo tipo; molte, come a Malta, Nizza o Civitavecchia, denominate come quella di Barcellona; altre, come il caso di Genova o Venezia, diverse nella denominazione e nella composizione. Quel che però mi preme sottolineare in questa sede è come tale particolarismo giuridico fu, nel corso del Settecento, modificato da parte della giustizia ordinaria imposta dagli Stati e come le istituzioni in questione – ad esempio nel caso genovese o in quello nizzardo – subirono trasformazioni tali da diventare nuove realtà giuridiche, molto diverse per certi aspetti dai tradizionali consolati, simili per converso agli ammiragliati di Francia, Inghilterra e Olanda6. La magistratura genovese, in particolare, protagonista nel suggerire al lettore le storie contenute nei capitoli di questo volume, consolidò definitivamente la sua presenza e il suo funzionamento all’interno dell’assetto istituzionale della Repubblica solamente con la legge del 26 marzo 16027. Fino a quel momento, e a partire dalla fine del Quattrocento, si mescolarono continuamente le competenze di diversi organi preposti a regolare il mondo dello shipping genovese; alcuni di essi nacquero durante l’epo4. I consolati nacquero precocemente a partire dalla fine del xii secolo nell’area valenciana e aragonese, per poi estendersi al resto dei regni iberici. Secondo Smith (1978, p. 14): «el tribunal de los cónsules debió su origen a la pretendida incapacidad de los tribunales ordinarios y el procedimiento civil en lo referente a resolver expeditiva, económica y competentemente los litigios por cuestiones mercantiles y marítimas». Per Siviglia cfr. Vila Vilar (2016, pp. 71-84); Corrieri (2005); Lozzi (2010). 5. Mignone (2016, p. 28); sulle origini arabe cfr. Khalilieh (2006). 6. Morriss (2011); sul meccanismo di giudizio civile dell’ammiragliato inglese cfr. Dunlap (1836); Steckley (1999, pp. 315-45 e 2006, pp. 175-97). 7. Pardessus (1837, t. iv, pp. 534-42); Forcheri (1968, pp. 147-50); asg, Manoscritti Biblioteca, 41.
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1. i tribunali marittimi tra giustizia sommaria e ordinaria
ca comunale, altri si svilupparono dopo la nascita della nuova Repubblica oligarchica nel 1528. Nella Genova del xv secolo esistevano due organi del Comune che si occupavano di regolare il settore marittimo: l’Ufficio di Gazaria e l’Ufficio del Mare (Officium maris); il primo con maggiori competenze in termini di controlli commerciali e di polizia, il secondo con una maggior attenzione agli equipaggi, alla loro composizione e alle vertenze interne che potevano nascere. A queste due istituzioni pubbliche se ne aggiunse una terza nel 1490, quando il 15 ottobre venne autorizzata la nascita dei Conservatores navium, su richiesta dei patroni e armatori locali che avevano chiesto al Comune di poter avere direttamente «un potere di controllo e di organizzazione sulle arti impegnate nelle costruzioni, riparazioni, forniture navali, sulle ciurme, sulla disciplina portuale»8. La nuova realtà nata sulla scia del modello catalano, autorizzata dallo Stato, era formata da esponenti del ceto armatoriale e marittimo locale, secondo il particolarismo giuridico della giustizia sommaria; affiancava, nel regolamentare la navigazione mercantile genovese, le due più antiche istituzioni comunali, in un momento storico di estrema confusione politica. Tra il 1490 e il 1498, di fatto, vi furono incroci continui di competenze fino a che venne emanata la Nova forma pro navibus, la quale assegnava completamente la materia marittima al vecchio Officium maris. Non soddisfatti, i patroni genovesi tornarono alla carica nel 1526 per riproporre un organismo particolare che regolasse il settore marittimo a scapito delle fragili istituzioni comunali. Tra il 1527 e il 1528 la nuova realtà aveva completamente cancellato le antiche magistrature, ottenendo anche l’importante compito di erogare giustizia per tutte le controversie civili interne al settore. Nel 1546 la nuova istituzione prese a denominarsi Conservatori del Mare, anche se in un documento del 1581 risulta ancora come Conservatori delle Navi, ma non è chiaro se questo cambio di nome comportasse anche una modifica dei suoi poteri e delle sue competenze in materia giudiziaria9. Queste ultime erano state senza dubbio ampliate a partire dal 1569, quando i Conservatori ottennero per la prima volta anche la materia criminale, anticamente detenuta, per quanto riguarda i marittimi, unicamente dal vecchio Officium maris. Il giudizio penale fu eliminato nel 1576 con la creazione della nuova Rota Criminale, la quale si trovò così investita anche delle cause tra persone appartenenti alla categoria della gente di mare. Solamente il 23 luglio 1602, con l’approvazione 8. Calegari (1970, p. 59); asg, cm, 447. 9. Calegari (1970, p. 66).
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dei nuovi Capitoli da parte del Senato, ribaditi definitivamente il 26 marzo 1607, i Conservatori del Mare raggiunsero, anche se con alcune polemiche, la loro piena maturità grazie anche al reintegro del loro potere nel campo della giustizia criminale. Da quel momento in poi, tale magistratura, interamente statale, fu preposta a regolamentare tutto il settore dell’armamento marittimo, così come avveniva negli ammiragliati francesi: dalle visite alle navi in partenza da Genova alle nomine dei capitani; dal controllo sugli equipaggi fino alla regolamentazione relativa ai finanziamenti al settore (cambi marittimi ecc.); e poi ancora dalla gestione degli ancoraggi nel porto di Genova fino al servizio di pilotaggio. Infine, la facoltà di giudicare tutte le controversie civili e criminali riguardanti i patroni, gli armatori, i marinai e i mercanti e tra ognun di loro rispettivamente ed ogni altra persona per causa procedente da noli, salari, corrisponsioni di robbe ed ogni altra dipendenza da viaggi di dette navi; e debbano far giustizia sommaria, sola facti veritate inspecta, e senza figura di giudizio e senza forma di processo, udite le parti e con facoltà di eseguire il giudicato senza rimedio di appelazione, e senza però pregiudizio o derogazione dell’autorità e giurisdizione cumulativa, e non privativa, e sempre a elezione dell’attore, il quale eletto uno delli magistrati competenti non possa durante l’istanza della causa variare il giudice10.
Inoltre, nel 1692, per rendere ancor più rapido il giudizio, si decise di delegare le cause derivanti dalle controversie, «dove per lo più sogliono essere in gran numero e fra marinari, e padroni de’ vascelli», al Deputato di mese, che di volta in volta veniva eletto all’interno del Magistrato e che si occupava principalmente della conflittualità a bordo dovuta ai mancati pagamenti dei salari o delle parti spettanti ai marinai, ad esclusione dei casi in cui nelle liti ci fossero stati ferimenti o uccisioni: in questo caso, la causa criminale veniva dibattuta davanti all’intero Magistrato, composto da cinque membri, tutti appartenenti al patriziato genovese, eletti dai due Collegi e dal Minor Consiglio con tre quinti dei suffragi favorevoli. I membri della magistratura rimanevano in carica venti mesi e venivano rinnovati uno ogni quadrimestre, non potendo più essere eletti nello stesso ruolo per tre anni11.
10. Pardessuss (1837, t. iv, p. 541). Ove non diversamente indicato tutte le traduzioni dei brani da testi citati in in lingua originale sono mie. 11. asg, cm, 444.
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1. i tribunali marittimi tra giustizia sommaria e ordinaria
Tra la fine del Seicento, dopo che in Francia fu emanata l’Ordonnance de la Marine del 168112, e il primo Settecento, con la pubblicazione delle leggi del 1712, i Conservatori del Mare furono toccati sul piano procedurale dalle stesse vicende che la Cerutti ha spiegato per il Consolato di commercio di Torino. Piano piano la giustizia ordinaria erose spazio a quella sommaria, facendo entrare sempre più nell’ambito processuale commerciale marittimo gli scritti, le prove, i giudici togati e gli avvocati. Nel caso della magistratura genovese si creò uno strano ibrido: da una parte il Deputato di mese, espressione del patriziato urbano, dunque appartenente per tradizione al ceto mercantil-armatoriale, che continuò a giudicare alla mercantile; dall’altra, invece, il resto del collegio, che giudicava, e non sempre, con prove scritte, raccolta di testimonianze da interrogatori e presenza di giuristi – uno di questi, ad esempio, è lo stesso Carlo Targa – con rito ordinario. Una coesistenza di tipologie di giustizia che è possibile trovare in altre realtà istituzionali mediterranee anche quando nelle leggi costitutive si specificava che la procedura avrebbe dovuto essere quella sommaria. A tal proposito, è interessante il caso della Sardegna. Il 30 agosto 1770 furono creati i Consolati di Cagliari e Sassari e nell’Editto istitutivo si specificava che il procedimento, o giudizio de’ consolati, egualmente che quello de’ giudici subalterni nelle cause concernenti il commercio dovrà essere sommario, ed alla mercantile, senza tela giudiziaria, né struttura di processo, considerata la sola verità del fatto, l’equità e la buona fede, e ciò sul campo col mezzo de’ contraddittori ed ordinanze verbali ogniqualvolta si avranno in pronto, e chiare le prove, o che la domanda dell’attore, ad eccezione del reo saranno verificate con qualche pubblico documento, testimoni o giuramento.
In alcuni casi, però, si permetteva «alle parti di allegare per via di narrative di iscritto, ritenuta però sempre nel resto la sommarietà sopra prescritta»13. Insomma, la giustizia alla mercantile un po’ dovunque fu “sporcata” da quella ordinaria, creando alla fine dell’antico regime alcune procedure ibride. Nel caso genovese sembra inoltre prevalere il modello degli ammiragliati alla francese, giacché, soprattutto dopo il 1681, le competenze e il sistema di giustizia si andarono ad allineare tra di loro. La magistratura genovese si ritrovò dunque a costituire un ibrido, nato sul modello dei consolati 12. Allaire (2015, pp. 79-99). 13. asc, Atti governativi e amministrativi, 306, Regio editto per lo stabilimento de’ consolati e della loro giurisdizione nel Regno di Sardegna, 30 agosto 1770.
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alla mercantile, ma cresciuto nel corso del xviii secolo copiando il modello degli ammiragliati. La sintesi, come detto, fu un sistema misto che, tenuto conto delle novità scaturite dall’Ordonnance, manteneva anche parte della tradizione consolare mediterranea. Ne nacque, come anticipato, la figura del Deputato di mese, che per determinati reati giudicava secondo gli schemi interpretativi della giustizia sommaria, mentre per altri reati, assieme al resto del collegio, usava il rito ordinario. Dunque, l’attacco del rito ordinario si fece sentire dappertutto, sebbene negli Stati italiani molte istituzioni continuassero a seguire la vecchia via del Consolato del Mare. In alcuni luoghi, poi, la gente di mare veniva giudicata per alcuni reati dalla magistratura specializzata – i Consoli del Mare di Pisa (anche se solo in appello), il Consolato del Mare di Civitavecchia, di Messina, Cagliari o di Malta –, ma anche da altri tribunali (a Trieste il tribunale commerciale e marittimo), sia per reati civili sia, soprattutto, per reati criminali: è il caso della Toscana con il governatore di Livorno o dello stesso Stato Pontificio con il governatore di Civitavecchia. La stessa cosa avveniva a Malta, dove esisteva il Consolato, ma dove le cause criminali erano demandate esclusivamente ad altri organi dello Stato, come l’antica Corte della Castellania14. A Malta il Consolato fu istituito molto tardi, copiando il modello messinese, con la prammatica del Gran Maestro Perellos del 1° settembre 1697. Formato inizialmente da quattro consoli, portati poi a sei nel 1722, più un assessore e un cancelliere, il tribunale maltese doveva avere «autorità di conoscere e giudicare le liti e questioni di noli, di danno di roba la quale sarà caricata in nave, di paga e soldo di marinari […], d’ogni altro atto il quale si contiene e dichiara nei capitoli del mare, e finalmente di tutto quello che riguarda negozio di mare»15. Ciascuna causa, purché non eccedesse il valore di dieci scudi, era portata davanti ai consoli in forma orale «senza figura o strepito di giudizio, avuto riguardo alla sola verità del fatto e secondo l’uso e costume del mare»16. Sentita la richiesta e ascoltati gli eventuali testimoni, i consoli annotavano la decisione sul bastardello tenuto dal cancelliere. Per le cause del valore superiori ai dieci scudi scattava una procedura che, per quanto abbreviata, richiamava quella della giustizia ordinaria, con la comparsa degli scritti, la raccolta degli interrogatori e la presenza, non 14. Vassallo (1997); in generale sul tema della giurisdizione sul mare cfr. Calafat (2013). 15. Zeno (1936, p. 15). 16. Ivi, p. 17.
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sempre concessa, degli avvocati17. Il rito era simile a quello usato nelle corti analoghe di Sicilia. Insomma, contrariamente a quanto sostenuto dalla Cerutti, anche in questi consolati marittimi entrambe le forme procedurali coesistevano già nella seconda parte del xvii secolo. La differenza rispetto al consolato terrestre di Torino sta nella particolare importanza del commercio marittimo e nel deciso intervento degli Stati, desiderosi di normare il più possibile questo settore strategico, legato anche alle marine da guerra. In maniera analoga operava il Consolato di Mare di Civitavecchia, ben studiato di recente da Denis-Delacour, istituito nel corso del 1742 e legato alla creazione del portofranco romano, sul modello di Livorno e Nizza. Il meccanismo procedurale, così come si vede bene dalla casistica analizzata dal giovane studioso francese, è assimilabile in parte a quanto abbiamo detto per Malta, anche se il fondo d’archivio romano è piuttosto limitato e di breve periodo, e pertanto non ci consente di aggiungere molto altro rispetto a quanto già detto. Nel caso di Civitavecchia, poi, così come avveniva in maniera speculare a Livorno, alcune cause di liti e soprattutto tutte le cause criminali andavano discusse, secondo la procedura ordinaria, davanti al governatore, ma talvolta, in una confusione tipica dell’antico regime, anche davanti al tribunale del Tesorierato e Camerlengato, dove è possibile trovare casi di furti commessi da, o ai danni di, marinai o altri episodi rubricabili come criminali18. Nella Toscana dell’età moderna il tribunale di riferimento, di origine medievale, era quello dei Consoli del Mare di Pisa19, tuttavia nel corso del xvii secolo le competenze, almeno per il primo grado, passarono sempre di più al capitano, poi governatore di Livorno. In generale, così scrive Andrea Addobbati in un suo recente saggio edito in inglese: Possiamo dire che il tribunale del Capitano, poi Governatore di Livorno, oltre l’ordinaria giurisdizione civile, ebbe il compito di mettere in esecuzione i contratti commerciali e marittimi, previo esame della loro legittimità formale, mentre i Consoli del Mare di Pisa avrebbero dovuto occuparsi delle contestazioni di merito, e quindi anche degli appelli alle sentenze livornesi. Tra xvi e xvii secolo le competenze dei due tribunali si andarono precisando e coordinando tra loro, passando per una serie di conflitti di attribuzione, che cominciò dalla messa in discussione della competenza sui cosiddetti “piati di mare”, che nel 1553 fu delegata 17. nam, Mdina, Legal Section, Consolato di Mare, 401/3, cc. 11-15 ss., causa Pro Capitano Io. Pietro Santori versus Capitano Antonium Scarinci, 25 agosto 1739. 18. Denis-Delacour (2012b, pp. 161-82; 2012a, pp. 268-90; 2015). 19. Sanacore (1989).
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al Capitano quando attore e convenuto fossero stati marinai o capitani, e lasciata invece ai Consoli nel caso la lite vedesse implicato almeno un mercante20.
Resta il fatto che in ogni caso i marinai potevano sempre ricorrere ai Consoli del Mare di Pisa, se non soddisfatti dal governatore. Dal punto di vista procedurale, anche in questo caso l’accavallamento delle giustizie complica notevolmente il quadro. Se siamo sicuri che i Consoli di Pisa operavano nel solco della tradizionale giustizia sommaria, le cause discusse davanti al governatore appaiono disomogenee dal punto di vista del rito. Dai documenti analizzati dallo stesso Addobbati sembra che a Livorno si usasse talvolta il rito alla mercantile, per rapidità ed efficacia, ma in altri casi il rito ordinario, con tanto di testimoniali scritti e tela giudiziaria. In alcune occasioni, come vedremo nel caso genovese, il governatore favoriva anche l’accordo extragiudiziale. A Trieste, il 20 maggio 1722, gli austriaci crearono il Magistrato di Cambio, con annesso Consolato del Mare. La giustizia marittima e commerciale, qui unita nello stesso tribunale, venne pertanto tolta alla giurisdizione delle antiche istituzioni comunali. Il tribunale di prima istanza era formato da un preside, cinque assessori e un notaio scelti tra funzionari imperiali e magistrati locali. Il processo era sommario, la procedura era orale. Contro le sue sentenze, da 200 fiorini in su, l’appello era devoluto al tribunale di seconda istanza presieduto dal capitano della città e formato da sei assessori e un notaio. Per le cause con valore eccedente i 300 fiorini era ammessa ancora l’istanza di revisione al Consiglio Aulico dell’Austria Interiore di Graz. Da un rapido sguardo alla documentazione presente nella serie denominata “Affari contenziosi” ricaviamo un quadro di giustizia marittima assai parziale. Nelle numerose filze compaiono molte liti tra mercanti e armatori, tra armatori e capitani, ma nessun contenzioso tra capitani e marinai né, tantomeno, nessun tipo di reato punibile penalmente. Segno evidente che anche a Trieste intervenivano nella “giustizia dei marinai” altri tribunali, nei quali però le procedure erano certamente di tipo ordinario21. Come detto, anche in Sardegna, sia a Cagliari sia a Sassari, fu creato nel 1770 un tribunale del Consolato del Mare che aveva competenza sia per le cause tra mercanti “di terra” sia per chi commerciava in mare: 20. Addobbati (2015, p. 44; versione originale dell’autore). 21. asts, Tribunale commerciale e marittimo in Trieste, Affari contenziosi, 91; Pavanello (1999); Cova (1992, 2014).
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Per ragione del commercio marittimo avranno i consolati la giurisdizione sopra le liti che insorgessero in occasione di costruzione di navi mercantili, armamento, ed equipaggio delle medesime, o per le convenzioni de’ capitani, e patroni co’ marinari.
Restavano escluse le cause concernenti le prede marittime e le rappresaglie, che rimanevano di spettanza della Capitania Generale, e le liti riguardanti i contrabbandi o i naufragi, che invece toccavano al tribunale della Real Intendenza. Il Consolato di Cagliari, ricordo, aveva però solo giurisdizione civile e non criminale, diversamente da quello di Nizza e dai Conservatori del Mare, ed era composto dal reggente della Real Cancelleria, che lo presiedeva, da due giudici della Real Udienza, eletti; mentre il tribunale di Sassari era presieduto dall’assessore civile della Real Governazione e aveva altri due giudici scelti tra gli altri assessori. Entrambi i tribunali, inoltre, avevano due consoli scelti tra i negozianti più accreditati sulla piazza, «i quali daranno il loro giudizio nelle materie concernenti la perizia, uso mercantile, e le regole del commercio»22. È curioso notare come i Savoia abbiano percorso strade diverse dal punto di vista istituzionale, a seconda dell’area territoriale di interesse. Se, difatti, in Sardegna si può incontrare una realtà consolare molto simile a quella di altri Stati italiani, parificata anche al tribunale commerciale di Torino studiato dalla Cerutti, a Nizza, invece, più anticamente, gli stessi Savoia presero decisioni opposte, paragonabili a quelle prese a Genova e in Francia. A Nizza, nella fattispecie, il Consolato fu creato per la prima volta nel 1448 dal duca Ludovico e prevedeva l’elezione ogni sei mesi di due consoli/giudici scelti tra i mercanti più influenti della città. Il tribunale commerciale, confermato nel 1528 e nel 1531, era uguale a quello presente in molte città italiane, ma con il 1613, a seguito della creazione del portofranco di Nizza, il duca Carlo Emanuele i affiancò all’antica istituzione una nuova magistratura specifica in materia marittima – il Consolato del Mare – alla 22. asc, Atti governativi e amministrativi, 306; asc, Segreteria di Stato e di Guerra, serie ii, 693, Regio Consolato, 1770-1811. Il 3 ottobre 1770 il reggente della Real Cancelleria e i giudici della Real Udienza, Antonio Matta e Pietro Ceretti, proposero come consoli nel Magistrato del Consolato di Cagliari Gio. Batta Ottone di Genova, residente in Cagliari «in dipendenza della società di negozio qui stabilita», e Giuseppe Olivar di Cagliari. In caso di rifiuto da parte dei uno dei due si proponeva Gioanni Antonio Nittard, francese, sempre residente in Cagliari. Cfr. altresì Puddu (2010, pp. 81-96).
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quale l’anno dopo si aggiunse il Senato a completare l’assetto amministrativo della contea. Il nuovo Magistrato, contrariamente a quello più antico, era composto da due giudici professionisti, chiamati a pronunciarsi solo ed esclusivamente per le cause marittime, senza possibilità di appello e fino a un valore di 500 scudi d’oro: al di là di questa somma si poteva ricorrere al Senato. Per le tradizionali controversie commerciali “di terra”, invece, si continuò ancora per qualche anno a utilizzare l’antico Consolato, fino a quando con l’Editto del 26 marzo 1626 i Savoia fusero le due istituzioni. Il nuovissimo tribunale era pertanto composto da tre giudici professionisti, scelti fra i consiglieri di Stato, gli auditori della Camera dei Conti, i senatori e da due consoli scelti tra i mercanti della città. Le attribuzioni del Consolato crebbero costantemente per tutto il xvii secolo fino alla metà di quello successivo, allorché si codificarono le funzioni definitive del tribunale. A partire dal 1696, il presidente capo del Consolato era spesso anche il presidente del Senato e forse fu per questo che l’amministrazione sabauda decise di eliminare del tutto nel 1701 la possibilità di ricorrere al Consolato. Dal punto di vista procedurale, il tribunale nizzardo assomigliava a quello dei Conservatori del Mare: doveva sentenziare rapidamente e alla mercantile, le parti dovevano presentarsi senza avvocato (questo non fu sempre vero nel corso del xviii secolo), in caso d’impedimento si poteva ricorrere a dei procuratori, ma questi non dovevano essere giuristi professionisti. Ognuno dei due giudici sedeva a turno per una settimana e sbrigava gli affari urgenti; per quelli più importanti era richiesta la presenza di tutti i membri dell’istituzione. La seduta plenaria si teneva ogni giovedì. Per le cause criminali, il numero dei giudici professionisti saliva a cinque, mediante l’aggiunta di due senatori. La pena poteva essere decretata solamente dopo la delibera del Senato. Dopo il 1779 la seduta plenaria fu richiesta anche per tutte le cause suscettibili di ripercussioni diplomatiche e tra queste ovviamente per quelle riguardanti i corsari. Insomma, anche in questo caso si trattava di un tribunale con giustizia alla mercantile, ma “sporcata” da quella ordinaria. Secondo l’Editto del 1749 il Consolato del Mare di Nizza aveva «la sopraintendenza e protezione del Portofranco per l’osservanza de’ privilegj del medesimo, e la cognizione inappellabilmente di tutte le liti, che per causa di negozio o mercatura insorgeranno fra negozianti, mercanti, padroni, marinari, condottieri, passeggeri, e fra questi ed altri». L’anno dopo l’istituzione ottenne nuovi poteri, allargando di molto le sue competenze e, come nel caso di Genova, trasformando un tribunale commerciale in un’i30
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stituzione capace di sovraintendere tutta la materia marittima, sul modello degli ammiragliati. Il 15 luglio 1750 fu dunque pubblicato il nuovo Editto per lo stabilimento del Consolato di Nizza. Composto di 92 brevi articoli, fu completato il giorno successivo dalle relative istruzioni23. Queste ultime cominciavano specificando che il Consolato di Nizza era un tribunale giudicante in materie marittime, e quindi aveva l’obbligo d’operare con maggior zelo rispetto alle analoghe istituzioni di Torino e Chambéry. Erano previste quattro grandi “ispezioni”: 1. alle regalie; 2. all’osservanza del portofranco; 3. ai ricorsi dei negozianti, ai delitti commessi in mare, alle frodi ed altro ancora; 4. ai mezzi utili per introdurre a Nizza nuove manifatture e nuovi commerci. Insomma, il Consolato si occupava di tutto quel che riguardava le attività marittime in senso lato, compreso in particolare il tema delicato delle prede corsare. L’undicesimo articolo (Della giurisdizione del Consolato) merita un po’ d’attenzione, giacché in esso si specificavano meglio le competenze del tribunale, che doveva procedere sempre con rapidità nel giudicare le cause commerciali. Più complessa era invece la competenza criminale, relativa soprattutto ai contrabbandi, alle frodi, alle piraterie e a ogni altro delitto commesso in mare. Inoltre, per i reati si distinguevano due procedure diverse: una relativa alle navi mercantili, l’altra a quelle da guerra. Nel primo caso, per i reati meno gravi si lasciava in prima battuta la giurisdizione al comandante dell’imbarcazione, mentre per reati più gravi, commessi in vicinanza della terra, giudicava il giudice della spiaggia o del porto; inoltre, sempre per i reati più gravi commessi in alto mare, il capitano aveva l’obbligo di custodire il reo fino alla consegna alla giustizia. Per quanto riguarda le navi militari o per quelle corsare, la giustizia era amministrata, anche per i delitti commessi a terra, dal capitano della nave e all’occorrenza dal comandante della squadra navale. Rispetto al potere centrale, il Consolato aveva una grande autonomia relativamente agli affari commerciali in genere, mentre ne aveva molta di meno per quelli riguardanti i corsari, i cui casi finivano di solito davanti alla Segreteria di Guerra, alla Segreteria degli Esteri e talvolta nelle mani del re, eliminando del tutto quel poco di giustizia alla mercantile rimasta. I salari dei magistrati erano rigidamente controllati da Torino; i giudici non potevano esigere nessun tipo di tributo e non esisteva la venalità delle 23. adam, Città e Contado di Nizza, Porto di Villafranca, 5, fascicolo 31-ii; Bottin (1979); Duboin (1848, t. xv, vol. xvii, pp. 118-28).
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cariche. Il personale del tribunale era costantemente rinnovato; rari erano i casi di presidenti del Consolato rimasti in carica per più di dieci anni. Dal 1750 al 1792 s’alternarono ben sei presidenti, mentre la composizione totale del tribunale fu modificata in cinque casi. Il Consolato fu travolto dalla Rivoluzione francese nel 1792, con l’occupazione del Contado di Nizza, ma fu ricostituito con la Restaurazione, che riservò la giurisdizione di primo grado e l’appello al Senato. Il caso napoletano, sulla scia di quelli di Genova e Nizza, ci mostra un quadro tardo settecentesco nel quale la procedura sommaria è stata “sporcata”, anche se non formalmente cancellata, a favore della presenza di giudici e avvocati professionisti. La Curia dell’Ammiragliato e del Consolato, nata per volere di Ferdinando iv il 6 dicembre 1783, «fu uno dei tanti tribunali speciali», scrisse all’inizio del Novecento Egildo Gentile, «che fiorirono nella seconda metà del xviii secolo; un corpo giudiziario e consultivo, avente giurisdizione sulla gente di mare e sugli affari marittimi»24. La nuova istituzione, che sostituiva i precedenti e antichi tribunali del Grande Almirante e del Consolato di Terra e di Mare, aveva competenze in materia sia civile sia criminale «per tutti quelli che vivevano dell’arte e dell’industria del mare», ed era composta da: un presidente togato, eletto tra uno dei giudici della Regia Camera della Sommaria; due giudici, rispettivamente uno per le cause civili e uno per le criminali; due assessori o consoli, nominati dal re tra i mercanti; un avvocato fiscale e uno denominato “dei poveri”; infine, un segretario, incaricato di stilare i documenti e conservare l’archivio. La procedura, in generale, «doveva osservarsi l’ordine e la tela giudiziaria, praticata dal Supremo Magistrato del Commercio»25 per il ramo civile e dalla Gran Corte della Vicaria per il criminale. L’appello in tutti i casi poteva essere portato davanti ai giudici del Supremo Magistrato del Commercio, istituito nel 1739. Più confusa e lontana da quella napoletana è decisamente la situazione istituzionale veneziana, in cui non esisteva una magistratura analoga ai Consolati. Le competenze in materia di giustizia marittima mercantile erano distribuite su diverse magistrature, tra cui i Provveditori all’Armar, i Cinque Savi alla Mercanzia e perfino i Giudici al Forestier, che nello 24. Gentile (1909, pp. 1-3); asn, Tribunali Antichi, 1700. 25. Gentile (1909, p. 4). Scrive Zaugg (2011, p. 88) che per il tribunale del Supremo Magistrato del Commercio la giustizia sommaria era indebolita: ma con la presenza di giudici togati, si può ancora parlare di giustizia alla mercantile? Cfr., inoltre, su questa istituzione, Perrone (1916); Allocati (1955); Natale (2009).
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specifico regolavano le liti tra marinai e capitani per le pendenze derivate dai salari. La Curia del Forestier, in particolare, era stata creata alla fine del xii secolo per dirimere le controversie tra l’autorità pubblica e i singoli privati. In seguito, con l’espandersi delle attività commerciali della città, i Giudici al Forestier, come indica dall’altra parte lo stesso nome, cominciarono a giudicare le liti tra veneziani e stranieri, in base anche agli eventuali accordi internazionali stipulati. È per questo che nella documentazione si trovano spesso procedimenti per mancati pagamenti di pigioni di appartamenti da parte di affittuari stranieri a proprietari veneziani. Nel xiv secolo le competenze di questa magistratura crebbero tanto da farla diventare il tribunale che avrebbe dovuto risolvere le cause tra gli appartenenti alla gente di mare. Ecco perché, ancora nel xviii secolo, tutte le liti salariali tra capitani e marinai si trovano nella documentazione prodotta da questa magistratura26. In contemporanea, però, sappiamo dai documenti che molte cause concernenti noli, avarie e altro ancora venivano dibattute anche dai Cinque Savi alla Mercanzia, creati già nel 1506. In conclusione di quest’ampia, ma parziale, panoramica, resta da capire perché il Consolato di Nizza, l’Ammiragliato di Napoli, nato però assai tardi, e soprattutto il Magistrato dei Conservatori del Mare di Genova furono le uniche istituzioni marittime italiane ad accumulare così tanti e tali poteri da assomigliare appieno agli ammiragliati francesi, soprattutto dopo la pubblicazione della nota Ordonnance de la Marine del 1681. Così come accadde in Francia, anche nei suddetti territori italiani nel corso dell’età moderna avvenne una progressiva divisione tra gli antichi consolati – le juridictions consulaires francesi27 – e le istituzioni prettamente marittime come gli ammiragliati, aventi giurisdizione mista sia civile che criminale, con una confusione, come abbiamo visto, tra il rito alla mercantile e quello ordinario. D’altra parte, come già detto nell’Introduzione, lo “sporcarsi” della giustizia alla mercantile di questi tribunali marittimi, con la crescente adozione nel corso del xviii secolo del rito ordinario, ci ha permesso di poter maggiormente utilizzare le scritture del tribunale – e mi riferisco in particolare ai verbali degli interrogatori, usati per ricostruire le nostre storie dei marittimi – sia attraverso la narrazione stessa proposta dai testimoni sia attraverso la penna e la distorsione del cancelliere di turno. In definitiva, un’analisi più raffinata sulla giustizia marittima sarà possibile solamente 26. Fusaro (2015, pp. 30-3); Da Mosto (1937, t. i, p. 91). 27. Genevois (1866); Dupieux (1934); Kessler (2007).
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grazie all’intervento degli specialisti di storia del diritto, i quali potranno fornirci, anche fruendo dei dati contenuti in questo volume, un quadro più esaustivo sugli sviluppi della storia della giustizia sommaria, intrecciandola con quella ordinaria nel corso del xviii secolo. Il sistema degli amirautés francesi, ai quali in questa sede faccio cenno senza la pretesa di indagare ulteriormente il tema già ben studiato dalla storiografia di Francia, rappresenta un modello istituzionale seguito da Genova, ma anche come abbiamo visto dal duca di Savoia e infine anche dai Borboni di Napoli nel tardo Settecento. Istituzione sviluppatasi nel corso del Medioevo, sempre a cavallo tra organo civile e organo militare, l’ammiragliato francese poggiava il suo fulcro, nonostante le continue frizioni istituzionali con gli antichi ammiragliati di Bretagna, Provenza e Guyenne, nella carica di ammiraglio di Francia, figura creata da San Luigi nel 1270 e normata dalle ordinanze del 1373. L’ammiraglio era in pratica il delegato (luogotenente) del sovrano per tutti gli affari marittimi del Regno e durante le guerre avrebbe dovuto avere il comando della flotta. Aveva altresì giurisdizione civile e criminale su tutte le cause marittime. L’incarico fu sin da subito riservato ai membri della grande aristocrazia legata alla casa regnante, quasi mai concesso a un comandante navale vero e proprio. Fin dalle origini la carica, oltre all’onore, portava con sé una serie di entrate che via via si andranno espandendo: diritti di ancoraggio, percentuali sulle lettere di congedo e, soprattutto, la decima parte dei proventi della guerra di corsa28. Nel 1626 il cardinale Richelieu decise di intervenire in campo marittimo creando la nuova figura istituzionale di Grand Maître de la navigation, in sostituzione dell’incarico di ammiraglio. Inoltre, nel 1631, il celebre cardinale accentrerà su di sé tutte le cariche navali del Regno, diventando ammiraglio di Bretagna e di Provenza e acquistando dal duca di Guisa la carica di generale delle galere. La carica di Grand Maître fu mantenuta fino al 1669, quando l’ultimo, il duca di Beaufort, morì. Venne allora, nel novembre del 1669, ristabilita la carica onorifica di ammiraglio di Francia che fu attribuita al figlio legittimo di Luigi xiv, il conte di Vermandois, il quale all’epoca aveva solo due anni. Successivamente, la carica passò a un altro figlio legittimo del re Sole, il conte di Tolosa, che la tenne fino al 1737, quando la passò al proprio figlio, il duca di Penthièvre, che la mantenne fino al 1793. Il conte di Tolosa ricoprì l’incarico con serietà e si dedicò effettivamente alla gestione della Marina francese. L’ammiraglio di Francia era a capo di un tribunale che si trovava alla Table de marbre du 28. an, Amirauté de France, Z1D 55, Registro delle sentenze 1739-56.
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Palais a Parigi. Gli altri tribunali dell’ammiragliato erano distribuiti nelle sedi periferiche. In molti casi l’appello delle sentenze, tra cui anche quelle sulle prede marittime, spettava al tribunale di Parigi29 e poi naturalmente al Conseil des Prises30. Alla base del sistema vi erano dunque gli ammiragliati, retti ciascuno da un luogotenente nominato dall’ammiraglio di Francia. Al luogotenente, che reggeva la carica al posto dell’ammiraglio, quasi sempre proveniente dalle file dei giuristi professionisti, era concessa giurisdizione civile e criminale su tutta la gente di mare e su tutte le cause marittime riguardanti l’area posta sotto controllo da quell’ammiragliato, compresi i porti e le spiagge. In Provenza, oltre al luogotenente, venivano nominati un procuratore del re, un cancelliere e due sergenti con compiti di polizia. Gli eventuali appelli, e anche questo dimostra ulteriormente che non siamo di fronte alla giustizia alla mercantile, potevano essere presentati al locale Parlamento, che nel caso specifico della Provenza aveva sede ad Aix. Dopo il 1623, a seguito dell’intervento di Richelieu, a fianco al luogotenente fu aggiunto un giudice apposito per le cause criminali. Nella fase di pieno regime normativo dei tribunali dell’ammiragliato i procedimenti penali dovevano essere discussi davanti a una corte di sette persone, alla presenza del procuratore del re (accusa) e di eventuali avvocati per la difesa. Insomma, è chiaro dalla documentazione dei vari ammiragliati – quelli di Provenza, Guyenne, Bretagna e altri ancora come quello di Dunkerque – che il rito usato per le cause marittime era l’ordinario31. Dopo l’Ordonnance del 1681, le competenze degli ammiragliati furono meglio definite, anche se, come è facile intuire, per le cause puramente commerciali, ma toccanti il settore marittimo, si crearono di frequente contrasti con la giustizia consolare e dunque anche un conflitto tra procedure come abbiamo visto nel caso degli Stati italiani. Il modello francese, pertanto, si riversò in buona parte in quello nato e sviluppatosi a Genova, ibridato con il sistema dei consolati. L’ufficio dei Conservatori del Mare, pur essendo in origine un tribunale consolare, si trasformò a partire dal primo Seicento in un vero e proprio ammiragliato, 29. Barbiche (2012, pp. 148-50); Duma (1995, pp. 125-36); sul Conte di Tolosa, Amiral de France, cfr. la biografia di Bernot (2012). 30. an, Amirauté et Conseil des Prises, G5 223. 31. Cfr., in generale, Les amirautés en France et Outre-mer du Moyen Âge au début du xixe siècle, in “Revue d’Histoire Maritime”, 19, 2014; Lemaire (1934); Gouron (1938, pp. 281-96); Darsel, Le Bouëdec (2012); su Dieppe: Grancher (2013, pp. 93-109); simile anche il caso dei Pesi Bassi così come ci spiega Sicking (2015, pp. 267-86).
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mantenendo però sino alla fine dei suoi giorni parte del rito alla mercantile e parte del rito ordinario, così come è verificabile dall’enorme mole di documentazione conservata nel proprio archivio e che in questa sede ho in parte sfruttato non tanto per uno studio riguardante il funzionamento giuridico del tribunale, quanto per ricostruire uno spaccato di vita quotidiana della gente di mare nel corso del xviii secolo.
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2 Diventare padroni e capitani: elezione, selezione, istruzione
Il capitano «non ha da esser persona vile», suggeriva il giurista genovese Carlo Targa nella sua celebre opera Ponderazioni sopra la contrattazione marittima, pubblicata a Genova nel 1692. Doveva, continuava il Targa, «sopra ogni altro esser perito di navigare per lunga esperienza» e per questo era opportuno che tutti i capitani fossero istruiti in apposite scuole o quantomeno sottoposti ad esami specifici prima di essere «approvati» al comando. Doveva, inoltre, «esser ben pratico di leggere, scrivere, ed aritmetica, perché si son veduti danni, e disordini grandissimi per simile mancanza nel capo della nave» e doveva infine avere almeno venticinque anni di età. «In ristretto, il vero capitano deve avere le seguenti qualità: perito, provvido, prudente, provetto, pacifico, pronto, poderoso e prodigo». Perciò, concludeva il Targa, «chi conosce di non avere tutte queste prerogative non si assuma questa carica»1. Oggi le indicazioni del giurista genovese ci appaiono appropriate e indiscutibili, ma alla fine del Seicento non tutto era così lineare e chiaro. Anzi, originariamente, a partire dal Medioevo, per designare il comandante (parola attuale non presente nelle fonti d’archivio, ma che in questa sede utilizzo per comodità) di un bastimento si usava il termine patrone/padrone, dal latino patronus, che richiamava «l’intreccio tra ruolo professionale, proprietà della nave e partecipazione alle iniziative commerciali realizzate attraverso il trasporto navale»2. Con questa parola si indicava in generale, almeno fino all’epoca del Targa, sia il comandante di piccole imbarcazioni cabotiere, sia colui che dirigeva la navigazione su 1. Targa (1803, p. 21); sul Targa cfr. Merello Altea (1967); sulla pubblicazione delle Ponderazioni asg, Senato Senarega, 2692, 358, 30 settembre 1692. In generale le citazioni rispecchiano la scrittura del Settecento, tuttavia in alcuni casi si è preferito, per una migliore lettura del testo, modificare la grafia di determinate parole, attualizzandola all’uso corrente. 2. Gatti (2005, p. 701).
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navi di elevato tonnellaggio. Fu soltanto nella seconda metà del Seicento che si iniziò a distinguere il capitano, ossia colui che comanda «navi poderose ed armate», dal padrone, che per converso comandava «navicelli, petacci, palandre, o simili» («sebben dell’istessa forma, chi li comanda non è propriamente capitano, ma patron di navigazione»). La differenza era «come dal cavallo, all’asino, che se ben tutti son quadrupedi, niente di meno il primo è destinato per cavaliere, il secondo per cavallari da condotta, quello porta la sella, questo il basto»3. In pratica, si venne creando la distinzione per dimensioni, tipologia e armamento del bastimento, oppure per la distanza dei viaggi che l’imbarcazione avrebbe dovuto affrontare. Per i bastimenti di piccolo e medio cabotaggio vi era il padrone; per le navi di medie e grandi dimensioni e per viaggi di lungo cabotaggio o oceanici vi era invece il capitano. Nonostante questa distinzione, l’ambiguità dei due termini rimase ancora molto a lungo. Nel testo del Consolato del Mare, sia nelle prime edizioni della fine del secolo xv sia nelle successive della piena età moderna, come nella celebre edizione di Lucca del 1720, commentata da Giuseppe Maria Casaregis, si continuava ad usare esclusivamente “padrone” – «quando il patron vorrà cominciar nave» – in luogo anche di capitano. L’ambiguità dei termini rimase in realtà con certezza per tutto il secolo xviii, così come si ricava dalla maggior parte delle leggi in materia di navigazione emanate negli antichi Stati italiani4. Così a Genova, nei Capitoli di leggi dei Conservatori del Mare del 1712 («che niuno possa esser riconosciuto per capitano o padrone»); a Firenze, nell’Editto di Marina del 1748 (Titolo ii. Del Capitano e padrone); a Torino, nelle Istruzioni al Consolato del Mare di Nizza del 1750; a Trieste, nell’Editto politico di navigazione mercantile austriaca del 1774 (Articolo ii. De’ capitani e padroni di bastimenti mercantili); a Napoli, nel Codice marittimo del 1781 (Titolo xxiii. Del capitano, maestro e padron della nave); infine a Venezia, nel Codice per la veneta mercantile marina del 1786 (Titolo ii. Capitani, ma nel quale si specifica: «chiunque voglia aspirare all’impiego di capitano, o patrone di alcun Veneto Legno Mercantile»). Se, dunque, nel corso dell’ultima parte dell’antico regime si mantenne un elevato grado di ambiguità terminologica, in realtà in contemporanea si gettarono le basi definitive di differenziazione delle due diverse tipologie di comando, così come si ricava nel Codice per la Marina mer3. Targa (1803, p. 21). 4. Corrieri (2005, pp. 91-102); Piergiovanni (2012, vol. i, pp. 57-63).
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cantile italiano pubblicato il 25 giugno 18655. Nel testo si specificava finalmente che i padroni erano tutti i marittimi con almeno 22 anni di età, con un’esperienza triennale di navigazione, ai quali poteva essere dato il comando di un bastimento entro i confini del Mediterraneo; al di sopra, invece, si avevano i capitani, distinti tra quelli di gran cabotaggio, quelli di lungo corso e i superiori di lungo corso. La distinzione gerarchica nella legislazione italiana è rimasta attiva fino al riordino delle professioni marittime operato nel 2007, allorché sono state abolite le figure dei padroni di prima e seconda classe, che fino ad allora potevano comandare navi, i primi a bordo di navi con stazza lorda inferiore alle 2.000 tonnellate (1.000 per le navi passeggeri). L’ambiguità dei termini era presente in età moderna anche nel caso francese, così come è possibile ricavare dall’Ordonnance de la Marine del 1681, nelle quali addirittura si utilizzano tre termini diversi – maître, capitaine, patron – per designare chi era abilitato al comando dei bastimenti mercantili, previo esame di Stato da tenersi presso uno degli uffici dell’ammiragliato e dopo aver accumulato almeno cinque anni di navigazione. Nella prassi del xviii secolo, via via si venne differenziando l’uso del termine maître per identificare chi dirigeva le imbarcazioni per il piccolo cabotaggio, così come anche per il patron, mentre il capitaine era destinato esclusivamente alle unità di maggior tonnellaggio e per le rotte più lunghe, anche se, in qualche caso, alcuni bastimenti destinati al lungo cabotaggio verso il Levante o addirittura verso le Antille erano condotti da padroni. «Le capitaine c’est le titre effectivement employé pour désigner le commandant d’un navire au grand commerce, à la pêche à la morue, au cabotage international», per contro, sottolinea Gérard Le Bouëdec, «le capitaine d’un navire au moyen et petit cabotage est un maître»; questi, concludeva, sono «des patrons qui commandent les petits chasse-marée et les chaloupes du cabotage court et de la pêche côtière»6. Come da tradizione medievale, anche nel caso francese il termine padrone era indicato per indicare colui che era proprietario (o comproprietario) di bastimenti, sebbene in realtà i capitani, quasi sempre, fossero caratisti, cioè possedevano quote di proprietà delle loro navi. Infine, nella prassi quotidiana, la differenziazione terminologica avveniva in base alla scala di grandezza e di importanza dei porti: in quelli più grandi e no5. Rollandi (2003, p. 40). 6. Le Bouëdec (1997, p. 255).
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ti si usava più frequentemente il termine capitano, mentre in quelli più piccoli e periferici si preferiva l’utilizzo della parola padrone. Insomma, pur non riuscendo a uscire dalle “secche terminologiche”, posso affermare che, man mano che ci inoltriamo verso la fine dell’ancien régime, per capitano si intendeva una persona atta al comando di bastimenti di medio e grande tonnellaggio, con grande esperienza, in grado di navigare in tutti i mari del mondo e che poteva accedere al comando solo ed esclusivamente dopo aver sostenuto un esame di abilitazione o dopo aver frequentato con successo le prime scuole nautiche. Il padrone, per converso, era il comandante di unità più piccole, in genere destinate al piccolo e medio cabotaggio, che otteneva il comando per designazione da parte dei proprietari e che quasi sempre era anche uno dei caratisti di maggioranza, se non l’unico proprietario dell’imbarcazione. Giungeva al comando senza aver sostenuto alcun esame pubblico, e, tantomeno, senza aver frequentato alcuna scuola professionale: diventava in sostanza padrone dopo aver accumulato esperienza pratica e denari necessari per acquisire un bastimento e poterlo condurre per i mari a fini commerciali o qualche volta perfino corsari. In Liguria, analogamente a quel che avveniva altrove, il padrone/capitano era eletto dai caratisti o partecipi (“parcenevoli” a Venezia) del bastimento, il quale di solito era diviso in 24, 16, 12 o 6 parti. In genere non era una vera e propria elezione, ma in realtà si trattava di una designazione, forse qualche volta accompagnata anche da polemiche, che andava di solito formalizzata con un atto notarile nel quale i caratisti dichiaravano: La qual elezione fanno a beneplacito loro, e gli concedono [al padrone o al capitano] la libera amministrazione di essa nave, con libera facoltà di provvederla d’ogni cosa bisognevole per la di lei navigazione, e bastimentarla a sufficienza, noleggiarla e navigarla, ed operare tutto ciò circa quello, che conviene7.
Se per le navi più grandi si andava con regolarità da un notaio, per i bastimenti di piccolo cabotaggio l’elezione e la nomina avvenivano spesso solo in forma orale, anche perché in molti casi il padrone aveva in mano la quasi totalità delle quote di proprietà. Ad ogni modo, nel corso del Settecento tutte le nomine, sia che fossero formalizzate da un notaio sia che fossero patteggiate di persona, dovevano essere trasmesse alla cancelleria del Magistrato dei Conservatori del Mare. Per mano del notaio, fin 7. Targa (1803, pp. 21-6).
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dai primi anni del xviii secolo, la magistratura genovese rilasciava al capitano eletto una ricevuta, nella quale si facevano alcune specificazioni, come in questo esempio: Concediamo licenza, e permettiamo a Gio. Batta Decotto del signor Benedetto genovese del luogo di Prato Riviera di Genova di questa Serenissima Repubblica che possa entrar a comandare per capitano, e come tale governare la nave altre volte nominata Salamandra, et al presente intitolata Nostra Signora del Carmine nel viaggio, che in breve quella è per fare dal presente porto di Genova sino a Venezia, et ulteriori parti del Levante occorrendo, e suo ritorno sino a Genova, essendo così oggi da noi stato deliberato con tre voci favorevoli8.
In quegli anni, come detto, l’elezione veniva registrata presso un notaio, così come si desume dalle centinaia di documenti raccolti da Luciana Gatti e pubblicati in un recente repertorio dedicato ai capitani liguri tra Sette e Ottocento. In questo lavoro sono riportati innumerevoli profili e carriere di padroni e capitani, ricavati in larga misura proprio dalle nomine: Stefano Bianchi, fu Bernardo di Lavagna, nato nel 1696, ad esempio, ricoprì le figure sia di padrone che di capitano. Dopo un periodo di apprendistato, il Bianchi nel 1734 divenne padrone del pinco Nostra Signora del Carmelo, mentre nel 1741 passò al comando della tartana costruita a Napoli da un maestro d’ascia di origine lavagnesi, poi trasformata in polacca, L’Immacolata Concezione, di cui era caratista anche la duchessa di Cassano. Nel 1758, secondo la testimonianza rilasciata dal capitano Sebastiano Bianchi, acquistò al pubblico incanto di Livorno la polacca La Carlotta fatta vendere dal console inglese, frutto probabilmente della guerra di corsa, e la comandò in diversi viaggi “frumentari” per Lisbona. In uno di questi viaggi, nel 1759, fu catturato al largo della Barberia da due sciabecchi corsari spagnoli e portato dapprima a Orano e poi a Cartagena. Navigò ancora fino agli anni Settanta9. In molte occasioni le nomine avvenivano nella stretta cerchia familiare. È il caso del capitano di Arenzano Gio. Batta Calcagno di Nicolò, appartenente a una delle famiglie di marittimi più importanti della zona. Capitano di nave fin dalla più giovane età, nel 1707 sostituì il fratello Lorenzo al comando della nave Santa Maria Maddalena, di cui erano cara8. asg, cm, 434, n. 31, 23 settembre 1706. 9. Gatti (2015, pp. 64-5); asg, Notai Valpolcevera, Repetto Paolo Francesco, 635; asg, Notai Valpolcevera, Assereto Gerolamo, 1187, n. 436; asg, Notai di Genova, Silvano Gio. Batta, 9697, n. 33.
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tisti, tra gli altri, gli eredi dei capitani Lorenzo e Nicolò Calcagno. Due anni dopo venne eletto capitano della nave Santa Maria, di proprietà di Francesco Calcagno. Nello stesso anno, forse per indisposizione, lasciò il comando della medesima nave al figlio Desiderio, quest’ultimo approvato capitano dai Conservatori del Mare tramite esame solo nel 1718. Catturato dai francesi nel corso del 1711, comandò altre navi fino agli anni Trenta del secolo. Il figlio Desiderio, che lo sostituì nel 1709 per un breve periodo, rappresenta uno dei capitani tipici della nuova generazione. Passato dalla semplice nomina all’approvazione tramite esame, il capitano Desiderio divenne uno dei più importanti comandanti dell’epoca, tanto che negli anni Trenta era uno dei periti esaminatori per conto dei Conservatori del Mare, assieme ad un altro noto capitano omonimo, figlio di Francesco. Questi, assieme a Gio. Francesco Calcagno, nel 1736 esaminò e approvò, ad esempio, il capitano Gio. Batta Rombi: segno evidente che in quegli anni il casato di Arenzano controllava gli accessi al comando delle grandi navi con bandiera della Repubblica di Genova10. Nelle località delle due Riviere liguri la formalizzazione dell’elezione presso un pubblico notaio non sempre avveniva con regolarità come a Genova, ma indubbiamente, a tutela di tutti i soggetti implicati, veniva effettuata di volta in volta, soprattutto quando si trattava di mettere in mare un nuovo bastimento oppure quando l’imbarcazione passava di proprietà. In un caldo venerdì 10 luglio 1739, «al dopo pranzo», nell’abitazione piuttosto lussuosa del négociant Gian Antonio Strafforello, figlio di Domenico, uno dei commercianti di olio all’ingrosso più importanti della zona, il notaio Bartolomeo Giuseppe Dacorone stese l’atto numero 369 della filza quattro, nel quale si eleggeva il padrone Gio. Batta Rubaldo di Agostino «della tartana nominata San Giovanni Battista di portata cantari 2.800 circa, stata nuovamente fabbricata per ordine, e denari» dalla compagnia di commercio «Gian Antonio e Domenico Strafforello e Benza», «con ampia facoltà al detto padrone di navigare con detta tartana a dritta e sinistra, Ponente e Levante o come meglio al detto padrone parrà e piacerà, con obbligo» di consegnare ai caratisti i conti in ordine di ciascuno viaggio. Il bastimento era una tartana con 10. asg, cm, 434, n. 138, 14 agosto 1736; Gatti (2015, pp. 103-4); asg, Notai Antichi, Repetto Giacomo, 9869, n. 232 e n. 237; asg, Notai Valpolcevera, Repetto Paolo Francesco, 583.
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due alberi a vela latina (maestra e mezzana), dotato anche di relative vele quadre da usarsi per le andature in poppa. Aveva altresì una scialuppa con dodici remi e un albero con antenna alla latina e corredo di vele; recipienti vari, otto barili per l’acqua, una botte per il vino e una cucina di bordo con il suo «focolaio»11. Gli inventari delle imbarcazioni, allegati agli atti relativi alle elezioni dei padroni o dei capitani, rivestono un ruolo importante per le conoscenze delle tecniche costruttive e delle caratteristiche delle diverse tipologie nautiche. Nell’atto di elezione del padrone Andrea Bociardo di Genova è allegato l’inventario degli attrezzi del brigantino Nostra Signora del Monte e Sant’Antonio da Padova. Dal documento è possibile ricavare che il brigantino in questione era dotato di due alberi a vela latina (maestro e trinchetto), con il relativo corredo di vele quadre (il trevo, la gabbia e il polaccone) più tutte le dotazioni di cavi e manovre, tre ancore, un «fogone», sei petrieri, otto moschetti, e per la navigazione la bussola, con la sua ampolletta, e uno scandaglio, «con sua maglietta di caneva»12. Tutto ciò potrebbe apparire come mera erudizione, tuttavia nel periodo produttivo preindustriale ciascun dettaglio tecnico è assai utile agli storici per riuscire a descrivere le imbarcazioni e a riconoscerne la tipologia, considerato che nel mondo del legno ogni bastimento era unico, perché era il frutto della messa in pratica del pensiero tecnico del maestro d’ascia. L’elezione veniva formalizzata anche quando il bastimento passava di proprietà. Nell’atto, quasi sempre, comparivano con chiarezza i nomi dei «partecipi» con l’indicazione della quota posseduta. Il 10 giugno 1722, Sebastiano Amoretti, figlio di Paolo di Porto Maurizio, «ha dichiarato si come dichiara et altresì ha confessato et confessa parimenti con suo giuramento che nella tartana nominata Nostra Signora della Santissima Concezione di portata di cantara 500», comprata dal padrone Gio. Batta Bado originario di Pietra, possedeva un sesto del bastimento, in comproprietà di Gio. Batta Calzamiglia e Angelo Maria Varese. Di comune accordo i partecipi elessero in padrone di suddetta tartana il padrone Sebastiano Amoretto presente che accetta con facoltà al medesimo di poter navigare con detta tartana a Ponente, Levante, Tramontana e Mezzo giorno, come anche di poter ipotecare la tartana […] per qualsivoglia viaggio, e nolito volesse fare […], di cambiar marinari e 11. asi, Archivio notarile, Dacorone Bartolomeo Giuseppe, notaio 317, 4, n. 369, 10 luglio 1739. 12. asg, Notai Valpolcevera, Repetto Paolo Francesco, 582, 8 gennaio 1707.
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prendere altri, e fare tutto ciò e quanto stimerà meglio ed utile a beneficio di suddetti partecipi13.
In molte circostanze, inoltre, nell’atto di elezione si indicava anche l’ammontare di ogni carato. Il 23 giugno 1735 il padrone Antonio Benza di Porto Maurizio dichiarò davanti al notaio di «aver di novo fatto fabbricare nella spiaggia della foce del presente luogo un bastimento, o sia leudo nominato la Santissima Concezione e Sant’Antonio da Padova di portata di cantara 480 circa […] et aver speso lire 2.855:6». L’imbarcazione fu divisa in sei quote-parti, ciascuna di 475:17:8 lire14; quattro caratisti acquisirono una quota, uno solo mezza quota e il padrone una parte e mezza. In questo caso fu specificato anche come uscire dalla «società»: «che in caso non volesse più alcuno di detti signori partecipi continuare in la partecipazione, debbasi in tal caso il bastimento, o sia leudo metter all’incanto fra di loro, o sia deliberato al più offerente»15. La semplice elezione dei padroni e dei capitani – a partire dalla pubblicazione dell’Ordonnance de la Marine francese del 1681, che su questa materia riprendeva una regola già presente nel 1584 – si affiancò ad altre forme di reclutamento del corpo ufficiali dei bastimenti mercantili. Si passò a un primo grado di selezione: per diventare padroni e capitani, perlomeno delle navi più grandi, bisognava possedere dei requisiti curriculari tali da poter accedere a un vero e proprio esame teorico-pratico. L’ordinanza recitava: Nessuno potrà diventare capitano, maestro o padrone senza avere un’esperienza di almeno cinque anni di navigazione e dovrà essere esaminato da una commissione composta da due anziani capitani e dal professore di idrografia di una delle sedi dell’Ammiragliato di Francia16.
13. asi, Archivio notarile, Dacorone Bartolomeo Giuseppe, notaio 317, 1, n. 92, 10 giugno 1722; cfr. nella medesima filza al n. 137, 1 aprile 1723, un’analoga elezione del padrone Maurizio Carega. 14. La lira di Genova era composta da 20 soldi e ciascun soldo da 12 denari: in questo caso la quota-parte è dunque composta da 475 lire, 17 soldi e 8 denari. 15. asi, Archivio notarile, Dacorone Bartolomeo Giuseppe, notaio 317, 1, n. 263, 23 giugno 1725. Sul funzionamento delle aste pubbliche cfr. il caso del pinco San Antonio del padrone Francesco Auxilia, con relativo inventario stilato sotto il controllo del peritomaestro d’ascia Giuseppe Fava del 3 aprile 1776 in asg, cm, 218; anche asl, Asta pubblica, 20 e Lo Basso (2002, pp. 155-9). 16. Ordonnance de la Marine du mois d’aoust 1681, Charles Osmont, Paris 1714, p. 123; Chaline (2016, pp. 68-73).
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Analogamente, dal 20 novembre 1698 anche per i padroni e capitani liguri, per bastimenti con portata superiore alle 250 salme17, fu previsto un esame di abilitazione, che si doveva tenere «pubblicamente avanti il magistrato nostro da due capitani sopra li ponti della navigazione, trovato capace, e approvato da noi» membri dei Conservatori del Mare della Repubblica di Genova, confermato nei Capitoli di leggi del 23 agosto 171218. L’esame di Stato sembra divenire obbligatorio sempre più nel corso del Settecento, ma la documentazione conservata ci suggerisce che la procedura era ancora rapsodica, temporanea, per un viaggio, per un cambio di comandante, per una sostituzione di nave e per altro ancora. Il sistema, che si evidenza appieno nella filza 434 dei Conservatori del Mare, mostra un intreccio assai complesso di clientele tra i membri del patriziato, che di volta in volta sedevano nella magistratura marittima, e la camarilla dei capitani delle località nelle immediate vicinanze di Genova. Nel giro di pochi anni un piccolo gruppo di capitani – come visto nel caso della famiglia Calcagno – riuscì a determinare la creazione di una sorta di casta d’élite della marineria ligure, intrecciata con il mondo della finanza cittadina e con l’esclusione quasi totale dei padroni e capitani dell’estremo ponente, i quali in larga misura si rivolsero all’amirauté di Marsiglia. Nel corso del xviii secolo, l’idea che si dovesse essere abilitati tramite un esame pubblico si estese in molti ordinamenti italiani. Nell’Editto di Marina toscana del 10 ottobre 1748, in maniera simile ai Capitoli genovesi, si prevedeva all’articolo primo del secondo titolo che: Nessuno potrà in avvenire esser riconosciuto per capitano, o padrone d’alcuna nave, polacca, pinco, barca, tartana o altro bastimento di portata sopra cinquanta tonnellate, che non sia dell’età di anni ventuno compiti e prima esaminato pubblicamente avanti il Consiglio di Commercio da due capitani dal medesimo Consiglio a ciò deputati sopra li punti della navigazione, e trovato capace19.
In egual maniera, nel Codice marittimo napoletano del 1781 Michele De Jorio, mutuando dalle norme francesi, scrisse che: 17. La salma era una misura di capacità per gli aridi, grano in particolare, di origine siciliana ma molto usata in tutto il Mediterraneo per determinare la portata dei bastimenti ed equivaleva a 275,089 litri o 238 chilogrammi. 18. Gatti (2005, p. 705); Capitoli di leggi dell’Illustrissimo Magistrato de’ Signori Conservatori del Mare della Serenissima Repubblica di Genova, art. i. 19. Cantini (1800, vol. xxvi, p. 91).
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Niuno potrà essere da oggi in avanti capitano, maestro e padrone di nave se non abbia navigato per cinque anni, e non sia stato esaminato pubblicamente sul fatto della navigazione [e ]non si dovrà ammettere veruno a tal esame, se non avrà passato gli anni 24 di sua età.
L’esaminando, proseguiva il noto giurista, prima di sostenere l’esame, avrebbe dovuto produrre la fede di battesimo e in generale i certificati attestanti la sua buona condotta da cristiano. La prova andava sostenuta davanti a un ufficiale di marina e a due o tre «probi ed onesti padroni e piloti dei più pratici e della più vecchia esperienza nell’arte nautica». Infine, De Jorio suggeriva anche quali conoscenze dovessero avere gli aspiranti capitani: Debba la Giunta suddetta esaminare coloro, che si esporranno, non solo per quel che riguardava la navigazione costiera, per cui è sufficiente una buona pratica, e di sapersi servire della carta plana, e della bussola, ma ben anche per la navigazione d’altura. […] [Erano] esenti dal tal esame, ed approvazioni i padroni delle barche, tartane, e feluche pescarecce, e di quelle, che fanno pei luoghi vicini il cammino per lo commercio interiore di questo Regno, come anche quelle, che sogliono portarsi nella spiaggia romana, per la condotta di legna e carboni20.
Nel Codice per la veneta marina del 1786, l’aspirante capitano, oltre a dover dimostrare di essere suddito veneto da almeno quindici anni, «dovrà far constare al Magistrato de’ Cinque Savj d’aver l’età almeno di 24 anni, e di aver presto continuo servizio per anni otto sul mare sopra pubblici, o privati bastimenti» e, finalmente, che in avvenire non possa alcuno, sì suddito, che naturalizzato, essere ammesso al grado di capitanio, né conseguire la Regia Patente, se oltre le condizioni suespresse, ed oltre di saper ben legger, e scrivere, non proverà di esser anche perito nelle teorie, o almeno in tutte le pratiche nautiche. A quest’oggetto, dovrà l’aspirante esser esaminato dal Maestro di Nautica; e da due provetti capitani da destinarsi dal Magistrato de’ Cinque Savi alla Mercanzia21.
Non dappertutto però era previsto l’esame. Nell’Editto politico di navigazione mercantile austriaca del 1774, ad esempio, per diventare capita20. Moschetti (1979, vol. i, pp. 505-9). 21. Codice per la veneta mercantile marina approvato dal decreto dell’Eccellentissimo Senato 21 settembre 1786, Antonio Pinelli stampatori ducali, Venezia 1786, pp. 12-4.
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ni e ottenere la sospirata patente bisognava essere suddito o naturalizzato austriaco e avere almeno 20 anni di età22, così parimenti avveniva negli Stati sabaudi – Istruzioni al Consolato del Mare di Nizza del 1750 – dove l’unico requisito per ottenere la patente era di essere suddito o solamente domiciliato nel Regno. In tal senso nell’area sabauda era più importante certificare l’appartenenza nazionale di padroni e capitani piuttosto che la loro preparazione nautica. Per ottenere la patente, e dunque la bandiera, evitando le sostituzioni di persona23, largamente praticate a metà del Settecento in area ligure, si decise di regolamentare con precisione il rilascio delle patenti, valevoli ora solo quattro anni, invece di dieci, e a condizione che «almeno i due terzi dell’equipaggio siano sudditi»24. Quali erano gli argomenti oggetto dell’esame e chi erano i capitani del Settecento? Esaminando le carte delle istituzioni preposte al rilascio delle patenti, sia degli Stati italiani sia di alcune sedi dell’ammiragliato di Francia, non è possibile indicare con precisione le modalità di svolgimento dell’esame né tantomeno quali domande venissero fatte ai candidati. È indubbio però che i capitani e i padroni selezionati con questo meccanismo avrebbero dovuto essere abili e periti all’arte del navigare: ossia dovevano possedere la competenza e la perizia dell’uomo di mare, acquisita con l’esercizio e l’esperienza ed esplicitata quotidianamente con l’utilizzo della bussola, la carta da navigare, il portolano, la clessidra, il solcometro e le tavole del pilota. Inoltre, il buon capitano avrebbe dovuto avere, così come richiedeva l’Ordonnance del 1681, maggiori conoscenze di cosmografia, matematica e astronomia. Bisognava saper misurare l’altezza degli astri, usare la bussola, la carta nautica, il compasso da navigare, valutare il movimento della luna al fine di ricavare i dati sulle maree e molto altro ancora. Il buon capitano, infine, doveva conoscere la geometria, la trigonometria e naturalmente la cartografia e la geografia più in generale. Insomma, il buon capitano, oltre ad essere esperto e pratico, doveva avere un bagaglio culturale e scientifico di non poco conto. La figura del ca22. Editto politico di navigazione mercantile austriaca, dato in Vienna il dì 25 aprile 1774, Francesco Andreola tipografo, Venezia 1824, pp. 20-1. Sul sistema delle patenti, anche per singoli viaggi, cfr. il raffronto con il caso siciliano: asp, Maestro Portulano, 1355, Registro delle Reali patentiglie de’ padroni napoletani e siciliani 1794-96. 23. ast, Archivio di Corte, Città e Contado di Nizza, Porto di Villafranca, 6, fascicolo 4, 3 dicembre 1757; e Regio biglietto al Consolato di Nizza, circa la concessione di Regia Bandiera del 10 febbraio 1758, Duboin (t. xv, vol. xvii, p. 503). 24. ast, Archivio di Corte, Città e Contado di Nizza, Porto di Villafranca, 2 d’addizione, fascicolo 28, 29 ottobre 1767.
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pitano analfabeta aveva ormai i giorni contati. Tutto ciò dunque andava verificato in sede d’esame. Molto probabilmente, quest’ultimo consisteva in una prova orale, nella quale gli esaminatori sottoponevano alcune domande applicative sull’arte del navigare. Siccome però la patente rilasciata non era mai perpetua, e dunque l’esame poteva essere ripetuto più volte nel corso della vita lavorativa, è probabile che i successivi esami fossero molto più blandi, considerato che il capitano era oramai conosciuto all’interno della stessa categoria. Dovendo pertanto sostenere un esame, è lecito domandarsi se gli aspiranti capitani avessero dei testi di riferimento sui quali poter apprendere i rudimenti teorici. È però difficile stabilirlo con precisione, in primo luogo per mancanza di riferimenti documentari e in secondo luogo perché è indubbio che nella mentalità dei capitani dell’epoca, in realtà anche in parte in quelli di oggi, prevalesse soprattutto la “cultura del pratico” rispetto alla teoria. Ad ogni modo, nel corso dell’età moderna, e in particolare nel corso del Settecento, si diffusero diversi trattati di navigazione. Se si guarda nuovamente alla Francia, Philippe Haudrère ci ha mostrato come venissero formati gli alti ufficiali della Compagnie des Indes, a partire dalla documentazione del maestro di idrografia di Lorient, Étienne Joram, nella prima parte del xviii secolo. I testi di riferimento consistevano in portolani – come Le Neptune françois di Jacques-Nicolas Bellin o Le petit flambeau de la mer di René Bougard – o in veri e propri trattati di navigazione – come quello di Pierre Bouguer, Nouveau traité de Navigation – nei quali si spaziava dalla geografia, alla cartografia, dall’astronomia all’uso della strumentazione, dall’aritmetica alla trigonometria25. Le stesse materie le ritroviamo anche nel manoscritto del capitano Jean-Baptiste Denoville, Livre de navigation contenant plusieurs manières de naviguer, scritto nel 1760, mentre si trovava prigioniero presso gli inglesi a York e oggi conservato presso la Biblioteca municipale di Rouen26. L’opera, riccamente decorata, prende spunto dal volume – Instruction des Pilotes del 1748 – di Samson Le Cordier, maestro di idrografia di Dieppe, dove lo stesso Denoville nacque e mosse i primi passi della sua lunga carriera marittima. Anche in questo caso l’aritmetica, la trigonometria, 25. Haudrére (2005, t. i, pp. 380-1). Il testo di Bouguer fu tradotto a Venezia nel 1777 con il titolo Trattato della nave, della sua costruzione, e de’ suoi movimenti, edito nella stamperia di Carlo Palese. 26. Del manoscritto di Denoville ne è stata pubblicata un’edizione commentata nel 2008.
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l’astronomia e tutto quel che riguardava la navigazione piana (uso delle carte, della bussola, del compasso ecc.) venivano spiegati con chiarezza scientifica al fine di preparare i futuri capitani e piloti. Anche in area italiana, durante il secolo xviii e in concomitanza con la nascita delle prime scuole nautiche, si diffusero alcuni manuali diretti alla formazione dei capitani, come l’Introduzione all’arte nautica di Girolamo Alberti del 1715, La Nautica rilucente di Pietro Rosa del 1718; di una certa fortuna godeva ancora la Nautica mediterranea di Bartolomeo Crescenzio del 1607, se prestiamo fede alla copia ritrovata nell’inventario allegato al testamento del capitano Stefano Moreno di Sanremo, deceduto nel 173327. Il grado più o meno elevato di cooptazione diretta, cioè senza che la commissione esaminasse effettivamente il candidato, è esplicitato appieno nel modello di selezione veneziano. Prima del Codice del 1786, difatti, il meccanismo di selezione di capitani e padroni veneziani non prevedeva un esame, ma come altrove era richiesta l’elezione da parte dei «parcenevoli», purché il candidato avesse almeno dieci anni di servizio e fosse naturalmente suddito veneziano. Ottenuta così la patente, secondo i Capitoli di regolazione alla navigazione mercantile, emanati dai Cinque Savi alla Mercanzia del 16 febbraio 1682, poi ratificati con decreto del Senato l’8 agosto del medesimo anno, i capitani avevano l’obbligo di dotare il bastimento di una ciurma composta per due terzi da sudditi «ed un terzo de stranieri per il più, intendendosi che nel numero degli esteri siano compresi li greci sudditi dell’ottomano»28, secondo le norme stabilite già in una parte del Senato del 27 luglio 1623. Quel che appare nuovo è che nei Capitoli pubblicati nel febbraio 1682 si esplicitasse che i capitani dovessero appartenere alla Scuola o confraternita di S. Nicolò de’ Marineri e che dovesse essere prevista una Scuola Nautica per la futura istruzione dei marittimi veneti29. Prima dell’applicazione del Codice del 1786 era uno dei caratisti del bastimento a far richiesta della patente per il capitano: l’8 agosto 1744, «desiderando io Simon Maruzzi parcenevole della nave nominata La Gloria e San Giorgio, che venghi di bel nuovo capitaneggiata dal capi27. sassr, Archivio Notarile, Gio. Agostino Saccheri, notaio 100, 1023, 5 maggio 1733, p. 13. 28. asv, Cinque Savi alla Mercanzia, ii serie, 104; asv, Provveditori all’Armar, 184. 29. Un successivo decreto del Senato del 30 dicembre 1713 prescriveva di allegare la fede di battesimo e l’iscrizione alla Scuola di S. Nicolò de’ Marineri. Cfr. Pizzetti (1999, vol. ii, p. 13).
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tano Mattio Lollovich, umilmente imploro in detto nuovo capitano la pubblica patente, per poter inalberare il vessillo del Protettor di S. Marco e godere di queste prerogative e protezione che godono i legni coperti dalle venete insegne»30. Alla richiesta formale venivano allegati altri interessanti documenti. Da una parte la fede di battesimo, comprovante l’effettiva nazionalità dell’aspirante capitano, e dall’altra la dichiarazione di due o tre capitani anziani nella quale si certificava l’effettiva preparazione nell’arte del navigare del candidato. Il primo agosto 1744, «avendo io Giacomo Tomasetti q. Domenico già alcuni anni fatta fabbricare ne squeri di questa Dominante una tartana che fu nominata La Madonna del Rosario e capitaniata da Giacomo Busanich, umilmente imploro la pubblica patente», e per questo allegava: l’atto del suo battesimo, del 15 dicembre 1680, registrato presso la parrocchia di S. Giovanni Nuovo; l’attestazione della nascita del capitano a Lussin Piccolo, battezzato 34 anni prima presso la parrocchia di Santa Maria; la dichiarazione del maestro d’ascia Bastian Baseggio che aveva costruito nel 1738 la tartana presso il suo squero a Venezia; infine, la certificazione secondo cui fatiamo fede noi sottoscritti capitani come il patrono Giacomo Busanich di Lussin Piccolo averlo conosciuto per anni vinti circa sempre a navigare sopra tartane venete in fede di noi attestiamo. Io Gio. Antonio Tossana fece la presente sottoscrizione così pregato dal capitano Mattio Tarabogia per non sapere esso scrivere per segno farà una croce; io capitano Antonio Lazarevich q. Marco31.
In sostanza, pur non essendo ancora previsto l’esame, per essere abilitati al comando bisognava avere una certificazione scritta di altri capitani dimostrante la preparazione nautica del candidato e la sua buona condotta morale. Tutto ciò favoriva reti clientelari di quelle località a più spiccata vocazione marittima, come ad esempio la stessa Lussin Piccolo. Insomma, si venne organizzando una “cooptazione controllata” dai capitani stessi, che solo con l’introduzione del Codice si trasformò in un vero e proprio esame. Dalle certificazioni allegate è possibile ricavare i profili professionali di molti comandanti. Quando venne eletto capitano della tartana Santissimo Crocifisso e la Madonna del Rosario, Iseppo Iuvanovich allegò alla richiesta consegnata
30. asv, Cinque Savi alla Mercanzia, i serie, 433, n. 150. 31. asv, Cinque Savi alla Mercanzia, i serie, 433, n. 147.
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nella cancelleria dei Cinque Savi alla Mercanzia anche l’estratto di un atto notarile, nel quale si legge che: Comparsi personalmente alla presenza di me nodaro e delli testimoni infrascritti li signori capitano Zuanne Moro q. Zorzi, capitano Vincenzo Tripovich figlio del signor Trifon, e capitano Pietro Marovich q. Elia […] tutti e tre della terra di Dobrota alle Bocche di Cattaro […] hanno attestato et affermano qualmente conoscono benissimo il signor capitano Iseppo Iuvanovich figliuolo del capitano Luca, et esser nativo di Dobrota suddito di questo dominio et esser anni dieci in circa, che naviga con tutta abilità e sufficienza; et ciò per l’ottima cognizione e pratica, che asseriscono tenere di detto signor capitano Iseppo Iuvanovich di lui nascita e professione di navigante32.
Quest’ultimo documento ci suggerisce come la bontà di un capitano fosse certificata anche dal luogo di nascita e dalla tradizione marittima della famiglia (il padre di Iseppo Iuvanovich era un capitano). Nel sistema veneziano è presente inoltre una particolarità: era possibile diventare capitani dopo aver ricoperto il ruolo di scrivano; fatto inusuale, se si pensa che in genere questa figura aveva compiti amministrativi e contabili. Ma tant’è: il 29 luglio 1743 Daniel Amman acquistò la nave San Spiridon per «esser capitaneggiata da Nicolò q. Francesco Albanese». Questi, secondo le testimonianze rilasciate, «ha servito in qualità di scrivano sopra le navi, Galera d’Egitto, capitano Nicolò Franzoi, nave San Giuseppe, capitano Giuseppe Martinengo, nave Madonna de’ Miracoli, capitano Antonio Bertagna, nave Madonna del Rosario, capitano Mattio Bellattin, nave Spirito Santo, capitano Mattio Bronza, nave San Demetrio capitano Zuanne Bronza per il corso di anni quindici». Veniva altresì allegata la fede di appartenenza ai ruoli della Scuola di S. Nicolò de’ Marineri, datata 20 luglio 174333. In altri casi era lo stesso padrone o capitano a richiedere direttamente la patente, sempre però allegando l’attestazione di servizio. Il 22 agosto 1744, i capitani: Pietro Bane q. Stefano, Antonio Chiorco q. Vincenzo, Pietro Smecchia di Vincenzo e dal signor Tomaso Rascovich tutti nativi di Perasto attestano che il padron Zuanne Burovich del signor Stanislao, nato già trentacinque in circa a 32. asv, Cinque Savi alla Mercanzia, i serie, 433, n. 139, 23 luglio 1744 e allegati. 33. asv, Cinque Savi alla Mercanzia, i serie, 433, n. 95; in egual maniera cfr. l’atto n. 8 del 25 settembre 1744 in asv, Cinque Savi alla Mercanzia, 434.
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Perasto ove la sua famiglia fu et è di fermo domicilio et è parcenevole et padrone della tartana nominata Madonna di Scarpello da lui fatta fabbricare già sei anni in Curzola et continuamente in detti sei anni da lui padroneggiata […] et antecedentemente a detti sei anni ha navigato per quattordici anni per mare in figura di marinaro in altre tartane34.
Infine, in molte circostanze la richiesta di nuova nomina era necessaria a causa del decesso del precedente capitano: Essendo mancato in vita il capitano Antonio Pugiotto che copriva la nave nominata Sant’Antonio di Padova di ragione di me Zuanne Albertini umilissimo servo e suddito di Vostra Serenità ho alla medesima sostituito il capitano Gio. Batta Cecchini che però umilmente imploro in detto nuovo capitano.
Questi era nativo di Venezia, figlio di Lazzaro Cecchini, guardiano della Sanità, e di donna Antonia, battezzato il 27 febbraio 1695 nella chiesa di S. Marco; iscritto dal 1720 alla Scuola di S. Nicolò de’ Marineri, fu ritenuto idoneo al comando dopo aver servito per più di dieci anni «sopra le navi venete in qualità di marinaro et nocchiere», secondo l’attestazione firmata dai capitani: Giuseppe Brignardello, Giovanni Basich, Alvise di Boni e Giuseppe Puggiotto35. Se ci spostiamo in Toscana, e più precisamente a Livorno, è possibile osservare la presenza di una documentazione simile a quella veneziana. Pur essendo codificato l’esame per legge fin dal 1748, le carte d’archivio conservano i dati relativi solamente alle richieste da parte dei capitani delle patenti per navigare con bandiera toscana. Il 16 novembre 1754 Giovanni Montobio di Livorno fece richiesta per navigare sul leudo San Giuseppe della portata di 35 tonnellate. Per poterla ottenere il Montobio dichiarò nella cancelleria del governatore di avere 47 anni e di essere «nato in Riviera di Genova, abitante per 17 anni addietro con sua moglie e famiglia ove lì sono nati più figli, ed avere navigato sin dall’età fanciullesca in bastimenti latini nel Mediterraneo e Levante»; inoltre, aggiunse di avere «per circa 15 anni patroneggiato tali bastimenti, con bandiera toscana ed imperiale». Infine, dichiarò altresì di imbarcare sul leudo San Giuseppe un equipaggio di sei persone, di cui quattro sudditi toscani come prescritto dall’Editto del 174836. 34. asv, Cinque Savi alla Mercanzia, 434, n. 3, 27 agosto 1744. 35. asv, Cinque Savi alla Mercanzia, 434, n. 7, 11 settembre 1744. 36. asl, Governo Civile e Militare di Livorno, 1292, Negozi di bastimenti, 28 novembre 1754.
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In Toscana, come peraltro dappertutto, per diventare padrone o capitano contava molto di più lo stato di servizio che la reale fissa residenza in quello specifico Stato. A Livorno, viste le accentuate caratteristiche cosmopolite del luogo37, vi era una massiccia richiesta di patenti anche da parte di marittimi greco-levantini, come nel caso di Nicola Pietro di Giorgio Oliva: Nativo di Smirne ha commorato in questa città sin dall’anno mille settecento quaranta due in via matarazzai in qualità di sarto e cappottaio […] ed avendo avuto idea di navigare si arrolò in qualità di marinaio su la nave di Sua Maestà Imperiale nominata l’Orione e colla medesima fece li viaggi in Levante e per tal motivo acquistò la grazia imperiale a navigare in qualità di suo suddito.
A supporto della richiesta allegava la dichiarazione del parroco «della venerabile chiesa greca la Santissima Annunziata», secondo cui Nicola Pietro Oliva «di nazione greco cattolico è uomo pacifico, cristianamente educato e di onesti costumi»38. In quegli anni, è bene ricordare, la comunità greca necessitava spesso di patenti, anche perché comprava bastimenti predati ad Algeri per poi portarli a Livorno. In questi casi era la cancelleria del console imperiale in Barberia a rilasciare la documentazione utile per poter condurre le imbarcazioni nel porto labronico. Avvenne così che, il 5 maggio 1758, il capitano greco Hagi Dimitri Marcacci39 «dichiarò con suo giuramento, e disse di esser stato incaricato dal signor Stefano Scaramanga, greco domiciliato e stabilito a Livorno, di comprare uno o più bastimenti di presa, e avendo ora eseguita tal commissione, coll’incetta fatta del brigantino napolitano, […] condotto qui il dì trenta marzo da una polacca corsara di questo Stato», di pagarne il prezzo di 700 zecchini al Dey di Algeri e di condurlo a Livorno, avendogli dato il nome di San Giorgio, San Giuseppe e il Corriere di Algeri40. In assenza, al momento, di documentazione che comprovi la procedura di esame pubblico per diventare padrone o capitano di mare, le storie personali dei comandanti ci suggeriscono procedure di nomine (ele37. Addobbati, Aglietti (2016). 38. asl, Governo Civile e Militare di Livorno, 1292, Negozi di bastimenti, 11 gennaio e 11 agosto 1757. 39. Su questo personaggio cfr. Piazza (1983, pp. 478-512). 40. Che ci fosse un traffico di bastimenti predati dai barbareschi e venduti a mercanti o capitani di Livorno è dimostrato altresì in un altro documento del 1764, nel quale si ricava che Sidi Mustafà Bin Ramadan di Tripoli vendette al capitano Nicola Pietro, forse lo stesso greco originario di Smirne, il pinco San Giuseppe per 900 zecchini, pagabili in tre anni con l’interesse al 5%.
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zioni e selezioni) alquanto fluide ed eterogenee. Come detto, in Toscana bastava essere domiciliato da almeno una decina di anni per poter richiedere la patente, senza però essere necessariamente esaminato da una commissione preposta. A Livorno come altrove, difatti, molti padroni e capitani per ottenere l’opportunità di inalberare la bandiera toscana fissavano una sorta di residenza, in molti casi fittizia, nelle taverne locali, con la palese complicità dei locandieri. Nel corso del 1758: Io infrascritto Tommaso Seriani locandiere in questa città di Livorno in Pescheria vecchia per la pura verità attesto […] qualmente Giuseppe Stallimeni dall’anno 1750 al 1758 abitò nella mia locanda, tenendo a pigione fissa per lire quattro il mese una camera, dove veniva a stare ne’ ritorni da viaggi, che continuamente andava facendo in qualità di piloto, avendomi sempre pagata per detto tempo le suddette mensuali lire quattro il mese anche per li tempi che stava assente per detti suoi viaggi di mare, e facevasi poi cucinare a sue spese.
In questo caso le autorità toscane avevano non pochi dubbi, sia sulla reale residenza del capitano sia sulle sue qualità morali, tanto che: Sopra la persona dello Stallimeni vi sono da osservare due cose, la prima che nel viaggio che fece in qualità di piloto col capitano Giuseppe Averini fu trovato colpevole di grandi mancanze per cui fu carcerato e processato […] e privato della nostra navigazione.
Inoltre, sempre secondo le carte depositate nella cancelleria del governatore, lo Stallimeni aveva «navigato come corsaro contro i turchi sopra un bastimento armato da certi maltesi con bandiera di Monaco, sicché il nostro Consiglio ordinò non ammettersi ulteriormente alla navigazione»41. Qualità morali e qualità tecnico-pratiche che i capitani dovevano dimostrare di avere, sia che fossero esaminati sia che fossero ammessi al comando attraverso una procedura di nomina o elezione più snella. Per quanto riguarda i metodi di selezione e cooptazione di capitani e padroni, la Repubblica di Genova e il Regno di Francia erano molto simili. Anzi, in sostanza il modello repubblicano ligure nel campo della marineria mercantile sembra, a partire da fine Seicento, aver mutuato molto 41. Ibid. Altri casi di richieste di nomina si trovano in asf, Consiglio di Reggenza, 854, fascicolo 1, supplica di Paolo Della Casa, originario di Sturla, 31 ottobre 1749. Sui corsari monegaschi di metà xviii secolo vi sono molti documenti in apm, D1, 127, 128, 129, 130, 131 e 132.
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dal sistema francese, codificato con la famosa Ordonnance del 1681, sia dal punto di vista istituzionale sia da quello procedurale. In area ligure, nel corso dell’età moderna, il padrone restava relegato a comandare, e anche a possedere, le piccole unità cabotiere, mentre il capitano era destinato perlopiù a condurre bastimenti di elevato tonnellaggio. D’altra parte, se per le unità più piccole i costi di costruzione e armamento difficilmente superavano le 5.000 lire, moneta di Genova, per le unità più grandi, per converso, tali costi potevano essere anche venti volte superiori e questo costringeva il patronus/capitano a dover mettere assieme investitori/caratisti appartenenti alle grandi famiglie nobiliari genovesi che formavano il ceto dirigente della Repubblica. Se, quindi, il padrone poteva restare ancorato alle reti clientelari e familiari locali, quasi sempre della periferia, per finanziare la propria imbarcazione e i relativi viaggi, per i bastimenti più grandi si rendeva necessaria una figura professionale diversa – il capitano appunto – legata maggiormente alla grande finanza, alla politica e al ceto dirigente dello Stato. Nel caso genovese, difatti, la differenziazione dei termini e della figura professionale è pertanto legata alla svolta operata a metà del Seicento nel campo della politica navale, con un ritorno alla costruzione di vascelli di elevato tonnellaggio e di cospicuo armamento – navi con 50-60 cannoni – per poter meglio gestire i traffici dei metalli preziosi provenienti dalla Spagna. Nel solco fin qui tracciato si innesta la legge della Repubblica di Genova del 20 novembre 1698 che imponeva, come detto, ai capitani genovesi di avere una patente rilasciata dal Magistrato dei Conservatori del Mare previo esame condotto da due periti (in genere due esperti di chiara fama), costituito da una prova teorica e da una pratica; il tutto in linea e sulla falsa riga di ciò che era previsto dall’Ordonnance de la Marine del 1681. Nel caso francese, il richiedente presentava al lieutenant général de l’amirauté un dossier comprendente i dati personali, la richiesta formale, lo stato di servizio prestato a bordo sia delle navi marchands sia di quelle de guerre, la copia dell’atto di battesimo ed eventualmente, per chi era di origine straniera, lo stato di famiglia con la relativa indicazione della residenza francese. Presa in carico la domanda, veniva formata la commissione d’esame che verificava l’autenticità dei documenti presentati, con una particolare attenzione all’effettiva durata degli imbarchi compiuti dal candidato. Questi, una volta convocato, veniva interrogato dai membri della commissione su tutto quello che concerneva l’arte di navigare. Alla fine dell’esame veniva steso il 55
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verbale che poi veniva depositato negli uffici dell’amirauté42. L’8 marzo 1758, ad esempio, fu depositato agli atti, nell’ufficio dell’ammiragliato di Bordeaux, il dossier di Michel Toebart. Il futuro capitano aveva dichiarato: di essere stato battezzato il 27 maggio 1730 nella parrocchia di SaintSeurin; di essere figlio del mercante di vino Jean-Baptiste e di Marie Goris, residenti nell’odierno Quai des Chartrons; di aver navigato dal 1750 al 1756 (per un totale di 53 mesi e 4 giorni di navigazione) sul bastimento Le Moissoneur, prima come pilotin e poi come lieutenant ed infine di aver servito per ben due volte a bordo delle navi della Royale: Le Rhinoceront e La Fortune43. Nel caso genovese, similmente, gli esaminatori dovevano giudicare de idoneitate et fidelitate del candidato. L’affidabilità si riferiva all’appartenenza del capitano a un gruppo affaristico-familiare, facente capo alle più importanti famiglie genovesi, le quali, è opportuno sottolineare, detenevano il potere della Repubblica e nella fattispecie fornivano membri alla magistratura dei Conservatori del Mare, che come detto era preposta a controllare le nomine. Tutto ciò spiega perché a partire dal 1698, quando venne applicato il provvedimento sulle nomine, si creò una sorta di lobby dei capitani di grandi vascelli legata ai personaggi di spicco della nobiltà e del ceto di governo della Repubblica. Capitani che ricevevano la fiducia dei nobili secondo il meccanismo della raccomandazione e che sottostavano al sistema di patronage. Erano, dunque, i grandi armatori a determinare se un capitano avesse o no le qualità necessarie e a controllare il rilascio delle patenti tramite l’istituzione rappresentata dai Conservatori del Mare. Per capire meglio il meccanismo, si veda l’esempio di Pietro Bianco, “raccomandato” da Francesco Maria Sauli, il quale, il 1° settembre 1670, scrivendo a Domenico Grillo, sostenne che il capitano in questione è persona molto sperimentata nella marinaria, e che ha passata la massima parte di sua vita nel corso, e resta da 8 in 10 anni in qua che va in mercanzia, non ne parlo con maggiori circostanze essendo tanto la persona quanto il vascello ben noti44.
42. Era necessario avere 25 anni, aver navigato per almeno cinque anni e aver servito per un paio di campagne sulle navi della Royale. Le Bouëdec (1997, p. 255). 43. adg, Amirauté, 6 B 1458; Péret (2015, pp. 75-6) 44. adgg, Archivio Sauli, 1589.
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E ancora dello stesso tenore sono le lettere di Domenico Maria Ignazio Sauli, figlio di Francesco Maria, a favore di Nicolò Campanella, scritte nel corso del 170345, di cui parlerò diffusamente più avanti. D’altra parte, i decreti di nomina genovesi giunti fino a noi riflettono una situazione istituzionalizzata, ma in maniera eterogenea e decisamente in via di evoluzione. In genere, il candidato si presentava davanti alla commissione, formata dal Deputato di mese dei Conservatori del Mare, ai due capitani esperti e a due testimoni negli uffici della «Cancelleria del Magistrato posta nelle vicinanze di S. Pietro di Banchi» a Genova. Nella maggior parte delle occasioni la pratica veniva completata nell’arco della mattinata, ma qualche volta l’esame era sostenuto il giorno seguente, a causa dell’indisponibilità dei capitani-professori. Il mattino, forse un po’ afoso e umido, del 10 giugno 1717, si presentò in cancelleria Bartolomeo De Gregori figlio di Gio. Batta desideroso di sostenere l’esame per diventare capitano di nave. Il Deputato di mese, Giacomo Viale, rinviò la pratica al giorno seguente, quando in effetti il candidato fu esaminato e promosso dai capitani Bartolomeo Romero e Tommaso Bregante. Dopo l’esame, il cancelliere redasse un documento nel quale si dichiarava la nomina a capitano, «atteso l’averlo ritrovato idoneo e capace ed anche pratico della navigazione ed atto ad esercitare il capitaneato della nave». La patente rilasciata non era a tempo indeterminato, ma spesso era limitata a un solo viaggio e i capitani dovevano ogni volta farne richiesta sostenendo l’esame: forse in questo caso l’esame era virtuale. Nicolò Canale q. Luca, ad esempio, pupillo del celeberrimo capitano Campanella, sostenne l’esame la prima volta il 21 dicembre 1728 e fu esaminato dai capitani Giacomo Canonero e Lorenzo Dighero per il viaggio che doveva fare al comando della nave Nostra Signora e San Gaetano verso Agrigento e Lisbona. Fu nuovamente esaminato il 9 febbraio 1730 ed infine per la terza volta il 22 dicembre 1734, quando ottenne il comando della nave San Gaetano e San Nicolò da Tolentino, la cui «sigurtà» venne pagata dal solito capitano Nicolò Campanella46. In casi eccezionali, invece, l’esame non veniva fatto sostenere dal candidato, che perciò era nominato capitano sulla base dei meriti già accumulati in carriera o per status sociale. È il caso di Lelio Maria Priaroggia, nobile genovese e avventuriero, noto alle cronache del primo 45. adgg, Archivio Sauli, 1611. 46. asg, cm, 434, nn. 87, 103, 127.
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Settecento per aver armato navi e reclutato equipaggi per conto della Repubblica di Venezia durante la seconda guerra di Morea (1714-18). Prima dell’avventura veneziana, contornata da mille problemi, il Priaroggia aveva servito per sette anni nella Royal Navy, partecipando al combattimento di Capo Noli del 22 marzo 1711, così come dichiarato dallo stesso Lelio Maria nel momento dell’accordo effettuato con le autorità veneziane47. Dopo mille vicissitudini, il Priaroggia, il 6 novembre 1717, si presentò davanti al Deputato di mese dei Conservatori del Mare, chiedendo la nomina a capitano della nave Nostra Signora della Guardia e la Libertà destinata ad esercitare il corso «contro gli infedeli turchi», secondo il permesso rilasciato dai Serenissimi Collegi. Il Deputato di mese, Nicolò Garibaldi, suggerì, considerato che il Priaroggia aveva già la patente di corso del governo della Repubblica, «sentita l’istanza stata in voce fatta dal magnifico Lelio Maria Priaroggia», e propose «che sia di parere di approvare il detto magnifico Lelio Maria in capitano di nave senza subire il solito esame stante la di lui esperienza et aver di già capitaneate et comandate altre navi de’ Principi forestieri»48. In questa occasione, del tutto speciale, vennero allegati i documenti relativi alle distribuzioni delle parti dei futuri bottini e il ruolo dello stesso equipaggio. Un dato mi pare interessante: in quest’ultimo documento, tra i mozzi imbarcati nel 1717 compare il nome di Domenico Castellini, destinato qualche anno dopo a diventare uno dei più famosi capitani liguri della seconda metà del Settecento49. Il 17 ottobre 1763, così come ci narra la descrizione scritta su un cartiglio di un dipinto conservato all’interno della collezione del Museo del Mare di Genova, la nave San Francesco da Paola, 32 cannoni e 207 uomini di equipaggio agli ordini del capitano Domenico Castellini, venne avvistata al largo di Ibiza da una squadra corsara barbaresca, formata da una fregata e cinque sciabecchi, probabilmente algerini, anche se la bandiera raffigurata dall’ignoto pittore è quella di Tunisi. La nave genovese si ritrovò in trappola, giacché i veloci sciabecchi barbareschi, dopo averle dato la caccia, in poco tempo le furono addosso. Il capitano Castellini decise pertanto di dare battaglia, nonostante fosse palesemente in inferiorità 47. Candiani (2009, p. 491; le vicende di Priaroggia si trovano ivi descritte fino a p. 524). 48. asg, cm, 434, n. 20. 49. Secondo le leggi dei Conservatori del 1712, i mozzi dovevano essere scelti preferibilmente tra i ragazzi ospitati nell’Albergo dei Poveri. Su queste cfr. ascg, Albergo dei Poveri, 771. Tikoff (2010, pp. 45-73).
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numerica rispetto all’avversario, ma avendo per sua fortuna il vantaggio del vento. Per circa sette ore il capitano genovese tenne testa agli avversari, dapprima affrontando a turno i tre sciabecchi più piccoli, successivamente quelli più grandi e infine la fregata. I barbareschi tentarono l’abbordaggio, ma furono respinti dal fuoco a mitraglia dei genovesi, e quando finalmente riuscirono a salire a bordo della San Francesco da Paola il Castellini fece tagliare i rampini di abbordaggio riuscendo ad allontanarsi e catturando inoltre tutti i corsari saliti a bordo. A quel punto le imbarcazioni barbaresche preferirono non proseguire l’azione, nonostante avessero ancora la superiorità numerica. L’equipaggio genovese perse 32 uomini e vi furono inoltre 42 feriti, ma l’audacia del capitano riuscì a salvare il resto dell’equipaggio dalla sicura schiavitù50. Domenico Castellini, figlio di Lorenzo, era nato nel 1705 e come detto nel 1717 era mozzo sulla nave corsara del Priaroggia. Fu evidentemente una scuola di eccezione per il futuro capitano, approvato dai Conservatori del Mare il 15 giugno 1744, dopo che già conduceva una nave nominata San Francesco da Paola. Negli anni seguenti esercitò il comando di diverse navi e nel 1758 divenne uno dei capitani esaminatori del Magistrato genovese, segno di una effettiva crescita professionale. La nomina ad esaminatore, infatti, poneva il capitano di turno ai massimi livelli della gerarchia professionale, che si tramutava in più ampie possibilità di ingaggio da parte di ricchi e prestigiosi committenti. Negli anni Sessanta, oltre all’avventura contro i barbareschi, partecipò all’appalto che forniva legnami agli arsenali di Tolone e Cartagena e si fece broker di diverse navi vendute alla Francia. Infine, passò il comando della San Francesco da Paola, quella della vittoria contro i corsari, ai figli Baldassarre e Francesco, anch’essi capitani di mare. Sposatosi almeno due volte, il capitano Domenico Castellini morì il 14 maggio 177651. Lo stretto controllo sulle nomine, se da una parte favorì senza dubbio la lobby degli armatori nell’avere a disposizione un gruppo di capitani fedeli, dall’altra provocò anche un’emorragia di molti altri comandanti che sfuggivano a questa logica, vuoi per scelta di comodo, vuoi per mancato senso di appartenenza, vuoi per motivazioni di tipo geografico. Questi capitani – nel caso ligure per la maggior parte originari della Riviera di 50. Bono (2005, pp. 59-60). 51. Gatti (2015, p. 127).
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Ponente – decisero di ottenere la patente appoggiandosi su istituzioni di altri Stati e in particolare sugli ammiragliati francesi52. Secondo le carte conservate presso l’Archives Départementales des Bouches-du-Rhône un elevato numero di capitani dell’estremo Ponente ligure chiese la nomina agli uffici dell’amirauté di Marsiglia utilizzando sostanzialmente due metodi: il primo era tramite l’ottenimento della naturalizzazione francese dopo aver contratto matrimonio ed essendo conseguentemente residenti nel Regno53. Cito a mo’ di esempio il caso di Giovanni Battista Marrone di Celle – piccola località non molto distante da Savona – il quale il 19 giugno 1732 chiese la nomina a capitano avendo egli sposato la marsigliese Anne Rougier il 23 aprile 1709 e dimorando stabilmente nella stessa Marsiglia da molti anni. La richiesta – approvata dall’amirauté il 27 giugno 1732 – era corredata dai certificati parrocchiali della chiesa di San Martino, dove inoltre furono battezzati anche i sei figli del neocapitano Marrone, nel frattempo diventato JeanBaptiste Marron54. Il secondo metodo era tramite la “raccomandazione”, rispettando però i parametri imposti dall’Ordonnance del 1681, quali l’aver navigato per almeno cinque anni. A questi bisognava aggiungere possibilmente di aver servito su navi francesi, aver trasferito la residenza e la famiglia in Francia e aver acquisito beni nel Regno per almeno 10.000 lire tornesi. È questo il caso di Angelo Maria Gaetano Scotto di Genova, presentato all’ammiragliato il 10 dicembre 1732 dal cognato Francesco Maria Riggio, in servizio in qualità di comito sulla galera del re Duchesse. Lo Scotto presentava come credenziali l’aver servito per due campagne navali sulle navi della Marina francese e aver comandato in corso, con patente della Repubblica di Genova, una barca contro i barbareschi nel 1729, oltre ad aver preso residenza a Marsiglia con moglie e figli55. La nomina venne rilasciata il 23 dicembre 1732. Come abbiamo visto, il tema delle carriere marittime era particolarmente sentito già a partire dalla seconda metà del xvii secolo, quando per i bastimenti più grandi si preferì cominciare ad avere una selezione, seppur sommaria, dei capitani. In contemporanea, si fece strada un’altra 52. In effetti nella filza 434 dei Conservatori del Mare, tra le pochissime nomine di capitani dell’estremo Ponente ritroviamo quella di Giovanni Maria Merlo di Sanremo del 2 maggio 1728. asg, cm, 434, n. 89. 53. Sahlins, Rab, Alduy (2000, pp. 1081-108). 54. adbr, Amirauté, 9 B 6, f. 39v. 55. adbr, Amirauté, 9 B 6, f. 55 v.
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2. diventare padroni e capitani
soluzione del tutto innovativa: l’istruzione. Nacque l’idea di una formazione continua degli ufficiali delle navi, da farsi tramite l’istituzione di scuole pubbliche specializzate. Focalizzando il nostro punto di vista sugli antichi Stati italiani (in Francia le scuole statali di idrografia furono fondate da Colbert nel 1665), si nota come i primi nuclei di questo sistema, divenuto in età contemporanea l’unico adottato da tutti per formare i futuri capitani, fossero localizzati nella Repubblica di Venezia e nel Regno di Napoli, mentre non pare, perlomeno sulla base della documentazione attuale, che vi sia stato un analogo tentativo nella Repubblica di Genova, a parte un piccolo caso locale di cui però si hanno al momento solamente poche tracce bibliografiche e alcuni riferimenti nella memoria collettiva. A Venezia, il 29 gennaio 1672 il Senato si dichiarò favorevole all’istituzione di una «scuola per istruir li sudditi nell’arte del navigare» avendo appurato «deficiente questa piazza di capitani, piloti e marinari, onde le navi de’ sudditi stessi son condotte da stranieri o da persone inesperte, con indecoro et evidente pregiudizio»56. La proposta rimase inizialmente lettera morta, almeno fino al settembre del 1673, quando fu Giovanni Clare, fiammingo di nascita, a proporre al Magistrato all’Armar una scuola nautica che avesse anche una sede in Levante. Il programma di studio prevedeva di istruire gli allievi nell’uso della carta nautica, della bussola, del compasso e della balestriglia per misurare l’altezza degli astri; ma il problema più grande era in realtà trovare i maestri adatti e preparati. Anche in questa circostanza non si riuscì a mettere in pratica i buoni propositi, così come accadde ancora nel 1675 e nel 1704. Finalmente, la scuola nautica fu partorita dal decreto del Senato del 6 maggio 1739, quando i Provveditori all’Armar, assieme ai Riformatori dello Studio di Padova, vennero incaricati di mettere sotto contratto un maestro competente, così come in realtà stava succedendo da qualche anno a Corfù, dove Francesco Bronza insegnava nautica già dal 1734. I provveditori individuarono in Giovanni Siron il miglior candidato per quel ruolo: trasferitosi in Inghilterra all’età di 19 anni, egli aveva dapprima navigato su navi britanniche e poi aveva prestato servizio sulle rotte baltiche; dal 1731 era passato a bordo delle navi della marina veneziana; esperto e competente, conosceva bene il francese e l’inglese. Dopo aver dunque trovato il docente, il Senato istituì formalmente la Scuola nautica di Venezia con decreto del 12 settembre 1739. Secondo le indicazioni dei mercanti-armatori, la scuo56. Costantini (2006, p. 102); asv, Senato Rettori, 46, cc. 269v-270r. Cfr. anche un utile raffronto con il caso di Siviglia: Jiménez Jiménez (2002) e Garralón (2013, pp. 91-103).
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la avrebbe dovuto ospitare i ragazzi di 14 anni desiderosi di intraprendere la carriera marittima, i quali avrebbero alternato a un primo periodo di studio teorico quattro anni di imbarchi, prima di poter sostenere l’esame finale nuovamente davanti a una commissione presieduta dal maestro della Scuola. Il 14 novembre 1739 la Scuola fu inaugurata formalmente in un edificio in Riva degli Schiavoni, alla presenza delle autorità. Nei primi tre anni mezzo di vita si iscrissero 18 scolari, di cui però almeno sette si imbarcarono prima di aver completato il primo biennio teorico. Nonostante gli studenti fossero pochi, ben presto il maestro Siron si ritrovò in aula anche persone più anziane – capitani, piloti e scrivani – desiderosi di aggiornarsi dal punto di vista teorico. Il corso prevedeva lo studio dell’aritmetica, della geometria, della trigonometria, dei logaritmi e di tutto quel che riguardava l’arte del navigare. La Scuola ebbe un certo successo, diventando il punto di riferimento per i figli dei marittimi veneziani e rimase in funzione con il maestro Siron fino al 1766. Alla morte di quest’ultimo, i Riformatori dello Studio di Padova ingaggiarono, dopo una breve trattativa, Arthur Edgcombe di Portsmouth. Sotto la sua direzione, la Scuola funzionò fino al 1797. Dalla documentazione conservata nella busta 526 del fondo dei Riformatori dello Studio di Padova, conservata presso l’Archivio di Stato di Venezia, si apprende che tra il 1767 e il 1781, anno in cui venne compilata una statistica, passarono dalla Scuola nautica ben 245 allievi: di questi 53 divennero capitani, 42 piloti e 15 cadetti. Si trattò dunque di un successo parziale, considerato che nemmeno la metà dei frequentanti trovò sbocco nella carriera marittima. Tutto ciò dimostra come la via dell’istruzione nautica non fosse ancora considerata la strada principale per divenire ufficiale di marina. Continuavano ad esserci padroni e capitani solamente eletti dai caratisti e poi patentati e altri che invece ottenevano il titolo dopo aver passato l’esame di abilitazione57. Se della Scuola nautica di Venezia è stato possibile ricostruire la storia grazie alla ricca documentazione disponibile, ciò risulta più difficile per quanto riguarda gli analoghi esperimenti sorti in altre aree italiane: nel 1754 a Trieste, dove fu fondata una scuola grazie alla volontà di un padre gesuita proveniente da Fiume (e qui, tra l’altro, vi era un’altra sede); nel 1766 a Livorno; ma soprattutto dopo il 1770 nel Regno di Napoli, quando si istituirono le Scuole nautiche di Napoli, Meta e Carotto nel territorio di Piano di Sorrento. Queste ultime divennero molto importanti 57. Costantini (2006, pp. 108-37); asv, Riformatori dello Studio di Padova, 526.
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2. diventare padroni e capitani
per numero di studenti e per la qualità dei professori, tra i quali si ricorda Giovanni Fileti, che nel 1789 divenne direttore del Seminario di Palermo e capitano del porto della stessa città. Nel 1788, inoltre, si aggiunse la Scuola di Procida, località che per tradizione forniva un elevato numero di marittimi alla Marina napoletana. Nel 1772, così come a Napoli, anche a Palermo e a Messina si decise di istituire scuole analoghe con l’obiettivo di riabilitare i ragazzi poveri di età compresa tra i 12 e i 18 anni. Le scuole ebbero un certo successo, tanto che, nella sede di Palermo, nel 1803 si erano diplomati già circa sessanta allievi, di cui però non sono note le carriere marittime58. Infine, è probabile che esperimenti simili, legati all’istruzione gestita dagli ordini religiosi (gesuiti, scolopi ecc.), ci siano stati anche in altri Stati italiani, compresa la Repubblica di Genova, la quale però, almeno dalla documentazione disponibile, sembra aver prediletto la preparazione pratica dei futuri padroni e capitani. Una minima traccia di questi tentativi sembra essere lasciata dalla Scuola di Camogli, piccola località a vocazione marittima della Riviera di Levante. Ancora oggi, una targa ricorda che nella zona denominata Fontanella, vicino al porto, nel 1780 nacque una scuola nautica per volontà di un capitano De Gregori e di alcuni membri della famiglia armatoriale dei Lavarello, affidata pare ad un padre servita (Bartolomeo Basso) che in effetti abitava in quell’area59.
58. Salvemini (2012, pp. 37-48). 59. Ferrari (1935, p. 56).
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Per molto tempo la memoria autobiografica è stata appannaggio esclusivo degli storici della letteratura, attratti principalmente dagli scritti dotati di un valore letterario e stilistico palese, mentre solo in un secondo tempo anche altri studiosi, come gli storici, si sono occupati di quelle autobiografie dalle modeste qualità linguistiche, ma ricche dal punto di vista contenutistico1. L’autobiografia d’altronde – come ci ha ben spiegato Philippe Lejeune – è stata da sempre la forma di autorappresentazione e autocelebrazione delle persone di alto rango, inclini a questo tipo di scrittura per velleità letterarie, oppure per desiderio di raccontare la propria vita al fine di autocelebrare i fasti personali e del casato o ancora per difendersi pubblicamente da dicerie velenose, magari tendenti a screditare l’attività politica di colui che scriveva2. In tutti i casi l’autobiografia era il racconto “reale” della vita, o di una parte di essa, scritta appositamente perché fosse pubblicata, letta e conservata, contrariamente al diario personale o anche a una banale lettera, di solito scritta per un unico destinatario. Questo tipo di scritti è entrato a far parte, a pieno diritto, degli egodocumenti che, secondo gli storici, comprendono varie forme di materiali: «dalle autobiografie vere e proprie alle suppliche, ai testamenti, ai libri di conti, ai verbali degli interrogatori nei processi giudiziari […], alle visite pastorali»3, insomma, tutte quelle testimonianze “preterintenzionali” formanti delle autorappresentazioni. Nel corso dell’età moderna, e ancora di più nel corso della successiva epoca contemporanea, l’autobiografia ha fatto il suo ingresso, per diverse ragioni, anche nelle pratiche di scrittura dei ceti popolari, così come ben ha evidenziato al1. Ciappelli (2009, p. 13); Dekker (2002). 2. Lejeune (1986). 3. Ciappelli (2009, p. 14).
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la fine degli anni Novanta del xx secolo James Amelang, studiando il diario di un conciatore catalano della metà del Seicento4. Da questa esperienza, Amelang ha iniziato ad analizzare la copiosa produzione autobiografica nella Spagna dell’età moderna, mettendo in rilievo in maniera chiara come questo tipo di fonte potesse essere prezioso e unico per gli storici dell’antico regime, definendo accuratamente la categoria di ego-documenti. Tra questi inserisce: i diari, le memorie, i resoconti di viaggi, le cronache di famiglia e, infine, le vere e proprie autobiografie. Queste ultime comprendevano diversi generi: dalle autobiografie burocratiche, quelle scritte dai funzionari pubblici o dai militari (memorias de servicios) per richiedere un avanzamento di carriera o un premio, a quelle spirituali, scritte soprattutto nei monasteri femminili; per finire con quelle compilate dagli schiavi liberati, per difendersi dalle accuse di apostasia davanti ai giudici dell’Inquisizione. Un’altra variante, proprio prodotta davanti agli inquisitori, era la cosiddetta traza: una sorta di memoria difensiva redatta durante gli interrogatori. Quest’ultima assomiglia a quella scritta o fatta scrivere dal capitano Nicolò Campanella alla fine della propria carriera marittima nel 1730, con lo scopo esclusivo di difendere il suo onore davanti alla pubblica autorità. Dunque una memoria difensiva, basata sul racconto della propria vita lavorativa, dal primo imbarco volontario nel 1686 sino alla fine degli anni Venti del xviii secolo, quando la carriera del capitano Campanella entrò in crisi a causa di una serie di accuse per malversazioni e mancati pagamenti, ma più probabilmente per una frizione con qualche potente nobile genovese, desideroso di vendicarsi per qualche inadempienza. Questa autobiografia, rimasta inedita fino ad oggi, rappresenta una fonte straordinaria, utile per definire meglio la carriera, le pratiche, e i linguaggi di un capitano di vascello d’ancien régime 5. Certo, è la verità del capitano Campanella ma, se vogliamo tener fede a quanto indicato da Philippe Lejeune, il patto autobiografico avrebbe dovuto costringere il capitano genovese a dire la verità, comportandosi il più possibile 4. Amelang (1991, 1998). 5. In generale gli storici si sono occupati di biografare i grandi capitani delle marine da guerra (Nelson, Tourville, Duquesne, De Ruyter ecc.) o al massimo i famosi corsari ( Jean Bart, su tutti), ma di rado hanno guardato al mondo della marineria mercantile o «ordinaire», come l’ha definita di recente Jacques Péret (2015) in un suo recente lavoro dedicato alla biografia di Joseph Micheau, uno dei tanti capitani di La Rochelle, vissuto nella seconda metà del xviii secolo.
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da storico, con la differenza che l’argomento su cui giura di dire il vero è se stesso. Ad ogni modo, anche se Campanella, per meglio esaltare la propria carriera marittima, non narrò sempre la verità, possiamo senza dubbio usare questo documento, tenendo conto di tutte le distorsioni e incrociandolo con molti altri, per comprendere meglio la realtà della navigazione su larga scala, vista da Genova, tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento. Nicolò Campanella era uno dei capitani che, nel suddetto periodo, faceva parte di quella lobby che controllava le nomine dei Conservatori del Mare (fu spesso membro della commissione di esame) e che meglio si integrava in quella rete clientelare controllata dal patriziato genovese. Probabilmente di famiglia originaria della Val Bisagno, alle spalle di Genova, ebbe una lunga carriera marittima svoltasi in larga misura al comando di navi di elevato tonnellaggio. Si tratta di un perfetto testimonial per vedere da vicino le pratiche e il modus operandi di un capitano mercantile, in una fase secolare in cui la stessa figura del comandante andava professionalizzandosi sempre di più6. Il fulcro attorno al quale ruota la storia di Nicolò Campanella è senza dubbio la scrittura della sua autobiografia. Ne sono conservate due copie: la prima custodita nell’archivio della famiglia Sauli, fra le carte del principale armatore e protettore del Campanella; la seconda, invece, è depositata presso l’Archivio storico del Comune di Genova. La prima copia sembra essere una stesura preliminare dalla grafia incomprensibile, contraddistinta soprattutto da un italiano stentato, segno di una composizione di prima mano o di una dettatura sommaria. La seconda copia, per converso, è evidentemente quella destinata al Magistrato dei Conservatori del Mare perché la forma è decisamente migliore, così come la grafia, che è perfettamente leggibile. In questa seconda e definitiva copia, composta di 73 pagine, il capitano Campanella raccontò in maniera dettagliata la sua carriera tra il 1686 e il 1714, e, con un salto temporale, fino alla fase convulsa degli anni 1726-30, quando, per difendersi dalle accuse mosse da quattro marinai, «il Signor Capitano Nicolò Campanella è stato obbligato di ponere in scritto in questo suo Diario tutto quello ha operato nella sua navigazione di 6. Cfr. anche le numerose lettere di capitani provenzali conservate nell’Archivio della Camera di Commercio di Marsiglia: ad esempio accm, Serie L ix, 94, Lettere del capitano Antoine Icard di La Ciotat 1729-41. Si legga, ad esempio, la storia del capitano Jean-Baptiste Chataud nel bel volume di Goury (2013, pp. 21-38).
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cinque navi che ha comandate sempre con bandiera di questo Serenissimo Governo»7. Tutto ha inizio in una fresca giornata del marzo 1729, quando alcuni marinai della nave San Gaetano denunciarono il capitano Campanella per aver ridotto la razione di cibo quotidiano da 18 a 12 once mentre navigavano davanti alla costa di Alicante, diretti a Lisbona. Il capitano, pertanto, si era dovuto presentare davanti ai Conservatori del Mare, negli uffici ubicati in un vicolo laterale alla Piazza Banchi – cuore pulsante dello shipping genovese –, e si era dovuto giustificare sostenendo che la riduzione della razione era dovuta al peggioramento delle condizioni meteomarine e dunque al conseguente allungamento del viaggio. I giudici del tribunale, ascoltato il capitano, lo condannarono al risarcimento dopo un aspro dibattito in seno al collegio, che provocò una faticosa votazione a maggioranza8. Si trattava di un’accusa di poco conto che non avrebbe dovuto preoccupare più di tanto il capitano, abituato tra le altre cose a frequentare la cancelleria dei Conservatori del Mare per ragioni analoghe. Già il 3 maggio 1714 il capitano Nicolò Campanella era comparso davanti ai giudici perché nel gennaio precedente, allorché si trovava a Cadice dove aveva venduto la propria nave (San Gaetano), aveva ricevuto le minacce del marinaio Giacomo Maria Boero a causa del ritardo nei pagamenti dei salari. In quella circostanza il capitano aveva fatto arrestare il marinaio, conducendolo in catene a Genova. L’episodio di Cadice, nonostante fosse a favore di Campanella, ci suggerisce però come questi, molto probabilmente, pagasse con una certa frequenza in ritardo i compensi pattuiti9, secondo il costume in uso su molti bastimenti mercantili. Non abbiamo prove certe, ma tutta la documentazione lascia intendere che la condanna per l’alterazione delle razioni fu voluta da qualche membro di spicco dell’oligarchia genovese – forse lo “spa7. La brutta copia si trova in adgg, Archivio Sauli, 1413; mentre la copia destinata ad essere consegnata al tribunale dei Conservatori del Mare si trova in ascg, Manoscritti, 183. Le citazioni del documento sono state normalizzate il più possibile all’italiano corrente. Un’autobiografia simile, sotto molti punti di vista, è quella di Claude de Forbin, pubblicata la prima volta proprio nel 1729, in perfetta sincronia con quella di Campanella. Il desiderio di difendere l’onore (dagli attacchi di Duguay-Trouin e di Pontchartrain) e l’organizzazione del testo ci fanno sospettare un’influenza reciproca, considerato che i due personaggi ebbero modo di conoscersi, considerato che si trovavano nel 1692 a Le Havre, entrambi impiegati per condurre Giacomo Stuart sul trono d’Inghilterra. Inoltre, i due testi, relativi al periodo della battaglia di La Hougue, in sostanza coincidono. Cuénin (1993, pp. 229-35). 8. asg, cm, 344. 9. asg, cm, 455; Lo Basso (2015, p. 161).
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gnolo” Stefano De Mari – al quale il capitano Campanella aveva pestato i piedi durante le tortuose trattative, alla fine degli anni Venti, per vendere le sue navi alla Spagna, dopo che già nel 1712-13 era stato contattato per la fornitura di un vascello nel quadro della firma dell’asiento de navios del marchese De Mari al servizio di Filippo v10. La foga con la quale Campanella narra questi ultimi avvenimenti dimostra quanto avesse mal digerito la rottura con il gruppo nobiliare che da sempre lo aveva appoggiato e favorito. Egli, dunque, nel 1729 era un esperto capitano, abituato a frequentare assiduamente gli uffici dei tribunali marittimi. Con tutta evidenza, però, l’accusa di quell’anno lo ferì profondamente nell’orgoglio, andando a ledere il suo onore e la sua professionalità. Ecco perché decise di preparare l’autobiografia nella quale esplicitare pubblicamente la propria integerrima e onorata carriera marittima lunga più di quarant’anni, stabilendo inoltre di farla sottoscrivere da più di trenta tra capitani ed armatori del mondo della navigazione genovese11. Nicolò Campanella, secondo quanto egli stesso scrisse, cominciò a navigare nel 1686, imbarcatosi volontario al servizio del capitano di Varazze Marc’Antonio Carattino a bordo della nave da 54 cannoni Santa Maria, ex Capitana della Repubblica, noleggiata in guerra per conto dei veneziani per combattere gli Ottomani in Morea12. Si trattò di una scuola eccezionale per quei tempi, sia perché Nicolò si ritrovò da subito a servire in guerra, sia perché ebbe la fortuna di apprendere i rudimenti del mestiere da uno dei migliori e noti capitani liguri dell’epoca. Messosi in evidenza nella campagna estiva del 1686, Campanella ottenne il comando della nave San Michele Arcangelo, come da atto rogato a Nauplia il 3 dicembre 1686, sfuggendo così all’esplosione che il 9 settembre 1687 uccise lo stesso Carattino assieme a gran parte dell’equipaggio della Santa Maria. Scampato alla guerra nel 1687, il capitano – ormai il grado lo aveva acquisito sul campo – si imbarcò come secondo al servizio di Giovanni Agostino Germano, altro noto espo10. Candiani (2015, pp. 107-46). Negli anni 1712-13 Stefano De Mari era in trattativa per l’acquisto della nave del capitano Campanella; operazione che poi andò a monte, anche se poi la stessa nave venne venduta agli spagnoli a Cadice alla fine del 1713 e usata poco dopo nell’assedio di Barcellona. Probabilmente questa trattativa creò tensioni tra l’esuberante capitano Nicolò e il potente esponente della famiglia De Mari. Cfr. anche ags, Secretaria de Marina, 739, fasc. 6, 16 dicembre 1713. 11. Una prima trattazione della vicenda si trova in Gatti (2005, pp. 701-29 e 2015, pp. 108-9). 12. Lo Basso (2004, p. 79); asv, Senato Mar, 656, 24 febbraio 1685, 658, 28 giugno 1685 e 663, 23 marzo 1686 e allegato del 20 marzo 1686; asv, Senato Mar, 834, 30 marzo 1715, dichiarazione del capitano Giacomo Canonero; Candiani (2009, pp. 176-89).
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nente dell’élite dei comandanti genovesi dell’epoca13. Da Germano imparò a navigare con perizia sulla rotta compresa tra Genova-Cadice e Lisbona, rotta che avrebbe solcato decine di volte nei successivi quarant’anni di servizio. Ma da questi si distanziò – per correttezza ed onestà, così sostenne nell’autobiografia – per essersi il Germano macchiato in più circostanze del reato di contrabbando d’argento nel porto di Cadice, così come si ricava dai viaggi del 1694, quando il reo fu scoperto con 60.000 pezzi da otto non registrati; o ancora nel 1696, allorché «li mettitori fecero negozio di portare pezzi 350.000 a bordo delle navi genovesi, e si servirono della barcaccia del capitano Gio. Agostino Germano per portarli a bordo delle dette navi che fu notte»14. Nel 1690, dopo circa quattro anni di apprendistato come ufficiale superiore, Campanella cominciò a navigare come primo capitano senza passare attraverso un esame teorico-pratico che di lì a poco si sarebbe istituzionalizzato anche a Genova, secondo il modello francese. Nominato nuovamente “sul campo”, egli aveva ormai acquisito dai propri maestri tutte le conoscenze e le pratiche che un buon comandante doveva avere, relative all’arte del navigare, alla preparazione economico-finanziaria, alle conoscenze giuridiche, alle competenze nelle tecniche militari e infine alla perizia nell’arte della diplomazia. In tema di perizia nautica, il capitano presentò diversi episodi nella sua autobiografia, alcuni dei quali scritti con un taglio eroico, da romanzo di avventura. Uno di questi avvenne dopo la sua partenza nel 1690 da SaintMalo15 dove aveva acquistato per conto di Pietro Francesco Viganego la nave Giustizia d’Amsterdam da 50 cannoni, carica di tele dirette a Lisbona e Cadice: Succedé nel canale d’Inghilterra fiera borasca che fu obbligato a ponersi alla cappa essendo il tempo tutto contrario al suo viaggio e di sempre crescendo più il vento vi portò via due giochi di vele, e si acconsentì l’albero di maestra essendo durato detto mal tempo giorni tre, e consigliato da tutti li Piloti d’andare a prendere porto in Inghilterra non vuolse il capitano acconsentire à tal consiglio conoscendo esser Porto nemico e che sarebbe stato una perdita Generale di tutta la mercanzia per essere la guerra tra la Francia e l’Inghilterra e soffrì detta tormenta per giorni 13. Lo ricorda nella sua celebre opera anche Carlo Targa (1803, p. 21), individuandolo come il perfetto capitano «nostro nazionale, non mai abbastanza lodato». 14. ascg, Manoscritti, 183, p. 15. Sui capitani della famiglia Germano cfr. Gatti (2015, p. 258). 15. Lespagnol (1990, pp. 131-7).
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3. una vita da capitano: nicolò campanella
tre per aspettare il tempo e ritornare a Samalò come seguì e subito con ogni prestezza si rimediò al danno sofferto che fu l’albore di maestra, Albore di gabbia Penone di Trinchetto, et altro e per il detto suo ritorno restò quella Piazza rallegrata facendolo per il gran temporale perso16.
Oltre allo sprezzo del pericolo, nel testo si manifesta per la prima volta, secondo il volere dello stesso capitano, l’avversione per gli inglesi, conclamatasi appieno dopo l’episodio del sequestro della sua nave nel 171017. Prima della cattura, il capitano Campanella aveva dimostrato tutte le sue capacità nautiche quando dovette dapprima veleggiare da Cadice verso le Canarie in sei giorni, per poi portarsi a Veracruz in Messico in 44 giorni di navigazione e ritornare verso Lisbona e Cadice con un corposo carico di pezzi da otto reali. A parte il viaggio nell’Atlantico, con la tappa alle Canarie, Campanella – così come si evince dalla tab. 3.1, e ancor più chiaramente dalla carta geografica riportata nella fig. 3.1 – aveva una conoscenza approfondita del tratto di mare compreso tra Genova e Cadice, anche nei suoi approdi intermedi come Barcellona, Almeria, Malaga o Alicante; così come della rotta che conduceva a Lisbona. Oltre che della capitale lusitana, il nostro capitano era altresì pratico della costa della Normandia e dei porti di Londra e Amsterdam, dei quali conosceva evidentemente anche i calcoli delle maree, ancorché si servì con certezza, come da prassi, di piloti locali. Dalla tab. 3.1 si ricava inoltre come egli avesse anche buone conoscenze del Mediterraneo orientale, giacché almeno in due occasioni, per ragioni diverse, approdò a Napoli di Romania (Nauplia), importante porto di imbarco del grano greco. In base alla documentazione è certo che Campanella ebbe modo fin dai primi anni di navigazione di intrecciare l’esperienza delle regolari rotte mercantili con gli scenari bellici. Difatti, dopo aver trascorso le prime stagioni in Egeo, al servizio dei veneziani, passò nei primi anni Novanta a frequentare sia Cadice che Lisbona, abituali scali dei capitani genovesi, sia Saint-Malo che Le Havre, il cui legame marittimo con Genova sfugge alla penna degli storici contemporanei. Da ciò che si ricava dall’autobiografia, il capitano Nicolò Campanella, non sappiamo se per ragioni familiari o se per altri motivi, rientrava in quella parte di popolazione mercantile genovese già passata dalla simbiosi asburgica a quella borbonica. Egli ebbe a 16. ascg, Manoscritti, 183, p. 3. 17. Su questo episodio cfr. l’ottima e documentata tesi di Barbano (2010-11).
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gente di bordo tabella 3.1
Rotte del capitano Campanella tra il 1686 e il 1714 Anno
1686 1690 1692 1693 1694 1695 1696 1698 1699 1703 1706 1708 1709 1710 1712 1713 1714
Rotte
Genova-Nauplia-Venezia Saint-Malo-Lisbona-Cadice-Genova Genova-Lisbona-Le Havre-Lisbona-Cadice-Genova Genova-Malaga-Cadice-Lisbona-Cadice-Genova Genova-Cadice-Canarie-Lisbona-Cadice-Genova Genova-Cadice-Amsterdam-Cadice-Genova Genova-Le Havre-Lisbona-Cadice-Genova Genova-Cadice-Genova Genova-Cadice-Canarie-Lisbona-Genova Genova-Lisbona-Londra-Genova-Livorno Genova-Alicante-Londra-Genova Genova-Londra-Genova-Cadice-Genova Genova-Nauplia-Genova Genova-Lisbona-Cadice-Canarie-Veracruz-Cadice-Almeria-Port Mahón Genova-Lisbona-Cadice-Genova Genova-Cadice-Barcellona-Genova Genova-Lisbona-Cadice-Genova
figura 3.1 Rotte del capitano Campanella tra il 1686 e il 1714
Amsterdam
Londra Le Havre Saint Malo
Veracruz
Canarie
Venezia GENOVA Livorno Barcellona Port Mahón Lisbona
Alicante
Nauplia
Cadice Malaga Almeria
Elaborazione grafica di Arturo Gallia
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3. una vita da capitano: nicolò campanella
che fare più volte con i funzionari e i militari francesi, a partire dal 1692, quando la sua nave venne noleggiata dall’intendente del porto di Le Havre18 per partecipare alla prevista spedizione navale che avrebbe dovuto rimettere sul trono di Inghilterra il re Giacomo. Secondo il capitano, la spedizione fu bloccata da una squadra inglese, chiamata da qualche traditore francese, tanto che egli, che comandava la nave San Gaetano, si rifiutò di uscire in mare assieme alle altre navi francesi. Proprio per questo una folla ch’erano più di 12.000 fra donne, e marinai, et andarono a Palazzo dell’intendente che lo volevano gettar giù dalle finestre ma sortendo il Luogo Tenente della Cittadella a cavallo dicendo esser vero che l’intendente era traditore e che l’aveva posto alla catena, e tutte le donne andarono ad inginocchiarsi dalla poppa della nave dove era l’immagine di san Gaetano ringraziandolo di non esser sortito e gridavano esser miracolo di detto santo per salvazione della sua povera gente19.
Pochi giorni dopo, tra il 19 e il 23 maggio, si combatté a La Hougue una delle più celebri battaglie navali dell’età moderna tra la flotta anglo-olandese, comandata dal conte di Oxford, Edward Russell20, e il conte di Tourville21. Di ciò ci riferisce lo stesso Campanella il quale, inviato in quei tragici giorni primaverili a Rohan per chiudere i conti del proprio armatore, dopo una breve missione rientrò a Le Havre ottenendo una lauta ricompensa di 100 luigi d’oro che, per onestà, rifiutò, come egli stesso scrisse. Chiusa questa seconda avventura francese, Campanella caricò la propria nave di tele per Lisbona, dove completò il carico per Genova con zucchero e tabacco, ottenendo così un ottimo nolo da 26.000 pezzi da otto reali. Negli anni compresi tra il 1693 e il 1695, il capitano continuò a far la spola tra Genova, Lisbona e Cadice, porto nel quale, ancora una volta, vide movimentare argento di contrabbando dal capitano Germano, giuntò colà anch’egli da Lisbona per completare il carico con circa 60.000 pezzi da otto reali non dichiarati. Nel 1695 Campanella riuscì a trovare un lucroso nolo per un viaggio ad Amsterdam, dove arrivò assieme al convoglio scortato dalla flotta olandese, ma, giunto davanti a Texel decise improvvisamente di lasciare la carovana, che poche ore dopo venne attaccata da una squadra corsara francese comandata dal celebre Jean Bart (Gio. Bartolo, nella fonte 18. Peter (1995). 19. ascg, Manoscritti, 183, pp. 6-7. 20. Harding (1995). 21. Dessert (2002).
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genovese), al quale riuscì di catturare due navi da guerra nemiche22. Il capitano Campanella, opportunamente defilatosi dall’incontro, forse grazie a una spiata avuta da qualche pescatore lungo il viaggio, riuscì a passare rapidamente alla volta di Cadice. In quegli anni, oltre ad acquisire ottime conoscenze nautiche, Campanella dimostrò di essere pratico di mercatura e di contabilità, così come prevedeva il mestiere di capitano. Non solo i comandanti dell’epoca dovevano essere in grado di ottenere buoni noli per le proprie navi, ma dovevano avere utili informazioni su quali porti frequentare e su quali merci investire. A Lisbona e Cadice, ad esempio, era facile procurarsi buoni carichi di merci coloniali da portare a Genova: zucchero, cacao e tabacco, assieme al solito argento, riempivano le capienti stive dei vascelli liguri, grazie anche alla mediazione di numerosi mercanti genovesi presenti in quei porti ormai da secoli23. Nel viaggio del 1696 Campanella ebbe a che fare nuovamente con i corsari. Dalla sua meticolosa descrizione appare evidente che egli avesse ottime conoscenze giuridiche relativamente al funzionamento della guerra di corsa. In quell’anno, infatti, partito da Le Havre, egli diede fondo alle ancore nella baia di Cadice, dove prese «a convoio» per Genova la nave del capitano Pareto, che proveniva da Londra con un ricco carico. Partiti in direzione Cartagena, il capitano Pareto venne abbordato da una nave corsara francese da 56 cannoni. Preso atto che si trattava di due navi genovesi, il capitano corsaro (che Campanella chiama Biagio) trovò su quella del capitano Pareto alcune polizze di carico inglesi grazie alle quali provò a sequestrarne il carico. Campanella intervenne sostenendo che la merce non era ad uso di guerra, ma era trasportata per conto di mercanti genovesi, per cui, vista la neutralità della bandiera della Superba, il corsaro avrebbe dovuto rilasciare le due navi fermate. Anzi il capitano scrisse, rafforzando il concetto, che i genovesi erano buoni amici dei francesi e che quindi il corsaro «andasse cercando l’inimici, che non ne mancano inglesi et olandesi»24. Con il 1699 si chiuse una prima fase lavorativa per il nostro capitano, il quale, dopo l’ultimo viaggio sulla solita rotta Genova, Cadice e Lisbona, questa volta con una deviazione alle Canarie, decise, dopo aver incassato un buon nolo da 10.000 pezzi da otto reali, di rientrare a Genova per co22. Villiers (2013). 23. Alessandrini (2015, pp. 275-98). 24. ascg, Manoscritti, 183, p. 17.
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struire una nuova nave, così come testimonia nell’autobiografia il capitano in seconda Nicolò Canale25. Come avveniva di solito, allorché veniva commissionato un nuovo vascello, il capitano, che era anche uno dei caratisti, ne seguiva da vicino la realizzazione, suggerendo, là dove era possibile, miglioramenti, utili alla buona riuscita nautica della costruzione. Il dettaglio tecnico, anche piccolo, poteva migliorare, e di molto, la navigabilità, la manovrabilità e la velocità del vascello stesso. Ogni buon capitano aveva una preparazione relativa alle costruzioni navali, formatasi con l’esperienza in mare e con la frequentazione dei cantieri. A partire dal 1700 e fino al varo avvenuto nel corso del 1703, il capitano Campanella seguì giornalmente i lavori di costruzione sulla spiaggia di Sampierdarena, in un tratto di arenile compreso tra il fossato di S. Bartolomeo e la Chiesa del Santo Sepolcro, dove solitamente si costruivano unità navali di ogni tipo. La nuova San Gaetano, un vascello da 50 cannoni, costò complessivamente 291.491 lire, pari a 58.298 pezzi da otto reali, e fu seguito sullo scalo in ogni suo particolare, compresa la decorazione della poppa intagliata dal noto scultore Antonio Maria Maragliano, ricompensato per i suo servigi con 1.250 lire, più altre 100 lire «per regalo datogli per aver fatto più della sua obbligazione»26. Il varo della nuova nave coincise con l’inizio di una nuova epoca non solo per il capitano Campanella, ma più in generale per l’intera Europa, vista la svolta dinastica avvenuta in Spagna, che avrebbe trascinato con sé l’intero mondo in una nuova guerra. Per Campanella il secolo xviii cominciò con un lungo viaggio a Londra, nel quale subì una «fiera borasca» nella Manica e fu costretto ad una rapida missione a Parigi, al fine di intercedere per la liberazione delle navi genovesi dei capitani Cambiaso e Vallarino prese dai francesi. Incontrato il ministro Pontchartrain27 e il re a Versailles (forse solo per un attimo), assieme al ministro genovese Sorba, Campanella riprese con regolarità i suoi viaggi. Dai documenti del primo viaggio a Londra veniamo a conoscere l’esatta composizione del personale di bordo della San Gaetano con i relativi salari. Si trattava di un equipaggio 25. Nicolò Canale di Luca navigò molti anni come secondo di Campanella, finché non venne approvato capitano nel 1728, quando era al comando della fregata da 44 cannoni Santissima Concezione e San Nicolò da Tolentino, costruita in Arsenale e destinata nel 1713 ad essere venduta agli spagnoli. Gatti (2015, p. 111); asg, Notai Valpolcevera, Paolo Francesco Repetto, 623, 7 e 15 ottobre 1727. 26. adgg, Archivio Sauli, 1383. 27. Frostin (2006).
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per la maggior parte composto di uomini provenienti da Genova o dalle sue immediate vicinanze. Se il suo secondo era il solito Nicolò Canale di Genova, il nocchiere Gerolamo Tubino era di Sampierdarena, così come il guardiano, il sottoscrivano, il maestro d’ascia e il suo aiutante e molti marinai. Altri provenivano dalla val Bisagno o da piccole località nelle immediate vicinanze della città, come Nervi, Pieve, Rivarolo e Quarto. I salari comprendevano somme tra i 40 pezzi da otto del capitano, i 12 degli ufficiali principali (tenente, nocchiere, pilota ecc.), fino ai 3-4 dei marinai28. Nei viaggi tra il 1706 e il 1708 il capitano Campanella continuò a far la spola tra Genova, Londra e i porti spagnoli. La frequentazione della Manica acuì in lui quel senso di fastidio – più volte manifestato nell’autobiografia – nei confronti degli inglesi che poi esplose fragorosamente con la sua cattura avvenuta nel 1710. Già nel viaggio del 1708, effettuato assieme alla nave del capitano Lanfranco, Campanella, mentre si trovava sulla rotta tra Dover e la foce del Tamigi, fu avvicinato da una nave corsara inglese la quale, dopo aver cercato di verificare la nazionalità delle due navi, le investì con alcune scariche di cannone che danneggiarono l’albero di mezzana della San Gaetano. La risposta delle due navi genovesi non si fece attendere e ne nacque un fitto cannoneggiamento che durò tutta una notte, fino a quando alla luce dell’alba la nave inglese si accorse di avere a che fare con due vascelli neutrali. La vicenda, secondo quanto scrisse il nostro capitano, si chiuse in tribunale a Londra, dove il capitano inglese fu costretto a risarcire i danni inferti ai genovesi, grazie anche alla mediazione del locale ambasciatore della Repubblica29. L’anno seguente il capitano Campanella, dopo molto tempo, tornò ad effettuare un nuovo viaggio in Morea per caricare grano, assieme alla nave Sant’Antonio da Padova e le anime del Purgatorio comandata da Bernardo Delfino. In quella circostanza il nostro capitano fu costretto ad andare in causa con il noleggiatore Genesio Puissever per alcune supposte illegalità nell’acquisto del grano, risolte a favore del comandante Nicolò, che pertanto incassò regolarmente il suo nolo di 80.000 lire30. Fu però il viaggio del 1710 a procurare non pochi grattacapi al nostro Campanella. Partito in convoglio da Genova nel marzo di quell’anno assieme ad altri tre vascelli, nel corso della navigazione verso Lisbona il capitano 28. adgg, Archivio Sauli, 1385. Cfr. anche la corposa corrispondenza del Campanella con il suo più influente caratista, Domenico Maria Ignazio Sauli, in adgg, Archivio Sauli, 1611, 1612, 1613 e 1614. 29. ascg, Manoscritti, 183, pp. 25-6. 30. adgg, Archivio Sauli, 1401 e 1402; ascg, Manoscritti, 183, pp. 27-8.
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Campanella ebbe a discutere in diverse circostanze con il capitano Giovanni Stefano Sanguineto, con il quale non correva buon sangue a causa di frizioni nate per un diverso atteggiamento professionale. Dopo essere state a Lisbona, le due navi entrarono sane e salve nel porto di Cadice e colà imbarcarono un cospicuo carico di argento e altre merci miste, per un valore complessivo di 8.384.005 lire, che avrebbero permesso al nostro capitano di intascare un nolo pari a 106.767 lire. Lo stesso Campanella, per proprio conto, caricò a bordo della San Gaetano 12.500 pezzi da otto reali, pari a 62.500 lire, moneta di conto di Genova. Ma prima di ripartire per Genova gli fu chiesto di condurre a Veracruz il nuovo viceré della Nuova Spagna, don Fernando de Alencastre Noroña y Silva, duca di Linares e marchese di Valdefuentes: sbarcato in Messico dopo 44 giorni di viaggio, Campanella caricò la parte più cospicua dell’argento diretto a Genova. Rientrato a Cadice, si trovò a dover ripartire in compagnia del capitano Sanguineto; salpate le ancore, dopo pochi giorni, a causa delle cattive condizioni meteomarine, fu costretto a dare fondo nel porto di Almeria (14 settembre). Qui sorsero alcune gravi frizioni con i locali per colpa dell’irruenza del Sanguineto, il quale all’alba del 17 settembre si pose alla vela senza aver comunicato nulla al collega. L’azione sconsiderata del Sanguineto mise le due navi in grave pericolo, giacché in quelle acque stazionavano alcune imbarcazioni della Royal Navy, tra cui la Grafton, da 70 cannoni, agli ordini del capitano George Forbes, e la Chatam, da 50 cannoni, comandata da Nicholas Haddock. Campanella, alla vista dei due vascelli inglesi temette ritorsioni per lo scontro avvenuto due anni prima nella Manica e in effetti i due comandanti inglesi decisero di visitare e catturare i due vascelli genovesi31. Ancora una volta il nostro capitano si trovò, di fronte ai suoi nemici storici, a dover aver a che fare con le norme della guerra di corsa e con i tribunali britannici. I guai per lui e per il suo equipaggio erano appena iniziati. Durante il viaggio tra il luogo della cattura e la base britannica di Port Mahón alcuni uomini della Grafton andarono a bordo della San Gaetano e a colpi d’arma da fuoco presero a saccheggiare la stiva della nave genovese, sperando in una risposta violenta dell’equipaggio ligure. In questo modo, molto probabilmente, gli inglesi avrebbero avuto tutto il diritto di svuotare le stive delle navi catturate prima di iniziare il procedimento di aggiudicazione della preda presso il tribunale competente. Giunti a Minorca, i due capitani genovesi scoprirono che gli inglesi erano in attesa del lauto bottino e che quindi da settimane attendevano il 31. Barbano (2010-11, pp. 39-44); ascg, Manoscritti, 183, pp. 30-7.
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transito delle navi dirette a Genova; seppero, inoltre, che su di loro pendeva un mandato di «rappresaglia», firmato dalla regina Anna, motivato da alcuni debiti non saldati a Londra da Luca Giustiniani32. La cattura delle due navi genovesi da parte degli inglesi scatenò a Genova la reazione stizzita degli interessati al carico, perlopiù appartenenti al ceto di governo della Repubblica. Tra questi il più attivo risultò essere Domenico Maria Ignazio Sauli, uno dei caratisti della San Gaetano, nonché uno dei protettori politici dello stesso Campanella. Domenico Maria, figlio dell’ex doge Francesco Maria, era all’epoca uno dei più ricchi e influenti membri del patriziato locale. Grazie agli interessi che vantava sulla nave, il 20 ottobre 1710 venne incaricato ufficialmente dai Serenissimi Collegi di effettuare una missione straordinaria a Londra, al fine di liberare i due vascelli33, mentre nel contempo l’arciduca Carlo d’Asburgo, impegnato in Catalogna nella guerra di successione spagnola, chiese agli inglesi di poter mettere le mani proprio sull’ingente carico d’argento. Il 6 gennaio 1711 l’inviato straordinario Sauli riuscì a partire per Londra con l’obiettivo non solo pratico – la liberazione delle due navi – ma anche politico: l’ottenimento del rispetto della neutralità della bandiera genovese da parte degli inglesi. Giunto a Londra, dopo un faticoso e complicato viaggio durato 46 giorni, Domenico Maria Sauli si mise al lavoro per riuscire a chiudere la pratica per via extragiudiziale, senza fare i conti con il tribunale dell’ammiragliato. In realtà, il procedimento iniziò già nel mese di febbraio e prese inaspettatamente una piega favorevole ai genovesi, i quali però, per non correre rischi, attraverso l’inviato Sauli suggerirono ben presto una soluzione alternativa. L’idea, palesata dall’inviato il 20 marzo, era di proporre un prestito alla corona con un basso tasso d’interesse, utilizzando proprio parte dell’argento presente a bordo delle due navi ferme a Minorca. L’accordo, nonostante le molte difficoltà incontrate nella trattativa, fu chiuso dal Sauli nel corso del mese di giugno e prevedeva un prestito di 800.000 pezzi da otto reali, al tasso d’interesse del 5%; più altri 60.000 pezzi da consegnarsi come indennizzo al capitano Forbes. All’inizio dell’autunno 1711, finalmente, i due vascelli poterono rientrare sani e salvi nel porto di Genova34. I guai del capitano Campanella non erano terminati con il rientro a casa. Ricominciati i viaggi verso Lisbona e Cadice, già nel 1712 il nostro capi32. asg, Archivio Segreto, Maritimarum, 1684, 2 ottobre 1710. 33. adgg, Archivio Sauli, 1391, 20 ottobre 1710. 34. Barbano (2010-11, pp. 96-143). Per la missione dell’inviato Sauli cfr. asg, Archivio Segreto, Lettere Ministri Inghilterra, 2279.
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tano si trovò invischiato nella vicenda della vendita della San Gaetano nel porto gaditano per porla al servizio di un asiento di navi che stava contrattando il futuro ammiraglio del re Filippo v, Stefano De Mari35. La complessa vicissitudine mise forse in attrito il Campanella con il potente membro della casata De Mari, tanto che da qui nacquero le sfortune che portarono il capitano Nicolò ad essere condannato in tribunale e a doversi difendere dal disonore con la sua autobiografia. Da quel che si intende dall’italiano stentato di Campanella, l’accordo con il De Mari fu difficoltoso non solo per divergenze sul prezzo da pagare per la vendita, ma anche perché le lettere di cambio da saldarsi in Cadice a favore di Campanella non furono pagate e le cambiali andarono in protesto. Il vascello San Gaetano fu venduto per circa 60.000 pezzi da otto reali e con l’occasione il capitano in seconda Nicolò Canale chiuse in conti delle navigazioni effettuate dalle due San Gaetano e fece rapporto al proprio capitano: in totale i viaggi cominciati negli anni Novanta del secolo xvii avevano fruttato 809.000 pezzi da otto reali. Con tali ricavi – non sappiamo con precisione quali furono i suoi reali guadagni – Nicolò Campanella decise di smettere di navigare per un po’ di tempo per occuparsi solamente di investimenti, tanto che scrisse nella sua autobiografia: «la pace che tiene in riposo, e la poca apparenza di profittare, le diede luogo d’accudire ai suoi affari e propri interessi, e per quanto avesse di nuovo tentato di far ballare legni nell’acqua salsa»36. L’autobiografia tace sugli anni compresi tra il 1714 e il 1729. Non è possibile stabilire in quegli anni che tipo di vita condusse il capitano Campanella: forse dopo un periodo di pausa, per meglio sistemare i propri interessi, riprese il mare fino all’incidente del mancato pagamento dei salari dei marinai nel marzo del 1729. Quel che è certo è che dopo la condanna dei Conservatori preparò la sua autobiografia difensiva, corredata di tutto il materiale di appoggio: patenti, passaporti, documentazione contabile e altro ancora, il tutto controfirmato da 33 négociants di Genova e 33 capitani. 35. Le vicende di questa vendita sono narrate dettagliatamente nel resoconto pubblicato a stampa a Piacenza nel 1738 dal titolo Essendo di già stato noto nel suo diario stampato per avvanti, e dato alla luce dal capitano Nicolò Campanella a tutto questo commerzio di Genova, e signori, di tutto il passatogli nella sua navigazione in cinque navi da lui comandate. Viene pure obbligato con il presente a far constare tutto il passatogli con le due ultime navi da lui fabbricate, ed il danno, e pregiudizio ricevutone senza alcuna sua colpa, conservato in adgg, Archivio Sauli, 1413; asg, cm, 147; asg, Archivio Segreto, Lettere Ministri Spagna, 2468. 36. ascg, Manoscritti, 183, p. 44.
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La difesa dei sostenitori di Campanella si basava principalmente sulla fedeltà assoluta del capitano nei confronti della bandiera genovese: Noi sotto scritti signori di questa piazza di Genova attestiamo qualmente il capitano Nicolò Campanella ha comandato per il corso di 40 anni circa cinque navi di portata di cannoni 40 sino 70 con interesse più della metà di suo conto solo però in 4 navi di esse, e sempre con bandiera di questa Serenissima Repubblica, e fatto più viaggi per la Costa di Spagna, Portogallo, Olanda, Inghilterra, Francia, Canarie, Sicilia e buona parte del Levante.
Egli si difese dai barbareschi e dai soprusi degli inglesi, si distinse anche per un’ambasciata a Parigi e per aver tentato di portare in Inghilterra il suo legittimo re Giacomo, e fu sempre preciso nel dividere gli utili delle sue navigazioni con gli azionisti. Il documento era poi controfirmato dai patrizi Gio. Batta Spinola (cavaliere e generale delle galere di Malta) e Gio. Domenico Fieschi, i quali dichiararono che «quanto sopra in ordine alla capacità, et onore del signor capitano Campanella da me conosciuto per esperto marinaro, et ottimo capitano»37. Ma come era stato incastrato il capitano Campanella e cosa c’era di vero nelle accuse mosse da alcuni membri del suo equipaggio? Anche in questo caso ricorriamo ai verbali degli interrogatori stilati davanti ai Conservatori del Mare, tra le poche fonti disponibili in grado di restituirci un quadro assai vivo del modo di agire, della vita e delle mentalità della gente comune. La querelle contro Campanella iniziò il 3 marzo 1729 e si concluse il 22 di aprile dello stesso anno. Vi furono ben dieci denunce contro di lui, sia per il mancato pagamento dei salari sia per aver abbandonato a terra alcuni membri della ciurma senza aver loro pagato i compensi né consegnato gli effetti personali. Vi furono però, per contro, due testimonianze decisamente favorevoli a proposito della lite apertasi con il sotto piloto Bartolomeo Grifo. Dalla documentazione conservata non sembrano esserci legami diretti tra una denuncia e l’altra, tanto che in molti casi lo scrivano di bordo del capitano, Gio. Agostino Landi, si presentò presso gli uffici della cancelleria per risarcire i danni, volta per volta. Appare però altresì chiaro che l’elevato numero di denunce nel breve periodo, alle quali poi seguì la stesura della memoria difensiva, ci fa sospettare che forse in effetti vi fu una macchinazione tendente a ledere l’onore del capitano. Alcuni di coloro che denunciarono il Campanella furono, secondo le testimonianze, lasciati a 37. ascg, Manoscritti, 183, pp. 57-8.
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terra allorché la nave San Gaetano si trovava presso Capo Molini ed era diretta a Lisbona, assieme alla nave di Nicolò Canale denominata Santissima Concezione: «fra gli altri erano suddetti Giuseppe Massa e Gaetano Rossi, e so che li medesimi andarono in terra per lavarsi qualche panni»38. Il 5 marzo testimoniò in questo senso anche il timoniere Giovanni Maria Parodi, il quale confermò che, durante la sosta a Capo Molini, detto capitano diede licenza a molti, che andassero a terra per lavarsi li suoi panni, come pure so che così facevano molti altri della nave del capitano Canale et il giorno seguente mentre essi erano a terra per tale effetto suddetto, le navi fecero vela, e stando io testimonio al timone discorrendo col padre cappellano vidi molti a terra, che facevano segno per essere allevati e condotti al bordo di dette navi. […] Dissi al capitano Campanella che avesse la carità di far allevare la gente, che era a terra, […] non mi rispose e poco dopo tanto io quanto il padre cappellano glielo replicammo, ed esso capitano Campanella con qualche parola indecente disse, se vi sono, che vi stiano39.
Il presunto vizio di lasciare gente di bordo a terra venne suffragato anche dalla richiesta di risarcimento del soldato Bartolomeo Pegollo per essere stato abbandonato ad Ajaccio durante il viaggio tra Agrigento e Lisbona. Secondo il capitano si trattava di diserzione, mentre per il Deputato di mese, Sebastiano Pallavicini, si trattò di abbandono, tanto che il Campanella fu costretto a consegnare gli oggetti personali al soldato, accompagnati da un risarcimento di 13 lire e 14 soldi. Mostro insensibile o, come sospettiamo, il capitano era oggetto di attacchi mirati al suo onore? Dai verbali degli interrogatori qualche dubbio a favore del capitano in effetti ci sovviene. Se il Deputato in realtà decise sempre a senso unico contro il Campanella, alcune testimonianze però lo scagionavano dall’essere un capitano crudele che abbandonava i suoi uomini a terra senza pagarli. Perché lo avrebbe fatto? Secondo la testimonianza rilasciata l’8 marzo da Francesco Costa, padrone del gozzo di servizio della nave San Gaetano, suffragata da quella rilasciata dallo scrivano, che però era uomo di parte, sembra che il capitano fosse costretto dal cattivo tempo a salpare con una certa rapidità e che invece molti uomini, tra cui diversi soldati, si rifiutarono perché «volevano andare a bere». Alle accuse dei soldati rimasti a terra, seguirono quelle di tutti coloro che per diverse ragioni non erano stati pagati, tra i quali: il falegna38. asg, cm, 344, 4 marzo 1729. 39. asg, cm, 344, 5 marzo 1729.
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me Gio. Maria Pittaluga; Andrea Pizzarello, «con avere preso un mese di paghe qui in Genova d’imprestito ed avendolo servito poi mesi quattro per il viaggio e non avendo potuto continuare il medesimo sopra la detta nave per li mali trattamenti»; Paolo Schiavo, che non era stato pagato per i lavori effettuati alle bussole del vascello; e Benedetto Bruzzo, marinaio, che parimenti aspettava il saldo di undici paghe, a ragione di 14 lire e 8 soldi per ciascun mese. Violento, avaro e poco rispettoso dei suoi uomini, Campanella sarebbe il testimonial perfetto del negativo capitalismo, descritto da Rediker40. Ma il caso di Bartolomeo Grifo ci suggerisce nuovi dubbi, che in tutta onestà ci fanno in parte riabilitare il capitano. Il sotto piloto, infatti, aveva denunciato il capitano per minacce, violenze verbali e sbarco forzato. Il 22 aprile il timoniere Giovanni Battista Devoto raccontò al Deputato di mese, Francesco Maria Durazzo che, durante l’ultimo viaggio, era imbarcato Bartolomeo Grifo, che serviva la suddetta nave in qualità di sotto piloto ed essendo la medesima nave nella città di Lisbona, dopo quaranta giorni circa del suo arrivo il capitano Campanella disse al detto Bartolomeo Grifo, che cosa faceva in nave, et esso rispose al Campanella che fa tutto quello che fanno tutti l’altri, et all’ora il capitano le disse che uscisse fuori di sua nave, e che se ne andasse a terra, che altrimenti l’avrebbe dato delli pugni nella faccia […] e da lì a quattro o cinque giorni stante che non aveva detto Grifo più da mangiare del suo, ne tampoco li veniva somministrato vitto di sorte alcuna dal detto capitano Campanella, se ne andò a terra e non ritornò più a bordo di detta nave41.
In realtà, secondo altre due testimonianze alquanto diverse, rilasciate il medesimo giorno da Francesco Maria Barlupi e Gerolamo Zino, pare che il Grifo fosse stato fatto salire a bordo per pura carità umana da parte del capitano, ma che fosse un perfetto lavativo. Prima del viaggio in Sicilia e a Lisbona, Bartolomeo Grifo si era offerto per imbarcarsi, ma Campanella aveva replicato che era troppo vecchio e che non necessitava di un altro sotto piloto. Il Grifo, però, aveva subito risposto che era pronto a far di tutto e che facesse corso di fare la carità nel prenderlo in nave e che farà tutto quello faranno gli altri il che sentito dal detto capitano che sommamente compatì il suo stato, le disse che lo farà ponere al rollo con la paga di pezzi due al mese. 40. Rediker (1997). 41. asg, cm, 344, 22 aprile 1729.
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Invece di accettare con gioia la proposta, il Grifo rispose che erano pochi e che gli desse qualche cosa di più e nell’istesso tempo entrò nella camera il signor Gaetano, figlio del capitano, al quale il signor capitano le disse che notasse detto Grifo al rollo a ragione di pezzi tre al mese e il signor Gaetano le rispose cosa voleva fare di quell’uomo, che non era buono a fare cosa alcuna, e il capitano le soggiunse che faceva conto di fare una carità.
Il testimone aggiunse, inoltre, che durante tutto il viaggio Bartolomeo Grifo restava sempre seduto sopra «una cannoniera dove dormiva, e tutto il suo esercizio era di mangiare e dormire et era tanto sordido che era da tutti schivato e fuggito». Il capitano, in diverse occasioni, provò a coinvolgerlo nell’uso della carta da navigare, ma il Grifo «le rispose che essendo schivato da tutti non si importava più di niente ed esso capitano le soggiunse che questi non erano li patti che si erano fatti in Genova, e che nella sua nave chi non travaglia, non mangia». Giunti a Lisbona, visto che il Grifo continuava a non voler lavorare, Campanella disse che giacché non voleva far niente era in buon porto e se ne poteva andare a terra a cercare altro impiego e continuato questo per vari giorni […] et esso gli rispose che gli aggiustasse li suoi conti, che era pronto ad andarsene et esso capitano li disse che glieli avrebbe aggiustati e dopo qualche giorno si partì da detta nave e se ne andò a terra e davanti al console genovese le aggiustò il suo conto consta da ricevuta alla quale mi rimetto42.
Criminale o galantuomo? Chi era in definitiva il capitano Campanella? Qualsiasi sia la nostra risposta è indubbio che, per difendere l’onore perduto, egli fu costretto a redigere il diario, così come lo definì lui stesso, al fine di far tacere i «molti malevoli [che] hanno falsamente messo in scandalo il detto capitano», che per converso aveva servito per quarant’anni la Repubblica e la sua bandiera, senza mai ricorrere, come molti altri suoi colleghi liguri, alle «bandiere mascherate»43. Onore e dedizione alla Repubblica e buon servizio a molti membri del patriziato urbano erano gli elementi che avrebbero dovuto riabilitare Campanella, che inoltre, nel finale del suo diario, propose alla Giunta del Traffico di sostenere maggiormente, tramite sgravi fiscali, proprio l’uso della bandiera nazionale nei commerci con il Portogallo e la Spagna. 42. asg, cm, 344. 43. ascg, Manoscritti, 183, p. 60.
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Non ci è dato sapere come terminò la vita del capitano Nicolò Campanella, ma quel che appare chiaro dalla sua sfortunata fine professionale è che molto probabilmente entrò in forte attrito con alcuni esponenti di spicco della nobiltà genovese, in una società, quella del Settecento, che si stava piano piano trasformando, ma che rimaneva ancora contrassegnata da una rigida gerarchia sociale, come noto spaccata solo dagli eventi rivoluzionari venuti dalla Francia a partire dal 1789.
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4 Uno Schettino del Settecento? Un padrone di Chiavari di fronte al naufragio
Dopo la sera del 13 gennaio 2012, alle ore 21.45, è tornato agli onori della cronaca il tema del naufragio. La colpa del disastro di quella sera è ricaduta, dopo le condanne di primo e secondo grado, interamente sulla figura del capitano, reo di aver messo in atto una manovra assai pericolosa che ha condotto la nave da lui comandata, la Costa Concordia, contro gli scogli dell’Isola del Giglio, provocando la morte di 32 persone. Il capitano Francesco Schettino è diventato, da quel momento, anche per il suo comportamento durante il naufragio, il simbolo della faciloneria e della superficialità. Ma questo tipo di dramma si è verificato assai di frequente nel corso della storia marittima e quasi sempre le colpe sono ricadute sui membri dell’equipaggio1, così come peraltro ricordava Carlo Targa nelle sue Ponderazioni sopra la contrattazione marittima, in cui sosteneva che il naufragio «di raro succede che non sia accompagnato, o da qualche disordine, o da colpa almen leggera delle gente di nave, ed è il più frequente da ogni altro»2. La calda sera del 15 agosto 1796, secondo quanto apprendiamo da una lettera scritta dal governatore di Chiavari Antonio Da Passano ai Serenissimi Collegi, la feluca passeggeri Santissima Concezione partita da Chiavari e diretta a Genova era naufragata a causa, forse, dell’incuria del padrone Giovanni Battista Raggio, il quale dicesi che si era addormito: se ciò fosse vero merita d’essere castigato per aver perduta la carta da navigare e sia in un modo o nell’altro merita la morte, ma senza fallo una galea, ma giacché abbiamo la disgrazia di non voler giudicare sola inspecta veritate se ne faccia al Prestigiosissimo Deputato de’ Conservatori del 1. Uno dei casi più noti, anche grazie al famoso quadro di Géricault, è quello della fregata francese Méduse incagliatasi nel giugno 1816 sulle coste della Mauritania a causa dell’imperizia del capitano Chaumareys. Cfr. Boudon (2016). 2. Targa (1803, p. 137).
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Mare, quale debba riferire fra due giorni il successo di questa filuca di Chiavari per andarne al riparo3.
Già nella giornata del 16 agosto, i membri del Magistrato dei Conservatori del Mare si misero al lavoro di prima mattina per rintracciare i superstiti, al fine di raccogliere le testimonianze sull’accaduto per poter formulare un eventuale capo d’accusa nei confronti dei responsabili del disastro, secondo la procedura del rito ordinario, essendo il naufragio considerato reato criminale. A bordo della piccola feluca, quella tragica sera, vi erano passeggeri di estrazione professionale diversa: un contadino, un fabbro, diverse donne, i camerieri del governatore di Chiavari, ma anche due padroni di bastimenti; tutti rilasciarono un resoconto dell’accaduto, più o meno tecnico a seconda della preparazione posseduta. La sera del 15 agosto 1796 un nutrito gruppo di persone si presentò sulla spiaggia di Chiavari, al fine di potersi imbarcare alla volta di Genova sulla feluca del padrone Gio. Batta Raggio. A seconda delle condizioni meteorologiche, veniva assicurato un servizio quotidiano di trasporto passeggeri alla volta della Dominante. In quel periodo dell’anno le partenze avvenivano di notte nella speranza di poter usufruire di un po’ di vento fresco, assente nelle ore diurne. Quella sera difatti – secondo quanto riportato nell’interrogatorio del padrone Francesco Questa di anni 25, originario di Chiavari – c’era «buonissimo tempo, e poco vento di terra» e poco dopo mezzanotte, la feluca del padron Raggio, issate le vele latine, fece rotta verso la «punta del capo di Portofino, dopo di che essendo del tutto cessato quel poco di vento che vi era, si posero i marinari di detta filuca vogare per tutto il tratto del Monte di Portofino, quale passato all’apertura di Recco cominciò nuovamente a sentirsi picciola bava da terra». Agli occhi dei passeggeri doveva apparire una serata tranquilla, forse non particolarmente piacevole, per colpa del sovraffollamento che regnava a bordo del bastimento. La feluca ligure era, in genere, un’imbarcazione piuttosto piccola, tanto che difficilmente superava i 12 metri di lunghezza; bastimento originario dei paesi arabi, passò rapidamente nella cultura marinara del Mezzogiorno e da qui in quella tirrenica e ligure. Nel xviii secolo aveva ancora una propulsione mista a vela e a remi che la rendevano perfetta come imbarcazione di appoggio per le navi militari o per compiti di polizia marittima. Era inoltre molto usata per la sua duttilità per il trasporto di passeggeri su brevi distanze, come nel caso appunto della feluca di Chiavari. Aveva solitamente dodici coppie di remi e 3. asg, cm, 423, 17 agosto 1796.
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tre alberi alla latina con il trinchetto a calcese molto inclinato verso prora. Nel secondo Settecento alcune feluche venivano costruite con la poppa detta “a cadrega” (a sedia) e con soli due alberi sempre a vela latina4. Al largo di Recco, dunque, la feluca ricominciò a godere della spinta del vento, rinforzatosi ancora davanti a Quinto, «per cui difatti io», narrò il Questa, «come pratico di marina dissi al marinaro che avevo vicino che stesse in avvertenza di tenere l’orza», quando, giunti quasi davanti alla foce del Bisagno, tutto d’un tratto la feluca, che faceva per il vento suddetto al quanto orza, essendo venuto un po’ più scarso il vento suddetto, presero di dosso le vele, e subito il padrone Raggio che era al timone mollò la scotta di maestra ed ordinò che mollassero tutti i cavi, come fu eseguito meno però quello del davanti della maestra, che io non so se posso capire per qual motivo non sia più potuto mollare prontamente essendomi anche io gettato al detto cavo per scioglierlo lo che non mi fu possibile perché nel tempo stesso mi son trovato in mare.
Il colpo di vento improvviso e l’impossibilità di mollare il cavo di prora avevano fatto rovesciare il bastimento, che, ricordiamo, era sovraccarico di persone. Improvvisamente i passeggeri e i membri dell’equipaggio si ritrovarono in mare, alcuni, i più sfortunati rimasero intrappolati sotto lo scafo della feluca e per loro non ci fu scampo. Altri, come il padrone Questa, si aggrapparono ad una delle antenne «e con la stessa salvarmi, come feci in compagnia di un garzone che io non so chi sia […], ma dopo tre o quattro ore di cammino sopra l’antenna vidi un gozzo del Ponte Reale che ci salvò». Quel mattino i bisbigli che giravano nel porto suggerivano che il padrone Raggio si fosse addormentato e che i marinai fossero alquanto ubriachi. Il Questa rigettò le accuse, sottolineando solamente che i marinai erano intenti per tutto il viaggio a «dire delle parole improprie». La feluca inoltre era nuova «essendo questo il secondo viaggio che faceva» e non «aveva zavorra, nemmeno era solita portarne, siccome non sono solite portarne le altre filuche». Secondo la stima del Questa, quella sera erano state imbarcate circa quaranta persone, alcune con al seguito dei bagagli, ma senza che vi fosse a bordo nessun tipo di mercanzia diretta a Genova. A questo punto dell’interrogatorio il giudice, forse un po’ infastidito di dover lavorare quel mattino, chiese un parere esplicito al Questa del perché la feluca si fosse rovesciata. Rispose il padrone: «Il vero motivo dell’abbattimento di detta 4. Gatti (1999, pp. 176-82); Lo Basso (2002, p. 92).
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filuca si è a mio credere stato perché facendo orza le vele col vento da terra dalla parte sinistra li passeggeri ed altre persone erano quasi tutte dalla parte dritta ed avendo preso le vele come ho già detto di dosso fecero immediatamente sbilanciare la stessa e seguire l’accennata disgrazia». In pratica, al colpo di vento improvviso, nessuno riuscì a mollare il cavo dell’orza, forse legato male, e la piccola imbarcazione, a causa dell’elevato numero di persone presenti a bordo si rovesciò. A sostegno del padrone Raggio si schierò Nicolò Delfino, di anni 32 originario di Santa Margherita, anch’egli padrone di bastimenti, segno di come in questi casi scattasse una sorta di “protezione di categoria”. Al resoconto dell’accaduto, coincidente con precisione alla versione del Questa, Delfino aggiunse che «il padrone della filuca era al timone e risvegliato come pure erano risvegliati i marinari ed anzi io ero seduto appresso del padrone sulla poppa»; inoltre «quando presero le vele di dopo il patrone subito gridò che si mollassero i cavi, ed esso mollò la scotta di maestra come vidi e solo restò incocciata l’orza di detta maestra, né io vidi essendo l’aria per anco scura se il trinchetto fosse stato completamente mollato ossia slacciato». Nicolò Delfino spiegò al giudice che «il cavo dell’orza suole essere attaccato in vicinanza al banco della maestra ad un gancio con un gruppo, che si slaccia con tirare il cavo». Infine, il Delfino disse ancora di conoscere da almeno quattro anni il padrone Raggio, da quando si imbarcò proprio a bordo di una feluca ai suoi ordini. Dopo aver ascoltato due passeggeri pratici di «cose di marina», il giudice decise di sentire quel giorno anche altri testimoni di diversa estrazione socio-professionale. Il contadino Gio. Batta Costa, originario della parrocchia di Graveglia, si limitò a narrare i fatti aggiungendo che secondo lui erano morte circa 12-15 persone. Maddalena Dellera, di 18 anni, salvatasi grazie ai soccorsi, tenne a specificare fin da subito che «non ho inteso il vero motivo di mancanza che possa aver dato luogo all’affogamento». Confermò inoltre che i marinai erano svegli e sobri e che il padrone era attento allo sviluppo della navigazione. Più insinuante fu invece la testimonianza del fratello di Maddalena, Andrea Dellera, di professione fabbro. Secondo quest’ultimo, al momento del naufragio, nessuno dell’equipaggio si adoperò per salvare i passeggeri e «per quanto io mi son accorto i marinari non avevano subordinazione al proprio padrone perché più volte nel decorso di detto viaggio dovette sgridarli di stare attenti e di fare il suo dovere mentre erano piuttosto intenti a dirsi delle cattive e improprie parole». In sostanza, padrone privo di polso 88
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ed equipaggio indisciplinato. Qualche ombra calava sul comportamento dell’equipaggio nel momento del pericolo. Dopo il primo giro di interrogatori, i Conservatori del Mare, nei giorni successivi presero tempo, forse sbrigando anche gli ordinari affari dell’ufficio, tanto che il 19 agosto dai Serenissimi Collegi arrivò un invito, non tanto velato, a «procedere con maggiore sollecitudine», probabilmente a causa delle pressioni che giungevano dal governatore di Chiavari, che nel naufragio aveva perso un cameriere di fiducia. Il 20 agosto, finalmente, si presentò nell’ufficio vicino a piazza Banchi il padrone Gio. Batta Raggio ed entrando nei locali della cancelleria dichiarò: «Io faccio di mia professione il marinaro essendo padrone d’una filuca, e la patria è Chiavari». Aggiunse poi di aver «cominciato a fare il marinaro dell’età di anni 12 circa e d’ora saranno cinque anni che faccio il padrone di filuca». Si trattava pertanto, avendo 30 anni di età, di un marittimo d’esperienza, avendo già accumulato 18 anni di vita di bordo. Raggio, dopo essersi presentato, prese fiato e narrò gli avvenimenti di quella tragica sera: Sono partito lunedì sera 15 del corrente da Chiavari con carico di passeggeri in congiuntura di buon tempo, e con poco vento di terra, il quale continuò sempre eguale fin sopra il Monte di Portofino, dopo di che vi cessò e si dovette fare tutto il monte a remi, e mi posi in questo tratto anch’io al remo facendo andare il garzone al timoniere ove ero io, arrivati poi alla cime del monte verso la Chiappa cominciò ad aprirsi nuovamente poco vento.
Il leggero Levante sospinse la feluca fin quasi «sopra la Castagna da dove cominciò il vento di terra fresco, e subito gridai più volte ai marinari di tenere i cavi in mano, e di stare attenti, e questi rispondevano che erano in attenzione», allorché, arrivati sopra la Foce in drittura della Cappelletta dei Morti, tutt’assieme si trovammo in calma, ed improvvisamente venne un forte vento di terra, che fece tosto prendere le vele di dosso, io cercai subito di far virare la filuca in fuori, ma vedendo che più non ubbidiva al timone gridai subito ai marinari che mollassero tutti i cavi […] e solo non fu mollato, ossia slacciato il cavo dell’orza di maestra per il che la filuca con il peso anche che aveva de passeggeri, che erano sottovento si abbatté verso terra, e andò la gente in mare ove perirono annegate diverse persone fra le quali mio figlio.
Il padrone spiegò poi al giudice inquirente che «quando si naviga coi venti di terra si lascia il cavo dell’orza di maestra al banco detto del secondo, il 89
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quale banco è il penultimo sopra la prora». Là si trovava il marinaio Michele Delpino, il quale al momento opportuno non fu in grado di sciogliere il nodo, «un collo con una gassa, che tirando si deve subito slacciare», perché, secondo la spiegazione del marinaio, «aveva una volta che non poté subito mollare». Il padrone, dunque, addebitò le colpe al Delpino, reo di non ver fatto ad arte il nodo, che «se avesse avuto il nodo da me detto di sopra certamente doveva sul momento slacciarsi». Quindici morti, tra cui il figlio del padrone per colpa di un nodo legato superficialmente. I giorni seguenti fu arrestato dapprima il marinaio Delpino e il 27 agosto, dopo aver riascoltato il padron Raggio, i Conservatori deliberarono per l’arresto anche di quest’ultimo, decidendo che la responsabilità ultima delle azioni del marinaio spettava al comandante. L’inchiesta però non era certamente conclusa, tanto che già il 28 dello stesso mese il governatore di Chiavari procedette a una serie di interrogatori, alcuni dei quali particolarmente accusatori nei confronti del padrone, come quello di Alfonso Patrone, il quale, rispondendo alle domande, disse: Essendo nella filuca di patrone Gio. Batta Raggio, ultimamente naufragato per vera incuria del padrone atteso che questo non seppe fare il suo dovere, vidi che rinfrescato il vento detto patrone si tenne sull’orza quando doveva appoggiare per fare camminare la filuca, e così facendo il vento prendere le vele di dosso dovettimo abboccarsi per non esserci più stato luogo a slacciare li cavi, e particolarmente l’orza di maestra alla quale vi era destinato il marinaro Michele Delpino catturato, e quando il padrone ordinò di slacciare i detti cavi non era certamente più in tempo, perché la filuca era già rovesciata.
Inoltre, sempre secondo l’accusa di Alfonso Patrone, dopo il ribaltamento del bastimento, si poteva però andare a nuoto in terra a chiamare dell’aiuto giacché eravamo in quel momento distante un miglio circa da terra sopra la Foce e benché i passeggeri gridassero di così fare, pure il padrone mai ha voluto ordinarlo ed i marinari dicevano che non sanno nuotare.
Più moderata, ma confermata, l’accusa di Maria Patrone, la quale concludeva, dicendo al cancelliere, «poco intendomi come donna di navigazione che è quanto posso dire». Queste ultime testimonianze, assieme a quella di Bartolomeo Sanguineti, incastravano quasi del tutto il padrone Raggio, reo di non aver saputo gestire l’emergenza. Secondo il Sanguineti, se al momento del naufragio «il padrone avesse comandato a qualche marinaro di andare a 90
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nuoto a terra a chiamare dell’aiuto forse non sarebbero perite tante persone, cosa che si poteva fare facilmente, giacché quando ci siamo rovesciati eravamo un miglio circa distante da terra sopra quasi la Foce». Infine, in conserva con il padrone Raggio, quella sera avevano navigato senza problemi altre due feluche cariche di passeggeri «venute da Recco sino sopra Nervi con noi di conserva e per aver avuto più giudizio si sono salvate facendo camminare senza andare orza, come ha fatto nostro detto padrone Raggio». Lo stesso 28 agosto, il governatore Da Passano ricevette e trasmise a Genova una pesante lettera di accusa di uno dei parenti delle vittime, Giovanni Battista Brignardello. Questi metteva in guardia la massima autorità del luogo dal fatto che in quei giorni circolavano a Chiavari notizie relative a presunti falsi testimoni reperiti dai parenti e dagli amici del Raggio, i quali «deponghino a loro talento per coprire, almeno palliare la commessa iniquità a danno di tanti poveri naufragati». Secondo il Brignardello bisognava interrogare ancora alcuni testimoni oculari presenti a bordo della feluca, tra i quali anche uno dei camerieri dello stesso governatore, per far venire a galla la verità in merito non solo alla morte della moglie, ma anche al furto della robba, ori, si da orecchie, che da collo, anelli, scatole d’argento e denari in non poca quantità, che teneva presso di se detta sommersa mia consorte […] per esser stato assicurato esser morta in filuca non annegata, ma dalle forti convulsioni ed assistita da altro de marinari, e da un certo maestro Nicola, capo maestro di filuche salvato anche esso dal pericolo e che chiamava aiuto da un certo marinaro Gio. Batta Solari soprannominato il Taverniere, tendenti tutti detti marinari allo spoglio e marpresa della robba, denaro et altro delli poveri naufragati, che da salvare e prestare aiuto alli stessi.
Il Brignardello chiedeva dunque a gran voce giustizia «all’oggetto di punire i delinquenti, e di riparare in avvenire a tal mancanze a danni de’ poveri naufragati». Nel farlo denunciava, tra gli altri, anche il maestro d’ascia Nicola di S. Margherita, «l’istesso che fabbricò la supra naufragata, e l’istesso pure che volle che detta filuca provata fusse la sua navigazione». In altri termini, secondo il marito della vittima, la feluca non era sicura perché non erano state ancora effettuate le dovute prove in mare prima di imbarcare un elevato numero di passeggeri. A sostegno delle accuse, poi, il Brignardello scrisse che lo stesso padrone Raggio e gli stessi marinai di quel fatidico ferragosto erano già stati denunciati per furto commesso ai danni di un noto mercante di Oneglia. Prima di emettere sentenza, il Magistrato dei Conservatori del Mare chiese una perizia sull’accaduto al capitano del porto di Genova Agostino 91
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Lomellini e al capitano Antonio Maria Casanova. I periti, che avevano attentamente esaminato le testimonianze raccolte, affermarono di non aver «saputo rinvenire alcuna prova, su di cui fondare in ordine alla navigazione da esso tenuta alcun motivo di colpa, d’imprevidenza, o d’imperizia». Nella lunga relazione si sostenne che tutti i testimoni erano concordi nel dire che il padrone era al timone e che al momento del pericolo gridò di mollare il cavo incriminato. Che, per cautela, in maniera corretta si fosse portato a ridosso della costa proprio per evitare i colpi di vento, poggiando «in terra alla Castagna e procurò di mantenervisi all’aprirsi del vento col far orza al possibile». Circostanza, aggiunsero i periti, «che da vari testimoni esaminati in Chiavari viene anzi imputata a delitto del padrone; volendo questi ultimi, che in luogo di far orza dovesse poggiare, e far portare, prendendo il largo di più, le vele della filuca. Anche questo giudicio», ne concludevano, «è a noi sembrato affatto erroneo, sul riflesso primo che siccome risulta da tutti quasi i testimoni fiscali, che il vento che prima del naufragio si maneggiava dal padrone, era fresco di terra, sarebbe stato un error grave se in luogo di far orza avesse poggiato». Insomma, per i periti del tribunale, l’unica mancanza, che […] sarebbesi potuta attribuire al padron Raggio nel sinistro accaduto era quella di essere partito con un carico di passeggeri, che per lo più stanno sempre nell’estate lungo i corridori senza alcuna zavorra o carico corrispondente; ma anche a questa mancanza abbiamo veduto risposto dalle prove fiscali, da cui risulta che non usano le filuche di Chiavari ne mai hanno usato far zavorra per questi viaggi.
Dunque, tutti assolti? Aveva prevalso lo spirito di difesa corporativa degli uomini di mare? La documentazione reperita non ci consente di saperlo. Forse non si arrivò a sentenza e i due sotto inchiesta furono scarcerati, facendola franca, anche se, ancora oggi, il naufragio di ferragosto appare alquanto oscuro relativamente alla condotta del comandante e dei suoi marinai, i quali – secondo la testimonianza di Antonio Del Cervo, cameriere superstite del governatore Da Passano, presente a bordo della feluca Santissima Concezione il giorno del naufragio – erano poco attenti alle manovre da eseguire, perché «erano venuti sopra la prora con diverse donne che vi erano a cantare», pertanto nessuno fu in grado di tagliare la cima nel momento in cui arrivò il famigerato «torbiglione» di vento assassino5.
5. I verbali degli interrogatori si trovano in asg, cm, 423.
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5 La ricchezza dei marittimi: testamenti e inventari
I padroni e i capitani marittimi, a parte qualche caso sporadico, appartenevano al milieu della società dell’epoca, alla borghesia, per usare una terminologia forse un po’ logora, ma avevano uno stato patrimoniale molto diversificato a seconda del luogo di nascita, del tipo di famiglia e del gruppo clientelare al quale si riferivano. In generale poi, i padroni erano di un livello sociale più modesto rispetto ai capitani che, come già abbiamo evidenziato, erano legati, almeno nel caso ligure, a quelle casate che tra Sei e Settecento finanziavano attivamente l’armamento marittimo. Valutare il livello di ricchezza e la natura dei beni posseduti dai nostri comandanti è però molto complesso, perché raramente disponiamo di documentazione privata che, anche quando è presente, è composta da carte estremamente frammentarie e discontinue. Pertanto, per avere informazioni sui patrimoni e sui beni mobili e immobili posseduti, è possibile ricorrere unicamente alla fonte notarile, e più nella fattispecie ai testamenti, di rado corredati da inventari. Queste tipologie documentarie (testamenti e inventari), di cui hanno fatto largo uso gli storici e gli storici dell’arte, ci danno un’immagine unica, magari un po’ parziale, della vita quotidiana delle persone, della loro condizione, dei loro affetti, del rapporto con la religione e del legame con gli oggetti. A partire dal secondo Novecento, gli storici hanno cominciato a utilizzare in maniera corposa i testamenti e gli inventari in molte ricerche riguardanti la storia culturale e, soprattutto nel caso della storiografia francese, la storia delle mentalità1, così come evidenziato in un celebre studio di Michel Vovelle sulla déchristianisation in Provenza nel xviii secolo o nell’altrettanto noto Le peuple de Paris di Daniel Roche. Nel caso parigino, grazie agli inventari post mortem – in tutto 2.783 documenti – è stato possibile per 1. Labrot (1982, pp. 131-66); Vovelle (1997, pp. 22-7); Roche (1997, 1998); Emmanuelli (1999).
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il periodo compreso tra il 1600 e il 1790 capire, o almeno immaginare di ricostruire, lo spazio quotidiano nel quale abitavano le persone dell’epoca. L’inventario, in particolare, è «le document par excellence qui restitue le vécu quotidien, à travers les rapports des êtres avec l’espace, avec les objets de leur foyer»2. L’inventario, per contro, presenta dei limiti evidenti nella pratica storiografica: perché da una parte si tratta di una fotografia istantanea parziale, relativa a un momento ben preciso, dall’altra non ci fornisce indicazioni sulla vita del testatore e infine, come segnalava Daniel Roche, presenta aspetti selettivi dal punto di vista sociale, considerato che si trattava di documenti costosi e pertanto ad uso e consumo del ceto abbiente. In tutti i casi, sia i testamenti, facili da reperire negli atti notarili liguri, sia gli inventari, invece molto più rari, ci permettono di tratteggiare alcuni aspetti dell’organizzazione familiare e patrimoniale dei padroni e dei capitani “genovesi” del secolo xviii. Il padrone di Voltri Giacomo Vattuone di Vincenzo, all’ora del vespro del 13 marzo 1730, fece redigere dal notaio Nicolò Ferro il proprio testamento, nel quale molto semplicemente indicava erede universale di tutti i suoi beni la moglie Benedetta Preve, appartenente a una nota famiglia marittima di Laigueglia, piccola località della Riviera di Ponente. Alla consorte il padrone lasciò anche l’usufrutto della casa di Prà, che alla morte della donna sarebbe passata sotto l’amministrazione dell’Ospedale di Pammatone, principale nosocomio della Dominante. A questa prima e semplice versione del testamento ne seguì una seconda il 16 giugno dello stesso anno, allorché Giacomo Vattuone decise di lasciare alla moglie «tutte le di lui robbe di dosso, che ha in questa casa compresi tre anelli e due para d’oro», oltre ad una rendita di 2.000 lire, depositata nei conti di S. Giorgio, da elargirsi sulla base di 150 lire annue, purché la vedova non si risposasse. In quel caso il lascito sarebbe stato di una sola tranche da 400 lire. Infine, sempre alla moglie, lasciava «il suo letto, tre straponte, quattro para di lenzuoli di tela di casa, una coltre di filossela, altra d’indiana, una tavola rotonda, quattro scabelletti di vacchetta, tre cucchiari e tre forcine d’argento, il quadro di S. Francesco da Paola, altro di S. Antonio da Padova, e due altri piccoli con sue cornici dorati»3. Questi ultimi, supponiamo, fossero i preferiti del padrone, tra i numerosi quadri che erano appesi nella casa di proprietà. Una vera e propria moda, quella dei quadri, magari «di mano ordinaria o mediocre», che fin dal primo Seicento, partendo dalle case nobili, si era estesa 2. Pardailhé-Galabrun (1988, p. 26); Queinart (1979, pp. 241-55). 3. asg, Notai Valpolcevera, Nicolò Ferro, 555, n. 225 e n. 208 del 13 marzo 1730.
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a tutte le fasce sociali. Un’invasione artistica: tutti desideravano avere alle pareti santi protettori, paesaggi terrestri e marini, nature morte e ritratti di familiari, talvolta di pessima fattura4. Il resto del patrimonio, compresa l’abitazione di Prà, sarebbe spettato al figlio Vincenzo, a parte 25 lire, dono per la fedele serva Maria Aurelia Romairone. Le due versioni del testamento del padrone Giacomo ci mostrano una chiara frattura all’interno della famiglia, che diverrà ancora più marcata nella terza e ultima versione del 29 settembre 1730. Nel testamento finale il Vattuone, infatti, lasciava alla moglie Benedetta la solita rendita, scesa a 1.500 lire, e tutti i mobili e gli oggetti presenti in casa, mentre il restante, non meglio specificato, sarebbe spettato al nobile Ambrogio Negrone, pregandolo «ad assistere a detta Benedetta sua moglie acciò non le sia inferta alcuna molestia da chi sia». Forse una lite tra madre e figlio, alla base della nuova versione del testamento, lasciava privo di eredità Vincenzo. Non soddisfatto, il 17 ottobre, pochi giorni prima della morte, il padrone Giacomo faceva aggiungere un codicillo nel quale si designavano eredi della casa di Prà le due nipoti, Antonia e Pasqualina, figlie dell’odiato Vincenzo. Questi, il 21 ottobre, allorché venne aperto il testamento, fece apporre una nota nella quale si esprimeva contro le disposizioni del padre, dichiarandosi pronto a chiederne la nullità davanti al Senato della Repubblica. Nell’ultima versione il padrone indicava, per la prima volta, anche il luogo di sepoltura – la chiesa di Nostra Signora degli Angeli di Voltri – e le modalità di svolgimento del funerale: la messa sarebbe stata officiata dal prete della chiesa di Nostra Signora dell’Assunta di Voltri, accompagnato da sei sacerdoti della chiesa in cui sarebbe stato sepolto, dal padre guardiano della medesima e dalla moglie, ognuno dei quali avrebbe portato un cero da tre libbre di peso5. Qualche decennio dopo, sempre a Voltri, venne stilato il testamento del capitano Nicolò Tixi figlio del capitano Michele, appartenente a un’importante famiglia di capitani e costruttori di Arenzano. In questo caso, il testamento ci fornisce pochi dati sul patrimonio, ma molte informazioni sulla famiglia del capitano. Lasciava erede universale la «consorte Caterina Tixi durante però quando sia in abito vedovile e se passasse alle nozze se li dia la sua dote di più di lire cinquecento fuori banco per la buona compagnia a me fatta»6. Successivamente l’eredità sarebbe dovuta passare, sem4. Ago (2006, p. 137). 5. asg, Notai Valpolcevera, Nicolò Ferro, 555, n. 241. 6. asg, Notai Valpolcevera, Nicolò Gambino, 1410, n. 136, 5 novembre 1782.
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pre secondo i voleri del capitano, alla figlia Antonia, «nubile e che faccia buona compagnia a suo fratello Michele non dichiarandolo erede perché conosco che non è abile trovandosi debole di forte talento e di sensi». In caso di matrimonio – che però ci par di capire non del tutto desiderato dal padre – la figlia Antonia avrebbe ricevuto una cospicua dote di 6.000 lire fuori banco moneta di Genova, mentre altre 1.000 lire erano destinate come regalo alla seconda figlia Geronima, maritata con Giacomo Franzone. La cifra della dote del capitano Tixi ci segnala che la disponibilità di patrimonio dei capitani era nettamente superiore a quella dei padroni. In questo senso ci aiuta ancor di più il testamento del capitano Nicolò Romero di Giuseppe, deceduto a Viareggio il 25 febbraio 1762, che già alla fine del novembre 1748 aveva fatto redigere il proprio testamento dalla mano del notaio Gerolamo Silvano. «Perciò per il presente mio testamento, e disposizione d’ultima volontà ordino e voglio, che dopo mia morte di me e dei miei beni s’osservi, et adempisca in tutto come in appresso»: dopo aver stabilito che in seguito alla sua morte desiderava che si celebrassero in sua memoria almeno mille messe – in genere più si era benestanti e più era alto il numero di messe –, lasciava erede il suo unico figlio maschio Giovanni Battista ed erede usufruttuaria la moglie Nicoletta Peragallo, fintantoché fosse rimasta vedova. In caso di seconde nozze, invece, com’era consuetudine, le sarebbe stata restituita la somma della dote e tutto sarebbe passato esclusivamente al figlio Gio. Batta. Inoltre, alle due figlie Teresa e Caterina il capitano Romero lasciava per ciascuna 12.000 lire per la dote, e la stessa disposizione veniva confermata in caso di monacazione, secondo le disposizioni che avrebbe voluto la madre superiora del monastero prescelto. Infine, il capitano, dopo aver indicato suo fratello Giovanni Battista esecutore testamentario, stimò la sua corposa eredità in un patrimonio compreso tra le 100.000 e le 150.000 lire. L’opulenza dei capitani – ecco perché era difficile entrare in quella schiera ed ecco perché gli esami erano rigidamente controllati dalla stessa lobby – si palesa in un altro testamento del capitano di Arenzano Raimondo Valle, redatto questa volta dal notaio Paolo Francesco Repetto, un professionista noto per essere in stretti rapporti con il mondo dell’armamento marittimo genovese del xviii secolo. Il capitano Valle, dopo aver chiesto le solite mille messe, lasciava la scelta della sepoltura al suo esecutore testamentario, anche se supponiamo che la sede potesse comunque essere la chiesa parrocchiale di Arenzano, nella quale lo stesso capitano aveva fatto edificare la cappella di S. Antonio da Padova e istituito una cappellania con 220 lire annue. Oltre a ciò il capitano, celibe, lasciava agli 96
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eredi, il fratello Gio. Batta e i nipoti, tre appartamenti – dei quali due con magazzini sottostanti nella «contrada dell’ospitale» di Arenzano e uno a Genova – i cui mobili, con l’argenteria, spettavano nella fattispecie all’esecutore testamentario: il nipote reverendo Paolo Gerolamo Vento. Quest’ultimo, oltre alle incombenze, ereditava anche i beni derivati dalla dismissione della «fabbrica dei cavi» (per i non addetti ai lavori, le corde) che il capitano aveva a Sampierdarena7. Il fatto che i capitani appartenessero alla “borghesia ricca” di Genova o delle piccole località rivierasche è supportato anche dal testamento, datato 5 gennaio 1734, di Lelia Maschio, vedova del capitano Gio. Batta Lanfranco, lo stesso incontrato di sfuggita nelle avventure del capitano Campanella. La signora Lelia, dopo aver indicato il suo luogo di sepoltura a fianco al marito nella chiesa di Santa Maria della Pace di Genova, oggi scomparsa, e dopo aver provveduto a lasciare denari alla sorella, a un cugino e a una monaca di Nostra Signora del Rifugio, dichiarava che il patrimonio lasciatole dal marito ammontava a circa 100.000 lire, più altre 2.000 lire ricavate da un cambio marittimo stipulato dal Lanfranco a Cadice prima di morire, oltre a numerosi mobili e quadri acquistati dopo il decesso del capitano, la cui disposizione ereditaria sarebbe stata formalizzata in un atto notarile a parte8. La ricchezza patrimoniale dei capitani liguri, basata anche su molti quadri, arredi e oggetti d’argento, è ben visibile dal lungo inventario fatto compilare dall’esecutore testamentario di Stefano Moreno, figlio di Gerolamo di Sanremo. Dal documento si ricava una sorta di fotografia della casa del capitano, con tutti i suoi oggetti e, in questo caso, con il ricco tesoro di documenti lasciati che testimoniano l’attività imprenditoriale da lui esercitata nella seconda parte della vita, dopo aver accumulato capitali con i viaggi per mare9. Il giorno di martedì 5 maggio 1733, alla mattina, il notaio Saccheri e l’esecutore testamentario, il gesuita padre Massone, rotti i sigilli posti all’entrata della casa del fu capitano Moreno, ubicata nel quartiere di S. Stefano a Sanremo e non lontana dal Palazzo del governatore, entrarono in una sala con tre finestre, al centro della quale vi era un tavolo di noce con piedi «d’arabesco antico», contornato da quattro sedie dello stesso legno, e ai lati cinque sedie di paglia di Marsiglia. Vi erano numerosi quadri appesi alle 7. asg, Notai Valpolcevera, Paolo Francesco Repetto, 640, 8 gennaio 1735. 8. asg, Notai Valpolcevera, Paolo Francesco Repetto, 640, 5 gennaio 1734. 9. sassr, Archivio Notarile, Gio. Agostino Saccheri, notaio 100, 1023, 5 maggio 1733.
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pareti, quasi tutti a soggetto sacro, alcuni riguardanti episodi tratti dall’Antico Testamento – come «il sacrificio di Caino» –, altri invece riguardanti la passione di Cristo, come «la negazione di S. Pietro, con quattro figure, alto palmi quattro e mezzo in altezza e cinque e mezzo in lunghezza compresa la cornice colorita di mezzo palmo di pennello ordinario e copia». Al centro, però, erano collocati «due ritratti ornati rappresentanti uno il detto testatore, l’altro il capitano Gio. Batta di lui fratello, con cornice inargentata, et innerizzata di mezzo palmo, alti quattro, e nel resto a proporzione di pennello assai competente»10. Una volta terminata la visita nella sala, il notaio e il padre Massone passarono nella prima stanza, la cui finestra dava sul Palazzo del Governo, dove ritrovarono due tavolini piccoli e due tavoli di noce, uno rettangolare e uno rotondo, contornato da otto sgabelli molto usati e da altre due sedie uguali a quelle presenti in sala. Anche questa stanza era riccamente adornata di quadri tutti a soggetto sacro: il battesimo di Gesù, il martirio di san Lorenzo, la lapidazione di santo Stefano, san Giuseppe, santa Maria Maddalena e san Girolamo, tutti etichettati «di pennello ordinario e copie». La particolarità della stanza era che in questo luogo il capitano Moreno era solito lasciare la sua parrucca «usata con sua testiera». Di fianco a questa camera ve ne era una grande, in cui «non vi si è ritrovato niente» e subito dopo un’altra adibita a stanza da letto, considerato che qui vi era «un piccolo letto da campo, con sua testiera di damasco», lungo circa 1,68 metri, con intorno numerosi sgabelli, un altro tavolo di noce e due sedie. Due quadri lunghi adornavano le pareti, uno rappresentante la natività di Cristo e il secondo la sua salita al Calvario. Di lato, poi, trovavano spazio tre quadri più piccoli, nuovamente relativi alla «deposizione di Nostro Signore dalla Croce» e due «quadretti alla cinese, alti un palmo once quattro e largo once sei e mezza, rappresentanti uno la natività con otto figure picciole, l’altro rappresentante l’adorazione de Re Magi, con altre otto figure picciole, assai stranita e di pennello alquanto diligente»11. Terminata questa prima stanza da letto, forse concessa alla servitù oppure ad uso del riposo pomeridiano del capitano, si passava nella camera da letto principale, comprendente un letto grande di noce d’India contornato da tre quadri – uno con san Giuseppe, uno con san Francesco e uno con «Nostra Signora col Bambino» –, uno specchio e un reliquiario; alcune p. 2.
10. sassr, Archivio Notarile, Gio. Agostino Saccheri, notaio 100, 1023, 5 maggio 1733, 11. Ivi, p. 4.
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sedie e diversi sgabelli ne completavano l’arredamento. In questo ambiente il capitano Moreno teneva a portata di mano le armi da fuoco: due archibugi da caccia e un moschetto, ma anche «una sciabola alla turchesca con manico d’avorio bianco e con striscia d’argento». Infine, in un angolo, un vecchio «para acqua turchino» e su un tavolo il notaio vide e annotò una cassetta di vetro con dentro un limone e alcune mele, due cassette da «pesar monete» e un «portolano, o sia carta da navigare foderato di vacchetta rosso usato». Nell’armadio c’era tutto il corredo del capitano: lenzuola di tela di Parigi, tovaglie, sei macramé, diverse camicie da uomo e numerosi «gilecchi», di cui uno con le due parti imbottite all’uso di Marsiglia; e poi calzoni, giacche, di cui una vecchia «color muschio», berretti, cappelli, calze, scarpe, ma anche tovaglioli, guarnimenti per i letti, coperte: una di tela indiana e due con fregi di seta; qualche stoviglia, evidentemente rimasta in camera da letto, e il bacile con il quale il comandante si faceva la barba. Completavano l’arredo un orologio, alcuni tappeti, «un ecce homo di marmo d’altezza palmi quattro circa»12 e un libro di conti. L’appartamento del capitano era molto grande, tanto che attigua alla camera da letto principale trovava spazio un’altra piccola sala, nella quale vi era un quadro, alto 1,68 metri, raffigurante san Sebastiano «quale è copia di pennello competente», un baule e pochi altri oggetti. Da questa stanza si passava ad una nuova camera da letto, riccamente adornata di quadri, sempre a soggetto sacro eccetto una Venere e un altro con «una historia». Vi era poi un crocifisso piccolo di osso e uno grande di legno, vicini ad un letto «con quattro colonne di legno nero, con cortinaggio di saia bianca con sue trappe di ferro, lungo detto letto palmi otto et once tre e largo palmi sei e mezzo»13. Completavano l’arredamento un altro tavolo di noce, con sedie e sgabelli, due specchi alle pareti e tutto il necessario per il letto. Appoggiata al muro una spada con manico di ferro e disposti sul tavolo una bussola da navigare, un breviario e alcune altre mappe. Infine, un grande baule, contenente lettere, registri contabili e libri. Dalla documentazione contabile è possibile ricavare alcuni dati salienti della vita lavorativa di Stefano Moreno. Da un piccolo volume intitolato Libro de debitori apprendiamo che nel 1701 il Moreno era definito padrone marittimo e non capitano, mentre successivamente la denominazione cambiò, così come si modificarono i suoi affari, tutti orientati negli ultimi anni di vita al commercio dei limoni di Sanremo, quando con tutta eviden12. Ivi, p. 8. 13. Ivi, p. 10. Sulle abitazioni, i quadri e i mobili cfr. Ago (2006) e Sarti (1999).
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za non navigava più e si era trasformato nel tipico négociant: di primo fiore, alla tedesca, alla francese, all’italiana, secondo la tradizionale catalogazione che di questo frutto si dava nella zona compresa tra l’odierna Porto Maurizio e Nizza14. Da tale documentazione è inoltre possibile risalire alla rete di affari del capitano Moreno: quali erano i suoi referenti finanziari, quali erano i padroni e i capitani di sua fiducia; infine, qualche dato anche sull’attività di suo fratello, che nel 1705 risultava essere padrone di un bastimento diretto a Crotone. Assieme alla contabilità, nel baule il notaio ritrovò anche alcune mappe geografiche, due compassi da navigare in ottone e alcuni libri, tra cui segnaliamo una Storia del Regno di Valenza, la Nautica Mediterranea di Bartolomeo Crescenzio, una grammatica francese e diversi libri pure in francese «intitolati raccolta di operette e diverse scritture», segno di un’intensa frequentazione con i porti del Regno di Francia, principalmente con Marsiglia, dove i limoni si smerciavano bene verso il Nord Europa. D’altra parte, la lingua francese, ma più in generale una formazione linguistica adeguata, faceva parte del bagaglio culturale e professionale dei capitani, costretti a fare affari e a comunicare con persone che parlavano le lingue più disparate, tanto che, come è noto, nel Mediterraneo si utilizzava sovente un misto di italiano, spagnolo, provenzale, meglio conosciuto come lingua franca15. Numerosi altri oggetti erano distribuiti nella stanza, appoggiati al tavolo e in qualche caso per terra, tra cui da notarsi, in linea con la moda dell’epoca, «una scatola d’ottone da tabacco da fumare». Proseguendo l’inventario assieme al padre Massone e all’ormai esausto notaio, si entra in un’altra stanza, liquidata rapidamente, che potrebbe essere la cucina della casa, divisa però in due locali attigui, ricca di stoviglie. Pentole, piatti, bicchieri: la cucina era un tripudio di oggetti piccoli e grandi. Tra questi, lo sguardo dei due funzionari si pose su «due cioccolatiere vecchie» e «una caffetteria di lama stagnata» che ci indicano il gusto tutto settecentesco per queste bevande: la prima tipica della nobiltà e la seconda simbolo acquisito della dinamicità della borghesia mercantile, ma anche dell’aristocrazia illuminata. Al termine della visita alla cucina, il padre Massone e il notaio Saccheri, vista «l’ora assai tarda», decisero di proseguire l’inventario due giorni dopo; in realtà furono tre i giorni di pausa, in seguito ai quali effettuarono 14. Sulla produzione e sul commercio degli agrumi mi permetto di rinviare a Carassale, Lo Basso (2008). 15. Buti (2013, pp. 127-47); per la lingua franca cfr. Dakhlia (2008).
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la visita della bottega sottostante l’abitazione del capitano, dove ritrovarono numerosi contenitori per l’olio, segno evidente che il Moreno, oltre a commerciare limoni, si occupava anche della vendita dell’altro prodotto di punta della zona di Sanremo. Alla fine del percorso il notaio e l’esecutore testamentario procedettero all’inventario di un altro baule che il capitano aveva fatto consegnare al Rettore del Collegio dei Gesuiti prima della morte. Si trattava di un vero e proprio scrigno di ricchezze accumulate dal Moreno, con anche un certo gusto collezionistico: crocifissi, calici, acquasantiere, sottocoppe, candelieri, bacili, posate e molto altro ancora, tutto in argento. Completavano il tesoro del capitano: una catena d’oro e tre anelli, di cui «uno d’oro con pietra turchina con piccole scaglie di diamanti in numero di dodici», un altro «con sola pietra incastrata in argento, con cerchio d’oro, con pietra brillantata che si crede diamante» e un altro ancora d’oro con pietre false. A completare i beni lasciati vi era un’ulteriore cassetta piena di monete dell’epoca: scudi di Genova, pezzi da otto reali di Spagna, doppie di Francia, zecchini d’oro di Genova e di Venezia, livornine. L’inventario del capitano Moreno ci mostra la tipica figura di marittimo ligure, che dall’età di dodici anni circa, quando in genere avveniva il primo imbarco come mozzo, accumulava denari per poter diventare padrone marittimo, successivamente capitano di navi e alla fine della vita ricco négociant, grazie agli investimenti effettuati nello stesso mondo dello shipping. Il Moreno, probabilmente diventato capitano a Marsiglia, accumulò ricchezze con i commerci dei prodotti tipici di Sanremo – limoni e olio – e poi le utilizzò, come abbiamo visto, per acquistare oggetti d’arte, argenterie e beni preziosi. Fumatore, imparruccato, come prescriveva la moda alla francese dell’epoca, celibe, istruito, il capitano era particolarmente devoto, così come si ricava dallo smodato possesso di quadri dai soggetti sacri e oggetti liturgici in argento, nonché dal legame profondo che ebbe con tutta evidenza con la Compagnia di Gesù. Se gli inventari delle case dei capitani e dei padroni, assieme ai loro testamenti, costituiscono una fonte straordinaria per poterne ricostruire, anche meticolosamente, le vite, i gusti, le mentalità e perfino gli affetti16, al contrario meno efficaci ci appaiono gli elenchi dei beni lasciati a bordo dei bastimenti dai marittimi defunti, che ci permettono tutt’al più di conoscere la consistenza dei beni personali portati a bordo delle navi. 16. Cfr. il paragrafo Portrait et place du capitaine in Cabantous (1991, pp. 241-50).
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Poco presenti nelle fonti liguri e italiane in genere, tali elenchi sono stati usati dagli storici in area francese e spagnola17. A questo proposito mi riferisco al recente e interessante studio di Claire Boër, riferito ai beni lasciati dai marittimi provenzali, raccolti nei dossier degli Archives Départementales des Bouches-du-Rhône. In queste carte, conservate da ciascuna sede di ammiragliato, sono raccolti gli inventari dei beni trovati a bordo, redatti dallo scrivano alla presenza di un ufficiale superiore al momento del decesso del marittimo. Gli oggetti ritrovati, conservati di solito in un baule di legno, venivano recapitati agli eredi o venduti al pubblico incanto. In generale, i beni dei defunti comprendevano i capi d’abbigliamento, più lo «strapuntino», materasso o amaca, e oggetti vari personali, inerenti al proprio lavoro. Secondo uno degli inventari studiati dalla Boër, relativo al capitano di Marsiglia Antoine Isnard, nel baule vi erano alcune carte nautiche, il compasso da navigare, alcune clessidre e altri strumenti per la misurazione delle altezze degli astri. Inoltre, la dotazione del capitano prevedeva: un cappotto, alcune camicie, berretti, pantaloni, gilet e soprattutto il mantello, fondamentale per difendersi dagli elementi atmosferici durante le navigazioni18. Infine, nei bauli si trovavano spesso molti oggetti acquistati nelle località considerate “esotiche”, come i porti della Barberia, del Levante, dell’America o dell’Oriente. Da sempre i marittimi, più di altri, sperimentano culture diverse, le mescolano ibridandole e le fanno proprie, contribuendo alla conoscenza del mondo e dei popoli che lo abitano. Lo stesso avveniva, in maniera del tutto analoga, in area italiana. Dall’inventario stilato alla morte del marinaio veneziano Simone di Lucca, del 12 settembre 1713, «cascato in mare li 5 febbraio 1713 e passato a miglior vita», si ricava che la cassa ritrovata a bordo della nave del capitano Geronimo Oneto valeva solamente lire 30 e che conteneva quattro camicie, tre calze bianche di bombace, due calze, cinque fazzoletti colorati, un fazzoletto bianco, una pinta di stagno, tre camiciole, quattro calzoni, due «gipponi», un colletto turchino, due berretti, un paio di calze nere, tre paia di scarpe, due cravatte bianche, tre coltelli fiamminghi, una scatola di latta, un piccolo strapuntino, uno stuzzicadenti d’argento e due filippi in contanti. Inoltre, il marinaio veneziano doveva ancora ricevere 12 lire di paga, pari a 17. Tempère (2009). 18. Allo stesso modo, nell’inventario del capitano in seconda Louis François Guy de Lescouble di Bordeaux, deceduto in mare il 6 gennaio 1768, furono ritrovati: un mantello, un cappotto alla provenzale, quattro camice, due calzoni, due cappelli, due gilet, un cappello con la piuma, quattro paia di culotte, diversi fazzoletti di set, una coperta, una tabacchiera, più altri piccoli oggetti. adg, Amirauté, 6 B 2052. Boër (2016, pp. 118-27).
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mezza mensilità. Secondo la documentazione ritrovata, il marinaio veneziano, quando sbarcava a Genova, dimorava nell’osteria gestita da Antonio Oneto, forse parente del capitano, sita nella piazza del Molo Vecchio; e prima dell’ultimo viaggio aveva pagato all’oste un debito di 33 lire e 8 soldi per la pigione, per mezzo della vendita di due anelli d’oro, promettendo di saldare il rimanente al ritorno del viaggio. Per poter dimorare a Genova, anche solo per qualche giorno, bisognava chiedere il permesso (la bolletta) al Magistrato della Consegna, nel quale si specificava la durata del soggiorno e il luogo di residenza e in cui si precisava il divieto di portare «armi senza licenza altrimenti resti nulla, et oltre la pena delle armi incorra nelle pene tanto corporali come pecuniarie, che si danno a forestieri, quali dimorano in città senza bolletta»19.
19. asg, cm, 339, 12 settembre 1713. La povertà dei beni posseduti dai marinai è confermata dai numerosi inventari dei marittimi deceduti iscritti all’Amirauté de Guyenne: il 24 dicembre 1768 fu stilato l’elenco dei beni presenti nel baule del marinaio Martin Arpague, stimati per lire tornesi 32. Si trattava di pochi oggetti comprendenti: cinque camicie, un paio di culotte, un gilet, un cappello e un fazzoletto. adg, Amirauté, 6 B 2052.
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I padroni e i capitani liguri, sia che fossero eletti sia che fossero stati selezionati o istruiti, nel corso del Settecento dovevano essere esperti «di mercatura» e dovevano altresì sapersi districare tra i contratti più usati nel mondo dello shipping. Tra questi, oltre al semplice nolo1, in sostanza l’affitto della propria imbarcazione per conto terzi, le preferenze dei comandanti nel far fruttare l’“impresa nave” si rivolgevano principalmente agli antichi contratti di accommenda, colonna e cambio marittimo2. Queste tipologie contrattuali permettevano a padroni e capitani di frequentare non solo i grandi porti, ma anche, se non soprattutto, i piccoli scali, le spiagge e gli approdi sconosciuti, evitando il più possibile i dazi doganali e avendo pertanto più margine per esercitare il contrabbando. Si trattava a ben vedere di patti d’origine medievale3, dove il padrone marittimo era anche mercante. Potremmo perciò parlare di arcaismi funzionali e, forse per la seconda metà del Settecento, di “arcaismi innovativi”, se mi è concessa la contraddizione in termini. Secondo Carlo Targa, il contratto di accommenda «non è altro che un negozio assunto, da alcuno con denari, o robe avute da altri, da trasportarsi oltre mare in alcuna parte […] per doverne riportare il ricavato con partecipazione nell’utile, secondo i patti loro, in modo però che non si introduca società»4. In sostanza, il mercante metteva il capitale e il capitano l’imbarcazione e il lavoro. Al ritorno dal viaggio, dunque, il comandante aveva l’obbligo di dividere gli eventuali utili. Il rischio dell’investimento ricadeva sull’investitore. Si trattava di contratti già in uso nel xii secolo, dato che il * Una prima versione di questo capitolo si trova in Lo Basso (2011). 1. Sui noli cfr. ad esempio l’intera filza in asg, Notai di Genova, Prima sezione, notaio Nicolò Assereto, 917, 1775-79. 2. Sulle antiche origine medievali cfr. il recente Mignone (2016). 3. Scialoja (1946); Lattes (1939); Moschetti (1986, pp. 289-344); Piergiovanni (2001). 4. Targa (1803, p. 83).
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più antico conosciuto risale al 1073 e fu stipulato a Venezia. Questa tipologia contrattuale si diffuse, sia nella forma unilaterale sia in quella bilaterale, in tutto il bacino del Mediterraneo. Nonostante vi fosse una comunione d’interessi fra le parti, l’accommenda non raggiungeva la piena figura societaria, poiché non vi era l’atto di costituzione e di scioglimento, così come previsto nella forma bilaterale, societas maris, meglio nota con il nome di colonna5. Questo contratto sostanzialmente non è altro che un contratto di società particolare, qual si fa dal padrone di alcun ordinario vascello in mare, e i suoi marinai, con uno o più mercadanti in terra, nel quel il detto padrone pone il vascello, e i suoi accessori, i marinai espongono l’opera, la fatica, ed industria loro, ed i mercadanti vi pongono i denari, […] a utile, danno e risico comune, da riportarsi dove sono i medesimi mercadanti, e ripartire l’utile a parte secondo i loro accorsi6.
Con questa tipologia contrattuale si costituiva la società, ma in caso d’avarie i danni non erano addebitati ai marinai. È facile intuire come la colonna si prestasse in particolare ad essere utilizzata nelle piccole, ma attive comunità marittime delle riviere liguri, in particolare quella di Ponente, in cui 5. Astuti (1933); Puncuh (2006, vol. ii, pp. 813-47). 6. Targa (1803, pp. 88-9). Una chiara e puntuale spiegazione della colonna venne redatta dal prefetto del Dipartimento di Montenotte: «Si intendeva con questo nome l’unione di diversi interessati che sottoscrivevano un certo numero di azioni. Nella colonna vengono distinte le azioni dei bastimenti da quelle della colonna propriamente detta. Le azioni del bastimento o dello scafo valgono solo 400 franchi, perché lo scafo si deteriora di anno in anno; mentre le azioni della colonna valgono 500 franchi. Chi detiene un’azione dello scafo ne ha di solito due della colonna. Così un bastimento di 150 tonnellate per il carico dell’olio avrà generalmente trecento azioni, cioè duecento da 500 franchi per la colonna propriamente detta, e cento da 400 franchi per lo scafo. Inoltre ci sono trenta azioni per l’equipaggio e due per il capitano, i cui fondi sono fittizi, e che non rispondono delle perdite che può subire la colonna. Oltre alle trentadue azioni fittizie, l’equipaggio ha diritto all’utile lordo che deriva dalla compravendita di due barili e mezzo d’olio, e il capitano al doppio di tale utile. Dopo il viaggio, il capitano rende conto dell’acquisto, della vendita e delle spese. Tra queste ultime sono comprese le avarie, il costo delle cibarie eccetera. Il capitano del bastimento è amministratore unico e non ha consiglieri. L’utile netto, detratto il lieve guadagno assegnato al capitano e ad ogni uomo dell’equipaggio sulla vendita dei due barili e mezzo di olio, viene diviso in 332 parti, delle quali due spettano al capitano, trenta all’equipaggio, mentre le rimanenti trecento rappresentano il profitto degli azionisti» (Chabrol de Volvic, 1993, vol. ii, p. 315). Cfr. anche Brunengo (1983, pp. 1-28). La colonna era anche trasmissibile in eredità. Cfr. l’esempio di una mezza quota di colonna (lire 300), sul pinco di Diego Pagliano, lasciata in eredità dal padron Gio. Batta Preve q. Antonio. ass, Notai distrettuali, 2753, notaio Galeotto Preve, atto n. 8, 18 gennaio 1731.
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un po’ tutti ricoprivano, secondo le fasi della vita, la figura di marinaio, padrone o armatore-investitore. Con il contratto di colonna, quasi collettivamente, a gruppi, si poteva investire nei traffici marittimi. Spesso le colonne si formavano trovando gli azionisti all’interno della medesima comunità; in altre circostanze, invece, i soci erano “reclutati” nei diversi approdi liguri. Nelle comunità della Liguria non esisteva in pratica la differenza tra i mercanti e i marinai, ma sovente i primi appartenevano o provenivano dalle file dei secondi7. La colonna esigeva un’attenzione particolare alla contabilità di bordo. Il capitano o il padrone dell’imbarcazione, ogni volta che terminava un viaggio, doveva consegnare agli altri colonnisti «l’estratto conto in dare e avere». Così fece il padron Paolo Biga, comandante della tartana San Germano, “in colonna” con otto soci, al termine di un viaggio da Sanremo a Livorno il 25 novembre 1739. In “dare” furono registrati lire 3.000 di capitale, il 4% di cambio marittimo e le diverse spese per un totale di lire 3.211:6:8. In “avere”, invece, l’utile per il trasporto di tabacco, ceci, formaggio e altre merci di lire 2.589:12:4. In questa circostanza, il viaggio aveva prodotto una perdita di lire 621:14:4 che, ripartito per gli otto colonnisti, dava 74 lire e 12 soldi di debito per ciascuno8. Le colonne, molto di frequente, si costruivano tra i diversi padroni e mercanti delle Riviere. Uomini di mare e commercianti, infatti, durante l’esercizio lavorativo avevano l’occasione di conoscersi, frequentarsi, stringere amicizie, strategie commerciali e familiari. Da questi legami nascevano le società colonniste. In un atto notarile rogato in Laigueglia dal notaio Stefano Bonanato è possibile analizzare la composizione sociale dei colonnisti. Si trattava di una società costituita sulla tartana San Giuseppe del padrone Giovanni Gerolamo Micheli per trasportare olio meridionale verso i porti del nord Italia e verso Marsiglia. La colonna era composta da 26 soci per un capitale di 17.200 lire. Le quote variavano dalle 150 alle 2.400 lire. Per la stragrande maggioranza si trattava di molti esponenti delle famiglie marittime e mercantili di Laigueglia: cinque della famiglia Maglione, tre Preve, tre Musso (compresa una donna Maria Giacinta), due Garassino, un Pagliano. Vi erano poi colonnisti di altre località: i fratelli Garibaldi di Savona, Lorenzo Morgante di Livorno e Giacinto Semeria di Sanremo9. 7. Lo Basso (2007, pp. 83-109). 8. sassr, Notarile San Remo, notaio n. 91, Gio. Felice Saccheri, 963, atto n. 305. 9. sassr, Notarile San Remo, notaio n. 12, Stefano Bonanato, 48, atto n. 106, 8 marzo 1719.
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La diffusione del sistema delle colonne presupponeva – da parte del padrone – una solida preparazione contabile, tanto necessaria nella complessa articolazione della ripartizione degli utili tra i colonnisti e i caratisti e nella raccolta dei cambi marittimi. Il padrone dunque doveva tenere ordinati i conti alla fine di ogni viaggio. In genere, al momento dell’armo del bastimento si cominciava a redigere il libro di conti. Non era né un giornale né tantomeno un mastro, ma un semplice libro contabile organizzato in maniera semplice e intuitiva. Prendiamo d’esempio il libro di conti del padron Giovanni Andrea Preve figlio di Marco Andrea, appartenente a una delle più importanti famiglie di capitani-armatori di Laigueglia, piccola località della Riviera di Ponente. Nato nel primo decennio del secolo xviii, il nostro padron Giovanni Andrea morì nel 1773, lasciando al proprio figlio Giovanni Domenico la gestione degli affari di famiglia, tra cui anche la contabilità del proprio bastimento. L’attività contabile di Giovanni Andrea copre gli anni compresi tra il 1737 e il 1779. Come tutti i padroni rivieraschi, il Preve finanziava le proprie attività marittime con il sistema delle colonne, già largamente sperimentato dai padroni laiguegliesi nella pesca del corallo, durante il xvii secolo. Tutto il meccanismo era basato sulla fiducia. Il padrone-negoziantearmatore raccoglieva il capitale, derivato da una parte dalla quota (carati) degli altri compartecipi all’armamento e dall’altra dalla lista dei colonnisti (soci). I padroni dei bastimenti disponevano di un capitale, detto fondo, formato da un’indeterminata quantità di “parti” e “sottoparti”, ciascuna espressa in lire di Genova moneta di conto. Il padrone aveva pieni poteri nella gestione dell’impresa: raccoglieva il denaro, stabiliva le rotte, acquistava e vendeva la mercanzia e a fine viaggio suddivideva gli utili secondo la divisione delle “parti”. I marinai non erano salariati, ma partecipavano ad una parte del ricavo e inoltre godevano del permesso di trasportare e vendere merce per proprio conto10. Il libro di conti si apriva con l’elenco dei caratisti e dei colonnisti. Il padron Preve nel 1737 aveva avuto il comando del bastimento in cui era caratista il padre Marco Andrea per una quota di 1/8 e mezzo. Gli altri armatori erano: Giovanni Battista Maglione, Domenico Preve, Giovanni Battista Badarò, Gio. Stefano Musso, Giovanni Francesco Agliaro, Maria Camilla Siffredi, il reverendo Bonfante, Pietro Domenico Musso, Giovanni Batti10. Preve (1983, pp. 22-3).
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sta Musso, Bartolomeo Maglione e Giovanni Maria Archiano11. Inoltre, il padron Preve aveva raccolto dalla colonna 28.500 lire. Nel libro di conti, nella pagina di sinistra, si riportava l’elenco delle somme prese in colonna o a cambio marittimo, definite genericamente capitali, per ciascun viaggio intrapreso dal bastimento. Nella pagina di destra, invece, venivano registrati i ricavi del viaggio e, dedotto il capitale, si calcolava l’utile, a sua volta diviso in parti. Dalle pagine usurate di questi libri è dunque possibile ricavare il numero dei viaggi, la stagionalità, le rotte, i tempi, le destinazioni, i carichi e gli utili. Vediamo qualche esempio di scrittura del padron Preve, per capirne meglio il meccanismo: «1° settembre 1737. Capitale o sia colonna che fa patrone Gio. Andrea Preve con suo pinco per andare in viaggio a Dio piacendo» per un totale di lire 16681:9:5, raccolte in diverse monete d’oro e d’argento, di cui naturalmente viene specificato il cambio. Nella pagina di destra, sotto la più generale data 1738, si riportava: «ricavo che si fa dal di contro capitale per corallo e grano che sia venduto tra la Bastia e in Genova quale si è fatto li conti in Genova e deduttone il capitale [lire 16681:9:5] vi resta d’avanzo lire 9.500», che diviso in parti dava ai colonnisti un guadagno personale di 131 lire. Negli anni successivi il padron Preve compì diversi viaggi nel Levante, non sempre tutti tradottisi in utili per i colonnisti. Il 24 settembre 1738 il padron Preve si trovò a dover suddividere perdite per 459 lire, pari a 6 lire e 7 soldi per ciascun azionista. Il padron Preve intraprese, tra il 1737 e il 1762, ben 37 viaggi con destinazioni e rotte diverse. A parte il primo viaggio, limitato tra Bastia e Genova, e alcuni viaggi in Levante, a partire dal sesto viaggio, iniziato il 1° marzo 1739 e concluso il 18 maggio del medesimo anno, Giovanni Andrea Preve entrò nel business del traffico dell’olio meridionale, perlopiù diretto a Marsiglia. Tra il 3 luglio 1741 e il 3 dicembre 1755, padron Preve intraprese 17 viaggi tutti verso il Mezzogiorno per caricare olio. Dal 1741 prese a frequentare, sulla scia di uno stuolo numeroso di marittimi di Laigueglia, gli scali tirrenici della Calabria, con una preferenza per le spiagge delle Pietrenere, Palmi e Gioia. La rotta di ritorno, a parte qualche puntata verso Livorno, era diretta verso Genova o Marsiglia. Per i viaggi tra Genova e la Calabria, tra la data di raccolta del denaro e la chiusura dei conti intercorrevano circa sette mesi. Ma quali erano i guadagni del traffico dell’olio calabrese? Il 24 maggio 1740 il padron Preve raccolse una colonna da lire 29.230 e salpò con rotta verso la Calabria. Caricato l’olio successivamente trasportato e 11. app, Libro di conti del padrone Gio. Andrea Preve q. Marco, 1737-79.
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venduto a Marsiglia il ricavo del viaggio fu di lire 32.520:8:8. Da questa cifra bisognava dedurre il capitale e le spese, ammontanti a 244 lire e 88 soldi e che comprendevano: il dritto di Villafranca, la pigione del magazzino, la messa settimanale e le diverse elemosine. L’utile era dunque di 3.046 lire, da cui, detratto il diritto di portata dei marinai di 46 lire, risultava un netto di 3.000 lire da ripartirsi tra gli azionisti12. Sommando gli utili dell’intera carriera marittima del padron Preve otteniamo la ragguardevole somma di lire 396.771:04, a fronte di un solo viaggio in perdita (459 lire). Negli anni Settanta Giovanni Andrea Preve smise di navigare in prima persona e investì a sua volta numerosi capitali – in colonna – su diverse imbarcazioni di Laigueglia: 7.200 lire (12 parti) sul bastimento di Silvestro Maglione nel 1772 e poi una lunga collaborazione, iniziata il 16 agosto 1763, con il padrone Carlo Antonio Maglione. Insieme a quest’ultimo il padron Preve investì molto denaro a più riprese: 936 lire e 15 soldi in carati del nuovo pinco del padron Maglione, 6.000 lire in colonna, più altre 1.100 lire, sempre in colonna, aggiunte tra il 1773 e il 1775. Nel 1776, alla fine del rapporto tra i due, il padron Preve aveva avuto di utile 1.451 lire e 12 soldi. Il 13 aprile 1774 il padrone Domenico Antonio Maglione13 assistette al varo del suo nuovo pinco, progettato e costruito dal maestro d’ascia Giuseppe Craviotto, appartenente a un’antica schiatta di costruttori di Varazze, noti già a partire dal xvi secolo. All’epoca del varo del pinco del padron Maglione, mastro Giuseppe era uno dei più esperti costruttori della zona, giacché negli archivi notarili vi sono tracce di alcune sue opere fin dal 1748. Dopo la cerimonia del varo, benedetta dal parroco e condita dal consumo di focacce e vino bianco, il pinco del padron Maglione fu condotto davanti alla spiaggia di Laigueglia, dove l’avrebbero ammirato tutti i caratisti. Si trattava di diciannove individui, tra cui lo stesso padron Maglione e il padron Giovanni Andrea Preve. L’imbarcazione, divisa in 16 carati (solitamente erano 24), era costata in totale 33.200 lire, pari a 2.075 lire per carato14. Come era in uso tra i padroni rivieraschi, anche il padrone Maglione 12. Lo Basso (2011, pp. 61-6). 13. Domenico Antonio Maglione, figlio di Diego, nel 1781 aveva 43 anni ed era sposato con Emanuela Cordiglia di anni 28. Aveva altresì cinque figli: Caterina, Gio. Batta, Diego, Domenico e Bianca. Abitava nella casa di Giuseppe Musso ed aveva al proprio servizio di casa Benedetta Michera di 24 anni. ada, sez. Archivi Parrocchiali, Laigueglia, Parrocchia di S. Matteo, libro parrocchiale n. 35, stato delle anime del 1781. 14. app, Mastro di Domenico Antonio Maglione, 1774-89. Un caso di contabilità analogo lo abbiamo ritrovato per la nave Sant’Anna e San Biagio del capitano di Ragusa Marino Giubibratovich per gli anni 1757-71. dad, lvi Diversa navigationis libri navigiorum, 3.
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stipulò un consistente contratto di colonna sul proprio pinco. I colonnisti erano quaranta, compresi anche alcuni caratisti. Le quote erano di diversa entità: si andava dalle 300 lire (mezza quota), fino alle 19.800 lire investite dal reverendo Pier Domenico Musso, insieme a Giovanni Battista Musso. Consistente era l’investimento del nostro Giovanni Andrea Preve ed eredi per 6.000 lire. Padron Maglione si trovò ad operare nel periodo di massimo splendore della produzione olearia della Piana in Calabria, tanto che lo stesso viaggio inaugurale del pinco fu proprio a Palmi, dove venne caricato olio per un valore di 19.000 ducati napoletani dai signori Parpagliolo, i quali inoltre investirono nel viaggio a Marsiglia 1.820 ducati a cambio marittimo. Il carico fu venduto a destinazione per 129.524 lire tornesi, 13 soldi e 1 denaro. Considerato che il capitale in partenza era di 113.452 lire e che il ricavo, sempre espresso in moneta di conto di Genova, era di 151.788 lire, detratte le spese, si ebbe un utile di lire 25.644:12:6. La divisione avvenne in base alle 296 parti, così suddivise: 186 e 1/6 per i colonnisti, 80 per i caratisti, 28 e mezzo per i marinai e una parte per la parrocchia di S. Matteo a Laigueglia. Insomma, furono distribuite 88 lire a parte, più 188 lire riservate per la messa settimanale, per le elemosine e per il magazzino. In molti casi gli stessi mercanti laiguegliesi provvedevano ad assicurare i carichi d’olio e le imbarcazioni sulle rotte meridionali. Il nipote del nostro padrone Giovanni Andrea Preve, Domenico, nel primo quindicennio del secolo xix assicurò diverse imbarcazioni che salpavano dagli scali calabresi. Il 1° settembre 1815, ad esempio, venne assicurato un carico di liquirizia per un valore di 2.000 ducati al 5%, partito da Cassano allo Ionio e diretto a Marsiglia15. Si trattava d’altra parte di una consuetudine di origine medievale quella per la quale gli stessi operatori mercantili provvedevano ad assicurare i carichi marittimi. L’assicuratore era un singolo individuo dotato semplicemente di credito e di fiducia da parte degli investitori. Sebbene le prime compagnie d’assicurazione fossero già sorte a Genova, si preferì guardare ancora a lungo agli operatori singoli, considerati più affidabili anche perché conosciuti personalmente all’interno del mondo mercantile. Insomma, tutto il meccanismo commerciale e creditizio alle soglie del mondo contemporaneo si basava sulla conoscenza diretta e sulla fiducia reciproca, all’interno di un ristretto gruppo di famiglie tutte provenienti dalla medesima zona16. 15. app, Libro di conti di Domenico Preve q. Gio. Andrea, 1815. 16. Tenenti, Tenenti (1985); Giacchero (1984); Addobbati (2007); Lo Basso (2011).
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Se la colonna aveva goduto di largo uso soprattutto nelle marinerie liguri, il cambio marittimo fu il metodo di finanziamento più diffuso fra la gente di mare in tutto il globo e il più longevo. Si trattava in sostanza di un prestito – un mutuo – ad alto rischio e ad elevato lucro. Secondo il solito Carlo Targa: Per cognizione di esso, incominciando dal nome, e sua definizione, devesi sapere non essere altro, se non un contratto di denaro trajetizio, quale alcuno dà a suo risico ad un altro per valersene in trafichi oltremare. Per altro modo, e vocabolo si nomina denaro dato a usura nautica; perché quello che lo dà, prendendo dal ricevitore nella restituzione qualche cosa più del capitale in riguardo all’uso del denaro, e pericoli che si assume, così per patto fra loro17.
L’investitore prestava il capitale all’operatore marittimo, per un dato viaggio o per un periodo di tempo predeterminato, ottenendo a conclusione del contratto, a suo esclusivo rischio e pericolo, sia la restituzione del capitale sia gli interessi annui maturati, anch’essi prestabiliti alla stipula del contratto. A garanzia il ricevitore ipotecava il corpo, i noli del bastimento e le eventuali merci caricate. Il Targa si premurò anche di spiegare perché nel corso del xvii secolo tale contratto venne definito cambio: La causa poi, per la quale i nostri antichi l’abbino denominato cambio, altra non è, né può procedere da altro, se non che essendo stato introdotto per sussidio de’ trafficanti in negotj oltre mare, chi dava il denaro, l’aveva da rimborsare, o farlo ricevere altrove; e siccome questa moneta era differente da quella del rimborso, perciò questa contrattazione si denominò cambio del cambiare, e si denominò marittimo, perché si dà per oltre mare18.
Gli operatori marittimi, oltre a prendere denari a prestito per finanziare l’impresa, ipotecando l’imbarcazione, i noli e le merci, prendono denari a questo titolo per non correre tanto risico sopra il fatto loro; perché fatto conto de’ costi per assicurarsi de’ rilasci per scuodere anticipatamente in caso de’ sinistri, del risico di mali assicuratori, de’ dispendi, gabelle, ed altro per farsi assicurare i vantaggi che hanno le buone lettere negli utili di cambio, e l’avere in suo potere il denaro, che in tanto pendente il termine del cambio vanno con17. Targa (1803, p. 73). 18. Ibid.
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trattando; torna loro più ad utile prendere capitale a questo titolo, ed assicurarsi indirettamente, che farsi assicurare direttamente19.
La spiegazione di ciò era dovuta proprio all’assunzione di tutti i rischi da parte del prestatore. Il padrone o capitano, difatti, in caso di sinistro, non doveva restituire il capitale all’investitore. Ecco perché spesso il prestito marittimo è stato letto come analogo al contratto di assicurazione, mentre in realtà esso era l’esatto contrario e la «differenza fondamentale fra le due figure consisteva nel fatto che mentre nel cambio marittimo prendeva a mutuo chi doveva compiere l’impresa marittima, nell’assicurazione assumeva la figura di mutuante chi doveva compire la spedizione marittima»20. Carlo Targa, tuttavia, specificava meglio che il cambio marittimo era da scomporsi in tre contratti, tutti leciti: Il primo è una esposizione di denaro in partecipazione all’impiego da farsi con esso, perché chi lo dà su corpo, e noli, presuppone lo debba impiegare in bastimenti, e provvistare della nave; chi lo dà sopra robe, e merci presuppone lo debba impiegare in compra, e vendita, o baratte di merci, dall’uno e l’altro de’ quali impieghi avendosi secondo la presupposizione a cacciar utile chi prende il denaro, o implice, o esplice viene a partecipar con datore, o sia cambista in quello impiego pro rata della somma data. Il secondo contratto è di una implicita vendita che fa il datore al ricevitore (l’ipoteca), dell’utile che pro rata gli spetterebbe nella partecipazione assegnata per un tanto per togliere l’obbligo del rendimento di conto […]. Il terzo contratto – infine – è di assunzione de’ rischi, come assicuratore che si fa il ricevitore del denaro a questo cambio, il quale pure contratto è lecito, approvato, e quotidiano21.
La separazione del prestito in tre parti garantiva il cambio marittimo dall’accusa di usura, considerato gli elevati interessi richiesti, in età moderna oscillanti tra il 6 e il 50%, a seconda delle rotte e delle stagioni e del periodo storico. Naturalmente il cambio marittimo funzionava grazie alla fiducia che il prestatore aveva nei confronti del padrone, del capitano o del mercante. In caso di mancato adempimento del contratto, quando cioè il ricevitore, terminato il viaggio o il periodo predeterminato, non restituiva nei tempi prestabiliti – di solito quindici giorni – il capitale più gli interessi, che in genere venivano richiesti dal prestatore in due rate semestrali, 19. Ivi, p. 72. 20. Assante (1979, p. 55). 21. Targa (1803, p. 74).
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il ricevitore poteva essere citato in giudizio davanti ai giudici del tribunale marittimo competente. All’epoca del Targa il cambio marittimo era ormai uno strumento di credito molto diffuso in ambito commerciale, tanto da essere diventato il metodo di investimento più utilizzato sia nei traffici a corto e medio raggio sia lungo le rotte transoceaniche come la Carrera de India. Tale sistema creditizio, in larga misura, ma non esclusivamente, di natura informale, aveva alle sue spalle una storia millenaria, giacché si possiedono tracce riferite al iv secolo a.C., anche se taluni studiosi ne rintraccerebbero le origini addirittura qualche secolo prima. La sua nascita – sostiene Gianfranco Purpura – «dovrebbe essere connessa con la genesi degli emporía, del commercio individuale nel Mediterraneo e quindi, come accordo specifico tra privati dal quale deriverà il nautikòn dáneinon e la pecunia traiecticia»22. La sua diffusione in epoca greca come prestito ad interesse, calcolato sul guadagno del viaggio marittimo, è attestata nelle cinque orazioni di Demostene del iv a.C.: contro Zenotemide (xxxii), contro Apaturio (xxxiii), contro Formione (xxxiv), contro Lacrito (xxxv) e contro Dionisodoro (lvi)23. All’epoca di Demostene, in genere, il contratto intercorreva tra due soggetti privati, ma in molti casi subentrava anche un terzo soggetto, un intermediario. Il prestito, come accadde successivamente in epoca medievale e moderna, era eseguito ipotecando la nave o il carico, o entrambi, per un singolo viaggio o per uno di andata e ritorno. Il tasso d’interesse era variabile e non fisso, come sarà in epoca giustinianea quando venne definitivamente fissato al 12%. In epoca greca l’interesse si modificava a seconda del tipo di viaggio, della rotta e della durata; oscillava solitamente tra il 20 e il 30%. Il datore, in caso di mancato adempimento da parte del ricevitore, poteva ricorrere al tribunale commerciale del Pireo, mentre in epoca romana tali cause furono invece di competenza dei tribunali ordinari. Le analogie tra il sistema greco e quello moderno suggeriscono l’estrema funzionalità che il contratto di prestito marittimo ebbe nel corso dei secoli. Nel successivo Medioevo il cambio marittimo si diffuse nelle città mercantili portuali, lasciando importanti tracce soprattutto nei documenti notarili di Genova e Venezia, dove tale contratto si impose appieno tra il xiii e il xv secolo. Lo ritroviamo anche negli statuti di Trani del xi secolo e successivamente nei Rôles d’Oleron del xii secolo e nei successivi statuti di 22. Purpura (1987, p. 195). 23. Ivi, p. 202.
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Bari e Marsiglia del xiii secolo24. Il contratto medievale derivava direttamente da quello greco-romano, anche se occorre precisare – come fa Dino Puncuh in suo lungo saggio dedicato alla contrattistica commerciale – che se l’ipoteca sulla nave o sulle merci non era sufficiente a garantire il prestito, il creditore poteva rivalersi anche sul patrimonio generale del ricevitore: de terris et casis meis et de omnibus quae habere visus sum in saeculo o que modo habeo vel que in antea habere visus fuero in hoc seculo, nei documenti veneziani; omnia bona mea habita et habenda in quelli genovesi e catalani; omnia bona nostra presentia et futura in quelli marsigliesi25.
Slegato dal tasso fisso giustinianeo, il contratto medievale tornava ad avere tassi compresi tra il 20 e il 30%, variabili come sempre a seconda della rotta, del bastimento e del tempo, prefissati al momento della stipula. Il contratto, in qualche modo derivante dalla singrafe attica, veniva redatto in forma di obbligazione davanti a un notaio e alla presenza, oltre che dei contraenti, anche di testimoni, e vi si indicavano tutti gli estremi del viaggio marittimo. Il termine di pagamento oscillava nei documenti veneziani e genovesi tra gli 8 e i 30 giorni, ma più in generale la forbice si restringeva tra i 15 e i 20 giorni dall’arrivo della nave nel porto di destino. Nei contratti genovesi redatti da Giovanni Scriba nel corso del xii secolo troviamo anche la formula secondo cui già durante il viaggio il ricevitore poteva restituire il capitale ed estinguere così il debito. In caso di mancato adempimento, il prestatore otteneva la proprietà del bene ipotecato. Nella successiva età moderna, lungi dall’essere abbandonato, il cambio marittimo trovò una nuova linfa nell’ambito dei traffici mondiali successivi all’era delle grandi esplorazioni, così come ci indica Bernal nel suo celebre studio sul finanziamento della Carrera de Indias: Del Egeo al Báltico, de la isla de Rodas a la de Gotland, la financiación del tráfico marítimo con dinero a riesgo de mar fue una práctica común y constante de las plazas portuarias de Europa de todos los tiempos, desde la antigüedad clásica hasta principios del siglo xx, cuando otras fórmula crediticias la desplazaron26.
24. Bernal (1992, p. 33). 25. Puncuh (2006, vol. ii, p. 806). 26. Bernal (1992, p. 27).
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Insomma, il prestito marittimo divenne «el niervo del comercio marítimo europeo»27 per tutta l’età moderna. Dall’area mediterranea il cambio marittimo si diffuse rapidamente sia in quella baltica sia nei Paesi Bassi e nelle isole britanniche. Nel mondo anseatico si trovano tracce di tale contratto già nei documenti del xiv secolo, con le denominazioni bomeren, bodmerie, bomerie, bodmerij, bottomry; tutti derivati dal tedesco bodemen, che significava prestare denaro sopra il carico o l’imbarcazione. Notizie certe della diffusione del prestito marittimo si hanno nelle leggi marittime di Visby, piccola città dell’isola di Gotland, datate 1320; e successivamente nella legislazione di Lubecca del xv secolo. L’estrema diffusione nell’area anseatica si prolungò anche nell’età moderna, considerato che nella raccolta delle leggi di Amburgo del 1603 compare il titolo xviii denominato Bon Bodemeren. In area scandinava prese il nome di bodmeri-balt e fu regolamentato nel Codice marittimo svedese del 1667 e in quello danese del 1683. In area fiamminga, invece, il prestito marittimo subì, dal punto di vista normativo, l’influsso francese, mentre dal punto di vista terminologico, quello tedesco. Con il nome di bodemery lo ritroviamo nella raccolta di leggi di Amsterdam del xv secolo, così come nelle raccolte di Dordrecht del 1533 e del 1549. Meno informazioni possediamo sulla sua diffusione in area britannica, dove come è noto non furono compilate raccolte di leggi scritte. Tuttavia sappiamo dalla giurisprudenza accumulatasi nel corso dei secoli che il prestito marittimo, sotto il nome di bottomry, era molto diffuso a sostegno della navigazione commerciale. Infine, in Francia il prestito di mare si affermò nello stesso periodo in cui si diffuse in Italia, come dimostrato dal fatto che lo troviamo nella legislazione francese già nel xii secolo; conobbe poi una straordinaria fortuna, così come in tutto il mondo, nel corso del Settecento, quando ormai veniva chiamato prêt à la grosse aventure, ma anche contrat de bômerie o argent à profit ed era considerato comunemente un «instrument ancien, simple et efficace»28. Presente, come accennato, nei Rôles d’Oleron – secondo la tradizione compilati già nel 1160, anche se la copia più antica conosciuta risale al 1266 – e negli statuti di Marsiglia del 1255, il prestito marittimo trovò una sua piena regolamentazione nell’Editto dell’ammiragliato del 1584 e 27. Ibid. 28. Cabantous, Lespagnol, Péron (2005, p. 291). Cfr. i numerosi contratti registrati dall’ammiragliato di Marsiglia in adbr, Amirauté, 9 B 7, tra i quali, ad esempio, il cambio marittimo di lire 200 stipulato tra Jean Lamer e il capitano Antoine Martin, al 9% di interesse, sul pinco St. Honoré, 2 aprile 1721.
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poi definitivamente nell’Ordonnance de la Marine del 1681. Nel corso del xviii secolo il cambio marittimo accompagnò lo sviluppo economico dei porti di Nantes, La Rochelle e Bordeaux, oltre ad essere per consuetudine molto usato a Marsiglia e in tutta la costa provenzale, sia sulle rotte del piccolo e medio cabotaggio sia nei traffici con il Levante. Trattandosi di uno strumento finanziario socialmente flessibile, il prestito marittimo si impose trasversalmente, adattandosi tanto al ceto abbiente quanto al ceto popolare. Nel caso dei grandi investitori, ad esempio i finanzieri genovesi del Seicento, le somme investite erano molto consistenti: nei registri contabili privati o negli atti notarili genovesi è facile imbattersi, nella seconda metà del xvii secolo, in cambi marittimi investiti da importanti membri di spicco dell’oligarchia genovese, impegnati all’epoca in un nuovo slancio economico in seno alla monarchia spagnola come anche nel tentativo di rilanciare i traffici con il Levante mediterraneo, settore strategico per l’economia mondiale. Le somme impiegate dai patrizi genovesi erano notevoli e spesso venivano versate tramite intermediari professionisti, sia sulle rotte di medio e lungo corso sia nel caso del piccolo cabotaggio29. Quando i capitani ricevevano molti denari a cambio marittimo da diversi investitori, alcuni dei quali a loro volta erano anche dei mediatori per conto di altri prestatori, facevano redigere un solo atto notarile in modo da poter aver un unico prospetto e un unico conto. È il caso del capitano Biagio Marino, che prima di partire per un viaggio in Levante e a Cipro si fece prestare, a partire dal 7 febbraio e fino al 5 marzo 1682, 62.930 lire da venti «cambisti» diversi, sei dei quali (Cosmo Bogliar, Paolo, Gregorio e Pantaleo Ferrari, Felice Germano e Francesco Micone) erano a loro volta mediatori. Le somme investite oscillavano tra le 1.000 lire di Ottavio Ferrari e le 5.000 lire di diversi investitori, tra cui Ottavio Centurione, che peraltro si serviva della mediazione di Domenico Costa, così come appare dall’atto notarile stipulato il 5 marzo. Il contratto prevedeva un interesse annuo del 16%, da restituirsi assieme al capitale in un periodo compreso tra sei mesi e un anno dal giorno della partenza da Genova della nave del capitano Marino30. Il cambio marittimo, oltre ad essere un valido e flessibile investimento a sostegno della navigazione commerciale, era altresì tra xvii e xviii secolo 29. Lo Basso (2016, pp. 81-105). 30. asg, Notai Antichi, notaio Alessandro Alfonso, 9176.
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un ottimo sistema di finanziamento della cantieristica navale, delle attività piscatorie e del riscatto degli schiavi. Costruire navi necessitava di capitali cospicui, soprattutto nel caso di grandi unità e per questo il capitano, che spesso era anche il caratista di maggioranza, ricorreva massicciamente ai prestiti marittimi. Nella Liguria della seconda metà del Seicento e del Settecento il meccanismo di finanziamento tramite i cambi marittimi permise alla cantieristica di svilupparsi notevolmente, soddisfacendo la domanda di grandi navi, necessarie per le rotte di lungo corso, riattivate in quegli anni dal ceto dirigente della Repubblica desideroso di speculare sui grandi traffici mondiali all’interno dell’antico sistema imperiale spagnolo, attivando però nuove e proficue alleanze economiche con operatori olandesi, inglesi e francesi. Ricordo che a partire dai primi anni Sessanta, in contemporanea con la ripresa dei traffici con il Levante, grazie alla firma delle capitolazioni con Istanbul del 1665 e con il controllo dell’asiento degli schiavi in Atlantico, i finanzieri genovesi investirono somme considerevoli nell’acquisto di carati di grandi navi e nei cambio marittimi a sostegno della costruzione delle medesime31. Prendiamo il caso di Francesco Maria Sauli. Dal suo libro giornale degli anni 1665-71 è possibile ricavare alcuni esempi di tali investimenti. In sostanza, l’investitore prestava a cambio marittimo una certa somma al capitano, già durante il periodo di costruzione della nave, a un tasso d’interesse piuttosto basso (6-8%), in modo da sostenere la conclusione rapida dei lavori di allestimento e giungere al varo; l’interesse del prestito sarebbe salito successivamente, adattandosi ai piani di navigazione scelti dal comandante. Il nostro Sauli, infatti, il 28 aprile 1665 prestò 200 pezzi da otto reali al capitano Bartolomeo Rapallo per doverne correre io il rischio sopra corpo et apparati di sua nave che al presente si fabbrica nella spiaggia di Arenzano nominata San Nicola per un anno che comincerà dal giorno che la suddetta nave gettata in mare per dovermene pagare interesse a ragione di 34 per 100 l’anno da pagare di quattro mesi in quattro mesi la terza e nel mentre starà ad avanzarla mi debba pagare solo d’interesse a ragione di 6 per 100 l’anno32.
Poche settimane dopo lo stesso Francesco Maria investì altri 200 pezzi da otto reali, con il medesimo meccanismo della San Nicola, sulla nave in co31. Lo Basso (2015a, pp. 137-55). 32. adgg, Archivio Sauli, n. 906.
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struzione di un altro capitan Rapallo, Gio. Andrea – sempre di Arenzano33. Ed ancora, sempre per navi in costruzione ad Arenzano: il 17 agosto 1665, altri 200 pezzi al capitano Domenico Savignone per il completamento della costruzione della nave San Domenico di Soriano; il 15 novembre, ancora 200 pezzi al capitano Sebastiano Tixi; il 4 dicembre, ancora 200 pezzi ai capitani Domenico Seigunto e Domenico Tixi; e infine, il 7 dicembre, gli ultimi 200 pezzi al capitano Lorenzo Rapallo sul petacchio Divino Aiuto. In totale, nel 1665 il Sauli investì 1.200 pezzi da otto reali nella costruzione di sei nuovi bastimenti destinati al traffico di lungo corso, che collegava le coste atlantiche al Levante mediterraneo. Il mondo della pesca, per finanziarsi, a partire dal Medioevo utilizzò a piene mani il prestito marittimo, e in particolare se ne trovano riscontri storiografici per l’area adriatica nell’opera di Maria Lucia De Nicolò. In termini economici e di impiego della forza lavoro, la pesca aveva un influsso eccezionale sulle comunità rivierasche. I prestiti, in genere, erano stipulati per la durata di un anno e con un interesse valutato sulla base del singolo compenso corrisposto ai marittimi coinvolti nell’attività piscatoria34. Anche nella versione per la pesca, in caso di naufragio il cambio prevedeva che tutto il danno ricadesse sulle spalle dell’investitore, mentre per i sinistri minori il danno era conteggiato per una quinta parte del valore delle reti e degli attrezzi. Il cambio marittimo per la pesca si diffuse anche in altre aree marittime e se ne trova traccia nella documentazione notarile ligure del xviii secolo: si prenda ad esempio il prestito effettuato da Stefano Bonavia al padrone Gio. Batta Garibaldo il 7 luglio 1726, di lire 500 «sopra il suo gozzo da pesca posto nella presente spiaggia di S. Stefano per due anni prossimi per causa di pescare nelle presenti rive a ragione di 20%»35. Il cambio marittimo, tanto era flessibile nella sua applicazione, trovò un utilizzo anche nelle operazioni di riscatto degli schiavi detenuti nelle Reggenze barbaresche dell’Africa del Nord. Il meccanismo era molto semplice: in sostanza, il mediatore che si occupava economicamente del riscatto pretendeva, in cambio del servizio prestato, guadagni sull’operazione nell’ambito della quale vi era anche il prestito marittimo sul viaggio verso casa dello schiavo liberato. È possibile reperire molti esempi di questa operazione nella documentazione del Magistrato per il riscatto degli schiavi della Repubblica di Genova, istituzione creata alla fine del xvi secolo per 33. adgg, Archivio Sauli, n. 906, 14 maggio 1665. 34. De Nicolò (2004, pp. 291-2). 35. sassr, Notarile San Remo, notaio n. 31, Sebastiano De Siffredi, 269, n. 239.
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coordinare tutte le procedure utili alla liberazione dei sudditi genovesi detenuti in schiavitù nell’area ottomano-barbaresca. La magistratura ligure cercò nel corso dei secoli di limitare il più possibile le spese di intermediazione e all’inizio del xviii secolo fissò l’interesse del cambio marittimo tra il 12 e il 15%. In diverse circostanze i provvisori di questa istituzione si premurarono di ricordare agli intermediari che non avrebbero pagato oltre il 15%. Come sempre, tutti i rischi ricadevano sull’investitore, tranne in caso di morte naturale del riscattato durante il viaggio36. La percentuale veniva applicata sull’ammontare del primo costo più le spese del riscatto. Il 13 aprile 1709, ad esempio, fu pagato il riscatto di Antonio Giraldo di Alassio, ex schiavo ad Algeri: la cifra pattuita tra il vicario apostolico Duchesne e il padrone dello schiavo Sydy Abraam Baudarba era di 120 pezzi da otto reali; inoltre, si sborsarono altre 59 pezzi per le diverse spese. Sul totale di 179 pezzi venne applicato il cambio marittimo a ragione del 15%, costituito perciò da 27 pezzi, pertanto il prezzo finale della libertà fu di 206 pezzi da otto reali37. Ed ancora, a mo’ di esempio, il 17 marzo 1710 il medesimo padre Duchesne riscattò ad Algeri il captivo ligure Lorenzo Stalla di Alassio per 199 pezzi da otto reali, di cui 26 scaturivano dal cambio marittimo al 15%. La somma sarebbe stata sborsata dall’istituzione genovese a Nicolò Maria Castro per conto del mercante ebreo di Livorno Semati Coen Chomoel, che a sua volta avrebbe risarcito ad Algeri il proprietario dello schiavo Mostafà Carbachiri38. Elastico, semplice e adattabile ad ogni circostanza, il cambio marittimo divenne il metodo di investimento dei ceti medi, in grande sviluppo nei piccoli borghi mediterranei. Ancora una volta il caso ligure ci viene in soccorso come paradigma. Tra la fine del xvii e la fine del xviii secolo, nelle due Riviere vi fu una crescita sociale di molte famiglie legate al mondo dei commerci marittimi. Per caratteristiche e forza economica non si può parlare di négociants alla francese, perché nella maggior parte dei casi si tratta di marinai e padroni marittimi, diventati commercianti ed armatori di piccolo e medio cabotaggio, solo talvolta legati a circuiti mercantili di più ampio respiro al seguito di alcuni prodotti locali che ebbero fortuna sui mercati internazionali, come gli agrumi e l’olio dell’estremo Ponente39. Proprio in questa zona, ma anche nel medio Ponente, sia in borghi medio36. asg, Riscatto schiavi, reg. 148, 7 maggio 1708. 37. asg, Riscatto schiavi, reg. 194, 13 aprile 1709. 38. asg, Riscatto schiavi, 17 marzo 1710. 39. Carassale, Lo Basso (2008).
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grandi (come Sanremo) sia in quelli piccoli (come Laigueglia, Santo Stefano, Celle), molte famiglie aumentarono le risorse economiche e la posizione sociale nel giro di due o tre generazioni grazie al commercio marittimo40. Partendo dall’impiego come semplici marinai – dopo aver iniziato come mozzi in età infantile41 – erano molti a diventare padroni marittimi e successivamente piccoli armatori e proprietari terrieri. Tale crescita si amplificò notevolmente nel corso della seconda metà del xviii secolo, quando molti di questi padroni marittimi si trasformarono in commercianti a medio e lungo raggio, pur mantenendo importanti investimenti nell’armamento marittimo locale, vincolato alle consorterie famigliari. Alcuni, infine, riuscirono anche ad entrare nella grande politica (i Maglione, ad esempio), a seguito delle trasformazioni democratiche, dopo la caduta del mondo dell’antico regime. Le crescite sociali, qui appena accennate, furono possibili proprio anche grazie al massiccio ricorso al cambio marittimo. Nelle piccole comunità mercantili rivierasche, chiunque avesse a disposizione un piccolo capitale poteva investirlo, con un po’ di rischio, nei viaggi marittimi, ottenendo in maniera semplice lauti guadagni. Certo, le somme impiegate non erano paragonabili a quelle viste per i grandi finanzieri di Genova, ma poche decine o centinaia di lire potevano essere più che sufficienti per un comodo e lucroso investimento. Il meccanismo poggiava esclusivamente sulla fiducia reciproca tra gli investitori e i padroni marittimi, il cui legame nelle piccole comunità rivierasche era cementato dai rapporti familiari. Anzi, quasi sempre, i legami matrimoniali favorivano ulteriormente lo sviluppo commerciale e finanziario degli operatori. Ciascun padrone marittimo, prima della partenza, raccoglieva un certo numero di prestiti che lo avrebbero messo nelle condizioni di far fruttare la spedizione marittima. Tutto ciò, come bene evidenziano molti documenti coevi, creava in certi casi situazioni di dipendenza debitoria tra alcuni padroni e i diversi investitori tali che i primi erano costretti per anni a dover pagare gli interessi ai secondi. Insomma, se in mol40. Lo Basso (2011, pp. 41-72); Buti (2010). 41. All’epoca l’età tipica dei mozzi si aggirava tra i 10 e i 12 anni. Sebbene la percezione nel Settecento fosse diversa rispetto ai giorni nostri, si segnala però che molti di questi fanciulli, proprio a causa della loro giovane età, si perdevano nei primi viaggi. Ci racconta uno di questi tristi episodi il padrone Gio. Batta Bottino di Sanremo, il cui figlio di 12 anni si era imbarcato come mozzo sulla barca del padrone Gio. Batta Rambaldo e sbarcando a Porto Torres, per colpa del padrone stesso, si perse «senza pane, ne roba, ne denari». Il padre chiese che il padrone Rambaldo fosse condannato e che le istituzioni della Repubblica si adoperassero per ritrovare il ragazzo. asg, cm, 339, 10 aprile 1713.
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ti casi vi furono dei grandi guadagni e delle crescite sociali in seno al ceto marittimo, per contro si creò anche una fascia di proletariato marittimo, sempre più povero, anche perché solitamente i debiti derivati da cambi marittimi cadevano in prescrizione solamente dopo trent’anni42. Questo sistema creditizio locale basato sui cambi marittimi era del tutto informale e si fondava sul contatto diretto tra il datore e il ricevitore, secondo il meccanismo della fiducia. Quasi sempre i prestiti avvenivano all’interno della cerchia familiare o al massimo si estendevano agli stessi membri della medesima comunità. In alcuni casi, gli investitori si mettevano nelle mani di padroni marittimi di altre località vicine. Prendiamo il caso di Bartolomeo Ferro di Celle43, piccola località della Riviera di Ponente vicino alla più nota Savona: in un solo anno, a cavallo tra il 1750 e il 1751, Ferro investì diverse somme in cambi marittimi stipulati con dieci padroni differenti, non sempre cellesi, ma provenienti da marinerie vicine come quelle di Alassio, Laigueglia o Savona o in molti casi da padroni locali che avevano preso la nazionalità francese per poter diventare capitano di grandi navi. Il loro lavoro, scrive Paolo Calcagno, «comincia per le strade della comunità, subito prima di prendere il mare. È a Celle, infatti, che con o senza l’aiuto di qualche mediatore devono cercare di rastrellare quanto più denaro possibile, da utilizzare una volta fatto scalo nel porto di destinazione»44. Quasi sempre i padroni raccoglievano direttamente e informalmente il denaro, ma in molti casi esistevano mediatori non professionisti, talvolta insospettabili, come il parroco della comunità. A Celle, nella fattispecie, era il prete Giovanni Gambetta a raccogliere i piccoli investimenti da prestare a cambio marittimo. Il 2 novembre 1732 consegnò nelle mani del padron Pellegrino Ferro la somma di 500 lire, e poco tempo dopo investì altro denaro nel viaggio in Provenza e Catalogna del padrone Alessio Raffo. Lo stesso padrone, inoltre, raccolse contestualmente 100 lire dal notaio Bernardo Colla e altre 200 da Giovanni Antonio Biale45. La serie di cambi marittimi studiati da Paolo Calcagno, ricavata dalla documentazione notarile tra il 1682 e il 1795, evidenzia che gli investimenti a Celle erano di norma relativamente bassi, oscillanti solitamente tra le 100 e le 500 lire, con una media pari a 258 lire e un interesse che variava tra il 10 e 42. Gatti (1999, p. 108); asg, cm, 196, atto n. 71. 43. Calcagno (2007, pp. 141-79); ass, Notai distrettuali, 2988, f. 3364. 44. Calcagno (2007, p. 146). 45. ass, Notai distrettuali, 2987.
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il 18% (in media l’11%), segno evidente di investimenti effettuati su rotte sicure di medio e piccolo raggio. Nonostante la media degli investimenti fosse bassa, non mancarono i picchi di cambi superiori alle 1.000 lire, frutto però di grandi investitori esterni, come Giovanni Battista Serravalle, che nel 1732 prestò 1.200 lire al padrone Pellegrino Ferro per un viaggio a Valencia e qualche anno più tardi, nel 1735, ne diede a cambio altre 1.250 al padrone Francesco Saverio Siromba per un viaggio in Catalogna. Analoghe situazioni si possono riscontrare anche in altre località delle riviere liguri. Se ci si sposta di qualche miglio a Occidente, sempre in una piccola località mercantile, come ad esempio Riva di Taggia o Santo Stefano (oggi al Mare), si nota come il mercato dei cambi fosse estremamente polverizzato e vedesse in gioco somme mediamente basse, prestate sempre informalmente. Da una serie di cambi stipulati nelle due piccole località tra il 1711 e il 1732, raccolte negli atti del notaio Sebastiano De Siffredi, si ricava una fotografia sovrapponibile a quella di Celle, pressoché coeva: cambi marittimi compresi tra le 50 e le 500 lire, con una media di 279 lire e con interessi medi più alti, attorno al 20%, segno di un maggior impiego in rotte più lunghe e pericolose e anche della presenza di più anni di guerra concentrati nella nostra campionatura. I padroni della zona immediatamente vicina a Taggia coprivano soprattutto rotte verso il Mezzogiorno d’Italia, in molti casi per caricare oli, da integrare con quelli di produzione locale. Inoltre, molti viaggiavano su tragitti lunghi per esportare i limoni, prodotto di punta della produzione agricola locale. La casistica ricavata dal notaio De Siffredi è molto varia e si articola su cambi marittimi secchi, cioè per un solo viaggio; a tempo, di solito un anno; con i limiti geografici, come nel caso del denaro dato a cambio il 13 giugno 1725 da Stefano Bonavia al padrone Vincenzo Gogioso – 100 lire, pagate in 8 zecchini e mezzo scudo d’argento – sul suo leudo Nostra Signora del Rosario, per viaggi «entro li seguenti limiti di Livorno e Marsiglia», a ragione del 20% d’interesse46. Nei piccoli borghi della Riviera ligure molte famiglie si arricchirono tra xvii e xviii secolo proprio grazie al commercio sostenuto dai cambi marittimi. Un esempio paradigmatico è dato dal caso della famiglia Filippi, presente nelle località di Santo Stefano e di Riva di Taggia47. Nella corposa documentazione notarile ritroviamo i Filippi sia in veste di ri46. sassr, Notarile San Remo, notaio n. 31, Sebastiano De Siffredi, 269, n. 51; Carrino, Salvemini (2012, pp. 47-73). 47. Lo Basso (2007, pp. 89-109).
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cevitori – padroni marittimi – sia in qualità di investitori. Il 30 marzo 1712 Giovanni Battista Filippi di Stefano – padrone marittimo – ricevette «a cambio marittimo» 200 lire da Stefano Maglio sulla tartana Nostra Signora della Misericordia e San Giuseppe, con un interesse annuo del 20%48. Nell’aprile del 1725 vi furono due Filippi investitori: Giacinto Filippi, ex padrone marittimo, investì 200 lire «sopra il leudo denominato Le Anime del Purgatorio e Sant’Antonio da Padova a ragione del venti per cento» del padron Giovanni Antonio Garibaldi; e Giovanni Antonio Filippi – per la stessa cifra e con le medesime condizioni – sul leudo Nostra Signora del Rosario del padron Giovanni Antonio Perone. Lo stesso Giovanni Antonio, il 22 aprile 1726, investì «lire 500 moneta corrente di Genova a cambio marittimo sopra la cimba nominata Nostra Signora del Rosario e Spirito Santo a ragione di venti per cento l’anno» del padron Giuseppe Gogioso. In molti casi gli investimenti avvenivano all’interno della stessa famiglia. Il 4 maggio 1726 sempre il solito Giovanni Antonio Filippi diede «a cambio marittimo» 400 lire al padron Stefano Filippi sopra il leudo San Giuseppe per un viaggio in Linguadoca, a ragione di un interesse annuo del 20%49. Il sistema dei cambi marittimi se da una parte appariva virtuoso, tanto da permettere il finanziamento e lo sviluppo dello shipping in molte aree del globo, dall’altra, come già anticipato, creava pericolosi meccanismi di dipendenza economica tra gli operatori marittimi, che si traducevano in legami sociali asimmetrici, tali da amplificare enormemente le diseguaglianze. Il mancato pagamento dei cambi marittimi e degli interessi da parte dei padroni e dei capitani contribuiva a screditarli all’interno del mercato marittimo e questo innescava un pericoloso meccanismo che portava gli stessi investitori a cercare di scartare i morosi, trascinandoli così sempre più verso la povertà. In caso di mancato risarcimento, in genere, gli investitori premevano per una soluzione rapida e informale, ma nel caso in cui questa non si raggiungesse la parte lesa poteva far aprire un procedimento presso il tribunale competente in materia. Scorrendo le filze degli atti civili dell’archivio dei Conservatori è facile imbattersi in procedimenti contro coloro che non avevano rispettato il contratto di cambio marittimo. Il 3 marzo 1750, ad esempio, il reverendo Costantino Barone di Diano, piccola località dell’estremo Ponente ligure, 48. sassr, Notarile San Remo, notaio n. 31, Sebastiano De Siffredi, 262, atto 274. 49. sassr, Notarile San Remo, notaio n. 12, Stefano Bonanato, 44, atti nn. 267, 272, 336, 338.
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per mantenere due nipoti aveva investito 1.500 lire sul bastimento del padrone Paolo Pissarello per un viaggio di andata e ritorno in Sardegna, senza mai ottenere la restituzione né del capitale né degli interessi, nonostante la concessione di un numero infinito di dilazioni50. La casistica presente nelle carte del tribunale è assai ricca: il 18 giugno 1717 al padrone Lorenzo Garello di Portofino, per non aver restituito il prestito di 200 lire più gli interessi, dopo aver regolarmente terminato il proprio viaggio a Calvi in Corsica, venne sequestrato il bastimento che fu incatenato a uno dei moli del porto di Genova; il 3 gennaio 1718 la signora Maria, vedova di Gio. Batta Mariani, richiese il pagamento di 20 lire di un cambio marittimo che il marito aveva stipulato con il padrone Matteo Lucchetta nel 1705 e che non gli era mai stato restituito51. Analogamente a quanto avveniva nella cancelleria del tribunale di Genova, anche negli altri porti del Mediterraneo gli uffici delle istituzioni preposte al controllo delle attività marittime erano sommersi dalle controversie generate dai prestiti marittimi. Se ne trovano tracce a Malta, dove esisteva un Consolato di Mare spesso impegnato in controversie riguardanti mancati pagamenti di noli, cambi, prestazioni lavorative e molto altro ancora. Il 15 dicembre 1739 i giudici del Consolato maltese sentenziavano che il capitano Gio. Pietro Santori avrebbe dovuto pagare la somma di 493 scudi e 5 tarì al capitano Antonio Scarincio come risarcimento per i cambi marittimi dal ricevente presi e non pagati nel corso del 1731, allorquando il capitano Santori era al comando di una nave corsara per conto del granduca di Toscana. La sentenza di primo grado fu poi cancellata da quella di secondo grado pronunciata dal tribunale maltese il 23 gennaio 174052. In maniera del tutto similare le controversie per mancati pagamenti di cambi marittimi si ritrovano numerose nelle filze degli Atti Civili del governatore di Livorno, in quelle del Consolato di Civitavecchia, nelle fittissime filze del Consolato del Mare di Nizza e infine anche nella documentazione prodotta dal tribunale commerciale e marittimo di Trieste53. 50. asg, cm, 191. 51. asg, cm, 340. 52. nam, Mdina, Legal Section, Consolato di Mare, 401/3, cc. 11-15. 53. Ad esempio cfr. asl, Capitano poi Governatore poi Auditore vicario, Serie i Atti civili, 714; asr, Archivio del tribunale di Civitavecchia, Consolato del Mare, 1021; adam, Consulat de commerce et de mer de Nice, 03B 23; asts, Tribunale commerciale e marittimo di Trieste, Affari contenziosi, 91; asg, cm, 340. Per Marsiglia cfr. anche adbr, Amirauté, 9 B 7.
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Nel caso genovese, ma suppongo che questo avvenisse anche altrove, oltre al ricorso al tribunale si poteva, per risolvere liti per mancati pagamenti o per altre ragioni, ricorrere a una procedura extragiudiziale, tramite accordo stipulato davanti a un pubblico notaio. Non era dunque un accordo semplice fra le parti, cosa che avveniva molto spesso proprio per evitare il tempo e le spese del processo, ma era comunque una procedura formalizzata, anche se da risolversi al di fuori delle aule dei tribunali. Il 16 novembre 1729 si presentarono davanti al notaio Gerolamo Francesco Cerruti – che era in qual momento anche il cancelliere dei Conservatori del Mare, il che dunque lo metteva in condizione di avere un elevato numero di clienti conosciuti e frequentati in cancelleria – i capitani Bartolomeo Canepa ed Enrico Bregante, desiderosi di risolvere le loro controversie: «Volendo le parti suddette troncare ed ischivare le spese e lunghi litigi», è l’incipit del documento. Per poter dirimere queste liti «si sono compromessi e si compromettono e ne hanno fatto, siccome ne fanno pieno, largo, libero e generale compromesso nel capitan Carlo Maria Lora assente nominato et eletto dalle parti suddette come arbitro et arbitratore et amicabile compositore eletto et assunto da dette parti». All’arbitro concedevano, pertanto, «tutta la facoltà, podestà, autorità e bailia di conoscere, terminare, decidere, giudicare, lodare, arbitrare et arbitrariamente suddette cause, liti, differenze e controversie, […] omologando, accettando et approvando sin d’ora per allora ogni, e qualunque giudizio, laodo, sentenza»54. Il sistema di finanziamento tramite i cambi marittimi provocava, nella pratica quotidiana degli scambi, abusi di ogni tipo che sfociavano in vere e proprie truffe. I padroni marittimi in molte circostanze stipulavano contratti di prestito maggiorati nell’entità e «dopo d’aver preso tutte quelle maggiori somme che a loro sarà riuscito d’avere, van macchinando i mezzi per non pagare, di modo che ben inteso poco temendo il castigo di Dio, e della giustizia fanno bella posta con danno universale delli interessati naufragare i loro propri vascelli e merci», intascandosi così i danari a danno degli investitori. A Genova, per evitare questo tipo di truffa, si decise di far registrare tutti i cambi marittimi stipulati in città su un apposito libro tenuto dal cancelliere dei Conservatori del Mare: Sarà tenuto il cancelliere del Magistrato de Conservatori di Mare far vedere a tutti coloro che lo richiederanno li conti di tutti quelli che vorranno prender denari per 54. asg, Notai Antichi, notaio Gerolamo Francesco Cerutti, 14980.
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simili negozi et in quella forma darà mano alla fabbrica di novi vascelli et al comodo di molti negozi, non potendo più per l’avvenire succedere l’inconveniente che cagionava per il passato la malizia di molti marinari d’ingannar coloro che con essi s’interessavano nelli negozi55.
Per ovviare ulteriormente agli abusi dei padroni si era chiesto di disciplinare maggiormente la compilazione dei consolati (testimoniali o prove di fortuna) in caso di naufragio. L’obbligo di registrare tutti i cambi marittimi da parte dei padroni genovesi, compresi quelli stipulati fuori Dominio, fu regolamentato con la legge del 1668, rinnovata in più circostanze a partire dal 24 novembre 1707. Nonostante gli abusi e le truffe architettate dai capitani, il prestito marittimo, in tutte le sue denominazioni, ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei traffici a partire dall’età antica, giungendo pressoché uguale fino ai giorni nostri, quando ormai la maggior parte del finanziamento marittimo passa attraverso gli istituti bancari, i broker, i mediatori finanziari professionisti e ha abbandonato definitivamente il mercato del credito informale, nel quale è cresciuto per molto tempo.
55. asg, cm, 444, 15 marzo 1655. Naturalmente negli Atti civili dei Conservatori del Mare si trovano numerosi procedimenti per cambi marittimi non pagati (cfr., ad esempio, asg, cm, 191), mentre le procedure di liquidazione dei bastimenti dei padroni morosi si trovano nella filza 375, denominata «graduazioni diverse». Cfr. a mo’ di esempio la procedura alla quale fu sottoposto il padrone Lazzaro Bollo di Deiva, debitore di numerosi creditori (quasi tutti prestatori di cambi marittimi) nel corso del 1725.
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7 Le pratiche illegali: contrabbando, frodi e bandiere false
Contrabbandare, frodare, falsificare, ingannare: tutti verbi molto noti ai marittimi, i quali, chi più chi meno, utilizzavano metodi illegali per guadagnare in maniera del tutto naturale. Il mare è stato, ed è, da sempre la via preferenziale dei traffici illeciti. Questi si manifestavano senza soluzione di continuità, costringendo gli Stati dell’età moderna a fissare regole e controlli sempre più rigidi. I bastimenti, i porti, le cale, le spiagge divennero nel corso dei secoli luoghi di transito e di smercio di qualsiasi tipo di prodotto imbarcato e sbarcato illegalmente. Tra i protagonisti del contrabbando e delle frodi si distinse particolarmente la gente di mare di Liguria, tanto da costituire nell’Ottocento un topos letterario, usato da Alexandre Dumas nel Conte di Montecristo: Dantès, fuggito di prigione, si imbarcò sulla tartana genovese Jeune-Amélie, dedita al contrabbando tra Livorno, la Corsica e Marsiglia1. Durante il Settecento qualsiasi merce era oggetto di contrabbando: bastava imbarcarla e sbarcarla senza aver pagato le gabelle e i diritti dovuti e senza aver rispettato le regole imposte dagli Stati sull’import-export. Spesso, a questo scopo, bisognava procurarsi polizze di carico false, simulando un viaggio che non si sarebbe mai fatto, oppure utilizzando trucchi e artifici per poter ingannare i controlli delle autorità. Ma non sempre i traffici illeciti andavano a buon fine. Se oggi possediamo molte carte su questo mondo “irregolare” è proprio perché molti dei nostri Dantès furono scoperti e messi sotto processo dalle istituzioni statali. Il contrabbando era esercitato dovunque e riguardava qualsiasi merce ne valesse la pena. Il 18 gennaio 1735 il commissario della Casa di San Giorgio di Voltri, Gio. Stefano Barone, scrisse ai Magnifici Protettori che il mercante di carta Antonio Maria Musso, vessato dai creditori, era fuggito imbarcando di contrabbando alcuni balloni e diverse balle di carta a bordo 1. Dumas (2010, pp. 177-83).
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del leudo del padrone Geronimo Pescio, nei confronti del quale fu spiccato un mandato di arresto2. Pochi giorni dopo si seppe che la carta era stata prodotta da Francesco Pellerano e che si trattava di almeno 47 balloni: tutto ciò secondo la denuncia di due testimoni. Uno di questi, Gio. Batta Fresco, fu chiamato a deporre davanti alla Deputazione sopra le frodi, organo appositamente istituito all’interno della Casa di San Giorgio proprio per combattere questo tipo di reato3. Il Fresco raccontò di essere un camallo (facchino) della spiaggia di Voltri e che da tempo conosceva sia il padrone Pescio, sia il mercante Musso, «che faceva fabbricare della carta agli edifici di detto luogo». Testimoniò inoltre di essere stato ingaggiato per caricare i balloni sul leudo «in una notte e mezza di essa, ora in cui a quella spiaggia si sogliono caricare i liudi», insieme ad altri quattro camalli, che a fine lavoro furono pagati un soldo per ballone. Si trattava di carta da scrivere: «li riconobbi nel detto magazzino dove andammo a caricarli che li vidi al chiaro di un lume […] fasciati di carta turchina secondo il solito». Spiegò poi al magistrato che ciascun ballone si componeva di 32 risme di carta. Poco dopo, sempre giurando sulle Sacre Scritture, testimoniò anche il secondo camallo, che confermò appieno la versione del Fresco, aggiungendo però che loro erano stati pagati dal figlio del mercante Musso, «che credo si chiami Lorenzino». Raccolte le testimonianze, la Deputazione emise, come detto, un ordine di cattura immediata per il padrone Pescio, che in effetti venne arrestato dal bargello di Voltri il 16 febbraio 1735. Gli atti istruttori e il reo furono trasferiti a Genova, in attesa del processo. Il 3 marzo si svolse l’interrogatorio del padron Pescio, che in effetti confermò che la carta era del Musso, il quale la produceva negli edifici «che sono dei Signori Brignole o sia figli del fu Signor Anton Giulio». Il padrone si difese, cercando di scaricare tutte le colpe sul mercante, reo di avergli detto, al momento dell’ingaggio avvenuto in piazza Campetto, che la carta era diretta a Oneglia, assicurandogli di aver «preso le sue spedizioni in Dogana». Raccontò il Pescio, inoltre, che quella notte partì in direzione di Oneglia, territorio del Regno di Sardegna, assieme a un gozzo locale, che aveva a bordo lo stesso Musso. Sbarcata la merce, il padrone sarebbe stato costretto a rimanere alla vista di Oneglia per circa otto giorni 2. asg, Antica Finanza, 1118. 3. Sul caso in questione, e sulle potenzialità delle carte di San Giorgio per lo studio della frode doganale e del contrabbando in età moderna cfr. il recente lavoro di Calcagno (2015, pp. 215-36). Su questi temi, a partire dalla documentazione genovese ma in una cornice comparativa che tenga conto anche degli altri maggiori porti degli antichi Stati italiani, Calcagno ha in preparazione una monografia.
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«per causa del tempo cattivo», dopodiché tornò a Voltri, dove fu arrestato. Infine, concludeva il padrone, la merce, secondo quanto aveva inteso, era diretta a Genova, dove poi sarebbe stata imbarcata su una nave inglese, «non so di qual capitano sia». Ammise, dichiarandosi innocente e tentando un’ultima disperata difesa, che sapeva bene «esservi l’obbligo quando imbarco della roba per Genova o altrove ritirare a me li spacci della spedizione», ma quella volta – per l’appunto – fu ingannato dal Musso. Difficile pensare che il padrone Pescio fosse inconsapevole perché operazioni di questo tipo si svolgevano quotidianamente dappertutto: a Napoli, a Palermo o in altri luoghi strategici per il contrabbando marittimo, come le Bocche di Bonifacio. In questa zona del Mediterraneo era molto attivo un traffico illecito di generi alimentari che i trafficanti corsi portavano nella loro isola dalla Gallura. In particolare, formaggio e grano erano gli oggetti del desiderio. Ogni anno decine di gondole bonifacine caricavano formaggio, in accordo con i pastori sardi, senza pagare le dovute gabelle, stimolando un sistema di controllo poliziesco che sarebbe diventato imponente durante la seconda metà del xviii secolo, quando le autorità sabaude provarono a debellare il fenomeno4. Civitavecchia, Palazzo del governatore, 31 luglio 1754. Domenico Limparani, deputato dell’appaltatore generale del tabacco, denunciò il padrone genovese Filippo Moltedo (o Multedo nei documenti) per «aver venduto più e diverse volte in vari tempi in questo porto di Civitavecchia e specialmente nell’anno corrente 1754 e nella decorsa primavera grosse quantità di tabacco di vari generi e particolarmente in foglia di contrabbando a tutte quelle persone che sono andate a comprarlo nel di lui bastimento approdato in questo stesso porto sotto della fortezza»5. E non solo, sembrerebbe che il Moltedo «con somma baldanza abbia avuto l’ardire di provvederne i pubblici contrabbandieri soliti farne mercimonio nei paesi di questo Stato ecclesiastico». Contrabbandiere e grossista, secondo le testimonianze raccolte, il 14 maggio 1754 il Moltedo aveva accolto a bordo del suo bastimento due uomini dell’illecito del luogo giunti per comprare una grossa quantità di tabacco in foglia di contrabbando, che poi la sera del medesimo giorno lo stesso patron Filippo con alcuni de suoi marinari scaric[ò] molte balle di detto tabacco in foglia dal suo bastimento e lo caric[ò] in una barchetta et unito ai due contrabbandieri lo trasport[ò] fuori del porto e port[ò] a 4. Molti documenti si possono trovare nel fondo Regio Demanio, cause criminali dell’Archivio di Stato di Cagliari. 5. asr, Archivio del tribunale di Civitavecchia, 653.
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scaricarlo nella spiaggia marittima di San Lorenzo mezzo miglio in circa di qua distante ove st[avano] ad aspettarlo molti altri contrabbandieri armati, quali dopo di averlo comprato lo carica[rono] sopra certi muli e cavalli che a tal fine avevano seco loro portati.
Si trattava dunque di un sistema piuttosto ben organizzato, che faceva perno sul bastimento del padrone Moltedo, ormeggiato sotto la fortezza di Civitavecchia, il luogo più in vista del porto. Dal padrone ligure si rifornivano contrabbandieri professionisti o clienti occasionali, che compravano modiche quantità. Il 19 maggio, difatti, solo pochi giorni dopo l’episodio appena narrato, Giuliano Bagaglia era stato fermato con un fagotto di tabacco in foglia, nascosto all’interno del cappotto. La guardia che lo fermò specificò che, quella sera, mentre volevo dar la voce (giacché mi ero assicurato che era contrabbando) alli soldati di quel posto acciò l’avessero assicurato secondo gli ordini che tengono mi è venuto in faccia il caporale di guardia di cognome Pistolese e che con modi impropri ha risposto che io non potevo fermar nessuno in quel luogo, e dettogli io che toccava a loro di arrestarlo perché io solamente l’avevo guardato se l’involto che portava era tabacco di contrabbando, il medesimo mi ha tirato subito due schiaffi nel viso, e nel medesimo tempo si è fatto avanti un altro soldato quale avendo fatto segno di metter mano alla baionetta io allora per timore che non mi succedesse di peggio mi sono posto a fuggire e ho lasciato in esso corpo di guardia detto involto di contrabbando che a mio giudizio passerà le venti libre.
Il caporale, dunque, aveva tutto l’interesse che la merce rimanesse a sua disposizione: segno evidente di quanti intrecci ci fossero tra i contrabbandieri e le guardie. Senza questa collusione era evidente che non si sarebbe potuto smerciare il tabacco alla luce del giorno e nel mezzo del porto di Civitavecchia. Pochi giorni dopo fu preso e interrogato Giuliano Bagaglia, di anni 14, marinaio imbarcato, ironia della sorte, a bordo del bastimento guardacoste del porto. Il ragazzo spiegò che quel giorno era stato invitato da uno schiavo delle galere, di nome Sair detto Brignoletto, a recarsi a bordo di un pinco genovese, in cui si vendeva solitamente vino al minuto in darsena, per farsi dare un fagotto dai marinai del bastimento del padrone Moltedo. Preso il pacchetto di tabacco di Salonicco, riconosciuto come tale dall’odore, e sistematolo sotto il cappotto, tentò – come narratoci dalla guardia – di portarlo fuori dalle mura del porto. 132
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Fin qui abbiamo sentito raccontare la vicenda soltanto dai comprimari del contrabbando, mentre il vero protagonista dell’illecito era il padrone Filippo Moltedo, arrestato infine il 12 agosto 1754. Originario di Rapallo, disse di essere sempre stato marinaio fin da ragazzo, ma da cinque anni in qua sono patrone di un bastimento peschereccio […] con il quale mi sono industriato di portare, comprare e vendere mercanzie di diversi generi andando a far scala ne i porti d’Italia secondo i trasporti di mare che mi sono incontrato e fare e secondo rispettivamente i negozi che mi sono capitati per guadagnare e vivere onestamente.
Secondo il verbale dell’interrogatorio, il Moltedo era già stato arrestato a Civitavecchia tre anni prima per colpa di una rissa e in quella circostanza era venuto per commerciare merci varie imbarcate sul proprio bastimento. Posto sotto pressione dal giudice inquirente, decise di confessare che, in effetti, più volte era giunto nel porto romano per smerciare tabacco di contrabbando, sempre però venduto in porto, mai in città «a persone cittadine, serventi delle galere e forastiere, comprandone chi piccole e chi grosse quantità». In genere, «in quantità volte più volte meno, cioè il tabacco in foglia alle volte ne ho portato due o tre migliara di libbre et altre volte molto più di sei migliara […] così ancora è stato più o meno il tabacco rapé, in polvere ne vasetti ed in corda da masticare». Il Moltedo spiegò ai giudici che di solito comprava il tabacco nel porto di Genova «nelli magazzini del porto franco, come mercanzie spettanti a mercanti che portano e conducono in esso porto di Genova le mercanzie e generi di robe anche di contrabbando e le scaricano ne magazzini di detto porto e possono contrattarne la vendita e compra dalle stesse mercanzie», purché questo tipo di merci fosse destinato fuori dal territorio della Repubblica. Insomma, il contrabbando poteva essere tollerato purché fosse commesso ai danni di altri Stati. Dalla vicenda intrigante del padrone Moltedo6 si evidenzia quanto fosse diffuso nel Settecento il commercio – legale e illegale – del tabacco all’interno del bacino del Mediterraneo, e quanto i marittimi genovesi fossero particolarmente attivi nello smercio irregolare di tale prodotto. Dal racconto del marinaio Francesco Bruno, fatto trascrivere dal Deputato di mese il 3 gennaio 1729, veniamo a conoscenza di un traffico illegale di tabacco piut6. Sul caso Moltedo rimando più ampiamente a Calcagno, in un saggio in corso di pubblicazione.
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tosto sostenuto tra Livorno e Napoli. Il marinaio genovese fece mettere a verbale che nel mese di luglio, se mal non mi ricordo, trovandomi nel porto di Livorno con il pinco del padrone Filippo Paganetto patroneggiato però dal padrone Sebastiano Galletto sopra del quale io testimonio servivo in qualità di marinaro come anche Ventura Paganetto, Lazzaro Agostino della Spora e Benedetto Saluzzo, questi colà fecero compra quattro rubbi di tabacco […] per loro conto e risico; indi fecevi partenza per Napoli col detto pinco, e colà giunti fu negoziato parte di detto tabacco col detto Agostino della Spora per quanto intesi dire per mezzo di Giuseppe Gnecco che colà si ritrovava.
Il tabacco venne venduto dal Gnecco, che fece solo da mediatore, al mercante Savignone, genovese anch’egli, il tutto senza pagare le dovute tasse d’entrata7. In tutti i porti vi era un alto tasso di porosità del tabacco, che quotidianamente, secondo il sistema della «filtrazione» codificato da Silvia Marzagalli8, passava a terra attraverso mediatori più o meno improvvisati come i marinai. Nel gennaio 1779 a Cagliari le autorità scoprirono di notte «nel sobborgo di Villa Nova […] quattro marinari, tre dei quali portavano nei loro fazzoletti e saccocce diverse boette di tabacco». Per accertare le responsabilità furono interrogati i marinai-contrabbandieri. Tra questi vi era Francesco Llui, «marinaro della tartana maonese che si ritrova nella Regia Darsena di questa città comandata dal padrone Giovanni Arnau», che raccontò di essere stato chiamato a terra da un marinaio svedese che desiderava avere un poco di tabacco. Un altro marinaio, il ligure Stefano Menino di Lerici, disse che non pensava che dentro i fazzoletti vi fosse il tabacco, perché altrimenti non li avrebbe portati a terra, sapendo bene che era «proibito d’introdurre a sfroso non solamente tabacco ma ancora qualunque altra mercanzia», senza pagare le dovute gabelle9. L’abitudine all’illecito si manifestava nel Settecento in molti modi. Uno di questi, fastidioso e irritante per il commercio perché minava la fiducia degli operatori marittimi nei confronti dei capitani e padroni, era il naufragio doloso, organizzato per frodare gli assicuratori o i prestatori di denaro. Sia nel caso di un cambio marittimo sia nel caso di un’assicurazione, provocare un naufragio volontario poteva arricchire lautamente chi 7. asg, cm, 344. 8. Marzagalli (1992, pp. 81-107; più diffusamente, Id., 1999). 9. asc, Regio Demanio, Cause criminali, 8, 25 gennaio 1779. In generale sui temi delle frodi e del contrabbando cfr. gli studi in corso di Paolo Calcagno.
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aveva progettato ed eseguito la frode. Per contro, però, metteva gli stessi frodatori, se scoperti e condannati, fuori dal mercato del lavoro marittimo, perlomeno nell’area in cui si era svolto l’illecito. Tant’è rischiare di finire sotto processo per denaro, ed essere posti ai margini della società, costituiva e costituisce da sempre un’attrazione fatale. Il 26 aprile 1763 il Deputato di mese dei Conservatori del Mare inviò una memoria al Senato della Repubblica, nella quale segnalava il naufragio doloso «della filuca di patron Vincenzo Salamone di Savona, nonostante la voce sparsasi fosse stata abbandonata nelle vicinanze dei Capi Rossi in Ponente, perché inseguita da un bastimento, che fu creduto pirata barbaresco, o corso»10. La questione sembrò da subito alquanto dubbia, tanto che in contemporanea si mossero sia i Conservatori del Mare, sia gli Inquisitori di Stato. Il Deputato di mese iniziò le indagini, agendo all’interno di un sistema di giustizia ordinario e non sommario, ottenendo il fermo dei sospettati al fine di poter acquisire le necessarie informazioni prima di iniziare un procedimento giudiziario contro gli eventuali rei. Fin dalle prime notizie raccolte, apparve chiaro che il padrone Salamone, in accordo con i fratelli Gio. Batta e Domenico Lombardo, progettò e mise in pratica, con l’aiuto di quattro marinai e un garzone, l’affondamento doloso della feluca allo scopo di frodare gli assicuratori. I tre avevano ordinato ai marinai di condurre la feluca «verso Marsiglia, et allora quando fossero giunti a Capi Rossi, o Isole d’Eres, di naufragarla, con aver loro promesse lire 300 per cadauno». Questo tipo di frode era considerato particolarmente grave, il che spiega l’intervento degli Inquisitori di Stato: si minavano «le ragioni del commercio» e, secondo il Targa, la frode suddetta rientrava in qualche modo nella tipologia della «baratteria»11. Il Deputato riuscì nel giro di pochi giorni a procedere agli arresti, con l’eccezione del Salamone, che riuscì invece a rifugiarsi in «luogo immune», e di Giovanni Battista Lombardo, che fuggì a Oneglia, territorio del Regno di Sardegna. Tra i marinai imprigionati, uno dei protagonisti fu Michele Ghezzo che, inquisito, narrò per intero la vicenda, confessando appieno il reato. 10. asg, cm, 419. 11. Targa (1803, pp. 168-70). Cfr. un caso di baratteria del gennaio 1787 commesso dal padrone Michele Moltedo, genovese, condannato dal governatore di Livorno, «alla catena nel bagno di Pisa». Il Moltedo, secondo le carte processuali «è in età di anni 37, ha moglie e figli, abitava in questo Piano di Livorno, da circa anni quattro facendo l’oste e il marinaro e molti anni prima era stato processato in Roma per delitti consimili». Sarà stato parente del contrabbandiere Filippo Moltedo preso e condannato a Civitavecchia nel 1754? asl, Capitano poi Governatore poi Auditore vicario, 3165.
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Come sovente abbiamo visto, i verbali degli interrogatori costituiscono una fonte straordinaria dal punto di vista della descrizione degli avvenimenti, nonché permettono allo storico di analizzare le mentalità e le pratiche quotidiane degli attori protagonisti, dando spazio alla narrazione di storie di vita di persone comuni. Il racconto del marinaio Ghezzo, inoltre, è particolarmente gustoso e ricco di dettagli, e per questo mi pare opportuno debba essere riproposto quasi integralmente. Rileggendo le pagine del documento sembra quasi di ascoltare dal vivo il Ghezzo, fin da quando, ai primi di febbraio 1763, «capitò Vincenzo Salamone in addietro da me conosciuto di vista sulla spiaggia di S. Pier d’Arena dove allora per accidente mi ritrovavo e mi richiese se volevo andare nella di lui filuca per marinaro colla promessa di trecento lire con che però dovessi affondare la detta filuca in mare». Un affare sporco, pertanto. Il Ghezzo accettò immediatamente, ingaggiando i marinai «Carlo Sanguineti detto il Chiavarino, Bernardo Laguera detto il Barbotto, ed uno denominato il Cillo, o sia Lambruschino di parentado Chiesa» e il garzone Gio. Batta Vassallo, «coi quali tutti successivamente detto padrone Vincenzo Salamone si abboccò e loro significò ciò che aveva a me precedentemente notificato, cioè che se fossimo voluti andare nella di lui filuca per poi affondarla in mare, o urtarla negli scogli ci avrebbe dati lire trecento per ciascheduno» – escluso il garzone, che secondo il Ghezzo non fu messo al corrente della «condizione fattaci di affondare, o frangere la filuca» e fu pagato 60 lire. «Dopo esser convenuto così ed esser stati tutti quattro noi marinari avvertiti a non confidare ad alcuno ciò che doveva seguire della filuca», furono invitati dal padrone Salamone ad andare all’osteria di Francesco Rovegno, «dove ci diede da mangiare, e da bere». Trovato l’accordo, il gruppo decise di rivedersi il giorno dopo, a bordo della feluca, ormeggiata a Ponte Spinola, dentro il cuore del porto di Genova. Proseguiva il Ghezzo: Dal Ponte Spinoli d’ordine del medesimo Salamone conduce[mmo] detta filuca nel mandraccio [zona orientale, dalle origini antiche, del porto], ed in questo tempo era la medesima carica di circa cinquanta sacchi di riso, di tre casse inchiodate, e di dieci balle di sapone.
Dopo qualche giorno, salì a bordo del bastimento Gio. Batta Lombardo, «il quale ci comandò di accostare la filuca alla calata della marinetta per imbarcare alcuni sacchi di porcellana», che furono sistemati dai camalli sotto «dell’altra mercanzia acciò non fossero veduti da alcuno». Finito di carica136
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re la feluca e dopo qualche giorno di attesa, a causa del cattivo tempo che costrinse i marinai a trasferirla dentro la darsena delle galee, si manifestarono i primi problemi inerenti al pagamento dei compensi e alla sottoscrizione delle polizze di carico. Come il Ghezzo spiegò per bene al magistrato, il padrone Vincenzo Salamone mi condusse seco in casa del predetto Domenico Lombardo, dove voleva che esso Domenico facesse le polizze di carico in testa mia, e mi destinasse patrone di detta filucca, a ciò però detto Domenico Lombardo non acconsentì essendosi spiegato di volere che esso Vincenzo come patrone di detta filuca sottoscrivesse le dette polizze.
Finalmente, il giorno prima della partenza, Michele Ghezzo si recò a casa del padrone, ottenendo «dallo stesso cinque luigi d’oro, che impartì fra noi altri marinari avendo dati al garzone lire 14 e per prima avevamo avuto da detto padrone Salamone un luigi da lire 50 che parimenti ripartissimo fra di noi». Prima di poter salpare bisognava però ottenere la patente di sanità, che, a quanto disse il Ghezzo, «fu negata da un signore ch’era ivi alto di statura e di corpo un poco pieno». Fu poi ottenuta da Domenico Lombardo, che presentò all’ufficio di sanità del porto un documento, dal contenuto oscuro, redatto da un mercante di risi di sua conoscenza12. Partiti da Genova, fecero scalo a Sampierdarena, secondo gli accordi presi, per poter prender al traino una lancia, «ch’era stata provvista dal suddetto Vincenzo per lire 50 e comprata da Geronimo Gramare maestro d’ascia e che doveva servire per trasportare noi in terra dopo aver affondata la detta filuca». Dopo aver imbarcato il padrone Salamone, che attendeva da qualche giorno, standosene nell’osteria di Francesco Rovegno, l’equipaggio fece un secondo scalo a Sestri, dove fu imbarcato Gio. Batta Lombardo, che nascostamente ci stava ivi aspettando e con il medesimo e detto padrone arrivammo poi a Sanremo, quivi il Gio. Batta Lombardo mostrò difficoltà di calare in terra prima che fosse notte per non essere conosciuto fu però indotto a calarvi dal padrone Salamone, e vi calò alle ore 23 ½ circa fasciato in un rendigote.
Sembrava tutto alquanto misterioso. Certo la feluca non doveva dare nell’occhio, ma era evidente che i due fratelli Lombardo e il padrone savonese avessero conti in sospeso in giro per la Riviera. Il giorno seguente furono vendute e sbarcate alcune delle merci caricate. L’obiettivo dei frodatori era di vendere di nascosto le merci imbarcate, originariamente di12. Assereto (2011).
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rette a Marsiglia, per poi far naufragare il bastimento, al fine di intascarsi l’assicurazione. Tra le merci, fu sbarcata anche una cassa segnata con una croce nera, della quale il Ghezzo non conosceva il contenuto. Il ricettatore fu «un mercante longo di statura, secco, e bianco di anni 40 in circa». A quel punto, padrone Vincenzo mi condusse in un’osteria dove mi significò che egli non voleva più continuare il viaggio, che voleva restar ivi colla scusa di essersi fatto male per una caduta, e di fatto mandò a chiamare un chirurgo dal quale fece medicar nella schiena.
Salpata l’ancora, fatto uno scalo ad Ospedaletti, dove fu imbarcato nuovamente il Lombardi, la feluca proseguì fino a Monaco, dove furono vendute altre merci e il ricavato diviso per ciascun membro dell’equipaggio. Nel porto del Principato, Gio. Batta Lombardo diede le ultime istruzioni, avvertendo i marinai di andare verso li Capi Rossi o Isole d’Eres e quivi di sfondare prima le casse e di tagliare li sacchi dove era la porcellana e di poi verso quelle parti rivestire in qualche scoglio, o spiaggia la filuca suddetta per fracassarla con l’attenzione di salvare qualche poco riso, o sapone per rendere più credibile, e verisimile il naufragio.
Inoltre, bisognava subito dopo eliminare le polizze di carico e la patente di sanità; fuggire con la lancia e ritrovarsi tutti a Oneglia. Spostatisi di qualche miglio nel porto di Limpia a Nizza, venduti ancora alcuni sacchi di riso, i marinai della feluca attesero che «il mare s’ingrossasse qualche poco per poter più facilmente urtare e frangere la filuca». Invece, il tempo fu buono «ed essendo arrivati di notte ai Capi Rossi non avendo potuto investire per che il mare era placido, si determina[rono] di affondare la filuca per eseguire la commissione dataci dai detti Lombardo e Salamone», fecero sbarcare nella lancia il garzone e il marinaio detto Cillo, mentre il Sanguineti, il Laguera e il Ghezzo rimasero a bordo e «con l’agiaso della stessa sfondarono la filuca nelle due parti della sentina, avendo anche prima tentato con un picozzo di romperla da un fianco». Dopo aver visto affondare la feluca, i marinai si diressero a Cannes a bordo della lancia, dove arrivarono il mattino seguente «et arrivatici spar[sero] voce come avevamo concentrato d’aver abbandonato il bastimento ad un altro bastimento che ci cacciava coi remi e che supponessimo che potesse essere barbaresco o corso, ed avendo in conformità denunciato a quel console per la Serenissima Repubblica 138
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di Genova» – il quale, dietro pagamento, rilasciò loro il testimoniale13 che avrebbero dovuto consegnare a Genova ai Conservatori del Mare, facendo ottenere al padrone e ai Lombardo il risarcimento dell’assicurazione pari al valore di 4.000 pezzi da otto reali – riuscirono pochi giorni dopo a tornare a Ventimiglia. Dopo aver venduto la lancia a un prete del luogo, dopo 24 giorni rientarono finalmente a Genova, dove trovarono il carcere. Il mondo marittimo del Settecento era tutto un susseguirsi di frodi, falsificazioni di documenti, sostituzioni di persone e molto altro ancora. Emblematica a tal proposito la vicenda del capitano Francesco Ferrando di Prà. Il 4 marzo 1750 approdò nell’isola di Zante un pinco genovese, comandato in quel momento da Domenico Giusto di Laigueglia. Il capitano ligure, giunto nell’isola che diede i natali a Ugo Foscolo, chiese con una certa urgenza la protezione del console francese, non trovandosi sul luogo un rappresentante della Repubblica di Genova. Al console francese il capitano Giusto spiegò che sono mesi sette circa che essendo in Genova col pinco stesso, sopra quale egli è imbarcato di cui è il proprietario, e volendo andare in Costantinopoli per farvi negozio di mercanzie, delle quali il suo pinco è carico, partì da Genova con bandiera inglese in qualità di mercante, o sopraccarico con aver preso per capitano di bandiera nominato Francesco Ferrando munito di passaporto inglese con facoltà di navigare il detto pinco, ed essendo arrivato in Costantinopoli aver colà comprato et imbarcato le mercanzie delle quali aveva bisogno essendo pronto per partirsene ad effetto di ritornarsene a Genova gli voleva prendere le spedizioni necessarie dall’ambasciatore di Sua Maestà britannica, il passaporto del detto Francesco Ferrando fu dal detto ambasciatore trovato e riconosciuto falso.
Tutto questo mise il capitano Giusto «in una tribolazione che non saprebbe esprimere», perché se gli Ottomani l’avessero saputo, avrebbero sicuramente posto agli arresti l’intero equipaggio. Al che il Giusto si pose «sotto la protezione di Francia», il cui ambasciatore, per tutta risposta, 13. I testimoniali, o consolati, o prove di fortuna, redatti all’estero dal console nazionale o da un’autorità locale venivano poi trasmessi al Magistrato dei Conservatori del Mare, che li archiviava tra quelli rilasciati all’estero, palesi e segreti (cfr. asg, cm, 277317). Su questa fonte poco usata cfr. l’approccio di Berti (1979, pp. 271-861) e Panciera (2014, pp. 83-106). Erano stilati anche per danni minori, come il «getto» o il carico rovinato a causa del cattivo tempo. Per il risarcimento dei danneggiati la magistratura genovese procedeva al calcolo d’avaria, come si può vedere nelle numerose filze (ad esempio, la 361).
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ordinò subitamente ad uno dei suoi dragomanni di fare in maniera che con tutta diligenza il detto pinco uscisse dalli Castelli, ciocché fu eseguito con tutto il successo desiderabile e per conseguenza dalli Turchi salvo, quali immancabilmente l’avrebbero fatto perire con tutto il suo equipaggio.
A quel punto, scampato il pericolo, il pinco genovese fece vela fino a Zante subito dopo aver posto agli arresti Francesco Ferrando, «per portarlo a Genova a chi spetterà al suo arrivo colà a Dio piacendo per essere punito da chi avrà Gius [diritto] secondo li rigori delle leggi di Marina»14. Inoltre, sulla testa del Ferrando pesavano le accuse di truffa nei confronti di un mercante di Costantinopoli e di furto della cassa di bordo per un ammontare di 232 piastre, nascoste opportunamente dentro il proprio guanciale. Dai documenti allegati alla pratica si apprese che la patente inglese del capitano Ferrando era del febbraio 1738 ed era stata rilasciata dal console inglese a Costantinopoli per la saettia Santa Barbara con 19 uomini di equipaggio. In seguito il capitano l’aveva adattata anche per altre imbarcazioni, riuscendo, come sostengono alcuni marinai, a farsela rinnovare da almeno un paio di consoli inglesi sparsi nel Mediterraneo dietro compenso, dunque non proprio secondo il rispetto delle leggi. Ma la summa marittima dell’illecito si manifestava, anche visivamente, sull’uso indiscriminato delle cosiddette bandiere “mascherate”, diffusosi in maniera cospicua nella prima metà del Settecento, soprattutto in area ligure. Secondo Giacchero, nella fattispecie, lo spirito d’adattamento portò dapprima i liguri a scegliere la bandiera francese per i viaggi in Levante, poi essi estesero la preferenza anche alla bandiera inglese e a quella austriaca, mentre per i traffici nelle acque del Mediterraneo occidentale, allo scopo di pagare meno gravi diritti consolari, assai utilizzate furono le bandiere spagnola e napoletana. L’inventiva e l’accoglimento dei liguri altre ancora ne ponevano a frutto: la pontificia, la gerosolimitana, la toscana, la ragusea, quella di Massa e Carrara, ed anche la savoiarda15.
Difatti, negli anni Venti e Trenta del xviii secolo l’uso delle bandiere mascherate da parte dei genovesi stava causando non pochi problemi a Marsiglia e nei porti meridionali, con Napoli e Palermo in testa. Nello scalo provenzale, in particolare, le irregolarità preoccupavano le autorità locali. In tale contesto a far da mediatore si inseriva il console, che a 14. asg, cm, 418. 15. Giacchero (1981, p. 146).
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Marsiglia in quel periodo era Giacomo Schinchino, con la sua azione politico-diplomatica. Già negli anni Venti le violazioni reiterate dei padroni liguri a Marsiglia avevano suscitato le risentite proteste delle autorità locali, tanto che «questo popolo e quel che è più li magistrati non trascurano le occasioni di nuocere la nazione, et a me le minacce, li deputati del commercio hanno scritto alla corte, che sarebbe bene di ponere un dritto li [sic] dieci per cento sopra le merci che li genovesi porteranno in questa»16. Lo stesso console però argomentava che questo tipo di ritorsione non sarebbe stato attuato perché alla fine le merci portate dai liguri erano necessarie all’economia marsigliese. I problemi causati dai padroni genovesi erano diversi: da una parte, questi si presentavano a Marsiglia con la sola patente di sanità in regola, ma privi di passaporto e soprattutto con una bandiera che di volta in volta si modificava; dall’altra parte si erano specializzati, come abbiamo visto anche per altri porti, nel contrabbando e nell’estrazione illegale di monete d’argento e d’oro. Sull’uso illegale di più bandiere qualche anno più tardi il console genovese a Napoli aveva raccolto la protesta del governo locale, secondo cui li Genovesi sono furbi, vogliono camminar con due bandiere, lo che è proibito dalle ordinanze del re, e da quelle di Francia, ed Inghilterra, ed ogni potenza, li soli Genovesi hanno questo costume, e la mutano ad ogni lor piacere, e come le torna conto17.
Negli anni Trenta la pressione francese sulla Repubblica si fece ancora più forte: l’obiettivo era di costringere i Serenissimi Collegi a legiferare in materia di «bandiere nazionali». Il 9 novembre 1731 venne arrestato il padrone Desiderio Pagano, che navigava con bandiera spagnola, per non aver dichiarato alla dogana tutta la merce caricata. Il console Schinchino, oltre a non poter intervenire in soccorso del padron Pagano, perché considerato straniero, raccolse e trasmise i malumori diffusisi a Marsiglia per l’incidente: con gran pena posso disingannare questi ministri d’aver talmente concepito che i Genovesi sono interamente alienati dal genio francese, non avendo altra mira 16. asg, Archivio Segreto, Lettere consoli Marsiglia, 2621, 21 marzo 1723. 17. asg, Archivio Segreto, Lettere consoli Napoli, 2644, 20 aprile 1736.
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di far solo de contrabbandi in Francia, ma anche di distruggere il loro commercio col Levante18.
Proprio questo era il problema. Le autorità marittime marsigliesi non si capacitavano del perché i padroni liguri, pur appartenendo a un piccolo Stato, riuscivano a scalzare in molte rotte mediterranee i capitani francesi. La questione delle bandiere di comodo e dell’intreccio con il contrabbando, nel frattempo, era stata sollevata anche da altri Stati. Alla fine degli anni Trenta i padroni genovesi avevano avuto molti problemi in tal senso anche nei tradizionali porti amici del Regno di Napoli e di Sicilia. Sull’isola l’arrivo di padroni liguri con bandiere ombra pose in allarme il console nazionale Spinotto a causa dei mancati introiti che derivavano dal consolato. Inoltre, era noto sia alle autorità genovesi sia a quelle siciliane che negli scali dell’isola i capitani liguri godevano ancora di numerose connivenze locali, stabilitesi nel corso di generazioni, per cui la pratica del contrabbando era molto diffusa. Ogni tanto, però, le stesse autorità siciliane erano costrette a intervenire su richiesta di altre nazioni (Francia in testa). Il 15 agosto 1738 era stato arrestato a Messina, per contrabbando d’olio, il padrone Andrea Pagliano di Laigueglia e in quella circostanza – secondo le testimonianze raccolte dal console – «il contrabbando però l’ha seguito il venditore» e non il compratore19. Gli stessi problemi erano denunciati da tempo a Napoli dal console Molinello e proprio nella capitale partenopea, già nel 1729, il viceré Luigi Raimondo, conte di Harrach, aveva emanato un bando nell’intento di limitare l’uso improprio della bandiera imperiale, poiché da molti ufficiali di questo regno e di quei di Sicilia si concedono patenti, passaporti, e l’uso dell’imperial padiglione, anco a padroni genovesi e di altri stranieri, sotto pretesto di essere connaturalizzati, e dall’abuso che quei ne fanno, esimendosi con principi cristiani sotto l’ombra del Cesareo stendardo dalla soggezione della visita, che è l’unico mezzo da evitare i contrabbandi20.
L’azione combinata dell’Austria e della Francia costrinse infine i recalcitranti oligarchi genovesi a porre rimedio in materia di bandiere nazionali, senza però risolvere il problema delle bandiere ombra. La proposta di legge che imponeva ai capitani genovesi l’uso del vessillo bianco-crociato venne 18. asg, Archivio Segreto, Lettere consoli Marsiglia, 2621, 9 novembre 1731. 19. asg, Archivio Segreto, Lettere consoli Palermo, 2649, 15 agosto 1738. 20. Giacchero (1981, p. 147).
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approvata in Minor Consiglio il 16 novembre 1738, in Maggior Consiglio il 12 dicembre 1739 e finalmente pubblicata il 30 gennaio 174021. In sostanza le autorità genovesi vietarono a qualunque cittadino o suddito della Serenissima Repubblica tanto immediato, quanto mediato, convenzionato, feudatario di essa Repubblica, l’inalberare o far inalberare sopra qualunque bastimento nazionale altra bandiera, che non sia della Repubblica Serenissima, e ciò sotto qualunque pretesto, o modo escogitabile, anco nel caso di vendita simulata sotto pena della confisca de’ beni a chi contravvenisse e perdita del bastimento.
Per i rei la pena prevista era cinque anni di galea o equivalente pena detentiva22. Si trattava dunque di un intervento normativo simile a quelli adottati da tutte le potenze marittime dell’epoca. Nel caso ligure costituiva però un’intromissione nuova nelle pratiche marittime, tanto che, considerate le inadempienze dei padroni nazionali, si trattò di una norma rimasta in buona sostanza sulla carta. Nei primi vent’anni di vita della legge i risultati conseguiti furono modesti, considerando le reiterazioni e le continue lamentele dei consoli nazionali e stranieri. Probabilmente, invece, nell’ultimo quarto del secolo il problema venne in parte superato: molti preferirono seguire la legge e inalberare la bandiera nazionale, anche se per altro verso persistettero le irregolarità nella documentazione di bordo e con il contrabbando. L’applicazione della norma sulla bandiera nazionale, come detto, fu difficoltosa e durante la seconda metà del Settecento i padroni liguri, pur rispettando la legge più di quanto non facessero in passato, continuarono ad ogni occasione a inalberare la bandiera mascherata. I motivi di tale comportamento furono diversi: tra questi, sicuramente, ci fu la volontà di evitare in determinati porti le tasse esatte dai consoli e negli approdi del Dominio quelle estorte dai gabellieri di S. Giorgio. Capitava che lo stesso capitano issasse la bandiera nazionale in certi porti – tra cui Marsiglia – mentre all’interno del proprio Stato preferisse utilizzare una bandiera “comoda”. In questo senso muove la memoria del capitano Angelo Maria Vallebuona 21. Ivi, p. 148. Sulla legge del 1740, le successive reiterazioni e tutti i problemi connessi con tale argomento vennero archiviate in una filza dell’Archivio Segreto (Maritimarum, 1721) e in un’altra filza in cm, 441. Analogamente anche in altri Stati italiani furono archiviati dossier: asf, Consiglio di Reggenza, 780, fasc. 5; asv, Cinque Savi alla Mercanzia, ii serie, 102. 22. asg, Archivio Segreto, Maritimarum, 1721.
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indirizzata alla Giunta di Marina e archiviata nel dossier relativo al problema delle bandiere ombra, conservato nell’Archivio Segreto. Il padron Vallebuona indicava almeno quattro buoni motivi che spingevano i padroni liguri a scegliere la bandiera pontificia, una delle tante di comodo. Primo, «colla bandiera genovese partendo da Genova, e toccando Portofino, Spezia, o altro porto del Serenissimo Dominio, sul manifesto che fanno della robba di Portofranco, che per caso abbiano caricato in Genova» avevano l’obbligo di sborsare 25 lire, mentre questa somma non veniva richiesta ai padroni romani. Secondo, con il vessillo del papa si evitavano i taglieggiamenti dei doganieri: difatti, di solito, «venendo essi padroni da Napoli, Sicilia, o altra parte carichi, per esempio di grano, ed essendo obbligati dal tempo contrario ad entrare in taluno de porti della Serenissima Repubblica da guardiani di S. Giorgio si fa lo scandaglio del loro carico»; e visto che solitamente le imbarcazioni erano trovate sempre con carichi eccedenti la portata, i funzionari della Casa ne pretendevano una parte. Inoltre, terzo motivo, nel porto di Genova i padroni nazionali erano «soggetti alla visita dei birri»23, rapaci estorsori di merci e denari. Infine, quarto motivo, per quanto riguardava i diritti consolari nel Regno di Napoli, con la bandiera romana le spese erano pari a quelle che si sostenevano inalberando la bandiera genovese. Concludeva l’autore che la Repubblica, per incentivare i padroni a inalberare la bandiera nazionale, avrebbe dovuto eliminare tutti questi ostacoli economici e burocratici proprio negli approdi della Liguria24. Nonostante i consigli, le disposizioni e i buoni propositi, l’azione coercitiva dello Stato non ebbe effetto sul modus operandi dei capitani liguri, i quali, soprattutto negli scali dell’Italia meridionale, sfruttando anche le connivenze locali, continuarono a violare le leggi. Il console genovese a Palermo, Spinotto, scrisse numerose lettere, in cui si lamentava del continuo flusso di padroni liguri che, senza gli opportuni documenti, continuavano a presentarsi nei diversi porti «con una semplice patente delli consoli di Spagna o Livorno»25. In particolare, il contrabbando stava diventando un problema gravoso per le casse del Regno, tanto che la questione giunse alle orecchie del sovrano che – secondo la testimonianza trasmessa dal console a Napoli Luigi Molinelli – «giorni sono andando seco in carrozza il 23. Sulle prepotenze dei birri di S. Giorgio cfr. le diverse memorie dei Conservatori del Mare e della Giunta di Marina conservate in asg, Giunta di Marina, 40. 24. asg, Archivio Segreto, Maritimarum, 1721. 25. asg, Archivio Segreto, Lettere consoli Palermo, 2649, 16 febbraio 1741.
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Principe di Melfi gentiluomo di camera, disse lui: La Vostra Nazione è di spirito, e sa navigare, ma non può negarsi, che sono tanti bricconi, hanno soverchio ardire nel mio Regno»26. Molti problemi nei Regni meridionali si dipanarono nella seconda parte del secolo, un po’ per il salto di qualità operato dagli stessi padroni liguri, ormai talmente ben inseriti nei traffici granari e oleari da potersi disinteressare del problema della bandiera e della documentazione regolare di navigazione; e un po’ perché in Sicilia la situazione migliorò notevolmente grazie all’arrivo nel 1755 del viceré Fogliani, molto gradito ai grandi speculatori genovesi che fino al 1773 poterono dunque godere di grandi privilegi sull’isola. La diffusione delle patenti e delle bandiere false era possibile grazie alla connivenza tra i padroni, i capitani e l’apparato burocratico consolare. Il 4 ottobre 1762 il marchese della Banditella, rappresentante a Livorno per conto del re di Napoli, comunicò che si era scoperto che il padrone Stefano Cuneo, genovese, «che facevasi di Procida», aveva ottenuto dal viceconsole napoletano a Sète patente e bandiera napoletana senza averne diritto; inoltre, secondo la testimonianza di «un mezzano» del padrone, era stato rilasciato anche il passaporto falso, in cambio di «dieci scudi nuovi di Francia». Si scoprì, poi, che all’epoca del rilascio del passaporto del padrone Cuneo, il viceconsole a Marsiglia, Domenico Certaldo, durante un periodo di sostituzione del console don Francisco Hombrados, aveva venduto numerosi documenti falsi in cambio di denaro. Era stata concessa, infatti, la «patente di bandiera» a «un tal Stefano Serra genovese sotto il finto nome di Francesco Maresca napolitano, dopo averla ritirata dal vero padrone Francesco Maresca, che [era] arrivato in Marsiglia col suo bastimento di ritorno da Cartagena». Il finto padrone Maresca, alias Serra, ottenuta la nuova patente napoletana, riuscì a partire per il Levante, ma fu scoperto poco tempo dopo a Malta, dove fu arrestato «e poi liberato per clemenza di Sua Maestà»27. Frodare, contrabbandare, falsificare bandiere e documenti erano tutte azioni che rientravano nelle pratiche di un padrone, di un capitano o di un marinaio del xviii secolo: ma qualcuno difendeva l’onestà, la professionalità e la legalità della professione marittima?
26. asg, Archivio Segreto, Lettere consoli Napoli, 2644, 29 luglio 1749. 27. asn, Ministero degli Affari Esteri, Consolati, Livorno, 2719, 4 ottobre 1762 e allegati.
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Secondo i sociologi la nave è ancora oggi uno straordinario «laboratorio sociale», nel quale il lavoratore, in genere di sesso maschile, si trova segregato in spazi ristretti, assoggettato per intere giornate, tranne quando può scendere a terra, «ad una rete gerarchica di relazioni che sostengono una socialità poco diversificata, pervasa dall’ordine dei ruoli lavorativi»1. L’imbarco su una nuova nave sottoponeva e sottopone il marinaio, ma vale anche per gli ufficiali, a uno stress relativo all’adattamento al nuovo posto di lavoro e all’inserimento all’interno dell’equipaggio. Lo stress poteva essere lenito da una buona predisposizione del comandante e dei membri più influenti della ciurma. Di norma, il senso di affaticamento poteva essere ulteriormente limitato facendo leva sul fatto che il nuovo venuto avesse la stessa provenienza di un gruppo numeroso di uomini, la stessa lingua e la stessa religione. Il senso di appartenenza e di identità poteva generare maggiore integrazione a bordo, ma poteva anche tramutarsi in feroci conflitti tra gruppi diversi. Al medesimo tempo – come ha sottolineato Michel Mollat2 – la «composizione eterogenea degli equipaggi ha finito col produrre delle forme di integrazione», soprattutto in un mondo in cui i cambi di nazionalità e identità erano frequenti e facili da compiere. La nave, dunque, tra la fine del Medioevo e la prima età moderna divenne un luogo di lavoro senza frontiere, a carattere internazionale, multinazionale e transnazionale per eccellenza, così come indicato da Melville nel suo Daniel Orme, in cui «il nome del marinaio così come appare nel ruolo dell’equipaggio non è sempre il suo nome vero, né sempre indica la sua patria»3. Insomma, allora come oggi il mondo marittimo sfugge 1. Sacchetto (2009, p. 23). 2. Mollat (1993, p. 247). 3. Melville (1998, p. 109). Secondo l’Ordonnance de la Marine del 1681, titre vii/i «on appelle matelot celuy qui fait profession de fréquenter la mer, et qu’un maître de navire donne à chaque vaisseau pour l’assister».
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alle frontiere, ma è bene sottolineare che questa regola si modificò nel corso del tempo. Difatti, a partire dalla seconda metà del xvii secolo, a seguito della costituzione progressiva delle marine da guerra permanenti4, gli Stati cominciarono ad imporre le frontiere anche a bordo delle navi mercantili, secondo una escalation che porterà tra Sette ed Ottocento, e fino alla seconda metà del Novecento, alla creazione di equipaggi nazionali, imposti tramite normative tendenti a regolare il numero dei marinai stranieri al minimo – di solito 1/3 o 1/4 – il tutto nell’ottica di creare una componente nazionale della cosiddetta gente di mare, utile in caso di necessità ai fini bellici5. A partire dalle grandi potenze navali – Francia, Inghilterra e Olanda – un po’ tutti gli Stati presero a definire la categoria di gente di mare – in senso lato tutti coloro che lavoravano sul mare – tramite iscrizione in appositi ruoli, a cui avrebbero poi attinto le amministrazioni delle marine da guerra per mezzo di meccanismi di leva o arruolamenti forzati. Ecco perché uno dei documenti di bordo obbligatori divenne il ruolo d’equipaggio che, come ricorda ad esempio la normativa sabauda di metà Settecento, «sia per due terzi composto da sudditi di Sua Maestà e che si intenda per sudditi tutti quelli che abbiano il domicilio nelle località soggette a Sua Maestà»6. Il ruolo d’equipaggio, formalmente, doveva rispettare la direttiva imposta dagli Stati, ma è evidente che tale regola poteva essere facilmente aggirata. Era molto semplice alterare siffatto documento, fornendo nominativi falsi, magari applicando ai vivi l’identità di marinai deceduti precedentemente. Inoltre, è possibile ricavare dalla documentazione che le stesse amministrazioni statali preposte al controllo spesso chiudevano un occhio oppure concedevano la deroga della norma ai fini di poter assicurare la regolarità dei commerci7. La questione poi si complica ulteriormente se si analizzano scenari diversi: in generale sulle navi oceaniche, su quelle delle compagnie privilegiate, sui pescherecci del Nord Europa la tendenza era comunque quella di avere a bordo equipaggi multinazionali, poiché le sole provenienze nazionali non riuscivano 4. Glete (2010). 5. Per la Francia cfr. il regolamento reale del 20 ottobre 1723, che riprendeva quello precedente del 4 marzo 1716. adbr, Amirauté, 9 B 5, c. 596r. 6. ast, Archivio di Corte, Città e Contado di Nizza, Porto di Villafranca, mazzo 6, fascicolo 4, 3 dicembre 1757. 7. adbr, Amirauté, 9 B 5, c. 909r, 25 maggio 1730 e 9 B 6, c. 114v, 2 marzo 1734.
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a soddisfare la domanda8. Un esempio è dato dalle composizioni delle ciurme dei navigli olandesi o di quelli di Dunkerque, studiati così bene da Cabantous, o ancora di quelli di Bordeaux e Nantes, porti negrieri, nel xviii secolo9. Anzi, in questi due ultimi casi, a partire dal 1730, le stesse autorità locali invitarono l’amministrazione regia a facilitare l’ingaggio di marinai stranieri al fine di farli risiedere in loco. In altri casi, come in Inghilterra, o in alcuni piccoli Stati italiani, come Genova, l’abbondanza di marinai permetteva in modo naturale la composizione nazionale degli equipaggi. In Liguria, ad esempio, anche a seguito della legge che imponeva l’uso della bandiera nazionale, varata nel 174010, non furono introdotte regole specifiche sulla composizione degli equipaggi, anche perché i marinai locali erano abituati, forse più degli altri, a possedere più nazionalità nel corso della propria vita. Le provenienze, le identità locali e le appartenenze religiose potevano avere ripercussioni sociali all’interno del luogo di lavoro. A bordo, negli spazi ristretti, bisognava trovare un difficile equilibrio comportamentale, dettato sovente dalla contrapposizione di gruppi, più o meno numerosi, organizzati massimamente in base alle provenienze nazionali, regionali o locali. Più gli equipaggi erano misti e meno si creavano situazioni in cui un gruppo dominante imponeva le proprie regole. Quando, invece, come previsto dalle leggi, vi era un gruppo nazionale preponderante, questo tendeva a vessare e a comandare i marinai considerati stranieri, anche perché la parte dominante apparteneva alla stessa nazionalità del comandante. Buona, altresì, era la composizione mononazionale dell’intero equipaggio, anche se potevano riprodursi le stesse problematiche dovute alle differenze locali. È questo il caso della Repubblica di Genova che aveva un basso numero di abitanti, ma un alto tasso di gente di mare in grado di poter fornire un’elevata percentuale di equipaggi nazionali11. Nel contempo, però, le forti differenze e contrapposizioni locali si riflettevano all’interno delle ciurme, tanto che, nel caso delle imbarcazioni cabotiere con equipaggi che perlopiù arrivavano a comprendere una ventina di persone, di solito si preferiva 8. Cfr. il caso olandese, in cui tra il 1664 e il 1803 la percentuale di stranieri a bordo sfiorava il 40%, mentre per i paesi scandinavi e per la Francia la forchetta variava tra il 94 e il 99%: Van Rossum et al. (2010, p. 56); Van Royen (1994, pp. 47-57). 9. Saugera (1995); Pétré-Grenouilleau (1996). 10. La legge, approvata dai Collegi il 30 dicembre 1739, venne pubblicata il 30 gennaio 1740. asg, Archivio Segreto, Maritimarum, 1721; Lo Basso (2011, pp. 66-72). 11. Un tentativo di calcolare la consistenza della gente di mare di Liguria si trova in Zanini (2006, pp. 1091-102); asg, Giunta di Marina, 42 bis.
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reclutare uomini all’interno delle medesime comunità o addirittura all’interno della cerchia familiare. Queste affermazioni sono facilmente verificabili se si esaminano i ruoli d’equipaggio archiviati dalla cancelleria dei Conservatori del Mare tra il 1782 e il 1790, nei quali è evidente non solo la composizione nazionale, ma anche la tendenza a formare equipaggi in sede locale e, come nel caso della polacca L’Immacolata Concezione, comandata dal capitano Giuseppe Dodero di Boccadasse, a formare una ciurma di 18 persone, di cui 12 appartenenti alla stessa famiglia del comandante; così come similmente gli stessi Dodero erano presenti per un terzo a bordo della polacca Sant’Antonio da Padova, comandata dal capitano Angelo Dodero12. Lo stesso accadeva, seppur con qualche differenza, anche in altre realtà portuali, come ad esempio Livorno. Anche nel Granducato, nella seconda metà del xviii secolo, le autorità presero a controllare maggiormente i ruoli d’equipaggio, costringendo gli scrivani ad indicare chi fosse «nazionale» e chi no, ricordando però che in Toscana per essere considerato «nazionale» bastava semplicemente essere domiciliato sul territorio. Tanto è vero che scorrendo gli elenchi dei ruoli toscani si nota con tutta evidenza la fitta presenza di marittimi liguri “naturalizzati” a Livorno13. Certo è che dalla medesima documentazione emergono, almeno dalle prime analisi, dei dati suggestivi sulla nascita dei primi nazionalismi, proprio in un luogo di lavoro tradizionalmente «senza frontiere»14. In effetti, sempre attraverso l’osservatorio ligure si apprende come, nonostante tutto, nella seconda metà del Settecento le leggi che imponevano la bandiera nazionale cominciarono a sortire qualche effetto – come si è visto per i ruoli d’equipaggio –, stimolando nella mentalità dei marittimi un maggiore senso di appartenenza/identità. In tale contesto dobbiamo inserire i molteplici rifiuti a navigare con bandiere estere da parte di numerosi marinai liguri, raccolti negli atti giudiziari dei Conservatori del Mare. Secondo l’istanza presentata dal marinaio Ignazio Musso il 6 febbraio 1713, parte dell’equipaggio imbarcato a bordo della nave comandata dal capitano Domenico Campanella, allorché questa si trovava alla fonda nel porto di Lisbona, si rifiutò di proseguire il servizio perché il capitano 12. asg, cm, 466, 27 gennaio e 31 gennaio 1783. 13. asl, Governo Civile e Militare di Livorno, 1300, ruoli di bastimenti toscani 176468; negli stessi anni si compilarono i ruoli della gente di mare anche nei territori austriaci sotto l’amministrazione di Trieste: molti marinai, soprattutto nella zona di Fiume, si rifiutarono di farsi immatricolare. asts, Intendenza Commerciale per il Litorale di Trieste, 541. 14. Hobsbawm (1991).
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prese un noleggio per Venezia con l’obbligo della bandiera inglese, e di poi venne il capitano al bordo della sua nave, e fece chiamare tutta la gente con dirle che […] chi voleva seguitare, seguitasse che le sarebbero corsi li salari come prima e chi non avesse voluto le avrebbe dati i loro avanzi e condotta.
In molti sbarcarono a Lisbona e furono liquidati davanti al console genovese presente in loco, mentre altri proseguirono il viaggio, ma, secondo la testimonianza del marinaio Musso, «dopo venti giorni circa, in tempo che già il capitano aveva la gente inglese a bordo, vendette la sua nave a portoghesi e per il che li marinari ritornarono dal capitano suddetto per la pretesa condotta». Tra chi decise di sbarcare a Lisbona, rifiutandosi di proseguire il viaggio con bandiera inglese, vi era il marinaio Antonio Rustico, il quale, durante l’interrogatorio, confermò esser vero che questo Natale prossimo passato essendomi ritrovato in Lisbona dove ero andato colla nave del capitano Domenico Campanella in quale servivo da marinaro, avendo inteso e visto che detta nave aveva mutato bandiera mi feci pagare dal capitano le mie mesate e le dissi che non volevo continuare al suo servizio che perciò mi desse la solita condotta per seguirmene a Genova; il capitano oltre le mesate mi diede di più pezzi quattordici cioè più due mesi per condotta, atteso che ero salariato per pezzi sette il mese15.
Qualche anno più tardi, il 17 marzo 1742, un altro marinaio rivierasco rifiutò di imbarcarsi e fece arrestare a Lerici il padrone Andrea Traverso per aver voluto far navigare il proprio bastimento con bandiera e patente dei Savoia a scapito delle insegne della Superba. Secondo le testimonianze raccolte dal cancelliere dei Conservatori del Mare, a Lerici ci fu una dura discussione tra il padrone Traverso di Pegli e il resto dell’equipaggio, proprio perché questi voleva inalberare la bandiera sabauda, sostenendo di essere residente a Loano e perciò di essere suddito del Regno di Sardegna. I marinai, invece, inferociti, decisero di andare a denunciare il padrone al podestà di Lerici, il quale, applicando la nuova legge del 1740, decise arrestare il padron Traverso16. In modo analogo, il 19 maggio 1753 Domenico Fresco denunciò il comportamento irregolare del padrone Damiano Bollo, sostenendo che: 15. asg, cm, 339, 6 e 11 febbraio 1713. 16. asg, cm, 417, 17 marzo 1742.
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[il] giorno di mercoledì santo prossimo passato trovandomi nel luogo della Pietra mi venne prima di qualche giorno a ritrovarmi il padrone Damiano Bollo con dirmi se volevo seco lui portarmi col suo bastimento a Marsiglia o altrove e io risposi che per venirvi ad imbarcarmi volevo una doppia ma poi si aggiustò con un zecchino tra lui e me […] et essendosi partiti con il bastimento dalla Pietra dal detto padrone fu arborata una bandiera di Savoia, […] sopra ciò ho stimato di lasciar ivi la mia roba e venirmene a casa17.
I nazionalismi nascenti sfociavano spesso in risse ed episodi cruenti, sia a bordo delle navi che all’interno dei bacini portuali, così come avvenne il 14 maggio 1749 a Genova, quando, a seguito di imprecazioni contro «la nazione genovese» fatte da marinai slavi imbarcati su una nave veneziana, vi fu un tentativo di linciaggio operato da un gruppo di marinai e barcaioli locali, poi scongiurato dall’intervento della forza pubblica18. La violazione della bandiera, l’insulto alla nazionalità, l’attacco all’identità che ciascun marinaio del Settecento cominciava a sentire sempre più forte sfociavano in violenza un po’ dovunque nel Mediterraneo. Secondo i resoconti raccolti dal governatore di Porto Longone, nel mese di ottobre 1784 la bandiera napoletana fu gravemente “insultata” da alcuni abitanti di Finale, borgo della Riviera di Genova. Protagonista, passivo però, fu il padrone Fabio Chionzini di Rio Marina, piccola località dell’isola d’Elba da dove in genere partiva il minerale di ferro d’esportazione. Il padrone, pronto a salpare il 5 ottobre con un carico diretto a Finale, fu costretto a farsi sostituire per un malore da Francesco Chionzini «che partitosi si trasferì in Finale ove giunti il 14 suddetto mese e preso pratica principiò di fare il discarico della vena per conto e rischio di Luigi Rossi mercante interessato sopra il bastimento». Fin qui potrebbe sembrare un normale e regolare racconto di un viaggio tranquillo, sennonché, giunto al Finale accadde che dopo aver pratica il dì 14 del mese di ottobre si cominciò a far lo scarico della vena che avevo portato per conto e risico del signor Luigi Rossi mercante interessato sopra il bastimento carico di vena, ed essendomi io portato al magazzino per assistere al peso della vena, che di mano in mano portavano li marinari del bastimento poco porzione dal conto, mi vidi verso le ore 23 italiane in circa che li marinari non portavano più vena e non sapendo che cosa potesse provenire tal ritardo partii dal magazzino per andar verso il bastimento trovai un quanto tumultuoso bisbiglio che sbirri con quattro o cinque soldati ave17. asg, cm, 418, 19 maggio 1753. 18. asg, cm, 417, 14 maggio 1749.
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vano arrestato il bastimento con aver messo le guardie a poppa e a prua e alli cavi e che avevano fatto oltraggio al padiglione.
Il padrone, «rattristato per l’offesa», non poté che recarsi dal locale viceconsole di Napoli per raccontare l’episodio e per procedere a un’azione di protesta formale, «ma siccome il console è di nazione genovese lo trovai tutto impaurito e abbenché promettesse di farsi dar conto degli atti così inconvenienti nulla fece, perché il ratto era stato premeditato col suo consenso». In pratica, Luigi Rossi, che vantava un credito nei confronti di Fabio Chionzini, il vero padrone del bastimento, aveva chiesto la collaborazione dei birri locali in accordo con il viceconsole napoletano, per poter bloccare e sequestrare il bastimento, appena giunto a Finale, facendo simulare un inseguimento di due soldati disertori scappati a bordo dell’imbarcazione elbana. Nonostante le proteste, e il tentativo di sistemare i conti del padrone Chionzini da parte di un altro comandante di Rio, il bastimento fu mantenuto sotto sequestro, mentre l’equipaggio fu liberato e poté tornare all’Isola d’Elba, dove in effetti venne narrato il fatto. Francesco Chionzini raccontò al governatore, infine, di avere 26 anni, di essere solito «navigare con bastimenti carichi della vena del ferro della miniera di Rio per Palo, per Montalto, per Genova e per il Finale Riviera di Genova», e che queste imbarcazioni sono solite «navigare con bandiera e passaporto di Sua Maestà il Re di Napoli che Dio lo guardi»19. Questi episodi, quasi sempre scaturiti per motivi economici, generavano però delle faide «nazionalistiche» che poi duravano decenni, e che in qualche modo anticipano le guerre a sfondo nazionalista dei secoli xix e xx. L’avversione manifestata nei confronti della bandiera napoletana nell’episodio di Finale aveva delle origini di lungo periodo, che sfociavano di tanto in tanto in episodi di inaudita violenza. Il mattino dell’8 novembre 1752 giunse nel porto di Civitavecchia il padrone Gio. Batta Tessada, sempre di Finale, con «il suo pinco di bandiera genovese equipaggiato da altre 12 persone, e carico di diverse mercanzie», il quale fu ormeggiato «sotto il molo della banda detta il Bicchiere, acciò quivi scontasse la contumacia, a cui era soggetto per la sua provenienza da Livorno». Due giorni dopo, siccome «si fece il mare assai burrascoso», si rifugiarono in porto numerose tartane pescherecce napoletane e una di queste diede fondo all’ancora vicina al pinco ligure e a quel punto «pretesero i genovesi, che la gomena dei napoletani danneggiasse la gomena loro». Da ciò nacquero «l’istessa 19. asn, Ministero degli Affari Esteri, 4828.
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sera dei contrasti fra i marinari dell’una e dell’altra nazione», tanto che il padrone Tessada decise di recarsi dal console di Napoli per protestare, chiedendo che «pigliasse provvedimento», ma questi diede «poco orecchio» alle richieste dei genovesi. Persistendo dunque le suddette tartane nella istessa situazione, la mattina seguente dei 12 si risvegliarono da una parte, e dall’altra più caldi che mai i contrasti, di sorte che, passando dalle parole e dalle ingiurie ai fatti, i napoletani presi dei sassi dalle loro zavorre, gli lanciarono contro i genovesi, i quali dato mano ai loro fucili, spararono cinque archibugiate, e poi immediatamente due altre contro gli avversari, per le quali restò subito ucciso un marinaro napoletano.
La risposta dei marinai di Napoli non si fece attendere: decisi subito a vendicarsi e, «animati dal loro console», si armarono di fucili, «sciable et accette, e altri instrumenti» e con «furia indicibile tagliarono tutte le gomene del pinco per obbligarlo a dare in terra, e per poterlo abbordare». In quel momento l’ufficiale di guardia pontificio fece sparare «due cannonate senza palla per quietare il tumulto», ma fu tutto inutile, perché i napoletani montati sul pinco, e stracciatane la bandiera, procurarono di offendere quanto potessero i genovesi, che si erano ritirati sotto coperta, con sparare contro di loro delle archibugiate, con gettare delle bocce di fuoco nel boccaporto, e con scaricare contro il pinco due degli stessi suoi cannoni, dai quali fattasi un’apertura nel bastimento, andò poi al fondo, e come che alcuni dei genovesi, per non perire affogati, si buttarono a nuoto dalli sportelli, sette di essi furono sì malconci, e feriti dai napoletani, che uno in capo a due giorni ne morì20.
Questi episodi, come detto, alimentavano le faide, generando vendette che sfociavano nel sangue21. Qualche mese prima dei fatti di Civitavecchia, per altri motivi, il capitano Giambattista Castelli, comandante di una galeotta corsara genovese, entrò nel porto di Cagliari alle ore 11 del 24 giugno, festa di San Giovanni Battista patrono di Genova, per vendicarsi dell’omicidio di un marinaio ligure, imbarcato sulla galeotta corsara agli ordini del capitano Ciaferro, commesso da un marinaio siciliano, «creduto per altro maltese a motivo de essersi trovato al servizio di una delle galere della Religione». Giunto nel porto cagliaritano, il padrone Castelli, trasferitosi a bordo di una lancia con quattro o cinque suoi marinai, decise di controllare una 20. asg, Archivio Segreto, Maritimarum, 1710. 21. Povolo (2013, pp. 53-104).
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tartana francese che stava per salpare, credendo che il presunto assassino là si fosse rifugiato. Durante le operazioni di controllo i marinai genovesi riconobbero «in un paesano sardo» l’uomo da uccidere e così «lanciaronsi con impeto contro di esso tre, o quattro di detta ciurma, ed a viva forza lo trassero nel bastimento, dove appena entrato lo malmenarono a colpi di sciabola e coltello». Condotto il sardo a bordo della galeotta corsara, i marinai genovesi «lo guidarono alla camera di poppa, dove si lamentò con capitan Castello de’ maltrattamenti ricevuti, ma ivi trattenuto per lo spazio di una mezz’ora, ancorché più volte si fosse licenziato si sciolsero finalmente di lasciarlo partire». Secondo il verbale, compilato dalle autorità sabaude: tre sono le ferite che il sardo ha ricevute delli colpi sofferti; cioè una sulla testa nell’osso coronale, che si giudica fatta da un’arma di punta, l’altra sopra la mandibola inferiore del lato destro, la quale si crede cagionata da instrumento contundente e finalmente la terza al gomito del braccio destro fatto da arma simile, tutte però leggere.
Ma la vendetta non era compiuta. Scoperto che al molo vi erano tre maltesi che vendevano legname per le riparazioni navali, il capitano Castelli inviò una lancia con «sei uomini, che sbarcarono tre per volta, quattro de quali armati di sciable sfoderate nascoste dietro alle spalle, e gli altri due con pistole alla cintola coprendone il calce con la mano». Interrogati i tre maltesi, i marinai genovesi seppero che il presunto omicida si era rifugiato dentro la «casetta della sanità». Ma proprio mentre un gruppo di corsari si apprestava ad assaltare la casetta, un altro gruppo, gridando, avvertì che l’assassino era stato preso. Ma che fine aveva fatto il marinaio sardo? Il giorno dopo fu visto legato con catene al secondo banco di prora […] e l’istesso chiamar soccorso ad alta voce, poiché altrimenti sarebbe stato ucciso, onde avvertitone l’uffizial di guardia accorse questi con sei o otto soldati ed una moltitudine di gente del luogo dove la gomena di detta galeotta era legata per impedire che non fosse sciolta, lo ché vedendo il capitan corsale sparò verso il mondo ivi concorso fra cui era la truppa, quattro armi da fuoco, una egli stesso e le altre l’equipaggio senza però aver fatto danno.
Pochi giorni dopo il governo vicereale protestò vivamente per questi episodi di violenza presso il console genovese Giuseppe Ranucci, il quale ridimensionò la questione, rispondendo che si era trattato di «una bagattella 155
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ed una cosa leggera». Aggiunse inoltre il console che i colpevoli non potevano essere arrestati perché si erano rifugiati in chiesa e che ad ogni modo «lui non doveva far alcuna parte contro i suoi, ma bensì era in obbligo di difenderli in qualunque maniera avesse potuto». Secondo le informative trasmesse al governo sardo, pare che il capitano Castelli fosse tristemente noto nei diversi porti del Tirreno per essere uomo «violento e troppo caldo» e che l’anno prima fosse stato arrestato a Porto Longone per traffico illegale di disertori siciliani, imbarcati a Pantelleria22. Come abbiamo visto, i rifiuti all’imbarco sembrerebbero di primo acchito indirizzati esclusivamente nei confronti delle bandiere di due Stati considerati nemici, o per lo meno non amici, della Repubblica di Genova, come il Regno di Sardegna e la Gran Bretagna. Tuttavia, se ciò conferma la diffusione di un senso identitario nazionalista presente anche a Genova, è bene sottolineare che tali episodi potrebbero nascondere mere contrapposizioni legate a frizioni ed antipatie tra alcuni marinai e i rispettivi comandanti, e perciò la questione della bandiera diventava un pretesto solo per rifiutare determinati imbarchi, o per giustificare liti scaturite, ad esempio, da ormeggi mal effettuati all’interno dei ponti23. Nella fattispecie, nell’archivio dei Conservatori del Mare esistono delle “montagne di carte” nelle quali vi sono diversi episodi relativi ai rifiuti a navigare con un determinato comandante perché non considerato all’altezza o perché considerato crudele dai marinai, il tutto motivato dalle appartenenze locali. Un caso paradigmatico in questo senso è quello che si riferisce a una rissa scaturita a bordo della nave Nostra Signora della Misericordia e Sant’Antonio da Padova, approdata a Genova nel mese di agosto del 1713, proveniente con un carico di grano dal Peloponneso. L’episodio si svolse a bordo nel luglio del medesimo anno, allorché il capitano Giacomo Dotto si lamentò pubblicamente, brandendo un bastone, contro i suoi marinai, rei di aver manovrato assai male la velatura. Alle accuse dure del capitano rispose il marinaio Giovanni Francesco Brea, che a sua volta protestò vivamente accusando il comandante di essere incapace e violento. Giunti a quel punto, il capitano Dotto chiese in aiuto l’intervento del nocchiere Bernardo Tixi, il quale però, a sorpresa, si schierò dalla parte dei marinai. Ne scaturì una violenta rissa, in cui il nocchiere colpì il capitano con un pugno. 22. asc, Segreteria di Stato e di Guerra, serie ii, 29. 23. Sulle risse scaturite da litigi dovuti agli ormeggi nei porti vi è una casistica documentaria immensa sia nell’archivio genovese (ad esempio, asg, cm, 344, 3 febbraio 1729), sia in quello livornese (anche in asl, Capitano poi Governatore poi Auditore di Livorno, 3266, 31 luglio 1789).
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Tra le tante motivazioni presentate davanti al Magistrato dei Conservatori del Mare, si faceva riferimento al fatto che, a differenza del capitano, la maggior parte dei membri dell’equipaggio era nativa di Arenzano come il nocchiere, e questo fece sì che i marinai, invece di arrestare il compaesano Tixi, si ribellarono contro il comandante e anzi nel dibattimento dichiararono che l’aggressione era cominciata per colpa di quest’ultimo e che solo in un secondo momento vi era stata la reazione violenta del nocchiere24. La vicenda del nocchiere Tixi ci traghetta verso il tema delle conflittualità sociali che potevano sorgere a bordo. Genericamente, i conflitti più comuni derivavano dal cattivo rapporto tra marinai e capitani, per ragioni economiche o come nel caso precedente da malversazioni inferte dai comandanti al proprio equipaggio. La violenza a bordo era all’ordine del giorno. Aggressioni, ferimenti, risse che spesso sfociavano in omicidi genericamente rubricabili come colposi. I motivi di tali conflitti potevano essere molteplici, spesso banali, frequentemente dettati da ragioni economiche. Il 17 aprile 1750 il marinaio di Lerici Pellegrino Biagino denunciò il proprio padrone Michele Giannone, anch’egli di Lerici, sostenendo che «detto padrone mi ha tirato dei pugni per la faccia e per la testa da uno dei quali sono rimasto offeso all’occhio sinistro», a causa di una discussione in merito ai conti di bordo. Il 21 luglio 1751, il marinaio varazzino Stefano Baglietto denunciò un ignoto marinaio di Savona che lo aveva colpito con un pezzo di legno: La cagione è stata perché essendo in dett’ora il nostro liuto a bordo ad una barca di Lavagna dirimpetto al Ponte Reale, li marinari di detta feluca di Savona ci avevano levato la volta, e siccome noi volevamo entrare per caricare del grano esistente nella barca, così uno dei medesimi della filuca che non voleva che entrassimo mi ha ferito25.
Allo stesso modo, abbiamo visto che molte liti nascevano da contrasti tra i marinai e i capitani. Il 20 giugno 1750 il padrone Alfonso Chiappe denunciò uno dei suoi marinai, Francesco Varese, per averlo sbeffeggiato ripetutamente a causa di castighi inferti dal comandante perché il marinaio «si compiaceva di arrivare tardi a bordo per mangiare perché era stato a ballare». In altri casi, le reali motivazioni sfuggivano al Magistrato, così come 24. asg, cm, 455, cc. 85v-87v; 112r-123r; 126r. Le risse sfociavano spesso in omicidi, come nel caso dell’uccisione del capitano olandese Hary Schonouen, morto per una coltellata infertagli da un marinaio. adg, Amirauté, 6 B 1352, 5 gennaio 1746. 25. asg, cm, 417.
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si ricava dalla denuncia del 7 ottobre 1747 di Lazzaro Casella, depositata contro Giovanni Paolo Marini per le ferite inferte dallo stesso Marini contro il figlio del Casella con un piatto rotto mentre si trovavano in porto a Livorno. La vittima era il garzone di bordo che si occupava solitamente di apparecchiare la tavola e in quella circostanza, secondo l’aggressore, non aveva per tempo provveduto a sparecchiare e così per punizione era stato ripetutamente colpito alle mani. Parimenti accadde nel giugno 1745, allorché il padrone Francesco della Casa testimonia ciò che segue: Ritornato verso la mezza notte a bordo, trovai che Agostino Marino dispensiere aveva conteso di parole con Mario Bregante marinaro e che dopo [aver] chiamato lo stesso Bregante mentre stava il medesimo nel suo rancio per dormire con dirle che voleva parlarli ed avendolo guidato sino al molinello di prora le tirasse detto Agostino al Bregante uno schiaffo et indi con un rasoio lo ferisse in una costa.
Motivi futili ci furono nel caso del ferimento del marinaio Paolo De Ferrari di Savona, aggredito a bastonate dal padrone Marco Podestà il quale disse: «ti conosco che sei di Savona casta di merda»26. In sostanza, dalle carte giudiziarie emerge, e non potrebbe essere diversamente visto il tipo di fonte, un mondo intriso giornalmente di violenza e di dolore, come ha ben evidenziato ancora recentemente Arlette Farge a proposito del ceto popolare della Parigi del xviii secolo27. Il 13 luglio 1752, il chirurgo Antonio Maria Gandolfo depositò presso la cancelleria del Magistrato dei Conservatori del Mare la propria relazione nella quale sosteneva di aver medicato Giuliano Bollo di Gio. Batta con una ferita nel braccio destro anteriormente d’alto in basso fatta da arma di ponta cum minimo vite periculo e questa abita in casa del sarto Gerolamo Boggiano nel vico di mezza galera alla prima porta della parte sinistra n. 182.
Nel contempo, il marinaio Giuliano Bollo aveva citato in tribunale per lesioni il marinaio Tommaso Bollo, entrambi imbarcati sul bastimento del padrone Stefano Chiappe, salpato carico di sale da Trapani e diretto a Genova et arrivati avant’ieri al dopo pranzo verso le ore 21 circa lontano da Livorno per cinque miglia, ivi tutti noi marinari volendo mutar la vela per distaccarsi più dalla 26. asg, cm, 417. 27. Farge (2007, 2013).
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spiaggia, […] esso Tommaso Bollo mi disse arrabbiato, che tiravo quella fune con rabbia, et io gli dissi per due volte, che non era vero.
A quel punto Tommaso Bollo rispose con violenza «che mi voleva mangiare il sangue et io gli risposi, che in barca bisognava portar rispetto». La risposta fu feroce perché Tommaso aggredì con un’arma da taglio il marinaio Giuliano che rimase ferito al braccio28. Le liti risolte con il coltello erano all’ordine del giorno, tanto che lo stesso Magistrato in quei casi comminava pene lievi, quasi a voler accettare il modus vivendi violento della marineria. In qualche circostanza i marinai tendevano a sostituirsi alle autorità, compiendo azioni vendicative – come si è già visto negli episodi di Finale, Civitavecchia e Cagliari – ritenute giuste per punire quel comandante o quell’ufficiale che si reputava in torto. Secondo la dichiarazione rilasciata il 3 maggio 1714 dal capitano Nicolò Campanella, nel gennaio di quell’anno, allorché a Cadice aveva venduto la propria nave denominata San Gaetano, il marinaio Giacomo Maria Boero, alla testa di un facinoroso manipolo di altri marinai, si presentò al capitano per pretendere il pagamento dei salari, altrimenti avrebbe aspettato lo stesso Campanella in un vicolo «per tagliarli un pezzo di carne e darlo in pagamento agli altri compagni». Il comandante riuscì a sfuggire all’agguato e dopo aver rilasciato una prima deposizione davanti al console genovese a Cadice fece arrestare il Boero, che successivamente venne consegnato alle autorità una volta giunti nel porto di Genova29. La causa del capitano Campanella evidenzia con chiarezza quale fosse il motivo principale dell’alta conflittualità a bordo: il mancato pagamento degli emolumenti ai marinai. Queste liti provocavano reazioni violente e scomposte da una parte, rifiuti a navigare dall’altra, diserzioni, ammutinamenti30 e infine il ricorso al tribunale, sempre più l’unica «ancora di salvezza» per le parti sociali più deboli. A tal proposito, la linea operativa dei Conservatori del Mare era di render noto ai marittimi che ogni qual volta un capitano o un padrone marittimo non avessero regolato le proprie pendenze con i marinai, questi ultimi avrebbero dovuto presentarsi dal Deputato di mese. In effetti, contrariamente a quello che avveniva per esem28. asg, cm, 418. 29. asg, cm, 455. 30. Cfr. “Review of Social History”, 58, 2013.
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pio nella vicina Livorno31, dove le cause per i mancati pagamenti di salari risultano relativamente poche, a Genova, la documentazione ci suggerisce per converso una fiducia nelle istituzioni e un continuo ricorso alla snella procedura prevista dal Magistrato. A partire dal primo decennio del Settecento, infatti, per le liti derivate dal mancato pagamento dei salari o delle parti era stata architettata una procedura snella, basata sulle testimonianze e regolata dal solo Deputato di mese, il quale ordinava di saldare i mancati pagamenti nel giro di 2 o 3 giorni al massimo, dopo l’avvenuta affissione dell’avviso nella pubblica piazza, con procedura alla mercantile e senza tela giudiziaria. Tale sistema tendeva a minare la fiducia verso i padroni e i capitani morosi, progressivamente non più in grado di reclutare equipaggi efficienti. La perdita della fiducia dei marinai comportava anche la perdita della fiducia degli investitori, i quali dirottavano i loro denari verso capitani solventi. Certo, come è facile intuire, molte dispute per mancati pagamenti furono regolate di persona e senza lasciar traccia scritta, ma la presenza di un elevato numero di cause depositate presso la cancelleria del tribunale dimostra come nel corso del secolo la presenza delle istituzioni crebbe a dismisura, entrando così nella vita quotidiana e nella mentalità della gente di mare dell’epoca. Secondo Rediker «il marinaio era un lavoratore libero e mobile in un’economia internazionale in espansione», che si muoveva in cerca di un ingaggio e di un salario adeguato. Il contratto, di solito stipulato oralmente davanti a testimoni, si basava sulla natura del viaggio e sulla retribuzione offerta dal capitano. Una parte significativa – specifica ancora lo stesso Rediker – «dell’accordo per il salario, ovvero ciò che riguardava il cibo, le bevande e i premi, era lasciato alla consuetudine»32. Solitamente erano in uso nel xviii secolo tre tipologie contrattuali. Il primo e più antico contratto era basato sui dividendi, e in sostanza il marinaio guadagnava in base a una quota-parte prestabilita, calcolata con riferimento agli utili derivati dalla navigazione; il secondo prevedeva una retribuzione a forfait, calcolata a viaggio (tale tipo di contratto era molto in voga nell’Europa settentrionale); infine il terzo prevedeva un emolumento sotto forma di salario mensile. Quest’ultima tipologia si impose sempre più, soprattutto per i viaggi lunghi e per i bastimenti più grandi, dotati di equipaggi molto numerosi. Per 31. Per la giurisdizione del governatore di Livorno, a partire da quanto stabilito nel 1553 cfr.: asl, Governo Civile e Militare, 959 e soprattutto 965, cc. 383v-384v e 395v-396r; Addobbati (2015, pp. 43-60); Sanacore (1989, pp. 77-93). 32. Rediker (1996, pp. 149-62).
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converso, sulle imbarcazioni adibite al piccolo e medio cabotaggio, dove gli equipaggi poche volte superavano le venti persone, sulle imbarcazioni corsare e su quelle pescherecce era preferito il sistema di retribuzione alla parte. In effetti, se analizziamo un campione di bastimenti con bandiera genovese visitati dai Conservatori del Mare tra gli anni 1708 e 1711, si osserva che le due tipologie contrattuali sono distribuite all’incirca al 50%, ma sulle imbarcazioni con equipaggi inferiori alle 40 persone il 100% delle retribuzioni avveniva con il sistema “alla parte”33. Genericamente, in ogni caso, il marinaio percepiva un anticipo al momento dell’imbarco, una sorta di premio d’ingaggio. L’anticipo poteva consistere in una o due mensilità, oppure in una cifra fissa, di norma abbastanza alta. Ma dove era possibile trovare un imbarco? Ogni città aveva i suoi luoghi deputati, ubicati in punti strategici vicino al porto. A Genova, tradizionalmente fin dal Medioevo, era possibile trovare un ingaggio nella zona di Piazza Banchi (dove c’erano i banchi e dove si poneva banco), nel luogo in cui peraltro vi erano anche numerosi «scagni» di notai e dove inoltre aveva la propria sede operativa anche la magistratura dei Conservatori del Mare. In pratica in un piccolo reticolo di vicoli, attorno alla piazza, sovrastata dalla chiesa di San Pietro, era possibile cercare e offrire lavoro marittimo, sotto lo sguardo vigile delle autorità, alle quali si poteva ricorrere con rapidità ogni qual volta si pensava di aver ricevuto un torto. Gli accordi per l’imbarco avvenivano a Genova, come in altri porti, soprattutto Livorno, nelle osterie34. Il 20 agosto 1785 Domenico Bargiacchi di Pistoia raccontò al cancelliere del governatore del porto labronico che qualche sera prima era in compagnia di Amadio Carrara, quando: [un] furiere maltese ci condusse tutti e due a bere alla Luna [una delle osterie più in voga tra i marinai di Livorno] e essendo egli assieme con un corso. In detta osteria il furiere ci fece dar da bere, e poi cominciò a dirci che ci volevano ingaggiare per Malta avessimo avuti 25 scudi d’ingaggio: noi si disse di volersene sapere niente, ma tanto disse, che gli dessimo la parola, e ci disse, che dovevamo spacciarci per lucchesi, e fra questi vi riconobbi anche un tal Pagnini di Pistoia.
33. asg, cm, 460. 34. Le osterie erano centrali nella vita dei marinai anche a Genova, così come ci viene indicato da un documento prodotto il 12 febbraio 1737 dagli stessi Conservatori del Mare a proposito della continua dispersione degli equipaggi appena sbarcati che avveniva giornalmente proprio dentro tali locali. asg, cm, 447.
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Nonostante le opposizioni, i due marinai furono imbarcati su un bastimento con bandiera francese diretto a Malta. Il giorno dopo però, prosegue Bargiacchi, «la meretrice Maffei, mia futura sposa, mandò dal furiere la sua serva a riconoscere acciò mi facesse sbarcare»; a quel punto il maltese chiese al marinaio di Pistoia «sei monete da dieci paoli» per poterlo lasciare libero e così accadde. La sera dopo, però, lo stesso Bargiacchi decise di passare all’osteria Luna per chiedere la restituzione del denaro dato, «ma egli rifiutò di darmelo e perciò venni a ricorrere al Signor Governatore»35. Nelle osterie livornesi – ma, pur non avendo dati d’archivio sottomano, immagino funzionasse in modo analogo anche negli altri porti – era possibile non solo consumare pasti e trovare un comodo letto per riposare, ma soprattutto era possibile per i marinai trovare compagnia femminile. A Livorno, la presenza non del tutto legale delle prostitute nelle camere delle osterie e nelle birrerie era nota e tollerata, anche se talvolta, quando arrivava una denuncia, il bargello era costretto a intervenire. Così avvenne il 23 dicembre 1760, allorché il caporale Pasquale Spampami fu costretto ad arrestare l’oste Lorenzo Gasparri e la meretrice Angiola Carenza a causa della denuncia di Apollonia Lazzerini, che colà lavorava come cuoca, cameriera e tuttofare. Secondo le testimonianze raccolte, l’oste affittava alla meretrice una stanza dove esercitare il proprio mestiere, in barba alle regole che prevedevano il «pubblico meretricio» solamente nella strada. La malcapitata rispose all’interrogatorio, dicendo: Sono e mi chiamo Angiola Carenza, ho anni ventidue, sono nativa di Genova, ed è un anno che sono in Livorno, dove fo’ la pubblica meretrice, nella strada dove stanno le meretrici, detta Livorno vecchio. Fui pigliata ieri sera dal caporale Spampami et altri sbirri intorno alle due di notte nell’uso italiano dentro l’osteria della Nave e fui condotta in queste carceri segrete e non so e non m’immagino il motivo per il quale fui catturata36.
Nel Settecento la diffusione di prostitute genovesi a Livorno era dilagante e grazie alle numerose testimonianze che ci sono pervenute nei processi camerali è possibile ricavare, come nel caso della Carenza, alcuni profili 35. asl, Capitano poi Governatore poi Auditore Vicario di Livorno, 3163; secondo un censimento delle osterie di Livorno, fatto compilare proprio nel 1785 dal governatore, l’osteria della Luna risultò di essere di proprietà del marchese Cesare Malaspina, gestita in società con Vincenzo Pozzolini. 36. asl, Capitano poi Governatore poi Auditore Vicario di Livorno, 3111, 26 dicembre 1760.
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di queste donne. Caterina Belli, di 27 anni, originaria della Spezia, si era trasferita a Livorno convinta di lavorare come «fruttarola» nel negozio di due anziane genovesi, Bartolomea e Girolama, residenti nella città labronica da molti anni. In realtà, secondo la testimonianza di Francesca Panciatichi, di queste due vecchie se ne ha un cattivissimo concetto, credendole senz’altro rufiane, perché tenevano in casa una tal Caterina supposta moglie d’un raguseo assente, e ricevevano molte genti in casa, ed in specie marinari forestieri, i quali avevano voce di aver commercio con Caterina in casa di dette vecchie, ed un giorno la stessa Caterina confidò, che queste vecchie volevano a forza far bottega sul di lei corpo.
A quel punto il giudice volle ascoltare la stessa Caterina, la quale dichiarò che il matrimonio con il marinaio raguseo Antonio Marinucci era un inganno delle due anziane «rufiane», desiderose di metterla nelle condizioni di svolgere il mestiere più antico del mondo. Per fare ciò, narrò la Belli, le due anziane fecero in modo, una notte, che il Marinucci «ebbe a che fare più volte carnalmente» con lei sotto la falsa promessa di un matrimonio. Nei giorni successivi, però, le due donne la misero a prostituirsi, in particolar modo con due padroni, Giuseppe e Girolamo, di cui non conosceva i cognomi, «come pure ad un ebreo e ad un greco». Dichiarò poi che, oltre a lei, esercitavano nella bottega della frutta anche una tal Teresina e un’altra ragazza corsa37. Le zone occupate dalla prostituzione sono, da sempre, poco raccomandabili. Nelle città portuali, tra le strade più o meno strette, là dove si esercita la professione antica, è facile incappare in risse o episodi di malaffare o di sangue. Nella Livorno del xviii secolo le vie della prostituzione raccoglievano un numero elevato di uomini appena sbarcati, desiderosi di trovare compagnia, provenienti dai luoghi più disparati e appartenenti anche a religioni diverse, spesso ubriachi, pronti a usare il coltello per risolvere qualsiasi tipo di disputa, meglio se di tipo sessuale. La meretrice Maria Domenica Cibei raccontò che il 13 febbraio 1785, alle ore 23, trovandosi due marinari inglesi a discorrere fuori dell’uscio con Teresa Frediani altra meretrice passarono in quel mentre per la strada delle meretrici cinque livornesi di Venezia [quartiere storico di Livorno], che conosce a vista soltanto, 37. asl, Capitano poi Governatore poi Auditore Vicario di Livorno, 3163, 17 agosto 1785.
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a riserva di uno che è soprannominato il Rosso, ed uno dei veneziani il più vecchio di tutti urtò appositamente, per quanto essa vide, i due inglesi nelle gambe, ed allora tutti cinque suddetti veneziani si fugarono alla vita dei due inglesi, ammenandoli di concerto con dei calci e dei pugni, con averli strascinati per terra fino vicino a Porta Nuova, con averli cagionate delle ferite e finalmente sopraggiunse la pattuglia di detta porta che arrestò i due inglesi ed un solo veneziano38.
Confermarono la versione di Maria Domenica le altre meretrici: Teresa Frediani e Anna Nencioni di Pisa, Angiola Costa e Angiola Risso di Genova. Uno dei marinai inglesi implicati nella rissa, Nicola Ioach, aggiunse che i livornesi erano arrivati davanti al casino equipaggiati con dei bastoni, pronti per punire gli inglesi, forse rei di aver troppo frequentato una delle ragazze al lavoro. Le risse, poi, erano all’ordine del giorno, non solo nelle zone presiedute dalle prostitute. Bastava un bicchiere di troppo e una parola fuori posto e il gioco era fatto. Il marinaio irlandese Tommaso Kelby, imbarcato sulla nave britannica Principe di Galles, «disse per mezzo d’interprete» che la sera del 10 aprile 1786 andò a bere assieme ad altro marinaro della medesima nave chiamato Roberto nella bottega di Lorenzo Vita alle Pescherie, venditore di rosolio e rum e dopo aver bevuto il Vita chiese il pagamento e per risposta il marinaio Roberto diede un pugno al viso al Vita, inoltre, dopo averlo fatto sedere ulteriormente preso a pugni e poi con un coltello gli venne tagliata la tasca dei calzoni per toglierli alcuni paoli39.
Tornando al tema dei salari, si ricorda che oltre a questi, o alle parti, secondo le consuetudini formalizzate nel Consolato del Mare, ciascun marinaio poteva integrare la propria retribuzione trasportando una certa quantità di merce, rivendibile liberamente (la cosiddetta paccottiglia). In molti casi, inoltre – così ad esempio era previsto dalle leggi dei Conservatori del Mare del 1712 – i padroni/capitani tendevano a costringere i marinai appena ingaggiati a restare a bordo fino al giorno in cui si inalberava la bandiera (segnale dell’imminente partenza) a mezza paga, allo scopo di evitare 38. asl, Capitano poi Governatore poi Auditore Vicario di Livorno, 3163, 14 e 19 febbraio 1785. 39. asl, Capitano poi Governatore poi Auditore Vicario di Livorno, 3164, 11 aprile 1786.
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diserzioni facili nel periodo di attesa tra la stipula del contratto e il giorno dell’effettiva partenza40. Malgrado la precisa regolamentazione, le liti per mancati pagamenti di salari o di parti erano all’ordine del giorno, così come si ricava anche dall’abbondante casistica presente nelle filze del Deputato di mese dei Conservatori del Mare, considerato che questi, nella seconda metà del xviii secolo, discuteva in media al giorno tra le 15 e le 18 cause41. Tale ricchezza documentaria ci sembra, al momento, non avere riscontri analoghi in altre realtà italiane come la Toscana o Napoli, mentre un buon numero di casi si può riscontrare a Venezia, dove la magistratura competente era quella dei Giudici al Forestier. Problemi di archiviazione e conservazione dei documenti o segno di un maggior senso delle istituzioni da parte dei sudditi delle due Repubbliche? Probabilmente sono valide entrambe le ipotesi. Il ricorso costante al tribunale è al contempo segno di una continua violazione da parte dei padroni/capitani nel regolare le proprie pendenze con il resto dell’equipaggio, ma anche un segno tangibile di come la parte più debole della gente di mare avesse come ultima ratio l’aiuto dello Stato nel recuperare il proprio credito, dopo aver tentato la via extragiudiziale. Tale atteggiamento, inoltre, fu favorito senza dubbio dalla creazione di un grado di giustizia ulteriormente semplificato, il Deputato di mese, unico e rapido giudice in materia di controversie salariali, a Venezia rappresentato dai Giudici al Forestier, magistratura però non esclusivamente dedicata alle pratiche marittime giacché, ad esempio, si occupava anche di mancati pagamenti delle pigioni delle case e delle botteghe, così come si ricava dalle numerose buste della serie Dimande, scritture e risposte. Il lavoro quotidiano del Deputato di mese si articolava principalmente nel giudizio sulle liti inerenti ai mancati pagamenti dei salari, sulle parti 40. asg, cm, 339, 7 gennaio 1713 e 1 aprile 1715; asg, cm, 340, 19 aprile 1717 e 12 novembre 1719; testimonianza di Agostino Gattorna nocchiere della nave del capitano Benedetto della Casa: «Havendo io testimonio servito in qualità di nocchiere sopra la nave San Giuseppe capitano Benedetto Della Casa con bandiera imperiale nell’ultimo viaggio con la detta nave fatto di qui per le parti del Levante per colà fare un carico de grani, giunti che fummo al ritorno con detto carico de grani nella città di Messina […] il suddetto capitano Benedetto aggiustò li conti a tutto il suo equipaggio e lo pagò di quanto avanzava anche di consenso di tutti, e di lì a molti giorni sentii dire dal stesso signor capitano che haveva aggiustato et accordato nella sua camera con Giuseppe Delle Piane et Antonio Bianchi ambi marinari di detta nave di pagarle mezza paga solamente per tutto il tempo che detta nave havesse continuato a dimorare nel porto di Messina». asg, cm, 344, 14 aprile 1730. 41. asg, cm, 449.
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spettanti ai marinai, sulle forniture navali, sui cambi marittimi, sui noli, sulle stallie ecc. Tutte le pendenze marittime scoperte per le quali non si trovava l’accordo tra le parti finivano, su richiesta della parte lesa, davanti al giudice di turno. La casistica presente nella documentazione è assai ricca e stereotipata. In genere, il padrone o il capitano, per motivi diversi, decidevano di non pagare quanto dovuto ai loro marinai. Così raccontava al giudice Cristofaro Della Pola: Io dico essendo marinaro sopra il pinco nominato Sant’Antonio da Padova patroneggiato da padrone Geronimo Costa di Portofino nel prossimo passato viaggio, che il medesimo ha fatto da Genova a Sinigaglia e da Sinigaglia a Genova, restò in terra per causa di febbre in detta Sinigaglia […]; che pertanto avendo fatto in Genova li conti, e compartito il guadagno del bastimento, il medesimo padrone Costa trattenne in se la parte dovuta42.
Pochi giorni dopo un altro marinaio – Andrea Levaggi – richiese il pagamento della sua parte al padrone Stefano Copello, il quale si era sentito libero di non regolare le pendenze con il proprio equipaggio, perché l’imbarcazione era stata predata dai corsari siciliani e venduta a Messina. Le occasioni per non retribuire i marinai erano dunque infinite, ma quando i marinai ricorrevano al Deputato di mese ricevevano di solito soddisfazione. È il caso di Giuseppe Castagnino, imbarcato sul pinco del padrone Gio. Batta Furio di Chiavari, che riuscì ad ottenere il pagamento della parte – sette pezzi da otto reali – nonostante egli fosse sbarcato ad Alghero a causa di una malattia che lo aveva colpito nel viaggio per Tabarca, dove il padrone chiavarese aveva caricato grano. Il Deputato, sentiti i testimoni, sentenziava a favore della parte lesa: il 7 giugno 1724, Giobatta De Franchi, Deputato di mese, «sentita l’istanza statale fatta dal detto Agostino Busco, richiede condannato detto Giacomo Scotto al pagamento di lire quarantaquattro moneta corrente fuori banco de quali esso Busco ne resta creditore per resto di due viaggi fatti con li bastimenti di detto Scotto»43. La decisione, pubblicata ed affissa in piazza Banchi, concedeva al padrone ventiquattro ore di tempo per provvedere al pagamento44. 42. asg, cm, 339, 2 agosto 1713; analogo il caso del marinaio Francesco Garibaldo imbarcato sul pinco sabaudo Santissima Vergine del padrone Giovanni Costanzo presentato davanti al tribunale del Consolato del Mare di Nizza il 5 dicembre 1763. adam, Consulat de commerce et de mer de Nice, 03B 57. 43. asg, cm, 339, 7 settembre 1714. 44. asg, cm, 342, 7 giugno 1724.
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Il mese successivo, davanti al giudice Agostino Saluzzo, si presentò il marinaio Domenico Boero, che sostenne di essersi imbarcato nell’anno 1717 «con pinco di patron Domenico Bagnasco chiamato Sant’Anna e San Giovanni Battista e sempre ho trafficato con lui quattro anni in tempo della guerra di Spagna e abbiamo sempre fatto viaggi che abbiamo guadagnato sino un viaggio mi hanno dato mezza parte e ho guadagnato lire 57:10:6 e non mi hanno dato niente. E in questi anni che ho navigato con lui prego la Bontà de loro Illustrissimi Signori mi faccino Giustizia»45. È possibile ricavare il funzionamento della divisione delle parti dalla documentazione contabile allegata alle cause. Si veda il caso del pinco Nostra Signora delle Grazie e Sant’Antonio da Padova relativo all’esercizio del 177246: 1772 a 8 agosto Genova Conto delle spese fatte sopra il pinco nominato Nostra Signora delle Grazie e Sant’Antonio di Padova del capitano Bartolomeo Duce francese come dal libro appare del viaggio di Genova a Barcellona e di Barcellona a Cagliari cominciato l’anno 1772 a 25 maggio in Genova. Dal sopradetto giorno sino il giorno otto maggio come dal libro sono £ 483:11:4 Spese fatte in Barcellona da 17 maggio sino li 3 giugno come dal libro £ 370:14 Spese fatte all’isola di San Pietro e Cagliari da 8 giugno sino li 16 detto come dal libro £ 106:16 Elemosina a S. Rocco Per giorni n. 54 a soldi 40 il giorno al capitano di sue paghe £ 108 [totale] £ 1075:1:4 E per noli fatti di Genova a Barcellona e Cagliari come dal libro £ 1530:13:8 Si deduce le spese come di sopra £ 1075:1:4 Restano da spartire £ 455:12:4 Metà al bastimento e metà a marinari £ 227:16:2 Si è guadagnato a parte £ 25:9:2 Parti padrone 1.12 £ 38:3:9 Garzone primo 0.16 £ 16:19:5 Garzone secondo 0.12 £ 12:14:3 Garzone terzo 0.6 £ 6:7:3 Marinari 6 £ 152:15
Del tutto analoghe sono le istanze per i mancati pagamenti dei salari, distribuite nelle corpose filze del Magistrato. Spesso i capitani tendevano a remu45. asg, cm, 342, 27 luglio 1724. 46. asg, cm, 356.
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nerare di meno rispetto ai patti e in questo caso il Deputato di mese intimava con regolarità di pagare le differenze al massimo entro tre giorni dall’istanza presentata. Era importante, per le parti implicate, che il capitano, secondo quanto stabilito dalle stesse norme dei Conservatori del Mare, ripetute il 20 marzo 1696, stilasse e consegnasse il ruolo d’equipaggio con l’elenco preciso dei marinai imbarcati e con l’indicazione del salario stabilito. Senza questo documento era pressoché impossibile per il Deputato di mese poter intervenire47. Così accadde a seguito della richiesta del marinaio Antonio Ferrando, imbarcato sulla nave del capitano Giuseppe Decotto, con la quale [per] aver fatto un viaggio con carico de grani da Cadice sino al Golfo del Volo e di colà ad Alicante, si era accordato in Cadice per detto viaggio a lire venticinque il mese quando il suo salario era prima di questo viaggio di sole lire ventuno e ritornati con la nave e carico in Alicante ove si fece il discarico di detti grani, dopo di che domandò al capitano li suoi salari o sia paghe alla ragione di lire 25 il mese […] e detto capitano le volle pagare li suoi salari in Alicante alla ragione di sole lire 21 il mese con dirle che il resto sarà condannato a pagarlo, pagherà48.
Quasi una sfida quella del capitano Decotto: io non ti pago, ma pagherò soltanto se mi condannerà il tribunale. In molte occasioni le richieste venivano presentate al Deputato dalle mogli dei marinai. Così fece l’11 marzo 1718 Maria Violetta Calcagno, moglie di Ambrosio Calcagno, per le paghe che spettavano al marito per aver navigato sulla nave Stella d’oro comandata dal capitano Francesco Maria Albani; e parimenti fece qualche tempo dopo la moglie di Francesco Repetto perché il marito «si ritrova per il mondo», non potendo soddisfare ai bisogni della famiglia49. In modo similare operava a Venezia il Magistrato dei Giudici al Forestier, con la sola differenza che spesso nelle buste veneziane si trovano molte istanze di rimborso presentate dai capitani contro i caratisti, contrariamente a quanto si può trovare nelle filze di Genova, nelle quali le richieste 47. asg, cm, 447. 48. asg, cm, 342, 25 aprile 1726; cfr. in parallelo il caso dei marinai della nave Sant’Antonio da Padova del capitano Agostino Ventrino del 20 febbraio 1732. adam, Consulat de commerce et de mer de Nice, 03B 23. 49. asg, cm, 340; cfr. anche il caso del 5 luglio 1724, nel quale fu un gruppo di mogli a richiedere il pagamento dei salari dei mariti marinai imbarcati sulla nave francese del capitano Agostino Liorno. asg, cm, 342.
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provenivano esclusivamente dai marinai. Il 17 settembre 1784 il marinaio Demetrio Feci s’imbarcò in figura di marinaro fin dalla metà del scorso mese di maggio sopra la polacca nominata Fortunata patroneggiata da capitano Nicolò Candereva e servì in tal figura fino li primi di agosto prossimo passato senza aver potuto per anco conseguire il sanguinoso prezzo dei suoi sudori, e delle sue fatiche […] e son trascorsi ormai 40 giorni che non solo si trova digiuno di quanto compete, ma per fino onde conseguire il risarcimento di effetti di propria ragione malamente al capitano.
In definitiva, il marinaio chiedeva il pagamento dei salari, corrispondenti a ducati 7 al mese, più ducati 13, valore del vitto, e più lire 30 che addirittura il Feci aveva prestato al capitano50. Se quasi sempre i carnefici, cioè coloro che non retribuivano il lavoro altrui, erano i capitani e le vittime i marinai, in molti casi erano gli stessi capitani a divenire a loro volta vittime degli armatori. Il 13 marzo 1784 il tribunale veneziano sentenziò a favore del capitano Parsisich, comandante della checchia Madonna del Rosario e Anime del Purgatorio, «che la verità fu et è che nel corso dei viaggi fatti dal detto capitano Parsisich con la checchia nell’anno 1782 due volte esso capitano Parsisich si ammalò gravemente, e che per anco ristabilito in salute continuò a viaggiare in mare e come più precisamente sarà da testimoni deposto». Il caratista, di cui non si rende noto il nome, dovette risarcire al capitano 4.455 lire e 3 soldi, più l’ammontare delle paghe a 20 ducati al mese. Talvolta nelle cause veneziane l’istanza di risarcimento era firmata e inoltrata da un avvocato, segno che la giustizia sommaria era ormai ampiamente corrotta da quella ordinaria, contrariamente a quanto abbiamo potuto vedere negli altri tribunali analoghi. Così avvenne il 30 agosto 1784, allorché Pietro Belloni, legale del capitano Antonio Nicolich, chiese il risarcimento di tutte le paghe e di tutte le spese effettuate dal comandante, dopo che aveva fatto naufragio nelle acque calabresi, mentre tornava da uno dei soliti viaggi «al di là dello stretto di Gibilterra»51. Le istanze potevano essere presentate anche per cambiamenti di rotta decisi dal comandante. Il 30 agosto 1785 l’avvocato Nicolò Medi richiese un risarcimento di 500 ducati, oltre che dei salari previsti, a favore del «camerotto» Zorzi Spiridon, imbarcato sulla checchia del capitano Pietro Bu50. asv, Giudici al Forestier, Dimande, scritture e risposte, 104. 51. Ibid.
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denich, il quale nel corso del 1778, invece di completare il viaggio previsto verso Madera, con un carico di farina, con incomparabile delusione e mala fede si vide [il camerotto] con sorpresa egual di tutto l’equipaggio condotto non a Madera e luoghi circonvicini lungo le costiere dell’Africa, ma immersi tratti di là dello stretto di Gibilterra, cioè alle spiagge del Capo di S. Luigi, nell’isola di Santo Domingo stabilimenti francesi per cui era diretto dalle secrete commissioni riportato dal noleggiator […] nelle quali acque furono dall’armatore inglese fermati e di là mandati alla Giamaica col bastimento preso.
Nell’isola britannica, secondo quanto riportato dall’avvocato, l’equipaggio passò momenti terribili «con li ferri ai piedi», finché tutti i membri dello stesso non furono definitivamente liberati e rimandati a casa52. Tornando alle vicende processuali genovesi, in alcuni casi il Deputato di mese agiva anche contro i marinai per mancato rispetto degli accordi o per tentativi di ammutinamento, scioperi e diserzioni. Tipica era la diserzione dopo aver percepito il premio d’ingaggio, come nel caso dei circa quaranta marinai che dopo aver incassato tre paghe anticipate decisero di abbandonare la nave del capitano Lelio Maria Priaroggia, destinata a partire per Venezia, con un danno pari a 865 lire53. Più di frequente la diserzione era un’azione singola o al massimo di un ristretto gruppo di marinai, decisi a farla finita con quell’imbarco per ragioni diverse. In questi casi era il padrone o il capitano a ricorrere alla giustizia, nella speranza di vedersi accogliere la richiesta seppur in un clima generale di estrema tutela delle parti più socialmente più deboli. In effetti, il Deputato di mese, nel ricevere la domanda, esaminava con grande attenzione l’incartamento prima di emettere una decisione. Secondo le leggi del Consolato, i marinai non potevano lasciare l’incarico se non per motivi di salute o per altre valide ragioni. Spesso invece i marinai abbandonavano per futili motivi, perlopiù collegati a cattivi rapporti coi capitani. Il 4 marzo 1776 il padron Lorenzo Preve, figlio di Marco Aurelio di Laigueglia, si presentò davanti al Magistrato per esporre che qualmente nel viaggio ultimamente fatto con il pinco assieme col suo equipaggio di qui per Calabria e colà fare carico d’olio diretto per Marsiglia, seguito colà 52. asv, Giudici al Forestier, Dimande, scritture e risposte, 105. 53. asg, cm, 339, 1° aprile 1715. Cfr. anche un esempio a Cadice del 1782. an, Marine, C4 150.
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il detto carico e di colà col medesimo partiti, […] dopo essere stati qualche giorno in questo porto, e nel mentre che si stava per intraprendere il proseguimento del viaggio a Marsiglia si sono fatto leviti senza licenza, ne minima saputa di esso padrone ma di fatto capricciosamente Nicolò Ordano q. Giuseppe denominato il zembo [lo storpio in genovese] e Giuseppe Calvi q. Stefano denominato l’inglese, due dei marinari di detto pinco medesimo, che è contrario a tutte le leggi, ordini, capitoli e regole marittime nonostante che avessero ognuno di essi avuto dal padrone il loro imprestito [anticipo] per il viaggio suddetto in scuti sette di Francia per ognuno.
Il padron Preve chiese l’arresto per diserzione, la restituzione dell’anticipo e tutte le spese, comprese le stallie, per la sosta prolungata in porto54. In altri casi veniva punita la mancata presentazione all’imbarco, pena l’arresto; oppure l’azione collettiva di sciopero che spesso sfociava in ammutinamento. Il 22 novembre 1718, secondo la testimonianza rilasciata dal capitano Francesco Parodi, essendo in Palermo verso la metà del mese d’agosto circa con la sua nave al soldo del re Cattolico col stipendio fra la nave capitano ed equipaggio di pezzi mille settant’uno, essendo necessario dar carena alla nave, la gente della medesima a rissalva degli ufficiali si ammutinarono tutti insieme, dicendo che essi non volevano travagliare, se prima non erano pagati delli loro avanzi e che la loro campagna era finita55.
I fenomeni di protesta a bordo erano molto frequenti, così come ben ci hanno mostrato Rediker e Cabantous, e i tribunali marittimi divennero un termometro eccezionale di controllo del disagio sociale che si creava tra i capitani e il resto della ciurma56. Sovente gli episodi capitavano fuori Genova e allora la raccolta dell’istruttoria avveniva da parte del console genovese presente in loco, che poi si premurava di trasferire l’incartamento al Magistrato dei Conservatori del Mare. Esemplificativa fu la causa contro il capitano Gio. Antonio Ferro, comandante della nave Sant’Antonio da Padova, il quale, trovatosi a Barcellona, dopo aver scaricato un carico di cavalli riuscì a trovare un nolo di un mercante desideroso di trasportare barili di tonno a Cagliari, ma giunta la notizia che 54. asg, cm, 356. 55. asg, cm, 340, 22 novembre 1718. 56. Rediker (1996), Cabantous (1984). Cfr. il caso della rivolta di sei marinai avvenuta a bordo della nave La Jeune Félicité del capitano di Bordeaux Pierre Faugère. adg, Amirauté, 6 B 1670, 23 aprile 1773.
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in Sardegna vi erano difficoltà enormi per i genovesi, il noleggiatore decise di non far trasportare la merce proprio da una nave genovese: a quel punto «si ammutinarono quasi tutti li marinari di detta nave» ed alcuni disertarono, facendo perdere le tracce. Il console, raccolte le testimonianze, passò in un secondo momento la pratica ai Consoli di Barcellona, magistratura preposta alle cause marittime. I magistrati catalani, letto il verbale, ordinarono ai marinai di imbarcarsi nuovamente, stimolati dal fatto che il capitano avrebbe elargito un mese di paga in più. Sbloccata la vertenza, la nave salpò per Cagliari, ma giunta nel porto sardo la ciurma si ammutinò nuovamente per non volere proseguire il viaggio verso Tabarca57. Anche in questo caso la giustizia «patteggiata» dei tribunali alla mercantile risultò inefficace. Nello stesso mese di luglio del 1714 il Deputato di mese raccolse, in materia di ammutinamenti, la testimonianza di quanto era avvenuto a bordo della nave Nostra Signora del Rosario, comandata da Giuseppe Passano, mentre si trovava ormeggiata nel porto di Palermo. Protagonista, assieme al capitano, il timoniere Gio. Batta Bo, il quale narrò che, mentre stavano imbarcando merci e uomini nello scalo siciliano, calò sotto coperta a caricare altra gente, e nel mentre io stavo preparando gli attrezzi per tirar entro dette robe sentii gridare sotto coperta e venendo sopra un tal Gaetano Noceti marinaro disse che disotto coperta si offendevano e che avevano armi, e tutto subito accorse il capitano con il nocchiere, e con un bastone alla mano andò alla volta del guardiano Petro Paolo Scena e gli tirò qualche colpo, e poi levatogli un coltello con il manico bianco che aveva in fianco e gettatolo in mare, lo fece col schifo sbarcare a terra, e non ostante che il guardiano gli domandasse la sua roba anche il giorno seguente, non gliela volle dare e non si imbarcò più in detta nave58.
Se per le liti relative ai salari il Deputato non raccoglieva la documentazione e non procedeva a costruire un vero e proprio processo, giudicando alla mercantile, nel caso degli ammutinamenti la procedura diveniva ordinaria, in una mescolanza rituale rimasta in vigore sino alla fine dell’antico regime. L’ammutinamento poteva avvenire anche a causa della codardia e dell’insolenza dei marinai e non necessariamente per un contrasto con il capitano. Il 19 settembre 1741, il console genovese ad Alicante, Gio. Batta Fabiano, informò i Conservatori del Mare che il 29 agosto era approdata in quel porto la nave Santa Caterina del capitano Gio. Batta Rombo, 57. asg, cm, 339, 5 luglio 1714. 58. asg, cm, 339, 4 luglio 1714.
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che ci portò le lamentele del procedere del suo equipaggio che non avendo in memoria li castighi che l’Illustrissimi sanno far eseguire contro l’insolenza [chiaro riferimento al buon funzionamento delle istituzioni marittime della Repubblica] si ha fatto lecito alcuni dei suoi marinari aprire per forza la dispensa e servirsi dei viveri della nave a suo arbitrio, e con occasione che di notte tempo s’incontrò sorpreso da cinque galeotte spagnuole che si credettero barbaresche, obbligato a difendersi, ebbe il disgusto di vedersi abbandonato, e nel tempo che il capitano assisteva nella poppa, ove giocava con l’artiglieria per quasi tre ore, ardì la maggior parte dei marinari di gettare la lancia in mare per fuggirsene di che arrivato il capitano corse ad impedire si fatal disgrazia, et ebbe maniera di farli reimbarcare59.
Riuscì infine il capitano a far arrestare uno dei marinai protagonisti del fatto, «ma non avendo in nave ceppi, né catena, oltre che questo mezzo potrebbe causare qualche rivoluzione in nave con li suoi amici e paesani che non vogliono riconoscere superiore», e per tali ragioni decise, una volta giunti ad Alicante, di farlo condurre per maggior tranquillità nelle locali prigioni60. Come si è visto nel caso di Giuseppe Passano il comandante era sovente costretto a usare le maniere forti, armi alla mano, per scongiurare fenomeni di insubordinazione e ammutinamenti. In egual maniera, fu costretto il capitano Giuseppe Andreoli, della polacca La Pace, mentre si trovava a Londra, a intervenire contro cinque marinai che disertarono. In particolare, fu obbligato ad usare del rigore verso del primo [il marinaio Antonio Archibusacci], avendo dovuto figurare fino di prevalersi di un arme per intimorirlo nell’atto della sua collera; per impedire al secondo [marinaio Domenico Docci] di portar via la sua roba con premeditata idea di disertare; e al terzo [marinaio Guglielmo Becherone] diede uno schiaffo per aver portato seco la chiave di camera ed essersi trattenuto molto tempo di notte, senza che potesse il capitano prevalersi per tutto quel tempo del comodo di sua camera61.
Per questa azione energica il capitano fu denunciato all’ammiragliato di Londra, tanto che fu costretto a una pena pecuniaria di 40 sterline. Rientrato però a Livorno, il capitano Andreoli denunciò a sua volta i marinai al governatore. Il primo a presentarsi fu Antonio Archibusacci di Livorno, al quale fu chiesto perché a Londra avesse deciso di disertare. La risposta, piutto59. asg, cm, 417. 60. Ibid. 61. asl, Governo Civile e Militare di Livorno, 25, cc. 149r-153v.
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sto articolata, tendeva a dimostrare che era stato «obbligato a farlo per i frequenti maltrattamenti, e minacce» del capitano, ritenuto particolarmente violento. Per dimostrarlo raccontò di aver visto il capitano, durante una sosta a Marsiglia, aver ripreso il ragazzo Pietro Biondi per avere il medesimo profferita una bestemmia, questo ricorse al predetto capitano il quale sortendo dalla sua camera lo maltrattò con parole e gli disse lasciare stare i ragazzi, quando poco tempo avanti gli aveva detto di bastonare i ragazzi del bordo qualora avessero commesse mancanze62.
In altre due circostanze, sempre secondo l’Archibusacci, il capitano aveva maltrattato i membri dell’equipaggio. Mentre si trovavano da almeno quindici giorni a Londra, «una sera di domenica essendo il detto capitano in camera chiamò il camerotto Guglielmo Bacheroni di Livorno, al quale diede delle bastonate per aver trovato un suo bricco sotto il cassero». Lo stesso giorno, inoltre, il capitano chiese all’Archibusacci, che serviva in quel momento da cambusiere, di diminuire la razione di carne, al che lo stesso marinaio livornese provò a lamentarsene direttamente col capitano, ma questi lo minacciò col fucile, costringendolo a rifugiarsi nella zona di prora del bastimento. Terminato il primo interrogatorio, fu chiamato a testimoniare il marinaio Marco Bringhiero di Nizza, ed interrogato per quale motivo disertasse, rispose, che il detto capitano Andreoli ritrovandosi in Londra gli promesse di dargli la sua licenza dopo che avesse scaricato il bastimento, avendogliela richiesta perché si trovava molto maltrattato di parole, e minacciato anche colle mani, che se non avesse avuta prudenza di non risponder mai quando lo trattava così l’avrebbe percosso come ha fatto agli altri marinari63.
Il marinaio, una volta terminato di scaricare il bastimento, andò a protestare dal console toscano Antonio Songa «per ottenere le regole di detta licenza, ma il medesimo non ne prese cognizione dicendogli che se gliele avesse data sarebbe costato al capitano 300 pezze, e di poi gli voltò le spalle non volendolo più ascoltare». Tornato a bordo, il Bringhiero disse al capitano, il quale reagì malissimo, che avrebbe raccolto i propri averi e che 62. Ibid. 63. Ibid.
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sarebbe sbarcato, avendo trovato un passaggio per Livorno a bordo di un altro bastimento con bandiera imperiale. Ma le accuse contro il capitano non erano di certo terminate. Chiamato a deporre, il marinaio Domenico Docci raccontò che: essendo in Marsiglia una mattina di domenica chiesta la debita licenza allo scrivano e nostromo andò in terra per udire la messa, ed avendo trovato dei compagni di altri equipaggi si trattenne fino alle ore nove della sera, nella qual ora tornato a bordo andò in camera e chiese scusa al capitano per essersi trattenuto troppo in terra, da cui ebbe per risposta che questa non era stata mancanza alcuna stante esser giorno festivo, e per esser ormeggiato in un buon porto64.
Poco dopo, però, «preso il marinaro il suo cappotto e messosi a dormire in coperta in tempo di estate, salito il capitano sul cassero vedendolo dormire lo percosse con un bastone, e gli ruppe il capo, chiamandolo ladro, e imputandolo di premeditata diserzione». Il terribile comandante fece porre agli arresti il Docci e dopo aver ottenuto delle pubbliche scuse lo rilasciò. Sennonché durante il viaggio di ritorno, giunti alle Dones essendo detto Docci al timone, e conoscendo colla bordata che gli veniva ordinata di tenere, andavano ad investire terra, credé suo dovere avvertire il capitano, come fece, ma egli prese subito la rosa dei venti e gliela scagliò verso la testa, ma riuscì al detto marinaro di scansare il colpo, venendo in seguito maltrattato come se l’avesse offeso in dargli tale avviso65.
Al governatore toccò decidere se si trattava di marinai bugiardi o di un capitano violento e iroso. Non ci è giunta la sentenza, ma le testimonianze evidenziano senza dubbio un ambiente lavorativo particolarmente duro e violento, in cui era facile che tra capitani e marinai non ci fosse sempre un rapporto di stima e collaborazione. Nei numerosi atti criminali «spezzati» del governatore di Livorno, prodotti dalle indagini del bargello che non portavano a sentenza, è possibile trovare numerose liti, disobbedienze di marinai nei confronti dei capitani, che sfociavano in diserzioni o ammutinamenti. Il 4 maggio 1763 il capitano Francesco Anguillardi, comandante del brigantino San Nicolò e Madonna di Montenero, sporse querela contro sette membri del proprio equipaggio per aver abbandonato la nave durante la navigazione senza mo64. Ibid. 65. Ibid.
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tivo. Tra questi erano implicati il piloto, il nostromo, il cambusiere e il maestro d’ascia. Era accaduto che mentre facevano rotta da Patrasso verso Livorno, appena fuori Cefalonia, uno dei marinai implicati, Agostino Parodi, che era al timone, vide: [un bastimento] in lontananza che veniva da Levante per Ponente ed essendogli parso che detto bastimento facesse cattiva navigazione, traversando il cammino del loro brigantino si risolse detto Parodi […] di svegliare il capitano Anguillardi che era in letto dormendo nella sua camera, e fattolo levare essendosi portato sul cassero gli facessero osservare il suddetto bastimento al qual capitano Anguillardi avendolo osservato col cannocchiale disse che il bastimento ammainava le vele quadre e metteva le vele latine, e che non distingueva, che bastimento fosse, né di che scafo fosse il predetto66.
Ma, contrariamente a quanto sosteneva il capitano, il piloto Gaspare Santarelli disse che il bastimento era uno sciabecco saletino, e che erano per andar tutti schiavi, […] ed avendo il Santarelli messo in ispavento e costernazione i marinari di detto brigantino in sentire dal medesimo che il bastimento era uno sciabecco saletino e che era imminente la loro schiavitù, si mettessero a piangere e facessero gran confusione sul cassero67.
A quel punto, il Santarelli, assieme agli altri sei, decise di preparare la lancia, abbandonando la nave, per mettersi al sicuro da una probabile cattura. Il capitano reagì male, urlandogli contro che li avrebbe denunciati, come in effetti fece, al governatore di Livorno e il piloto allora rispose «che a Livorno facesse quello che voleva, e che esso voleva fuggire, ed invitato il capitano a recitare la solita preghiera e a raccomandarsi a Dio»68. I sette dunque scapparono e fecero vela verso Ponente, giungendo dopo circa sei giorni in Calabria, mentre il capitano a bordo del brigantino, con solo due uomini, più il sopraccarico, giunse sano e salvo a Malta, dove fece redigere un primo testimoniale. Dall’episodio si deduce che i capitani, davanti a situazioni di questo tipo, avevano ben poco potere, se non quello di ricorre alle istituzioni. Certamente non ci è dato sapere quante liti terminavano senza l’intervento pubblico, considerato che le fonti a nostra disposizione 66. asl, Capitano poi Governatore poi Auditore vicario di Livorno, 3110, 4 maggio 1763. 67. Ibid. 68. Ibid.
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sono esclusivamente quelle prodotte dai tribunali, ma è fuor di dubbio che l’elevato numero di casi presenti negli archivi ci mostra un mondo del lavoro, già nel secolo xviii, tutelato e regolato dalla normativa, accumulatasi con il tempo, basata in larga misura sulle antiche “consuetudini del mare” di origine medievale. I casi di marinai che volevano sbarcare senza aver terminato il viaggio, non rispettando dunque il contratto di ingaggio – che, ricordo, era stipulato verbalmente – erano molto numerosi e spesso si verificavano in un porto forestiero, in modo che gli stessi marinai potessero giocare sulle diverse legislazioni esistenti. Paradigmatica è la vicenda narrata dal console genovese a Marsiglia, Benedetto Luxoro, il 23 ottobre 1762. Verso la fine del mese di settembre di quell’anno giunse a Marsiglia il bastimento del padrone Pietro Molinari di Bordighera, proveniente da Alessandretta. Dopo pochi giorni lo stesso padrone prese udienza dal console, per lamentarsi «che cinque suoi marinari non volevano proseguire il viaggio e condurre il pinco a Genova, e gli domandarono che li facesse qui i conti con minacciare il suddetto padrone». Il console Luxoro rispose «che erano obbligati a portare il pinco a Genova, dove avevano il viaggio; non solo glielo dissi, ma lessi loro le ordinanze dell’Illustrissimo Magistrato dei Conservatori del Mare». I marinai per contro risposero «che non volevano proseguire il viaggio, e che volevano assoggettarsi alle leggi di Francia, e non a quelle della Serenissima Repubblica». Anzi a tal proposito «avevano fatto già citare innanzi a questo tribunale dell’Ammiralità il suddetto padrone Molinari, condotti da un certo signor Bobone di Sanremo capitano naturalizzato francese, che abbiamo in questa, cattivo genovese». Ne nacque un conflitto giurisdizionale tra il console che, avvisato il locale commissario della Marina, fece arrestare i marinai, e il tribunale dell’ammiragliato che li fece rilasciare. Il console però scrisse che «si sentiva forte», perché secondo le leggi francesi la prima istanza di ogni controversia tra uomini della stessa nazionalità spettava al console, il quale dopo tre visite presso l’ufficio dell’ammiragliato ottenne sentenza favorevole, che obbligava i marinai a completare il viaggio fino a Genova. Concluse la narrazione il console, lamentandosi: «Serenissimi Signori ecco a che segno arriva l’impertinenza dei nostri marinari, i quali fanno nascere degli impegni, e da cose di niente fanno nascere affari di Stato»69. È indubbio che il carisma e le capacità dei comandanti garantivano pace sociale a bordo delle navi. Il 27 aprile 1755 il padrone Gio. Bartolomeo 69. asg, Archivio Segreto, Lettere Consoli Francia, 2622.
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Preve fu scaricato dall’intero equipaggio mentre si trovava alla fonda nel porto di Ancona, dopo aver comunicato che il viaggio sarebbe proseguito verso i porti del Levante. Intervenne il console genovese che riuscì a mediare, convincendo i marinai a reimbarcarsi sul pinco Immacolata Concezione e San Vincenzo Ferrer «carico di grano, dove parerà e piacerà al detto capitano, purché questo sappia servigli del loro servizio con quella docilità, ed amore conveniente a chi comanda bastimenti e non pretenda di condurli in Levante, dove assolutamente non intendono andare perché così è e non altrimenti»70. «Docilità» e «amore» avrebbero dovuto usare i comandanti nel gestire le proprie ciurme, mentre per converso, autoritarismo e violenza contraddistinguevano la vita quotidiana di bordo nei secoli dell’età moderna, perlomeno da quel che si ricava dalle fonti giudiziarie. Questi atteggiamenti confluivano in spaccature sociali che terminavano in liti portate davanti ai giudici dei tribunali marittimi. Come abbiamo visto, però, le contrapposizioni sociali erano dettate non tanto da una lotta di classe, così come teorizzato da Rediker, quanto da inimicizie e spaccature – in molti casi suggerite da motivazioni identitarie – che si creavano continuamente, amplificate dal rapporto subordinato che lo stesso lavoro marittimo presupponeva. In questo contesto conflittuale, per la parte più debole della gente di mare, il ricorso alle istituzioni appariva come l’unico modo percorribile per frenare le prepotenze dei datori di lavoro, in un mondo che alla fine del Settecento appariva sempre più statalizzato e burocratizzato anche nelle zone periferiche e ritenute decadenti come la Repubblica di Genova.
70. asg, cm, 418, 27 aprile 1755.
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