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Italian Pages 878 [439] Year 2015
Dono Prof. Remo Bode!
DELLO STESSO AUTORE
Edmund Husserl
La crisi delle scienze europee
e Iafeaomenalogia trascendentale
L’intera & la parte. L’abiettivisma maderno
Kant e Fidea deliafilasafia tra5cendentale
Ricerche logiche
Metodo fenomenologica statica egenetico Introduzione e cura di Giovanni Piana
ilSaggiatore
Sommario
Introduzione
Prefizzione alla prima edizione (1.900) Prejizzione alla seconda edizione (1913) Prefazione alla «Sesto ricerco» (19.20)
XIX
3 6 13
Prolegomeni a una logica pura Introduzione
19
l. La controversia sulla definizione della logica e sul contenuto delle sue dot— trine 19 — ?.. Necessità di una rinnovata discussione delle questioni di princi— pio 20 — 3. Le questioni controverse. La via da seguire 22
1. La logica come disciplina normativa e in particolare
come disciplina pratica
@ il Saggiatore S.r.l., Milano 2015 Prima edizione il Saggiatore: Milano 1968 Titolo originale: Logische Untersuchangen
4. L’incompletezza teoretica delle scienze particolari 24 — 5. L’integrazione teoretica delle scienze particolari mediante la metafisica e la dottrina della scienza 25 — 6. La possibilità e la legittimità di una logica come dottrina del— la scienza 26 — 7. Continuazione. Le tre più importanti caratteristiche delle fondazioni 29 — 8. Il rapporto tra queste caratteristiche della fondazione e la possibilità della scienza e della dottrina della scienza 31 — 9. i procedimenti metodici nelle scienze sono in parte fondazioni, in parte strumenti ausilia— ri perle fondazioni 33 .- 10. Le idee di «teoria-» e di «scienza:—> come problemi della dottrina della scienza 35 — 11. La logica o dottrina della scienza come disciplina normativa e come tecnologia 36 — 12. Le definizioni della logica che vengono qui in questione 37
24
II. Le discipline teoretiche come fondamenti delle discipline normative 39
to rigoroso di scetticismo 96 — 33. Lo scetticismo in senso metafisico 98 -
54
l?. La controversia sul problema se i fondamenti teoretici essenziali della lo— gica normativa si trovino nella psicologia 54 — 18. La dimostrazione addot— ta dagli psicoiogisti 55 - 19. Gli argomenti usuali della corrente avversa e la loro soluzione psicologistica 55 — 20. Una lacuna nell’argomentazione degli
61
ne 67 — 24. Continuazione ?1
73
25. Il principio di non—contraddizione nell’interpretazione psicologistica di Mill e Spencer 23 — 26. L’interpretazione psicologistica di Mill del principio di non-contraddizione non fornisce una legge ma una proposizione empiriu . ca del tutto vaga e scientificamente non verificata 75 APPENDICE-‘. AI noe ULTIMI aaaaonasr So alcune difiicoltri di principio
IX. La logica e il principio dell’economia del pensiero
27. Obiezioni analoghe contro le altre interpretazioni psicologistiche del principio logico. Le equivocazioni come fonti dell’errore 79 - 28. La prete— sa bilateralità del principio di non—contraddizione, secondo la quale sarebbe a un tempo da intendere come legge naturale del pensiero e legge «norma— le» della sua regolamentazione logica 83 - 29. Continuazione. La teoria di
X. Conclusione delle osservazioni critiche
Sigwart 86
30. Saggi di interpretazione psicologistica delle proposizioni sillogisti— che 90 f 31. Formule inferenziali e formule chimiche 92
153
52. Introduzione 153 — 53. Il carattere teleologico del principio di Mach—Ave— narius e il significato scientifico dell’economia del pensiero 154 — 54. Esposir zione più precisa dei fini legittimi di un’economia del pensiero, soprattutto nella sfera della metodologia puramente deduttiva. Il loro rapporto con la tecnologia logica 156 — 55. L’irrilevanza dell’economia del pensiero in rap— porto alla logica pura e alla teoria della conoscenza e il suo riferirsi alla psicologia 160 — 56. Continuazione. L’iiorepov npòrepov della fondazione economico—mentale della sfera puramente logica 162
deii’empirismo ??
VI. La sillogistica alla luce dello psicologismo. Formule inferenziali e formule chimiche
127
41. Primo pregiudizio 127 — 42. Considerazioni illustrative 130 — 43. Sguar— do retrospettivo sulle contro—argomentazioni idealistiche. Le loro deficien— ze e il loro vero senso 133 — 44. Secondo pregiudizio 135 - 45. Confutazione: anche la matematica pura diventerebbe un ramo della psicologia 136 — 46. Il campo di indagine della logica pura, come quello della matematica pura, e ideale 137 — 47. Argomentazioni che convalidano le tesi esposte in rapporto ai concetti logici fondamentali e al senso dei principi logici 140 — 48. Le diffe— renze decisive 142 49. Terzo pregiudizio. La logica come teoria dell’evidenza 144 - 50. Il mutamento equivalente di forma dei principi logici in principi sulle condizioni ideali dell’evidenza del giudizio. I principi che ne risulta— no non sono psicologici 145 — 51. Ipunti decisivi di questa controversia 149 -
21. Caratterizzazione e confutazione di due conseguenze empiristiche del punto di vista psicologistico 61 — 22. Le leggi del pensiero come presunte leggi naturali che. con la loro azione isolata, causano il pensiero raziona— le 64 - 23. Una terza conseguenza delle psicologismo e la sua confutazio—
V. Le interpretazioni psicologistiche dei principi logici fondamentali
34. Il concetto di relativismo e le sue forme particolari 99 - 35. Critica del relativismo individuale 100 - 36. Critica del relativismo specifico e in particolare dell’antropologismo 100 — 37. Osservazione generale. Il concetto di relativismo in senso ampio 104 — 38. Lo psicologismo in tutte le sue forme & relativismo 105 — 39. L’antropologismo nella logica di Sigwart 106 — 40. L’an— tropologismo nella logica di B. Erdmann 114
VIII. I pregiudizi psicologistici
psicologisti 59
IV. Conseguenze empiristiche dello psicologismo
96
32. Le condizioni ideali della possibilità di una teoria in generale. il concet-
13. La controversia sul carattere pratico della logica 39 - 14. Il concetto di scienza normativa. Il criterio fondamentale o il principio che produce la sua unità 45 - 15. Disciplina normativa e tecnologia 50 — 16. Le discipline teore— tiche come fondamenti delle discipline normative 51
III. Lo psicologismo. i suoi argomenti e la sua posizione nei confronti delle obiezioni usuali
VII. Lo psicologismo come relativismo scettico
90
57. Considerazioni relative ai fraintendimenti più ovvi delle nostre tendenze logiche 166 — 58. Il nostro ricollegarci ai grandi pensatori del passato e anzi— tutto a Kant 167 — 59. Rimandi a Herbart e a Lotze 168 — 60. Rimandi a Lei— bniz 171 — 61. Necessità di ricerche particolari per giustificare l’idea della logica pura dal punto di vista critico-conoscitivo e per realizzarla parzialmente 123 APPENDICE AL (':APITDLO Rimondi o FA. Lange e o B. Bolerom3 124
166
atti 232 — 11. Le distinzioni ideali, e anzitutto la distinzione tra espressione e significato come unità ideali 235 - 12. Continuazione: l’oggettualità espres— sa 237 — 13. Il nesso tra il significato e il riferimento all’oggetto 239 — 14. Il
Xl. L’idea della logica pura 62. L’unità deila scienza. il nesso delie cose e il nesso delle verità 177 — 63. Continuazione. L’unità della teoria 179 — 64. I principi essenziali ed ex—
contenuto come oggetto. come senso riempiente e come senso o significa-
tra—essen ziali che conferiscono unità alla scienza. Scienze astratte, concrete
to ) deve ricollegare alla conoscenza di P,, P,... la conoscenza di 8. In nessun caso accade ciò. Non l’arbitrio o il caso regna sui nessi di fondazione, ma la ragione e l’ordine, e cioè: la legge regolativa. Per chiarire ciò basterà un esempio. Se in un problema matematico, riguardante un certo triangolo ABC, applid chiamo il teorema «un triangolo con lati uguali ha angoli uguali», eseguiamo una fondazione che, resa esplicita, suona: ogni triangolo che ha lati uguali ha angoli uguali; il triangolo ABC ha lati uguali, quindi ha angoli uguali. Ponia— mo ora la seguente fondazione aritmetica: ogni numero del sistema decimale con una cifra finale pari e un numero pari; 364 e un numero del sistema deci— male con una cifra finale pari, perciò è un numero pari. Notiamo subito che queste fondazioni hanno qualcosa in comune, una struttura interna dello stes—
so genere che noi possiamo esprimere con chiarezza nella «forma inferenzia— le»: ogni A e B, X è A, quindi X e B. Questa somiglianza di forma non e propria soltanto di queste due fondazioni, ma di infinite altre. Anzi, la forma inferen— ziale rappresenta un concetto di classe, sotto il quale cade l’infinita moltepli— cità delle connessioni proposizionali che abbiano quella struttura che in essa è concisamente espressa. Al tempo stesso esiste la legge a priori, secondo la qua— le ogni pretesa fondazione, che si sviluppi in conformità a tale forma inferenziale, e realmente giustu solo se deriva da premesse giuste. E ciò vale in generale. Ogni qual volta passiamo fondativamente da cono— scenze date a nuove conoscenze, all’interno del modo di fondazione, vi e una certa forma che essa ha in comune con infinite altre fondazioni e che si tro— va in un certo rapporto con una legge generale mediante la quale è possibile
Prolegomeni a una iogicn puru
31
giustificare direttamente tutte queste singole fondazioni. Nessuna fondazio— ne si trova isolata: questo e il fatto veramente straordinario. Nessuna fondazione collega conoscenza a conoscenza senza che, nel modo esterno della
connessione oppure anche nella struttura interna delle singole proposizioni, trovi espressione un determinato tipo il quale, inteso in concetti generali, ri— conduce immediatamente a una legge generale, che si riferisce a un’infinità di fondazioni possibili. Richiamiamo qui l’attenzione su una terza caratteristica notevole. Inizialmente, cioè prima di aver posto a confronto le fondazioni di scienze diverse, si potrebbe pensare che le forme di fondazione siano vincolate ai campi di conoscenza. Anche se, in generale, con il variare delle classi di oggetti non varia— no anche le fondazioni correlative, potrebbe darsi, tuttavia, che le fondazioni si distinguano nettamente l’una dall’altra secondo certi concetti di classe molto generali, per esempio secondo quei concetti che delimitano il campo del— la scienza. Forse non esiste alcuna forma di fondazione comune a due scienze,
quali la matematica e la chimica? Come già sappiamo dall’esempio preceden— te, anche questo non è vero. Non vi è alcuna scienza nella quale non vengano applicate leggi ai casi singoli., e quindi non si presentino continuamente deduzioni della forma che ci è servita come esempio. Ciò è vero anche per molti al— tri modi inferenziali. Anzi: potremmo dire che tutti gli altri modi inferenziali si possono generalizzare a tal punto e intendere in modo così «puro» da far si che essi perdano ogni essenziale riferimento a un campo di conoscenza con— cretamente delimitato.
8. Il rapporto tra queste caratteristiche dellafondazione e la possibilità della scienza e della dottrina della scienza Queste caratteristiche delle fondazioni, la cui eccezionalità non ci colpisce per— ché siamo troppo poco inclini a considerare problematico tutto ciò che e quo—
tidiano, si trovano chiaramente in rapporto con la possibilità di una scienza e anche di una dottrina della scienza. Da questo punto di vista non basta che vi siano delle fondazioni. Se esse mancassero di una legge e di una forma, se non valesse la verità fondamentale secondo la quale a tutte le fondazioni inerisce una certa «forma» che non è pe— culiare all’inferenza di cui si tratta hic et nunc (sia essa semplice o complessa), ma che è tipica per una intera classe di inferenze la cui correttezza e garantita
appunto da questa forma; se fosse invece vero l’opposto, non vi sarebbe alcuna scienza. Non avrebbe più alcun senso parlare di un metodo, di un progredire
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Ricerche iogiche
secondo regole sistematiche da una conoscenza all’altra: ogni progresso sarebbe casuale. A un certo momento le proposizioni P,, P,. . ., che sono in grado di rendere evidente la proposizione 8, si incontrerebbero accidentalmente nella nostra coscienza e si avrebbe appunto l’evidenza. Dall’effettuazione di una fon— dazione non sarebbe più possibile trarre il minimo insegnamento per il futuro in rapporto a nuove fondazioni di nuova materia; nessuna fondazione avreb— be infatti un certo carattere di esemplarità per altre fondazioni, non incamerebbe in sé un tipo, e pertanto nessun gruppo di giudizi, inteso come sistema di premesse, avrebbe in se’ qualcosa di tipico, tale da imporsi a noi (senza una distinzione concettuale, senza ricorso alla «forma inferenziale-» resa esplici— ta) nei casi nuovi e per «materie» del tutto diverse e da renderci più agevole il conseguimento di nuove conoscenze. Cercare di dimostrare una proposizio—
ne non avrebbe senso. Del resto, come potremmo farlo?“ Dovremmo forse verificare se tutti i possibili gruppi di proposizioni possono essere utilizzati come
premesse della proposizione in questione? Il più intelligente non avrebbe alcun vantaggio sul più stupido ed è dubbio che vi sia qualcosa di essenziale che distingua il primo dal secondo. Una ricca fantasia, molta memoria, capacità
di concentrarsi ecc., sono belle cose, ma acquistano significato intellettuale so— lo in un essere pensante, la cui attività fondativa e inventiva si svolge in con—
formità a una legge. infatti, è in generale vero che in una complessione psichica qualsiasi eser— citano un’azione associativa o riproduttiva non soltanto gli elementi, ma
anche le forme connettive. La forma dei nostri pensieri teorici e della loro connessione può così dimostrarsi utile. Per esempio, se la forma di certe pre— messe fa emergere con particolare facilità la conclusione corrispondente perche in precedenza avevamo attuato con successo un’inferenza della stessa forma, allora anche la forma di una proposizione da dimostrare può richiamare alla memoria certe forme di fondazione che in precedenza avevano pro— dotto conclusioni aventi la stessa forma. Anche se non si tratta di un ricordo chiaro, di un ricordo vero e proprio, si tratta comunque di qualcosa di analogo, di un ricordo per cosi dire latente, di una «stimolazione inconscia» (nel senso di Erdmann); in ogni caso si tratta di qualcosa che si rivela della massi— ma utilità al fine di costruire più agevolmente le dimostrazioni (e questo non soltanto nei campi in cui predominano gli argumenta informa, come nella
matematica). ll pensatore esercitato riesce a compiere dimostrazioni più facilmente di quello inesperto. Perché? Perché i tipi delle dimostrazioni, essendosi radicati in lui sempre più profondamente attraverso un’esperienza continua, operano con maggior facilità, orientando il corso dei suoi pensieri. Entro certi limiti, il pensiero scientifico di qualsiasi specie agisce come pensiero scien—
Proiegomeni e una logica pura
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tifico in generale; ma appunto per questo si può dire che, in una misura e in un ambito particolare, il pensiero matematico sia predisposto specialmente per il campo matematico, quello fisico per il campo fisico ecc. Il primo poggia sull’esistenza di forme tipiche comuni a tutte le scienze, il secondo sull’e— sistenza di altre forme (che possono essere eventualmente caratterizzate come complessioni, con struttura determinata, delle precedenti), le quali si trovano in un rapporto specifico con la specificità delle singole scienze. A questo punto troviamo le qualità che caratterizzano la sensibilità scientifica: l’intuizione anticipante e la capacità di previsione. Noi parliamo di una sensibilità filologica, matematica ecc. Ma chi la possiede? Il filologo (o il matematico) divenu— to esperto in anni di esercizio. Nella natura generale degli oggetti di un certo campo si radicano certe forme di nessi concreti, e queste a loro volta deter— minano tipiche peculiarità delle forme di fondazione che prevalgono in quel campo. Qui si trova la base per le ipotesi anticipanti della scienza. Ogni veri— fica, invenzione o scoperta poggia cosi sulle legalità della forma. Se quindi laforma sottoposta a una regola rende possibile l’esistenza di scienze, d’altro lato l’ampia indipendenza dellnformn rispetto al campo del se— pere rende possibile l’esistenza di una dottrina delle scienze. Se non ci fosse tale indipendenza, vi sarebbero soltanto logiche speciali, reciprocamente co— ordinate e corrispondenti alle singole scienze: non vi sarebbe invece una logica generale. In realtà, noi riteniamo necessarie entrambe le cose: ricerche teore— tico—scientifiche concernenti in ugual modo tutte le scienze e, come loro inte— grazione, ricerche particolari che riguardino la teoria e il metodo delle singole scienze e che tentino di indagare ciò che a esse e peculiare. Cosi, l’aver posto in rilievo caratteristiche che sono emerse dall’osservazio—
ne comparativa delle fondazioni, ci è stato utile al fine di gettare un po’ di luce sulla nostra stessa disciplina, sulla logica come dottrina della scienza.
9. [procedimenti metodici nelle scienze sono in partefondrzzioni, in parte strumenti ausiliari per lefondazioni A questo punto sono necessarie alcune osservazioni ulteriori, anzitutto perché ci siamo limitati a prendere in considerazione unicamente le fondazioni, che tuttavia non esauriscono il concetto di procedimento metodico. Questa prov— visoria restrizione del nostro discorso alle fondazioni e d’altra parte giustifi— cato dalla centrale importanza che va a esse attribuita. Possiamo dire infatti che tutti i metodi scientifici che non posseggono il carattere di reali fondazioni (semplici o complesse fin che si vuole), sono eb-
34
Ricerche iogiche
brevinziorri, compiute in funzione dell’economia del pensiero, e succedanei di fondazioni. che, dopo aver ricevuto essi stessi una volta per tutte senso e valore mediante fondazioni, nella loro applicazione pratica non includono più la portata concettuale evidente delle fondazioni, pur assolvendo indubbiamente la
loro funzione; oppure rappresentano strumenti ausiliari più o meno complessi, che servono a preparare, agevolare, fissare o a rendere possibili fondazioni future e nessuno di essi può pretendere di avere lo stesso valore di questi fondamentali processi scientifici e di essere autonomo rispetto a essi. Per esempio, ricollegandoci al secondo gruppo di metodi a cui si è or ora accennato, per la fissazione delle fondazioni in generale è un’importante esi— genza preliminare che i pensieri vengano espressi in modo adeguato per mez—
zo di segni ben distinguibili e univoci. La lingua offre al pensatore un sistema a cui egli può ampiamente ricorrere per dare espressione ai suoi pensieri; tut— tavia, benché nessuno possa farne a meno, esso rappresenta uno strumento
Proiegomeni a una iogicn pure
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zione di giudizi di esperienza obiettivamente validi, come i molti metodi per la determinazione di una posizione stellare, di una resistenza elettrica, dell’iner— zia di una massa, di un indice di rifrazione, delle costanti di gravità ecc. Ogni metodo di questo genere rappresenta un insieme di accorgimenti, la cui scelta e coordinamento vengono determinati da un nesso fondante il quale dimostra in generale che un certo procedimento, sia pure eseguito ciecamente, deve ne— cessariamente portare a un giudizio singolo obiettivamente valido. Questi esempi possono bastare. È chiaro: ogni progresso reale della conoscenza si compie nella fondazione; a essa si riferiscono perciò tutti gli accorgimenti e gli artifici metodici che sono ancora oggetto — come le fondazioni — della logica. Da questo riferimento essi traggono quel carattere tipico che appartiene per essenza all’idea del metodo. Del resto, proprio in forza di queste tipicità, valgono anche per essi le conside— razioni svolte nel paragrafo precedente.
estremamente imperfetto per una ricerca rigorosa. Le dannose conseguenze
de.lle espressioni equivoche sulla validità delle argomentazioni deduttive sono a tutti note. Lo scienziato prudente non può dunque usare la lingua senza
ricorrere ad accorgimenti tecnici: egli deve definire i termini che usa, quando essi non sono univoci e non posseggono un significato preciso. Nella definizione nominale vediamo dunque un procedimento metodico ausiliario per la fissazione delle fondazioni, che restano i procedimenti primariamente e propria mente teoretici. La stessa cosa accade per la nomenclatura. Brevi e caratteristiche cifre per i concetti più importanti e continuamente ricorrenti — per citare solo un esempio — sono indispensabili ogni qual volta questi concetti possono venire
10. Le idee di «teoria» e di «scienza» come problemi della dottrina della scienza Si rende ancora necessaria un’ulteriore osservazione integrativa. Naturalmenf te la dottrina della scienza, cosi come ci si è presentata finora, non si limita soltanto a indagare le forme e le leggi delle singole fondazioni (e degli strumenti ausiliari a esse coordinati). Del resto, troviamo fondazioni singole anche al di fuori delle scienze, ed è pertanto chiaro che esse — come anche gruppi incoerenti di fondazioni — non costituiscono ancora una scienza. A tal fine, come
espressi. solo in modo estremamente complicato con l’insieme di espressioni già definite di cui si può disporre. infatti le espressioni più complicate, che si compenetrano l’una nell’altra, rendono più difficili le operazioni fondanti, se non addirittura ineseguibili. Da un analogo punto di vista si possono considerare anche i metodi di clas— sificazione ecc. Esempi del primo gruppo di metodi ci vengono offerti dai cosi fecondi rue— todi nlgoritmici, la cui peculiare funzione è quella di risparmiare mediante il coordinamento artificiale di operazioni meccaniche su segni sensibili la maggior parte possibile del lavoro mentale deduttivo vero e pr0prio. Per quanto
abbiamo affermato in precedenza, si richiede un nesso fondante unitario, una certa unità nella stratificazione delle fondazioni; e questa forma unitaria ha essa stessa il proprio significato teleologico superiore per il raggiungimento del fine supremo della conoscenza verso il quale tende ogni scienza: far si che noi avanziamo il più possibile nell’esplorazione deila verità — non tanto delle verità singole, quanto del regno della verità, cioè delle province naturali in cui ta— le regno si articola. La dottrina della scienza avrà dunque anche il. compito di considerare le scienze come iii-titti sistematiche costituite in modi determinati, e cioè di con—
questi metodi possano operare miracoli, essi traggono senso e legittimità so—
ciò che determina la loro reciproca delimitazione, la loro articolazione interf na in campi e in teorie relativamente chiuse, le loro forme e i loro modi essen— zialmente diversi ecc. Si possono anche subordinare queste trame sistematiche di fondazioni al
lo dall’essenza del pensiero fondante. Qui sono da annoverare anche i metodi meccanici nel senso letterale del termine — si pensi agli apparati per l’integra— zione meccanica, alle macchine calcolatrici ecc. —, i procedimenti per la fissa-
siderare ciò che le caratterizza come scienze, dal punto di vista della forma,
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Ricerche iogiche
concetto di metodo, attribuendo così alla dottrina della scienza non soltanto il compito di occuparsi dei metodi del sapere che si presentano nelle scienze, ma di quei metodi che si chiamano essi stessi scienze. Essa non deve soltanto distinguere le fondazioni valide da quelle che non lo sono, ma anche le teorie
e le scienze valide da quelle non valide. Il compito che cosi le viene attribuito non è evidentemente indipendente dal precedente, esso presuppone in larga misura il suo preliminare assolvimento, poiché l’indagine sulle scienze come unità sistematiche non è pensabile senza l’indagine preliminare diretta alle fondazioni. In ogni caso, entrambi ineriscono al concetto di una scienza della scienza come tale.
II. La logica o dottrina della scienza come disciplina normativa e come tecnologia Secondo la precedente discussione, la logica — nel senso finora considerato di dottrina della scienza — si presenta come disciplina normativa. Le scienze so— no creazioni spirituali dirette a un certo fine, e in base a esso debbono dunque essere giudicate. La stessa cosa vale anche per le teorie, per le fondazioni e in generale per tutto ciò che chiamiamo metodo. Perchè una scienza sia vera— mente scienza, un metodo veramente metodo, essi debbono essere conformi al fine a cui tendono. La logica intende indagare ciò che spetta alle vere scien— ze, alle scienze valide come tali, in altre parole ciò che costituisce l’idea della scienza, affinché noi possiamo valutare se le scienze empiricamente esistenti corrispondano alla loro idea, oppure fino a che punto si approssimino a essa, in che cosa la contraddicano ecc. Perciò la logica si presenta come una scienza normativa e si distingue dalla considerazione comparativa della scienza stori— ca, che cerca di comprendere le scienze come prodotti culturali concreti del— le singole epoche secondo le loro peculiarità e aspetti comuni tipici, cercando di chiarirle a partire dalle condizioni del tempo. Infatti, l’essenza della scienza normativa consiste nel fatto che essa fonda proposizioni generali nelle quali, facendo riferimento a un criterio normativo di fondo (per esempio, un’idea o uno scopo supremo), vengono indicate determinate caratteristiche, il cui pos— sesso garantisce l’adeguatezza al criterio oppure costituisce una sua condizione
indispensabile; oppure proposizioni analoghe in cui si considera il caso dell’i— nadeguatezza o viene espressa l’assenza di tali stati di cose. Non che essa debba esibire le caratteristiche generali che indicano come debba essere fatto un oggetto per corrispondere alla norma fondamentale; una disciplina normati— va qualsiasi offre criteri universali non più di quanto la terapia indichi sintomi
Prolegomeni o una logica pere
3?
universali. La dottrina della scienza ci da e può darci soltanto criteri speciali. Nel constatare che questi 0 questi altri metodi, per esempio M,, M,. .. sono
adeguati al fine supremo delle scienze e alla costituzione di fatto dello spirito umano, e a qualsiasi altra cosa che si voglia prendere in considerazione, essa enuncia proposizioni che hanno la forma seguente: «Ogni gruppo di attività spirituali del genere a, B. .. che si sviluppano nella forma di complessione M, (0 M,…) offre un esempio di metodo giusto». Oppure, in modo equivalente: «Qualsiasi procedimento metodico che abbia forma M1 (0 M,. . .) e giusto:->. Se si riuscisse a esibire realmente tutte le proposizioni in se possibili e valide di questo genere o di genere analogo, indubbiamente la disciplina normativa con— terrebbe la regola per valutare qualsiasi metodo in generale, ma sempre soltan— to nella forma di criteri speciali. Là dove la norma fondamentale è uno sc0po o può diventare tale, una di— sciplina normativa, attraverso una naturale estensione dei suoi compiti, dà
origine a una tecnologia. Ciò accade anche in questo caso. Se la dottrina del— la scienza si propone il compito più ampio di indagare sulle condizioni in nostro potere, dalle quali dipende la realizzazione dei metodi validi, e di fornire regole per determinare in che modo possiamo, mediante artifici metodici, im— padronirci della verità, delimitare e costruire le scienze in maniera valida, e
in particolare trovare @ applicare i molteplici metodi che promuovono il lo— ro sviluppo, preservandoci dagli errori sotto tutti questi riguardi, allora essa si trasforma in tecnologie della scienza- Evidentemente quest’ultima include la dottrina normativa della scienza, ed è perciò del tutto pertinente, in forza del suo indubbio valore, estendere in modo corrispondente il concetto di logica definendola come tecnologia.
12. Le definizioni della logica che vengono qui in questione Per quanto la definizione della logica come tecnologia sia privilegiata da tem— po immemorabile, di regola tutti i tentativi di una determinazione più pre— cisa lasciano molto a desiderare. Definizioni come tecnica del giudicare, del dedurre, del conoscere, del pensare (l’art de penser) sono equivoche e comun— que troppo ristrette: per esempio, se nell’ultima definizione citata, ancora og— gi in uso, precisiamo il significato vago del termine «pensare»- riducendolo al concetto del giudizio giusto, la logica verrebbe definita come tecnologia del giudizio giusto. Ma che questa definizione sia troppo ristretta, risulta chiara— mente dal fatto che da essa non è deducibile lo scopo de.lla conoscenza scientifica. Se si dice che lo scopo del pensiero viene adempiuto completamente
38
Ricerche iogiche
soltanto nella scienza, ciò è indubbiamente vero; in questo modo si ammet-
te tuttavia anche che il fine a cui tende la tecnologia in questione non sia pro—
II. Le discipline teoretiche come fondamenti delle discipline normative
priamente il pensiero o il conoscere, ma piuttosto qualcosa rispetto a cui il
pensiero stesso è un mezzo. A proposito delle altre definizioni possono essere sollevati dubbi analo— ghi. Essi permangono anche al fondo dell’obiezione avanzata ancora una volta da Bergmann, secondo la quale noi dovremmo aspettarci dalla tecnologia di un’attività — per esempio, dalla tecnologia della pittura, del canto o dell’equitazione — «che essa mostri ciò che si deve fare per eseguire correttamente
quell’attività, per esempio, come si deve tenere in mano e condurre il pennello nei dipingere, come si deve usare il petto, la gola e la bocca nel cantare, co— me si debbono tirare e allentare le briglie e premere con gli speroni quando si va a cavallo». In questo modo entrerebbero nel campo della logica dottrine che le sono del tutto estranee?L Più vicina alla verità si trova indubbiamente la definizione della logica data da Schleiermacher come tecnologia della conoscenza scientifica. Infatti, all’interno della disciplina così definita si dovrebbe evidentemente considerare soltanto il carattere particolare della conoscenza scientifica e indagare ciò che potrebbe promuoverla, mentre si trascurerebbero le più remote condizioni della pedagogia, dell’igiene ecc., che potrebbero in generale favorire la rea— lizzazione della conoscenza. Tuttavia, nella definizione di Schleiermacher non risulta chiaramente espresso che questa tecnologia deve anche apprestare le regole secondo le quali debbono essere delimitate e costruite le scienze, mentre questo scopo include in se quello della conoscenza scientifica. Idee eccellenti in rapporto alla delimitazione della nostra disciplina si possono trovare nella Wissenschafislehre di Bolzano, ma più nelle indagini critiche preliminari che nella definizione che egli stesso presceglie. Si tratta di una definizione abbastanza strana: la dottrina della scienza (o logica) sarebbe «quella scienza che ci indica come esporre le scienze in manuali rispondenti allo scopo».2
13. La controversia sul carattere pratica della logica La giustificazione della logica come tecnologia è emersa dalle nostre ultime considerazioni con una tale evidenza che potrebbe apparire strano come ab— biano potuto nascere su questo punto delle controversie. Una logica orienta— ta in senso pratico è un postulato irrinunciabile per tutte le scienze, e a cio corrisponde anche il fatto che la logica è storicamente sorta dalle motivazio— ni pratiche dell’esercizio della scienza. Come e noto, ciò accadde in quell’epo— ca eccezionale in cui la scienza greca nascente correva il rischio di soccombere agli attacchi degli scettici e dei soggettivisti, e tutti gli ulteriori successi della scienza dipendevano dalla scoperta di criteri obiettivi della verità che fossero in grado di distruggere l’illusoria parvenza della dialettica sofistica. Tuttavia se, specialmente nei tempi moderni, si e più volte negato alla logi— ca, sotto l’influsso di Kant, il carattere di tecnologia, mentre dalla parte oppo— sta si continuava a ritenere valida questa caratterizzazione, ciò dimostra che la controversia non riguardava soltanto la questione se fosse possibile porre alla logica fini pratici e quindi concepirla come una tecnologia. Kant stesso ha parlato di una logica applicata alla quale spetterebbe la regolamentazione dell’uso dell’intelletto «nelle condizioni accidentali del soggetto, che possono impedire o promuovere questo uso»,1 e dalla quale noi possiamo anche apprendere «ciò che promuove il corretto uso dell’intelletto, i suoi strumenti ausiliari o i mez— zi per evitare le deficienze o gli errori logici».2 E benché egli non pensi che essa possa valere come scienza, come la logica pum,” ritenendo anzi che «in real» tà non dovrebbe chiamarsi logica»;L ognuno ha comunque facoltà di attribui— re alla logica un fine tanto ampio che essa possa comprendere anche la logica
40
Ricerche logiche
applicata, cioè pratica.5 in ogni caso si può discutere — e del resto si è discusso a sufficienza — se sia lecito aspettarsi notevoli benefici, al fine di promuovere il
progresso della conoscenza umana, da una logica intesa come dottrina pratica della scienza; per esempio se, dall’estensione della vecchia logica, che può
servire soltanto a verificare dati già noti, a un’ars inventiva, a una «logica della scoperta», sia realmente lecito ripromettersi rivolgimenti e progressi tanto
grandi come notoriamente aveva creduto Leibniz. Ma questa controversia non riguarda nessun punto che abbia importanza di principio, ed essa viene decisa dalla chiara massima che anche soltanto una modesta probabilità. di promuovere un futuro sviluppo delle scienze giustifica l’elaborazione di una disciplina che tenda a questo scopo, senza contare che le regole così ottenute rappresentano in se stesse un valido arricchimento della conoscenza. La vera e propria questione controversa, che ha una rilevanza di principio, benché: purtroppo non sia ancora stata chiaramente precisata da alcuna parte,
risiede in tutt’altra direzione; essa pone il problema se la definizione della lo— gica come tecnologia colga il suo carattere essenziale. In altre parole, si tratta
di vedere se sia soltanto il punto di vista pratico a fondare la legittimità della logica come disciplina scientifica autonoma, e se dal punto di vista teoretico, per cio che concerne le conoscenze che essa raccoglie, la logica si risolva in puri principi teoretici (e in regole su di essi fondate) che esigono di essere legittima
ti da scienze teoriche altrimenti note, e soprattutto dalla psicologia. In realtà, ciò che vi e di essenziale nella concezione di Kant non risiede nel fatto che egli contesti il carattere pratico della logica, ma che egli ritenga possibile e, dal punto di vista gnoseologico, fondamentale, una certa delimi—
tazione o meglio riduzione della logica, secondo la quale essa e appunto una scienza puramente teoretica, nuova rispetto alle altre scienze note, alla qua— le resta estranea, come alla matematica, ogni idea di una possibile applicazio— ne e che e simile alla matematica anche nel suo essere una disciplina a priori puramente dimostrativa. ’ Secondo la forma che ha assunto in prevalenza la dottrina Opposta, ridu— cendo la logica al suo contenuto teoretico, siamo ricondotti a principi psicolo— gici, grammaticali o di altro genere, e quindi anche ai settori parziali di scienze diversamente delimitate e che hanno per di più il carattere di scienze empiriche; secondo Kant, ci imbattiamo invece ancora in un campo in sé chiuso, au—
tonomo e a priori, di verità teoretica: la logica pura. E evidente che, tra queste teorie, entrano in gioco altri notevoli punti di contrasto, per esempio in rapporto al problema di decidere se la logica deb— ba valere come scienza a priori o empirica, indipendente 0 dipendente, dimostrativa o non dimostrativa. Se evitiamo questa discussione in quanto lontana
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dai nostri interessi immediati, ci resta soltanto la questione già presentata; tra le tesi di una delle due parti in causa, noi ci limitiamo a considerare l’asserzio— ne che al fondo di ogni logica intesa come tecnologia vi e un’autonoma scienza teoretica, una logica «pura», mentre la parte avversa ritiene di poter ascrive— re alle altre scienze teoretiche note tutte le dottrine teoretiche che e possibile constatare nella tecnologia logica. Quest’ultimo punto di vista è già stato vivacemente sostenuto da Benelcef ed e stato chiaramente definito da ].S. Mill, la cui logica ha avuto anche per questo aspetto molta influenza? Sullo stesso terreno si dispone anche l’opera principale del nuovo indirizzo logico in Germania, la logica di Sigwart. Essa afferma decisamente e concisamente: ell compito supremo della logica, quello che esprime la sua vera essenza, e di essere una tecnologia-;».8 Per l’altro punto di vista, troviamo, oltre Kant, in particolare Herbert, e un gran numero di loro seguaci. Del resto in che modo il più estremo empirismo possa accordarsi, per que— sto aspetto, con la concezione kantiana, lo si vede dalla logica di Bain, che pur essendo strutturata come una tecnologia, ammette tuttavia che la logica sia una scienza autonoma, teoretica e astratta — anzi, una scienza simile alla matematica — pretendendo al tempo stesso di comprenderle in se stessa. Secondo Bain, questa disciplina teoretica si fonda sulla psicologia, essa dunque non pre— cede, come vuole Kant, tutte le altre scienze in quanto scienza assolutamente indipendente; eppure è una scienza autonoma e non, come in Mill, una mera somma di capitoli psicologici, determinata dall’intenzione di ottenere regole pratiche per la conoscenza.9 Nelle numerose trattazioni di logica che questo secolo ha conosciuto, il punto differenziale di cui stiamo parlando non viene messo chiaramente in rilievo e neppure accuratamente esaminato. Poiché l’elaborazione della logi— ca come disciplina pratica si accorda indubbiamente con entrambi i punti di vista e di regola viene riconosciuta come utile da entrambe le parti, la contro-
versie sul carattere (essenzialmente) pratico o teoretico della logica è apparsa a molti irrilevante. Costoro non hanno perciò mai chiarita a se stessi la differenza tra i due punti di vista. lo scopo che ci proponiamo non richiede un esame critico delle controversie dei logi— ci più antichi _ se la logica sia un’arte o una scienza, o entrambe e nessuna delle due; oppure, nel secondo caso, se sia una scienza pratica o speculativa, oppure una scienza pratica e speculativa a un tempo. Questo è il giudizio pronunciate da sir William Hamilton su queste controversie e sul loro valore: «Questa controversia. .. e forse una delle più futili nella storia della speculazione. Quanto alla logica, la soluzione di que
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sto problema non ha la minima importanza. Fu in seguito a divergenze di opinioni in rapporto allo scopo e alla natura di questa dottrina che i filosofi si misero a discute— re per stabilire con quale nome essa dovesse essere chiamata. In realtà, la controversia
verteva soltanto su che cosa sia propriamente un’arte, su che cosa sia propriamente una scienza; e secondo i significati attribuiti a questi termini, essi affermavano che la logica era un’arte, oppure una scienza, o entrambe, o nessuna delle due»? Eppure va notato che Hamilton stesso non ha molto approfondito la consistenza e il valore delle controversie e delle distinzioni di cui ci stiamo occupando. Se vi fosse un accordo adeguato in rapporto al modo di trattare la logica e al contenuto delle dottrine che debbono esserle attribuite, il problema se e come i concetti di arte e di scienza appartengano alla sua definizione sarebbe meno rilevante, pur senza risolversi ancora in una mera que— stione di etichette. La controversia sulle definizioni verte in realtà (come abbiamo già spiegato) sulla scienza stessa, e non in quanto essa e un fatto compiuto, ma in quan-
to essa e ancora infieri e per il momento ha solo la pretesa di essere scienza: in questo caso perciò.i problemi, i metodi, le dottrine, in breve, ogni cosa è dubbia. Già ai tem—
pi di Hamilton, e anche molto prima di lui, le differenze relative alla natura essenziale, all’ambito e al modo di trattare la logica erano molto rilevanti. Per convineersene,
basterà confrontare le opere di Hamilton, Bolzano, Mill e Beneke. Da allora tali diffe-
renze non hanno fatto altro che accrescersi. Poniamo insieme Erdmann e Drobisclt, Wundt e Bergmann, Schuppe e Brentano, Sigvvart e Ueberweg': ciò che risulta la una scienza o soltanto un nome? Potremmo giungere a quest’ultima conclusione se non ci
fossero ampi complessi tematici qua e là comuni, anche se non e possibile trovare a]— meno due di questi logici che siano in qualche modo concordi in rapporto alle dottri— ne e persino alle impostazioni problematiche. Ma se a tutto ciò aggiungiamo — cosa su cui abbiamo insistito nell’introduzione — il fatto che le definizioni esprimono soltan— tole convinzioni che si posseggono sui compiti essenziali e sul carattere metodologico della logica e che in questo caso i pregiudizi e gli errori, in una scienza cosi arretrata, possono far deviare fin dall’inizio l’indagine su un falso cammino, allora non si po— trà certo essere d’accordo con Hamilton quando dice: «la soluzione di questo problema non ha la minima importanza».
A confondere ancor più questa situazione, non poco ha contribuito il fatto che anche da parte di logici eminenti come Drobiscb e .Bergrnann, che sostenevano una giustificazione autonoma della logica para, il carattere normativo di questa disciplina sia stato presentato come qualcosa che inerisce per essenza
al suo concetto. La parte avversa trovò in questo un’evidente inconseguenza, anzi una contraddizione. Nel concetto di funzione normativa non è forse im— plicito il rapporto a uno scopo—guida e alle attività a esso coordinate? E scienza normativa non significa perciò esattamente la stessa cosa che tecnologia?
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Il modo in cui Drobisch introduce le sue definizioni e le interpreta offri-— rà di ciò una conferma ulteriore. Nella sua opera logica, che resta ancora oggi preziosa, leggiamo: «Il pensiero può diventare oggetto di un’indagine scientifica da un duplice punto di vista: nella misura in cui è un’attività dello spi— rito, esso può essere indagato secondo le leggi e le condizioni di tale attività;
ma anche nella misura in cui esso, come strumento per l’acquisizione di una conoscenza mediata, può essere usato correttamente o in modo erroneo, conducendo nel primo caso a risultati veri, nel secondo a risultati falsi. Vi sono perciò sia leggi naturali sia leggi normali del pensiero, prescrizioni (norme) secondo le quali esso si deve orientare per condurre a risultati veri. L’indagi— ne delle leggi naturali del pensiero è compito della psicologia, l’accertamento delle sue leggi normali e invece compito della logica».“ E se ciò non bastasse, nella spiegazione che segue leggiamo: «Le leggi normali regolano un’attività sempre secondo un certo scopo». Dalla parte avversa si dirà: non vi e qui nessuna parola che Beneke o Mill non possano sottoscrivere e volgere in proprio favore. Se si ammette l’identi— tà dei concetti di «disciplina normativa» e «tecnologia» e allora naturale che il legame che unifica le verità logiche in una disciplina sarà lo scopo—guida, e non la loro omogeneità intrinseca.” Ma allora è visibilmente assurdo traccia— re alla logica confini tanto ristretti come fa la logica aristotelica tradiziona— le — dal momento che proprio a essa finisce con il ridursi la logica «puta». E assurdo porre alla logica uno scopo e al tempo stesso escludere da essa classi di norme e indagini normative attinenti a esso. I sostenitori della logica pura subiscono perciò ancora il fascino della tradizione; in loro e ancora onnipo— tente lo strano incanto che il vuoto formalismo della logica scolastica ha eser— citato per millenni. Questa la catena delle obiezioni più naturali che sono senz’altro tali da di— stogliere l’interesse attuale da un più preciso esame dei motivi concreti por… tati da grandi e indipendenti pensatori a sostegno di una logica pura come scienza autonoma e che ancora oggi esigono una seria verifica. Nel formulare la sua definizione, l’ottimo Drobisch può essere caduto in un equivoco: ma ciò non dimostra che la sua posizione, cosi come quella del suo maestro e infine quella del primo sostenitore di una logica pura, Kant,” sia fondamentalmen— te falsa. E neppure esclude che dietro la sua definizione imperfetta si celi addirittura un’idea valida e preziosa, che non è riuscita a pervenire a una chiara espressione concettuale. Consideriamo più attentamente il parallelismo tra logica e matematica pura sul quale tanto insistono i sostenitori di una logica pura. Anche le discipline matematiche fondano delle tecnologie. All’arit meti— ca corrisponde l’arte pratica del calcolo, alla geometria l’agrimensura. E inol-
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tre, benché in modo abbastanza diverso, alle scienze teoretiche astratte della natura sono unite delle tecnologie, alla fisica le tecnologie fisiche, alla chimi— ca le tecnologie chimiche. É naturale perciò supporre che anche la logica che si pretende puro abbia il suo senso autentico nel suo essere una disciplina te— oretica astratta che fonda, in modo analogo ai casi indicati, una tecnologia: la logica, appunto, in senso comune, pratico. Ora, nel caso delle tecnologie, ac— cade in genere che per la derivazione delle loro norme la base sia offerta per lo più da una, ma talora anche da numerose discipline teoretiche: cosi anche la logica, intesa come tecnologia, potrebbe dipendere da una pluralità di tali discipline, e quindi possedere nella logica pura uno dei suoi fondamenti, anche se questo sarà il più importante. Se poi si riuscisse a dimostrare anche che le leggi e le forme logiche in senso pregnante appartengono a un ambito teore— ticamente chiuso di verità astratta, il quale non può in alcun modo essere in cluso e ascritto alle discipline teoretiche già definite e delimitate e per questo stesso motivo deve essere assunto come ambito della logica pura in questio— ne, allora si imporrebbe l’ulteriore supposizione che le imperfezioni della definizione di questa disciplina, cosi come l’incapacità di presentarla nella sua purezza e di chiarire il suo rapporto con la logica come tecnologia, abbiano favorito la confusione con questa tecnologia, rendendo possibile la controven sia se la logica debba essere propriamente definita come disciplina teoretica oppure come disciplina pratica. Mentre una corrente guardava alle proposizioni puramente teoretiche e logiche in senso pregnante, l’altra corrente si at— teneva alle discutibili definizioni di questa pretesa scienza teoretica e alla sua attuazione concreta.
In ogni caso non dobbiamo preoccuparci dell’obiezione che si tratti qui di una restaurazione della logica scolastico—aristotelica, che la storia avrebbe già condannata come scarsamente valida. Potrebbe anche risultare che la di— sciplina in questione non abbia affatto un ambito cosi ristretto, e neppure sia cosi povera di problemi profondi come le si rimprovera. La vecchia logica era forse soltanto una realizzazione assai incompleta e confusa dell’idea della lo— gica pura, ma degna comunque di attenzione e ancora valida come un inizio
e un primo approccio. Ci si può inoltre chiedere se il disprezzo verso la logi— ca tradizionale non sia una conseguenza ingiustificata di quello stato d’ani— mo rinascimentale che aveva alla sua base motivazioni che oggi non possono più toccarci. Si puo capire che la lotta storicamente legittima, ma di fatto spes— so incomprensiva contro la scienza scolastica, si sia diretta anzitutto contro la logica come sua dottrina del metodo. Ma il fatto che la logica formale abbia assunto nelle mani della scolastica (specialmente nel periodo della sua degev nerazione) il ca rattere di una falsa metodologia, dimostra forse soltanto che la
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teoria logica (nella misura in cui era già sviluppata) non era stata correttamente compresa dal punto di vista filosofico: la sua utilizzazione pratica intraprese perciò vie erronee, ed essa venne creduta capace di operazioni metodiche che
per sua stessa essenza non era in grado di compiere. Cosi la mistica dei numeri non dimostra nulla in rapporto all’aritmetica. È noto che la polemica logica del Rinascimento era in realtà vuota e improduttiva; in essa si esprimeva la pas— sione, non una vera comprensione. Dovremmo forse lasciarci ancora guidare dai suoi giudizi sprezzanti? Uno spirito teoreticamente creativo come Leibniz,
nel quale l’esuberante impulso riformatore dei Rinascimento si associava alla prudenza scientifica dell’età moderna, non voleva saperne della canea antisco—
lastica. Egli assunse calorosamente le difese dell’ingiuriata logica aristotelica, proprio in quanto gli sembrava che essa dovesse essere estesa e perfezionata. In ogni caso possiamo disinteressarci del rimprovero che la logica pura conduca a una rinnovata ripresa del «vuoto formulismo scolastico», fin quando non saremo venuti in chiaro sul senso e sulla portata della disciplina in que— stione, e cioè sulla legittimità delle tesi che si sono imposte in tutta la loro for… za alla nostra considerazione. Noi intendiamo provare queste tesi, non tanto per cercare di raccogliere e sottoporre ad analisi critica tutti gli argomenti che si sono storicamente pre— sentati in favore dell’una o dell’altra concezione della logica. Non seguendo questa via potremo ridare interesse alla vecchia controversia; mai contrasti di principio che in essa non sono giunti a una vera chiarezza hanno un interes— se loro proprio, che si trova al di sopra dei condizionamenti empirici di coloro che hanno partecipato alla controversia, ed e questo aspetto che noi vogliamo cercare di sviluppare.
14. il concetto di scienza normativa. il criteriofondomentale o ilprincipio che produce la sua unità Cominciamo con il fissare un principio che ha un’importanza decisiva per le nostre ricerche successive: ogni disciplina normativa nonche’ ogni disciplina pratica si fonda su una o più discipline teoretiche, in quanto le sue regole pos— seggono necessariamente un contenuto teoretico distinguibile dall’idea della normatività (dei dovere). A tali discipline teoretiche spetta appunto l’indagine scientifica di questo contenuto. Per chiarire questo punto esaminiamo anzitutto il concetto di scienza nor— mativa in rapporto a quello di scienza teoretica. Le leggi della prima indicano, cosi si dice comunemente, cio che deve essere, anche se forse non è e sotto
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Ricerche iogiche
le condizioni date non può essere; le leggi della seconda indicano invece sem— plicemente ciò che e. Si chiederà che cosa si intende con dover essere di fron— te al semplice essere. Il senso originario del dovere, che si trova in rapporto con un certo deside— rio 0 volere, con una richiesta o un ordine — per esempio: «Mi devi ubbidire»; «X deve venire da me» — è evidentemente troppo ristretto. Come parliamo, in un senso più ampio, di una richiesta per la quale non c’è nessuno che richiede ed eventualmente anche nessuno a cui questa richiesta viene rivolta, cosi spes… so parliamo anche di un dovere, indipendentemente da qualsiasi desiderio o volontà. Quando diciamo: «Un guerriero deve essere valoroso», ciò non significa che noi o qualsiasi altro desideri o voglia, ordini o richieda che un guerriero sia valoroso. Si potrebbe piuttosto pensare che in generale, e cioè in rapporto a ogni guerriero, un desiderio o una richiesta di questo genere sia giustifi— cata; ma anche una simile interpretazione non è del tutto esatta, dal momento che non è affatto necessario fare intervenire qui l’apprezzamento di un desi— derio o di una richiesta. «Un guerriero deve essere valoroso» significa piutto— sto: soltanto un guerriero valoroso è un «buon» guerriero; e ciò implica, poiché il predicato «buono» e «cattivo» dividono fra loro l’estensione del concetto «guerriero», che un guerriero non valoroso sia un «cattivo» guerriero. Proprio perche’ questo giudizio di valore è valido, ha ragione chiunque richieda a un guerriero di essere valoroso; per lo stesso motivo e cosa degna e lodevole che egli lo sia. Le stesse considerazioni valgono per altri esempi. «L’uomo deve pra— ticare l’amore del prossimo», cioè chi trascura questo principio non è più un uomo «buono», e eo ipso un uomo «cattivo» [sotto questo aspetto). «Un dramma non deve essere diviso in episodi» — altrimenti non e un «buon» dramma,
non e una «vera» opera d’arte. In tutti questi casi facciamo dunque dipende— re la nostra valutazione positiva, il riconoscimento di un predicato positivo di valore, da una condizione da soddisfare; il cui mancato soddisfacimento im— plica il predicato negativo corri3pondente. In generale, possiamo porre come identiche, o almeno come equivalenti, le forme: «Un A deve essere B» e «Un A,
che non sia B, è un cattivo A»; oppure: «Soltanto un A che sia B e un buon A». Il termine «buono» ci serve qui naturalmente nel senso molto ampio di cio che è valido in generale; nelle proposizioni concrete corrispondenti alla nostra formula, esso deve essere inteso di volta in volta nel senso particolare delle assunzioni valutativa che giacciono al loro fondo, come utile, bello, morale ecc. Vi sono cosi molteplici modi di parlare del dovere in quanto vi so— no diverse specie di assunzioni valutativa, e quindi di valori, reali o presunti.
Gli enunciati negativi del dovere non sono da interpretare come negazioni degli enunciati affermativi corrispondenti; del resto, anche in senso comune, la
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negazione di una richiesta non ha il valore di un divieto. Affermare che un guer— riero non deve essere vile non significa che sia falso che un guerriero deve essere vile: significa affermare che un guerriero vile e anche un cattivo guerriero. Pertanto le forme «Un A non deve essere B» e «Un A che sia B e in generale un cattivo A» oppure «Soltanto un A che non sia B e un buon A» sono equivalenti. Che il dovere e il non dovere si escludano è una conseguenza logico—formale degli enunciati interpretativi e lo stesso vale per il principio secondo il qua— le i giudizi su un dovere non includono alcuna affermazione su un essere corrispondente. I giudizi di forma normativa, che abbiamo or ora chiaramente esposto, non sono evidentemente gli unici ammissibili come tali, anche quando nell’espres— sione la paroletta «deve» non trova alcun uso. È inessenziale che noi invece di «A deve (o non deve) essere B» diciamo: «È necessario che A sia B (oppure A non può essere anche B)». Cio che importa è il rimando a entrambe le nuove forme «Non è necessario che A sia B» e «A può anche essere B», che sono an-
titetiche alle precedenti. Quindi, «non e necessario» e la negazione di «deve» o — che è lo stesso — di «e necessario»; «può anche» la negazione di «non de— ve» o —- che è lo stesso — di « non può. .. anche». Ciò è chiaramente visibile dai giudizi interpretativi di valore: «Non è necessario che un A sia B» : «Un A, che non sia B, non è per questo ancora un cattivo A». «Un A può anche essere B» : «Un A, che sia B, non e per questo ancora un cattivo A».“ A questo proposito dobbiamo tuttavia aggiungere nuove proposizioni. Per
esempio: «Perché un A sia un buon A, basta (oppure non basta) sia B». Mentre le precedenti proposizioni riguardano le condizioni necessarie qualsiasi per l’affermazione o la negazione di predicati positivi o negativi di valore, nelle propo— sizioni in questione si tratta invece di condizioni suficienti. Altre proposizioni ancora intendono esprimere condizioni necessarie e sufficienti a un tempo. Con ciò le forme essenziali delle proposizioni normative generali dovrebbe— ro essere esaurite; a esse corrispondono naturalmente anche forme di giudizi particolari e individuali di valore che non aggiungono all’analisi alcun elemento di rilievo e da cui comunque, dato lo scopo che ci proponiamo, possiamo prescindere; essi si trovano sempre in rapporto, prossimo o remoto, con certe generalità normative e possono presentarsi nelle discipline astratte normative solo come esempi, sostenendosi sulle generalità. che li regolano. Tali discipline si mantengono generalmente al di là di qualsiasi esistenza individuale. Le loro generalità sono «puramente concettuali»: hanno il carattere di leggi nel sen— so autentico del termine. Da queste analisi noi ricaviamo che ogni proposizione normativa presuppone un certo genere di assunzione valutativa [stima, apprezzamento), da cui
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Ricerche logiche
deriva, in rapporto a una certa classe di oggetti, il concetto di «buono» (va— lore) e «cattivo» (non valore), in senso determinato; in base a questa assunzione valutativa, gli oggetti si distinguono perciò in buoni e cattivi. Per poter pronunciare il giudizio normativo «un guerriero deve essere valoroso», debbo avere un concetto qualsiasi di «buon» guerriero, e questo concetto non puo fondarsi in una definizione nominale arbitraria, ma soltanto in un’assunzio-
ne valutativa generale che consenta di apprezzare il guerriero ora come buo— no ora come cattivo, in base a queste o a quelle qualità. Dal momento che qui cerchiamo soltanto di determinare il senso delle proposizioni concernenti il dovere, non ci importa sapere se questo apprezzamento sia «oggettivamente valido» in un senso qualsiasi o no, se in generale si debba porre una differen— za tra ciò che è «buono» soggettivamente e oggettivamente. È sufficiente che si assume qualcosa come valido, che si compia un’intenzione il cui contenuto sia l’affermazione che qualcosa e buono o valido. Se viceversa sul fondamento di una certa assunzione valutativa generale, si fissa una coppia di predicati di valore per la classe corrispondente, diventa— no allora possibili i giudizi normativi; tutte le forme di proposizioni normative ricevono il loro senso determinato. Per esempio, ogni attributo costitutivo dello A «buono» dà origine a una proposizione della forma «Un A deve essere B»; un attributo B’ incompatibile con B dà. origine alla proposizione: «Un A non può (non deve) essere anche B’» ecc. Infine, per ciò che concerne il concetto di giudizio normativo, in base alle nostre analisi, lo possiamo descrivere come segue: in rapporto a un’assunzio— ne valutativa generale che si trova al suo fondo e al contenuto cosi determinato della correlativa coppia di predicati di valore, ogni proposizione che esprima le condizioni necessarie o sufficienti, o necessarie e sufficienti, per il posses— so di un simile predicato viene detta proposizione normativa. Se, mediante un apprezzamento valutativo, abbiamo stabilito una differenza tra «buono» e «cattivo», in un senso determinato e quindi anche all’interno di una sfera determinata, siamo allora naturalmente interessati a definire in quali circostan— ze, in base a quali qualità interne 0 esterne, si possa accertare l’essere buono o
l’essere cattivo in questo senso; quali qualità non possono mancare per conferire ancora il valore «buono» a un oggetto di quella sfera ecc. Di solito, quando parliamo di buono e cattivo, intendiamo anche, in una valutazione comparativa, stabilire differenze tra migliore e peggiore, tra l’ottimo e il pessimo. Se buono è il piacere, allora tra due piaceri, il migliore sarà quello più intenso e anche quello più duraturo. Se per noi «buona» è la conoscenza, allora non ogni conoscenza varrà per noi come «ugualmente buona». Apprezzererno di più la conoscenza delle leggi generali che quella dei fatti
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singolari. La conoscenza delle leggi generali — per esempio, «ogni equazio— ne di grado n ha n radici» — sarà da noi maggiormente apprezzata della co— noscenza delle leggi Speciali a esse subordinate — «ogni equazione di quarto grado ha quattro radici». in rapporto ai predicati relativi di valore sorgono cosi questioni normative analoghe a quelle concernenti i predicati assoluti di valore. Se il contenuto costitutivo di ciò che deve essere valutato come buo— no — oppure come cattivo — è fissato, si chiede allora che cosa debba valere costitutivamente come migliore o peggiore, in una valutazione comparativa;
quindi, in particolare, quali siano le condizioni prossime o remote, necessarie o sufficienti, dei predicati relativi che determinano costitutivamente il contenuto del migliore — oppure del peggiore r, e infine di ciò che e relativa; mente ottimo. I contenuti costitutivi dei predicati positivi e relativi di valore sono, per cosi dire, le unità di misura in base alle quali valutiamo gli oggetd ti della sfera corrispondente. Evidentemente la totalità di queste norme forma un gruppo in sé chiuso che è determinato dall’assunzione valutativa fondamentale. La proposizione normativa che impone agli oggetti di una sfera di adeguarsi il più possibile ai caratteri costitutivi del predicato positivo di valore, occupa una posizione pre— minente in ogni gruppo di norme e può essere indicata come norma fonda— mentale. Per esempio, nel gruppo di proposizioni normative di cui e costituita l’etica di Kant, questo ruolo e svolto dell’imperativo categorico. Lo stesso si dica per il principio della «maggiore felicità possibile del maggior numero pos— sibile» dell’etica utilitaristica. La norma fondamentale e il correlato della definizione del «buono» e del «migliore» nel senso in questione; essa indica secondo quale criteriofonda— mentoie (vnlorefi3ndornentoie) debba essere compiuta ogni operazione norma— tiva, e non rappresenta perciò una proposizione normativa in senso proprio. Il
rapporto che intercorre tra la norma fondamentale e le proposizioni propria— mente normative e analogo a quello intercorrente tra le cosiddette definizioni della serie numerica e i teoremi sui rapporti numerici nell’aritmetica, che rimandano sempre a esse. Anche qui si potrebbe caratterizzare la norma fonda— mentale come «definizione» dei concetto normativo di «buono» — per esempio, del buono morale: ma in tal caso si dovrebbe naturalmente abbandonare il comune concetto logico di definizione. Se ci proponiamo lo scopo di indagare scientificamente, in rapporto a una siffatta definizione, e quindi a una valutazione generale fondamentale, la to— talità deile proposizioni normative nella loro connessione, sorge allora l’idea di una disciplina normativo. Ogni disciplina di questo genere e quindi univocamente caratterizzata dalla sua norma fondamentale, e cioè dalla definizio—
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ne di cio che in essa deve valere come «buono». Se, per esempio, il «buono» e per noi rappresentato dalla produzione e dalla conservazione, dall’aumento e dall’intensifìcazione del piacere, allora cercheremo di sapere quali oggetti eccitino il piacere, quali circostanze soggettive e oggettive operino in questo senso, e in generale quali siano le condizioni necessarie e sufficienti per otte— nere il piacere, per conservarlo, per aumentarlo ecc. Questi interrogativi, assunti come fini ultimi di una disciplina scientifica, generano una dottrina
edonistica. Si tratta dell’etica normativa nel senso degli edonisti. La valutazione dell’eccitazione del piacere rappresenta qui la norma fonda mentale che determina l’unità della disciplina e la distingue da ogni altra disciplina nor— mativa. in questo modo ogni disciplina di questo genere ha la sua propria norma fondamentale, e questa costituisce ogni volta il principio unificante
della disciplina normativa. Questo riferimento centrale di t.utte le ricerche a un’assunzione valutativa fondamentale come fonte di un interesse dominante dell’operare normativo, manca invece nelle discipline teoretiche. L’unità delle loro indagini e la coordinazione delle loro conoscenze vengono determina— te esclusivamente dall’interesse teoretico, il quale è orientato verso l’indagine
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essere giudicata l’adeguatezza al concetto generale dello scopo da realizzare, al possesso degli attributi che caratterizzano la relativa classe di valori. Inveru samente, ogni disciplina normativa nella quale l’assunzione valutativa fonda— mentale si trasforma in una posizione corrispondente di scopo si estende sino a comprendere una tecnologia.
16. Le discipline teoretiche comefondnmenti delle discipline normative Ora è facile comprendere che ogni disciplina normativa, e o fortiori ogni di— sciplina pratica, presuppone come fondamento una o più discipline teoretiche, nel senso cioè che essa deve possedere una consistenza teoretica che può essere separata da qualsiasi funzione norm ativa e che ha come tale la propria naturale localizzazione in scienze teoretiche già definite oppure ancora da costituire. Come abbiamo visto, la norma fondamentale (cioè il valore fondamentale, il fine ultimo) determina l’unità della disciplina; ed è essa che introduce in
di cio che si trova intrinsecamente (cioè dal punto di vista teoretico, in forza
tutte le sue proposizioni normative l’idea della normatività. Ma oltre a que— sta idea comune della commisurazione alla norma fondamentale, ognuna di
dell’interna legalità delle cose) in un rapporto di reciproca inerenza e che va
queste proposizioni possiede un proprio contenuto teoretico che va distinto
normativa, che egli anzi arriva a elaborare. Infatti, egli non lascia affatto cadere le distinzioni morali di valore. — La tecnologia rappresenta quel caso pa r— ticolare di disciplina normativa nel quale la norma fondamentale consiste nel
da quello di ogni altra. Ogni proposizione esprime l’idea di un rapporto di commisurazione tra la norma e cio che viene regolato normativamente; ma se facciamo astrazione dall’interesse alla valutazione, questo stesso rapporto si caratterizza oggettivamente come un rapporto tra condizione e condizio— nato, che nella proposizione normativa corrispondente si presenta come sussistente o non sussistente. Cosi ogni proposizione normativa della forma «Un A deve essere Bn include la proposizione teoretica «Soltanto un A che sia B ha le qualità Cs», dove con C intendiamo il contenuto costitutivo del predicato normativo «buono» [per esempio, il piacere, la conoscenza, in breve ciò che è caratterizzato appunto come buono, all’interno di un certo ambito, dall’as— sunzione valutativa fondamentale). La nuova proposizione e una proposizione puramente teoretica, essa non contiene più nulla che concerna l’idea della normatività. lnversamente, se una proposizione qualsiasi di quest’ultima for— ma è valido e se si aggiunge, come qualcosa di nuovo, un’assunzione valutativa di C, in modo tale da esigere che si stabilisca, rispetto a esso, un rapporto
raggiungimento di un generale scopo pratico. Evidentemente, in questo mo-
normativo, allora la proposizione teoretica assume la forma normativa: «Sol—
perciò indagato in questo suo rapporto.
15. Disciplina normativa e tecnologia Naturalmente, noi siamo dominati da un interesse normativo soprattutto nel caso degli oggetti reali (reni) come oggetti di valutazioni pro tiche; di qui l’in negabile inclinazione a identificare il concetto di disciplina normativa con quello di disciplina pratica, di tecnologia. Ma non e difficile rendersi conto che que— sta identificazione non regge. Per Schopenhauer, che, coerentemente con la sua teoria del carattere innato, rifiuta per principio qualsiasi moralizzare pra— tico, non c’è alcuna. etica intesa come tecnologia, bensi un’etica come scienza
do ogni tecnologia include una disciplina normativa, che non è tuttavia una
disciplina pratica. ll suo compito presuppone infatti che sia stato assolto un compito più ristretto, e cioè anzitutto, prescindendo da tutto ciò che si riferì… sce al raggiungimento pratico, quello di fissare norme, in base alle qu ali possa
tanto un A che sia un B e un buon A», cioè: «Un A deve essere B». Perciù, persino nei nessi teoretici di idee possono intervenire proposizioni normative: in tali nessi, l’interesse teoretico attribuisce valore al sussistere di uno stato di
cose (per esempio al fatto che un certo triangolo da determinare ha_lati ugda 1.-w "!
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Ricerche logiche
li) e a esso commisura stati di cose di altro genere [per esempio, l’uguaglianza degli angoli: se il triangolo deve [sollenl avere lati uguali, avrà necessariamente [maîssen] anche angoli uguali).
Nelle scienze teoretiche, tuttavia, questa riformulazione e qualcosa di provvisorio e di secondario, perche': l’intenzione ultima e qui diretta sul nesso au— tonomo, sul nesso teoretico delle cose; i risultati non vengono perciò intesi in forma normativa, ma nelle forme del nesso oggettivo, in questo caso nella for— ma di un principio generale (generell). È ora chiaro che i rapporti teoretici che si nascondono, secondo quanto si e detto, nelle proposizioni delle scienze normative debbono avere la propria lo— calizzazione logica in certe scienze teoretiche. Quindi, se la scienza normativa deve meritare il suo nome, se essa deve indagare scientificamente le relazioni intercorrenti tra gli stati di cose che debbono essere regolati normativamente e la norma fondamentale, allora deve studiare il nucleo teorico costitutivo di queste relazioni, e penetrare perciò nelle sfere delle scienze teoretiche corrispondenti. In altre parole: ogni disciplina normativa richiede la conoscenza di certe verità non normative; ma essa le trae da certe scienze teoretiche oppu— re le ottiene applicando le proposizioni tratte da esse alle costellazioni di casi che l’interesse normativo determina. Ciò vale naturalmente anche per il caso più speciale della tecnologia, ed evidentemente in misura anche maggiore. Le conoscenze teoretiche che cosi si aggiungono debbono offrire la base e i mez—
zi per una fruttuosa realizzazione degli scopi. A proposito di ciò che segue, dobbiamo aggiungere un’ulteriore osservazione. Naturalmente queste scienze teoretiche possono partecipare in diversa
misura alla fondazione scientifica e alla formazione della disciplina normativa corrispondente; inoltre la loro importanza per essa può essere maggiore o minore. Può accadere che, per soddisfare gli interessi di una disciplina nor— mativa, si richieda in primo luogo la conoscenza di certe classi di nessi teoretici e che quindi sia senz’altro determinante lo sviluppo e la messa a fuoco del campo teoretico del sapere al quale esse appartengono al fine di rendere possi— bile una disciplina normativa. D’altro lato, può anche darsi che certe classi di conoscenze teoretiche, nonostante la loro indubbia utilità e la loro eventuale rilevanza, restino d’importanza secondaria, in quanto il loro venir meno implicherebbe una riduzione del campo di questa disciplina, ma non la sua totale soppressione. Si pensi, per esempio, al rapporto tra etica normativa e etica pratica.15 Tutte le proposizioni che si riferiscono alla possibilità di realizzazione pratica non toccano l’ambito delle mere norme della valutazione etica. Se queste norme vengono meno, oppure se vengono meno le conoscenze teoreti—
che che sono al loro fondo, non vi e in generale alcuna etica; se vengono meno
Prolegomeni a una logica pura
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le prime proposizioni, allora viene a cadere unicamente la possibilità di una praxis etica, cioè di una tecnologia dell’agire morale. In rapporto a siffatte distinzioni deve ora essere compreso il discorso sui fondamenti teoretici essenziali di una scienza normativa. Pensiamo qui alle scienze teoretiche assolutamente essenziali per la sua edificazione, e anche ai relativi gruppi di proposizioni teoretiche che hanno un’importanza decisiva in rapporto alla possibilità di una disciplina normativa.
Proiegorneni a una iogica para
lll. Lo psicologismo, i suoi argomenti e la sua posizione
nei confronti delle obiezioni usuali
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me una parte dal tutto, dall’altro come l’arte dalla scienza. Essa è debitrice di tutte le sue basi teoretiche alla psicologia e include in se quel tanto di questa scienza che si richiede per fondare le regole della tecnica».1 Stando a Lipps si direbbe an— zi che la logica vada inserita nella psicologia come una sua parte pura e semplice. lnfatti, egli dice: «Proprio il fatto che la logica e una disciplina particolare della psicologia, distingue a sufficienza e con chiarezza la prima dalla SÉCÙIÎdH>>.È
18. La dimostrazione addotta dagli psicologist? Se chiediamo in che modo venga giustificata una simile concezione, ci viene pre— sentata un’argomentazione estremamente plausibile, che sembra fin dall’inizio tagliar corto con ogni discussione ulteriore. Comunque si definisca la tecnologia logica — come tecnologia del pensare, giudicare, inferire, conoscere, dimostrare,
12 La controversia salproblema se ifondarneriti teoretici essenziali della logica normativa si trovino nella psicologia Se riferiamo alla logica intesa come disciplina normativa le conclusioni generali dell’ultimo capitolo, si pone come primo e più importante punto interrogati— vo: quali scienze teoretiche offrono i fondamenti essenziali della dottrina della scienza? E a esso si aggiunge immediatamente il secondo interrogativo: %: giusto affermare che le verità teoretiche che noi troviamo trattate nel quadro della lo— gica tradizionale e moderna, e anzitutto quelle verità che appartengono al suo
fondamento essenziale, sono teoreticamente localizzate all’interno di scienze già delimitate e che si sono già sviluppate in maniera autonoma? Ci imbattiamo qui nella controversia intorno al rapporto tra psicologia e logica; infatti, un indirizzo che proprio nel nostro tempo e dominante ha già pronta
una risposta agli interrogativi avanzati: i fondamenti teoretici essenziali si trova— no nella psicologia; al campo della psicologia appartengono, quanto al loro statoto teoretico, le proposizioni che danno alla logica la sua caratteristica impronta.
La logica si riferisce alla psicologia come un ramo qualsiasi della tecnologia chimica si riferisce alla chimica, l’agrimensura alla geometria ecc. Per questa corn rente non vi è alcun motivo che richieda la delimitazione di una nuova scienza teoretica, e in particolare di una scienza che debba meritare il nome di logica in senso stretto e pregnante. Non di rado si parla anzi della psicologia, come se essa offrisse alla tecnologia logica il suo unico fondamento teoretico. Cosi leggiamo nello scritto polemico di. Mill contro Hamilton: «La logica non è una scienza separata dalla psicologia e a essa coordinata, nella misura in cui è una scienza, essa è una parte o una branca della psicologia, che da essa si distingue, da un lato, co-
sapere, oppure come tecnologia dell’uso dell’intelletto nel perseguimento della verità, nella valutazione dei fondamenti della dimostrazione ecc. — troviamo sem—
pre attività o prodotti psichici in quanto oggetti della regolamentazione pratica. E poiché in generale l’elaborazione tecnica di una materia presuppone la conoscenza delle sue qualità, cosi dovrà accadere anche in questo caso che concerne, in particolare, una materia psicologica. L’indagine scientifica delle regole secondo le quali essa deve essere elaborata ricondurrà ovviamente all’indagine scienti— fica delle sue qualità: la psicologia, e in particolare la psicologia de.lla conoscenza," offre quindi il fondamento teoretico per l’edificazione di una tecnologia logica. Per avere una conferma di ciò basterà gettare uno sguardo sul contenuto delle opere di logica. Di che cosa trattano continuamente tali opere? Di concetti, giu— dizi, inferenze, deduzioni, induzioni, definizioni, classificazioni ecc. — tutto ciò
e psicologia, soltanto che viene scelto e ordinato secondo punti di vista norma— tivi e pratici. Per quanto si possano restringere i confini della logica pura, non si potrà mai eludere la componente psicologica. Essa si cela già nei concetti che so… no costitutivi delle leggi logiche, come verità e falsità, affermazione e negazione, universalità e particolarità, premessa e conseguenza ecc.
19. Gli argomenti astrali della corrente avversa e la loro soluzione psicologistica Abbastanza stranamente la tendenza opposta crede di poter fondare la netta separazione tra le due discipline proprio riferendosi al carattere normativo della logica. La psicologia, si dice, considera il pensiero come esso e, la logica come
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Ricerche logiche
deve essere. La prima ha a che fare con le leggi naturali, la seconda con le leg— gi «normali» del pensiero. Cosi si legge nella elaborazione di liische delle le— zioni kantiane sulla logica: «Alcuni logici presuppongono principi psicologici nella logica. Ma introdurre simili principi nella logica e tanto assurdo quanto derivare la morale dalla vita. Traendo i principi dalla psicologia, cioè dalle osservazioni condotte sul nostro intelletto, noi vedremmo soltanto in che modo il pensiero procede e i molteplici ostacoli e condizioni soggettive sotto cui es-
so si trova: ma giungeremmo cosi soltanto alla conoscenza di leggi meramente accidentali. Nella logica invece il problema non e delle leggi occidentali, ma di quelle necessarie, non di come noi pensiamo, ma di come dobbiamo pensare. Le regole della logica non debbono perciò essere tratte dall’uso eccideniuie del— la ragione, ma da quello necessario, che si trova in se stesso al di fuori di ogni psicologia. Nella logica, non vogliamo sapere come l’intelletto e o come pensa, e neppure come finora esso è proceduto nel pensiero, ma piuttosto: in che modo
esso dovrebbe procedere. Essa ci deve insegnare l’uso corretto, cioè in se stes— so concordante, dell’intelletto».5 Una posizione analoga assume Herbart quando, contro la logica del suo tempo e «le pretese storie psicologiche dell’intelletto e della ragione da cui essa prende l’avvio», obietta che questo errore non e me— no grave di quello in cui incorrerebbe una teoria morale che iniziasse da una storia naturale delle inclinazioni, impulsi e debolezze umane; e anche quando, per fondare questa differenza, si richiama al carattere normativo della logica, alla logica come etica.G Simili argomentazioni non mettono affatto in imbarazzo i logici psicolo— gisti. Essi rispondono: l’uso necessario dell’intelletto è appunto un uso necessario, e appartiene con l’intelletto stesso alla psicologia. il pensiero come dovrebbe essere è soltanto un caso speciale del pensiero come esso e. Certo, la psicologia deve indagare le leggi naturali del pensiero, quindi le leggi re— lative a tutti i giudizi in generale, veri o falsi. Ma sarebbe assurdo interpre—
tare questa frase come se appartenessero alla psicologia solo quelle leggi che si riferiscono nel modo più generale e comprensivo a tutti i giudizi, mentre le leggi speciali del giudicare, come le leggi del giudicare corretto dovessero essere escluse dal suo campo.? Oppure si e di altra opinione? Si intende forse negare che le leggi normali del pensiero abbiano il carattere di leggi psico— logiche Speciali in questo senso? Anche questo non è possibile. Le leggi nor— mali del pensiero vogliono, si dice, indicare soltanto come si deve procedere, posto che si voglia pensare correttamente. «Noi pensiamo correttamente, in
senso materiale, se pensiamo le cose come esse sono. Ma quando diciamo che le cose stanno cosi, sono certe o dubbie, ciò significa che, data la natura della nostra mente, non possiamo pensarle in nessun altro modo se non in questo.
Prolegomeni a una iogico puru
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Non e infatti necessario ripetere cio che e stato detto e ridetto sino alla sa— zietà: ovviamente nessuna cosa può essere pensata da noi oppure essere og— getto del nostro conoscere, cosi come essa e, indipendentemente dal modo
in cui possiamo pensarla, e quindi chi mette a confronto le proprie idee sul— le cose con le cose stesse, in realtà puo commisurare soltanto il suo pensiero accidentale, che si trova sotto l’influenza dell’abitudine e della tradizione, della propensione e dell’avversione, a quel pensiero che, libero da questi influssi, obbedisce soltanto alla voce della propria legalità.
«Ma poiché le regole secondo le quali si deve procedere per pensare corret— tamente non sono altro che regole secondo le quali si deve pensare cosi come è richiesto dalla struttura e dalla peculiare legalità del pensiero, possiamo di— re, in breve, che esse sono identiche alle sue leggi naturali. La logica e una fisica del pensiero oppure e nulla.»8 A questo punto gli antipsicologisti forse obietteranno:g certamente, i diversi generi di rappresentazioni, di giudizi, di inferenze, come fenomeni e di— sposizioni psichiche appartengono anche alla psicologia, mala psicologia ha in rapporto a essi un compito diverso da quello della logica. Entrambe ine dagano le leggi di queste attività; ma «legge» significa per l’una e per l’altra qualcosa di totalmente diverso. La psicologia ha il compito di rintracciare le leggi del nesso reale dei processi di coscienza nei loro rapporti reciproci e in rapporto alle disposizioni psichiche e ai processi corrispondenti dell’organi— smo corporeo. «Legge» significa qui una formula sintetica per una connes-
sione necessaria e priva di eccezioni nella coesistenza e nella successione. Il nesso &: di natura causale. Nettamente diverso eil compito della logica. Essa non chiede quali siano le origini causali e le conseguenze delle attività intellettuali, ma quale sia il loro contenuto di verità. Essa chiede in che modo tali attività. siano costituite e debbono svolgersi affinché i giudizi risultanti siano veri. Giudizi giusti e giudizi falsi, evidenti e ciechi, si avvicendano secondo leggi naturali, come tutti i fenomeni psichici; anch’essi hanno i loro antece— denti e i loro conseguenti causali. Ma questi nessi naturali non interessano il logico: egli cerca nessi ideali che non sempre, anzi soltanto in via eccezionale, trova realizzati nel decorso di fatto del pensare. Non una fisica, ma un’etica e il suo scopo. A ragione perciò sottolinea Sigwart: nella considerazione psicologico del pensiero «l’opposizione tra vero e falso non perde qualsiasi funzione... e analogamente l’opposizione tra bene e male nell’agire umano non è di natura psicologicm.” Noi non possiamo accontentarci - risponderanno gli psicologisti — di que? ste mezze spiegazioni. Certo, la logica ha un compito del tutto diverso dalla psicologia. Nessuno intende negarlo. Essa è, infatti, tecnologia deila conoscen-
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Ricerche logiche
za; ma come può prescindere dai nessi causali, come può cercare nessi ideali senza studiare quelli naturali? «Come se ogni dovere non si fondasse necessa— riamente su un essere e ogni etica .non fosse al tempo stesso una fisical>>“ «La questione di che cosa si dovrebbe fare è sempre riconducibile alla questione di che cosa sarebbe necessario fare per raggiungere un determinato fine; e a sua volta questa questione è equivalente a quella del modo in cui il fine viene di fa tto raggiunto:-r” «Se nella psicologia, a differenza della logica, la opposizione tra vero e falso non viene presa in considerazione, cio non può significare che la psicologia spacci come uguali questi due dati di fatto psichici, diversi l’uno dall’altro, ma soltanto che essa li rende entrambi in ugual modo comprensibi— li.»13 Pertanto, dal punto di vista teoretico, la logica si riferisce alla psicologia come una pa rte alliintero. Il suo fine particolare e quello di produrre proposi… zioni della forma: proprio cosi e non altrimenti — in generale o in circostanze determinatamente caratterizzate — le attività intellettuali si debbono formare, ordinare e riunire, affinché i giudizi risultanti ottengano il carattere dell’evi— denza, della conoscenza nel senso pregnante della parola. Si può cogliere qui la relazione causale. Il carattere psicologico dell’evidenza e un risultato causale di certi antecedenti. Qual è la sua natura? Questo appunto bisogna indagare.” Non ha ottenuto maggiore successo nel tentativo di far vacillare la corrente psicologistica il seguente argomento, tanto spesso ripetuto: la logica, si dice, può tanto poco fondarsi sulla psicologia come su qualsiasi altra scienza. Poi— che ogni scienza e scienza soltanto se si trova in armonia con le regole della logica, essa presuppone la loro validità. Quando si vuole fondare la logica an— zitutto sulla psicologia si cade perciò in un circolo vizioso.E5
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uno scienziato può costruire dimostrazioni senza ricorrere alla logica; quindi le leggi logiche possono non essere state le loro premesse. E se ciò e vero per le singole dimostrazioni, e vero anche per le scienze nella loro interezza.
20. Una lacune nell’argomenfazfone degli psicologistf Con questi argomenti 0 con altri analoghi, gli antipsicologisti sembrano inne— gabilmente aver perduto terreno. Per non pochi questa controversia e senz’altro risolta: essi ritengono che le risposte della corrente psicologistica siano assolu— tamente decisive. Comunque, una cosa dovrebbe destare la meraviglia dei filo—— sofi, e cioè il fatto stesso che vi fu e ancora perdu ra una controversia e che sono state continuamente ripresentate le medesime argomentazioni, senza che si sia
mai ammessa la perentorietà delle repliche a esse rivolte. Se tutto fosse così piano e chiaro come la corrente psicologistica assicura, questa situazione non sa— rebbe affatto comprensibile, tanto più che nella corrente avversa vi sono anche pensatori penetranti, molto seri e privi di pregiudizi. Forse la verità si trova ancora una volta nel mezzo, forse ognuna delle correnti ha colto un frammen— to di verità, dimostrandosi tuttavia incapace di darne una precisa definizione
concettuale e di concepirlo appunto soltanto come un frammento? Forse ne— gli argomenti degli antipsicologisti — nonostante le molte inesattezze e oscuri— tà particolari che hanno offerto il destro a obiezioni — vi e ancora qualcosa di irrisolto, forse essi posseggono ancora una forza autentica, che continua a im—
porsi non appena ci accingiamo a un esame senza pregiudizi? Da parte mia,
Dalla parte opposta si risponderà: che questa argomentazione non sia giu—
sarei incline a dare a questo interrogativo una risposta affermativa: mi sembra
sta, risulta chiaramente già dal fatto che da essa dovrebbe conseguire l’impos— sibilità della logica in generale. La logica co.me scienza dovrebbe essa stessa procedere logicamente, e perciò cadrebbe nel medesimo circolo; essa dovreb— be fondare la validità delle regole che contemporaneamente presuppone.
anzi che la maggior parte della verità si trovi dal lato antipsicologistico, sol— tanto che le idee decisive non hanno ottenuto il dovuto rilievo e sono offusca— te da molti elementi privi di validità. Ritorniamo al problema prima sollevato intorno ai fondamenti teoreti— ci essenziali della logica normativa. Si può dire che esso sia realmente risol« to dall’argomentazione degli psicologisti? Notiamo in essa immediatamente un punto debole. L’argomento ha dimostrato soltanto che la psicologia parte— cipe alla fondazione della logica: ma non che essa partecipa a tale fondazione da solo o anche soltanto in modo privilegiato, e neppure che essa fornisca alla logica ilfondernento essenziale nel senso da noi definito (@ 1.6). Resta aperta la possibilità che unialtra scienza, e forse in misura molto maggiore, contri— buisca alla sua fondazione. E qui può trovare posto quella «logica pura» che, secondo la corrente avversa, deve esistere indipendentemente da ogni psico— logia come scienza in se conclusa e naturalmente delimitata. Non abbiamo
Ma vediamo più da vicino in che cosa propriamente consista questo circo-
lo. Forse nel fatto che la psicologia presuppone le leggi logiche come valide? Si badi tuttavia che nel concetto di presupposto e presente un equivoco. Quan; do si afferma che una scienza presuppone la validità di certe regole, si vuol dire che esse sono premesse per le sue fondazioni oppure anche che esse sono regole conformemente alle quali questa scienza deve procedere per essere in generale una scienza. L’argomento citato confonde le due cose, come se fosse lo stesso operare inferenze secondo regole logiche e e partire da esse: il circolo infatti sussisterebbe solo se si operassero inferenze a partire da esse. Ma come molti artisti creano opere belle senza avere la minima nozione di estetica, cosi
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Ricerche logiche
difficoltà ad ammettere che ciò che e stato elaborato sotto il titolo di «logi— ca pura» dai kantiani e dagli herbartiani non corrisponde del tutto al carattere che avrebbe dovuto esserle proprio secondo le aspettative suscitate. Ovunque essi parlano di leggi normative del pensiero, e in particolare della
IV. Conseguenze empiristiche dello psicologismo
formazione del concetto, del giudizio ecc. — dimostrazione sufficiente, si po—
trebbe dire, del fatto che questa materia non e teoretica, e neppure & estranea alla psicologia. Tuttavia, questa difficoltà perderebbe la sua forza se a un esa— me più attento si confermasse l’ipotesi che in precedenza si era imposta alla nostra attenzione (@ 13), che quelle scuole non furono felici nella definizione
e nella costruzione della disciplina in questione, ma a essa si approssimaro— no nella misura in cui notarono nella logica tradizionale un insieme di verità teoreticamente omogenee che non potevano essere attribuite alla psicologia,
né a qualsiasi altra scienza particolare e che perciò facevano pensare a un regno autonomo di verità.. E si trattava proprio di quelle verità a cui, in ultima analisi, si riferisce qualsiasi regolamentazione logica: a esse dunque si sarebbe dovuto pensare in primo luogo, quando il discorso cadeva sulle verità lo— giche. Si sarebbe così potuto giungere facilmente a scorgere in esse l’aspetto essenziale della logica nella sua interezza e a indicare la loro unità teoretica con il nome di «logica pura». Che cosi stiano in realtà le cose, e ciò che spe— ro di riuscire a dimostrare.
21. Corotterizznzione e confutazione di due conseguenze empiristiche delpnnto di visto psicologistico Poniamoci provvisoriamente sul terreno della logica psicologistica e suppo— niamo dunque che i fondamenti teoretici essenziali delle prescrizioni logiche si trovino nella psicologia. Comunque venga definita questa disciplina — come scienza dei fenomeni psichici, o come scienza dei fatti della coscienza, dei fat— ti dell’esperienza interna, dei vissuti nella loro dipendenza dai individui che li vivono, o in qualsiasi altro modo — si e tuttavia unanimi nel ritenere che la psicologia sia una scienza di dati di fatto e perciò una scienza fondata sull’esperienza. E non corriamo il rischio di contraddirci nemmeno se aggiungiamo che la psicologia manca finora di leggi autentiche (echt) e cioè esatte, e che le proposizioni che essa stessa onora con il nome di leggi, pur essendo indubbiamente preziose, sono soltanto vaghe1 generalizzazioni dell’esperienza, enuncia— ti concernenti regolarità approssimative della coesistenza o della successione che non pretendono affatto di fissare con infallibile e univoca determinatezza che cosa debba sussistere o verificarsi in circostanze esattamente circoscrit— te. Si considerino, per esempio, le leggi relative alle associazioni delle idee cui la psicologia associazionistica ha potuto accordare la posizione e il significato di leggi psicologiche fondamentali. Non appena si cerca di formulare in mo— do adeguato il loro senso empiricamente giustificato, esse perdono immediau tamente il loro preteso carattere di leggi. Premesso ciò, derivano per il logico psicologista le conseguenze senz’altro discutibili che seguono. in primo luogo. Su basi teoretiche vaghe possono fondarsi solo regole vaghe. Se le leggi psicologiche mancano di esattezza, lo stesso varrà anche per le
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Ricerche logiche
prescrizioni logiche. Ora, è indubbio che molte di queste prescrizioni siano af— fette da elementi empirici vaghi. Ma proprio le cosiddette leggi logiche in senso pregnante che, come abbiamo in precedenza riconosciuto, costituiscono, in quanto leggi delle fondazioni, il nucleo vero e proprio di ogni logica — i «principi» logici, le leggi della sillogistica, le leggi delle molteplici modalità inferen—
Prolegomeni o una logica puro
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logiche sarebbero allora soltanto «approssimazioni» alle leggi del pensiero ef— fettivamente valide, ma per noi inaccessibili. Tale possibilità è seriamente e a ragione presa in considera zione a proposito delle leggi naturali. Benché la leg— ge di gravitazione sia garantita dalle più ampie indu zioni e verifiche, oggigiorno nessuno scienziato la intende come una legge valida in assoluto. Talora la
ziali di altro genere, come l’inferenza di uguaglianza, l’inferenza di Bernoulli
si mette alla prova, utilizzando nuove formule della gravitazione: si dimostrò,
da n a n + 1, i principi delle inferenze probabilistiche ecc. — hanno un carattere di esattezza assoluta, ogni interpretazione che volesse attribuire a esse indeterminatezze di natura empirica o far dipendere la loro validità da «circostanze» vaghe modificherebbe radicalmente il loro vero senso. È chiaro che esse sono leggi autentiche, e non regole «meramente empiriche», cioè approssimative. Se la matematica pura, come pensava l.otze, è soltanto un ramo della logica che ha avuto sviluppo autonomo, allora anche il complesso inesauribile delle leggi puramente matematiche appartiene alla sfera ora indicata delle leggi lo— giche esatte. In tutte le altre obiezioni eventuali si dovrebbe aver di mira, oltre a questa sfera, anche quella della matematica pura. In secondo luogo. Se, per contestare questa prima obiezione, si negasse la ge— nerale inesattezza delle leggi psicologiche e: si volessero fondare le norme della classe or ora indicata su leggi naturali del pensiero presuntivamente esatte, non si farebbe con ciò un gran passo avanti. Nessuna legge naturale e conoscibile a priori e può essere fondata con evi» denza apodittica (einsichtig). L’unica via per fondare e giustificare una legge di questo genere è l’induzione a partire da singoli dati di fatto dell’esperienza. Ma l’induzione non fonda la validità della legge, fonda soltanto la più o me— no alta probabilità di questa validità; solo la probabilità e non la legge ha una giustificazione apoditticamente evidente (einsichtig). Di conseguenza, anche le leggi logiche, senza eccezioni, dovrebbero avere il carattere di mere proba— bilità. D’altra parte nulla a più risaputo del fatto che tutte le leggi «puramente logiche» sono valide a priori. Esse non sono giustificate e fondate per induzio— ne, ma mediante l’evidenza apodittica. Giustificata con evidenza non è la me— ra probabilità della loro validità, ma la loro validità o verità stessa. Il principio di non—contraddizione non significa che si debba supporre che di due giudizi contraddittori l’uno sia vero e l’altro falso; il modus Barbora non significa che si debba supporre che, quando sono vere due proposizioni della forma «tutti gli A sono E» e «tutti i E sono C» sia vera una proposizione cor— rispondente della forma «tutti gli A sono C». E ciò vale in generale anche nel campo delle proposizioni della matematica pura. Altrimenti dovremmo ritenere possibile che, nell’estensione del nostro ambito di conoscenza che è sem—
per esempio, che la legge fondamentale di Weber dei fenomeni elettrici potreb— be senz’altro fungere anche come legge fondamentale della gravità. Il fattore distintivo delle due formule determina appunto differenze tra i valori calcola— ti che non oltrepassano la sfera degli errori inevitabili di osservazione. Ma si può pensare un numero infinito di fattori di questo tipo: perciò noi sappiamo a priori che un numero infinito di leggi possono e debbono avere la stessa fun— zione della legge di gravitazione di Newton (preferibile soltanto per la sua particolare semplicità); noi sappiamo che, data l’insopprimibile imprecisione delle osservazioni, sarebbe assurdo ricercare l’unica legge vera. Cosi stanno le cose nelle scienze esatte dei fatti: ma non nella logica. cre che in esse e una possibi— lità giustificata, si trasforma nel caso della logica in un’assurdità manifesta. Noi non abbiamo qui una comprensione evidente della mera probabilità, ma della verità delle leggi logiche. Noi comprendiamo con evidenza i principi della sil— logistica, dell’induzione di Bernoulli, delle inferenze probabilistiche, dell’aritmetica generale, e così via, cioè afferriamo in essi la verità stessa. Perciò non ha più senso parlare di sfere di imprecisione, di .mere approssimazioni, e. così via. Ma se è assurdo ciò a cui conduce conseguentemente la fondazione psicologistica della logica, allora è assurda questa stessa fondazione. Contro la verità stessa che noi afferriamo con evidenza, anche la più acuta argomentazione psicologistica non può avere la meglio; la probabiiità non può contendere il terreno alla verità, la supposizione alla comprensione evidente. Chi resta chiuso nella sfera delle riflessioni generali potrà lasciarsi inganna— re dagli argomenti psicologistici. Basta uno sguardo a una qualsiasi delle teggi logiche, al suo senso effettivo e all’evidenza con la quale essa viene appresa come verità in sé, per porre fine a questo inganno.
pre limitato, la nostra supposizione non venga confermata. Le nostre leggi
Eppure, la tesi che la così ovvia riflessione psicologistica ci vuole imporre
sembra ben plausibile: le leggi logiche sono leggi delle fondazioni. Ma le fond a— zioni sono forse altro che processi mentali peculiari dell’uomo in cui, date certe condizioni di normalità, i giudizi che intervengono come membri finali si presentano con il carattere della conseguenza necessaria? Ora, anche questo carat— tere e di natura psichica: è una certa modalità di «stato d’animo», e null’altro. Ovviamente tutti questi fenomeni psichici non si trovano isolati, ma sono sin-
goli fili dell’aggrovigliato tessuto di fenomeni psichici, disposizioni psichiche e
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Ricerche iogicire
processi organici che noi chiamiamo vita umana. Dato cio, potrebbero forse es— serci risultati diversi da generalità empiriche? Cos’altro potrebbe dare la psico— logia? Noi rispondiamo: certo, la psicologia non dà altro. E appunto per questa ragione essa non puo dare quelle leggi apoditticamente evidenti, e perciò sovra— empiriche e assolutamente esatte, che costituiscono il nucleo di qualsiasi logica.
22. Le leggi del pensiero come presunte leggi naturali che, con la loro azione isolata, causano il pensiero razionale A questo punto dobbiamo prendere posizione anche rispetto a una diffusa con— cezione delle leggi logiche che definisce la correttezza del pensiero mediante la sua adeguatezza a certe leggi del pensiero (comunque formulate), ma che al tempo stesso tende a dare di esse un’interpretazione psicologistica: secondo questa concezione, le leggi del pensiero sono leggi naturali che caratterizzano il nostro spirito in ciò che esso ha di peculiare come spirito pensante: di conseguenza, l’essenza dell’adeguatezza che definisce il pensare corretto deve essere ricercata nel puro agire, non turbato da alcun influsso estraneo (come l’abitudine, l’inclinazione, la tradizione) di queste leggi del pensiero.2 Notiamo qui una delle discutibili conseguenze di questa teoria. Le leggi del pensiero come leggi causali che regolano il divenire delle conoscenze nel contesto psichico, potrebbero essere date soltanto nella forma della probabi— lità. Perciò nessuna asserzione potrebbe essere giudicata con certezza come corretta; in fatti, assumendo la probabilità come criterio della correttezza, essa lascerebbe la sua impronta su ogni conoscenza. Ci troveremmo cosi di fron— te al probabilismo più estremo. Anche l’asserzione che tutto il sapere e meramente probabile sarebbe solo probabilmente valida, come questa stessa nuova asserzione, e cosi in infinitum. E poiche’: ogni livello successivo riduce un po— co il grado di probabilità del livello precedente, il valore di ogni conoscenza dovrebbe essere per noi motivo di seria preoccupazione. C’è da augurarsi che per una fortunata combinazione i gradi di probabilità di queste serie infinite posseggano sempre il carattere delle «serie fondamentali» di Cantor, in modo tale che il valore limite fondamentale per la probabilità della singola conoscen— za che deve essere giudicata sia un numero reale > 0. Naturalmente si sfugge a queste difficoltà scettiche, ammettendo che le leggi del pensiero siano date con evidenza apodittica. Ma come possiamo avere una comprensione eviden— te e apodittica delle leggi causali? E posto che non esistesse tale difficoltà, si potrebbe chiedere ancora: qua n— do mai si e dimostrato che gli atti corretti del pensiero sorgono dal puro agire
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di queste leggi (o di qualsiasi altra)? Dove sono le analisi descrittive e genetiche che ci dovrebbero permettere di spiegare i fenomeni mentali a partire da due classi di leggi naturali, delle quali l’una determinerebbe esclusivamente il cor— so di quelle causazioni che fanno emergere il pensiero logico, l’altra il pensiero alogico? Forse valutare un decorso di pensiero in base a leggi logiche equivale a dimostrare la sua genesi causale secondo queste stesse leggi, intese come leggi naturali? Sembra che alcune manifesto confusioni abbiano aperto la via agli errori psi, cioè per otte— nere, nel dedurre, giudizi che posseggano questo carattere privilegiato, si deve procedere conseguentemente, preoccupandosi che siano realizzate le circo— stanze U e le relative premesse. Le fattualità psichiche si presentano qui come oggetto della regolamentazione e l’esistenza di tali fattualità sarebbe al tempo stesso presupposta nella fondazione delle regole e implicata nel loro contenuto. Ma non vi e neppure una legge deduttive che corrisponde a questo modello. Che cosa significa, per esempio, il modus Borbera? Null’altro che questo: «Per qualsiasi termine delle classi A, B, C, e in generale vero che, se tutti gli A sono E e tuttii B sono C, tutti gli A sono C». E a sua volta, il modusponens significa: «È una legge valida per qualsiasi proposizione A e B il fatto che se A e vero e se inoltre è vero che, se A e vero E e vero, allora anche B e vero:->. Queste leggi e altre analoghe sono tanto poco empiriche quanto psicologiche. Indubbiamen-
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A questo punto abbiamo bisogno di una maggiore precisione. Le leggi esat-
rire norme alle attività giudicative. Ma in esse si asserisce forse anche qualcosa sull’esistenza di un solo giudizio attuale o di un fenomeno psichico qualsiasi? Se qualcuno è di questa opinione, possiamo pretendere che egli la dimo— stri. Un’asserzione implicita in una proposizione, deve poter essere da questa dedotta secondo un valido procedimento deduttivo. Ma quali forme dedutti— ve consentirebbero di dedurre da una legge pura un fatto? Non si obietterà che non si potrebbe comunque parlare di leggi logiche se
te, nella loro formulazione normale, hanno certo il carattere di leggi pure, che non racchiudono in sé alcun contenuto esistenziale. Ma se pensiamo al— le fondazioni dalle quali attingono la loro legittimità scientifica, risulta im— mediatamente chiaro che esse non possono essere legittimate come leggi pure normalmente formulate. In realtà, non è fondata la legge di gravitazione così come viene espressa dell’astronomia, ma soltanto la proposizione della forma: sulla base delle nostre conoscenze che finora abbiamo raggiunto, e una proba— bilità teoreticamente fondata di grado molto elevato che il principio di Neve ton sia valido per il campo di esperienza accessibile con i mezzi attuali, o che in generale sia valida qualsiasi legge tratta dalla molteplicità infinita delle leg— gi matematicamente pensabili purché differiscano dalla legge di Newton so— lo all’interno della sfera degli errori di osservazione inevitabili. Questa verità è pregna di contenuto fattuale, essa stessa quindi è tutto meno che una leg— ge nel senso autentico della parola. Essa include evidentemente anche concet— ti definiti in modo vago. Pertanto tutte le leggi delle scienze esatte sui fatti sono certamente leggi autentiche, ma, dal punto di vista gnoseologico, sono soltanto finzioni idea— lizzanti — benché siano finzioni cnrnfundnntento in re. Esse assolvono il com.pito di rendere possibile le scienze teoretiche come ideali che si adeguano il più possibile alla realtà, quindi quello di realizzare, nella misura in cui e possibile dati i limiti invalicabili della conoscenza umana, il massimo fine teoretico di
non avessimo mai avuto rappresentazioni e giudizi nel vissuto attuale e se non
ogni ricerca scientifica sui fatti, l’ideale della teoria esplicativa, dell’unità fon—
te, nella logica tradizionale esse sono state elaborate nell’intenzione di confe—
avessimo astratto da essi i corrispondenti concetti logici fondamentali; e nep— pure che in ogni comprensione e asserzione della legge sia inclusa l’esistenza di rappresentazioni e di giudizi, cosi che di qui essa debba ancora una volta essere derivata. Infatti è appena necessario dire che questa conseguenza non è tratta dalla legge, ma dalla comprensione e asserzione deila legge: la stessa conseguenza potrebbe essere tratta da qualsiasi asserzione e i presupposti o gli ingredienti psicologici dell’asserzione di una legge non debbono essere confusi con i momenti logici del suo contenuto.
Le «leggi empiriche» hanno eo ipso uno statuto fattuale: in quanto sono leg— gi inautentiche (unecht), esse esprimono, grosso modo, che in certe circostan— ze, in base all’esperienza, intervengono di solito certi rapporti di coesistenza e di successione, oppure che tali rapporti sono da attendere, secondo le circo— stanze, con maggiore o minore probabilità. Cio implica che tali circostanze, tali rapporti di coesistenza e di successione, si verifichino difatto. Ma anche le leggi rigorose delle scienze di esperienza non sono prive di statuto fattua— le. Esse non sono mere leggi sui fatti, esse implicano anche l’esistenza di fatti.
data sulla legge. In luogo della conoscenza assoluta che ci è preclusa, dal cam— po delle singolarità e delle universalità empiriche noi enucleiamo anzitutto, mediante il pensiero che comprende con evidenza, quelle probabilità per co— si dire apodittiche, nelle quali e incluso tutto il sapere accessibile concernente la realtà. Riducendo quindi queste probabilità a certe idee esatte che posseggono un autentico carattere di legge, possiamo costruire sistemi formalmen— te perfetti di teorie esplicative. Ma questi sistemi (come la meccanica teorica, l’acustica teorica, l’ottica teorica, l’astronomia teorica ecc.) in realtà possono valere soltanto come possibilità cum fondamento in re, che non escludono in— finite altre possibilità, ma che al tempo stesso le racchiudono entro limiti de— terminati. —— Tuttavia questo punto non ha per noi interesse, e ancor meno la
discussione sulla funzione pratico—conoscitiva di queste teorie ideali, cioè sul loro operare in vista di un’efficace previsione dei fatti futuri e della ricostru— zione di quelli passati e sulle loro operazioni tecniche per il dominio pratico sulla natura. Ritorniamo pertanto al nostro oggetto. Mentre, come abbiamo visto or ora, nel campo della conoscenza dei fat—
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Prolegomeni o una logica puro
Ricerche logiche
ti, la legalità autentica e soltanto un ideale, essa si trova realizzata nel campo della conoscenza «puramente concettuale». A questa sfera appartengono le nostre leggi puramente logiche, nonché le leggi della mothesis puro. Esse non traggono dall’indnzione la loro «origine», o più precisamente la fondazione che le rende legittime,-, e neppure ». loro proprio quello statuto esistenziale che inerisce a ogni probabilità come tale, anche a quella più alta e valida. Ciò che esse indicano &: pienamente e interamente valido; esse sono fondate con evi— denza nella loro stessa esattezza assoluta, e al loro posto non troviamo certe asserzioni probabili che contengono elementi visibilmente vaghi. Ciascuna legge non appare come una tra le innumerevoli possibilità teoretiche di una certa sfera, per quanto concretamente delimitata. Si tratta diuna e una sola verità, che esclude ogni possibilità di altro genere e che si mantiene pura da ogni fatto, sia in rapporto al contenuto che alla fondazione, come una legge riconosciuta con evidenza apoditticn. Da tali considerazioni si può scorgere come siano internamente interdipendenti le due parti della conclusione a cui arriva conseguentemente lo psicologi— smo — cioè che le leggi logiche non comportino soltanto asserzioni esistenziali sulle fattualità psichiche, ma debbano essere necessariamente anche leggi di tali fatt nalità. La confutazione della prima parte di questa conseguenza psico— logistica fu per noi immediata. Ma in essa era implicita anche la confutazione della seconda parte, secondo l’argomentazione che segue: come ogni legge che deriva dall’esperienza e dall’indnzione compiuta a partire da fatti singoli e una legge dei fatti, cosi all’inverso una legge dei fatti è una legge che ha origine nell’esperienza e nell’induzione; e conseguentemente da essa, come si è di— mostrato, sono inseparabili le asserzioni di statuto esistenziale. Ovviamente tra le leggi dei fatti non dobbiamo intendere anche gli enun— ciati generali che riferiscono a dati di fatto proposizioni puramente concet— tuali — cioè proposizioni che si presentano come relazioni di validità generale sul fondamento di concetti puri. Se 3 > 2, allora anche i tre libri su quel tavolo saranno più dei due libri in quell’armadio. E cosi in generale per qualsiasi co— sa. La pura proposizione aritmetica non parla di cose, ma di numeri nella loro pura generalità — il numero tre e maggiore del numero due —- e puo essere applicata non soltanto a oggetti individuali, ma anche a quelli «generali», per esempio, alle specie dei colori e dei suoni, alle diverse figure geometriche e ad altre simili generalità atemporali. Se si ammette tutto ciò, si esclude naturalmente che le leggi logiche (assunte nella loro purezza) siano leggi di attività e di prodotti psichici.
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24. Continuazione Forse più d’uno cercherà di sottrarsi alla conclusione alla quale coerentemen—
te peri—teniamo, obiettando: non ogni legge dei fatti sorge dall’esperienza e dall’indnzione. È necessario piuttosto operare la seguente distinzione: ogni conoscenza della legge si fonda sull’esperienza, ma non sorge da essa nel modo dell’induzione, e quindi in quel ben noto processo logico che conduce dai fatti singoli o dalle universalità empiriche di grado inferiore alle universalità che assumono carattere di legge. In particolare, le leggi logiche sono confor— mi all’esperienza, ma non sono leggi induttive. Nell’esperienzn psicologica, noi otteniamo per astrazione i concetti logici fondamentali e i rapporti puramen— te concettuali che sono dati insieme a essi. Cio che noi troviamo nel caso sin— golo, lo riconosciamo senz’altro come valido in generale, per il solo fatto che
esso si fonda nei contenuti che abbiamo ottenuto per astrazione. Così l’espe— rienza ci procura una coscienza immediata della legalità del nostro spirito. E poiché qui non abbiamo bisogno dell’induzione, il risultato non e affetto dalle sue deficienze, non ha il carattere della mera probabilità, ma quello della certezza apodittica, la sua delimitazione non e vaga, ma esatta. Inline, esso non include in alcun modo asserzioni di statuto esistenziale. Notiamo anzitutto che questa obiezione non puo essere considerata sufficiente. Nessuno dubiterà che la conoscenza delle leggi logiche, come atto psi— chico, presupponga l’esperienza singola e abbia la sua base nell’i-ntuizione concreta. Ma non si debbono confondere i «presupposti» e le «basi» psicologiche della conoscenze della legge con i presupposti, i fondamenti, le premesse logiche della legge; e correlativamente la dipendenza psicologica (per esempio, nell’origine) con la fondazione e la legittimazione logica. Mentre quest’ultima si attiene in modo evidente al rapporto oggettivo di premessa e conseguenza, la prima si riferisce ai nessi psichici della coesistenza e della successione. Nessuno può seriamente asserire che i casi singoli e concreti che stanno, per così dire, di fronte ai nostri occhi, sul «fondamento» dei quali si realizza la com— prensione evidente della legge, abbiano la funzione di fondamenti logici, di premesse, come se la generalità della legge consegnisse dall’esistenza del fat» to singolo. Può essere che, dal punto di vista psicologico, l’apprensione intui— tiva della legge richieda due gradi: lo sguardo tendente a cogliere le singolarità dell’intuizione e la corrispondente comprensione evidente della legge. Ma dal punto di vista logico, vi è un grado solo. Il contenuto della comprensione evi— dente non e una conseguenza che possa essere tratta dalla singolarità. Ogni conoscenza «comincia con l’e5perienza», ma non per questo «scaturi— sce» dall’esperienza. Noi affermiamo che ogni legge dei fatti scaturisce dall’e-
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Ricerche logiche
sperienza: ciò implica appunto che essa debba essere fondata soltanto mediante l’induzione a partire da esperienze singole. Se vi sono leggi conosciute in modo apoditticamente evidente, allora esse non possono essere (immediatamen— te) leggi di fatti. Ogni qual volta si e finora attribuito un carattere di evidenza apodittica immediata alle leggi dei fatti, si sono sempre confuse le leggi della coesistenza e della successione, che sono le vere leggi dei fatti, con le leggi ideali alle quali e di per se estraneo il riferimento a cio che e temporalmente determi— nato; oppure si e confusa la forza viva di convinzione che è propria delle universalità empiriche a noi più familiari con il carattere di evidenza apodittica di cui abbiamo esperienza soltanto nel campo di cio che è puramente concettuale. Se un tale argomento non sembra ancora decisivo, esso potrà essere raffor— zato da argomenti di altro genere, come quello che segue. Difficilmente si potrà negare che tutte le leggi puramente logiche abbiano un unico e medesimo carattere; se riusciamo a dimostrare per alcune l’impossibilità di intenderle come leggi di fatti, lo stesso dovrà valere per tutte le altre. Ora, tra le leggi, troviamo anche leggi che si riferiscono a verità, nelle quali dunque le verità
V. Le interpretazioni psicologistiche dei principi logici fondamentali
25. llprincipio di non-contraddizione nell’interpretozione psicologistica di Mill e Spencer
sono gli «oggetti:—> sottoposti a regola. Per esempio: per ogni verità A, e vero che il
suo opposto contraddittorio è falso. Per ogni coppia di verità A e B, è vero che an— che le loro connessioni congiuntivi: e disgiuntive*E sono verità. Se tre verità A, B,
C, si trovano in rapporto tale che A & premessa di B, e B premessa di C, A sarà an— che premessa di C ecc. Ma è assurdo caratterizzare come leggi di fatti le leggi che valgono come tali per le verità. Nessuna verità e un fatto, cioè qualcosa di temporalmente determinato. Una verità può indubbiamente significare che una cosa sia, che esista un certo stato, che abbia luogo una certa modificazione ecc. Ma la verità stessa è al di sopra di ogni temporalità, cioè non ha senso attribuirle un essere tem—
porale, un’origine e una fine. Per le leggi relative alle verità quest’assurdità emer— ge nel modo più chiaro. Come leggi reali esse sarebbero regole della coesistenza e della successione di fatti, e cioè, in questo caso, di verità, e a questi fatti che esse
regolano, esse stesse dovrebbero, come verità, appartenere. Allora una legge pre— scriverebbe l’alternarsi di certi fatti, detti verità, e tra essi si dovrebbe trovare, come
un fatto tra gli altri, la legge stessa. La legge avrebbe un’origine e una fine secondo la legge - un evidente controsenso. Lo stesso accadrebbe se intendessimo la legge sulla verità come una legge di coesistenza, come legge normativa di cio che & temporalmente singolare, e anche come regola generale per qualsiasi ente temporale. Siffatte assurdità’ sono inevitabili se non si tiene conto della differenza fondamen— tale tra oggetti ideali e reali, e corrispondenternente tra leggi ideali e reali, oppu— re se non si intende questa differenza nel suo giusto senso. In seguito avremo di continuo occasione di constatare che questa differenza e decisiva in rapporto alle controversie'sorte tra la logica pura e la logica psicologistica.
Abbiamo notato in precedenza che una concezione delle leggi logiche come leggi dei fatti psichici conduce necessariamente a fraintendimenti sostanzia li quando sia portata a coerente sviluppo. Ma anche in questo caso, l’indirizzo logico dominante ha, come sempre, indietreggiato di fronte alla coerenza. Direi quasi che lo psicologismo viva soltanto di incoerenze: chi ne ha considerato gli sviluppi sino alle loro ultime conseguenze, lo avrebbe già abbandonato, se l’empirismo estremo non offrisse qui un ottimo esempio di qua nto i pregiudizi radicati possano avere la meglio sulle più chiare testimonianze dell’eviden— za. Con coerenza imperturbabile, egli trarrà le conseguenze più rigorose, ma solo per farle proprie e convogliarle in una teoria indubbiamente contraddittoria. L’obiezione che abbiamo fatto valere contro la posizione logica in que— stione — e cioè che le verità logiche verrebbero a essere probabilità più o meno vaghe, concernenti certe fattualità della vita psichica umana e fondate sull’e— 3perienza e sull’induzione, mentre esse sono leggi assolutamente esatte, garan— tite a priori e puramente concettuali — proprio questo (a parte l’accentuazione del carattere vago) e ciò che esplicitamente insegna l’empirismo. Non puo es— sere nostro compito sottoporre a esauriente critica questo orientamento gno—
seologico. Tuttavia, assumono particolare interesse per noi le interpretazioni psicologiche, che si sono affermate all’interno di questa scuola e che hanno
emanato il loro fascino aldilà. dei suoi confini.1 Come e noto, ].S. Mill insegna che il principiorn controdictionis e «una delle nostre prime e più naturali generalizzazioni compiute a partire dall’esperiew
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Ricerchelogicl1e
zan.2 Egli trova la sua base originaria nel fatto che eil credere e il non credere sono due stati d’animo diversi», che si escludono reciprocamente. Noi sappiamo ciò — cosi continua testualmente — dalle più semplici osservazioni del no— stro spirito. E se volgiamo la nostra osservazione verso l’esterno, troviamo anche qui che la luce e il buio, il rumore e il silenzio, l’eguaglianza e l’inegua— glianza, il precedere e il seguire, la successione e la contemporaneità, in breve ogni fenomeno positivo e la sua negazione, sono fenomeni distinti (negative), che si trovano in un rapporto di netta opposizione: l’uno e sempre assente, la dove l’altro è presente. «lo considero» egli dice «l’assioma in questione come una generalizzazione compiuta a partire da tutti questi fatti.»
Ma nel momento in cui si tratta dei fondamenti di principio dei suoi pregiu— dizi empiristici, Mill, altrove cosi penetrante, appare, per cosi dire, abbandonato da tutti gli dèi. L’unica difficoltà sembra consistere nel comprendere come una tale teoria possa risultare convincente. È anzitutto evidente la scorrettezza
dell’asserzione secondo la quale il principio che due proposizioni contraddit— torie non sono entrambe vere e in questo senso si escludono, è una generaliz— zazione dei «fatti» citati, quali la reciproca esclusione della luce e del buio, del rumore e del silenzio ecc. — cose che sono t.utto meno che proposizioni con—
traddittorie. In linea generale, non si comprende in che modo Mill pretenda di mettere in relazione questi pretesi fatti di esperienza con la legge logica. ln— vano si spera che una chiarificazione giunga dalle trattazioni parallele svolte da Mill nello scritto polemico contro Hamilton. Egli cita con approvazione la «legge assolutamente costante» che Spencer, seguendo gli stessi intenti, pone come base del principio logico: e. .. nessun modo positivo di coscienza può pre— sentarsi senza escludere un correlativo modo negativo: e il modo negativo non può presentarsi senza escludere il correlativo modo positivo:-:»? Ma chi non ve— de che questa proposizione costituisce una pura tautologia, dal momento che l’esclusione reciproca inerisce alla definizione dei termini correlativi «fenome— no positivo e negativo»? Invece il principio di non-contraddizione & tutto me— no che una tautologia. Nella definizione delle proposizioni contraddittorie non & implicito che esse si escludono, e se anche si escludono in forza del suddetto
principio, tuttavia non e vero l’inverso: non ogni coppia di proposizioni che si escludono è una coppia di proposizioni contraddittorie — dimostrazione sufficiente del fatto che il nostro principio non può essere confuso con quella tauto— logia. Del resto neppure Mill lo intende come una tautologia, dal momento che, secondo lui, esso deve scaturire innanzitutto dall’esperienza. per via induttiva. In ogni caso, per venire in chiaro sul senso empirico di questo principio, più che i riferimenti ben poco comprensibili ai rapporti di incoesisten za dell’esperienza esterna, ci possono servire altri passi di Mill, specialmente quelli che
Prolegomeni a una logica pura
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discutono la questione se i tre principi logici fondamentali possano valere anche come «necessità intrinseche del pensiero» (i tilt erent necessities of though t], come «un elemento originale della nostra costituzione mentale» (an original
part of our mental constitution), come «leggi dei nostri pensieri per via della struttura innata della mente» (laws ofour thoughts by the native structure of the mind), oppure se essi siano leggi del pensiero solo «perché noi li percepia— mo come universalmente veri per i fenomeni osservati» (because we perceive them to be universally true ofobserved phenomena) — domanda alla quale Mill non vorrebbe dare una risposta positiva. A proposito di queste leggi, egli scri» ve infatti: «Può darsi che esse soggiacciano ad alterazioni per opera dell’espe— rienza, ma le condizioni della nostra esistenza ci precludono l’esperienza che sarebbe richiesta per produrre la loro alterazione. Perciò qualsiasi asserzione che si trovi in conflitto con una di queste leggi — qualsiasi proposizione che asserisca, per esempio, una contraddizione, sia pure a proposito di un tema del tutto lontano dalla sfera della nostra esperienza, non puo essere da noi credu— ta. Nel caso di una simile proposizione, la credenza (belief) e impossibile, nel-
la nostra attuale costituzione naturale, in quanto fatto mentale:—i.4 Da ciò concludiamo che l’inconsistenza5 espressa nel principio di non—contraddizione, cioè il non essere vere insieme di proposizioni contrad— dittorie, sia intesa da Mill come incompatibilità di simili proposizioni nel nostro belief In altre parole, al non essere vere insieme delle proposizioni vie— ne sostituita l’incompatibilitri reale degli atti giudicativi corrispondenti. Ciò si accorda anche con la ripetuta asserzione di Mill secondo la quale gli atti di credenza sono gli unici oggetti che potrebbero essere caratterizzati in sen— so proprio come veri e falsi. Due atti di credenza contraddittoriamente con— trapposti non possono coesistere: cosi dovrebbe essere inteso il principio di non—contraddizione.
26. L’interpretazione psicologistica di Mill delprincipio di non-contraddizione nonfornisce una legge ma una proposizione empirica del tutto vaga e scientificamente non verificata A questo punto sorgono dubbi di ogni genere. In primo luogo, l’enunciazione di questo principio è indubbiamente incompleta. In quali circostanze, si chiederit, gli atti di credenza opposti non possono coesistere? Come tutti san no, in individui diversi possono ben coesistere giudizi opposti. Dovremo dunque di— re più esattamente, esplicitando al tempo stesso il senso della coesistenza reale: nel medesimo individuo, o ancor meglio, nella medesima coscienza non pos—
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Proiegorneni a analogica para
Ricerche fogiche
sono permanere per un tratto di tempo, per quanto possa essere breve, atti di credenza contraddittori. Ma questa è realmente una legge? Possiamo I'ÉBIIÎ18H' te esprimerla come fornita di una generalità illimitata? Dove sono le induzioni psicologiche che giustificano la sua assunzione? Non possono forse esistere o non sono mai esistiti uomini che talora hanno ritenuto vere nello stesso tem— po due cose opposte, per esempio, perche’: ingannati da false argomentazioni? Sono state avviate indagini scientifiche per accertare se qualcosa di simile non accada tra i dementi, e forse anche nel caso delle contraddizioni esplicite? Che ne e degli stati di ipnosi, del delirio da febbre ecc.? Tale legge sarebbe valida anche per gli animali? Per sottrarsi a queste obiezioni l’empirista limiterebbe forse la sua «legge» con opportune precisazioni: per esempio, affermando che essa è valida soltanto per individui normali della specie horno, che si trovino in uno stato mentale normale. Ma basta sollevare la questione insidiosa di una più esatta determinazione dei concetti di «individuo normale» e di «stato mentale normale», per
rendersi conto di quanto sia diventato complesso e inesatto il contenuto della legge con la quale ora abbiamo a che fare. Non è necessario sviluppare queste considerazioni - anche se un nuovo
spunto potrebbe essere offerto dal rapporto temporale che interviene nella legge: esse sono anzi più che sufficienti per giustificare la strana conseguen— za perla quale il nostro ben noto principio… contradictionis, che si e sempre pensato fosse una legge evidente, assolutamente esatta e valida senza eccezio— ni, e in realtà modello di un principio approssimato e impreciso e non scien— tifico, che può essere elevato al rango di una plausibile ipotesi soltanto dopo numerose correzioni, che modificano il suo contenuto, apparentemente esat—
to, in un contenuto alquanto vago. Cosi appunto deve essere, se l’empirismo ha ragione quando afferma che l’incompatibilità di cui parla il principio di non—contraddizione deve essere intesa come incoesistenza reale di atti giudi— cativi contraddittori, e quindi il principio stesso come una generalità empiri— co—psicologica. E l’empirismo di osservanza milliana non si pone neppure il problema di definire e giustificare scientificamente quel principio approssi— mato e impreciso che emerge dall’interpretazione psicologica. Esso lo assume cosi come si presenta, con quell’imprecisione che è ovvio attendersi da «una delle nostre prime e più naturali generalizzazioni compiute a partire dall’espe— rienza», cioè da una rozza generalizzazione dell’empiria prescientifica. Proprio qui, nel momento in cui si tratta degli ultimi fondamenti di ogni scienza, ci si esaurisce in questa ingenua empiria, con il suo cieco meccanismo associati— vo. Convinzioni che sono sorte senza alcuna evidenza dai meccanismi psico-
logici, che non hanno altra giustificazione se non il pregiudizio generale, che
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mancano di una delimitazione solida o sicura a causa della loro origine e che 55 vengono, per cosi dire, prese alla lettera, includono qualcosa di dimostrabilmente falso — dovrebbero rappresentare le basi ultime per giustificare ogni conoscenza scientifica, nel senso più rigoroso del termine.
Tuttavia non è necessario sviluppare ulteriormente questo punto. È im—
portante invece ritornare all’errore fondamentale della dottrina avversa, chie-
dendo se quella proposizione empirica, comunque formulata, sugli atti di credenza, sia realmente il principio del quale viene fatto uso nella logica. Es— sa dice: in certe circostanze soggettive (che purtroppo non sono state indagate più da vicino e non possono essere completamente indicate), non possono esistere insieme nella stessa coscienza due atti di credenza opposti, come si e no. Si intende realmente questo quando gli studiosi di logica dicono: « Due proposizioni contraddittorie non sono entrambe vere»? Basta gettare uno sguardo sui casi in cui ci serviamo di questo principio per regolare le attività giudica— tive, per accorgersi che il suo senso e del tutto diverso. Nella sua riformulazio— ne normativa, esso significa evidentemente questo e null’altro: per qualunque coppia di atti di credenza opposti — sia che appartenga allo stesso individuo o a individui diversi, sia che coesista nello stesso momento del tempo oppure si presenti separata in momenti diversi — e assolutamente e rigorosamente vero,
senza alcuna eccezione, che i membri di ogni coppia non sono entrambi giup sti, cioè conformi a verità. Penso che neppure la corrente empiristica potrà du— bitare della. validità di questa norma. In ogni caso, la logica, quando parla di leggi del pensiero, ha a che fare soltanto con la seconda legge, con la legge la? gica, e non con quella vaga «legge» della psicologia, che ha un contenuto total— mente diverso e che finora non e stata neppure formulata.
APPENDICE AI DUE ULTIMI PARAGRAFI
Sa alcune difiîcoltri di principio dell’ernpirismo Data l’interna affinità tra l'empirismo e lo psicologismo, sembra giusto compiere una breve digressione per mettere a nudo gli errori fondamentali dell’empirismo. L’empi» rismo estremo come teoria della conoscenza non e meno assurdo dello scetticismo estremo. Esso sopprime ia possibilità di una giastificaziorre razionale delia conoscenza mediata e con ciò sopprime la sua stessa possibilita di essere una teoria scientificamen— te fondata.E Esso ammette che vi siano conoscenze mediate derivanti da nessi fondanti, e non nega nemmeno che esistano principi di fondazione. Ma esso non si limita ad ammettere che una logica sia possibile: giunge anche a costruirla. Tuttavia, se ogni fonda—
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Ricerche logiche
Prolegomeni e una logico puro
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zione si basa su principi che regolano il suo svolgersi e se solo ricorrendo a tali principi essa può ottenere la sua giustificazione suprema, si giungerebbe a un circolo vizioso o a un regresso all’infinito, nel caso in cui i principi di fondazione richiedessero a loro volta di essere fondati. A un circolo, quando i principi della fondazione sono identici a quei principi della fondazione che essi debbono giustificare. A un regresso, quando gli uni e gli altri sono sempre diversi. È pertanto evidente che l’esigenza di una giustifica"
gnoseologico si rivela insostenibile, anzi assurdo, come e dimostrato da un’obiezione analoga a quella che abbiamo in precedenza rivolto all’empirismo estremo 1 giudizi mediati concernenti i fatti — cosi potremmo brevemente indicare il senso della teoria humeana — non permettono, e questo e vero in generale, alcuno giustificazione ruzio-
zione di principio per ogni conoscenza mediata può aver senso solo se siamo in grado
idee ecc.) sui quali questa teoria si sostiene e le inferenze fattuali che essa stessa usa,
di riconoscere in modo evidente e immediato certi principi ultimi sui quali e basata, in ultima analisi, ogni fondazione. Tutti i principi giustificativi di ogni possibile fondazione debbono perciò poter essere deduttivamente ricondotti a certi principi ultimi, immediatamente evidenti, e in modo tale che i principi di questa stessa deduzione nella loro totalità cadano necessariamente al di sotto di essi. Ma l’empirismo estremo, in quanto attribuisce piena fiducia in fondo soltanto ai giu— dizi empirici particolari (una fiducia del tutto acritica, poiché non si tiene conto di tutte le difficoltà che sorgono proprio a proposito di questi giudizi), rinuncia eo ipso alla possibilità di una giustificazione razionale della conoscenza mediata. In luogo di ri— conoscere come evidenze immediate, e quindi come verità date, i principi ultimi dai quali dipende la giustificazione della conoscenza mediata, esso crede di fare qualcosa di più derivandoli e giustificandoli direttamente a partire dall’esperienza e dall’induzione. Se si pone il problema dei principi di questa derivazione, di che cosa la giustifi— chi, l’empirismo risponde allora, poiché gli ‘e precluso il rimando ai principi generali immediatamente evidenti, ricorrendo all’esperienza quotidiana ingenua e acritica. Ed esso crede di conferire a questa esperienza una più alta dignità, interpretandola in ter— mini psicologici alla maniera di Hume. Esso trascura che, se non vi e in generale una giustificazione evidente delle assunzioni mediate, e quindi se non vi e neppure una giustificazione secondo principi generali immediatamente evidenti ai quali si riferiscono le relative fondazioni, anche l’i ntera teoria psicologica, l’intera dottrina dell’empirismo fondata sulla conoscenza mediata, mancherebbe di qualsiasi giustificazione razionale, sarebbe un’assunzione arbitraria che non avrebbe maggior valore del pre— giudizio più ovvio. E strano che l’empirisrno accordi più fiducia a una teoria gravata da simili controsen— si, piuttosto che alle più «banali» e fondamentali nozioni della logica e dell’aritmetica. Come vero e proprio psicologismo, esso mostra ovunque l’inclinazione a confondere,
indubbiamente a causa di questa presunta «naturalezza», la genesi psicologica di certi giudizi generali a partire dall’esperienza con la loro giustificazione. È degno di nota che le cose non stanno molto meglio in rapporto all’empirismo mo— derato di Hume, che cerca di mantenere come giustificata a priori la sfera della logica pura e della matematica (nonostante le confusioni anche in essa introdotte dallo psico— logismo), lasciando all’empiria soltanto le scienze dei fatti. Anche questo punto di vista
nole, ma soltanto una spiegazione psicologico. Ma basterà porre il problema di come si—
ano razionalmente giustificati-i giudizi psicologici (sull’abitudine, l’associazione delle
per accorgersi immediatamente del contrasto evidente tra il senso della tesi che la teoria intende dimostrare e il senso delle deduzioni che essa intende applicare a tal fine. Le premesse psicologiche della teoria sono esse stesse giudizi mediati su fatti, e mancano quindi, secondo la tesi da dimostrare, di qualsiasi giustificazione razionale. In altre parole: la giustezza della teoria presuppone l’irrazionalità delle sue premesse, la giustezza delle premesse, l’irrazionalità della teoria (o della tesi). (Anche la dottrina di l-lnme e pertanto una dottrina scettica, nel senso pregnante che definiremo nel capitolo ottavo.)
27. Obiezioni analoghe contro le altre interpretazionipsicologistiche delprincipio logico. Le equivocozioni come]bnti dell’errore È facile rendersi conto che obiezioni simili a quelle sollevate negli ultimi para: grafi colpiscono necessariamente ogni falsa interpretazione psicologica delle cosiddette leggi del pensiero e di qualsiasi legge dipendente da esse. Non serve a nulla appellarsi alla «fiducia che la ragione ha in se stessa», o all’evidenza che inerisce a tali leggi nel pensiero logico, per eludere la nostra istanza di una deli— mitazione e di una fondazione. Il carattere di evidenza delle leggi logiche resta fermo. Ma non appena si intende il loro statuto concettuale come se esso fosse psicologico, si modifica il loro senso originario, al quale appunto quel carat— tere di evidenza era legato. Come abbiamo visto, le leggi esatte si trasformano in vaghe generalità empiriche che possono ancora avere validità tenendo con— to della loro sfera di indeterminatezza, ma che sono molto lontane da qualsia—
si evidenza. Non c’è dubbio che anche gli epistemologi psicologisti, seguendo il naturale orientamento del loro pensiero e pur senza essere di ciò pienamente consapevoli, comprendano tutte le leggi qui in questione anzitutto — cioè pri— ma che entri in gioco la loro tecnica filosofica di interpretazione —- in senso oggettivo. Ma poi essi cadono nell’errore di appellarsi all’evidenza in questo suo senso autentico, che garantiva loro l’assoluta validità delle leggi, anche nel caso di quelle interpretazioni sostanzialmente modificate che essi ritengono, in una successiva riflessione, di poter attribuire alle formule della legge. Se è in quale che modo legittimo parlare di un atto di comprensione evidente nel quale ci
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Ricerche iogiclae
rendiamo conto della verità stessa, allora certa mente lo stesso accade a proposito del principio secondo il quale due proposizioni contraddittorie non sono entrambe vere,-, d’altra parte, se neghiamo che questo discorso sia legittimo, la stessa cosa dovremo fare nel caso di qualsiasi reinterpretazione psicologizzante del medesimo principio (o dei suoi equivalenti), come «nel pensiero, afferma zione e negazione si escludono», «nella stessa coscienza non possono sussiste— re insieme e contemporaneamente giudizi riconosciuti come contraddittoria,? per noi è impossibile credere a una contraddizione esplicita,g nessuno può ritenere che qualcosa sia e contemporaneamente non sia ecc.
Per togliere di mezzo qualsiasi oscurità, dobbiamo indugiare nell’esame di queste formulazioni ambigue. A una considerazione più attenta si nota immediatamente l’influsso ingannatore delle equivocozioni che qui entrano in gioco: a causa di queste equivocazioni la legge autentica o qualsiasi riformulazione normativa a essa equivalente viene confusa con un’asserzione psicologica. Co— si accade nella prima formulazione. Nel pensiero, affermazione e negazione si escludono. Il termine pensiero, che in senso lato comprende qualsiasi attivi— tà intellettiva, viene utilizzato nella terminologia di molti logici soprattutto in rapporto al pensiero razionale, «logico», quindi in rapporto al giudicare cor— retto. Che nel giudicare corretto il si e il no si escludano è evidente, ma con ciò si e8prime anche un principio equivalente alla legge logica che e tutto meno che un principio psicologico. Esso dice che un giudizio che contemporanea— ment.e afferma e nega il medesimo stato di cose non può essere vero, ma esso non dice affatto se atti giudicativi contraddittori — nella stessa coscienza o in coscienze diverse, ciò è indifferente - possano coesistere reoliter o nof’ In questo modo si esclude anche la seconda formulazione («nella stessa coscienza non possono esistere insieme e contemporaneamente giudizi rico—
nosciuti come contraddittori») a meno che si interpreti la «coscienza» come «coscienza in generale:->, come coscienza normale sovratemporale. Naturalmente, un principio logico primitivo non può presupporre il concetto di nor— male il quale, a suo volta, può essere concepito soltanto mediante un rimando a questo stesso principio. Del resto e chiaro che se ci si tiene lontani da ogni ipostatizzazione metafisica, questa proposizione cosi intesa rappresenta una perifrasi equivalente al principio logico e non ha nulla a che fare con qualsiasi forma di psicologia. Nella terza e quarta formulazione, ritroviamo la stessa equivocazione che abbiamo visto operante nella prima. Nessuno può credere a una contraddizione, nessuno può ritenere che la stessa cosa sia e non sia — aggiungiamo natu— ralmente: nessun essere razionale. Solo per chi intende giudicare rettamente, e per nessun altro, sussiste questa impossibilità. Essa non esprime dunque al—
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suna costrizione psicologica, ma la comprensione evidente del fatto che due proposizioni opposte non sono insieme vere, e cioè gli stati di cose a esse cor— rispondenti non possono sussistere insieme; pertanto, chi avanza la pretesa di indicare correttamente, e cioè affermare il vero come vero e il falso come fal—
so, deve giudicare secondo quanto e prescritto da questa legge. Di fatto, nel giudicare, le cose possono andare altrimenti. Nessuna legge psicologica costringe chi giudica sotto il giogo delle leggi logiche. Abbiamo qui ancora a che fare con una riformulazione equivalente della legge logica, alla quale nulla e più estra— neo dell’idea di una legalità psicologica dei fenomeni giudicativi. D’altro lato, proprio quest’idea costituisce l’aspetto sostanziale dell’interpretazione psicolo— gistica. Si ha un’interpretazione psicologistica quando il norrpotere viene inteso come incoesistenza degli atti giudicativi an ziché come incompatibilità delle relative proposizioni (come loro non—essere—insieme-vere in forza di una legge).
La proposizione: nessun essere «razionale» o anche soltanto «responsabile» può credere a una contraddizione, consente un’altra interpretazione. Noi chiamiamo essere razionale colui al quale attribuiamo la disposizione abituale a giudicare correttamente «nel proprio ambito» «in uno stato mentale norma— le». Chi possiede la capacità abituale, in un normale stato mentale, di cogliere almeno ciò che è «ovvio:-> e «a portata di mano:», è per noi «responsabile» nel senso qui in questione. Naturalmente, nel campo di questa ovvietà — dei re— sto del tutto vago — annoveriamo anche la capacità di evitare le contraddizioni esplicite. Se si è compiuta questa sussunzione, la proposizione «nessun essere responsabile (o razionale) può ritenere vere le contraddizioni» non e altro che una banale tra5posizione del generale al caso particolare. Naturalmente qui non doremmo il nome di responsabile a chi si comporta in altro modo. Anco— ra una volta qui non si tratta affatto di una legge psicologica. Tuttavia non abbiamo ancora esaurito le possibili interpretazioni. A favorire la tendenza psicologistica contribuisce non poco la grave ambiguità della pa— rola impossibilità: essa può infatti significare non soltanto la non unificobilitri obiettivamente sancito do una legge, ma anche una incapacità oggettivo di realizzare l’unificazione. lo non posso credere alla coesistenza di contraddizioni — e per quanto faccia, ogni mio tentativo fallisce contro ciò che io sento come una resistenza insuperabile. Questo non poter credere, si potrebbe argomentare, &! un’esperienza vissuta evidente: comprendo perciò che per me, e quindi per ogni altro essere che io penso come a me analogo, è impossibile credere a ciò che & contraddittorio; con ciò ho una comprensione evidente di una legge psicologica che viene espressa appunto nel principio di non—contraddizione. Considerando unicamente il nuovo errore di questa argomentazione, ri— spondiamo ciò che segue: sappiamo per esperienza che, ogni qual volta ci
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siamo decisi a formulare un giudizio, ogni tentativo di abbandonare la con— vinzione che e radicata in noi e di assumere lo stato di cose opposto fallisce; a meno che non sorgano nuove motivazioni mentali, dubbi successivi, con—
vinzioni più vecchie e incompatibili con le presenti, 0 spesso soltanto l’oscu ra «sensazione» di una massa di pensieri che lotta per venire alla luce. Il fallimen— to di questi tentativi, le resistenze di cui si ha sensazione ecc. — tutto ciò sono esperienze vissute individuali, limitate alla persona e al tempo e legate a certe circostanze che non possono essere determinate con esattezza. Come potreb— bero quindi fondare l’evidenza di una legge generale che trascenda la persona e il tempo? Non si confonde l’evidenza assertoria dell’esistenza di una parti— colare esperienza vissuta con l’evidenza apodittica del sussistere di una legge generale. L’evidenza del fatto che esiste questa sensazione, interpretata come incapacità, e forse sufficiente ad assicurarci che ciò che noi di fatto non riuscia— mo a realizzare ci sia anche per sempre precluso in base a una legge? Si consideri l’indeterminatezza delle circostanze che intervengono svolgendo un ruolo sostanziale. Da questo punto di vista, in effetti cadiamo abbastanza spesso in errore, quando, fermamente convinti dell’esistenza di uno stato di cose A, ar—
riviamo con estrema facilità ad affermare: è impensabile che qualcuno giudi— chi non-A. Analogamente potremmo anche dire: è impensabile che qualcuno re3pinga il principio di non—contraddizione, del quale appunto abbiamo la con— vinzione più ferma; e ancora: nessuno e in grado di ritenere contemporane— amente vere due proposizioni contraddittorie. Può darsi che quest’asserzione sia comprovata da un giudizio di esperienza che puo anche imporsi con parti— colare vivacità e derivare dalla sperimentazione di numerosi esempi; ma non
possediamo l’evidenza che ciò accada in generale e necessariamente. Possiamo descrivere la situazione reale in questi termini: abbiamo un’evi— denza apodittica, e cioè una comprensione evidente nel senso pregnante della parola, in rapporto al non essere insieme vere di due proposizioni contraddittorie, oppure, rispettivamente, per il non sussistere insieme degli stati di cose-. La legge di questa incompatibilità & l’autentico principio di non-contraddizione. L’evidenza apodittica si estende poi anche a un’applicazione pratica sul terreno della psicologia: noi comprendiamo con evidenza che due giudizi contraddit— tori non possono coesistere in modo tale che entrambi non facciano altro che cogliere giudicativamente ciò che è dato nelle intuizioni fondanti. Più in generale, comprendiamo che i giudizi evidenti, non solo in modo assertorio, ma anche in modo apodittico, che abbiano carattere contraddittorio, non posso— no coesistere ne’ nella stessa coscienza né in coscienze diverse. Con tutto ciò,
si è detto soltanto che di fatto nessuno può trovare come coesistenti nel pro— prio ambito di intuizione o di comprensione stati di cose che sono, in quanto
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contraddittori, oggettivamente incompatibili — ma con ciò non si esclude af— fatto che essi possano essere ritenuti coesistenti. Ci manca invece un’evidenza
apodittica in rapporto ai giudizi contraddittori in generale; sappiamo soltan— to per esperienza che, in alcuni casi, all’interno di classi praticamente note e sufficientemente definite per fini pratici, vi sono atti giudicativi contradditto— riche di fatto si escludono.
28. La pretesa bilateralità delprincipio di aon—contraddizione, secondo la quale sarebbe a un tempo da intendere come legge naturale delperrsiero elegge «normale» della sua regolamentazione logica Nel nostro tempo, che dimostra tanto interesse per la psicologia, ben pochi sono i logici che hanno saputo mantenersi del tutto immuni dai fraintendimen— ti psicologici dei principi logici. E tra questi non sono neppure da annoverare coloro che hanno preso posizione contro una fondazione psicologica o colo—
ro che, per altri motivi, rifiuterebbero come un’offesa l’accusa di psicologismo. Si noti che, se si riflette sul fatto che ciò che non e psicologico non e neppure accessibile alla spiegazione psicologica e quindi ogni tentativo di gettare luce sull’essenza delle «leggi del pensiero» mediante indagini psicologiche presuppone, nonostante ogni buona intenzione, la loro reinterpretazione psicologica,
allora si dovranno annoverare in questo ambito tutti ilogici tedeschi che se— guono l’indirizzo a cui Sigwart ha dato l’avvio, per quanto essi possano essere rimasti lontani dalla espressa formulazione o dalla caratterizzazione di que— ste leggi come leggi psicologiche e averle contrapposte alle altre leggi della psi— cologia. Se questo slittamento del pensiero non è direttamente rilevabile nelle formule scelte per esprimere la legge, tanto più sicuramente esso diverrà per— cepibile nella loro illustrazione o all’interno delle singole esposizioni. Particolarmente degni di nota ci sembrano i tentativi di dare al principio di non—contraddizione una posizione duplice, in base alla quale esso da un la— to dovrebbe costituire, come legge naturale, una forza determinante del nostro giudicare di fatto, dall ’altro, come legge normale, dovrebbe formare il fondamento di tutte le leggi logiche. In modo particolarmente stimolante questa concezione e sostenuta da PA. Lange nei suoi Logisclte Studien, uno scritto
penetrante che del resto non vuole essere un contributo per far avanzare una logica psicologistica nello stile di Mill, ma «per una nuova fondazione della logica formale». Certo, quando si esamina da vicino questa nuova fondazio— ne e si legge che le verità. della logica si deducono, come quelle della matematica, dall’intuizione spaziale,“ che le basi semplici di queste scienze, «in quanto
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in generale garantiscono la rigorosa correttezza di ogni conoscenza», «sono le basi della nostra organizzazione intellettuale», e che quindi «la legalità che noi ammiriamo in esse deriva da noi stessi... dalla base inconscia di noi stes— si»,” non si potrà fare a meno di classificare la posizione di Lange ancora come una forma di psicologismo, solo di altro genere al quale appartengono anche l’idealismo formale di Kant — secondo l’interpretazione oggi dominante — e le diverse varianti della teoria delle facoltà o delle «fonti» innate di conoscenza.” Ecco come Lange illustra la propria posizione: «Il principio di non—contraddizione ’e il punto nel quale le leggi naturali del pensiero si toccano con le leggi normali. Le condizioni psicologiche che ci consentono di formare rappresentazioni e che producono con nel inesauribile ricchezza mediante la loro attività inalterabile sia la verità sia l’errore gui— e delimitate integrate, vengono regola, alcuna da guidato pensiero spontaneo non date nel loro operare verso un fine determinato dal fatto che noi non possiamo unificare nel nostro pensiero gli opposti, non appena essi vengono, per cosi dire, portati a coin— cidenza. Lo spirito umano accoglie in se le più grandi contraddizioni, fintanto che puo se racchiudere gli opposti in ambiti diversi di idee, in modo da tenerli separati; soltanto og— medesimo al il medesimo enunciato si riferisce immediatamente con il suo opposto getto, allora cessa questa capacità di unificazione; nasce un’incertezza totale oppure una delle due asserzioni viene necessariamente meno. Certo, dal punto di vista psicologico, e questo annientamento del contraddittorio può essere provvisorio, nella misura in cui raente profondam è che era ioni. contraddiz delle immediata a provvisoria la coincidenz dicato nei diversi campi del pensiero non si distrugge senz’altro non appena nuove argo— mentazioni consequenziali dimostrano la sua contraddittorietà. È vero che nel punto in cui si portano a coincidenza immediata le conseguenze dell’una e dell’altra proposizion ne, l’eitietto si fa comunque sentire, solo che esso non sempre arriva a colpire, attraverso l’intera serie della deduzione, la sede stessa delle contraddizioni originarie. Spesso l’errore viene protetto dal dubbio sul carattere stringente della serie di deduzioni sillogistiche, sull’identità dell’oggetto della deduzione; e se anche viene momentaneamente distrut— to, esso si forma nuovamente e si riconferma a partire dall’ambito abituale delle asso— ciazioni rappresentative, fino a quando non viene a cadere sotto il rinnovarsi dei colpi. «Nonostante questa tenacia dell’errore, la legge psicologica della non unificabilità delle contraddizioni immediate nel pensiero non può con il tempo non far sentire ugualmerp te i propri effetti. Essa ’e una lama affilata mediante la quale, con il progredire dell’espe— insostenibili, rienza, a poco a poco vengono annientate le associazioni rappresentative
mentre permangono quelle più sostenibili. Essa è il principio distruttivo nel progresso naturale del pensiero umano, il quale, simile al progresso degli organismi, poggia sul— la produzione di associazioni sempre nuove di rappresentazioni, la grande massa delle quali viene annientata di continuo, mentre le migliori sopravvivono e restano operanti.
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«Questa legge psicologica della contraddizione. .. e data direttamente attraverso la no— stra organizzazione e agisce prima di ogni esperienza, in quanto è condizione di ogni esperienza. La sua e un’efficacia oggettiva: per agire non ha bisogno neppure di esse— re portata alla coscienza.
«Ora, se noi vogliamo intendere questa stessa legge come base della logica e ricono— scerla come legge norrnaie di ogni pensare, poiché essa opera come legge naturale an— che senza il nostro riconoscimento, allora per convincerci abbiamo bisogno qui, come per tutti gli altri assiomi, dell’intuizione tipica».I3 «Qual è l’elemento essenziale della logica se mettiamo da parte tutte le componenti psicologiche? Null’altro che il fatto del costante superamento di ciò che è contraddittorio. Sul terreno dell’intuizione nello schema e un puro e semplice pleonasmo dire che la contraddizione non pad sussistere, come se dietro il fondamento del necessa— rio si nascondesse ancora una necessità. Il fatto e che essa non esiste, che ogni giudizio che supera i limiti del concetto, immediatamente viene soppresso da un giudizio opposto, sicuramente fondato. Questo superamento di fatto e tuttavia per la logica il fon— damento ultimo di ogni regola. Dal punto di vista psicologico si pub indicarlo anche come necessario, considerandolo come un caso speciale di una legge naturale generale,-, ma con ciò la logica non ha nulla a che fare; essa, insieme alla sua legge fonda men— tale di contraddizione, trae di qui soltanto la sua origine.»14
Queste teorie di FA. Lange hanno esercitato un’influenza sensibile in parti— colare su Kroman15 e su Heymans.lé A quest’ultimo noi dobbiamo un tentati— vo sistematico di realizzare con la maggiore coerenza possibile la teoria della conoscenza su base psicologica. Nella misura in cui questo tentativo è, in cer— to modo, un limpido esperimento mentale, non può che essere oggetto della nostra particolare attenzione e presto avremo occasione di esaminarlo più da
vicino. — Concezioni analoghe troviamo espresse anche da Liebman” e, con nostra sorpresa, in una trattazione che attribuisce giustamente alla necessità
logica «validità assoluta per ogni essere pensante razionale», «indifferentemente dal fatto che la sua costituzione coincida o no con la nostra». Dopo quanto si è detto, ciò che abbiamo da obiettare a queste teorie ri— sulta chiaro. Noi non neghiamo i fatti psicologici dei quali si parla nell’acuta esposizione di Lange; ma sentiamo la mancanza di tutto ciò che potrebbe giu— stificare il fatto che in questo contesto si parli di legge naturale. Le varie formulazioni di questa presunta legge, se poste a confronto con i fatti, appaiono come una loro esposizione senz’altro inadeguata e imprecisa. Se Lange aves— se tentato di delimitare e descrivere con precisione concettuale le esperienze a noi familiari, non gli sarebbe potuto sfuggire che in nessun modo esse pos— sono valere come casi particolari di una legge che possa essere detta esatta nel
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senso dei principi logici. Di fatto, ciò che ci viene presentato come «legge na— turale della contraddizione» si riduce a una generalità empirica approssimativa, che come tale è affetta da una sfera di indeterminatezza che in generale non e fissabile in modo più preciso. Inoltre, essa si riferisce soltanto agli individui psichici normali; quanto al comportamento dello psichicamente ab— norme, potremo interrogare l’esperienza quotidiana della normalità, ma essa non è in grado di dirci alcunchè. In breve, sentiamo la mancanza di un atteg— giamento rigorosamente scientifico che e una esigenza imprescindibile ogni qual volta si utilizzano giudizi di esperienza prescientifici a scopi scientifici. Noi ci opponiamo decisamente alla confusione della vaga generalità empirica con la legge assolutamente esatta e puramente concettuale, che e la sola ad aver posto nella logica: riteniamo anzi assurdo identificare l’una con l’altra o
ma anzitutto Sigvvart, il cui ampio influsso sulla logica moderna giustifica un esame più preciso del modo in cui egli tratta questo problema. «Il principio di non-contraddizione» pensa questo insigne logico «si pre— senta come legge normale… solo nel senso in cui esso e una legge naturale e fiSSEI semplicemente il significato della negazione. Ma mentre come legge na— turale esso dice soltanto che è impossibile dire con coscienza e in un momento qualsiasi che A e b e A non e in, come legge normale esso viene applicato all’in— tero ambito dei concetti costanti, ai quali si estende in generale l’unità della coscienza; sulla base di questo presupposto, esso fonda cio che comunemente viene detto principium controdiciionis, che ora tuttavia non rappresenta il corrispondente parallelo del principio di identità (nel senso della formula A e A), ma presuppone che esso, e cioè la costanza assoluta dei concetti stessi, sia una
zione appellandosi alla sua presunta bilateralità. Soltanto il disinteresse verso l’autentico statuto di significato della legge logica ha fatto trascurare che questa non ha né direttamente né indirettamente il minimo rapporto con il supe— ramento di fatto di ciò che e contraddittorio nel pensiero. Questo superamento di fatto riguarda evidentemente soltanto ivissuti giudicativi dello stesso in— dividuo in uno stesso e identico momento temporale, in uno stesso e identico atto; non concerne l’affermazione o la negazione in individui diversi o in tempi e atti differenti. Tener conto di queste distinzioni e cosa essenziale in rap— porto al fattuale che qui è in questione: ma esse non sono tali da incidere in qualche modo sulla legge logica. Quest’ultima non parla della lotta tra giudizi contraddittori, di questi atti temporali realmente determinati in questo o in quel modo, ma dell’incompatibilità, dal punto di vista della legge, di quelle unità atemporali e ideali che noi chiamiamo proposizioni contraddittorie. La verità secondo la quale, se vi e una coppia di queste proposizioni. esse non so— no entrambe vere, non contiene nemmeno l’ombra di un’asserzione empirica su una coscienza qualsiasi e sui suoi atti giudicativi. Questo e il punto che bi— sogna aver ben chiaro una volta per tutte per comprendere la non validità del— la concezione che abbiamo sottoposta a critica.
Lo stesso si legge nella trattazione che riguarda il principio di identità (interpretato come principio di concordanza): «La differenza concernente la considerazione del principio di concordanza come legge naturale e come legge normale, non risiede... nella natura sua propria, ma nei presupposti ai quali esso viene applicato. Nel primo caso, viene applicato a cio che e appun— to presente alla coscienza; nel secondo, allo stato ideale di un presente asso— lutamente immutabile del contenuto rappresentativo totale e ordinato, per una solo coscienza, uno stato che, dal punto di vista empirico, non può mai essere completamente soddisfatto:».Efi Ed ecco i nostri dubbi. Come può un principio che (come il principio di non—contraddizione) «fissa il significato della negazione», avere il carattere di una legge naturale? Certamente Sigwart non pensa. che questo principio indichi il senso della parola negazione nel modo della definizione nominale. Sigwart può pensare soltanto che tale principio si fondi nel senso della negazione, che esso presenti ciò che appartiene al significato del concetto di negazione: in altre parole, se si rinunciasse a questo principio, si dovrebbe rinunciare anche al si— gnificato della parola negazione. Ma proprio questo non potrà mai costituire lo statuto di pensiero di una legge naturale, e specialmente di quella che Sigvvart formula con le parole seguenti: e impossibile dire con coscienza in un momen— to qualsiasi che A e b e che A non e b. Proposizioni che si fondano in concetti (e che non si limitano a trasferire ai fatti ciò che si fonda nei concetti) non possono enunciare ciò che noi possiamo fare o non fare in un momento qualsiasi con coscienza; se esse sono, come insegna Sigwart altrove, sovratemporali, allora non possono avere alcun contenuto essenziale che concerna il temporale, e quindi il fattuale. Ogni intervento dei fatti nelle proposizioni di questo genere sopprime inevitabilmente il loro senso autentico. È chiaro che quella legge na-
dedurre l’una dall’altra, o anche congiungerle nella legge di non—contraddi—
29. Continuozione. Le teorie di Sigwart Già prima di Lange, troviamo altri pensatori eminenti che sostengono la teoria qui contestata del duplice carattere dei principi logici fondamentali; tra essi vi e lo stesso Bergmann, come risulta da alcune sue osservazioni incidentali, il quale peraltro mostra poca inclinazione a fare concessioni allo psicologismo;18
condizione già soddisfatta.»lg
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turale che parla del temporale e la legge normale (il principio di non-contrad— dizione vero e proprio) che parla dell’intemporale, sono del tutto eterogenee, e che quindi non si può trattare di una sola legge, che si presenti con identico significato, ina in ana funzione o in ana sfera di applicazione diversa. Del resto, se l’opinione contraria fosse giusta, sarebbe possibile indicare una formula ge… nerale che colga sia la legge sui fatti che quella sugli oggetti ideali. Chi insegna che esiste una sola legge, deve disporre di una sola formulazione concettual— mente determinata. Ma è chiaro che è vano porre il problema di una formula— zione unitaria di questo genere. Altre esitazioni nascono a proposito di quanto segue. La legge normale dew ve presupporre come soddisfatta la costanza assoluta dei concetti? Allora la legge avrebbe validità solo presupponendo che le espressioni siano sempre usate con lo stesso significato, e ogni volta che questa condizione non è soddisfatta, essa perderebbe la sua validità. Il nostro eminente studioso di logica non puo essere seriamente convinto di cio. Naturalmente l’applicazione empirica del— la legge presuppone che i concetti o le proposizioni, che fungono come significati delle nostre e5pressioni, siano realmente gli stessi, e anche che l’ambito ideale della legge comprenda tutte le coppie di proposizioni di opposta quali— tà, ma di materia identica. Ma naturalmente questo non è un presupposto della validità, come se essa fosse ipotetica, ma della possibile applicazione ai casi singoli già dati. Come il presupposto dell’applicazione di una legge aritmetica è il fatto che ci siano già per noi dei numeri, e precisamente dei numeri con quei caratteri determinati che la legge stessa indica, cosi il presupposto del— la legge logica e che ci siano per noi delle proposizioni, ed essa esige espressamente proposizioni di materia identica. E neppure ci sembra utile riferirsi alla coscienza in generale descritta da Sigsvart.21 ln una coscienza di questo genere, tutti i concetti (più esattamente, tutte le espressioni) sarebbero usati con un significato assolutamente identico, non vi sarebbero significati fluidi, non vi sarebbe alcuna equivocazione o quaternio terminorarn. Ma le leggi logiche non hanno in se stesse alcun essenzia— le rapporto con questo ideale, che noi ci formiamo piuttosto soltanto in forza di esse. Il costante ricorso alla coscienza ideale fa sorgere l’imbarazzante sensazione che le leggi logiche posseggano validità, in senso proprio e rigoroso, soltanto per i casi ideali prodotti da finzione, invece che per i casi particolari che accadono empiricamente. Abbiamo già discusso in quale senso le proposizioni della logica pura «presuppongono» concetti identici. Se le rappresenta— zioni concettuali sono fluide, se cioè nel ritorno della «medesima» espressione
si modifica alo» statuto concettuale della rappresentazione, allora noi non abbiamo più, in senso logico, lo stesso concetto, ma un altro concetto, e cosi an—
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che nel caso di ogni modificazione ulteriore. Ma ogni unità singola di per se’ è un’unità sovraempirica e cade sotto le verità logiche che si riferiscono alla sua
forma eventuale. Come il flusso dei contenuti di colore e l’imperfezione dell’i— dentificazione qualitativa non tocca le differenze dei colori come specie qualitative, come una sola specie è qualcosa di idealmente identico di fronte alla
molteplicità dei casi singoli possibili (i quali sono appunto casi di un colore, e non colori), cosi accade anche con i significati o i concetti identici in rapporto alle rappresentazioni concettuali, dei quali essi sono i ticontenutis. La facoltà di cogliere intuitivamente il concetto nella rappresentazione empirica, ideando il generale nel singolare, di accertare l’identità dell’intenzione concettuale nel ripetersi delle rappresentazioni, è il presupposto della possibilità della cono— scenza. E come noi cogliamo intuitivamente nell’atto dell’ideazione una unità concettuale — l’unità della specie che può essere da noi sostenuta con evidenza di fronte alla molteplicità dei casi singoli fattuali o rappresentati fattualmen— te — così possiamo anche ottenere l’evidenza delle leggi logiche che si riferisco— no a questi concetti, che hanno questa o quella forma. Ai «concetti», in questo senso di unità ideali, appartengono ora anche le «proposizioni» di cui parla il principianz contradictionis, e cosi in generale i significati dei segni alfabetici che vengono usati nelle espressioni formali delle proposizioni logiche. Ogni qual volta noi compiamo atti di rappresentazione concettuale, abbiamo anche dei concetti. Le rappresentazioni hanno iloro «contenuti», iloro significati ideali, di cui ci possiamo impossessare astrattivamente nell’astrazione ideante; e abbiamo perciò sempre la possibilità di applicare le leggi logiche. La validità di queste leggi e tuttavia assolutamente illimitata, essa non dipende dal fatto che noi (o chiunque altro) possiamo compiere fattualmente rappresentazioni concettuali, mantenerle o ripeterle con la coscienza di un’intenzione identica.
Prolegomeni e una logica paro
VI. La sillogistica alla luce delle psicologisrno. Formule inferenziali e formule chimiche
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pretazione psicologica nella possibilità di dimostrare la falsità di un’inferenza; questa dimostrazione non consisterebbe infatti nel far ricredere chi non ragiona ancora secondo il principio di non—contraddizione, ma nell’indicare la contrad— dizione commessa inavvertitamente nella falsa inferenza. Si potrebbe chiedere qui se le stesse contraddizioni inavvertite non siano esse stesse contraddizioni, e se il principio logico esprima soltanto la non unificabilità delle contraddizio-
ni avvertito, mentre nel caso di quelle inavvertite ammetta il loro essere vere in— sieme. Risulta ancora una volta chiaro — basti pensare alla differenza tra la non
unificabilità psicologica e quella logica — che noi ci aggiriamo nella oscura sfera delle equivocazioni di cui si è detto. Si potrebbe aggiungere che è improprio parlare di contraddizioni «inavver— tite>> che sarebbero contenute nella falsa inferenza: solo nel decorso concettuale
30. Saggi di interpretazione psicologistico delle proposizioni sillogistiche Nelle considerazioni svolte nel capitolo precedente ci siamo basati soprattutto sul principio di non-contraddizione perché proprio qui, come nel caso di ogni ali tro principio fondamentale, molto grande e la tentazione di una concezione psicologistica. In effetti, le motivazioni mentali che spingono in questa direzione hanno un pronunciato carattere di ovvietà. Inoltre, di rado la dottrina empiristica viene sviluppata in modo specifico in rapporto alle leggi inferenziali. Poiche queste sono riducibili ai principi fondamentali, si pensa che di esse ci si possa disinteressare, in quanto non porrebbero particolari problemi. Se questi assiomi sono leggi psicologiche e se le leggi sillogistiche sono conseguenze puramen— te deduttive degli assiomi, allora anche queste ultime avranno necessariamente il senso di leggi psicologiche. Basterà tuttavia osservare che ogni falsa inferenza presenta un’istanza opposta e decisiva: in realtà, da una deduzione di questo ge— nere si dovrebbe trarre un argomento contro la possibilità di qualsiasi interpretazione psicologica degli assiomi. Si pensi inoltre che la necessaria accuratezza nella fissazione concettuale e linguistica del preteso statuto psicologico degli as— siomi dovrebbe convincere l’empirista che essi non possono offrire in tale inter— pretazione il minimo contributo alla dimostrazione delle formule inferenziali e che, ogni qual volta ha luogo una dimostrazione, i punti iniziali come quelli ter— minali hanno il carattere di leggi in senso toto coelo diverso da ciò che in psicologia viene detto legge. Ma anche le più chiare confutazioni falliscono contro la convinta leggerezza della teoria psicologistica. G. Hevmans, che di recente ha sviluppato questa teoria in modo particolareggiato, si preoccupa tanto poco dell’esistenza di false inferenze da scorgere addirittura una conferma dell’inter—
della confutazione la contraddizione si presenterebbe come qualcosa di nuovo, e cioè come conseguenza del modo inferenziale erroneo. A. ciò si collegherebbe (sempre in senso psicologico) l’ulteriore conseguenza che noi ci vedremmo ob« bligati a respingere come erroneo questo modo inferenziale — e con ciò avremmo guadagnato ben poco. Un certo sviluppo di pensieri ha questo esito, un altro sviluppo un altro esito. Nessuna legge psicologica lega la «confutazione» alla falsa inferenza; comunque spesse volte l’inferenza si presenta senza la con— futazione e si afferma nella convinzione. A quale titolo dunque proprio questo sviluppo di pensieri, che si ricollega all’inferenza illusoria soltanto in determinate circostanze psichiche, puù senz’altro imputare a essa una contraddizione, contestandole non soltanto la «validità:—:- in queste circostanze, ma la validità
oggettiva, assoluta? Proprio cosi accade naturalmente per le forme inferenziali «corrette»— in rapporto alla loro fondazione giustificativa mediante gli assiomi iogici. Come può il corso fondante dei pensieri che interviene soltanto in certe circostanze psichiche, pretendere di caratterizzare come assolutamente valida la corrispondente forma inferenziale? A siffatte domande la dottrina psicologi— stica non ha alcuna risposta accettabile; qui, come altrove, le manca la possibi— lità di rendere comprensibile l’istanza di validità oggettiva delle verità logiche, e con ciò anche la loro funzione come norme assolute del giudicare corretto e di quello falso. Più volte e stata sollevata questa obiezione, più volte si è notato che l’identificazione tra legge psicologica e legge logica sopprime qualsiasi differenza tra pensare corretto e pensare erroneo, poiche’ i modi erronei del giodi— zio non procedono meno secondo leggi psicologiche che quelli corretti. Oppure dovremmo, per esempio sulla base di una convenzione arbitraria, indicare come veri i risultati di certe leggi e come falsi quelli di altre? Che cosa risponde l’empirista a tali obiezioni? «Certo, il pensiero rivolto alla verità tende a produr—
re tra i pensieri legami non contraddittori; ma il valore di questi legami si trova
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Prolegomeni o una logico puro
Ricerche logiche
ancora nella circostanza che di fatto soltanto il non contraddittorio può essere affermato, e quindi il principio di non-contraddizione e una legge naturale del pensiero.»-1 Una strana tendenza, si dirà, si pretende qui sia propria del pensie ro: una tendenza a porre tra i pensieri legami non contraddittori, mentre non vi sono e non vi possono essere altri legami che quelli non contraddittori — al— meno ammettendo che esista realmente la «legge naturale» di cui qui si parla. Oppure è forse un miglior argomento dire: «Non abbiamo nessun altro motivo di condannare come “scorretto” il legame tra due giudizi che si contraddicono se non appunto il fatto che sentiamo istintivamente e immediatamente l’im— possibilità di affermarli contemporaneamente. Si tenti ora di dimostrare, indipendentemente da questi fatti, che soltanto il non contraddittorio puo (durfen) essere affermato: per poter eseguire la dimostrazione si dovrà allora sempre presupporre ciò che è da dimostrare» (op. cit., p. 69). Vediamo qui senz’altro l’a— zione delle equivocazioni analizzate in precedenza: la comprensione evidente della legge logica secondo la quale due proposizioni contraddittorie non sono
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avviene, per esempio, nella combinazione MeX + MeY, di ciò per il momento non sappiamo ancora nulla. Ma della necessità ineluttabile che domina que— sti rapporti e che, se sono date le premesse, ci costringe a ritenere vere anche le conseguenze, ci si potrebbe convincere mediante la ripetizione degli... espe— rimenti.»2 Naturalmente, questi esperimenti vanno effettuati «escludendo tutti gli influssi perturbatoria e consistono «nel rendere presenti e nel portare alla massima chiarezza possibile i giudizi corrispondenti che fungono da premesse, per poi lasciare agire il meccanismo del pensiero e stare a vedere se vengano o no prodotti nuovi giudizi». Ma se viene alla luce realmente un nuovo giudizio, allora si deve badare in modo particolare se si presentano nella coscienza, ol— tre il punto iniziale e quello finale del processo, altri stadi intermedi particolari e prendere nota di questi con la maggiore completezza ed esattezza possibile.3 Cio che in questa concezione ci sorprende e l’asserzione che nel caso delle combinazioni escluse dai logici non abbia luogo alcuna produzione di nuo— vi giudizi. Eppure, in rapporto a ogni falsa inferenza, per esempio della forma
insieme vere viene identificata con la «sensazione» istintiva e presuntivamen—
te immediata della capacità psicologica di compiere contemporaneamente atti giudicativi contraddittori. Si identificano cosi l’evidenza e la cieca convinzio— ne, la generalità esatta ed empirica, l’incompatibilità logica degli stati di cose e l’incompatibilità psicologica degli atti di credenza, quindi il non—poter-essereinsieme—vero e il non-poter—credere—contemporaneamente.
31. Formule inferenziali eformule chimiche Heyma ns cerca di rendere plausibile la teoria secondo la quale le formule infe— ren ziali esprimono «leggi empiriche del pensiero» mettendole a confronto con le formule chimiche. «Proprio come nella formula chimica ZH2 + 02 = 2H,O si esprime soltanto il fatto generale che due molecole di idrogeno e una mole— cola di ossigeno si congiungono in circostanze appropriate in due molecole di acqua, cosi la formula logica
'
MaX + MaY : YiX + XiY
esprime soltanto che due giudizi affermativi universali con un concetto di sog— getto comune in circostanze appropriate producono nella coscienza due nuo-
vi giudizi affermativi particolari, nei quali il concetto di predicato dei giudizi originari si presenta come concetto di predicato e concetto di soggetto. Per— che in questo caso abbia luogo la produzione di nuovi giudizi, mentre ciò non
XeM + MeY : XeY
si dovrebbe dire che in generale due giudizi della forma XeM e MeY, «in circo— stanze appropriate», danno origine nella coscienza a un nuovo giudizio. Anche in questo caso, come in ogni altro, l’analogia con le formule chimiche si rivela inopportuna. Naturalmente, non è lecito obiettare che le circostanze nei due casi non sono identiche. Dal punto di vista psicologico, esse hanno tutte lo stesso interesse e le proposizioni empiriche corrispondenti hanno lo stes— so valore. Perche’ dunque facciamo questa distinzione fondamentale tra le due classi di formule? Se ci venisse rivolta questa domanda, naturalmente rispon— deremmo: perchè in rapporto alle prime siamo pervenuti e comprendere con evidenza che e vero ciò che esse esprimono, mentre e falso cio che viene espresso delle seconde. Ma l’empirista non può dare questa risposta. Anzi, stando all’interpretazione da lui accettata, le proposizioni empiriche corrisponden— ti alle false inferenze sono altrettanto valide quanto quelle corrispondenti al— le altre inferenze. L’empirista si appella all’esperienza di quell’eineluttabile necessità» la quale «se sono date le premesse ci costringe a ritenere vere anche le conseguenze». Ma tutte le inferenze, logicamente giustificate o no, si compiono con necessi— tà psicologica e sempre la stessa è anche quella costrizione che noi sentiamo, naturalmente solo in certe circostanze. Chi, nonostante tutte le obiezioni cri— tiche, continua a attenersi a una falsa inferenza sente l’>. Asserire è infatti enunciare che questo o quel contenuto e in verità. Una fondazione che,
dal punto di vista del contenuto, si trovi in contrasto con i principi che si fondano nel senso del rapporto di premessa e conseguenza si autosopprime. Fon— dare significa infatti ancora enunciare che sussiste questo o quel rapporto di
giudizio intuitivo immediato, della determinazione temporale e anche spaziale).
premessa e conseguenza ecc. Un’asserzione si «autosopprime», &: «logicamente assurda», cioè: il suo contenuto particolare (senso, significato) contraddice cio che le categorie di significato che gli sono proprie esigono in generale, cio che in generale è fondato nel suo significato. Ora e chiaro che in questo senso pre— gnante ’e logicamente assurda ogni teoria che deduca i principi logici da fatti di qualsiasi genere. Ciò si trova in contrasto con il senso generale dei concetti «principio logico:-> e «fatto», o più esattamente e in generale: «verità unicamen— te fondata nel contenuto dei concetti—»- e «verità relativa all’esistenza individuale». Non è difficile rendersi conto che le obiezioni contro la teoria relativistica discussa in precedenza colpiscono nella sostanza anche il relativismo nel sen— so più generale del termine.
32 Osservazione generale. Il concetto di relativismo in senso ampio
38. Lo psicologisrno in tutte le sueforrrre è relativismo
Le due forme di relativismo sono casi particolari di relativismo inteso in sen— so molto ampio come teoria che deduce in qualche modo i principi puramente logici dai fatti. I fatti sono «accidentali»: potrebbero anche non essere oppure essere diversi da quello che sono. Quindi ad altri fatti, altre leggi logiche; an… che queste sarebbero perciò accidentali, relative ai fatti che le fondano. In rap— porto a tutto ciò non intendo qui soltanto richiamare l’attenzione sull’evidenza apodittica delle leggi logiche e su tutti gli altri elementi che abbiamo fatto valere nel capitolo precedente, ma anche su un altro punto qui più importante.“} Come risulta già da quanto finora si e detto, per leggi puramente logiche in— tendo tutte le leggi ideali che si fondano puramente nel senso (.
45. Confatazione: anche la matematica para diventerebbe un ramo della psicologia
Proiegorneni a una iogica para
13?
dotti psichici e come tali sono sottoposti alle leggi psichiche. Si potrà certo augurarsi che la psicologia moderna, con la sua seria aspirazione a raggiungere l’esattezza, si possa estendere anche alle teorie matematiche, ma difficilmente €553, gradirebbe vedersi attribuire la matematica stessa come una sua parte. E
indubbio infatti che queste due scienze siano eterogenee. Del resto, dalla par— te opposta, il matematico sorriderebbe se gli si imponesse di studiare la psi— cologia, con l’idea che egli avrebbe cosi la possibilità di un fondamento che si presume migliore e più profondo alle sue costruzioni teoriche. Egli direb— be giustamente che la sfera matematica e quella psicologica sono mondi cosi estranei che l’idea stessa di una loro mediazione sarebbe assurda; proprio qui, più che mai, sarebbe lecito parlare di ucrd[3aorc eic, iziÀlto vàvoc.”
46. il campo di indagine della logica para, come quello della matematica para, e ideale Certo, con queste obiezioni ancora una volta siamo caduti in argomentazioni
Per quanto tutto ciò possa sembrare ovvio, esso e in realtà necessariamente erroneo. Questo insegnano le conseguenze assurde a cui, come sappiamo, lo psicologismo non può sfuggire. Ma anche un altro elemento dovrebbe qui indurre alla riflessione: l’affinità naturale tra dottrine puramente logiche e dot— trine aritmetiche, che spesso ha anzi condotto all’asserzione della loro unità. teoretica. Come abbiamo già avuto occasione di ricordare, anche Lotze ha in… segnato che la matematica dovrebbe rappresentare «un ramo della logica gene— rale che si sviluppa in modo autonomo». Soltanto una separazione determinata da fini pratici di insegnamento - egli pensa — «fa trascurare il pieno diritto di cittadinanza della matematica nel regno generale della logicaad2 Persino secon— do Riehl «si potrebbe dire a buon diritto che la logica coincida con la parte ge— nerale della matematica puramente formale (intendendo questo concetto nel senso di H. Henkel). . .».13 Comunque ne sia della questione, l’argomento rite— nuto giusto per la logica dovrà essere riconosciuto valido anche per l’aritme— tica. Essa presenta leggi per i numeri, perle loro relazioni e connessioni. Mai numeri sorgono dal collegare (koiiigieren) e dal contare, che sono attività psichiche. Le relazioni sorgono dall’atto di relazionare, le connessioni dall’atto del connettere. Addizionare e moltiplicare, sottrarre e dividere — non sono altro che processi psichici. Che essi abbiano bisogno di supporti sensibili, non cam— bia nulla: la stessa cosa si puo dire per qualsiasi attività del pensiero. Anche le somme, i prodotti, le differenze e i quozienti, e qualsiasi cosa che si presenti nelle proposizioni aritmetiche come soggetto a regola, non sono altro che pro—
relative alle conseguenze. Ma. se guardiamo al loro contenuto troviamo uno
spunto che ci consente di indicare gli errori fondamentali della concezione av— versa. Come sicuro motivo-guida ci può servire il confronto tra logica pura e matematica para come disciplina affine, matura ed evoluta che non ha più bisogno di lottare per conquistarsi il diritto a un’esistenza autonoma. Rivolgia— mo quindi la nostra attenzione anzitutto alla matematica. Nessuno concepisce le teorie puramente matematiche, per esempio, la teoria pura dei numeri cardinali, come «parti o rami della psicologia», anche se senza contare non avremmo numeri, senza sommare somme, senza moltipli—
care prodotti ecc. Tutte le formazioni operazionali dell’aritmetica rimandano a certi atti psichici dell’operare aritmetico e soltanto nella riflessione su tali atti si può «far vedere» che cosa sia il numero cardinale, la somma, il prodotto ecc.
Eppure, nonostante quest’eorigine psicologica» dei concetti aritmetici, ognu— no riconosce che risulta un’erronea uerdBaorg: pretendere che le leggi mate— matiche siano leggi psicologiche. Come si può spiegare ciò? Vi è qui soltanto una risposta. Naturalmente la psicologia ha a che fare con il contare e con l’oe perare aritmetico in quanto fatti, in quanto atti psichici che hanno un decor— so temporale. Essa è appunto la scienza empirica dei fatti psichici in generale. Altrimenti stanno le cose per l’aritmetica. Il suo campo di indagine e noto, es— se è completamente e insuperabilrnente determinato dalla serie che ci è fami— liare delle specie ideali. 1, 2, 3. .. in questa sfera non si parla per nulla di fatti individuali, di determinatezza temporale. Numeri, somme,. prodotti di nume?
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ri e simili non sono gli atti che si verificano qui e là in modo accidentale, del
contare, sommare, moltiplicare ecc. Ovviamente essi sono anche diversi delle
rappresentazioni nelle quali di volta in volta vengono rappresentati. Il numero cinque non :: l’atto di contare sino a cinque che io o qualsiasi altro può elfet— tuare e non e neppure la mia rappresentazione del cinque o quella di qualsiasi altro. Mentre da quest’ultimo punto di vista, esso è un oggetto possibile di atti rappresentazionali, dal primo esso e la specie ideale di una forma che ha i suoi casi singoli concreti in certi atti del contare effettuati su ciò che in essi e dato come oggetto, su ciò che si costituisce come collettivo (Kollektivunt). In
ogni caso, non lo si può intendere come parte o aspetto di un vissuto psichico, quindi neppure come qualcosa di reale, senza cadere in un controsenso. Se ci rendiamo chiaramente conto di che cosa sia propriamente il numero cinque,
se otteniamo una rappresentazione adeguata del cinque, fermeremo anzitutto un atto articolato di rappresentazione collettiva di cinque oggetti qualsia— si. In esso il «collettivo» e dato in una certa forrna di articolazione e con ciò è dato intuitivamente anche un caso singolo della suddetta specie numerica. In rapporto a questa singolarità intuitiva, noi compiamo ora un’, il logico non intende «ogni atto giudicativo», ma «ogni proposizione oggettiva». Nell’estensione del concetto logico di giudizio non si trova allo stesso titolo il giudizio «2 >< 2 = 4»— che io «vivo» or ora e il giudizio «2 >< 2 = 4» che ieri o in qualsiasi altro momento e per una persona qualsiasi era un vissuto. Al contrario, nessuno di questi atti
figura nell’estensione in questione, ma semplicemente «2 >< 2 = 4» oppure anche, per esempio, «la terra è un cubo», il teorema di Pitagora ecc., e ognuna di queste espressioni vale come un unico membro. Lo stesso accade naturalmente quando si dice «il giudizio S consegue dal giudizio P»; e cosi in tutti i casi analoghi. Con ciò viene definito, e proprio come lo abbiamo caratterizzato nelle no— stre analisi precedenti, il vero senso dei principi logici fondamentali. Si inse— gna che il principio di non-contraddizione è un giudizio su giudizi. Ma se con giudizi si intendono vissuti psichici, assunzioni di verità, atti di credenza ecc., questa concezione non puo essere valida. Chi enuncia questo principio, giudii
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. Chi dice: ca; ma ne’ il principio stesso, né ciò su cui esso giudica, sono giudizi nde cio frainte non se falso», l’altro «di due giudizi contraddittori, uno e vero e ta in effettua ione rpretaz che fa (come può indubbiamente accadere in un’inte ma io giudiz di atti degli un secondo tempo), non intende enunciare una legge so— siamo noi che dei contenuti del giudizio, in altre parole dei significati ideali due «…di dire: liti chiamare brevemente proposizioni. Sarebbe meglio dunque che proposizioni contraddittorie, una e vera e l’altra e falsa».15 È chiaro inoltre far altro per comprendere il principio di non—contraddizione non dobbiamo o affatdobbiam Non . opposti izionali propos ati che renderci presenti i signific cui ci di oggetti gli mai o sarann non essi to pensare ai giudizi come atti reali: all’amche ndere compre per ciò, di su occupiamo. Basta gettare uno sguardo senso idea— bito di questa legalità logica appartengono soltanto giudizi in un o «vi giudizi «al» accanto le — secondo il quale «ila giudizio «2 >< 2 : 5» e unico, a mentre _ ecc. angoli sono draghi», accanto «al» teorema della somma degli sentati rappre o tale ambito non appartiene nessuno degli atti giudicativi reali unità idea— che corrispondono, in una molteplicità infinita, a ognuna di queste per tutti li. Ciò che si e detto per il principio di non—contraddizione, vale anche i principi puramente logici, per esempio per i principi sillogistici. ni La differenza tra il modo psicologico di considerazione che usa itermi e erazion consid di modo il e i psichic come termini di classe relativi a vissuti specie o appunt entano rappres i oggettivoddeale, nel quale questi stessi termin essa definisce una e generi ideali, non e secondaria o meramente soggettiva;
tica co— differenza tra scienze essenzialmente diverse. La logica pura e l’aritme fonda si priori a me scienze delle singolarità ideali di certi generi (o di cio che scien— come nell’essenza ideale di questi generi) si distaccano dalla psicologia za delle singolarità individuali di certe classi empiriche.
48. Le difierenze decisive riconosci— Per finire possiamo porre in evidenza le differenze decisive, dal cui l’argo— verso re mento dipende l’atteggiamento complessivo che si può assume mentazione psicologistica. 1. Tra scienze ideali e scienze reali vi e una differenza essenziale e assoluta— he. Se mente invalicabile. Le prime sono scienze a priori, le seconde empiric e cer— evident con o fondan si che ideali li genera quelle sviluppano le leggi cono, stabilis queste ll), (genere li genera te tezza in concetti autenticamen
ono alla sfea con probabilità evidente, le leggi universali reali, che si riferisc
nsione ra dei fatti. L’estensione dei concetti generali e nel primo caso un’este
tx..ì
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delle differenze specifiche inferiori, nel secondo un’estensione di singolarità individuali temporalmente determinate; gli oggetti ultimi sono là specie ideali, qui fatti empirici. Evidentemente si presuppongono qui le differenze essenziali tra legge ideale e legge naturale, tra proposizioni universali su fatti (che talvolta si possono camuffare da proposizioni generali: tutti i corvi sono neri — il corvo è nero) e proposizioni autenticamente generali (co— me le proposizioni generali della matematica pura), tra concetto empirico di classe e concetto ideale di genus ecc. La giusta valutazione di queste differenze e assolutamente dipendente dal— la definitiva rinuncia alla teoria empiristica dell’estrazione, quella teoria oggi predominante che preclude la comprensione dell’intera sfera logica: un punto di cui in seguito parleremo più diffusamente (cfr. pp. 283 sgg.). . In ogni conoscenza, e specialmente in ogni scienza, bisogna rilevare la fon— damentale differenza fra tre specie di nessi: ri) ll nesso dei vissuti delle conoscenze, nei quali la scienza si realizza soggettivamente, quindi il nesso psicologico delle rappresentazioni, giudizi, atti di comprensione evidente, supposizioni, interrogazioni ecc., attraverso cui
si effettua l’indagine o viene riesaminata una teoria da tempo scoperta. la) Il nesso delle cose indagate nella scienza e teoreticamente conosciute, che formano come tali il campo di questa scienza. ll nesso dell’indagare e del conoscere è visibilmente diverso da quello dell’indagato e del conosciuto. c) Il nesso logico, cioè il nesso specifico delle idee teoretiche che costituisce l’u— nità delle verità di una disciplina scientifica, e in particolare di una teoria scientifica, di una dimostrazione o di una deduzione, e anche l’unità dei concetti nella proposizione vera, delle verità semplici nei nessi di verità ecc. Nel caso della fisica, per esempio, distinguiamo il nesso dei vissuti psichici di chi pensa fisicalisticarnente dalla natura fisica che viene da lui conosciuta, ed entrambi ancora dal nesso ideale delle verità nella teoria fisica, quindi nell’uni— tà della meccanica analitica, dell’ottica teorica ecc. Anche la forma della fonda— zione di probabilità che domina il nesso di fatti e di ipotesi appartiene alla sfera logica. Il nesso logico e la forma ideale, in virtù della quale si parla in specie del— la medesima verità, della medesima deduzione e dimostrazione, della medesima teoria e disciplina razionale — che restano uniche e identiche, chiunque «lea pensi. L’unità di questa forma e una unità di validità conforme a legge. Le leggi alle quali essa sottostà, insieme con tutte le altre forme simili, sono le leggi pura— mente logiche che abbracciano comprensivamente ogni scienza, non in rapporto al suo contenuto psicologico e oggettuale, ma nel suo statuto ideale di significa— to. Ovviamente i nessi determinati di concetti, proposizioni, verità, che forma—
no l’unità ideale di una determinata scienza debbono essere detti logici soltanto
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nella misura in cui cadono ni di sotto della logica come casi singoli; ma essi stes— si non appartengono alla logica come elementi costitutivi. Naturalmente, questi tre nessi distinti concernono anche la logica e l’aritmetica non meno di ogni altra disciplina. Solo che in esse le cose indagate non sono, come nella fisica, fatti reali, ma specie ideali. Tuttavia, come abbiamo già
avuto occasione di ricordare, la logica ha questa caratteristica peculiare: i nessi ideali che formano la sua unità teoretica, cadono co.me casi speciali al di sotto delle leggi che essa stessa pone. Le leggi logiche sono al tempo stesso parti e regole di questi nessi, appartengono contemporaneamente sia al legame teoretico sia al campo della scienza logica.
49. Terzo pregiudizio. La logica come teoria dell ’evidenzo Possiamo formulare il terzo pregiudizio“5 nel modo seguente: ogni verità si trova nel giudizio. Ma riconosciamo vero un giudizio solo quando è evidente. La parola «evidenza» indica — si dice — un carattere psichico particolare, e a chiunque ben noto per propria esperienza interna, un sentimento sui generis,
che garantisce la verità del giudizio al quale è collegato. Se dunque la logica. e una tecnologia il cui scopo e quello di farci progredire nella conoscenza del— la verità, le leggi logiche sono ovviamente proposizioni della psicologia. Sono cioè proposizioni che gettano luce sulle condizioni psicologiche dalle quali dipende la presenza o l’assenza di quel «sentimento di evidenza». Naturalmen— te a queste proposizioni si collegano prescrizioni pratiche che debbono esserci di aiuto nella realizzazione di giudizi che partecipano di questo carattere pri— vilegiato. Comunque, ogni qual volta si parla di norme o di leggi logiche, può accadere che si intendano queste regole del pensiero fondate psicologicamente. Questa concezione affiora in Mill quando, volendo definire la logica rispetto alla psico— logia, asserisce: «Le proprietà del pensiero che riguardano la logica, sono certe sue pro— prietà contingenti, e cioè quelle dalla cui presenza dipende il pensiero buono, distinto da quello cattivoni-’ In seguito egli caratterizza ripetutamente la logica come theory o Philosophy ofevidence (che deve essere concepita in senso psicologico),13 con la qual cosa ei certo non intende direttamente le proposizioni puramente logiche. In Germania questo punto di vista emerge talora in Sigsvart. Secondo lui «nessuna logica puo fare a meno di rendersi conto delle condizioni nelle quali interviene questo sentimento sog— gettivo della necessità [nel capoverso precedente: ”il sentimento interno dell ’evidenza”] e di portare tali condizioni alla loro espressione generale»?9 Molti passi di Wundt sono orientati in questa direzione. Nella sua Logilc, per esempio, leggiamo: «Le proprie—
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tà dell’evidenza e della validità universale, contenute in determinate connessioni del
Pensiero, fanno... sorgere le leggi logiche del pensiero dalle leggi psicologiche». Il loro «carattere normativo è fondato esclusivamente sul fatto che alcune connessioni psico—
lggiCl'lfi del pensiero posseggono di fatto evidenza e validità universale. Infatti solo in questo caso e possibile esigere che il pensiero in generale soddisfi le condizioni dell’evidenza e della validità universale». «Noi indichiamo come leggi logiche del pensiero proprio quelle condizioni che debbono essere soddisfatte per produrre evidenza e va— lidità universale...» Inoltre si insiste espressamente sul fatto che «il pensiero psicolo—
gico resta sempre la thrma più comprensiva»? Verso la fine del secolo scorso, non c’è dubbio che, nel campo degli studi logici, l’interpretazione della logica come psicologia dell’evidenza, applicata praticamente, acquisti maggiore profondità ed estensione. Merita qui particolare menzione la logica di Hofler e Meinong, perché essa deve essere considerata come il primo vero tentativo che sia stato effettuato per imporre, con la massima coerenza possibile, il punto di vista della psicologia dell’evidenza in tutta la logica. Hijfler indica come compito principale della logica l’indagine «sulle leggi (anzitutto psicologiche) in base alle quali il verificarsi dell’evidenza dipende da determinate proprietà delle nostre rappresentazioni e dei nostri giudizi»?1 «Tra tutte le manifesta— zioni del pensiero che accadono realmente oppure che sono rappresentabili come pos— sibili» la logica dovrebbe «mettere in rilievo quei modi (”forme”) del pensiero ai quali spetta direttamente l’evidenza, oppure che sono condizioni necessarie per il verificarsi dell’evidenza».22 Fino a che punto tutto cio abbia un significato psicologistico, a dimo— strato dagli sviluppi successivi. Cosi, per esempio, il metodo della logica, nella misura in cui concerne la base teoretica della teoria del pensare corretto, viene caratterizzato in modo analogo al metodo che la psicologia usa nei confronti di tutti i fenomeni psi— chici; esso deve descrivere in particolare le monjestozioni del pensare corretto e quindi rinviare per quanto e possibile a leggi semplici., cioè spiegare le manifestazioni più complesse a partire da quelle più semplici (op. cit., p. 18). E di conseguenza alla teoria logica dell’inferenza si attribuisce il compito di «fissare le leggi. .. determinare quali caratteristiche debbano possedere le premesse perché da esse si. possa dedurre con evi— denza un determinato giudizio» ecc.
50. Il mutamento equivalente diforrno deiprincipi logici in principi sulle condizioni ideali dell’evidenzo del giudizio. Iprincipi che ne risultano non sono psicologici Passiamo ora alla critica. Siamo ben lontani dall’ammettere l’ineccepibilità
dell asserzione da cui prende le mosse l’argomentazione citata, cioè che ogni verità si trova nel giudizio — un’asserzione che oggi circola come luogo comu—
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mente non ne, ma che in realtà richiede essa stessa di essere spiegata; natural legittimo modo in asserirla e verità la re abbiamo dubbi sul fatto che conosce deb— logica ia tecnolog la che o dubitiam presupponga la sua comprensione. Ne illumi— a giunge za l’eviden quali ba indagare le condizioni psicologiche nelle narci nell’effettuazione dei giudizi. Vogliamo anzi fare un altro passo avanti far va— in direzione della concezione che contestiamo. Per quanto intendiamo princie logici nte lere anche in questo caso la differenza tra principi purame in qualche pi metodologici, ammettiamo esplicitamente che i primi si trovino certo sen— modo in relazione con il dato psicologico dell’evidenza e che in un so esibiscano le sue condizioni psicologiche. Certo, per noi questa relazione è puramente ideale e indiretta. Noi neghia— mo che proposizioni puramente logiche dicano qualcosa sull’evidenza e sulle sue condizioni. Noi crediamo di riuscire a dimostrare che esse possano ottene— e quinre quel rapporto ai vissuti dell’evidenza soltanto se vengono applicate nte purame fonda si di riformulate, nello stesso modo in cui ogni legge «che entato rappres ito, nei concetti» puo essere riferita per trasposizione all’amb a i prinnella sua generalità, dei singoli casi empirici di quei concetti. Tuttavi e cipi dell’evidenza che ne risultano mantengono come prima il loro caratter che aprioristico e le condizioni di evidenza che ora esprimono sono tutto meno si condizioni psicologiche, cioè reali. Le proposizioni puramente concettuali re— ati enunci negli , analogo caso altro ogni in modificano piuttosto, qui come lativi alle incompatibilità o alle possibilità ideali. pura— Chiarirà la questione una riflessione molto semplice. In ogni legge
te) di forma mente logica si possono cogliere, mediante un mutamento (eviden
a. Se che e possibile a priori, certi principi o, se si vuole, condizioni di evidenz uno in tarsi diciamo che «dati due giudizi contraddittori l’evidenza può presen prinal e in un solo giudizio», questa proposizione e sicuramente equivalente 23 cipio di non—contraddizione e a quello del terzo escluso combinati insieme. zione: proposi alla ente equival amente indubbi è A sua volta il modus Barbara «tutti l’evidenza della verità necessaria di una proposizione che abbia forma veri— come verità sua della za l’eviden gli A sono Cs- (oppure, più esattamente, cui le ziale inferen atto un in ta necessariamente con seguente) può presentarsi stesso Lo C». sono E i premesse abbiano la forma «tutti gli A sono E» e «tutti dal si dica per ogni principio puramente logico. Cosa del tutto comprensibile, io— proposiz momento che evidentemente sussiste la generale equivalenza tra le che A sia». ni , nella sfera delle leggi non vi e alcuno sforzo. Dal punto di vista psicologico, accade in ogni caso qualcosa di determinato, esattamente questo e non più di questo.
La componente fattuale del principio dell’economia si riduce al fatto che vi sono rappresentazioni, giudizi e altri vissuti del pensiero e, collegati a essi,
sentimenti che favoriscono certe direzioni di formazione nella forma del piacere oppure che distolgono da esse nella forma del non—piacere. Si può allora constatare un processo di formazione di rappresentazioni e di giudizi, che ha un movimento in linea generale progressivo — un processo secondo il quale si formano in un primo tempo, sulla base di elementi originariamente privi di significato, delle esperienze isolate; queste esperienze confluiscono poi in una solo unita’ di esperienze più o meno ordinato. Secondo le leggi psicologiche sor— gono, sul fondamento delle prime collocazioni psichiche approssimativamente concordanti, la rappresentazione di un unico mondo, a noi tutti comune, e una
credenza empiricamente cieca nella sua esistenza. Ma si badi: questo mondo non e per ognuno esattamente lo stesso, lo e soltanto in linea generale, lo e sol—
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tanto nella misura in cui la possibilità di rappresentazioni e di azioni comuni e praticamente garantita in modo sufficiente. Esso non e lo stesso per l’uomo ata comune e per lo scienziato; per il primo, esso e una connessione, attravers
da mille fatti casuali, che ha una regolarità solo approssimativa, per il secondo esso e la natura dominata da leggi assolutamente .rigorose. Ora, non c’è dubbio che sia un’impresa scientificamente rilevante dimostrare le vie e i mezzi psicologici attraverso i quali si accerta e si sviluppa
quest’idea, sufficiente per i bisogni della vita pratica (per quelli dell’autoconservazione), di un mondo come oggetto di esperienza; e di conseguenza dimo— strare le vie e i mezzi psicologici attraverso i quali si forma nello spirito dello scienziato e delle generazioni di scienziati l’idea obiettivamente adeguata di un’unità di esperienza rigorosamente sottoposta a leggi, con il suo contenuto scientifico che continuamente si arricchisce. Ma dal punto di vista gnoseologico tutta questa ricerca è indifferente. Tutt’al più essa potrà avere un’utilità indi— retta in rapporto alla teoria della conoscenza, cioè agli scopi di una critica dei pregiudizi gnoseologici, per i quali sono determinanti appunto le motivazio— ni psicologiche. La questione non e come sorge l’esperienza, ingenua o scien— tifica, ma quale contenuto essa debba avere per essere obiettivamente valida; la questione è di sapere che cosa sono le leggi e gli elementi ideali che fonda— no questa obiettiva validità della conoscenza reale (e in genere della conoscenza stessa come tale) e come debba essere propriamente intesa questa funzione;. in altre parole, noi non ci interessiamo del divenire e della modificazione della rappresentazione del mondo, ma della legittimità obiettiva con la quale la rappresentazione del mondo della scienza si contrappone a ogni altra rappre— sentazione, con la quale essa asserisce il suo mondo come obiettivamente vero. La psicologia vuole chiarire con evidenza come si formano le rappresentazio— ni del mondo: la scienza del mondo (come concetto comprensivo delle diverse scienze reali) vuole conoscere cio che ‘e reoiiter come mondo vero ed effettivo;
la teoria della conoscenza vuole invece comprendere con evidenza che cosa co— stituisca la possibilità di una conoscenza evidente del reale e la possibilità, dal punto di vista oggettivo ideale, di una scienza e di una conoscenza in generale.
56. Coniinuozione. L’iiorepov rrpdrepov dellefondozione economico—mentale delle sfere puramente logica Il fatto che il principio del risparmio ci appare come principio sia gnoseologico che psicologico dipende essenzialmente dallo scambio tra la datità fattuale e l’i-
dealità logica, che inavvertitamente si sostituisce a essa. Noi riconosciamo con
Prolegomeni o una logica puro
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evidenza che il massimo fine e la tendenza idealmente giustificata di ogni spiegazione che vada al di là della mera descrizione e la sussunzione di fatti in se': «ciechi» (anzitutto quelli di un campo concettualmente circoscritto) sotto leggi il più possibile generali, riunendoli così nel modo più razionale possibile in questo senso. E del tutto chiaro che cosa significa qui «il più possibile» in rapporto a questa fun zione di «riunione»: si tratta dell’ideale di una razionalità ra— dicale e onnicomprensiva. Se tutto ciò che è fattuale si ordina secondo leggi, vi deve essere un sistema minimo di leggi il più possibile generali e reciprocamen— te indipendenti dal punto di vista deduttivo, da cui si possano dedurre tutte le altre leggi. Le «leggi fondamentali—» sono allora le leggi provviste della massima operatività e comprensività possibile e la loro conoscenza procura la più elevata comprensione del campo, consentendo di spiegare tutto cio che in esso e in ge— nerale passibile di spiegazione (dove indubbiamente si presuppone ideoliter una capacità illimitata di deduzione e di sussunzione). Così gli assiomi geometrici, come leggi fondamentali, spiegano o abbracciano la totalità dei fatti spaziali; attraverso quesiti assiomi ogni verità spaziale generale (cioè, ogni verità geometrica) può essere ridotta con evidenza ai suoi ultimi fondamenti esplicativi. Noi riconosciamo quindi con evidenza questo fine, cioè il principio della massima razionalità possibile, come il fine massimo delle scienze razionali. È evidente che la conoscenza di leggi più generali di quelle di cui siamo già in possesso rappresenterebbe un vantaggio effettivo, in quanto tali leggi rimanderebbero appunto a fondamenti più comprensivi e più profondi. È chiaro tuttavia che questo principio non è un principio biologico o puramente economico-mentale; esso e piuttosto un principio puramente ideale, per di più provvisto di un carattere normativo. Esso non può essere reinterpretato o risolto nei fatti della vita psichica e della vita associata dell’umanità. Identificare la tendenza alla massima razionalità possibile con una tendenza biologica di adattamento, oppure opera re deduzioni a partire da essa, attribuendole ancora una volta la funzione di forza psichica fondamentale — tutto ciò rappresenta un insieme di confusioni il cui parallelo si può trovare soltanto nei fraintendimenti psicologistici delle leggi logiche e nella concezione di queste ultime come leggi naturali. Anche in questo caso, dire che la nostra vita psichica venga di fatto retta da questo principio, si trova in contrasto con la verità più manifesta, il nostro pensiero di. fatto non si svolge secondo l’ideale, come se quest’ultimo fosse una sorta di forza naturale. il pensiero logico come tale tende idealmente alla razionalità. L’. Oggetto (della conoscenza) puo essere qualcosa di reale o di ideale, una cosa o un evento, una specie o una relazione matematica, un essere o un dover essere. Ciò naturalmente va detto anche in rapporto a espressioni come unità dell’oggettualità, nesso di cose ecc.
Queste due unità che possono essere pensate indipendentemente l’una dall’al— tra solo astrattivamente - l’unità dell’oggettualità da un lato, quella della ve— rità dall’altro — ci sono date nel giudizio, o più esattamente nella conoscenza. Quest’espressione è abbastanza ampia per comprendere in sé, oltre agli at— ti semplici di conoscenza, anche i nessi di conoscenza logicamente unitari, comunque complessi: ognuno di essi, considerato nella sua interezza, è esso stesso un atto di conoscenza. Ora, mentre compiamo un atto di conoscenza o, come preferisco dire, mentre «viviamo in esso», noi «ci occupiamo dell’oggettualità» che tale atto pone e intende conoscitivamente; e si tratta di conoscenza
nel senso più rigoroso, cioè se giudichiamo con evidenza, l’oggettualità e data
originariamente. Lo stato di cose si trova ora effettivamente di fronte ai nostri
occhi e non solo presuntivamente, e in esso l’oggetto stesso in ciò che esso e,
conocioè esattamente cosi e non altrimenti, cosi come esso è inteso in questa
scenza: come portatore di queste proprietà, come membro di queste relazioni ecc. Esso non è puramente presuntivo, ma è effettivamente costituito in que-
sto modo ed e dato alla nostra conoscenza nella sua costituzione effettiva; ma ciò non significa altro che questo: tale oggetto non e soltanto in generale inteso (giudicato), ma conosciuto; oppure: esso e in questo modo verità divenuta at— tuale, singolarizzata nel vissuto del giudizio evidente. Se riflettiamo su questa singolarizzazione e compiamo l’estrazione ideante, invece di quell’oggettuali
tà diventa oggetto appreso la verità stessa. in questo caso apprendiamo perciò
la verità come correlato ideale del fuggevole atto conoscitivo soggettivo, nella
sua unità, di fronte alla molteplicità illimitata dei possibili atti di conoscenza
degli individui conoscenti.
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Ai nessi di conoscenza corrispondono ideali ter nessi di verità. Compresi nel loro giusto senso, essi non sono soltanto complessi di verità, ma verità com— plesse che perciò sottostanno, considerate come interi, al concetto di verità. Da
questo punto di vista vanno comprese anche le scienze, assumendo la parola «scienza» in senso obiettivo, quindi nel senso della verità unificata. Data la ge— nerale correlazione che sussiste tra verità e oggettualità, anche all’unità del— [e verità in un’unica e medesima scienza corrisponde un’oggettualità unitaria: l’unità del campo della scienza. in rapporto a tale oggettualità, tutte le verità singole della stessa scienza si dicono intrinsecamente omogenee, un’espressio— ne che come vedremo in seguito appare assunta qui in un senso indubbiamen— te più esteso di quello usuale (cfr. la conclusione del > (generi e specie essenziali): cosi come l’aritmia--
sario di ogni psicologia — che a buon diritto deve potersi definire rigorosamente scien— tifica — cosi come la matematica pura (per esempio, la teoria pura dello spazio e del movimento) è il fondamento necessario di ogni scienza naturale esatta (teoria naturale delle cose empiriche con le loro forme, movimenti empirici ecc.). Le verità essenziali ed evidenti relative alle percezioni, agli atti del volere o a qualsiasi altra forma di vissuto,
sono naturalmente vere anche per i corrispondenti stati empirici degli esseri animali; cosi come le verità geometriche per le strutture spaziali della natura.
7. Il principio dell ’nssenzo di presupposti nelle ricerche gnoseologiche Come abbiamo già più volte osservato, una ricerca gnoseologica che voglia es—
sere realmente scientifica deve soddisfare il principio dell ’nssenza di presup— posti. Ma a nostro avviso, questo principio non può voler dire altro che la rigorosa esclusione di tutti gli enunciati che non possono essere interamente realizzati sul piano fenomenologico. Ogni indagine gnoseologica deve necessariamente essere effettuata su una base puramente fenomenologica. La «teoria» a cui con tale indagine si vuol giungere non e altro che il prendere coscienza, il rendere comprensibile ed evidente che cosa siano in generale, cioè nella lo— ro essenza generica pura, il pensiero e la conoscenza; quali siano le modalità e le forme alle quali sono legati; quali strutture immanenti siano proprie al lo— ro riferirsi all’oggetto; che cosa significhino, in rapporto a tali strutture, per esempio, le idee di validità, giustificazione, evidenza mediata e immediata e i loro opposti; quali specificazioni assumano tali idee parallelamente alle regioni delle possibili oggettualità della conoscenza; come sia possibile, riferendo— si a priori ai nessi strutturali ed essenziali della coscienza conoscente, Spiegare le «leggi» materiali e formali del pensiero, nel loro senso e nella loro funzione ecc. Perche questa presa di coscienza del senso della conoscenza non dia luogo a mere opinioni ma, secondo l’istanza di rigorosità qui avanzata, a un sapere
Dalla teoria pura della conoscenza esula la questione se sia legittimo ammettere realtà «psichiche» e «fisiche» che trascendono la coscienza, se si debbano intendere in senso reale o figurato gli enunciati che lo scienziato
della natura formula su di esse, se sia lecito o abbia senso contrapporre alla natura che si manifesta, alla natura come correlato della scienza naturale, un
secondo mondo, trascendente in senso potenziato, e altri problemi analoghi. La questione dell’esistenza e della natura del «mondo esterno» è una questione metafisica. La teoria della conoscenza, in quanto chiarificazione generale dell’essenza ideale e della validità di senso del pensiero conoscente, comprende senz’altro la questione, di carattere generale, se e fino a che punto sia possibile un sapere o un presumere razionale in rapporto a oggetti che hanno «realtà» di cose e sono per principio trascendenti rispetto ai vissuti che li conoscono, e a quali norme dovrebbe essere conforme un sapere di questo genere; non comprende invece la questione, travisata in senso empirico, che chiede se. gli uomini possano realmente acquisire, sul fondamento di dati che ci sono offerti fattualmente, tale sapere o se non possano nemmeno assumersi il compito di realizzarlo. Secondo la nostra concezione, la teoria della conoscenza, in senso proprio, non è affatto una teoria. Non e una scienza nel senso pregnante di una unità derivante da una spiegazione teoretica. Spiegare secondo in teoria significa rendere comprensibile il singolare a partire dalla legge generale, e quest’ultima a partire dalla legge fondamentale. Nel campo dei fatti, si tratta perciò di riconoscere che ciò che accade in determinate collocazioni di circostanze, accade necessariamente, cioè secondo leggi naturali. Nel campo della priori si tratta di comprendere la necessità delle relazioni specifiche di grado inferiore a partire dalle necessità generali più comprensive e infine dalle leggi relazionali più primitive e generali, che chiamiamo assiomi.4 Intesa in questo senso, la teoria della conoscenza non ha nulla da spiegare, essa non costruisce teorie deduttive e non va annoverata tra esse. Ciò appare già sufficientemente chiaro se consideriamo la teoria nniversalissirna e, per cosi dire, formale, della conoscenza
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Introdnziorte
Ricerche logiche
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suoi elementi costitutivi o nelle sue leggi; non vuole andare alla ricerca dei nessi reali della coesistenza e della successione, nei quali sono intessuti gli
vincerà facilmente che le analisi relative a questi temi hanno senso e valore gnoseologico indipendentemente dal problema se esistano realmente lingue e rapporto reciproco fra gli uomini al quale esse debbono servire, se ci siano in generale degli uomini e una natura o se tutto ciò non esista soltanto nella sfera dell’immaginazione o della possibilità. Le vere premesse dei risultati a cui si vuol giungere debbono trovarsi in proposizioni che soddisfano la condizione che segue: ciò che esse enunciano deve ammettere un’adeguata giastzficazionejenomenologica, quindi il riempi mento mediante l’evidenza nel senso più rigoroso del termine. Inoltre, queste proposizioni debbono essere assunte sempre e soltanto nel senso in cui sono
atti conoscitivi fattuali, ma comprendere il senso ideaie dei nessi specifici nei
state intuitivamente accertate.
che nei Prolegomeni ci appariva come integrazionefilosofica della mathesis para, nel senso più ampio possibile, comprendente ogni conoscenza categoriale a priori nella forma di teorie sistematiche. Con questa teoria delle teorie, la teoria formale della conoscenza che la chiarifica, precede qualsiasi teoria empirica: quindi ogni scienza esplicativa del reale,. la scienza fisica della natura da un lato, la psicologia dall’altro, e naturalmente anche qualsiasi metafisica… Essa non vuole spiegare, in senso psicologico o psicofisico, la conoscenza, l’evento fattuale nella natura obiettiva, ma chiarzficare l’idea della conoscenza nei
quali si documenta l’obiettività della conoscenza; ritornando al riempimento adeguato dell’intuizione, essa vuole rendere chiare e distinte le forme pure della conoscenza e le sue leggi. Questa chiarificazione si compie nel quadro di una fenomenologia della conoscenza, di una fenomenologia che, come abbiamo visto, è rivolta alle strutture essenziali dei «puri» vissuti e delle loro componenti
di senso. Fin dall’inizio e in tutti i suoi successivi sviluppi, essa non contiene in tutte le sue rilevazioni scientifiche la minima asserzione sull’esistenza reale; pertanto, nessuna asserzione metafisica, () scientifico-naturalistica o, in
particolare, psicologica, può fungere in essa da premessa. Ovviamente, la «teoria» fenomenologica della conoscenza, che è in se stessa pura, tro-
va poi la sua applicazione in tutte le scienze sorte naturalmente, le scienze «ingenue» in un senso non peggiorativo, che in questo modo si trasformano in scienze «filosofi— che». In altri termini, esse si trasformano in scienze che offrono conoscenze con tut—
ta la certezza e la chiarezza possibile e desiderabile. Quanto alle scienze della realtà, quando si parla della loro utilizzazione in funzione della metafisica o dellafiiosofia deila natura non si fa altro che usare un’espressione diversa per indicare questo stesso lavoro di chiarificazione gnoseologica.
Anche le seguenti ricerche intendono soddisfare proprio questa assenza di presupposti metafisici, scientifico-naturalistici e psicologici. Ovviamente, es— sa non viene compromessa da eventuali osservazioni collaterali, che non in— fluiscono sul contenuto o sul carattere delle analisi, e neppure dai molti passi nei quali l’autore si rivolge al suo pubblico, la cui esistenza — come la sua pro— pria — non costituisce affatto un presupposto rispetto al contenuto delle ricer— che. Non andiamo al di là dei limiti che ci siamo prefissati se, per esempio, prendiamo le mosse dal fatto che esistono lingue diverse e discutiamo il signi— ficato puramente comunicativo di molte delle loro forme espressive. Ci si con-
PRIMA RICERCA
Espressione @ significato
I. Le distinzioni essenziali
l. Duplice senso del termine «segno» I termini espressione e seguo vengono non di rado trattati come se avessero lo
stesso senso. Ma non è superfluo notare che non sempre, nel linguaggio comu— ne, essi si identificano. Ogni segno è segno di qualche cosa, ma non ogni segno ha un «significato», un «senso:-> che in esso «si esprime». In molti casi non si può dire neppure che il segno «designa» ciò di cui esso viene detto segno. E anche quando è lecito dire ciò, bisogna notare che il designare non sempre equivale a quel «significare» che caratterizza le espressioni. Voglio dire che i segni nel senso di segnali (A nzeichen) (segni di riconoscimen— to, segni distintivi ecc.) non esprimono nulla., a meno che, oltre alla funzione dell’indicare, non assolvano anche una funzione significante. Se, come siamo soliti fare spontaneamente quando parliamo di espressioni, ci limitiamo ini— zialmente a quelle espressioni che fungono nel dialogo vivente, il concetto di segnale pare avere, rispetto al concetto di espressione, un’estensione più ampia. Non per questo esso e genere in rapporto al contenuto. ii significare non e una specie dell’essere segno, intendendo il segno come indicazione. La sua estensio— ne è più ristretta per il solo fatto che il significare — nel discorso comunicati— vo - si trova sempre intrecciato in un certo rapporto con quell’essere—segnale, e quest’ultimo a sua volta si trova alla base di un concetto più ampio per il fat— to che può apparire anche senza questo intreccio. Ma le espressioni svolgono la loro funzione significante anche nella vita psichica isolato dove nonfangono più come segnali. In realtà dunque i due concetti di segno non si trovano affat— to in un rapporto di maggiore o minore estensione. A questo punto tuttavia è necessaria una discussione più precisa.
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Ricerche iogicite
2. L’essenza dell’indicazione
Dei due concetti inerenti alla parola segno consideriamo anzitutto quello di segnale. Definiamo il rapporto qui presente con il termine di indicazione. in questo senso il marchio è segno degli schiavi, la bandiera è segno della nazio— ne. Qui sono da annoverare, in generale, le «note»1 nell’accezione originaria del termine, cioè come qualità «caratteristiche» destinate a rendere riconosci— bili gli oggetti a cui appartengono. Ma il concetto di segnale e più ampio di quello di «nota». Noi diciamo che i canali di Marte sono segni dell’esistenza suMarte di esseri intelligenti., .le ossa fossili dell’esistenza di animali antidiluviani ecc. Inoltre, sono segni in questo senso anche i segni mnemonici, come il ben noto nodo al fazzoletto, i monumenti ecc. Quando cose, eventi o loro aspetti determinati, adatti a tal fine, ven— gono prodotti con l’intenzione di farli fungere come segnali, essi si chiamano segni, indipendentemente dal fatto che esercitino o no la loro funzione. Solo nel caso di segni formati arbitrariamente con l’intento di indicare si parla an— che di designare e precisamente da un lato in rapporto all’azione che crea i se— gni distintivi (l’imprimere il marchio con il fuoco, il segnare con il gesso ecc.) e dall’altro nel senso dell’indicazione stessa, quindi in rapporto all’oggetto da indicare, all’oggetto designato. Distinzioni come queste e altre analoghe non sopprimono l’unità essenziale in rapporto al concetto di segnale. In senso proprio, qualcosa deve essere definito segnale, se e quando serve effettivamente a un essere pensante come indi—
cazione di una cosa qualsiasi. Quindi, se vogliamo cogliere l’aspetto che resta sempre comune, dobbiamo riandare ai casi in cui si svolge questa funzione vi— vente. Ora, come aspetto comune, troviamo qui il fatto che oggetti o stati di cose qualsiasi indicano a chi ha conoscenza attuale del loro sussistere, la sussistenza di certi altri oggetti o stati a'i cose nel senso che la convinzione dell’essere dei pri— rni e dalai vissuta come motivo (e precisamente come motivo non evidente) per la convinzione o la supposizione dell’essere dei secondi. La motivazione produce un’unità descrittiva tra gli atti giudicativi nei quali si costituiscono per l’essere pensante gli stati di cose indicanti e indicati — un’unità che non deve esse— re intesa, per esempio, come una «qualità ghestaltica» (Gestaltqualitdi) fondata negli atti del giudizio. In questa unità risiede l’essenza dell’indicazione. O più chiaramente: l’unità della motivazione degli atti giudicativi ha essa stessa il ca— rattere di un’unità giudicativa e ha quindi nella sua totalità un correlato che si presenta oggettualmente, uno stato di cose unitario, che sembra essere in essa,
che in essa è presunto. Ed evidentemente questo stato di cose non significa al— tro che questo: certe cose debbono o possono esistere poiché sono date certe altre
Prima ricerca
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cose. Questo «poiché», inteso come espressione di una connessione intrinseca, e
il correlato oggettivo della motivazione come forma descrittivamente peculiare della fusione di atti giudicativi in un unico atto giudicativo.
3. Rimando e dimostrazione
La situazione fenomenologica è illustrata qui in modo tanto generale da com— prendere non solo il rimandare dell’indicazione, ma anche il dimostrare della fondazione e della deduzione vera e propria. Questi due concetti debbono tut-
tavia essere tenuti ben distinti l’uno dall’altro. A questa differenza abbiamo già accennato in precedenza., sottolineando il carattere di non—evidenza dell’indicazione. In effetti nei casi in cui deduciamo con evidenza l’esistenza di un cer— to stato di cose da quella di altri stati di cose non definiamo questi. ultimi come indicazioni o segni dei primi. E inversamente si parla di dimostrazione in sen— so autenticamente logico solo nel caso di deduzioni che siano evidenti, o almeno che lo siano fin al punto in cui ciò e possibile. Certo, molto di ciò che noi prev sentiamo come dimostrazione o, nel caso più semplice, come inferenza, non è
evidente, è persino falso. Ma proprio in quanto lo presentiamo in questo modo, avanziamo anche la pretesa che il rapporto di consequenzialità possa essere compreso con evidenza. Da ciò deriva quanto segue: al dedurre e al dimostra— re soggettivo corrisponde oggettivamente la deduzione e la dimostrazione, cioè il rapporto oggettivo tra premessa e conseguenza. Queste unità ideali non sono icorrelativi vissuti del giudizio, ma i loro «contenuti» ideali, le proposizioni. Le premesse dimostrano la conclusione, chiunque sia colui che enuncia queste pre— messe, la conclusione stessa e la loro unità. Si manifesta qui una legalità ideale che va oltre i giudizi connessi hic et nunc da certe motivazioni e che comprende e abbraccia come tali, in una universalità sovra-empirica, tutti i giudizi che han— no lo stesso contenuto, anzi, ancor più, la stessa «forma». Nella fondazione evi— dente è proprio questa legalità che arriva soggettivamente alla nostra coscienza,
e la legge stessa attraverso una riflessione ideante diretta ai contenuti dei giudizi vissuti unitariamente nel nesso attuale delle motivazioni (nell’inferenza e nella
dimostrazione attuale) — una riflessione, cioè, diretta alle singole proposizioni. Di tutto ciò non si parla nel caso dell’indicazione. Qui si esclude proprio la comprensibilità evidente e, in termini oggettivi, la conoscenza di un nesso ideale di contenuti giudicativi corrispondenti. Quando diciamo che lo stato di cose A è un segnale dello stato di cose B, che l’essere dell’uno rimanda all’es— sere dell’altro, possiamo anche essere del tutto certi che la nostra aspettazione di trovare realmente quest’ultimo sarà soddisfatta; ma con ciò non vogliamo
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Ricerche iogiche
dire che esista un rapporto di connessione evidente e obiettivamente necessa-
ria tra A e E; i contenuti del giudizio non si trovano di fronte a noi in un rap— porto di premesse e conclusioni. Certo accade che noi parliamo ugualmente di segnali anche là dove esiste oggettivamente un nesso fondante (e precisamen— te un nesso fondante mediato). Per esempio, che un’equazione algebrica sia di grado dispari serve, a chi compie un calcolo, come segno del fatto che essa ha almeno una radice reale. Ma, a vedere la cosa più da vicino, ci rendiamo con-
to che in questo caso ci riferiamo soltanto alla possibilità che la costatazione del grado di3pari dell’equazione serva a chi compie il calcolo — senza che egli produca attualmente la connessione di idee che conduce alla dimostrazione evidente — come motivo immediato, evidente, che lo induce a ricorrere, ai fi-
ni del calcolo, alla proprietà che l’equazione detiene secondo una legge. Quan— do, come in questo caso, certi stati di cose servono realmente come segnali di altri stati di cose che, considerati in se stessi, possono essere dedotti dai pre—
cedenti, queste stesse relazioni non assolvono questa funzione, in un pensiero cosciente, in qu anto fondamenti logici ma in virtù del nesso che è stato istituito tra le convinzioni, intese come vissuti psichici o come disposizioni, da una
dimostrazione attuale anteriore o addirittura da nozioni derivanti dalla fede nell’autorità. Naturalmente, nulla muta se a tutto ciò si accompagna un sapere, sia pure derivante dall’abitudine, dell’esistenza oggettiva di un nesso razionale. Se dunque l’indicazione (ovvero il nesso motivazionale nel quale si ma— nifesta questo rapporto nel suo darsi come oggettivo) non ha alcun rappor— to essenziale con il nesso di necessità, si potrà certo chiedere se essa non esige un rapporto essenziale con il nesso di probabilità. Quando una cosa riman— da a un’altra, quando la convinzione che una cosa esiste motiva empiricamente [quindi in modo accidentale, non necessario) la convinzione dell’esistenza di un’altra cosa, la convinzione motivante non dovrà forse contenere un fian—
damento di probabilità per la convinzione motivata? Non è questo il luogo di esaminare più accuratamente questo interrogativo che qui si impone. Basti no—
tare che a esso si dovrà senza dubbio rispondere affermativarnente, se è vero che anche siffatte motivazioni empiriche sottostanno a una giurisdizione ideale che consente di parlare di motivi legittimi e illegittimi; quindi anche di segnali reali (che hanno validità, cioè che fondano la probabilità ed eventualmente la certezza empirica), in opposizione ai segnali apparenti (privi di validità, che non offrono alcun fondamento di probabilità). Si pensi alla discussione se i fenomeni vulcanici siano realmente segni dello stato magmatico della parte in— terna della terra, o ad altri esempi analoghi. Una cosa è certa: quando si parla di segnali non si presuppone alcun riferimento determinato a considerazioni probabilistiche. Di regola anzi, alla base di questo discorso, non troviamo pure
Primo ricerco
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e semplici supposizioni, ma giudizi molto netti e decisi; perciò la giurisdizione ideale, alla quale abbiamo qui attribuito un dominio, richiederà in primo luo—
go che le convinzioni sicure siano ridotte entro i limiti di semplici supposizioni. Aggiungo che, a mio avviso, non si può evitare di parlare della motivazione in un senso
generale che comprenda a un tempo la fondazione e l’indicazione empirica. In effetti, è qui assolutamente incontestabile la presenza di un carattere fenomenologico comune, che e abbastanza sensibile da arrivare a manifestarsi nel linguaggio corrente: infatti generalmente si parla di inferire e di dedurre non solo in senso logico, ma anche in
quello empirico dell’indicazione. Questo carattere comune va palesemente molto più in là, arrivando ad abbracciare il campo dei fenomeni del sentimento e specialmente della volontà, che era il solo nel quale si parlasse inizialmente di motivazioni. Anche a questo proposito il termine poiché svolge la sua funzione, che nell’uso linguistico ha una portata tanto vasta quanto la motivazione nel suo senso più generale. Non posso perciò riconoscere come legittime le critiche di Meinong alla terminologia di Brenta— no che qui ho assunto.2 Sono invece pienamente d’accordo con lui quando osserva che nel caso della percezione di un rapporto motivazionale si tratta di qualcosa di ben diverso dalla percezione di un rapporto di causalità.
4. Digressione sulla genesi dell ’indicazione dell’associazione I fatti psichici, nei quali ha la sua «origine» il concetto di indicazione, nei quali cioè esso deve essere colto astrattivamente, appartengono al più ampio gruppo di fatti che possono essere compresi sotto il titolo tradizionale di «associazione delle idee». Infatti sotto questo titolo non cade soltanto ciò che viene espresso dalle leggi associative, i fatti dell’«associazione delle idee» mediante «rievoca— zioni», ma anche gli altri fatti nei quali l’associazione si dimostra creativa, in quanto in certo senso crea forme di unità e caratteri descrittivamente peculia— ri.3 L’associazione non si limita a richiamare i contenuti alla coscienza renden— do possibile la loro connessione con i contenuti dati, secondo ciò che prescrive normativamente l’essenza degli uni e degli altri (la loro determinatezza gene— rica). Certo, essa non può impedire che si formino queste unità fondate pura—
mente nei contenuti, per esempio, l’unità dei contenuti visivi nel campo della vista ecc. Ma, in particolare, essa crea nuovi caratteri e unità fenomenologi— che, che non hanno il loro necessario fondamento di legge negli stessi contenu— ti vissuti, nei generi dei loro momenti astratti? Se A richiama B alla coscienza, non solo essi sono contemporaneamente o successivamente presenti a essa:
di solito si impone anche un nesso-” sensibile secondo il quale l’uno rimanda
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Ricerche iogicire
all’altro, quest’ultimo esiste come inerente al primo. Dare forma di reciproca inerenza al mero essere—insieme — o più esattamente, formare, a partire da tali rapporti, unità intenzionali che appaiono come rapporti di reciproca inerenza:
ecco in che senso continuamente si esplica la funzione associativa. Ogni uni— tà di esperienza come unità empirica della cosa, dell’evento, dell’ordine e della
connessione delle cose, è un’unità fenomenale in virtù dell’inerenza reciproca sensibile degli aspetti e delle parti, che emergono unitariamente, dell’oggettua— lità che si manifesta. Nel manifestarsi, una cosa rimanda a un’altra, secondo
un certo ordine e un certo rapporto di connessione. E ciò che e dato singolar— mente in questa struttura di rimandi reciproci non è il mero contenuto vissu— to, ma l’oggetto (o una sua parte, una sua proprietà ecc.) che si manifesta — e questo oggetto si manifesta per il solo fatto che l’esperienza conferisce ai con— tenuti un nuovo carattere fenomenologico, in quanto essi non valgono più di per se stessi, ma esibiscono un oggetto da essi differente. Ora, alla sfera di que— sti fatti appartiene anche l’indicazione, per cui un oggetto o uno stato di cose non solo ne ricorda un altro e quindi a esso rinvia, ma al tempo stesso l’uno testimonia dell’altro, rafforza l’idea che sussista anche l’altro, e ciò come ab-
biamo visto, in modo immediatamente sensibile.
5. Le espressioni corna segni significativi. Esclusione di un senso del termine espressione qui considerato Dai segni indicativi, distinguiamo i segni significativi: le espressioni. Natural— mente assumiamo il termine di espressione in un senso ristretto, dal cui ambito di validità è escluso molto di ciò che si indica come espressione nel linguaggio normale. Quando e necessario fissare terminologicamente concetti per i quali
si dispone unicamente di termini equivoci si deve persino far violenza alla lin— gua. Per intenderci, affermiamo per il momento che ogni discorso e ogni parte del discorso, cosi come qualsiasi altro segno essenzialmente dello stesso gene— re è un’espressione, senza porre il problema se il discorso sia realmente pro— nunciato, e quindi diretto a una persona qualsiasi con l’intento di comunicare, oppure no. Escludiarno invece il gioco mimico e i gesti con i quali, istintiva— mente o comunque senza intenzione comunicativa, accompagniamo il nostro discorrere, o nei quali, anche senza il concorso delle parole, lo stato d’animo
di una persona perviene a una «espressione» comprensibile per coloro che le stanno intorno. Queste manifestazioni esteriori non sono espressioni nel senso
dei discorsi, non formano, come questi ultimi, nella coscienza di chi si esterna, un’unità fenomenale con i vissuti esternati; in esse, io non comunico nulla a un
Prima ricerca
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altro: nell’esternare questi vissuti, non ho l’intenzione di presentare esplicita— mente agli altri o a me stesso, se sono solo, un «pensiero» qualsiasi. In breve,
siffatte «espressioni» non hanno propriamente alcun significato. Ed è indiffe— rente che qualcuno sia in grado di interpretare le nostre manifestazioni esteriori istintive (per es. i «movimenti espressivi»), riuscendo per loro mezzo a
sapere molte cose sui nostri pensieri e sentimenti. Essi gli «significano» qualco— sa, in quanto appunto li interpreta: ma anche per lui essi non hanno un signifi— cato nel senso pregnante dei segni linguistici, ma soltanto in quello dei segnali. Nelle considerazioni che seguono si dovranno portare queste distinzioni alla loro massima chiarezza concettuale.
6. Ilproblerna delle distinzionifenomenologiche e intenzionali concernenti le espressioni come tali In rapporto a ogni espressione si è soliti distinguere due aspetti: i. L’espressione considerata nel suo aspetto fisico (il segno sensibile, il com— plesso fonetico articolato, il segno scritto sulla carta ecc.);
2. Un certo complesso di vissuti psichici che, collegati associativamente all’e— spressione, la rendono espressione di qualche cosa. Per lo più questi vissuti psichici vengono caratterizzati come senso o significato dell’espressione, in— tendendo appunto cogliere con questa caratterizzazione ciò che questi ter— mini vogliono dire nel linguaggio normale. Vedremo tuttavia che questa concezione e scorretta e che, specialmente ai fini della logica, non basta di— stinguere tra segni fisici e vissuti che conferiscono il senso. Tutto ciò è già stato da tempo notato soprattutto in rapporto ai nomi. Per ogni
nome si distingue tra ciò che esso «rende noto»5 e ciò che significa. E inoltre, tra ciò che esso significa (il senso, il «contenuto» della rappresentazione nominale) e ciò che esso denomina (l’oggetto della rappresentazione). Noi troveremo ne— cessariamente distinzioni analoghe per tutte le espressioni e dovremo indagare accuratamente la loro essenza. Per questo noi separiamo il concetto di «espres-
sione» da quello di «segnale», separazione che non si trova in contrasto con il fat— to che le espressioni possono anche fungere nel discorso vivente da segnali, come spiegheremo tra poco. In seguito si aggiungeranno ulteriori distinzioni di notevole importanza, concernenti i rapporti possibili tra il significato e l’intuizione che ha funzione illustrativa ed eventualmente evidenziante. Solo riconsideran— do questi rapporti e possibile compiere una precisa delimitazione del concetto di significato e operare di conseguenza la fondamentale contrapposizione tra la funzione simbolica di significati e la loro funzione conoscitiva.
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Prima ricerca
Ricerche iogicise
2 Le espressioni nella lorofunzione comunicativo Per ricavare le distinzioni essenziali, dal punto di vista logico, consideriamo l’e— spressione anzitutto nella sua funzione comunicativa, che essa è destinata ori— ginariamente ad assolvere. La complessione fonetica articolata (il segno scritto ecc.) si trasforma in parola parlata, in discorso comunicativo in generale per
il solo fatto che colui che parla la produce con l’intento di «pronunciarsi su qualche cosa.», cioè conferisce a essa, in certi atti psichici, un senso che inten— de comunicare all’ascoltatore. Questa comunicazione diventa tuttavia possibi— le perché: l’ascoltatore comprende anche l’intenzione di colui che parla. Ed egli può far questo in quanto coglie colui che parla come una persona che non pro— duce meri suoni, ma che gli rivolge la parola, e che quindi, insieme ai suoni, compie anche certi atti di conferimento di senso: egli vuole rendergli noti questi atti o comunicargli il loro senso. Ciò che rende anzitutto possibile la frequenza spirituale e che fa si che il discorso che stabilisce un collegamento sia discorso, risiede in questa correlazione, mediata dagli aspetti fisici del discorso, tra i vis— suti fisici e psichici, reciprocamente inerenti, delle persone che si frequentano. Vi è una coordinazione reciproca tra il parlare e l’ascoltare, tra l’informare su
certi vissuti psichici nel parlare e i’assurnere questa informazione nell’ascolto. Se si considera questo nesso nel suo insieme, si riconosce immediatamente che, nel discorso comunicativo, tutte le espressioni fungono da segnali. All’ascol— tatore essi servono come segni dei «pensieri» di chi parla, cioè dei suoi vissu— ti psichici significanti, così come degli altri vissuti psichici che sono contenuti nell’intenzione comunicativa. Noi chiamiamo questa funzione delle eSpressioni linguistichefnnzione irjorrnotivo. I vissuti psichici resi noti formano il conte— nuto dell’informazione. Possiamo intendere questo essere reso noto in un senso più ristretto e in uno più ampio. Nel senso più ristretto, ci limitiamo agli atti di conferimento di senso, mentre nell’accezione più esteso. comprendiamo tutti gli atti di colui che parla, atti che l’ascoltatore gli attribuisce sulla base del suo di— scorso (eventualmente perché in questo si parla di essi). Se per esempio ci pronunciamo su un desiderio, in senso stretto e reso noto il giudizio sul desiderio; in senso lato, invece il desiderio stesso. Lo stesso si dica nel caso di un comu— ne enunciato percettivo, il quale verrà senz’altro colto dall’ascoltatore come appartenente a una percezione attuale. Qui è reso noto nel senso più ampio l’atto percettivo, nel senso più ristretto il giudizio su di esso fondato. Notiamo subi— to che il linguaggio corrente consente di indicare i vissuti resi noti anche come vissuti espressi.
La comprensione dell’informazione non è una conoscenza concettuale di es— sa, un giudicare dello stesso genere dell’enunciare; essa consiste piuttosto soltanto
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nel fatto che l’ascoltatore coglie intuitivamente (appercepisce) o, come potremmo dire senz’altro, percepisce colui che parla come una persona che esprime qualcosa. Quando io presto ascolto a qualcuno, lo percepisco appunto come persona che parla, la odo raccontare, dimostrare, dubitare, desiderare ecc. L’ascoltatore per— cepisce l’informazione nello stesso senso nel quale egli percepisce la stessa per— sona che la fornisce — benché i fenomeni psichici che fan no di essa una persona, in ciò che essi sono, non possano cadere nell’intuizione di un altro. Il linguaggio comune ci attribuisce anche una percezione dei vissuti psichici di persone estra— nee, noi «vediamo» il loro sdegno, dolore ecc. Questo modo di esprimersi e del tutto corretto se, per esempio, si ammette che si percepiscano anche le cose corporee esterne e, in generale, se non si limita il concetto di percezione a quello del— la percezione adeguata, dell’intuizione nel senso più rigoroso del termine. Se il carattere essenziale della percezione consiste nel fatto che si presume, nell’intui— zione, di cogliere una cosa o un evento come presente in se stesso — e una simile presunzione è possibile, anzi sussiste nella stragrande maggioranza dei casi, sen« za alcuna esplicita formulazione concettuale — la ricezione dell’informazione sa— rà allora nient’altro che la percezione dell’informazione stessa. Naturalmente vi e qui la differenza essenziale alla quale si e già fatto cenno. L’ascoltatore percepisce che chi parla manifesta certi vissuti psichici, e in questa misura percepisce anche questi vissuti, ma egli non li «vive», non ha di essi una percezione «interna:->, ma «esterna». Si tratta della grande distinzione tra l’apprensione effettiva di un essere in un’intuizione adeguata e l’apprensione presuntiva di un essere in una rappresentazione intuitiva, ma inadeguata. Nel primo caso abbiamo un essere «vissu— to», nel secondo un essere meramente supposto, al quale non corrisponde alcuna verità. La comprensione reciproca richiede appunto una certa correlazione degli atti psichici che si esplicano da entrambe le parti, nell’informazione e nella sua ricezione, ma non la loro completa uguaglianza.
8. Le espressioni nella vita psichico isolata Finora abbiamo considerato le espressioni nella loro funzione comunicativa. Essa si fonda essenzialmente sul fatto che le espressioni Operano qui come segnali. Ma un ruolo notevole è assegnato alle espressioni anche nel caso della vita psichica che non entra in rapporto comunicativo. È chiaro che questa mo— dificazione di funzione lascia intatto ciò che fa si che le espressioni siano tali. Come in precedenza, esse hanno i loro significati — gli stessi che detengono nei discorso dialogico. La parola cessa di essere parola solo quando il nostro inte— resse si rivolge esclusivamente al sensibile, alla parola come mera formazione
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Ricerche iogicite
Prima ricerca
fonetica. Ma nel momento in cui viviamo nella sua comprensione, essa espri— me ed esprime la stessa cosa, sia che ci si rivolga a qualcuno o no. Appare dunque chiaro che il significato dell’espressione, e anche tutto ciò che gli appartiene per essenza, non può identificarsi con la sua funzione informativa. O forse con l’espressione rendiamo noto qualcosa anche nella vita psichica isolata con la sola differenza che in questo caso non ci rivolgiamo a nessuno? Dovrem— mo forse dire che colui che parla da solo parla a se stesso e anche a lui le paro— le servono come segni, cioè come segnali dei propri vissuti psichici? Non credo che una simile concezione sia sostenibile. È vero che qui, come sempre, le parole fungono da segni; e noi possiamo sempre parlare di un rinviare (Hinzeigen). Se riflettiamo sul rapporto intercorrente tra espressione e significato e se a tal fine scomponiarno il vissuto, pur complesso ma anche internamente unitario, dell’e— spressione riempita di senso, nelle sue due componenti di «parola» e «senso», la parola stessa ci appare allora in se’ indifferente, il senso invece come ciò che si «ha di mira» con la parola, ciò che si intende per mezzo di questo segno; sembra cosi che l’espressione distolga da sé l’interesse per orientarlo sul significato, per rinviare a esso. Ma questo rinvio non e un’indicazione nell’accezione da noi discussa. L’esistenza del segno non motiva l’esistenza, o più esattamente, la no— stra convinzione dell’esistenza del significato. Ciò che deve servirci come segna—
comunica nulla, non si fa altro che rappresentare se stessi come persone che parlano e che comunicano. Nel discorso monologico le parole non possono avere per noi funzione di segnali dell’esistenza di atti psichici, perché questa indicazione sarebbe del tutto priva di scopo. Gli atti in questione sono infatti vissuti da noi stessi nel medesimo istante.
9. Le distinzionifenomenologiche trafenomenofisico dell’espressione, atto significante e atto che opera il riempimento di senso Se ora prescindiamo dai vissuti che sono propri, in particolare, dell’informazione e consideriamo l’espressione in rapporto alle distinzioni che spettano a es— sa indipendentemente dal fatto che funga nel discorso monologico o dialogico, sembra restino da esaminare ancora due aspetti: l’espressione stessa e ciò che essa esprime come proprio significato (senso). Ma a questo proposito vi e qui
un intreccio di molteplici relazioni, e di conseguenza si può parlare di ciò che è espresso e di significato in molti sensi. Se ci poniamo sul terreno della descrizione pura, il fenomeno concreto dell’espressione animata dal senso si distingue da un lato nelfenomeno fisico nel quale l’espressione si costituisce nel suo aspet— to fisico, e dall’altro, negli atti che le conferiscono il significato ed eventualmen-
le (segno distintivo) deve essere da noi percepito come esistente. Questo è vero
in senso proprio, in senso comunicativo, in questi casi non si parla, non ci si
te la pienezza intuitiva, e nei quali si costituisce il riferimento a una oggettualità
espressa. In virtù di questi atti, l’espressione e più che un mero complesso fo— netico. Essa intende qualcosa, riferendosi nello stesso tempo a un’oggettualità. Questa oggettualità può apparire, in virtù delle intuizioni di accompagnamen— to, attualmente presente o almeno presentificata (per esempio nelle immagini della fantasia). Quando ciò si verifica, il riferimento all’oggettualitit e realizzato. Oppure ciò non accade; l’espressione funge significativamente e resta sempre qualcosa di più che un vuoto complesso fonetico, anche se resta priva dell’intuizione fondante, dell’intuizione che conferirebbe a essa l’oggetto. Ora, il rifer rimento dell’espressione all’oggetto non e realizzato, in quanto esso e incluso nella mera intenzione significante. Il nome, per esempio, denomina in ogni cir-
_..._._.—
___.
costanza il suo oggetto, in quanto lo intende. Ma esso non e altro che mera in—
-.-
per le espressioni nel discorso comunicativo, ma non per le espressioni nel di— scorso isolato. Di solito anzi ci accontentiamo qui di parole rappresentate, al posto di quelle reali. Nella fantasia ci sta di fronte una parola—segno pronunciata o stampata — una parola che in realtà non esiste. Noi non confonderemo tuttavia le rappresentazioni della fantasia o addirittura i contenuti fantastici che stanno alla loro base con gli oggetti fantasticati. Esiste non il suono fantasticato della parola, o i caratteri di stampa fantasticati, ma la loro rappresentazione nella fantasia. La differenza e la stessa che intercorre tra i centauri fantasticati e la loro rappresen— tazione nella fantasia. L’inesistenza della parola non ci disturba. E inoltre non ci interessa. Infatti essa non ha alcun rilievo in rapporto alla funzione dell’espressione come espressione. Là dove assume rilievo, alla funzione significante si col— lega appunto quella informativa: in tal caso il pensiero non sarà espresso soltanto come significato, ma sarà anche comunicato per mezzo dell’informazione; cosa che naturalmente e possibile solo nel parlare e nell’ascoltare reale. In certo senso si parla indubbiamente anche nel discorso isolato, ed è certo possibile in questo caso intendere se stessi come persone che parlano ed eventualmente anche che parlano a se stesse, cosi come quando, rivolgendoci a noi stessi, diciamo: «Hai fatto male, non puoi continuare a comportarti così». Ma
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tenzione quando l’oggetto non è intuitivamente presente e quindi non c’è come oggetto denominato (cioè , mentre i significati delle pa— role (o meglio, le loro intenzioni significanti) terminano nelle corrispondenti rappresentazioni semplicemente intuitive e in certe elaborazioni o formazioni
intellettuali delle medesime. L’analisi di cui si e detto non riguarda dunque le vuote intenzioni significanti, ma le forme e le oggettualità che danno loro riempimento. Perciò essa non presenta neppure enunciati su mere parti o rap—
porti di significati, ma necessità evidenti in rapporto agli oggetti in generale, pensati nei significati in questo e in quel modo determinato. Queste considerazioni ci rimandano naturalmente a una sfera di analisi fe—
nomenologiche, già più volte riconosciute come indispensabili, che debbono portare a evidenza le relazioni a priori tra significato e conoscenza, cioè tra si—
gnificato e intuizione chiarificante, e quindi conferire piena chiarezza anche al nostro concetto di significato, mediante la distinzione del senso riempiente e l’indagine sul senso di questo riempimento.
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Ricerche logiche
22. 1 differenti caratteri della comprensione e la «qualità dell ’essere noto»
Prima ricerca
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23. L’appercezione nell ’espressione e nelle rappresentazioni intuitive
La nostra concezione presuppone una certa differenziazione, anche se non del
Poiché ogni apprendere e in certo senso un comprendere o un interpretare,
tutto netta, tra i caratteri d’atto che conferiscono il significato anche nei casi in cui queste intenzioni significanti mancano di traduzione intuitiva. E in effetti non si può pensare che le «rappresentazioni simboliche» che dominano la com— prensione, ovvero l’uso significativo dei segni, siano descrittivamente equivalen— ti, che esse abbiano un carattere indifferenziato, identico per tutte le espressioni: quasi che la differenza fosse data soltanto dai meri complessi fonetici, veicoli sen— sibili e accidentali dei significati. Avvalendosi di esempi di espressioni equivoche, ci si convince facilmente che possiamo riconoscere ed effettuare l’improvvisa variazione di significato senza aver il minimo bisogno di traduzioni intuitive di
l’apprensione comprensiva8 nella quale si effettua la significatività di un segno,
&- affine alle apprensioni oggettivanti (che si effettuano in diverse forme), nelle quali, per mezzo di una complessione vissuta di sensazioni., sorge per noi la rappresentazione intuitiva (percezione, immaginazione, raffigurazione ecc.) di un oggetto (per es. di una cosa «esterna:—). Tuttavia, la struttura fenomenologi—
ca delle due forme di apprensione è considerevolmente diversa. Se noi immaginiamo una coscienza anteriore a ogni esperienza, essa avrà la nostra stessa
possibilità di avere sensazioni. Ma essa non vedrà le cose o gli eventi concre— ti, non percepirà gli alberi e le case, il volo degli uccelli o l’abbaiare del cane.
accompagnamento. La dilferenza descrittiva, che qui evidentemente viene al—
Si sarebbe quasi tentati di esprimere questa situazione nei termini seguenti: a
la luce, non può concernere il segno sensibile, che resta infatti lo stesso, ma ri— guarda necessariamente il carattere d’atto che si modifica nella sua specificità. Dobbiamo ancora una volta riferirci ai casi in cui il significato resta identico, mentre la parola si modifica, come quando ci si trova in presenza di differenze puramente idiomatiche. In questo caso i segni diversi dal punto di vista sensi— bile hanno per noi lo stesso significato (talvolta parliamo persino della «stessa» parola, e l’unica differenza consiste nel fatto che essa appartiene a lingue diver— se): essi ci sembrano immediatamente «identici», ancor prima che la fantasia riproduttiva ci possa fornire immagini per la traduzione intuitiva del significato. Al tempo stesso, in rapporto a esempi come questi, ci appare l’insostenibilità dell’idea, che in un primo tempo poteva sembrare plausibile, secondo la quale il carattere di comprensione non sia altro, in ultima analisi, che ciò che Rich]5 ha definito come «carattere dell’essere noto» e Ht'iifi"ding,6 in modo me—
una coscienza di questo genere le sensazioni non significano nulla, non han_
no pertinente, come «qualità dell’essere noto;—>.? Anche parole non comprese ci possono apparire come note da tempo; versi greci imparati a memoria restano
saldi nel ricordo molto più a lungo della comprensione del loro senso: essi sem-
no per essa il valore di segni delle proprietà di un oggetto, la loro complessio— ne non è segno dell’oggetto stesso; esse vengono semplicemente vissute, ma sono prive di un’interpretazione oggettivante (che sorga dall’eesperienza»). Si può qui parlare di significato e di segno cosi come nel caso delle espressioni e dei segni affini. Non si deve però fraintendere ciò che qui si è detto, per analogia, nel ca— so della percezione (al quale ci limitiamo per semplicità), come se la coscienza si rivolgesse alle sensazioni, trasformandole in oggetti di una percezione e di un’interpretazione fondata anzitutto in esse: cosi come avviene nel caso degli oggetti fisici consaputi di fatto in modo oggettuale, i quali, come i complessi fo? netici, fungono in senso proprio come segni. Le sensazioni diventano oggetti di
rappresentazione manifestamente soltanto nella riflessione psicologica, mentre esse sono in realtà, nel rappresentare intuitivo ingenuo, componenti del vissu— to rappresentativo (parti di un contenuto descrittivo), ma non suoi oggetti. La rappresentazione percettiva si realizza per il fatto che il complesso vissuto di
brano ancora ben noti, pur non essendo più compresi. Spesso la comprensione
sensazioni è animato da un certo carattere di. atto, da un certo apprendere o in—
prima mancante viene in un secondo tempo a illuminarci (e ciò può accadere ancor prima dell’intervento delle espressioni di traduzione nella propria lin— gua, o di altri sostegni del significato), eil carattere di comprensione si aggiun— ge allora al carattere dell’essere noto come qualcosa di manifestamente nuovo, conferendo al contenuto un nuovo carattere psichico, ma senza mutarlo dal punto di vista sensibile. Ricordiamo infine come una lettura o una recitazione meccanica di poesie da tempo note si trasformi in una lettura o in una recita— zione comprensiva. Vi è perciò una gran quantità di esempi che rendono evidente la peculiarità del carattere di comprensione.
tendere; e proprio per questo ciò che si manifesta &: l’oggetto percepito, e non il complesso di sensazioni e l’atto nel quale si costituisce l’oggetto percepito co" me tale. L’analisi fenomenologica insegna anche che il contenuto della sensa— zione fornisce, per così dire, un materiale costruttivo analogico per il contenuto
dell’oggetto rappresentato mediante essa: perciò si parla, da un lato, di colori, estensioni, intensità date nella sensazione, dall’altro di colori, estensioni, inten— sità percepite (o rappresentate). Ciò che corrisponde a entrambi gli a5petti non
è affatto qualcosa di identico, ma soltanto qualcosa di affine secondo il genere, come ci si può facilmente convincere sulla base di alcuni esempi: noi non ab—
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Ricerche iogiche
biamo avuto sensazione della colorazione omogenea della sfera che noi vediamo (percepiamo, rappresentiamo ecc.). Ora, nel caso dei segni intesi come espressioni, troviamo alla base un’«interpretazione» di questo genere, ma soltanto come prima apprensione. Se consideriamo il caso più semplice, in cui l’espressione viene compresa, senza tuttavia essere animata da alcuna intuizione illustrativa, dalla prima appren— sione sorge allora il manifestarsi del mero segno (per es. il complesso fonetico), dato qui e ora. Questa prima apprensione fonda tuttavia una seconda appren—
III. La fluttuazione dei significati delle parole e l’idealità dell’unità di significato
sione, che va del tutto al di là del materiale vissuto di sensazione e non trova
più in esso il suo materiale costruttivo analogico per l’oggettualità ora inten— zionata, che e assolutamente nuova. Quest’ultima è intenzionata nel nuovo at-
to del significare, ma non si presenta nella sensazione. Il significare, il carattere del segno espressivo, presuppone appunto il segno in rapporto al quale esso significa. O, in termini puramente fenomenologici: il significare e un carattere d’atto che assume questa o quella impronta e che presuppone come fondamento necessario un atto del rappresentare intuitivo. F in quest’ultimo che l’espres— sione si costituisce come oggetto fisico. Ma essa diventa espressione, in senso pieno e autentico, solo mediante l’atto fondato. Ciò che è vero per il caso più semplice dell’espressione compresa senza in— tuizione, dovrà anche essere vero nei casi più complicati in cui l’espressione e intessuta con un’intuizione corrispondente. Anzi, una stessa espressione, usa— ta significativamente con o senza un’intuizione illustrativa non può attingere la propria significatività da atti di genere diverso. Non e certo facile analizzare la situazione descrittiva nelle sue diramazioni e nelle sue articolazioni più sottili, qui non considerate. In particolare, presenta molte difficoltà comprendere correttamente la funzione delle rappresentazio— ni che realizzano la traduzione intuitiva —- il rafforzamento e persino l’eviden— ziazione deli’intenzione significante che esse operano, il loro rapporto con il carattere della comprensione o del significato, carattere che serve come vissuto conferitore di senso già nell’espressione non intuitiva. Vi è qui un esteso campo per l’analisi fenomenologica, un campo che il logico non può eludere se vuole chiarire il rapporto tra significato e oggetto, tra giudizio e verità, tra
24. Introduzione
Nel capitolo precedente ci siamo occupati dell’atto di significare. Nelle considerazioni svolte nel primo capitolo avevamo tuttavia distinto dal significare come at— to, il significato stesso, l’unità ideale di fronte alla molteplicità degli atti possibili. Si tratta di una distinzione provvista in innumerevoli casi di un’indubbia chiarezza, cosi come tutte le altre che sono a essa collegate: la distinzione tra contenuto espresso in senso soggettivo e oggettivo e, in rapporto a quest’ultimo, tra il contenuto come significato e il contenuto come denominazione. Così, per esempio, nel caso di tutte le espressioni che si trovano inserite all’in— terno di una teoria scientifica esposta in maniera adeguata. Ma vi sono anche
casi in cui accade altrimenti. Si richiede allora un’attenzione particolare, per— che si tende qui a confondere ancora una volta le distinzioni ottenute. Sono ora le espressioni fluttuanti rispetto al significato, e specialmente le espressioni per essenza occasionali e vaghe, che presentano serie difficoltà. Tema del presente capitolo e la soluzione di queste difficoltà mediante la distinzione tra gli atti fluttuanti del significare e i significati idealmente unitari tra i quali essi oscillano.
intenzione non chiara ed evidenza verificante. In seguito, ci dovremo impe—
gnare più a fondo in analisi di questo genere.9
25. Rapporti di coincidenze tra i contenuti dell’informozione e della denominazione Le espressioni possono riferirsi, oltre che ad altri oggetti, anche ai vissuti psichicr presenti di colui che si pronuncia in esse. A questo proposito le espressioni si
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Ricerche logiche
dividono in espressioni che rendono nota l’oggettoalitri nel momento in cui la de— nominano (o in generale la designano) e in espressioni nelle quali vi è divergenza tra il contenuto denominato e il contenuto reso noto. Esempi relativi alla prima classe sono offerti dalle proposizioni interrogative, ottative, imperative; per la seconda classe le proposizioni enunciative che si riferiscono a cose esterne, ai pro— pri vissuti psichici passati, a relazioni matematiche ecc. Se qualcuno esprime il desiderio «vorrei un bicchiere d’acqua», per chi ascolta questa frase è un segnale del desiderio di chi parla. Ma questo desiderio è anche oggetto dell’enunciato. Ciò che è reso noto e cio che viene denominato arrivano qui a coincidere parzialmente. Si tratta di una coincidenza parziale, perche’ l’informazione ha evidentemente una maggiore estensione. A essa appartiene anche il giudizio che si esprime nel— le parole «vorrei ecc.». La stessa cosa si verifica naturalmente anche nel caso degli enunciati che enuncino qualcosa sul rappresentare, giudicare, presumere di chi parla, che hanno cioè la forma io mi rappresento, io sono dell ’avviso, io giudico, io presunto ecc., che. .. Il caso della totale coincidenza pare anzi a prima vista possi-
bile, come nell’esempio i vissuti psichici che io rendo noti nelle parole or ora pronanciate, anche se, a un esame più attento, l’interpretazione di questo esempio non sembra sostenibile. Di contro, in enunciati come 2 >< 2 = 4, l’informazione e lo stato di cose espresso sono completamente disgiunti. Questa proposizione non ha affatto lo stesso significato della proposizione: io giudico che 2 >< 2 = 4. Anzi, esse non sono neppure equivalenti; l’una può essere vera, l’altra falsa. Certo, bisogna notare che, in una formulazione più ristretta del concetto di
informazione (nel senso definito in precedenza)1 gli oggetti denominati degli esempi precedenti non cadrebbero più nel campo dei vissuti resi noti. Chi enun— cia qualcosa sui propri vissuti psichici momentanei, comunica la loro presenza con un giudizio. Solo per il fatto che rende noto questo giudizio (che ha appun— to come contenuto che egli desidera, spera ecc., questa o quella cosa), egli viene appercepito dall’ascoltatore come colui che desidera, spera ecc. Il significato di un simile enunciato risiede in questo giudizio, mentre i corrispondenti vissuti interni appartengono agli oggetti sui quali viene pronunciato il giudizio. Ora, se si attribuiscono all’informazione in senso stretto solo i vissuti indicati che portano in sé il significato dell’espressione, i contenuti dell’informazione e del— la denominazione restano distinti in questo come in ogni altro caso.
Prirna ricerca
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sioni il cui significato varia di caso in caso. Ma ciò avviene in un modo così
peculiare che si esiterà a parlare in questo caso di equivocazione. Le medesi— me parole io ti angurofelicità, con le quali ora in do espressione a un augurio, possono servire a infinite altre persone per dare espressione ad auguri che han-
nO lo «stesso» contenuto. Eppure sono di volta in volta diversi non soltanto gli auguri, ma anche il significato degli enunciati ottativi. Poniamo che la perso— na A si trovi in presenza della persona E e che la persona M si trovi di fronte alla persona N. Se A augura a B la «stessa» cosa che M a N, il senso della pro— posizione ottativa è manifestamente diverso, dal momento che esso implica la rappresentazione delle persone che si trovano di fronte. Questa plurivoci— tà è tuttavia del tutto diversa, per esempio, da quella della parola Hand (cane) che ora significa una specie animale, ora una sorta di vagoncino (come quel-
li che si usano nelle miniere). Ogni volta che si parla di equivocazione, si pen— sa di solito alla classe delle espressioni plurivoche, indicata da quest’ultimo
esempio. Ma in questo caso la plurivocità non è in grado di scuotere la nostra convinzione dell’idealità e dell’obiettività del significato. Noi abbiamo infatti la facoltà di limitare una simile espressione a un solo significato, e in ogni ca— so l’unità ideale di uno qualsiasi dei diversi significati non viene toccata dalla circostanza accidentale che essi ineriscono a designazioni uguali. Ma come stanno le cose con le altre espressioni? E ancora possibile mantenere l’unità identica di significato, che abbiamo chiarita contrapponendola al variare delle persone e dei loro vissuti, dato che ora i significati dovrebbero variare appun— to con le persone e i loro vissuti? Evidentemente non si tratta qui di plurivocità accidentali, ma inevitabili, che non possono essere sottratte alle lingue con mezzi tecnici e convenzioni. Al fine di ottenere una maggiore chiarezza distinguiamo tra le espressioni essenzialmente soggettive e occasionali da un lato e le espressioni obiettive dall’al— tro. Per semplicità ci limitiamo alle espressioni che fungono in modo normale. Definiamo obiettiva un’espressione quando a essa si connette, o può con—
26. Espressioni essenzialmente occasionali ed espressioni obiettive
nettersi, un significato solo mediante la sua struttura di fenomeno sonoro, e che perciò può essere compresa senza che sia necessario tener conto della persona che si pronuncia e delle circostanze nelle quali essa si pronuncia. Un’espressione obiettiva può, e in modi diversi, essere equivoca; rispetto alla pluralità dei significati, essa si trova nel rapporto or ora descritto, e per que» sta ragione quale sia il significato che essa di volta in volta di fatto suscita e in— dica dipende da circostanze psicologiche (dalla casuale direzione di pensiero
Le espressioni che si trovano in una relazione denominativa con il contenuto momentaneo dell’informazione appartengono all’insieme più ampio di espres—
tendenze suscitate in essa ecc.). Può essere che anche da questo punto di vista sia utile considerare la persona che conversa e la sua situazione. Ma che la pa-
dell’ascoltatore, da ciò che e già stato detto nel corso della conversazione, dalle
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Ricerche logiche
ati non dirola sia o possa essere in generale compresa in uno di questi signific non. pende da questa considerazione, come se essa fosse una conditio sine qua essen— breve, in o, nale occasio e iva soggett Definiamo invece essenzialmente gruppo concet— zialmente occasionale, ogni espressione alla quale inerisca un
essenziale tualmente unitario di significati possibili in modo tale che sia per essa persona la ne, l’occasio orientare il suo significato attuale particolare secondo qua— nelle fatto di nze che parla e la sua situazione. Solo in rapporto alle circosta tra nato li ci si esprime si può costituire per l’ascoltatore un significato determi lo— nel e tutti i significati coerenti. Nella rappresentazione di queste circostanze ro rapporto, sottoposto a certe regole, con l’espressione stessa, debbono quindi i … spun— esserci — sempre che la comprensione si realizzi in condizioni normal all’atano consen che sicuri temente sufficien e o ti afferrabili da parte di ciascun inato. determ caso quel in inteso ato scoltatore di orientarsi verso il signific Alle espressioni obiettive appartengono, per esempio, tutte le espressioni teentali oretiche, quindi quelle espressioni sulle quali si basano i principi fondam , sul esempio Per ». e i teoremi, le dimostrazioni e le teorie delle scienze «astratte circo— le influsso significato di un’espressione matematica non hanno il minimo stanze del discorso attuale. Noi la leggiamo e la comprendiamo senza pensare affatto a un parlante. Le cose stanno del tutto altrimenti nel caso delle espres— delle sioni che servono ai bisogni pratici della vita comune, cosi come nel caso tal’appres per i ausiliar nti strume come scienze espressioni che servono nelle to scienzia lo quali le con ioni espress alle cioè mento di risultati teoretici. Penso riflessio proprie le altri ad note accompagna le proprie attività. mentali o rende orie. provvis ioni convinz sue le nie i propri sforzi, i suoi apparati metodogici e Gia ogni espressione che contiene un pronome personale manca di un senso — obiettivo. La parola. io designa di volta in volta una persona diversa, assumen volta in do cosi un significato sempre nuovo. Si può decidere quale sia di volta intuiquesto significato solo a partire dal discorso vivente e dalle circostanze è sta— chi da sapere senza parola questa o leggiam Se tive che gli sono proprie.
estraniata ta scritta, essa sarà per noi, se non priva di significato, quanto meno
dal suo significato normale. Naturalmente, essa ci sembra qualcosa di diverso apda un arabesco qualsiasi; noi sappiamo che essa e una parola, una parola n— rapprese la Ma stesso. se punto con la quale chi parla indica di volta in volta in. parola della to tazione concettuale suscitata in questo modo non è il significa in volta di parla Altrimenti potremmo sostituire a io semplicemente colui che soltan— volta indicando se stesso. È chiaro che la sostituzione condurrebbe non sono to a espressioni insolite ma di significato diverso: come se invece di dire io conten— e stesso se o indicand volta in volta di parla che contento dicessimo colui to to. Indicare colui che parla di volta in volta e la generalefanzione di significa
della parola in, ma il concetto con il quale noi esprimiamo questa funzione non è il concetto che costituisce immediatamente e di per se stesso il suo significato. Nel discorso isolato il significato di io si realizza essenzialmente nella rappresentazione immediata della propria personalità, e in ciò risiede anche il significato della parola nel discorso comunicativo. Ogni soggetto che parla ha la propria rappresentazione egologica (e quindi il proprio concetto individuale ognu— di io): in ognuno il significato della parola e dunque diverso. Ma poiché caratte— il possiede parola la io, dice stesso, se di parla cui in no, nel momento re di un segnale universalmente efficace di questo fatto. Per mezzo di questa indica-zione, l’ascoltatore realizza la comprensione del significato, egli intende ora la persona che gli sta intuitivamente di fronte non soltanto come persona che parla, ma anche come oggetto immediato del suo parlare. La parola io non ha in sé la forza di suscitare direttamente la particolare rappresentazione egologica che determina il suo significato in un certo discorso. Essa non opera come la parola leone che può in se stessa e di per se stessa suscitare la rappre— sentazione del leone. Essa è piuttosto il veicolo di una funzione indicativa, che in certo senso si appella all’ascoltatore: colui che hai di fronte. intende se stesso. A questo punto dobbiamo tuttavia aggiungere una considerazione ulteriore. A vedere più esattamente la cosa, non bisogna intendere tutto ciò come se la rappresentazione immediata della persona che parla afferri in se' il. completo e intero significato della parola io. Certamente noi non possiamo considerare questa parola come un’espressione equivoca i cui significati possono essere identi— ficati con quelli di tutti i possibili nomi propri di persona. E chiaro che anche la rappresentazione, dell’intendere—se-stesso e del rimando, in essa implicito, alla rappresentazione individuale diretta della persona che parla, appartiene in cer— to modo al significato della parola. Dobbiamo senz’altro ammettere che in questo caso sono reciprocamente strutturati, in forma peculiare, due significati. Il primo, relativo alla funzione generale, è connesso con la parola in modo tale che nel rappresentare attuale si può effettuare una funzione indicativa; questa, a sua volta, si avvantaggia dell’altra rappresentazione, della rappresentazione singola— re, e rende al tempo stesso noto il suo oggetto, nel modo della sussunzione, come ciò che è inteso hic et nunc. Potremmo perciò caratterizzare il primo significato come indicante, il secondo come indica:.“o.2
Ciò che vale per i pronomi personali, vale naturalmente anche per i
pronomi dimostrativi. Se qualcuno dice questo, non suscita direttamente
nell’ascoltatore la rappresentazione di ciò che egli intende, ma anzitutto la rap— presentazione o la convinzione che egli intenda qualcosa che si trova nel suo ambito dell’intuizione o del pensiero, su cui egli vuole richiamare l’attenzio— ne dell’ascoltatore. Nelle circostanze concrete del discorso, si tratta di un’idea
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sufficientemente orientativa in rapporto a ciò che viene effettivamente inteso. Ma se leggiamo questo nella sua Singolarità, esso manca di nuovo del suo si— gnificato proprio, e viene compreso solo nella misura in cui suscita il concetto della sua funzione di rimando {ciò che noi chiamiamo il significato indican— te della parola). Ma il significato pieno e reale può tuttavia dispiegarsi, nel suo fungere normale, solo sulla base della rappresentazione, che si impone, di ciò a cui cisi riferisce oggettuaimente. Bisogna notare tuttavia che spesse volte il dimostrativo funge in un modo che potremmo ritenere equivalente a quello oggettivo. In un contesto matematico, un questo rimanda a qualcosa che e rigidamente determinato dal punto di vista concettuale, e che sarà compreso nella sua determinatezza senza bisogno di tener in qualche conto la sua espressione attuale. Per esempio, se una esposizione matematica, dopo aver espressamente indicata una certa pro-
posizione, continua: questo consegue dalfatto che. . ., il questo potrebbe essere qui sostituito, senza provocare modificazioni di senso di qualche rilievo, dalla stessa proposizione in questione, e ciò per via del senso oggettivo dell’esposi— zione stessa. Naturalmente bisogna badare alla sua coerenza e alla sua continuità poiché al dimostrativo in sé e per se non appartiene il significato inteso, ma soltanto l’idea del rimando. La mediazione effettuata tramite un significato indicante è qui soltanto in funzione della brevità e serve per orientare e di— rigere più facilmente le intenzioni del pensiero secondo un filone principale. Ma e chiaro che lo stesso non si può dire per i casi più comuni nei quali il que— sto che opera il rinvio o forme analoghe intendono, per esempio, la casa che si trova di fronte a colui che parla, l’uccello che prende il volo di fronte a lui ecc. Qui deve intervenire l’intuizione individuale (che varia di caso in caso): non
basta rifarsi alle idee oggettive espresse in precedenza. Alla sfera delle espressioni essenzialmente occasionali appartengono inol— tre le determinazioni riferite al soggetto qui, za, sopra, sotto oppure ora, ieri, domani, dopo ecc. Qui indica, per fare ancora qualche riflessione su un ulti— mo esempio, l’ambito parziale, delimitato in modo vago, che sta intorno a colui che parla. Chi usa questa parola intende il luogo che occupa sulla base della rappresentazione intuitiva e della posizione della sua persona con la sua localizzazione. Quest’ultima varia di caso in caso e da persona a persona, mentre ognuno può tuttavia dire qui . Denominare l’ambito spaziale della persona che parla e ancora la funzione generale di questa parola, una funzione secondo la quale il significato vero e proprio della parola si costituisce soltanto sulla base della singola rappresentazione di questo luogo. Non c’è dubbio che il signi— ficato abbia un carattere concettuale generale, almeno nella misura in cui qui denomina sempre un luogo in quanto tale; ma a questa generalità si aggiunge,
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variando di caso in caso, la diretta rappresentazione di luogo che, nelle circo— stanze date del discorso, acquista il carattere della comprensibilità mediante la rappresentazione concettuale indicante del qui e viene sussunta sotto di essa. Il carattere essenzialmente occasionale va naturalmente riferito a tutte le espressioni che contengono come proprie parti queste e analoghe rappresenta— zioni, comprendendo cosi tutte le molteplici forme di discorso nelle quali colui che parla porta a espressione normale qualunque cosa che lo riguardi o che sia concepito in relazione a se stesso. Quindi, tutte le espressioni relative alle per— cezioni, convinzioni, dubbi, desideri, speranze, timori, comandi ecc. In questo caso rientrano anche tutti i costrutti con l’articolo determinativo, nei quali esso viene riferito a qualcosa di individuale, a qualcosa che e determinato so-
lo mediante concetti di classi o di qualità. Quando noi tedeschi diciamo «l’ira— peratore» intendiamo naturalmente l’attuale imperatore della Germania. Se di sera chiediamo il lume, ognuno intenderà il proprio. Nota. Le espressioni di significato essenzialmente occasionali considerate in questo paragrafo non possono essere ordinate secondo l’utile divisione, proposta da Paul, tra espressioni che hanno significato usuale (usuali) ed espressioni che hanno significato occasionale. Questa divisione ha le sue ragioni nel fatto che «il significato che una pa— rola detiene ogni volta che viene impiegata non deve necessariamente coincidere con quello che le spetta in se e per se’ secondo l’uso;—>.} Ma nel suo esame Paul ha considera— to anche i significati essenzialmente occasionali nel nostro esempio. Egli dice infatti? «Vi sono alcune [parole usate occasionalmente] che, pur essendo per loro natura de— stinate a designare qualcosa di concreto, sono tuttavia in se stesse ancora prive di una
relazione a un concreto determinato — relazione che può risultare soltanto dalla loro applicazione individuale. Tra queste sono da annoverare i pronomi personali, posses— sivi, dimostrativi e gli avverbi dimostrativi, e inoltre parole come ora, oggi, ierias” Mi sembra tuttavia che il carattere di occasionalità, inteso in questo senso, cada al di fuo—
ri della contrapposizione fissata nella definizione. Al significato usuale di queste classi di espressioni appartiene il fatto che esse debbono la loro determinatezza di significato soltanto all’occasione, quindi il fatto che esse sono occasionali in un altro senso. Si possono distinguere in generale le espressioni di significato usuale (nel senso di Paul) in espressioni che hanno un’usuale univocità e in espressioni che hanno un’usuale plu— rivocit‘a; e queste ultime ancora in espressioni che fluttuano usualmente tra significa— ti determinati e indicabili in precedenza, come le espressioni equivoche accidentali Hal-m, acl-rt ecc. (gallo»cane del fucile; otto-attenzione) ed espressioni per le quali cio non accade. A queste ultime appartengono le nostre espressioni che hanno significato essenzialmente occasionale, in quanto orientano il loro significato eventuale solo se— condo il caso singolo, mentre e usuale il modo in cui fanno ciò.
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27. Altri generi di espressioni fluttuanti
terminatezza e chiarezza soltanto parziale — esempi che di solito variano notevolmente secondo i casi e persino in uno stesso sviluppo di idee. Questi esempi,
La fluttuazione delle espressioni essenzialmente occasionali aumenta ancor più a causa dell’incompletezza con la quale spesso esse esprimono l’intenzione di colui che parla. In generale, la distinzione tra le espressioni essenzialmente oc— casionali e oggettive si intreccia con altre distinzioni, che indicano al tempo stesso nuove forme di plurivocità: per esempio, con la distinzione tra espres— sioni complete e incomplete (entimematiche), tra quelle che fungono in modo normale e quelle che fungono in modo anomalo, tra le espressioni esatte e quelle vaghe. i verbi impersonali del linguaggio comune offrono buoni esempi che dimostrano come espressioni apparentemente stabili e oggettive, in seguito a una abbreviazione entimernatica, siano in realtà soggettivamente fluttuanti. Nessuno comprenderà la proposizione vi sono dei dolci nello stesso modo del— la proposizione matematica vi sono corpi regolari. Nel primo caso non si vuol dire che, in generale e in assoluto, vi siano dei dolci, ma che qui e ore — per il cofiè — vi sono dei dolci. Piove non vuoldire che in generale piove, ma che ora e fuori piove. Ciò che manca all’espressione, non è soltanto sottaciuto, ma nem— meno esplicitamente pensato: e tuttavia non c’è dubbio che faccia parte di ciò che si intende nel discorso. Evidentemente, se si aggiungono le integrazioni ne— cessarie, nascono espressioni che debbono essere caratterizzate come essenzialmente occasionali nel senso in precedenza definito. Ancora maggiore è la differenza tra il contenuto di un discorso effettiva— mente espresso — un contenuto cioè che sia strutturato e caratterizzato dalle funzioni significative, sempre dello stesso genere, delle parole corrisponden— ti — e l’intenzione occasionale del discorso stesso, quando le espressioni sono tanto abbreviate da non essere in grado di dare espressione a una idea compiu— ta senza il ricorso all’occasione accidentale da cui trarre un ausilio alla comprensione. Per es.: Vin! Lei! Pardini Come—come! ecc. Mediante la situazione intuitiva, nella quale si trovano sia colui che parla sia l’ascoltatore, i significati che sono ora lacunosi, ora soggettivamente indeterminati, si completano o si differenziano, rendendo comprensibili le espressioni insufficienti.
tratti da una sfera concretamente unitaria (o almeno che appare tale), determinano concetti diversi, ma di regola similari o legati da relazioni, dei quali emerge
Tra le distinzioni relative alla plurivocit‘a delle espressioni, abbiamo prima ricordato anche quella tra espressioni esatte ed espressioni vaghe. Sono vaghe la mag— gior parte delle e5pressioni della vita comune, come albero e arbusto, animale e pianta ecc., mentre tutte le espressioni che sono presenti come elementi costitutivi nelle teorie pure e nelle leggi, sono esatte. Le espressioni vaghe non posseggo— no un identico statuto di significato in tutti i casi in cui vengono impiegate; esse orientano il loro significato secondo esempi tipicamente appresi, ma con una de—
ora l’uno ora l’altro, secondo le circostanze del discorso e le idee da cui esso vie— ne sollecitato; tuttavia ciò accade per lo più senza la possibilità di una differen—
ziazione e di una identificazione più sicura che potrebbe mettere in guardia dalle variazioni inavvertite dei concetti che si implicano reciprocamente. Troviamo la stessa nebulosità che caratterizza le espressioni vaghe anche nel caso di quelle espressioni per i generi e le specie, relativamente semplici, di determinazioni fenomeniche che si fondono costantemente l’una nell’altra nel modo della determinatezza spaziale, temporale, qualitativa e intensiva. 1 carat—
teri tipici che si impongono sulla base della percezione e dell’esperienza, per esempio delle forme spaziali e temporali, delle forme sonore e delle forme di colore ecc., determinano espressioni significative che, per effetto del fluido tra— passare di questi tipi (all’interno dei loro generi superiori) diventano esse stesse necessariamente fluide. Certamente, il loro impiego è sicuro, almeno all’interno di certi intervalli e di certi limiti, all’interno cioè delle sfere in cui il tipico emer-
ge chiaramente in primo piano, in cui esso può essere identificato e distinto con evidenza da determinazioni che si trovano molto più lontano (rosso acceso e ne— re come il carbone, andante e presto). Ma queste sfere sono delimitate in modo vago, esse dilagano nelle sfere correlative del genere superiore e determina— no sfere di transizione nelle quali l’impiego e fluttuante e del tutto malsicuro.“
28. Lnfluttuazione dei significati comeflutiuazione del significare Noi abbiamo imparato a riconoscere diverse classi di espressioni che variano
nel loro significato e che sono, nel loro complesso, soggettive e occasionali, in quanto le circostanze accidentali del discorso influiscono su questa variazio— ne. Contrapposte a esse si trovano altre e5pressioni che sono obiettive e fisse in un senso corrispondentemente ampio, in quanto il loro significato & normalmente privo di fluttuazioni di qualsiasi genere. Se si intende questo essere privo di fluttuazioni in senso rigoroso, avremo da un lato solo le e3pressioni esatte, dall’altro le espressioni vaghe e che in particolare variano secondo le occasioni, anche per diversi altri motivi. A questo punto, bisogna tuttavia esaminare il problema se questi consi— stenti esempi di fluttuazione di significato siano in grado di scuotere la no— stra concezione dei significati come unità ideali (e perciò rigide) oppure di
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limitarla in modo sostanziale nella sua generalità. Da questo punto di vista ci potrebbero sembrare dubbie specialmente le espressioni plurivoche che in precedenza abbiamo designato come essenzialmente soggettive o occasionali,
vengono teoreticamente in questione, e di distinguere o di identificare con evi—
e cosi anche le distinzioni tra le espressioni vaghe e quelle esatte. I significa—
cienza delle determinazioni spaziali e temporali, alla nostra incapacità di definirle in altro modo che mediante la relazione alle esistenze individuali già date prima, mentre queste stesse esistenze sono inaccessibili a una determina—
ti stessi si distinguono dunque in soggettivi e obiettivi, in significati stabili e in significati che variano secondo le occasioni? E questa differenza dovrebbe allora essere intesa, come sembrerebbe a prima vista, come se i primi rappre— sentassero, come specie fisse, delle unità ideali avulse dal flusso del pensiero e delle rappresentazioni soggettive, mentre i secondi sarebbero immersi nel flusso dei vissuti psichici soggettivi, come eventi transitori che possono es— serci o non esserci? Si dovrà necessariamente rispondere che una simile concezione e priva di validità. Il contenuto che viene inteso in ogni caso determinato dall’espressione soggettiva che orienta il suo significato secondo l’occasione, è un significa— to idealmente unitario esattamente nello stesso senso in cui lo e il contenuto di un’espressione stabile. Ciò mostra chiaramente che, idealmente, ogni espres— sione soggettiva, mantenendo identica l’intenzione significante che spetta momentaneamente a essa, è sostituibile con espressioni oggettive. Tuttavia, a dire il vero, non dobbiamo ammettere soltanto che, per motivi di ordine pratico — per esempio per le complicazioni che essa presenta — que—
denza, in rapporto a queste espressioni, il loro significato.
Ma da questo ideale siamo infinitamente lontani. Basti pensare alla defi—
zione esatta, non resa confusa dall’uso di espressioni che hanno un significato essenzialmente soggettivo. Si sopprimano dalla nostra lingua le parole essenzialmente occasionali e si tenti di descrivere un vissuto soggettivo qualsiasi in modo univoco e oggettivamente fissato. Ogni tentativo è chiaramente vano. È altrettanto chiaro tuttavia che tra significati e significati non sussiste nessuna differenza essenziale. I significati effettivi delle parole sono fluttuanti, spesso
variano nel corso della stessa argomentazione; e in gran parte sono determinati, per loro natura, dell’occasione. Ma a considerare più esattamente le cose, il flut— tuare dei significati è propriamente un fluttuare del significare. Cioè, fluttuano gli atti soggettivi che conferiscono significato alle espressioni, ed esse non si mo— dificano qui soltanto dal punto di vista individuale, ma anche, in particolare, se-
condo i caratteri specifici nei quali risiede il loro significato. Ma non si mutano isignificati stessi, anzi questo discorso e senz’altro controsenso, se continuiamo a intendere i significati come unità ideali, sia nel caso delle espressioni univoche
sta sostituibilità non può aver luogo, ma anche che essa è di fatto in gran par-
e oggettive, sia nel caso delle espressioni equivoche e soggettivamente incerte. Si
te ineseguibile e tale resterà anzi per sempre. In realtà e chiaro che quando affermiamo che ogni espressione soggettiva potrebbe essere sostituita da un’espressione oggettiva in fondo non vogliamo dire altro se non che la ragione oggettivo non ha limiti. Tutto ciò che è, e «in se»
tratta tuttavia di un’esigenza che non si pone soltanto quando si parla normal— mente e orientandosi verso espressioni stabili di un unico significato che resterebbe identico indipendentemente da chi pronuncia la stessa espressione: si tratta anzitutto di un’esigenza posta dallo scopo che guida le nostre analisi.
conoscibile, e il suo essere e un essere contenutisticamente determinato, che
si mostra chiaramente in queste e in quelle «verità in sé». Ciò che e, ha i suoi rapporti e le sue qualità in se. fissamente determinate e se è un essere reale nel senso della natura cosale, la sua estensione e la sua posizione determinata nello spazio e nel tempo, i suoi modi determinati di permanenza e di modificazione. Ma ciò che è in se fissamente determinato deve poter essere oggettivamente determinato e ciò che può essere oggettivamente determinato può essere espres— so, in linea ideale, in parole che hanno un significato fissamente determinato.
All’essere in sé corrispondono le verità in sé e a queste ancora gli enunciati fis— si e univoci in sé. Certo, per poterli sempre enunciare realmente non occorre soltanto il necessario numero di parole-segno ben differenziate, ma prima di tutto il numero corrispondente di espressioni esattamente significative — assumendo questo termine nel suo senso più pieno. F necessario essere in grado di formare tutte queste espressioni, quindi le espressioni per tutti i significati che
29. La logica puro e isignificati ideali In realtà, ogni qual volta si tratta di concetti, giudizi, inferenze, la logica pura ha a che fare esclusivamente con queste unità ideali che noi chiamiamo sign ificati; e quando cerchiamo di enucleare e di isolare l’essenza ideale dei significati dai vincoli. psicologici e grammaticali, quando tentiamo di chiarire i rapporti a priori, che si fondano in questa essenza, dall’adeguazione all’oggettualità sir gnificata, ci troviamo già nel dominio della logica pura. Tutto ciò è fin dall’inizio chiaro, se da un lato pensiamo alla posizione che la logica assume rispetto alle varie scienze, secondo la quale essa e la scienza nomologica che si rivolge all’essenza ideale della scienza come tale; o, che è lo stesso, la scienza nomologica del pensiero scientifico in generale, ma solo in
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ico; e se, d’altro loto, rapporto alla sua coesione interna e al suo statuto teoret null’altro che lo sta— è non a scienz una consideriamo che lo statuto teoretico di soggetti giudican— dei ntalità accide tuto di significato, indipendente da tutte le iati teoretici, che enunc suoi dei ti e delle occasioni in cui si emettono i giudizi, teoria, e ancora della quindi questi ultimi costituiscono un’unità nella forma e conforme a che _ zza che la teoria deve la sua validità oggettiva all’adeguate lità signifi— gettua all’og leggi ideali — della sua unità come unità di significato il abile che significa— cata (che ci è «data:—> nella conoscenza evidente). E inneg
soltanto unità ideali, che to, cosi come lo intendiamo, abbraccia assolutamente
molteplici, e che tut— vengono espresse in vario modo e concepite in vissuti—atti ntali, sia dai vis" tavia debbono essere ben distinti sia dalle espressioni accide suti accidentali dei soggetti pensanti.
la sua essenza, è un’uÈ evidente che, se ogni unità teoretica data, secondo
ica in generale, essa nità di significato, e se la logica èla scienza dell’unità teoret delle loro modalitali, sarà anche necessariamente scienza dei significati come che si fondano pura— tà essenziali e delle loro differenze, cosi come delle leggi nze essenziali mente in essi (e che quindi sono leggi ideali). Infatti, tra le differe i, veri e falsi, e di vi sono anche quelle tra significati oggettuali e inoggettual «leggi del pensiero» conseguenza a queste leggi appartengono anche le pure dei significati e della lo— che esprimono il nesso a priori della forma categoriale ro oggettualità, 0 verità. a dei significa— Effettivamente, questa concezione della logica come scienz si esprime e ionale tradiz ti si trova in contrasto con il modo in cui la logica debbono che o ogici tratta i propri temi: essa opera infatti con termini psicol io, afgiudiz ione, essere interpretati in senso psicologico, come rappresentaz realtà in i e quind fermazione, negazione, premessa, conseguenza ecc., e intend psico rità le regola stabilire distinzioni meramente psicologiche e rintracciare Prolegomeni que— dei e critich ni erazio consid le logiche a esse relative. Ma dopo to quanto la soltan a mostr Essa . errore in i sta concezione non può più indurc ti che forogget degli e ension compr logica sia ancora lontana da una corretta a da imancor abbia essa o quant mano il suo più proprio campo d’indagine, e portare di de preten ro parare dalle scienze obiettive, la cui essenza essa peralt a. comprensione teoretica.
, ogni qual volta Ogni volta che le scienze sviluppano teorie sistematiche zione e della ricerca esse, anziché partecipare il mero decorso della fonda riconosciuta come soggettiva, presentano il frutto maturo di una verità
i, le rappresentazioni e unità oggettiva, in questione non sono mai i giudiz
oggettivo definisce atti psichici di qualsiasi altro genere. Certo, lo scienziato seno ecc. si intende le, integra , mosso delle espressioni. Egli dice: conform vivo,
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questo e quest’altro. Tuttavia, così facendo, egli rinvia soltanto al significato oggettivo delle sue e5pressioni, contrassegna i «concetti» che ha di mira, e che svolgono la loro funzione come momenti costitutivi nelle verità di un determinato campo di ricerca. Ciò che lo interessa non è il comprendere, ma
il concetto che vale per lui come unità ideale di significato, cosi come la verità che è essa stessa costituita di concetti.
Lo scienziato stabilisce poi delle proposizioni. Naturalmente in questo caso egli fa asserzioni, effettua un giudizio. Ma egli non intende parlare dei giudizi propri o di qualsiasi altro, ma dei corrispondenti stati di cose, e se, in un esame critico, si riferisce alle proposizioni, egli intenderà i significati ideali espressi negli enunciati. Ei definisce veri e falsi non i giudizi, ma le proposizioni; per lui sono proposizioni sia le premesse che le conseguenze. E le proposizioni non
sono costituite di atti psichici, di atti rappresentativi o di presunzioni di veri tà, ma constano piuttosto — e in ultima. analisi — di concetti, quando non sono ancora composte da altre proposizioni. Le proposizioni stesse sono componenti strutturali delle inferenze. Anche in questo caso sussiste la differenza tra gli atti dell’inferire e i loro contenuti unitari, le inferenze, cioè i significati identici di certi enunciati complessi. Il rapporto della conseguenza necessaria, che costituisce la forma dell’inferen—
za, non è un nesso empirico…psicologico di vissuti del giudizio, ma un rapporto ideale di significati possibili espressi in enunciati, di proposizioni. Che tale rapporto «esista» o «sussista» significa: esso vale, e il valere è qui qualco— sa che non ha alcun riferimento essenziale a colui che giudica empiricamente. Quando lo scienziato della natura deriva il modo di funzionare di una macchi— na dalle leggi della leva, dalla legge di gravità ecc., naturalmente egli vive in se’ atti soggettivi di vario genere. Ma ciò che egli pensa e connette unitariamente sono concetti e proposizioni con i loro riferimenti all’oggetto. Alle connessio— m soggettive dei pensieri corrisponde qui un’unità oggettiva di significato (oggettiva, nel senso che essa si adegua all ’oggettività «data» nell’evidenza), che è ciò che è, sia che qualcuno la attualizzi nel pensiero o no. E cosi in generale. Anche se lo scienziato non trae di qui motivo per separare esplicitamente la componente linguistica e signitiva da quella oggettiva ideale, concernente il significato, egli sa tuttavia molto bene che l’espressione è l’elemento accidentale e che l’essenziale è il concetto, il significato idealmenw
te identico. Egli sa anche che egli non crea la validità oggettiva delle idee e dei nessi ideali, quella dei concetti e delle verità, come se si trattasse di accidentalità del suo spirito e dello spirito umano in generale, ma che egli scopre e com— prende questa validità nella sua evidenza. Egli sa che il loro essere ideale non ha il significato di un «essere psichico nel nostro Spirito», tanto più che sop-
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generale, si soppri— primendo l’autentica oggettività della verità e dell’ideale in ttivo. E se uno sogge merebbe anche ogni essere reale, e quindi anche l’essere ma, lo fareb— proble scienziato dovesse pronunciarsi in modo diverso su questo una riflessione be al di fuori del proprio contesto scientifico specialistico, in d’accordo con compiuta solo in un secondo tempo. Ma se ci è lecito ritenere, più dalle loro Hume, che le vere convinzioni degli uomini sono documentate essi frainche iati scienz tali a re obietta mo azioni che dai loro discorsi, potrem ono intend che ciò a e ament udicat spregi re tendono se stessi. Anziché guarda e in indurr o lascian si ione, fondaz fare nella loro ingenua attività di ricerca e di psi— oni entazi argom false sue le errore dalla presunta autorità della logica con e. ament cologiche e la sua terminologia falsata soggettivistic in quanto Ogni scienza, in rapporto al suo statuto oggettivo, è costituita di si— ideale teoria di quest’unica materia omogenea, essa è una complessione , nziata dittere cosi gnificati. Potremmo dire addirittura: nella sua totalità, pur appara, scienz questa trama di significati che chiamiamo unità teoretica della isce essa costitu ti, elemen suoi i tutti cia abbrac tiene ancora alla categoria che stessa un’unità di significato. are ma Se quindi ciò che è essenziale e decisivo nella scienza non è il signific i— propos la e tto conce il ma io il significato, non la rappresentazione e il giudiz in anche ricerca della le zione, tutto ciò sarà necessariamente l’oggetto genera ap— che ciò tutto effetti, quella scienza che tratta dell’essenza della scienza. In camente correla— partiene alla sfera. della logica cade sotto le categorie recipro rie logiche, si tive di significato e oggetto. Se quindi parliamo al plurale di catego all’interno del potrà trattare soltanto di pure specie che si distinguono a priori intesa categorialgenere «significato» o di forme correlative dell’oggettualitri la logica deve che leggi le poi o fondan si mente come tale. In queste categorie tra intenideali rti rappo dai o ndend formulare: da un lato le leggi che, presci iti— conosc ne funzio ile possib zione e riempimento di significato, quindi dalla in cati signifi dei icarsi va dei significati, concernono il puro e semplice compl gi— «imma o «reali» nuovi significati (ed e in tal caso indifferente che essi siano che si riferiscono ai nari»)? Dall’altro, le leggi logiche in senso più pregnante, loro inoggettualità, significati dal punto di vista della loro oggettualità o della ità, nella misudella loro verità e falsità, della loro coerenza e della loro assurd dei significati. A ra in cui tutto ciò e determinato dalla mera forma categoriale lente e correlaf equiva e lazion formu una queste ultime leggi corrispondono, in inati da pure determ come ti pensa tiva, leggi degli oggetti in generale, in quanto che posverità la e a istenz e semplici categorie. Tutti gli enunciati validi sull’es ioastraz o facend cato sono essere formulati sulla base di mere forme di signifi ne da qualsiasi materia di conoscenza sono inclusi in queste leggi.
IV. Il contenuto fenomenologico e ideale dei vissuti di significato
30. Il contenuto del vissuto espressivo in senso psicologico e nel senso dell’unità del significato Noi non cogliamo l’essenza del significato nel vissuto che lo conferisce, ma solo nel suo «contenuto», che rappresenta un’unità intenzionale1 identica di fronte alla molteplicità disparate di vissuti reali o possibili di soggetti che par— lano e pensano. In questo senso ideale, il «contenuto» dei correlativi vissuti significanti è cosa ben diversa da ciò che intende la psicologia quando par— la di contenuto, cioè: una qualche parte reale o un aspetto del vissuto. Quan— do comprendiamo un nome — sia che esso denomini qualcosa di individuale o di generale, di fisico o di psichico, di essente o di non essente, di possibile o di impossibile — oppure quando comprendiamo un enunciato — sia esso materialmente vero o falso, coerente o assurdo, effettivamente pronunciato o seme plicemente immaginato — ciò che l’una o l’altra espressione significa (in una parola, il significato che costituisce il contenuto logico e che viene indicato, in un contesto puramente logico, come rappresentazione o concetto, giudi—
zio o preposizione ecc.) non è nulla di ciò che potrebbe valere in senso rea— le come parte del corrispondente atto di comprensione. Naturalmente questo vissuto ha anche le sue componenti psicologiche, e un contenuto e consiste
di contenuti — nel comune senso psicologico. Sono contenuti, in questo sen— so, anzitutto gli elementi costitutivi sensibili del vissuto, le manifestazioni verbali nei loro contenuti puramente visivi, acustici, motori, e inoltre gli at»
ti dell’i i termini di concetto e di oggetto del concetto assumono un duplice sen— so: da un lato si tratta del rapporto (che prima era determinante) tra l’attributo (rosso) e l’oggetto al quale spetta questo attributo (la casa rossa); dall’altro, di un rapporto totalmente diverso tra la rappresentazione logica (per esempio, il Significato della parola rosso e del nome proprio Teti) e l’oggetto rappresentato
tributi, come virtù, bianco, somiglianza. I primi vengono detti nbmi concreti, i
(l’attributo rosso, la dea Teti).
42. Distinzione dei concetti raggruppati intorno al concetto di specie
secondi astratti. Le espressioni predicative corrispondenti ai secondi, come vir—
b) Si può peraltro intendere la differenza tra le rappresentazioni concrete e
tuoso, bianco, simile, vengono annoverate tra i nomi concreti. Ma sarebbe più esatto dire che esse sono concrete se i soggetti possibili, ai quali si riferiscono, sono soggetti concreti. E ciò qui non accade: nomi come attributo, colore, numero ecc., si riferiscono predicativamente ad attributi (come singolarità specifiche) e non a individui, oppure anche a individui, ma solo mediatamente e modificando il loro senso predicativo. Dietro questa distinzione grammaticale si trova evidentemente una distinzione logica, cioè una distinzione tra isignificati nominali che sono rivolti agli attributi e quei significati che sono rivolti agli oggetti nella n-1isura in cui sono partecipi degli attributi. Se si definiscono con Herbert tutte le rappresentazioni
astratte anche in altro modo, definendo concreta una rappresentazione quando
logiche (e cioè, abbiamo detto, tuttii significati nominali) come concetti, essi si
distingueranno allora in astratti e concreti. Ma se si preferisce un senso diver— so del termine di concetto, che ponga concettozattributr:u abbiamo allora la di—
stinzione tra i significati che rappresentano concetti e quelli che rappresentano oggetti del concetto come tali. Questa distinzione è relativa, in quanto a loro volta gii stessi oggetti del concetto possono avere, in relazione a nuovi oggetti, il carattere di concetti. Ma ciò non può procedere in infinitum, e infine noi perveniamo alla distinzione assoluta tra concetti e oggetti del concetto, che non possono più fungere come concetti; da un lato quindi gli attributi, dall’altro gli oggetti che «hanno» gli attributi, ma che non sono essi stessi attributi. Così, alla distinzione tra i significati, corrisponde una distinzione nel campo degli oggetti, la distinzione, in altri termini, tra gli oggetti individuali e gli oggetti specifici
rappresenta direttamente, senza la. mediazione di rappresentazioni concettuali
(attributive), un oggetto individuale; e astratta nel caso opposto. Nel campo dei significati si trovano allora, da un lato, i significati dei nomi propri, dall’altro,
tutti gli altri significati nominali. Ai significati sopra indicati del termine «astratto» corrisponde anche un nuovo ambito di senso del termine di astrazione. Questo ambito comprenderà gli atti attraverso cui sorgono i «concetti» astratti. O più esattamente: si tratta
di atti nei quali i nomi generati ottengono il loro diretto riferimento a unità specifiche; e ancora, di atti che ineriscono a questi nomi nella loro funzione attri— butiva o predicativa, nei quali dunque si costituiscono forme come un A, tutti gli A, alcuni A, S, il quale e A ecc.; infine di atti nei quali ci sono «dati» in evi-
denza gli oggetti compresi in queste molteplici forme di pensiero, cioè di atti in cui si riempiono le intenzioni concettuali, ottenendo chiarezza ed eviden— za. Cosi, noi afferriamo direttamente l’unità specifica rosso, in se stessa, sulla
base di un’intuizione singolare di qualcosa di rosso. Noi volgiamo lo sguardo al momento rosso, ma compiamo un atto peculiare, la cui intenzione e rivol—
rali chele rappresentazioni generali (i significati generali), o più precisamente le rappresentazioni dirette (direkt) degli oggetti generali. Il concetto del «rosso» e il rosso stesso — come quando si contrappone a questo concetto i suoi ogget— ti molteplici, le cose rosse — Oppure è il significato del nome «rosso.». Entrambi
ta al]’ che il principe Enrico e una persona reale e non un personaggio di favola, che al mercato vi è una statua di Orlando, che il postino passa in tutta fretta. Anzi, ancor più. Certamente, gli
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oggetti denominati gli saranno presenti in modo diverso che se fossero semplicemente immaginati, e oltre ad apparirgli come essenti, essi vengono anche da lui e5pressi in quanto tali. Eppure, nell’atto del denominare egli non effettua alcuna predicazione di questo genere; eccezionalmente egli potrà anche espri— mere l’essere almeno in forma attributiva, cioè nella forma I’S efiettivamente esistente (e, nei casi opposti, dirà, per esempio, il presunto S, I’S immaginato ecc.). Ma anche nel caso del nome grammaticalrnente arricchito (senza voler decidere se esso ha subito una modificazione essenziale di senso, in luogo di una mera estensione di senso) la posizione (Setzang) è effettuata da quel momento dell’atto che si esprime nell’articolo determinato: ciò che muta e soltan— to la materia. Comunque anche in questo caso non si enuncia che 8 esiste, ma solo che 8 (nella sua eventuale modificazione di senso) e rappresentato attribu— tivarnente come efiettivamente esistente, è quindi posto come tale e denomina to nella forma «l’S efiettivamente esisten te», e anche in questo caso denominare non si identifica, nel suo senso, con enunciare.
Ammesso ciò, dobbiamo distinguere due specie di nomi o di atti nomina— li, cioè, i nomi che attribuiscono al denominato il valore dell’essere e quelli che non effettuano questa attribuzione. Un esempio di questi ultimi, se ve n’è bisogno, ci è offerto dalla materia nominale di una qualsiasi argomentazione esi— stenziale, che in effetti ha inizio senza alcuna posizione d’essere. Troviamo naturalmente una differenza analoga anche nel caso degli altri atti fondanti, come insegna il confronto tra l’antecedente di una proposizione causale e l’antecedente di una proposizione ipotetica; del resto non ci si pote— va attendere altrimenti, visto che questi atti sono essenzialmente affi ni agli atti nominali. In generale, la distinzione tra atti posizionali e non posizionali ab—
braccia l’intero campo della rappresentazione nel senso attuale, un campo che e ben più ampio di quello delle rappresentazioni propriamente nominali. Nella sfera delle rappresentazioni intuitive qui in questione che non fungono esse stesse nominalmente, ma che sono chiamate ad assolvere la funzione logica di riempire le intenzioni significanti nominali, sono atti posizionali la percezio— ne sensibile, che si appropria dell’oggettualità in un unico raggio di intenzione posizionale, il ricordo e l’aspettazione. Non posizionale è invece la corrispon— dente percezione anomala, perché viene privata della sua capacità di conferire il valore d’essere, per esempio l’illusione che si mantiene libera da ogni presa di posizione rispetto alla realtà di ciò che appare, e quindi anche ogni caso di mera fantasia. A ogni atto posizionale appartiene anzi in generale un possibile atto non posizionate della stessa materia, e viceversa.
Questa caratteristica differenza è manifestamente una difierenza di qualità d’atto: pertanto nel concetto di rappresentazione Vi è una certa frattura. Pos—
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Qainta ricerca
Ricerche iogiche
siamo ancora parlare di un unico genere «rappresentazione->> in senso rigore—l
so, possiamo assumere che le rappresentazioni poSizionali e non posizionali siano specie o differenze di questo genere unitario?
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La difficoltà verrebbe superata di colpo, se 81 potessero intendere gli atti posizionali come già fondati, assumendo cosi che essistess1 non Siano affatto rapì:mere rappresentazioni, ma fondati in rappresentazioni, mentre alla mera i poi. bbe presentazione si aggiunge il nuovo carattere pDSIZIDDÉLlE’ (sr trattere qualita decidere se esso non sia ovviamente omogeneo con il carattere della
' -1 . giudicativa). una Simi e Ma stando alle analisi che abbiamo precedentemente svolto,
percezione non concezione sembra sollevare dubbi giustificati. Come da una ato attuale un enunc1 un da o ione si può detrarre un atto di mera rappresentaz to come gineffettua tuttairia e atto enunciativo che pur essendo compreso non pte non gnifica one-si intenzi dizio, così per esempio, dall’atto posizionale del] eproa1 nomm atti si può detrarre un atto non posizionale. L’analogia con gli atto ogni a che posizionali deve necessariamente essere perfetta, dal momento — enuncrp ile nominale posizionale e completo corrisponde a priori un possib abo di un enunci to indipendente, e a ogni atto posizionale un atto correlativo si condurre d’L’anali ). nc1ato dell’enu nsione modificato (di una mera compre comune i aspetto l che to risulta al , be dunque, anche nella sfera più ampia contenu— stesso lo hanno che nale un atto posizionale e di un atto non posizio e data che atto, d materia mera to non consiste in un atto completo, ma in una ndere compre o soltant nei due casi in una diversa qualità d’atto. Si può anche uta nell uso pos1zioun nome, ma questa semplice comprensione non è conten
a in questio— nale del nome. Non è dunque questa la via per superare la frattur ne nella classe delle rappresentazioni nell’accezione attuale.
35. Posizione nominale egiudizio. Se igiadizi possano in generale diventare parti di atti nominali all’affimtà e,;n Ritorniamo ora al problema precedentemente posto intorno i gittdtZl pre 11 genere, al rapporto corretto tra le rappresentazioni posrzronalr e renza tra e cativi. Forse si tenterà di considerare come extra—essenziale lad.1ffe nome pos1zrodue specie di atti, dicendo per esempio: non vi è dubbio clic il ndente, ] espresnale non è un enunciato, cioè non è una predicazione indipe esso presepta(pn 1a Etuttav e. fficient sione di un giudizio, per cosi dire, autosu posto 0 on apresup come sempre giudizio, solo che questo deve essere tale da che non mo— ne funzio questa mento di un altro atto che si fonda su di esso. E
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Ricerche logiche
difica lo statuto intenzionale del giudizio che determina e contraddistingue la forma linguistica. Se qualcuno dice il postino che passa in tutta fretta. . ., in ciò è implicito il giudizio il postino passa in tutta fretta. La forma nominale e una semplice indicazione della funzione tetica soggettiva, che rinvia alla successi— va posizione del predicato. Tuttavia è difficile approvare questo modo di rendere del tutto estrinse— ca la differenza in questione — come se si collegassero semplicemente dei nuovi atti al giudizio che resta identico e la forma grammaticale del nome avesse semplicemente il carattere di un’indicazione indiretta di questa specie di col— legamento. La maggior parte dei logici, e tra questi anche persone particolar— mente profonde come Bolzano, banno ritenuto che la differenza tra i nomi e gli enunciati sia essenziale, e la scienza più matura ha dato loro ragione. Cer-
tamente, fra essi può sussistere un aspetto comune, ma è incontestabile che ciò che li distingue non è una differenza puramente estrinseca. Più precisamente, & necessario rendersi conto che gli atti nominali e i giudizi completi non pos— sono in alcun caso avere la stessa essenza intenzionale e che quindi qualsiasi conversione di una funzione nell’altra, pur con il mantenimento di una cornponente comune, implica necessariamente il variare di questa essenza. Ciò che qui induce in errore è forse per lo più il fatto che possono in realtà fungere in certo modo come soggetti anche delle autentiche predicazioni degli enunciati completi. Pur non essendo neppure qui atti—soggetti, essi si annet— tono tuttavia in certo modo con tali atti, cioè come giudizi determinanti relativi ai soggetti già rappresentati in altro modo. Per esempio: il ministro — egli e in arrivo —prenderti una decisione. Invece degli enunciati riportati fra i trat— tini, si può anche dire, senza variazione del senso, il ministro che è in arrivo; oppure il ministro in arrivo. Tuttavia ci si accorge che una simile concezio— ne non è sempre adeguata. L’attribuzione presenterà spesso una predicazio—
ne determinativa; ma anche se ciò si verificasse sempre, cosa indubbiamente falsa, essa riguarderebbe comunque soltanto una parte del nome del sogget— to. Sopprimendo tutte le aggiunte determinative di questo genere, resterebbe ancora un nome completo e sarebbe fatica sprecata tentare di sostituire a esso un giudizio che abbia solo la funzione di soggetto. Nel nostro esempio, la predicazione determinante si annette al nome il ministro, da cui non è più possibile dissociare una seconda predicazione. Quale sarebbe il giudizio che dovrebbe trovarsi qui alla base, come suonerebbe se venisse formulato in mo—
do autonomo? Forse il ministro significa la stessa cosa che costui — e un ministro? Costui sarebbe allora un nome completo e rivendicherebbe per sé un giudizio proprio. Ma come verrebbe espresso questo giudizio? Si tratta forse del giudizio che suona, in una formulazione autonoma, costui esiste? Ma an-
Quinta ricerca
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che in questo caso avremmo ancora lo stesso soggetto costui, e .ricadremmo
cosi in un regresso all’infinito. È indubbio che una gran parte dei nomi, e tra gli altri anche tutti i nomi at— tributivi, hanno avuto «origine» immediatamente o mediatamente da giudi-
zi e, in conformità con questa origine, rimandano a giudizi. Ma il fatto stesso che si parli di un’origine e di. un rimando, implica la loro diversità. E si tratta di una diversità cosi marcata che non ci è lecito trascurarla a causa di pregiudizi teoretici, o anche per amore di quella maggiore semplicità che sarebbe au— spicabile nella teoria della rappresentazione e del giudizio. L’atto giudicativo anteriore non è ancora il significato nominale che sorge solo da esso. Ciò che sussiste nel nome come sedimentazione del giudizio, non è il giudizio, ma una modificazione che si distingue nettamente da esso. L’effettuazione dell’atto modificato non contiene più l’atto immodificato. Se sappiamo per esperienza che la città di Halle si trova sulla Saale oppure comprendiamo che n e un numero trascendente, allora possiamo dire anche: Halle, la città sulla Saale, e il nu— mero trascendente a. in questo caso non effettuiamo più il giudizio, o almeno non vi è alcun bisogno di effettuarlo, ed esso non ofire alcun contributo all’at— to del significare nominale, neppure quando esso viene accessoriarnente aggiun-
to. E cosi in ogni caso. Certo, in precedenza abbiamo detto che i giudizi possono presentarsi in una funzione determinante; ma ciò non deve essere preso in senso proprio
e rigoroso. infatti, a ben vedere, questa funzione consiste solo nel fatto di far emergere, per cosi dire, di fronte ai nostri occhi l’attribuzione che arricchisce il nome. Il giudizio stesso non è una funzione attributiva e non può nemmeno assumere una tale funzione; esso si limita a esibire il terreno dal quale sor—
ge fenomenologicamente il significato attributivo. Una volta compiuta questa funzione, il giudizio può a sua volta venir meno, mentre l’attributo resta con la sua funzione di significato. Quindi, in questi casi che sono fuori dall’ordi— nario, abbiamo a che fare con delle complessioni; lafunzione attributiva è intessuto con quella predicativa; quest’ultima fa sorgere da se stessa la funzione attributiva, ma cerca contemporaneamente di farsi valere in se stessa — e abbiamo cosi l’espressione normale posta fra i trattini. I casi comuni di funzione attributiva sono privi di questa complicazione. Chi parla dell’imperatore tede— sco oppure del numero trascendente n, non intende l’imperatore — è l’impera— tore della Germania, oppure a — è un numero trascendente. Per comprendere pienamente quanto si e detto or ora, e necessaria un’im— portante integrazione. L’effettuazione dell’atto «modificato», abbiamo detto, non contiene più l’atto originario: questo e al massimo connesso a esso ag— giuntivamente e in modo non necessario. Ma ciò non esclude che il giudizio
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Ricerche logiche
«originario» «risieda» in certo modo «logicamente» nell’atto «modificato». Va notato che quando si parla di «essere originario» e di «modificazione», questo discorso non va affatto inteso in un senso empirico—psicologico e biologico, ma
esso esprime un rapporto essenziale di genere peculiare che sifonda nello statuto fenomenologico dei vissuti. Nello statuto essenziale proprio della rappresentazione nominale e attributiva, è implicito che la sua intenzione «rinvia» al
giudizio corrispondente, che essa si dà, in se stessa, come «modificazione» di questo giudizio. Se noi vogliamo «realizzare» il senso di rappresentazioni del tipo [’S che èp (il numero trascendente a), se vogliamo effettuarlo in un mo— do totalmente chiaro e diretto, se prendiamo la via dell’ostensione riempitiva di ciò che viene «inteso» con una simile espressione, allora dobbiamo, per co— sì dire, appellarci al giudizio predicativo corrispondente, dobbiamo effettuar— lo ed estrarre da esso «originariamente» la rappresentazione nominale, farla emergere, derivarla da esso. È chiaro che lo stesso vale, mutatis mutandis, in rapporto alle rappresentazioni attributive non posizionali Nell’effettuazione «diretta» esse richiedono fenomenologicamente atti predicativi di specie qua— litativamente modificata (i correlati dei giudizi di realtà), per poter emerge— re originariamente da essi. Nell’essenza della rappresentazione attributiva vi
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ca inerenza operativa, che soggiace a una legge ideale, delle essenze corrispon— denti degli atti, ideativamente afferrabili,22 essenze che hanno il loro «essere» e il loro «ordine d’essere» nel regno dell’idealità fenomenologica nello stesso mo— do in cui i numeri puri e le varietà pure delle strutture geometriche lo hanno nel regno delle idealità aritmetiche e geometriche. Se penetriamo nell’ambito apriorico delle idee pure, possiamo dire anche, in una generalità pura e incondizionata, tenendo conto della specifica natura di significato degli atti correlativi, che non «si possono» effettuare gli uni, senza effettuare gli altri a essi coordi— nati; e ancor più: dal punto di vista di una logica della validità sussistono qui corrispondenze in forma di equivalenze .legali, in modo tale che non si può — ra— gionevolmente — prendere le mosse, per esempio, da questo 5 senza l’ammis— sione «potenziale» che vi sia un 8. In altri termini: è a priori incompatibile che valga una proposizione con nomi posizionali qualsiasi, e che non valgano i giu— dizi d’essere corrispondenti a questi nomi. Si. tratta di una proposizione che fa parte di quel gruppo di leggi ideali «analitiche», che si fondano nella «mera for— ma» del pensiero e, rispettivamente, nelle categorie in quanto idee specifiche che appartengono alle forme possibili del pensiero «diretto».
è dunque, dal punto di vista fenomenologico, una certa mediatezza, che trova
espressione nell’uso di termini come «sorgere», «derivare» e «rimandare». Accade cosi che a priori la fondazione della validità di ogni attribuzione nomi— nale riconduca a quella del giudizio corrispondente, e che si debba dire anche, correlativamente, che l’oggetto nominale, nella sua eventuale strutturazione categoriale, viene «derivato» dallo stato di cose corrispondente, essendo quest’ultimo, nella sua verità, in sé anteriore all’oggetto. Stando a questi sviluppi, possiamo quindi asserire in linea del tutto ge— nerale che tra i nomi e gli enunciati sussistono delle difierenze che riguardano l’essenza significazionale oppure che poggiano sulle «rappresentazioni» e sui «giudizi» in quanto sono atti essenzialmente diversi. Come nell ’essenza inten— zionale non e la stessa cosa coglierepercettivarnente un ente o giudicare che «esso è», cosi anche non e la stessa cosa denominare un ente come tale o enunciare (predicare) di esso che «esso e…». Ora, se notiamo che evidentemente a ogni nome posizionale corrisponde un giudizio possibile, e rispettivamente a ogni attribuzione una possibile predi— cazione, e viceversa, non ci resta allora altra ipotesi — avendo negato l’identità degli atti in rapporto alla loro essenza — se non che sussistano qui dei rapporti regolati da leggi, e manifestamente da leggi ideali. In quanto si tratta di leggi ideali, tali rapporti non riguardano l’emergere causale o la coesistenza empirica di atti coordinati gli uni con gli altri; ma essi si riferiscono a una certa recipro-
36. Continuazi-one. Se gli enunciati possanofungere come nomi interi Dobbiamo ancora prendere in considerazione un’importante classe di esempi, per trovare anche in essa una conferma della nostra concezione del rapporto tra atti nominali e giudizi. Si tratta dei casi in cui le proposizioni enunciati— ve non trovano applicazione soltanto secondo un intento determinativo, in modo tale da sembrare, in quanto enunciati attuali, parti dei nomi: qui invece esse sembranofungere proprio come nomi, come nomi interi e completi. Per esempio: «Chefirzalrnente sia caduta la pioggia rallegrerci i contadini». Sembra che qui non ci si possa rifiutare di ammettere che la proposizione che funge da soggetto sia un enunciato completo. Si vuol dire proprio che e caduta la piog— gia. L’espressione modificata che trasforma questo giudizio in una proposizio— ne secondaria, può quindi servire soltanto a indicare il fatto che l’enunciato assume qui la funzione del soggetto: esso deve esibire l’atto di base su cui va fondata una posizione predicativa. Tutto ciò sembra molto seducente. Ma se la concezione che contestiamo trovasse un effettivo sostegno in questa classe di casi, se essa fosse attendibile in rapporto a essi, ci si dovrebbe allora chiedere immediatamente se essa, no— nostante le nostre obiezioni, sia sostenibile in una sfera più ampia. Consideriamo con maggior precisione il nostro esempio. Se si chiede di che
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Ricerche logiche
cosa dovrebbero rallegrarsi i contadini, si risponde: di questo, che. .. oppure-del fatto chefinalmente è caduta la pioggia. Quindi il fatto, lo stato di cose posto nella modalità dell’essere e l’oggetto della gioia, è il soggetto di cui si enuncia qualcosa. Noi possiamo indicare questo fatto in modi diversi. Come per ogni altro oggetto, possiamo dire semplicemente questo o anche questo fatto; oppu— re, offrendo una determinazione più precisa, ilfatto della caduta della pioggia, il cadere della pioggia ecc.; infine anche, come nell’esempio: che la pioggia sia caduta. Da questo confronto risulta chiaro che questa proposizione è un no— me nello stesso senso in cui lo e qualsiasi altra e3pressione nominale di fatti, e che essa non si distingue in modo essenziale dagli altri nomi negli atti donatori di senso in genere. Esattamente come ogni nome, essa denomina e deno-
minando rappresenta; e cosi come gli altri nomi denominano delle cose, delle proprietà ecc., essa denomina (e rappresenta) appunto uno stato di cose, che ha qui, in particolare, un carattere empirico. Che differenza vi è, allora, tra questa denominazione e l’enunciazione dello
stato di cose nell’enunciato indipendente, quindi, nel nostro esempio, nell’e— nunciato «finalmente è caduta la pioggia»? Può accadere che in un primo tempo ci limitiamo a enunciare lo stato di cose e che in seguito ci riferiamo a esso denominandolozfinalmente è caduta la pioggia — questo rallegrarsi i contadini. È qui che possiamo studiare il contrasto: perché qui esso è innegabile. Lo stato di cose è in entrambi i casi lo stesso, ma diventa per noi oggettuale in modo affatto diverso. Nel semplice enunciato, noi esprimiamo un giudizio sulla pioggia e sulla sua caduta; entrambe le cose sono per noi «rappresentate» e «oggettuali» in senso pregnante. Ma non effet—
tuiamo una semplice successione di rappresentazioni, bensì un giudizio, una peculiare «unità di coscienza» che «connette» le rappresentazioni. E in que— sta connessione si costituisce per noi la coscienza dello stato di cose. E la stessa cosa efiettuare il giudizio o diventare «coscienti» di uno stato di cose in questa modalità «sintetica» del porre qualcosa «in rapporto a un’altra». Noi effettuia— mo una tesi e in seguito una seconda tesi non—indipendente, in modo tale che perviene a costituzione intenzionale, nella fondazione reciproca di queste tesi, l’unità sintetica dello stato di cose. È chiaro che questa coscienza sinteti— ca è tutt’altra cosa dal contrapporre a se qualcosa in una tesi, per cosi dire, a un solo raggio, in un possibile atto-soggetto semplice, in una rappresentazione. Si confrontino il modo in cui la pioggia diventa «cosciente» e anzitutto la co— scienza giudicativa, l’essere—enunciato dello stato di cose, con la coscienza rap— presentazionale che segue immediatamente nel nostro esempio, con l’essere
denominato dello stesso stato di cose: questo rallegrerri i contadini. Questo in— dica, come un dito teso, lo stato di cose enunciato. Quindi esso «intende» que-
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sto stesso stato di cose. Ma questo «intendere» non è il giudicare stesso, che peraltro è già avvenuto ed e già passato come un certo evento psichico dotato di queste o quelle determinazioni; esso è, in realtà, un atto nuovo e di nuovo genere, che si contrappone allo stato di cose già precedentemente costituito in modo sintetico (in più raggi) in quanto lo indica; pertanto esso ha questo stato di cose come oggetto in tutt’altro senso in cui lo ha il giudizio. Nel giudizio dunque questo stato di cose perviene «originariamente» alla coscienza; l’intenzione a esso diretta «in un unico raggio» presuppone un’intenzione a più raggi e rimanda a essa nel suo senso. Ma in ogni modalità di coscienza a più raggi si fonda a priori la possibilità (che è una possibilità essenziale 11 e al tempo stesso I3 > I.,, allora I_, > I,, e quest’ultimo intervallo è maggiore degli intervalli inter— medi. Ciò vale almeno se prendiamo separatamente in considerazione i tre mo— menti che abbiamo precedentemente distinto dell’estensione, vivacità e realtà. Come sappiamo dall’analisi, a queste progressioni e serie di progressioni corrispondono somiglianze e serie di somiglianze rispetto ai contenuti estensivi delle pienezze. La somiglianza dei rappresentanti non va certamente assun— ta senz’altro come una progressione, e neppure le serie di somiglianze come una serie di progressione e in particolare se queste «pienezze» vengono considerate nella loro propria consistenza contenutistica e facendo astrazione dalla loro funzione rappresentativa negli atti corrispondenti. Solo in forza di que— sta funzione, quindi del fatto che nell’ordine della serie di riempimento e delle progressioni operanti tra i suoi atti, ogni atto successivo si presenta ancora più ricco di pienezza, anche i contenuti rappresentanti degli atti ottengono un ordine crescente; di passo in passo essi stessi non si presentano soltanto come conferenti pienezza, ma come conferenti una pienezza sempre maggiore. La
Noi abbiamo parlato di «pienezza» riferendoci ai rapporti di «riempimento», questa forma peculiare della sintesi di identificazione. Nelle nostre ultime af— fermazioni abbiamo spiegato, attraverso i rapporti dei momenti interni delle
signazione relativa, funzionale, essa esprime una caratteristica secondo cui il contenuto riceve un incremento attraverso la funzione di questo atto nelle sintesi possibili del riempimento. Accade qui la stessa cosa che nella designazione
Quanto ai gradi della pienezza del contenuto intuitivo, a cui eo ipso corrispon— dono parallelamente i gradi della pienezza del contenuto rappresentante, pos— siamo distinguere: 1. L’estensione o la ricchezza della pienezza, che varia secondo la maggiore o minore completezza in cui il contenuto dell’oggetto arriva a presentarsi. vivacità della pienezza come grado di approssimazione delle somiLa 2. glianze primitive dell’ostensione ai momenti contenutistici corrisponden— ti dell’oggetto. 3. La portata di realtà della pienezza, il suo essere costituita da un numero maggiore o minore di contenuti presentanti. Da tutti questi punti di vista, la percezione adeguata costituisce l’ideale, essa ha il massimo di estensione, di vivacità e di realtà, proprio in quanto coglie l’oggetto in se stesso nella sua totalità e interezza.
designazione di queste componenti come pienezze e appunto soltanto una de-
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Ricerche iogicire
di «oggetto:». Esserecggetto non e un attributo positivo, una specie positiva di un contenuto; esso designa soltanto il contenuto come correlato 1ntenz1onale di una rappresentazione. Del resto, i rapporti di riempimento e di progressione si fondano palesemente nello statuto fenomenologico degli atti unicamente secondo il suo carattere specifico. Si tratta qui indubbiamente di rapporti ide— . ali, determinati dalla specie corrispondente. — incremen un verifica si sempre Ma nella sintesi degli atti intuitivi non unr1em che detto, già to di pienezza; infatti può accadere, come abbiamo ng) (bntfalla ento pimento parziale proceda di pari passo con uno svuotam parziale… E di conseguenza potremmo dire che la distinzione tra mera iden— tificazione e riempimento si riduca in ultima analisi al fatto che, nel caso della mera identificazione, o non sussiste in generale alcun riempimento in senso proprio, perché si tratta di tesi di identità che sono nel loro complesso prive di pienezza; oppure ha luogo un riempimento e un arricchimento della pienezza, ma con un simultaneo svuotamento, con un vemr meno del—. la pienezza già data, cosicché non si realizza nessuna coscienza esphc1tach pura progressione. In ogni caso, i rapporti primitivi, relativi alle 1ntenzm— ni elementari, sono il riempimento di un’intenzione vuota, cme puramen— te signitiva e, per cosi dire, il riempimento aggiuntivo di un’intenzione già in qualche modo riempita, cioè l’incremento e la realizzazione di un inten—
zione immaginativa.
25. Pianezza e materia intenzionale
Vogliamo ora prendere in esame il rapporto tra il nuovo concetto di contenu— to rappresentazionale, compreso sotto il titolo di «pienezza», e il contenuto nel senso di materia, che ha avuto un ruolo cosi importante nel corso della nostra indagine sino a questo punto. La materia era per noi quel momento dell’atto oggettivante che fa si che l’atto rappresenti proprio questo oggetto e proprio in questo modo, cioè in queste forme e articolazioni, con particolare riguardo a queste determinazioni 0 rapporti. Rappresentazioni di materia concordante non rappresentano soltanto in generale lo stesso oggetto, ma lo mtendono anche assolutamente come il medesimo, cioè come determinato in modo pzenarnente identico. Una rappresentazione non gli attribuisce, nella propria in— tenzione, nulla che non gli venga attribuito anche dall’altra rappresentazione. A ogni forma e articolazione oggettivante, da un lato corrisponde una forma e dall’altro un’articolazione, in modo tale che gli elementi rappresentazrona— li concordanti intendono oggettivamente la stessa cosa. In questo senso nella
Sesta ricerca
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Quinta ricerca abbiamo detto, illustrando il concetto di materia e di essenza
significazionale: «Due giudizi sono essenzialmente lo stesso giudizio [cioè, sono giudizi della stessa materia] se tutto ciò che vale in rapporto allo stato di cose giudicato secondo uno dei giudizi (unicamente sulla base del contenuto giudicativo stesso), vale necessariamente in rapporto allo stesso stato di cose secondo l’altro giudizio, e null’altro. Il loro valore di verità è lo stesso»FEssi intendono appunto, in rapporto all’oggetto, la stessa cosa, per quanto grande possa essere per altri aspetti la loro differenza; per esempio, l’uno potrà essere effettuato solo sul piano della significazione, mentre l’altro potrà essere più o meno intuitivamente illustrato. Ciò da cui mi ero lasciato inizialmente guidare nel dare forma a questo concetto era l’identità nell’enunciazione e nella comprensione di un’unica e mede— sima espressione; in questo caso l’uno può «credere» al contenuto dell ’enunciato mentre l’altro può «lasciarlo indeciso» senza che questa identità risulti turba— ta: dove è inoltre indifferente che l’esprimere si compia, e in generale possa compiersi, nel confronto con le intuizioni corrispondenti, oppure no. Perciò si sarebbe potuto essere inclini (e io stesso sono stato a lungo incerto su questo punto) a definire il significato come questa «materia»; ma ciò avrebbe com— portato l’incongruenza di escludere dal significato, per esempio, nell’enunciato predicativo, il momento dell’asserzione attuale. (In ogni caso si potrebbe defi— nire il significato in un primo momento in questi termini, per poi distinguere
tra significati qualificati e non qualificati.) Dal confronto tra le intenzioni significanti e le loro intuizioni correlative nell’unità statica e dinamica della coincidenza identificante è risultato poi che questa medesimezza, che veniva definita come materia del significato, si ritrova nell’intuizione corrispondente e media l’identificazione; con ciò, la libertà di adottare () di lasciar cadere certi elementi intuitivi e persino le intuizioni corrispondenti complete, nei casi in cui si trat—
ta unicamente della significatività identica dell’espressione eventuale, pogge— rebbe sul fatto che l’atto complessivo inerente al complesso fonetico ha le stesse materie, sia in rapporto all’intuizione che al significato; cioè in rapporto & tut— te quelle parti del significato che pervengono in generale a traduzione intuitiva. È chiaro perciò che il concetto di materia è definito dall’unità dell’identificazione totale, e precisamente come quella componente degli atti che serve in e3» si come fondamento dell’identificazione; e di conseguenza, nell’—elaborazione di questo concetto non si tiene conto di quelle differenze di pienezza che vanno al di là della mera identificazione, determinando in vario modo le proprietà del riem— pimento e dell’incremento del riempimento. Comunque possa variare la pienezza di una rappresentazione all’interno delle sue possibili serie di riempimento, il suo oggetto intenzionale, nel suo essere intenzionato e nelle modalità in cui è in—
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Sesta ricerca
Ricerche iogiche
sua materia. D’altro tenzionato, resta lo stesso;, in altri termini, resta identica la contrappomamo a lato, la materia e la pienezza non sono irrelazionate, e laddove a a esso la pienez— un atto puramente signitivo un atto dell’intuizione phe apport
che alla materia e alla za, quest’ultimo non si distingue dal precedente per il fatto
momento, sepaqualità comune si annette ancora la pienezza, a titolo di un terzo zza» ll con— «piene con iamo intend rato da esse. Questo almeno non si verifica se esso stesso 1a abbracc o intuitiv tenuto intuitivo dell’intuizione. Infatti il contenuto izione un’intu a già una materia intera, e precisamente considerando l’atto ridotto la sua ra, onepu pura. Se l’atto intuitivo già dato è fm dall’inizio un atto di intuizr o. intuitiv uto materia è al tempo stesso un elemento costitutivo del suo conten formu— o Stabilendo un parallelismo tra gli atti signitivi e ÌI‘IÌL11t1 potrem come segue: lare nel modo più opportuno i rapporti qui sussistenti
. ‘
qualita e ma— L’atto puramente signitivo sarebbe una mera complessmne di
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rapporto alla funzione signitiva, allora non possiamo neppure dire che ogni atto signitivo ha bisogno di un’intuizione fondante, bensì di un contenuto fondante. Come tale può fungere — si direbbe — qualsiasi contenuto, come del resto ogni contenuto può fungere come contenuto estensivo di un’intuizione. Se ora prendiamo in esame il caso parallelo, quello dell’atto puramente inta— itivo, anche la sua qualità e la sua materia, la sua essenza intenzionale non è se— parabile di per se stessa; anche qui si richiede una necessaria integrazione. Essa viene offerta dal contenuto rappresentante, cioè dal contenuto (sensibile, nel ca— so dell’intuizione sensibile) che ha assunto il carattere di un rappresentante in— tuitivo, intessendosi appunto con questa essenza intenzionale. Se notiamo che lo stesso contenuto (per esempio, lo stesso contenuto sensibile) ora può servire co—
me veicolo di una significazione, ora di un’intuizione (rispettivamente operando un rinvio o una riproduzione immaginativa), risulta naturale estendere il con—
se potesse formare teria se in generale potesse sussistere di per se stesso, cioe
cetto di contenuto rappresentante, distinguendo tra contenuto signitivarnente e
rto di riempimento; cioè essa non entra rispetto a questo atto in nessun rappo
anche gli atti misti, che vengono generalmente compresi sotto la voce di intuizione, ciò che li caratterizza è il possesso di un contenuto rappresentante che in rap— porto a una parte dell’oggettualità rappresentata funge come rappresentante che
nm lo trodi per se stesso un vissuto unitario. Ma ciò è per esso 1mposmbrlep delqse— rone )mtu1z Questa te. viamo sempre in aderenza a un’intuizione fondan ativo, signific atto dell gno non ha certamente «nulla a che fare» con l’oggetto
ilità di un atto ma essa realizza in concreto la possibilità dell’atto come possib te: una assolutamente non riempito. Sembra dunque vigere il principio seguen a essenz nuova una da affetta è izione un’intu se significazione e possibile solo modalita del intenzionale, dove l’oggetto intuitivo rinvia oltre se stesso nella oppure di inato determ ben segno un segno (ed è indifferente che si tratti di serncose, le bene veder A ). un segno che si presenta solo momentaneamente iieî caricl‘ analiti zza chiare brerebbe che questo principio non esprima con la plL1—Cll di forse dica sta il nesso di necessità qui dominante; e inoltre che esso Cio che offre quanto si possa render conto. Sembrerebbe lecito affermare che ndante tn quan— un sostegno essenziale all’atto signitivo non è l’mtuzzronejîo che va oltre que— to intero, nta solo il suo contenuto rappresentante. Infatti, Cio le, può variare sto contenuto e che determina il segno come oggetto natura ta. E per esemintacca risulti a signitiv ne arbitrariamente, senza che la funzio caratteri a siano parola una ita pio indifferente che i caratteri di cui è costitu che essi anche rente indiffe è stampa, oppure siano fatti di legno o di ferro, ed costan— la o soltant e si manifestino oggettivamente come tali. Ciò che conta della tratta si te riconoscibilit‘a della forma (Gestalt), ma neppure in quanto e ef— sussist cl1e forma oggettiva di una cosa di legno ecc., ma in quanto forma e. Se il rapporto fettivamente nel contenuto sensibile estensivo dell’inturz1on uizione, se sussiste soltanto tra l’atto signitivo e il contenuto estensivo dell’int anti in irrilev uenza conseg di sono one intuizi la qualità e la materia di questa
intuitivamente rappresentante (o, in breve, tra rappresentanti signitivi e intuitivi). Ma questa suddivisione è incompleta. Finora abbiamo considerato soltanto gli atti puramente intuitivi e puramente signitivi. Se ora mettiamo in questione
opera una riproduzione immaginativa o un’ostensione diretta, mentre esso ha
una funzione di semplice rinvio in rapporto alla parte integrante. Noi dobbiamo dunque coordinare ai rappresentanti puramente signitivi e puramente intuitivi quelli rnisti, che «rappresentano» al tempo stesso signitivarnente e intuitiva— mente, e sempre in rapporto alla stessa essenza intenzionale. Ora possiamo dire: Ogni atto oggettivante concretamente completo ha tre componenti: la qualita, la materia e il contenuto rappresentante. Questo contenuto padfnngere come
rappresentante puramente signitivo opararnente intuitivo, e come rappresentan— te sign-itivo e intuitivo insieme; l’atto sarà allora, rispettivamente, puramente si— gnitivo, puramente intuitivo () misto.
26. Continuazione. Rappresentanza () apprensione. La materia come
senso apprensionale, informa apprensionale e il contenuto appreso. Caratteri distintivi dell ’apprensione intuitiva e signitiva Si chiede ora come vada inteso questofangere, dal momento che sussiste a pri— ori la possibilità che lo stesso contenuto funga secondo questa triplice maniera in combinazione con la qualità e la materia. E chiaro che solo la peculiarità
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Ricerche logiche
alla differenza, in quanto diffefenomenologica della forma-di unità può dare contenuto. Ma questa forma con— renza fenomenologicamente rilevabile, il suo tante. La funzione rappresentativa nette in particolare la materia e il rappresen ma—
ità. Per esempio, che una certa non viene intaccata dal variare della qual oggetto
presentificazione di un nifestazione della fantasia valga per noi come stica, non incide certo sul fatto reale oppure come mera immaginazione fanta , e il suo contenuto è dunque ll che essa è una rappresentazione immaginativa aginativo. Perciò noi chiamiamo veicolo della funzione di un contenuto imm tante, in quanto è essa che con— l ’un-ità fenomenologica tra materia e rappresen tante, forma della rappresentanferisce a quest’ultimo il carattere di rappresen da essa prodotto, rappresentanza za, e l’intero costituito da quei due momenti, ssione al rapporto tra contenu— sic et simpliciter. Questa designazione dà espre etto, ola parte dell’oggetto, (l’ogg to rappresentante e contenuto rappresentato menologico. Se lasc1amo feno nto che è rappresentato) secondo il suo fondame è te non dato, per esprimere sol— fuori gioco l’oggetto che fenomenologicamen resentante e più precisamente tanto che, quando il contenuto funge come rapp e in rapporto a questo o quell’og— come rappresentante di questa o quella speci re diverso, parliamo allora del va— getto, esso è «sentito» da noi in modo semp iamo dunque indicare laforrna riare dell’apprensione (Anfiassung). Noi poss nsionale. Poiché la materia pre— della rappresentanza anche come forma appre appreso il contenuto rappresenta, per cosi dire, il senso secondo cui viene nale; oppure di mater-1a ensio sentante, possiamo anche parlare di senso appr al termine precedente e accen— apprensionale volendo mantenere il rimando alla forma. In ogni apprensrone nare al tempo stesso all’opposizione rispetto vista fenomenologico: la materia dovremmo dunque distinguere, dal punto di ma apprens-ionale e il contenato apprensionale o il senso apprensionale, lafor dall’oggetto dell’apprens1one. Leappreso, mantenendo quest’ultimo distinto amente, non è adatta per Via spressione di appercezione, benché sia data storic alla percezione; utilizzabile è della sua falsa contrapposizione terminologica . . invece il termine di apprensione (Apprehension) diver— le uono isting radd cont il problema ulteriore riguarda i caratteri che che, secondo quanto absione ppren dell’a o tanza esen se modalità della rappr pur restando identica la materia biamo detto, possono anche differenziarsi modo in cui» viene appreso). Nel apprensionale («ciò che» viene appreso «nel le differenze tra le rappresentanze capitolo precedente abbiamo caratterizzato nel contesto attuale, si ha di mira mediante quelle tra le forme di riempimento: statuto descrittivo proprio deluna caratterizzazione interna che si limiti allo chiarificazione analitica che si le intenzioni. Utilizzando i primi spunti di una che , e al tempo stesso i progressi sono a noi offerti nella trattazione precedente
intanto abbiamo compiuto nella comprensione generale delle rappresentanze,
risulta allora la seguente serie di idee. Cominciamo con l’osservare che la rappresentanza signitiva istituisce un rapporto accidentale e esterno tra la materia e il rappresentante, mentre quella. intuitiva un rapporto essenziale e interno. Nel primo caso l’accidentalità con— siste nel fatto che la stessa e identica significazione può essere pensata come inerente a qualsiasi contenuto. La materia significativa ha bisogno solo in generale di un contenuto di supporto, ma tra la peculiarità specrfica di tale contenuto e la peculiarità specifica della materia significativa non troviamo alcun vincolo di necessità. Il significato non può, per cosi dire, star sospeso a mezz’a— ria, ma in rapporto a ciò che esso significa è pienamente indifferente il segno di cui esso è per noi il significato. Le cose stanno del tutto altrimenti nel caso della rappresentanza int-attiva. Sussiste qui un nesso intrinseco e necessario tra la materia e il rappresentante, un nesso determinato dalla natura specifica di entrambi. Può fungere come rappresentante intuitivo di un oggetto solo un contenuto che sia a esso simile @ ugua— le. In termini fenomenologici: in che modo apprendiamo un contenuto (in quale senso apprensionale), non è cosa che dipenda interamente dal nostro arbitrio; e non soltanto per motivi empirici — essendo empiricamente necessaria qualsia-
si apprensione, compresa quella significativa — ma per il fatto che ci sono posti dei limiti dal contenuto da apprendere per via di una certa sfera di somiglian— za e di eguaglianza, quindi per via della sua natura specifica. Questo carattere interno della relazione non connette soltanto tra loro la materia apprensiona— le come un tutto e l "intero contenuto, ma le loro parti corrispondenti, membro a membro. Nel caso dell’intuizione non-pura l’unità specifica e parziale: una parte della materia — la materia dell’intuizione ridotta e che quindi è naturalmente pura — presenta il senso intuitivo in cui il contenuto viene appreso; la parte ree stante della materia non viene rappresentata per somiglianza o per eguaglianza, ma solo per contiguità, cioè, nell’intuizione mista, il contenuto rappresentante funge per una parte della materia come rappresentante intuitivo, per la parte in— tegrativa come rappresentante signitivo.
Se infine si chiede che cosa faccia si che lo stesso contenuto nel senso della stes— sa materia possa essere appreso ora come un rappresentante intuitivo, ora come
un rappresentante signitivo, o in che cosa consista il diverso carattere della for— ma apprensionale su questo punto non mi è possibile dare alcuna risposta ul— teriore. Si tratta appunto di una ditferenza fenomenologicamente irriducibile. In queste riflessioni abbiamo considerato di per se stessa la rappresentan— za in quanto unità di materia e contenuto rappresentante. Se ci ricolleghiamo
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connessioni ancora una volta agli atti completi, essi ci appaiono allora come
() signitiva. Gli atti tra la qualità d’atto e la rappresentanza, sia essa intuitiva
è determinata interi vengono chiamati intuitivi o signitivi, una differenza che rti di riemquindi delle rappresentanze intessute in essi. Lo studio dei rappo o o pienezza di pimento ci aveva prima condotti al concetto di statuto intuitiv esso definisce la un atto. Se paragoniamn questo concetto con quello attuale, a un atto di in— relativa pura) one intuizi (= rappresentanza puramente intuitiva
in particolare per la tuizione non-pura. La