La vita quotidiana di un convento medievale. Gli ambienti, le regole, l'orario e le mansioni dei Frati Domenicani del Tredicesimo secolo 887094655X, 9788870946550

Pietro Lippini ricostruisce, sulla base delle fonti duecentesche, lo stile di vita dei Domenicani nel primo periodo dell

230 59 6MB

Italian Pages 440/426 [426] Year 1990

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

La vita quotidiana di un convento medievale. Gli ambienti, le regole, l'orario e le mansioni dei Frati Domenicani del Tredicesimo secolo
 887094655X, 9788870946550

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Fin dalla sua nascita l'Ordine domenicano ha una sua fisionomia caratteristica, che lo rende diverso non solo dai più antichi Ordini monastici, ma anche dagli Ordini mendicanti sorti nello stesso secolo XIII. Pietro Lippini ricostruisce, sulla base delle fonti duecentesche, lo stile di vita dei Domenicani nel primo periodo della loro lunga storia: la struttura del convento, l'ingresso dei giovani nella vita religiosa, la preghiera, lo studio, il governo delle comunità. Il volume comprende una traduzione delle antiche Costituzioni dell'Ordine domenicano.

Pietro Uppini (1920-2000), frate domenicano, docente di teologia morale, ha ricoperto diversi incarichi all'interno del suo Ordine, fra cui quello di priore provinciale. Studioso della storia e delle istituzioni dell'Ordine dei Predicatori·, le sue opere più note sono La spiritualità domenicana e San Domenico visto dai suoi contemporanei.

\' € 29,00

Edizioni Studio Domenicano

IUllJ

COLLANA AITENDITE AD PETRAM

-

5

P. PIETRO LIPPINI O.P.

La vita quotidiana di un convento medievale Gli ambienti, le regole, l'orario e le mansioni dei Frati Domenicani del tredicesimo secolo

� ��

EDIZIONI STUDIO DOMENICANO

TUTT I I DIRITTI SONO RISERVATI

© 1 990 PDUL Edizioni Studio Domenicano Via dell'Osservanza 72 - 40 1 36 Bologna ITALIA - Tel. 05 1/582034 -

-

PRESENTAZIONE

La rivoluzione francese, esportata in tutta Europa da Na­ poleone, ha soppresso gli Ordini religiosi e i conventi dei frati. Poi, dopo la caduta di Napoleone e l'avvento della Re­ staurazione, la vita conventuale è ritornata a fiorire. Ma in Italia stava per abbattersi una seconda soppressione, non meno grave della prima, quella decretata dal parlamento italiano subito dopo l'unità d'Italia: era il 1866. l frati sono stati cacciati e i loro conventi trasformati, con imperdonabile scempio del patrimonio artistico e culturale in essi contenuto, in caserme, prigioni, ospedali e abitazioni civili. Oggi, visitando quegli stabili che un tempo sono stati conventi, non è facile immaginare la struttura primitiva e in­ dovinare a quale uso fossero destinati quei locali. All'inizio di questo secolo, passata la bufera anticlerica­ le, i religiosi hanno potuto rientrare, in non pochi casi, nei loro conventi, sia pure come affittuari dello Stato. Così han­ no pazientemente restaurato i fabbricati e si sono sforzati di ripristinare un modo di vivere non molto difforme da quello dell'antichità. Per cui qualsiasi visitatore, entrando in uno di questi conventi restituiti alla loro funzione, poteva avere la netta sensazione di ritrovarsi in pieno Medio Evo. Tuttavia negli Ordini religiosi, dopo il Concilio Vaticano Il, si è verificata un'autentica rivoluzione pacifica che ha

6

cambiato abbastanza profondamente, anche se non radi­ calmente, la vita dei conventi. Questi mutamenti, per quanto riguarda l'Ordine dome­ nicano, non fanno meraviglia perché

S.

Domenico, il Fon­

datore, ha lasciato ai Capitoli generali dell'Ordine la facoltà di poter continuamente modificare e aggiornare le norme secondo le variabili esigenze dei tempi. Però sta di fatto che, mentre nei 750 anni precedenti i cambiamenti sono stati abbastanza marginali, le recenti innovazioni sono state ben più rilevanti. E quindi, mentre fino al Capitolo generale di River Forest

(U.S.A.

1968) in un convento domenicano si

conduceva una vita non molto dissimile da quella program­ mata dal primo Capitolo generale di Bologna (1220), oggi il sistema è abbastanza cambiato. Perciò una visita ai vari ambienti di un convento medievale, come quella che ci pro­ poniamo di fare in quest'opera, dovrebbe risultare di gran­ de interesse storico e culturale. Dedico questo libro ai novizi perché, traendo insegna­ mento dalle origini, meglio possano impossessarsi del cari­ sma dell'Ordine domenicano - del quale grazie a Dio faccio parte ormai da cinquant'anni - per viverne più integralmen­ te la spiritualità, che è rimasta intatta, anche se gli usi e i co­ stumi sono cambiati. Lo dedico anche agli appassionati di cultura medievale per far loro conoscere da vicino la vita di un Ordine così ori­ ginale rispetto al passato e così geniale nella sua ispirazio­ ne. Mi auguro perciò che questo lavoro contribuisca a dira­ dare le tenebre in cui è avvolta, ancora così spesso, la lumi­

nosa ma offuscata età del Medio Evo. P. Pietro Lippini o.p. Bologna, 16 dicembre 1990 77 4° anniversario dell'approvazione dell'Ordine domenicano.

7

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

t -Per la ricostruzione storica del Convento di Bologna:

V. ALCE, Il Convento di S. Domenico, ed . Patron, Bolo­ gna 1 973. V. ALCE, La cella dove morì S. Domenico, ed. Parma, Bologna 1 978. V. ALCE, Il reliquiario del capo di S. Domenico, Ed. Pa­ tron, Bologna 1 971 . Da qui abbiamo preso anche i vari schizzi illustrativi, per la cui concessione ringraziamo. AUToRI VARI, Archeologia medievale a Bologna. Gli scavi nel convento di S. Domenico, Edizioni Grafis, Bologna

1987. D'AMATO, I Domenicani a Bologna, 2 t. , ESD, Bolo­ gna 1988. A.

2

-

Per la vita nei conventi domenicani del Medio Evo:

DANZAS, Études sur les temps primitifs de l'Ordre de Saint-Dominique, Paris 1 884. A.

8

R. GIANNINI, Vita quotidiana e osservanza della regola in un registro trecentesco di S. Domenico in Bologna, in Miscel­ lanea Gilles Gérard Meersseman, ed. Antenore, Padova 1 970, l, pp. 3 1 3-341 . HuMBERTI DE RoMANIS, De vita regulari, edita curante Fr. J. J. Berthier, 2 t., Romae 1888. Edizione fototipa, Tori­ no 1 956.

TR. M. MAMACHI, Annalium Ordinis Praedicatorum, t. 1 , Roma 1756. T. MASETII, Monumenta et antiquitates veteris discipli­ nae Ordinis Praedicatorum, Romae 1 864. E. MoRTIER, Histoire des maitres généraux de l'Ordre des Frères Precheurs, tomo l, cap. IX, pp. 568-645.

3

-

Per i confronti col monachesimo:

A. LENTINI, S. Benedetto. La Regola, Montecassi'no 1 980. G. PENCO, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino al Medio Evo, Milano 1 983 .

9

SIGLE E ABBREVIAZIONI

AFP ASOP ATII

ATII DI TOLOSA BOP CECILIA GIORD. MOPH QE U.

VF

Archivum Fratrum Praedicatorum, Roma 1 93 1 ss. Analecta Sacri Ordinis Praedicatorum, Romae 1 893 ss. Acta canonizationis S. Dominici, Atti di Bologna, ed. Walz. , MOPH XVI (1 935), pp. 1 23-1 67: citati sempre nella traduzione italiana, in LIPPINI, S. Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1 982, pp. 245-306. id. come sopra, pp. 309-320. Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, ed. Ripoli- Bre­ mond, 8 volL, Romae 1 729-1 740. Miracula Beati Dominici, ed. Walz, in Miscellanea Pio Pa­ schini, Lateranum XIV ( 1 948), pp. 293-326: citato nella tra­ duzione italiana, in LIPPINI, Le., pp. 1 77-224. Giordano di Sassonia, Libellus de principiis Ordinis Praedi­ catorum, ed. Scheeben, MOPH XVI ( 1 935), pp. 25-82: cita­ to nella traduzione italiana, in LIPPINI, Le., pp. 1 3-129. Monumenta Ordinis Praedicatorum historica, Lovanio- Ro­ ma-Parigi 1 896 ss. QUETIF 1. e EcHARD 1., Scriptores Ordinis Praedicatorum, 2 t. , Parigi 1 71 9 e 1 72 1 . HUMBERTI DE ROMANIS, Opera de vita regulari, 2 t., edita curante fr. 1. 1. BERTHIER, Romae, 1 88 8. Edizione fototipa, Torino 1 956. Vitae Fratrum di GERALDO DI FRACHET, citate nell'edizione italiana, Storie e leggende medievali, a cura P. Lippini, ESD, Bologna 1 988.

N.B. Le primitive Costituzioni dell'Ordine- qui pubblicate in ap­ pendice- sono sempre citate coi numeri romani I e II per indicare la Di­ stinzione, seguiti da un numero arabo per indicare il Capitolo. La nostra traduzione è ricavata dall'edizione critica De oudste constituties van de Dominicanen, Leuven 1 965, del Padre A. H. THOMAS.

11

INTRODUZIONE

Un Ordine concepito in una osteria Verso la fine di ottobre del 1203, un gruppo di una tren­ tina di uomini a cavallo, provenienti dai Pirenei, bussa nel tolosano a uno dei tanti ospizi per pellegrini che costellano le più frequentate vie di comunicazione del tempo . Vi sono fra loro militari di scorta ricoperti della loro armatura, laici ve­ stiti in fogge diverse a denotarne le diverse incombenze e di­ gnità, ci sono due chierici riconoscibili per l'ampia cappa ne­ ra indossata e per lo stretto cappuccio con la punta all 'indie­ tro che ricopre il loro capo. Uno dei due, che a contrassegno della sua dignità porta sul cappuccio un ampio cappello ro­ tondo, è il vescovo di Osma, Diego di Acebes, capo della co­ mitiva; l'altro è il sottopriore del suo Capitolo Canonicale, Domenico di Gusman. Sono in viaggio verso la Danimarca, inviativi in ambasce­ ria dal re di Castiglia Alfonso VIII, per concordarvi un ma­ trimonio fra suo figlio, l'infante Ferdinando, e una di quelle principesse reali. Il viaggio è stato quel giorno molto faticoso e tutti, dopo essersi rifocillati, vanno presto a dormire, consapevoli della tappa altrettanto faticosa che avrebbero dovuto affrontare il giorno dopo. Tutti, ma non il trentenne canonico, il quale, avendo no­ tato il disprezzo col quale l'albergatore aveva commentato il

12

segno di croce fatto dai suoi ospiti nel sedersi a tavola, non potè reggere al dolore di una divergenza così profonda in materia di fede e lo costrinse a rendergli ragione delle sue convmz1on1. La fede di quest'uomo lo sconcertò. Aveva creduto di trovarsi di fronte semplicemente a un cristiano sviato o intie­ pidito ; ma man mano che induce l'interlocutore a rivelare le ragioni profonde del suo atteggiamento, Domenico scopre ben altro. Ha di fronte a sé - e per lui spagnolo è una novità - uno di quegli eretici catari che nel mezzogiorno della Fran­ cia, dalla città di Albi che ne era particolarmente infetta, ve­ nivano chiamati albigesi. Il catarismo, che per vie che ci sono ancora sconosciute si ricollegava alle correnti dualistiche pre-cristiane fiorite in Persia e in Grecia, era stato importato in Francia da com­ mercianti e pellegrini nella prima metà del XII secolo e vi si era diffuso, specie nel meridione, in seguito all'intensificarsi degli scambi con l'oriente durante la seconda crociata ( 1 1471 1 49). Si era dato dei vescovi (bisbes) che, assecondati dai lo­ ro figli maggiori, da figli minori e da diaconi, avevano in ogni vero cataro o perfetto, uno zelante propagandista. Si aggiun­ ga che essi, pur disponendo in comune di notevoli ricchezze, ostentavano personalmente un'austera povertà, praticavano la continenza assoluta ed estendevano la loro sobrietà fino ad astenersi da ogni cibo che fosse originato dall'unione sessua­ le (carne, latticini, uova), per cui si erano acquistati presso tutte le classi del popolo un credito che il clero cattolico ve­ niva perdendo : il che spiega la loro rapida diffusione. Quanto alla loro dottrina, per spiegare l'esistenza del male nel mondo, ammettevano due princìpi : il dio del bene, che identificavano col dio del Vangelo, creatore delle cose spirituali, le uniche buone; e il dio del male, identificato col dio dell'Antico Testamento, che era invece responsabile del­ l'esistenza delle cose materiali. Le anime erano angeli rin.

.

.

13

chiusi nella materia; per cui la totale continenza dei perfetti era un mezzo per impedire che nuove incarnazioni si perpe­ tuassero, mentre l'imperfezione tollerata dei semplici cre­ denti che non praticavano la continenza, ne era la causa. Cri­ sto aveva avuto solo un corpo apparente e apparente era stata la sua morte, che perciò non era stata redentrice ma solo il trionfo del male, e la croce non era un segno di salvezza ma uno scandalo. Una dottrina cioè che di cristiano aveva ormai ben poco. Dalla discussione con l'albergatore Domenico si accorse però che al suo interlocutore sfuggiva il carattere anticristia­ no della sua credenza : nell'austerità dei perfetti, determinata dal loro odio verso la materia, egli crede di riconoscere lo spirito penitenziale del Vangelo ; nella loro assoluta castità la dedizione incondizionata all'amore di Dio suggerita da Cri­ sto ; nella loro povertà l'abbandono fiducioso alla Provviden­ za, e il dualismo deistico lo trova pienamente giustificato dal diverso modo di comportarsi del dio crudele e vendicativo dell'Antico Testamento di fronte a quello tutto amore del Nuovo. I predicatori catari per adescarlo avevano evidente­ mente fatto leva sulla sua grande ignoranza della dottrina cri­ stiana. Avvalendosi della sua profonda cultura teologica e della soprannaturale psicologia dettatagli dalla sua grande carità per le anime, non riuscì quindi difficile a Domenico dimo­ strare al suo ospite le incongruenze del suo credo. No n poté perciò resistere allo Spirito che parlava con accenti così con­ vinti e convincenti, e al ricomparire della luce del giorno, l'albergatore tornava alla luce della vera fede. Ma in quella notte a convertirsi non fu solo l'oste. Dal di­ battito con lui Domenico si era convinto che la grande massa di catari, che al dire di lui stava ormai invadendo gran parte della cristianità, era tale solo per ignoranza e che non sarebbe stato difficile riportarla alla vera fede se la Chiesa cattolica

14

avesse potuto contrapporre agli zelanti predicatori dell'eresia altrettanti predicatori, come loro austeri, poveri e casti, i quali, a imitazione di quanto avevano fatto gli apostoli, si fa­ cessero tutto a tutti per la diffusione dell'autentico Vangelo. Fu così che in quella notte del 1203 - secondo una bella espressione del Padre Lacordaire - «fu concepito l'Ordine dei Predicatori», perché forse fu proprio in quella notte, in quella locanda, che il sottopriore dei canonici di Osma ebbe l'intuizione che la vita contemplativa del monachesimo per adeguarsi ai bisogni della Chiesa dovesse aprirsi all'apostola­ to ; e gli balenò l'idea di fondare un Ordine «che fosse di no­ me e di fatto un Ordine di predicatori)) (Giord. 40). L'improvviso divampare, verso il mille, di tante eresie nell'Europa occidentale, che fino allora ne era stata quasi im­ mune (è dell'epoca anche quella valdese), lo si deve infatti soprattutto alla carenza di predicatori cattolici. Non poteva soddisfare questa esigenza il monachesimo che, con le sue molteplici diversificazioni, era allora la forma di vita religiosa più largamente diffusa nella Chiesa, perché la vocazione primaria del monaco era quella di pensare alla propria santificazione, dedicandosi totalmente alla lode e al­ l'amore di Dio. La carità verso il prossimo non veniva certo dimenticata, ma si riduceva quasi esclusivamente all' acco­ glienza dei pellegrini, al dono di vettovaglie in casi di carestia e magari al mantenimento di un certo numero di poveri. An­ che quella particolare forma di carità spirituale che è l'apo­ stolato non era certo mancata : basterebbe ricordare il nome di un S. Bonifacio, l'apostolo della Germania, e di mille altri dopo di lui che avevano partecipato attivamente all'evange­ lizzazione delle terre incorporate all'impero e perciò alla cri­ stianità. Ma il loro apostolato era stato frutto più di un carisma personale o di un mandato esplicito della Chiesa, che della vocazione monacale : furono cioè degli isolati che spesso ve-

15

devano nell'apostolato che erano costretti ad esercitare, una distrazione dannosa per la loro vita di contemplazione, cui anelavano tornare, e di fatto tornavano, appena credevano esaurita la loro missione. Si pensi ad esempio a un S. Grego­ rio Magno, �no dei pontefici più energici e instancabili della storia della Chiesa, incapace di dimenticare le gioie della vita contemplativa, dovuta interrompere per il governo della Chiesa. Finché comunque, la società europea era stata prevalen­ temente agricola, i monaci, che avevano ordinariamente i lo­ ro monasteri in campagna, pur non essendo nella loro stra­ grande maggioranza dei sacerdoti e pur non avendo esercita­ to un apostolato attivo, coi loro contatti di lavoro e con la te­ stimonianza della loro vita avevano avuto un sufficiente ruo­ lo formativo sul rozzo popolo delle campagne. Ma quando dopo il mille la generale ripresa economica causò un improvviso afflusso di abitanti verso le rinate o neonate città, i nuovi cittadini non trovarono in esse pastori che potessero soddisfare alle loro esigenze di una vita spiri­ tuale più intensamente vissuta e compresa. I sacerdoti secolari, per mancanza di scuole erano molto spesso impreparati e per il sistema feudale ancora vigente, ri­ dotti a essere più degli amministratori di beni materiali che di anime. E la cosa diventava più grave quando si trattava di Vescovi, i principali responsabili dell'evangelizzazione, di­ venuti amministratori e beneficiari di immensi patrimoni, che li riducevano spesso a essere dei veri prìncipi terreni. La piaga del concubinaggio, con tutte le sue letali conseguenze, era poi fra il basso e l'alto clero tutt'altro che estinta. Vescovi zelanti avevano tentato di raccogliere attorno al­ la propria cattedrale sacerdoti altrettanto zelanti, che accet­ tavano di vivere la vita comune, in obbedienza e povertà, sotto la Regola di S. Agostino . Erano nati, così, i cosiddetti « Canonici regolari», dottrinalmente e spiritualmente più

16

formati, che nella loro chiesa si dedicavano, oltre che alla propria santificazione, alla cura spirituale del prossimo . Il loro raggio di azione, perché legati a una chiesa parti­ colare, restò però sempre limitato. Per cui anche l'istituzione di questi canonici, non risolse che in parte l'esigenza dei nuovi cittadini, che volevano pastori certamente anche più degni dal punto di vista morale e più evangelicamente pove­ ri, ma che anche con più assiduità e competenza spezzassero loro il pane della parola di Dio, coinvolgendoli alle loro ope­ re di carità e in qualche modo al loro apostolato . Ciò spiega in parte l'insorgere in occidente di tante eresie tutte di origine popolare e fa vedere quanto geniale, attuale, adatta ai bisogni del suo tempo, fosse l'idea balenata in quel­ la notte nella mente di S . Domenico : la fondazione di un Or­ dine, dotto e mendicante, tutto dedito alla predicazione e al­ la salvezza delle anime, per combattere le eresie esistenti ma soprattutto per impedire che ne sorgessero di nuove.

Nato per la predicazione L'Ordine vedrà però la luce solo una decina di annt dopo. A seguito di un suo secondo viaggio in Danimarca verso la fine del 1205, per ricondurre come sposa in Castiglia la principessa danese, Domenico aveva avuto modo di rinsal­ darsi nell'idea che la predicazione era una esigenza indilazio­ nabile nella Chiesa. Con profondo stupore, infatti, lui e il suo vescovo avevano fatto la scoperta in Danimarca, allora tutta piena di fervore per espandere il regno e la fede verso l'Est, dell'esistenza di tanti popoli, a loro fino allora scono­ sciuti, che vivevano nel paganesimo perché nessuno aveva ancora loro predicato il Vangelo .

17

Un Ordine di Predicatori, oltre a difendere la Chiesa al suo interno di fronte al dilagare dell'eresia, le sarebbe stato perciò estremamente utile anche per dilatarne i confini a tutti i popoli della terra. Ma questa sua seconda intuizione apostolica Domenico dovette per il momento accantonarla, perché il Papa Inno­ cenza I II, cui nel ritorno dalla Danimarca aveva fatto visita a Roma assieme al suo vescovo per averne consigli, aveva fatto loro vedere che il meridione della Francia in quel momento esigeva con più urgenza la presenza di predicatori cattolici. Fu così che il Santo, dopo il rientro di Diego nella sua dioce­ si di Osma, rimase nel tolosano, da solo, per combattere l'e­ resia con la testimonianza delle sue virtù e con la dottrina e il fervore della sua parola. Anche gli abati cistercensi, che il Papa aveva inviato numerosi sul luogo con lo stesso intento, stanchi e demoralizzati per una vita che non corrispondeva al loro carisma, se n'erano infatti tornati ben presto alla pace dei loro monasteri. Ma un po' alla volta si unirono a Domenico, anche se per allora senza vincoli giuridici, alcuni compagni, attratti dal suo esempio e dall'ideale di un Ordine di Predicatori di cui egli non nascondeva l'intento. Posero per il momento la loro sede a Prouille, in una casa di Suore che si ricollegava an­ ch'essa a Domenico, e che, con un nome che esprimeva un programma, avevano chiamato «La santa predicazione». Ma anche i vincoli giuridici non tardarono . Nel 1 215 si unì infatti al gruppo un ricco cittadino di Tolosa, Pietro Sei­ la, il quale, mettendo a disposizione della piccola comunità la sua grande casa, permise l'erezione del primo vero con­ vento dell'Ordine nascente, che il vescovo della città Folco si affrettò a riconoscere, a incoraggiare e ad aiutare. E fu «da allora - scrive il b. Giordano di Sassonia, primo biografo dell'Ordine - che quanti erano con Domenico si impegnaro­ no a discendere sempre più i gradi dell'umiltà e a conformar-

18

s i ai religiosi nel loro modo di vivere» (Giord. 38): dove la frase «SÌ impegnarono a discendere sempre più i gradi dell'u­ miltà» fa aperta allusione alla Regola di S. Benedetto (Cap. 7) ed è quindi anch'essa allusiva a un regolamento di vita mo­ nacale datosi dalla nascente comunità. Si può quindi supporre che S. Domenico, quando nel­ l'autunno di quell'anno andò a Roma per chiedere al Papa che « confermasse quell'ordine che doveva essere di nome e di fatto un Ordine di predicatori» (Giord. 65), gli presentas­ se per chiedergliene l'approvazione, una Regola redatta da lui e dai suoi compagni. Ma Innocenza III, trincerandosi dietro la proibizione di fondare nuovi Ordini religiosi fatta dal recente Concilio del Laterano, intuendo in pari tempo l'utilità per la Chiesa di un Ordine come quello che gli veniva prospettato, «esortò fra Domenico a ritornare dai suoi frati per scegliere di comune accordo, dopo averne con loro discusso la cosa, una delle Regole già approvate» (Giord. 4 1). «Venuti a conoscenza dei desideri del Papa, i frati, questi futuri predicatori, scelsero senza esitazione la Regola di quel grande predicatore che fu S. Agostino, imponendosi però quanto al vitto, ai digiuni, ai letti e ·all'uso della lana nei ve­ stiti alcune più rigide osservanze. Si proposero inoltre e sta­ bilirono di non avere proprietà ; e ciò affinché l'ufficio della predicazione non venisse impedito dall'amministrazione dei beni terreni» (Giord . 42). Da notare che la Regola di S. Agostino viene riportata in tre formulazioni diverse. Nel sec. XII la si incontrava, ad esempio, presso i Premostratensi in una forma che compren­ deva insieme un regolamento di vita monastica ( Ordo mona­ sterii) e un testo di carattere più generico (Praeceptum). La si incontrava però più spesso sotto una forma che diventerà classica nelle famiglie religiose che si richiamavano a S. Ago­ stino e che presentava il praeceptum preceduto dalla prima

19

parte dell'Orda monasterii. Questa seconda forma permette­ va i più diversi adattamenti, al punto che l'avevano adottata senza problemi comunità clericali, eremitiche e ospedaliere. Per questa sua genericità l'adotterà sotto questa forma anche l'Ordine domenicano, che per questi stessi motivi la preferi­ rà a ogni altra Regola, compresa quella di S. Benedetto, che è molto più lunga e minuziosa nei suoi dettagli. Sono queste le ragioni addotte per questa scelta dal b. Umberto (l, 50-5 1) : �Istituendo il nuovo Ordine dei Predi­ catori bisognava redigere nuovi statuti sullo studio, sulla po­ vertà e su altri punti analoghi da aggiungersi alla Regola. Bi­ sognava perciò scegliere una Regola che non presentasse nul­ la in contrasto con statuti di tal genere, una Regola alla quale questi statuti si potessero aggiungere e adattare in maniera conveniente. Tale era certamente la Regola del beato Agosti­ no, la quale non contiene che un piccolo numero di norme, qualche prescrizione di spiritualità o di buon senso : cosa in­ vece che non si riscontra nelle altre Regole. Così si poterono aggiungere ad essa con molte opportunità tutti quegli statuti che erano richiesti dallo stato di predicatori».

Le prime �consuetudini,. (1215-1220) Con certezza sappiamo quindi che almeno dal 12 15 S. Domenico e i suoi compagni si erano dati una regola di vita da aggiungere alla Regola di S. Agostino da essi adottata, che, data la genericità delle sue prescrizioni non era certa­ mente in grado di reggere da sola un Ordine come essi lo sta­ vano concependo. Dell'esistenza di questa regola di vita o �consuetudines » ce ne danno indiscussa conferma anche gli Atti di Bologna del processo di canonizzazione del Santo. I testi di quel pro­ cesso ci parlano infatti di una Regola che S. Domenico osser-

20

vava e faceva osservare, con prescrizioni tali circa il digiuno, il vestire, ecc . , da farci capire che essi evidentemente par­ lando della Regola non intendevano alludere a quella gene­ rica di S . Agostino, ma alle prescrizioni proprie che l'Ordine si era date (Atti 5, 1 3, 25, 28, 31 , 43). Non ci è rimasta però alcuna testimonianza diretta del loro contenuto, anche se sappiamo, per la testimonianza del b. Umberto, che nel for­ mularle Domenico e i suoi compagni si erano ispirati alle consuetudini degli Ordini precedenti: «non avendo potuto ottenere dal Papa una nuova e più rigida Regola, proporzio­ nata al loro fervore, scelsero quella di S. Agostino, dopo aver preso dalle consuetudini degli altri Ordini quanto vi avevano trovato di bello, di decoroso e di arduo, da essi reputato adatto» (U. Il, 3). Dopo averle esperimentate per quattro anni, il Santo Patriarca credette giunto il momento di fare la stesura defini­ tiva delle «consuetudines» fino allora adottate. All'uopo radunò e presiedette a Bologna nel 1220 il primo Capitolo generale dell'Ordine. Purtroppo di tale stesura, come pure delle modifiche apportatevi dal Capitolo dell'anno successivo, nessun docu­ mento diretto ci è pervenuto. Dai testimoni del processo di Bologna siamo però informati che molt� delle leggi traman­ date fino a noi, risalgono al Fondatore. E sua, ad esempio, la legge dei pieni poteri ai Definitori (Atti 33), del digiuno e dell'astinenza perpetua (Atti 4, 5, 1 3, 18, 28, 31 ), della povertà (Atti 17, 38, 42, 47), del silenzio (Atti 13) e dell'ob­ bligo di parlare sempre con Dio o di Dio (Atti 37, 4 1 , 48).

21

Il �Liber consuetudinum» o «Consuetudinarius» (1228)

Una nuova stesura si ebbe al Capitolo generalissimo di Parigi del 1228 , motivata dal fatto che, potendo prima di al­ lora ogni Capitolo promulgare nuove leggi o abrogarele vec­ chie «ne seguiva confusione e ridicolo: e ciò che un anno era stato stabilito, da altri Definitori veniva l'anno dopo abroga­ to» ( U. , Il, 58). A quel Capitolo i Definitori ebbero pieni poteri: anche quelli di poter fare leggi non dispensabili né dai futuri Mae­ stri generali né dai futuri Capitoli. N on si servirono però di tale potere se non per proibire in perpetuo di avere proprie­ tà, i ricorsi ad autorità fuori dell'Ordine e nello stabilire che ogni nuova prescrizione di un Capitolo, per diventare legge, dovesse venire approvata da tre Capitoli successivi. Fortunatamente le Costituzioni uscite approvate da tale Capitolo (Liber consuetudinum o Consuetudinarius), fram­ miste alle piccole varianti dovute ai Capitoli successivi fino al 123 7, ci sono state tramandate. E fortunatamente dall'esame interno delle varie leggi i nostri storici sono riusciti a selezio­ nare quelle che risalgono alle «Consuetudini» del12 15-12 16, riguardanti in gran parte la vita regolare dei frati, da quelle introdotte nei primi due Capitoli dell'Ordine ( 1220- 122 1) e nei successivi, riguardanti invece quasi sempre la struttura e il governo dell'Ordine. Dalla comparazione con le Consuetudini e la legislazione delle altre famiglie religiose - specialmente con quelle dei Premostratensi- il PadreA. H . Thomas ci ha poi potuto da­ re di queste prime leggi un'edizione critica, in cui fra l'altro appaiono, distinte da caratteri diversi, le fonti dalle quali l'Ordine le attinse. Di tale edizione, preziosissima per la conoscenza della vita di un convento domenicano della prima generazione,

22

noi daremo nell'Appendice, tradotto per la prima volta in Italia, il testo integrale. Di essa ci serviremo abbondante­ mente anche nel corso di tutta la nostra trattazione. E sicco­ me essa riporta il testo diviso in un Prologo e in due Distin­ zioni, e queste a loro volta sono divise in Capitoli aventi un titolo ma anche un numero progressivo, nel citarla, per sem­ plificazione useremo semplicemente il numero romano per indicare la Distinzione, seguito da uno arabo per indicare il

Capitolo. Nel nostro lavoro, per rendere più completa la conoscen­ za della vita domenicana nel '200, ci serviremo, però, quan­ do è necessario, anche delle aggiunte e delle varianti apporta­ te al Liber consuetudinum dai Capitoli successivi nel corso del secolo, notando che le aggiunte e le varianti non furono molte, anche se esso, d'autorità dei Capitoli del 1 249, '50 e '5 1 , mutò il suo nome in quello di Liber Constitutionum. Ci serviremo abbondantemente anche delle altre fonti domenicane, per fortuna abbastanza numerose, dalle quali si possono ricavare notizie che ci permettono di ricostruire con una certa sicurezza la vita primitiva di un convento dell'Or­ dine. E fra tutte, la più ricca di dettagli è senz'altro l'opera De vita regulari, soprattutto la parte che tratta dei vari uffi­ ciali del convento, !asciataci dal b. Umberto di Romans (t 1 277), quarto successore di S . Domenico nel governo del­ l'Ordine. La citeremo con la lettera U, seguita da un numero romano per indicare il volume e da uno arabo per la pagina. Per non appesantire l'opera, confidando che il lettore ab­ bia fede nelle nostre asserzioni, non daremo invece volta per volta la citazione delle altre fonti delle quali ci siamo serviti, ma ci limiteremo a riportarle nella bibliografia.

23

La novità di questo nostro lavoro.

Sul monachesimo medievale e la vita quotidiana dei mo­ naci non mancano studi di pregevole interesse. Ma il domenicanesimo non è monachesimo : anche se po­ chi dei moderni visitatori di un grosso complesso religioso sono in grado di percepire la differenza fra un convento do­ menicano e un'abbazia benedettina. Molto simili sono gli edifici ; e gli uni e gli altri dei loro abitatori si coricavano in un dormitorio comune, consumavano i loro pasti nel comu­ ne refettorio, cantavano solennemente l'ufficio in coro, si riunivano per le loro delibere e per confessare le loro colpe in Capitolo e si riposavano dalle fatiche quotidiane passeggian­ do nel chiostro. Ma mentre per il monaco, almeno in linea di principio, il monastero rappresentava tutto l'universo, per il Domenicano la vita regolare all'interno del convento serviva solo ad assicurare quel raccoglimento e quella disciplina che gli erano necessari per affrontare con frutto, giorno per gior­ no, le fatiche della predicazione. Già per questa diversa im­ postazione, gli atti della sua giornata, anche quando sembra­ no simili, in realtà assumevano una finalizzazione diversa e quindi un diverso modo di essere vissuti e attuati rispetto a quelli del monaco. Si aggiunga che, come abbiamo visto, alla Regola di S. Benedetto che di tutto il monachesimo occidentale era l'ispi­ ratrice e il fondamento, Domenico e i suoi compagni aveva­ no giustamente preferito quella di S. Agostino, cui invece si ispiravano i movimenti canonicali sorti qua e là nella Chiesa per prestarle un servizio sacerdotale. Tenendo poi anche conto che il Fondatore proveniva dai canonici regolari di Osma e che quindi certe usanze ben le conosceva per averle vissute, non ci dovremmo allora meravigliare se, quando essi vollero aggiungere alla troppo generica Regola di S. Agosti­ no un codice di osservanze, quei primi frati si ispirarono

24

prevalentemente non alla Regola o ai consuetudinari vigenti nelle abbazie benedettine, ma alle consuetudini di quel movi­ mento canonicale, sorto in Francia nel 1120 , per opera di S. Norberto, che dal luogo di fondazione prende il nome di Ordine Premostratense. E di quelle consuetudini, dopo averle in parte sperimen­ tate per quattro anni, tennero quindi conto i codificatori del 1220 e degli immediati anni successivi, dandoci nel Liber consuetudinum una Distinzione l, che riguarda le osservanze regolari, largamente ispirata al consuetudinario premostra­ tense, anche se in essa non mancano omissioni, correzioni, aggiunte originali dettate dalla diversa finalità e quindi spiri­ tualità del nuovo Ordine. Completamente nuova e originale, non solo rispetto agli Ordini precedenti ma anche a tutti quelli posteriori fino ai nostri giorni, è invece la Distinzione Il, che tratta del governo dell'Ordine e del suo singolare po­ tere legislativo . Da queste premesse ricaviamo perciò la convinzione che questo nostro lavoro possa venir giudicato interessante e ac­ colto benevolmente da tanti studiosi di cose medievali, che della vita religiosa del Medio Evo conoscono forse bene il monachesimo e il francescanesimo perché più studiati, cono­ scono anche se in misura minore i movimenti canonicali, ma non avvertono che il domenicanesimo si differenzia dagli uni e dagli altri in maniera rilevante, perché è un genere a sé. N o n fa parte del monachesimo anche se da esso ha tratto tante delle sue pratiche ; non ha nulla a che fare col francesca­ nesimo che pur gli è coevo ; e quanto alla vita canonicale ben possiamo applicare a tutto l'Ordine quanto la liturgia affer­ ma di S. Domenico : « Sub Augustini regula, mente profecit sedula, tandem virum canonicum auget in apostolicum», perfeziona cioè la vita canonicale trasformandola in apostoli­ ca: diversità questa fatta risaltare per motivi teologici anche da S. Tommaso, il quale, quando nella q. 188 della 11-11 clas-

25

sifica le famiglie religiose in base al loro fine specifico, le fa tutte rientrare nella duplice tradizionale distinzione di Ordi­ ni attivi e contemplativi; ma per il suo Ordine, finalizzato com'è dal contemplari et contemplata aliis tradere, deve in­ vece inventare una terza categoria, quella degli Ordini apo­ stolici, che, contemplativi alla pari con gli altri, ordinano pe­ rò la loro contemplazione alla salvezza delle anime. Siccome poi in questo nostro lavoro ci soffermeremo an­ che sui dettagli della vita domenicana come si svolgeva nel XIII secolo, pensiamo che la suà lettura possa tornare gradi­ ta anche a chi è curioso di cose medievali anche senza esserne specialista. Confidiamo soprattutto che possa tornare utile ai confra­ telli domenicani più giovani, che del passato dell'Ordine, dopo i notevoli cambiamenti avvenuti in questi ultimi trenta anni nelle nostre leggi o anche solo nel modo di osservarle, conoscono ormai ben poco. «Attendi te ad petram unde excisi estis»: ci esortavano le Costituzioni di un tempo. Questo lavoro è un tentativo per far loro conoscere questa pietra.

PARTE PRIMA

La visita a un convento

29

CAPITOLO PRIMO

SGUARDO D'INSIEME

La costruzione di un convento Il termine convento (da convenire adunarsi) ebbe nella antichità classica il significato generico di assemblea, sia che si trattasse di adunanza politica, militare, amministrativa, giudiziaria, culturale o religiosa. E tale significato conservò anche nel monachesimo. «Sedere in conventu fratrum» (Reg. di S. Pacomio, t346) equivaleva a radunarsi in assemblea­ capitolo ; «in conventu tamen omnino breviter oratio », pre­ scriveva S. Benedetto (t547), ossia che l'orazione fatta in co­ mune fosse assolutamente breve (Reg. 20, 5) ; S. Colombano (t615) ricorda un dies conventus, ossia un giorno fissato per l'adunanza della comunità (C. X) e le Consuetudines (III, 4) e gli Statuta (55) di Cluny presentavano il conventus che pre­ sta ossequio all'abate o che in chiesa risponde coralmente. Ma nell'Ordine dei Predicatori - questo è il titolo ufficia­ le dell'Ordine fondato da S. Domenico, comunemente chia­ mato domenicano- il termine, pur conservando ancora an­ che il senso primitivo di comunità, assume anche quello di indicare l'edificio dove la comunità vive. Ai nomi di mona­ stero, cenobio o abbazia in uso fra i monaci, o di prepositu­ ra, priorato o collegiata usato dai Canonici regolari, i Dome­ nicani, quasi a sottolineare la novità del loro istituto, per in­ dicare l'abitazione che li accoglie sostituiscono così un po' alla volta il termine convento, che è quello ancor oggi da essi =

30

usato per indicare e distinguere una loro sede da quella degli Ordini che li avevano preceduti nel tempo. Orbene, noi ci prefiggiamo di visitare appunto uno dei tanti conventi domenicani del '200 e ne fissiamo la visita ver­ so la seconda metà del secolo. E anche se lo scopo principale della nostra visita non è quello di studiarne l'architettura e l'arte, ma quello di ricostruire la vita quotidiana dei Frati Predicatori in quel secolo, non ci sembra inutile, proprio an­ che in vi_sta di tale scopo, di dare un fugace sguardo anche al­ la struttura materiale di un loro convento e passarne in rasse­ gna i vari locali, per vederne il progetto ispiratore e la fun­ zione, e quindi in ultima analisi per ricavarne la vita quoti­ diana che vi svolgevano ·i frati. Per la novità, bellezza e necessità del suo carisma l'Ordi­ ne dei Predicatori all'epoca del suo primo Capitolo generale ( 1220), a soli quattro anni cioè dalla sua approvazione, con­ tava già una quindicina di conventi, saliti cinquant'anni do­ po, nel 1277, a 404, con una media quindi di 7 fondazioni al­ l'anno . E se si pensa che per aprire un convento bisognava inviarvi inizialmente almeno 1 2 frati (Il, 23), sono cifre que­ ste che ci fanno rilevare che l'Ordine aveva superato in cin­ quant'anni le 5 mila unità. Ma sono cifre che ci avvertono anche che, se per la nostra visita noi scegliessimo un convento a caso, correremmo il ri­ schio, dato che un complesso conventuale non si costruisce in pochi anni, di imbatterci in un convento ancora in costru­ zione. Per trovarne uno sicuramente terminato dovremo perciò sceglierlo fra i primi in ordine di tempo. L'imbatterci infatti in un convento non ultimato non soddisferebbe pienamente la nostra curiosità di vederlo nel pieno della sua attività. Avremmo inoltre il disagio di imbat­ terci in una casa in cui i frati vi sono ancora alloggiati in ma­ niera precaria, molti di essi sono impegnati nella costruzione e la vita regolare di tutti è disturbata dalla presenza di un

31

cantiere. E dei disagi che doveva comportare un cantiere per un convento ce ne dà un'idea il b. Umberto1 allorché nel commentare i compiti dei vari ufficiali di una comunità, fissa anche quelli del praefectus operum o soprintendente alle co­ struzioni. Si tratta di un frate, chierico o converso, scelto per la sua competenza in materia, al quale il Priore affida l'incarico di dirigere e controllare le costruzioni, sia che si tratti di co­ struzioni nuove o soltanto di ampliamento o di restauro del­ le vecchie. Tocca perciò a lui provvedere innanzi tutto il ma­ teriale occorrente : il legname, i mattoni, le pietre da taglio, le tegole, la sabbia, la calce e quanto altro occorre. Se tutto o parte di questo materiale lo può ottenere per l'industria o il lavoro di alcuni frati, ne faccia istanza al Priore perché li metta a sua disposizione. Se invece lo si deve comprare, si consulti prima con dei periti per stabilire quale sia il materia­ le migliore e quando comprarlo, come e quando trasportarlo e come metterlo in opera. Che se poi non fosse adoperato subito, dovrà trovare il luogo dove collocarlo per evitarne il deterioramento. Sarà lui a cercare e ad assumere gli operai esterni e i capo­ mastri che dovranno eseguire il lavoro e provvederli ogni giorno del cibo, delle bevande e dell'eventuale alloggio per la notte, avvertendoli però, nello stipulare il contratto di lavo­ ro, che in convento dovranno sottomettersi quanto al cibo a un regime di magro e non avranno biancheria nei letti, a me­ no che non se la procurino personalmente. Dovrà pagarli re­ golarmente, vigilare sulla loro assiduità al lavoro e sul loro comportamento, e nel caso dovesse licenziarne qualcuno, lo faccia con carità e nel rispetto della gius�izia.

1

U., De officio praefecti operum,

Il, 331-333.

32

Infine, egli deve tenere un registro per segnarvi scrupolo­ samente le uscite e le entrate, sia in denaro che in natura, per poter rendeme a suo tempo ragione al consiglio del conven­ to . E se il Priore per aiuto nei lavori gli avrà concesso dei re­ ligiosi della comunità, dovranno anch'essi dipender da lui. Le facoltà di questo Soprintendente risultavano perciò molto ampie, evidentemente motivate dal desiderio di scari­ care il Priore e il resto della comunità da tutte le preoccupa­ zioni che una costruzione o la sua manutenzione comporta­ vano, per lasciarla più libera - ed era stato questo anche il de­ siderio del fondatore (Atti 26) - per lo studio e la predicazio­ ne : anche se di fatto poi la comunità, come si è visto, ne re­ stava necessariamente in qualche modo coinvolta, perché ad essa egli doveva periodicamente rendere conto delle entrate e delle uscite e poteva sempre richiedere che alcuni dei suoi membri prestassero la loro opera. Si aggiunga poi che egli non era l'arbitro assoluto della esecuzione e soprattutto della progettazione dei lavori, perché doveva sottostare al parere di una commissione di tre religiosi, eletti allo scopo dall'inte­ ra comunità (Il, 35). Non necessariamente il Soprintendente ai lavori ne era anche l'architetto . Ma da quella funzione a questa non c'era che da fare un passo per dei soggetti naturalmente dotati che avessero avuto l'occasione, sia prima che dopo il loro ingres­ so nell'Ordine, di lavorare sotto la direzione di un bravo maestro. Di tante chiese e conventi domenicani dei quali ci è rimasto sconosciuto il nome dell'architetto, dobbiamo per­ ciò presumere che ne sia stato progettista e ingegnere insieme il frate che la comunità aveva prescelto per esserne il Soprin­ tendente ai lavori. E sovente si trattava di fratelli conversi il cui nome, avendo essi lavorato in umiltà e obbedienza, è ri­ masto sconosciuto o ci è giunto per caso, solo perché un sa­ crista coscienzioso lo ha riportato nel necrologio conventua­ le con una laconica menzione o perché un cronista nel rac-

33

contare altre cose ha fatto allusione anche all'opera da essi creata. È il caso, ad esempio, di fra Sisto e di fra Ristoro, i due architetti di S. Maria Nov ella di Firenze, o di fra Benve­ nuto da Bologna e di fra Nicola da Imola cui vengono attri­ buiti quei due gioielli incomparabili che sono la Basilica dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia e S . Nicolò di Treviso. Ma casi del genere dovettero essere molti, perché quando un frate si era mostrato competente in questo genere di lavo­ ro, veniva facilmente trasferito da un convento all'altro, nel­ l'interno o anche fuori della propria Provincia, dovunque si richiedesse la sua opera, nello stesso modo che i religiosi di­ stintisi nell'insegnamento venivano trasferiti da un centro di studi a un altro a seconda delle necessità.

Il convento prototipo. Un convento in costruzione, anche per l'immancabile trambusto che vi doveva regnare, non sarebbe quindi stato una scelta felice per la nostra visita. Preferiamo perciò effet­ tuarla al convento di S. Domenico di Bologna, non perché abbiamo la certezza di trovarvi il Soprintendente alle costru­ zioni del tutto disoccupato - si può dire che in un convento immenso come quello prescelto i muratori vi siano sempre stati e vi sono tutt'ora di casa - ma perché nella seconda metà del '200 il prolungamento della chiesa preesistente è ormai ultimato e il convento nelle sue linee essenziali è completo e funzionante ; per cui gli inevitabili lavori di manutenzione o di ampliamento non impediranno al visitatore di rendersi conto della struttura, dell'ubicazione e funzione dei suoi lo­ cali e soprattutto della vita che vi svolgono i frati. Mentre poi, per la quasi totalità dei conventi domenicani sia in Italia che nel resto d'Europa, delle antiche strutture ben poco è rimasto per lo scempio fattone a seguito delle

34

soppressioni napoleoniche e liberal-massoniche del secolo scorso, il convento di S. Domenico di Bologna, anche se an­ ch'esso in parte ora destinato ad altri usi (una parte di esso è ora sede del Tribunale e un'altra è tutt'ora caserma dei cara­ binieri), nelle sue linee è rimasto quasi intatto ; e gli studi sto­ rici e archeologici che lo riguardano, eseguiti in questi ultimi anni, sono stati di tale abbondanza da permetterei di rico­ struire con esattezza quella che fu verso la fine del '200 la sua struttura d'insieme e la probabile ubicazione e dimensione di ogni suo locale. La nostra visita-lo ripetiamo-non ha evidentemente un interesse archeologico o architettonico ; e quindi rimandiamo il lettore cui la cosa interessasse agli studi al riguardo. I risul­ tati di questi studi ci serviranno però per dare una veste sto­ ricamente verosimile al nostro ideale itinerario. Ma abbiamo scelto il convento di Bologna anche e so­ prattutto per un altro motivo. S. Domenico nel 1 2 1 8, a soli due anni dall'approvazione del suo Ordine, aveva inviato quattro frati da Roma a Bolo­ gna, nella città celebre nel mondo per la sua università, per fondarvi un convento : forse con l'intento, come aveva fatto nell'inviarne altri quattro a Parigi, che frequentassero quella Scuola per perfezionarsi nelle scienze sacre il cui possesso egli riteneva indispensabile per un predicatore, ma forse so­ prattutto nella speranza che in un ambiente studentesco co­ me quello vi attingessero vocazioni. Il che effettivamente av­ venne, soprattutto dopo l'arrivo a Bologna ( 1 2 dicembre 1 2 1 8) di un dotto e santo prelato francese fattosi da poco do­ menicano, il b. Reginaldo d'Orléans, che, appena giunto, at­ tirò nell'Ordine molti bolognesi, sicché « il numero dei di­ scepoli cominciò a crescere e molti altri ancora si aggiunsero al loro numero» (Giord. 58). Di conseguenza il piccolo ospizio che li aveva accolti alla periferia nord della città, presso la chiesa della Mascarella,

35

non era più in grado di contenere la fiorente comunità reli­ giosa. Reginaldo ottiene allora dal Vescovo di Bologna, su sollecitazione del Card. Ugolino (il futuro Gregorio IX, amicissimo di S. Domenico), la chiesa, con annessa canoni­ ca, di S. Nicolò delle Vigne, che sorgeva appena dentro la se­ conda cerchia delle mura, dal lato opposto della città. E Provvidenza volle, a facilitazione delle pratiche di cessione, che il sacerdote faentino Rodolfo, che ne era il rettore, co­ gliesse l'occasione per entrare egli pure nell'Ordine (Atti 30). La chiesa non era molto grande, ma questo per allora non preoccupava i frati: bastava che fosse sufficiente per racco­ gliervisi per la cele� razione della liturgia cui essi, come cano­ nici erano tenuti. E vero che S. Domenico aveva dato ai suoi frati-canonici una missione nuova, quella di predicare (vi­ rum canonicum auge t in apostolicum); ma essi dovevano pre­ dicare agli eretici, che certo non venivano in chiesa, e a dei fedeli che avevano già le loro chiese parrocchiali, nelle quali essi potevano svolgere la loro predicazione. Per il momento, quindi, l'Ordine non era preoccupato di avere chiese conventuali molto spaziose, perché la sua predi­ cazione si svolgeva fuori di esse. Ma i Frati Predicatori erano dei Canonici regolari, vale a dire che dovevano vivere in comunità. Per svolgere la loro vita comunitaria avevano perciò bisogno non di una dimora qualsiasi, ma di un convento, ossia di una pluralità di locali, vicini e connessi fra loro, che permettessero di svolgervi una vita regolare. Orbene, la chiesa di S. Nicolò 4 elle Vigne per il fatto di essere situata ai margini della città, in una zona agricola e non ancora intensamente abitata, avrebbe potuto assicurare lo spazio necessario per costruirvi un convento capace di soddisfare a queste necessità : forse proprio per questo il b. Reginaldo vi aveva messo gli occhi addosso e se l'era fatta donare. Fu così, comunque, che appena trasferitisi nella

36

nuova residenza, il beato in quello stesso 1 2 1 9, S. Domenico nel 1 22 1 , i loro successori negli anni seguenti fino al 1 243, instaurarono una politica di compera di tutti i terreni e case circonvicine che, con la donazione da parte del comune di Bologna di un ultimo lotto di terreno nel 1 264, li rese padro­ ni di un'area di ben 3 1 . 500 mq. ; e in quell'area, ingrandendo e trasformando la vecchia casa del rettore della chiesa e ab­ battendo ben 25 costruzioni preesistenti che non rientravano nel loro progetto, cominciarono subito a costruire quello che diventerà up.o dei più grandi conventi dell'Ordine e un po' il prototipo di ciascuno di essi. Gli altri conventi dell'Ordine non furono infatti sempre altrettanto fortunati. I Frati Predicatori in forza del loro nuovo carisma non potevano infatti porre la loro residenza, come avevano fatto i monaci, lontano dai luoghi abitati e quindi in posti dove gli spazi per nuove ampie e ambiziose costruzioni non sarebbe­ ro mancati, ma dovevano ricercarla nell'interno delle città o subito a ridosso di esse. Molte volte venivano loro offerte una chiesa e una casa già esistenti ; e i frati dovevano limitarsi ad adattarle alle loro esigenze. Altre volte lo spazio loro of­ ferto o potuto comprare per la nuova costruzione li obbliga­ va a ridimensionare i loro desideri ed eventuali progetti. Non sempre si potè perciò avere uniformità nelle costruzioni domenicane. Quando però poterono permettersi - e fortunatamente i casi non furono pochi - una costruzione ex nova, non con­ dizionata dagli spazi, è presumibile che quella certa unifor­ mità che si riscontra fra essi sia dovuta non a delle direttive­ perché le Costituzioni dell'Ordine (Il, 35) avevano al riguar­ do solo disposizioni negative, tendenti a preservarne la po­ vertà - ma a una imitazione della costruzione bolognese. A Bologna, infatti, si erano celebrati i primi due Capitoli gene­ rali dell'Ordine (1 220- 1 22 1 ) e in quelle occasioni forse fra

37

. ..-- ��· · ·

'

- ·�·-.'

.

·

L 'area di S. Nicolò delle Vigne prima della fondazione del Con­ vento di S. Domenico. La ricostruzione, basata sulla documenta­ zione di archivio relativa agli acquisti dei terreni da parte dei Do­ menicani, è dovuta a un disegno di R. Merlo (in Archeologia Me­ dievale a Bologna. Gli scavi del convento di S. Domenico, Gratis Edizioni, 1987). Si noti l'ampio terreno agricolo, intorno alla chie­ sa, che sarà utilizzato per la costruzione del convento.

38

Rodolfo, preposto alla costruzione, avrà avuto modo di esporre ai convenuti dai primi conventi dell'Ordine ancora in fase di costruzione, i suoi progetti e i suoi criteri architet­ tonici. A Bologna convenivano in seguito ogni due anni, per i Capitoli generali, i rappresentanti delle varie Province, i quali, tornando alle loro sedi non potevano non riferire della costruzione che vi avevano ammirata. Da Bologna, sede del Provinciale di Lombardia, dipendevano tutti i conventi aper­ ti o che si sarebbero aperti nel Nord Italia; e a quel conven­ to, sia per la presenza della tomba del Santo fondatore, sia per il suo studio generale cui accorrevano frati studenti da ogni Provincia, sia per il valore e il numero-dei suoi religiosi, guardavano con ammirazione tutti i Domenicani del mondo. Ci sembra perciò non azzardato l'aver affermato che quella certa uniformità che si riscontra in tanti conventi del­ l'Ordine la si debba a una imitazione di quello di Bologna. Per cui la visita che ci proponiamo di fare a quel convento­ lo ripetiamo - vuol essere per noi solo un'occasione per visi­ tare idealmente un qualsiasi convento domenicano del XIII secolo. Un convento grandioso ma non sontuoso.

Il convento - che dal 1235, un anno dopo la sua canoniz­ zazione, comincerà ad assumere il nome di S. Domenico al posto della vecchia denominazione di S. Nicolò delle Vigne - sorge a sud di Bologna, appena dentro alla seconda cerchia medievale delle sue mura, fra la porta Procula (attuale porta S. Mamolo) e quella del Borgo Castiglione (Porta Castiglio­ ne) . É quindi a due passi dalle prime colline dell'Appennino ai cui piedi sorge la città ; per cui da una di esse, quella di S. Michele in Bosco, possiamo dargli un primo sguardo pano­ ramico .

39

Ci appare così, come un insieme di vasti edifici, i princi­ pali dei quali sono disposti a quadrilatero intorno a un chio­ stro, del quale la chiesa forma uno dei lati e gli altri tre sono occupati dai co�iddetti luoghi regolari o locali della comuni­ tà : la sala del capitolo, il dormitorio, il capitolo dei novizi, la biblioteca, il refettorio. A sud di questo primo chiostro se ne vede un altro più grande in via di formazione, la cui ala orientale è formata dal prolungamento del dormitorio, l'ala settentrionale dal capi­ tolo dei novizi, dalla biblioteca e dall'ospizio o casa per gli ospiti, l'ala occidentale dall'infermeria, mentre l'ala meridio­ nale è ancora aperta verso l'ampio orto, ben coltivato. Altri edifici minori sorgono a occidente dietro il refetto­ rio, per accogliervi le scuole interne, gli studenti esterni e le cosiddette officine, ossia i locali adibiti alle varie necessità della comunità : la cucina, la dispensa, la cantina, la vesteria, la sartoria, la calzoleria, ecc. Anche tali locali sono disposti in maniera da formare con l'infermeria un terzo piccolo chiostro. Intorno all'abside e al fianco nord della chiesa si in­ travvede un vasto cimitero. Se a oriente, dal lato dell'orto, il complesso è sufficiente­ mente isolato dalla città dal torrente Aposa che ne segna il confine, gli altri lati sono cinti da alte mura che lo separano dalle due strade che lo fiancheggiano e dalle prime abitazioni civili. Anche la piazza antistante la chiesa è contenuta entro un muro di cinta. Anche se solo visto dall'alto, notiamo subito che un con­ vento domenicano ci appare ben diverso, e non solo per il nome, dalle antiche abbazie monacali. È separato dalla città : perché anche l'Ordine dei Predica­ tori, al pari del monachesimo, ha conservato la vita contem­ platiya, e non può quindi ignorare che un contatto troppo stretto col mondo e con le sue seduzioni ne sarebbe inevita­ bilmente un ostacolo. Ma sorge entro la città : perché esso,

40

Il convento di S. Domenico all'epoca della nostra visita (seconda metà del '200) - Dis. R. Merlo. Le strutture principali della chiesa e del convento sono docu men­ tate da strutt u re esistenti. Si notino: 1 - i l m u rag lione di cinta; 2 l 'ampia piazza in parte adibita a cim itero; 3 - il chi ostro affiancato alla chiesa già prolu n gata ; 4 - le officine, l ' infermeria e l ' ospizio.

41

come si afferma fin dal Prologo delle sue Costituzioni, è « Stato istituito principalmente per la predicazione e la sal­ vezza delle anime» . Contemplativo come il monachesimo, sente al pari di esso il bisogno dell'isolamento per poter con­ tinuare ad esserlo ; ma, dovendo della sua contemplazione rendere partecipi anche gli altri, a differenza del monachesi­ mo non può avere le sue residenze lontane dagli altri. E il suo complesso non ci appare come un agglomerato di casette unimonastiche, destinate a favorire la contemplazione éersonale e perciò distribuite in spazi immensi e unite fra lo­ ro unicamente da viali che convergono verso una chiesa non grande perché destinata solo ad uso dei monaci ; ma è un in­ sieme di vasti edifici comunitari tutti stretti e comunicanti fra loro e, mediante il chiostro, con la grande chiesa dove i Frati Predicatori si recano più volte al giorno per la loro preghiera ma anche per accogliervi le folle immense che ormai accorro­ no alle loro prediche. Dopo questo sguardo sommario e panoramico del Con­ vento di S. Domenico di Bologna siamo così ora preparati per bussare arditamente alla sua porta d'ingresso per chiede­ re di potervi fare una visita più dettagliata. Prima però di entrare, a scanso di delusioni che altrimen­ ti potremmo provare nel corso della nostra visita, dobbiamo premettere che il convento, come ci è apparso dall'alto, è certamente grandioso, perché vi devono vivere e operare permanentemente molte decine di religiosi e ogni due anni deve essere in grado di ospitarne altre decine che vi conven­ gono, in rappresentanza di tutte le Province dell'Ordine, per celebrarvi i Capitoli generali (Il, 1 3) ; nel visitarlo però non lo troveremo sontuoso, come erano in genere le abbazie, perché si tratta di un convento di un Ordine Mendicante, di un Ordine cioè che ha adottato la mendicità non soltanto co­ me mezzo di sostentamento, avendo rinunciato volontaria­ mente «a proprietà e a redditi» (Il, 26 ; Prol. ), ma soprattutto

42

come testimonianza evangelica per rendere più credibile la sua predicazione. S. Domenico aveva infatti voluto che i suoi frati avessero abitazioni povere : «parvas, humiles, viles • - diranno i testi al suo processo di canonizzazione (Atti 1 7, 32, 38, 47), e fin dal primo Capitolo generale dell'Ordine aveva fatto inserire nelle Costituzioni (Il, 35) questa prescrizione : « l nostri frati abbiano conventi modesti e umili, vale a dire che i loro muri, senza contare il solaio, non devono superare i dodici piedi di altezza e col solaio i venti. Il tetto della chiesa potrà raggiun­ gere anche i trenta piedi di altezza; ma eccezion fatta per quello del coro e della sagrestia, non dovrà essere fatto a vol­ ta• . Se si pensa che il piede bolognese, al quale presumibil­ mente si riferivano quei capitolari, misurava cm. 38, ci si ac­ corge subito che le misure da loro imposte erano davvero modeste : m. 4,50 per un edificio a un solo piano, m. 6,60 per uno a due e m. 1 1 , 40 per le chiese. E con questo spirito i Capitoli generali continueranno per anni a sfornare leggi circa la costruzione e l'arredamento delle chiese e dei conventi dell'Ordine. Avremo occasione a suo luogo, nel visitare il convento dall'interno, di far notare volta per volta come queste leggi restrittive per motivi più che plausibili furono spesso supera­ te e non impedirono all'Ordine di dare al mondo, special­ mente con le sue stupende chiese, monumenti insigni che de­ stano ancora l'ammirazione dei cultori del bello. Lo spirito di povertà che aveva ispirato quelle leggi non venne però mai meno. Per cui era giusto far notare fin dal­ l'inizio che nella nostra visita troveremo edìfici e ambienti che per averli voluti funzionali sono certamente grandiosi ; e inoltre, concepiti per una vita comunitaria di studio e di pre­ ghiera, sono di una bellezza che eleva lo spirito ; ma non vi troveremo mai il lusso e lo sfarzo riscontrabili in tanti altri edifici, anche ecclesiastici, della stessa epoca.

43

CAPITOLO SECONDO

L'ACCOGLIENZA

Un pulpito sulla piazza Per accedere al convento, la cui porta di ingresso si apre nell'angolo che l'edificio conventuale forma con la facciata della chiesa al cui lato meridionale si appoggia ad angolo ret­ to, dobbiamo attraversare l'ampia piazza antistante che or­ mai - come si è detto - non è più chiamata di S. Nicolò delle Vigne, ma di S. Domenico. La troviamo cinta da un grande muraglione, la cui apertura di accesso è dominata da una co­ lonna sovrastata da una croce, quasi ad avvertirci subito che si tratta di un 'area sacra. Di questo ce ne dà conferma anche il fatto che entrando scorgiamo che il suo lato sinistro è adibito a cimitero, del quale intravvediamo a distanza alcune tombe monumentali, elevate dal suolo . Che la piazza debba considerarsi un luogo sacro, ce ne accorgiamo anche dal fatto che, osservando la facciata della chiesa - di stile romanico, con un bel rosone sopra il portale - scorgiamo sul suo angolo sinistro, protetto da una cancel­ lata, un pulpito pensile, evidentemente destinato ai Frati Predicatori del convento per tenervi le prediche quando l'af­ flusso della folla è tale che essa non può essere contenuta nel­ la pur vasta chiesa. È sovrastato da una banderuola metallica che, girando col vento, serve ad indicare al predicatore la di-

44

rezione in cui mettersi nel parlare, per far meglio giungere la sua voce alla folla. Di ciò potrebbe forse meravigliarsi un visitatore del seco­ lo XX, abituato a vedere le piazze riempirsi di folle oceani­ che solo quando vi parlano importanti uomini politici e a constatare che le chiese sono più che sufficienti per contene­ re il numero di fedeli che oggi le frequentano. Ma non si me­ raviglierebbe un visitatore del secolo XIII, di un secolo in cui la totalità della gente era profondamente credente e avida della parola di Dio. Quando poi gli oratori sacri si impone­ vano, come di solito i membri del nuovo Ordine nato ap­ punto per la predicazione, per là loro facondia ma soprattut­ to per la vastità e solidità del loro sapere, alle loro prediche accorreva allora l'intera città. E non mancano testimonianze che riferiscono che pro­ prio anche la piazza che stiamo attraversando, non molti an­ ni prima della nostra visita, si riempiva ogni qual volta vi predicava il celebre oratore fra Giovanni da Vicenza o vi lan­ ciava il suo grido di Alleluja uno dei predicatori di quel mo­ vimento, detto appunto dell'alleluja o devozione dei Frati Predicatori che, dopo la pace di S. Germano (23 luglio 1 230) fra la Chiesa e l'impero, aveva suscitato fra la gente ormai stanca di lotte e di guerre, frutti ingentissimi di rappacifica­ zione e di ritrovata concordia fra le fazioni cittadine (Atti 30, VF. 1 65).

Poveri in attesa Ma un'altra cosa ci stupisce. Di fronte alla porta di in­ gresso al" convento, sotto il portichetto che la ripara, sosta un discreto gruppo di persone, che dal loro atteggiamento e dal loro vestiario non facciamo fatica a classificare immediata­ mente come mendicanti e pellegrini. Sono in attesa che la

45

porta si apra e ne esca l'elemosiniere, il frate cioè che in ogni convento dei Domenicani è incaricato a fare l'elemosina ai poveri, il qual è, coadiuvato dal portinaio, o nella piazza o nell'atrio della portineria, procederà a una distribuzione giornaliera di viveri. , E suo ufficio2 raccogliere dopo ogni pasto, sia nel refetto­ rio dei frati, sia in quello dell'ospizio e degli operai, sia in in­ fermeria che in cucina, tutto quello che avanza ; deve conser­ varlo in vasi adatti ben puliti e, se si tratta di cibi riscaldabili, deve fare in modo che siano ben caldi al momento della loro distribuzione. Se poi in convento ci saranno grano, legumi, vino e nell'orto verdure non strettamente necessarie ai frati, ne potrà fare richiesta al Priore per poter anche con esse sfa­ mare i poveri. Soprattutto poi in tempo di carestia, dovrà es­ sere generoso con loro ed esortare il Priore e la comunità ad esserlo. Nel distribuire il cibo deve essere imparziale e giusto : non si lasci imbrogliare da chi con false scuse vorrebbe di più, ma ai veri ammalati dia pure con più abbondanza. Deve essere paziente, mai percuotere o insultare quelli che si com­ portano male o fanno tumulto, usare carità e gentilezza con tutti . Se poi si accorge che fra i richiedenti ci sono persone un tempo tenute in considerazione e abituate a un altro teno­ re di vita, per evitare loro l'umiliazione le faccia accomodare in disparte e le serva con deferenza. Dicevamo che ci stupiva il vedere poveri e pellegrini alla porta di un convento domenicano in attesa di ricevere l'ele­ mosina, per il fatto che l'Ordine dei Predicatori è nato con finalità ben diverse e che uno dei motti coi quali si caratteriz­ za è caritas veritatis, quasi ad avvertire che la carità che in-

2 U. ,

De officio elemosinarii,

II, 285-282.

46

tende esercitare verso il prossimo non è quella materiale, ma della evangelizzazione e della dottrina. Ma poi abbiamo ripensato, ad attenuazione della nostra meraviglia, che il fondatore dell'Ordine, che pur aveva dedi­ cato tutta la vita non ad alleviare le miserie del corpo ma quelle delle anime, aveva lasciato ai suoi frati due meraviglio­ si esempi anche di carità materiale, quando in un periodo di carestia aveva venduto tutti i suoi libri preziosi e quant'altro aveva per fare una fondazione caritativa in favore dei poveri (Giord. '1 0 e Atti 29 e 35) e quando, non avendo a sua dispo­ sizione altro mezzo, offrì in vendita se stesso per riscattare un giovane caduto schiavo dei saraceni (Giord. 35) . E proprio i frati di Bologna si tramandavano ancora l'epi­ sodio di cui era stato protagonista l'allora loro Provinciale, il b. Giordano di Sassonia. Avendo data una delle sue tuniche ad uno che gli si era presentato come povero e ammalato, quando gli fu riferito che era un imbroglione e aveva vendu­ to quella tunica in un'osteria, aveva commentato : «Gliel'ho data perché credevo ch'egli fosse povero e ammalato e quindi fosse un atto di carità il soccorrerlo . Ad ogni modo è sempre meglio perdere una tunica che la pietà» (VF. 1 67) . Memori di questi esempi, la carità della verità da loro professata non impedì mai ai Frati Predicatori di esercitare su larga scala anche quella materiale. Siamo anzi al corrente che proprio il convento che stiamo per visitare in più di un caso straordinario non ebbe scrupolo di vendere anche gli ar­ redi sacri per sfamare i poveri, quando, più numerosi del so­ lito, si accalcarono davanti a questa porta. .

L'accoglienza del portinaio Fatte queste considerazioni, bussiamo alla porta. Prima di aprire, il frate portinaio vuol rendersi conto di chi ha bussato, servendosi di uno spioncino che si apre in

47

uno dei battenti o sulla parete d'angolo a mo' di feritoia. Se si tratta, infatti, di persone che non è il caso di fare entrare, (Ti­ baldi et viles personae) , dovrà ascoltarle e accontentarle co­ me può, ma senza aprir loro la porta. Soddisfatto delle nostre persone, ci accoglie in una specie di atrio, contornato da panche di legno, sulle cui pareti si aprono la porta che conduce all'ospizio, quella che immette nel chiostro e una che conduce in chiesa. Il portinaio3, è di solito un fratello converso : ((Deve esse­ re maturo negli anni, religioso esemplare, di bell'aspetto, di­ screto nel tratto, prudente nel parlare, affabile nel conversa­ re. Non deve importunare le persone con troppe domande, non offendere nessuno con risposte sgarbate e villane, deve sapere rasserenare gli inquieti ed edificare quanti vengono al­ la porta». Raccomandazioni queste più che opportune, perché il buono o il cattivo nome di un convento dipende molte volte proprio dal comportamento di questo suo ministro degli

esteri.

Deve avere la cella vicino alla porta, che non deve mai ab­ bandonare né di giorno né di notte, a meno che, cosa usuale in un grande convento, non abbia un socio col quale alter­ narsi. Il Priore, in considerazione di ciò, potrà dispensarlo in tutto o in parte dalla frequenza al coro e dagli altri atti comu­ ni. Quanto alla Messa, se è un converso potrà servime una privata al mattino presto, prima di iniziare il suo ufficio, o ascoltare quella conventuale dalla porta che dalla portineria conduce in chiesa; se invece è sacerdote, potrà celebrarla pri­ vatamente facendosi sostituire momentaneamente alla porta. Per non restare ozioso, quando non è impegnato, se è converso si occupi di qualche lavoro materiale, se invece è un chierico occupi il tempo studiando o scrivendo.

3

U.,

De officio portarii,

Il, 274-279.

48

Tratti tutti con gentilezza e carità e approfitti quando è il caso per parlare loro di Dio. Renda poi a ciascuno l'onore dovuto alla loro dignità : saluti cordialmente i religiosi e, se sono dell'Ordine o Francescani, li abbracci e li baci con effu­ sioni di gioia ; baci la mano ai prelati o si metta in ginocchio davanti a loro se l'uso del paese lo comporta ; e faccia acco­ modare in capitolo, dopo aver avvertito della loro presenza il Priore perché venga ad accoglierle, le più alte personalità, sia religiose che civili, e i più insigni amici dell'Ordine.

La cuna exterior Se chi si è presentato alla porta chiede semplicemente di poter parlare con un religioso del convento, il portinaio lo fa attendere nell'atrio della portineria o, secondo i casi, lo in­ troduce nell'attiguo piccolo chiostro antistante l'ospizio, che il b. Umberto chiama curia exterior e che noi non osiamo chiamare parlatorio, sia per non confonderlo col locutorio, o sala nella quale i frati possono rompere il silenzio e di cui parleremo più avanti, sia perché questo nome potrebbe far pensare, secondo la mentalità moderna, a una sala o a una se­ rie di salotti, con divani e poltroncine, elementi che sono in­ vece del tutto assenti in questo luogo dove i frati, quasi a ri­ cordarsi e a ricordare che il colloquio deve essere breve, ac­ colgono i visitatori generalmente in piedi. Poi, chiuso il portone d'ingresso per evitare che durante la sua assenza possa entrare qualcuno a sua insaputa, se l'ora­ rio lo permette e se non ci sono prescrizioni restrittive del Priore al riguardo, il portinaio va a chiamare il frate che è stato richiesto. La sua assenza, del resto, sarà quasi sempre breve, perché il più delle volte per rintracciare il frate basterà che si affacci alla porta della chiesa, dato che, a quanto anno­ ta l'autore del Vitae Fratrum (Ep. 1 8 8), «sempre o quasi

49

sempre ci sono in chiesa frati in preghiera. Sicché, ordinaria­ mente, quando il portinaio cerca un frate, lo trova più facil­ mente in chiesa che altrove» . Se poi non è in chiesa, il frate è rintracciabile di sicuro in cella dove studia o, secondo il pro­ prio ufficio, nell'officina dove lavora. Ma, a proposito di visite, spettano al portinaio anche compiti sgradevoli. Lui personalmente dovrà essere molto laconico e usare un linguaggio cortese sì, ma sostenuto, e se è il caso usare an­ che parole forti con quelle donne che vengono troppo spesso e troppo a lungo a importunare questo o quel frate. Se poi il frate è condiscendente, il portinaio dovrà riferirlo al Priore o proclamarlo in Capitolo. Ma dovrà viceversa proclamare in Capitolo anche quei frati che, chiamati per confessare, si ri­ fiutassero di venire o fossero sgarbati con chi li ha fatti chia­ mare.

L'ospizio Molto spesso bussano alla porta del convento anche per­ sone che vi chiedono ospitalità. In tal caso il portinaio chia­ ma }l Receptor hospitum. E il frate, 4 nei conventi dove l'afflusso dei pellegrini è notevole potranno anche essere due, addetto l'uno alla rice­ zione dei religiosi dell'Ordine, l'altro dei secolari - a cui, co­ me si capisce dal nome, stabilmente o a turno è affidata l'ac­ coglienza degli ospiti e il buon funzionamento dell'ospizio o domus hospitum, che in nessun convento deve mancare. Può essere indifferentemente un converso o un chierico. Ma è importante che. egli sia competente e zelante nell'adempi-

4

U.,

De officio receptoris hospitum,

II, 3 1 0-3 1 6 .

50

mento del suo ufficio, gentile e ospitale, capace di intrattene­ re gli ospiti con discorsi edificanti, incline a capirli e ad adat­ tarsi ai loro usi e costumi, sempre pronto per quanto è possi­ bile, ad andare incontro ai loro bisogni e ai loro desideri. Dell'ospizio è lui che ha le chiavi e tocca a lui renderlo accogliente, tenerlo pulito, provvisto di tavoli, sedie, letti e di quanto altro occorre. Deve fare attenzione che ci siano sempre almeno un lavabo, brocche d'acqua per lavarsi e reci­ pienti per raccogliere quella usata ; che sia inoltre fornito di una piccola dispensa, di cassoni e armadi per riporvi le vesti, di stoviglie e cucchiai e di quant'altro è necessario per consu­ marvi i pasti, ai quali inviterà gli ospiti, all'ora stabilita, con il suono di una campanella. Il pane se lo farà dare dal refetto­ riere del convento, il vino dal cantiniere, tutto il resto dall'e­ conomo. Deve tener rifatti i letti e avere sempre una scorta di pan­ tofole, di scarpe, di biancheria e di tonache da offrire agli ospiti per cambiarsi. Deve sempre avere a disposizione anche delle candele e delle torce da offrire loro sia mentre sono in casa, sia per quando devono riprendere il viaggio. Quando viene avvertito dal portinaio, che sono giunti frati di un altro convento dell'Ordine bisognosi di ospitalità, l'ospitaliere corra subito, lieto di incontrarli e, se sono sem­ plici frati, dia loro il bacio della pace ; se invece sono rivestiti d'autorità, non glielo dia se non sono loro per primi a offrir­ lo. Poi, se già non l'hanno ricevuta, li conduca per prima co­ sa in chiesa perché possano ricevervi la benedizione degli iti­ neranti . Se è sacerdote potrà impartirla lui stesso (Il, 3 1 ) . S i faccia poi consegnare, per custodirlo, il bastone da viaggio, i libri e le altre cose ; e li conduca all'ospizio av­ vertendo il Priore del loro arrivo. Se fosse giunto il Maestro dell'Ordine, o il Priore provin­ ciale o qualche altro che deve essere accolto dall'intera co­ munità, suoni la campana del capitolo per convocarla a rice-

51

vere da lui la benedizione e sentire i l programma della sua vi­ stta. Se gli ospiti sono giunti nel pomeriggio in un'ora in cui hanno già mangiato, egli offra loro da bere e, se non è un giorno di digiuno al quale anch'essi devono sottostare, si in­ formerà su quello che desiderano per cena. Poi indicherà lo­ ro il luogo dove si trovano i servizi e i letti loro assegnati af­ finché, se stanchi del viaggio, ne approfittino per fare un ri­ postno. Se invece sono giunti in mattinata e non hanno ancora ce­ lebrata o ascoltata la Messa, provveda per fargliela celebrare o ascoltare, poi incarichi qualche frate della casa di tener loro compagnia fino all'ora del pranzo, che i frati ospiti dovranno consumare, all'ora stabilita, nel refettorio dell'ospizio, ese­ guendo le cerimonie, recitando le preghiere d'uso e facendo un po' di lettura. La cena non venga mai protratta oltre il se­ gno del silenzio, a meno che in via eccezionale non si tratti di ospiti arrivati tardi. Quando gli ospiti verranno condotti ai letti, vengano provvisti di vasi da notte e di candele, si . offrano loro panto­ fole e tuniche di ricambio e si senta da loro se hanno bian­ cheria o la tonaca da lavare. Se poi si trovassero nella necessi­ tà di cambiare le scarpe o qualche capo di vestiario, l'ospita­ liere provveda con generosità, specialmente se si tratta di fra­ ti venuti da lontano, dopo un lungo viaggio . E se impara che durante il viaggio hanno dovuto fare qualche debito, lo rife­ risca al Priore, in modo da poter loro offrire il necessario prima ancora che lo chiedano . Se si tratta di frati che viaggiano troppo e senza vera ne­ cessità, vengano dimessi e rimandati al loro convento al più presto. Quelli invece meritevoli di ospitalità, quando chie­ dono di andarsene vengano sollecitati a restare. E quando proprio sono decisi ad andarsene, dopo aver loro impartita la benedizione e dopo averli forniti del necessario per il viag-

52

gio, l'ospitaliere dia loro il bacio di pace, insegni loro se ne­ cessario la strada da seguire o addirittura li faccia accompa­ gnare per un tratto. Queste stesse attenzioni egli dovrà usarle per i Frati fran­ cescani che le Costituzioni domenicane vogliono siano ac­ colti «caritative et hilariter», come se si trattasse di nostri fra­ ti. Anche ad essi «dovrà provvedere con affetto e decoro se­ condo le possibilità del convento » (Il, 34 ) Questo trattamento di privilegio per i Francescani non deve meravigliarci. È infatti tradizionale l'amicizia intercorsa fra i due fondatori, S. Francesco e S. Domenico, i quali si sa­ rebbero incontrati fra loro in più d'una occasione (VF. 4) : amicizia perpetuatasi fra le due famiglie religiose che ancor oggi si scambiano la mensa e la presidenza delle funzioni li­ turgiche nella festa dei rispettivi fondatori. Il testo delle Co­ stituzioni domenicane sopra citato e la ripetuta raccomanda­ zione fatta al portinaio dal b. Umberto di accogliere hilarius i francescani che si presentano alla porta, è prova sufficiente ed eloquente di tale amicizia. Nel timore però che essa po­ tesse venir appannata dalla inevitabile emulazione, nel 1 255 il Ministro dei Minori e il Maestro dei Predicatori inviarono congiuntamente ai loro Ordini una meravigliosa lunga lette­ ra di esortazione alla comprensione, alla collaborazione e al­ l'amore (U. Il, 494-500). Se invece si tratta di ospiti estranei (sacerdoti secolari, re­ ligiosi di altri Ordini, laici) le attenzioni dell'ospitaliere sa­ ranno ancora improntate a molta carità, ma l'accoglienza sa­ rà diversa e proporzionata sia al loro stato che alla familiarità e all'amicizia che li lega all'Ordine. Sarà, ad esempio, il Prio­ re a decidere caso per caso se essi nell'ospizio potranno man­ giare insieme ai frati o in un refettorio a parte. Ma per loro quest'ultima soluzione potrebbe essere più conveniente. Il b. Umberto (U. , l, 1 93) segnala infatti dei religiosi immortifi­ cati che gironzolano nei pressi dell'ospizio per raccogliere al .

53

volo un invito a pranzo: segno che il menu di questi ospiti era più succulento di quello dei frati e che a loro - cosa asso­ lutamente proibita nella mensa dei frati (1, 8) - poteva venir servita anche carne. I loro letti però non saranno provvisti di lenzuola, a me­ no che essi non ne abbiano portate di personali. Se poi fosse­ ro donne o religiose a chiedere l'ospitalità, il Priore curerà di farle accogliere in qualche casa decorosa e onesta vicino al convento. No n possiamo, perciò, ancora una volta non rimanere meravigliati di tante attenzioni per gli ospiti in un Ordine, come quello dei Predicatori, nato con ben altre finalità che l'assistenza materiale del prossimo ; anche se il fine specifico per il quale esso fu istituito, la salvezza delle anime, è sottin­ tesa in tante delle raccomandazioni che vengono fatte all'o­ spitaliere: di fare in modo cioè, che gli ospiti siano edificati dalle sue maniere e ricevano un beneficio per la loro anima dai suoi discorsi.

54

CAPITOLO TERZO

LA CHIESA

La chiesa esterna Dopo aver depositato nell'ospizio il bastone da viaggio, i libri e il poco bagaglio che avevamo con noi, preghiamo l'o­ spitaliere di riaccompagnarci in chiesa, dove già avevamo ri­ cevuta per prima cosa la benedizione degli itineranti, per po­ ter celebrare la Messa, dato che in viaggio non ne avevamo avuta la possibilità. La chiesa è a tre navate e, come in tutte le chiese cattedra­ li, collegiate e monastiche del tempo, un tramezzo (interme­ dia) sufficientemente alto da non permettere ai laici di vedere i religiosi quando sono in coro, separa la cosiddetta chiesa esterna, cioè la parte vicina all'ingresso principale, destinata ai fedeli, dalla chiesa interna. Chiusa anche ai lati sulle due navate laterali, essa costituisce il coro o oratorio, riservato esclusivamente ai frati e dove le donne non possono assolu­ tamente entrare. Unica eccezione il Venerdì Santo, per per­ mettere anche a loro di adorare la croce (1, 3). Il tramezzo è interrotto al centro da un grande arco, chiuso da una porta che viene aperta al momento dell'eleva­ zione per permettere ai fedeli di adorare il Sacramento e quando i frati passano dal coro alla chiesa per il canto della Salve Regina, dopo Compieta e per ogni altra processione . Come si vede, i fedeli sono tutt'altro che favoriti : non posso-

55

no cioè assistere alle cerimonie che si svolgono all'interno del coro. Per la sua forma questo tramezzo prende spesso anche il nome di ponte o ponti/e; e su di esso è collocato il pulpito o ambone, al quale si accede dall'interno del coro per il canto delle letture e per la predicazione rivolta ai fedeli. Ai lati del­ la porta ci sono due altari, dedicato uno alla Beata Vergine e l'altro al secondo santo dell'Ordine, Pietro da Verona, dove i religiosi, anche a utilità dei fedeli, possono celebrare le loro Messe private e in casi eccezionali celebrare battesimi, matri­ moni e vestizioni e professioni di monache (U. , Il, 250) . In alto, al centro del pontile, pende un grande crocefisso, fatto appositamente dipingere da Giunta Pisano. I Domeni­ cani per combattere i catari albigesi, i quali vedevano nella croce non un segno di salvezza ma di scandalo perché a loro dire Gesù aveva avuto un corpo e quindi una morte in croce solo apparente, avevano infatti introdotto nelle loro chiese la bella usanza di esporre in piena evidenza, la prima ad essere vista, una grande immagine del Crocifisso, quasi ad anticipa­ re ai fedeli l'oggetto della loro predicazione. La chiesa esterna, illuminata dal grande rosone della fac­ ciata, è agibile, oltre che dalla portineria del convento, da un grande portale centrale che dà sulla piazza e da una porta la­ terale (portellum), protetta all'esterno da un portico, o proti­ ro, sostenuto da due colonne, che dà sulla parte della piazza , adibita a cimitero . E fornita, a utilità dei fedeli, di alcune panche o sgabelli di legno (U. , Il, 250) e non mancano cas­ sette per raccogliere le elemosine (ib. 253). Alle pareti sono addossati alcuni altari, davanti ai quali, in occasione della fe­ sta del santo cui sono dedicati, pare venga cosparsa della pa­ glia se siamo in inverno o dell'erba fresca e ramoscelli di al­ beri in estate (i b. 253 ) . Sulla navata destra, all'altezza dell'odierna scalinata che porta alla cappella del Santo, dal 1 267 si ammira poi, innal-

56

zato su sei agili colonne piantate su di un discreto basa­ mento, il bellissimo sarcofago che Nicola Pisano, coadiuvato da fra Guglielmo da Pisa e da Arnolfo di Cambio, ha scol­ pito in marmo greco per accogliervi ed esaltare le spoglie di S. Domenico, traslatevi dal troppo modesto sepolcro in cui erano state poste nella loro prima traslazione del 24 maggio 1 233. Vi è addossato un altare per la celebrazione della Messa votiva e una inferriata gli assicura uno spazio di respiro e di difesa. Mentre la chiesa interna, in stile protogotico, è coperta con volte a crociera, quella esterna ha una copertura a capriate in vista. Le disposizioni delle Costituzioni (Il, 35 ), che non permettono coperture a volta se non per il coro e la sagrestia, evidentemente sono state rispettate. Non giureremmo però, che lo siano state anche quelle riguardanti l'altezza che - come dicevamo - non avrebbe dovuto superare i 30 piedi, cioè i m. 1 1 , 40 tetto compreso. Ma i costruttori ebbero le loro buone ragioni per oltrepas­ sare, sia pur non di molto, quei limiti. La primitiva chiesa di S. Nicolò delle Vigne, nonostante che il coro, come d'uso, fosse collocato davanti all'altare maggiore e quindi occupasse una buona parte dei suoi quasi 50 metri di lunghezza, rispondeva sufficientemente alle esi­ genze della prima comunità domenicana allorché vi si era stabilita, anche perché i frati, come si è detto, più che attirare i fedeli alle prediche nella loro chiesa, si dedicavano di prefe­ renza alla predicazione itinerante nelle cattedrali, nelle chiese parrocchiali, nelle piazze di Bologna e delle città e paesi cir­ convicini . Ma morto S. Domenico il 6 agosto 1 22 1 , il luogo dove per suo desiderio era stato seppellito, sotto il pavimento al centro del coro (Atti 8), fra l'altare maggiore e quello del­ l'abside, era diventato un luogo di continui pellegrinaggi

57

11 4

6

11

8

13

7

14

10

o

9 p

Pianta delle costruzioni duecentesche del convento di S. Dome­ nico di Bologna. (Dal Sepultuario l, del 1 290: ricostruzione del Padre V. Alce o . p . ) .

1 - chiesa d e i fedeli; 2 - chiesa d e i frati ; 3 - sagrestia; 4 - capitolo; 5 - dormitorio; 6 - .capitolo deg li studenti o noviz i ; 7 - refettorio ; 8 - chiostro ; 9 - luogo delle scuole; 1 O - luogo dell'infermeria; 1 1 orto ; 1 2 - cim itero dei frat i ; 1 3 - ci m itero dei laic i ; 1 4 - piazza; A ­ p u lpito esterno; B - porta laterale; C - altare della Madon na; D altare di S. Pietro Martire ; E - Arca e altare di S. Domenico; F

-

porta di passaggio fra le due chiese praticata nel « pontile» diviso­ rio ; G - altare di S . Cateri na; H - in angolo la tomba di Re Enzo; l altare di S. Lorenzo ; L - porta d i passaggio al c i m itero dei frati ; M - parlatorio (locutorio) dei frati ; N

-

porta del convento ; O - porta

delle scuole dei frati ; P - porta delle scuole degli «scolari » .

58

(ib . 9). 5 Non potendo più sopportare quella invasione conti­ nua di laici che disturbava l'officiatura corale e violava la leg­ ge della clausura (l, 3 ), la comunità, anche perché accresciuta enormemente di numero e quindi bisognosa di uno spazio più ampio per poter dignitosamente radunarsi tutta nel coro (Giord. 1 24), decise nel 1 228 di allungare la chiesa; in questo modo essa poteva contare su un coro più ampio e nel con­ tempo la tomba del Santo rimaneva fuori dallo spazio riser­ vato ai frati sicché i fedeli potevano liberamente accedervi. Fu così che durante i lavori di ampliamento il corpo del Fondatore rimase allo scoperto . E questo indusse i frati alla sua riesumazione e traslazione in una tomba più accogliente : traslazione (24 maggio 1 233), che fu l'occasione prossima perché si giungesse alla sua canonizzazione l'anno dopo. Ma fu così anche che la vecchia chiesa venne quasi rad­ doppiata, raggiungendo, fra chiesa esterna e interna la lun­ ghezza di 9 1 metri. Ed è pensabile che siano stati gli architet­ ti a suggerire o imporre ai frati, data la sua nuova ampiezza, un'altezza che rispettasse più le leggi dell'estetica architetto­ nica che non quelle della legislazione dell'Ordine. E si può ben pensare che il Maestro dell'Ordine, il b. Giordano, che per le sue lunghe soste a Bologna era certamente al corrente e aveva sicuramente incoraggiato quel prolungamento della chiesa, abbia dato il suo assenso anche per l'altezza. Sta di fatto che, a differenza di altri casi, nessun Capitolo generale trovò mai da ridire per le misure della chiesa bolo­ gnese.

5 Cfr. pure BARTOLOMEO ASOP, 1 935, 89.

DA TRENTO, Traslatio

S.

Dominici,

m

59

L'architettura domenicana

Ma a partire presso a poco dal 1240, qualcosa di analogo, che al dire del Meersseman6 fece uscire l'architettura dome­ nicana dal suo stato di « infanzia)) e farla sbocciare in una fio­ ritura meravigliosa di basiliche che spesso gareggiano per la loro grandiosità e bellezza con le più imponenti cattedrali cittadine, succederà un po' ovunque in tutte le chiese del­ l'Ordine. A una ventina d'anni da quel Capitolo generale di Bolo­ gna che per motivi di povertà ne aveva limitate le dimen­ sioni, l'Ordine si vide costretto a ingrandire le sue chiese : sia quelle interne, divenute ormai insufficienti ad accogliere l'accresciuto numero dei frati, sia quelle esterne destinate ai fedeli, insufficienti per un fatto nuovo accaduto in quegli anni. L'Ordine, avvalendosi della bolla di Onorio III del 4 feb­ braio 1 22 1 che dava ai Frati Predicatori la facoltà di predicare e di confessare in tutto il mondo, si era limitato a consigliare ai suoi frati, quando entravano in una diocesi, di visitare il vescovo per riceverne consigli pastorali, ma non per chieder­ gli l'autoriz�azione alla predicazione e alle confessioni nel territorio di sua giurisdizione, perché tale autorizzazione l'avevano già su scala mondiale per il fatto di essere Frati Predicatori : anzi potevano anche non tener conto di una sua formale interdizione, se muniti di un mandato pontificio (Il, 32). La reazione a questo e ad altri privilegi degli Ordini Mendicanti da parte del clero secolare non era però tardata.

6 G. MEERSSEMAN, L 'architecture dominicaine au XIII siècle, AFP 1 6 ( 1 946) , pp. 1 36- 1 90. Cfr. pure C . GILARDI, L e chiese domenicane nel XIII e XIV secolo, in «La stella di S. Domenico•, Maggio 1 983, pp. 5-28.

60

L'accoglienza iniziale, sia pure mai entusiasta, che esso aveva riservato ai due nuovi Ordini, il domenicano e il francesca­ no, si era ormai mutata in aperta ostilità per il fatto che essi attiravano maggiormente la simpatia dei fedeli e, quel che era considerato peggio, le loro offerte e donazioni . Si giunse al punto che Innocenza IV, con la bolla Etsi animarum del 2 1 novembre 1 254, restrinse talmente le facoltà dei Mendicanti da rendere praticamente impossibile qualsiasi ministero fuori della loro chiesa. È vero che poi Alessandro IV, dopo solo 1 9 giorni dalla sua elezione, il 3 1 dicembre di quello stesso anno, annullò molte delle restrizioni del suo predecessore, riservò però all'Ordinario la concessione della giurisdizione. Gli inviti a predicare nelle cattedrali e nelle parrocchie si erano .comunque diradati per poi cessare quasi del tutto. Per non venire meno alla loro missione, i Frati Predicato­ ri si videro costretti a ingrandire le loro chiese, per renderle capaci di accogliere le masse dei fedeli che continuavano ad essere desiderose di ascoltare le loro prediche. Ma dati gli spazi limitati, spesso l'ingrandirle era un problema. Quando non poterono allungarle - come si era fatto a Bologna, dove lo spazio non mancava - affiancarono una nuova chiesa alla precedente, destinandone una a coro dei frati e riservando l'altra a uso dei fedeli. Fu questo in un pri­ mo tempo il caso di S. Maria Novella di Firenze, dove i frati non potendo allungare la vecchia chiesa parrocchiale del 1 094, ne eressero un'altra a fianco nel 1 246 : ambedue poi, solo più tardi incorporate, con una soluzione ardita a orien­ tazione diversa, nella nuova meravigliosa chiesa costruita nel 1279 da fra Sisto e da fra Ristoro. Ma casi del genere si moltiplicarono specialmente in Francia (S. Giacomo di Parigi, Agen ecc. ), dove si ebbero così le caratteristiche chiese domenicane a due navate. Cele­ bre fra tutte, anche per le sue volte a palmizio quella a Tolosa dei giacobini - è questo il nome col quale in Francia furono

61

chiamati i Domenicani, per il fatto che il loro principale con­ vento fu quello di S. Giacomo a Parigi -, che, costruita fra il 1 230 e il 1 234, dovette essere raddoppiarta fra il 1 246 e il 1 275 . Dove invece, sempre per mancanza di spazio, neppure questa soluzione fu possibile, i Domenicani, per poter avere una chiesa confacente al loro ministero, furono non di rado costretti a trasferirsi in altro luogo. Comunque, sia che si trattasse di chiese nuove da co­ struire o di vecchie da ingrandire, gli architetti dovevano te­ ner conto della loro funzionalità in vista degli scopi nuovi cui esse venivano destinate. Dovendo accogliere folle di per­ sone che vi affluivano per ascoltare la predica, le chiese dove­ vano essere molto vaste, senza troppi pilastri ingombranti, dotate di una buona acustica, luminose, in modo di permet­ tere a tutti di vedere il predicatore e di ascoltarne la voce. E nello stesso tempo dovevano rispettare le esigenze di una co­ munità numerosa, gelosa della propria intimità quando vi si ritirava in preghiera. In un caso o nell'altro, gli architetti ben difficilmente po­ tevano eseguire il progetto loro sottoposto senza andar con­ tro alla legge domenicana che vietava i soffitti a volta e impo­ neva l'altezza massima di undici metri e quaranta. Il conflitto fra le leggi dell'Ordine e quello dell'arte dovette essere dolo­ roso, ma queste ultime ebbero ovunque il sopravvento . Chi voleva una chiesa più lunga e soprattutto più larga, per forza doveva volerla anche più alta e ricoperta a volta. Se colpa ci fu nella trasgressione della legge dell'Ordine, i cultori d'arte che, ancor oggi in tutti i luoghi dove i Domeni­ cani hanno o hanno avuto un convento, possono ammirare le loro chiese come le più vaste e le più belle della città, sa­ ranno certamente i primi ad esclamare : o felix culpa! Gioielli d'architettura - per non citarne che alcuni in Italia - come la Minerva di Roma, S. Maria Novella di Firenze, S. Domeni-

62

co di Perugia, S. Anastasia di Verona, S. Nicolò di Treviso, S. Domenico di N apoli e i SS. Giovanni e Paolo di Venezia, sono certamente sufficienti a far perdonare ai loro costrutto­ ri qualsiasi eventuale loro peccato . Un conflitto di coscienza fra coloro che nei conventi di­ fendevano l'osservanza della legge domenicana e coloro che la vedevano superata dalle esigenze dell'arte, però ci dovette essere. Ne sono indiretta testimonianza tre episodi narrati nel Vitae Fratrum. In uno di essi (E p. 356) un certo fra Gui­ do di Lione viene visto glorificato in paradiso per aver «ben restaurato ed abbellito il convento» . Viceversa, un frate di Bologna - che potrebbe essere fra Rodolfo, il primo che, an­ cor vivo S. Domenico, non si attenne alle prescrizioni nella costruzione del convento - viene visto da morto, condanna­ to ad aggirarsi nel chiostro per misurarne i muri con un'asta, perché nel dirigere la costruzione non si era attenuto alle re­ gole (ib. , Ep. 377). E fra Gaillardo di Orthez, nonostante i suoi meriti nella predicazione, è dovuto passare per il purga­ torio per la sua «troppa passione ed impegno per costruire nuovi conventi » (Ep. 3 79). Le opere d'arte

Verso la metà del secolo XIII le chiese domenicane erano quindi già un po' ovunque un monumento che rivaleggiava in grandezza con la cattedrale. Si distinguevano però da essa per l'austerità del loro insieme. Tutti presi dalla preoccupazione di ingrandirle o di co­ struirle, i frati fino allora non si erano o non avevano potuto preoccuparsi del loro abbellimento interno . Per cui la legi­ slazione dell'Ordine, per fare rispettare la povertà e i deside­ ri del Fondatore al riguardo (Atti 1 7 e 32), non aveva sentito il bisogno di intervenire con drastiche disposizioni, ma si era

63

limitata ad esortare di evitare gli eccessi (curiositates et ex­ cessus) nelle pitture e sculture (Cap. gen. del 1252). E anche il b. Umberto, qualche anno dopo, nel fare le sue raccoman­ dazioni al Soprintendente alle costruzioni, si limiterà generi­ camente a esortarlo «a evitare tutto ciò che sa di superfluo e di lusso e di badare invece che la costruzione sia funzionale e duratura, nel rispetto della povertà che si addice all'Ordine» (U. , Il, 332). E i Frati Predicatori nel costruire le loro chiese si erano fino allora attenuti a questi consigli. Non avevano cioè innal­ zate facciate ricche di marmi e di statue o all'interno sostitui­ ti i vecchi impiantiti con ricchi pavimenti policromi ; non avevano fano scolpire i capitelli o affrescare volte e pareti ; e si erano limitati a costruire altari modesti senza abbellirli con pale preziose o ancone. Ma ecco che i Capitoli generali del 1 26 1 -62-63 (MOPH III, pp. 1 08, 1 1 4, 1 1 7) approvano una legge come questa : «Non si facciano nei nostri conventi superfluità e curiosità notevoli in sculture, pitture, pavimenti e altre cose del gene­ re che deformino la nostra povertà». Notare quel notevoli che attenua talmente il rigore della proibizione da trasfor­ marla di fatto in una concessione : segno che nell'Ordine le cose stavano cambiando. Le cause di questo cambiamento furono ancora una volta motivi di apostolato, che nell'Ordine dei Predicatori, costi­ tuendone il fine, sono sempre prevalenti anche rispetto alla povertà che ne è soltanto un mezzo. Le chiese erano state ingrandite per potervi evangelizzare i fedeli. Ma nel Medio Evo - e la cosa è tanto vera anche ai giorni nostri - la gente viene erudita altrettanto bene dalla immagine che dalla parola. E si aggiunga che la devozione e il culto di Cristo, della Madonna e dei santi, cui tende in ulti­ ma analisi l'evangelizzazione, hanno anch'essi bisogno di ve­ nir alimentati da riproduzioni visive.

64

I Domenicani intuirono perciò che l'arte nelle loro chiese non poteva essere considerata una superfluità, ma un utile mezzo di apostolato . Per cui l'Ordine, dal sospetto iniziale passerà ben presto all'incoraggiamento. Quanto alla pittura, possiamo certamente vederla inco­ raggiata nelle ripetute sollecitazioni che dal 1247 al 1280 giungono ai frati dai loro Capitoli provinciali e generali per­ ché ornino le loro chiese con immagini di S. Domenico e di S. Pietro Martire e con raffigurazioni degli episodi della loro vita (MOPH III, 70, 81 ; XX, 79 ; AFP Xl, 1 5 7) . Quanto alla scultura ebbe il suo incoraggiamento più ef­ ficace quando il b. Giovanni da Vercelli, che già da Provin­ ciale della Lombardia aveva preso iniziative per poter erigere a S. Domenico una tomba più bella, divenuto nel 1 264 Mae­ stro dell'Ordine, incaricò il più grande scultore dell'epoca, Nicola da Pisa, e gli diede come aiuto fra Guglielmo da Pisa, perché esaltassero nella maniera più degna le glorie del Fon­ datore dell'Ordine. E nel momento della traslazione dalla vecchia alla nuova arca (1267), presenti tutti i padri convenu­ ti a Bologna per il Capitolo generale, il celeberrimo predica­ tore fra Giovanni di Braganza, nell'esortare i frati a imitare le virtù del santo, li invitò anche ad ammirare il contributo che l'arte aveva dato alla sua esaltazione. E facendo allusione alle tre successive tombe in cui S. Domenico era stato posto - ma la cosa potrebbe anche essere presa come simbolo della mu­ tata mentalità dell'Ordine rispetto all'arte - egli fece notare, che «la prima era di mattoni, la seconda di pietra non scolpi­ ta, la terza di marmo scolpito» (Mortier, Il, 57). Fu quella la conferma più bella che l'arte, messa al servi­ zio del sacro, non poteva per nulla essere considerata una su­ perfluità e un lusso. E da quel momento i conventi domeni­ cani sparsi nel mondo si sentirono via via tutti autorizzati a rivolgersi ai più celebri maestri del tempo per abbellire le lo­ ro chiese dei più bei capolavori dell'arte. E fu anche da quel

65

momento che, di fronte all'interesse nuovo che l'Ordine di­ mostrava per l'arte, cominciarono a entrarvi, non per di­ sprezzo del mondo o per mettere il proprio talento sotto il moggio, ma proprio per esercitarlo, maestri d'arte che inten­ devano adempiere il fine dell'Ordine, la predicazione, con­ cretizzando il Vangelo e la teologia nelle loro opere. 7 Possiamo così affermare, che ancora una volta il conven­ to di Bologna è quello a cui tutti gli altri guardano e che tutti cercano e sono autorizzati a imitare.

I monumenti funebri Compiendo il nostro giro per la chiesa di S. Domenico di Bologna, ci accorgiamo però che in essa, al contrario di quanto sappiamo avvenuto in altre chiese dell'Ordine, non sono presenti monumenti funebri, ad eccezione di quelli di Re Enzo e di due vescovi domenicani. E ciò probabilmente in ossequio alle decisioni dei Capitoli generali del 1245 e 1250 che li avevano proibiti (MOPH III, pp . 32, 53). D'altra parte il convento di Bologna, a differenza di mol­ ti altri, aveva avuto tanto spazio a sua disposizione da poter creare un cimitero per i frati nell'area intorno all'abside della chiesa e uno - come abbiamo visto - sul suo lato nord per ac­ cogliervi i laici che, per devozione a S. Domenico e per rice­ vervi i suffragi dei frati, lasciavano disposizioni per esservi sepolti. E si aggiunga che il chiostro aveva cominciato ad ac­ cogliere tombe di prelati e di nobili. Nonostante che i Capi­ toli generali, per motivi facilmente intuibili, esortassero i

7 Per la bio grafia degli artisti domenicani e le opere da essi prodotte per i conventi dell'Ordine, per le municipalità e per la stessa curia romana, rimandiamo il lettore a: V. MARCHESE, Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, 4a ed. , Bologna 1 878 .

66

frati a essere molto prudenti nel sollecitare i laici a scegliere la sepoltura nelle loro chiese, verso la fine del secolo il cimi­ tero ospitava ormai parecchie centinaia di sepolture. Forse anche perché meno fortunati quanto a spazio, altri conventi, nonostante le proibizioni dei Capitoli, avevano in­ vece cominciato ad accogliere nelle loro chiese tombe, spesso rilevanti per grandezza e di pregevole fattura. Ma come impedire in certi casi ad amici e benefattori di erigere per sé e per la propria famiglia, nella chiesa che ave­ vano contribuito a costruire e che continuavano a ricolmare di favori, un monumento funebre proporzionato al loro li­ vello sociale ? Sarebbe stata una ingratitudine e un alienarsi le loro simpatie. E poi una sfilata di tombe - alle pareti della chiesa le più suntuose, sul pavimento di essa le più modeste - anziché turbare il raccoglimento dei fedeli in preghiera sa­ rebbe stato per loro un richiamo al pensiero della morte, cui il cristiano deve ogni giorno prepararsi, e un invito costante al suffragio in favore dei defunti. Fu così, che molte delle chiese domenicane si arricchiro­ no via via di tante tombe che sono oggi un tesoro incalcola­ bile per la storia e per l'arte. Si pensi anche solo, per non fare che un esempio, a quella dei SS. Giovanni e Paolo di Vene­ zia, il cosiddetto pantheon dei dogi, che con la serie dei suoi monumenti funebri, dovuti allo scalpello dei migliori artisti di ogni secolo, è un compendio di tutta la storia della mille­ naria repubblica veneta. Se in ciò colpa ci fu, non sono certo né gli artisti né gli storici ad alzare il dito accusatore.

67

La chiesa interna o coro dei frati Ma prima di passare in sagrestia, vogliamo dare un'oc­ chiata alla chiesa interna, o coro, riservata ai frati. Quella di Bologna - come si è detto - dopo il prolunga­ mento iniziato nel 1 228, è più alta della chiesa esterna rima­ sta ai fedeli e contrariamente ad essa, che è coperta a capriate, ha il soffitto a volta. Gli stalli di legno, disposti sulle due pareti laterali, sono in origine di modesta fattura. Ma alla metà del '500 saranno sostituiti da quelli stupenda­ mente intarsiati da fra Damiano da Bergamo. I religiosi quando vengono in coro vi si dispongono in rigoroso ordine di anzianità di professione : il Priore occupa però il primo stalla a destra, e il sottopriore il primo a sinistra. Posti spe­ ciali per ragioni di servizio vengono riservati anche al can­ tore e sottocantore e settimanalmente agli incaricati di quegli uffici di coro che comportano l'intonazione al centro, fuori del proprio posto. All'abside è addossato, leggermente rialzato dal pavi­ mento, l'altare detto maggiore o anche conventuale, perché vi viene esclusivamente celebrata la Messa conventuale. In esso viene conservato il SS. Sacramento e davanti ad esso i frati, entrando in coro, dovranno inchinarsi profondamente : dal che risulta che i Domenicani, secondo l'uso ancora con­ servato nelle liturgie orientali, davanti al Santissimo non ge­ nuflettevano, ma facevano solo una inclinazione profonda. In coro, per rispetto al Sacramento, ma forse anche per permettere una certa visibilità ai molti frati che dopo Com­ pieta e dopo Mattutino vi si attardavano a pregare, ardeva perennemente una lampada. Allude a questa lampada fra Ro­ dolfo, quando ai commissari del processo di canonizzazione di S. Domenico, che gli hanno chiesto come abbia fatto a se­ guire il Santo nei suoi atteggiamenti di preghiera se era notte, risponde : 4( ln chiesa c'era sempre un lume acceso» (Atti 3 1 ) .

68

l

Q

o

10

zo

30

40

!O

Sezione /ongitudinale e pianta della chiesa di S. Domenico di Bo­ logna dopo il prolungamento eseguito nel 1 228 ( D i s . di Pad re V. Alce o . p . ) . 1 - La chiesa interna o co ro dei frati . 2 - Luogo dove nel 1 233 fu tras lato il corpo di S. Domen ico e do­ ve fu e retto nel 1 267 i l suo sarcofago m o n u mentale. 3 - I l ponti le d ivisorio fra la ch iesa dei frati e q u e l l a dei fed e l i .

4

-

La sagrestia.

Si noti come la parte vecchia, coperta a capriate , è p i ù bassa della n u ova, coperta a volte .

69

Allude ad essa anche l'episodio 1 1 7 del Vitae Fratrum, nel quale un frate si accorge che «la lampada posta in mezzo al coro era sporca». Non sappiamo invece fino a che punto ci fosse anche a Bologna l'usanza di cui parla il b. Umberto (Il, 247), e alla quale abbiamo alluso parlando degli altari posti nella chiesa esterna, di cospargere nei giorni di festa il presbiterio e il co­ ro con erba fresca e ramoscelli di alberi in estate, e con paglia In Inverno. Non ci risulta neppure se a Bologna - cosa che si riscon­ tra in altri grandi conventi - i frati conversi avessero un loro coro a parte o se invece prendessero posto nel coro dei chie­ rici, negli stalli inferiori. Nelle chiese domenicane, poi, si aggiunsero cappelle, o oratòri riservati alle varie confraternite dirette dall'Ordine e ai primi raggruppamenti del Terz'Ordine. Non è ardito sup­ porre che a Bologna avessero questa funzione le due piccole cappelle quadrate, dedicate rispettivamente a S. Giacomo e a S. Paolo, che affiancavano il presbiterio. L'usanza delle due chiese separate, l'una per i fedeli e l'al­ tra per i religiosi, durò fino al XVI secolo. In quell'epoca, forse sotto la pressione dei laici, giustamente desiderosi di poter maggiormente partecipare alle funzioni liturgiche, ci fu un capovolgimento generale nella chiesa. Il pontile venne abbattuto, dal fondo dell'abside l'altare venne portato in vi­ sta del popolo e il coro relegato dietro di esso. Così i fedeli poterono vedere le cerimonie, ma i religiosi non videro più nulla. Anomalia questa che è rimasta, anche se parzialmente corretta dalla riforma liturica postconciliare, fino ai nostri g10rn1.

70

CAPITOLO QUARTO

LA SAGRESTIA

L'ufficio del sagrista

Ci siamo trattenuti a lungo in chiesa e in coro - del quale inoltre dovremo tornare a parlare allorché tratteremo della liturgia che i frati vi celebrano più volte al giorno - perché la chiesa di un convento domenicano è il centro e il cuore, il luogo che solo dà alla loro vita conventuale un senso e uno scopo. I frati non sono infatti dei semplici soci di una società che si sono riuniti per coordinare la propria attività in vista di una qualche finalità da raggiungere, ma sono dei credenti che vivono la vita comune e i suoi regolamenti in forza di una chiamata soprannaturale di Dio, e che quindi vedono Dio come unico fine di ogni loro azione e unica fonte di lumi e di forze. È logico quindi che essi pregando aprano in chiesa la loro giornata al mattino, ve la chiudano la sera al canto della Compieta, e che ad essa ritornino più volte al giorno per an­ dare a trovare quel Maestro che della loro vita fu l'ispiratore e il primo modello e che dal Tabernacolo, dove risiede, è per loro luce e sostegno. E il richiamo alla chiesa, nell'epoca che stiamo descrivendo, è tanto sentito, che il Vitae Fratrum po­ teva scrivere - come si è visto - che «sempre o quasi sempre c'erano in chiesa frati in preghiera,. (Ep . 1 88). Si aggiunga poi che per i Frati Predicatori, che per voca­ zione devono santificare se stessi cercando di santificare gli

71

altri, la chiesa non è soltanto il luogo dove essi possono re­ stare a lungo in intimo personale colloquio con Dio, ma deve essere anche il luogo dove colloquiare frequentemente con gli uomini da portare a Dio. E ciò spiega - e dilungandoci sull'argomento abbiamo cercato di dimostrarlo - come essi, alle volte anche forzando la legge, l'abbiano voluta sempre spaziosa, bella e accogliente. Ma è ormai tempo che dalla chiesa, attraversando il tran­ setto di destra, ci rechiamo in sagrestia, la cui visita - trattan­ dosi di un locale al servizio della chiesa - ci confermerà del­ l'importanza che questa ha nella vita quotidiana del Frate Predicatore. Per poter aver modo �i celebrare la Messa, dobbiamo ri­ volgerei al frate sagrista. E lui che ci p�eparerà quanto occor­ re per la celebrazione e incaricherà un fratello converso di accompagnarci nella chiesa esterna, all'altare assegnatoci per la celebrazione, e di servircela. Al sagrista8 spettano· quelle incombenze e quelle decisioni che noi oggi suddividiamo fra il semplice sagrestano e il ret­ tore della Chiesa. Per questo egli è coadiuvato nei conventi grandi da un vice-sagrista, col quale si divide i compiti. A Bologna, già fin da allora, esiste anche la figura dell'arcario, incaricato di custodire la tomba - arca - di S. Domenico. 9 Al sagrista spetta innanzitutto tener pulita e spolverata la chiesa, sia interna che esterna, e i suoi altari, e naturalmente aprire e chiudere le porte all'ora stabilita dal Priore ; ma an­ che curarsi della manutenzione della chiesa e della riparazio­ ne dei suoi tetti. É suo compito accendere e spegnere le lam­ pade e le candele e fare in modo che la chiesa sia sempre provvista di olio e di cera; ma anche provvedere che il con-

8

U ., De officio sacristae, Il, 247-253.

9 R. GIANNINI, p .

324.

72

vento, l'infermeria e l'ospizio ne siano sempre sufficiente­ mente provvisti. Deve fare in modo che ci sia sempre tutto l'occorrente per le Messe (calici, ostie, vino, messali), ma an­ che provvedere che la sagrestia sia sempre fornita di para­ menti puliti e dignitosi ; perciò deve fare in modo di preser­ varli dall'umidità e dalle tarme esponendoli spesso all'aria, far riparare quelli lisi o rotti, vendere quelli ormai consunti e comprarne dei nuovi. Deve tener puliti i vasi sacri e far lavare spesso i camici, le tovaglie e l'altra biancheria dell'altare. I corporali, i purifica­ toi e i manutergi deve però lavarli a parte e versare l'acqua usata nel sacrario. Quando poi saranno vecchi, dovranno es­ sere bruciati e le loro ceneri versate anch'esse nel sacrario, ossia in una specie di pozzetto interrato, destinato appunto a raccogliere, per la loro consunzione, cose e liquidi che han­ no avuto contatto col Sacramento dell'altare. Affinché il culto divino possa sempre svolgersi con ordi­ ne e decoro, dovrà anche curare che in sagrestia ci siano sem­ pre, a disposizione di chi vorrà consultarli, il cerimoniale delle Messe solenni, una Somma o raccolta dei principali in­ segnamenti dei Padri e di altri autori riguardo alla liturgia, e, a uso suo, una specie di calendario che gli ricordi quanto de­ ve fare e preparare nelle varie ricorrenze dell'anno . Per il rispetto dovuto all'Eucaristia, il sagrista deve prov­ vedere che in sagrestia ci siano sempre un lavabo, asciugama­ ni puliti, pettini e un paio di forbici per unghie, in modo da permettere al sacerdote che si accinge a celebrare di accedere all'altare pulito e ordinato. Rispetto ai nostri giorni facciamo notare anche qualche altra curiosità : il sagrista deve avere a sua disposizione anche l'acciarino e la pietra focaia, che gli serviranno per accendere il fuoco nel caso che esso fosse venuto a mancare anche in convento. Deve anche provvedere a portare all'altare un bra­ ciere nelle giornate più fredde e i flabelli nel tempo delle mo-

73

sche. Non deve mancare all'altare una tovaglietta perché i ministri vi si possano soffiare il naso. Le spese a carico del sagrista non dovevano essere indif­ ferenti. Accanto a quelle più comuni, provvista di olio per le lampade, di candele di sego o di cera, egli doveva sostenere, come si è detto, anche quelle di manutenzione, conservazio­ ne e riparazione sia della chiesa che dei suoi arredi e para­ menti. Spese piuttosto rilevanti comportavano anche i giorni di festa, i funerali e gli anniversari di benefattori defunti . Per queste spese il sagrista poteva avvalersi delle offerte raccolte in chiesa (de capsa sacristiae), o pervenutegli in altro modo. Abbondanti erano le offerte che gli venivano fatte pro ani­ ma, ossia per suffragi da fare in favore dei defunti e, a Bolo­ gna, le offerte de Archa beati Dominici. Delle entrate e delle uscite egli dovrà prender nota e ren­ derne poi conto al Convento. Decoro

ma

povertà.

Non abbiamo potuto osservare dettagliatamente tutto l'abbondante corredo di paramenti, suddivisi nei loro colori per le varie ricorrenze dell'anno ecclesiastico, perché chiusi nel grande armadio della sagrestia. Ma dalle minuziose diret­ tive date al sagrista e da quello che abbiamo potuto scorgere, abbiamo ricavato l'impressione che il decoro per tutto ciò che riguarda il culto divino sia particolarmente curato. Nien­ te lusso però. Era questo il volere di S. Domenico. Nella sua deposizione al processo di canonizzazione del Santo, fra Amizo da Milano aveva infatti dichiarato che egli «era amantissimo della povertà, sia nel vitto che nel vestire suo e dei frati del suo Ordine, sia anche riguardo agli edifici e alle chiese dei frati e riguardo al culto e agli ornamenti delle vesti ecclesiastiche. Durante la sua vita si adoperò molto per-

74

ché i frati in chiesa non avessero stoffe di porpora o di seta né nei paramenti né negli addobbi e non possedessero, fatta ec­ cezione per i calici, vasi d'oro o d'argento» (Atti 1 7). E fra Rodolfo conferma che egli «non permetteva che neppure in chiesa essi usassero paramenti di seta, ma solo di fustagno (buchirame) o di altra stoffa comune» (Atti 32). In linea con questo spirito di povertà, il Capitolo genera­ le di Parigi del 1 239 tentò di introdurre la legge che proibiva i vasi d'oro e d'argento, le pietre preziose, le stoffe di seta, le vetrate a colori, le statue, le iniziali miniate d'oro nei libri corali (MOPH III, 1 1 ) . Ma il Capitolo dell'anno seguente, tenuto a Bologna, confermò solo la proibizione di avere sta­ tue e più di una campana, revocando le altre (ibid. 1 3). Segno evidente che non tutti nell'Ordine condividevano questo at­ taccamento a una povertà da loro vista in contrasto con l'a­ more che si deve alle cose di Dio. Il b. Umberto una ventina di anni dopo dirà chiaramente di non approvare coloro che escludono totalmente i para­ menti di seta e gli ornamenti preziosi dall'uso liturgico, per­ ché il loro comportamento va a scapito del decoro dovuto al culto divino, che lo splendore degli ornamenti sacerdotali tende a favorire, accrescendo la reverenza dei fedeli verso l'officiante e la loro devozione verso colui nel cui nome egli agisce. E racconta il caso di un legato papale che, essendosi presentato al popolo in abito ordinario, fu accolto con poca deferenza. Quando invece si ripresentò il giorno dopo, rive­ stito degli abiti pontificali, ebbe l'accoglienza dovuta al suo grado (U. , Il, 1 58). Nonostante la povertà mai rinnegata, il sagrista potrà perciò mostrarci con orgoglio alcuni paramenti ricamati - si pensi anche solo al prezioso piviale usato da lnnocenzo IV il 1 7 ottobre 1251 nel consacrare la chiesa e ora conservato nel museo civico medievale di Bologna -, calici finemente lavo­ rati, immagini e reliquiari preziosi che egli farà usare o porrà a ornamento dell'altare nelle feste maggiori.

75

Molte volte sono dovuti a doni, anche principeschi, di benefattori e di amici - basti ricordare, ad esempio, lo stu­ pendo reliquiario di S. Luigi IX, opera gotica della oreficeria di Parigi, donato dalla famiglia reale di Francia al convento di Bologna, tutt'ora conservato nel suo museo -, ma spesso sono dovuti anche all'industria del sagrista, il quale, pren­ dendo possesso del suo ufficio ((deve fare un inventario del numero dei calici, dei libri, dei paramenti e di tutte le cose di notevole valore che vengono affidate alla sua custodia. E de­ ve cercare che nessuna di esse vada perduta : anzi, con la sua intraprendenza deve aumentarne il numero � (U. , Il, 252). La camera di sicurezza.

Non sempre, però, le cose più preziose il sagrista le cu­ stodisce in sagrestia. Sopra di essa c'è infatti una vasta sala, cui si accede me­ diante la scala che porta anche al dormitorio superiore, desti­ nata a deposito delle cose preziose : una specie di camera di sicurezza nella quale venivano custoditi i testamenti, i docu­ menti importanti e anche gli oggetti di valore che i laici affi­ davano in custodia ai religiosi. Doveva essere fornita di una porta molto solida, le cui chiavi - diverse l'una dall'altra venivano date in consegna a due o tre religiosi, chiamati ap­ punto depositari, di modo che potessero entrarvi solo insie­ me. te In questa sala trovava posto anche l'armadio in cui veni­ vano conservati i libri e le cose più preziose della sagrestia e del convento. A maggior salvaguardia, il sagrista e il suo aiutante, pote­ vano avervi accanto le loro celle, spesso fornite di spioncini 10

U. ,

De officio depositariorum, II, 279-280.

76

che si aprivano sulla sagrestia, per averne anche di notte il controllo. È interessante notare come nel '200, mancando evidente­ mente quei servizi che le banche prestano oggi con le loro cassette di sicurezza, i laici cercassero di porre al sicuro le lo­ ro ricchezze e i loro documenti importanti nei conventi, confidando nella loro clausura e con la fondata speranza che il timore di commettere sacrilegio ne tenesse lontani i ladri. E le leggi domenicane, che pur proibivano ai frati «di essere amministratori di beni e di denari altrui», permettevano in­ vece di «esserne depositari» (Il, 3 5). Evidentemente per mo­ tivi di carità, perché il convento da tali depositi non ricavava nessun utile ma solo fastidi. E che fastidi e contestazioni potessero sorgere, lo si ar­ guisce dalle raccomandazioni che vengono fatte ai deposita­ ri : nell'accettare un deposito si informino innanzitutto del­ l'onestà del depositante, controllino accuratamente ciò che intende depositare in modo che non succeda che egli depositi piombo invece di oro nel caso faccia la consegna in uno scri­ gno o in un sacco sigillato, e di quanto ricevono facciano in duplice copia l'inventario, sottoscritto sia dal depositario che dal depositante, onde evitare future contestazioni . Il deposi­ tante lasci anche una dichiarazione in cui stabilisca cosa si debba fare della sua roba in caso che egli muoia o non si fac­ cia più vivo. I depositari non sono tenuti alla restituzione quando il depositante chiedesse la restituzione di un'arma mentre è an­ cora preso dall'ira e quando venisse condannato alla deporta­ zione (perché in tal caso i suoi beni diventano proprietà pub­ blica) e quando il suo deposito fosse frutto di refurtiva e quindi da restituirsi al derubato. Negli altri casi, se il deposi­ to è stato fatto alla presenza del Priore o del Capitolo della comunità, questa è tenuta alla restituzione in solido.

77

Non si parla mai di un compenso dovuto al convento per il servizio prestato o se questo, in cambio della merce lasciata in pegno, concedesse un prestito al depositante. Troppo ar­ dito quindi pensare che questa forma di depositi fosse un'an­ ticipazione dei successivi monti di pietà, che i Domenicani in un primo tempo avversaronÒ perché, anche se nati per con­ trastare l'usura degli ebrei e fare prestiti ai poveri, percepiva­ no dai loro prestiti un interesse. Il campanile.

Accanto alla sagrestia ogni chiesa domenicana ha, più o meno artistico ed elevato, il suo campanile. E lo ha, dalla fi­ ne del sec. XIII, anche la chiesa di S. Domenico di Bologna, anche se sappiamo che la sua sopraelevazione per portarlo al­ l'altezza attuale non era ancora terminata nel 1 33 1 . I campanili domenicani, per disposizione dei Capitoli del 1239-40-4 1 , non potevano avere che una sola campana. Il b. Umberto giustifica questa legge per il fatto che il suo suono è destinato principalmente a chiamare agli atti comuni i frati sparsi nei vari locali dell'ampio convento ; e anche quando è rivolto ai fedeli, �o n c'è bisogno di un concerto di campane, ma basta una sola per chiamarli alla chiesa (U . , Il, 1 54). Ma non è escluso che la proibizione, oltre che da motivi di povertà, sia stata motivata dalle solite lamentele del clero secolare che vedeva di malocchio la maggiore affluenza di fe­ deli alle chiese dei religiosi : lo potrebbe per lo meno far pen­ sare un intervento di Roma che proibisce ai Vescovi di impe­ dire ai frati di suonare le loro campane per il mattutino e per la Messa, prima che sia suonata quella della cattedrale. t t

11

S. Cong. del Concilio, 1 0 ottobre 1 5 86, BOP 8, p. 48 n . 5.

78

Checché ne sia della vicenda, i Domenicani poterono avere più campane solo nel 1 6 1 5 per intervento di Innocenzo XL 12

Quell'unica campana non doveva essere troppo pesante, per poter venir suonata da una sola persona, il sagrista, (U. , Il, 1 55), che del convento era così anche il campanaro uffi­ ciale. Ma del quando e come dovrà suonarla vedremo allorché, nella seconda parte, parleremo della giornata dei frati.

12

Cost. d i Innocenza Xl, 1 2 febb. 1 6 1 5 , BOP. , ibidem. p. 48.

79

CAPITOLO QUINTO

I LUOGHI REGOLARI

Il chiostro

Continuando nella nostra visita a un convento domenica­ no, uscendo dalla sagrestia entriamo nel chiostro, ripromet­ tendoci di visitare innanzitutto i cosiddetti luoghi regolari che, come ci siamo resi conto anche dallo sguardo d'insieme che abbiamo dato al convento dall'alto, sono tutti collegati fra loro in modo da formare col lato meridionale della chie­ sa, sempre rivolta a oriente, quel grande quadrato, fornito di porticato, ormai comunemente chiamato chiostro. A dire il vero, il termine non ebbe sempre questo signifi­ cato. In latino la parola claustrum (da claudo = chiudere) in­ dicava il serrame di una porta e per estensione, specialmente al plurale, tutto ciò che limita, chiude o serve comechessia di ostacolo, e quindi anche un luogo chiuso di difficile accesso. Solo più tardi prese il senso di luogo abitato da religiosi. Non siamo però ancora al chiostro nel suo significato più ri­ stretto. Nella regola di S. Benedetto, ad esempio, (4, 78 e 67, 7) l'espressione «claustra monasterii• indica semplice­ mente il recinto del monastero fuori del quale il monaco non può uscire senza il permesso dell'abate. Un po' alla volta prevalse però fra i monaci la necessità di costruire le loro dimore in maniera tale che i locali principali dove essi svolgevano la loro vita comune fossero tutti riuniti intorno a una specie di cortile di disimpegno, provveduto di

80

portici per riparare i monaci dalle intemperie e facilitare così il loro spostarsi più volte al giorno da un locale all'altro, se­ condo le diverse esigenze del loro orario quotidiano. Il ter­ mine chiostro si restrinse così a denominare questo quadrato, riservato ai religiosi, che serviva loro di accesso alla chiesa, alla sagrestia, alla sala del capitolo, al dormitorio e al refetto­ rio. Le grandi abbazie potevano avere anche qualche altro porticato simile a questo, a servizio, ad esempio, dell'infer­ meria e dell'ospizio o di altri locali destinati alle attività dei monaci, ma il chiostro per eccellenza rimase sempre quello sul quale si aprivano i locali comuni. Quando l'Ordine domenicano cominciò a costruire i suoi conventi, questo piano architettonico si era ormai gene­ ralmente imposto, specie fra i Cistercensi e i Premostratensi. Per cui l'Ordine, trovandolo adatto anche ai suoi scopi, non fece altro che imitarlo . Anche nel nuovo Ordine il chiostro conservò così la sua funzione di collegamento fra i principali locali del convento. Per i suoi quattro portici si snodava così più volte al giorno quella specie di processione, che in fila ordinata portava i frati dal dormitorio alla chiesa, dalla chiesa al capitolo, o dal refettorio alla chiesa o da questa al dormitorio . Data poi la maggior ristrettezza di spazio con cui - come si è visto - na­ scevano nelle città i conventi domenicani rispetto alle abba­ zie precedenti che, sorte in campagna potevano per questo scopo usufruire di ampi giardini , il chiostro in un convento domenicano divenne però assai spesso, anche se questa non fu la situazione di quello di Bologna, l'unico luogo dove i frati, uscendo dalle loro angustissime celle, potevano pren­ dere una boccata d'aria, meditare, pregare, studiare. Si capisce allora perché il chiostro fosse fornito di un pozzo per attingervi l'acqua e contornasse sempre un giardi­ no ricco di fiori e di piante - in quello di Bologna svettavano addirittura due cipressi piantati dallo stesso S. Domenico, .

81

dal cui legno in epoca successiva si ricavarono le due grandi statue conservate nella sagrestia - e perché vi fosse imposto sempre rigoroso silenzio (1, 1 7) e gli estranei non vi fossero ordinariamente ammessi e mai le donne (1, 13). Non si tratta ancora di una clausura papale, che solo più tardi verrà impo­ sta sotto pena di scomunica, ma di una semplice proibizione costituzionale, destinata a salvaguardare la tranquillità dei religiosi e a impedire l'accesso degli estranei ai luoghi più in­ timi, ai quali si accedeva dal chiostro. La sala del capitolo

Uscendo dalla sagrestia, il primo luogo che incontriamo sul lato del chiostro, normale all'asse della chiesa e prossimo al coro, è sempre la sala capitolare, detta anche più semplice­ mente capitolo. L'usanza monacale di leggere ogni mattina, dopo la recita corale di Prima, un capitolo della Regola, fece sì che fin dal secolo IX venisse chiamato capitolo sia il locale dove questa lettura avveniva sia la stessa assemblea dei monaci che si riu­ niva per ascoltarla e dopo la quale, stando a una usanza già prevista da S . Benedetto (cap. 46) e da S. Agostino (Regola 24-28), essi si accusavano delle loro infrazioni alla Regola e ne ricevevano ammenda : il cosiddetto Capitolo delle colpe. Quando poi gli Abati cistercensi e i Priori certosini nei loro statuti, e l'Ordine domenicano nelle sue Costituzioni con­ templarono riunioni giuridiche nelle quali i religiosi aventine diritto venivano convocati per trattare dei principali proble­ mi riguardanti la loro vita, queste stesse riunioni, a seconda del loro livello, vennero chiamate Capitoli conventuali, pro­ vinciali o generali. Sia del Capitolo delle colpe che dei Capitoli giuridici del­ l'Ordine tratteremo più avanti allorché parleremo della vita

82

quotidiana dei frati e del loro modo di governarsi . Qui ci in­ teressiamo del capitolo solo come luogo dove tali riunioni avventvano. La sala del capitolo è a pianta quadra o rettangolare, qua­ si sempre coperta a volta, con ai tre lati sedili in muratura o stalli o sgabelli lignei. Il quarto lato è occupato dallo scanno del Priore, sovrastato da un grande crocefisso, dipinto o ap­ peso alla parete. Non essendo un luogo strettamente sacro, non è fornita di altare né tanto meno vi viene conservato il Sacramento. Era questo il luogo dove anche i Domenicani si raduna­ vano ogni mattina - come si vedrà - per celebrarvi il Capitolo delle colpe e gli aventi diritto - donde la locuzione aver voce in capitolo - ogni qual volta vi venivano chiamati da uno spè­ ciale segnale di campana per trattare i principali affari riguar­ danti il governo e il bene della comunità : elezioni del Priore e degli altri ufficiali previsti, delibere relative all'amministra­ zione del convento, scrutini sull'ammissione alla vestizione e professione, intimazione e chiusura della visita canonica, ac­ coglienza del Provinciale e del Maestro dell'Ordine o degli alti dignitari della Chiesa, ecc. In capitolo venivano anche celebrate alcune cerimonie solenni : l'annuncio delle feste dell'Annunciazione e del Natale, la lavanda dei piedi il Gio­ vedì Santo, le vestizioni e le professioni degli aspiranti alla vita dell'Ordine. In certi casi (VF. 258) poteva forse servire anche come luogo per accogliervi i secolari, per rivolgere lo­ ro la parola di Dio. La sala del capitolo - chiamata a Bologna anche capitu­ lum magnum o majus per distinguerla dal capitolo dei novizi detto minus o parvum - si apre sul chiostro - ma l'uso sem­ bra generalizzato nell'Ordine - con un portone ad angolo acuto e due grandi bifore gotiche, con davanzale assai alto sul livello del pavimento interno . Sia il portone che le finestre sembra che non avessero ser­ ramenta, per cui dal chiostro si poteva udire ciò che veniva

83

4

9

8

2

10

8

3 7

Pianta e prospetto de/ lato orientale del chiostro di S. Domenico di Bologna (Ricostruzione del Padre V. Alce o.p.). 1

-

Ch iostro. 2

-

Transetto meridionale della chiesa. 3

transetto. 4 - Campanile. 5 dorm itorio superiore. 7 Cim itero dei frati . 1 O

-

-

-

Sagrestia. 6

-

-

M u ro del

Scala di accesso al

Cappella di S. G irolamo. 8 - Capitolo. 9 Dorm itorio inferiore.

-

84

discusso in capitolo. Ciò spiegherebbe perché il b. Umberto ordinò ai novizi che ritornassero a letto dopo il mattutino, di non disturbare i frati che sono in capitolo e soprattutto di non mettersi ad ascoltare quello che vi dicevano (U. , Il, 538). Ciò spiegherebbe anche come alla vestizione di Mae­ stro Rolando da Cremona a Bologna fosse accorsa gente di tutta la città (VF. 35), e come a certe vestizioni fatte dal b. Giordano assistessero centinaia di universitari (ib. 12 8- 129). È ovvio che nessuna sala capitolare sarebbe stata in grado di contenerli. Ma quelli che non vi erano potuti entrare, pote­ vano ben seguire la cerimonia dal chiostro se porte e finestre erano prive di battenti.

Il locutorio Uscendo dal capitolo, dopo pochi passi sullo stesso lato del chiostro incontriamo la porta che immette al cosiddetto locutorio. Non si tratta - come dicevamo a proposito dell'ac­ coglienza fattaci dal portinaio - del parlatorio in cui i frati possono ricevere gli estranei, ma di una sala nella quale unico posto del convento dove non è obbligatorio il silenzio - essi possono parlare fra loro . Ma si tratta veramente di una sala in cui la comunità si ri­ trova ogni giorno per una ricreazione in comune ? Le prime Costituzioni dell'Ordine sembrerebbero esclu­ derlo. Dopo aver imposto il silenzio nel chiostro, in dormi­ torio, nelle celle, in refettorio e in coro, aggiungono sempli­ cemente che i frati «negli altri luoghi potranno parlare, ma con speciale permesso» (l, 1 7) . Nessun accenno quindi a una ricreazione comune. Anzi, il b. Umberto sembra escluderla quando suggerisce ai Priori, finito il pranzo, di condurre gli

85

eventuali ospiti in capitolo o all'ospizio per poterli intratte­ nere in discorsi edificanti (U. , Il, 207) e impone ai novizi di occupare il tempo, che d'estate intercorre fra il pranzo e la siesta pomeridiana, nella preghiera, nella lettura o in qualche altra attività, ma in silenzio (i b. 225 ). Quando poi i novizi in altre ore del giorno, dopo averne ottenuto il permesso, si re­ cano al locutorio per ricrearsi alquanto, dovranno sempre andarci in due, restarci per poco tempo e, senza dispute, parlare da seduti di cose spirituali (ibid. 224 ). Restrizioni queste che provano che nel secolo XIII in realtà non esisteva nei conventi domenicani una ricreazione in comune e il previsto locutorio era soltanto il luogo dove i singoli frati che ne sentivano il bisogno, chiedendone il per­ messo, potevano incontrarsi per scambiarsi parola. Di questa severità - del resto tradizionale nel monachesi­ mo (cfr. Regola di S. Benedetto, 6 e 42 e 7, 56) dove il Santo fa del silenzio il nono gradino dell'umiltà - non dovremmo meravigliarci. I testi del suo processo di canonizzazione ci fanno infatti notare che S. Domenico era custode osservan­ tissimo della lingua ed era talmente convinto della necessità del silenzio, che lo osservava e faceva osservare dai frati an­ che durante i viaggi e non voleva che fosse interrotto se non per parlare di Dio o con Dio (Atti 3, 1 3 , 1 9, 32, 37, 4 1 , 47). E nell'Ordine nascerà ben presto l'assioma Silentium pater praedicatorum, di cui si dirà anche «che è presidio di ogni al­ tra osservanza e soprattutto aiuta a mantenere la vita interio­ re religiosa e contribuisce alla pace, alla preghiera, allo stu­ dio della verità e alla sincerità della predicazione» (LCO 46 ). Dato che la lingua è una delle cose più difficili da gover­ nare, le infrazioni alla legge del silenzio dovettero però subi­ to essere abbondanti, se il Capitolo di Bologna del 1 285 do­ vette intervenire per esortare i frati a non frequentare troppo il locutorio e ordinare ai Priori di mostrarsi più severi nel darne il permesso (MOPH III, 229) .

86

Il dormitorio Sullo stesso lato del quadriportico troviamo infine la por­ ta che immette al dormitorio, quella porta cioè dello stabile che accoglie le celle e le camere dei frati e che dal chiostro che stiamo visitando si protende a sud verso l'orto e che più tardi diventerà uno dei lati del grande chiostro del Terribilia, ora soltanto abbozzato. La porta è però chiusa; e per entrare dobbiamo chiederne il permesso al custode del dormitorio, 13 il quale, sentito il perché della nostra visita, dopo aver dato un breve segnale con una campanella per avvertire i frati che sono nel dormi­ torio che un estraneo vi sta entrando e quindi di far trovare tutto in ordine, gentilmente si presta a farci da guida. Come è evidente dal suo titolo, il custode del dormitorio è il frate - ordinariamente un converso - cui a turno viene settimanalmente dato l'incarico di tenerlo in ordine. Da solo, o aiutato da altri, dovrà perciò scopare e spolve­ rare il dormitorio e le celle, tener puliti i servizi, aprire le fi­ nestre per dare aria e correre a chiuderle con chiavistello in caso di vento o di temporali per evitare che sbattano o entri dell'acqua, provvedere d'olio e accendere e spegnere le lam­ pade che di notte non devono mai mancare nei corridoi e nei servizi, supplire anche alle negligenze dei frati che lasciano il letto disfatto, o non vuotano il vaso da notte, o lasciano in­ dumenti in giro, o le pantofole in vista e poi proclamarli in Capitolo per il loro disordine. Sarà lui anche a provvedere tutti di lenzuola, di cuscini e di coperte, a tener sempre rifatti anche i letti eventualmente vuoti, a segnalare al Priore i ne­ cessari lavori di manutenzione. Provvederà anche, che in una parte del dormitorio, ci siano un leggio, i libri liturgici ne-

13

U . , De officio custodis dormitorii,

II, 272-274.

87

cessari e una lampada cieca per permettere a chi non è sceso in coro di poter recitare l'ufficio anche di notte. Avrà soprattutto le chiavi del dormitorio, che penserà a chiudere, dopo essersi accertato che tutti siano entrati, sia nell'ora della siesta estiva, sia alla sera dopo l'ultimo segno. Entrando ci accorgiamo subito che il cosiddetto dormito­ rio, ossia quella parte del convento dove i Domenicani del secolo XIII passano la notte e gran parte del giorno «per dormirvi e per studiarvi» (Giord. 44), è strutturalmente ben diverso da come un visitatore del secolo XX potrebbe imma­ ginare. Esso si presenta come un grande corridoio, ai cui lati so­ no allineate le cosiddette celle, ossia specie di angusti recinti, separati gli uni dagli altri o mediante stuoie o tende (sextoriis) sostenute da tiranti di legno, o mediante assiti (ex asseribus), com'erano ad esempio nel convento di S. Eustorgio a Mila­ no, o, come a Bologna, da un muro di pietra in foglio, alto quanto era sufficiente a impedire che da una cella si potesse guardare in quella vicina. Queste celle erano quindi aperte in alto, ma anche in basso, perché dovevano essere prive di porta. Tutte le volte, infatti, che si era tentato di chiuderle e mettervi una porta, l'Ordine nei suoi Capitoli generali vi si era opposto energicamente (MOPH III, 252). In tal modo anche la vita privata del frate non cessava di essere in qualche modo comunitaria e sia il cosiddetto cerca­ tore, cioè il frate addetto a controllare in ogni convento l'os­ servanza della regola, sia qualsiasi altro, passando in corri­ doio (in via) potevano rendersi conto se i frati fossero intenti allo studio nelle ore stabilite. Il dormitorio - com'era a Bologna, ma certamente anche negli altri grossi conventi dell'Ordine, che contavano alle volte, e non è una esagerazione, qualche centinaio di frati poteva occupare due piani. In tal caso il corridoio a pian ter­ reno (dormitorium inferius) era soffittato a travature di

88

.Z. ... � t----:1-----:-

--: 5 .-----. 4. --:! !1

-

Prospettiva interna del troncone meridionale del dormitorio due­ centesco del convento bolognese. La prima cella a destra, in bas­ so, è quella di S. Domenico. Da notare, al piano terra e al primo piano nei m u ri laterali, sopra i soffitti delle celle, le finestre che davano luce e aria ai corridoi. Le celle, nel vasto ambiente, sono allineate come dei box. Le proporzioni dell'edificio e di tutto quel­ lo che lo compone rispettano i dati forniti dai rilievi. (dis. del Padre V. Alce o.p .)

89

legno, quello superiore ( dormitorium superius) a capriate e l'uno e l'altro prendevano luce da una fila di finestre che si aprivano sui lati al di sopra delle celle, le quali a loro volta la prendevano ciascuna da una finestrella a forma di feritoia, che si apriva più in basso al loro interno. In tutte le fonti domenicane del '200, queste stanzette aperte in alto e sul davanti sono chiamate col nome di cella : nome questo molto appropriato a indicarle, perché i latini dissero cella il luogo non certo confortevole dove riponeva­ no i prodotti di ogni specie, come vino (donde cella vinaria o cantina) o olio (cella olearia od orciaia) e al plurale (cellae) i cubicoli in fila del dormitorio destinato agli schiavi. Quando invece gli stessi testi usano il termine camera, intendono evidentemente parlare di stanze ben diverse, di stanze soffittate e chiuse che permettevano ai loro occupanti un minimo di intimità ; e potevano essere poste anche fuori del dormitorio comune, ma sempre entro la clausura. Era questa una eccezione che veniva fatta per il Maestro dell'Ordine (l, 1 O e U., Il, 1 90) perché potesse godere di maggiore tranquillità nel disbrigo degli affari dell'Ordine e avesse la possibilità di ricevere i frati a colloquio. Veniva concessa anche ai Lettori in funzione (actu legentes) e agli studenti più impegnati (1, 1 0 ; Il, 29 ; U. , 255) per favorire una loro maggiore applicazione allo studio dando loro la possibilità di poterlo continuare, al lume della lucerna, anche nelle ore notturne. Ma se si pensa che nei conventi, a eccezione degli Studia generalia nei quali potevano essere di più, il Lettore era uni­ co e i suoi allievi ammessi a proseguire nella carriera degli studi non dovevano essere numerosi, si può ben dire che questi privilegi erano veramente una eccezione e le camere chiuse, fino al secolo XIV, quando si cominciò un po' ovun­ que a moltiplicarle, nei conventi domenicani furono molto poche.

90

Nel dormitorio potevano però trovar posto anche letti accostati l'uno all'altro a mo' di camerata, separati tutt'al più da un paravento, disposizione questa dovuta il più delle vol­ te a necessità di spazio, dato l'afflusso di vocazioni superiore quasi sempre alle più rosee previsioni dei costruttori. In tal caso erano soprattutto i novizi a fame le spese, i quali così «per pregare, leggere e scriveré non avevano in dormitorio a propria disposizione se non il letto» (U. , Il, 534 ). Era in questa situazione certamente quel novizio di S. Sa­ bina a Roma «che una notte, in preghiera, ai piedi del letto mentre gli altri frati dormivano, udì nel dormitorio un ru­ more come di passi. Alzati gli occhi vide tre persone che gli parvero frati, ma una delle quali portava una croce, l'altra il secchiello dell'acqua santa e la terza aspergeva con l'asperso­ rio tutte le celle. Il novizio, credendo che si trattasse del Priore che, come di consuetudine, faceva la solita aspersio­ ne, entrò in fretta nel letto, coprendosi, per farsi credere ad­ dormentato come gli altri » (VF. 46). Particolari questi, che sarebbero meno comprensibile se quel novizio avesse avuto una sua cell a, come l'abbiamo de­ scritta, sia pure con la porta aperta. E altrettanto si può dire della visione avuta da fra Raul (ib. 56) ; e specialmente di quella di S. Domenico che vede la Madonna passare per il dormitorio benedicendo - come dice il testo i frati (non le celle dove essi dormivano) (Cecilia 7). -

Le celle

Dopo aver visto il dormitorio nel suo complesso, ci resta però il desiderio di visitare una sua cella in particolare. E il custode del dormitorio ci accontenta, proponendoci di visi­ tare quella dove morì S. Domenico, assicurandoci che fi po­ tremo soddisfare non soltanto la nostra pietà nel ricordo del

91

pio transito del Santo, ma anche la nostra curiosità di vedere come sono di fatto le celle del dormitorio, perché quella do­ ve morì il fondatore dei Frati Predicatori è un cella in tutto simile alle altre. S. Domenico, infatti, pur avendo fatto del convento di Bologna il centro di irradiazione del suo apostolato negli ul­ timi due anni della sua vita, non vi aveva una cella propria. Per cui, quando ormai moribondo fu riportato al suo con­ vento da S. Maria del Monte, dove i frati lo avevano momen­ taneamente ricoverato sperando che l'aria di collina gli po­ tesse giovare, lo fecero adagiare, e qui morì il 6 agosto 1 22 1 , nella cella di fra Moneta, che era la prima a destra, entrando nel dormitorio inferiore (Giord. 92-94 ; Atti 7-9 e 33). Non si trattava perciò di una camera speciale, ma di una cella come tutte le altre. Tornata finalmente all'Ordine dopo gli anni bui della soppressione che ne avevano fatto scempio, e restituita al suo aspetto originale, essa ci dà perciò la possi­ bilità di poter osservare dal vivo com'era veramente una cella di un convento domenicano del XIII secolo. H Nel riportare all'antico la cella di S. Domenico, per evi­ denti motivi di spazio sono però state inglobate in unico va­ no due delle vecchie celle contigue, dei cui confini sono state però lasciate le evidenti tracce sia sul muro esterno che sul­ l'antico pavimento, formato di frammenti di coppi macinati e impastati con calce. Orbene, la prima di queste celle - quella presumibilmen­ te del transito - è larga m. 2,52 e lunga m. 2, 75 ; ha - come del resto l'altra - una porta di accesso dal corridoio, una fi­ nestra-feritoia a doppia strombatura con relativa imposta di legno all'interno e una nicchia alla cappuccina per la lucerna.

14 Cfr. V. ALCE, La cella dove mori S. robbio• n. 4, ed. L. Parma, Bologna.

Domenico,

estratto da « II Car­

92



l

/

+

La cella dove morì S. Domenico . Si noti no s u l lato destro la fin estra-feritoi a a doppia stro m batu ra e la ni cch ia alla cappucc i n a per ripo rvi la lu cerna.

93

Una cella ben angusta, dove, col cappezzale rivolto alla por­ ta, trovavano posto, solo un lettuccio, un sedile e un tavolo a leggio per lo studio e la lettura. Ma a questo proposito Galvano della Fiamma15 fa rilevare che i monaci avevano celle ben più piccole, cioè appena più lunghe della cuccetta e larghe solo 4 piedi (m. 1, 52), mentre S. Domenico fin dai tempi di Tolosa, quando a S. Romano costruì il suo primo convento (Giord . 44 ), le volle più gran­ di, perché potessero contenere oltre al letto anche uno scrit­ toio. Nella idea innovatrice della vita religiosa di S. Domeni­ co la cella non doveva infatti essere soltanto il luogo per dor­ mire, come lo era stato per i monaci, ma anche il luogo del loro nuovo lavoro : lo studio . E gli affreschi del capitolo dell'ex-convento domenicano di S. Nicolò di Treviso ne so­ no in certo senso una conferma, perché rappresentano cia­ scuno un frate nella sua cella, seduto davanti al suo leggio, intento a studiare o a scrivere. Un visitatore, che fosse passa­ to nel corridoio di qualunque convento domenicano del '200, avrebbe visto quello che Tommaso da Modena ripro­ dusse nelle sue pitture. Celle, quindi, quelle dei Domenicani, per quei tempi spaziose, ma per motivi non di comodità e di lusso ma di funzionalità. I frati, infatti, non avevano ancora dimenticato le lacrime versate dal loro Santo fondatore, quando proprio a Bologna, di ritorno da uno dei suoi viaggi, constatando che l'economo del convento durante la sua assenza nel costruire nuove celle si era permesso di largheggiare nelle misure : « "Volete dunque già rinunciare alla povertà - disse - e edifi­ care palazzi ?" . . . ; e pianse» (Atti 38). La povertà veniva osservata anche quanto al mobilio. Ol­ tre al sedile e allo scrittoio, non c'era in quelle celle altro che il letto, e questo doveva essere un semplice cavalletto di legno (cadilectus), ricoperto da un saccone o pagliericcio. 15

CHRONICA (minor), MOPH Il, 1 2 .

94

Ordinavano, infatti, le Costituzioni (1, 1 0) : « l nostri frati non dormano su materassi (culcitras ), tranne nel caso che per dormire non possano avere pagliericci (stramen vel aliquid tale) » : prescrizione che trovava certamente la sua giustifica­ zione in motivi di povertà e di penitenza ma anche di castità, in quanto si era convinti che letti troppo molli fossero di sti­ molo alla lussuria. Un ornamento, chiamiamolo così, era però permesso : avere in cella immagini del Crocifisso e della Madonna. Lo dice chiaramente il Vitae Fratrum : «Nelle celle (i frati) ave­ vano davanti agli occhi le immagini di lei (la Vergine) e del suo figlio crocifisso, affinché leggendo, pregando e dormen­ do potessero guardarle ed essere riguardati con occhi di mi­ sericordia)) . (VF. 1 89) « È questo un particolare molto importante - ne scrive il Taurisano - non solo perché ci svela i segreti della vita intima dei religiosi, ma perché mostra la fonte prima di quel gusto artistico, di quel culto per il bello che distingue l'Ordine do­ menicano. I religiosi si circondavano di ogni cosa bella, era l'unico lusso che potevano concedersi quei poveri di Cristo, e in ogni convento avevano scuole di pittura, di miniatura e scrittura ; ornavano le celle di delicati visi di Madonne ; e qua­ le immenso irreparabile danno per l'arte e la cultura non pro­ dusse la soppressione religiosa che profanò tanti santuari dell'arte, i veri musei, e disperse quelle ricchissime bibliote­ che e non meno ricchi archivi dove si erano formate tante ge­ nerazioni di grandi ! Pochi naufraghi scamparono alla morte : bello fra tutti il convento di S. Marco in Firenze . Sembra che il beato Angelico avesse presente, nell'affrescare le celle, questo passo del Vitae Fratrum, trasfondendo in quegli af­ freschi tutta la sua anima di sacerdote e di artista)). 1 6

del

16 l. TAURISANO, riportato a pag. 2 1 3 , nota 467, dell'edizione italiana Vitae Fratrum, a cura di P. Lippini, ESD, Bologna 1989.

95

La biblioteca In un convento domenicano non poteva certo mancare un locale adibito a libraria, ossia una biblioteca. Se infatti nel monachesimo, dove lo studio era stato agli inizi solo una lec­ tio divina con finalità ascetiche e più tardi era stato visto tut­ t'al più come una alternativa al lavoro manuale imposto a tutti i monaci dalla Regola di S. Benedetto (c. 48), si era giunti nel secolo XIII ad affermare che monasterium sine ar­ mario, quasi castrum sine a rmamentario - un monastero sen­ za armadio (per i libri) è come una piazzaforte senza armi -, questo valeva a maggior ragione per un Ordine che, come quello dei Predicatori, aveva fatto dello studio uno dei mezzi essenziali, e quindi obbligatori per tutti, del suo carisma. Non per nulla in un Capitolo del 1 257, i libri vengono definiti «arma nostrae militiae» (MOPH XX, 20) : le armi di cui deve servirsi il Predicatore nella propagazione e nella di­ fesa della fede. All'epoca della nostra visita, nel convento di Bologna non era ancora sorta, per accogliervi la biblioteca la grande sala ba­ silicale a tre navate, definita da Leandro Alberti : ( 1 500) «opera regale e insigne• , che possiamo ammirare ai nostri giorni ; ver­ rà infatti costruita solo negli anni 1 464- 1 466. Il locale destina­ to ai libri doveva quindi essere allora di più modesta ampiezza. Per cui non ci stupisce il fatto che nel visitare il lato del chio­ stro opposto alla chiesa, quello ordinariamente adibito a bi­ blioteca, vi troviamo anche la sala - il cosiddetto capitulum minus o parvum - dove i novizi, che non possono partecipare a quello dei professi, celebrano, sotto la presidenza del loro maestro, il loro Capitolo delle colpe. Anche allora, però, la biblioteca17 doveva essere un locale spazioso, ben riparato ed arieggiato per favorire la conserva­ zione dei libri, che venivano gelosamente custoditi non in 17

U., De offu:io librarii,

Il, 263 -266 .

96

piedi come si usa oggi ma stesi, in un grande armadio (arma­ rium) o in più armadi, divisi in scomparti, in modo da per­ mettere una loro collocazione per materie ifacultates) e se­ condo le loro sottospeci. Ogni armadio ed ogni scomparto dovevano avere le necessarie indicazioni per rendere facil­ mente reperibili le opere, delle quali il 9 ibliotecario doveva tenere un elenco sempre aggiornato, non più fatto, come si usava precedentemente, in ordine temporale o di ingresso del volume in biblioteca, ma per materie e per autori. La biblioteca aveva un orario di apertura. Ma il bibliote­ cario aveva una sede vicino ad essa, in modo da poter essere eccezionalmente a disposizione anche fuori dell'orario stabi­ lito. I libri non possono venir asportati senza speciale permes­ so del maestro degli studenti e senza che il bibliotecario ne prenda nota. Anzi, in caso di prestito ad estranei egli dovrà farsi dare un pegno proporzionato al valore dell'opera, per averne garantita la restituzione. Per la consultazione la biblioteca è arredata di grandi scrivanie a forma di leggio e per le necessità di chi vuoi pren­ dere appunti o ricopiarsi brani di testi, il bibliotecario deve tenerla fornita di tutto l'occorrente. Contrariamente all'uso antico che voleva che gli appunti destinati a una vita effimera fossero incisi su tavolette di cera - si veda, ad esempio, la Regola di S. Benedetto (33, 3 ; 55, 1 9) che accenna a queste tavolette e allo stilo (graphium) conces­ so ai monaci per scrivere - e le opere di cui si desiderava la conservazione venissero scritte su papiro, al tempo della no­ stra visita l'uno e l'altro metodo erano ormai caduti in disu­ so, sostituiti dalla più consistente pergamena. Tanto è vero che il b. Umberto parla sempre e solo di pergamene di cui fornire la biblioteca e da concedere agli studenti per i loro appunti scolastici . La pergamena - cosiddetta dalla città di Pergamo (Asia Minore) il cui re Eumene II (197- 1 5 8 a. C . ) ne avrebbe intro-

97

dotto l'uso per supplire alla scarsità di papiro, che il re d'E­ gitto non voleva mandargli per timore che egli potesse crear­ si una biblioteca rivale di quella di Alessandria, - era nella maggioranza dei casi la pelle di pecora (donde anche il nome di carta-pecora) o di altri animali, convenientemente trattata in modo da ridurla in fogli ben spianati, sottili e lisci. La qualità poteva essere variabile, e quella più forte e grossola­ na, di pelle di vitello, si chiamava vellum. Ma in ogni caso, dato il complesso trattamento cui doveva essere sottoposta, la pergamena era materiale raro e costoso. Azzardiamo perciò l'ipotesi che al tempo della nostra vi­ sita, fermo restando l'uso della pergamena per la scrittura di libri e di manoscritti che ne valessero la spesa, per i semplici appunti scolastici nella biblioteca di Bologna si facesse già uso di un materiale meno costoso, cioè della carta, ricavata allora dagli stracci di lino e di cotone sfilacciati, fatti macera­ re e ridotti in pasta dai mazzuoli di legno dei mulini. Versata su forme rettangolari di legno, la pasta veniva trasformata in fogli, che pressati e fatti asciugare, venivano spalmati di colla per renderli adatti all'uso. Dalla Cina, dove pare fosse stata inventata fin dal II secolo prima di Cristo, nel secolo XII at­ traverso gli arabi se ne era sviluppata la produzione nell'A­ frica mediterranea e nella Spagna. E risulta che proprio a Bo­ logna già prima del '200 fosse in funzione una cartiera sul Reno, diretta da mastro Palese da Fabriano, originario quin­ di di quella città, dove si sa per certo che già in quel secolo funzionavano diverse cartiere. Si scriveva con inchiostro (encaustum), composto princi­ palmente di vetriolo (solfato di ferro) e acido gallico sciolti nel vino, aceto o birra e con l'aggiunta di gomma, e lo si con­ servava spesso in corni bovini, che fungevano da calamai. Il calamus di cui ci si serviva per scrivere era costituito da can­ ne tagliate e appuntite come i nostri pennini, o da penne d'o­ ca o di cigno che, smussandosi con l'uso, dovevano di quan-

98

do in quando venir affilate con coltelli (cultellint). Non do­ vevano però mancare in biblioteca neppure dei regoli (regu­ lae) e dei fili a piombo (plumbt) per tirare le righe e dei ra­ schietti e della pietra pomice (pumices ), da utilizzare come abrasivi. Quanto all'orario di apertura della biblioteca doveva es­ sere molto esteso, se il b. Umberto raccomanda al bibliote­ cario di avere a disposizione olio (sebum) e candele, per per­ mettere a chi lo voglia di restare in biblioteca anche nelle ore di buio. Ma è suo compito soprattutto quello di curare che i libri vengano corretti, quando in essi si scopre qualche errore, e che inoltre vengano restaurati, ricoperti, rilegati e sul dorso di ognuno appaia il nome dell'autore e sul suo frontespizio il titolo dell'opera, il nome del convento cui appartiene e, se è il caso, anche quello del donatore. Spetta a lui anche incrementare il patrimonio della biblio­ teca acquistando nuovi libri, incamerando quelli dei frati de­ funti, scambiando i doppioni con libri di cui si è sprovvisti e vendendo quelli ormai illeggibili o comunque di nessuna uti­ lità per la comunità. Al contrario, però, di quanto forse avveniva in certe ab­ bazie monacali, yogliose e assai spesso in gara fra loro per ar­ ricchire le loro biblioteche con libri di cultura di ogni genere, anche profana, diverso era il criterio, dettatogli dalle Costi­ tuzioni, che il bibliotecario di un convento domenicano do­ veva seguire nel cercare di arricchire la sua. « Gli studenti non prendano a base dei loro studi i libri dei pagani e dei fi­ losofi, anche se potranno consultarli saltuariamente. Non at­ tendano alle scienze profane né all e arti cosiddette liberali, a meno che con qualcuno il Maestro dell'Ordine o il Capitolo generale non vogliano fare eccezione, ma tutti, sia i giovani che gli altri, studino soltanto libri di teologia» . Era questa la prescrizione (Il, 28).

99

N on essendo lo studio fine a se stesso, ma ordinato alla predicazione della parola di Dio, ne derivava infatti giusta­ mente che nell'Ordine dei Predicatori fra tutte le discipline la teologia, per la sua connessione con essa, ottenesse il prima­ to e che le scienze profane venissero ordinariamente bandite : dove però per scienze profane non si devono intendere le arti liberali nel senso stretto della parola (grammatica, dialettica, retorica, musica, ecc.) ma le discipline che a queste si erano aggiunte nel secolo XII (fisica, medicina, scienze naturali, ecc. ), che sarebbero state di minore utilità in ordine alla pre­ dicazione. Per i libri pagani dovevano poi intendersi i poeti antichi. Meno utile fu ritenuto in un primo tempo, come si vede, anche lo studio della filosofia: ma ben presto l'Ordine ne vedrà l'utilità come ancilla theologiae. Anche se la costi­ tuzione non ne fa cenno, i Capitoli generali raccomanderan­ no invece lo studio delle lingue perché ritenuto strumento indispensabile per l'evangelizzazione (MOPH III, 9), e fon­ deranno in Spagna uno studio per l'insegnamento dell'arabo (ib. '98). E ovvio che con questo criterio quelle domenicane nac­ quero come biblioteche funzionali, specializzate in materie teologiche, nelle quali quindi, solo eccezionalmente si pote­ vano trovare libri di altre discipline. Le Costituzioni stabilivano anche «che ogni Provincia fosse tenuta a provvedere ai suoi frati mandati in uno stu­ dium almeno tre libri di teologia, ossia la Bibbia, le Sentenze e le Storie ; e che i frati mandativi a studiare si applicassero e studiassero le Storie, le Sentenze, il testo e le glosse» . Stabili­ vano pure che «quando un frate viene mandato da una Pro­ vincia in un'altra, affinché vi eserciti l'ufficio di Reggente, porti con sé i libri glossati, la Bibbia e i suoi quaderni. Se in­ vece vi viene inviato ma non come Reggente, porti con sé so­ lo la Bibbia e i suoi quaderni» (Il, 28). Dal che possiamo dedurre - confortati anche da un testo del b. Umberto (U. , Il, 265), che se i Lettori e gli studenti

1 00

inviati a studiare fuori della propria Provincia potevano ave­ re Bibbie a uso personale, ciò, dato il loro alto costo, non era di tutti. Per cui il primo libro che ovviamente in una biblio­ teca domenicana non poteva mancare per essere a disposizio­ ne di tutti, era la Bibbia, sia in edizione semplice che glossa­ ta. Le glosse (dal greco yÀ&ooa : lingua, e quindi anche dia­ letto, idiotismo, maniera o voce rara che a intendersi ha biso­ gno di una nota esplicativa, chiamata anch'essa glossa) erano, per quanto riguarda la S. Scrittura, concise spiegazioni o commenti, estratti per lo più dai Padri della Chiesa e che quindi godevano nel Medio Evo di un eccezionale credito, in quanto ritenute come l'interpretazione più aderente al passo rivelato . Insieme al testo le glosse erano l'oggetto degli studi teologici superiori. Dal medesimo testo delle Costituzioni si deduce anche in quale considerazione fossero tenute nel Medio Evo le Sen­ tenze di Pietro Lombardo (il cosiddetto Magister sententia­ rum, t1 1 60) che era invece il manuale degli studi di teologia sistematica, seconda tappa degli studi sacri. Quanto alle non ben precisate Storie, potrebbe trattarsi sia della Storia della Chiesa di Eusebio, Vescovo di Cesarea in Palestina (t ca. 340), opera importantissima in 1 O libri nella quale in ordine pressapoco cronologico viene esposta la storia della Chiesa dalla nascita di Cristo fino alla vittoria di Costantino su Licinio (323), sia dell'altrettanto celebre Hi­ storia Scholastica di Pietro il Comestore (il cosiddetto Magi­ ster historiarum (t1 1 79), che è il primo saggio di una storia sacra che va dal Paradiso terrestre alla prigionia di S. Paolo a Roma e che fu per qualche tempo l'opera universalmente ac­ colta come testo classico nelle scuole. Ad ogni modo, sia l'una che l'altra delle due opere, se­ condo la succitata testimonianza del b. Umberto (Il, 265) dovevano trovare sempre posto, accanto alla Bibbia e alle Sentenze del Lombardo, in una biblioteca domenicana.

101

M a i l b . Umberto consiglia anche alcune altre opere che non avrebbero mai dovuto mancare. Ad esempio, le Concor­ danze del Cardinale domenicano Ugo di S. Caro (t1 294), ossia quella raccolta, da lui per primo ideata, delle varie pa­ role della Bibbia riportate in ordine alfabetico nel loro conte­ sto immediato, con la segnalazione del libro, del capitolo e del versetto che le contengono : mezzo prezioso per trovare la citazione precisa di un pensiero o di un episodio ricordato solo vagamente. Venivano pure consigliate : la Summa casuum del dome­ nicano ed ex-Maestro dell'Ordine Raimondo da Peiiafort (1 1 75- 1 275), le Quaestiones super libros quatuor Sententia­ rum e il trattato De virtutibus di un altro domenicano, fra Rolando da Cremona (t1 259), la Summa theologica di Gof­ fredo di Poitiers (t1 225), vari trattati di teologia dogmatica e morale, raccolte di omelie per i giorni festivi, le passiones dei martiri, nella cui composizione si era fatto un nome, proprio in quei giorni, il domenicano Bartolomeo da Trento ( 1 1 901 25 1 ) e le vite (legendae) dei santi. Non avrebbero poi dovu­ to mancare, per la conoscenza delle leggi ecclesiastiche, né il Decreto di Graziano (t1 1 58) né le Decretali di Gregorio IX, opera anch'essa di Raimondo da Peiiafort, promulgata uffi­ cialmente da quel papa nel 1 234. Naturalmente, quelli del b . Umberto - anche se quando li dava era Maestro dell'Ordine e lo fu dal 1 254 al 1 263 - era­ no solo dei consigli, che lasciavano ai conventi la massima li­ bertà di arricchire le loro biblioteche secondo le loro diverse esigenze. E quando li dava non poteva ancora prevedere tut­ ta l'importanza che di lì a qualche anno avrebbero assunto gli studi teologici nell'Ordine, eh� da Ordine di predicatori di­ venterà anche Ordine di dottori. Non poteva soprattutto prevedere che la dottrina dell'ancor giovane fra Tommaso d'Aquino sarebbe stata fatta talmente propria dall'Ordine, da identificare l'insegnamento e la difesa di essa con l'inse-

1 02

gnamento e la difesa della stessa dottrina cristiana. Per cui si può affermare con sicurezza - e lo stragrande numero di ma­ noscritti giunti fino a noi ne è la prova - che nella seconda metà del secolo XIII le biblioteche domenicane, pur non tra­ lasciando di arricchirsi di tutta la vasta produzione teologica e filosofica del tempo - basti anche solo pensare alle 1 52 ope­ re attribuite all'altro grande domenicano, maestro di S. Tommaso , S. Alberto Magno -, non mancavano certamente di copie di tutte le opere del dottore di Aquino e dei suoi commentatori e difensori più importanti che, anche per sol­ lecitazione dei Capitoli generali, si stavano moltiplicando in maniera sorprendente. Si arriverà però alle grandi biblioteche, fornite di molte centinaia di volumi, solo due secoli dopo con la nascita e lo sviluppo della stampa. Però, a conforto di quanto si è detto sopra genericamente di tutte le biblioteche domenicane, ri­ guardo quella di Bologna che stiamo visitando, siamo in gra­ do di affermare con certezza che verso la fine del secolo XIII era già certamente in possesso di qualche centinaio di opere di diversa provenienza : libri che i molti studenti e professori di quella Università entrando nell'Ordine avevano passati al convento ; libri personali dei frati docenti in quello Studium generale, che il convento aveva acquisito alla loro morte o al­ la cessazione del loro ufficio ; libri donati o lasciati in eredità dai molti amici e benefattori della comunità ; libri che i vari bibliotecari per loro industria o col denaro del convento ave­ vano sentito il bisogno di acquistare ; e libri infine provenien­ ti dal laboratorio dei copisti (scriptorium ) , di cui vedremo. Per cui già allora risultava la biblioteca più fornita della città. Vista la provenienza di gran parte dei suoi libri, essendo Bologna sede di una Università celebre nel mondo per lo stu­ dio del Diritto, la biblioteca di S. Domenico, contrariamente a quanto abbiamo affermato delle altre biblioteche domeni­ cane, doveva perciò essere ricca anche di opere riguardanti

1 03

tale disciplina ; e le autorità dell'Ordine non avevano avuto difficoltà ad accoglierle, dato anche che in un locale del con­ vento aveva la sua sede la Universitas dei legisti, ai quali tor­ nava certamente comodo poter consultare la vicina bibliote­ ca se fornita di opere attinenti il loro studio. Ma la biblioteca era innanzitutto conventuale : oltre che servire gli altri, doveva principalmente servire ai frati del convento e ai molti che da ogni parte dell'Ordine venivano inviati al suo Studium generale per prendervi il Lettorato o laurea in teologia. Per cui i libri di quest'ultima disciplina eb­ bero sempre ovviamente il sopravvento. Il bibliotecario, du­ rante la nostra visita, oltre ai libri che, come detto sopra, avremmo potuto ritrovare in qualsiasi altra biblioteca dome­ nicana, ci può quindi mostrare con velato orgoglio una rac­ colta quasi completa delle opere dei Padri, soprattutto di S . Agostino e di S . Ambrogio, tutte l e opere d i S. Tommaso, molte di quelle di S. Alberto, la Summa di Alessandro di Hales, alcune opere di Aristotele e dei filosofi arabi e, pezzi rari, la Summa de poenitentia, scritta proprio a Bologna nel 1 2 1 9- 1 220 da fra Paolo di Ungheria, e i Sermones de tempore et de sanctis di Papa Onorio III, da lui stesso donati alla bi­ blioteca intorno al 1 220. Lo scriptorium

Un buon contributo all'arricchimento della biblioteca veniva, come si è detto, dallo scriptorium, o laboratorio dei cop1st1. Si crede spesso che il ricopiare manoscritti sia stata l'atti­ vità principale dei monaci del Medio Evo. Anche se ciò non corrisponde perfettamente al vero, bisogna però riconoscere che questo genere di lavoro ebbe fra loro un posto notevole : e la cultura è perciò loro debitrice della conservazione di tan-

1 04

te opere preziose che senza di loro sarebbero andate irrime­ diabilmente perdute. Forse per non cadere nell'otiositas, giu­ dicata da S. Benedetto «nemica dell'anima» (Reg. 48, l ) e for­ se soprattutto nella convinzione di prestare un servizio all'u­ manità contribuendo a salvare e a divulgare i capolavori del genio umano e del cristianesimo, sta di fatto che i monaci, al­ meno dall'epoca in cui divennero in gran parte anche chierici e quindi abituati più all'uso della penna che della vanga, an­ ziché al lavoro materiale cui li esortava la Regola, si dedica­ rono con passione e in gran numero all'arte del ricopiare. E tutte le abbazie ebbero così il loro grande scriptorium, dove una parte della comunità passava le sue giornate curva sui co­ dici da ricopiare. Il nuovo Ordine dei Predicatori vide anch'esso nella di­ vulgazione di opere teologiche una specie di predicazione estensiva del suo carisma. Per cui, come si è detto, si preoc­ cupò di avere biblioteche che ne fossero ben fornite, non so­ lo per uso interno, ma anche come mezzo di divulgazione delle verità della fede. Non poteva perciò trascurare neppure l'arte del ricopiare, che di questa forma di evangelizzazione era l'unico mezzo. E nei suoi conventi ebbe sempre anch'es­ so, accanto alla biblioteca, uno scrittoio. Impegnati però prevalentemente nella predicazione vera e propria e di conseguenza, quand'erano in convento, nello studio ad essa ordinato, i Domenicani furono in genere più attivi nel comporre opere che nel ricopiarle e il loro scritto­ rio ebbe una funzione più limitata che nel monachesimo : quella cioè di rifornire di testi liturgici la sagrestia e delle opere dottrinali necessarie sia la biblioteca conventuale, sia i frati che non potevano ricopiarsele personalmente. Di questo scrittoio ha la responsabilità un gerente, 18 il quale avrà un suo ufficio accanto a esso, sia per poter meglio 18

U . , De officio gerentis curam scriptorum, Il, 266-268.

1 05

controllare il lavoro dei copisti, sia per custodirvi il materiale loro occorrente e il denaro necessario per pagare il giusto sa­ lario a quelli di loro che non sono frati del convento. Parti­ colare questo, che ci conferma che i Domenicani, pur essen­ do tutti, eccezione fatta per i conversi, in grado di scrivere, per copiare i loro libri potevano ricorrere anche a salariati, preferendo occupare il loro tempo, come si è detto, nella predicazione, nell'insegnamento e nello studio. Sicché, quand'essi avevano bisogno di un libro non reperibile nella biblioteca del convento, si rivolgevano al gerente dello scrit­ toio, il quale, accertatosi della sua utilità e del necessario fi­ nanziamento, provvedeva a farlo ricopiare. Ognuno dei copisti ha nello scrittoio il suo tavolo da la­ voro e ogni tavolo è fornito dell'occorrente per scrivere e, nel caso, per miniare : per cui, oltre al materiale di cui, come abbiamo visto, dovevano essere fomiti anche i tavoli della biblioteca (pergamene, inchiostro, penne, coltellini, regoli e materiale abrasivo), ogni copista, o per lo meno i più provet­ ti, avevano a loro disposizione anche inchiostri di vari colori o addirittura d'oro . Secondo lo spirito di povertà dell'Ordine, il gerente, nel­ l'affidare loro il lavoro da eseguire, doveva però raccoman­ dare ai copisti che il testo fosse piuttosto leggibile e duraturo che non elegante. Sicché le necessarie miniature, senza le quali era allora quasi inconcepibile un libro, nell'Ordine fu­ rono sempre estremamente sobrie, limitandosi molto spesso alla sola coloratura delle lettere o delle righe iniziali. Solo ec­ cezionalmente, e per i libri di coro, esse si estesero sui margi­ ni dei codici od occuparono addirittura un'intera pagina. Quello del copista doveva essere un lavoro molto fatico­ so : faticoso per le dita che, dopo ore di scrittura, potevano venir colpite dal cosiddetto crampo del monaco ; ma faticoso anche per la vista che, dopo anni di quel mestiere, si indebo­ liva rendendogli difficile la lettura dei codici vergati in lettere sottili e di conseguenza una loro ricopiatura senza errori.

1 06

Ma alla fine del secolo XIII doveva essere già noto, anche se non siamo in grado di precisare in quale epoca ne sia stato introdotto l'uso, un sussidio che ovviava agli inconvenienti di una vista carente : uno specchio concavo, cioè, che ripro­ duceva, ingrandite, le immagini degli oggetti poste fra esso e il suo fuoco. Il fatto che Tommaso da Modena, che affresca­ va la bella sala capitolare dei Domenicani di Treviso solo qualche decina di anni dopo la nostra ipotetica visita al con­ vento, ponga un siffatto strumento in bella vista nella cella di un frate, accanto a penna e a calamaio, ci autorizza a pensare che esso fosse già usato nei conventi dell'Ordine e quindi ne facessero uso soprattutto i suoi copisti . Lo strumento di cui sopra, aveva però l'inconveniente delle immagini speculari, cioè di trasmettere un'immagine in cui il destro e il sinistro risultavano invertiti. Dovette perciò venir accolta subito con favore l'invenzione degli occhiali fatta o divulgata in quegli anni dal domenicano fra Alessan­ dro della Spina (t1 3 1 3). 19 E Tommaso da Modena, ancora una volta !asciandoci l'immagine del Cardinale domenicano Ugo di S. Caro (t1294) mentre sta ricopiando una pergame­ na facendo uso degli occhiali - ed è questa la più antica rap­ presentazione pittorica di essi che finora si conosca - ha vo­ luto forse trasmetterei che i Domenicani, per la loro applica­ zione allo studio più soggetti di ogni altro all'indebolimento della vista, erano stati anche i primi ad accogliere quegli stru­ menti che ne correggevano i difetti.

19 Nella cronaca del convento di S. Caterina di Pisa (cfr. «Arch. Stor. !tal. • (1 848), p p. 397-633) è detto infatti, che fra Alessandro della Spina «Ocularia ab aliquo primo facta et communicare nolente, ipse fecit et com­ municavit•, per cui l'invenzione degli occhiali è comunemente attribuita a

lui.

107

Il refettorio

Uscendo dalla biblioteca, torniamo nel chiostro. Fra i luoghi. «regolari » da visitare, non ci resta ormai che il refet­ torio, la cui porta di ingresso si apre sul chiostro, di cui esso occupa tutto il lato occidentale : quello, per intenderei, dove nel convento di Bologna, hanno attualmente sede, a pianter­ reno la vesteria del convento e la segreteria delle Facoltà di Teologia e Filosofia, e al piano superiore le loro aule scola­ stiche. Col lato del refettorio si chiude così il quadrilatero dell'attuale chiostro di S. Domenico, chiamato al tempo del­ la nostra visita primo chiostro o chiostro interno, per distin­ guerlo da quello, già allora esistente, dell'infermeria. Il refettorio - preceduto da un atrio dove i frati prima di entrare per i pasti dovevano sempre lavarsi le mani in un ap­ posito lavabo -era il luogo regolare più vasto del convento, che quasi sempre, come a Bologna, occupava da solo l'ala del chiostro in angolo con la chiesa, dal lato opposto al capitolo. Più lungo che largo, spesso a volta, nei conventi più grandi era sovente diviso in due navate da una fila di colonne. Questa sua vastità è spiegata dal fatto che il refettorio di un convento non ha nulla a che vedere con le sale da pranzo degli alberghi e delle trattorie odierne o con le mense delle moderne collettività. Le panche e le tavole, dove i frati si di­ sponevano da un solo lato, sempre allo stesso posto, in rigo­ roso ordine di anzianità di professione, erano disposte lungo le pareti, lasciando libero il centro. La tavola del Priore, so­ vrastata da una immagine (U. , Il, 222) riproducente di solito una delle cene del Signore (quella del Giovedì Santo, quella di Emmaus o quella in casa di Levi), occupava · al centro la parete di fondo, opposta all'ingresso . Con tale disposizione si capisce allora come in un con­ vento di più di cento frati il refettorio dovesse essere im­ menso.

1 08

Il refettorio è sottoposto alla sorveglianza e alla respon­ sabilità di un refettoriere, 20 incarico che può venir affidato sia a un chierico che a un converso. È suo compito innanzitutto tener provvisto d'acqua e di asciugamani puliti il lavabo posto all'ingresso del refettorio. Ed è degna di rilievo, a questo proposito, la raccomandazio­ ne che il b. Umberto rivolge ai frati di non sporcare i suddet­ ti asciugamani con sangue dei denti o con muco nasale : evi­ dentemente, nonostante l'uso largamente diffuso del fazzo­ letto da naso (nasitergium ), e di asciugatoi per il viso (jaciter­ gium), ci dovevano essere frati che preferivano servirsi del­ l'asciugamano (manutergium) comune. Sono a lui affidati anche l'ordine e la pulizia del refettorio e della piccola dispensa (caneva) in cui egli custodisce, in cassoni e in armadi, la biancheria da usare in refettorio, le stoviglie, le posate, il pane, la frutta, il formaggio, le cipolle, il vino e tutto ciò che può essere servito a tavola e che quoti­ dianamente o in certi giorni gli viene fornito dall'economo o dal cantiniere. Deve preparare le tavole, ponendovi sopra quanto occor­ re, in modo che i servitori durante la mensa debbano portar­ vi solo le salse e le vivande calde che giungono dalla cucina. E durante i pasti egli, come un buon Maitre d'hotel, deve continuamente girare per il refettorio, sia per ordinare il ser­ vizio, sia per rendersi conto e provvedere se a qualcuno manca qualcosa. Il refettorio fino a poco prima dei pasti è chiuso a chiave. Desiderosi di curiosare com'egli lo abbia preparato, ci affi­ diamo alla cortesia del refettoriere perché ci faccia entrare un Istante.

20

U . , De officio refectorarii,

Il, 288-294.

1 09

La prima cosa che ci colpisce è il pulpito, sopraelevato a metà della parete sinistra, da dove un lettore durante i pasti, consumati sempre in rigoroso silenzio, leggerà in continua­ zione un libro, affinché, come vuole S. Agostino «non sol­ tanto il corpo prenda cibo, ma anche lo spirito si nutra della parola di Dio» (Reg. 1 4). Notiamo anche che in un angolo c'è una grossa stufa, ora spenta, ma che nei mesi freddi, secondo le disposizioni del Priore, il refettoriere dovrà accendere in tempo. Accostandoci a una di esse, notiamo il modo singolare col quale sono state preparate le tavole. Come si è detto, i re­ ligiosi siedono solo dal lato di esse che è addossato al muro, lasciando libera per il servizio e in modo che nessun frate ne abbia un altro dirimpetto, la parte davanti, verso il centro del refettorio. Orbene, le tovaglie - che l'Ordine domenicano non ha avuto timore di adottare nonostante la sua professio­ ne di povertà - le ricoprono non totalmente, ma, per eviden­ ti motivi di pulizia, solo dal lato dove siedono i frati ; e da ta­ le lato sono così abbondanti da venir ripiegate su se stesse per ricoprire il cosiddetto coperto (scodella, posate, pane, frutta, cipolle ecc. ). Una volta poi che i frati si saranno sedu­ ti, le apriranno ricoprendosi con esse le ginocchia. La parte davanti della tavola rimarrà invece nuda, in modo da poterei mettere sopra, senza il timore di sporcare la tovaglia, i vasi per il vino (legenae), le brocche per l'acqua - una delle quali per l'acqua calda per chi vuole, secondo l'uso del tempo, me­ scolarla col vino - i bicchieri (scyphi), le saliere, i candelieri per la cena ; e per accogliervi, al termine dei pasti, gli even­ tuali rifiuti (noccioli, bucce, briciole, ecc. ), che i servi tori della mensa passeranno a raccogliere servendosi di appositi cestini (sportellae) e spazzolini (scopae ). Abbiamo parlato d i posate. I n verità, ad ogni posto in­ travvediamo soltanto il cucchiaio (cochlear), il quale - lo de­ duciamo dalla grande quantità che ne acquista annualmente

1 10

l'economo - dovrebbe essere di materiale abbastanza fragile (stagno, terracotta o vetro) . 2 1 Vuoi dire allora che i cucchiai di legno di cipresso, molto più duraturi, portati in dono da S. Domenico tornando dalla Spagna alle monache di S. Sisto a Roma, dovevano essere una preziosità . 21 La forchetta, in­ fatti, nel secolo XIII - e non lo sarà neppure nei secoli se­ guenti fino al '600 - non era di uso comune e se anche" aveva fatto la sua prima apparizione in certi corredi di principesse, era allora considerata soltanto un lusso esibizionistico. L'uso comune era di servirsi, per mangiare, esclusivamente delle man t . Parlando del refettorio e dei pasti, il b. Umberto non no­ mina mai neppure il coltello : segno evidente che ciascun fra­ te usava il suo. Strumento di uso comune fra i monaci, che se ne servivano sia in refettorio che nel lavoro dei campi (Reg. di S. Benedetto 22, 5 ; 55, 19), dovette essere in dotazione p er­ sonale anche presso i Domenicani, che, come si vede in un'antica statuetta di S. Domenico proveniente dalla porta del monastero delle suore di Caleruega, dovevano portarlo, chiuso in una custodia, appeso alla cinghia sul fianco destro . E la forma di quel coltello corrisponde pressappoco a quello attribuito al Santo, ora conservato a Bologna nella cella del suo transito : che del resto S. Domenico portasse un coltello, «scelto sempre fra quelli di minor valore», è esplicitamente affermato anche nel Vitae Fratrum (Ep. 8 1 ) e dallo stesso b. Umberto (Il, 46) quando racconta di lui che, durante il pri­ mo Capitolo generale, avrebbe affermato di essere pronto a girare per i conventi a raschiare col suo coltello tutte le leggi,

21

R . GIANNINI, L e . , pag . 5 1 8 , nota 1 . 22 Cfr. CECILIA, l miracoli del beato Domenico, in P. LIPPINI, S. Do­ menico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1 982, p. 209.

111

se queste, contrariamente al suo parere, fossero state impo­ ste sotto colpa morale. Ma visitando il refettorio abbiamo notato, che davanti al tavolo del Priore, a una certa distanza da esso, è steso per terra un tavolato sul quale sono posti una caraffa di acqua, un bicchiere e del pane, e più dietro c'è un tavolo senza tova­ glia ma preparato come se qualcuno dovesse servirsene per pranzare. Ne chiediamo spiegazione al refettoriere : la sem­ plice asse di legno è destinata a quei frati che per qualche gra­ ve colpa, in base al severo codice penale dell'Ordine, sono stati condannati a mangiare a pane e ad acqua, seduti per ter­ ra ; il tavolo, invece, è per coloro che per una infrazione più lieve sono stati condannati semplicemente a mangiare in mezzo al refettorio. Avendo sentito suonare la campana che chiama i frati a desinare, per non essere di disturbo, dopo aver ringraziato il refettoriere per la sua gentilezza, usciamo in fretta dal refet­ torio, ripromettendoci di tornarvi come commensali nella seconda parte del nostro lavoro, per renderei meglio conto di come si svolgano i pasti dei frati e in che cosa consistano le loro portate.

1 12

CAPITOLO SESTO

LE OFFICINE

La cuctna

Gli atti comunitari giornalieri di un convento si svolgeva­ no nei cosidetti luoghi regolari, che si aprivano, come abbia­ mo visto nel capitolo precedente, tutti nel chiostro . Ma un convento domenicano, chiuso dentro le sue mura, è come una cittadella, isolata dal mondo che la circonda e che si apre ad esso unicamente per motivi ben precisi di apostola­ to. Vive perciò una sua vita di autarchia che lo rende del tut­ to autonomo e indipendente dalle strutture economiche e ar­ tigianali della città dove si è inserito. Ma per questo, oltre a quelli comunitari, ha bisogno di altri locali, in cui possano operare, come in un alveare dove ogni ape ha il suo compito , i vari frati addetti a quelle attività, a quei mestieri, a quei ser­ vizi che permettono al convento la sua autarchia. Si tratta delle cosiddette officinae, che a Bologna sono in­ vece chiamate domus, forse perché dal punto di vista edili­ zio, dati gli spazi immensi in cui il convento aveva potuto di­ latarsi, avevano una loro individualità e costituivano ciascu­ no un edificio distinto. Date le trasformazioni subite nei se­ coli, non è facile stabilire l'ubicazione precisa di ciascuno di essi. Si sa però, che sorgevano dietro il refettorio, nell'area attualmente occupata da una sezione del Tribunale civile. Il primo di questi luoghi è la cucina (domus coquinae). E noi

1 13

entreremmo volentieri a curiosare, se un cartello non ci av­ vertisse che l'ingresso è rigorosamente vietato agli estranei. Ma il cuoco (coquinarius), che è «Un robusto converso, esperto del suo mestiere, ma anche prudente, paziente e gen­ tile con quanti hanno da trattare con lui» , 23 trova ugualmente la maniera di soddisfare la nostra curiosità, rispondendo alle nostre domande dallo sportello che ordinariamente gli serve per passare le vivande ai servitori della mensa. E ci spiega innanzitutto, che in convento c'è anche un'al­ tra cucina, più piccola e perciò detta minor, destinata all'in­ fermeria, all'ospizio e alla domus familiae, di cui vedremo. Divisione questa suggerita non tanto per alleviare in un gros­ so convento il lavoro del cuoco, quanto per meglio definirlo, dato che nella cucina del convento, contrariamente all'altra, nella preparazione dei cibi dovrà essere sempre esclusa la carne. Proprio perché egli può trattare la carne, oltre alle al­ tre comuni incombenze il cuoco dell'infermeria avrà perciò anche quella, uccidendo gli animali da cucinare, di raccoglie­ re le penne adatte e conservare le pelli che possono essere poi utilizzate per la biblioteca e per lo scrittoio. Trattandosi di un grosso convento, il cuoco non è il solo addetto alla cucina, ma è coadiuvato da un sufficiente nume­ ro di sguatteri, che, se inesperti, egli deve pazientemente istruire e dirigere. Il suo lavoro resta comunque pesante an­ che se ha la soddisfazione di sapere che i frati sono contenti del suo modo di cucinare. E aggiunge con un certo orgoglio misto a ironia, che in un convento domenicano, dove il cuo­ co è fisso ed è scelto per la sua competenza, non succede, co­ me nelle abbazie dove tale servizio è sottoposto a turni setti­ manali (Reg. di S. Benedetto 35, 1 ), che i monaci aspettino con ansia l'arrivo del sabato nella speranza che il cuoco di

23

U. , De officio coquinarii, Il, 3 1 7-320.

1 14

turno maltratti meno i loro poveri stomaci. Ed è per questo che nei conventi domenicani, se proprio è impossibile trova­ re tra i frati un buon cuoco, si potrà ricorrere, con tutte le precauzioni del caso, anche a un laico. In ogni caso, però, la preparazione del cibo non è lasciata alla fantasia del cuoco, perché egli segue abbastanza fedel­ mente una tradizione orale e a volte scritta, e si attiene quan­ to al numero e alla qualità delle portate nei giorni di festa, al­ le disposizioni dell'economo del convento. Quanto ai tempi di cottura, egli li conta col tempo impiegato a dire un Pater noster o qualche altra preghiera. Il cuoco ci informa pure, che la sua cucina - e ci tiene a sottolineare che per distinguerla da quella dell'infermeria è chiamata major - è molto spaziosa, con grandi armadi per ri­ porvi pentole, padelle, pignatte, teglie, taglieri, canestri, ra­ maioli, coltelli e quant'altro è necessario al suo funziona­ mento. I bicchieri, le stoviglie e le posate per praticità sono invece custodite nella piccola dispensa attigua al refettorio, gestita - come si è detto - dal refettoriere. In cucina il cuoco ha sempre a portata di mano una certa quantità di acqua e legna a sufficenza. E a proposito del fuo­ co ci svela che, pur avendo in dotazione l'acciarino e la pietra focaia per accenderlo, egli cerca, per evitare le noie di una si­ mile accensione, di non !asciarlo spegnere mai. Ha sempre a sua disposizione in cucina anche una certa quantità di alimenti di consumo giornaliero o frequente : sa­ le, olio, formaggi, legumi, agli, cipolle, latte e condimenti van. Non lontano dalla cucina c'era poi sempre una specie di grande magazzino o deposito di derrate all'ingrosso, che a Bologna aveva anche un ingresso carraio dall'attuale piazza dei Tribunali e veniva chiamato domus canipae. Al suo ad­ detto doveva evidentemente rivolgersi il cuoco di quando in quando per fare rifornimento di quanto gli occorreva.

1 15

Dello stesso portone ci si serviva anche per rifornire di farina e di legna il forno (domus fumi), dove si faceva e si cuoceva il pane. La cantina

Anche per non essere in contraddizione con S. Paolo, il quale consiglia Timoteo : ((Non bere più soltanto acqua, ma fa' uso di un po' di vino per via del tuo stomaco e delle tue frequenti infermità» (J Tm 5, 23), l'uso del vino ordinaria­ mente non era vietato dal monachesimo medievale, pur tanto rigido in materia di astinenza. La Regola di S. Benedetto, ad esempio, (40, 6 ), pur riferendosi al Vitae Patrum (5, 4, 3 1 ) dove si legge come sentenza dell'abate Pastore, vinum mo­ nachorum omnino non est, ne concede l'uso sia pure a malin­ cuore : ((Benché si legga che il vino non conviene ai monaci, dato che a quelli del nostro tempo non è possibile farlo com­ prendere, accordiamo almeno questo : che non bevano fino alla sazietà, ma con moderazione, perché il vino fa traviare anche i saggi» (Cfr. Sir 1 9,2). E dopo aver concesso di poter­ ne bere una emìna al giorno (cioè circa un quarto di litro), permette all'abate di concederne un supplemento per motivi di clima e di lavoro (ib. 40, 1 -5). Avvalendosi di queste concessioni, i monaci, anche per il fatto che essi avevano come loro attività principale i lavori agricoli e i loro monasteri erano sorti in mezzo ad ampie te­ nute lavorative, piantarono, dove il clima lo permetteva, va­ sti vigneti per ricavarne vino per loro uso e per la vendita. In tal modo si resero produttori di vini pregiati, che meritò loro la fama di patres vinearum, ma anche quella, sia pure a torto, di grandi bevitori. S. Domenico, fin dai tempi in cui era studente a Palencia, mosso dal desiderio di penitenza, si era imposto di non bere

1 16

vino. Verrà meno a questo suo proposito solo una decina di anni dopo, quando, divenuto canonico regolare e sottomes­ so a un superiore, si assoggetterà a berne un poco, sia pure abbondantemente annacquato (Ferrand 7) . E Giordano con­ fermerà che beveva vino «ma talmente annacquato che, men­ tre soddisfaceva alle necessità del corpo, non correva certo il rischio di ottenebrare la sua sveglia e acuta intelligenza» (1 08). E uno dei testi di Tolosa fa notare che, mentre perso­ nalmente era parco nel cibo e nel bere, «voleva che gli altri ne fossero abbondantemente provvisti » (Atti di Tolosa, 1 8) . E questa sua larghezza con gli altri è confermata d a alme­ no tre episodi nei quali il santo provvede miracolosamente alla mancanza di vino : a S. Sisto fa trovare, su suo ordine, piena la botte che prima era stata constatata vuota (Cecilia 3) ; per fare un po' di festa con le suore fa loro servire del vi­ no che, per quanto ne bevevano, non si esaurisce (ibid. 6); « e u n giorno, essendo i n viaggio con altri numerosi frati, quan­ do si sedettero per pranzare, di vino non ne avevano che una ciotola. Il beato padre, allora, mosso da compassione per al­ cuni di loro, che quand'erano nel mondo erano stati molto delicati, ordinò di versare quel po' di vino in un grande reci­ piente e poi di aggiungervi acqua in abbondanza. Quei frati erano otto ; tutti bevvero a volontà di quell'acqua divenuta un ottimo vino. E ancora ne avanzò» (VF. 93 ) Dopo simili premesse non dobbiamo meravigliarci se an­ che i Domenicani ebbero la loro brava cantina (cellarium ) E doveva essere anche ben fornita, se il b. Umberto24 esorta il cantiniere a far entrare in cantina dei secolari solo nel caso in cui disponga di due locali e possa quindi riporre la quantità maggiore nella parte più interna e riservata, altrimenti essi potrebbero scandalizzarsi nel vedere tanto vino. Questo pe.

.

24

U. , De officio custodis cellarii, I l , 320-322.

117

rò non vuoi dire che i frati esagerassero nel bere, perché per una comunità numerosa in cantina di vino ce ne doveva sem­ pre essere una buona scorta, anche se i frati ne bevevano po­ co . Tanto più, poi, che potevano berlo, e misurato, solo du­ rante i pasti e per di più ordinariamente annacquato. C'è in proposito un episodio molto significativo : «Un frate molto contemplativo vide nel chiostro un frate morto che piegava il capo sull'orlo del pozzo cui era appoggiato. Gli chiese chi fosse e che cosa significasse il suo gesto. Ri­ spose: "lo sono il frate Tal dei Tali, che soffro molto perché mentre gli altri lo bevevano annacquato, io per dormire vole­ vo vino schietto. Ma pregate per me, perché a questo scopo vi è stato manifestato il mio stato " » (VF. 383) . La cantina doveva essere sotterranea, con le finestre di­ sposte all'aquilone, cioè volte a settentrione ; ed era affidata a un cantiniere esperto del mestiere, il quale, evidentemente aiutato da altri, doveva pensare, all'avvicinarsi della vendem­ mia, a pulire e a fare eventualmente riparare le botti. Un a volta piene, egli doveva poi controllarle quasi giornalmente, assaggiandone il contenuto, per evitare un suo deteriora­ mento . N on si parla mai di pigia tura, perché i Domenicani - fat­ ta eccezione per il convento di Bologna che, per il vigneto che lo circondava era detto delle vigne - per una scelta di po­ vertà non possedevano terreni agricoli e in ogni caso la loro vocazione non era quella di coltivarli. Non furono mai, co­ me i monaci, dei coltivatori diretti ; e quindi anche il vino, come gli altri prodotti agricoli, essi dovevano comprarlo. Nessun convento domenicano è perciò rimasto celebre per la produzione di vini pregiati o la fabbricazione di liquori di grido. L'Ordine non era nato per questo . Il cantiniere, neanche a dirlo, deve essere anche un esper­ to nel travasare il vino e nel tagliarne le varie qualità. Deve guardarsi bene però dal mescolare quello che sta andando a

1 18

male con vino buono. Deve raccogliere quello che avanza e, per meglio conservarlo, riporlo in recipienti dove ha posto della salvia (dolium salviatum). E dove il vino non è reperi­ bile, potrà venir sostituito dalla birra (cervesia). E i suggerimenti del b. Umberto continuano, facendoci stupire che un generale dell'Ordine si interessi tanto della cantina. Ma egli è convinto che il vino preso in piccola quan­ tità, sia utile alla salute ; solo quando tutte le occasioni sono buone per bere, può diventare dannoso : «per alcuni sono cinque i motivi per bere : l'arrivo di un ospite, la sete presen­ te o futura, la bontà del vino e qualsiasi altro motivo». 25 La vesteria

S. Agostino aveva scritto nella sua Regola : «Tenete ripo­ ste in comune le vostre vesti, sotto la cura di uno o più fratel­ li o di quanti sono necessari a custodirle perché non si guasti­ no ; e come siete alimentati da un'unica dispensa, così vi sia­ no p assati gli abiti da un'unica vesteria» (n. 29). E ovvio che i Domenicani, avendo abbracciato la Regola di S. Agostino, si attenessero a questa sua prescrizione, e avessero una vesteria o guardaroba comune. La vesteria è un grande locale, attiguo ma distinto dalla sartoria e dalla calzoleria, dove in armadi chiusi o in attacca­ panni vengono custodite le vesti e le calzature e tutto ciò che ha attinenza con esse. La gestisce un vestiario26 che ha perciò un compito molto importante nella vita e per la buona pace della comunità.

lS

«Sunt, si quid video, causae tibi quinque bibendi : hospitis ad ­ ventus, praesens sttis atque futura, et vini bonitas, et quaelibet alia causa:. . (Mortier p. 6 1 7). 26 U . , De officio vestiarii, Il, 323 -32 7.

1 19

Non solo deve custodire, far lavare, fare riparare, sostituire la biancheria dei singoli frati, ma deve provvedere anche a quella, compresa quella da letto, occorrente in infermeria 'e nell'ospizio. Ai conversi e ai familiari dovrà dare grandi grembiuli grigi (scapularia) e vestaglie (camisae) per evitare che si sporchino durante il lavoro ; tutti gli altri, quando han­ no bisogno di una cappa, di una tonaca, di uno scapolare (ca­ putium ), di una pelliccia, dèl cappello (capellum ), di scarpe, di pantofole (bottae), di sandali, di zoccoli, di cingoli inter­ ni, di cinghie per la tonaca, di custodie per il coltello, di le­ gacci e grasso per le scarpe (unctum) e di cose simili, dovran­ no rivolgersi a lui. Deve provvedere di pettini, di forbici e di rasoi il locale dove si fanno le rasure e passare perfino al bibliotecario la stoffa che gli è necessaria per la rilegatura dei libri. All'avvicinarsi dell'inverno deve cercare di avere pronti in anticipo gli indumenti invernali, e nel distribuirli tener conto delle necessità oggettive di ognuno, provvedendo del necessario anche quelli che per umiltà non osano farne ri­ chiesta. Solo il vestiario può comprare stoffa e a lui dovrà essere consegnata anche quella eventualmente ricevuta in dono ; e sarà lui a giudicare se essa rispetta lo spirito di povertà del­ l'Ordine. È lui che prepara le tonache per i vestiendi e le porta in capitolo per la cerimonia della vestizione, ritirando e conser­ vando i loro vestiti borghesi. Deve avere indumenti sempre pronti anche per gli ospiti che avessero necessità di cam­ biarsi. Ed è infine suo compito proclamare in Capitolo o denun­ ciare al Priore quei frati che si fossero provvisti altrove di in­ dumenti o di scarpe non conformi alle prescrizioni dell'Or­ dine. E il b. Umberto fa notare che è un abuso farsi fare cap­ pe o scapolari più lunghi del prescritto (1, 1 9), o portare pa­ paline (pileoli) preziose.

120

Come si vede, il vestiario aveva il suo da fare ; per cui nei conventi grandi era coadiuvato da conversi e da familiari. Avremmo voluto farci dare dal vestiario maggiori spiega­ zioni circa gli indumenti intimi allora in uso fra i frati e che ci accompagnasse nella non lontana domus dove alcuni religiosi stanno facendosi la rasura. Ma a chieder tanto a un uomo co­ sì indaffarato ci è sembrato inopportuno, per cui rimandia­ mo il discorso alla seconda parte, allorché parleremo dell'a­ bito in un capitolo a parte.

La sartoria La sartoria è il luogo dove alle dipendenze del vestiario lavora il sarto/7 quel frate converso cioè che «conosce l'arte del tagliare e del cucire le stoffe e le pellicce» . Sicome il lavoro non gli manca, potrà farsi aiutare da fa­ miliari ben addestrati ; e d'inverno potrà continuare il suo la­ voro, portandoselo però in clausura, anche durante le ore di buio ; mentre in estate, potrà lavorare anche durante il riposo pomeridiano, restando poi a letto durante il mattutino. Po­ trà lavorare anche nei giorni non di precetto della Chiesa ma che sono festivi solo per usanze locali . Egli dispone di un ampio tavolato (incisorium) dove sten­ de la stoffa da tagliare, e di forme di pergamena o di legno che gli servono da modelli, dopo aver preso le misure del fra­ te o dei frati cui sono destinati, per fare i capi di vestiario uniformi. Quando non ha vestiti nuovi da confezionare, ripari i vecchi, avendo a sua disposizione forbici, aghi, filo e quanto altro gli è necessario .

27

U. , De officio sartoris,

Il, 327-330.

121

La calzoleria

I domenicani da sempre - lo vedremo - hanno portato scarpe. In ogni convento c'era perciò bisogno di un cal­ zolaio, 28 al quale veniva affidata sia la confezione delle scarpe nuove che la riparazione delle vecchie. Gli si raccomandava, che nella confezione di quelle nuo­ ve stesse attento perché per la forma, per la legatura o per al­ tri motivi non avessero alcunché di mondano, ma rispettas­ sero la povertà e l'umiltà dell'Ordine. Gli si raccomandava anche che, pur trattandosi di scarpe alte, non destassero me­ raviglia per la loro eccessiva .altezza. Rientrava nei suoi com­ piti anche quello di ingrassare periodicamente le scarpe di tutti i frati. Nonostante le raccomandazioni a fuggire le mondanità, qualche tentazione a seguire la moda dovette pur entrare an­ che nei conventi, se i Capitoli generali presero l'iniziativa di proibire quelle scarpe che in Francia furono dette à la poulai­ ne, cioè a punta talmente lunga, che i Re dovettero interveni­ re per determinarne la lunghezza in base al ceto e al grado di nobiltà. Il calzolaio doveva avere un suo laboratorio (calzoleria) ; e se questo era posto fuori della clausura, dove cioè egli non avrebbe potuto restare a lavorare dopo l'ora della sua chiusu­ ra, poteva portarsi un po' di materiale in qualche locale adat­ to dentro la clausura, per poter continuare a lavorare, però senza far rumore, anche nelle ore di buio. Se tra i frati non c'era nessuno adatto a questo mestiere, il vestiario poteva affidarne l'incarico a qualche familiare che ne fosse capace e al limite anche a un estraneo, purché venis­ se a lavorare nella calzoleria del convento .

28

U. ,

De officio sutoris,

II. 330-33 1 .

1 22

La sala dei salassi

Avendo sentito dell'esistenza anche di una domus minu­ tionis, ossia di un locale dove si facevano i salassi, ci viene la curiosità di saperne di più. La minutio o salasso è un intervento col quale si sottrae all'organismo un'adeguata quantità di sangue da una vena periferica (ordinariamente dalla vena mediana della piega del gomito). Noto fin dall'antichità, se ne fece un uso inverosi­ mile nel Medio Evo e fino al secolo XVIII, anche con l'appli­ cazione di sanguisughe. E tutti i monasteri lo tennero pre­ sente nei loro regolamenti. Dell'adozione del salasso nei conventi non si conoscono né le origini né le ragioni. Combattere le conseguenze di un regime alimentare squilibrato o di una vita troppo sedenta­ ria ? Ciò significherebbe attribuire al Medio Evo una scienza troppo vicina alla nostra ; e comunque non fu certo questo il motivo che indusse i Domenicani, sottoposti in forza di esse ad astinenze e a duri digiuni, a inserire nelle proprie Costitu­ zioni, prendendolo dalle consuetudini dei Premostratensi, l'obbligo del salasso . Un modo per combattere le tentazioni della carne ? Può darsi, anche se un simile procedimento meccanico è molto contrario allo spirito stesso del voto di castità, fondato sulla volontà e padronanza di sé. E poi, al­ meno nelle Costituzioni domenicane, le poche ore destinate al sonno, la durezza dei digiuni, la perpetuità dell'astinenza dalla carne, dovevano già esserne sufficiente salvaguardia. Comunque, siccome in molti altri Ordini il giorno del salasso era diventato quasi un giorno di festa, in cui ci si po­ teva dispensare dal lavoro e da ogni altra osservanza, l'Ordi­ ne domenicano, pur mantenendone l'uso, ne limitò il nume­ ro e, pur riconoscendo a coloro che lo avevano subito uno speciale trattamento nel cibo, non volle esonerarli dall'asti­ nenza dalle carni (1, 12). Quest'operazione veniva ordinaria-

1 23

mente eseguita dal barbiere che in quell'epoca, e non solo nei conventi, cumulava le funzioni di dentista e di chirurgo. La lavanderia

Nelle antiche consuetudini i monaci lavavano ciascuno la propria biancheria. E di questo parere pare che fosse anche S. Benedetto (Reg. 55, 1 3 ). S. Agostino, invece, nella sua Re­ gola aveva lasciato libertà di scelta : • Le vostre vesti siano la­ vate, secondo quanto stabilirà il superiore, o da voi stessi o dai lavandai,. (Reg. 32). L'Ordine domenicano per ovvi motivi di regolarità e di distribuzione dei compiti, aveva adottato quest'ultima solu­ zione. Per cui, in ogni convento esisteva una lavanderia co­ mune ; ed era un altro dei compiti del vestiario, che egli av­ vertisse in Capitolo del giorno e dell'ora in cui si sarebbe fat­ to il bucato, affinché tutti i religiosi, dopo averla contrasse­ gnata per poterla riconoscere, portassero la propria bianche­ ria sporca in lavanderia. Questa comprendeva una vasca da macero o di prima la­ vatura a freddo, una o più conche di lisciviazione, un'altra vasca per la risciacquatura, uno stenditoio e il locale per la stiratura. Nella vasca di macerazione avveniva l'insaponatura della biancheria e la sua prima lavatura per battimento. Il sapone, fatto con grassi di animali e di vegetali, già noto come co­ smetico fin dall'antichità, dopo che Galeno lo aveva consi­ gliato anche come detersivo era diventato di uso comune. E le città di Marsiglia prima (sec. IX) e poi di Savona (sec. XI) erano diventate appunto celebri per l'industria del sapone. La liscivia (lixivium) che veniva invece usata nella secon­ da fase della lavatura - il cui impiego era ben noto alle nostre casalinghe fino all'avvento delle lavatrici automatiche - era

1 24

un miscuglio di cenere di legna e di acqua bollente, la cui proprietà detergente era dovuta alla potassa contenuta nella cenere sotto forma di carbonato. La lavanderia era sotto la direzione del vestiario ; ma evi­ dentemente per farla funzionare, specie se il convento era grosso, doveva servirsi di non pochi conversi, o familiari, o lavandai (fullones) secolari. Un problema di men facile soluzione doveva invece esse­ re quello del rifornimento dell'acqua in un'epoca in cui, non essendosi ancora sviluppata la tecnica del trasporto dell'ac­ qua in pressione, l'approvvigionamento idrico delle città era fatto quasi esclusivamente con pozzi attingenti acqua dal sottosuolo. Rispetto agli altri conventi, quello di Bologna era stato anche in questo fortunato e lungimirante. Il 28 settembre 1 232, i Benedettini di S. Procolo, con apposito solenne stru­ mento notarile, permettono ai frati di S. Nicolò di scavare un acquedotto attraverso i loro vigneti, situati fuori del fos­ sato e delle mura della città, per avere dal canale Savena (Sa­ venella) tanta acqua quanta «sufficiens pro officinis et horto et domibus costructis et costruendis » . Con questa conces­ sione i Domenicani si assicuravano l'acqua per l'irrigazione dell'orto per tutte le attrezzature del convento. E io ricordo questo canale ancora in funzione negli anni cinquanta, prima che una parte dell'orto dei frati fosse venduta e nell'altra sor­ gesse l'attuale collegio universitario. Gli altri conventi dovevano accontentarsi dei pozzi. E ai pozzi, nonostante il suddetto canale, forse per una maggiore comodità o per avere acqua più sicuramente potabile, fece ri­ corso anche il convento di Bologna, il quale nei primi anni del Trecento, oltre ai due pozzi diciamo così ornamentali scavati nei chiostri, ne aveva almeno altri cinque funzionali, usati cioè per le necessità delle varie domus : uno major, detto anche semplicemente puteum conventus, uno vicino al for-

1 25

no, uno vicino al luogo delle rasure, uno ad uso della canipa e dell,infermeria, e uno appunto per la lavanderia. 29 Quando poi non bastavano neanche i pozzi, si ricorreva alle cisterne : grandi recipienti in muratura, di solito sotterra­ nei, nei quali veniva convogliata dai tetti l'acqua piovana. Per filtrarla e per conservarla in modo che non si alterasse, si ricorreva a due stratagemmi : collocando sul fondo della ci­ sterna uno strato filtrante di carbone minuto, oppure di ghiaia o di sabbia, attingendo poi l'acqua da un pozzo cen­ trale comunicante, in cui l'acqua entrava attraverso appositi fori solo dopo aver attraversato il filtro ; oppure ponendo il filtro lateralmente, in modo che l'acqua dovesse attraversarlo prima di entrare nella cisterna, dalla quale poteva poi essere attinta direttamente. La cisterna era poi sempre munita di uno sfioratoio da cui l'acqua sfogava quando ne superava il livello. E ogni tanto si eseguivano le sostituzioni dei filtri e lo spurgo del fondo. I frati fin da allora avevano cioè già trovata la maniera di rendere potabili le acque sospette. Una grande cisterna come quelle descritte, che raccoglie­ va le acque piovane da tutti i tetti del chiostro, sarà scavata più tardi a Bologna - ed esiste ancora - nel sottosuolo del grande chiostro del Terribilia, ora detto dei carabinieri. L'orto

Non tutti i conventi dell,Ordine erano altrettanto fortu­ nati quanto quello di Bologna da avere a propria disposizio­ ne un grande orto. Ma tutti, dove era stato possibile, aveva­ no cercato di salvarsi un pezzetto di terra, più o meno vasto, con la funzione principale di essere, per quei frati che non

29 R. GIANNINI, 3 1 6,

nota

10.

1 26

essendo predicatori itineranti passavano le loro giornate chiusi in convento, e soprattutto per gli ammalati e gli anzia­ ni, il luogo dove potessero ricrearsi e prendere una boccata d'aria. Perciò il b. Umberto, nel fare le sue raccomandazioni al­ l'ortolano/0 gli ricorda di tener sempre presente questa pri­ maria funzione dell'orto e di conseguenza di non destinarlo tutto a semina e a ortaggi, ma di lasciare anche spazi e vialetti alberati per potervi passeggiare. Dopo questo preavvertimento esorta però l'ortolano an­ che a guardare alla utilità e quindi a piantarvi o a conservarvi soprattutto piante da frutto, o tali che possano tornare anche in altra maniera utili al convento, come ad esempio i salici che danno vimini per legare, le piante da fiori per ornamento dell'altare e - questa non ce l'aspettavamo - roseti per rica­ varne acqua profumata. E queste piante, lui personalmente se è un converso, o mediante i suoi collaboratori se è un chierico e non sa farlo di persona, dovrà innaffiarle, scalzarle, sostenerle, legarle, in­ nestarle, potarle e prestar loro tutte quelle cure che il caso ri­ chiede e l'arte agricola suggerisce. Interessante la lista degli ortaggi da coltivarsi nell'orto, suggerita dal b. Umberto. Dopo quel po' che abbiamo ap­ preso dalla viva voce del cuoco , essa serve a completarci l'i­ dea di che cosa mangiassero i frati domenicani, questi perpe­ tui vegetariani per regola, in un secolo in cui, fra l'altro, due degli alimenti oggi più comuni, le patate e i pomodori, non avevano ancora fatta la loro apparizione in Europa. Apprendiamo, così, che fra gli ortaggi dei quali il con­ vento faceva maggior uso, oltre alle solite cipolle e alle ver­ dure fresche da servire in insalata (olus), c'erano legumi fre-

30

U. , De officio ho rtulani, Il, 333-336.

127

schi (fave e pisellini), porri, carote (pastinacea), rape, agli, zucche, cocomeri, peperoni, ecc. Nell'orto poi non doveva­ no mancare neppure fiori ed erbe aromatiche, quali la salvia e il prezzemolo (petroselinum) o simili, perché adoperate sia per preparare ottimi intingoli e saporite pietanze, sia per uso medicinale. E non è questo l'unico accenno alla terza delle finalità dell'orto : quella di coltivare anche erbe e piante medicinali da servire per la farmacia del convento. Esortando, ad esem­ pio, a coltivare nell'orto anche il finocchio (joeniculum), il b. Umberto non giustifica questa sua esortazione con l'uso che di esso si può fare in cucina - forse perché ai suoi tempi la specie mangereccia di esso, proveniente dalle Azzorre, era ancora poco nota in Europa - ma con l'uso medicinale dei suoi frutti, per il loro contenuto di olio essenziale. Ma su questo argomento dovremo tornare, allorché visi­ tando l'infermeria, daremo un'occhiata anche alla sua farma­ cia, dotata allora quasi esclusivamente di medicine vegetali, delle quali quindi l'orto del convento era ovviamente la pri­ ma fonte. In un angolo dell'orto a Bologna sorgeva poi la cosiddet­ ta domus familiae, destinata ad ospitare i famuli o donati del convento, dei quali avremo occasione di parlare dettagliata­ mente nella seconda parte del nostro lavoro.

1 28

CAPITOLO SETIIMO

L'INFERMERIA

Non possiamo certo chiudere la nostra visita ai locali del convento, senza passare dall'infermeria, sia per compiervi un doveroso atto di carità verso i religiosi anziani e ammalati che vi sono ricoverati, sia per poterei rendere conto del trat­ tamento e delle cure loro riservate. L'infermeria, non solo a Bologna - dove sorgeva dietro il refettorio, nei locali ora occupati da una sezione del Tribu­ nale Civile -, ma in tutti i conventi domenicani del XIII secolo, costituiva un quartiere a parte, riservato, sano, con un suo dormitorio fornito di stanzette chiuse (camerae), di un suo refettorio e molte volte di una sua cucina distinta da quella del convento, autorizzata, contrariamente a quanto prescrivevano le Costituzioni per il resto della comunità, a preparare per gli ammalati anche pietanze a base di carne. Doveva essere dotata di biancheria, di stoviglie e di quan­ to altro era necessario al suo buon funzionamento : tavoli per chi poteva mangiare alzato, sgabelli adatti per i degenti, l' oc­ corrente per potersi lavare piedi e testa e per fare il bagno, olio e candele per l'illuminazione, stufe per il riscaldamento . I servizi igienici dovevano essere comodi e vicini; ma per chi non poteva accedervi, l'infermeria doveva essere provvista di orinali e di selle. Aveva anche un suo chiostro, una sua cappella e un pic­ colo giardino alberato riservato ai convalescenti .

1 29

Già questo ci dice di quante attenzioni dovevano essere oggetto ammalati e anziani in un convento medievale. E se S. Benedetto aveva iniziato nella sua Regola il capitolo riguar­ dante gli infermi con una perentoria affermazione che è già tutta un programma : « lnfirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est» (Reg. 36, l ), il b . Umberto, a sua vol­ ta, commentando quanto S. Agostino analogamente prescri­ veva circa le cure che si devono avere per gli infermi, rivolge­ va ai Domenicani del suo tempo queste esortazioni : « Degli ammalati bisogna avere la massima cura, perché questa è l'o­ pera di misericordia superiore a tutte. Nessuna delle miserie che la misericordia ha per oggetto, colpisce infatti gli uomini in maniera più grave della malattia : non la fame né la sete, non la nudità né la mancanza di un tetto, né la prigione con tutte le sue conseguenze, perché nessuna di queste rende l'uomo così incapace di liberarsene come la malattia. Coloro che hanno fame o sete, che non hanno vestito né dimora o addirittura sono in carcere, possono qualche volta rimediare alla loro situazione anche senza il soccorso di altri perché ad essi sono rimaste almeno le forze fisiche, delle quali invece gli ammalati sono privi totalmente o in parte. Ed è ben diffi­ cile potergliele rendere : più difficile che dare da mangiare a chi ha fame, dar da bere a chi ha sete, vestire chi è nudo, ospitare un estraneo, liberare un carcerato, perché ciò dipen­ de unicamente dalla volontà di �hi ha la possibilità di farlo. La malattia invece, molto spesso non può essere vinta né dal­ la moltitudine dei medici né delle medicine, perché la guari­ gione dipende soltanto da Dio . . . Siccome il no me stesso di misericordia suggerisce di avere a cuore i miseri e di conse­ guenza quelli che lo sono di più, i religiosi devono esercitare questa virtù soprattutto con gli ammalati perché più biso­ gnosi di ogni altro, e devono avere per loro cure e attenzioni speciali » (U . , l, 41 1 ) .

1 30

E se questa cura degli ammalati deve essere un impegno di tutti, lo deve essere primieramente per il Priore, il quale, al dire del b. Umberto, deve essere per loro non solo il pa­ store che si cura della pecorella bisognosa, ma una madre che con le sue premure affettuose deve in qualche modo sostitui­ re in convento quella delicatezza tutta femminile di cui anche un frate quand'è ammalato sente il bisogno. Primo responsabile della cura degli ammalati del conven­ to è perciò il Priore, al quale le Costituzioni, in ottemperan­ za anche a quanto prescrive la Regola di S. Agostino, fanno obbligo di trattarli in maniera tale che «possano ristabilirsi al più presto » (l, 1 1 ) Responsabile immediato della infermeria e di quanti vi vengono accolti è però il capo-infermiere, 31 il quale è sempre un chierico . Deve essere dotato di una pazienza inalterabile di fronte alle molteplici richieste e necessità degli ammalati, essere pieno di comprensione per le loro sofferenze, affet­ tuoso nel parlare, convincente nel consolare, zelante ed esperto nel provvedere, generoso nel concedere il necessario, rigido nel negare quello che non lo è. Agli ammalati faccia visita spesso, si informi del loro stato di salute, se conosce la medicina stabilisca le cure da adottare, altrimenti si attenga a quelle prescritte dal medico, che sarà sua cura chiamare tutte le volte che egli ne vede la necessità. Il pronto soccorso e la cura delle malattie che non pre­ sentano particolari difficoltà restavano comunque compito dell'infermiere, il quale, specie se da molti anni esercitava quell'ufficio, anche se non aveva frequentato corsi di medici­ na, aveva certamente acquisita una certa pratica di malati e di medicine. Per cui ricorrevano a lui con fiducia, senza sentire la necessità di convocare il medico, tutti coloro che a�cusa.

31

U. , De officio infirmarii,

Il, 301 -304.

131

vano i più svariati disturbi e indisposizioni, specie se erano tali da non richiedere il ricovero in infermeria. Ed egli, ricorrendo alla spezieria sempre annessa alla in­ fermeria, sapeva scegliere o preparare il farmaco che, in base alle cognizioni del tempo, veniva reputato adatto. Così, da certe piante che l'ortolano appositamente coltivava e gli for­ niva o che, se esotiche, era autorizzato a procurarsi, l'infer­ miere sapeva ricavare infusi, decotti, sciroppi, vini medicina­ li, pomate, creme, unguenti, impiastri, lozioni, cataplasmi, colluttori, colliri, ecc. , che se non sempre guarivano il male, servivano per lo meno a lenirlo . Da lui, del resto, non si poteva pretendere di più, dato che la medicina si riduceva allora in gran parte a una fitotera­ pia, cioè a una cura delle malattie per mezzo dei vegetali. Non per questo dobbiamo però credere che i suoi medica­ menti fossero del tutto inefficaci. Prima ancora che la Sacra Scrittura avesse affermato che «l'uomo assennato non disprezza i medicamenti della terra» (Sir 3 8,4), l'innata paura degli esseri umani nei confronti del­ le malattie e del dolore aveva stimolato da sempre l'umanità a ricercare e a sfruttare le risorse terapeutiche contenute in cer­ ti vegetali. Ogni popolo si faceva poi cura di trasmettere alle generazioni future le nozioni acquisite, arricchendole via via con nuove scoperte. Erano talora frutto del caso, ma più spesso erano dovute a osservazioni e a ripetute esperienze. Fu così che i greci, e tramite loro i romani, poterono impos­ sessarsi di un patrimonio notevolissimo. Grazie allo stesso Aristotele, che nelle sue opere si era interessato anche di bo­ tanica e di scienze naturali, ma soprattutto attraverso il padre della medicina Ippocrate, attraverso Dioscoride, Plinio il Vecchio e Galeno, tali cognizioni poterono giungere arric­ chite al Medio Evo . E i monaci, che ben maneggiavano i libri greci e latini, furono di questo patrimonio i primi fortunati beneficiari .

1 32

Per lo stesso motivo ne furono certamente beneficiari an­ che i Domenicani. Sicché è da pensare che la spezieria dei lo­ ro conventi a disposizione dell'infermiere, fosse sempre ben fornita di tutti quei medicinali che la scienza dell'epoca, tut­ t'altro che sprovveduta al riguardo, - si pensi anche solo ai precetti che la Scuola salernitana già da qualche secolo dif­ fondeva per il mondo - riteneva giovevoli per la salute degli uomini. E a queste loro spezierie conventuali cominciarono assai presto a rivolgersi anche i laici ; e i Domenicani, anche se questo non era peculiare del loro carisma, per motivi di carità prestarono volentieri alla gente anche questo servizio ; per cui non di rado furono l'inizio di farmacie che, come quella di S. Maria Novella a Firenze, diventeranno famose. Si guardarono però sempre dal trasformarle, come invece avvenne in molte abbazie, in distillerie per fare liquori. Quando gli viene mandato in infermeria un nuovo am­ malato l'infermiere lo deve accogliere caritatevolmente e dol­ cemente, consolarlo e assegnarli un letto e un servitore se­ condo le sue necessità. Se poi è lasciato a lui il decidere dei ri­ coveri, deve prevenire tale necessità senza aspettare che sia l'ammalato a fargliene domanda. Quanto ai già degenti, poteva succedere che l'infermeria per le sue camere più accoglienti, per il suo nutrimento più appetitoso, le sue cure affettuose, la sua minor esigenza di disciplina diventasse un luogo dove certi religiosi desideras­ sero soffermarsi più di quanto la loro malattia richiedesse. In tal caso l'infermiere doveva avvertirne discretamente il Prio­ re. Poteva però succedere anche il contrario : che qualche re­ ligioso troppo mortificato, troppo amante dell'osservanza regolare, desiderasse lasciare l'infermeria prima che le condi­ zioni di salute glielo permettessero. In tal caso l'infermiere, dopo aver interpellato anche il medico, doveva imporgli una degenza più lunga.

1 33

L'infermiere nel suo lavoro è però aiutato, secondo le ne­ cessità, da un certo numero di servitori degli infermi, 32 ossia da frati incaricati del servizio e dell'assistenza agli ammalati, sia di quelli degenti, sia di quelli autosufficienti e che quindi possono consumare i pasti nel refettorio dell'infermeria. In questo secondo caso i servitori si limitano a preparare il refettorio, a dare un segno con l'apposita campanella quan­ do il pranzo è pronto, a intonare le preghiere di benedizione della mensa, a leggere o a dare l'incarico a uno dei ricoverati di leggere durante il pasto, e a servire a tavola, tenendo pre­ sente che non potranno servire carne a tutti indistintamente, ma solo a quelli che per la loro malattia ne hanno avuto il permesso (l, 1 1 ). N el primo caso, invece, tocca a questi servi tori, facendo un turno fra loro, prestare ai degenti una vera assistenza con­ tinuata: devono provvederli di biancheria pulita, rifar loro spesso il letto, aiutarli a lavarsi e a cambiarsi, portare loro l'orinale e la sella quando ne sono richiesti, conservare even­ tualmente le loro orine per farle vedere al medico, sommini­ strare loro le medicine prescritte, aiutarli a mangiare, aver sempre a disposizione qualche bevanda e brodo caldo e, se il caso lo esige, vegliarli di notte. E questo trattamento deve venir esteso anche ai familiari quando sono ammalati, perché anch'essi devono venir tratta­ ti secondo il bisogno e con carità. Anche i non addetti all'infermeria, e soprattutto il Priore (VF. 34 1 , 344 g. ) dovranno fare spesso una breve visita agli ammalati. In tal caso li salutino con dolcezza, li esortino alla pazienza, dicano loro parole consolatorie e, se lo desidera­ no, ascoltino volentieri la loro confessione sacramentale. E spesso gli ammalati, a tranquillità della loro coscienza, ne approfittavano per fare la loro confessione generale.

32

U. , De officio seruitoris infirmorum, II, 304-3 1 0.

1 34

Abituati alle nostre cliniche e ai nostri moderni ospedali, che sono dotati di tanti servizi e di tante attrezzature specia­ lizzate di cui l'uomo del Medio Evo non poteva certo usu­ fruire, da questa nostra visita a una infermeria conventuale del XIII secolo, possiamo forse averne ricavata un'impres­ sione penosa. Certo in quell'epoca la medicina era ancora in fasce, la chirurgia quasi inesistente, i farmaci molto empirici ; e quindi a questo livello ogni paragone con l'epoca nostra è insostenibile. Ma nel campo dell'assistenza, anche se fatta con meno tecnica ma con tanta più carità di oggi, la nostra infermeria del '200 ha innegabilmente tanti punti di vantaggio sulle mo­ derne e sofisticate strutture sanitarie, delle quali noi oggi, pur essendone fieri, siamo un po' schiavi e non possiamo, anche volendolo, liberarci. Quanto più serena doveva essere per un ammalato la de­ genza in una silenziosa cameretta del convento ; quanto più amorosa e premurosa l'assistenza prestatagli non da un prez­ zolato ma da un confratello affettuoso !

PARTE SECONDA

La vita giornaliera dei frati

137

CAPITOLO PRIMO

L'ABITO

L'abito fa il monaco

Fin dal secolo IV si riscontra nella Chiesa l'usanza che i monaci indossassero un abito più o meno caratteristico e dif­ forme da quello usato dai laici del luogo. E il motivo princi­ pale era evidente : quello di distinguersi da loro : «Il vestito scriveva S. Basilio (329-379) - deve corrispondere allo stile di vita proprio di ognuno. Come infatti sono diversi gli abiti del soldato e del senatore, per cui si può capire che uno è se­ natore e l'altro è soldato, così il monaco deve avere il suo ve­ stito, in modo che dal semplice sguardo si possa conoscere che si tratta di un monaco» (PG 3 1 , 979). Il cambiamento di abito era poi segno evidente dalle rot­ tura con la vita secolare e della consacrazione a Dio. Per cui la presa della nuova veste, o per propria scelta, o per imposi­ zione del padre spirituale per gli anacoreti, o dell'abate per i cenobiti, costituì di fatto la più antica forma di professione ; sicché, lo pseudo-Dionigi (c. 500), descrivendo il rito di una vestizione monacale, poteva sottolineare che il cambiamento di abito importava l'abbandono della vecchia vita e il passag­ gio a una nuova e più perfetta (PG 3,531 -535). Contrariamente a quanto afferma un noto proverbio, è perciò dimostrato che già fin dagli inizi l'abito fa il monaco : non nel senso che da solo basti a farlo, ma perché da sempre esso per gli altri è un indice di sacralità che impone rispetto,

1 38

e per chi lo indossa è un richiamo agli impegni assunti e un mezzo ch e lo preserva da quei costumi e dai modi del mondo che egli, con l'assunzione dell'abito monacale, ha inteso ab­ bandonare. Naturalmente, fino a che anche i laici portarono anch'es­ si la tunica e un mantello, l'abito dei monaci non si distinse troppo dal loro. Ma quando essi adottarono i calzoni e la lo­ ro foggia di vestire cominciò ad andare soggetta ai cambia­ menti della moda, l'abito monastico rimase stabilizzato e la differenza divenne più evidente. Quanto alla forma, però, anche fra i monaci di una stessa comunità non si ebbe subito l'uniformità. La stessa Regola di S. Benedetto (480-547), che sarà quella presto universal­ mente abbracciata da tutto il monachesimo dell'occidente, quando enumera (55,4) i capi del vestiario monacale (cocol­ la, scapolare, tunica), pare che non ne faccia un segno distin­ tivo di quello stato ; e quando descrive (58, 26) la presa di un nuovo abito da parte dell'aspirante monaco al momento del­ la professione, sembra voler dare alla cerimonia solo il signi­ ficato di uno spogliamento da tutto ciò che è proprio e non quello di assunzione di una divisa. E anche quanto al colore non doveva esserci ai suoi tempi ancora uniformità, se S. Benedetto dice di non preoccupar­ sene (55, 7). Solo parecchio tempo dopo di lui si raggiunse nei monasteri benedettini una certa uniformità nella foggia ; e per il colore, salvo poche eccezioni, prevalse il nero ; per cui furono chiamati monaci neri, quelli fra di essi che adottarono tale colore, e monaci bianchi le nuove fondazioni riformate (Cistercensi, Camaldolesi, Trappisti, Certosini) che invece introdussero il colore bianco. Anche Gregorio IX, nella sua Bolla di canonizzazione di S. Domenico (3 luglio 1234, in LIPPINI, S. Domenico visto dai suoi contemporanei, 321 -327) , volendo applicare alla storia della Chiesa l e quattro quadri­ ghe previste dal profeta Zaccaria (6, 12), vede l'Ordine bene-

1 39

dettino raffigurato nella quadriga tirata da cavalli neri, e in quella tirata da cavalli bianchi gli Ordini cistercense e quello florense, fondato da Gioacchino da Fiore. Da notare però - per non confondere le due locuzioni che in Inghilterra furono chiamati frati neri (Black-Friars), per il nero colore della cappa, i Domenicani, dalle vicinanze del cui convento prese nome uno dei celebri ponti di Londra. ·

L'abito dei canonici

Ma la professio monastica non fu l'unica nella Chiesa, perché di pari passo con essa era nata e si era sviluppata la

professio canonica.

·

Mentre infatti la prima, sia nella sua forma eremitica che in quella cenobitica, era prevalentemente costituita da laici che si ritiravano dal mondo per servire Dio, la seconda, risa­ lente allo stesso S. Agostino (354-430), che «volle avere con sé nella casa episcopale un monastero di chierici)) (PL 39, 1 570), era invece una forma di vita religiosa i cui membri, in gran parte chierici, si mettevano al servizio spirituale del po­ polo cristiano. Il termine canonico - che si riscontra già in S. Basilio (329-379) e nei decreti del Concilio di Laodicea (344-363ca) ­ originariamente aveva indicato un chierico istituito e vivente secondo i sacri canoni, per distinguerlo dai chierici vagantes, che, secondo l'uso feudale, erano addetti a una cappellania o chiesa privata, senza un vero rapporto col vescovo . Ma col tempo esso venne attribuito quasi per antonomasia a quei chierici che avevano accettato di vivere in comunità presso le cattedrali o altre chiese insigni, osservando una forma di vita regolare che non aveva gran che da invidiare a quella mona­ cale.

1 40

Dell'esistenza di questi raggruppamenti di chierici viven­ ti in comune parla già S. Ambrogio (t 397), che attribuisce a S. Eusebio di Vercelli (t 370) l'averla introdotta nella sua diocesi ; e S. Zenone di Verona (sec. IV) pare vivesse mona­ sticamente insieme ai suoi preti . Molti altri vescovi cercaro­ no di imitarli nel tentativo di riformare il clero . Ricorderemo fra questi i vescovi Martino Bazan (Vescovo di Osma dal 1 1 89 al 120 l ) e il suo successore Diego d'Ace bes, ( 1 20 1 1208) che fondarono appunto a Osma un canonicato di cui fece parte S. Domenico . Si aggiunga che nel secolo XII, per libera iniziativa e non per l'azione dei vescovi, nacquero numerosi, specialmente in Francia, dei veri Ordini di canonici regolari che, come ad esempio il Candido e Canonico Ordine Premostratense, ave­ vano abbracciato, completandone la genericità con statuti particolareggiati propri, la Regola di S. Agostino, perché considerata la più adatta per dei monasteri di sacerdoti aperti al sacro ministero. Orbene, come nel monachesimo per il colore dell'abito prevalse il nero, così fra i canonici si impose generàlmente il bianco, tanto che vennero chiamati canonici bianchi. Più dif­ ficile determinarne la foggia, data la molteplicità e varietà dei monasteri canonicali, non legati fra loro, almeno originaria­ mente, da vincoli giuridici. Generalmente consisteva però in una tonaca bianca, sopra la quale venivano indossati un cap­ puccio, allora di uso comune anche fra i laici, che si allunga­ va sul petto e sul dorso come un piccolo scapolare e, almeno per gli atti liturgici e corali, una cotta, ossia un indumento di lino a maniche larghe, discendente a mezza gamba. Questo per lo meno doveva essere l'abito usato dai cano­ nici di Osma, completato, come si vede nel canonico che se­ gue S. Pietro di Osma in una sculura della sua tomba (1258), da una cappa nera con cappuccio a punta.

141

L'abito domenicano

Questo fu l'abito che S. Domenico portò negli anni della sua permanenza fra i canonici di Osma, ma che portò sicura­ mente anche negli anni della sua predicazione in Francia, continuando egli a essere aggregato a quel canonicato. E quando nell'estate del 1 2 1 5 con le prime vestizioni na­ sceva di fatto il nuovo Ordine dei Frati Predicatori, quei pri­ mi frati è ovvio che assumessero nella foggia e nel colore l'a­ bito portato dal loro padre. Quando poi l'anno seguente, dopo aver adottata la Regola di S. Agostino, a complemento di essa si scelsero degli statuti o consuetudines particolari, non sentirono il bisogno di descrivere in esse la foggia e il co­ lore dell'abito, dati per scontati, ma si limitarono a stabilire che la tonaca doveva scendere fino al collo del piede, mentre la cappa doveva essere più corta (l, 1 9). Si deve forse a questa mancanza di precisazione se l'uni­ formità di colore, avutasi subito per il bianco della tonaca, non si ebbe invece subito per il nero della cappa, che in qual­ che convento per motivi di povertà conservava il colore del panno di stoffa avuto in dono o della lana della pecora da cui era stato ricavato . Di questa mancanza di uniformità, riscon­ trata ancora ai suoi tempi, si lamenta appunto il b. Umberto (U. , Il, 5). Ma presto le ordinanze dei Capitoli vi posero ri­ paro. In ossequio a quanto prescriveva la Regola di S. Agosti­ no : «il vostro abito non sia appariscente e non cercate di pia­ cere per le vesti ma per il contegno » ; e soprattutto sull'esem­ pio e per l'incitamento del loro padre che «Vero amante della povertà usava vesti di poco valore» (Giord. 1 08) e « una tona­ ca poverissima» (Atti 1 7, 27, 32, 38, 42, 47; Atti di Tolosa 3, 4, 6, 13, 1 8), le Consuetudines adottarono invece prescrizio­ ni più precise circa la povertà dell'abito : « La tonaca doveva essere di lana non rasata e, dove questo non fosse stato possi-

1 42

bile, almeno di stoffa volgare (vilis)». La povertà - cui evi­ dentemente si ispirava questa disposizione, essendo allora quello di lana un indumento da poveri - doveva poi venire osservata soprattutto nelle cappe, nella confezione delle qua­ li era più facile eccedere (l, 1 9). Le Costituzioni non ne parlavano, ma l'abito veniva si­ curamente completato da una cinghia stretta ai fianchi . Allu­ de ad essa il b. Umberto quando, descrivendo l'ufficio del vestiario, gli assegna anche il compito di provvedere ai frati i cinctoria (V. , I l , 323) e quando, parlando del maestro dei novizi, gli ricorda di insegnare loro come portare il cingulum sopra la tonaca (ib. 220). E che tale cingolo fosse di cuoio lo afferma esplicitamente uno scrittore anonimo del sec. XIII (QE l, 76). Non molti anni dopo, del resto, Dante Alighieri si serve di questo uso per chiamare i Domenicani corriggieri, in contrapposizione ai Francescani detti, per il cordone che portano, cordiglieri (Par. X l , 1 38). Appesi alla cinghia i frati solevano portare alcuni oggetti di uso immediato o necessari quand'erano in viaggio : una borsetta, il coltello, il fazzoletto, ecc. Ne abbiamo conferma dai Capitoli, costretti a intervenire per proibirne il numero eccessivo o l'eccessiva ricercatezza (MOPH III, 64, 1 05). Da notare che i conversi portavano appesa alla cinghia anche una corona di Pater noster che serviva loro per conteg­ giarne il numero, dato che - come vedremo - essendo essi, ordinariamente analfabeti, sostituivano con una serie di Pa­ ter noster l'ufficio divino cui invece erano tenuti i confratelli chierici. Un Capitolo della Provincia romana proibisce che i grani di tali rosari siano di ambra o di corallo (MOPH XX , 25) ; e un altro proibisce loro di farne dono ai secolari, spe­ cialmente donne (ib. 9), segno che l'uso di questo sistema per contar preghiere, antesignano forse della corona del Ro­ sario, di cui l'Ordine si farà più tardi grande propagatore, stava forse prendendo piede.

1 43

Oggi la corona mariana di quindici poste, a significare che la pia pratica del Rosario è nata, si è sviluppata ed è stata propagata nel mondo dai Frati Predicatori, è divenuta parte integrante della divisa domenicana, annodata alla cinghia sul lato sinistro. Lo scapolare

Questo l'abito dei Frati Predicatori. Si discute però su quando i primi domenicani abbiano deposto l'uso della cotta canonicale per adottare nella loro divisa lo scapolare monacale. Lo scapolare è una striscia di stoffa che scende anterior­ mente e posteriormente dalle spalle sopra la tonaca, con al centro un'apertura per passarvi la testa. Nella sua forma più antica vi era attaccato un cappuccio, che oggi nell'Ordine domenicano si è trasformato in un indumento a parte. L'ori­ gine dello scapolare sembra ricollegarsi alla cuculla, di cui sa­ rebbe una trasformazione : una specie di mantello chiuso, provvisto appunto di cappuccio, usato dagli antichi contadi­ ni italiani, che, essendo molto scomodo per lavorare, fu in un primo tempo aperto ai fianchi a mo' di casula gotica, poi via via ridotto come la pianeta usata in liturgia fino a qualche anno fa, e infine cadde in disuso. Ne avevano però continua­ to a far uso i monaci durante il lavoro, come veste sostitutiva della cocolla, da essi conservata nella sua forma primitiva per il coro. Ma mentre da S. Benedetto lo scapolare era stato consi­ derato un semplice accessorio dell'abito monastico (Reg. 5, 6 ), adottato dall'Ordine domenicano ne divenne parte inte­ grante e addirittura specifica della sua divisa. Come tale, fu arricchito di significati spirituali e di particolari privilegi e in­ dulgenze ; e i religiosi dovevano portarlo giorno e notte. Ve-

1 44

niva considerata una punizione grave venime privati anche solo per qualche giorno. Ne verranno rivestiti in vita anche i Terziari dell'Ordine, e in morte, per averne i benefici spiri­ tuali, anche tanti amici e benefattori di esso. Alla base di tanto culto per questo indumento sta senz'al­ tro la convinzione che fosse stata la Madonna stessa a solleci­ tarne l'adozione. Fonte di questa convinzione pare sia stato il racconto fat­ to da fra Bartolomeo da Trento (1 1 90- 125 1) della miracolosa guarigione del b. Reginaldo d'Orléans, operata a Roma nel 1 2 1 8 dalla Vergine, che egli descrive in questi termini : «Accompagnata da due bellissime ragazze, la Madre della misericordia apparve all'ammalato dicendogli : " Chiedimi quello che vuoi ed io te lo darò " . Nel timore di chiederle co­ sa sgradita, egli stava riflettendo sulla cosa da chiedere, quando una di quelle giovani gli suggerì di rimettersi total­ mente al volere della Signora. Avendolo fatto, la Regina del cielo, con la sua mano verginale gli unse gli occhi, le orec­ chie, le narici, le labbra, le mani, le reni e i piedi con un un­ guento salutare, pronunciando queste parole : " Cingo le tue reni col cingolo della castità e ungo i tuoi piedi perché tu possa andare ad annunciare il Vangelo della pace" . E aggiun­ se : "Tra tre giorni ti porterò l'ampolla della perfetta guari­ gione ". Poi gli mostrò l'abito dell'Ordine, come quello che i frati usano ora, dicendogli : " Ecco l'abito del tuo Ordine " . Finita la visione egli la riferì subito al santo Patriarca (Dome­ nico) e indossò l'abito nella foggia da lui prevista : prima di allora, infatti, i frati usavano la cotta». 1 Quest'ultima affermazione di fra Bartolomeo fu inter­ pretata dagli storici del secolo XIII che lo seguirono nella

1 ASOP 43, 35-43. Traduzione italiana in S. Domenico, il santo, la sua opera, le preghiere, ESD, Bologna 1989, pp. 1 8-32.

1 45

narrazione della miracolosa guang1one del b. Reginaldo (Giacomo da Varazze, Stefano di Salanhac, Teodorico d'A­ polda e soprattutto Bernardo Gui) come se volesse precisare che i Domenicani, che fino ad allora portavano la cotta sopra la tonaca, la sostituissero con lo scapolare a seguito di questo intervento della Madonna. Per cui si radicò nell'Ordine la convinzione che fosse sta­ ta veramente Lei a suggerire l'adozione dello scapolare. Ai critici moderni (Echard, Vic aire) questo cambiamento di abito, e in quella data ( 1 2 1 8), sembra però inverosimile. Se infatti fosse davvero accaduto, resterebbe inspiegabile come di un fatto del genere, non si parli in altri documenti con­ temporanei . Infatti tale cambiamento doveva essere spiegato ai frati degli altri conventi esistenti fuori Roma e avrebbe si­ curamente destato meraviglia negli estranei all'Ordine ; si pensi anche solo ai molti prelati romani coi quali aveva in quei giorni a che fare S. Domenico. Né si capirebbe per qua­ le motivo nel Vitae Fratum, che pur sostiene la tesi che fu la Madonna a volere la fondazione dell'Ordine, non si faccia alcun cenno a ciò ; e tale omissione si riscontra anche nei testi del processo di canonizzazione del santo, anche quando un fra Giovanni di Spagna, ad esempio, parlando della propria vestizione avvenuta nel 1 2 1 6, ne avrebbe ben avuta l'occasio­ ne. E si aggiunga che il b. Giordano di Sassonia (1 1 85-1 237), che è il primo che riporta la visione del b. Reginaldo e affer­ ma di averla appresa dalla viva voce dello stesso S. Domeni­ co, scrive semplicemente che la Madonna «gli mostrò l'inte­ ro abito dell'Ordine», senza affermare che quello fosse di foggia nuova rispetto a quello usato fino allora (Giord. 57). Si aggiunga inoltre che nelle Consuetudines giuridica­ mente approvate nel primo Capitolo generale di Bologna ( 1 220), ma ritenute già in uso fin dal 1 2 1 6, già si parla dello scapolare, prescrivendo che esso non giunga oltre il ginoc­ chio (1, 1 9). E vi si dirà anche che i conversi, che non porta-

1 46

vano la cappa, essendo allora questa riservata ai nobili e al clero, potevano avere oltre a uno scapolare grigio della me­ desima forma e dimensione di quello dei chierici, uno scapo­ lare colorato, lungo e largo, che formava un vero mantello a guisa di casula gotica (Il, 37) . E l'abito che si conserva a Prouille, attribuito a S. Domenico e che risale verosimilmen­ te ai primi anni del suo soggiorno in Francia, è dotato an­ ch'esso di uno scapolare, con cucito il cappuccio, come fu in uso appunto nei primi secoli dell'Ordine, a differenza dell'a­ bito, domenicano attuale, che lo porta staccato. E verosimile perciò che S. Domenico e i suoi frati abbia­ no da sempre portato come abito quello usato dai canonici di Osma, dalle cui file usciva appunto il Santo, vale a dire, la tonaca talare di lana bianca, il cingolo di cuoio, il cappuccio bianco con congiunto lo scapolare e poi la cappa nera con cucito il cappuccio. «Questo abito - affermerà più tardi il Capitolo di Narbonne ( 1 354) dobbiamo portarlo palese­ mente quando siamo in pubblico, come testimonianza della nostra professione» . Per risolvere l'intricata questione l'Echard (QE l , 71-75) aveva prospettato una soluzione di compromesso : che i pri­ mi Domenicani al loro abito già completo di scapolare­ cappuccio aggiungessero la cotta nelle cerimonie corali e che ne avessero smesso l'uso, «per rispetto della Beata Vergine, che apparendo al b. Reginaldo gli aveva mostrato l'abito sen­ za la cotta». Ma la soluzione di questo, ancor oggi, dibattuto proble­ ma sembra quella prospettata dal Prof. Elio Mantovani :2 -

2 E. MANTOVANI, Bartolomeo da Trento, storico di S. Domenico, in «Bartolomeo da Trento, Domenicano e agiografo medievale•, Trento

1 990, pp. 1 09-1 53.

1 47

4(la cotta non fece mai parte dell'abito domenicano stretta­ mente inteso, ma fu solo un'aggiunta, una specie di comple­ mento apportato in un secondo tempo, il cui uso è attestato solo in Francia. La Madonna apparendo al b. Reginaldo gli mostrò perciò l'abito domenicano privo della cotta, mai usa­ ta dai Domenicani in Italia, e completo invece dello scapola­ re-cappuccio. Quanto all'affermazione di fra Bartolomeo, che "prima di allora i frati usavano la cotta", non deve essere intesa nel senso che essi usassero la cotta fino alla visione del beato, ma va riferita ai primi tempi dell'Ordine in Francia. E se ancora ne esisteva l'uso, la visione del b. Reginaldo con­ tribuì certamente alla sua dismissione nei conventi francesi. Ma ciò sarebbe avvenuto senza lasciare traccia nei documen­ ti, dato che in essi l'uso della cotta non era mai stato sanzio­ nato» . Checché ne sia comunque della controversia circa l'anno di adozione dello scapolare, quella descritta, a partire per lo meno dal Capitolo generale di Bologna del t 220, sarà la divisa ufficiale dell'Ordine e che l'Ordine difenderà sem­ pre dalle imitazioni, ottenendo, ad esempio, da Papa lnno­ cenzo IV nel 1244 (BOP I, 1 3 8), poi confermata da Alessan­ dro IV (ib. l, 304 e 380), la proibizione per altri Ordini di adottare abiti confondibili col suo, e specificamente da Papa Alessandro VII che proibisca ai Trinitari, anch'essi vestiti di bianco, di portare la cappa nera (BOP VI, 2 1 8), e da Cle­ mente VIII di interdire agli Agostiniani il color bianco (ib. v, 609) . Quanto ai dettagli, come si è detto, lo scapolare non do­ veva discendere oltre le ginocchia e ad esso era cucito il cap­ puccio : per cui spesso i due termini vengon_o usati indiffe­ rentemente per indicare il tutto. Un cappuccio nero era pure cucito alla cappa. Non si dice nulla della sua forma; ma poi­ ché il cappuccio a punta era allora comune ai Vescovi, ai chierici, ai religiosi, si può pensare che di tal foggia fosse an­ che quello dei Domenicani.

148

L 'abito domenicano (da u n ' antica stampa, Q E l, 1 44 ) . Si notino i l cappuccio a pu nta i ncorporato alla cappa, le scarpe al­ te e la ton s u ra clericale.

1 49

l frati dovevano indossare la cappa quando uscivano dal convento e, nel suo interno, quando si accostavano alla co­ munione o servivano una Messa. Dalla festa di Tutti i Santi ( l novembre) fino a Pasqua (cioè quindi nel periodo inverna­ le) dovevano indossarla anche a tutte le ore canoniche e, do­ ve ce n'era l'uso, anche a tutti gli altri atti comuni, eccettuato . a1 pasti . Per salvaguardare la povertà e l'uniformità, tutti doveva­ no avere tonache, e soprattutto cappe, molto grossolane (vi­ les) e scapolari senza pieghe e orlature. E a questa foggia e colore dell'abito dovevano restare fe­ deli anche i frati assunti a qualche dignità ecclesiastica, alme­ no fino a quanto era concesso dalle leggi ecclesiastiche. A dire il vero, l'Ordine avrebbe preferito che nessuno dei suoi religiosi fosse mai fatto vescovo o cardinale. Sappiamo, infatti, che S. Domenico «due o tre volte era stato eletto ve­ scovo, ma non volle mai accettare (Atti 28, e Atti di Tolosa 3, 2 1 ), pronto a fuggire di notte col suo bastone piuttosto che accettare l'episcopato o qualche altra dignità» (Atti di Tolosa 25). E questo suo atteggiamento si riflette in tutta la prima generazione domenicana, che giustamente vede nell'e­ piscopato un ufficio che strappa il frate dalla sua vita di umil­ tà per immischiarlo in attività amministrative poco confacen­ ti alla povertà da lui professata (VF. 277) . Di questa mentali­ tà è indice la risposta data dal b. Giordano alla notizia che un bravo e santo frate doveva essere fatto vescovo : «Preferirei vederlo nella bara piuttosto che elevato all'episcopato » (VF. 1 70). Ne è indice soprattutto una severissima lettera inviata dal b. Umberto a S. Alberto Magno, quando seppe della sua nomina a Vescovo di Ratisbona, per distoglierlo dall'accet­ tare. 3 .

3

che

A. PuccEITI, S. Alberto Magno, Roma 1 932, p. 1 99-20 1 . Cfr. Mortier, l, 646 e ASOP XVII, 207.

an­

1 50

Ma l'utilità e i desideri della Chiesa prevalsero assai spesso su quelli dell'Ordine ; per cui, prima che si chiudesse il secolo XIII, senza contare le decine e decine di vescovi, si ebbero fra i Domenicani ben 8 cardinali, uno dei quali, Pietro di Taranta­ sia, divenne poi papa nel 1276 col nome di lnnocenzo V, e un altro, Niccolò Boccasini, fu Papa non molti anni dopo ( 1 3031304) col nome di Benedetto XI : ambedue poi decorati col ti­ tolo di beati. Ed è bello vedere questi alti prelati, raffigurati da Tommaso da Modena nel capitolo di S. Nicolò di Treviso, tut­ ti ancora rivestiti del loro abito bianco e nero, portando a di­ stintivo del loro grado unicamente la mitra o il grande cappello rosso cardinalizio. E questa bella consuetudine che i religiosi continuassero anche da vescovi a portare - sia pure impreziosi­ to : ampliores et lanae magis pretiosae - l'abito del loro Ordine è durata fino a che l'Istruzione Ut sive sollicite del 31 marzo 1 969 non ordinò che «i vescovi assunti da Ordini religiosi avessero la veste in tutto uguale a quella degli altri vescovi » (EV 3, 972). Ed è ancor più bello pensare che l'abito bianco - il cosid­ detto abito piano - che oggi portano i papi, lo si deve al fatto che un altro grande papa domenicano, S. Pio V, aveva conti­ nuato a portare anche sul soglio pontificio il bianco abito che aveva portato quando ancora si chiamava fra Michele Ghi­ slieri. Le calzatu re

L'abito dell'Ordine veniva completato da calzature chiuse. In viaggio portava certamente le scarpe S. Domenico, del quale i testi al processo per la sua canonizzazione sono una­ nimi nel riferire che egli quand'era in viaggio dormiva com­ pletamente vestito, togliendosi però i sotulares (Atti 3, 3 1 , 42) e che « andava a piedi scalzi nei tratti di strada fra un pae­ se e l'altro, portandosi personalmente le scarpe, che poi si ri-

151

metteva nell'entrare in paese. E s e qualche volta inciampava in un sasso, abituato com'era a godere sempre delle tribola­ zioni, ne era contento e non si turbava, ma diceva : "Questa è penitenza" » (ib. 27). E l'anonimo cronista del '200 già sopra citato, non senza un pizzico di polemica contro altri religiosi che per motivi di povertà e di penitenza, a differenza dei Do­ menicani, avevano adottato l'uso di andare scalzi, fa notare la superiorità della forma di povertà e penitenza che rifugge all'ostentazione pubblica: «melior est humilitas calceata, quam discalceata superbia. (Meglio un'umiltà calzata che una superbia scalza) » ; e fa notare che gli apostoli non anda­ vano a piedi nudi (Mc 6, 9) e S. Paolo, scrivendo agli Efesini, vuole che il predicatore abbia i piedi calzati per essere pronto a predicare il Vangelo (Ef 6, 1 5). E scarpe chiuse e alte, anche per ottemperare in Francia a un'ordinanza al riguardo del recente Sinodo di Montpellier ( 1 2 1 4), le portarono da sempre i figli di S. Domenico, anche se il Liber consuetudinum non ne fa cenno, in quanto cosa ovvia per loro (Mansi, 22, 945, XXIV). Dovevano essere di cuoio grezzo, cioè non colorato, se rientrava nell'ufficio del calzolaio, come si è visto, ingrassar­ le di quando in quando. E, contrariamente forse all'uso co­ mune, i Domenicani le portavano allacciate. Gli Acta Sanc­ torum, parlando di un personaggio di quest'epoca, fanno in­ fatti notare ch'egli «portava le scarpe alte e allacciate come usano i Predicatori e i Cistercensi» (AS, 4 Maggio, p. 391 ), e la cronaca di Ratisbona riferisce che S. Alberto Magno, dive­ nuto vescovo di quella città, vi era stato soprannominato scarpa allacciata, per il fatto che portava scarpe con stringhe, com'è in uso presso i Frati Predicatori. 4 Tale foggia, eviden• Hune populus ligatum calceum cognominabat eo quod ferret ligatos calceos sicut est mos deftrre Fratribus Praedicatoribus (Chron. Ratisb. , ci­

tata da Mortier l, 1 1 nota l).

1 52

temente, oltre al fatto di essere più comoda per dei predica­ tori obbligati spesso a viaggiare, e sempre a piedi, serviva an­ che a coprire la caviglia. All'interno del convento, quando non si era in presenza di estranei, era però permesso l'uso anche di calzature da ca­ sa. Le Costituzioni fanno esplicita menzione dei socci e delle botae ; e il b. Umberto parla anche di contisiae. Ma non è fa­ cile definirne con esattezza né la materia con cui erano con­ fezionate né la forma. Nel latino classico il soccus era un sandalo leggero, usato soprattutto dalle donne romane e dagli attori comici : donde il nome di soccus alle commedie e allo stile comico . Pare però che nel Medio Evo il termine fosse passato a indicare anche una specie di pantofola di panno, che veniva calzata a piede nudo e alla quale venivano allacciate - come vedremo - le cal­ ze di panno che coprivano la gamba dalla caviglia al ginoc­ chio . E una specie di pantofola invernale, quindi molto alta, pare fosse anche la bota, di cui veniva assolutamente proibito l'uso fuori convento (1, 1 9). Quanto alle contisiae pare, se­ condo il Du Cange, che il termine avesse assunto in Francia il senso generico di velo o di qualsiasi altro ornamento della persona. Ma in Italia doveva invece indicare un tipo di cal­ zatura, se a commento del verso dantesco in cui il poeta af­ ferma che nell'antica Firenze non c'erano donne coritigiate (Par. XV, 1 0 1), i più antichi suoi commentatori spiegano che le contigie erano delle specie di calze, solate col cuoio, usate al tempo di Dante dalle femmine mondane. Anche se ce ne resta dubbia la forma, di calzature doveva certamente trat­ tarsi, se il b. Umberto, trattando dell'ufficio del custode del dormitorio gli assegna anche il compito di raccogliere e ordi­ nare botas et contisias lasciate dai frati in vista davanti al letto (Il, 273); e parlando del vestiario dice che tocca a lui «aver cura di tutto ciò che ha relazione con gli indumenti e le cal­ zature e i loro annessi . . . come sono i sotulares, le contisiae e le botae» (l, 323).

1 53

Le Costituzioni vietavano anche l'uso delle ocreae, che secondo il Du Cange5 erano piccoli otri di pelle per trasporto di liquidi. E la proibizione, se destinata specialmente ai pre­ dicatori, che nei loro viaggi erano più degli altri tentati a par­ tire riforniti di bevande, sarebbe perfettamente comprensibi­ le. Ma più verosimilmente il termine aveva conservato il suo senso classico e indicava una calzatura a forma di stivale. E la proibizione così intesa sarebbe altrettanto comprensibile, ol­ tre che per altre considerazioni, perché questo stivaletto, già in uso presso i romani, nel secolo XIII era divenuto una cal­ zatura di lusso e prevalentemente femminile. La tonsura

Fin dall'antichità il taglio dei capelli era stato segno di sottomissione e di schiavitù e per estensione, sia presso i lati­ ni che nel primo Medio Evo, era passato a designare la presa sotto la propria protezione da parte della persona cui i capelli venivano offerti. Si ignora però fino a che punto questa usanza laica abbia influenzato l'uso della tonsura clericale e monacale. Nei primi tempi della Chiesa non esisteva infatti alcuna forma di tonsura, anche se i capelli corti, in ossequio alla rac­ comandazione di S. Paolo (/ Cor 1 1 , 1 4 ), contraddistingue­ vano di solito sia i chierici che i monaci. Ma dal secolo VI come testimoniano gli affreschi e i mosaici delle basiliche ro­ mane - appare fra i chierici l'uso di tagliarsi i capelli lasciando intorno al capo una corona non rasata : uso che col Concilio di Toledo (633) diventa obbligo generale : «Tutti i chierici . . rasata completamente la parte superiore del capo, lascino -

5

Glossarium mediae et infimae latinitatis, Parigi

1 840.

1 54

nella parte inferiore una corona non rasata, a forma di cer­ chio» (Can. 4 1 , PL 84, 577, b). Questa tonsura, in base ad una supposta positiva ordinazione di S. Pietro, fu poi chia­ mata tonsura di S. Pietro, anche per distinguerla da una for­ ma celtica di tonsura, che prevedeva il taglio dei capelli ante­ riormente da orecchio a orecchio, chiamata tonsura di S. Giovanni, o a Roma, per disprezzo, tonsura di Simon Mago. A differenza dei chierici, pare invece che i monaci avesse­ ro conservato semplicemente l'uso primitivo di tagliarsi i ca­ pelli molto corti ; e quest'uso veniva ordinariamente designa­ to col nome di tonsura di S. Paolo. Adotteranno in un secon­ do tempo la tonsura clericale solo quando anch'essi con l'or­ dinazione entreranno a far parte del clero. Ebbero invece sempre la tonsura clericale i canonici regolari, e fra essi i Pre­ mostratensi, dai quali, anche in ottemperanza a un recente decreto del sinodo di Montpellier, 6 la presero i Domenicani, le cui Costituzioni così la descrivevano : «La parte superiore della rasura non sia troppo ridotta, come conviene a dei reli­ giosi ; ma sia tale che fra essa e le orecchie non ci siano più di tre dita. La tonsura cominci sopra le orecchie» . Veniva fatta in date bene determinate quindici volte all'anno (1, 20). Or­ dinariamente i frati se la facevano fra di loro ; ma si danno ca­ si anche di conventi che si servivano di barbieri laici, regolar­ mente stipendiati. Mentre il clero secolare, nonostante l'opposizione e le sanzioni di molti sinodi, nel corso dei secoli andò via via re­ stringendo la parte rasata fino a ridurla ad un piccolo cer­ chietto alla sommità del capo, gli Ordini religiosi, e fra essi

6 Praecipimus ut canonici regulares amplas coronas portent et monachi amplissimas. ltaque duorum digitorum, ve! trium amplius fit monachis cir­ culus capillorum (Mansi 22, 945, XXIII).

155

quello domenicano, la conservarono nell'antica forma tradi­ zionale, e quindi restò come un distintivo della loro profes­ sione, fino agli anni del Vaticano II.

La barba

Come la tonsura, anche il portare o non portare la barba poteva far parte della divisa di un Ordine ; per cui dobbiamo chiederci se i Domenicani la portavano o no . N el IV secolo, cioè alle origini del monachesimo, i mo­ naci orientali portano tutti ovunque una barba immensa e trascurata, forse per denotare il loro disprezzo delle conven­ zioni sociali, del decoro e delle apparenze, dato che anche in oriente, dove presso tutti quei popoli l'onor del mento era stato sempre gelosament.e difeso, era entrato fra le persone colte e civili l'uso di radersi. E tutt'ora nelle chiese d'oriente la gente non può immaginare un monaco senza barba e ca­ pelli lunghi. Nella Regola di S. Benedetto, anche quando nel capitolo 55 vengono enumerati gli utensili dei quali il monaco deve venir dotato, non si parla mai di forbici e di rasoi ; dal che qualche autore deduce che il santo non approvasse l'uso di radersi, riprovato come segno di vergogna e insulto al Crea­ tore nell'Antico Testamento (Lv 1 9, 27; 2 1 , 5 ; Is 7, 20; Ger 48, 37; Mi 1 , 1 6). Checché ne sia però del suo pensiero, pare che i monaci occidentali non abbiano sentito il fascino della barba e che, almeno a partire dal secolo VIII, si siano tutti generalmente rasati. Tanto è vero, che quando dai monaci di coro si distinsero i conversi e questi nutrirono la barba, furo­ no contrassegnati col nome di fratres barbati. Portarono invece la barba S. Francesco e i suoi compagni (FF. 465, 740, 2285), ma, in un ambiente in cui tutti ormai si

1 56

radevano, più per povertà e disprezzo del mondo che per un legame con l'antico uso monastico. Anche S. Domenico portò certamente la barba. Ne po­ trebbe far fede anche la testimonianza della beata Cecilia: « i suoi capelli e la sua barba tendevano al rosso» (ib 1 5) ; ma lo confermano quasi sicuramente le più antiche raffigurazioni del Santo che ce lo rappresentano con la barba, come, ad esempio le sculture di Nicola Pisano nel sarcofago della sua tomba a Bologna (1 267). Ma il motivo per cui la portava era diverso da quello di S. Francesco : appena data una sistema­ zione al suo Ordine, sarebbe partito per fare il missionario (Atti 1 1 , 12, 32, 43). E siccome le missioni erano allora rivol­ te unicamente verso paesi nei quali, come si è detto, sarebbe stato inconcepibile un sacerdote senza barba, S. Domenico se la coltivava per essere sempre pronto a partire. Ma la portavano anche i suoi frati ? La proibizione di por­ tarla risale solo al 1 546, mentre le prime Costituzioni non ne parlano. Anche in questo caso dobbiamo fidarci delle più antiche rappresentazioni. La tomba di S. Domenico che, come si è detto, raffigura sempre S. Domenico con la barba, ci mostra gli altri frati sempre senza. E la bolla di Onorio III, Ex parte vestra del 1 7 marzo 1 226 (BOP l, 1 7), destinata ai frati mis­ sionari in Marocco, li autorizza a portare la barba : segno evi­ dente che i frati dell'Ordine ordinariamente non la porta­ vano.

Il copricapo

e

i guanti

Siccome i frati, in forza della loro tonsura, avevano la te­ sta rasata, c'è ora da chiedesi se essi, per difendersi dal fred­ do, portassero qualche copricapo.

157

Il loro copricapo per eccellenza era il cappuccio con il quale dovevano sempre ricoprire il capo, sia a tutti gli atti comuni quand'erano in convento, sia durante i viaggi. Ecce­ zionalmente potevano però portare anche un biretus o capel­ lum, che però doveva venir portato sotto il cappuccio e non doveva apparire all'esterno (U. , Il, 22 1 ) A ricoprire la parte superiore rasata della tonsura potevano portare anche un pi­ leolus o zucchetto, come quello che ancor oggi usano i ve­ scovi. Il cappello vero e proprio, a larghe tese - che allora porta­ vano i cavalieri, gli abati, i vescovi e i cardinali per proteg­ gersi dagli ardori del sole - nelle Costituzioni non era con­ templato . Doveva però fare invidia a più di un frate, specie se predicatore, costretto ad affrontare i capricci del tempo durante i suoi viaggi ; sicché non mancò chi ne fece abusiva­ mente uso. Ne è indice il richiamo fatto nel 1 332 dal Capito­ lo generale di Digione (MOPH IV, 2 1 7) . L e Costituzioni domenicane (l, 1 9) proibivano anche l'u­ so dei guanti (chirothecae). Sconosciuti o quasi presso i greci e i romani, se ne era dif­ fuso l'uso con le invasioni dei barbari ; e nel Medio Evo ave­ vano assunto un'enorme importanza, divenendo segno di autorità, di prestigio e simbolo di investitura feudale. Confe­ zionati in seta o in pelle e con ricchi ricami d'oro e d'argento sul dorso, li portavano vescovi, re e imperatori come distin­ tivo del loro grado ; li portavano i dottori, i giudici e in gene­ re tutti i laureati come insegna del loro titolo ; gli studenti universitari ne fanno dono ai loro esaminatori e i reggenti delle università ai visitatori più illustri. Dare un guanto si­ gnificava anche affidare un feudo o una missione di fiducia, mentre gettare un guanto contro qualcuno equivaleva a di­ chiarargli guerra o a sfidarlo a duello. La proibizione di farne uso, nell'Ordine domenicano era perciò evidentemente motivata non da intenti penitenziali ma di lusso.

1 58

Gli indumenti intimi

Abbiamo così descritto qual era e - salvo la leggera modi­ fica del cappuccio ora staccato dallo scapolare - qual è l'abito dell'Ordine domenicano. Tutto sommato, un abito che non manca di estetica. Le Costituzioni (l, 1 9) ne esigevano la povertà ; ma que­ sta non esclude quelle autentiche ricchezze delle quali anche i poveri possono usufruire : la pulizia e il decoro. Il b. Um­ berto, da un lato, commentando la raccomandazione della Regola di S. Agostino «il vostro vestito non sia appariscente e non cercate di piacere per le vesti ma per i costumi ,. esorta a evitarne la preziosità della stoffa, la ricerca dell'eleganza nel taglio, l'affettazione nei particolari, lo sfoggio nel portarlo (1, 236-237) ; ma nello stesso tempo vuole che l'abito sia por­ tato decorosamente e che in esso nulla appaia di disordinato e sconveniente (Il, 323 ss. e 528 ss. ). In altre parole, il Do­ menicano deve essere povero ma non cialtrone : •un frate scalzo, o con le scarpe slacciate o in pantofole, non si presen­ ti per l'ufficio neppure quando questo viene detto fuori del coro» (U. Il, 1 9). Racconta in proposito il Vitae fratrum (Ep . 53), che due Domenicani in viaggio nel nord d'Italia, fecero visita a una pia reclusa che da molto tempo, avendo sentito della nascita del nuovo Ordine dei Frati Predicatori, desiderava vedere qualcuno di loro. Ricevendoli, chiese di quale Ordine fosse­ ro «e quando sentì che erano dell'Ordine dei Predicatori, svanì in lei tutta la stima che aveva avuto precedentemente per l'Ordine, convincendosi che tutto quel bene che aveva udito di esso fosse falso. Vedendoli, infatti, giovani e belli (si erano fatta da poco anche la barba) e molto eleganti nel loro bellissimo abito, li disprezzò in cuor suo, pensando che non avrebbero potuto restar casti, andando in giro per il mondo. (Prima di vederli aveva infatti immaginato ch'essi dovessero

1 59

avere la barba lunga e un aspetto trasandato e discostante, come eremiti nel deserto) . Chiuse perciò la sua finestra, troncando il colloquio». Ma ci pensò la Madonna a rassicu­ rarla quella notte in sogno, mostrandole tutti i Frati Predica­ tori, compresi i due da lei visti, protetti sotto il suo manto. Anche se confezionato con stoffa di poco valore, per la sua foggia e per i suoi colori l'abito domenicano poteva, co­ me si è visto, risultare un abito elegante. Ma ci punge ora la curiosità di sapere cosa portassero quei frati del '200 sotto la loro bella tonaca esteriore. Ecco che cosa prescrivevano le Costituzioni (l, 1 9) : 4