Ermeneutica e filosofia trascendentale. Ricerche kantiane 9788879031752


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Ermeneutica e filosofia trascendentale. Ricerche kantiane
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Metafisica della ragione e idea teologica

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BIBLIOTECA DEL GIORNALE DI METAFISICA diretta da Nunzio Incardona

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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Metafisica della ragione e idea teologica

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Francesco Camera

Ermeneutica e filosofia trascendentale Ricerche kantiane

TILGHER-GENOVA

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI Printed in Italy

ISBN 978-88-7903-175-2 © 2003, Casa Editrice Tilgher-Genova s.a.s. Via Assarotti 31 - 16122 Genova www.tilgher.it

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Prefazione

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PREFAZIONE

Le ricerche di questo volume si collocano all’interno di un orizzonte teoretico che tenta di coniugare l’approccio ermeneutico con la tradizione della filosofia trascendentale; esse sono animate dalla convinzione che il progetto kantiano di “critica della ragione” possa essere di aiuto per una riflessione ermeneutica che accetta la sfida della costruzione del senso. Queste ricerche intendono la “critica” kantiana come una indagine che vuole conoscere dall’interno le possibilità ed i limiti della stessa ragione. L’esercizio della critica e lo sviluppo della filosofia trascendentale avvengono attraverso un movimento circolare, in cui la ragione è sia oggetto di indagine sia organo inquirente. La “critica”, che esamina le possibilità ed i limiti della ragione, si sviluppa quindi come un processo di autoanalisi speculativa e può essere definita in senso lato una ermeneutica della ragione: una interpretazione delle sue strutture, delle sue capacità e dei suoi diversi usi condotta speculativamente dalla ragione medesima. Questo aspetto ermeneutico (auto-critico o auto-interpretante) della ragione kantiana è il filo rosso che lega tra loro i quattro capitoli del libro, ciascuno dei quali è dedicato alla chiarificazione ed all’approfondimento di un nucleo tematico specifico della filosofia trascendentale considerato rilevante per mettere in luce l’attività auto-analitica della ragione. Nel primo Capitolo il carattere ermeneutico della ragione viene individuato indagando le tematiche metafisiche della prima Critica. L’attenzione si concentra in modo particolare sul progetto di unità sistematica della ragione e sul ruolo svolto dalla terza idea (o “idea teologica”) nella costruzione di tale unità. Dall’analisi dei testi emerge come la “critica della ragione” si muova secondo un movi-

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

mento circolare tra “parte” e “tutto”, che conferisce una notevole rilevanza ermeneutica alla costituzione architettonica della filosofia trascendentale. Nel secondo Capitolo vengono approfondite le nozioni kantiane di “idea” e di “ideale” in rapporto alla tradizione filosofica. La discussione verte in particolare intorno al rapporto con Platone e tocca la concezione della “storia della ragione pura”, la quale sembra confermare il carattere auto-interpretante della ragione stessa. Nel terzo Capitolo la ricerca si concentra sul terreno della filosofia pratica. Vengono indagate l’origine e la giustificazione del concetto di obbligazione morale all’interno della struttura della ragione in relazione alla nozione metafisica di necessità. Anziché soffermarsi sulle pagine arcinote della Grundlegung e della seconda Critica, la ricerca privilegia un lavoro di scavo e di ricostruzione attraverso testi meno noti ma altrettanto importanti, appartenenti al cosiddetto periodo “precritico”. Il quarto Capitolo infine tenta una ricognizione delle problematiche ermeneutiche nel contesto della filosofia trascendentale nel suo complesso. Viene proposta una lettura di alcuni testi kantiani (tratti dalla prima e dalla terza Critica), in cui implicitamente o esplicitamente è presente una riflessione sul problema del comprendere e dell’interpretare. Ampio spazio viene poi dedicato alla concezione kantiana dell’ermeneutica biblica ed agli aspetti etico-religiosi che la caratterizzano nella Religion e nello Streit. Gran parte di queste ricerche sono nate dall’esperienza dell’insegnamento seminariale; per questa ragione esse mantengono il più possibile il contatto col testo kantiano nella lingua originale attraverso un paziente lavoro di lettura e di commento analitico. La discussione della letteratura critica, invece, è stata inserita per quanto possibile nelle note, in cui spesso vengono citati anche altri scritti kantiani (prevalentemente annotazioni manoscritte o appunti di lezioni) utili per chiarire ulteriormente la lettura dei testi principali. Queste ricerche sono state svolte durante alcuni periodi di soggiorno presso l’Università di Tübingen, effettuati grazie al finanziamento del D.A.A.D. di Bonn, del M.U.R.S.T. e dell’Università

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Prefazione

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degli Studi di Genova, ai quali va il mio sentito ringraziamento. Tra le molte persone, alle quali sono debitore per la discussione delle principali tematiche del libro e per lo sviluppo delle mie ricerche, vi sono alcuni docenti del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Genova che da anni si occupano della filosofia kantiana. In modo particolare sento di dover rivolgere un ringraziamento ai Professori Domenico Venturelli ed Angelo Campodonico, per avermi costantemente incoraggiato nel difficile lavoro di analisi dei testi kantiani. Devo poi ricordare il Professor Gerardo Cunico, che ha letto gran parte dei materiali preparatori e con competenza ed esperienza mi ha aiutato nel lavoro di organizzazione dell’intero volume. Infine rivolgo un sentito ringraziamento al Professor Nunzio Incardona per aver accettato di pubblicare queste mie ricerche nella “Biblioteca del Giornale di Metafisica” da lui diretta.

I capitoli che compongono questo libro riprendono in parte alcuni lavori pubblicati in precedenza in volumi collettanei. Rivolgo un cordiale ringraziamento agli Editori e ai Curatori dei volumi, che mi hanno gentilmente consentito di utilizzare tale materiale. In particolare, il Capitolo I riprende quasi integralmente il saggio Unità della ragione e idea teologica in Kant, in L. Malusa (a cura di), Lineamenti di un personalismo teologico. Scritti in onore di Carlo Arata, Brigati, Genova 1996, pp. 377-416. Il Capitolo II riprende il saggio Il confronto di Kant con Platone nella “Critica della ragion pura”, in L. Malusa (a cura di), La trasmissione della filosofia nella forma storica, Angeli, Milano 1999, vol. II, pp. 119-138. Il Capitolo III riprende il saggio Obbligazione e dovere nel Kant precritico. La Preisschrift del 1762/64, in D. Venturelli (a cura di), Prospettive della morale kantiana, Edizioni Impressioni Grafiche, Acqui T. 2001, pp. 7-73. Il Capitolo IV costituisce la rielaborazione della relazione tenuta nell’ottobre del 2001 alla Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme sul tema “Immanuel Kant: religione e filosofia”.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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Sigle e abbreviazioni

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SIGLE E ABBREVIAZIONI

Le opere di Kant vengono citate secondo la pagina della prima (= A) o seconda (= B edizione) originale, alla quale segue (senza sigla) l’indicazione di volume e pagina dell’Akademie Ausgabe: Kant’s gesammelte Schriften, a cura dell’Accademia Prussiana (poi Tedesca) delle Scienze di Berlino, Reimer (poi de Gruyter), Berlin 1900 ss. Tutti gli altri scritti non pubblicati durante la vita di Kant (le lettere, gli appunti tratti dalle lezioni, i lavori preparatori, le annotazioni) vengono citati sempre con riferimento all’Akademie Ausgabe; le annotazioni manoscritte (Reflexionen) vengono indicate anche col numero progressivo preceduto dalla sigla: Refl. Per indicare le singole opere vengono inoltre inserite le seguenti abbreviazioni con le corrispondenti traduzioni italiane utilizzate, il cui rinvio compare sempre tra parentesi quadre: AN:

Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, Petersen, Königsberg und Leipzig 1755, I 215-368 [Storia universale della natura e teoria del cielo, trad. it. di S. Velotti, a cura di G. Scarpelli, Theoria, Roma 1987]. Fort.: Welches sind die wirklichen Fortschritte, die die Metaphysik seit Leibnizens und Wolffs Zeiten in Deutschland gemacht hat?, hrsg. von T. Rink, Goebbels und Unzer, Königsberg 1804, XX 255-332 [Quali sono i reali progressi compiuti dalla metafisica in Germania dai tempi di Leibniz e di Wolff?, in I. Kant, Scritti sul criticismo, trad. it. a cura di G. De Flaviis, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 149-238]. GMS: Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Riga 1785, 17862, IV 385463 [Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it. di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1997]. KrV: Kritik der reinen Vernunft, Riga 1781, 17872; IV 1-252 (A); III 1-552 (B) [Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. LombardoRadice, rivista da V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1991].

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

KpV: Kritik der praktischen Vernunft, Riga 1788, V 1-163 [Critica della ragion pratica, trad. it. di F. Capra, rivista da E. Garin, Laterza, Bari 1972]. KU: Kritik der Urteilskraft, Berlin 1790, 17932, V 165-485 [Critica del Giudizio, trad. it. di A. Gargiulo, rivista da V. Verra, Laterza, Bari 1970]. Log.: Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, hrsg. von G.B. Jäsche, Nicolovius, Königsberg 1800, IX 1-150 [Logica, trad. it. di L. Amoroso, Laterza, Roma-Bari 1984]. MA: Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, Hartknoch, Riga 1786, IV 465-565 [Primi principi metafisici della scienza della natura, trad. it. di L. Galvani, Cappelli, Bologna 1959]. MdS: Metaphysik der Sitten, Nicolovius, Königsberg 1797, VI 203-372 [La metafisica dei costumi, trad. it. di G. Vidari, rivista da N. Merker, Laterza, Roma-Bari 1991]. ND: Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio, Hartung, Königsberg 1755, I 385-416 [Nuova illustrazione dei primi principi della conoscenza metafisica, in I. Kant, Scritti precritici, trad. it. di P. Carabellese, rivista e accresciuta da R. Assunto, R. Hohenemser, A. Pupi, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 3-54]. Prol.: Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, Riga 1783, IV 253-383 [Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, trad. it. di P. Carabellese, Laterza, Bari 1970]. Rel.: Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, Nicolovius, Königsberg 1793, 17942, VI 1-202 [La religione entro i limiti della sola ragione, trad. it. di A. Poggi, rivista da M.M. Olivetti, Laterza, Roma-Bari 1985]. SF: Der Streit der Fakultäten, Nicolovius, Königsberg 1798, VII 1-116 [Il conflitto delle Facoltà, trad. it. a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia 1994]. Unt.: Untersuchung über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der Moral, Academie der Wissenschaften, Berlin 1764, II 273-301 [Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, in I. Kant, Scritti precritici, trad. it. di P. Carabellese, rivista e accresciuta da R. Assunto, R. Hohenemser, A. Pupi, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 3-54]. Le indicazioni relative alle traduzioni italiane compaiono di regola tra parentesi quadre. Le citazioni sono state talvolta modificate o rettificate, per

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Sigle e abbreviazioni

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essere adattate al contesto delle argomentazioni dello scrivente. Per alleggerire le indicazioni bibliografiche le traduzioni maggiormente utilizzate vengono abbreviate con le seguenti sigle: Ep.:

Epistolario filosofico 1761-1800, ed. it. parziale a cura di O. Meo, il melangolo, Genova 1990. LFR: Lezioni di filosofia della religione, trad. it. a cura di C. Esposito, Bibliopolis, Napoli 1988. SC: Scritti sul criticismo, trad. it. a cura di G. De Flaviis, Laterza, RomaBari 1991. SFR: Scritti di filosofia della religione, trad. it. a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1989. SP: Scritti precritici, tr. it. di P. Carabellese, rivista e accresciuta da R. Assunto, R. Hohenemser, A. Pupi, Roma-Bari, Laterza 1982. SSP: Scritti di storia, politica e diritto, trad. it. di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1999.

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Metafisica della ragione e idea teologica

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I METAFISICA DELLA RAGIONE E IDEA TEOLOGICA

1. Diversi significati di metafisica Tra i diversi significati e le molteplici diramazioni che il complesso concetto di metafisica assume nella prima Critica kantiana, quello che la intende in senso lato come “critica della ragione” può essere assunto come uno dei più utili per seguire lo sviluppo della questione circa il destino di questa disciplina filosofica. In verità questo significato è già una specificazione di una esperienza esistentiva preliminare, che intende per metafisica quella particolare “disposizione naturale [Naturanlage]” derivante da una “indefessa tendenza [rastlose Bestrebung]” (KrV B XV; III 11 [17]) che da sempre “tormenta” la ragione umana con interrogativi che essa non può evitare “perché le sono imposti dalla sua stessa natura, ma ai quali tuttavia non è in grado di dare soluzione, perché oltrepassano ogni suo potere” (KrV A VII; IV 7 [5])1. Proprio per far fronte a queste 1 Questa concezione della metafisica come Naturanlage o metaphysica naturalis compare anche in KrV B 21; III 41 [46] e viene ripresa in Prol. A 188; IV 365 [177]. Essa costituisce il presupposto del possibile passaggio alla “metafisica come scienza”: KrV B 22; III 41 [46]; ma anche il presupposto della inevitabilità dell’interrogare metafisico e del suo continuo riproporsi: KrV B 870; III 545 [515]; B 878; III 549 [519]. Se volessimo ricostruire schematicamente i diversi significati del concetto kantiano di metafisica dovremmo tener presente che per Kant essa è inizialmente o “disposizione naturale” o “scienza”; in secondo luogo la “metafisica come scienza” può essere scienza di oggetti o realtà in sé trascendenti l’esperienza (ed equivale alla “metafisica dogmatica”), oppure è scienza dei principi a priori della

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difficoltà – per venire in chiaro di questo “stringente bisogno [dringender Bedürfnis] [...], che è qualcosa di più che un semplice desiderio di sapere” (Prol. A 193; IV 367 [180]) – l’uomo si occupa di metafisica e la coltiva da sempre come autonoma disciplina filosofica. Tuttavia, nel corso del suo sviluppo storico, questa disciplina si è allontanata sempre più da quel bisogno originario che la anima e nella tradizione delle scuole si è fossilizzata in un sapere dogmatico “molto difettoso [...] e fonte di tante illusioni” (Log. A 39; IX 33 [26]). Reagendo a questo esito e alla generale “indifferenza” che accompagna le ricerche metafisiche2, Kant ritiene che questa disciplina possa assurgere allo statuto di “scienza” se adotta il metodo del filosofare critico, che consiste nell’indagare [untersuchen] il procedimento della ragione stessa, nello scomporre [zergliedern] l’intera facoltà conoscitiva dell’uomo e nel saggiare [prüfen] fin dove possano arrivare i suoi limiti [die Grenzen] (Log. A 39; IX 33 [26]).

Nell’“epoca della critica” anche alla metafisica si apre quindi la possibilità di progredire e di raggiungere lo stadio di un sapere criragione che a sua volta si suddivide in “metafisica della natura” e “metafisica dei costumi”. Per un approfondimento dei diversi significati e delle diverse funzioni del concetto di metafisica in Kant rimandiamo ai seguenti studi: G. Santinello, Metafisica e critica in Kant, Patron, Bologna 1965 (spec. pp. 93-179; 249-289); F. Marty, La naissance de la métaphysique chez Kant. Une étude sur la notion d’analogie, Beauchesne, Paris 1980 (spec. pp. 157-225); B. Centi, I diversi significati del concetto di metafisica nella “Critica della ragion pura”: il problema delle loro relazioni, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, s. III, vol. 10 (1980), t. 2, pp. 431-450; R. Malter, Der Ursprung der Metaphysik in der Kritik der reinen Vernunft. Systematische Überlegungen zu Kants Ideenlehre, in J. Kopper, W. Marx (Hrsgg.), 200 Jahre Kritik der reinen Vernunft, Olms, Hildesheim 1981, pp. 169-210; E. Förster, Kants Metaphysikbegriff: vorkritisch, kritisch, nachkritisch, in D. Henrich, R.P. Horstmann (Hrsgg.), Metaphysik nach Kant, Klett-Cotta, Stuttgart 1988, pp. 123-143; H. Holzhey, Il bisogno metafisico in Kant, in “Annuario Filosofico”, 8 (1992), pp. 5163; A. Moscato, Kant. L’esperienza della ragione, in Id., Metafisica e intelligibilità. Studi di filosofia teoretica, a cura di F. Camera, Brigati, Genova 2000, pp. 59-80. 2 Sullo stato in cui secondo Kant versavano nei suo tempo le ricerche metafisiche – il cui procedere “ha avuto finora i caratteri di un brancolamento inconcludente [ein bloßes Herumtappen]” (KrV B XV; III 11 [17]) – e sul disinteresse che le accompagnava, rimandiamo ai seguenti passi: KrV A X; IV 8 [6]; B XIV s.; III 10 [17]; Prol. A 10; IV 259 [39]; Log. A 39; IX 33 [26 s.]; Fort. A 66 ss.; XX 281 ss. [SC 175].

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tico non illusorio se si trasforma in una vera e propria “scienza dei principi a priori della ragione”, in grado di fornire la base teorica per uno sviluppo di questa disciplina nella direzione di una “metafisica della natura” e di una “metafisica dei costumi” 3. Nelle intenzioni di Kant questa “scienza del tutto nuova, di cui niuno prima d’ora avea pur formulato il pensiero” (Prol. A 7; IV 257 [37]) e che si avvale del metodo del filosofare critico, dovrebbe in primo luogo compiere un “inventario, sistematicamente ordinato, di tutto ciò che possediamo [das Inventarium aller unserer Besitze] per mezzo della ragion pura”, al fine di individuare “tutto ciò che la ragione trae interamente da se stessa [aus sich selbst hervorbringt]” (KrV A XX; 13 [11]). Tra gli elementi che essa classifica dovrebbero dunque rientrare “soltanto principi che non siano empirici, poiché proprio a ragione di ciò [questa disciplina] porta il nome di metafisica” (MA A VIII s.; IV 470 [10])4. Così “l’essenza 3 “La metafisica si divide in metafisica dell’uso speculativo o metafisica della natura o metafisica dei costumi; la prima comprende tutti i principi razionali puri, derivanti da semplici concetti (perciò con esclusione della matematica), relativi alla conoscenza teoretica di tutte le cose; la seconda comprende i principi che determinano a priori e rendono necessario così il fare e il non fare” (KrV B 869; III 544 [514]). Ma subito dopo leggiamo: “La metafisica della ragione speculativa è ciò a cui si dà, in senso stretto, il nome di metafisica”. La citata suddivisione della metafisica si inserisce nel progetto complessivo di fornire “i principi della filosofia della natura e i principi della filosofia pratica”, già annunciato nella lettera a Lambert del 31 dicembre 1765 (X 57 [Ep. 44]), ed accompagna la concezione kantiana della metafisica lungo tutti gli anni Settanta, come dimostrano gli accenni presenti nelle lettere a Herz del 21 febbraio 1772 (X 130 [Ep. 65 s.]) e della fine del 1773 (X 145 [Ep. 77 s.]). 4 Nel testo della Metaphysik Volckmann, XXVIII/1 381 s., leggiamo la seguente definizione di metafisica: “Per ciò che riguarda il nome di metafisica non è da credere che esso sia sorto incidentalmente, dal momento che esso si adatta con tanta precisione alla scienza stessa poiché infatti f⁄sij significa natura e tuttavia noi non possiamo ottenere i concetti della natura in nessun altro modo che mediante l’esperienza, quella scienza che segue ad essa si chiama metafisica (da met¶, trans e physica). È una scienza che si trova, per così dire, fuori del campo della fisica, al di là di essa”. La stessa definizione si trova in Methapysik L1, XXVIII/1 174, mentre una definizione analoga viene riportata anche tra i fogli preparatori dei Fortschritte, dove leggiamo: “L’antico nome di questa scienza met¶ t¶ fusik£ offre un’indicazione sul genere di conoscenza verso cui essa mirava in intenzione. Si vuole per suo mezzo andare oltre tutti gli oggetti dell’esperienza possibile (trans physicam), per conoscere,

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caratteristica della metafisica” consiste nell’“occuparsi che la ragione fa soltanto di se stessa [die Beschäftigung der Vernunft bloß mit sich selbst]” (Prol. A 125; IV 328 [128])5, una occupazione che porta inevitabilmente la ragione stessa a porsi il problema dell’unità organica dell’insieme del materiale inventariato, al fine di scoprire “il principio generale che la governa” (KrV A XX; IV 13 [11]). Tutto il materiale infatti dovrebbe risultare “sistematicamente ordinato [systematisch geordnet]” e disposto secondo un criterio unitario, in modo tale che i diversi elementi non empirici e i molteplici usi delle facoltà razionali non risultino tra loro in contraddizione o in conflitto, ma formino un modello di “ragion pura” come “unità perfetta [vollkommene Einheit], in se stessa completa e coerente” (KrV A XIII; IV 10 [7]). Questa concezione della metafisica – intesa come “scienza dei principi a priori della ragione”, che Kant denomina anche “metafifin dove è possibile, ciò che non può essere assolutamente oggetto d’esperienza; e la definizione di metafisica, secondo l’intenzione che contiene il motivo della ricerca di una tale scienza, sarebbe la seguente: essa è una scienza per progredire dalla conoscenza del sensibile a quella del soprasensibile” (Fort. A 158 s.; XX 316 [SC 208]). Già all’inizio dei Fortschritte Kant aveva definito la metafisica dal punto di vista tematico in questo modo: “essa è la scienza per procedere dalla conoscenza sensibile a quella del soprasensibile, mediante la ragione” (Fort. A 9 s.; XX 84 [SC 154]). 5 In un altro passo Kant afferma analogamente che in metafisica “mi attengo semplicemente alla ragione stessa e al suo pensiero puro, per la compiuta conoscenza dei quali non devo cercar lontano intorno a me, poiché li trovo in me stesso” (KrV A XIV; IV 10 [8]). Si veda anche KrV B XIV; III 11 [16], in cui si afferma che la metafisica è “conoscenza speculativa razionale affatto isolata, che si eleva assolutamente al di sopra degli insegnamenti dell’esperienza e mediante semplici concetti”; in essa quindi “la ragione deve essere scolara di se stessa”. Ancora più diffusamente in un altro passo leggiamo: “Tutta la vera metafisica è tratta dall’essenza della facoltà stessa di pensare e non è affatto inventata per il fatto di non essere desunta dall’esperienza; ma contiene le operazioni pure del pensare, e contiene di conseguenza concetti e principi a priori” (MA A XIII; IV 473 [14]). Tenendo presente quest’ultimo passo si comprendono meglio gli accenni heideggeriani che tendono ad interpretare complessivamente la metafisica kantiana come una “metafisica del pensiero” o “una scienza di pura ragione”: cfr. M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, Gesamtausgabe, Bd. 3, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1991, pp. 5-18 [Kant e il problema della metafisica, tr. it., di M.E. Reina, riv. da V. Verra, Laterza, Bari 1981, pp. 15-25].

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sica della metafisica” 6 – viene elaborata negli anni Settanta in contrapposizione alla metafisica tradizionale della Schulphilosophie che, pretendendo di essere scienza di oggetti trascendenti e conoscenza di realtà in sé, ha finito per ridurre quella che un tempo era “la regina di tutte le scienze” (KrV A VIII; IV 8 [5]) ad “un campo di lotta” (KrV B XV; III 11 [16]), ad una “iperfisica” formata da un aggregato di discipline prive di una loro unità metodologica che producono un sapere apparente. Come risulta già da alcuni scritti che precedono la pubblicazione della prima Critica, il metodo della nuova metafisica intesa come “critica della ragione” sembra essere di tipo esclusivamente analitico7. Si tratta infatti di compilare un inventario, di scomporre e di sciogliere il complesso materiale razionale in elementi più semplici e di ricondurlo ai primi principi, su cui si basano le strutture logiche di collegamento e i procedimenti formali che costituiscono nel loro insieme la stessa ragione; si tratta di operare una analisi che distingua molteplici funzioni (o “facoltà [Vermögen]”), che classifichi a diversi livelli specifiche forme a priori, concetti puri e principi supremi. La nuova metafisica come “critica della ragione” è quindi una sorta di autoanalisi che la ragione compie su se stessa, volta a scoprire in modo autoriflesso la propria identità e ad evidenziare l’estensione ed i limiti dei propri poteri. Ora questo tipo di procedimento analitico, basato sulla classifi6 Nella lettera a Herz dell’11 maggio 1781 Kant definisce infatti il suo “sistema” un “tipo di indagine” che “rimarrà sempre difficile, giacché esso contiene la metafisica della metafisica” (X 269 [Ep. 105]). 7 Cfr. KrV B 23; III 42 [46 s.]. Del resto già nella Untersuchung über die Deutlichkeit (del 1764), nel tentativo di distinguere la conoscenza matematica da quella filosofica, Kant affermava che quest’ultima deve procedere con metodo analitico, consistente nella scomposizione dei concetti per suddivisione (Unt. A 71; II 277 [SP 219]). Sempre in questo scritto troviamo una interessante definizione di metafisica: essa “non è altro che una filosofia sui principi primi della nostra conoscenza” (Unt. A 79; II 283 [SP 227]), vale a dire “una filosofia applicata alle concezioni generali della ragione” (Unt. A 89; II 293 [SP 237]). Sull’argomento si rimanda al saggio di A. Moscato, La dottrina del metodo nella “Ricerca sull’evidenza dei principi della teologia naturale e della morale” di Kant, in Id., Metafisica e intelligibilità, cit., pp. 99-118.

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cazione e sulla scomposizione del materiale razionale puro, individua all’interno della stessa ragione la presenza di alcuni “problemi [Aufgaben]” o “interrogativi [Fragen]” che costantemente si ripropongono e che risultano inevitabili per la sopravvivenza della stessa ragione, ma di fronte ai quali essa non trova una soluzione adeguata e finisce per cadere in conflitto con se stessa. Tuttavia, anche di fronte a questo dato di fatto, la “critica della ragione” non rinuncia al suo procedimento analitico. Anche in questo caso Kant conferma infatti che la “metafisica” è quella disciplina che in primo luogo “non ha a che fare con oggetti della ragione, il cui numero è senza confini, ma [ha a che fare] solo con la ragione stessa, cioè con problemi [Aufgaben] che sorgono esclusivamente dal suo seno, e sono presentati non dalla natura delle cose […] ma dalla natura della ragione stessa” (KrV B 23; III 42 [46]). L’autoanalisi della ragione mette in evidenza in primo luogo la sua costitutiva natura problematica e interrogante, quella “radice […] che non si potrà mai svellere” (KrV B 24; III 43 [47]) e che si coglie in modo ineludibile quando la ragione si interroga su se stessa, sulla costituzione dell’ente nella sua totalità e origine, venendo a trovarsi in una situazione conflittuale che chiede di essere risolta. Infatti gli interrogativi e i problemi, che nascono all’interno della ragione, devono essere tutti “risolvibili [beantwortlich]” poiché essi “non ci sono posti dalla natura delle cose, ma soltanto dalla natura della ragione, e si riferiscono unicamente alla sua interna costituzione” (KrV B 723; III 475 [435])8. Attraverso questo preliminare lavoro di autoanalisi della ragione e attraverso l’evidenziazione della sua intrinseca conflittualità Kant 8 La constatazione che la ragione si trovi inevitabilmente ad affrontare al suo interno una situazione di conflittualità è all’origine della stessa indagine sulla struttura della ragione ed ha costituito storicamente il punto di partenza del progetto di una “critica della ragione”. Come infatti dichiara lo stesso Kant nella lettera a Herz dell’11 maggio del 1781 (X 270 [Ep. 105]), e poi in quella a Garve del 21 settembre del 1798 (XII 258 [Ep. 369]), il nucleo tematico originario della Critica fu costituito dalla dottrina delle antinomie cosmologiche. Questa chiave di lettura è stata ricostruita dallo studio di N. Hinske, La via kantiana alla filosofia trascendentale, tr. it. di R. Ciafardone, Japadre, L’Aquila 1987, pp. 71 ss.

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arriva a circoscrivere alcuni problemi specifici e ricorrenti nella riflessione della ragione con se stessa e questa via lo porta inevitabilmente a conferire al concetto di metafisica un significato tematicamente delimitato. Riprendendo le suddivisioni scolastiche proprie della filosofia razionalista tedesca, egli può infatti affermare che “questi inevitabili problemi [diese unvermeidlichen Aufgaben] della ragione sono Dio, la libertà e l’immortalità”. La metafisica, in un senso più preciso e ristretto, è allora proprio “quella scienza il cui scopo finale [Endabsicht] e la cui intera organizzazione si rivolgono alla soluzione di questi problemi” (KrV B 7; III 31 [37]). L’esercizio analitico della “critica della ragione” rileva nell’ambito della stessa ragione la presenza di questi nuclei problematici (Dio, l’anima e il mondo) sotto forma di interrogativi ricorrenti e inevitabili e conferisce così una spiegazione più precisa dell’origine naturale della ricerca metafisica, riconducendo la cosiddetta metaphysica specialis all’interrogare radicale della ragione9. La metafisica, intesa come riflessione intorno a questi tre particolari nuclei problematici e come spiegazione (o giustificazione) della natura interrogante della ragione, si collega all’esercizio analitico della “critica della ragione” e rientra perfettamente nel suo vasto orizzonte tematico. Essa però diventa quella disciplina che, nel tentativo di rispondere ad alcune “domande naturali” e ad alcuni “inevitabili problemi” che assillano la ragione umana, è chiamata a risolvere questa situazione di conflitto e a prendere una decisione circa gli oggetti specifici intorno a cui verte questo incessante interrogare. E prendere una decisione a questo proposito significa per Kant “giungere [...] ad una certezza [zur Gewißheit zu bringen] o quanto al conoscere e al non conoscere gli oggetti [...] o quanto a un giudizio sulle capacità o incapacità della ragione nei loro riguardi” (KrV B 22; III 41 [46]). 9

Mentre per la Schulphilosophie la “metafisica speciale” si distingueva da quella “generale” per l’esistenza di oggetti specifici (quali Dio, l’anima e il mondo) che hanno proprietà particolari rispetto a quelle dell’ente in genere, per Kant invece la fonte delle diverse discipline che compongono la metafisica va ricercata nell’originaria natura interrogante della ragione umana finita. Non l’oggetto, ma il domandare

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Sulla scorta di questa restrizione del concetto di metafisica – dovuto all’esercizio della “critica della ragione”, vale a dire all’individuazione di alcuni nuclei problematici specifici e conflittuali che si trovano anch’essi all’interno della ragione stessa e che generano domande – Kant può precisare che il momento analitico, “ossia la mera scomposizione [Zergliederung] dei concetti giacenti a priori nella nostra ragione, non è per nulla ancora lo scopo, bensì solo un preparativo [eine Veranstaltung], per l’autentica metafisica” (KrV B 23; III 42 [47]). Infatti la scomposizione non basta, perché si limita a mostrare quanto è già contenuto nei concetti e non il modo in cui noi giungiamo a priori in possesso di tali concetti e come sia, di conseguenza, possibile determinare anche la validità del loro uso rispetto agli oggetti di ogni conoscenza in generale (KrV B 24; III 43 [47]).

In modo ancora più chiaro in un paragrafo della “Introduzione”, aggiunto nella seconda edizione, l’esercizio analitico, che scompone la ragione intesa come “facoltà dei principi”, viene considerato proprio di una “scienza speciale che può prendere il nome di Critica della ragion pura” (KrV B 24; III 43 [47]). Quest’ultima è la scienza “della semplice valutazione [Beurteilung] della ragion pura, delle sue sorgenti e dei suoi limiti” ed è intesa da Kant non ancora come “organo” o come “sistema”, bensì solo come “propedeutica al sistema [Propädeutik zum System] della ragion pura”. Essa avrebbe una utilità “solo negativa, poiché servirebbe, anziché all’allargamento, alla semplice purificazione della nostra ragione liberandel soggetto quale “disposizione naturale” dell’uomo legittima l’esistenza della disciplina. Per la giustificazione della distinzione scolastica tra metafisica generale (o ontologia) e le discipline della metafisica speciale si veda Chr. Wolff, Logica. Discursus praeliminaris de philosophia in genere, in Gesammelte Werke, II. Abt., Bd. 1.1, Olms, Hildesheim 1983, §§ 55-59; 96-99. Cfr. anche A.G. Baumgarten, Metaphysica, (Editio VII) Halle 1779, rist. anast., Olms, Hildesheim 1982, §§ 1-2; Chr.A. Crusius, Entwurf der notwendigen Vernunft-Wahrheiten, in Die philosophischen Hauptwerke, hrsg. von G. Tonelli, Olms, Hildesheim 1964, Bd. 2, §§ 4-5. Le differenze tra questi autori risultano irrilevanti nei confronti della posizione di Kant. Una suddivisione delle diverse discipline metafisiche secondo il “concetto scolastico” si trova in KrV B 873 ss.; III 546 ss. [516 ss.].

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dola dagli errori” (KrV B 25; III 43 [48]). La concezione della metafisica come “critica della ragione” viene così in un primo momento a coincidere con la “critica della ragion pura” e viene intesa sia come momento “catartico” e “purgativo” rispetto alla metafisica dogmatica, sia come momento “propedeutico” allo sviluppo della metafisica vera e propria10. Quest’ultima – la “metafisica come scienza” che “ancora non esiste affatto”, ma di cui è possibile ipotizzare in un futuro prossimo “una completa riforma [eine völlige Reform] o piuttosto una rinascita [eine neue Geburt] di essa secondo un piano finora del tutto sconosciuto” (Prol. A 7; IV 257 [37]) che le permetta di svilupparsi in forma sistematica – è invece quella disciplina che ha per oggetto alcuni “inevitabili problemi” che assillano alla radice la ragione umana; essa deve quindi necessariamente pronunciarsi con certezza intorno ai suoi oggetti, giustificandone la presenza all’interno della ragione e proponendo una soluzione della conflittualità da essi generata, oppure sancendo la loro ineliminabile e originaria problematicità.

2. Il problema dell’unità sistematica della ragione Questi due significati di metafisica – il primo più ampio e propedeutico, che la intende come “critica della ragione”, il secondo più specifico, che la intende come tematizzazione di interrogativi problematici apparentemente insolubili – ritornano costantemente all’interno della filosofia speculativa kantiana. Essi vanno intesi 10 Particolarmente illuminante è a questo proposito la Refl. 5027, XVIII 65: “La metafisica dogmatica è una magia iudiciaria, visionaria. Essa non è già l’organon, bensì il catarticon della ragione trascendentale. Tenia cerebrale. Palliativo. Recidivo. Terapia radicale mediante purgativo”. Questa annotazione (databile alla fine degli anni Settanta) lascia intravedere che per Kant la critica alla vecchia metafisica dogmatica non è fine a se stessa, ma è il momento preliminare della costruzione della nuova “metafisica critica” in forma organica e sistematica. In questo senso già il 31 dicembre del 1775 Kant scriveva a Lambert: “Affinché la vera filosofia risorga, è necessario che la vecchia distrugga se stessa” (X 57).

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come due momenti tra di loro subordinati. Il lavoro analitico della scomposizione richiede infatti di essere proseguito come approfondimento tematico ed epigenetico dei tre nuclei problematici delimitati all’interno della ragione, i quali costituiscono “l’autentico scopo dell’indagine metafisica” proprio perché più in generale coincidono con “i fini supremi della natura umana” (KrV B 396; III 246 [529]). Questo nesso tra i due momenti della ricerca metafisica risulta più chiaro se si considera che il tipo di procedimento analitico, che sostiene la “critica della ragione” e che è basato sulla scomposizione, è chiamato a prendere in esame tutto ciò che la ragione di per se stessa possiede e usa nelle sue sintesi o costruzioni concettuali che producono conoscenza. Ora tra questi elementi (o “possessi [Besitze]”) non vi sono soltanto i concetti puri che regolano la conoscenza del fenomeno e che rendono possibile la sintesi a priori e la costruzione della conoscenza oggettiva, ma vi sono anche i principi regolativi supremi che concernono l’unità sistematica dell’intera ragione e che Kant, con una terminologia tipicamente platonica, chiama “idee” 11. Queste ultime non hanno solamente la funzione di smascherare la naturale tendenza dialettica insita in ogni speculazione metafisica che tematizza oggetti problematici considerandoli equivocamente come realtà esistenti; attraverso questa opera purificatrice o “catartica”, le idee si mostrano anzi come entità razionali in se stesse non 11 Nel “Libro I” della “Dialettica” l’“idea” o “concetto della ragione [Vernunftbegriff]” viene definito come “un concetto riposante su nozioni che trascende la possibilità dell’esperienza” (KrV B 377; III 250 [250]), in un contesto in cui è esplicito il richiamo alla concezione platonica delle idee (l’idea della “Repubblica platonica”): cfr. KrV B 370 ss.; III 246 ss. [246 ss.]. “L’idea è un concetto razionale, il cui oggetto non può affatto venire incontro nell’esperienza” (Log. A 140; IX 91 [84]). Cfr. anche Metaphysik L1, XXVIII/1 329; Metaphysik L2, XXVIII/2-2 577; Refl. 2835, XVI 536-538; 4862, XVII 113; 6255, XVIII 532. L’elemento tipicamente platonico, che entra a far parte della nozione kantiana di idea, è – oltre alla sua collocazione metaempirica e sovrasensibile – il carattere di “maximum quale archetipo”. Per Kant le idee sono quindi rappresentazioni esemplari (Urbilde) della massima perfezione possibile. Per un approfondimento dei nessi che la concezione kantiana delle idee intrattiene con Platone rimandiamo alle analisi sviluppate nel Capitolo II di questo libro: cfr. infra, pp. 59-84.

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dialettiche12; esse diventano quindi il punto di partenza per lo “svolgimento di una metafisica ben fondata” (KrV B XXXVI; III 22 [26]), secondo un disegno che ha di mira una sua “rigenerazione [Wiedergeburt] per mezzo di una fondamentale e completa critica della ragione” (Prol. A 191; IV 367 [179]). Questa importanza della dottrina delle idee per la costruzione di una nuova “metafisica critica” di carattere propositivo porta a considerare in modo diverso l’intera “Dialettica trascendentale”. Infatti, ora questa voluminosa parte della Critica, spesso trascurata dagli interpreti, non può essere più considerata come mera pars destruens in funzione dell’“Analitica”, ma diventa il terreno privilegiato in cui si possono verificare le vere intenzioni speculative e costruttive di Kant. Questo rinnovato interesse per la “Dialettica” – che si è progressivamente consolidato negli ultimi due decenni nella Kantforschung più aggiornata13 – conferma come nelle intenzioni di 12

Kant precisa esplicitamente che l’idea in se stessa è una nozione non contraddittoria; essa quindi non può mai essere in se stessa dialettica, ma lo diviene attraverso un uso scorretto delle sue funzioni: “Le idee della ragion pura non possono in nessun caso essere dialettiche in se stesse; soltanto il loro cattivo uso può far sì che da esse prenda origine una parvenza ingannatrice. Tali idee infatti ci sono date dalla natura stessa della nostra ragione ed è impossibile che questo sommo tribunale di ogni diritto e di ogni pretesa della nostra speculazione contenga inganni originari e illusioni fuorvianti” (KrV B 697; III 442 [421]). 13 Come è noto l’interpretazione dei neokantiani di Marburgo considerava la prima Critica una “teoria dell’esperienza” in funzione della fondazione delle scienze e di conseguenza privilegiava quasi esclusivamente l’“Analitica”: cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, Berlin 18852 [La teoria kantiana dell’esperienza, tr. it. di L. Bertolini, Angeli, Milano 1990]. Come ha ricordato H.J. De Vleeschauwer, L’evoluzione del pensiero di Kant, tr. it., A. Fadini, Laterza, Bari 1976, p. 236, in epoca più recente si tende invece “a leggere la Critica della ragion pura con l’idea che per Kant la dialettica fosse il fine e l’analitica lo strumento dell’impresa critica”. Va ricordato che già il voluminoso lavoro di M. Wundt, Kant als Metaphysiker, Enke, Stuttgart 1924, aveva segnato una prima inversione di tendenza, dedicando ampio spazio proprio alla dottrina delle idee, considerate come la vera struttura portante della metafisica critica (ivi, pp. 243 ss.). Tra gli studi più recenti ricordiamo l’ampio commento di H. Heimsoeth, Transzendentale Dialektik. Ein Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, de Gruyter, Berlin 1967-1971, 4 voll. Sulla nozione kantiana di “dialettica” in riferimento alla tradizione è ancora utile l’articolo di G. Tonelli, Der historische Ursprung der kantischen Termini “Analytik” und “Dialek-

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Kant le problematiche metafisiche trovino nella ragione teoretica non solo il terreno naturale di origine e di espressione logicoconcettuale, ma anche il luogo in cui avviene una loro autonoma trattazione più o meno esplicita e l’abbozzo di una possibile soluzione14. Ora tra questi problemi metafisici, che sono di particolare rilevanza dal punto di vista della elaborazione di una nuova “metafisica critica” e su cui Kant ritorna con insistenza, vi è certamente quello dell’unità sistematica della ragione e della individuazione del suo “fine ultimo”. Si tratta dell’interrogativo lasciato aperto dal lavoro analitico di scomposizione, che viene affrontato per la prima volta in modo esplicito nel “Libro I” della “Dialettica”, proprio all’interno della formulazione della dottrina delle idee. A differenza dei concetti puri dell’intelletto le idee sono infatti concetti necessari della ragione “a cui non può essere dato alcun oggetto congruente nei sensi” (KrV B 383; III 254 [254]). Tuttavia esse “non sono il prodotto di escogitazioni arbitrarie, ma traggono origine dalla natura della stessa ragione” (KrV B 384; III 254 [254]), in quanto tendono verso una particolare unità: indicano un maximum di totalità come archetipo di completezza e di perfezione15. Inoltre le idee tik”, in “Archiv für Begriffsgeschichte”, 7 ( 1962), pp. 120-139. Per un approfondimento critico rimandiamo ai lavori di H. Rötges, Dialektik als Grund der Vernunft, Hain, Königstein-Ts. 1981, e di F. Chiereghin, La triplice articolazione della dialettica in Kant, in AA.VV., Ethos e cultura. Studi in onore di Ezio Riondato, Antenore, Padova 1991, vol. I, pp. 335-351. 14 La tesi, secondo cui le problematiche metafisiche troverebbero nella ragione teoretica non solo il terreno naturale di istituzione ma anche il luogo di possibile soddisfazione, è stata sostenuta acutamente da C. Arata, A proposito della critica kantiana della metafisica speculativa, in “Giornale di Metafisica”, 6 (1958), pp. 716-735; Id., Discorso sull’essere e ragione rivelante, Marzorati, Milano 1967, pp. 115-175. 15 Nel contesto della “Dialettica” il concetto di “totalità” non va inteso nel senso della categoria di Totalität come “compiutezza qualitativa di un concetto [qualitative Vollständigkeit eines Begriffs]” (KrV B 111-114; III 96-98 [99-101]). Qui il termine è inteso nel senso di “absolute, unbedingte Totalität”, di “totalità delle condizioni”, per indicare la quale Kant usa preferibilmente il termine Allheit, che traduce il latino universitas. Nella “Sezione II” del Capitolo teologico poi la “totalità” come Allheit verrà tenuta distinta anche dalla “totalità” semplicemente logica, nel senso della “universalità” (Allgemeinheit o universitas).

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della ragione sono determinazioni essenzialmente “meta-fisiche” e “meta-empiriche”, in quanto “varcano i confini di ogni esperienza e considerano ogni conoscenza d’esperienza “come determinata da una totalità assoluta di condizioni” (KrV B 384; III 254 [254]). Le idee della ragione, in quanto archetipi di completezza e in quanto alludono all’incondizionato come rappresentazione ideale della totalità delle condizioni, sono in relazione col problema dell’unità sistematica di tutte le conoscenze e di tutti gli elementi razionali puri che costituiscono la ragione. Del resto, che questa dottrina delle idee sia collegata ad una determinata concezione dell’unità della ragione e ad una precisa concezione della filosofia, atta a ricondurre il molteplice all’unità, risulta più chiaro se si tiene presente quanto Kant dichiara a proposito della sua concezione della metafisica in quella parte della “Dottrina del metodo” che si intitola “Architettonica della ragion pura”, in cui troviamo una definizione complessiva del concetto di metafisica che mette l’accento sul carattere organico e sistematico di questa disciplina. La metafisica è ora identificata con “l’intera conoscenza filosofica (vera o apparente) nella connessione sistematica [im systematischen Zusammenhange] che riceve dalla sua provenienza razionale pura” (KrV B 869; III 544 [514]). Il suo obiettivo dichiarato è dunque la trattazione della “connessione sistematica” della ragione, vale a dire l’elaborazione di una risposta alle esigenze “architettoniche” della ragione attraverso la ricerca della sistematicità di tutti i principi razionali puri e della loro unità organica. Tuttavia quest’ultima concezione della metafisica, che si pone esplicitamente il problema dell’unità sistematica della ragione, non è in realtà che una riformulazione dell’originaria concezione della metafisica come “critica della ragione”. Anzi essa è una concezione talmente ampia da inglobare al suo interno anche la precedente “propedeutica” e la cosiddetta metaphysica specialis, vale a dire la riflessione sui tre nuclei problematici interni alla ragione stessa che generano conflittualità antinomica16. L’autoanalisi della ragione, attuata come inventario e 16 “La filosofia della ragion pura o è propedeutica (esercizio preliminare) – che indaga la facoltà della ragione in ordine a qualsiasi conoscenza pura a priori, e si

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scomposizione degli elementi razionali, è tanto più profonda, quanto più individua alla radice una naturale esigenza sistematica che richiede una riconduzione all’unità. Fin dalle prime pagine della Critica Kant ha infatti concepito la ragione come “un tutto articolato [ein gegliedertes Ganzes]” secondo l’“idea di unità sistematica”, che costituisce anche il “fine [Zweck]” progettuale cui tende in modo costruttivo la stessa ragione. Per spiegare concretamente questa finalità sistematica Kant ricorre spesso all’immagine olistica del “corpo animale”, in cui “il tutto” è organicamente articolato e in cui l’“accrescimento non importa alcuna aggiunta di membra, limitandosi a rendere ogni membro più forte e più idoneo ai propri fini, senza mutamento delle proporzioni” (KrV B 860 s.; III 539 [509 s.]). Questo riferimento all’immagine del “corpo animale” – con cui si intende spiegare che la ragione non è una somma di parti che danno luogo ad un “aggregato” ma è una totalità in cui il tutto viene prima della somma delle parti17 – intende ribadire che anche nella ragione, “come nella costruzione di un corpo organico, il fine di ciascun membro può essere tratto soltanto dal concetto completo del tutto [aus dem vollständigen Begriff des Ganzen]” (Prol. A 19 s.; IV 263 [45]). Nelle pagine dell’“Architettonica” dunque la metafisica – identichiama critica – o è il sistema della ragion pura (scienza), cioè l’intera conoscenza filosofica (vera o apparente) nella connessione sistematica che riceve dalla sua provenienza razionale pura, e prende il nome di metafisica. Questo nome, però, può esser dato all’intera filosofia pura, ivi compresa la critica, per raccogliere in un tutto la ricerca di quanto è conoscibile a priori e l’esposizione di ciò che costituisce il sistema delle conoscenze filosofiche pure di questa specie, distinto da ogni uso empirico della ragione come da ogni uso matematico” (KrV B 869; III 544 [514]). 17 Il riferimento all’immagine del “corpo organico” compare anche in KrV B XXXVII; III 22 [27], in cui si legge che la ragione speculativa “risulta fornita di una vera e propria articolazione unitaria [ein wahrer Gliedbau], in cui tutto è organo [worin alles Organ ist], cioè rimanda a ciascun membro, come ciascun membro al tutto”. Cfr. anche KrV B XXXIII; III 15 [20]. Questa concezione della “totalità” organica che precede l’insieme delle parti si richiama alla definitio totius et partium che troviamo in Chr. Wolff, Ontologia, cit., § 341, in cui è presente proprio l’esempio del corpo umano che è idem et simul con le sue membra. Inoltre il termine das Ganze, con cui spesso Kant traduce totum, deriva da A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., § 155.

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ficata con la filosofia in generale – è intesa come “una conoscenza razionale basata su semplici concetti” che “prende in esame la ragione nei suoi elementi e nelle sue massime supreme, che debbono a loro volta essere a fondamento della possibilità stessa di alcune scienze e dell’uso di tutte” (KrV B 879; III 549 [519]). All’interno di questa concezione della metafisica, intesa non come conoscenza di realtà (cognitio ex datis) ma come cognitio ex principiis (KrV B 864; III 540 [511]), Kant cerca poi di individuare una “metafisica dell’uso speculativo della ragione” che fornisca una conoscenza dell’unità sistematica dell’intera ragione e dei suoi diversi principi. Scrive Kant a questo proposito: Ogni conoscenza pura a priori, a causa della particolare facoltà conoscitiva in cui soltanto può trovare la propria sede, dà dunque luogo ad una particolare unità [eine besondere Einheit]; e la metafisica è quella filosofia a cui spetta di esporre questa conoscenza in tale unità sistematica [in dieser systematischen Einheit] (KrV B 873; III 546 [516]).

In verità questa esigenza di unità sistematica, propria della “metafisica dell’uso speculativo della ragione”, era già stata presa in considerazione anche nell’ambito della “Dottrina degli elementi”, ed in particolare nella “Appendice” alla “Dialettica”, in un contesto che non a caso tratta proprio delle idee della ragione. Infatti in quelle pagine Kant espone una serie di considerazioni che riguardano l’uso delle idee trascendentali e che si rivelano utilissime per definire la soluzione del problema dell’unità sistematica della ragione nel contesto della “metafisica critica”. Rispetto alla metafisica dogmatica, che avanza la pretesa di procedere per dimostrazioni deduttive e con giudizi assertori o apodittici che riguardano oggetti o realtà esistenti, la “metafisica critica” si presenta come un discorso “problematico”, che si esprime con proposizioni ipotetiche che hanno validità esclusivamente soggettiva e che nella loro discorsività acroamatica contemplano il ricorso all’analogia. L’evidenziazione dell’“uso ipotetico della ragione”, inteso non come costitutivo ma come soltanto regolativo, equivale al campo di applicazione della stessa “metafisica dell’uso speculativo della ragione”: è attraverso questo uso

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che è ora possibile per la ragione cogliere “speculativamente” (vale a dire con uno sguardo d’insieme che la porta a specchiarsi di fronte a se stessa) la sua unità sistematica come unità dei fini quale “presupposto trascendentale” da lei stessa progettato. Questa unità non è il risultato di una conoscenza di “cose” o di “oggetti”, ma è una “ipotesi”, un “punto di vista”, una supposizione semplicemente relativa e soggettiva con cui la ragione diventa autotrasparente a se stessa e coglie la propria identità: “la nostra ragione (soggettivamente) è infatti per se stessa un sistema […] un sistema di ricerca in base a principi di unità” (KrV B 766; III 484 [459]) inscritti nella sua natura. L’idea di unità, la suprema unità sistematica e finale, è “inscindibilmente legata all’essenza della nostra ragione” (KrV B 722; III 456 [435]); anzi “l’unità della ragione è l’unità del sistema” (KrV B 708; III 449 [427]). Così la metafisica, intesa come “critica della ragione”, come scienza di pura ragione, compilando l’inventario di tutti i principi che hanno sede nella ragione stessa, si pone il problema specificamente teoretico-speculativo della connessione sistematica di tutti gli elementi razionali puri. Per questa via la riflessione metafisica, animata da una esigenza sistematica, è portata a riconoscere che la ragione è il “luogo [Sitz]” onnicomprensivo “della suprema unità del pensiero” (KrV B 355; III 238 [238]), è il terreno originario della non contraddittorietà del pensiero puro, il terreno di composizione dei conflitti che possono sorgere al suo interno. Nella ragione infatti hanno sede le “idee trascendentali” che rappresentano per essa i “fini principali [Hauptzwecke der Vernunft]”, vale a dire sono principi di unità o strutture che rendono possibile il formarsi dell’unità sistematica come “unità dei fini”. A questo proposito, tra queste idee l’attenzione di Kant si concentra in modo particolare sulla terza idea: l’idea di totalità, di completezza incondizionata e assoluta, che – pensata come conceptus terminator (o Grenzbegriff) – è la sola ad essere capace di offrire ad ogni contenuto rappresentativo e ad ogni elemento razionale regolativo un orizzonte di senso ultimo, completo e coerente, non più ulteriormente rinviabile ad altro. Nella determinazione dell’unità sistematica della ragione un ruo-

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Metafisica della ragione e idea teologica

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lo importantissimo viene dunque assegnato da Kant alla dottrina delle idee; in questo contesto assume una importanza particolare “l’idea teologica”, l’idea finale di unità e di totalità. Così la risposta all’interrogativo principale, posto dalla metafisica come scienza di pura ragione circa l’unità sistematica degli elementi razionali puri e circa lo “scopo finale” della stessa ragione, approda ad un recupero dell’idea teologica; essa viene a svolgere la funzione regolativa, logica e ontologica di suprema idea sistematica della totalità incondizionata di tutte le condizioni. Questo inevitabile ricorso all’idea di Dio come supremo “Ideale trascendentale” della ragione umana finita permette alla metafisica kantiana di trovare il principio supremo dell’unità della ragione e di accogliere all’interno del suo campo tematico una disciplina come la teologia, intesa non più come theologia rationalis giustificata dalla particolarità dell’oggetto, ma come theologia transcendentalis. Quest’ultima rientra tra le discipline metafisiche in quanto ha il compito di erigere “l’ideale della suprema perfezione ontologica [das Ideal des höchsten ontologischen Vollkommenheit] a principio di unità sistematica, che connette tutte le cose secondo leggi naturali che sono universali e necessarie, perché hanno la loro origine nella necessità assoluta di un unico essere originario” (KrV B 844; III 529 [501]). In questo modo l’idea di Dio, anche se non viene utilizzata in senso fondativo ma solo come ipotesi necessaria a parte subjecti, entra a far parte come elemento indispensabile della metafisica critica di tipo speculativo, secondo una modalità che rientra perfettamente nel contesto della bimillenaria tradizione della teologia filosofica, portando alla luce la sottile filigrana ontoteologica della metafisica kantiana. Riprendendo a questo punto i due significati di metafisica precedentemente distinti, possiamo dunque provvisoriamente concludere affermando che il problema dell’unità sistematica degli elementi razionali puri, che la “critica della ragione” col suo metodo di scomposizione analitica porta allo scoperto, trova soluzione sul piano speculativo chiamando in causa uno dei tre nuclei problematici (o “idee”) cui si indirizza la ricerca metafisica in senso stretto: l’idea di totalità, identificata con l’idea teologica, il cui contenuto

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rappresentativo è costituito dal concetto di Dio proprio della teologia filosofica. La metafisica kantiana – intesa genericamente come “critica della ragione” con un ruolo inizialmente “propedeutico” – nel momento in cui si trova di fronte al problema dell’unità sistematica della ragione si vede necessariamente costretta a proseguire la propria autoanalisi come riflessione ontoteologica sull’origine e sulla forma della terza idea della ragione, toccando così il momento terminale e conclusivo del suo approfondimento critico.

3. Aspetti e funzioni della terza idea della ragione Ci chiediamo ora come Kant, attraverso l’analisi delle strutture della ragione, sia arrivato a reperire e a legittimare l’idea teologica come idea razionale e perché proprio questa idea risulti decisiva per la soluzione del problema dell’unità sistematica della ragione, finendo per orientare la sua ricerca metafisica in senso propriamente ontoteologico. Per rispondere a questi interrogativi dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al cosiddetto Capitolo teologico del “Libro II” della “Dialettica trascendentale”, che tratta nell’insieme de “L’Ideale della ragion pura”. Al suo interno una importanza particolare riveste la “Sezione II” (KrV B 599-611; III 385-392 [368374]), interamente dedicata alla trattazione della terza idea della ragione come “Ideale trascendentale”. Si tratta di una sezione relativamente poco studiata e che – rispetto al contesto in cui si trova inserita, dedicato alla confutazione delle prove dell’esistenza di Dio18 – presenta una sua autonomia teorica e un suo specifico con18 Uno dei motivi di questa scarsa attenzione da parte degli studiosi per la “Sezione II” è certamente riconducibile alla eccessiva stringatezza dell’esposizione, spesso confusa e contorta. Questo fatto ha portato molti interpreti ad avallare il giudizio sostanzialmente negativo pronunciato già da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 653 s., che considerava l’intera “Sezione II” una ricaduta nelle posizioni precritiche. Tra gli autori che nel Novecento hanno sostenuto questa interpretazione va ricordato N. Kemp Smith, A Commentary to Kant’s “Critique of Pure Reason”, Macmillan, London 1923, p. 522 s. Recentemente questa tesi è stata ripresa da P.F.

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tenuto propositivo: espone l’idea di Dio quale idea a priori della ragione, indipendentemente dal suo uso all’interno dei diversi percorsi razionali che intendono dimostrarne l’esistenza. L’analisi kantiana cerca soprattutto di spiegare in che modo e a quali condizioni all’interno delle procedure raziocinanti della ragione – vale a dire nel corso della sua attività unificatrice e sintetica19 – sorga l’idea della totalità onnicomprensiva e perché essa debba essere intesa come idea teologica dell’assolutamente incondizionato, come quell’idea che per grado di completezza e di assolutezza si distingue dalle altre idee e decide circa la possibilità e la conclusività del discorso metafisico. Secondo la formulazione più semplice, che troviamo nel § 55 dei Prolegomena, con l’espressione “Ideale della ragion pura [Ideal der reinen Vernunft]” Kant intende designare il particolare statuto della terza idea della ragione, per distinguerla sia dall’idea psicologica che da quella cosmologica20. Infatti rispetto all’“idea del sogStrawson, Saggio sulla “Critica della ragion pura”, tr. it. di M. Palumbo, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 209-211, che sottolinea l’astrusità di queste pagine kantiane. Anche J. Bennett, Kant’s Dialectic, Cambridge University Press, Cambridge-London 1974, p. 282, liquida il tema dell’“Ideale trascendentale” come “una storia non convincente”. Gli interpreti che hanno valorizzato la “Sezione II” tendono invece a collocarla prevalentemente nel contesto delle prove e a rintracciare in essa la revisione della prova kantiana dell’esistenza di Dio esposta per la prima volta nel Beweisgrund del 1763. Questa chiave interpretativa, già abbozzata alla fine dell’Ottocento dalle lezioni di E. Boutroux, La philosophie de Kant (Cours à la Sorbonne en 1894-1901), a cura di E. Gilson, Vrin, Paris 1960, pp. 228-235, è stata ripresa da D. Henrich, Der ontologische Gottesbeweis, Mohr, Tübingen 1967 [La prova ontologica dell’esistenza di Dio, tr. it. di S. Carboncini, Prismi, Napoli 1983, pp. 173-232]. 19 Il tema di questa “Sezione” è sintetizzato da Kant nella Refl. 4113, XVII 420 ss., in cui leggiamo: “Der Begriff von Gott ist einmal da, man muß ihn aus dem Gedanke genetisch entwickeln”. Dalla Refl. 4590, XVII 603, emerge chiaramente che lo “sviluppo genetico” del concetto di Dio, che troverà la sua esposizione nella “Sezione II” del Capitolo teologico, è guidato dalla seguente convinzione: “der transzendentale Begriff ist nötig, nicht der transzendentale Beweis”. Cfr. anche Refl. 4345, XVII 513. 20 Su questo particolare statuto dell’idea teologica rispetto all’idea cosmologica Kant insiste anche in KrV B 435 s.; III 283 [280], al fine di fugare la possibile confusione tra il “concetto di universo [der Begriff des Weltganzen]” e l’ “Ideale della ragione”. La stessa distinzione viene rimarcata alla fine del Capitolo dedicato alle

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getto completo” e alla “idea della serie completa delle condizioni”, nelle quali è ancora presente un riferimento a sintesi fenomeniche contingenti e quindi all’esperienza, la terza idea è una particolare idea a priori, alla quale la ragione perviene con una inferenza che risale di principio in principio. In questo caso la ragione non prende le mosse dall’esperienza, ma “se ne stacca del tutto [nicht von der Erfahrung anhebt sondern gänzlich abbricht]”: abbandona il procedimento basato sulla “gradazione dei principi” e parte soltanto da semplici concetti, avendo di mira l’“assoluta compiutezza di una cosa in generale [die absolute Vollständigkeit eines Dinges überhaupt]” (Prol. A 159; IV 348 [154]). La terza idea prospetta quindi un tipo di totalità di grado massimo, intesa come Allheit o universitas, che è più esauriente di quella offerta dalle precedenti idee, in quanto realizza un tipo di completezza e di perfezione “onnicomprensiva” (Allbefassende: KrV B 610; III 391 [373]; B 618; III 396 [378]), che come tale si distingue quindi dall’insieme formato dalla serie delle condizioni fenomeniche e proprio per questo può essere detta “incondizionata” o “assoluta” (KrV B 594; III 382 [365]). Conformemente alla concezione prospettica e direzionale delle idee, la totalità che la terza idea offre non è il risultato di un procedimento astrattivo, ma è inizialmente un principio unificatore puramente formale preesistente nella ragione, che serve a indirizzarla a priori verso un ordine graduale e sistematico e a conferire unità sia alle diverse conoscenze fenomeniche cui è pervenuto l’intelletto, sia alle diverse strutture che operano nella costruzione della conoscenza. In questo modo, conformemente ad un progetto sistematico che risponde ad esigenze speculative ben precise, la terza idea esprime un tipo di totalità in grado di riassumere l’intero percorso del ragionare razionalmente sensato. Essa conclude infatti la ricerca epigenetica delle forme trascendentali del pensiero puro, che tende ad individuare le condizioni di possibilità di ogni esperienza e di ogni attività della ragione. Inoltre, accanto a questa funzione logica o formale, antinomie: KrV B 593; III 382 [364]. La Refl. 4039, XVII 349, precisa questa distinzione definendo l’idea teologica conceptus terminator e quella cosmologica conceptus comprehensor.

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questa idea assume anche la funzione regolativa in senso gnoseologico, che riguarda sia l’ordine gerarchico e coerente dei possibili contenuti della conoscenza fenomenica, sia il problema dell’unità sistematica delle diverse strutture della ragione. Infine la terza idea, in quanto idea onnicomprensiva di tutto ciò che è possibile a priori, viene considerata come l’“idea dell’insieme di tutti i predicati possibili” e identificata col concetto filosofico di Dio in senso “trascendentale”. In questo modo essa assume una funzione ontologica e teologica che non contrasta col contesto della metafisica critica orientata problematicamente e non deve essere giudicata una ricaduta nella vecchia metafisica dogmatica21. Procedendo con ordine e seguendo la scansione tematica dei testi kantiani, la funzione logica e formale è trattata prevalentemente nel “Libro I” della “Dialettica trascendentale”, in cui Kant espone la sua dottrina delle idee. La funzione ontologica e teologica è esaminata invece nella “Sezione II” del Capitolo teologico, mentre nella “Appendice” all’intera “Dialettica trascendentale” viene svolta l’applicazione di questa idea al problema dell’unità sistematica delle conoscenze e delle strutture della ragione. Lasciando per ultima la trattazione di quest’ultimo aspetto, ci dedicheremo ora all’esame delle diverse funzioni della terza idea, cercando di mettere in luce quali siano le motivazioni che spingono Kant a qualificarla teologicamente e ad identificarla col concetto filosofico di Dio proprio dell’ontoteologia. 21 Ci riferiamo in modo particolare all’interpretazione di N. Kemp Smith, op. cit., p. 522 ss., che considera la “Sezione II” del Capitolo teologico “la parte più arcaica dell’argomento razionalistico”, in cui Kant farebbe ricorso al concetto di ens realissimum, accettando i presupposti ontologici della teologia razionale e della metafisica dogmatica poco dopo confutati. Questo spiegherebbe, secondo Kemp Smith, il disordine dell’esposizione e l’oscurità di queste pagine, il cui contenuto sarebbe anche incompatibile con la concezione delle categorie modali esposte nell’“Analitica” e con la critica ai presupposti della metafisica leibniziana, che si legge nella “Nota alla anfibolia dei concetti della riflessione”. Tra gli studi più recenti e filologicamente documentati che hanno dimostrato infondato questo giudizio ci limitiamo a citare i lavori di A.W. Wood, Kant’s Rational Theology, Cornell University Press, Ithaca and London 1978, pp. 25-78, e di G.B. Sala, Kant und die Frage nach Gott, de Gruyter, Berlin 1990, pp. 221-255.

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3.1. La funzione logica e formale della terza idea La funzione logica della terza idea emerge in modo particolare nel “Libro I” della “Dialettica”, laddove Kant, nel tentativo di distinguere le idee della ragione dai concetti puri dell’intelletto, tratta dell’“uso logico della ragione” e deduce l’origine di tutte le idee dalla sua attività raziocinante, che consiste nel produrre raziocini o inferenze sillogistiche22. Secondo questa analisi la terza idea è un’idea sistematica di totalità che si caratterizza per la sua massima estensione: essa indica “la totalità delle condizioni (universitas)”, ovvero “il concetto della totalità delle condizioni per un certo condizionato” (KrV B 379; III 250 [251]) e la sua origine è rintracciata nella forma del sillogismo disgiuntivo. Quest’ultimo (o “inferenza disgiuntiva [disjunktiver Vernunftschluß]”) è quella particolare forma di giudizio che ha per premessa maggiore (maior, Obersatz) una proposizione disgiuntiva, vale adire una proposizione che esprime una contrapposizione o un’alternativa (ad esempio: “Pietro o si cura o morirà”). La minore (minor, Untersatz) afferma o nega una parte dell’alternativa (“Pietro si cura”) e la conclusione (conclusio, Schlußsatz) afferma o nega l’altra parte (“Quindi Pietro non morirà”)23. Il carattere peculiare dei giudizi disgiuntivi – che risulta rilevante nella ricerca epigenetica della terza idea della ragione – sta nella particolare caratteristica della premessa maggiore: essa si pre22

L’esame dell’“uso logico” della ragione porta Kant ad elaborare un vero e proprio “sistema delle idee trascendentali”: KrV B 359-366; III 240-244 [240-244]; B 390-396; III 257-261 [257-260]. Qui le idee vengono ricavate dalle forme del ragionamento che – secondo Kant – procede a priori per sillogismi, vale a dire facendo rientrare le proposizioni meno generali in quelle più generali e riportando i concetti ad unità: Log. A 188 ss.; IX 120 ss. [113 ss.]. 23 Già nell’“Analitica dei concetti” Kant si era soffermato a descrivere dettagliatamente questo tipo di giudizio, sottolineando come esso contenga “una relazione [Verhältnis] di due o più proposizioni tra loro”, che non è di derivazione ma di “opposizione logica [logische Entgegensetzung], in quanto la sfera dell’una esclude [ausschließt] quella dell’altra” (KrV B 99; III 89 [92 s.]). Per comprendere meglio la concezione kantiana del sillogismo disgiuntivo occorre tener presente che essa è collegata alla distinzione tra “concetti universali” e “concetti singolari”, su cui si veda KrV B 604; III 388 [370]; Log. A 147; IX 95 ss. [88]. Cfr. anche Refl. 3761, XVII 286; 3890, XVII 328-330.

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senta dotata di massima estensione e al suo interno tutte le proposizioni, oltre alla relazione di opposizione, intrattengono anche una relazione di comunanza. Infatti le proposizioni che compongono il giudizio disgiuntivo “stanno insieme in un rapporto di comunanza come parti di tutta una sfera di conoscenza, al di fuori della quale [...] non si può pensare nulla” (Log. A 166; X 106 [100]). In questo modo le proposizioni, che compongono questo tipo di giudizio, pur escludendosi a vicenda, “delimitano tuttavia nella loro totalità [im Ganzen] la vera conoscenza, in quanto prese insieme costituiscono l’intero contenuto [den ganzen Inhalt] di una conoscenza data” (KrV B 99; III 89 [92]). Le proposizioni che formano il giudizio disgiuntivo sono parti tra loro complementari di un “sistema”, di un “insieme” (das Ganze, der ganze Inbegriff) che le contiene; esse sono il risultato della divisione logica di un concetto universale dotato di massima estensione e rientrano quindi in una totalità (o universitas) che debbono presupporre preesistente come idea a priori. L’analisi del percorso razionale, attraverso cui la ragione arriva a produrre inferenze sillogistiche di tipo disgiuntivo permette quindi di rintracciare nella struttura stessa della ragione l’idea di totalità suprema, che rende possibile e regola inferenze di questo genere. Si tratta di una condizione talmente estesa che in essa – analogamente alla premessa maggiore del giudizio disgiuntivo – rientrano a priori tutte le premesse che fanno parte di un orizzonte comune24. Sulla base di questa deduzione logica della terza idea Kant può dire che essa prospetta un tipo di totalità tanto ampia e onnicomprensiva da essere considerata il grado massimo e definita quindi come l’“incondizionato della sintesi disgiuntiva delle parti in un sistema” (KrV B 379; III 251 [252]). Essa infatti finisce per contenere al suo interno “l’unità assoluta della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale [die absolute Einheit der Bedingung aller Gegenstände des Denkens überhaupt]”, vale a dire “la condizione suprema 24

L’analogia tra la terza idea e il giudizio disgiuntivo è ribadita anche in Prol. A 131; IV 331 [131], ed è poi ripresa nel capoverso 9 della “Sezione II” del Capitolo teologico: KrV B 605; III 389 [370 s.].

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di tutto ciò che può venir pensato [die oberste Bedingung der Möglichkeit von allem, was gedacht werden kann]” (KrV B 391; III 258 [258]). Questa prima spiegazione della terza idea, che tende a ricondurla all’ambito dell’inferire logico e del giudizio25, ci permette di cogliere innanzitutto la funzione regolativa che essa svolge quale principio metodico generale nell’orientamento e nella conclusione dell’intero processo conoscitivo, Proprio per questo essa può riassumere il progetto finale dell’intera attività della ragione, intesa come “facoltà dei principi” (KrV B 356; III 338 [239]). Occorre infatti tener sempre presente che la ragione è “il canone dell’intelletto”, è la “facoltà delle regole dell’intelletto sulla base di principi”, vale a dire anch’essa è impegnata nella costruzione della sintesi complessiva della conoscenza oggettiva e dell’esperienza. Sarà proprio questo carattere di principio e questa funzione complessivamente regolativa della terza idea a fungere nell’“Appendice” da filo conduttore per la soluzione del problema dell’unità sistematica. 3.2. La funzione ontologica e teologica della terza idea: il problema dell’ontoteologia Tuttavia la terza idea non ha solo una funzione regolativa di tipo logico o formale nei confronti dell’uso dell’intelletto. Essa rappresenta anche una risposta al bisogno proprio della ragione di tendere verso una unità di tutti i contenuti delle conoscenze possibili. Ora questa funzione regolativa, che potremmo definire anch’essa di tipo genericamente sistematico, si comprende meglio se consideriamo la terza idea come un orizzonte o uno spazio infinito, che comprende al suo interno l’insieme (das Ganze, lo Inbegriff) di tutto ciò che può venir pensato. Tenendo sempre presente sullo sfondo l’analogia col giudizio disgiuntivo, nell’orizzonte onnicomprensivo della terza idea si trovano ordinati tutti i contenuti di pensiero che 25

Questa funzione logica della terza idea è analizzata con precisione da S. Andersen, Ideal und Singularität. Über die Funktion des Gottesbegriffes in Kants theoretischer Philosophie, de Gruyter, Berlin 1983, pp. 185-254, nel contesto di una trattazione complessiva dell’Ideale trascendentale.

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corrispondono a tutti i predicati e tutte le determinazioni concettuali possibili che riguardano le cose. Ogni cosa singolare infatti diventa intelligibile come complementum ad totum solo dal punto di vista della conoscenza totale e come parte del tutto, vale a dire solo presupponendo a priori come condizione trascendentale l’idea di totalità assoluta e di unità sistematica di tutto il pensabile e di tutto il possibile. Questa ulteriore caratterizzazione della terza idea e delle sue funzioni in un senso non più esclusivamente logico-formale ma gnoseologico e ontologico, emerge chiaramente nella “Sezione II” del Capitolo teologico, dove Kant tenta una sua spiegazione richiamandosi esplicitamente al concetto metafisico di “possibilità assoluta” o “insieme di ogni realtà [Inbegriff aller Realität]”. Ora l’origine di questa idea è rintracciata non tanto in relazione al sillogismo e al principio logico della determinabilità dei concetti, bensì facendo riferimento al “principio ontologico della determinazione completa di una cosa in generale [das ontologische Prinzip der durchgängigen Bestimmung eines Dinges überhaupt]”. Quest’ultimo riguarda proprio il contenuto della cosa e “pone a fondamento l’insieme di ogni possibilità [der Inbegriff aller Möglichkeiten], nel quale è considerata come determinabile la possibilità di ogni cosa in generale” (Prol. A 131; IV 331 [131])26. L’idea di totalità diventa ora l’idea dell’insie26

All’inizio della “Sezione II” Kant introduce la fondamentale distinzione tra “principio di determinabilità [Grundsatz der Bestimmbarkeit]” e “principio della determinazione completa [Grundsatz der duchgängigen Bestimmung]”. Il primo regola la determinazione dei concetti dal punto di vista esclusivamente logico, stabilendo che ad ogni concetto “gli può convenire solo uno di ogni coppia di predicati opposti. Esso è un’applicazione del principio di non contraddizione e del terzo escluso. Il principio di determinazione completa riguarda invece i contenuti e non la semplice forma dei concetti. Esso è il principio della omnimoda determinatio, con cui nella scolastica razionalista si distingueva il singolare dall’universale: Chr. Wolff, Ontologia, cit., § 225 ss.; A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., §§ 148-154. Come leggiamo in Log. A 153 s.; IX 98 s. [91 s.], per Kant un conceptus omnimode determinatus è “un concetto tale che ad esso non si potrebbe più aggiungere col pensiero alcuna determinazione ulteriore”. Sulla distinzione dei due principi si veda anche Refl. 5274, XVII 140. Le Refl. 6207, 6208, 6209, XVIII 494 s., e la Refl. 6291, XVIII 560, sostengono esplicitamente che il principio della determinazione completa è un principio “metafisico”.

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me di ogni realtà possibile, l’insieme di tutte le possibilità; essa è ora un orizzonte di contenuti ontologici, in quanto comprende al suo interno tutte le possibili determinazioni di realtà e tutti i pensieri delle cose. Il contesto tematico, in cui avviene questa specificazione della terza idea, è dunque delimitato dal problema metafisico della fondazione del possibile in un “essere necessario” e del rapporto tra l’esperienza contingente e il suo fondamento trascendentale27. Quando penso una certa cosa – ragiona Kant nei primi tre capoversi della “Sezione II” del Capitolo teologico (KrV B 599-601; III 385 s. [368]) – cerco di pensarla nel modo più preciso possibile, in modo che quella data cosa sia “completamente determinata [durchgängig bestimmt]” nella sua individualità, ovvero non manchi di determinazioni sue proprie che la possano confondere con altre cose a lei simili. In questo sforzo di determinazione scelgo un certo numero di predicati che si addicono alla cosa e ne escludo altri che non le competono. Infatti, a quella data cosa tra “tutti i possibili predicati [...], in quanto essi sono posti a raffronto coi loro opposti, gliene deve spettare uno solo”. Ma, aggiunge Kant, la proposizione: ogni esistente è completamente determinato non si limita a significare che per ogni coppia di predicati dati, reciprocamente opposti, uno solo spetta sempre alla cosa, ma estende l’affermazione anche a tutti i predicati possibili. In base a questa proposizione non si tratta di un semplice raffronto logico dei predicati fra loro, ma la cosa stessa [das Ding selbst] viene trascendentalmente raffrontata con l’insieme di tutti i predicati possibili [mit dem Inbegriff aller möglichen Prädikate] (KrV B 601; III 386 [368]). 27 Questa chiave interpretativa si rifà alla dettagliata e documentata analisi di G.B. Sala, op. cit., pp. 224 ss. e 237 ss., che valorizza la “deduzione ontologica” a partire dalla nozione metafisica di “possibilità assoluta”, ma la vede in contraddizione con la precedente “deduzione logica” a partire dal sillogismo. A.W. Wood, op. cit., pp. 33 e 44-50, considera invece la spiegazione logica come meramente “strumentale” rispetto a quella metafisica. Sulla stessa linea interpretativa anche J. Schmucker, Kants vorkritische Kritik der Gottesbeweise, Steiner, Wiesbaden 1983, pp. 55 ss. La complementarietà tra le due spiegazioni è invece sostenuta, con argomentazioni convincenti, da F. O’Farrell, Kant’s Trascendental Ideal, in “Gregorianum”, 65 (1984), pp. 127-150; 635-656.

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A questo punto l’“insieme di tutti i predicati possibili” diventa il presupposto regolativo e archetipico affinché possiamo determinare le cose nella loro singolarità e individualità, ottenendo una conoscenza completamente determinata di esse. Si tratta di un presupposto che non si può mai rappresentare in concreto attraverso una intuizione sensibile, ma che ha sede nella nostra ragione come “ideale” 28. Quindi, conclude Kant, “per conoscere una cosa completamente, si deve conoscere tutto il possibile [alles Mögliche] e determinarla positivamente o negativamente per mezzo della totalità del possibile”. Al di là degli aspetti gnoseologici che questo ragionamento comporta29, ci sembra importante rilevare che in questa prima parte della “Sezione II” il principio di determinazione completa 28

L’intera “Sezione I”, con cui inizia il Capitolo teologico, tratta della distinzione tra “idea” e “ideale” e propone una definizione di quest’ultimo. Dopo aver ricordato che le “idee” rispetto alle categorie “sono ancor più lontane dalla realtà oggettiva” perché “non esiste fenomeno in cui le idee siano rappresentate in concreto”, Kant precisa: “più lontano ancora della realtà oggettiva di quanto sia l’idea pare si trovi ciò a cui do il nome di ideale; esso consiste nell’idea non semplicemente in concreto, ma in individuo, ossia come cosa singolare [als ein einzelnes], determinabile o determinata esclusivamente per mezzo dell’idea” (KrV B 596; III 384 [366]). I caratteri essenziali dell’ideale sono la perfezione, l’esemplarità e la singolarità (vedi il riferimento al “saggio stoico”). Questa concezione dell’ideale teoretico è stata esposta per la prima volta nella dissertazione, dove viene identificato con Dio; cfr. I. Kant, De mundi sensibilis atque inlelligibilis forma et principiis, Kanter, Königsberg 1770: “maximum perfectionis vocatur nunc temporis Ideale” (A 12; II 397 [SP 432]). Si veda anche: Refl. 3889, XVII 328; Metaphysik L1, XXVIII/1 328-330; Metaphysik L2, XXVIII/2-1 555; Philosophische Religionslehre Pölitz, XXVIII/2-2 993-995 [LFR 99-102]; Danziger Rationaltheologie, XXVIII/2-2 1233. La concezione dell’ideale teoretico non esaurisce la concezione kantiana dell’ideale, che abbraccia anche l’etica (“l’Ideale del Sommo Bene”) e l’estetica (cfr. KU B 54; V 232 [77]). Per una visione d’insieme si rimanda al lavoro di C. Piché, Das Ideale. Ein Problem der Kantischen Ideenlehre, Bouvier, Bonn 1984 (sull’ideale teoretico spec. pp. 13-119). Sul tema della deduzione dell’ideale teoretico si veda anche la sintetica ricostruzione di J. Peter, Das transzendentale Prinzip der Urteilskraft. Eine Untersuchung zur Funktion und Struktur der reflektierenden Urteilskraft bei Kant, de Gruyter, Berlin 1992, pp. 17-43. 29 In questo modo infatti arrivo a conoscere “il particolare nell’universale” e questo è il modo specifico in cui avviene “la conoscenza in base a principi della ragione”, a differenza delle conoscenze dell’intelletto che non ci dà “conoscenze sintetiche basate su concetti” (KrV B 357; III 239 [239]).

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viene usato da Kant per concludere all’“insieme di tutti i predicati possibili” delle cose e per individuare l’idea della “totalità del possibile”, facendo valere quest’ultima quale presupposto trascendentale. Con questa argomentazione la terza idea della ragione viene collegata alla nozione metafisica di possibilità assoluta ed esprime la funzione di condizione di possibilità; il tipo di totalità che essa prospetta è definito come totalità del possibile o “totalità delle condizioni”, alludendo allo spazio dell’assolutamente incondizionato. Nel seguito del testo – in modo particolare nei capoversi 4-7 (KrV B 604-608; III 386-388 [369 s.]) – Kant cerca poi di mostrare come l’insieme di tutti i predicati possibili corrisponda all’“idea di un tutto della realtà [All der Realität]” o omnitudo realitatis, che comprende al suo interno solo tutti i predicati positivi e affermativi, in quanto i predicati negativi o opposti sono considerati derivati30. In questo modo l’“idea di un tutto della realtà” diventa un orizzonte ontologico a priori comprendente perfezioni o determinazioni esclusivamente positive tra loro omogenee. E questo dimostra che a fondamento [zum Grunde] della determinazione completa è posto nella nostra ragione un sostrato trascendentale [transzendentales Substratum] che contiene, per così dire, l’intera provvista del materiale 30

Qui Kant mette in atto una vera e propria operazione di “purificazione”. Al capoverso 6 sostiene che “nessuno è in grado di pensare determinatamente una negazione, senza porre a fondamento l’affermazione opposta. Chi nasce cieco non può formarsi la benché minima rappresentazione del buio, essendo privo di ogni rappresentazione della luce; il selvaggio non può formarsela della indigenza, mancando di quella del benessere; l’ignorante non possiede alcun concetto della propria ignoranza, mancandogli quello della scienza, ecc. Dunque tutti i concetti delle negazioni sono derivati” (KrV B 603; 388 [369 s.]). Lo stesso concetto viene ripetuto al capoverso 11: “tutte le negazioni [...] non sono che limitazioni di una più vasta realtà e infine della realtà suprema; esse dunque la presuppongono e ne derivano quanto al contenuto” (KrV B 606; III 389 [371]). Una argomentazione analoga si trova anche nella Philosophische Religionslehre Pölitz, XXVIII/2-2 1014 [LFR 130]. Che le negazioni non siano altro che limitazioni di predicati positivi è ribadito anche nelle Refl. 3811, XVII 300; 5814-5831, XVIII 361-365; 6253, XVIII 531 s. Per gli esempi di negazioni di realtà ricorrenti nella “Sezione II” si veda anche Refl. 5270, XVIII 138 s.; 5580, XVIII 239.

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[den ganzen Vorrat des Stoffes] da cui sia possibile trarre tutti i possibili predicati delle cose (KrV B 603; III 388 [370]).

Proprio questo “sostrato” comune, da non intendersi in senso “sostanzialistico” ma “trascendentale”, sarà chiamato poco dopo “Ideale della ragione”. Continuando la lettura del testo – nei capoversi 8 e 10-15 (KrV B 604-608; III 388-390 [370-373]) – Kant mostra infine come l’“idea di un tutto della realtà” (o omnitudo realitatis) non sia una rappresentazione vaga e indeterminata, simile ad uno spazio infinito e illimitato (come das Unbeschränkte o das All), ma sia invece “il concetto di una cosa in sé”, a sua volta completamente determinato. Esso infatti è un “essere singolo” e “semplice”, vale a dire è qualcosa di più che una “idea”; non è una generalità ma è un “ideale” singolare completamente determinato in individuo che viene a coincidere col concetto filosofico di Dio come ens realissimum e che Kant chiama ora “ideale trascendentale”. La riflessione intorno al principio ontologico della determinazione completa – che ha permesso di mettere in evidenza come l’idea di totalità corrisponda all’idea di tutti i possibili predicati positivi o “idea di un tutto della realtà” (omnitudo realitatis) – attua ora il passaggio decisivo dall’“idea” all’“ideale” e fornisce la spiegazione del perché la terza idea sia detta “teologica”. Questo passaggio – considerato da molti interpreti un vero e proprio salto ingiustificato31 – risulta forse più chia31 Questa difficoltà del passaggio dall’argomentazione ontologica al piano teologico è stata già rilevata da P. Carabellese, La filosofia di Kant. L’idea teologica, Vallecchi, Firenze 1927, pp. 217 ss. Egli sostiene che la svolta dall’“idea” (Inbegriff o universitas) di una molteplicità congregata e indeterminata all’“ideale” come unità completamente determinata è erronea e costituisce il vero “sofisma dialettico” in cui cadrebbe Kant. Il passaggio dall’idea all’ideale sarebbe indebito perché l’universalità e la generalità della prima contrasterebbe con la singolarità e la determinatezza del secondo; inoltre non si comprenderebbe perché la totalità di tutti i predicati debba essere intesa come completamente determinata e non invece infinita. Di recente anche P. Rohs, Kants Prinzip der durchgängigen Bestimmung aller Seienden, in “Kant-Studien”, 69 (1978), pp. 170-180, ha rilevato la non consequenzialità dell’argomentazione kantiana, che userebbe un “presupposto trascendental-cognitivo”, quale il principio della determinazione completa, per giungere indebitamente ad una conclusione di tipo teologico. Queste difficoltà si possono spiegare, a nostro

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ro se teniamo conto del fatto che l’“insieme [Inbegriff ] di tutti i predicati” non viene concepito da Kant come “un mero aggregato [ein bloßes Aggregat]” o come una somma di determinazioni eterogenee, ma come una unica totalità omogenea che precede le diverse parti e non dipende da esse. Proprio per questo Kant insiste sul fatto che questa totalità è qualitativamente “semplice” (einfach: non composta di parti giustapposte); è una entità individuale, indipendente e unica nel suo genere, un conceptus singularis che il termine ens realissimum o perfectissimum differenzia nella sua assolutezza. “La realtà suprema”, precisa Kant, è condizione di possibilità di tutte le cose “in quanto è fondamento [als Grund] e non in quanto è insieme [als Inbegriff ]” 32. Ora, proprio questa decisiva distinzione tra Inbegriff e Grund segna il passaggio dalla rappresentazione di una totalità collettiva come somma di parti ad una concezione della totalità come principio unico. Si tratta di un passaggio che rende esplicita la conversione dell’“idea” ontologica a “ideale” teologico, qualificandolo come nozione “onto-teo-logica”. L’idea di un essere singolare, semplice e assolutamente incondizionato – in quanto non è ricavato dalla somma quantitativa delle diverse determinazioni o condizioni ma se ne distingue qualitativamente – richiama seavviso, se si tiene conto dello sfondo ontoteologico dell’argomentazione kantiana nel suo complesso. 32 A proposito di questa importantissima distinzione tra Inbegriff e Grund (che equivale a quella tra omnitudo realitatis ed ens realissimum) nella Refl. 3883, XVII 327, Kant precisa che l’absolute maximum non può essere il risultato della somma dei gradi minori: “die höhste Realität besteht nicht darin, daß alles in ihr sei, sondern durch sie als einen Grund”. Le Refl. 3727, XVII 270, e 3839, XVII 308, spiegano questa differenza introducendo la distinzione tra “grandezza intensiva” (o maximum intensionis) e “grandezze estensive”. La distinzione tra Inbegriff e Grund verrà ribadita anche nello scritto Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, in “Berlinische Monatsschrift”, maggio 1796, pp. 387-426. Qui, all’interrogativo “devo pensarmi Dio in quanto insieme [Inbegriff] (complexus, aggregatum) di tutte le realtà, oppure come loro supremo fondamento [als obersten Grund]?”, Kant fornisce la seguente risposta: “Dio è l’essere che contiene il fondamento di tutto ciò per cui noi uomini abbiamo bisogno di ammettere nel mondo un intelletto [...], egli è l’essere da cui ha origine l’esistenza di tutti gli esseri mondani” (A 412; VIII 400 [SC 267 s.]). L’insistenza in questo scritto sulla distinzione tra Dio come Inbegriff e Dio come Grund va collocato sullo sfondo dello Spinozismusstreit.

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condo Kant la rappresentazione del divino propria delle religioni monoteiste della tradizione ebraico-cristiana e le sue derivazioni concettuali elaborate dalla teologia filosofica. A ribadire questa filiazione basti rilevare il ricorso esplicito alla terminologia tradizionale propria dell’ontoteologia in quei passi del testo esaminato in cui Dio viene definito come höchste Realität o höchstes Wesen, ens originarium, ens summum, ens entium. Nella nostra ragione, conclude Kant, c’è dunque un Ideale trascendentale che sta a fondamento [zum Grunde] della determinazione completa che necessariamente concerne tutto ciò che esiste, e che rappresenta la condizione materiale suprema e perfetta della sua possibilità, condizione a cui va riportato ogni pensiero relativo al contenuto degli oggetti in generale. Si tratta qui anche dell’unico vero e proprio ideale, di cui la ragione umana sia capace (KrV B 604; III 388 [370]).

Questo “unico ideale” della ragione ha la funzione di essere il “modello (prototypon) di tutte le cose, che tutte insieme, in quanto sono copie inadeguate (ectypa), traggono da quello la materia della loro possibilità, e per quanto gli si avvicinino, restano tuttavia infinitamente lontane dal raggiungerlo”. Dio come prototipo ideale o archetipo originario corrisponde all’idea (all’“ideale”) a priori di un maximum perfectionis, che ci permette di spiegare l’origine delle cose finite, di conoscerle e distinguerle nella loro individualità. L’idea di totalità incondizionata serve per poter derivare da essa la totalità condizionata delle cose singole, ma rimane qualitativamente distinta dall’insieme delle cose, che non possono derivare da essa per emanazione, scomposizione o divisione del suo spazio infinito. Il nesso dell’essere originario con gli altri oggetti del nostro pensiero non è simile a quello che vi è tra la somma e le sue parti, ma è un rapporto tra Grund e Folge, tra il fondamento e le sue conseguenze, sviluppi o effetti da esso resi possibili e giustificati: è un rapporto tra fondante e fondato33. 33

In verità tra il capoverso 13, che introduce la distinzione tra Grund e Folge, e il precedente capoverso 11 è presente una certa contraddizione. In quest’ultimo capoverso infatti Kant aveva affermato che “l’intera molteplicità delle cose è per

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Tuttavia l’esposizione della terza idea della ragione come idea teologica, identificata con la rappresentazione di un essere singolo o “Ideale trascendentale”, non sarebbe completa se non tenessimo conto di quanto Kant anticipa al capoverso 10 e poi sviluppa nei capoversi 15-18 (KrV B 606; III 389 [371]; B 608-611; III 390392 [372-374]). L’idea del tutto della realtà è l’idea di Dio intesa in senso trascendentale: non si tratta di una realtà o di un oggetto esistente in sé e per sé, ma solo di una idea della ragione, vale a dire un’idea di cui la ragione ha bisogno per ricondurre il molteplice all’unità e tendere, almeno idealmente, ad un punto terminale del suo processo. Le argomentazioni sviluppate nella “Sezione II” – che attraverso il principio ontologico della determinazione completa arrivano a postulare l’idea di una totalità incondizionata come idea teologica – non valgono quindi come prova dell’esistenza di Dio, ma vanno intese come giustificazione e spiegazione della presenza dell’idea di Dio nella ragione, un’idea che risulta ora razionalmente giustificata e che quindi non può essere in se stessa contraddittoria o dialettica. Considerare la dottrina dell’“Ideale trascendentale” come una prova comporterebbe inevitabilmente una riduzione della terza idea a sofisma dialettico, cosa che avviene quando usiamo scorrettamente l’idea dell’insieme di ogni realtà e le conferiamo illusoriamente una esistenza oggettiva34. l’appunto null’altro che un insieme di modi di limitare il concetto della realtà suprema [eine so vielfältige Art, den Begriff der höchsten Realität […] einzuschränken], che ne costituisce come il sostrato comune, proprio come tutte le figure risultano possibili come modi diversi di limitare lo spazio infinito” (KrV B 606; III 389 [371]). Secondo questa analogia con lo spazio le cose singole verrebbero ritagliate, delimitando porzioni di spazio sullo sfondo di uno “spazio infinito”. Questa concezione, ammessa anche nelle Refl. 5270, XVIII 138; 6404, XVIII 706, e poi nella Philosophische Religionslehre Pölitz, XXVIII/2-2 1005 [LFR 115], poteva dare adito ad una visione del rapporto tra “tutto” e “parti” di tipo panteistico. Si veda a questo proposito le osservazioni di F. Jacobi, La dottrina di Spinoza. Lettera al Signor Moses Mendelssohn, tr. it. di F. Capra, riv. da V. Verra, Laterza, Bari 1969 p. 119, (Prop. VII), e le successive precisazioni dello stesso Kant nello scritto Was heißt: sich im Denken orientieren?, in “Berlinische Monatsschrift”, ottobre 1786, A 324; VIII 142 s. [SC 25 n.]. 34 Questa caduta dell’idea di Dio a Schein, a “sofisma dialettico”, è descritta nei capoversi 16-18 della “Sezione II” e nella nota che la conclude. Questa trasforma-

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Tuttavia proprio il contenuto di questa “Sezione”, dotata di una sua autonomia teorica rispetto al contesto delle prove, testimonia come l’idea di un fondamento unico, semplice e originario, che la metafisica occidentale ha spesso identificato col concetto filosofico di Dio, rimanga centrale anche nella metafisica kantiana. Anch’essa quindi, nel momento in cui descrive “il progresso naturale della ragione verso l’unità” e verso l’incondizionato, ricorre al concetto di Dio come fondamento primo e originario e assume quindi una “costituzione ontoteologica” 35. Occorre subito rilevare però la decisiva trasformazione che questa costituzione subisce. Da un lato, la metafisica kantiana rimane legata al modo di vedere proprio dell’ontoteologia perché, per pensare i singoli enti e la totalità dell’ente, ricorre ad un fondamento unitario capace di fondare in modo incondizionato e necessario che chiama “ente sommo” o “essere zione è in realtà uno scambio illegittimo o “surrezione trascendentale” dell’idea “col concetto di una cosa, posta al culmine della possibilità di tutte le cose”. Continua Kant: “Così questo ideale dell’essere realissimo, pur essendo una semplice rappresentazione, è in primo luogo realizzato, trasformandosi in un oggetto; successivamente è ipostatizzato, e infine [...] è anche personalizzato” (KrV B 611; III 392 [374]; cfr. anche B 640; III 408 [389]; B 722; III 474 [434]). Questo procedimento è alla base dei ragionamenti dialettici che coincidono con le prove dell’esistenza di Dio, esaminati nelle “Sezioni” IV, V e VI del Capitolo teologico. Solo alla luce della “surrezione trascendentale” ora smascherata, si spiega anche la definizione di “Ideale della ragion pura” come “sillogismo dialettico [Vernunftschluß]”, che era stata anticipata in KrV B 398; III 261 s. [261 s.]. 35 In questo contesto facciamo riferimento alla nozione di “ontoteologia” proposta da M. Heidegger, Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik, in Id. Identität und Differenz, Neske, Pfullingen 1957, pp. 31-67 [La costituzione onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differenza, tr. it. di U.M. Ugazio, in “Aut-Aut”, 1982, n. 187-188, pp. 17-31; spec. 25-28]. Anche D. Henrich, op. cit., pp. 175-220, collega complessivamente la critica kantiana alle prove dell’esistenza di Dio all’“ontoteologia”, ma intende questo termine come sinonimo della prova ontologica, arrivando a sostenere che la filosofia speculativa kantiana segnerebbe in realtà la fine dell’ontoteologia. Va ricordato che il termine “ontoteologia” è stato introdotto nel lessico filosofico proprio da Kant: si veda Refl. 4647, XVII 624; 6214, XVIII 500; KrV B 660; III 421 [400]; Philosophische Religionslehre Pölitz, XXVIII/2-2 10031006 [LFR 113-117]; 1013-1047 [LFR 130-171]. Per un approfondimento della posizione kantiana nei confronti dell’ontoteologia rimandiamo alle lucide analisi di G. Ferretti, Ontologia e teologia in Kant, Rosenberg & Sellier, Torino 1997, pp. 115-152.

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degli enti”. D’altro canto però qui questo fondamento non è più in grado di rendere ragione autonomamente di se stesso e della sua necessità assoluta, ma viene spiegato in modo “trascendentale”, vale a dire relativamente ad un bisogno interno alla ragione umana finita, diventando quindi un fondamento di tipo esigenziale, progettato e ideato dalla stessa ragione. Per Kant quindi dire che Dio è “Ideale della ragione” significa riconoscere al tempo stesso che la sua “necessità” è una “suppositio relativa” (KrV B 707; III 448 [425]): è una necessità che soddisfa un’esigenza strutturalmente umana e metafisica di fondazione e di unità, ma che non riguarda la realtà o la natura del fondamento in se stesso. Dio è qui soltanto un’idea, “un semplice ideale, privo di ogni difetto [ein fehlerfreies Ideal], ossia un concetto che porta a conclusione e a coronamento l’intera conoscenza umana” (KrV B 669; III 426 [405]). Si tratta di un ideale di completezza, di un modello di massima perfezione esclusivamente ipotetico e soggettivo, in costante riferimento al quale si sviluppa l’attività costruttiva e teoretico-conoscitiva della ragione e che – come “concetto limite” o “fine ultimo” – è in grado di dare un senso globale al bisogno metafisico dell’uomo. All’ontoteologia fondativa, che concepisce Dio come fondamento realmente esistente capace di render ragione del suo fondare a partire da se stesso, la metafisica kantiana contrappone una “ontoteologia regolativa”, che si richiama a Dio come ad una semplice ideale di completezza36, ritenendolo un fondamento semplicemente ipotetico, problematico e soggettivo. Questa “ontoteologia regolativa”, che si rifà ad un fondamento 36

Questo nesso tra idea teologica e idea di completezza viene illustrato in una pagina della Philosophische Religionslehre Pölitz, XXVIII/2-2 1013 s. [LFR 130 s.]: “In ogni cosa che abbia solo qualcosa di reale, manca pur sempre qualcosa, e dunque essa non è una cosa completa [vollständiges Ding]. Una cosa somma dovrà dunque essere tale da possedere ogni realtà [...]; essa è determinata in modo totalmente completo [durchaus vollständig bestimmt]. [...] Così il concetto di un ens realissimum contiene, al tempo stesso, il fondamento [den Grund] di tutti gli altri concetti. E perciò è questa la misura fondamentale [das Grundmaß] secondo la quale devo pensare o giudicare tutte le altre cose”. Questa concezione dell’“Ideale trascendentale” come “misura” si ritrova anche nelle Refl. 3967, XVII 369; 4248, XVII 481; 4253, XVII 482; 4310, XVII 502.

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non espresso mediante l’evidenza del giudizio apodittico o asserito e dimostrato more geometrico, non è importante soltanto perché ha smascherato i limiti e le difficoltà che la ragione umana incontra nel proporre una nozione di “essere necessario” che funga da fondamento oggettivamente esistente. La concezione di Dio come “Ideale della ragione” sembra avere una sua particolare importanza soprattutto perché qui Dio viene visto come un “concetto limite” che va sempre “oltre” ogni possibile idea e rimane un “nome” che intenziona solo idealmente il suo referente, destinato a restare in se stesso absconditus. Forse Kant ha qui intuito che la problematicità dell’idea di Dio non dipende solo dai modi razionali del pensare Dio, ma dal fatto che Dio stesso è uno spazio infinitamente abissale, a sua volta misterioso e problematico37.

4. La ragione come sistema All’interno del Capitolo teologico la spiegazione della terza idea come “Ideale trascendentale” e la sua giustificazione come rappresentazione soggettiva, in se stessa razionalmente sensata e non dialettica, serve a Kant per acquisire lo strumento concettuale essenziale al fine di decostruire dall’interno quell’insieme di particolari ragionamenti sofistici storicamente rappresentati dalle prove dell’esistenza di Dio. Ma il ricorso alla terza idea non si limita al contesto tematico della teologia razionale. Proprio tenendo conto della sua particolare costituzione e delle sue molteplici funzioni, nell’“Appendice” alla “Dialettica trascendentale” e nella parte conclusiva della “Dottrina del metodo” questa idea viene utilizzata da Kant 37

Ci riferiamo in particolare alla concezione di Dio come Grenzbegriff costitutivamente unerforschlich, che troviamo accennata in Prol. A 163-183; 351-362 [158172]. Ma soprattutto alla inquietante visione di Dio come “abisso della ragione [Abgrund der Vernunft], di fronte al quale si arresta il ragionamento della prova cosmologica col suo procedimento causale (KrV B 641; III 409 [390]). Su questo aspetto si era già soffermata l’attenzione di Schelling, come ha ricordato L. Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, in AA.VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, pp. 137-180 (spec. pp. 162 ss.).

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per avviare a soluzione anche il problema dell’unità sistematica delle conoscenze e della ragione38. Si tratta di una soluzione di tipo esclusivamente speculativo, che applica le funzioni logiche, gnoseologiche e ontologiche dell’idea di Dio precedentemente individuate e ne sfrutta il carattere di (a) simbolo totalizzante e di (b) archetipo originario. Dando per acquisito che l’idea teologica è l’idea di totalità che esprime la massima unità perché è la rappresentazione di un essere singolare completamente determinato, le argomentazioni kantiane procedono su due piani: da un lato cercano di mostrare l’importanza di questa idea per quanto riguarda la connessione sistematica delle molteplici conoscenze oggettive in funzione dell’intelletto; dall’altro utilizzano la terza idea per proporre una possibile spiegazione dell’unità di tutte le strutture formali della ragione. L’esame di questi due aspetti conferma che l’idea razionale di Dio – il concetto filosofico di Dio come “Ideale della ragione” – è il focus imaginarius verso cui naturalmente tende e intorno a cui inevitabilmente ruota l’interrogare teoretico della metafisica speculativa nel suo complesso. 4.1. La terza idea come simbolo totalizzante Come già aveva fatto nel “Libro I” della “Dialettica”, anche nell’“Appendice” Kant inizia ricordando che la ragione è una facoltà ordinatrice, in quanto “non si riferisce mai direttamente ad un og38 Per questa parte della Critica abbiamo tenuto conto dell’ampio commento di H. Heimsoeth, op. cit., vol. III, pp. 147-643; vol. IV, pp. 789-820. Per la “Dottrina del metodo” abbiamo tenuto presente anche l’articolo di P. Marty, La méthodologie transcendantale, deuxième partie de la “Critique de la raison pure”, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 80 (1975), pp. 11-31; per l’“Appendice” alla “Dialettica” abbiamo fatto riferimento al saggio di S. Marcucci, Aspetti epistemologici e teoretici della deduzione trascendentale delle idee in Kant, in “Physis”, 27 (1985), pp. 127156. L’idea di totalità sistematica è stata prevalentemente studiata dal punto di vista dell’unità dell’esperienza fenomenica in riferimento all’“Analitica”, trascurandone spesso il ruolo specifico svolto all’interno della “Dialettica”. Significativo a questo proposito è lo studio di H. Heyse, Der Begriff der Ganzheit und die Kantische Philosophie, Reinhardt, München 1927, che – richiamandosi alla concezione husserliana delle ontologie regionali – individua nell’idea di unità sistematica il fondamento che permette l’articolazione delle diverse regioni di realtà oggetto di conoscenza.

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Metafisica della ragione e idea teologica

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getto […] non crea concetti (di oggetti) ma si limita ad ordinarli e a dar loro quella unità che essi possono acquisire nella loro maggiore estensione possibile”. L’ordine che la ragione attribuisce ai concetti non è di tipo distributivo come quello dell’intelletto; essa piuttosto “raccoglie il molteplice dei concetti per mezzo di idee, progettando una certa unità collettiva” (KrV B 671 s.; 427 [408]). In questo contesto, in cui viene ribadita la distinzione strutturale e funzionale tra intelletto e ragione, Kant precisa che “ciò di cui la ragione dispone in proprio e che essa cerca di far valere è il carattere sistematico della conoscenza [das Systematische der Erkenntnis], cioè la sua connessione in base ad un unico principio” (KrV B 673; III 428 [408 s.]). Ora questo unico principio non è altro che “l’idea della forma di un tutto della conoscenza [die Idee der Form eines Ganzen der Erkenntnis]”; in quanto è esclusivamente formale esso deve precedere “la conoscenza determinata delle parti” e deve contenere “le condizioni per determinare a priori il posto di ognuna delle parti e il suo rapporto con ciascuna delle altre”. Questa “unità razionale [Vernunfteinheit]” deve essere una “unità completa” che precedere le parti che la compongono; essa va oltre l’idea di totalità di tipo estensivo propria dell’intelletto e ha quindi “origine soltanto nella ragione”. L’idea di unità razionale infatti è il risultato di una specifica attitudine propria della ragione stessa, che ordina ogni esperienza singolare in una prospettiva unitaria intensiva e non meramente cumulativa. Questa idea dell’unità razionale, che serve di regola all’uso dell’intelletto ma che non ha origine nell’intelletto, è dunque un “principio trascendentale della ragione” di tipo regolativo: esso dice che sia le conoscenze dell’intelletto sia quelle empiriche, nonostante la loro diversità, sottostanno ad un principio comune che serve “a promuovere un accordo [...] conferendogli coerenza” (KrV B 675 III 430 [410])39. 39 Questa idea dell’unità razionale è spiegata da Kant ricorrendo all’esempio dell’orizzonte: “Si consideri ogni concetto come un punto [als einen Punkt], che abbia, come il punto di vista di un osservatore [als der Standpunkt eines Zuschauers], un proprio orizzonte, composto da un insieme di cose che possono esser rappresentate e colte con un colpo d’occhio. All’interno di questo orizzonte deve essere dato un

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Conformemente alla definizione generale delle “idee”, questo principio trascendentale è uno strumento direzionale che concettualizza il movimento verso l’unità dell’esperienza. Si tratta di una “unità progettata [projektierte Einheit]” dalla stessa ragione, che in sé non va considerata come già data, ma che rappresenta sempre un compito infinito, in risposta ad una precisa esigenza soggettiva che intende superare il disagio della frammentarietà rapsodica delle esperienze casuali e del disordine40. La ragione fa valere da se stessa la presenza di un disegno progettuale onnicomprensivo in cui ogni cosa si inserisce in un orizzonte articolato e coerente dotato di senso e di verità, per cui ogni fenomeno risulta intelligibile in rapporto al tutto sub specie universalitatis. In questo modo la ragione conclude il processo conoscitivo, rendendo “sistematica l’unità di tutti i possibili atti empirici dell’intelletto”, vale a dire introducendo un ordine gerarchico nel molteplice formato da tutte le esperienze fenomeniche. Ma, osserva Kant, come l’intelletto nella sua attività sintetica ha bisogno di ricorrere agli schemi della sensibilità, ugualmente anche l’attività unificatrice della ragione resterebbe indeterminata se non ricorresse a schematizzazioni che utilizzano a loro volta un termine medio. Ed è a questo punto che Kant chiama nuovamente in causa l’“idea del massimo”, ovvero la terza idea della ragione quale insieme infinito di punti [eine Menge von Punkten ins Unendliche], ciascuno dei quali, a sua volta, ha un orizzonte più limitato [seinen engeren Gesichtskreis]” (KrV B 686; III 535 [416]). 40 Ugualmente nella “Dottrina del metodo” Kant ripeterà: “sotto il governo della ragione le nostre conoscenze non possono costituire una rapsodia, ma un sistema; solo in questo sistema, infatti, sono in grado di sostenere e di promuovere i fini essenziali della ragione” (KrV B 860; III 538 [509]). Occorre rilevare che l’unità sistematica della ragione “va vista in sé non come data, ma solo come problema” (KrV B 675; III 430 [410]). Essa è quindi un compito infinito verso la perfezione a cui la ragione si deve avvicinare e che presuppone quindi la sua perfettibilità. In questo senso la ragione viene definita come “un sistema di ricerca in base a principi di unità [ein System der Nachforschung nach Grundsätze der Einheit]” (KrV B 766; III 483 [459]). Questo aspetto dell’unità sistematica mette in luce come la “critica” consista in una problematizzazione della ratio, attraverso cui la ragione stessa recupera il proprio bisogno metafisico e lo trasforma in compito. Per un approfondimento di questi spunti si rimanda a H. Holzhey, art. cit., pp. 58 ss. Di diverso avviso invece F. Chiereghin, Il concetto di totalità sistematica in Kant e in Hegel, in

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“Ideale trascendentale”. Quest’ultimo viene utilizzato qui proprio nella sua funzione di simbolo totalizzante, vale a dire quale rappresentazione della totalità incondizionata, che precede e regola la collocazione delle singole parti e rende possibile la ricomposizione all’unità41. Infatti, la terza idea – come maximum perfectionis, come ideale rappresentato in individuo e quindi completamente determinato – funge da termine di riferimento analogico in rapporto al quale si può determinare l’unità sistematica di tutte le conoscenze. Essa è dunque la più adatta a concettualizzare il grado massimo di totalità, di completezza e di perfezione, la più idonea ad esprimere in modo schematico la “suprema unità formale della ragione” e “l’unità delle cose conforme a fini”. Parafrasando la definizione dell’“Ideale trascendentale” della “Sezione II” del Capitolo teologico, Kant afferma anche qui che “il massimo è l’assolutamente perfetto”; esso soltanto “può essere pensato determinatamente, poiché si prescinde da tutte le condizioni limitative che danno una molteplicità indeterminata” (KrV B 693; III 440 [419]). La terza idea, l’idea di totalità e di completezza esaustiva, precedentemente definita come ideale singolare completamente determinato, viene ora richiamata come termine medio, come schema, che permette alla ragione di costruire il suo progetto di unità sistematica dei molteplici contenuti di esperienza. Si tratta di una “massima della ragione”, vale adire di un principio soggettivo che non è ricavato “dalla costituzione dell’oggetto, ma corrisponde all’interesse della ragione rispetto ad una data perfezione possibile della conoscenza di questo oggetto” (KrV B 694; III 441 [420]). In questo contesto il concetto di un “insieme AA.VV., Metafisica e modernità. Studi in onore di Pietro Faggiotto, Antenore, Padova 1993, pp. 167-188, che sottolinea come l’idea di unità sistematica sia una struttura già data a priori; essa sarebbe quindi unica e sempre identica a se stessa, escludendo ogni processo o sviluppo. 41 Sull’uso della terza idea come “schema” e sul rapporto di questa particolare schematizzazione con il più ampio problema dello schematismo, si rimanda alle osservazioni di R. Daval, La métaphysique de Kant, Puf, Paris 1951, pp. 181-195. Per il rapporto tra “schema” e “simbolo”, cfr. F. Marty, La naissance de la métaphysique chez Kant, cit., pp. 180 ss.

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di tutte le realtà” – che nella “Sezione II” del Capitolo teologico abbiamo visto tradotto nella rappresentazione dell’ens perfectissimum con funzione di fondamento ontoteologico – trova ora anche una applicazione più precisamente logica e gnoseologica come principio: diventa “uno schema del concetto di una cosa in generale nelle condizioni della massima unità razionale; schema che serve al raggiungimento della massima unità sistematica” (KrV B 698; III 443 [422]). Ma, conformemente ai limiti dell’ontoteologia problematica, questa unità, di cui l’idea di Dio “ci fornisce lo schema”, non ha “valore di principio costitutivo, ma solo regolativo” o euristico. Qui l’idea di Dio sta semplicemente a significare solo la richiesta della ragione che ogni connessione del mondo venga considerata in base ai principi dell’unità sistematica, cioè come se [als ob] tali connessioni derivassero tutte da un unico essere onnicomprensivo, causa suprema e onnisufficiente (KrV B 714; III 452 [430]).

Il riferimento al come se conferma la modalità ipotetica del linguaggio della metafisica critica, ma lascia intravedere anche come la funzione logica e gnoseologica della terza idea si realizzi sulla base di una schematizzazione che è di tipo analogico42. Tuttavia è la funzione gnoseologica a risultare in questo caso preminente: l’idea 42

Lo “schema” viene pensato infatti come analogo dell’“idea del maximum” (KrV B 693; III 439 [426]). In questo caso si tratta di analogia di proporzionalità, vale a dire di un rapporto o di una somiglianza tra il grado massimo (l’archetipo) e il grado inferiore (copia). Attraverso questo tipo di analogia – scrive Kant – si possono considerare “tutti i rapporti come se fossero disposizioni di una ragione suprema, di cui la nostra è una debole copia” (KrV B 706; III 447 [426]). In KrV B 723726; III 456-459 [431 s.], questo tipo di analogia viene applicato alla conoscenza di Dio ed è considerato l’elemento caratterizzante della “teologia trascendentale”. Questa linea argomentativa sarà poi ampiamente sviluppata in Prol. A 176 ss.; IV 357 ss. [165 ss.]. Per un approfondimento di questi cenni rimandiamo al lavoro di F. Marty, La naissance de la métaphysique chez Kant, cit., pp. 186 ss., e ai più recenti studi di V. Melchiorre, Analogia e analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Mursia, Milano 1991 (spec. pp. 33 ss.), e di P. Faggiotto, Introduzione alla metafisica kantiana dell’analogia, Massimo, Milano 1989 (spec. pp. 138 ss.; 149 ss.); Id., La metafisica kantiana dell’analogia. Ricerche e discussioni, Pubblicazioni di Verifiche, Trento 1996.

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di Dio è infatti pensata qui come quella forma che garantisce la “connessione legale” delle singole esperienze, che spiega l’esistenza di nessi e che rende possibile la stessa sintesi a priori dell’intelletto. Non è un caso quindi che Kant definisca il concetto trascendentale di Dio un conceptus originarius che funge da principium cognoscendi non derivatum delle cose finite, anche se non può essere concepito come principium essendi delle stesse43. 4.2. La terza idea come archetipo originario La progettazione della totalità sistematica delle conoscenze e delle esperienze in funzione dell’intelletto apre la strada subito dopo alla trattazione del problema dell’unità delle molteplici facoltà della ragione e delle sue strutture44. Anche in questo caso Kant va alla ricerca di un principio logico o trascendentale dell’“unità razionale delle regole”, che per il suo carattere di apriorità chiama “legge della ragione [das Gesetz der Vernunft]” (KrV B 679; III 447 [412]), senza il quale non potrebbe esistere ragione alcuna. Ora questo principio – a cui “in tutti i tempi si è aspirato con tanto zelo” da parte dei filosofi – viene inteso come meramente regolativo ed identificato nuovamente con l’“Ideale della ragione”. Esso rappresenta in questo caso l’ archetipo originario di un sistema completo 43 Ci riferiamo a questo proposito a quanto si legge nelle Refl. 6249, XVIII 529; 6206, XVIII 493 s. Questa concezione dell’idea di Dio come “forma” di ogni possibile attività sintetica in funzione dell’intelletto è stata sostenuta dai neokantiani, in particolare da E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, tr. it. di G. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 253, ed è poi stata ripresa da A. Philonenko, L’oeuvre de Kant, Vrin, Paris 1975, vol. I, p. 312 ss. 44 In verità il tema dell’unità delle molteplici facoltà e la ricerca dell’“identità segreta” della ragione è qui appena abbozzato. Scrive Kant: “l’idea di una facoltà fondamentale [Idee einer Grundkraft] [...] è per lo meno il problema di una rappresentazione sistematica della molteplicità delle facoltà [der Mannigfaltigkeit von Kräften] [...]. Le facoltà fondamentali relative [die komparativen Grundkräften] vanno a loro volta paragonate tra loro, per ricondurle, scoprendo il loro accordo, a una facoltà fondamentale unica e radicale, cioè assoluta [einer einzigen, radikalen, d.i. absoluten Grundkraft]” (KrV B 677; III 447 [411]). Si tratta di un tema ricorrente, che riprende quello della “radice comune” delle facoltà conoscitive, accennato in KrV B 29; III 46 [50], su cui ci limitiamo a rimandare a due testi esemplari: Metaphysik L1, XXVIII/1 228 ss.; KU B XI-XX; V 171-176 [9-18].

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non solo dei contenuti di ogni esperienza possibile, bensì anche della totalità delle regole e dei principi a priori. L’“Ideale trascendentale” diventa così il modello unico e la forma universale della ragione, la regola suprema di ogni essere ragionevole45. Scrive Kant: noi dobbiamo assumere tutto ciò che può in qualche modo far parte della connessione dell’esperienza possibile come se questa esperienza desse luogo ad una unità assoluta [...] come se gli oggetti provenissero dal prototipo di ogni ragione [aus jenem Urbilde aller Vernunft] (KrV B 700 s.; III 444 [423]).

Ma questo “prototipo” non è altro che il Prototypon transzendentale esaminato nella “Sezione II” del Capitolo teologico: è il “concetto trascendentale di Dio”, è “l’idea di qualcosa, su cui l’intera realtà empirica fonda la sua suprema e necessaria unità” (KrV B 703; 446 [425]) e la ragione la sua coerenza formale. Questo “prototipo” è “il compimento di tutte le condizioni del pensiero [die Vollendung aller Bedingungen des Denkens]”. In questo modo, insieme al problema dell’unità delle conoscenze, anche il problema dell’unità della ragione e delle sue diverse strutture trova soluzione nei limiti del suo uso speculativo mediante un preciso richiamo all’idea teologica: solo ammettendo questo “prototipo” come immagine archetipica, come rappresentazione terminale e finale oltre la quale non è possibile procedere sulla via dell’unificazione, diventa possibile infatti “procurare alla ragione il più completo appagamento” del suo interesse speculativo. Quando “la ragione pura [...] non s’occupa d’altro che di se stessa” attraverso questa occupazione autoriflessiva scopre inevitabilmente che in essa risiede “l’unità del sistema”, di cui l’Ideale trascendentale è il prototipo completo e perfetto. Infatti: “la ragione non può pensare questa unità sistematica che conferendo alla sua idea un oggetto, che però non può essere 45 Questo aspetto dell’Ideale trascendentale come forma del logos e del “progetto ragione” è stato opportunamente rilevato e discusso da M. Barale, Il Dio ragionevole. Percorsi etici e ontologici del primo idealismo tedesco, ETS Editrice, Pisa 1992, pp. 79 ss. Una tesi analoga è sostenuta anche da F. O’Farrell, art. cit., pp. 650 ss. Cfr. anche Refl. 6290, XVIII 559, in cui l’idea di Dio viene definita “die bloße Form der Vernunft”.

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dato in nessuna esperienza” (KrV B 709; III 449 [428]). E questo “oggetto”, che è il contenuto della terza idea, è l’unico ideale della ragione, è il concetto razionale di Dio quale modello o archetipo trascendentale (Urbild, Prototypon). Il problema dell’unità della ragione trova soluzione individuando il suo “fine ultimo”, il suo “scopo finale” in rapporto analogico con la perfezione assoluta e la completezza esaustiva. L’idea di Dio – presente nella ragione come “Ideale trascendentale”, come “cifra” del maximum perfectionis – assume qui una funzione più propriamente logica di principio regolativo, mantenendo però anche quella ontoteologica di fondamento: diventa l’ Ideale logicum o l’ ens logice originarium, vale a dire quell’Ideale che funge da “fondamento della teoria” 46. E in quanto è la regola logica della suprema unità formale, che orienta la ragione nella direzione della massima unità con se stessa, l’idea di Dio può essere considerata anche come il principio archetipico di ogni ragione, che delimita i confini del suo territorio e ne circoscrive l’estensione. Proprio per questo, conclude Kant, “l’ipotesi di una intelligenza suprema, causa unica dell’universo, seppur soltanto nell’idea, può sempre render vantaggio alla ragione e non nuocerle mai” (KrV B 715; III 435 [431). E tra i vantaggi immediati che questa idea comporta – e che Kant sfrutta nella “Dottrina del metodo” per disegnare l’edificio “architettonico” della ragione – vi è in primo luogo quello di guidare l’autoanalisi della ragione a riconoscere la sua radice sistematica: la ragione può costituirsi in unità perché è essa stessa “sistema”, perché in lei ha sede in forma archetipica “il concetto razionale della forma del tutto”. L’unità che essa raggiunge “sulla scorta della affinità delle parti e in base alla derivazione da un fine interno unico e supremo”, contiene al suo interno il “monogramma originario” della sua unità architettonica rappresentato dall’archetipo trascendentale (detto Umriß o monogramma). L’unità che esso analogicamente 46

Ci riferiamo a quanto si legge nelle Refl. 5270, XVIII 138 s.; 6251, XVIII 531; 6259, XVIII 534; 4113, XVII 421; 4114, XVII 422, e in Fort. A 198 s.; XX 331 s. [SC 222]. Di sfuggita, ricordiamo che anche nell’Opus postumum, XXI 37, Dio viene definito il “punto di vista supremo della filosofia trascendentale”.

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prospetta è una “idea celata nel nostro intimo”, presente nella ragione “come un germe in cui le varie parti si occultano, ancora inviluppate, e a mala pena riconoscibili dalla osservazione microscopica”, ma che – in riferimento al grado massimo di unità – diventa possibile schizzare architettonicamente in una articolazione sistematica (KrV B 861 ss.; III 538 ss. [509 ss.])47. Attraverso le riflessioni sull’unità della ragione in rapporto all’idea di totalità assoluta intesa come idea teologica Kant arriva così a svelare la vera identità della ragione finita: la sua natura “ectipa”, la quale – come “debole copia [schwaches Nachbild]” – definisce se stessa modellandosi secondo un archetipo originario che è il Prototypon transzendentale 48. Anche quando intende svelare il principio che regola l’unità della ragione la metafisica kantiana si inscrive quindi all’interno dell’ontoteologia del fondamento ipotetico, relativo e problematico, in quanto ha comunque bisogno di ricorrere al presupposto di un essere supremo, inteso come principio-fondamento archetipico e originario. La metafisica critica come autoanalisi della ragione, dovendo rispondere alla domanda circa l’unità delle sue strutture, svela così la natura derivata, contingente e finita della ragione, spiegandola come conditio ectypa attraverso il ricorso alla rappresentazione puramente ideale dell’essere originario proprio della teologia filosofica. Solo in questo modo infatti la ragione nel suo uso speculativo è in grado di ricomporre idealmente la sua unità con gli strumenti che la stessa “critica” le mette a disposizione, primo fra tutti quella notitia Dei che trova in se stessa come archetipica e che tradotta in “Ideale trascendentale” le permette di definire il “monogramma” della sua identità e della sua unità. In ogni caso però la metafisica critica, fedele alla sua costituzione problematica e ipotetica, non è in grado di rispondere all’interrogativo 47

In questo contesto Kant richiama nuovamente l’immagine dell’organismo vivente: “Il tutto è pertanto articolato (articulatio) e non ammucchiato (coacervatio); è suscettibile di crescita dall’interno (per intus susceptionem), ma non dall’esterno (per appositionem), proprio come un corpo animale, il cui accrescimento non importa alcuna aggiunta di membra, limitandosi a rendere ogni membro più forte e più idoneo ai propri fini, senza mutamento delle proporzioni” (KrV B 861; III 538 [510]).

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circa la misteriosa natura dell’archetipo, un interrogativo che verrà approfondito solo in sede etica e religiosa con l’ammissione del carattere di postulato dell’idea teologica, ma che ancora una volta si fermerà di fronte al limite invalicabile della inconoscibilità della persona Dei. Tuttavia l’esito conclusivo di questo percorso lascia intravedere che la metafisica critica – proprio mentre risolve in sede speculativa il problema dell’unità della ragione “ectipa” attraverso il riferimento analogico all’archetipo – diventa esperienza radicale del limite. Infatti ricercando l’unità in relazione con l’idea teologica, la ragione si rapporta al modello archetipico non solo come esemplare di massima perfezione, ma anche come “limite”. In questo senso l’idea di Dio diventa l’unico conceptus terminator (o Grenzbegriff) che, mettendo allo scoperto la natura “ectipa” della ragione finita, svolge la funzione di delimitare il suo dominio e la sua estensione, riconducendola unitariamente a se stessa e confermandola all’interno dei suoi confini naturali. Nella metafisica kantiana basata sull’uso speculativo della ragione Dio come archetipo compare così “soltanto sul limite di ogni uso lecito della ragione [auf der Grenze alles erlaubten Vernunftgebrauchs]”; compare nella sua archetipicità originaria solo se nell’esperienza del pensiero la ragione finita si mantiene “su quel limite”, che non può mai oltrepassare49. E diventando esperienza del limite la metafisica critica svela anche il tratto più 48 Sul rapporto tra Urbild e Nachbild, nel contesto più ampio della funzione sistematica della terza idea della ragione, ha richiamato l’attenzione C. Birckmann, Differenz oder das Denken des Denkens. Topologie der Einheitsorte im Verhältnis von Denken und Sein im Horizont der Transzendentalphilosophie Kants, Meiner, Hamburg 1996, pp. 306 ss. 49 Per il tema del “limite”, e per la distinzione tra Grenze e Schranke, cfr. Prol. A 163-175; IV 351-357 [158-167]. Per la definizione di Dio come Grenzbegriff, si veda: Metaphysik L1, XXVIII/1 308; Refl. 6214, XVII 503. Anche nell’Opus postumum Dio compare “al confine di ogni sapere” (XXI 9). Per un approfondimento di queste tematiche rimandiamo ai lavori di P. Faggiotto, “Limiti” e “confini” della conoscenza umana secondo Kant. Commento al paragrafo 57 dei “Prolegomeni”, in “Verifiche”, 15 (1986), pp. 231-242; di F. Chiereghin, La metafisica come scienza ed esperienza del limite in Kant, in “Verifiche”, 17 (1988), pp. 81-106, e di G. Ferretti, op. cit., pp. 81-113.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

interessante ed attuale della sua particolare ossatura ontoteologica, che abbiamo tentato di tratteggiare in queste pagine: il ricorso alla nozione di Dio nella funzione di “principio-fondamento”, nel suo duplice aspetto di simbolo totalizzante e di archetipo originario, non può essere interpretato come ricorso ad un “ente” oggettivabile, ma deve essere inteso come l’inevitabile richiamo ad uno spazio costitutivamente inoggettivabile, irriducibile a rappresentazioni, antropomorfiche e a tentazioni idolatriche.

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Il confronto con Platone

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II IL CONFRONTO CON PLATONE NELLA CRITICA DELLA RAGION PURA

1. Ragione critica e “storia della ragione” “Il tempo nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve sottostare” (KrV A XII; IV 9 [7])1: con quest’affermazione Kant non ha inteso assegnare una collocazione storica alla propria filosofia nel contesto della cultura del suo tempo, bensì ha voluto caratterizzare la propria posizione teoretica a partire da una particolare configurazione della ragione. L’epoca della critica è il tempo in cui al dogmatismo e allo scetticismo si è sostituita la “critica della ragion pura”, “il metodo del filosofare critico, che consiste nell’indagare il procedimento della ragione stessa, nello scomporre l’intera facoltà conoscitiva dell’uomo e nel saggiare fin dove possano arrivare i suoi limiti” (Log. A 39; IX 33 [26]). La critica è innanzitutto un modo di porsi della ragione nei confronti di se stessa, reso possibile dalla sua struttura; è quel modo per cui la ragione si assume “il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza di sé”, ed istituisce “un tribunale che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento” (KrV A XI; IV 9 [6]). Il termine “critica” indica per Kant la principale caratteristica strutturale della ragione umana finita. In questo senso la critica è innanzitutto un “uso” della ragione conforme alla sua natura, che potremmo definire er1

Cfr. anche Log. A 39; IX 33 [27]: “La nostra epoca è l’epoca della critica”.

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meneutica: è quel modo particolare che la porta a conoscere se stessa attraverso l’autoanalisi, mediante l’autointerpretazione delle proprie facoltà o capacità conoscitive. Kant non ha mai mostrato particolare interesse a spiegare il sorgere del criticismo in relazione ai sistemi filosofici del passato o a definire la collocazione della propria posizione in relazione allo sviluppo della storia della filosofia2. Le diverse concezioni filosofiche del passato (il razionalismo dogmatico, l’idealismo, l’intellettualismo, l’empirismo, lo scetticismo antico e moderno) rappresentano dal punto di vista della filosofia critica altrettanti modi possibili di “usare” o applicare le molteplici potenzialità dell’unica ragione in campo speculativo, seguendo procedure argomentative più o meno discutibili. Coerentemente con questa prospettiva, nell’opera omonima Kant ha precisato che con l’espressione “critica della ragion pura” egli non intendeva condurre “una critica dei libri e dei sistemi, ma la critica delle facoltà della ragione in generale riguardo a tutte le conoscenze alle quali essa può aspirare indipendentemente da ogni esperienza” (KrV A XII; IV 10 [7]). Nelle pagine finali dell’opera egli ha poi riassunto la sua posizione nei confronti della storia della filosofia, istituendo un singolare parallelo tra filosofia critica (o trascendentale) e storia della ragione. In quelle pagine egli traccia una sorta di “storia della ragion pura” che intende gettare “da un punto di vista meramente trascendentale, ossia dal punto di vista della natura della ragion pura, un’occhiata fugace all’insieme dei suoi lavori passati” (KrV B 880; III 550 [519]). Sembrerebbe dun2

L’unico testo in cui Kant ha affrontato con una certa ampiezza questo problema è la Preisschrift incompiuta del 1793-95: Welches sind die wirklichen Fortschritte, die die Metaphysik seit Leibnitzens und Wolff’s Zeiten in Deutschland gemacht hat?, hrsg. von F.T. Rink, Goebbels und Unzer, Königsberg 1804, XX 253-351 [Quali sono i reali progressi compiuti dalla metafisica in Germania dai tempi di Leibniz e di Wolff?, in SC 149-238]. Per la posizione di Kant nei confronti della storia della filosofia si rimanda al lavoro di S. Givone, La storia della filosofia secondo Kant, Mursia, Milano 1972, e alla documentata ricostruzione di G. Micheli, Kant storico della filosofia, Antenore, Padova 1980. Cfr. anche Id., Filosofia e storiografia: la svolta kantiana, in G. Santinello (a cura di), Storia delle Storie Generali della Filosofia, vol. 3/II, Il secondo Illuminismo e l’età kantiana, Antenore, Padova 1988, pp. 879-957.

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Il confronto con Platone

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que che la filosofia critica – riconducendo i sistemi del passato ad una fonte comune costituita dalla struttura apriorica della ragione – sostenga, di fatto, l’impossibilità di una trasmissione del sapere filosofico in forma storica, una posizione tanto più singolare se si tiene presente il contesto della cultura settecentesca tedesca, animato da vivaci interessi di carattere non esclusivamente erudito per il “mondo storico” e per la storia delle idee3. In realtà la posizione di Kant non è mai stata di totale preclusione nei confronti della storicità della teoresi filosofica in quanto tale. Certamente egli era pienamente consapevole che il filosofare nasce nell’uomo da un’esperienza esistentiva resa possibile dalla struttura della ragione umana finita. Si tratta di quella particolare “disposizione naturale [Naturanlage]” (KrV B 22; III 41 [46]) che da sempre tormenta la ragione con interrogativi che essa non può evitare “perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni suo potere” (KrV A VII; IV 7 [5]). Ora però, proprio per trovare una risposta a questi interrogativi, l’uomo si è storicamente occupato di filosofia e ha coltivato la metafisica. Quest’ultima, se a prima vista si presenta come un “campo di lotte senza fine” (KrV A VIII; IV 8 [5]), un ammasso di “edifici, ma soltanto in rovina” (KrV B 880; III 550 [519]), ad una considerazione più approfondita può essere considerata come l’insieme delle possibili risposte o soluzioni parziali date nel corso delle diverse epoche agli interrogativi che da sempre la ragione si pone. In questo modo questa “disposizione naturale” si collega inevitabilmente alla “storia della metafisica”, o alla storia del pensiero filosofico nelle diverse fasi del suo sviluppo diacronico. Questo nesso tra storia della metafisica e struttura interrogante della ragione è alla base del costante rimando della teoresi filosofica alla storia della filosofia, della filosofia critica alla storia della ragione, che arricchisce e spesso sorregge il discorso argomentativo kantiano in molte pagine delle opere pubblicate e soprattutto nelle 3 Per un primo orientamento rimandiamo a quanto si legge sulla scoperta del “mondo storico” nel Settecento tedesco in E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, tr. it. di E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 277-324.

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lezioni. Possiamo quindi affermare che, se Kant non assegna di per sé grande importanza alla storia generale della filosofia nel suo sviluppo diacronico, esiste comunque per lui una memoria storica del filosofare interno alla struttura della ragione che riguarda la tipologia dei problemi. Nasce così per la filosofia critica la possibilità di un confronto in forma dialettica con le singole risposte fornite dai sistemi del passato ai diversi interrogativi che assillano costantemente la ragione e che costituiscono la metafisica come disciplina autonoma. Quest’impostazione metodologica viene applicata rigorosamente nella prima Critica. Qui i riferimenti ai diversi autori del passato o a quelli contemporanei non trovano una apposita trattazione storica, ma sono disseminati lungo tutto il testo. Gli autori – considerati vere e proprie auctoritates – vengono citati a seconda del problema in questione come portatori di contributi alla soluzione del problema stesso, oppure per essere ampiamente confutati. Senza la pretesa di essere minimamente esaurienti, ci limitiamo qui a segnalare alcuni esempi di questo procedimento che pone in parallelo teoresi filosofica e sapere storico e che utilizza quest’ultimo nella costruzione del discorso argomentativo della filosofia trascendentale4. Nel testo della Critica Hume è ampiamente presente nella “Introduzione”, nel contesto della elaborazione della distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici, e poi in più punti della “Analitica” (esplicitamente a proposito della critica alla deduzione dall’esperienza dei concetti puri dell’intelletto, implicitamente nella trattazione della seconda analogia dell’esperienza); infine nella “Disciplina”, nel contesto delle considerazioni sullo scetticismo. Newton è sottinteso nella “Estetica” laddove viene confutata la teoria dello spazio assoluto. 4

Come ha giustamente osservato G. Micheli, Filosofia e storiografia: la svolta kantiana, cit., p. 882: “Indagine trascendentale e ricognizione storiografica si sviluppano in parallelo e la critica della ragione consente di cogliere un ordine logico nel caos dei sistemi, e di ricavare una sorta di storia tipologica delle dottrine filosofiche”. Cfr. anche p. 936. Secondo noi questo parallelismo tra ragione teoretica e ragione interpretante è possibile in Kant proprio perché la ragione è di per se stessa autointerpretante o ermeneutica.

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Berkeley e Cartesio trovano posto nella “confutazione dell’idealismo”; ma il filosofo francese viene poi ampiamente criticato anche nella “Dialettica” a proposito del paralogismo della sostanza e dell’argomento ontologico. Aristotele viene richiamato all’inizio della “Logica” a proposito della definizione della tavola delle categorie, mentre nella “Anfibolia” troviamo molti riferimenti all’intellettualismo di Leibniz. Per quanto riguarda la presenza di Platone, registriamo che egli compare sia nelle pagine della “Introduzione”, sia in quelle conclusive della “Dottrina del metodo”, in due passi che si richiamano a vicenda e che offrono una valutazione complessiva della gnoseologia platonica e dei suoi presupposti ontologici. Nella “Dialettica” troviamo poi un confronto diretto con la teoria platonica delle idee a proposito dell’elaborazione della nozione di “idee della ragione”. In questo caso si tratta di un riferimento puntuale, che può essere considerato esemplare per verificare concretamente come si articoli all’interno del testo kantiano il rapporto tra teoresi filosofica e storia della filosofia e per valutare il ruolo assegnato da Kant ai riferimenti storiografici5. Vale dunque la pena di esaminare da vicino questo confronto, dopo aver premesso alcune brevi considerazioni di carattere più generale intorno all’immagine che Kant ci offre del filosofo greco negli altri passi della Critica ricordati e nelle lezioni.

2. L’immagine di Platone “filosofo intellettualista” Volendo tratteggiare a grandi linee l’articolazione che assume il 5 Nella prima Critica i riferimenti espliciti a Platone si trovano nei seguenti passi: KrV B 9; III 32 [38]; B 370-373; III 246-248 [246-249]; B 499 s.; III 327 s. [315]; B 530; III 345 [331]; B 596 s.; III 383 s. [366]; B 881 s.; III 550 s. [520 s.]. Inoltre possiamo rintracciare alcuni riferimenti impliciti, tra i quali ci limitiamo a segnalare in primo luogo un passo dell’“Introduzione” (B 15 s.; III 37 [42 s.]), in cui vengono definiti i giudizi sintetici a priori e viene ripreso l’esempio socratico del 7 + 5 = 12 da Theaet., 195e-196b. In secondo luogo ricordiamo il passo (B 306; III 209 [208]), in cui viene introdotta la nozione di Verstandeswesen o noumena, che riprende Tim., 51 d.

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confronto di Kant con la filosofia di Platone limitatamente all’aspetto teoretico e gnoseologico, possiamo individuare i seguenti punti di contatto. Nelle lezioni di logica e di metafisica Platone viene spesso preso in considerazione laddove Kant tratta della nascita della filosofia. Da questo punto di vista egli avrebbe dato un contributo positivo alla costituzione di questa disciplina come scienza con la scoperta del sovrasensibile, vale a dire istituendo la distinzione metafisica tra mondo intelligibile e mondo sensibile, tra fenomeni e noumeni e, di conseguenza, tra due forme distinte di conoscenza. Tuttavia in molti scritti kantiani, oltre che nella prima Critica, Platone viene ripetutamente criticato per quanto riguarda il modo di intendere la conoscenza intellettuale. Sotto accusa è la concezione dell’intelletto, considerato capace di cogliere gli oggetti in se stessi, una concezione che non terrebbe conto della fondamentale distinzione tra fenomeni e noumeni e che rende la gnoseologia platonica intellettualistica e dogmatica. Essa infatti ammette un intelletto intuitivo (un “intelletto puro [reiner Verstand]” senza limitazioni e quindi “sovraumano”, rispetto al quale gli oggetti non sono dati, bensì creati); proprio per questo darebbe luogo ad una forma di intuizionismo di tipo iniziatico o “mistico” agli occhi di Kant oltremodo pericoloso, in quanto sostituirebbe alla discorsività razionale il fantasticare esaltato e incontrollato (la Schwärmerei)6. 6 Questa critica è presente in molti passi delle opere e delle lezioni in cui Kant parla di Platone e del platonismo, ma è ampiamente sviluppata e argomentata nel saggio Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, in “Berlinische Monatsschrift”, maggio 1796, 387-426; VII 387-406 [D’un tono da signori assunto di recente in filosofia, in SC 255-273]. Si tratta dello scritto rivolto contro Johan Georg Schlosser, esponente di spicco (insieme al conte F.L. von Stolberg) del circolo platonico di Münster, e traduttore delle lettere di Platone (tra cui la Lettera VII, i cui contenuti Kant critica esplicitamente e di cui mette in dubbio anche l’autenticità). Cfr. Plato’s Briefe nebst einer historischen Einleitung und Anmerkungen, Nicolovius, Königsberg 1795. Purtroppo non possiamo soffermarci su questo testo kantiano, importantissimo per ricostruire il rapporto con Platone, e sul contesto della Plato-Renaissance in cui si inserisce. A questo proposito ci limitiamo a rimandare alle puntuali informazioni di M. Wundt, Die deutsche Schulphilosophie im Zeitalter der Aufklärung, Olms, Hildesheim 19672, p. 319 e pp. 339-341, e al più

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Infine nella “Dialettica” della prima Critica la concezione platonica dell’idea diventa un punto di riferimento positivo nella elaborazione della distinzione tra intelletto e ragione; essa viene richiamata sia nella definizione dei concetti puri della ragione (o “idee trascendentali”), sia nella trattazione della nozione di “Ideale”. Rimandando la trattazione dell’ultimo punto al paragrafo successivo, passiamo ora ad esaminare brevemente i primi due punti, dai quali emergono alcuni tratti essenziali dell’immagine complessiva che Kant offre del platonismo per quanto riguarda l’ambito delimitato della teoria della conoscenza7. Come possiamo desumere da molte osservazioni sparse nelle lezioni di logica e di metafisica, secondo Kant i Greci furono i primi a distinguere “tra gli oggetti dei sensi e quelli del puro intelletto […] dei quali i primi erano chiamati sensibilia o phaenomena, mentre i secondi, cioè gli oggetti dell’intelletto, erano chiamati intelligibilia o noo⁄mena” 8. In questa fase, secondo Kant, Platone ebbe il merito di sviluppare una filosofia “teoretica” basata non sull’“uso comune”, ma sull’“uso speculativo della ragione […] dove la conoscenza razionale comincia a diventare filosofia” perché coglie “l’universale mediante concetti in abstracto” 9. Questo uso della ragione lo portò a suddividere la realtà in mundus sensibilis e mundus intelligibilis; a sostenere “che i concetti del mondo sensibile noi li riceviamo dagli oggetti esterni per recente libro di J.L. Vieillard-Baron, Platon et l’idealisme allemand (1770-1830), Vrin, Paris 1979. 7 Tra la vasta letteratura critica sul rapporto Kant-Platone ci limitiamo a indicare i seguenti studi: G. Mollowitz, Kants Platoauffassung, in “Kant-Studien”, 40 (1935), pp. 13-67; H. Heimsoeth, Kant und Plato, in “Kant-Studien”, 56 (1965/ 66), pp. 349-372; Id., Plato in Kants Werdegang, in AA.VV., Studien zu Kants philosophischer Entwicklung, Olms, Hildesheim 1967, pp. 124-143. 8 I. Kant, Metaphysik Volckmann, XXVIII/1, 370. Una affermazione analoga, senza nominare esplicitamente Platone, si può leggere in Prol. A 104; IV 314 [111]: “Già dai tempi più antichi della filosofia gli indagatori della ragion pura han pensato, oltre gli esseri sensibili o fenomeni (phaenomena) che costituiscono il mondo sensibile, ancora dei particolari esseri intelligibili (noumena), che dovean costituire un mondo intelligibile”. Cfr. anche KrV B X; III 9 [14], in cui si elogia il “meraviglioso popolo dei Greci” per quanto riguarda la scoperta dei concetti astratti della matematica. 9 Refl. 1635, XVI 56 s.; 1643, XVI 63.

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mezzo dei sensi, mentre i concetti del mondo intelligibile provengono dal nostro intelletto”; infine a chiamare questi ultimi col nome di idee, intendendo con esse “tutto ciò che viene conosciuto ad opera dell’intelletto” 10. Complessivamente – in contrapposizione ad Epicuro, il filosofo della sensibilità – Platone viene presentato come il filosofo delle idee e dell’intelletto puro, in quanto sostiene che “l’intelletto presenta le cose come esse sono, mentre i sensi offrono i fenomeni, che potrebbero essere diversi se noi avessimo sensi diversi” 11. Questi tratti della figura di Platone ritornano sinteticamente in un passo della “Introduzione” della prima Critica, in cui si discute il problema della metafisica come scienza di conoscenze a priori. In esso si legge tra l’altro: La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria [im luftleeren Raum]. Ed appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone troppi angusti limiti all’intelletto [dem Verstande so enge Schranken setzt]; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell’intelletto puro [in den leeren Raum des reinen Verstandes] (KrV B 8 s.; III 32 [38]).

Come risulta dal contesto in cui è inserito questo passo, secondo Kant la speculazione platonica svolge un ruolo decisivo per la nascita della filosofia come disciplina autonoma sotto forma di metafisica, vale a dire di quella “conoscenza speculativa razionale, affatto isolata, che si eleva assolutamente al di sopra degli insegnamenti dell’esperienza, e mediante semplici concetti” (KrV B 14; III 36 10

I. Kant, Logik Philippi, XXIV/1 328; Metaphysik Mrongovius, XXIX/2-2, 759-762. Cfr. anche Refl. 1636, XVI 61 s., in cui la tesi principale della filosofia platonica viene così sintetizzata: “Plato: intelligibile oppositum sensibili”. La “scuola platonica” avrebbe sviluppato una filosofia teoretica dogmatica “ex principiis rationalibus puris” e questi principi sarebbero “numerus, idea, forma”. Il suo carattere principale (insieme alla scuola pitagorica ed eleatica) sarebbe proprio la suddivisione tra mondo sensibile e intelligibile. 11 I. Kant, Metaphysik Volckmann, XXVIII/1 370. Cfr. anche Refl. 6050, XVIII 434: “Platone osservò giustamente che per mezzo dell’esperienza noi non conosciamo le cose come sono in se stesse, ma impariamo soltanto ad associare secondo leggi i loro fenomeni”.

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[16]). L’elemento innovativo, che fa della filosofia una scienza, è l’introduzione della distinzione ontologica tra mondo sensibile e mondo intelligibile e la conseguente ammissione di due generi di conoscenze tra loro distinti ed autonomi. Nella visione kantiana quindi Platone rappresenta, in primo luogo, una tappa decisiva sia nella “storia della ragione” che nella storia della metafisica proprio per la sua “fuga nei logoi”, vale a dire per aver inaugurato la “seconda navigazione” (Phaed., 99 c-d)12 ed aver introdotto la “famosa […] distinzione della conoscenza in aÑsqht¶ kaà noht£” (KrV B 36; III 51 [54]; cfr. anche A 248 s.; IV 162 [206]). Inoltre, in secondo luogo, Platone è importante anche perché è “il filosofo delle idee, cioè dell’intelletto puro [reiner Verstand]”; egli afferma “che l’intelletto ci presenta le cose come esse sono. […] Quindi l’intelletto può pronunciare giudizi su di esse”13. In questo modo, sostenendo che la conoscenza intellettuale è superiore perché è la facoltà del giudizio, Platone pose per primo, seppur in forma oscura, il “problema critico” della possibilità delle conoscenze a priori e della deduzione dei relativi concetti dalla facoltà del giudizio. Tenendo conto di queste considerazioni, alcuni studiosi hanno documentato l’importanza dell’influenza esercitata da Platone nella formazione del criticismo a partire dalla fine degli anni Sessanta, come è attestato soprattutto dalla dissertazione inaugurale del 1770, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis14. In questo 12 Per l’importanza “epocale”, e per i diversi livelli di significato di questa celebre metafora platonica, rimandiamo al libro di G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano 199113, pp. 137-227. 13 I. Kant, Metaphysik Volckmann, XXVIII/1 370. Sulla centralità del ruolo dell’intelletto e della conoscenza a priori nel platonismo cfr. anche Log. A 56; IX 42 [36]. 14 Oltre ai già citati saggi di G. Mollowitz e di H. Heimsoeth, va ricordata a questo proposito anche la ricostruzione di M. Wundt, Kant als Metaphysiker. Ein Beitrag zur Geschichte der deutschen Philosophie im 18. Jahrhundert, Enke, Stuttgart 1924, p. 162 ss. Per completezza, ricordiamo che il primo riferimento a Platone nelle opere pubblicate si trova in un passo delle Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, Kanter, Königsberg 1764, A 75; II 240 [Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, in SP 327], in cui “l’amore platonico” è definito “un po’ troppo mistico”.

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scritto, infatti, Kant espone per la prima volta pubblicamente la fondamentale differenziazione tra sensibilità e intelletto, tra intuizione e concetto, facendo più volte esplicito riferimento alla distinzione platonica tra t’ oñ n aÑsqht“n e t’ oñ n noht“n. Criticando la dottrina della differenza di grado delle rappresentazioni conoscitive, propria della gnoseologia leibniziana e wolffiana, Kant si richiama proprio al filosofo greco per sostenere che la conoscenza sensibile e quella intellettuale sono differenti non per grado, ma per genere. La distinzione tra sensibilità (sensualitas) e intelligenza (rationalitas), tra cognitio sensitiva e cognitio intellectualis, si basa proprio sulla differente natura dei rispettivi oggetti, chiamati qui per la prima volta con una terminologia platonica phaenomena e noumena15. Essi cadono all’interno di due diverse regioni dell’essere (rispettivamente il mundus sensibilis e il mundus intelligibilis) ontologicamente distinte. Ritornando al passo tratto dall’“Introduzione” della prima Critica, non possiamo fare a meno di notare che la scoperta del mondo sovrasensibile, attribuita a Platone, è subito accompagnata da una serie di considerazioni critiche, che riguardano il modo di intendere l’intelligibile e la conoscenza intellettuale. Infatti, Kant nota che Platone “abbandonò il mondo sensibile […] e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell’intelletto puro”. Ma in questo modo “egli non si accorse che non guadagnava strada, malgrado i suoi sforzi; giacché non aveva, per così dire, nessun appoggio, sul quale potesse sostenersi e a cui potesse applicare le sue forze per muovere l’intelletto” (KrV B 9; III 33 [38]). 15

I. Kant, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, Kanter, Königsberg 1770, A 7; II 391 [La forma e i principi del mondo sensibile e del mondo intelligibile, in SP 427]. Kant era consapevole che, reintroducendo la distinzione ontologica e gnoseologica di fenomeno e noumeno, si riallacciava ad una tradizione metafisica che aveva origini nel pensiero greco. Infatti nella dissertazione (A 10; II 395 [SP 431]) nota con rammarico che i filosofi del suo tempo hanno “abolito del tutto, con grave danno della filosofia, quella tradizione tanto nobile dell’antichità intorno alla natura dei fenomeni e dei noumeni”. Anche in KrV B 312; III 212 [211], riprendendo la distinzione tra “mondo sensibile” e “mondo intelligibile”, Kant osserva che l’uso di tale distinzione nella filosofia a lui contemporanea “si allontana del tutto dal significato degli antichi”.

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Come la “colomba leggiera” crede ingenuamente “di volare nello spazio vuoto d’aria” pur avendo bisogno di essa, così il pensiero platonico si illude di potersi muovere liberamente nel “luogo sopraceleste” (ÿperour£nioj: Phaedr., 247 c-e) in cui si trovano le idee sostenendosi sul solo intelletto puro, senza accorgersi che in questo modo oltrepassa i propri confini16. Così, sostenendo l’autonomia dell’intelletto nella determinazione dell’intelligibile e l’indipendenza della conoscenza intellettuale dal mondo sensibile, Platone diventa agli occhi di Kant il principale rappresentante dei “filosofi intellettualisti [Intellektualphilosophen]” o “noologisti [Noologisten]” 17, vale a dire di coloro che “pretendevano che i veri oggetti fossero soltanto intelligibili, e affermavano una intuizione di un intelletto puro non accompagnato da nessun senso, e, a loro avviso, dal senso soltanto confuso” (KrV B 881 s.; III 551 [520]). Per Platone la natura di tutte le idee (compreso i concetti della geometria e della matematica) non è né sensibile né logica (come era il caso delle categorie di Aristotele), ma “soprasensibile”. Ora, secondo Kant, proprio questa loro comune natura le rende in molti casi difficilmente applicabili agli oggetti dell’esperienza. Inoltre, affinché esse siano conosciute dal soggetto, occorre ammettere che questi possieda la capacità di coglierle direttamente, diventando così dotato di un intellectus per intuitus simile a quello divino che, essendo creativo, contiene in se stesso le specie ideali. La teoria platonica delle idee viene dunque rifiutata perché ammette un intelletto intuitivo, capace di cogliere direttamente il contenuto eidetico, 16

Questo aspetto è sottolineato anche nella Metaphysik Mrongovius, XXIX/2-2, 762, in cui si afferma chiaramente che Platone “geht zu weit” nell’uso delle rappresentazioni dell’intelletto puro. 17 Al tempo di Kant i “noologisti” erano i cultori di quella particolare disciplina detta “noologia [Noologie]”. Con questo termine (introdotto da Calov a metà del Seicento e poi ripreso nel Settecento da Crusius) si indicava una branca della metafisica che si occupava dell’habitus noeticus, distinto da quello dianoeticus, vale a dire delle funzioni conoscitive dell’intelletto. Kant chiama in generale “noologisti” tutti coloro che sostengono che i concetti dell’intelletto non si applicano a contenuti empirici, ma sono in grado di offrirci la conoscenza delle cose in se stesse. Cfr. B. Ränsch-Trill, Noologie, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, hrsg. von J. Ritter, Schwabe, Basel-Stuttgart 1984, Bd. 6, coll. 904 ss.

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mentre per Kant l’intelletto è solo discorsivo (intellectus per conceptus): è un intelletto ectypus e non archetypus18. La filosofia platonica è dunque un “sistema intellettualistico” (KrV B 882; III 551 [521]) che prepara l’innatismo moderno di Cartesio e di Leibniz e costituisce il retroterra di ogni forma di idealismo19. Ed anche se essa nel suo complesso fornisce all’uso pratico della ragione “principi eccellenti”, per quanto concerne l’uso speculativo rappresenta un modello negativo, perché “permette alla ragione d’appigliarsi a spiegazioni idealistiche dei fenomeni naturali e di tralasciare rispetto ad essi la ricerca fisica” (KrV B 499; III 327 [315])20. Queste considerazioni portano Kant a concludere che il platonismo, proprio perché ammette l’intelletto intuitivo, è costretto a spiegare la conoscenza ricorrendo ad un essere superiore (Dio), rispetto al quale 18

Per la fondamentale distinzione tra intuizione e concetto, ovvero tra sensibilità (facoltà intuitiva) e intelletto (facoltà discorsiva), cfr. KrV B 71 s.; III 72 [75]; B 75; III 75 [78]; B 92 s.; III 85 [89]. Sul carattere non intuitivo dell’intelletto insistono i §§ 21-25 della deduzione nella seconda edizione (KrV B 144-159; III 115-124 [117-125]), al fine di spiegare la sua funzione sintetica, che altrimenti risulterebbe impossibile. Tuttavia è interessante notare come in queste pagine Kant utilizzi spesso la nozione di “intelletto intuitivo” (considerato sovrumano o divino e che proprio per questo motivo non compirebbe la sintesi categoriale essendo già ricco di tutti gli oggetti singoli) come termine di paragone per definire la natura dell’intelletto umano finito e il limite dell’uso delle categorie. In questo si potrebbe vedere una utilizzazione in positivo della nozione tanto criticata di intelletto archetipo propria del platonismo. Per questa critica rimandiamo anche a Prol. A 207; IV 375 [191]; Metaphysik Volckmann, XXVIII/1, 371 s.; Refl. 4347, XVII 492; 4449, XVII 514; 4451, XVII 556. 19 Proprio per questo nella “Anfibolia” i caratteri intellettualistici della filosofia di Leibniz sono gli stessi del platonismo: cfr. KrV B 320-328; III 217-221 [216220]. La dipendenza di Leibniz da Platone è trattata con una certa ampiezza anche nella Metaphysik Mrongovius, XXIX/2-2, 761. Per l’accusa di intellettualismo rivolta a Platone cfr. anche Logik Blomberg, XVIV/1, 207, e Refl. 4894, XVIII 21. Per l’accusa di “schwärmerischer Idealism” cfr. Prol. A 207; IV 375 [191]. 20 Complessivamente dello stesso tenore è anche il riferimento che si legge in KU B 273; V 363 [230 s.], in cui Platone viene elogiato per le sue conoscenze di matematica e geometria, ma viene criticato per aver voluto scoprire “la costituzione originaria delle cose” facendo a meno di ogni esperienza. Per un approfondimento di questo aspetto si rimanda al saggio di S. Marcucci, Il significato “teorico” dell’elogio di Kant a Platone nel § 62 della “Kritik der Urteilskraft”, in AA.VV., Sapienza antica. Studi in onore di Domenico Pesce, F. Angeli, Milano 1985, pp. 364-371.

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tutti gli oggetti non sono dati, bensì creati. Tali oggetti sono le idee che si trovano nell’intelletto divino e sono colte direttamente come “cose in sé” (vale a dire come “noumeni in senso positivo”) e non come semplici “fenomeni”. E proprio perché si regge sull’intuizione intellettuale delle idee il platonismo è considerato un “sistema mistico”, vale a dire è una teoria della conoscenza basata sulla illuminazione interiore ad opera della scintilla divina21. Si tratta di una posizione filosofica che Kant intende combattere perché – oltre ad essere stata ripresa nella filosofia dell’età moderna dal razionalismo di Malebranche22 – è alla base del fideismo di Jacobi. In particolare, il tratto “mistico”, dovuto alla presenza della illuminazione, si collega anche ad un tratto “misteriosofico”, rappresentato dal ricorso alle dottrine di origine orfica sull’immortalità dell’anima e sulla reminiscenza, con le quali Platone spiegava la visione diretta delle entità intelligibili nel mondo delle idee23. In verità, le basi per la formulazione di queste critiche alla gno21

Il riferimento è alla Lettera VII, 341 c-d. Una critica articolata a questo aspetto “iniziatico” del platonismo si trova nello scritto Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, cit., A 408; VIII 398 [SC 266]. 22 Per il rapporto diretto tra Platone e Malebranche va tenuto presente quanto si legge nello scolio al § 22 della dissertazione: De mundi sensibilis atque intelligibilis, cit., A 28; II 410 [SP 450]. Nella Refl. 4275, XVII 492, i due autori vengono accomunati perché spiegano i principi della ragione “per intuitu intellectuali”. Per l’accusa di misticismo si veda anche Metaphysik von Schön, XXVIII/1, 467, e le Refl. 1629, XVI 50; 6055, XVIII 439. 23 Questo riferimento alla reminiscenza è ampiamente spiegato nella Metaphysik Volckmann, XXVIII/1, 371: “[Per Platone] noi, prima di unirci ai corpi, saremmo stati partecipi di una intuizione divina, dalla quale avremmo avuto tutti i concetti. […] Noi siamo rinchiusi nel corpo, quasi come in un carcere, e da questo siamo impediti nell’intuizione di Dio e delle cose divine. Noi dunque non avremmo che rappresentazioni del tipo di quelle degli animali, se non ci ricordassimo di quella antica intuizione dell’anima umana, avuta la quale essa fu calata in un corpo umano”. Si veda anche ivi, 374 s. e Refl. 6050, XVIII 434, in cui si afferma che le idee platoniche sono rappresentazioni originarie, sono idea archetypa, che noi uomini non siamo in grado di produrre e che quindi si trovano soltanto nell’ente originario. Come tali esse non sono concetti, ma “intuizioni immediate degli archetipi nell’intelletto divino”, che noi possiamo solamente cogliere con fatica attraverso “semplici reminiscenze [Wiedererinnerungen] delle antiche idee”. Di contenuto analogo sono anche i passi che si leggono nella Metaphysik L1, XXVIII/1, 175.

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seologia platonica erano state poste già alcuni anni addietro nella dissertazione, dove al § 25, introducendo la distinzione tra intuizione sensibile e intuizione intellettuale, Kant aveva criticato esplicitamente la “intuizione intellettuale pura, non soggetta alle leggi della sensibilità, come l’intuizione divina che Platone chiama idea” 24. Un altro importante accenno in tal senso si trova anche nella celebre lettera al medico berlinese Marcus Herz del 21 febbraio 1772, nel contesto della discussione sulla validità oggettiva dei concetti puri dell’intelletto. Platone proporrebbe un tentativo di soluzione del problema della “deduzione” che Kant rifiuta apertamente. Egli, infatti “ammise come fonte originaria dei concetti puri dell’intelletto e dei principi un’antecedente intuizione intellettuale della divinità” 25, mentre per Kant – come abbiamo già visto dall’esame della Critica – l’intuizione è solo sensibile e l’intelletto solo derivato. Sulla base di questi testi l’immagine di Platone che Kant ci presenta, limitatamente al contesto della filosofia speculativa, è quella del capofila degli Intellektualphilosophen dogmatici, in compagnia di Leibniz e della scolastica razionalista e in contrapposizione ad Epicuro e ad Aristotele, “il capo degli empiristi” (KrV B 882; III 551 [521]; cfr. anche B 499-500; III 327 [315]). La gnoseologia platonica rappresenta quindi una soluzione apparente del problema che la ragione si pone intorno alle sue possibilità conoscitive scientificamente fondate. Si tratta di un tentativo che Kant intende dimostrare erroneo e di conseguenza superare. La critica di misticismo poi – dovuta all’identificazione dell’intelletto intuitivo con l’intelletto divino e all’interpretazione delle idee come pensieri della mente divina – mette in luce come l’immagine del filosofo greco proposta sia fortemente influenzata dal medioplatonismo di Albino26 e dalla tra24

I. Kant, De mundi sensibilis atque intelligibilis, cit., A 31; II 413 [SP 453]. X 133; [Ep. 68]. 26 Infatti tra i caratteri principali dell’immagine di Platone tramandata dal medioplatonismo (ed in particolare dall’Epitomé e dal Didaskalikós di Albino di Smirne) vi è proprio la concezione delle idee come pensieri prodotti dall’attività dell’intelletto divino. Cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano 19929, vol. IV, pp. 336-341. Ricordiamo che ancora in R. Goclenius, Lexicon Philosophicum, Frankfurt. a.M. 1613, rist. anast., Olms, Hildesheim 1964, pp. 20825

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dizione agostiniana, secondo una vulgata storiografica presente nei manuali utilizzati da Kant nello studio della filosofia antica27. Si tratta di un fatto singolare, che dimostra come il confronto con le filosofie del passato non possa mai rinunciare totalmente alla trasmissione del sapere ad opera di consolidate tradizioni, anche quando tale confronto vuole essere condotto dal “punto di vista meramente trascendentale” proprio della storia della ragion pura.

3. Idee platoniche e idee trascendentali Nel “Libro I” della “Dialettica trascendentale” Kant sviluppa un confronto puntuale con la filosofia platonica nel quadro della distinzione tra concetti puri dell’intelletto e concetti puri della ragione, mostrando come di fatto teoresi filosofica e memoria storica possano procedere in parallelo con fecondità di risultati. Infatti, qui Kant arriva a definire la sua nozione di idea al seguito di una approfondita discussione con l’originaria concezione platonica, tentando di ripensarne liberamente alcuni tratti caratterizzanti28. 210, trova ampio spazio una interpretazione delle idee platoniche come rationes o causae rerum presenti nella mente del Creatore, con riferimento ad Agostino e a Gabriel Biel. 27 G. Mollowitz, art. cit., pp. 18-39, ha dimostrato, attraverso il confronto dei testi, la dipendenza di questa immagine di Platone dal manuale di J. Brucker, Historia critica philosophiae a mundi incunabulis ad nostra usque aetatem deducta, 5 voll., Lipsiae 1742-1744, II ed. 1767 (su Platone, vol. I, pp. 627-728: “De Platone eiusque philosophia”). Si tratta dell’autore che Kant nomina esplicitamente in KrV B 372; III 247 [248], in riferimento alla teoria platonica delle idee. Non è possibile discutere qui questa tesi di Mollowitz, che arriva a sostenere che Kant non avrebbe mai letto direttamente Platone, ma si sarebbe basato esclusivamente sull’esposizione di Brucker e di altri autori (come J.G.H. Feder), da lui dipendenti. Sull’importanza del manuale di Brucker rimandiamo alle documentate ricerche di M. Longo, Le storie generali della filosofia in Germania, in G. Santinello (a cura di), Storia delle Storie Generali della Filosofia, vol. 2., La Scuola, Brescia 1979, pp. 527-635. 28 È quanto sostiene, attraverso una puntuale analisi di diversi testi, N. Hinske, Kants Anverwandlung des ursprünglichen Sinnes von Idee, in M. Fattori e M. L. Bianchi (a cura di), Idea, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1990, pp. 317-327. Secondo Hinske, Kant opera un profondo rinnovamento della nozione di idea, distanziando-

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Nella “Introduzione” che apre il “Libro I”, dopo aver distinto la ragione in senso stretto dall’intelletto e dopo averla definita come la “facoltà dei principi” attraverso cui si conosce “il particolare nel generale mediante concetti” (KrV B 356 s.; III 238 [239]), Kant specifica che la ragione “non si indirizza mai immediatamente all’esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all’intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un’unità a priori per via di concetti” (KrV B 359; III 240 [240]). Passa poi a precisare i caratteri di questi particolari “concetti della ragione” (o “concetti razionali [Vernunftbegriffe]”. È questo l’argomento dell’intero “Libro I”, suddiviso in tre “Sezioni”. Kant inizia osservando che i concetti puri della ragione non si riferiscono mai all’esperienza e non vengono mai riempiti da un contenuto intuitivo di origine empirica. Per questo essi possono venir indicati col “nuovo nome” di “Idee trascendentali” (KrV B 368; III 245 [246]). Nella “Sezione I” (dal titolo “Delle idee in generale”) Kant cerca di spiegare e giustificare tale denominazione29. Egli è perfettamente consapevole che l’introduzione del termine “idea” non equivale a “coniare nuovi termini”, ma intende riscoprire l’antico significato di un concetto filosofico sedimentato “in una lingua morta e dotta” nel corso di una lunga tradizione. Questa riscoperta non può quindi ignorare le diverse tappe della trasmissione storica – della Wirkungsgeschichte – che hanno segnato per secoli questo concetto fondamentale del linguaggio della metafisica. Infatti, è con consapevolezza critica di questo stratificato processo storico che si sia dalla concezione moderna di idea-rappresentazione (propria di Cartesio e di Locke), sia dalla concezione classica del realismo. Tra le fonti utilizzati da Kant per ricostruire la storia del concetto di idea M. Wundt, Kant als Metaphysiker, cit., p. 217 non esclude la possibile influenza del trattato di J. Brucker, Historia philosophica doctrinae de ideis, Mertz et Mayer, Augsburg 1723, sulla cui importanza si rimanda a M. Longo, Le storie generali della filosofia in Germania, in G. Santinello (a cura di), op. cit., vol. 2., cit., pp. 545-551. 29 Per l’analisi dettagliata di questa “Sezione I” abbiamo tenuto costantemente presente il commento di H. Heimsoeth, Transzendentale Dialektik. Ein Komentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, de Gruyter, Berlin 1966, vol. I, pp. 31-43. 30 Probabilmente Kant ritrovava questo “ondeggiamento” nella definizione data

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Kant afferma esplicitamente di non voler seguire il significato corrente del termine “idea”, divenuto nel suo tempo “alquanto ondeggiante”, bensì di voler riprendere e “consolidare [befestigen] il significato che originariamente le era proprio”, anzi “di conservargli il suo significato peculiare, con ogni cura [seine eigentümliche Bedeutung sorgfältig aufzubehalten]” (KrV B 369; III 246 [246])30. Ora, secondo Kant, per recuperare il “significato originario [ursprüngliche Bedeutung]” (KrV B 376; III 249 [250]) del termine “idea” occorre ritornare a Platone e confrontarsi con la sua teoria delle idee. Tale confronto si sviluppa dettagliatamente in questa “Sezione I” (KrV B 370 ss.; III 246 ss. [246 ss.]) sulla base di un presupposto ermeneutico profondamente innovativo nella cultura filosofica settecentesca, che vale la pena di ricordare perché risulta decisivo per valutarne l’esito complessivo. Questo presupposto consiste nel sostituire al principio della intentio auctoris il primato dell’oggetto, ovvero del contenuto teorico in questione31. Tale predal “celebre Wolff”, che considera l’idea una rappresentazione nello stesso tempo soggettiva e oggettiva: Ch. Wolff, Psychologia empirica, in Gesammelte Werke, II. Abt., Bd. 5, Olms, Hildesheim 1968, § 48: “repraesentatio rei dicitur idea, quatenus rem quandam refert, seu quatenus objective consideratur”. In realtà l’ambiguità di questa definizione wolffiana ricalca quella di Cartesio, che intendeva per idea l’oggetto interno del pensiero in generale, il contenuto dell’atto di pensare. Ogni idea ha per Cartesio una realtà soggettiva o mentale, ma ha anche una realtà che egli (ancora scolasticamente) chiama obiettiva, in quanto rappresenta l’oggetto: R. Cartesio, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1992, vol. 2, p. 35 s.; 38 s.; 148 s. Questa concezione si ritrova in Leibniz ed era stata in precedenza diffusa anche da Locke, per il quale l’idea è l’oggetto immediato del pensiero, è ciò che si trova contenuto nel pensiero. Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelligenza umana, tr. it. di C. Pellizzi, Laterza, Roma-Bari 1988, vol. 1, p. 95 ss. Certamente il carattere trascendentale dell’idea kantiana rappresenta un ripensamento ed un approfondimento di questa concezione. 31 Come è noto, il principio della intentio auctoris era il presupposto metodico consolidato dell’ermeneutica settecentesca, teorizzato da G.F. Meier, mentre la tesi secondo cui un autore può essere compreso dall’interprete meglio di quanto egli non abbia compreso se stesso è una delle tesi caratterizzanti dell’ermeneutica romantica: cfr. M. Ravera (a cura di), Il pensiero ermeneutico, Marietti, Genova 1986, pp. 57, 72, 89. Per un approfondimento di queste tematiche ermeneutiche nel contesto più ampio della filosofia trascendentale rimandiamo alle analisi sviluppate nel Capitolo IV: cfr. infra, pp. 152-159.

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supposto viene enunciato chiaramente con queste parole: Mi limito a fare osservare come non vi sia nulla di insolito – sia nella conversazione comune come negli scritti, e sia attraverso il confronto dei pensieri [Vergleichung der Gedanken] che un autore esprime sul suo oggetto – nel fatto di riuscire a comprendere l’autore in questione magari meglio di quanto egli abbia compreso se stesso [ihn sogar besser zu verstehen, als er sich selbst verstand]. Può infatti accadere che egli non abbia sufficientemente determinato il proprio concetto, con la conseguenza di parlare talvolta, o anche di pensare, in modo opposto alla sua propria intenzione [seiner eigenen Absicht entgegen] (KrV B 370; III 246 [247]).

Questa indicazione metodica generale ci suggerisce che nella Critica il confronto di Kant con Platone si sviluppa come un “confronto di pensieri [Vergleichung der Gedanken]”, con la pretesa di voler comprendere l’oggetto su cui verte la speculazione del filosofo greco meglio di quanto egli non abbia saputo fare, al fine di determinare meglio (magari anche “in modo opposto” alle sue intenzioni) i concetti da lui stesso usati, primo fra tutti la fondamentale nozione di “idea”. Si tratta quindi di un “confronto” di pensieri e tra pensieri appartenenti a pensatori diversi, accomunati dalla particolare attenzione ai contenuti teorici, alla Sache selbst che mette in questione il pensiero stesso e rende possibile il dialogo. Questa impostazione ermeneutica – che prescinde da considerazioni biografiche o psicologiche circa la genesi dell’opera di un autore – si ritrova già nel primo passo del testo che apre la discussione con la filosofia platonica, indirizzando il confronto su un punto determinato: la nozione di “idea”. Anche se Kant premette di non voler entrare “qui in una indagine letteraria per stabilire il senso che il sublime filosofo [der erhabene Philosoph] annetteva a quella espressione”, egli chiarisce subito che: Platone si servì dell’espressione idea [Idee] in modo che si vede bene che per essa egli intendeva qualcosa che non soltanto non è ricavato mai dai sensi [niemals von den Sinnen entlehnt wird], ma sorpassa [übersteigt] anche di gran lunga i concetti dell’intelletto, di cui si occupò Aristotele, in quanto che nell’esperienza non si incontra mai

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nulla che vi sia adeguato [indem in der Erfahrung niemals etwas damit Kongruierendes angetroffen wird]. Le idee sono per lui gli archetipi delle cose stesse [Urbilder der Dinge selbst], e non semplici chiavi per le esperienze possibili [Schlüssel zu moglichen Erfahrungen], come le categorie (KrV B 370; III 246 [246 s.]).

Questo primo riferimento a Platone permette di reperire due importanti caratteri del significato originario di idea. In primo luogo “idea” è una immagine a priori il cui contenuto è un intelligibeller Gegenstand, vale a dire un contenuto noematico autonomo che non è ricevuto dai sensi, ma che la spontanea attività del pensiero si trova inevitabilmente di fronte nella sua attività raziocinante. In secondo luogo l’idea si distingue dalla categoria perché non è applicabile sinteticamente a contenuti sensibili; infatti essa “sorpassa di gran lunga i concetti dell’intelletto […] in quanto che nell’esperienza non si incontra mai nulla che vi sia adeguato” e proprio per questo assume rispetto all’esperienza un valore esemplare in grado di produrre una unificazione più completa. Kant accetta questi due caratteri che secondo lui sono propri dell’idea platonica, ma in questo contesto insiste in modo particolare sul secondo, perché gli permette di marcare la distinzione tra intelletto e ragione, tra categorie e Vernunftbegriffe, sottolineando l’archetipicità di quest’ultime. Precisa infatti: “Le idee sono per lui [per Platone] gli archetipi [Urbilder] delle cose stesse, e non semplici chiavi per le esperienze possibili, come le categorie”. Nel complesso, quindi, il richiamo a Platone è in questo primo passo sostanzialmente positivo e permette a Kant di definire la nozione di “idea in generale”, fissando alcuni caratteri di questo termine derivati dalla originaria nozione greca che egli intende mantenere (quali l’indipendenza dall’esperienza, la conseguente natura intelligibile o “noumenica” e l’esemplarità)32. 32

È importante osservare come la distinzione tra “categorie” e “idee” sia il punto di partenza che permette a Kant di recuperare alcuni caratteri essenziali della nozione platonica di “idea”. Infatti, come si legge in Log. A 140; IX 92 [84], le categorie sono concetti che operano sintesi e che hanno rapporti con oggetti, mentre “i concetti razionali o idee non possono affatto condurre a oggetti effettivi”. I caratteri sopra ricordati della nozione di “idea” sono rimarcati anche nella Philosophische Religionslehre Pölitz, XXVIII/2-2, 1058 s. [LFR 187]: “La parola idea significa propria-

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In questo senso le idee della ragione recuperano il significato platonico di par£deigma e mantengono la funzione di unificare il molteplice sensibile ad un livello più alto rispetto all’ambito del condizionato. Possiamo quindi affermare che nelle idee platoniche Kant vede espressa storicamente l’esigenza strutturale della ragione di superare l’ambito ristretto dell’intelletto e della relativa sintesi categoriale legata al materiale sensibile, per innalzarsi a pensieri onnicomprensivi, unificanti e totalizzanti che hanno un valore archetipico o regolativo nell’orientare la costruzione della conoscenza in generale e che proprio per questo non trovano mai un contenuto materiale ad essi corrispondente33. A questo punto il confronto si approfondisce. Kant entra nel merito della dottrina platonica delle idee e scrive: Secondo il suo pensiero, esse [le idee] emanarono dalla ragione suprema [flossen sie aus den höchsten Vernunft aus], donde vennero partecipate alla ragione umana, la quale, per altro, non si trova più nel suo stato originario, ma deve a fatica richiamare le antiche idee, ora molto oscurate, per mezzo della reminiscenza [durch Erinnerung zurückrufen muß] (cioè la filosofia)” (KrV B 370; III 246 [247]).

In questo passo viene ripresa la critica all’origine delle idee. Per spiegare tale origine Platone chiamerebbe in causa l’intelletto divino (la “ragione suprema”), ma questo comporterebbe che le idee, “per essere partecipate alla ragione umana” dovrebbero provenire da mente simulacrum, e nella filosofia umana essa significa un concetto di ragione, proprio in quanto nessuna esperienza possibile può essere adeguata ad essa”. Sulla nozione di idea si veda anche Metaphysik L2, XXVIII/2-1, 577, e Refl. 2835, XVI 536-538. 33 Per la definizione dell’idea platonica come par£deigma , secondo cui le cose sensibili sono strutturate, rimandiamo ad Euthyphr., 6 d-e. Qui l’idea (sia come Ñdöa, sia come eçdoj) è presente come mÖa Ñdöa e non indica affatto il concetto di santità, quanto l’unità essenziale per la quale tutto ciò che è santo può essere tale. È “la forma per cui tutte le azioni sante sono sante”. Questa unica idea, che unifica tutte le azioni sante, è detta “modello” (par£deigma). Anche in Parm., 132 a-d, si parla di õn úkaston eçdoj che è mÖa Ñdöa e le údh sono dette par£deigma, “esemplari delle cose naturali”. Su questo significato dell’idea platonica, e su altri affini, rimandiamo a D. Ross, Platone e la teoria delle idee, tr. it. di G. Giorgini, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 35-47; 291-294, e a G. Reale, op. cit., pp. 159-189.

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Dio, vale a dire dovrebbero ausfliessen (“fuoriuscire”, “sgorgare”), secondo una immagine che richiama la dottrina neoplatonica dell’emanazione. Ritroviamo qui elencate le principali critiche alla gnoseologia platonica che contribuiscono a delineare l’immagine del “sublime filosofo” già richiamata nel paragrafo precedente. Esse possono essere integrate con quanto si legge nella nota ad un successivo capoverso, in cui la “deduzione delle idee” dall’intelletto divino, definita anche qui “mistica”, viene criticata in rapporto alla concezione della matematica34. Platone, obietta Kant, estese il suo concetto di idea a tutte le conoscenze speculative, quando esse fossero soltanto pure e date completamente a priori, e perfino alla matematica, sebbene questa non abbia il suo oggetto altrove che nell’esperienza possibile. Ora in ciò io non posso seguirlo, come non posso seguirlo nella deduzione mistica di queste idee, o nelle esagerazioni, onde egli in un certo modo le ipostatizzava [in der mystischen Deduktion dieser Ideen, oder den Übertreibungen, dadurch er sie gleichsam hypostasierte” (KrV B 371; III 247 [247]).

Dopo aver rilevato tra le “esagerazioni” la “deduzione mistica delle idee”, il confronto procede oltre e passa a discutere la vexata quaestio dell’oggettività o dell’ipostatizzazione delle idee stesse. Kant considera il realismo ipostatizzante frutto di una lettura dogmaticamente orientata; nello stesso tempo però tende a difendere la nozione di idea come par£deigma (come Urbild o Muster), distinta dai singoli oggetti sensibili (dai “fenomeni”), dotata di un suo contenuto intelligibile unitario che è a priori (ossia “trascendentale”) ed è esemplare. Scrive Kant: Platone osservò molto bene, che la nostra attività conoscitiva sente un bisogno ben più alto di compitare semplici fenomeni secondo un’unità sintetica, per poterli leggere come esperienza, e che la nostra ragio34 La concezione platonica delle idee matematiche, ricavate da intuizioni intellettuali, viene ripetutamente criticata da Kant. Su questo aspetto, che meriterebbe una trattazione specifica, ci limitiamo a rimandare al saggio di G. Micheli, Platone e la matematica nell’interpretazione kantiana, in G. Micheli, G. Santinello (a cura di), Kant a due secoli dalla “Critica”, La Scuola, Brescia 1984, pp. 255-273.

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ne naturalmente si innalza a conoscenze, che vanno troppo in là perché un qualunque oggetto, che l’esperienza può dare, possa mai adeguarvisi [kongruieren], ma che, ciò nondimeno, hanno la loro realtà, e non sono per nulla semplici chimere [die aber nichtdestoweniger ihre Realität haben und keineswegs bloße Hirngespinste sind] (KrV B 370 s.; III 246 [247]).

In questo contesto, delimitato dall’ambito teoretico e conoscitivo, la difesa della realtà oggettiva dell’idea – la rivendicazione della sua Realität, distinta dalla sua Wirklichkeit o Existenz – può solamente limitarsi a riconoscerne la mera affermazione logica, riconducendo l’idea alla struttura della ragione, per cui essa non può essere una “chimera” prodotta dall’immaginazione fantastica del soggetto empirico e quindi come tale “superflua e nulla” 35. L’idea è un “concetto razionale” logicamente possibile (e come tale pensabile perché non contraddittorio all’interno della struttura della ragione), ma il suo “contenuto” non è costituito da una entità oggettivamente esistente, bensì da una indicazione metodica: dalla regola universale a priori della suprema unità e perfezione possibile, a cui la ragione – per la sua tendenza verso l’incondizionato – naturalmente si sottopone36. Si tratta di una concezione che da un lato lascia cadere un aspetto determinante della dottrina platonica dell’idea quale l’oggettività, ma che contemporaneamente mantiene in campo conoscitivo il carattere di suprema unità regolativa e di massima perfezione esemplare. 35 È quanto viene precisato in KrV B 384 s.; III 254 s. [254 s.]: “Intendo per idea un concetto necessario della ragione, al quale non è dato trovare un oggetto adeguato nei sensi. I nostri concetti puri […] sono dunque idee trascendentali. Essi sono concetti della ragione pura; considerano infatti ogni conoscenza sperimentale come determinata da una totalità assoluta di condizioni. Non sono escogitati ad arbitrio, ma dati dalla natura della stessa ragione […]. Essi infine sono trascendenti e sorpassano i limiti di ogni esperienza, nella quale perciò non può presentarsi un oggetto che sia adeguato all’idea trascendentale”. 36 Questo carattere regolativo delle idee della ragione viene sviluppato ampiamente nella “Appendice” alla “Dialettica trascendentale”: KrV B 670-732; III 442461 [407-439]. Da questo punto di vista le idee della ragione si possono incontrare con la definizione logico-metodologica delle idee platoniche data da P. Natorp, Platos Ideenlehre, Meiner, Hamburg 19613, p. 74 s.

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È quanto emerge subito dopo continuando la lettura del testo. Kant infatti passa a discutere l’importanza della teoria platonica delle idee per la fondazione della filosofia pratica, partendo dal presupposto che “Platone trova segnatamente le sue idee in tutto ciò che è pratico” (KrV B 371; III 247 [247]). Non potendo seguire dettagliatamente questa parte del testo, ci limitiamo a riassumere in che senso l’esame delle idee morali aiuti Kant a precisare la nozione di idea in generale e ad elaborare la sua concezione delle idee trascendentali37. Gli esempi addotti da Kant (l’idea della virtù; l’idea della “repubblica platonica” quale idea di una costituzione e di una legislazione perfetta; l’idea dell’umanità) tendono a mettere in luce che l’idea trascendentale – come del resto quella platonica – non è vuota, ma ha un contenuto intelligibile o noumenico che Kant considera esemplare (vale a dire normativo o “regolativo”). Proprio in virtù di questo contenuto essa vale nei confronti dell’esperienza molteplice come “il vero originale”, come “archetipo” o “modello”. L’analisi dettagliata della “idea della repubblica platonica” – che Kant, rifacendosi ancora una volta al Brucker38, considera “un esempio proverbiale […] di perfezione [ein auffallendes Beispiel von Vollkommenheit]” (KrV B 372; III 247 [248]) – permette di reperire un tratto della nozione di idea al quale Kant attribuisce grande importanza: l’idea indica un maximum perfectionis 39. Sebbene nel37

Occorre tenere presente che le idee morali kantiane recuperano un carattere proprio delle cosiddette idee-valori platoniche: il carattere assiologico. Per questo aspetto della discussione con Platone, relativo alla nozione di idea nel campo della filosofia pratica, rimandiamo al saggio di D. Venturelli, Etica e metafisica. Alcune riflessioni di Kant sulla filosofia di Platone, in “Giornale di Metafisica”, n.s. 18 (1996), pp. 215-226. 38 È questo il passo in cui viene citato esplicitamente il nome di J. Brucker: KrV B 372; III 247 [249]. Dal contesto si può stabilire che Kant ha presente un passo preciso del capitolo dedicato a Platone della sua Historia critica philosophiae, cit., vol. I, p. 726. Sull’importanza di questo scritto per la formazione dell’immagine del platonismo nella cultura filosofica settecentesca si rimanda a M. Longo, Le storie generali della filosofia in Germania, in G. Santinello (a cura di), op. cit., pp. 564-603. 39 Questo tratto dell’idea platonica era già stato rilevato nel § 9 della dissertazione: De mundi sensibilis atque intelligibilis, cit., A 11; II 396 [SP 432]: “maximum perfectionis vocatur nunc temporis Ideale, Platoni Idea (quemadmodum ipsius idea

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

l’esperienza storica la repubblica platonica non si sia mai attuata pienamente, “nondimeno è interamente esatta l’idea che pone questo maximum come archetipo” (KrV B 374; III 248 [249]). Più in generale, conclude Kant, se è vero che nessuna creatura singola, nelle condizioni individuali della sua esistenza, si adegua all’idea dell’essere più perfetto della sua specie, […] nondimeno coteste idee […] stanno ognuna di per sé, immutabilmente [unveränderlich] e completamente determinate [durchgängig bestimmt] e sono le cause originarie delle cose [die ursprünglichen Ursachen der Dingen] (KrV B 374; III 248 [249]).

Oltre ad indicare il grado supremo di perfezione, l’idea indica anche il livello di massima completezza di determinazioni possibili ed è “immutabile”. Ogni idea è infatti “completamente determinata [durchgängig bestimmt]”; come tale essa è individuale e unica nel suo genere e tale rimane stabilmente. Si tratta di caratteri dell’idea che Kant utilizzerà in modo particolare per definire la natura della terza idea della ragione, l’idea teologica, e che sono alla base della sua concezione dell’Ideale trascendentale40. Dopo questo esame dettagliato del testo kantiano, possiamo concludere affermando che il riferimento alla dottrina platonica delle idee interpreta liberamente e utilizza alcuni caratteri basilari del significato classico di idea. Se è vero infatti che Kant si discosta dal significato moderno introdotto da Cartesio e da Locke secondo cui l’idea è una rappresentazione mentale indeterminata prodotta dal soggetto conoscente41, è altrettanto vero che egli di fatto recureipublicae)”. Il riferimento alla “repubblica platonica”, intesa come “ideale” o “respublica noumenon” con valore normativo, si ritrova anche in SF A 155; VII 91 [173]. Per un approfondimento cfr. M. D’addio, Kant e la repubblica platonica, in “Pensiero Politico”, 9 (1976), pp. 372-480. 40 Il riferimento a Platone compare infatti anche nella definizione di ideale in KrV B 596-597; III 384 [366]. Cfr. anche Metaphysik L2, XXVIII/2-1 577. 41 È questa la tesi di N. Hinske, art. cit., p. 325. Kant critica la tesi secondo cui l’idea è “Vorstellung überhaupt (repraesentatio)” (KrV B 376; III 249 [250]) perché, se così fosse, dal suo punto di vista ogni Vorstellung sarebbe idea. Per lui invece idea è un Vernunftbegriff, vale a dire una rappresentazione determinata di una sola facoltà conoscitiva che è la ragione. La critica alla concezione moderna dell’idea è

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Il confronto con Platone

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pera alcuni tratti dell’ “originario significato” classico della nozione di idea, adattandoli coerentemente alla sua impostazione trascendentale. L’idea kantiana infatti, pur essendo immanente alla struttura universale della ragione, indica un “concetto-limite” (o Grenzbegriff) che per la sua totalità non può trovarsi né nell’esperienza né può essere “escogitata ad arbitrio” da un determinato soggetto conoscente, ma trascende entrambi. Inoltre essa non è “vuota” (o chimerica), ma ha un contenuto intelligibile stabile suo proprio che è esemplare o normativo rispetto all’esperienza, perché è il grado di massima perfezione o unificazione e di completa determinazione. In questo modo, conservando e trasformando i tratti basilari della nozione platonica di idea che abbiamo richiamato, Kant può dire: “Intendo per idea un concetto necessario della ragione, al quale non è dato trovare un oggetto adeguato nei sensi”. E ancora: “quando si dice idea, si dice molto quanto all’oggetto […] ma molto poco quanto al soggetto […] proprio perché essa, come concetto del maximum non può in concreto essere data mai in modo adeguato” (KrV B 383; III 254 [254])42. Il confronto con la nozione platonica di idea e la sua libera interpretazione costituiscono dunque un momento fondamentale all’interno della elaborazione della concezione kantiana di idea e di ideale. Questo confronto non è esclusivamente elenchico, ma arriva chiaramente percepibile nella chiusa della “Sezione I” del “Libro I” della “Dialettica trascendentale” dove, in aggiunta alla definizione di idea come concetto razionale “derivante da nozioni che sorpassa la possibilità dell’esperienza”, leggiamo: “A chi si sia abituato una volta a questa distinzione, deve riuscire intollerabile sentir dire idea la rappresentazione del color rosso. Essa non può dirsi nemmeno nozione (concetto intellettuale)” (KrV B 377; III 250 [250]). L’obiettivo polemico è la concezione lockiana delle idee di sensazione. 42 Cfr. anche la definizione di idea che leggiamo in I. Kant, Antropologie in pragmatischer Hinsicht, Nicolovius, Königsberg 1798, 18002, B 120; VII 199 [Antropologia, in Scritti morali, tr. it., di P. Chiodi, Utet, Torino 1970, p. 620]: “Le idee sono concetti della ragione [Vernunftbegriffe], che non hanno nell’esperienza alcun oggetto adeguato. Esse non sono né intuizioni […] né sentimenti […] che cadono nel dominio della sensibilità, ma sono concetti di una perfezione [Begriffe von einer Volkommenheit] a cui l’uomo può sempre più avvicinarsi ma che non può mai raggiungere interamente”.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

a recuperare alcuni caratteri essenziali della nozione originaria quali la trascendenza rispetto all’esperienza, l’esemplarità (ovvero la funzione regolativa), la perfezione (ossia la totalità di determinazioni positive unificate) e la completa determinatezza (ovvero la singolarità). Si tratta di un esempio concreto di come la teoresi filosofica non possa fare a meno di svilupparsi nell’alveo della trasmissione storica del sapere filosofico, non solo per confutare in modo dialettico tale tradizione ed eliminare le “parvenze sofistiche” illusorie in essa presenti, ma anche per utilizzarla positivamente nella costruzione del nuovo “edificio” del pensiero. Infatti, Kant sapeva benissimo che “le fatiche degli uomini si muovono costantemente in circolo, e tornano sempre di nuovo in un punto in cui già sono state; di conseguenza materiali che ora giacciono nella polvere possono, forse, essere riutilizzati per costruire uno splendido edificio” 43.

43 Lettera a Garve del 7 agosto 1783, in X 341 [Ep. 122]. Possiamo affermare che per la nozione platonica di idea valgono le parole pronunciate a proposito del principio di causalità di Hume, in Prol. A 13; IV 260 [41]: “Quando si parte da un principio ben fondato, sebbene non svolto, che altri ci ha lasciato, si può ben sperare, meditandovi sopra a lungo, di giungere con esso più lontano di quel sagace predecessore, al quale dobbiamo la prima scintilla di questa luce”.

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Obbligazione e dovere

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III OBBLIGAZIONE E DOVERE NELL’ETICA PRECRITICA

1. L’etica kantiana: un sistema di dottrine in divenire In una pagina della Grundlegung del 1785, la sua prima pubblicazione interamente dedicata ai problemi di etica, Kant ha affermato che in verità la “conoscenza morale della comune ragione umana” saprebbe distinguere assai bene cosa sia buono e cosa sia cattivo “senza che le si insegni assolutamente nulla di nuovo”. Nel campo dell’etica il filosofo non avrebbe dunque “nulla di nuovo” da scoprire e da insegnare, ma dovrebbe solo richiamare l’attenzione su quel “principio” già da sempre presente ad ogni uomo, anche al “più comune” 1. In realtà il compito specifico del filosofo morale inizia proprio a partire da questa constatazione fenomenologica della coscienza morale. L’immediata autoevidenza del principio del dovere richiede infatti una sua giustificazione filosofica, al fine di individuare la sua origine (la sua “fonte” interamente razionale o a priori) e di distinguerlo da altri principi equivoci o inautentici2. 1 Nella conoscenza morale la comune ragione umana è in grado di “distinguere assai bene in tutti i casi occorrenti cosa sia buono, cosa sia cattivo, cosa sia conforme o contrario al dovere, se solo, senza che le si insegni assolutamente nulla di nuovo, la si rende consapevole del suo proprio principio, al modo in cui fece Socrate […], dunque non ci vuole alcuna scienza e filosofia per sapere cosa si debba fare per essere onesti e buoni e persino saggi e virtuosi” (GMS A 21; IV 404 [37]). 2 Cfr. GMS A 23; IV 405 [41]: “Così la comune ragione umana […] è spinta ad uscire dal suo ambito e ad inoltrarsi nel campo di una filosofia pratica al fine di ottenere notizia e chiara indicazione sulla fonte del suo principio e sulla sua giusta

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

Nelle intenzioni di Kant quindi la filosofia pratica deve assolvere ad un compito prevalentemente fondazionale, che consiste nell’affrontare il problema della deduzione dei principi della moralità. Come è noto, molti studi dedicati al problema della giustificazione filosofica del principio morale hanno documentato le grandi difficoltà incontrate da Kant nel corso di questa trattazione e il suo esito sostanzialmente fallimentare3. Inoltre molti di questi lavori hanno anche sottolineato più in generale come la scoperta del “principio supremo della moralità”, che nello scritto del 1785 viene presentato come un risultato ricavato analiticamente dalla comune conoscenza morale propria di ogni uomo, non sia stata affatto facile e scontata. Nel trentennio di gestazione, che precede la pubblicazione della Grundlegung, la tortuosa ricerca kantiana ha infatti subito spesso numerose oscillazioni e ripensamenti prima di arrivare ad individuare il “principio supremo”, che regola l’agire e che segna il “passaggio dalla filosofia morale popolare alla metafisica dei costumi”. L’applicazione della entwicklungsgeschichtliche Methode allo studio del pensiero morale kantiano ha portato ad individuare gran parte degli autori e delle tematiche che hanno storicamente influenzato la sua evoluzione, arrivando a ricostruire alcune tappe salienti di questa faticosa ricerca, iniziata nella seconda metà degli anni Cinquanta e proseguita ininterrottamente fino alla pubblicazione della Metafisica dei costumi nel 17974. Al di là dei risultati specifici determinazione in opposizione alle massime che riposano sul bisogno e sull’inclinazione”. 3 A questo proposito rimandiamo al classico studio di H.J. De Vleeschauwer, La déduction transcendantale dans l’oeuvre de Kant, Nijhoff, Anvers-La Haye 19341937, 3 voll. (spec. vol. III, pp. 299-338), ma soprattutto al più recente lavoro d’insieme di D. Henrich, Der Begriff der sittlichen Einsicht und Kants Lehre vom Faktum der Vernunft, in G. Prauss (Hrsg.), Kant. Zur Deutung seiner Theorie von Erkennen und Handeln, Kipenheuer & Witsch, Köln 1973, pp. 223-254. Per quanto riguarda la Grundlegung si veda l’articolo di H.E. Allison, Kant’s Preparatory Argument in “Grundlegung III”, in O. Höffe (Hrsg.), Grundlegung zur Metaphysik der Sitten. Ein kooperativer Kommentar, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989, pp. 314-324. 4 Per una esauriente bibliografia della letteratura critica sulla Entwicklungsgeschichte dell’etica kantiana rimandiamo alla rassegna di V. Gehrardt, F. Kaulbach, Kant, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1979, pp. 62-74.

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Obbligazione e dovere

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ottenuti da questo metodo, si può affermare che esso ha contribuito a renderci più che mai accorti nei confronti di un’immagine stilizzata dell’etica kantiana, secondo cui essa sarebbe una dottrina deontologica, di tipo rigidamente normativo o formale, dai contorni sostanzialmente definiti e stabili, non soggetta a significative integrazioni o revisioni nel corso del suo lungo sviluppo. Dalle ricerche relative al contesto storico e dall’esame dei materiali testuali a disposizione (soprattutto dagli appunti del Nachlaß e dalle Vorlesungen) emerge invece sempre più chiaramente come il pensiero morale kantiano non sia affatto un corpus unitario statico, riducibile ad alcune formule manualistiche, ma sia invece un complesso insieme di dottrine in divenire, il cui sviluppo sistematico rimane ancor oggi in gran parte da approfondire5. Queste sintetiche considerazioni non devono tuttavia farci dimenticare che negli appunti pervenutici, nelle lezioni di etica, ma soprattutto in alcuni scritti pubblicati prima della Grundlegung, il problema principale che Kant intende risolvere riguarda la fondazione filosofica o universale della nozione di obbligazione e di dove5

Questa impressione è confermata anche dal recente lavoro di C. Schweiger, Kategorische und andere Imperative. Zur Entwicklung von Kants praktischer Philosophie bis 1785, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1999, esclusivamente limitato alla formazione della dottrina degli imperativi nel periodo precedente la pubblicazione della Grundlegung. Tra i molti studi disponibili sull’evoluzione del pensiero morale kantiano, nel presente lavoro faremo riferimento in particolare ai seguenti: P. Menzer, Der Entwicklungsgang der Kantischen Ethik in den Jahren 1760 bis 1785, in “Kant-Studien”, 2 (1898), pp. 290-322; 3 (1899), pp. 41-104; V. Delbos, La philosophie pratique de Kant, Puf, Paris 19693 (I. ed. 1905), pp. 61-153; M. Küenburg, Der Begriff der Pflicht in Kants vorkritischen Schriften, Rauch, Innsbruck 1927; P.A. Schilpp, Kant’s Pre-Critical Ethics, Northwestern University Press, Evanston and Chicago 1938; J. Schmucker, Die Ursprünge der Ethik Kants in seinen vorkritischen Schriften und Reflectionen, Hain, Meisenheim a.G. 1961; D. Henrich, Über Kants früheste Ethik. Versuch einer Rekonstruktion, in “Kant-Studien”, 54 (1963), pp. 404-431; G.B. Sala, Das Gesetz oder das Gute? Zum Ursprung und Sinn des Formalismus in der Ethik Kants, in “Gregorianum”, 71 (1990), pp. 67-95; 315352. Per il lettore italiano segnaliamo la sintetica esposizione di A. Guzzo, Kant precritico, Bocca, Torino 1924, pp. 99-119, e la più recente ricostruzione complessiva di S. Vanni Rovighi, Introduzione allo studio di Kant, La Scuola, Brescia 1968, pp. 207-228.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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re, su cui si basa l’esperienza morale. Questo problema viene affrontato partendo da una riflessione sul tema della necessitas moralis, ereditato dal razionalismo leibniziano-wolffiano, rivolgendo di conseguenza fin dall’inizio una particolare attenzione alla nozione di obligatio (Verbindlichkeit, o Verpflichtung) per spiegare l’agire morale. Si tratta di una prospettiva di ricerca che guida e accompagna il pensiero kantiano nelle diverse fasi di sviluppo sulla via della soluzione del suo problema principale, che lo porterà a definire le nozioni di “dovere” (come Pflicht e come Sollen), di “legge” e di “imperativo” nel contesto della teoria dell’“autonomia” del volere. Fin dall’inizio questa via di ricerca, che tende a spiegare l’agire morale sulla base di un vincolo obbligante costrittivo, non è affatto predeterminata in senso rigidamente normativo o rigorosamente formale, ma prende in considerazione anche il ruolo del concetto di “bene” e quello dei “principi materiali” dell’agire. Inoltre, seppur attraverso numerose oscillazioni, la ricerca morale kantiana si intreccia in modo problematico con tematiche più ampie, che riguardano la teleologia e la religione. Per quanto riguarda il primo aspetto occorre tenere conto dell’importanza che già agli inizi degli anni Sessanta assume la nozione di “scopo in sé stesso necessario [an sich notwendiger Zweck]” nella definizione dell’azione moralmente buona. Si tratta di un concetto originale e complesso, che accompagna l’evoluzione del pensiero morale kantiano fin dai suoi esordi e che lascia intravedere come la dottrina dell’obbligazione morale non sia del tutto separabile dalla “dottrina degli scopi”, né ad essa antitetica6. Per quanto riguarda il secondo aspetto, per avvertire la complessità dell’intreccio tra etica e religione basterebbe richiamare l’attenzione sull’evoluzione della dottrina dei moventi o sulla formazione della 6

A questo proposito rimandiamo alla prospettiva suggerita da G. Cunico, Teleologia morale e Sommo Bene in Kant, in D. Venturelli (a cura di), Etica e destino, il melangolo, Genova 1997, pp. 125-157 (spec. p. 129, dove vengono citati testi anteriori al 1770). Per l’intreccio tra etica e teleologia andrebbe indagato anche il ruolo della prova fisico-teleologica dell’esistenza di Dio negli scritti precritici: cfr. P. Laberge, La Théologie kantienne précritique, Edition de l’Université d’Ottawa, Ottawa 1973 (spec. pp. 159-164).

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concezione del Sommo Bene7. Inoltre occorre ricordare che già in molti testi degli anni Sessanta il concetto di obbligazione morale presenta molte affinità con la stessa definizione della religione, intesa come esercizio pratico della virtù (ossia come Ausübung)8. Tenendo conto di queste indicazioni introduttive – che purtroppo in questa sede non possono essere sviluppate ulteriormente – ci sembra che non sia più possibile considerare lo sviluppo del pensiero morale kantiano come un movimento evolutivo lineare, che già alla metà degli anni Sessanta avrebbe individuato con chiarezza il principio supremo della moralità nella forma di un imperativo razionale di tipo esclusivamente normativo9. L’intreccio con la teleologia e la religione, che emerge nettamente dai testi delle Vorlesun7

L’intreccio delle tematiche etiche con la nozione di Sommo Bene emerge nettamente dalla documentata ricostruzione di questo concetto proposta da K. Düsing, Das Problem des höchsten Gutes in Kants praktischer Philosophie, in “Kant-Studien”, 62 (1971), pp. 5-42. Inoltre andrebbe approfondita l’evoluzione dei concetti di “bene” e di “male” negli scritti precritici, seguendo le indicazioni del lavoro pionieristico (e troppo spesso dimenticato) di J. Bohatec, Die Religionsphilosophie Kants in der “Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft”. Mit besonderen Berücksichtigung ihrer theologisch- dogmatischen Quellen, Hoffmann und Campe, Hamburg 1938, pp. 63-156. 8 Particolarmente illuminanti sono a questo proposito le analisi di A. Lamacchia, Autonomia e sufficienza nel rapporto etica-religione nelle Vorlesungen di Kant (1762-64; 1775-80; 1783-84), in Id., Percorsi kantiani, Levante, Bari 1990, pp. 193-211 (spec. pp. 194-202). Della stessa studiosa si veda anche l’ampio lavoro ricostruttivo La filosofia della religione in Kant. Dal dogmatismo teologico al teismo morale (1755-1783), Lacaita, Mandruria 1969, e la più recente sintesi La formazione del criticismo nei primi scritti kantiani (1746-1770), Levante, Bari 1995. 9 È questa la tesi di J. Schmucker, op. cit., pp. 24 e 257 ss., il quale, contro l’interpretazione neokantiana tendente a svalutare la fase “pre-critica” nel suo complesso, ha tentato di mostrare che l’etica kantiana sarebbe stata delineata nei suoi elementi caratterizzanti già nella prima metà degli anni Sessanta, in modo autonomo rispetto alla svolta trascendentale della teoria della conoscenza. Per Schmucker quindi non avrebbe più senso porre una distinzione tra “etica precritica” ed “etica critica” (come ancora faceva lo Schilpp), oppure sostenere che il pensiero morale kantiano si sia sviluppato solo dopo la pubblicazione della prima Critica, in stretta connessione con i risultati di quest’ultima. D. Henrich, Über Kants Entwicklungsgeschichte, in “Philosophische Rundschau”, 13 (1965), pp. 252-263, ha sostanzialmente accettato la tesi di Schmucker per quanto riguarda la definizione degli elementi caratteristici dell’etica kantiana nella prima metà egli anni Sessanta.

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gen10, ci mette di fronte ad un quadro più complesso, al cui interno la definizione del principio supremo della moralità in senso astrattamente normativo sembra essere piuttosto un momento specifico nell’evoluzione complessiva della riflessione kantiana, che in realtà si sviluppa all’interno di un contesto problematico più vasto e sostanzialmente in divenire. Lasciando sullo sfondo queste considerazioni, che riguardano lo status quaestionis della ricerca relativa alla formazione del pensiero morale kantiano, nelle pagine che seguono ci soffermeremo in particolare sulla prima configurazione che assume la nozione di obbligazione morale (di Verbindlichkeit) nella Preisschrift del 1762/64. In primo luogo tenteremo di mostrare come tale nozione venga elaborata da Kant in relazione al più generale concetto etico-religioso (o metafisico-teologico) di perfezione (di Vollkommenheit), in un contesto problematico che pone l’aspetto normativo in connessione con la religione. In secondo luogo, cercheremo di evidenziare come l’originale nozione di “fine in se stesso necessario” presenti un inevitabile rimando alla teleologia e non debba essere inteso in senso esclusivamente formale, in quanto non sembra escludere il rapporto con il concetto di bene morale, ovvero con i contenuti materiali dell’agire. Alla trattazione analitica di questi temi (nel paragrafo 4), premetteremo (nei paragrafi 2 e 3) una ricostruzione necessariamente sommaria dell’evoluzione del pensiero morale kantiano negli anni Cinquanta, al fine di preparare la successiva trattazione delle nozioni di obbligazione e di perfezione. Questa sintetica ricostruzione vorrebbe contribuire ad evidenziare come, in netta 10 Ci riferiamo in particolare ai seguenti corsi: Praktische Philosophie Herder, (XXVII/1 3-89; spec. 16-37), databile al 1763/64; Praktische Philosophie Powalski (XXVII/1 91-235; spec. 168-187), di datazione incerta, ma sicuramente riconducibile agli anni Settanta. L’intreccio tra etica e religione è pure presente nella Vorlesung Menzer, della fine degli anni Settanta: I. Kant, Eine Vorlesung über Ethik, hrsg. von P. Menzer, Heise, Berlin 1924, rist. hrsg. von G. Gerhardt, Fischer, Frankfurt a.M. 1990, pp. 91-128 [Lezioni di etica, tr. it. di A. Guerra, Laterza, Bari 1984, pp. 91-135]. Purtroppo un confronto tra queste lezioni e i testi kantiani pubblicati che trattano di argomenti morali richiederebbe una specifica trattazione, che esula dagli obiettivi del presente Capitolo.

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contrapposizione con la concezione oggettiva ed esterna dell’obbligazione propria della scolastica razionalista, Kant scelga fin dall’inizio la via della interiorizzazione dell’esperienza morale, che lo porta a situare l’origine dell’obbligazione nella coscienza interna del soggetto agente, ponendo il Sollen come “principio primo”: un principio autoevidente, avvertito dal singolo in modo immediato e dotato di una sua specifica autonomia.

2. Prime considerazioni sulla destinazione morale dell’uomo Per molto tempo la Kant-Forschung ha preferito evidenziare soprattutto gli aspetti scientifici e naturalistici negli scritti del filosofo anteriori al conseguimento della libera docenza11. Di conseguenza era diventato un luogo comune sostenere che il lungo periodo compreso tra la pubblicazione del primo scritto kantiano (nel 1746) e la stesura della Preisschrift (alla fine del 1762) sarebbe stato irrilevante per lo sviluppo del pensiero morale. Tutt’al più si era disposti a rintracciare in alcuni lavori di questo periodo la presenza di un certo “interesse per l’uomo e la sua natura”, sottolineando però come nessuno degli scritti pubblicati contenesse una specifica trattazione di temi morali12. In anni recenti questa tesi è stata ampiamente rivista da numerosi studi che, con intenti diversi, hanno documentato l’intreccio delle tematiche scientifico-naturalistiche con le problematiche antropologiche ed etiche. In particolare è stato 11

Sulla base degli studi di E. Adickes, Kant als Naturforscher, de Gruyter, Berlin 1924-25, 2 voll. Per una discussione di questa interpretazione si veda M. Campo, La genesi del criticismo kantiano, Magenta, Varese 1953, pp. 19 ss. 12 Sia P. Menzer, Der Entwicklungsgang der Kantischen Ethik, cit., p. 290 s., che V. Delbos, op. cit., p. 63, hanno sostenuto che negli scritti degli anni Cinquanta il problema morale sarebbe assente. P.A. Schilpp, op. cit., pp. 19-21, ha invece valorizzato alcune considerazioni di carattere antropologico presenti negli scritti del periodo. Di diverso avviso J. Schmucker, op. cit., pp. 26-51, che rifiuta la tesi del Menzer ed analizza dettagliatamente gli scritti egli anni Cinquanta con l’intento di mostrare l’influenza della scolastica razionalista leibniziano-wolffiana sulla formazione del pensiero morale kantiano, in modo particolare per quanto riguarda i concetti di perfezione e di obbligazione.

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notato come già nel primo scritto kantiano – i Gedanken13 sulla valutazione delle forze vive – fosse presente, sullo sfondo della disputa scientifica, un’“etica della scienza e della cultura” che costituisce il terreno su cui si svilupperanno in seguito le principali convinzioni morali del filosofo. In questo scritto inoltre la definizione del concetto di forza in relazione col meccanicismo influssionista poneva per la prima volta all’attenzione del giovane Kant il problema metafisico del rapporto tra spirito e materia, tra anima e corpo14. Si tratta di un problema di carattere antropologico, che verrà impostato quanto prima in senso dualista e che influenzerà direttamente le ricerche intorno alla costituzione morale dell’uomo. 2.1. La posizione dell’uomo nel cosmo Oltre che su questo primo lavoro kantiano, l’attenzione degli studiosi si è spesso soffermata su due scritti del decennio successivo: la Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels e la Nova dilucidatio, entrambi del 175515. Del primo, anch’esso spesso considerato di esclusivo argomento scientifico, è nota soprattutto la conclusione. In essa Kant, anticipando la celebre chiusa della seconda Critica, afferma che ogni uomo, dal suo limitato punto di vista terreno, può intravedere l’esistenza di un mondo in cui regna “una beatitudine eterna” contemplando l’immensità del “cielo stellato, in una notte chiara” 16. In questo scritto, in un contesto naturalistico 13 I. Kant, Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte, Königsberg, Dorn 1747 (I 1-181). Sull’importanza di questo scritto per gli esordi del pensiero morale kantiano ha giustamente richiamato l’attenzione A. Guerra, Metafisica e vita morale nel primo scritto kantiano (1746-1747), in “De Homine”, 1969, n. 31-32, pp. 91-118. 14 I. Kant, Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte, cit., A 6; I 19. Su questo aspetto ha insistito in particolare M. Paolinelli, Il filosofo e il tecnico della ragione. La filosofia secondo Kant, Vita e Pensiero, Milano 1993, pp. 14-21, nel contesto di un’ampia interpretazione che tende a ricostruire le origini dell’antropologia kantiana. 15 I. Kant, Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, Königsberg, Petersen 1755 (I 215-368); Id., Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio, Hartung, Königsberg 1755 (I 385-416 [SP 3-54]). 16 “Basta uno sguardo al cielo stellato, in una notte chiara, per provare quel sen-

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e cosmologico, Kant si interroga sull’origine dell’universo e sulle leggi che lo governano, ma tocca inevitabilmente anche tematiche connesse con la teodicea e col destino morale e religioso dell’uomo in relazione al posto che occupa nell’universo infinito. Soprattutto nella “Terza parte” dello scritto17 – in cui Kant tenta di paragonare tra loro gli abitanti dei diversi pianeti del sistema solare e di spiegarne le differenze in base alla legge della densità – troviamo interessanti osservazioni di carattere antropologico, che anticipano e preparano successive considerazioni di argomento morale. Per comprendere chi è l’uomo occorre tener presente che egli si trova inserito nell’universo, “nella vasta catena dell’essere” (AN A 196; I 365 [171])18, tra i poli opposti della più alta trasparenza spirituale e della più infima gravità materiale. Nella visione cosmologica kantiana anche l’uomo sottostà alle leggi meccaniche che regolano l’evoluzione della natura ed il suo destino è legato all’intera vicenda cosmica. In quanto abitante della terra, pianeta che si trova in una condizione di media densità rispetto agli astri più vicini o più lontani dal Sole, l’uomo occupa “il gradino di mezzo […] ad so di rapimento di cui solo le anime nobili sono capaci. Nel silenzio universale della natura, nella quiete dei sensi, la segreta facoltà di conoscenza dello spirito immortale parla una lingua impronunciabile e suscita pensieri inespressi, che si sentono, ma non si lasciano dire. Se tra le creature pensanti del nostro pianeta vi sono degli esseri abietti, che nonostante il grande fascino di un argomento così importante preferiscono rimanere attaccati alla schiavitù delle cose vane, allora la terra, per aver generato creature così miserabili, ci appare all’improvviso come un luogo molto infelice. Ma, viceversa, come ci appare felice, quando vediamo aprirsi in essa la sola via degna d’essere percorsa, quella che conduce alla suprema felicità dell’anima, che nessun corpo celeste, anche quello dotato delle condizioni più eccellenti e vantaggiose, potrà mai offrire” (AN A 200; I 367 s. [174]). 17 AN A 171-198; I 349-366 [157-172]. Di un certo interesse sono anche i capitoli VII e VIII della “Seconda parte” (AN A 100-170; I 306-347 [117-155]), in cui vengono trattati i problemi della creazione dell’universo, delle leggi che lo governano, e i rapporti tra meccanicismo e teleologia. Su questi temi, in relazione al contesto dell’epoca, cfr. G. Tonelli, Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768. Saggio di sociologia della conoscenza, Edizioni di Filosofia, Torino 1959, pp. 43-91. 18 Qui, come in molti altri luoghi di questo scritto, Kant cita i versi del poema di A. Pope, An Essay on Man, London 1733-34, utilizzando la traduzione tedesca di B.H. Brockes, Versuch vom Menschen, Hamburg 1740.

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uguale distanza dai due limiti estremi della perfezione” (AN A 186; I 359 [166]). In virtù di questa posizione mediana la natura dell’uomo è ancipite: partecipa dello spirito e della materia, della luce della ragione e della cecità dell’istinto. Sebbene infatti la natura umana “resti ancora un enigma insondato [ein unerforschtes Problema]”, possiamo tuttavia convenire che il singolo, “sotto l’aspetto delle sue qualità morali o della sua costituzione fisica”, si trova “in una sorta di stadio intermedio [gewisser Mittelstand] tra la saggezza [Weisheit] e l’assenza di razionalità [Unvernunft]”, “tra la debolezza e la forza” (AN A 196; I 365 [171]), in quella pericolosa via di mezzo [gefährliche Mittelstraße], dove le seducenti sensazioni dei sensi hanno la forza di irretire la sovranità dello spirito, anche se a questo non è ancora negata la facoltà di opporre resistenza (AN A 197; I 366 [172]).

La visione antinomica della natura umana comporta già qui la radicale diversità di fini tra vita istintiva e vita razionale. La vita umana si svolge tra la necessità della natura e la libertà del pensiero. Dal punto di vista fisico l’uomo è determinato come una macchina, ma attraverso l’intelligenza egli appartiene ad una natura diversa, capace di superare le condizioni fisiche. Si tratta di una possibilità non scontata e che non è alla portata di tutti, se è vero che in molti individui lo sviluppo si arresta allo stadio naturale19. Queste considerazioni antropologiche accentuano il costitutivo carattere ancipite della natura umana. La vita si prefigura come una lotta tra la gravità della materia, che tende a limitare lo sviluppo del pensiero, e l’esercizio dell’intelligenza, che tende invece a liberarsi dalla dipendenza del mondo esterno. La lotta trova la sua spiegazio19

“Quelle facoltà di cui l’uomo necessita per soddisfare i bisogni che sorgono dalla sua dipendenza dalle cose esterne, si manifestano troppo presto. In alcuni uomini il loro sviluppo si arresta a questo stadio. La facoltà di collegare concetti astratti, di dominare l’inclinazione delle passioni mediante una libera applicazione dell’intelligenza, subentra solo più tardi; nella vita di alcuni mai, in tutti gli altri comunque è piuttosto debole e va a servire le forze più basse, che dovrebbe invece dominare, e nella cui padronanza consiste la superiorità della natura umana” (AN A 182; I 356 [163]).

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ne scientifica sulla base dell’influenza esercitata dalla costituzione fisica su quella spirituale, ovvero a causa del legame dello spirito con la materia corporea. In questo conflitto, “a causa della rozzezza della materia in cui è calata la sua parte spirituale”, l’uomo viene trascinato dalle passioni, stordito e turbato dal tumulto degli elementi che compongono la sua macchina. Gli sforzi della ragione [die Bemühungen der Vernunft] per opporsi alle passioni e dissipare quelle oscurità confuse con il lume del giudizio, sono come improvvisi raggi di sole, quando nuvole dense oscurano tenacemente la sua lucentezza fino a spegnerla (AN A 182; I 356 [164]).

In questo quadro antropologico gli “sforzi della ragione” assumono una particolare rilevanza dal punto di vista morale, in quanto sono rivolti ad eliminare gli “impedimenti”, a “dominare l’inclinazione delle passioni mediante una libera applicazione dell’intelligenza” (AN A 181; I 355 [163])20, permettendo in questo modo la conquista della perfezione morale. Proprio in questo esercizio di padronanza e di resistenza consiste la superiorità della natura umana. Com’è stato giustamente osservato21, compare qui per la prima vol20 “Se si indagano le cause degli impedimenti [Hindernisse] che trattengono la natura umana a un livello così basso, esse si trovano nella rozzezza della materia [Grobheit der Materie] in cui è calata la sua parte spirituale, nella rigidità delle fibre, nell’inerzia e nell’immobilità delle linfe che dovrebbero ubbidire agli impulsi dell’anima. I nervi e i liquidi del suo cervello gli trasmettono solo concetti confusi; e siccome l’uomo non è in grado di opporre alla stimolazione delle percezioni sensibili, con la sua facoltà di pensare, rappresentazioni sufficientemente forti da equilibrarle, egli viene trascinato dalle passioni […]. La rozzezza della materia e dei tessuti di cui è fatto l’uomo è dunque la causa di quell’inerzia che trattiene le facoltà dell’anima in un continuo stato di fiacchezza e di impotenza [Mattigkeit und Kraftlosigkeit]. Riflettere e rischiarare con la ragione le proprie rappresentazioni crea una condizione di fatica, uno stato in cui l’anima non riesce a entrare senza dover superare una certa resistenza [nicht ohne Widerstand]” (AN A 182; I 356 s. [163 s.]). Secondo P. Menzer, Der Entwicklungsgang der Kantischen Ethik, cit., p. 294, sarebbe stata proprio questa concezione “pessimistica” della natura umana, dovuta alla cagionevole salute fisica, ad aver tenuto lontano il giovane Kant dalle problematiche morali. 21 Cfr. A. Lamacchia, La filosofia della religione in Kant, cit., p. 106 s. Anche M. Ravera, Finalità morale e storia nel Kant precritico, in “Annuario Filosofico”, 7 (1991), pp. 183-236 (spec. pp. 194-196), sottolinea come la drammatica visione della scissione costituisca il presupposto della concezione della vita morale come dovere. A Guerra, Cosmogonia kantiana ed “etica dell’anello intermedio”, in “De Homi-

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ta quella tipica opposizione tra natura e ragione, tra inclinazioni sensibili ed aspirazione morale, che caratterizza l’etica del dovere e del comando nelle opere della maturità. Vale la pena notare come qui l’esercizio virtuoso della moralità dipenda dall’uso delle facoltà razionali (dell’intelletto) che si oppongono alle passioni. Qui l’agire morale si basa sulla rappresentazione intellettuale del bene, che nella sua chiarezza e completezza costituisce il movente adeguato per la volontà. Si tratta di un’“etica del sapere”, di un “intellettualismo etico”, che però accoglie l’aspetto conflittuale del perfezionamento morale e rifiuta l’ottimismo naturalistico22. A causa della struttura ancipite della sua natura, la scelta del meglio, la via del perfezionamento, costringe l’uomo a combattere contro i limiti della mera condizione naturale, lottando per andare al di là di essa. L’obbligazione morale si configura quindi come coercitiva nei confronti della natura umana, e non come spontaneo assecondamento del suo corso e dei suoi fini. E se la perfezione morale consiste nel liberarsi dalla schiavitù dei sensi e dalla confusione degli istinti, anche la nozione di libertà negativa, collegata all’uso della ragione, trova qui la sua prima configurazione embrionale. In questo contesto Kant si confronta anche con i classici temi della teodicea fornendo una spiegazione dell’esistenza dell’errore, del male e del peccato, manifestazioni che sono riconducibili alla ne”, 1972, n. 44, pp. 121-156, evidenzia come in questo scritto “Kant abbia l’occasione, per la prima volta, di delineare i tratti della costituzione morale dell’uomo”, della libertà e della teodicea, ovvero di incontrare “le questioni di fondo dell’intera etica precritica, che verranno ripetutamente formulate e variamente collegate e che costituiscono, con le loro soluzioni, un precedente a volte decisivo per la stessa filosofia critica” (ivi, p. 122 s.). 22 F. Papi, Riflessione scientifica e coscienza morale negli scritti kantiani intorno al 1755, in “Rivista critica di storia della filosofia”, 18 (1963), pp. 3-31, afferma che già qui “Kant si trova del tutto fuori dalla dimensione della morale naturale, del lumen naturale, la cui obbligatorietà per la vita etica è del resto parallela e intrinseca alla sua stessa spontaneità” (ivi, p. 10). Papi vede già presente e operante in questo scritto la scissione tra natura e valore morale, che allontanerebbe il giovane Kant dal naturalismo dell’etica wolffiana. Si tratta di spunti che approfondiremo successivamente nel paragrafo 4.

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costituzione della materia che forma il corpo umano. Si tratta quindi di una giustificazione naturalistica, che vede nella materia corporea la causa determinante che ostacola il corretto uso della libertà23. Ancora una conferma della natura ancipite dell’uomo che interpreta i propri limiti costruttivi in stretta connessione con la sua natura. La spiegazione del male e del peccato porta Kant a concludere le sue riflessioni accennando al “destino dell’uomo nella vita futura” (AN A 199 s.; I 366-368 [173 s.]). Infatti, la speranza in una “esistenza diversa”, in cui l’uomo “non cercherà più il proprio appagamento dissipandosi tra gli oggetti esteriori”, è il corollario necessario del fatto che l’uomo, a causa della sua natura ancipite, non potrà mai raggiungere la completa perfezione morale nell’arco limitato della sua esistenza terrena24. Secondo Kant l’uomo sarebbe la più misera creatura se non avesse la speranza di sopravvivere in una vita diversa per poter completare il suo sviluppo morale. È interessante sottolineare come già qui questa fede nella vita futura appaia con accenti religiosi, che saranno ripresi e sviluppati nelle pagine della seconda Critica in cui verrà introdotto il postulato dell’immortalità dell’anima. Inoltre, a dimostrazione dell’intreccio costante tra tematiche etiche e religiose, le pagine conclusive dello scritto del 1755 insistono anche sul limite, sulla caducità e fragilità dell’esistenza umana, accennando al ruolo della rivelazione e della grazia25. 23

“Si può definire il peccato come uno stadio intermedio tra la saggezza e l’impulso irrazionale? Ma in questo caso può la giustizia divina ritenere responsabile dei propri atti chi ha ricevuto dalla propria natura facoltà spirituali tanto deboli?” (AN A 199; I 367 [171]). Per i problemi dell’imputazione e del male in questo scritto, e per le connessioni con la religione, rimandiamo alle considerazioni di J. Bohatec, op. cit., pp. 63-68. 24 J. Schmucker, op. cit., pp. 47 ss. e 52, considera questa tesi kantiana una prima critica alla concezione wolffiana di perfezione come fine naturale dell’uomo. Su questa critica ci soffermeremo in particolare più avanti nel paragrafo 4.2. 25 A questi temi di carattere religioso accennano anche alcune annotazioni contemporanee: cfr. Refl. 2342, XVI 324; 2586, XVI 428; 2635, XVI 444; 2736, XVI 492. Su questi appunti ha richiamato l’attenzione A. Lamacchia, La filosofia della religione in Kant, cit., pp. 108 ss., e prima ancora F. Morelle, Les idées réligieuses de Kant en 1755-1760, in “Revue néoscolastique de Philosophie”, 30 (1928), pp. 275315; 31 (1929), pp. 280-308.

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2.2. Elogio dell’uomo virtuoso Al fine di mostrare quanto queste considerazioni di carattere antropologico, etico e religioso, presenti nella Allgemeine Naturgeschichte, non siano meramente sporadiche e casuali ma costituiscano l’inizio di una via di ricerca che accompagna l’evoluzione del pensiero kantiano nel suo insieme, vale la pena soffermarci su alcune annotazioni con tutta probabilità contemporanee allo scritto esaminato26. Si tratta di un gruppo di fogli in cui Kant discute la concezione dell’ottimismo propria della teodicea leibniziana e la confronta con quella del poeta inglese Pope, toccando anche concetti di carattere etico quali quelli di virtù e felicità. Nonostante la frammentarietà di queste annotazioni, esse rappresentano una delle primissime attestazioni degli interessi kantiani per l’etica negli anni Cinquanta, che concordano sostanzialmente con quanto accennato nello scritto precedentemente esaminato. Prescindendo dall’esame degli argomenti con i quali Kant discute criticamente le tesi leibniziane, per il nostro tema ci interessa sottolineare la particolare definizione del bene come virtù morale e la sua relazione con la felicità. In una di queste annotazioni, riprendendo alcuni versi del poema di Pope, Kant scrive: Tu chiedi: nel mondo chi è più felice, l’uomo virtuoso o l’uomo malvagio? Se si guarda bene, nel tornaconto del malvagio rimarrà sempre 26

Si tratta di un gruppo di Lose Blätter (già pubblicati da Reicke alla fine dell’Ottocento), datati da Adickes tra il 1753 e il 1755, in cui Kant aveva iniziato a stendere un saggio sull’ottimismo in risposta alla Preisfrage dell’Accademia delle Scienze di Berlino del luglio del 1753, che richiedeva una discussione della tesi di Pope “Tutto è bene” (Refl. 3703-3705, XVII 229-329). Sull’importanza di questi appunti per il nostro tema hanno richiamato l’attenzione in particolare: P. Menzer, Kants Lehre von der Entwicklung in Natur und Geschichte, Reimer, Berlin 1911, pp. 68-70; A. Lamacchia, La filosofia della religione in Kant, cit., pp. 160-167; D. Henrich, Über Kants früheste Ethik, cit., p. 409; A. Guerra, Scienza e vita morale negli scritti kantiani del 1754, in “Giornale critico della filosofia italiana”, 52 (1973), pp. 83-113 (spec. pp. 98 ss.); M. Paolinelli, op. cit., pp. 228 ss. Per la discussione sulla teodicea, in rapporto alle tesi di Leibniz e di Pope, rimandiamo al lavoro di G. Cunico, Kant e la teodicea: il male, la storia, lo scopo finale, in Id., Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Marietti, Genova 1992, pp. 133-215 (spec. pp. 138 ss.).

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mescolato qualcosa che l’uomo virtuoso non desidera e per cui non cambierebbe la sua condizione con quella dell’altro. Perciò il virtuoso è di fatto contento di sé più di quanto non si creda. I mali che lo affliggono non riguardano propriamente la virtù, ma sono comuni a tutti (Refl. 3703, XVII 229).

Questo elogio della vita virtuosa, condotto con una inflessione stoica e pietistica, ritorna anche in alcune frammentarie annotazioni dello stesso periodo, in cui si legge: “l’uomo deve [soll] vivere in modo virtuoso” (Refl. 1725, XVI 94). In altri appunti la virtù viene definita come “capacità [Fertigkeit]” propriamente umana e messa in rapporto con la felicità (Refl. 3121, 3122, 3123, XVI, 668 s.). Quest’ultima però non viene definita come il fine ultimo dell’agire, ma come conseguenza della virtù, intesa a sua volta come completezza e perfezione: Il premio della virtù è la tranquillità dell’anima, mentre gli altri beni la distruggono e la corrompono. Erudizione, fama, ricchezza: nulla di tutto ciò racchiude il vero bene. La virtù soltanto, quindi, procura l’autentica felicità, la virtù che nell’abbondanza come nella penuria, nella gioia come nel pianto, trova qualcosa di cui appagarsi. Poiché dunque la virtù non manca di nulla, il desiderio perde ogni valore (Refl. 3703, XVII 229).

Kant si presenta qui come “moralista della virtù” che riflette sul rapporto tra sensibilità e ragione, tra desiderio e serenità interiore. Tuttavia questo rapporto non deve essere considerato conflittuale o antitetico; per assumere la funzione orientatrice la virtù deve infatti allearsi con le passioni. In un’altra annotazione Kant si sofferma sulle possibili implicazioni di carattere morale dell’idea leibniziana della perfezione del mondo, che orienta l’idea del migliore dei mondi possibili. Questa idea infatti presupporrebbe che l’uomo che abita quel mondo non subisca la violenza delle inclinazioni sensibili, ovvero che abbia come inclinazione spontanea quella per la virtù, situazione di fatto smentita dalla natura ancipite dell’uomo (Refl. 3704, XVII 235)27. Accanto a queste annotazioni, che abbozzano il 27 Si tratta della tesi leibniziana della libertà del volere, che presuppone una inclinazione naturale e spontanea al bene: cfr. G. W. Leibniz, Essais de Theodicée, III,

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tema del rapporto tra virtù e felicità, dalla critica kantiana dell’ottimismo metafisico affiora un altro importante argomento: il tema della libertà del volere. Su questo aspetto si sofferma in modo particolare l’altro importante scritto di questo periodo: la Nova dilucidatio.

3. Obbligazione interiore e libertà del volere nella Nova dilucidatio Nell’autunno del 1755 Kant pubblica un breve trattato latino dal titolo Principiorum primorum cognitionis metaphisicae nova dilucidatio 28, in cui intende abbozzare una riforma della metafisica razionalista e con cui ottiene la libera docenza presso l’Albertina. Lo scritto si suddivide in tre sezioni, che corrispondono ai tre principi primi della conoscenza metafisica esaminati dettagliatamente. Essi sono il principio di contraddizione, il principio di ragion sufficiente ed infine i principi di successione e di coesistenza (ossia il tempo e lo spazio). Per il nostro tema dobbiamo soffermarci brevemente sulla “Sezione II”, in cui Kant accetta l’ambivalenza della ratio sufficiens rilevata da Crusius e propone la distinzione tra ratio antecedenter determinans (o ratio cur, ratio essendi vel fiendi) e ratio consequenter determinans (o ratio quod, ratio cognoscendi)29. Non poten§ 288, in Die philosophischen Schriften, hrsg. von C.I. Gerhardt, Olms, Hildesheim 1961, Bd. VI, p. 288: “La sostanza libera si determina per se stessa e lo fa seguendo il motivo del bene percepito dall’intelletto che la inclina senza necessitarla”. 28 Per una valutazione dell’importanza di questo scritto per la formazione del pensiero kantiano nel suo complesso (soprattutto per quanto riguarda la nozione di “esistenza” e i suoi risvolti ontoteologici) rimandiamo alla sintetica presentazione di H.J. De Vleeschauwer, L’evoluzione del pensiero di Kant, tr. it. di A. Fadini, Laterza, Bari 1976, pp. 24-29. 29 Questa distinzione è esposta nella proposizione IV, che recita: “Determinare è porre un predicato con esclusione del suo opposto. Ciò che determina un soggetto rispetto a un predicato dicesi ragione [ratio]. La ragione si distingue in antecedentemente determinante e conseguentemente determinante. Antecedentemente determinante è la ragione, la cui nozione precede il determinato, ossia senza la presupposizione della quale il determinato non sarebbe intelligibile. Conseguentemente determinate è la ragione che non sarebbe posta, se già d’altronde non fosse stata posta la

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do in questa sede approfondire l’importanza storica e teoretica di questa distinzione – con la quale Kant intende mettere in discussione la riconduzione del principio di ragione al principio di contraddizione sostenuta dalla metafisica razionalista della scuola wolffiana30 – dobbiamo in ogni caso tener presente che la ratio antecedenter determinans è intesa da Kant come principio genetico, come ratio existentiae (o actualitatis) di tutti i fenomeni, ovvero come causa di tutto ciò che è contingente. Sulla base di queste premesse la proposizione VIII afferma che tutto ciò che accade (il mondo dei fenomeni fisici) è sottoposto al principio di ragione antecedentemente determinante31. Secondo Kant quindi il contingente, in quanto è diventato esistente, ha bisogno di una ragione che lo ha in precedenza (antecedenter) determinato, ossia dell’appoggio di una causa efficiente che lo ha posto in essere. Queste sottili distinzioni di carattere logico e metafisico diventano particolarmente rilevanti anche per il problema morale quando, nello Scholion che segue la proposizione VIII, Kant discute la tesi del “perspicacissimus Crusius”, il quale aveva limitato l’uso del nozione che essa determina. Si può chiamare la prima ragione anche ragione del perché, vale a dire dell’essere e dell’accadere [rationem cur, s. rationem essendi vel fiendi]; la seconda: ragione del che, vale a dire del conoscere [rationem quod s. cognoscendi]” (ND I 391 [SP 14]). Per l’origine di questa distinzione si veda Chr.A. Crusius, Dissertatio de usu et limitibus principii rationis determinantis vulgo sufficientis, Leipzig 1743, in Die philosophischen Hauptwerke, hrsg. von G. Tonelli, Bd. IV.1, Olms, Hildesheim 1987, §§ XIV-XVI; Id., Entwurf der nothwendighen Vernunft-Wahrheiten, Leipzig 1745, in Die philosophischen Hauptwerke, cit., Bd. II, § 37. Crusius aveva sostenuto che il principio di ragion sufficiente non poteva essere dedotto dal principio di contraddizione, ma doveva essere ammesso come principio autonomo, dotato di un duplice significato sulla base della distinzione tra Erkenntnisgrund e Seinsgrund (o Realgrund). Kant riprende questa tesi crusiana in ND I 396 s. [SP 21 s.]. 30 A questo proposito rimandiamo alla documentata indagine storica di G. Tonelli, Elementi metodologici e metafisici in Kant, cit., pp. 127-171, che sottolinea come Kant, accettando in parte le tesi di Crusius, intendeva colpire l’onnisufficienza del principio di identità del razionalismo, da cui venivano ricavati per deduzione tutte le conoscenze metafisiche. 31 “Nulla che esista in maniera contingente può prescindere da una ragione che ne determini antecedentemente l’esistenza” (ND I 396 [SP 21]).

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principio di ragione al mondo fisico e aveva negato che esso potesse spiegare le ragioni che determinano il volere e l’agire32. A questo punto il discorso si sposta dai problemi logici e metodologici al piano dell’etica e nella proposizione IX il tema in discussione diventa la questione della libertà del volere umano e della sua possibile soppressione qualora si ammetta il principio di ragione e il tipo di causalità ad esso connesso. Soffermiamoci con attenzione su questa discussione, perché essa influenzerà in maniera determinante la formazione del pensiero morale kantiano sia per quanto riguarda il tema principale della necessitas moralis, sia per quanto concerne la definizione dei relativi concetti di obbligazione, libertà, e autodeterminazione. Più che la tesi rigorosamente determinista sostenuta da Kant in queste pagine – che può trovare una spiegazione nel contesto delle dispute accademiche del tempo – ci preme seguire il modo in cui viene impostato il problema della fondazione razionale dell’agire e della libertà del volere. Al fine di argomentare la propria tesi con metodo analitico e puntuale, nella proposizione IX Kant si accinge ad “enumerare e spiegare le difficoltà [difficultates] che paiono gravare sul principio di ragione determinante” (ND I 398 [SP 24]) nel caso in cui esso venga applicato alle azioni umane. Queste “difficoltà”, sollevate da Crusius, riprendevano in verità le obiezioni rivolte dal Lange contro Wolff in una precedente disputa33. In sintesi, Crusius affermava 32 Cfr. Chr.A. Crusius, Dissertatio de usu et limitibus principii rationis determinantis vulgo sufficientis, in Die philosophischen Hauptwerke, cit., Bd. IV.1, §§ XXX e XXXVIII, in cui si sostiene che le ragioni che determinano il volere e che spiegano l’agire rappresentano una particolare classe di necessità, diversa ed autonoma da quella logica e metafisica. Per la discussione sulla libertà del volere si veda anche Chr.A. Crusius, Entwurf der nothwendighen Vernunft-Wahrheiten, in Die philosophischen Hauptwerke, cit., Bd. II, §§ 82-86; 124-129. Per un approfondimento del volontarismo e dell’arbitrarismo crusiano, ci limitiamo a rinviare ai seguenti studi: S. Del Boca, Kant e i moralisti tedeschi. Wolff, Baumgarten, Crusius, Loffredo, Napoli 1937, pp. 75-130; R. Ciafardone, La morale di Crusius e l’opposizione all’intellettualismo leibniziano-wolffiano, in Id., L’Illuminismo tedesco. Metodo filosofico e premesse etico-teologiche (1690-1765), Il Velino, Rieti 1978, pp. 115-135. 33 Per una ricostruzione di questa disputa rimandiamo al documentato lavoro di B. Bianco, Libertà e fatalismo. Sulla polemica tra J. Lange e C. Wolff, in Id., Fede e

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che chi sostiene che ogni azione umana presuppone una ragione antecedentemente determinante (ossia una causa necessaria) farebbe trionfare il determinismo o il fatalismo, eliminerebbe la libertà del volere e metterebbe in dubbio l’imputazione delle azioni umane al soggetto agente. Di conseguenza, secondo Crusius, si deve escludere l’applicazione del principio di ragione sufficiente (o di ragione determinante) alle azioni umane. Accettando di discutere nei dettagli le obiezioni di Crusius Kant intende in realtà difendere la validità del principio, schierandosi dalla parte del determinismo leibniziano ed allineandosi sostanzialmente con le tesi di Wolff. Tuttavia a noi non interessa esporre la soluzione kantiana del problema, considerata unanimemente dagli studiosi assai poco originale e successivamente rifiutata in una pagina della seconda Critica 34. Ci preme invece evidenziare come, nel corso di questa disputa, Kant abbozzi alcuni tratti basilari del problema morale ed introduca alcune distinzioni concettuali che risulteranno determinanti per lo sviluppo delle sue ricerche in questo campo. A questo proposito possiamo individuare due temi specifici che emergono dalle pagine di questo scritto e che per quanto possibile tenteremo di approfondire singolarmente: la nozione di obbligazione o di legge e quella di libertà. sapere. La parabola dell’“Aufklärung” tra pietismo e idealismo, Morano, Napoli 1992, pp. 311-84. Cfr. anche M. Paolinelli, op. cit., pp. 248 ss. 34 Per il rifiuto del determinismo meccanicistico in esplicito riferimento a Leibniz nel contesto della discussione sul problema della libertà cfr. KpV A 174; V 97 [118], dove viene richiamata la celebre immagine del “girarrosto”. Per un approfondimento della tesi determinista sostenuta da Kant nello scritto del 1755 si veda: J. Bohatec, op. cit., pp. 69-80; M. Campo, La genesi del criticismo kantiano, cit., pp. 127-135; G. Tonelli, Elementi metodologici e metafisici in Kant, cit., pp. 140 ss., che sottolinea come Kant, pur ispirandosi al pensiero di Crusius, rifiuti proprio l’arbitrarismo, ossia quella dottrina che era stata alla base della disputa contro il determinismo razionalista. Invece per J. Schmucker, op. cit., pp. 28 ss., la discussione sul determinismo confermerebbe che Kant avrebbe sviluppato la sua etica riprendendo alcuni pensieri fondamentali del sistema wolffiano o in costante confronto critico con esso. Infine secondo D. Henrich, Über Kants früheste Ethik, cit., p. 412, nello scritto di abilitazione Kant svilupperebbe una concezione della volontà che si differenzierebbe già marcatamente dall’intellettualismo wolffiano.

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3.1. L’approfondimento della necessitas moralis Nella Nova dilucidatio, iniziando ad esporre la sua posizione nella parte della proposizione IX dedicata alla “soluzione dei dubbi”, Kant precisa che per difendere l’esistenza della libertà non occorre riprendere la distinzione tra “necessitas hypothetica, in specie moralis” e “necessitas absoluta” (ND I 399 [SP 26]). Occorre invece chiedersi quale sia il fondamento o il “principio necessitante” degli eventi contingenti e delle azioni, ossia stabilire in primo luogo “donde il fatto tragga la sua necessità [unde nempe res sit nesessaria]” (ND I 400 [SP 27])35. Con questo approccio Kant affronta direttamente il problema della necessitas moralis. Egli ammette implicitamente che l’accadere degli eventi contingenti (tra i quali vi sono anche le azioni umane) deve essere fondato e spiegato per mezzo di principi di carattere necessitante che siano in grado di porlo in essere e di determinarlo. Il vasto campo dell’agire e l’esperienza morale nel suo complesso devono quindi essere regolati da leggi o principi vincolanti. Tuttavia qui Kant non si sofferma a chiarire quali siano questi principi. Essi però si possono individuare riflettendo sulla fondamentale “distinzione [discrimen] tra azioni fisiche e azioni che godono di libertà morale” (ND I 400 [SP 28]). Per Kant queste due classi di azioni sono riconducibili a due diverse forme di necessitazione, che esprimono “una differenza di vincolo e di determinatezza” (ND I 400 [SP 28]). Da un lato abbiamo le “azioni fisiche”, le “azioni brute – ossia psico-meccaniche”, che avvengono per mera necessità naturale, “senza alcuna disposizione spontanea dell’arbitrio, conformemente a sollecitazioni ed impulsi esterni” (ND I 400 35 Cfr. anche ND I 400 [SP 28]: “Il cardine del problema qui non è quanto sia necessario l’accadere in futuro di eventi contingenti, bensì donde [unde] derivi la necessità di esso”. Per il tema della necessità morale rimandiamo alle lucide osservazioni di V. Delbos, op. cit., p. 70 s. A voler essere filologicamente precisi occorre però rilevare che nello scritto di abilitazione per indicare la necessitazione morale non viene usato il termine tecnico obligatio, ma observantia (cfr. ND I 387 e 416). Inoltre va sottolineata anche la presenza dei termini lex e nexus. Per queste informazioni è utile la consultazione di P. Pimpinella, Indici e concordanze degli scritti latini di Immanuel Kant, Roma Edizioni dell’Ateneo 1991, vol. II, pp. 239, 246, 250.

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[SP 28])36. Dall’altro lato abbiamo invece le “azioni che godono di libertà morale”, dette anche “azioni degli uomini liberi”, che sono tali perché spontanee, ossia prodotte da un principio di determinazione interno completamente differente. Sulla base di questa distinzione tra i due diversi tipi di necessitazione si può comprendere la tesi kantiana secondo cui anche le azioni libere non sarebbero indeterminate, bensì determinate da una causalità specifica, diversa da quella meccanica o naturale che è alla base delle “azioni fisiche”. Si tratta di una forma di causalità che non si trova “al di fuori delle intenzioni del soggetto e delle sue inclinazioni spontanee” (ND I 400 [SP 28]), bensì è riconducibile ad una ratio interna dotata di autonomia rispetto all’esterno. Precisando questa particolare forma di causalità Kant scrive che le azioni caratterizzate da libertà morale sono determinate da una legge fissa nell’ambito stesso della posizione del volere e dell’appetire, da un vincolo determinatissimo eppure volontario, in quanto l’uomo obbedisce volentieri all’allettamento di certe rappresentazioni (ND I 400 [SP 28])37. 36 “[…] in brutis s. physico-mechanicis actionibus omnia sollicitationibus et impulsibus externis conformiter, absque ulla arbitrii spontanea inclinatione, necessitentur”. Questa tesi è confermata da una delle più antiche annotazioni (databile tra il 1762 e il 1763) dedicate allo studio della “Psicologia empirica” nel manuale di Baumgarten, in cui si legge: “arbitrium est vel liberum vel brutum. In ienem ist man sich der contingentiae internae und externae der Handlung bewust” (Refl. 3715, XVII 254). Il riferimento è a A.G. Baumgarten, Metaphysica, Halle 17797, rist. anast. Olms, Hildesheim 1982, § 712. 37 “[…] in ipsa volitionum appetituumque propensione, quatenus allectamentis repraesentationum lubenter obtemperat, nexu, certissimo illo quidem, at voluntario, actiones stabili lege determinantur”. Per il termine lubens, e più in generale per il tema del lubitus al quale Kant ricorre per spiegare la volontarietà o l’assenso, si tenga presente anche ND I 401 [SP 29]: “Mi dirai che un ente non agisce per altra ragione se non per il fatto che gli è piaciuto [lubuit] di più così. Ma così ti ho in mano in base alla tua dichiarazione stessa. Che cosa è infatti il piacimento [Quia enim est lubitus] se non l’inclinazione della volontà operata verso l’una parte piuttosto che l’altra in funzione dell’attrattiva dell’oggetto: il tuo ‘piace’ o ‘mi va’ [libet s. volupte est] risulta essere un’azione determinata da ragioni interne [actionem per internas rationes determinata innuit]. Il placito infatti [lubitus enim] […] non è che l’acquiescenza della volontà ad un oggetto in ragione dell’attrazione che questo esercita sulla volontà”. Il ricorso al lubitus nella definizione dell’arbitrio deriva probabilmente da Baumgarten, come dimostra una annotazione posteriore (databile intorno al 1764),

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Nel campo dell’agire morale la ratio determinans deve essere intesa sia come lex stabilis che come vincolo obbligante (nexus certissimus ac voluntarius), e proprio per questo il ricorso al principio di ragione determinante non esclude la libertà del volere, anzi: quanto più espressamente la natura d’un uomo è vincolata a questa legge, tanto più gode di libertà, giacché non è fruire di libertà essere trascinato di qua e di là verso gli oggetti da un impulso imprecisato (ND I 401 [SP 28 s.])38.

Se a questo punto volessimo comprendere meglio questo vincolo con la legge, ovvero volessimo individuare quale tipo di necessità Kant attribuisce all’obbligazione morale, dovremmo richiamare brevemente la specifica concezione della necessitas moralis del razionalismo leibniziano-wolffiano, che costituisce la base della definizione della obligatio (o della Vepflichtung). Già Leibniz aveva sostenuto che il carattere necessitante dell’obbligazione morale è diverso dalla necessità logica, per la quale è impossibile che la cosa non sia o accada altrimenti. L’obbligazione morale infatti non impedisce che il rapporto che essa regola di fatto si realizzi altrimenti, anche se in questo caso viene previsto l’intervento di una sanzione. Per questa ragione la necessitas moralis è definita da Leibniz necessitas hypothetica, ossia viene distinta dalla necessitas absoluta, che indica l’impossibilità del contrario e si basa sul principio di contraddizione39. in cui si legge: “Actus voluntatis (liberae) fiunt pro lubitu, actus arbitri bruti pro instinctu (quoad causas impulsivas diversae speciei)” (Refl. 1029, XV/1 461). 38 “Quo huic legi certius alligata est hominis natura, eo libertate magis gaudet, neque vago nisu quaquaversum in obiecta ferri est libertate uti”. Il nesso tra libertà e dovere è abbozzato in termini simili anche nella contemporanea Refl. 2807, XVI 521, dove Kant annota sinteticamente: “Natur der Freiheit in Ansehung der Pflichten”. 39 G.W. Leibniz, Nouveaux essais sur l’entendement humain, Libro II, Capitolo XXI, § 13, in Die philosophischen Schriften, cit., Bd. V, p. 164: “Le verità contingenti non solo non sono necessarie, ma le loro connessioni non sono sempre di necessità assoluta; perché bisogna riconoscere che c’è differenza nelle determinazioni, fra le conseguenze che hanno luogo dove c’è necessità e quelle che hanno luogo dove c’è contingenza. Le conseguenze geometriche e metafisiche necessitano; le conseguenze di tipo fisico o morale inclinano senza necessitare”. Si veda anche Id., Essais

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Riprendendo questa concezione leibniziana, Wolff aveva definito “moralmente necessario” ciò il cui opposto è “moralmente impossibile”; ma siccome una azione moralmente necessaria (ossia un dovere o una obbligazione) può anche non accadere (mentre può accadere una azione che sarebbe moralmente impossibile), anche secondo lui l’azione morale è sottoposta alla necessità ipotetica o condizionata40. Wolff intendeva però questa distinzione tra le due forme di necessità come una differenza di grado, e proprio per questo motivo per lui la necessitas hypothetica rimaneva connessa con quella absoluta; pur venendo equiparata con la causalità, ovvero con la legge che regola gli eventi naturali, essa era retta in ultima istanza dal principio di ragione. Questa dottrina costituisce la cornice teorica in cui Kant incontra il tema dell’obbligazione morale sia nello scritto che stiamo esaminando, sia nella successiva Preisschrift agli inizi degli anni Sessanta. Nel passo che abbiamo citato sopra41, Kant sembra non dare molta importanza alla concezione meramente ipotetica (o contingente) della necessità morale. Egli concentra la sua attenzione non de Teodicée, Disc. Prél., § 2, in Die philosophischen Schriften, cit., Bd. VI, p. 35: “si può dire che la necessità fisica è fondata sulla necessità morale […]: tanto l’una quanto l’altra devono però essere nettamente distinte dalla necessità geometrica. La necessità fisica è l’ordine della natura e consiste nelle leggi del moto ed in alcune altre leggi generali”. 40 Chr. Wolff, Philosophia practica universalis, metodo scientifica pertractata, Frankfurt a.M.-Leipzig 1738-39, in Gesammelte Werke, Bd. II.10, Olms, Hildesheim-New York 1971, § 116: “Quod moraliter necessarium est, nonnisi hypothetice necessarium est. Quod enim moraliter necessarium est, eius oppositum nonnisi moraliter impossibile”. Subito dopo (al § 117) Wolff distingue tra necessità morale vera e apparente: “Moraliter necessarium vere tale est, cuius oppositum revera moraliter impossibile; apparenter autem tale est, cuius oppositum pro moraliter impossibili habetur, cum non sit”. Anche per A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., § 723, il moralmente necessario è ciò il cui opposto non è assolutamente impossibile, ma solo moralmente impossibile. 41 “Quando si fa distinzione tra necessità ipotetica – specialmente morale – e necessità assoluta, non si tratta della forza e dell’efficacia della necessitazione, se cioè il fatto sia più o meno necessitato nell’uno che nell’altro caso; la domanda concerne piuttosto il principio necessitante, donde cioè il fatto tragga la sua necessità” (ND I 400, [SP 27]).

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tanto sulla differenza di grado rispetto alla necessità logica, quanto sull’origine della necessitazione. Già qui egli inizia a rendersi conto che ricondurre la necessità morale a necessità ipotetica significa da un lato fondarla nella necessità assoluta (nel principio di contraddizione), dall’altro equipararla alla causalità fisica degli eventi naturali, ossia al meccanicismo e al determinismo. Come è possibile allora caratterizzare quella specifica forma di causalità che spiega l’agire morale, distinguendola sia dalla causalità fisica che dalla cogenza logica? A questo punto il problema della necessità morale si intreccia col problema della libertà del volere, indirizzando Kant verso l’individuazione di una necessitazione spirituale, di tipo soggettivo o psicologico, aprendo la strada verso una concezione della causalità completamente differente da quella fisico-meccanica, che verrà chiamata successivamente a priori o noumenica42. Nel corso di questa evoluzione, nella Preisschrift Kant arriverà a definire l’obbligazione in un modo completamente nuovo, che non trova precedenti nella storia di questo concetto: teorizzerà una forma autonoma di necessità morale che non sarà ipotetica, ma incondizionata o assoluta. Si tratta di una svolta preparata nello scritto di abilitazione dalla discussione – purtroppo non sempre lineare – che pone a confronto il concetto di obbligazione della scolastica razionalista con l’arbitrarismo crusiano. Al fine di evidenziare le premesse concettuali di questa svolta vale la pena soffermarci sull’esempio della menzogna. In questo caso il problema non è tanto di vedere “quanto [quantopere] sia necessario” questo fatto, bensì “donde [unde] derivi la necessità di esso” (ND I 400 [SP 28])43. Non si tratta quindi di distinguere il gra42 Opportunamente J. Schmucker, op. cit., p. 31 (nota 7), cita una annotazione dedicata al tema dell’arbitrium nel manuale di Baumgarten (databile tra il 1764 e il 1768), che riassumerebbe l’evoluzione del concetto di necessità morale in relazione alle diverse forme di causalità (Refl. 3855, XVII 313 s.). In questa annotazione Kant distingue tra la causalità meccanica, propria degli animali, e il “principio immateriale” dello spirito proprio degli uomini. Quest’ultimo è un “principio interno”, che rompe la catena del determinismo. Si tratta di una concezione le cui premesse si trovano abbozzate nello scritto di abilitazione del 1755. 43 “Caio ha detto una bugia” (ND I 399 [SP 26]). In questo contesto, per indi-

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do di necessità, quanto di individuarne l’origine stabilendo quale ratio (principio o movente) renda possibile a Caio di determinare il proprio agire non in coerenza con l’attributo della sincerità proprio della sua essenza di uomo, bensì sulla base del suo contrario. La via imboccata da Kant in queste pagine porta ad individuare questa ratio in un principio interno al soggetto agente, e non in una motivazione esterna alle sue facoltà. La distinzione tra processi fisico-meccanici e azioni morali non sta tanto nel fatto che i primi sarebbero necessariamente determinati mentre le seconde sarebbero completamente indeterminate; piuttosto la distinzione consiste nel fatto che gli eventi naturali procedono sulla base di stimoli esterni, mentre le azioni morali sono prodotte da moventi interni 44. 3.2. Libertà del volere e principio di determinazione interiore Se, dopo questa divagazione sull’evoluzione del concetto di obbligazione, torniamo alle pagine della Nova dilucidatio, possiamo riassumere l’approccio kantiano al problema morale individuando i seguenti nuclei tematici: la distinzione tra due tipi di azioni, il problema della determinazione dell’agire in base ad una “legge fissa” capace di obbligare, ed infine una prima riflessione sulla libertà del volere. Proprio quest’ultima riflessione porta a confermare che le azioni libere derivano da una inclinazione (o da una scelta) che si basa su un principio di determinazione diverso dalla mera causalità fisico-meccanica, prospettando l’idea di una forma di causalità specifica ed autonoma. Sembra infatti che l’agire morale possa avvenire solo sulla base di una obbligazione interiore, di un movente (moticare l’obbligazione morale, compare l’esempio della menzogna. Si tratta di un esempio fortunato, che ritornerà spesso nelle opere della maturità: cfr. GMS A 19; IV 403 s. [35]; MdS A 83; VI 428 ss. [287 s.]. 44 Questa distinzione tra stimoli esterni e moventi interni rende superflua la riconduzione scolastica della necessitas moralis alla necessitas hypothetica e libera la prima dalla equiparazione con la causalità fisica. Questa distinzione kantiana sembra riprendere e radicalizzare la differenziazione tra azioni generate da cause impulsive esterne, o da motivi dovuti a coazione fisica, e quelle prodotte dalle determinazioni interne del soggetto, elaborata da A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., §§ 707-710 e 726.

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vum, Beweggrund) nettamente distinto dagli impulsi esterni (rappresentati dalle inclinazioni sensibili), ovvero sulla base di un vincolo al quale l’uomo si sente obbligato senza essere in conflitto con la libertà del proprio volere. Già qui obbligazione e libertà non sono concetti contrastanti o opposti, ma strettamente connessi. Sulla base di questi presupposti la nozione di libertà viene precisata specificando la natura del principio di determinazione interno da cui sorgono le azioni morali. Questo principio è spontaneo. Infatti scrive Kant: la spontaneità è un’azione che parte da un principio interno [spontaneitas est actio a principio interno profecta]. Quando la spontaneità poi viene determinata in conformità alla rappresentazione dell’ottimo, prende il nome di libertà. Un uomo è tanto più libero, quanto più fermamente risulta ottemperare a questa legge, quanto più dunque è determinato da tutti i moventi posti per volere (ND I 402 [SP 30 s.]).

Di conseguenza l’azione morale è detta libera quando obbedisce a moventi razionali (quali la rappresentazione dell’ottimo fornita dall’intelletto), ovvero quando si libera da moventi derivati da una cieca efficacia naturale e meccanica. La libertà del volere, la libertas spontaneitatis, è dunque conformità ad una legge e non va confusa con la mera libertà dell’arbitrio, con la libertas indifferentiae (o indifferentia aequilibrii) difesa da Crusius. Nell’efficace dialogo che oppone le tesi del crusiano Caio a quelle del kantiano Tizio, viene criticato con decisione l’arbitrarismo e viene ribadito che l’azione è libera non perché non sia soggetta a necessitazione alcuna, ma perché la specifica necessitas moralis (l’obbligazione che la determina) non è esterna ma interna (e quindi spontanea). L’uomo non si trova mai a dover scegliere “in una posizione di indifferenza verso ciascuna delle parti dell’alternativa”, per cui egli potrebbe “comunque scegliere qualsiasi cosa in luogo di qualsiasi altra” (ND I 402 [SP 31]). La sua volontà è invece determinata ad agire così e non altrimenti da una rappresentazione della bontà dell’oggetto che porta il soggetto a scegliere “non contro voglia, bensì volentieri [lubens]”, secondo una “propensione spontanea in conformità agli allettamenti dell’oggetto stesso [secundum allectamenta objecti spontanea pro-

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pensio]”, verso cui tende l’azione (ND I 402 [SP 30]). L’essenza della libertà sta dunque nella spontaneità intesa come auto-determinazione o autonomia da moventi esterni (o eteronomi)45. In conclusione Kant ribadisce che “agire liberamente significa agire conformemente alla propria inclinazione e pertanto agire con coscienza” (ND I 403 [SP 32])46. Qui “agire con coscienza” significa non poter evitare di “ritenere che l’applicazione della nostra volontà è esente da ogni legge e priva di ogni determinazione fissa” (ND I 402 [SP 30]). La specificità dell’esperienza morale consiste infatti nell’ammettere un movente interno alla volontà, riconoscendo che ciò che accade per volontà di enti intelligenti e dotati del potere di autodeterminarsi spontaneamente trae la sua origine da un principio assolutamente interno [ex interno sane principio], da appetizioni consapevoli e dalla scelta di una delle alternative in base alla libertà del giudizio (ND I 404 [SP 33 s.]).

Il soggetto morale è un ente intelligente dotato di volontà, ossia del potere di determinare il proprio agire vincolandolo a questo principio interno. Ammettere tale principio non significa accettare acriticamente l’intellettualismo deterministico, cedere al fatalismo, oppure negare la libertà e l’imputazione per quanto riguarda la pos45 L’indipendenza da moventi esterni e il riferimento al principio interno della “innere Nothwendigkeit” costituiscono anche il punto di partenza della concezione kantiana della libertà abbozzata in un gruppo di importanti annotazioni databili tra il 1764 e il 1768 (Refl. 3855-3872, XVII 313-320), che purtroppo non possiamo analizzare dettagliatamente in questa sede. 46 “Libere agere est appetitui suo conformiter et quidem cum conscientia agere”. Kant aggiunge: “E ciò non è certo escluso dalla legge della ragione determinante”. Su questa specifica concezione della libertà rimandiamo alla sintetica nota di P. Pimpinella, Die Begründung des Freiheitsbegriffs in der “Nova dilucidatio”. Der Dreißigjärige Kant zwischen Wolff und Crusius, in G. Funke (Hrsg.), Akten des Siebten Internationalen Kant-Kongresses, de Gruyter, Berlin 1991, Bd. II.1, pp. 31-40. Per la ricostruzione del contesto storico si veda anche l’utile ricerca di A. Bonetti, Studi sulla formazione della concezione kantiana della libertà, I.S.U., Milano 1994, pp. 39-45, e l’ampia monografia di M. Forschner, Gesetz und Freiheit. Zum Problem der Autonomie bei I. Kant, Pustet, München-Salzburg 1974, pp. 59 ss. Per lo sviluppo del problema della libertà in epoca critica rimandiamo al documentato lavoro di F. Chiereghin, Il problema della libertà in Kant, Pubblicazioni di Verifiche, Trento 1991.

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sibilità di commettere il peccato e il male. Infatti anche “l’origine dei mali ha sede in un principio interno di autodeterminazione [in interno semet determinandi principio]” e il peccato avviene “per una disposizione volontaria ed intima dell’animo” (ND I 404 s. [SP 35]). Agire liberamente significa infatti recte sentire il vincolo di una costrizione necessitante che viene dall’interno di noi stessi. Si tratta di un sentire che va di pari passo con una prima definizione della nozione di coscienza morale e che rappresenta il punto di partenza per il successivo approfondimento dell’origine dell’obbligazione negli scritti degli anni Sessanta47.

4. Perfezione morale e obbligazione nella Preisschrift del 1762/64 Se un’approfondita lettura della Nova dilucidatio ci ha permesso di documentare una prima fase del confronto con alcuni temi di argomento morale, più difficile risulta seguire l’evoluzione del pensiero kantiano nella seconda metà degli anni Cinquanta. Infatti, nei lavori pubblicati in questo periodo non vengono esplicitamente trattate tematiche morali, anche se questo fatto non depone a favore di una mancanza di interessi per tali problemi. Infatti, le documentate ricostruzioni storiche attestano che il giovane Magister tenne il suo primo corso di etica già nel semestre invernale del 1756/ 57; successivamente il corso venne ripetuto anche nel semestre estivo del 1759 e poi in quello invernale del 1759/6048. Di quest’ulti47

Questa nozione di coscienza morale, interna al soggetto agente, andrebbe confrontata con i numerosi approfondimenti presenti nelle Vorlesungen degli anni Sessanta e Settanta citate sopra alla nota 10. In particolare andrebbe analizzata la Praktische Philosophie Herder, seguendo le preziose indicazioni di G. Lehmann, Zur Analyse des Gewissens in Kants Vorlesungen über Moralphilosophie, in Id., Kants Tugenden. Neue Beiträge zur Geschichte und Interpretation der Philosophie Kants, de Gruyter, Berlin 1980, pp. 27-58. Anche A. Lamacchia, La filosofia della religione in Kant, cit., pp. 138-149, ha rilevato come nello scritto di abilitazione il tema della interiorizzazione del principio etico costituisca la premessa per una prima definizione della coscienza morale. 48 Cfr. E. Arnoldt, Kritische Exkurse im Gebiete der Kant-Forschung, Beyer,

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mo corso possediamo una attestazione dello stesso Kant alla fine del suo breve scritto sull’ottimismo, dalla quale apprendiamo che le sue lezioni sarebbero state svolte utilizzando il manuale di Baumgarten49. Purtroppo, a causa della mancanza di materiali, non possiamo sapere con precisione quali fossero le idee kantiane nei tre corsi di etica tenuti nella seconda metà degli anni Cinquanta. Se passiamo in rassegna il vasto ed eterogeneo materiale del Nachlaß, l’attenzione si sofferma su una annotazione che definisce la specificità della morale per la filosofia: La filosofia del sano intelletto non deve giudicare col sensus communis, perché in questo caso non sarebbe filosofia […]. La filosofia del sano intelletto è invece quella nella quale la sana ragione fornisce i criteri della filosofia. Questa è solo la morale (Refl. 1578, XVI 116).

Tuttavia in questo periodo non è ancora chiara la distinzione tra pratico e teoretico, né si sa ancora con certezza se la morale sia legata al Geschmack o al Gesetz50. In un’altra annotazione Kant comKönigsberg 1894, p. 625. Per i corsi di logica, metafisica, scienze naturali e geografia, tenuti da Kant in questi anni, possiamo tenere presente le scarne notizie contenute in I 503 s.; II 1-12; 25. Sono in corso di pubblicazione i corsi di geografia fisica (tra cui il corso del 1758/59); essi comprendono una trattazione generale della natura umana e sono quindi rilevanti anche per l’etica. 49 I. Kant, Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbjahre von 1765-1766, Kanter, Königsberg 1765: “Nel prossimo semestre terrò le mie lezioni di logica, come è mia abitudine, sul testo del Meier, quelle di metafisica sul testo del Baumgarten ed anche quelle di etica sul testo dello stesso autore” (A 12; II 310 [SP 99]). Allo stato attuale delle nostre conoscenze ci sembra di poter affermare che il compendio utilizzato da Kant in questo corso sia quello di A. G. Baumgarten, Ethica philosophica, Halle 1740 (e non gli Inizia philosophiae practicae primae, pubblicati ad Halle solo nella primavera del 1760 [ora rist. in XIX 7-91]). Non ci è invece possibile stabilire se anche nei due precedenti corsi di etica Kant abbia adottato lo steso manuale di Baumgarten, oppure quello di Fr.Chr. Baumeister, Elementa philosophiae recentioris, Leipzig 17553, utilizzato secondo Arnoldt nel successivo corso del semestre invernale del 1763/64. 50 Si veda ad esempio Refl. 1579, XVI 20 s., in cui si distinguono le regole della logica da quelle della morale e si afferma che “Die Moral ist eine Philosophie über die allgemeinen Gesetze (Regeln) des guten Gebrauchs unseres Willens”, ossia ha per oggetto le “subiective Gesetze des Willens”. Cfr. anche Refl. 1634, XVI 55, in cui si discute della suddivisione della filosofia in teoretica e pratica, e Refl. 1748,

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menta la suddivisione del giudizio in pratico e teoretico: “se qualcuno è in grado di cogliere come ciò che è presente si connetta con ciò che presumibilmente accadrà in futuro, questi ha un judicium pratico [praktisches judicium]”, con cui può esaminare “la connessione delle azioni” e formulare di conseguenza una considerazione su come agire (Refl. 403, XV/1 162 s.)51. Questo tipo di giudizio è alla base della “scienza pratica [praktische Wissenschaft]” e si distingue nettamente dal “semplice giudizio teoretico”, che è basato sull’esame della connessione delle diverse conoscenze con la regola della perfezione logica, ma che però non aiuta a prevedere gli eventi prodotti dalle azioni52. Si potrebbe intravedere in questa annotazione un primo vago abbozzo del tema del “giudizio pratico [praktische Urteilskraft]”, che svolgerà un ruolo importante nella “Tipica” della seconda Critica53. Forse però è più importante sottolineare l’affiorare della distinzione tra il campo teoretico, orientato da una idea puramente logica di perfezione, e quello pratico che riguarda il campo indeterminato degli eventi prodotti da azioni. A questo proposito, mentre il giudizio teoretico riguarda ciò che è (“gli eventi presenti”), quello pratico riguarda “gli eventi previsti” dall’azione, che quindi non sono ancora presenti. Si tratta di una differenziazione di piani, che rimanda alla specificità dell’“appetire” o del “desiderio [Begierde]”. Quest’ulXVI 100, in cui invece si abbozza un impreciso collegamento tra perfezione morale e Geschmack, facendo riferimento alla sensibilità. 51 L’annotazione in questione è datata da Adickes tra il 1753 e il 1763. Per i riferimenti al manuale, cfr. A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., § 606: “Habitus res diiudicandi est iudicium, ideque de praeviis practicum, de aliis theoreticum vocatur”. 52 Chiarificatore è a questo proposito l’esempio dell’uomo di stato: “Un uomo di stato può possedere tutte le regole dell’arte di governare; se però non esamina bene come si possa pervenire ad eventi futuri, è uno statista meramente teoretico. Infatti egli prevede qualcosa di completamente diverso da quello che successivamente si verificherà, mostrando in questo modo di non esercitare alcuna scienza pratica [so zeigt in der Ausübung keine praktische Wissenschaft]” (Refl. 403, XV/1 162). 53 KpV A 120-126; V 68-71 [84-88], dove ritorna con maggiore chiarezza la distinzione tra “regola universale in abstracto” e giudizio pratico come applicazione della regola in concreto.

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timo infatti si rappresenta il senso di piacere mediante la previsione di eventi futuri, e in questo modo la “facoltà appetitiva” (o la volontà) trova la sua attività specifica ed inizia a profilarsi nella sua autonomia54. Nella precedente annotazione citata Kant fa riferimento di sfuggita alla connessione tra giudizio teoretico ed idea logica di perfezione, mentre non accenna al nesso tra giudizio pratico e perfezione morale. Eppure la nozione di perfezione (Vollkommenheit), ereditata dalla scolastica razionalista, gioca un ruolo importante nella definizione dell’obbligazione morale, come è documentato dagli scritti della prima metà degli anni Sessanta, sui quali concentreremo ora la nostra attenzione. Si tratta di opere diverse, ciascuna delle quali accenna in forma più o meno diretta al problema morale. Tra di esse particolare importanza assume la cosiddetta Preisschrift 55, uno 54 A questo proposito particolarmente significative sono le Refl. 1003 e 1004, XV/1 444 s. (secondo Adickes anteriori al 1764), in cui si afferma che la capacità di vedere in anticipo il bene futuro delle azioni è la facoltà chiamata “praktische Begierde”. Inoltre richiamiamo alcune annotazioni della seconda metà egli anni Cinquanta, in cui la volontà (o la facoltà appetitiva) sembra già presentarsi con una certa autonomia: Refl. 1570, XVI 7, in cui si afferma “Der Mensch hat Sinn zu empfinden, Verstand zum Denken und einen Willen zu wählen oder zu veabscheuen”; Refl. 1804, XVI 121 s., in cui si parla di “Rgeln des Willens”; Refl. 2293, XVI 302 s., in cui l’ambito pratico è suddiviso in “Gefühl, Begierde und Kraft”; Refl. 2812, XVI 524, in cui si parla di una “Wissenschaft der Pflichten”. 55 I. Kant, Untersuchung über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der Moral, Berlin, Hande 1764 (II 273-301 [SP 215-248]). Lo scritto venne composto alla fine del 1762, probabilmente subito dopo (o durante) la stesura del Beweisgrund, in breve tempo e in modo affrettato, come ammette lo stesso Kant nella “Postilla” (Unt. A 99; II 301 [SP 247]). Questa insoddisfazione è confermata anche dalla lettera a Formey, del 28 giugno 1763 (X, 41), in cui Kant esprime l’intenzione di rielaborare lo scritto prima della sua pubblicazione, cosa che invece non avvenne. Elenchiamo qui di seguito gli altri scritti editi del periodo 1762-1764, in cui sono presenti alcuni riferimenti al problema morale e che richiameremo solo parzialmente: Der einzigmögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, Kanter, Königsberg 1763 (II 63-164 [SP 103-213]; Versuch den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen, ivi 1763 (II 165-204 [SP 129290]); Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, ivi 1764 (II 205256 [SP 291-346]). Quest’ultimo scritto, insieme alle Bemerkungen (datate da Lehmann intorno al 1765 e pubblicate nel vol. XX 3-192), costituiscono di gran lunga il materiale più importante per l’evoluzione del pensiero morale kantiano

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scritto composto alla fine del 1762 ma pubblicato successivamente nel 1764, l’unico dell’intero periodo precritico che contiene esplicitamente un’autonoma trattazione dei problemi morali in forma organica. L’occasione per la stesura di questo scritto fu offerta dal bando dell’Accademia delle Scienze di Berlino, che chiedeva se le verità metafisiche ed i principi primi della teologia naturale e della morale potessero avere la stessa évidence delle verità matematiche56. Kant intende il quesito come una domanda circa la certezza del sapere filosofico e conferisce allo scritto un taglio prevalentemente metodologico e programmatico. Opponendosi nettamente alla concezione wolffiana, che considerava l’approccio matematico (o dimostrativo) come l’unico metodo valido per tutte le scienze, Kant separa il procedimento matematico dalla filosofia57. Quest’ultima, identificata con la metafisica, non segue la via della deduzione e della sintesi, ma procede analiticamente: parte da una rappresentazione data, che nella prima metà degli anni Sessanta, come è stato dimostrato da J. Schmucker, op. cit., pp. 99-142; 173-256. Per completezza tutti gli scritti citati andrebbero confrontati con i corsi di etica, ripetuti regolarmente da Kant annualmente nel semestre invernale tra il 1760/61 e il 1764/65, dei quali purtroppo ci è pervenuta soltanto la Praktische Philosophie Herder (XXVII/1 3-89). 56 Per il testo del bando cfr. II 493-495. Come è noto, Kant partecipò al concorso, ma il suo scritto ottenne solo la menzione, mentre il premio andò al saggio di M. Mendelssohn, Abhandlung über die Evidenz in metaphysischen Wissenschaften, ora in Gesammelte Schriften. Jubiläumsausgabe, Bd. 2, Frommann-Holzboog, StuttgartBad Cannstatt 1972, pp. 267-330. Per un confronto tra lo scritto di Kant e quello di Mendelssohn rimandiamo al dettagliato studio comparativo di S. Zac, Le prix et la mention (Les Preisschriften de Mendelssohn et de Kant), in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 79 (1974), pp. 473-498. 57 L’importanza di questa separazione tra metodo matematico e metodo filosofico è concordemente sottolineata da tutti gli studiosi. Si vedano in particolare le sintetiche e precise osservazioni di H.J. De Vleeschauwer, L’evoluzione del pensiero di Kant, cit., pp. 32 ss., e lo studio analitico di R. Malter, L’analyse comme procédé de la métaphysique. L’opposition à la méthodologie wolffienne dans la “Preisschrift” de Kant en 1763 (1764), in “Archives de Philosophie”, 42 (1979), pp. 575-591. Per gli aspetti logici dell’argomentazione kantiana rimandiamo al saggio di A. Moscato, La dottrina del metodo nella “Ricerca sull’evidenza dei principi della teologia naturale e della morale” di Kant, in Id., Metafisica e intelligibilità. Studi di filosofia teoretica, a cura di F. Camera, Brigati, Genova 2000, pp. 99-118.

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però è ancora indistinta o confusa, e attraverso la sua scomposizione perviene agli elementi semplici che la compongono, i quali non sono ulteriormente divisibili o analizzabili. Secondo questo metodo analitico la definizione non è il punto di partenza della filosofia, bensì il punto di arrivo. Tale metodo infatti consiste nell’individuare alcuni “concetti primi” (detti anche Elementarbegriffe, Grundbegriffe, Grundsätze o erste Prinzipien), oltre ai quali non è possibile risalire; essi rappresentano il risultato chiarificatore del procedimento di analisi, sono dotati di una loro specifica Deutlichkeit, diversa dalla évidence matematica, e sono indimostrabili. Questa impostazione metodologica è operante anche nella parte finale dello scritto (la Vierte Betrachtung), che tratta “della chiarezza e della certezza di cui sono capaci i principi primi della teologia naturale e della morale [von der Deutlichkeit und Gewißheit, deren die erste Gründe der natürlichen Gottesgelahrtheit und Moral fähig sind]” (Unt. A 94-99; II 296-300 [SP 242-246]). Qui gli erste Gründe der Moral vengono intesi come principi di carattere filosofico e sottoposti di conseguenza ad analisi, per stabilire il loro particolare livello di “chiarezza” e di “certezza”. 4.1. L’analisi dei concetti di perfezione e di obbligazione Mentre il breve paragrafo 1 della Vierte Betrachtung è dedicato alla teologia naturale58, il paragrafo 2 contiene la prima esposizione tematica del pensiero morale kantiano in epoca precritica, che riassume i risultati di molti anni di riflessioni sull’argomento59. Già nel 58

Cfr. Unt. A 93 s.; II 296 s. [SP 242 s.], dove vengono riprese in modo troppo schematico le conclusioni del Beweisgrund. Inoltre Kant afferma che in teologia naturale, per quanto concerne la conoscenza degli attributi divini (libertà, provvidenza, giustizia, bontà), possiamo “avere soltanto una certezza per approssimazione, o una certezza morale [eine Gewißheit durch Annährung haben, oder eine die moralisch ist]”. Su questa nozione di “certezza morale” ritorneremo più avanti nel paragrafo 4.4. 59 P. Menzer, Der Entwicklungsgang der Kantischen Ethik, cit., pp. 302-308, ha per primo richiamato l’attenzione sull’importanza di questa sezione della Preisschrift per l’evoluzione del pensiero morale kantiano. Anche M. Campo, La genesi del criticismo kantiano, cit., pp. 343 ss., vede qui “il primo abbozzo di etica”. Tra la vasta

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titolo il paragrafo propone una tesi ben precisa, che viene immediatamente svolta ed argomentata con metodo analitico. Kant esordisce con queste parole: “I primi principi della morale [die ersten Gründen der Moral] nella loro costituzione attuale non sono capaci di tutta l’evidenza richiesta [erforderliche Evidenz]” (Unt. A 96; II 298 [SP 244]). La trattazione morale della Preisschrift si apre dunque con un’affermazione che rappresenta una critica esplicita alle principali dottrine morali dell’epoca, inaugurando un atteggiamento che ritroveremo spesso nelle lezioni di etica degli anni successivi60. Un altro punto caratterizzante, che troviamo all’inizio dello scritto, è la tesi secondo cui la morale è una disciplina filosofica, che si basa anch’essa su “principi [erste Gründe o Grundsätze]” che richiedono una loro specifica “evidenza”, seppur diversa da quella delle verità matematiche. Anche in questo caso, come già era avvenuto per la conoscenza metafisica, si tratta di principi che si possono reperire attraverso l’analisi e la scomposizione di rappresentazioni date. E mentre in precedenza tra i principi primi della conoscenza Kant aveva citato lo spazio e il tempo, ovvero le rappresentazioni di contiguità e di successione61, tra i principi dell’esperienza morale letteratura critica, lo studio più approfondito e dettagliato di queste pagine kantiane rimane quello di J. Schmucker, op. cit., pp. 54-95. Egli sostiene che qui Kant avrebbe condensato il risultato di lunghe riflessioni sui problemi morali, conquistando per la prima volta “seinen neuen Standpunkt in der Moralphilosophie”. 60 Si veda ad esempio: I. Kant, Eine Vorlesung über Ethik, cit., p. 16-25 [tr. it. cit., pp. 8-17]; Praktische Philosophie Powalski (XXVII/1 99-110); Moralphilosophie Collins (XXVII/1 247 ss.). Una sintetica scansione delle principali tappe della storia dell’etica è tratteggiata nella Refl. 6624, XIX 116. Cfr. anche Refl. 6601 e 6607, XIX 104 e 106, dedicate all’etica degli antichi, e più in generale Refl. 6583-6584, XIX 94-96. 61 Cfr. Unt. A 84; II 287 [SP 231]. Occorre ricordare che nella Erste Betrachtung (Unt. A 75; II 280 [SP 223]), dedicata alla distinzione tra metodo matematico e filosofico, Kant cita tra i concetti filosofici anche “quelli dei vari sentimenti dell’animo umano, il senso del sublime, del bello, del disgustoso ecc., senza la cui esatta conoscenza e soluzione non si conoscono sufficientemente i moventi [Triebfedern] della nostra natura”. Inoltre subito dopo elenca anche i concetti di piacere [Lust], dispiacere [Unlust], desiderio [Begierde] e repulsione [Abscheu]. Nello stesso senso va inteso anche il concetto di libertà, confrontato per differenza con quello matematico di trilione (Unt. A 78; II 282 [SP 226]). Secondo Kant tutti questi concetti citati

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egli indica ora il concetto di obbligazione (Verbindlichkeit). Si tratta di un “principio primo”, che fonda e spiega l’attività morale, ma che secondo Kant non ha ancora raggiunto “tutta l’evidenza richiesta”. Esso quindi deve essere sottoposto ad un’analisi specifica, soprattutto per dimostrarne l’indipendenza da un altro concetto fondamentale: il concetto di perfezione (Vollkommenheit). Come vedremo fra poco, nella Preisschrift Kant si sofferma soprattutto sul concetto di obbligazione, mentre per quanto riguarda la perfezione dobbiamo integrare la nostra esposizione facendo riferimento ad alcune importanti precisazioni contenute nel Beweisgrund. In questo scritto, contemporaneo della Preisschrift, Kant rivolge una critica tanto sintetica quanto puntuale al concetto di perfezione (e di bene morale) proprio della scuola leibniziano-wolffiana. Contro l’impostazione intellettualistica ed astratta della scuola – che pensava la perfectio sulla base dell’identità logica o come principio ontologico del reale – Kant abbozza una nuova concezione della perfezione che avrà conseguenze decisive per l’evoluzione del suo pensiero morale62. Di questa svolta sembra essere pienamente consapevole quando dichiara che: Dopo aver per lungo tempo fatto accurate indagini sul concetto di perfezione [Vollkommenheit] in generale o in particolare, mi sono dovuto persuadere che in una più rigorosa conoscenza di essa stia na(compreso quelli morali) non sono ancora capaci “di tutta l’evidenza richiesta”. Del resto che i concetti morali nel loro insieme siano “oscuri” viene annotato anche nella Refl. 1681, XVI 81. 62 I. Kant, Der einzigmögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, cit., A 45; II 90 [SP 132]), in cui si giustifica per non aver utilizzato, nell’esposizione del suo argomento a priori dell’esistenza di Dio, il concetto di perfezione ed afferma di non condividere l’equivalenza di Vollkommenheit e Realität o la sua “massima concordanza nell’uno”. Qui Kant prende esplicitamente le distanze dalla definizione di perfezione, che si trova in Chr. Wolff, Philosophia prima sive ontologia metodo scientifica pertractata, Frankfurt a.M.-Leipzig 1730, in Gesammelte Werke, Bd. II.3, Olms, Hildesheim 1961, § 503: “Perfectio est consensus in varietate, seu plurimum a se invicem differentium in uno”. In contrapposizione a questa concezione metafisica nella Refl. 1748, XVI 100, Kant propone la seguente definizione: “Die Zusammenstimmung des Mannigfaltigen in einer Sache zu einer gemeinschaftlicher Absicht heißt Vollkommenheit”.

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scosto moltissimo, che può chiarire la natura di uno spirito, il nostro proprio sentimento, e anche i concetti primi della filosofia pratica [was die Natur eines Geistes, unser eigen Gefühl und selbst die ersten Begriffe der praktischen Weltweisheit]63.

Infatti, continua Kant, “mi sono accorto che l’espressione ‘perfezione’ […] presuppone sempre una relazione ad un essere che ha conoscenza [Erkenntnis] e appetito [Begierde]” 64. Nel contesto teologico dello scritto in questione questa definizione di perfezione serve a sostenere la connessione tra ens necessarium ed ens perfectissimum. Per il nostro tema invece è importante osservare che, se la perfezione viene pensata in stretta relazione con un soggetto personale dotato di appetito e volontà, essa risulta sottratta “all’astratta struttura formale del legame logico-ontologico della definizione razionalista, dove indicava ancora la struttura di un oggetto per sé sufficiente a muovere la volontà ad agire” 65. Per Kant la perfezione in generale non è più un concetto ontologico, stabile e predeterminato, un contenuto oggettivo che come tale viene rappresentato dall’intelletto e fornito alla volontà come movente. Il concetto di perfezione viene invece definito a partire dalle rappresentazioni offerte dall’esperienza interna del soggetto; in questo modo ciò che è perfetto (il bene) non è un oggetto esterno posto prima dell’azione, ma è una rappresentazione che dipende dalla volontà dell’agente. Di conseguenza un oggetto non è desiderabile per la sua perfezione intrinseca, che precede (e suscita) l’appe63 I. Kant, Der einzigmögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, cit., A 45; II 90 [SP 132 s. ]. 64 Ivi, A 46; II 90 [SP 132 s. ]. 65 A. Lamacchia, La filosofia della religione in Kant, cit., pp. 196, che insiste sull’importanza di questa critica alla concezione razionalista di perfezione per l’evoluzione del pensiero etico e religioso kantiano di questo periodo. J. Schmucker, op. cit., p. 53 s., sostiene che la specificità della concezione kantiana consiste nella soggettivizzazione della perfezione morale. G.B. Sala, art. cit., p. 74, osserva però come qui Kant sia più attento a criticare la concezione di Wolff che a delineare con una certa precisione la propria. La concezione della perfezione, sostenuta nel Beweisgrund, era stata preparata dalla distinzione tra “perfezione in senso assoluto” e “perfezione in senso relativo”, introdotta in I. Kant, Versuch einiger Betrachtung über den Optimismus, Driest, Königsberg 1759, A 4; II 30 [SP 94].

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tizione o il desiderio, bensì è perfetto (e buono) in rapporto immediato alle esigenze della volontà66. Per questo Kant può dire che il concetto di perfezione da lui proposto “presuppone sempre una relazione con un essere che ha conoscenza e appetito” 67. Esso è collegato con “il nostro proprio sentire [unser eigen Gefühl]”, ed è proprio a partire da questo “sentire” che si possono chiarire “i concetti primi della filosofia pratica [die ersten Begriffe der praktischen Weltweisheit]” 68. Tornando alle pagine della Preisschrift, dedicate alla trattazione dei “primi principi della morale [die ersten Gründen der Moral]”, passiamo ora ad esaminare quanto Kant afferma a proposito dell’altro “principio primo” che non è ancora dotato dell’evidenza richiesta: il principio dell’obbligazione o del dovere. Come era già avvenuto per il concetto di perfezione, anche in questo caso Kant accenna implicitamente ad un confronto critico con le posizioni della scuola leibniziano-wolffiana. Egli esordisce osservando che “il primo concetto stesso dell’obbligazione [Verbindlichkeit]” è ancora “poco 66 Questa concezione della perfezione (e del bene), strettamente legata alla volontà e alla legge, troverà la sua più completa esposizione nel “Capitolo II” dell’“Analitica” della seconda Critica: KpV A 110; V 63 [78]: “il concetto del buono e del cattivo non deve venir determinato prima della legge morale […] ma solo […] dopo di essa, e mediante di essa”. Per il carattere innovativo della tesi kantiana rimandiamo allo studio di G.B. Sala, art. cit., pp. 344 ss. La definizione della perfezione in riferimento ad un essere pensante razionale si trova accennata anche in una Vorlesung di metafisica dello stesso periodo: Metaphysik Herder, XXVIII/1, 50; 73 s.; 126. Anche nella Refl. 6589, XIX 97, (databile al 1764), il bene viene definito in relazione alla volontà: “Gut ist etwas, so fern es mit dem Willen zusammenstimmt”. 67 Il ricorso al termine desiderio o “appetito [Begierde]” indica, seppur in modo ancora impreciso, la facoltà appetitiva o la volontà, distinta dall’intelletto, ossia dall’ambito conoscitivo (o teoretico). A questo proposito nella Zweite Betrachtung della Preisschrift (Unt. A 80; II 284 [SP 228]) Kant cita il desiderio come esempio di concetto oscuro, che richiede di essere chiarito col metodo dell’analisi: “Quand’anche io non spiegassi mai cosa sia un desiderio [Begierde], pure potrei affermare con certezza che ogni desiderio presuppone una rappresentazione di ciò che si desidera, che quella rappresentazione è una previsione del futuro, che ad essa si ricollega il sentimento di piacere [das Gefühl der Lust]. Ognuno percepisce tutto ciò nella coscienza immediata del desiderio [in dem unmittelbaren Bewußtsein der Begierde]”. 68 I. Kant, Der einzigmögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, cit., A 45; II 90 [SP 133].

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noto”, e di conseguenza si è ancora “lontani dal fornire alla filosofia pratica [praktische Weltweisheit] la chiarezza e la certezza dei concetti fondamentali e dei principi che sono necessari all’evidenza” (Unt. A 96; II 298 [SP 244]). Per la scolastica razionalista Verbindlichkeit (Verpflichtung o obligatio) è il concetto generale che esprime la necessitatio moralis, ossia ciò il cui opposto sarebbe moralmente impossibile (o immorale)69. Tuttavia la critica di Kant non sembra rivolta a questo concetto, ma ha di mira la definizione del dovere (Pflicht) in stretta connessione con l’idea di perfezione, proposta da Wolff (seppur con accenti diversi) prima nella sua etica tedesca e successivamente nella Philosophia practica universalis. Senza entrare nel merito di distinzioni o periodizzazioni, ci limitiamo a ricordare che per Wolff l’obbligazione morale è una manifestazione spontanea (ossia non coercitiva) della natura umana. Il dovere (Pflicht) risulta conforme con l’essere (con la natura) e proprio per questo viene identificato con la legge naturale70. L’uomo è obbligato (ossia 69

Cfr. A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., § 723: “Necessitatio moralis est obligatio [Verbindung, Verpflichtung]. Obligatio ad actionam invitam erit coactio moralis [sittlicher Zwang]”. Come è stato giustamente osservato da M. Casula, La metafisica di A.G. Baumgarten, Mursia, Milano 1973, p. 186, per Baumgarten la necessità morale è strettamente legata alla libertà. Si tratta di un nesso che avrà una influenza rilevante anche sull’evoluzione della concezione dell’obbligazione nel pensiero morale kantiano. 70 Chr. Wolff, Vernünfftige Gedancken von der Menschen Thun und Lassen, zur Beförderung ihrer Glückseeligkeit, Halle 1720, in Gesammelte Werke, Bd. I.4, Olms, Hildesheim-New York 1976, § 20: “Weil die Verbindlichkeit aber von der Natur kommet, so ist das Gesetz der Natur durch die Natur fest gestellt worden, und würde statt finden, wenn gleich der Mensch keinen oberen hätte, der ihn dazu verbinden könnte: ja es würde satt finden, wenn auch gleich kein Gott wäre”. Si veda anche Chr. Wolff, Philosophia practica universalis, in Gesammelte Werke, Bd. II.10, cit., § 128: “Homo per ipsam hominis rerumque essentia atque naturam obligatur ad committendas actiones, quae per se ad perfectionem suam statusque sui tendunt, et ad omittendas actiones, quae per se ad imperfectionem suam statusque sui tendunt”. Per una presentazione d’insieme dell’etica della perfezione wolffiana è ancora utile la monografia di M. Campo, Cristiano Wolff e il razionalismo precritico, Milano, Vita e Pensiero 1939, vol. II, pp. 418-425; 560-570. Per una discussione delle critiche kantiane rimandiamo alla sintetica presentazione di S. Del Boca, op. cit., pp. 7-23, e al più recente e documentato studio di C. Schröder, Naturbegriff und Moralbegründung. Die Grundlegung der Ethik bei Chr. Wolff und deren Kritik

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“vincolato”) alla perfezione (o al bene) perché quest’ultima è la più alta realizzazione della sua stessa natura, raggiungibile attraverso il “perfezionamento [Vervollkommung]” ed il progresso. In questo senso la necessità morale deriva dalla tendenza al perfezionamento, ma questo vuol dire che la nozione di obbligazione non è il principio primo dell’etica, bensì un concetto secondario, derivato da quello di perfezione. Infatti per Wolff un’azione è moralmente buona quando riesce a promuovere o a sviluppare il massimo perfezionamento dell’uomo, ovvero a realizzare in modo completo la sua stessa natura, raggiungendo il fine ultimo inscritto nella sua essenza71. Di conseguenza la regola generale dell’agire si esprime con la seguente formula, che è strettamente collegata alla nozione di perfezione: “fa quello che rende più perfetto te, il tuo e l’altrui stato; tralascia ciò che lo fa meno perfetto” 72. Kant considera questa formula un dovere generico che non ha forza vincolante (ossia cogente); essa invita semplicemente a fare o ad omettere qualcosa in relazione ad un fine indeterminato. Inoltre nella regola wolffiana, insieme alla mancanza del carattere coercitivo dell’obbligazione, durch I. Kant, Kohlhammer, Stuttgart 1988. 71 Sulla circolarità tra bene e perfezione occorre tener presente la seguente definizione proposta da Chr. Wolff, Psychologia empirica, Frankfurt a.M.-Leipzig 1732, in Gesammelte Werke, Bd. II.5, Olms, Hildesheim 1968, § 544: “Bonum est, quidquid nos statumque nostrum perficit, seu, quod perinde est, quidquid nos ac statum nostrum internum et externum perfectiores reddit”. Questa definizione sembra essere una vuota tautologia; infatti il bene è ciò che ci perfeziona, ma d’altro canto tutto ciò che ci perfezione è bene. Per rompere questo circolo vizioso Kant tenterà di subordinare i concetti di bene e di perfezione a quello di obbligazione. Per le critiche di Kant si veda ad esempio Refl. 6624, XIX 116, in cui in esplicito riferimento a Wolff si legge: “[…] il concetto universale della perfezione non è concepibile per sé, e da esso non viene derivato alcun giudizio pratico, anzi esso stesso è un contenuto derivato”. 72 Chr. Wolff, Vernünftige Gedancken von der Menschen Thun und Lassen, in Gesammelte Werke, Bd. I.4, cit., § 12: “Thue was dich und deinen oder anderer Zustand vollkommener machet; unterlaß, was ihn unvollkommener machet”. Essa viene introdotta come “Regel, danach wir unsere Handlungen, die wir in unserer Gewalt haben, richten sollen”. Nella Preisschrift (Unt. A 97; II 299 [SP 245]), Kant parafrasa questa regola con le seguenti parole: “Thue das Vollkommeste, was durch dich möglich ist”.

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non viene attuata la distinzione tra moventi empirici e razionali, ovvero tra mezzi e fini73. Se invece vogliamo approfondire la conoscenza delle nozioni morali di obbligazione e di dovere, occorre secondo Kant sottoporre questi concetti al vaglio dell’analisi e della scomposizione. Con questo metodo si arriva a stabilire che si tratta di concetti originari e che la tradizionale nozione di necessitas moralis è segnata da una ambivalenza che deve essere tenuta in conto, se si vuole progredire nel campo della “filosofia pratica [praktische Weltweisheit]”. Infatti, la necessitazione dell’azione può essere intesa secondo due diversi significati, che devono essere tenuti rigorosamente distinti: Si deve [man soll] fare questa o quella cosa e ometterne un’altra: ecco la formula sotto la quale si esprime ogni obbligatorietà [die Formel, unter welcher eine jede Verbindlichket ausgesprochen wird]. Ma ogni dovere [jedes Sollen] esprime una necessità di azione [Notwendigkeit der Handlung] ed è suscettibile di un duplice significato (Unt. A 96; II 298 [SP 244]).

Innanzitutto la chiarificazione dei concetti di obbligazione parte dall’analisi della datità del dovere, secondo Kant elemento basilare della filosofia pratica e dell’esperienza morale in generale. La Verbindlichkeit è posta in relazione col Sollen, che è “la formula, sotto cui” essa si esprime, ossia la sua condizione di possibilità. Non vi è dunque un chiaro ed evidente concetto di obbligazione morale senza la connessione col Sollen. L’analisi però dimostra che proprio quest’ultimo “è suscettibile di un duplice significato”: esso esprime una duplice forma di necessitazione, che porta a distinguere due diversi livelli di obbligatorietà e a delimitare due differenti classi di azioni: 73 A questo proposito vale la pena ricordare la critica rivolta alla morale wolffiana nella Grundlegung, dove si afferma che la philosophia practica universalis “non prendeva in esame alcuna volontà di specie particolare […], bensì il volere in generale, con tutte le azioni e condizioni che gli si connettono in questo significato generico, e si distingue perciò da una metafisica dei costumi allo stesso modo in cui la logica generale si distingue dalla filosofia trascendentale, la prima delle quali tratta le operazioni e le regole del pensiero in generale, la seconda invece le particolari operazioni e regole del pensiero puro, ossia di quello attraverso cui gli oggetti vengono conosciuti interamente a priori” (GMS A XI; IV 390 [9]).

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Infatti, io devo [ich soll] fare una cosa (come mezzo) se voglio un’altra cosa (come fine); oppure devo immediatamente [ich soll unmittelbar] fare un’altra cosa e realizzarla (come fine). Nel primo caso si potrebbe parlare di necessità dei mezzi [necessitas problematica], nel secondo di necessità dei fini [necessitas legalis] (Unt. A 96; II 298 [SP 244]).

L’analisi dei concetti di perfezione e di obbligazione, attuata applicando il metodo della scomposizione, ha portato a due importanti risultati, che costituiscono un contributo decisivo sulla via della chiarificazione dei “principi primi della morale”. In primo luogo, la perfezione viene pensata a partire dall’esperienza interna del soggetto agente, venendo a dipendere interamente dal suo volere (dal suo “appetito [Begierde]” o dal suo “sentire [Gefühl]”). In secondo luogo, il concetto di obbligazione – che già le precedenti riflessioni della Nova dilucidatio avevano definito come legge o “principio interno” immediatamente autoevidente – viene ora riconosciuto nella sua autonomia dal concetto di perfezione e contemporaneamente chiarito nella sua costitutiva duplicità. Si tratta di un punto di svolta, che risolve la precedente equiparazione univoca tra necessitas moralis e necessitas hypothetica, sciogliendo la prima dal legame esclusivo con la causalità fisico-naturale e rendendo possibile la distinzione tra due forme diverse di necessitazione: la necessità condizionata dei mezzi (o necessitas problematica) da un lato, e la necessità del fine in sé (o necessitas legalis) dall’altro. 4.2. La distinzione tra necessità dei mezzi e necessità del fine Dopo aver stabilito che l’obbligazione è il “principio primo” della morale e che come tale non può essere dedotto dalla nozione di perfezione, Kant chiarisce che il rapporto di necessitazione che essa regola può essere di carattere duplice: a) nel primo caso io devo fare una cosa mediatamente come mezzo per raggiungere uno scopo determinato (“se voglio A devo fare B”); in questo caso l’obbligazione (“devo fare B”) è posta sotto una determinata condizione (“se voglio A”), dalla quale segue la necessità dei mezzi, che è quindi una necessità condizionata (necessitas problematica o hypothetica);

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b) nel secondo caso io devo fare immediatamente (“ich soll unmittelbar”) la cosa comandata per se stessa, come fine in sé; in questo caso l’obbligazione non è sottoposta ad alcuna condizione particolare o contingente, ma è collegata alla necessità del fine, ovvero alla necessitas legalis, che non è condizionata (e che proprio per questo può essere intesa come assoluta). A scanso di equivoci Kant precisa subito che solo nel secondo caso si ha obbligazione morale realmente necessitante, mentre nel primo l’azione attuata come mezzo in vista di un fine contingente sarebbe semplicemente una “prescrizione” in relazione allo scopo da raggiungere e non avrebbe quindi un vero valore vincolante. Scrive Kant: il primo tipo di necessità non indica alcuna obbligatorietà [Verbindlichkeit], ma solo la prescrizione [Vorschrift] come soluzione di un problema, che indica quali sono i mezzi di cui mi devo servire quando voglio raggiungere un certo fine […]. Dato che l’uso dei mezzi non ha necessità alcuna, se non nella misura che si addice al fine, tutte le azioni che la morale prescrive [vorschreibt] sotto la condizione del raggiungimento di certi fini, sono contingenti [zufällig] e non possono essere dette obbligazioni [Verbindlichkeiten], finché non siano subordinate ad un fine in se stesso necessario [einem an sich nothwendigen Zweck untergeordnet werden] (Unt. A 96; II 298 [SP 244]).

Da questo brano si comprende subito che le due forme di necessitazione presuppongono la fondamentale distinzione tra mezzi e fini, che delimita due classi di azioni prodotte da moventi differenti. In primo luogo l’obbligazione autenticamente morale è definita in connessione con la nozione di “fine in se stesso necessario [an sich nothwendiger Zweck]”, alla quale non viene associata né una ricompensa né una sanzione. Si tratta di un fine che riceve valore (la propria bontà) non dall’esterno (da altro) ma da se stesso, attraverso un auto-riferimento che lo rende perfectum (ossia completo e integro), e che di conseguenza lo pone come movente autonomo e indipendente rispetto a qualsiasi altra cosa contingente. In secondo luogo l’azione realizzata come mezzo viene invece chiamata “prescrizione [Vorschrift]”, “regola pratica” o “precetto”, in vista della

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soluzione di un problema specifico (ad esempio un problema di geometria come la divisione di una retta in parti uguali). La cosa rilevante è però che tra gli scopi contingenti legati alle “prescrizioni” vi è anche il conseguimento della felicità (Glückseligkeit). Prendendo implicitamente posizione contro l’eudaimonismo dell’etica razionalista wolffiana74, per Kant la “regola” per il raggiungimento della felicità non rientra nell’ambito dell’obbligazione subordinata al “fine in se stesso necessario”, ma è solo una “prescrizione [Vorschrift]”, ovvero un “consiglio [Anweisung]” che riguarda la scelta condizionata dei mezzi adeguati allo scopo che si vuole ottenere. La felicità dunque non può essere mai movente interno, ma solo esterno, ossia “eteronomo”. Scrive Kant: Chi prescrive [vorschreibt] ad un altro quali sono le azioni che egli è costretto [müsse] a compiere o ad omettere se vuole favorire la propria felicità, potrebbe bensì includere nei suoi precetti tutte le dottrine della morale, ma queste dottrine non sarebbero più obbligazioni [Verbindlichkeiten], se non nel senso che è obbligatorio fare due archi che si incrociano quando voglio dividere in parti uguali una linea retta; e cioè non si tratta affatto di obbligazioni [Verbindlichkeiten], bensì soltanto di consigli per un’abile condotta [Anweisungen eines geschickten Verhaltens] se si vuole ottenere un dato scopo (Unt. A 96; II 298 [SP 244]). 74

Infatti per Wolff alla perfezione dell’uomo contribuisce tutto ciò che è conforme alla sua natura, quindi anche il piacere e la felicità. La vita felice è dunque il fine ultimo (il bene sommo) cui tende la natura umana. La felicità viene definita come un “piacere duraturo”, che ha la sua origine nella possibilità di percepire una perfezione. Di conseguenza l’uomo è in grado di raggiunge la propria felicità perfezionandosi (ossia seguendo la legge morale naturale). In questo senso l’etica della perfezione wolffiana è eudaimonistica. Secondo Kant essa pone l’azione sotto la necessità dei mezzi e concepisce l’obbligazione in modo eteronomo. Cfr. Chr. Wolff, Vernünfftige Gedancken von der Menschen Thun und Lassen, in Gesammelte Werke, Bd. I.4, cit., §§ 44-52, insieme al Capitolo III; Id., Philosophia practica universalis, in Gesammelte Werke, Bd. II.10, cit., Capitolo II: De modo consequendi Summum Bonum et felicitatem terrestrem, §§ 214-596, pp. 137-493. Per un approfondimento dell’eudaimonismo wolffiano, in relazione alle critiche di Kant, rimandiamo alla documentata ricerca storica di C. Schweiger, Das Problem des Gücks im Denken Ch. Wolffs. Eine quellen-, begriffs-, und entwicklungsgeschichtliche Studie zum Schlüsselbegriffen seiner Ethik, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1995.

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E subito dopo Kant ribadisce che secondo lui la filosofia pratica non poggia su “prescrizioni” o “consigli”, ma sul principio del fine in se stesso necessario (o incondizionato), che deve “imporre l’azione come immediatamente necessaria e non sotto la condizione di un cero fine da raggiungere”. Si tratta di un principio non ulteriormente scomponibile o deducibile da altri concetti pratici o teoretici, che quindi deve essere ammesso come “assolutamente indimostrabile”: qui troviamo che tale regola suprema ed immediata di ogni obbligatorietà è assolutamente indimostrabile [schlechterdings unerweislich]; ché infatti da nessuna considerazione di una cosa o di un concetto, qualunque esso sia, è possibile riconoscere e dedurre cosa si debba fare, se ciò che si presuppone non è un fine e l’azione un mezzo. Ma questo non deve essere, poiché in tal caso non si tratterebbe di una formula di obbligazione [Formel der Verbindlichkeit], ma di abilità problematica [problematische Geschicklichkeit] (Unt. A 97; II 298 s. [SP 244 s.]).

Infatti, qualsiasi dimostrazione avverrebbe riconducendo questa regola ad un fine particolare che sarebbe contingente, annullando la distinzione fondamentale tra il principio primo dell’obbligazione morale (la “Formel der Verbindlichkeit”) e la necessità dei mezzi o dell’“abilità problematica” (la “Formel der Geschicklichkeit”). L’unico modo per precisare il “principio primo” della morale è il ricorso alla originale nozione di “fine in se stesso necessario [an sich notwendiger Zweck]”, una sorta di principio formale che dev’essere ammesso a priori in ogni esperienza morale quale sua condizione di possibilità e non ricavato classificando i diversi tipi di azioni o comportamenti. Si tratta di una prima risposta ad un problema di fondo: il problema della giustificazione dell’obbligazione, ovvero della deduzione della legge morale. Già qui Kant si scontra con una datità originaria, con un Faktum oltre il quale non è possibile risalire, a conferma di quanto il suo pensiero avesse individuato uno dei principali problemi della sua dottrina matura. 4.3. L’originarietà del Sollen e la nozione di fine in sé Dopo aver esposto i passaggi salienti della chiarificazione del

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concetto di obbligazione ottenuta con metodo analitico, soffermiamoci ora brevemente sulla tesi della doppia necessità, al fine di valutarne l’importanza e l’originalità per quanto riguarda il problema più generale della fondazione razionale dell’etica. La tesi della doppia necessità è unanimemente considerata il contributo più originale e innovativo della sezione della Preisschrift dedicata alla discussione dei principi morali75. Si tratta di una svolta decisiva nella storia del tradizionale concetto di necessitas moralis, che coinvolge due ordini di problemi. In primo luogo, per quanto riguarda l’evoluzione del pensiero kantiano, questa distinzione costituisce la premessa per la futura dottrina degli imperativi76 e sembra indirizzare già la concezione del dovere verso una sorta di “formalismo” 77. In secondo 75

Come ha giustamente osservato dal punto di vista storico E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, tr. it. di G.A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 279: “Quando Kant scrisse queste parole nessuno dei suoi lettori e critici di allora era in grado di prevedere che in queste poche e semplici proposizioni erano già superati per principio tutti i sistemi della morale prodotti dal secolo XVIII. Qui in effetti è presente il pensiero fondamentale della futura etica kantiana”. Per l’originalità della posizione kantiana all’interno della storia del concetto di obbligazione morale si veda: H.-P. Schramm, Obligatio, in J. Ritter (Hrsg.), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Bd. 6, Schwabe, Basel-Stuttgart 1984, coll. 1065-1067; H. Reiner, Etica. Teoria e storia, tr. it. di C. D’Altavilla, Armando, Roma 1971, pp. 122-142, che ricostruisce la concezione dell’obligatio, ed in particolare il nesso con la necessitas hypothetica, individuandone l’origine in S. Tommaso, Summa Teologica, I, II, q. 90, art. 4; De veritate, q. 17, art. 3. 76 Fr.W. Foerster, Der Entwicklungsgang der Kantischen Ethik bis zur Kritik der reinen Vernunft, Reimer, Berlin 1893, p. 10, ha osservato per primo che la distinzione tra la necessità dei mezzi e la necessità dei fini corrisponde alla futura contrapposizione tra imperativi ipotetici e categorici. Dello stesso avviso è V. Delbos, op. cit., p. 84. Invece P. Menzer, Der Entwicklungsgang der Kantischen Ethik, cit., p. 305, pur sottolineando l’importanza della tesi della doppia necessità, sembra più preoccupato di rintracciarne le fonti. Il nesso con la futura dottrina degli imperativi è stato rilevato successivamente da numerosi altri studiosi, tra i quali ricordiamo: A. Guzzo, op. cit., p. 102 s.; M. Campo, La genesi del criticismo kantiano, cit., p. 346; J. Schmucker, op. cit., p. 61; M. Paolinelli, op. cit., p. 260. Radicalizzando questa interpretazione, D. Henrich, Hutcheson und Kant, in “Kant-Studien”, 49 (1957/ 58), pp. 49-69, vede nella formula della necessitas legalis la scoperta della “kategorische Verbindlichkeit” (ivi, p. 64). 77 L’accostamento al “formalismo”, che sarebbe presente nell’espressione “Formel der Verbindlichkeit”, è stato proposto da M. Küenburg, op. cit., p. 35, che par-

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luogo, da un punto di vista più generale, la tesi kantiana introduce la fortunata distinzione tra razionalità strumentale e razionalità morale, prospettando per quest’ultima l’idea di un’azione sottoposta a necessitazione incondizionata (o assoluta), che non ha nulla in comune né con la causalità ipotetica degli eventi naturali, né con la ricerca dei mezzi per raggiungere la felicità. Anche se di recente è stato rilevato che nel testo della Preisschrift non compaiono né il termine “Imperativ”, né gli aggettivi “unbedingt” e “kategorisch”, la tesi della doppia necessità e l’equiparazione della Verbindlichkeit autentica al Sollen immediato e non condizionato è certamente all’origine della distinzione tra imperativi ipotetici e imperativo categorico78. Certamente nel testo che stiamo esaminando la necessità problematica non è detta esplicitamente “ipotetica”; ma soprattutto non è suddivisa in “regole dell’abilità” e “consigli della prudenza”, né il livello “pragmatico” e quello propriamente “morale” risultano nettamente contrapposti; inoltre, anche se compare il termine Geschicklichkeit, è del tutto assente il riferimento alla Klugheit. Tuttavia è abbastanza chiaro che la struttura dell’obbligazione viene spiegata attraverso il ricorso a due diversi livelli del Sollen, con una impostazione che è molto simile a quella della “Sezione I” della Grundlegung. Anche l’elemento principale della distinzione, che sta nella contrapposizione tra un’azione come mezzo e un’azione come fine in sé, viene ripresa quasi letteralmente nella “Sezione II” dello scritto del 1785 nel contesto dell’esposizione della dottrina degli imperativi pratici79. L’importanza la di “richterliche Einstellung”, ed è stato ripreso soprattutto da P.A. Schilpp, op. cit., pp. 26 ss., che vede già nella Preisschrift la presenza di quel “formalismo metodico” che secondo lui caratterizzerebbe l’etica kantiana fin dalle origini. 78 Di recente C. Schweiger, Kategorische und andere Imperative, cit., pp. 24 ss., ha osservato (contro l’interpretazione della “kategorische Verbindlichkeit” proposta da Henrich), che nel testo della Preisschrift sarebbe contenuta soltanto una embrionale distinzione tra necessità mediata e necessità immediata, la quale non andrebbe confusa con la successiva contrapposizione tra necessità condizionata e incondizionata. A sostegno di questa interpretazione Schweiger sottolinea proprio il fatto che nel testo kantiano non sono presenti i termini tecnici Imperativ, unbedingt e kategorisch (cfr. ivi, p. 44). 79 Il legame tra la tesi della doppia necessità nella Preisschrift (Unt. A 96; II 298

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della Preisschrift sta nell’aver posto questa specifica forma di necessità del fine come totalmente indipendente, ossia non condizionata da alcuna rappresentazione particolare di bene (come ad esempio la felicità), ma proprio per questo dotata di massimo valore assoluto. La vis obligandi dell’azione compiuta secondo il fine in se stesso necessario è dunque interna alla particolare origine del fine stesso, che proprio per questo non può essere un fine qualsiasi ma diventa il fine ultimo, ovvero il fine ideale regolativo dell’agire morale in quanto tale. Il questo modo la morale kantiana imbocca una via lunga e tortuosa, che la porterà inevitabilmente a collegare la dottrina degli imperativi con quella del Sommo Bene. Nel corso di questo lungo processo emergerà infatti che, se è vero che la morale non ha altro fine che se stessa, questo non significa che essa non ammetta fini e che non si possa sviluppare in direzione teleologica80. In ogni caso nella Preisschrift l’agire morale è strettamente colle[SP 244]) e la matura dottrina degli imperativi emerge con una certa chiarezza dalla lettura dei seguenti passi della Grundlegung : “Se ora l’azione è buona semplicemente come mezzo per qualcos’altro [wozu anders als Mittel] l’imperativo è ipotetico; se essa è rappresentata come buona in sé [an sich gut], […] l’imperativo è categorico. […] L’imperativo ipotetico dice dunque soltanto che l’azione sarebbe buona per un qualche scopo possibile o reale. Nel primo caso esso è un principio problematicamente [problematisch] pratico, nel secondo assertoriamente pratico. L’imperativo categorico, che definisce l’azione come per sé oggettivamente necessaria, senza relazione ad alcuno scopo, ossia anche senza un qualche altro fine, vale come un principio apoditticamente pratico”. Subito dopo i principi che determinano l’azione in vista di uno scopo possibile e desiderabile “per mezzo delle forze di qualsiasi essere razionale” vengono chiamati “imperativi della abilità [Imperativen der Geschicklichkeit]” e vengono distinti da quel particolare imperativo ipotetico che rappresenta “la necessità pratica dell’azione come mezzo per il promuovimento della felicità [zur Beförderung der Glückseligkeit]” che è “il precetto della prudenza [die Vorschrift der Klugheit]”. Esso “si riferisce alla scelta dei mezzi per la propria felicità” (GMS A 38-43; IV 414-416 [ 59-63]). 80 Il testo più maturo di questo processo evolutivo è rappresentato dalla “Metodologia del giudizio teleologico”, che conclude la terza Critica: KU B 364-418; V 416-446 [291-326]. Su questo testo, oltre alla letteratura citata sopra nella nota 6, si vedano anche i seguenti studi: G. Cunico, Moralische Teleologie und höchstes Gut bei Kant, in “Wiener Jahrbuch für Philosophie”, 30 (1998), pp. 111-124; F. Menegoni, Finalità e destinazione morale nella “Critica del Giudizio” di Kant, Pubblicazioni di Verifiche, Trento 1988, pp. 119-153. Il nesso tra morale e teleologia, in relazione alla seconda formula dell’imperativo categorico e alla specifica nozione di “re-

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gato alla nozione di “fine in se stesso necessario”. Scrive Kant: “io devo immediatamente fare un’altra cosa e realizzarla (come fine) [ich soll unmittelbar etwas anders (als einen Zweck) thun und würklich machen]” (Unt. A 96; II 298 [SP 244]). Si tratta del comando di fare una cosa diversa da quella prescritta per il conseguimento di uno scopo determinato, ossia di realizzare il fine ultimo incondizionato, che non si trova nell’ordine dei mezzi. L’azione moralmente buona è quella che vale per se stessa e non per qualcosa d’altro. La Verbindlichkeit che la regola è caratterizzata, oltre che dalla incondizionatezza, dalla indipendenza assoluta, anticipando una delle classiche definizioni di necessitazione pratica che troviamo nella Grundlegung 81. Come è stato giustamente osservato, la nozione di fine in se stesso necessario è il modo originale in cui Kant trasforma il concetto di perfezione della scolastica razionalista82. La perfezione viene a perdere tutte le determinazioni contenutistiche ed assume un carattere ideale o valoriale. Il fine in se stesso necessario è la bonitas moralis: una entità ideale dotata di valore in se stessa e distinta dalle qualità naturali che contribuiscono al perfezionamento dell’uomo. Si tratta di un bene originario, della forma universale del bene, da cui derivano tutte le determinazioni possibili di bene. Prima di concludere la trattazione della concezione kantiana della tesi della doppia necessità soffermiamoci ancora brevemente sulla distinzione terminologica tra probelmaticus e legalis. Senza gno dei fini”, è indagato da A. Pirni, Il “regno dei fini” in Kant. Morale, religione e politica in collegamento sistematico, il melangolo, Genova 2000, pp. 37-59. 81 GMS A 85; IV 439 [113]: “La dipendenza di una volontà non assolutamente buona dal principio dell’autonomia (la coscienza morale) è l’obbligazione [Verbindlichkeit]”. Cfr. anche KpV A 61; V 35 [44]; MdS A 20; VI 222 [24]. 82 Si veda a questo proposito J. Schmucker, op. cit., p. 73, e D. Henrich, Über Kants früheste Ethik, cit., pp. 421 ss. In ogni caso, nonostante la trasformazione del concetto scolastico, rimarrebbe da approfondire fino a che punto l’etica della maturità mantenga una certa nozione di perfezione come “ideale pratico” di carattere regolativo, come emerge già dalla Refl. 1577, XVI 15 s. (databile attorno al 1760). Si tratta di un problema che si inserisce nella più ampia concezione kantiana dell’ideale, che qui purtroppo non possiamo approfondire. Per un primo orientamento rimandiamo allo studio d’insieme di C. Piché, Das Ideal. Ein Problem der Kantischen Ideenlehre, Bouvier, Bonn 1984 (spec. pp. 121-163).

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voler addentrarci nella intricata questione intorno alla ricerca delle fonti storiche che hanno potuto contribuire alla formulazione della tesi kantiana83, ci preme ricordare come il termine problematicus derivi dal contesto della logica, secondo l’abitudine kantiana a stabilire una sorta di parallelismo tra ambito teoretico e pratico. Infatti – come ci suggerisce la Logik Jäsche 84 – problematicus è quel particolare tipo di giudizio ipotetico la cui proposizione antecedente è problematica, ossia è accompagnata dalla semplice possibilità. La necessità problematica, che regola l’agire strumentale in vista di uno scopo contingente, è dunque una forma di necessità ipotetica, quella stessa necessità alla quale è riconducibile la causalità fisica degli eventi naturali. Quando Kant afferma che la necessità dei mezzi è una forma di necessità problematica, e non una forma di obbligazione autenticamente morale, intende portare a termine la critica iniziata nella Nova dilucidatio contro la univoca equiparazione della 83

Come informa J. Schmucker, op. cit., pp. 81-87, anche in questo caso la maggior parte degli studiosi concorda nell’indicare tra le principali fonti della tesi kantiana della doppia necessità la concezione crusiana dell’obbligazione: Chr.A. Crusius, Anweisung vernünftig zu Leben, Leipzig 1744, in Die philosophischen Hauptwerke, Bd. I, Olms, Hildesheim 1969, §§ 160-162. Crusius trasferisce la distinzione teoretica tra necessario e contingente all’ambito morale e parla di “nothwendige und zufällige Pflichten”. Inoltre i “nothwendige Pflichten” possono essere “schlechterdings nothwendige Pflichten”, basati sulla legge incondizionata che è divina, oppure “hypothetice nothwendige Pflichten”, basati su leggi contingenti che riguardano il corso del mondo. Sulla base di questa articolata concezione della “moralische Nothwendigkeit”, Crusius propone la fondamentale distinzione tra: a) la Verpflichtung der Klugheit (detta anche Geschicklichkeit), condizionata da uno scopo preposto e riguardante la scelta dei mezzi buoni in vista di tale scopo; b) la Verpflichtung der Tugend, detta anche “gesetzliche Verbindlichkeit”, la cui necessitazione si fonda su una legge incondizionata. Tuttavia, occorre osservare che quest’ultima forma di necessitazione, che equivale alla pura obbedienza alla legge ed è quindi in stretta connessione con l’idea kantiana del fine in se stesso necessario, si basa per il teologo Crusius sulla volontà di Dio, e viene quindi ad avere una spiegazione di tipo eteronomo. C. Schweiger, Kategorische und andere Imperative, cit., pp. 51 ss., pur accettando l’influsso di Crusius, propone tra le altre possibili fonti della distinzione kantiana la concezione dell’obligatio morale di A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., § 723; Id., Inizia philosophiae practicae primae, cit., § 10 (XIX, 11). 84 Log. A 99; IX 66 [60]; A 169; IX 109 [102]. Per la definizione del giudizio problematico pratico cfr. anche Refl. 3094, XVI 655; 3115, XVI 665.

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necessitas moralis alla necessitas hypothetica, in cui rientra anche la causalità fisica degli eventi naturali, smascherando definitivamente l’ambiguità della concezione razionalista della necessitazione pratica. Anche se rimane ancora da stabilire in che misura la necessitazione morale sia anch’essa una forma specifica di “causalità”, fin da ora è chiaro che essa non può essere determinata attraverso il ricorso allo schema causale meccanicistico o deterministico elaborato dal pensiero scientifico dell’età moderna. Quanto al termine legalis invece, è evidente che esso non va inteso nel senso limitativo della Legalität, di cui si parla nelle opere della maturità85. Qui il termine latino equivale a gesetzlich ed è quindi sinonimo di moralisch. Esso mette in relazione l’ambito del “dovere [Sollen]” con quello della “legge [Gesetzt]”, secondo una specificazione terminologica che aveva preso le mosse dalla nozione di lex nello scritto di abilitazione86. A conferma di questa evoluzione concettuale e terminologica ci sembra infatti che la necessitas legalis del fine in se stesso necessario faccia riferimento ad una legge immanente al soggetto agente capace di costringerlo immediatamente. La nozione di fine in se steso necessario conferma quindi che l’interiorizzazione del principio morale tende ad identificare il dovere con la legge. L’origine 85 Cfr. GMS A 10; IV 398 [25], ma soprattutto KpV A 144; V 81 [100], in cui compare la distinzione tra “legalità [Legalität]” e “moralità [Moralität]”, ossia tra “la coscienza di aver agito conformemente al dovere [pflichtmäßig]” e l’azione compiuta esclusivamente “per dovere [aus Pflicht]”. Il termine latino legalitas ritorna in MdS A 25; VI 225 [28], contrapposto a moralitas, per indicare “la conformità [Gesetzmäßigkeit] di una azione alla legge del dovere”. 86 J. Schmucker, op. cit., p. 87, sostiene l’equivalenza di legalis e gesetzlich e considera il termine di provenienza crusiana. Per C. Schweiger, Kategorische und andere Imperative, cit., p. 54 (nota 124), la fonte principale sarebbe invece la concezione dell’obligatio di Baumgarten, come suggerirebbe la Refl. 6471, XIX 18. Per quanto ci riguarda ci limitiamo ad aggiungere che anche Chr. Wolff, Philosophia practica universalis, in Gesammelte Werke, Bd. II.10, cit., § 134, parla di “ratio legalis” per spiegare il fondamento della “lex moralis”. Che la necessitas legalis esprima una cogenza assoluta (pena la contraddizione), è affermato dalla Refl. 6592, XIX 98, in cui viene proposto per la prima volta l’esempio della promessa: “Man sagt schlechthin, es ist nothwendig, dem Triangel 3 Winkel beyzulegen. Eben so: es ist nothwendig, ein Versprechen zu halten”. Si tratta di un esempio fortunato, che ritornerà in molte opere successive: cfr. GMS A 54; IV 422 [77].

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dell’obbligazione e del comando è posta in una legge che si trova nella coscienza di ogni uomo. La scoperta della nozione di fine in se stesso necessario procede parallelamente con la definizione della coscienza morale, ossia di quella sfera che contiene fini in sé stessi necessari. Come vedremo fra poco, dopo aver chiarito i concetti di obbligazione e di perfezione, gli sforzi di Kant saranno indirizzati proprio a caratterizzare questa sfera interiore come “facoltà” del sentire e del volere, considerandola autonoma da quella conoscitiva. Prima però di trattare questo argomento, dobbiamo esaminare un’altra importante distinzione concettuale che compare nella Preisschrift: la differenziazione tra principi formali e principi materiali dell’azione. 4.4. I principi materiali e il ricorso al sentimento Dopo aver mostrato l’importanza della distinzione tra ciò che occorre fare come mezzo in vista di uno scopo determinato e ciò che invece si deve fare perché è un fine in se stesso necessario (ossia perché è bene in se stesso), Kant osserva che la regola dell’obbligazione naturale dell’etica razionalista wolffiana sarebbe solo un generico “principio formale”, che dimentica di indicare i contenuti materiali dell’agire. Ora, “dopo aver a lungo riflettuto sull’argomento”, Kant dichiara che: La regola: fa la cosa più perfetta che sia possibile per tuo mezzo è il primo principio formale [der erste formale Grund] di ogni obbligazione per agire; così come la proposizione: ometti di fare ciò che per tuo mezzo è di impedimento alla massima perfezione possibile, lo è nei riguardi del dovere [Pflicht] di omettere. E così come dai primi principi formali dei nostri giudizi di verità non nasce nulla, a meno che non siano dati i principi materiali [materiale erste Gründe], così da queste due regole del bene non nasce alcuna obbligazione [Verbindlichkeit] particolarmente determinata a meno che ad esse non siano legati i principi materiali indimostrabili della conoscenza pratica [unerweisliche materiale Grundsätze der praktischen Erkenntnis] (Unt. A; II 299 [SP 245]).

Ricordando che poco prima Kant aveva definito la nozione di

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fine in se stesso necessario come “formula dell’obbligatorietà [Formel der Verbindlichkeit]”, ossia come “primo principio formale di ogni obbligazione” pratica, tentiamo ora di specificare in che cosa consistano in questo caso i “principi materiali”, definiti a loro volta “indimostrabili [unerweislich]”. Innanzitutto occorre premettere che la distinzione tra principi formali e materiali era già stata richiamata da Kant in precedenza, nel contesto della definizione della conoscenza metafisica. Mentre i principi formali sono quelli logici di identità e contraddizione, dai quali non scaturisce alcuna conoscenza, i principi materiali sono proposizioni indimostrabili che invece “offrono la materia di spiegazioni o il fondamento di conclusioni sicure” (Unt. A 94; II 296 [SP 240 s.])87. Applicando questa distinzione al campo della morale, Kant considera la regola generale della perfezione di Wolff un principio generale privo di contenuto, che come tale è necessario ma non sufficiente a fondare e spiegare l’agire. Per non rimanere nel vago occorre infatti precisare che cosa conduca l’uomo alla perfezione, ovvero quale sia il bene che contribuisce al suo maggiore perfezionamento. Di conseguenza la regola generale deve essere integrata con i “primi principi materiali [materiale erste Gründe]” che determinano che cosa conduca l’uomo alla perfezione, fornendo in questo modo un contenuto ed una forza vincolante concreta all’obbligazione. Per definire i “principi materiali della conoscenza pratica”, ovvero i contenuti dell’obbligazione che indicano un certo bene, Kant introduce un nuovo elemento: il “sentimento del bene [das Gefühl 87

I principi materiali “sono il materiale [der Stoff] delle spiegazioni ed i dati [die Data], dai quali si può dedurre con sicurezza, anche quando non si hanno spiegazioni” (Unt. A 92; II 295 [SP 239 s.]). La distinzione tra principi formali e materiali è uno strumento importante nella critica kantiana al monismo formalistico della metafisica wolffiana ed è derivata da Crusius: cfr. Chr.A. Crusius, Entwurf der nothwendigen Vernunft-Wahrheiten, in Die philosophischen Hauptwerke, cit., Bd. II, § 30. In sintesi, possiamo solo limitarci ad osservare che per Kant non bastano i principi formali (di identità e di contraddizione) per produrre conoscenze certe in metafisica. Sotto questi principi occorre sussumere una materia, che può essere data solo dall’esperienza che fornisce i “dati”. In questo senso Kant nella Preisschrift si richiama esplicitamente al metodo sperimentale di Newton (Unt. A 70; II 275 [SP 217]).

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des Guten]”. Che cosa sia un bene moralmente vincolante non ce lo può dire la conoscenza attraverso l’uso dell’intelletto e della ragione, ma solo il “sentimento morale [das moralische Gefühl]”, ossia la “facoltà di sentire il bene [das Vermögen, das Gute zu empfinden]”. Ecco come Kant esprime questa tesi richiamandosi esplicitamente alla concezione dei filosofi inglesi del moral sense e in netta contrapposizione all’intellettualismo etico della scuola razionalista88: Solo nei nostri giorni infatti si è cominciato a capire che la facoltà di rappresentare il vero è la conoscenza e la facoltà di sentire il bene è il sentimento, e che ambedue non vanno confuse in nessun caso. E così come non vi sono concetti non divisibili del vero, cioè di quello che si trova considerato a sé negli oggetti della conoscenza, così vi è anche un irresolubile sentimento del bene [ein unauflösliches Gefühl des Guten], (e questo non si trova mai nella cosa stessa, ma sempre con riferimento ad un essere capace di sentire) (Unt. A 97; II 299 [SP 132 s.]).

Il “principio materiale”, il contenuto che specifica che cosa si debba fare affinché l’azione sia moralmente buona e perfezioni l’uomo, è ciò che è sentito immediatamente come buono dal soggetto agente, il quale, accanto alla facoltà conoscitiva, possiede anche la “facoltà di sentire il bene”. Il “sentimento [das Gefühl]” è dunque la 88 Infatti “Hutcheson ed altri, sotto la denominazione di sentimento morale [moralisches Gefühl], ci hanno dato un inizio di belle osservazioni in tal senso” (Unt. A 98; II 300 [SP 246]). Per Hutcheson il moral sense è la sensibilità innata di cogliere immediatamente (senza il ricorso al ragionamento o alla conoscenza) la bontà delle azioni, ed è paragonato al sentimento del bello. Cfr. F. Hutcheson, An Inquiry into Original of our Ideas of Beauty and Virtue, London 1725, in Collected Works, a cura di B. Fabian, Olms, Hildesheim 1971, vol. 1, p. 124: “Come l’Autore della natura ci ha reso capaci di ricevere, mediante i sensi esterni, idee piacevoli o sgradevoli degli oggetti, secondo che siano utili o nocivi ai nostri corpi […], così ci ha dato un senso morale [moral sense] per dirigere le nostre azioni e per darci piaceri ancora più nobili”. Kant utilizza probabilmente la traduzione tedesca della Inquiry: Untersuchungen unserer Begriffe von Schönheit und Tugend in zwo Abhandlungen, übersetzt von J.H. Merk, Frankfurt a.M.-Leipzig 1762. Per l’influsso di Hutcheson sulla formazione del pensiero morale kantiano negli anni Sessanta rimandiamo al fondamentale studio di D. Henrich, Kant und Hutcheson, in “Kant-Studien”, 49 (1957/58), pp. 49-69. Per il contesto della Preisschrift si veda anche J. Schmucker, op. cit., pp. 87-95.

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“facoltà [das Vermögen]” dei contenuti del dovere morale; essa è dotata della capacità istintiva di cogliere intuitivamente ciò che è buono in se stesso, ossia ciò che vale come fine e non soltanto come mezzo89. Questa intuizione sembra essere in grado di giudicare il bene distinguendolo dal male, ma anche di obbligare all’azione, costituendo il movente che spinge la volontà ad agire in una direzione piuttosto che in un’altra90. In ogni caso il bene è un dato originario, primo e semplice, oltre il quale non è possibile risalire e al quale si arresta l’analisi dei concetti morali. Per questo esso è detto “irresolubile [unauflöslich]”, ossia non ulteriormente scomponibile in altri elementi; inoltre non è mai oggettivo o esterno, ma sempre soggettivo e interno, in quanto “non si trova mai nella cosa 89

Per precisare la nozione di moralisches Gefühl come facoltà autonoma rimandiamo ad una affermazione di qualche anno posteriore: I. Kant, Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre von 1765-1766, cit., A 12; II 311, in cui leggiamo: “[…] la differenza del bene e del male nelle azioni e il giudizio sulla rettitudine morale possono essere conosciuti con facilità e in modo giusto dal cuore umano direttamente, senza perdersi in dimostrazioni, mediante ciò che si chiama sentimento [Sentiment]”. Questa concezione trova riscontro anche in alcune contemporanee annotazioni dedicate al sensus moralis, in particolare nella Refl. 6581, XIX 93, in cui si legge: “Die Regeln der Sittlichkeit gehen auf ein besonderes gleichnamiges Gefühl, worauf der Verstand so wie bey jener gerichtet ist”. Nella Refl. 6577 troviamo la seguente affermazione: “Das Herz bestimmt den Zweck”. Cfr. anche Refl. 6494, XIX 28; 6560, XIX 77. L’esame del tema del sentimento, in questa fase del pensiero kantiano, richiederebbe una specifica trattazione che esula dagli obiettivi di questo Capitolo. Per un approfondimento ci limitiamo a rimandare ai seguenti lavori: J. Bohatec, op. cit., pp. 85 ss., che esamina accuratamente i testi editi del periodo in questione; G. Lunati, Il significato del “sentimento” nel pensiero morale del Kant precritico, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, 23 (1953), pp. 237-256; G. Tonelli, Kant, dall’estetica metafisica all’estetica psicoempirica. Studi sulla genesi del criticismo (1754-1771) e le sue fonti, in “Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino”, 114 (1957), serie III, t. 3, pp. 77-421 (spec. pp. 48 ss.; 106 ss.); A.M. Macbeath, Kant on Moral Feeling, in “KantStudien”, 64 (1973), pp. 283-314; M. Paolinelli, op. cit., pp. 253-265. 90 Qui Kant sembra considerare il moralisches Gefühl non solo come principium diiudicationis (criterio), ma anche come principium executionis (movente). Infatti sentire che una certa cosa è buona significa volerla immediatamente tramite l’azione, senza alcun calcolo di tipo utilitaristico secondo l’ordine dei mezzi. Per il nesso tra i due principi, vera e propria “pietra filosofale” di tutta la filosofia pratica, si veda quanto si legge in I. Kant, Eine Vorlesung über Ethik, cit., p. 54 [tr. it. cit., p. 51].

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Obbligazione e dovere

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stessa, ma sempre con riferimento ad un essere capace di sentire” e quindi di desiderare e di volere. E se il bene è il risultato di un sentire interiore del soggetto agente, esso non può avere nulla a che vedere con l’attività dell’intelletto. Infatti: È uno dei compiti dell’intelletto quello di sciogliere e di chiarire il composito concetto del bene, col mostrare in che modo esso nasce dai sentimenti più semplici del bene. Ma una volta che questo bene sia semplice, il giudizio: questo è bene, è del tutto indimostrabile [unerweislich], ed è un effetto immediato della coscienza del sentimento di piacere insieme alla rappresentazione dell’oggetto (Unt. A 97; II 299 [SP 245]).

Mentre l’intelletto (e la conoscenza) possono ancora avere un ruolo analizzando una esperienza confusa o contribuendo a cogliere il relativo concetto semplice del bene, quest’ultimo, una volta individuato nella sua specificità, risulta non ulteriormente deducibile o dimostrabile. Esso è colto immediatamente per intuizione diretta ed è dotato di un tipo di “certezza” o “evidenza” diverso da quello dei concetti matematici ma non per questo meno perspicuo. Si tratta di una “certezza morale” 91, di una particolare autoevidenza radicata nell’esperienza interna del soggetto agente, ovvero nella sua “coscienza del sentimento di piacere insieme alla rappresentazione dell’oggetto”. Infine Kant precisa che il contenuto del principio materiale è molteplice. Infatti occorre tener conto del fatto “che in noi certamente si trovano molti sentimenti semplici del bene” e che di con91

Anche se qui Kant non parla di “certezza morale”, ha comunque in mente qualcosa di simile per indicare l’autoevidenza del bene. Come già ricordato sopra alla nota 57, la “certezza morale” è richiamata in Unt. A 95; II 297 [SP 243]. Quanto questo tema sia importante nella riflessione kantiana sulla fondazione dei principi morali di questo periodo è attestato dalle seguenti annotazioni: Refl. 2446, XVI 371; 2447, XVI 372; 2590, XVI 432, nelle quali la “moralische Gewißheit” è distinta dalla conoscenza ed è collegata al “Vernunftglaube”. Questo nesso col “moralischer Glaube” sarà esplicitato in uno scritto di poco posteriore alla Preisschrift: I. Kant, Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik, Kanter, Königsberg 1766, in cui si legge che la “fede morale, […] conducendo l’uomo verso i suoi veri fini, si addice a lui in ogni condizione” (A 128; II 373 [SP 405]). Cfr. anche Refl. 2752, XVI 498; 2754, XVI 498 s.; 6549 e 6550, XIX 68.

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seguenza vi sono molti principi materiali che possono concordare col principio formale del fine, fungendo da moventi soggettivi dell’azione. Tuttavia vi è un solo criterio per stabilire quale sia un principio materiale dell’agire morale capace di soddisfare fini in se stessi necessari: la semplicità ed immediatezza del concetto di bene, come viene ribadito in conclusione con queste parole: Quando perciò un’azione viene rappresentata immediatamente come buona, senza però contenere nascostamente un certo altro bene che vi si può ritrovare per suddivisione, e che le conferisce la perfezione, la necessità di quest’azione è un indimostrabile principio materiale dell’obbligazione (Unt. A 98; II 299 s. [SP 245 s.]).

Dopo aver esposto questo criterio generale, Kant introduce due esempi che nelle sue intenzioni dovrebbero aiutarci a chiarire il nesso tra i principi materiali soggettivi e il principio formale generale dell’obbligazione morale92. Attraverso la facoltà del sentimento morale il soggetto agente avverte in se stesso con evidenza la bontà di una determinata azione. Il principio materiale è però una “proposizione pratica”, che ha la funzione di determinare la regola generale e che quindi deve concordare con la formula imperativa: “fa la cosa più perfetta che ti sia possibile”. Se infatti ci chiediamo quali beni possiamo concretamente realizzare tra le cose più perfette, possiamo ad esempio rispondere dicendo: “ama colui che ti ama”. Si tratta di una proposizione semplice che fornisce un bene (l’amore reciproco) che può essere sussunto sotto la regola generale dell’obbligazione perché non è in contraddizione con quest’ultima. 92

Si tratta della ripresa di due esempi già accennati poco prima: “io devo per esempio promuovere la massima perfezione completa [ich soll die gesammte größte Vollkommenheit befördern], oppure devo agire in conformità al volere di Dio [ich soll dem Willen Gottes gemäß handeln]; quale che sia tra queste due la proposizione cui si vuol subordinare tutta la filosofia pratica, essa dovrà, se si vuole che sia regola e principio di obbligazione, imporre l’azione come immediatamente necessaria, e non già sotto la condizione di un certo fine da raggiungere” (Unt. A 96; II 298 [SP 244 s.]). Ancora una volta risulta decisiva la distinzione tra mezzi e fini, che porterà a differenziare le azioni dotate di bonitas physica da quelle dotate di bonitas moralis, come risulta da alcune annotazioni contemporanee: cfr. ad esempio Refl. 6478, XIX 15; 6489, XIX 26; 6577, XIX 92. Si tratta di una distinzione che sarà approfondita ulteriormente nella Praktische Philosophie Herder (XXVII/1 4 ss.).

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Essa infatti non comanda di amare qualcuno come mezzo in vista di un fine contingente, ma comanda un’azione che è buona in se stessa, ossia un fine in se stesso necessario. E proprio perché tale azione non può essere scomposta e ricondotta alla necessità strumentale, può essere “sussunta immediatamente sotto le regole generali delle azioni buone” (Unt. A 99; II 300 [SP 246])93. Se l’esempio dell’amore reciproco mira a correggere la vuota genericità della regola wolffiana, il secondo esempio di principio materiale sembra essere rivolto nei confronti dell’etica teonoma di Crusius. Si tratta infatti della regola seguente: “fa ciò che è conforme alla volontà di Dio” 94. Questa regola può essere intesa come una indicazione determinata da porre immediatamente sotto il principio formale perché definisce il bene in base a ciò che è conforme alla volontà divina, specificando come contenuto l’obbedienza in se stessa. Anche in relazione a questo esempio Kant sottolinea il riferimento al sentimento. Infatti: Vi è una bruttezza immediata in quella azione che sia contraria alla 93

J. Schmucher, op. cit., p. 74 s., osserva giustamente come il rapporto tra il principio formale e principi materiali venga tratteggiato da Kant in modo troppo sintetico e poco chiaro, con l’intento di precisare la subordinazione della perfezione (del bene) alla nozione di fine in se stesso necessario (che sta a fondamento del dovere). Anche G.B. Sala, art. cit., p. 77 s., sottolinea le difficoltà della distinzione kantiana tra i due principi morali. Nonostante la frammentarietà dell’esposizione, occorre rilevare che con questa distinzione Kant affronta il problema più generale del rapporto tra massime e legge, ovvero tra principio materiale e universale, che costituisce uno degli elementi caratterizzanti della sua etica matura. Su questo argomento rimandiamo agli articoli di M. Albrecht, Kants Maximenethik und ihre Begründung, in “Kant-Studien”, 85 (1994), pp. 129-146, e di J. Schmucker, Der Formalismus und die materialen Zweckprinzipien in der Ethik Kants, in H. Oberer (Hrsg.), Kant. Analyses – Probleme – Kritik, Königshausen & Neumann, Würzburg, 1996, Bd. 2, pp. 99-156. 94 Coerentemente con la concezione dei principi materiali esposta nella Preisschrift, in KPV A 69; V 40 [51], Kant classificherà la dottrina di Crusius tra le morali eteronome che si basano su “praktische materiale Bestimmungsgründe”, in particolare sul principio materiale oggettivo ed esterno della volontà di Dio. Kant ha in mente la concezione di Dio come “legislatore [Gesetzgeber]”, esposta da Chr.A. Crusius, Entwurf der nothwendigen Vernunft-Wahrheiten, in Die philosophischen Hauptwerke, cit., Bd. II, §§ 283-286.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

volontà di Colui dal quale deriva la nostra esistenza ed ogni bene. E tale bruttezza è chiara, anche quando non si badi a tutti i danni che possono accompagnarsi conseguenzialmente a un tale agire. Perciò la proposizione: fa ciò che è conforme alla volontà di Dio diventa un principio materiale della morale, che, pur stando formalmente sotto la suddetta formula suprema e generale, vi sta però immediatamente (Unt. A 99; II 300 [SP 246]).

Entrambi i riferimenti (“promuovere la massima perfezione completa” e “agire in conformità al volere di Dio”) sono intesi come esemplificazioni dell’obbligazione incondizionata regolata dalla necessitas legalis, ossia come imperativi etici che rendono possibile la praktische Weltweisheit. Tutte le azioni che possono essere sussunte sotto questi schemi normativi, ossia che possono essere in accordo con i fini in se stessi necessari (quali quelli dell’amore reciproco e dell’obbedienza), realizzano ciascuno a proprio modo il fine incondizionato autenticamente morale95. Infatti l’azione realizzata per promuovere la massima perfezione o per obbedire alla volontà di Dio non è mezzo per il raggiungimento di uno scopo determinato o contingente. In altre parole io non devo promuovere la massima perfezione per essere felice; oppure non devo obbedire alla volontà divina per evitare una punizione o una sanzione. Questi esempi confermano come l’etica dell’obbligazione incondizionata escluda fin dall’inizio la felicità dalla determinazione del fine in sé e dai moventi dell’azione moralmente buona. Se tra gli obiettivi dell’azione vi è la felicità, l’azione non è considerata “immediatamente necessaria”, ma viene declassata a mero agire strumentale. 95 Accanto all’amore reciproco e all’obbedienza, nella Refl. 6488, XIX 25, Kant cita la “riconoscenza [Dankbarkeit]”, e nella Refl. 6588, XIX 97, anche i doveri dei genitori verso i propri figli, lasciando intravedere che, se da un lato è evidente che 2+2 = 4, dall’altro è altrettanto evidente (o “moralmente certo”) che io non devo uccidere i miei figli. Si può avanzare l’ipotesi che l’insieme dei “fini in se stessi necessari” siano legati da una connessione sistematica di tutti i fini, un’idea che preparerebbe la futura nozione di “regno dei fini”. A questo proposito cfr. Refl. 782, XV/ 1 342, che però è considerata posteriore al 1763. Cfr. anche Refl. 712, XV/1 316 e 1016, XV/1 452 s. Per lo sviluppo della nozione di “regno dei fini” negli anni Sessanta rimandiamo alle brevi indicazioni suggerite da A. Pirni, op. cit., pp. 37-40.

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Obbligazione e dovere

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Kant pone qui le basi di quella concezione della felicità come “principio materiale”, di natura fisica o empirica, che sarà delineata esplicitamente nella “Sezione II” della Grundlegung 96.

5. Problemi aperti e ulteriori sviluppi Dopo questa dettagliata esposizione del testo kantiano, possiamo affermare che i primi principi della morale, attraverso i quali si esprime sia l’obbligazione che la perfezione, possono essere formali o materiali. Questi ultimi indicano determinate perfezioni (o beni concreti come l’amore reciproco e l’obbedienza), che possono essere sussunti sotto il principio formale della perfezione universale, perché non sono riconducibili immediatamente ad altro che non sia il fine in se stesso necessario della regola generale stessa. Sottolineando l’importanza dei principi materiali per la concezione filosofica dell’esperienza morale, Kant ribadisce che “non si può fare a meno di questi principi, i quali – come postulati – contengono il fondamento di tutte le altre proposizioni pratiche” (Unt. A 99; II 300 [SP 246]). Eppure, con un’affermazione da cui traspare una certa difficoltà per quanto riguarda la fondazione di tutti i principi della morale in generale, Kant conclude che: i concetti fondamentali supremi della obbligazione [die obersten Grundbegriffe der Verbindlichkeit] devono ancora essere determinati con maggiore sicurezza; e a questo riguardo i difetti della filosofia pratica [praktische Weltweisheit] sono ancora maggiori di quelli della filosofia speculativa, visto che ancora si ha da stabilire se decida di questi principi la sola facoltà conoscitiva [das Erkenntnißvermögen], ovvero il sentimento [das Gefühl] (il primo fondamento interno della facoltà di 96 GMS A 91; IV 442 [119]; cfr. anche KpV A 40; V 22 [27]. Per l’evoluzione della nozione di felicità nel periodo precritico si veda la paziente ricostruzione del materiale del Nachlaß compiuta da M. Forschner, Moralität und Glückseligkeit in Kants Reflexionen, in “Zeitschrift für philosophische Forschung”, 42 (1988), pp. 351-370. Utili anche le indicazioni fornite da P. Manganaro, Libertà sotto leggi. La filosofia pratica di Kant, Cuecm, Catania 1989, pp. 65-84.

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desiderare [der erste, innere Grund der Begehrungsvermögens]) (Unt. A 99; II 300 [SP 246]).

La tesi fondamentale della Preisschrift è racchiusa nell’affermazione secondo cui la praktische Weltweisheit o la morale si basano su principi primi, che esprimono una obbligazione incondizionata. Questi principi, oltre i quali non è possibile risalire, devono essere ammessi come “postulati [als Postulata]” originari, e di conseguenza sono indeducibili ed indimostrabili. Questa tesi costituisce la risposta alla constatazione che le principali dottrine morali del tempo non sono ancora “capaci di tutta l’evidenza richiesta” e sono quindi confuse e ambigue. Secondo Kant infatti queste dottrine non distinguono tra mezzi e fini e finiscono per confondere l’autentico principio della moralità con le prescrizioni che guidano il comportamento indirizzato ad uno scopo contingente. Ridurre la filosofia pratica alla razionalità strumentale, alla scelta dei mezzi per raggiungere scopi soggettivi (tra i quali vi è anche la felicità), significa per Kant negare la moralità. Accanto alla fondamentale distinzione tra necessità dei mezzi e necessità del fine in se stesso necessario, Kant propone poi una riflessione più complessa che intende differenziare da un lato il principio formale dell’obbligazione incondizionata, dall’altro i principi materiali, che chiamano in causa l’ “irresolubile sentimento del bene [das unauflösliche Gefühl des Guten]”. Probabilmente in questi due livelli – purtroppo appena abbozzati – si può intravedere già in nuce la futura distinzione tra legge universale e massime soggettive, che verrà proposta in tutta chiarezza nelle opere della maturità. La conclusione dello scritto e la risposta al quesito dell’Accademia rimangono però nel complesso problematiche, per non dire aporetiche. Infatti per stabilire quale “certezza” o “chiarezza [Deutlichkeit]” sia propria dei principi morali, occorre sapere in quale facoltà hanno sede tali principi. Qui Kant si trova di fronte al problema fondamentale dell’origine dei principi morali, che rimanda a quello più ampio della deduzione. Finora, nelle pagine precedenti dello scritto, questo problema era stato impostato facendo riferimento al ruolo di due facoltà. Da un lato infatti “la facoltà conosci-

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Obbligazione e dovere

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tiva [Erkenntnisvermögen] elabora il concetto di “fine in se stesso necessario”, un fine che è interamente razionale e che è in grado di connettere le due nozioni di Vollkommenheit e di Verbindlichkeit, subordinando la prima alla seconda; dall’altro vi è la “facoltà appetitiva [Begehrungsvermögen]” (o “facoltà del desiderare”) in cui rientra il sentimento97, che invece offre la determinazione materiale del bene e rende l’obbligazione morale vincolante rispetto ad un contenuto concreto. Nella conclusione Kant si chiede invece se i concetti di obbligazione e di dovere, con i relativi principi, ricevano il loro carattere vincolante (e quindi “morale”) dalla ragione oppure dal sentimento. Si tratta di un’alternativa che nella conclusione di questo scritto non trova risposta, ma che pone esplicitamente il problema dell’origine dei concetti morali e della loro fondazione, nonché quello del rapporto tra la legge ed il bene. Purtroppo per ora tali problemi sono destinati a rimanere irrisolti. Ad essi si collega anche un altro importante interrogativo che riguarda il futuro rapporto tra massima e legge (o tra “motivo” e “movente”): se infatti il principio formale e quello materiale hanno origine in due diverse facoltà, come è possibile collegare l’obbligazione del fine in se stesso necessario (che è generale o “universale”) con i singoli beni avvertiti come tali dal “sentimento morale” soggettivo? Per rispondere a questo groviglio di problemi occorrerebbe esaminare lo sviluppo del pensiero morale kantiano nella fase immediatamente successiva alla stesura della Preisschrift. In questa fase cruciale, che troverà nelle Beobachtungen e negli appunti stesi in 97

Il termine “facoltà appetitiva [Begehrungsvermögen]” compare anche in una contemporanea annotazione sull’arbitrium nel manuale di Baumgarten: Refl. 3630, XVII 134, in cui si afferma che l’azione scaturisce dalla facoltà appetitiva. Per il riferimento cfr. A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., § 712. La concezione della “facoltà appetitiva”, che si sviluppa parallelamente al confronto critico con la psicologia della scuola razionalista, rimane ancora tutta da studiare nelle sue fasi evolutive. Kant ha infatti faticato a distinguere il volere non solo dall’intelletto, ma anche dalla “facoltà del gusto” (o “facoltà del piacere e del dispiacere”). Ci sembra che una prima definizione della autonomia della facoltà appetitiva venga raggiunta soltanto nelle lezioni di metafisica della seconda metà degli anni Settanta, come attestato dal testo della Metaphysik L1, XXVIII/1 28 ss.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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vista di una loro rielaborazione il momento di maggior approfondimento dei concetti morali, Kant tenterà di dare una risposta anche al problema della facoltà specifica in cui ha sede il principio incondizionato dell’obbligazione. A questo proposito i testi a nostra disposizione, redatti o pubblicati tra il 1762 e il 1766, lasciano intravedere l’importanza della riflessione intorno al tema del sentimento morale. Il ricorso al sentimento è tuttavia segnato da una intrinseca ambiguità: da un lato intende risolvere il problema dell’origine dei principi materiali, mentre dall’altro viene chiamato in causa anche per spiegare l’origine dell’obbligazione incondizionata in generale. Attraverso un serrato confronto con i moralisti inglesi Kant tenta di sciogliere questa ambiguità, cercando innanzitutto di precisare i caratteri del moralisches Gefühl inteso come facoltà autonoma. Egli attua una revisione della teoria del sentimento nella direzione di una sua progressiva razionalizzazione e parallelamente accentua l’importanza del ruolo della coscienza morale. Lungo questo percorso di approfondimento la prospettiva della interiorizzazione dell’obbligazione morale, imboccata nello scritto di abilitazione e proseguita nella Preisschrift, trova una sua ulteriore conferma. In particolare nel contemporaneo Versuch sulle quantità negative – uno scritto pubblicato nel 1763 – la nozione di obbligazione viene definita esplicitamente come “sentimento morale interiore [inneres moralisches Gefühl]” 98, che deriva da una legge insita nel cuore di ogni uomo. Questa “legge interiore [inneres Gesetz] è principio positivo di una buona azione” e coincide con la “coscienza morale [Gewissen]” 99. Si profila l’idea che il sentimento morale non debba essere confuso con i sentimenti patologici perché è un sentimento sui generis, che è interno al soggetto agente. Più che un “percepire” generalizzato in rapporto con l’esterno, si tratta della percezione interna ed immediata del vincolo nei confronti di quella legge che parla nel cuore di ogni uomo e che non prescrive mezzi, ma co98

I. Kant, Versuch den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen, cit., A 28; II 183 [SP 266]. 99 Ivi, A 26; II 182 [SP 266]. Sulla evoluzione della nozione di “coscienza morale” rimandiamo alla ricostruzione di G. Lehmann, op. cit., pp. 27-58.

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Obbligazione e dovere

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manda fini in se stessi necessari, che come tali sono universali, ossia condivisibili da tutti gli uomini. Questo sintetico sguardo d’insieme conferma che la ricerca dell’origine dei “principi metafisici della filosofia pratica [metaphysische Anfangsgründen der praktischen Weltweisheit]” – per usare l’espressione di Kant in una lettera a Lambert della fine del 1765 (X 56 [Ep. 44]) – viene proseguita sulla base dei risultati acquisiti dalla chiarificazione dei concetti di obbligazione e dovere nella Preisschrift. Il principale elemento di continuità sta nel fatto che l’obbligazione rimane il fine in se stesso necessario; essa si trova radicata nella coscienza interiore di ogni uomo ed è quindi una necessitas legalis universalmente vincolante. Lo scritto che abbiamo esaminato dettagliatamente costituisce dunque un punto di riferimento imprescindibile sia per lo studio della formazione del pensiero morale kantiano nel suo complesso, sia per la storia del concetto di obbligazione. Infatti, in virtù della distinzione tra mezzi e fini e sulla base della tesi della doppia necessità, il concetto di obbligazione morale (di necessitas moralis) non è più riconducibile esclusivamente alla necessitas hypothetica dei mezzi, ma viene collegato alla necessitas absoluta del fine in se stesso necessario. Di conseguenza la sua vis obligandi non sarà più cercata nell’essere o nella natura, ma nella struttura universale della soggettività, al cui interno è attivamente operante una forza vincolante absoluta, che paradossalmente è sia costrizione che libertà, sia fatto che compito. Ed è proprio sulla base di questa fondazione universalistica dell’obbligazione morale che il filosofo non ha “nulla di nuovo” da scoprire o da insegnare agli altri uomini, tanto che anzi “si può dire – come già annotava Kant intorno al 1759 – che ciascun uomo ha una conoscenza razionale dei doveri, senza averne una filosofica” (Refl. 1750, XVI 101).

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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Ermeneutica e libertà religiosa

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IV ERMENEUTICA E LIBERTÀ RELIGIOSA

1. Introduzione Secondo la nota ricostruzione di Dilthey, “la scienza ermeneutica” sarebbe nata nell’età della Riforma, nel contesto delle lotte religiose di emancipazione dal dogma e come conseguenza della riflessione sui metodi dell’esegesi scritturale1. Accantonando i numerosi problemi che questa classica ricostruzione pone agli storici, essa può essere considerata oggi ancora valida in quanto richiama esplicitamente l’attenzione sul nesso esistente tra ermeneutica e religione. Si tratta di un intreccio particolarmente fecondo per l’evoluzione del problema del comprendere e dell’interpretare nei secoli XVII e XVIII, al quale Dilthey ha dedicato ricerche pionieristiche con l’intento di ricostruire le origini del sistema teologico di Schleiermacher e la genesi della sua concezione ermeneutica2. Concentrando la propria attenzione sull’hermeneutica sacra, queste ricerche prendono le mosse dalla Clavis aurea del luterano Matthias Flacius Illy1

W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, tr. it. di G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1974, vol. 1, p. 149: “Non l’arte esegetica o i tentativi di riflessione su di essa, bensì la scienza ermeneutica comincia solo col protestantesimo”. Cfr. anche Die Entstehung der Hermeneutik, in Gesammelte Schriften, Bd. V, hrsg. von G. Misch, Teubner, Berlin 1924, pp. 326 ss. [Le origini dell’ermeneutica, in Id., Ermeneutica e Religione, tr. it. di G. Morra, Rusconi, Milano 1992, p. 91 s.]. 2 Ci riferiamo al copioso materiale pubblicato postumo: W. Dilthey, Leben Schleiermachers, Bd. II/2, Schleiermachers System als Theologie, hrsg. von M. Redecker, de Gruyter, Berlin 1966, pp. 595-677.

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ricus3; proseguono tratteggiando i caratteri salienti dell’esegesi scritturale propria del Pietismo, per soffermarsi sul paradigma storicogrammaticale sviluppato dell’Illuminismo tedesco4. In questo contesto, dopo aver esaminato con attenzione le innovative tesi di Michaelis, Semler ed Ernesti, Dilthey dedica alcune dense pagine a Kant, sottolineando come la sua posizione storica non sia affatto episodica o marginale nel contesto delle ricerche settecentesche, ma rappresenti anzi un autentico “punto di svolta”5. La novità consiste nell’aver proposto una teoria ermeneutica basata su un preciso “principio”, che mira a rintracciare nei contenuti delle religioni positive, nelle loro narrazioni, nei loro dogmi e articoli di fede un significato morale universale o razionale. Nel campo dell’esegesi la specificità di questo approccio consiste nel fatto che per la prima volta tutti i libri della Scrittura possono essere interpretati a partire da un principio unitario. Secondo Dilthey si tratta di un risultato importante che integra le acquisizioni del metodo storico-critico, il quale aveva sottoposto ad accurate analisi filologiche i singoli libri del canone insistendo sulle specifiche caratteristiche di ciascuno ma aveva lasciato in secondo piano il significato complessivo dell’intera Scrittura. Da questo punto di vista, conclude Dilthey, “l’interpretazione morale ha una posizione epocale nella storia dell’ermeneutica” in generale6, oltre che dell’esegesi scritturale. 3

M. Flacius Illyricus, De ratione cognoscendi sacras literas, Strassbourg 1567, rist. anast. a cura di L. Geldsetzer, Jansen, Düsseldorf 1968. In questo trattato Dilthey vede “la fondazione dell’ermeneutica moderna”. 4 Cfr. W. Dilthey, Leben Schleiermachers, Bd. II/2, cit., pp. 597-650. 5 Ivi, pp. 651-656: “Anfänge einer auf die Einheit der Heiligen Schriften gerichteten hermeneutischen Methode bei Kant”. 6 Ivi, p. 652. Secondo Dilthey, Kant avrebbe integrato e completato le ricerche di Semler sull’unità del canone biblico e questo suo contributo avrebbe influito in misura determinante anche sulle successive ricerche di Schleiermacher, aiutando quest’ultimo a considerare il Nuovo Testamento come una “totalità di concetti e di dottrine unitarie” (ivi, p. 656). Questo giudizio positivo andrebbe integrato con l’esame della concezione kantiana del rapporto tra religione e morale in Leben Schleiermachers, Bd. I/1, pp. 78 ss.; 130 ss., e con quanto si legge nel saggio Der Streit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, in Gesammelte Schriften, Bd. IV, hrsg. von H. Nohl, Leipzig 1925, pp. 285-309. Per un approfon-

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Ermeneutica e libertà religiosa

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È interessante rilevare come Dilthey si preoccupi anche di vedere in che misura l’“idealismo morale” kantiano applicato all’interpretazione scritturale si ricolleghi al contesto più generale del pensiero trascendentale. A questo proposito viene richiamato il ruolo fondamentale che per Kant assume la nozione universale di “idea” in contrapposizione alla rapsodia dei dati empirici, tra i quali rientrano anche i fatti storici. Si tratta di un’indicazione importante, che non limita gli interessi kantiani per l’ermeneutica esclusivamente all’esegesi scritturale, ma cerca di collocarli più in generale nel contesto della svolta trascendentale. Prendendo le mosse da questa articolata valutazione di Dilthey, nella prima parte di questo Capitolo cercheremo di esaminare innanzitutto alcune affermazioni kantiane in cui è possibile rintracciare, seppur in una forma implicita o appena accennata, considerazioni di carattere generale sul problema dell’interpretazione di testi o messaggi scritti (paragrafo 2); in secondo luogo prenderemo in considerazioni alcuni testi in cui Kant sviluppa una particolare interpretazione di passi scritturali, oppure accenna ad alcune linee teoriche di approccio al testo biblico, nei quali vengono abbozzate le linee di fondo dell’interpretazione razionale (paragrafi 3-5). Nella seconda parte ci dedicheremo a due opere assai conosciute – la Religion e lo Streit – che riguardano esplicitamente l’ermeneutica biblica, i suoi principi e le sue regole, e nei quali è più evidente il riferimento alle tematiche di carattere religioso ed etico (paragrafi 6-9). Nel corso della nostra esposizione cercheremo di mettere in luce come gli interessi kantiani per l’ermeneutica scritturale siano parte integrante non solo della riflessione sulla religione e sull’etica, ma rientrino anche a pieno titolo nel progetto generale del criticismo, se è vero che “nell’epoca della critica tutto deve essere sottomesso alla ragione”, compreso “il carattere sacro della religione” 7. dimento del confronto diltheyano con la filosofia della religione kantiana rimandiamo al sintetico e lucido saggio di G. Cacciatore, Kant, Dilthey e il problema della Religione, in N. Pirillo (a cura di), Kant e la filosofia della religione, Morcelliana, Brescia 1996, pp. 563-571. 7 KrV A XI; III 9 [7]. Questo accenno va integrato con la più precisa afferma-

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2. La “rivoluzione copernicana” e il problema dell’interpretazione Sebbene il problema dell’interpretazione e la riflessione sull’atto del comprendere non siano esplicitamente al centro del pensiero kantiano, seguendo la via aperta da alcuni studi recenti possiamo rintracciare nella prima Critica alcuni spunti che dimostrano come le problematiche ermeneutiche non siano estranee all’orizzonte del criticismo8. Certamente si tratta di considerazioni che non intendono elaborare una teoria ermeneutica generale, ma che in ogni caso dimostrano come la svolta trascendentale della rivoluzione copernicana possa avere un riflesso anche sul problema dell’interpretazione. Una prima indicazione in questo senso può essere trovata nel celebre annuncio, contenuto nella seconda “Prefazione” della Critica, del “mutato metodo nel modo di pensare”, che Kant formula con queste parole: Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa zione, che si legge nella Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, in “Berlinische Monatsschrift”, dicembre 1784, A 492; VIII 41 [SSP 50]: “Ho posto segnatamente nelle cose di religione [Religionssachen] il punto decisivo dell’Illuminismo, cioè dell’uscita degli uomini dallo stato di minorità di cui essi sono responsabili […]; per di più questa forma di minorità [sc. quella religiosa] è, fra tutte, la più dannosa, nonché la più umiliante”. 8 Ci riferiamo in particolare all’articolo di H.-G. Gadamer, Kant und die philosophische Hermeneutik, in “Kant-Studien”, 66 (1975), pp. 395-403, che ha avuto il merito di richiamare l’attenzione degli studiosi sull’argomento, anche se non sviluppa una analisi dettagliata dei testi kantiani. In Italia segnaliamo il libro di G. Giannetto, Kant e l’interpretazione, Giannini, Napoli 1978, che ha proposto una lettura d’insieme del criticismo con alcuni riferimenti alle problematiche ermeneutiche, spesso tuttavia estrinseci e poco convincenti. Successivamente G. Micheli, Il problema dell’interpretazione secondo Kant, in AA.VV, Filosofia, politica e altri saggi, Antenore, Padova 1983, pp. 85-98, ha tentato di delineare l’approccio ermeneutico kantiano ai testi della tradizione filosofica. Infine C. La Rocca, Il conflitto delle interpretazioni: Kant, Meier, Eberhard e l’ermeneutica filosofica, in “Fenomenologia e Società”, 18 (1995), n. 2-3, pp. 84-108, ha rintracciato in molti testi kantiani la presenza di alcuni principi che guidano l’interpretazione dei testi filosofici e ha anche mostrato la conoscenza da parte kantiana del dibattito settecentesco su questi temi.

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Ermeneutica e libertà religiosa

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a priori, per mezzo dei concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza […] non riuscirono a nulla. Si faccia, dunque, finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati […] facendo l’ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza (KrV B XVI; IV 11 s. [17]).

Come è noto, la “rivoluzione copernicana” presuppone un complesso rapporto sintetico tra gli oggetti di esperienza e i concetti a priori, secondo cui i primi devono necessariamente regolarsi ed accordarsi con i secondi. L’impostazione generale del metodo trascendentale si può dunque riassumere con la seguente affermazione: “Noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo [daß wir nämlich von den Dingen nur das a priori erkennen, was wir selbst in sie legen]” (KrV B XVIII; IV 13 [18]). Di solito si è dato a queste affermazioni kantiane un significato prevalentemente gnoseologico, epistemologico o metafisico. Se però proviamo ad applicare questo schema costruttivistico della immissione del senso all’esperienza della lettura di testi o di messaggi scritti, le parole kantiane possono risultare rilevanti anche per il problema ermeneutico in generale. Infatti, applicando questo schema all’esperienza della lettura, non si tratta in primo luogo di fare in modo che l’interprete si regoli sul significato oggettivo o letterale delle parole che compongono i testi, riproducendo o rispecchiando il senso in essi contenuto. Anche nel caso della lettura e dell’interpretazione occorre mutare metodo: occorre fare in modo che siano i testi, le loro parole e i loro significati a regolarsi ed accordarsi con il senso che “noi stessi (i lettori) vi mettiamo [in sie legen]”. Questa trasposizione dell’affermazione kantiana da un contesto gnoseologico ad uno ermeneutico ha come prima conseguenza la messa in discussione del principio dell’intenzione autorale quale criterio guida nella lettura e nella interpretazione di testi. Il principio della mens auctoris, erede della tradizione letteralista delle scuole filologiche antiche (prima fra tutte la scuola di Alessandria), si era venuto affermando a partire dall’età moderna nella hermeneutica sacra ed era stato accolto anche dalle prime ermeneutiche generali sette-

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centesche9, anche se in modo non uniforme. Infatti, già “il celebre Wolff” aveva riformulato questo principio e successivamente il leibniziano Chladenius aveva affermato che, quando il significato di un testo non è chiaramente decifrabile, è lecito al lettore proporre una autonoma interpretazione sulla base del proprio “punto di vista” 10. Seppur con intenzioni diverse, che si collegano all’esercizio della critica della ragione, anche per Kant l’interprete non deve limitarsi a constatare come stanno le cose, riproducendo il senso altrui, ma deve impegnarsi a pensare e ad interpretare in modo autonomo. L’invito ad usare la propria ragione e a “pensare da sé” – a costruire un’esperienza sensata regolata da principi a priori, secondo il modello costruttivistico dell’immissione del senso – comporta in campo ermeneutico una revisione del principio dell’intenzione autorale, basato sulla corrispondenza dell’interpretazione col senso già dato e racchiuso nel testo. Sulla base di queste sintetiche osservazioni non è affatto casuale che, nelle pagine iniziali del “Libro I” della “Dialettica trascendentale” della prima Critica, Kant rifiuti il principio autorale e si schieri esplicitamente a favore della tesi del comprendere meglio. Facen9

Per la teorizzazione del principio autorale nell’ermeneutica settecentesca paradigmatica è la posizione di G. Fr. Meier, Versuch einer allgemeinen Auslegungskunst (1756), hrsg. von A. Bühler und L. Cataldi Madonna, Meiner, Hamburg 1996, § 128, p. 50. Tra i numerosi studi sulle “ermeneutiche generali” del periodo, fioriti di recente, ci limitiamo a segnalare la sintesi proposta da L. Cataldi Madonna, L’ermeneutica filosofica dell’Illuminismo tedesco: due prospettive a confronto, in “Rivista di Filosofia”, 85 (1994), pp. 185-212. 10 Chr. Wolff, Philosophia rationalis sive logica, in Gesammelte Werke, Bd. II. 3, Hildesheim, Olms 1983, § 929, in cui si afferma che, quando chi legge è in grado di sostituire una espressione confusa del testo con una nozione distinta, “lector mentem auctoris intelligit et melius explicat”; J.M. Chladenius, Einleitung zur richtigen Auslegung vernünfftiger Reden und Schriften, Leipzig 1742, rist. anast. a cura di L. Geldsetzer, Jansen, Düsseldorf 1968, § 156: “Gli uomini non possono prevedere tutto, parole, discorsi e scritti loro possono significare qualche cosa che essi non avevano avuto l’intenzione di dire o scrivere: da ciò consegue che, cercando di intendere i loro scritti, si possono con buon motivo pensare cose che gli autori non hanno avuto in mente”. Questa affermazione è una diretta conseguenza della tesi dei “punti di vista”, proposta da Chladenius con riferimento alla concezione leibniziana della monade.

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do riferimento alla concezione dell’idea propria di Platone, il “sublime filosofo”, Kant scrive: Noto soltanto, che non è niente insolito, tanto nella conversazione comune quanto negli scritti, mediante il confronto dei pensieri che un autore espone sul suo oggetto, comprenderlo magari meglio di quanto egli non comprendesse se medesimo [den Verfasser sogar besser zu verstehen, als er sich selbst verstand], in quanto egli non determinava abbastanza il suo concetto, e però talvolta parlava o anche pensava contrariamente alla sua propria intenzione [seiner eigenen Absicht entgegen] (KrV B 370; IV 246 [247]).

Secondo questo passo, che nel contesto della “Dialettica trascendentale” sembra essere del tutto marginale, Kant sostiene esplicitamente che occorre comprendere un autore “meglio di quanto egli non comprendesse se medesimo”. Come già fece notare Bollnow11, si tratta di una considerazione importante per la storia dell’ermeneutica, che presuppone da parte di Kant la conoscenza del dibattito settecentesco intorno ai problemi dell’interpretazione, ma che soprattutto si accorda con l’impostazione costruttivistica del criticismo nei termini in cui essa è delineata nei passi precedentemente richiamati della prima Critica. Infatti, non si tratta di riprodurre pedissequamente la nozione platonica di idea secondo il significato che il “sublime filosofo” gli aveva assegnato, bensì di attuare un “confronto di pensieri [Vergleichung der Gedanken]” che riformuli tale nozione, esplicitando in meglio, ovvero completando, integrando o addirittura correggendo il pensiero dell’autore, al fine di eliminare oscurità ed incongruenze. Questo significa “comprendere meglio l’autore [den Verfasser sogar besser zu verstehen]”, un approccio necessario in questo caso “in quanto Platone non determinava abbastanza il suo concetto e […] talvolta parlava, o anche pensava, contrariamente alla sua propria intenzione”. Quanto Kant fosse convinto dell’importanza e della fecondità di 11

O.Fr. Bollnow, Was heisst einen Schriftsteller besser verstehen, als er sich selber verstanden hat?, in “Deutsche Vierteljahresschrift”, 18 (1940), pp. 117-138, ora in Id., Studien zur Hermeneutik, Alber, Freiburg-München 1982, Bd. I, pp. 48-72 (spec. p. 51).

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questo principio ermeneutico generale è dimostrato dal fatto che esso viene richiamato nella conclusione del suo scritto contro Eberhard. Difendendosi dalla scorretta interpretazione che questi aveva fornito della sua svolta trascendentale, Kant critica esplicitamente quei lettori superficiali (insieme a “qualche storico della filosofia [manche Geschichtschreiber der Philosophie]”), che trascurano di andare al di là della ricerca del senso letterale12. Al miope letteralismo occorre invece sostituire il libero giudizio critico della ragione, cogliendo l’idea che l’autore voleva comunicare, ma che spesso si trova espressa solo in modo parziale, oppure eccede la consapevolezza dello stesso autore13. Accanto ai passi esaminati, altri elementi significativi della riflessione intorno alle problematiche ermeneutiche possono essere ricavati dall’esame della terza Critica. Non potendo in questa sede sviluppare una analisi dettagliata, ci limitiamo a richiamare l’attenzione sul valore ermeneutico che possono assumere le massime del sensus communis, enunciate nell’ambito della trattazione della teoria del gusto14. Le tre massime possono essere intese come altrettanti 12

I. Kant, Über eine Entdeckung, nach der alle neue Kritik der reinen Vernunft durch eine ältere entbehrlich gemacht werden soll, Königsberg 1790, 17912, A 126; VIII 251 [Contro Eberhard: la polemica sulla Critica della ragion pura, trad. it. a cura di C. La Rocca, Giardini, Pisa 1994, p. 137]. Qui Kant critica l’atteggiamento del lettore che nell’interpretazione dei filosofi del passato attribuisce loro “una serie di assurdità, non afferrando l’intenzione presente nelle loro parole […] e indagando sulle parole [über dem Wortforschen] che quei filosofi hanno detto non è in grado di vedere che cosa hanno voluto dire”. 13 Questi spunti, qui appena accennati, sono approfonditi in modo dettagliato e documentato dal saggio di C. La Rocca, Il conflitto delle interpretazioni, cit. Egli sostiene che nella filosofia kantiana è presente una “ermeneutica del testo filosofico”, che trova la suo principale applicazione proprio nello scritto contro Eberhard. I principi di questa ermeneutica si possono riassumere in due punti: 1) oltrepassare la lettera del testo in direzione dell’idea generale intenzionata, ossia in direzione dell’idea di ciò che gli autori volevano dire, al di là di quello che hanno effettivamente detto e del modo in cui lo hanno espresso; 2) cogliere le singole enunciazioni del testo filosofico in relazione alla totalità sistematica dei pensieri, secondo le indicazioni sul rapporto tra le parti e il tutto esposte nell’“Architettonica della ragion pura” (KrV B 862 s.; IV 539 s. [510 s.]). 14 Le massime sono le seguenti: “1) pensare da sé [Selbstdenken]; 2) pensare met-

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principi che orientano correttamente sia il pensiero sia l’interpretazione di testi o messaggi scritti. Inoltre nel suo complesso la concezione kantiana del giudizio riflettente può essere considerata un modello per sviluppare una prospettiva ermeneutica che consideri l’atto interpretativo non come riproduzione dell’intenzione autorale, ma come introduzione o attribuzione produttiva di un senso autonomo, criticamente ripensato15. Come è noto, il giudizio riflettente viene distinto dal giudizio determinante in quanto esso si limita a “riflettere” su di una natura già costituita secondo le forme a priori dell’intuizione e secondo le categorie dell’intelletto. Mentre nel caso del giudizio determinante l’universale o il concetto è già dato dalle forme a priori, sotto le quali vengono sussunti i contenuti particolari dell’esperienza, nel caso del giudizio riflettente invece l’universale deve essere trovato tendosi al posto degli altri; pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stesso. La prima è la massima del modo di pensare libero dai pregiudizi, la seconda del modo di pensare largo, la terza del modo di pensare conseguente” (KU B 158; V 294; [151]). A proposito della prima massima Kant sottolinea che essa non presuppone “mai una ragione passiva” o eteronoma, vale a dire una ragione irretita nei pregiudizi della superstizione che proprio l’Illuminismo intende combattere. Nella seconda massima si può intravedere probabilmente un riferimento al principio della hermeneutische Billigkeit (o aequitas hermeneutica), teorizzata da G.Fr. Meier, Versuch einer allgemeinen Auslegungskunst, cit., § 39, p. 17. 15 R. Makkreel, Imagination and Interpretation in Kant. The Hermeneutical Import of the “Critique of Judgment”, Chicago University Press, Chicago-London 1990, ha tentato di esplicitare le implicazioni ermeneutiche della filosofia kantiana partendo proprio dalla terza Critica ed approfondendo i nessi esistenti tra la teoria del giudizio riflettente e la concezione dell’immaginazione. Pur ammettendo che Kant non avrebbe elaborato una esplicita teoria ermeneutica, egli assegna al giudizio riflettente una funzione interpretativa dell’esperienza, attraverso cui diventa possibile leggere nella natura la presenza di un ordine finalistico e sistematico (cfr. in particolare pp. 109-171). Secondo l’autore, in questa concezione ermeneutica dell’“interpretazione riflettente” rientra anche la trattazione kantiana dell’ermeneutica biblica, che mira a riflettere nel testo sacro il significato morale o autentico (cfr. in particolare pp. 141 ss.). Contro questa tesi D. Thouard, Kant e l’herméneutique, in “Archives de Philosophie”, 61 (1998), pp. 629-658, ha invece sostenuto che nella prospettiva del giudizio riflettente critica ed ermeneutica risultano inconciliabili, in quanto sarebbe completamente assente la dovuta attenzione all’aspetto storico (cfr. spec. pp. 638640).

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partendo dal particolare16. Si tratta di saper “leggere” il particolare della natura, al fine di interpretare quest’ultima non più in chiave meccanicistica, bensì sotto l’aspetto estetico e teleologico, secondo le nostre esigenze di finalità ed armonia. In questo modo, come afferma Kant nel § 62, nella rappresentazione della natura “io introduco la finalità [die Zweckmäßigkeit hineinbringe], senza essere istruito empiricamente e di conseguenza senza avere bisogno di uno scopo particolare esistente fuori di me nell’oggetto” (KU B 276; V 365 [232]). Se, seguendo l’analogia tra interpretatio naturae ed interpretatio scripturae, trasponiamo questa affermazione al contesto dei testi scritti, possiamo osservare alcuni interessanti punti di contatto. Lo schema del giudizio teleologico, secondo cui “io introduco la finalità [die Zweckmäßigkeit hineinbringe]”, potrebbe valere come regola dell’atto interpretativo che si progetta secondo il principio del comprendere meglio. Infatti, anche nell’interpretazione dei testi scritti, se si intende andare al di là dell’intenzione autorale, il senso deve essere “introdotto [hineingebracht]” dall’interprete, ovvero deve essere trovato a partire dal testo particolare ma andando al di là delle sue espressioni letterali. Il riferimento al giudizio teleologico aiuta dunque a precisare lo schema costruttivistico dell’immissione del senso da parte dell’interprete e si accorda pienamente col principio del comprendere meglio. In conclusione, dai passi finora esaminati emergono alcuni elementi che contribuiscono ad abbozzare una riflessione di carattere generale sulle problematiche del comprendere e dell’interpretare. L’idea principale consiste nel ritenere che il senso autentico e profondo di un testo o di un messaggio debba essere costruito o introdotto dall’interprete attraverso un processo sintetico, critico ed autonomo di proiezione riflettente. Si tratta di affermazioni generali che preparano la concezione razionale (o morale) dell’interpretazione della Scrittura nella Religion, sulla quale ci soffermeremo più 16 Kant sostiene infatti che il giudizio riflettente è obbligato a “risalire dal particolare della natura all’universale” (KU B XXVII; V 180 [19]).

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avanti. Prima passiamo però ad esaminare altri testi kantiani in cui vengono condotte specifiche letture bibliche o in cui sono presenti ulteriori spunti sullo statuto dell’interpretazione.

3. Le origini dell’interpretazione razionale Ci sembra importante prendere in considerazione alcuni testi meno noti, al fine di documentare come anche nel caso dell’interpretazione scritturale le tesi kantiane siano state preparate da lunghe riflessioni, sparse in scritti precedenti al trattato sulla religione e sviluppate tenendo conto del “nuovo modo di pensare” inaugurato dalla rivoluzione copernicana. Esaminando alcune di queste riflessioni colpisce in particolare la conoscenza da parte di Kant del dibattito settecentesco sui metodi dell’interpretazione scritturale e delle principali acquisizioni della critica biblica dell’epoca. Sorprendentemente alcune riflessioni su questi argomenti si trovano già nelle lettere che risalgono alla prima metà degli anni Settanta, ad un periodo in cui il professore di metafisica dell’Albertina era impegnato principalmente a risolvere i numerosi problemi ancora aperti in ambito conoscitivo. In particolare in una lettera a Lavater dell’aprile 177517 Kant delinea sinteticamente la sua posizione nei confronti della religione ed in questo contesto abbozza per la prima volta anche il nucleo teorico essenziale della sua interpretazione della Scrittura. Sollecitato dal pastore zurighese, che in una precedente lettera gli aveva chiesto se ritenesse le sue opinioni sulla fede e sulla preghiera in accordo con le dottrine della Scrittura e con i suoi dogmi18, Kant risponde introducendo una importante distinzione che riguarda la nozione generale di religione ma che si rivelerà decisiva anche dal punto di vista dell’ermeneutica biblica. Scrive Kant al riguardo: 17

Si tratta della lettera del 28 aprile 1775 e dell’abbozzo posteriore (X 175-180 [Ep. 88-94]). 18 Nella lettera dell’8 aprile 1774 (X 165 s.)

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Io distinguo la dottrina di Cristo [Lehre Christi] dalle informazioni [Nachrichten] che ne abbiamo e per ricavare tale dottrina nella sua purezza cerco innanzitutto di trarne fuori [herausziehn] l’insegnamento morale, isolato da tutti i precetti neotestamentari. Questo è certamente l’insegnamento fondamentale [Grundlehre] del Vangelo; il resto può essere solo l’insegnamento ausiliario [Hülfslehre] (X 176 [Ep. 89]).

In questa affermazione si è soliti leggere una anticipazione della futura distinzione tra religione razionale pura (o “religione nei limiti della sola ragione”, basata sulla fede morale) e religioni positive o rivelate, che si fondano su informazioni e conoscenze storiche. Questa chiarificazione generale ha però un preciso riflesso anche sull’interpretazione scritturale. Essa comporta che nella lettura del testo biblico (nel caso specifico il Nuovo Testamento) occorre distinguere due piani: in primo luogo il significato fondamentale o “puro” (la Grundlehre), che è costituito dall’insegnamento morale; in secondo luogo l’“insegnamento ausiliario” (la Hülfslehre), ossia l’insieme delle informazioni (le Nachrichten) e la “commistione di fatti e di misteri rivelati” (detti anche “precetti neotestamentari”, “statuti” o “sussidi storici”), che hanno un valore contingente e che devono essere ricondotti all’epoca in cui vennero scritti. In questo senso Kant considera l’insieme delle informazioni e delle narrazioni meri “argomenti kath’anthropon” e dichiara esplicitamente di non essere “abbastanza prossimo ai tempi da cui esse provengono per prendere decisioni” al riguardo (X 177 [Ep. 90 s.]). Infatti, precisa Kant, per quanto riguarda l’elemento storico [das Historische] non possiamo mai concedere ai nostri scritti neotestamentari tanto credito da poter osare di prestare ad ogni loro riga una fiducia smisurata e specialmente di affievolire in tal modo la nostra sollecitudine nei confronti dell’unica cosa necessaria, ossia la fede morale nel Vangelo (X 178 [Ep. 91 s.]).

Con queste brevi ma lucide parole Kant delinea in questa lettera la sua concezione dell’interpretazione morale della Scrittura, proponendo un metodo di lettura che va oltre il significato letterale del testo. Prendendo le distanze da Lavater, che secondo l’ortodossia

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luterana considerava ancora i libri sacri ispirati da Dio, Kant distingue invece la Lehre Christi dalle testimonianze fornite dagli Apostoli e depositate per iscritto nelle narrazioni evangeliche19. A questo proposito egli afferma anzi che gli Apostoli avrebbero confuso l’insegnamento fondamentale con quello ausiliario e anziché magnificare come l’essenziale l’insegnamento religioso pratico del santo maestro, hanno magnificato la venerazione di questo maestro stesso ed una sorta di richiesta di favori adulandolo e innalzandogli lodi, sebbene egli si fosse così energicamente e così spesso pronunciato contro di esse (X 178 [Ep. 92]).

Tenendo presente i risultati della critica biblica dell’epoca (in particolare la distinzione tra “parola di Dio” e “Scrittura” proposta da Semler20), Kant accenna anche ad una spiegazione storica di questa confusione che sarebbe all’origine del testo dei sinottici e di cui deve tener conto l’interprete. Infatti, egli spiega che la scelta di 19

Per segnalare quanto questa distinzione sia contestuale al dibattito settecentesco ci limitiamo ad osservare che una posizione analoga sarà esplicitamente sostenuta da Lessing nei suoi frammenti teologici su Cristo, in cui si afferma che la “religione di Cristo” e la “religione cristiana” sono due cose diverse e che è da escludere che gli insegnamenti di entrambe siano confluite in un unico libro. Cfr. G.E. Lessing, La religione dell’umanità, a cura di N. Merker, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 91 s. Per un approfondimento dell’approccio illuministico alla religione rivelata rimandiamo a E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, tr. it. di E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 257 ss.; N. Merker, L’Illuminismo tedesco. L’età di Lessing, Laterza, Bari 1968, pp. 323-433. 20 Cfr. J.S. Semler, Abhandlung von freien Untersuchung des Canons, 4 voll., Halle 1771-1775, che prepara la via ad una “libera ricerca” intorno al testo biblico sciolta da pregiudizi dogmatici imposti dall’ortodossia. Come osserva W.G. Kümmel, Il Nuovo Testamento. Storia dell’indagine scientifica sul problema neotestamentario, tr. it. di V. Benassi, Il Mulino, Bologna 1976, p. 83, in quest’opera Semler “afferma che la parola di Dio e la Sacra Scrittura non sono identiche, in quanto la Scrittura contiene anche brani che avevano significato per il loro tempo ormai trascorso, e che ‘non servono al miglioramento morale dell’uomo d’oggi’; per conseguenza non tutte le parti del Canone possono essere ispirate e quindi normative per il cristiano”. Semler sostiene quindi che i libri biblici devono essere indagati da un punto di vista strettamente storico, considerandoli come testimonianze di epoche passate e non come destinati al lettore di oggi. Questa tesi, insieme alla presenza di un significato morale nel testo neotestamentario, costituisce lo sfondo delle opinioni di Kant nella lettera a Lavater.

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venerare il maestro si adattava meglio “a quei tempi (per i quali essi d’altro canto scrivevano, senza tener conto dei successivi) che ai nostri”, in quanto allora “era necessario che agli antichi miracoli se ne contrapponessero di nuovi, che ai precetti ebraici si contrapponessero quelli cristiani” (X 178 s. [Ep. 92]). In conclusione, il testo neotestamentario è per Kant un documento storico, un prodotto della “conoscenza storica” che è sempre cognitio ex datis, mai ex principiis21. In base a questa concezione del testo biblico si definisce anche il suo specifico valore di autorità, che a differenza di quanto pensava Lavater non può essere fondato su “nessuna invocazione di nomi sacri”. Infatti, il libro non acquista autorità per il suo carattere ispirato o sacrale, per le testimonianze di devozione in esso narrate o per le sue elaborazioni dogmatiche; esso è invece un complemento per la fortificazione della fede, “poiché gli statuti possono produrre l’osservanza, ma non le intenzioni del cuore” (X 179 [Ep. 93]). Di conseguenza il testo biblico ha un valore ausiliario; esso “non mi ingiunge dunque niente di nuovo, ma (qualunque sia la natura delle informazioni) può dare alle buone intenzioni una forza e una nuova certezza” (X 179 [Ep. 93 s.]).

4. L’importanza della disputa con Herder Queste sintetiche considerazioni kantiane sull’interpretazione scritturale erano state preparate da una serrata discussione su tematiche ermeneutiche e religiose con il concittadino Hamann, occasionata dalla lettura del primo volume della herderiana Älteste Urkunde des Menschengeschlechts, pubblicato anonimo a Riga nei primi mesi del 177422. In questo scritto Herder vede nella Genesi (1, 121

Si tratta dell’importante distinzione tra “conoscenza storica” e “conoscenza razionale”, che Kant teorizza nella “Architettonica della ragion pura”: KrV B 863 s.; III 540 [511]. 22 J.G. Herder, Älteste Urkunde des Menschengeschlechts, Hartknock, Riga 1774,

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31; 2, 1-3) l’origine della storia dell’umanità e della sua cultura; secondo lui la narrazione biblica non sarebbe derivata da miti orientali, ma dal “documento originario” dell’unica rivelazione trasmessa da Dio a tutti i popoli in un linguaggio simbolico (attraverso i “geroglifici della creazione”), contenente il primo insegnamento divino comune a tutti gli uomini. Questa originale ipotesi coinvolge anche il Pentateuco, la cui redazione mosaica viene considerata derivata dall’antico documento23. Dalla lettera inviata a Hamann il 6 aprile 177424 apprendiamo che Kant si è dedicato alla lettura del libro di Herder seguendo un preciso criterio ermeneutico: l’intento di cogliere “l’intenzione principale dell’autore [Hauptabsicht des Verfassers]”. Riassumendo il contenuto dello scritto, egli osserva giustamente che Herder considera i primi due capitoli della Genesi “non come una storia della creazione del mondo, ma come un compendio del primo insegnamento impartito al genere umano” (X 154 [Ep. 81]), in cui scrittura e linguaggio si trovano intrecciati e in cui sono contenute tutte le conoscenze successive. Si sofferma poi a discutere la tesi della non originarietà della redazione mosaica25; infine, nella parte finale della lettera, Kant invita Hamann a fornirgli ulteriori chiarificazioni circa in Id., Sämtliche Werke, hrsg. von B. Suphan, Weidmann, Berlin 1883, Bd. 6, pp. 193-511. 23 Herder sostiene che Mosè non è l’autore ispirato del testo biblico e a sostegno di questa tesi argomenta che i “geroglifici”, che si trovano nei primi due capitoli della Genesi e che sostengono lo schema di divisione della creazione in 7 giorni, sono presenti anche in altre culture (da quella egiziana a quella fenicia e greca). Secondo lui essi deriverebbero quindi dall’unica rivelazione divina comune a tutti i popoli; le diverse religioni, con le loro teogonie e mitologie, sarebbero “varianti” (o interpretazioni storiche particolari) dell’unica rivelazione o del “più antico documento”. 24 Hamann, dopo aver ricevuto il 2 aprile 1774 il libro di Herder direttamente dall’editore e averlo divorato nella notte, lo invia a Kant per sottoporlo al suo “competente giudizio” (XIII 64). Il 6 aprile Kant risponde esponendo le sue impressioni (X 153-156 [Ep. 80-83]). 25 Questa tesi, che considera la rappresentazione del numero 7 un’invenzione divina, frutto della rivelazione originaria, è ampiamente discussa da Kant, che con distacco parla di “mistica del numero 7”, oppure con accento peggiorativo di simbolo e di allegoria (X 154 [Ep. 80]).

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il contenuto del libro, ma lo prega ironicamente di usare “la lingua degli uomini, perché io, povero figlio della terra, non sono per niente organizzato per la lingua divina propria della ragione intuente” (X 156 [Ep. 83]). Con questa stoccata finale Kant dimostra di non condividere il contenuto dello scritto herderiano; egli considera l’idea di un antico documento comune a tutti i popoli un parto della “ragione intuente” che non usa “la lingua degli uomini”, un modo ironico per ritenerla una mera rappresentazione fantastica o mistica, priva di valore sia storico sia razionale. Queste riserve ritornano anche nella seconda lettera inviata a Hamann l’8 aprile 177426, in cui Kant ritorna sul problema della redazione mosaica in modo più dettagliato. Egli si chiede quale sia la “prova” in grado di dimostrare che il primo documento sia davvero “il più insospettabile ed autentico”. Per rispondere a questo importante interrogativo Kant richiama nuovamente la tesi di Herder: “il primo capitolo della Bibbia non narra la storia della creazione, ma raffigura […] l’insegnamento che Dio ha dato al primo uomo suddividendolo, per così dire, in 7 lezioni” (X 159 [Ep. 85]). In altre parole Herder avrebbe fornito una lettura pedagogica del testo biblico, corrispondente ad una allegoria soggettiva libera da vincoli razionali, che aprirebbe le porte alla fantasia e all’arbitrio27. Tuttavia è interessante rilevare come Kant non critichi l’argomento herderiano invocando una “prova” oggettiva, fondata secondo i principi scientifici del metodo storico-critico. Anzi, citando esplicitamente il nome autorevole di Michaelis28, Kant afferma che 26 X 158-161 [Ep. 84-87], in risposta alla precedente lettera dello stesso Hamann del 7 aprile (X 156-158). 27 Insistendo sul carattere allegorico dell’interpretazione herderiana Kant si distacca anche dalla lettura di Hamann, che nella precedente lettera del 7 aprile (cfr. X 156-158) aveva sostenuto che secondo lui la tesi del documento sarebbe storica non allegorica. 28 Citando il nome di Michaelis, professore di teologia a Göttingen, orientalista, traduttore della Bibbia e sostenitore del metodo storico-critico, Kant dimostra la conoscenza della critica biblica contemporanea. Dall’elenco di A. Warda, Immanuel Kants Bücher, Breslauer Verlag, Berlin 1922, Kant possedeva nella sua biblioteca il

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un approccio al testo biblico basato sulla conoscenza critica delle lingue antiche, sull’erudizione filologica e sullo “studio degli archivi dell’antichità” finisce in realtà per legittimare una casta di specialisti che diventano gli esclusivi depositari del vero significato del testo, rafforzando in questo modo l’ortodossia ed il dogmatismo religioso29. Per queste ragioni, pur ritenendo la tesi di Herder il frutto di un “armamentario vulcanico” piuttosto sospetto di fronte al tribunale della ragione, Kant dichiara sorprendentemente di temere “molto per la vittoria senza trionfo del restauratore del documento. Infatti contro di lui si erge una falange impenetrabile di maestri di erudizione orientale, i quali non lasciano tanto facilmente che un animale privo di corna rapisca una tale preda dal loro territorio” (X 161 [Ep. 87]). Pur non accettando l’approccio herderiano al testo biblico, Kant non perde occasione per criticare gli eccessi in cui erano caduti i sostenitori del metodo storico-critico, che nella lettura del testo privilegiavano il sensus historicus vel grammaticus e non lasciavano spazio per altre produttive configurazioni del senso, primo fra tutti quello razionale o morale. Come è stato giustamente osservato30, nelle lettere scambiate con Hamann si delineano con una certa precisione i contorni della posizione kantiana nei confronti di Herder, che diventeranno pubblici un decennio più tardi nella recensione alle Ideen 31. Anche in libro di J.D. Michaelis, Einleitung in die Göttlichen Schriften des neuen Bundes, Göttingen 1750. Come vedremo, anche nella Religion e nello Streit Kant si richiamerà all’insegnamento di Michaelis. 29 Come ha giustamente osservato O. Bayer, Vernunftautorität und Bibelkritik in der Kontroverse zwischen J.G. Hamann und I. Kant, in H. Graf von Reventlow (Hrsg.), Historische Kritik und biblischer Kanon in der deutschen Aufklärung, Harrassowitz, Wiesbaden 1988, pp. 21-45 (spec. pp. 33-36), le tesi kantiane esposte nella lettera ad Hamann dell’8 aprile 1774 ritorneranno nella Religion e nello Streit, nel contesto della definizione del compito del teologo biblico. 30 H.D. Irmscher, Die geschichtsphilosophische Kontroverse zwischen Kant und Herder, in B. Gajek (Hrsg.), Hamann-Herder-Kant. Acta des vierten Internationalen Hamann-Kolloquiums, Lange, Frankfurt a.M. 1987, pp. 111-192 (spec. pp. 119 ss.). 31 Per il nostro tema è particolarmente rilevante la recensione alla seconda parte dell’opera di Herder: I. Kant, Rezension zu Herders Ideen zu einer Philosophie der Geschichte der Menschheit, in “Allgemeine Literatur-Zeitung”, Jena 1785, A 153-

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questa occasione Kant prende posizione nei confronti dell’interpretazione herderiana della Genesi, contenuta nel Libro X della seconda parte dell’opera32, in cui ritornano, seppur in forma più sintetica, gran parte delle considerazioni già esposte nella Älteste Urkunde. Anche dieci anni dopo la nuova esposizione herderiana della storia mosaica appare a Kant come una mera “ipotesi” elaborata sulla base di principi non razionali ma esclusivamente empirici; per questi motivi egli dichiara esplicitamente di “non essere versato […] nella conoscenza e valutazione critica di antichi documenti”. Inoltre valuta negativamente (come origine dell’eteronomia) l’idea secondo cui l’uomo, all’inizio del suo sviluppo, sarebbe stato ammaestrato da un’originaria tradizione alla quale “deve attribuire il suo approssimarsi alla saggezza” 33. Questa ulteriore presa di posizione critica nei confronti dell’interpretazione herderiana della narrazione biblica, ritenuta ipotetica o soggettiva, deve aver convinto Kant ad esporre una sua personale lettura del testo biblico, secondo un approccio ermeneutico che valorizzasse nel testo la presenza di alcuni elementi di carattere filosofico o razionale. Così nel breve saggio dal titolo Mutmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, pubblicato nel 1786 34, Kant propone una sua personale lettura di Gen 2-4, contrapponendo il proprio approccio ermeneutico basato su “congetture [Mutmaßungen]” razionali alle mere “invenzioni [Erdichtungen]” herderiane: Inserire congetture nel corso di una storia per colmare le lacune nei documenti è certo concesso […]. Ma far nascere una storia intera156; VIII 58-66 [Recensione di J.G. Herder: “Idee per la filosofia della storia dell’umanità”, in SSP 65-72]. 32 Cfr. J.G. Herder, Ideen zu einer Philosophie der Geschichte der Menschheit, parte II, Riga 1785, in Id., Sämtliche Werke, cit., Bd. 13, pp. 213 ss. [Idee per la filosofia della storia dell’umanità, tr. it di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 196 ss.]. 33 I. Kant, Rezension zu Herders Ideen, cit., A 155; VIII 63 [SSP 70]. Qui Kant cita per esteso proprio un brano tratto dal Libro X, Capitolo 6, delle Ideen herderiane, che riguarda l’istruzione del genere umano secondo la storia mosaica. 34 Id., Mutmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, in “Berlinische Monatsschrift”, gennaio 1786, A 1-27; VIII 101-123 [Inizio congetturale della storia degli uomini, in SSP 103-117].

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mente e soltanto da congetture sembra non molto meglio che tracciare il progetto di un romanzo. Una tale storia potrebbe portare il nome non di storia congetturale, bensì di semplice invenzione 35.

Kant è infatti convinto che il primo inizio della storia del genere umano non debba essere “inventato”, ma tratto dall’esperienza, ovvero dall’osservazione della natura umana; in questo modo si possono formulare “congetture” che non si basino soltanto sull’immaginazione ma siano anche accompagnate dalla ragione e si possano quindi “accordare” col contenuto del racconto biblico. Scrive Kant esplicitamente: […] intraprendendo un puro viaggio di piacere, posso ben chiedere licenza che mi sia concesso di servirmi a tal fine, come mappa, di un documento sacro [heilige Urkunde], e di figurarmi al tempo stesso che l’itinerario che io compio sulle ali dell’immaginazione, sebbene non senza un filo conduttore legato all’esperienza per mezzo della ragione, non trovi proprio quella medesima linea che quel documento contiene, lì tratteggiata in forma di racconto. Il lettore aprirà le pagine di quel documento (Genesi, dal cap. II al IV) e passo dopo passo controllerà se la strada che la filosofia prende secondo concetti non s’accordi [zusammentreffe] con quella che fornisce la storia36.

Attuando una interpretazione che si richiama ai principi ermeneutici della teoria dell’accomodazione, assai diffusa nella critica biblica dell’epoca37, secondo Kant in Gen 2-4 viene narrato il “primo inizio” della storia del genere umano e il suo progredire dalla natura istintuale alla libertà morale. Nel testo biblico Kant individua quattro tappe dell’evoluzione dell’umanità attraverso le quali l’uomo, partendo dalla caduta (interpretata come felix culpa), arriva a raggiungere la sua destinazione etica, conoscendosi come creatura 35

Ivi, A 1; VIII 109; [SSP 103]. Ivi, A 2 s.; VIII 109 s. [SSP 104]. 37 La dottrina dell’accomodazione (l’idea che per motivi pedagogici l’annuncio divino si sarebbe accordato col linguaggio e la mentalità degli uomini) aveva trovato nella seconda metà del Settecento una vasta applicazione nella critica biblica soprattutto ad opera di Semler. Cfr. G. Hornig, Die Anfänge der historish-kritischen Theologie. J.S. Semler Schriftverständnis und seine Stellung zu Luther, Göttingen 1961, pp. 225 ss. 36

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morale capace di scegliere e di essere fine a se stesso38. Questi concetti filosofici (razionali e universali) di libertà, di scelta e di responsabilità, che l’interprete trae dal testo quali sue “congetture”, si accordano con il contenuto del “sacro documento”, anche se non corrispondono alle sue espressioni letterali. Alla fine dal punto di vista filosofico dalla narrazione biblica: risulta che l’uscita dell’uomo dal paradiso […] non è stata altro che il passaggio dalla selvatichezza di una creatura semplicemente animale all’umanità, dal girello per bambini dell’istinto alla guida della ragione; in una parola: dalla tutela della natura allo stato di libertà 39.

Dalla lettura del testo biblico si deve trarre un importante ammonimento: l’uomo non deve dare la colpa dei mali che lo opprimono alla provvidenza o ai suoi progenitori, ma deve “considerare se stesso interamente responsabile di tutti i mali che vengono dal cattivo uso della sua ragione” 40. Di conseguenza, conclude Kant, “il risultato della storia più antica degli uomini, tentata per mezzo della filosofia” può essere riassunto nell’insegnamento che le cose progrediscono verso il meglio “e a tale progresso ognuno è allora chiamato dalla stessa natura a contribuire per la sua parte, secondo le sue forze” 41. Anche se in questo breve saggio del 1786 Kant non esplicita i presupposti teorici che guidano la sua lettura del testo biblico, risulta evidente che egli applica una metodologia ermeneutica precisa, di cui si era impadronito già da molto tempo seguendo da vicino il complesso dibattito intorno all’interpretazione della Scrittura, che si era sviluppato nella seconda metà del Settecento nelle scuole filo38 Come ha ricordato S. Givone, Ermeneutica ed esegesi, oggi, in R. Dottori, H. Künkler (a cura di), Estetica ed ermeneutica. Scritti in onore di H.-G. Gadamer, Pironti, Napoli 1981, pp. 113-119 (spec. p. 117 s.), in queste pagine kantiane troviamo una prima interpretazione del peccato d’origine secondo la chiave di lettura della felix culpa; questa interpretazione è quindi diversa da quella sviluppata nel Capitolo I della Religion. 39 I. Kant, Mutmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., A 12 s.; VIII 115 [SSP 109]. 40 Ivi, A 27; VIII 123 [SSP 116]. 41 Ibidem.

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logiche e che aveva trovato negli scritti di Lessing e di Herder una vasta eco filosofica. Il tratto fondamentale di questa metodologia riguarda in primo luogo il rifiuto dell’interpretazione letterale; in secondo luogo la tendenza ad introdurre un senso razionale che renda le narrazioni bibliche universalmente comprensibili e che ponga il loro contenuto in accordo con i concetti universali della ragione. In quest’ottica alla Scrittura viene attribuito prevalentemente un significato non dogmatico o confessionale, ma pedagogico e morale, che come tale può essere condiviso da tutti gli esseri razionali prima ancora che dai singoli credenti42.

5. La critica del letteralismo e lo statuto dell’interpretazione “autentica” Accanto a queste letture del testo biblico, condotte con metodo filosofico o razionale, nel saggio Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Theodicee, pubblicato nel 179143, troviamo una importante riflessione sullo statuto dell’“interpretazione autentica” che ci aiuta a precisare ulteriormente i presupposti teorici kantiani in ambito ermeneutico. Infatti, per definire la teodicea, nella “Terza parte” di questo scritto44 compaiono i termini Auslegung e Interpretation propri della tradizione dell’ars interpretandi 45, stabi42

A questo proposito significativa è l’interpretazione razionalizzata del conflitto tra Caino e Abele, narrata in Gen 4: cfr. ivi, A 18 s.; VIII 118 s. [SSP 111 s.]. Secondo Kant il conflitto tra Caino e Abele va storicizzato e va letto come il contrasto tra una civiltà di agricoltori ed una di pastori; esso testimonia dell’“età della discordia”, che avrà un esito positivo in quanto porterà alla riunione degli uomini nelle città, rendendo possibile la costruzione di una società. 43 I. Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Teodizee, in “Berlinische Monatsschrift”, settembre 1791, A 194-225; VIII 253-272 [Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea, in SFR 53-64]. 44 Ivi, A 211-217; VIII 264-267 [SFR 59-64]. Per l’importanza di questo scritto nel contesto della filosofia kantiana della religione, rimandiamo al libro di G. Cunico, Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Marietti, Genova 1992, pp. 133-215. 45 Mentre il termine Auslegung e il verbo corrispondente ricorrono frequentemente in molte opere kantiane (soprattutto nella Religion e nello Streit), la parola di

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lendo in questo modo un collegamento tra un concetto che riguarda la religione e le problematiche ermeneutiche. Scrive Kant: “Ogni teodicea deve essere propriamente interpretazione della natura [Auslegung der Natur] in quanto Dio manifesta attraverso di essa l’intenzione [Absicht] della sua volontà” 46. In altre parole, la difesa dell’operato divino, dalle accuse che gli vengono rivolte sulla base della constatazione che nel mondo vi è qualcosa di contrario alla sua saggezza, può avvenire solo sulla base di una “interpretazione della natura”, da cui risulti l’intenzione della volontà divina in essa presente. In questo contesto ermeneutico, in cui ritroviamo il problema dell’intenzione autorale, Kant precisa subito dopo che ci sono due tipi di interpretazione: essa può essere “dottrinale” o “autentica”, ossia diretta o indiretta. La prima cerca di cogliere l’intenzione dell’autore di un messaggio dalle espressioni letterali di cui si è servito; la seconda invece cerca di comprendere il senso direttamente dalla voce dell’autore del messaggio, andando al di là del significato empirico del segno scritto47. Scrive Kant: Noi possiamo anche considerare il mondo, in quanto è opera di Dio, come una manifestazione divina delle intenzioni [Absichten] della sua volontà, ma così considerato esso è per noi spesso un libro chiuso [ein verschlossenes Buch] e lo è anzi sempre quando si mira a dedurre da esso, che è semplicemente oggetto di esperienza, l’intenzione finale [Endabsicht] di Dio che è sempre morale48.

La “teodicea propriamente detta”, ovvero la “teodicea dottrinale”, si basa proprio su una interpretazione letterale del “libro del derivazione latina Interpretation, oltre che nel saggio sulla teodicea (A 213; VIII 264 [SFR 60]), ritorna solo in SF A 55; VII 41 [102]. 46 I. Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Teodizee, cit., A 211; VIII 264 [SFR 59]. 47 Ivi, A 211 s.; VIII 264 [SFR 59]: “Ogni interpretazione [jede Auslegung] di un legislatore è dottrinale [doktrinal] o autentica [authentisch]. La prima cerca di enucleare per via di argomentazione quella volontà a partire dalle espressioni [aus den Ausdrücken] di cui essa si è servita, riferendole alle intenzioni [Absichten] del legislatore conosciute per altra via; la seconda la dà il legislatore medesimo”. 48 Ivi, A 212; VIII 264 [SFR 59].

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mondo”. Si tratta di una lettura parziale che tende a considerare il mondo come “oggetto di esperienza” senza cogliere il significato più profondo, ossia l’intenzione ultima dell’autore del creato: la “intenzione finale di Dio, che è sempre morale”. La “teodicea autentica” invece consiste in una interpretazione della vera intenzione della volontà divina (dell’autore) basata sui decreti della ragione. Essa intende quindi esplicitare l’intenzione del creatore, e lo fa non tanto esaminando il mondo empirico, quanto concentrandosi su ciò che si trova nella ragione e nella coscienza morale di ciascun uomo. In questo modo, precisa Kant, “è Dio stesso che attraverso la nostra ragione diventa l’interprete [der Ausleger] della sua volontà manifesta nella creazione e possiamo chiamare questa interpretazione [Auslegung] teodicea autentica” 49. Mentre l’interpretazione dottrinale si basa su un significato esteriore, che rimane a livello empirico, quella autentica è tale perché trova in se stessa il suo senso: si tratta di un senso spirituale, di una parola che parla in interiore homine sotto la veste della ragion pratica. La legge morale razionale diventa così un elemento fondamentale non soltanto nella definizione di ogni atto interpretativo che nel gran libro del mondo intenda cogliere il senso al di là della lettera. Kant precisa che non si tratta dell’interpretazione di una ragione che arzigogola con le sue argomentazioni (speculativa) ma di una ragion pratica sovrana, che comandando in modo assoluto nel suo legiferare, può essere considerata come spiegazione [Erklärung] immediata e voce di Dio attraverso la quale egli dà un senso alla lettera della sua creazione50.

Come la teodicea autentica, anche l’interpretazione autentica è quella in cui l’interprete non si ferma al significato letterale del testo, ma vi introduce un senso ulteriore che attinge dalla coscienza morale: un senso etico-religioso che – come vedremo tra poco – non è soggettivo ma universale. Nelle pagine che seguono dello scritto che stiamo esaminando 49 50

Ivi, A 212 s.; VIII 264 [SFR 60]. Ivi, A 213; VIII 264 [SFR 60].

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Kant ha messo alla prova questa concezione dell’interpretazione attraverso la lettura di uno dei principali libri biblici particolarmente rilevanti per il tema della teodicea: il libro di Giobbe. Senza mezzi termini egli vede in questo libro, “espresso in maniera allegorica [allegorisch ausgedrückt] una interpretazione autentica [authentische Interpretation]” della volontà divina51. Qui il modello di teodicea autentica, in cui è la morale a fondare e ad alimentare la fede e non viceversa, costituisce la base per definire lo statuto della “interpretazione autentica”, il cui fine consiste nell’esprimere il significato morale o razionale52. In conclusione in questo scritto, nel tentativo di arrivare a definire la nozione di teodicea autentica in contrapposizione a tutti i tentativi dottrinali inevitabilmente destinati al fallimento, Kant ci ha dato anche una più precisa definizione dell’atto interpretativo. L’interpretazione autentica è quella che coglie le vere intenzioni della volontà dell’autore di un messaggio (di un testo o di un’opera), al di là delle espressioni e dei segni empirici scelti dell’autore stesso. Ciò avviene non attraverso una lettura che mira a rintracciare l’intenzione autorale nella lettera del testo (in questo caso infatti ci scontreremmo con un “libro chiuso”), bensì attraverso un processo più complesso, che coinvolge attivamente l’interprete. Queste affermazioni kantiane intorno all’interpretazione autentica non sono quindi in contraddizione col principio ermeneutico del com51

Ivi, A 213; VIII 264 [SFR 60]. Nell’interpretazione kantiana Giobbe è l’archetipo dell’uomo onesto e moralmente retto, il cui comportamento si distingue nettamente dall’ipocrisia religiosa. Con la disposizione interiore della sua coscienza, dimostra di non fondare “la sua moralità sulla fede, ma la fede sulla moralità; e in questo caso la fede, per debole che sia, è però di un genere schietto e puro, di quel genere cioè che fonda una religione non dell’interesse ma della buona condotta” (Ivi, A 217; VIII 267 [SFR 61]). Un analogo riferimento alla figura di Giobbe, come colui che considera un crimine adulare Dio, si trova nella già citata lettera a Lavater (X 176 [Ep. 89]). Nelle lezioni di teologia naturale del semestre invernale 1783-84 Kant definisce il libro di Giobbe il “più filosofico” di tutto l’Antico Testamento (Danziger Rationaltheologie, XXVIII/ 2-1 1287). Per l’importanza di questa interpretazione kantiana della figura di Giobbe rimandiamo alla acute osservazioni di G. Moretto, Giustificazione e interrogazione. Giobbe nella filosofia, Guida, Napoli 1991, pp. 13-53; 63 ss. 52

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prendere meglio. Infatti, sulla base di quanto siamo venuti dicendo a proposito del nesso tra teodicea autentica ed interpretazione autentica, il principio del comprendere meglio equivale all’invito di seguire l’ispirazione interiore della coscienza morale senza fermarsi alla lettera del testo, conferendo senso a ciò che si sta interpretando. Ancora una volta non si tratta di un atteggiamento ricettivo che richiede adeguazione passiva, ma di un atto produttivo di conferimento o di costruzione di senso, che coinvolge e nobilita ogni uomo in quanto essere razionale.

6. L’ermeneutica al servizio della religione razionale Dopo aver rintracciato nelle opere kantiane alcune riflessioni intorno allo statuto dell’interpretazione ed alcuni esempi di esegesi scritturale, passiamo ora ad approfondire la specifica concezione dell’ermeneutica biblica, che Kant espone con una certa sistematicità in due scritti: nella Religion (del 1794) e nello Streit (del 1798). Si tratta di un tema ampiamente studiato dalla critica, che lo ha trattato con intenti e metodologie differenti: ricercando le fonti storiche che hanno influenzato l’approccio kantiano al testo biblico53; situando le tesi ermeneutiche nel contesto più generale della concezione della religione razionale e del cristianesimo54, oppure collegandole a specifiche problematiche teologiche55; infine ricostruendo 53 A questo proposito rimane paradigmatica la ricerca di J. Bohatec, Die Religionsphilosophie Kants in der “Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft”. Mit besonderer Berücksichtigung ihrer theologisch- dogmatischen Quellen, Hoffmann und Campe, Hamburg 1938 (rist. anast. Olms, Hildesheim 1966), spec. pp. 19-60; 429-439. 54 Ci riferiamo in particolare agli studi di G. Ferretti, La ragione ai confini della trascendenza cristiana in Kant, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata”, 19 (1986), pp. 171-266 (spec. pp. 203 ss.), e di P. Ricoeur, Une herméneutique philosophique de la religion: Kant, in J.P. Jossua, N.J. Séd (Éd.), Interpréter. Mélanges offerts à Claude Geffré, Cerf, Paris 1992, pp. 25-47. Entrambi considerano la filosofia kantiana della religione una “ermeneutica del cristianesimo” e si soffermano in particolare sull’interpretazione del peccato d’origine. 55 Si vedano a questo proposito gli studi di K. Barth, La teologia protestante nel

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la contrastata ricezione dei criteri interpretativi kantiani nel dibattito tedesco di fine Settecento che va sotto il nome di Auslegungsstreit 56. Tenendo presente i principali risultati di questi diversi filoni di ricerca e le idee kantiane sull’argomento precedentemente abbozzate, ci concentreremo ora sulla Religion 57, in cui Kant affronta specificamente il problema dell’interpretazione scritturale con un’impostazione che tiene conto della sua concezione ermeneutica generale58. Nelle pagine seguenti esamineremo analiticamente il denso paragrafo, in cui Kant espone il principio generale dell’interpretazione biblica nell’ambito della trattazione della “religione entro i limiti della sola ragione”. Proprio al fine di precisare questo contesto iniziamo il nostro esame da alcuni passi della Religion che precedono il paragrafo in questione e che ci aiutano ad introdurci nelle tematiche ermeneutiche in esso trattate. Già nel Capitolo I, nel quale si parla dell’origine del male nella natura umana con riferimento al racconto biblico della caduta, Kant si sente in dovere di fare alcune precisazioni a proposito delsecolo XIX, tr. it. di G. Bof, Jaca Book, Milano 1979, vol. I, pp. 311-355, e di E. Hirsch, Geschichte der neueren evangelischen Theologie, Bertelsmann, Gütersloh 1952, Bd. IV, pp. 320-329. 56 Per questa ricostruzione storica rimandiamo al libro di G. D’Alessandro, Kant e l’ermeneutica. La “Religione” kantiana e gli inizi della sua recezione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. Un posto a parte merita lo studio di H. d’Aviau de Ternay, Traces bibliques dans la lois morale chez Kant, Beauchesne, Paris 1986, che tenta di mostrare come l’orizzonte biblico costituisca la principale fonte ispiratrice del pensiero etico kantiano. Infine di recente B. Stangneth, Kultur der Aufrichtigkeit. Zum systematischen Ort von Kants “Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft”, Königshausen & Neumann, Würzburg 2000, considera l’ermeneutica biblica kantiana parte di una più ampia metodologia della cultura (cfr. spec. pp. 239-245). 57 Per una visione d’insieme delle problematiche di questo scritto rimandiamo al saggio di D. Venturelli, Un contributo allo studio della “Religione nei limiti della sola ragione”, in C. Angelino (a cura di), Filosofi della Religione, il melangolo, Genova 1999, pp. 125-163, e alla fondamentale monografia di J.-L. Bruch, La philosophie religieuse de Kant, Aubier, Paris 1968. Purtroppo in questa sede non possiamo tenere conto anche dei materiali preparatori, raccolti in XX 425-440; XXIII 87-124. 58 Ci riferiamo al paragrafo VI del Capitolo III: La fede di chiesa ha per suo interprete massimo la fede religiosa pura [Der Kirchenglaube hat zu seinem höchsten Ausleger den reinen Religionsglauben] (Rel. B 157-166; VI 109-114 [118-124]).

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l’interpretazione della Scrittura. Tali precisazioni si rendono necessarie in quanto egli ha appena sostenuto che l’origine del male non è dovuta al passaggio nel tempo da uno stato di innocenza ad uno di peccato ma alla tendenza costitutiva dell’uomo a pervertire le massime morali. Si pone quindi il problema di “accordare” la narrazione biblica con la sua spiegazione razionale59. Le ragioni specifiche addotte per sostenere tale accordo si ricollegano al metodo generale di lettura razionale della Scrittura, introdotto già nel breve scritto del 1786. Nella Religion queste ragioni vengono accennate sinteticamente a conclusione del Capitolo I, in un passo in cui Kant si schiera a favore della teoria dell’accomodazione60, affermando esplicitamente che “uno sforzo – come quello contemporaneo – di scoprire nella Scrittura quel senso che sia in armonia [in Harmonie steht] con quanto di più santo insegna la ragione, non solo bisogna ritenerlo come permesso ma piuttosto come un dovere” (Rel. B 116; VI 83 s. [91]). Del resto, sempre nello stesso Capitolo, Kant aveva già giustificato la sua interpretazione della caduta con riferimento al principio ermeneutico generale del comprendere meglio, sostenendo che dalla “lezione storica” del testo biblico è lecito trarre un significato razionale o morale “senza decidere se questo sia anche il senso attribuitole dallo scrittore o sia solamente quello che noi vi introducia59

Come già sappiamo, questo problema aveva trovato una prima soluzione nello scritto del 1786, precedentemente esaminato. Ora Kant propone una diversa e più ampia trattazione della narrazione biblica del peccato d’origine, che lo interpreta filosoficamente come “tendenza al male [Hang zum Bösen]” non sradicabile dal cuore dell’uomo. Questa interpretazione è stata ampiamente studiata nella sua rilevanza ermeneutica dai saggi di Ferretti e di Ricoeur (cfr. supra nota 44). Inoltre si veda anche il lavoro di D. Venturelli, Interpretazioni kantiane del peccato d’origine, in N. Pirillo (a cura di), op. cit., pp. 343-366. 60 Ricordiamo di sfuggita che il principio dell’accordo è già anticipato in Rel. B XXIII; VI 13 [13 s.], dove Kant dichiara di provare a isolare da una qualsiasi rivelazione storica il “sistema razionale puro della religione”. Ora “se questo tentativo riesce, si potrà affermare che vi è non solamente compatibilità [Verträglichkeit], ma pieno accordo [Einigkeit] fra la ragione e la Scrittura, di modo che colui il quale segua l’una (sotto la direzione dei concetti morali) non potrà mancare di incontrarsi con l’altra”.

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mo [ob das auch der Sinn des Schriftstellers sei oder wir ihn nur hineinlegen]” (Rel. B 47 n.; VI 43 n. [46 n.])61. Leggendo il testo sacro non dobbiamo quindi limitarci a seguire la trama delle narrazioni storiche secondo il loro senso letterale o grammaticale, ma dobbiamo noi stessi “introdurre [hineinlegen]” un senso ulteriore o traslato di tipo spirituale62. In questo modo viene confermato il ricorso allo schema dell’introduzione, della proiezione e costruzione del senso, che porta l’interprete a comprendere meglio il significato del testo rispetto al senso letterale meramente empirico. Inoltre nello stesso passo viene anche precisato che il senso, che noi introduciamo nel testo, è quel senso dal quale “noi possiamo ricavare qualche vantaggio per il nostro miglioramento”, mentre rimanendo fermi al senso letterale otterremmo “solo un aumento infecondo della nostra conoscenza storica”. Di conseguenza, in una importante nota, che costituisce il punto di partenza della sua trattazione ermeneutica, Kant conclude: la conoscenza storica, che non ha con questo miglioramento un rapporto intimo, valevole per ogni uomo, appartiene agli adiaphora, di fronte ai quali ciascuno può comportarsi come meglio gli sembra per la propria edificazione (Rel. B 47 n.; VI 43 s. [46 n.]).

Con l’intento di arginare gli eccessi di erudizione del metodo storico-critico, la “conoscenza storica” delle narrazioni, ovvero il contenuto letterale del messaggio tramandato dal testo scritto, sembra essere per Kant di per se stesso indifferente ai fini dell’individuazione del suo senso principale. Il testo in sé stesso ha un valore soggettivo o personale; ad esso viene conferito valore oggettivo 61 Sulla base di questa conclusione H. d’Aviau de Ternay, op. cit., pp. 217 ss., ha considerato la concezione del male radicale “un esempio di interpretazione morale” del peccato d’origine e ha mostrato come Kant metta in atto una “traduzione filosofica” di Gen 2, 16-17; 3, 6, che tiene effettivamente conto della narrazione biblica. 62 Coerentemente con questa impostazione, Kant rifiuta la “sentenza dogmatica” che, per sostenere l’autorevolezza dell’interpretazione, dice “sta scritto qui [da steht’s geschrieben]” (Rel. B 153; VI 107 [115]). In questa affermazione si può intravedere una critica alla rigida esegesi dei teologi luterani ortodossi e alla loro strenua difesa della lettera.

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(universale) solo nella misura in cui viene applicato alla situazione concreta dell’interprete e in questo modo in esso viene introdotto (o riflesso) un significato morale63. Sulla base di queste considerazioni, che riprendono in una forma più precisa le idee già abbozzate nelle lettere ad Hamann e a Lavater precedentemente esaminate, secondo Kant la Scrittura ha una duplice stratificazione: contiene ad un primo livello informazioni storiche della rivelazione, “statuti” e regole che sono alla base della fede rivelata o della religione cultuale; ad un secondo livello essa contiene “la più pura dottrina morale della religione, che può essere posta nella migliore armonia [in die beste Harmonie] con tali statuti” (Rel. B 153; VI 107 [115]). Questi ultimi devono però essere considerati come mezzi o “veicoli” utili all’introduzione della stessa dottrina morale che costituisce la sostanza della religione razionale64. Proprio questa distinzione di due livelli – notizie storiche da un lato e senso metastorico dall’altro, corrispondente alla differenza tra rivelazione e ragione, tra religione cultuale (o Kirchen63 Questa impostazione ha portato molti interpreti a discutere il ruolo che la teoria kantiana della religione assegna all’elemento storico. Già E. Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilosophie, in “Kant-Studien”, 9 (1904), pp. 21-154 [L’elemento storico nella filosofia della religione di Kant, in Id., Religione, Storia, Metafisica, tr. it. di S. Sorrentino, Libreria Dante & Descartes, Napoli 1997, pp. 177345], aveva parlato di “compromesso” tra il piano trascendentale e quello storico. Si tratta di un problema che riguarda più in generale il rapporto tra religione e rivelazione e che si riflette anche in campo ermeneutico. A questo proposito D. Venturelli, Un contributo allo studio della “Religione nei limiti della sola ragione”, cit., p. 131, ha opportunamente osservato: “non è intento di Kant screditare la storia in nome della ragione, né egli vuole ridurre la Scrittura alla filosofia, quasi che la prima fosse un sistema di pura morale. Ma egli intende mostrare che la ragione morale opera nella rivelazione biblica; anzi essa è il germe nascosto ed il nucleo dinamico della religione in genere, quindi anche di quella rivelata e solo per questo le verità rivelate e le verità di ragione possono accordarsi”. 64 Sulla Bibbia come “veicolo” cfr. anche SF A 63; VII 44 [107]. Nel linguaggio della farmacologia settecentesca il termine Vehikel (che Kant spesso usa insieme a Hülle, “involucro”, “rivestimento”), indica l’eccipiente che contiene il farmaco e ne rende possibile la trasmissione o la somministrazione efficace. Si veda a questo proposito la voce Vehikel in H. Schulz, O. Basler, Deutsches Fremdwörterbuch, de Gruyter, Berlin 1983, Bd. 6, pp. 143-147, che riporta numerosi esempi tratti dalla letteratura scientifica dell’epoca.

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glaube) e religione razionale (o Vernunftglaube) – permette a Kant di proporre una propria soluzione del problema dell’interpretazione della Scrittura nel paragrafo VI del Capitolo III della Religion (Rel. B 157-166; VI 109-114 [118-124]), dedicato esplicitamente a questo argomento.

7. Il “principio supremo” dell’interpretazione scritturale In questo paragrafo Kant inizia la sua trattazione ponendo un interrogativo preliminare, che richiama una massima ermeneutica del biblista Michaelis65. Questi aveva spiegato in senso letterale il ricorso alla vendetta presente nel Salmo 59 e aveva giustificato questa interpretazione sulla base della dottrina dell’ispirazione divina, concludendo che la Bibbia deve essere la base della morale. Tenendo presente l’interpretazione dell’illustre teologo, Kant si chiede “se bisogna interpretare la morale secondo la Bibbia o non piuttosto spiegare la Bibbia secondo la morale” (Rel. B 159 n.; VI 110 n. [119 n.]. Fornendo una risposta a questo interrogativo principale, Kant delinea la propria prospettiva ermeneutica situandola nel contesto più generale dell’accordo tra fede storica e fede filosofica, che costituisce l’obiettivo principale della sua ricerca in ambito religioso. Infatti, l’interpretazione della Scrittura deve avere di mira una “chiarificazione coerente [durchgängige Deutung]” del testo, che metta in luce quel senso che “concorda [zusammenstimmt] con le 65

Kant non cita qui un’opera esegetica ma un testo filosofico: J.D. Michaelis, Moral, hrsg. und mit der Geschichte der christlichen Sittenlehre begleitet von C.Fr. Stäudlin, 2 Tle., Göttingen 1792. La discussione verte su Sal 59, 11-16: “La grazia del mio Dio mi viene in aiuto, Dio mi farà sfidare i miei nemici […]”. In queste espressioni letterali Kant vede una “preghiera di vendetta che giunge fino all’orrore”, in contrasto con l’insegnamento evangelico che comanda l’amore nei confronti dei nemici. Michaelis invece aveva spiegato la plausibilità della vendetta con la teoria dell’ispirazione, sostenendo che il comportamento morale del credente doveva conformarsi alla lettera del testo. Il richiamo alla stessa opera di Michaelis si trova anche in Rel. B XXIV; VI 13 [14], e in SF A XVII; VII 8 [61], a dimostrazione del dialogo a distanza delle tesi ermeneutiche kantiane con la teologia biblica del suo tempo.

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regole pratiche universali della religione universale pura” (Rel. B 158; VI 110 [118]), vale a dire quel senso che si accorda con la religione razionale e che l’interprete introduce nel testo secondo lo schema del comprendere meglio. Sulla base di queste premesse la domanda preliminare risulta meramente retorica e la risposta è quindi scontata: non è la morale che deve essere interpretata secondo la Bibbia, ma è invece la Bibbia che deve essere interpretata secondo la morale. L’“interprete supremo [höchster Ausleger]” della Scrittura è costituito dunque dalla “fede religiosa pura”, dalla moralità quale contenuto della religione razionale; questo principio normativo generale, che guida l’ermeneutica kantiana, è dunque di carattere filosofico o etico-religioso e ad esso deve venir subordinata ogni considerazione di tipo letterale o specialistico. A questo proposito Kant è chiarissimo: Per quanto questa interpretazione riferita al testo (della rivelazione) possa spesso sembrarci forzata [gezwungen] e spesso esserlo anche realmente; se è soltanto possibile che questo testo l’ammetta, bisogna preferire questa interpretazione ad un’interpretazione letterale, che o non contiene assolutamente nulla in sé a prova della moralità, o va addirittura contro i suoi moventi (Rel. B 158; VI 110 [118 s.]).

Per giustificare la radicalità di questa affermazione Kant si richiama all’interpretazione allegorica (o “simbolica”) dei poeti e dei miti religiosi presso Greci e Romani e alla tradizione esegetica dell’Ebraismo e del Cristianesimo, in cui sono presenti “interpretazioni in parte molto forzate [zum Theil sehr gezwungenen Deutungen], ma […] in vista di fini indubbiamente buoni e necessari per tutti gli uomini” (Rel. B 160; VI 111 [120])66. Quindi “non si può accusare di slealtà questo genere di interpretazione”, perché essa “ammette solo la possibilità” di comprendere in senso morale gli autori dei libri sacri, attribuendo loro un senso che arriva ad intendere 66

Con una metodologia molto simile ad una sorta di embrionale storia comparata delle religioni, Kant aggiunge che anche “i Maomettani sanno attribuire molto bene […] un senso spirituale alla descrizione del loro Paradiso” (Rel. B 160; VI 111 [120]).

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meglio le loro intenzioni proprio perché non si ferma alla lettera (Rel. B 161; VI 111 [120]). Kant fornisce un’applicazione di questo principio ermeneutico proponendo una propria spiegazione del Salmo 59; essa “traduce” le parole del versetto veterotestamentario nel linguaggio morale, sostenendo che nell’imprecazione di vendetta rivolta ai nemici non si deve intendere “i nemici in carne ed ossa ma sotto il loro simbolo [unter dem Symbol], si deve intendere nemici invisibili molto più nocivi per noi, cioè le cattive inclinazioni, che bisogna desiderare di mettere completamente sotto i piedi” (Rel. B 159; VI 110 [119]). Questo riferimento al “simbolo” permette di evidenziare quanto l’accentuazione morale dell’ermeneutica scritturale kantiana non sia affatto generica né tanto meno ingenua. Si tratta di un tipo di interpretazione già nota dai tempi dell’esegesi patristica; essa tende consapevolmente a decifrare “rappresentazioni simboliche” e mira a “porre sotto […] un senso mistico [einen mystischen Sinn unterzulegen]” (Rel. B 160; VI 111 [120])67. Tuttavia, a differenza della tradizione allegorica dei padri alessandrini, il senso figurato (simbolico o mistico) non è un contenuto misterioso che solo alcuni possono comprendere e rivelare; per l’illuminista Kant il senso metaempirico o pneumatico è il senso razionale, universale e pubblico, accessibile a tutti gli uomini dotati del lume della ragione e non privilegio di alcuni eletti o di caste68. Questo senso si manifesta 67 Un riferimento analogo si trova in Rel. B 202-205; VI 134-136 [148-150], in cui Kant cita il libro dell’Apocalisse ed interpreta la narrazione della fine della storia come “rappresentazione simbolica [symbolische Vorstellung]” della meta finale del processo di perfezionamento morale. Sulla lettura del libro dell’Apocalisse si veda anche I. Kant, Das Ende aller Dinge, in “Berlinische Monatsschrift”, giugno 1794, A 509-517; VIII 325-339 [La fine di tutte le cose, in SFR 219-228]. Sulle problematiche connesse al tema del millenarismo, rimandiamo al recente studio di G. Cunico, Il millennio del filosofo: chiliasmo e teleologia morale in Kant, Edizioni ETS, Pisa 2001, pp. 25-148. 68 Tuttavia, occorre notare di sfuggita che il riferimento kantiano al “senso simbolico” (o al “senso allegorico”, già incontrato a proposito della lettura del libro di Giobbe) non è esente da numerose ambiguità, che qui non possiamo discutere. Esse presteranno il fianco alle critiche dei teologi biblici subito dopo la pubblicazione della Religion, come è stato ampiamente documentato da G. D’Alessandro, L’inter-

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attraverso la voce della coscienza a chiunque legga i testi biblici riconducendo i contenuti narrativi “alle regole ed ai moventi della fede morale pura”; esso inoltre costituisce il criterio discriminante che permette di accantonare (o addirittura di eliminare) quei racconti che non “ammettono” questa interpretazione69 e di distinguere il contenuto dell’Antico Testamento da quello del Nuovo70. La moralità è dunque un medio spirituale che collega il testo all’interprete e che sollecita quest’ultimo a leggerlo entrando in un circolo che si dimostra virtuoso sia in senso etico sia in senso ermeneutico. Per difendere questa concezione dell’ermeneutica scritturale secondo lo spirito della moralità, Kant cita un versetto dell’apostolo Paolo da cui posiamo intravedere una presa di posizione nei confronti della classica dottrina dell’ispirazione divina71. Nella razionapretazione kantiana dei testi biblici e i suoi critici, in “Studi kantiani”, 8 (1995), pp. 57-85; Id., Allegoria e verità nello “Streit” sull’interpretazione kantiana delle Sacre Scritture, in N. Pirillo (a cura di), op. cit., pp. 543-561. 69 Secondo Kant tra i molti testi biblici che non si accordano con l’interpretazione razionale vi sono tutti quelli che parlano di miracoli. Un testo particolarmente eclatante, che contrasta col senso razionale, è la narrazione del sacrificio di Isacco (Gen 22), alla quale si accenna in Rel. B 120; VI 87 [94 s.]; B 290; 187 [208]; SF A 103; VI 63 [133]. Sulla base di questo esempio alcuni studiosi hanno visto nella lettura morale un utilizzo improprio dei versetti biblici. Tra questi ricordiamo in particolare J.-L. Bruch, op. cit., pp. 179 ss., che non esita a parlare di “interprétation tendencieuse”. Anche D. Thouard, art. cit., p. 645, considera con molte riserve l’ermeneutica morale kantiana, che sarebbe inficiata da un giudizio preventivo di tipo filosofico e metterebbe in atto un vero e proprio “utilizzo” del testo biblico. 70 La distinzione tra Antico e Nuovo Testamento è un punto fermo dell’ermeneutica biblica kantiana, che tende a privilegiare il secondo rispetto al primo, proponendo una lettura fortemente selettiva dell’intero canone. Kant intravede una sostanziale concordanza tra i principali precetti evangelici e la sua dottrina morale (cfr. Rel. B 236; VI 157 [172]), mentre considera l’Antico Testamento come la “legge mosaica”, come un insieme di leggi statutarie, che riguardano la costituzione teocratica di uno Stato temporale e mondano. L’atteggiamento kantiano nei confronti dell’Antico Testamento si collega al suo giudizio fortemente critico verso l’ebraismo (cfr. Rel. B 186-191; VI 125-128 [137-141]; SF A 79-81; VII 52 s. [118 s.]). Non potendo in questa sede affrontare questo spinoso argomento, ci limitiamo a rimandare allo studio di S. Zac, Kant et le problème du judaisme, in “Les Nouveaux Cahiers”, 1977, n. 49, pp. 32-50. 71 In Rel. B 161; VI 112 [121], Kant cita 2 Tim, 3, 16, in cui si afferma che “tutta la Scrittura, infatti, è ispirata da Dio e è utile per insegnare, istruire, correg-

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lizzazione (o universalizzazione) kantiana l’ispirazione divina non sembra essere limitata esclusivamente all’estensore del testo (al profeta o all’apostolo); essa sembra “ispirare” anche il cuore di ogni interprete che ascolta la voce del comandamento morale. A questo proposito è interessante notare come non sia affatto casuale l’accostamento alla citazione paolina di due versetti tratti dal Vangelo giovanneo, in cui si parla dello “Spirito di Dio” che istruisce gli uomini nella corretta interpretazione del testo e anima la morta lettera72. Da queste citazioni risulta evidente che il “criterio supremo” dell’interpretazione scritturale è costituito dallo spirito, identificato con la pura legislazione morale iscritta nel cuore di tutti gli uomini, condizione indispensabile di ogni autentica religione oltre che di ogni interpretazione “ispirata”. La lettura e l’interpretazione dei libri biblici, che ogni uomo dotato di ragione può mettere in atto in qualità di semplice Ausleger, è in primo luogo pratica e solo in un secondo momento può avere una finalità conoscitiva specialistica. Ecco le parole con cui Kant sottolinea ancora una volta questo pensiero fondamentale della sua riflessione ermeneutica, che si ricollega più in generale alla rivendicazione della libertà religiosa: La lettura di questi libri sacri, o la riflessione sul loro contenuto, hangere e conformare alla giustizia”. Nell’uso di questo versetto è racchiusa la revisione kantiana della classica dottrina dell’ispirazione. Secondo O. Kaiser, Kants Anweisung zur Auslegung der Bibel. Ein Beitrag zur Geschichte der Hermeneutik, in “Neue Zeitschrift für systematische Theologie und Religionsphilosophie”, 11 (1969), pp. 125138, Kant avrebbe rifiutato questa dottrina, mentre a nostro avviso ci sembra più corretto parlare di una sua revisione o ampliamento in senso universalistico, che coinvolge anche l’interprete. 72 Kant cita Gv 5, 39: “voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene sono proprio esse che mi rendono testimonianza”; Gv 16, 13, in cui si parla dello “Spirito di verità” quale guida ispiratrice. Si tratta di due versetti dai quali emerge che la vita eterna non è racchiusa nella Scrittura in quanto tale, ma nel suo principio ispiratore che vive attraverso la testimonianza e l’impegno del singolo. Un richiamo analogo a 2 Tim, 3, 16 e a Gv 5, 39 era già stato fatto da Lessing nei suoi Axiomata (1778), in difesa dell’interpretazione spirituale della Scrittura contro il pastore luterano ortodosso Goeze: G.E. Lessing, Religione e libertà, a cura di G. Ghia, Morcelliana, Brescia 2000, p. 132.

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no l’intento finale di rendere gli uomini migliori, mentre la parte storica [das Historische], che non serve per nulla a questo fine, è in sé qualche cosa di pienamente indifferente, che si può trattare come si vuole (la fede storica è “morta in sé stessa”; cioè, in sé, considerata come professione di fede, non contiene nulla e non porta ad alcuna cosa che abbia per noi un valore morale) (Rel. B 161; VI 111 [120 s.])73.

Per caratterizzare la sua specificità, in questo denso paragrafo Kant distingue nettamente l’interpretazione morale da altri due approcci al testo biblico, di cui traccia condizioni e limiti: in primo luogo l’interpretazione condotta dagli esegeti teologi o “dottori biblici” (che vengono chiamati Schriftgelehrten perché depositati di una “scienza della Scrittura” detta Schriftgelehrsamkeit); in secondo luogo l’interpretazione condotta sulla base del sentimento. Nel primo caso, riprendendo in forma di tesi un pensiero già ampiamente esposto, Kant stabilisce una netta distinzione tra ogni uomo che interpreta la Scrittura (il semplice Ausleger) e il dottore biblico, subordinando il lavoro specialistico di quest’ultimo alla lettura in chiave morale fornita dal primo. Nei confronti delle metodologie delle scuole esegetiche dell’epoca Kant ribadisce le riserve già espresse nel dibattito con Hamann e sostiene che le interpretazioni fornite dai biblisti riguardano principalmente gli elementi storici del testo, la conoscenza delle lingue dell’originale, dei costumi e delle opinioni dominanti dell’epoca alle quali si riferiscono le narrazioni. Nel caso della lettura del Nuovo Testamento in particolare queste conoscenze sono necessarie in quanto “né l’arte umana, né la saggezza umana possono salire fino al cielo per verificarvi le credenziali attestanti la missione del primo maestro”; è quindi auspicabile che “per apprezzare tale missione secondo la sua credibilità storica” 73

Anche in questo caso, come aveva già fatto in precedenza con il richiamo a Paolo e a Giovanni, Kant argomenta la propria tesi appoggiandola ad un preciso riferimento scritturale: la “fede morta in se stessa” è una citazione da Gc, 2, 17. Il lettore italiano può trovare un elenco completo di tutti i versetti biblici citati nella Religion (esplicitamente o implicitamente) in appendice al volume di I. Mancini, Kant e la teologia, Cittadella, Assisi 1975, pp. 238-240. Sulla personale lettura della Bibbia da parte di Kant cfr. Refl. 8112, XIX 651-654 e le annotazioni riportate da H. Borkowski, Die Bibel Immanuel Kants, Gräfe und Unzer Verlag, Königsberg 1937.

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possa essere utile venire a conoscenza dei modi in cui tale credenza fu introdotta sulla base di “informazioni umane” ricercate “in tempi molto antichi ed in lingue attualmente morte” (Rel. B 162 s.; VI 112 [121 s.]). Certamente queste conoscenze possono essere di aiuto anche per rafforzare la fede morale, in quanto forniscono una “conferma storica” di essa. Tuttavia, precisa Kant, questa conferma serve piuttosto a “mantenere nel suo prestigio la chiesa fondata sulla Scrittura, ma non una religione (perché la religione, per essere universale, deve fondarsi sempre sulla sola ragione)” (Rel. B 163; VI 112 [122]). Insomma il lavoro del teologo biblico, con tutte le sue conoscenze scientifiche erudite, è per Kant finalizzato a sostenere l’autorità della Bibbia come parola di Dio, a cementare una “fede ecclesiastica” basata su una rivelazione divina, dal momento che una dottrina fondata sulla semplice ragione non sembra al popolo (ancora) del tutto accettabile. Proprio svolgendo questa sua funzione il teologo biblico fornisce spesso una interpretazione di tipo “dottrinale” che può aprire la porta al dogmatismo, anche se tanto la religione razionale quanto la scienza scritturale “non possono essere dal braccio secolare in nessun modo impedite nell’uso pubblico delle loro vedute e delle loro scoperte in questo campo, né essere legate a certi dogmi di fede” (Rel. B 164; VI 113 [122]). Dopo aver distinto la propria interpretazione morale dai metodi della “scienza della Scrittura”, Kant prende nettamente le distanze anche da quel tipo di interpretazione che, per riconoscere il suo “vero senso” e “la sua origine divina”, non si basa né sulla ragione né sull’erudizione ma esclusivamente sul sentimento (Rel. B 164; VI 113 [123]). Prendendo indirettamente posizione nei confronti dell’interpretazione pietistica del testo biblico, che faceva leva sugli affetti e sul sentimento74, Kant sostiene che quest’ultimo non è ori74 Nella prima metà del Settecento il pietismo (con Francke e Rambach) aveva accentuato il ruolo del sentimento dell’amore nell’interpretazione del Nuovo Testamento e aveva elaborato una vera e propria “teoria degli affetti” (pathologia sacra) quale strumento necessario per stimolare la fede vivente a contatto col testo. Cfr. R. Osculati, Vero Cristianesimo. Teologia e società moderna nel pietismo luterano, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 220 ss. Tuttavia, la presa di distanza kantiana non esclude

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ginario ma derivato: è un “effetto” del rispetto della legge ed è quindi di origine morale75. Se il sentimento diventa la fonte autonoma dell’interpretazione si produce una lettura soggettiva che finisce per “spalancare interamente ogni porta a tutti i fantasmi e togliere al ben chiaro sentimento morale la sua dignità, unendolo in parentela con tutti gli altri sentimenti fantastici” (Rel. B 165; VI 114 [123]). Con questa precisazione Kant non riconosce soltanto il pericolo che la fede storica possa degenerare nel fanatismo religioso o nell’intolleranza; egli riconosce anche la possibilità che essa possa diventare esclusivo appannaggio dei teologi confessionali, imboccando una direzione che la allontanerebbe dalla religione razionale universale riducendola a superstizione. Si tratta di un rischio che costituisce una delle principali preoccupazioni dell’ermeneutica biblica kantiana, che sarà energicamente combattuto nello Streit. Nei confronti di questo rischio il denso paragrafo che abbiamo esaminato contrappone ad ogni vincolo “dottrinale” o ad ogni preoccupazione confessionale e dogmatica il “principio supremo” dell’interpretazione “autentica”. Questo principio si basa esclusivamente sul lume della ragione; esso viene attinto in piena libertà di coscienza dal singolo e può essere riassunto con le seguenti parole: Non vi è dunque alcuna regola della fede di chiesa oltre la Scrittura e non vi è alcun altro suo interprete fuori della religione razionale [Vernunftreligion] e della erudizione scritturale [Schriftgelehrsamkeit] (che riguarda l’elemento storico della Scrittura); il primo di questi interpreti è il solo autentico e valevole per tutto il mondo, il secondo è solo dottrinale e serve per convertire la fede di chiesa, valevole per un certo popolo ed un certo tempo, in un sistema determinato che si che si possano trovare alcuni punti di contatto tra la sua interpretazione scritturale e quella pietistica, che utilizzava il testo come “reattore” ed accentuava proprio il momento dell’applicatio ad vitam. Del resto, J. Bohatec, op. cit., pp. 21 ss., ha ampiamente documentato come il pietismo abbia costituito una delle fonti ispiratrici del pensiero religioso kantiano. 75 Kant riprende qui la dottrina del “rispetto” quale unico sentimento non patologico a priori, “effetto” della legge morale, che aveva esposto in KpV A 130 ss.; V 74 ss. [91 ss.].

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conservi durevolmente (Rel. B 166; VI 114 [124]).

Da questo esame dettagliato del paragrafo in cui Kant ha esposto e difeso il “principio supremo” della sua ermeneutica risulta ora chiaro con quale approccio ogni lettore debba accostarsi al testo biblico: seguendo la voce della coscienza morale che parla in ogni uomo capace di disporsi al libero ascolto e di seguire il lume della ragione76. Si tratta di una guida interiore di carattere spirituale, che non ha nulla a che vedere con le regole tecniche dell’ars interpretandi. In questo modo l’ermeneutica kantiana si collega alla rivendicazione della libertà religiosa. Per la sua universalità infatti il “principio supremo” si presenta svincolato da ogni riferimento ad una determinata epoca della storia, ad una esclusiva rivelazione o ad un unico libro. Esso è la diretta conseguenza di quel “modo di pensare liberale [liberale Denkungsart]” 77 che rivendica “la necessità per ogni religione di una illimitata libertà di coscienza” 78, sia nelle pratiche cultuali sia nell’interpretazione dei libri canonici.

76

Come riassume sinteticamente D. Venturelli, Un contributo allo studio della “Religione nei limiti della sola ragione”, cit., p. 133: “Con quale principio interpretativo devo avvicinare la Scrittura per coglierne la significazione religiosa? Con quello che autentica l’interpretazione religiosa di ogni altro libro (per esempio di poeti e moralisti antichi e moderni), anzi di ogni umana parola. Solo seguendo la guida della coscienza morale e la luce della pura fede religiosa la verità, che è narrata e testimoniata nei Vangeli, viene riconosciuta, affermata, universalizzata e trascesa: perché l’essenziale non è per Kant questo fatto storico, ma appunto la verità che in esso si rivela. Questa però non è sotto ogni profilo intemporale, ma si manifesta e si dischiude sempre e solo storicamente, sempre e solo alla luce della rivelazione attuale”. 77 I. Kant, Das Ende aller Dinge, cit., A 519; VIII 338 [SFR 227]. 78 Con queste parole Kant si esprime nella lettera a Mendelssohn del 16 agosto 1783 (X 347 [Ep. 130]): “Ella ha esposto al tempo stesso la necessità per ogni religione di un’illimitata libertà di coscienza [eine unbeschränkte Gewissensfreyheit] con tanta profondità e chiarezza, che alla fine anche la nostra Chiesa sarà costretta a pensare come espungere dalla sua religione tutto ciò che può opprimere e conculcare la coscienza; e ciò, alla fine, non può non unire gli uomini riguardo ai punti essenziali della religione, perché tutti i precetti religiosi che opprimono la coscienza ci vengono dalla storia, allorché si fa della fede nella loro verità la condizione della salvezza”.

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8. I limiti dell’interpretazione “dotta” e il principio della libertà Nel trattato sulla religione l’esigenza di liberare l’ermeneutica scritturale dalla tutela dei vincoli confessionali o dogmatici, per porla al servizio della libertà religiosa e della religione razionale, porta Kant a ribadire le proprie tesi con numerose precisazioni e integrazioni che vale la pena di esaminare sinteticamente. Nella seconda parte del Capitolo III, in cui vengono trattate alcune forme empiriche di fede storica quali l’Ebraismo ed il Cristianesimo, Kant torna a riflettere sulla funzione del “libro sacro” per le religioni storiche. Premettendo che la fede razionale pura non ha bisogno di alcuna documentazione perché “si dimostra da sé stessa”, egli sostiene che la fede storica in quanto tale ha invece bisogno sia di scritti che tramandino senza interruzione le proprie testimonianze, sia “di un pubblico colto” che controlli tali scritti. Questi caratteri specifici della fede storica spiegano perché la Scrittura in epoche passate sia stata spesso oggetto di dispute violente, nelle quali “la terribile voce dell’ortodossia [die schreckliche Stimme der Rechtgläubigkeit] si espresse per mezzo di interpreti […], che pretendevano di essere i soli autorizzati, e divise il mondo cristiano in partiti esasperati per causa di opinioni di fede” (Rel. B 195; VI 130 [143]). Sulla base dell’esperienza di queste dispute, Kant propone due ulteriori “principi” ermeneutici improntati alla tolleranza e alla libertà religiosa, che dovrebbero regolare anche il rapporto con il testo biblico. Il primo principio è quello della “giusta moderazione [Grundsatz der billigen Bescheidenheit] nelle pretese intorno a tutto ciò che va sotto il nome di rivelazione” 79. Applicato alla Scrittura questo principio invita ad usare ulteriormente questo libro, dal momento che c’è, come base 79

G. D’Alessandro, op. cit., p. 126, osserva opportunamente che “nella formulazione della billige Bescheidenheit emerge un’eco della vecchia ‘equità ermeneutica’ (hermeneutische Billigkeit) di origine wolffiana, baumgarteniana e meierana”. Ci sembra un’ulteriore conferma della conoscenza da parte di Kant del dibattito settecentesco intorno al problema dell’interpretazione.

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[Grundlage] dell’insegnamento ecclesiastico e a non sminuirne il valore con attacchi inutili e animosi, senza tuttavia imporre perciò a nessun uomo la fede in questo libro, intendendolo come necessario [erforderlich] per la salvezza (Rel. B 198; VI 132 [145]).

La Scrittura rimane la “base” della fede storica positiva, ma per la religione razionale essa non è strettamente “necessaria”. Questo concetto viene sottolineato dal secondo principio, il quale afferma che “la storia sacra”, formata dalle narrazioni bibliche, deve essere “sempre insegnata e spiegata come aspirante al fine morale [auf das Moralische abzweckend] […] senza nessuna erudizione biblica [ohne alle Schriftgelehrsamkeit]” (Rel. B 199 s.; VI 132 [146]). Riprendendo un tema caro all’Illuminismo tedesco (in particolare a Lessing), Kant afferma che la lettura e l’interpretazione del testo biblico deve mettere in luce “la vera religione”, quella religione che “non consiste nel conoscere o professare ciò che Dio fa o ha fatto per la nostra santificazione, ma nel compiere quel che è necessario che noi facciamo per rendercene degni” (Rel. B 199; VI 133 [146]). Questo secondo principio sembra essere una formulazione più precisa del “principio supremo”, che aveva posto l’interpretazione biblica in accordo con la religione razionale80. Infatti, esso finalizza la lettura e l’interpretazione della “storia sacra” non tanto alla conoscenza dettagliata dei personaggi o dei fatti narrati, quanto al perfezionamento morale del lettore, al rafforzamento della sua buona intenzione. Ancora una volta viene privilegiata l’applicazione alla situazione dell’interprete (l’applicatio ad vitam), mentre la conoscenza specialistica del testo e del pensiero dell’autore risultano secondari. Anche nel Capitolo IV troviamo alcune osservazioni sul ruolo del testo biblico che completano il significato di questo secondo principio nella direzione dell’accordo tra ermeneutica biblica e religione razionale. Riprendendo la tesi della superiorità dell’interpre80 Sulla base di questa formulazione del secondo principio E. Katzer, Kants Prinzipien der Bibelauslegung, in “Kant-Studien”, 18 (1913), pp. 99-128 (spec. pp. 108 ss.), ha affermato che esso non è altro che una ripresa del principio generale dell’ermeneutica kantiana, secondo cui l’interpretazione della Scrittura deve servire al miglioramento dell’uomo.

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tazione morale del Nuovo Testamento su quella “dotta” o storicoerudita, Kant afferma che tale libro è “intrinsecamente intessuto di dottrine morali imparentate con la ragione”; proprio per questo motivo noi possiamo “usarlo come mezzo [Zwischenmittel] per illustrare la nostra idea di una religione rivelata in generale” e per mettere in luce quanto può esservi in una rivelazione “di religione razionale pura e perciò universale” (Rel. B 235; VI 156 [171])81. Qui emerge ancora più chiaramente come il ricorso alla Scrittura sia finalizzato al miglioramento pratico della vita dell’interprete, attraverso l’ascolto del comandamento morale che parla nella propria coscienza e che si trova riflesso nel testo stesso. Sempre in quest’ultimo Capitolo, nella sezione in cui vengono sviluppate alcune considerazioni intorno alla “religione cristiana come religione dotta [gelehrte Religion]” (Rel. B 247 ss.; VI 163 ss. [179 ss.]), Kant ritorna sul ruolo che gli insegnamenti basati su documenti scritti hanno per le religioni positive. Nel caso specifico del Cristianesimo si tratta di una religione “dotta” perché ricorre alle narrazioni fattuali che si appoggiano a testimonianze storiche. Tuttavia questa sua caratteristica la espone al rischio di basare la 81 Qui Kant, per spiegare concretamente cosa significa “usare la Bibbia come mezzo”, fa esplicitamente riferimento al Nuovo Testamento e scrive: “Noi prendiamo allora questo libro – come uno di quei tanti libri che trattano di religione e di virtù sotto l’accrescimento di una rivelazione – ad esempio di quel metodo in sé utile, che consiste nel mettere in evidenza quanto può esservi per noi di religione razionale pura e perciò universale. […] Questo libro può essere, nel nostro caso, il Nuovo Testamento, come la fonte della dottrina di fede cristiana” (Rel. B 235; VI 156 [171]). Kant applica i suoi principi ermeneutici (prevalentemente a Mt 5, 1112; 5, 16; 5, 20-48; 6, 16; 7, 13; 7, 21; 13, 31-32; 25, 29; 25, 35-40) e mostra come gli insegnamenti del maestro del Cristianesimo (a differenza delle narrazioni dell’Antico Testamento) contengano un contenuto non legalistico o statutario, ma esclusivamente morale. Da queste pagine traspare anche che l’interpretazione morale riduce la figura di Cristo a tipo ideale, a forma intelligibile o archetipo di uomo virtuoso. Tra la vasta bibliografia sull’argomento, rimandiamo al saggio di D. Venturelli, La cristologia filosofica di Kant, in Id., Etica e fede filosofica. Studi sulla filosofia di Kant, Morano, Napoli 1989, pp. 113-145. Circa il ruolo positivo che il Nuovo Testamento svolge per l’instaurazione della religione razionale Kant si esprime chiaramente anche nella lettera a Jung-Stilling del 1 marzo 1789 (XXIII 494 s. [Ep. 174]) e in quella a Jacobi del 30 agosto del 1789 (XI 75-77 [Ep. 214-218]).

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propria fede su precisi documenti o decreti di carattere empirico, trasformandola in fides statutaria (o fides imperata, detta anche servilis)82. Agli occhi dell’illuminista Kant sembra che l’interpretazione specialistica miri prevalentemente a conoscere il contenuto del testo al fine di enucleare dalle storie dei personaggi e dagli eventi narrati formulazioni dogmatiche fisse da tramandare e custodire nel tempo. Egli denuncia quindi un possibile legame tra l’interpretazione specialistica (praticata a quel tempo da gran parte dei professori di teologia seguaci del metodo storico-critico) ed il principio dogmatico dell’ortodossia. Proprio per limitare questo rischio egli presenta l’interpretazione filosofico-morale (o più genericamente razionale) come la naturale compagna della libertà religiosa83. Si tratta di una tesi provocatoria, che giocherà un ruolo di primo piano nel corso della disputa con i rappresentanti della Facoltà teologica. Essa viene sintetizzata in modo netto affermando che l’“erudizione [Gelehrsamkeit]” non deve essere messa al primo posto, legittimando l’esistenza di un piccolo numero di esperti (di chierici) ai quali si dovrebbero accodare “una lunga fila di ignoranti (i laici)” (Rel. B 250; VI 164 [181]). L’interpretazione “dotta” deve essere considerata come strumento culturale per rendere comprensibile la religione razionale e deve quindi essere ad essa subordinata. Di conseguenza la Scrittura, quale documento storico della rivelazione, deve essere “amata e coltivata quale mero, sebbene infinitamente pregevole mezzo [Mittel] per rendere la religione intelligibile anche agli ignoranti, per darle diffusione e continuità” (Rel. B 250; VI 165 [181]). 82

Si tratta di un argomento già anticipato in Rel. B 167 ss.; VI 115 s. [124 s.], dove Kant disegna un “passaggio graduale” dalla fede di chiesa alla fede religiosa pura. In questo contesto egli arriva ad affermare che la fede in “una religione di culto è una fede da schiavi e da mercenari (fides mercenaria, servilis), ed essa non può essere considerata come santificante, perché non è affatto morale”. A questa fede inautentica Kant contrappone la fede religiosa pura, che consiste nella religione della buona condotta. 83 Questa idea è presente anche nella lettera a Fichte del 2 febbraio 1792 (XI 322 [Ep. 280]), in cui Kant opera una netta “distinzione tra una fede dogmatica, elevata al di sopra di ogni dubbio, ed una fede meramente morale, costituente nell’accettazione libera, ma poggiante su fondamenti morali”.

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Da queste ultime affermazioni emerge come l’atteggiamento di Kant nei confronti della Scrittura (in modo particolare verso il Nuovo Testamento) sia molto più articolato di quanto potrebbe sembrare dalla riduzione di molte narrazioni storiche a parti accessorie (ad adiaphora). Occorre infatti tener sempre presente la duplice composizione del testo biblico, che non contiene solo narrazioni di fatti, statuti o decreti, ma anche la dottrina della pura religione morale. Proprio per questo la Bibbia ha avuto un’importanza decisiva nell’educazione religiosa del genere umano, in quanto ha introdotto per la prima volta nella forma delle rappresentazioni simboliche la pura dottrina morale nella storia, anche se con il crescente perfezionamento dell’umanità il “mezzo” diverrà alla fine superfluo84. In conclusione, anche in queste pagine finali del suo trattato sulla religione Kant sostiene la validità del “principio supremo” dell’ermeneutica scritturale: solo il lume della ragione è il sovrano interprete della Scrittura e non una ristretta cerchia di “interpreti autorizzati” da una Chiesa; questi ultimi sono dei semplici funzionari i quali, “dopo aver privato la religione razionale pura della dignità che le spetta […] e dopo aver imposto l’uso della sola scienza scritturale a sostegno della credenza ecclesiastica” (Rel. B 251; VI 165 [182]), finirebbero per imporre una determinata interpretazione funzionale alla fede statutaria, dando luogo ad un dominio sui credenti orientato in senso apologetico, dogmatico o particolaristico85. Kant conclude subordinando all’erudizione la libertà di co84

Cfr. anche I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Nicolovius, Königsberg 1798, 18002, B 108; VII 192 [Antropologia dal punto di vista pragmatico, in I. Kant, Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1970, p. 612 s.]. Sul ruolo positivo della Bibbia, qui appena accennato, D. Venturelli, Un contributo allo studio della “Religione nei limiti della sola ragione”, cit., p. 135 s., ha giustamente osservato che secondo Kant la Scrittura manifesta “anticipatamente, nella forma del mito e della parabola, quella stessa verità etico-soterica che la religione umana poteva e doveva scoprire anche da sé. [Il suo compito] è stato quello di scoprire e di anticipare col suo discorso una verità che era latente nella ragione umana, portandola per la prima volta alla luce, esprimendola nella forma della rappresentazione simbolica, facilitandone per le generazioni future il pieno riconoscimento”. 85 “Essi mutano così il servizio della chiesa (ministerium) in un dominio sui cre-

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scienza: “il lume interiore [inneres Licht] cui ogni laico può appellarsi” (Rel. B 255; VI 167 [184]). Per ora non è ancora del tutto chiaro se si tratti di una semplice distinzione gerarchica di due livelli di approccio al testo biblico destinati ad integrarsi, oppure di una vera e propria contrapposizione tra due metodi che hanno obbiettivi differenti. Sarà lo scritto del 1798 a tentare una composizione del “conflitto” che coinvolge nell’interpretazione scritturale teologi e filosofi, insieme al ruolo delle rispettive Facoltà universitarie.

9. Approfondimenti successivi ed integrazioni Subito dopo la pubblicazione della prima edizione del trattato sulla religione molti teologi (tra i quali Eichhorn, il principale rappresentante del metodo storico-critico) presero posizione nei confronti della superiorità dell’interpretazione razionale su quella specialistica e contro il primato dello spirito sulla lettera86. Sorse una denti della chiesa (imperium), benché per mascherare questa usurpazione, si servano del modesto titolo di servi. Ma questa denominazione, che alla ragione sarebbe stata facile, costa loro cara, in quanto che si mantengono al loro posto con un dispendio di grande erudizione” (Rel. B 251; VI 165 [182]). In questi passi, particolarmente critici, risulta evidente lo stretto legame tra esegesi specialistica e dogmatica ecclesiale, che Kant vedeva operante nelle confessioni cristiane del suo tempo. Come ha notato G. Vincent, Kant et l’Écriture, in “Revue d’histoire et de philosophie religieuses”, 55 (1975), pp. 55-70, si tratta di una tesi sorprendente se si tiene conto che a partire da Spinoza la critica biblica ha contribuito a ridurre le pretese della dogmatica e dell’ortodossia. Probabilmente agli occhi di Kant un lavoro esegetico completamente autonomo correrebbe il rischio di essere sottratto ad ogni controllo razionale, aprendo le porte a possibili interpretazioni del testo biblico in senso fanatico o superstizioso. 86 In una lettera dell’8 marzo 1794 il teologo protestante Chr.F. Ammon informava Kant da Erlangen che “Eichhorn, Gabler e Rosenmüller hanno preso una energica posizione contro questa interpretazione morale della Scrittura. Essi affermano che questo senso morale non sarebbe altro che il senso allegorico dei Padri della Chiesa, in particolare di Origene, da tempo deriso; che in questo modo l’esegesi perderebbe ogni sicurezza dogmatica […] e che questa interpretazione condurrà ad una nuova barbarie” (XI 474). Nello Streit Kant si difende da queste accuse: cfr. SF A 63 ss.; VII 45 [108]. Le diverse fasi del dibattito, iniziato nel 1793 con le critiche di Eichhorn che accusa Kant di riportare in auge il metodo allegorico proprio

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serrata disputa, che rappresenta un singolare capitolo della feconda ricezione dell’opera kantiana e che costituisce al tempo stesso il retroterra delle principali tematiche dello scritto Der Streit der Fakultäten, pubblicato nel 179887. In esso trovano conferma le principali idee kantiane intorno al problema ermeneutico e vengono riprese con maggior chiarezza e sistematicità alcune delle tesi esposte nel trattato sulla religione. Nello Streit, con l’intento di definire la “peculiarità” della Facoltà teologica superiore, Kant delimita innanzitutto il compito del teologo biblico e il suo preciso ambito di influenza. A suo avviso egli può parlare di Dio sulla base di quanto viene detto nella Bibbia; tuttavia quando espone la Scrittura al popolo non deve dilungarsi in analisi specialistiche, “perché il popolo non ha la benché minima cognizione di argomenti che costituiscono materia di conoscenza storica, e sarebbe per essi coinvolto solo in ogni sorta di dubbi e di temerarie sofisticherie” (SF A 16; VII 23 [77]). Inoltre non può essere di sua competenza “nemmeno attribuire [unterlegen] ai passi della Scrittura un significato che non coincida esattamente con la lettera, per esempio un senso morale” (SF A 17; VII 24 [77])88. della tradizione cattolica, sono ricostruite in modo documentato e preciso da G. D’Alessandro, Kant e l’ermeneutica, cit., pp. 133 ss. Per la difesa dei principi ermeneutici da parte dei kantiani Tieftrunk, Kiesewetter e altri, rimane ancora utile il lavoro di M. Casula, L’Illuminismo critico. Contributo allo studio dell’influsso del criticismo kantiano sul pensiero morale e religioso in Germania tra il 1783 e il 1810, Marzorati, Milano 1967, pp. 247 ss. 87 Per un approfondimento di questo scritto andrebbero esaminati anche i materiali preparatori raccolti in XXIII 421-464. La genesi dell’opra è ricostruita nel libro di G. Landolfi Petrone, L’ancella della ragione. Le origini dello “Streit der Fakultäten” di Kant, La Città del Sole, Napoli 1997, pp. 157 ss. 88 Kant arriva ad affermare che “se il teologo biblico, riguardo a una qualunque di queste tesi, mette in mezzo la ragione […] egli salta (come il fratello di Romolo) oltre il fosso della fede ecclesiastica […] e si perde nell’aperto, libero campo della filosofia e del giudizio personale, dove, sfuggito al governo della chiesa, è esposto a tutti i pericoli dell’anarchia” (SF A 18; VII 24 [77]). Sul ruolo del teologo biblico Kant si era già espresso in Rel. B XV ss.; VI 9 ss. [9]. Nella lettera a Stäudlin del 4 maggio 1793, Kant osserva che il teologo biblico “non può contrapporre proprio nient’altro alla ragione se non di nuovo la ragione o la forza. E se non vuole che gli

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In conclusione, la delimitazione kantiana definisce il teologo come “propriamente il dottore della Scrittura [Schriftgelehrter] della fede ecclesiastica” fondata su statuti (SF A 44; VII 36 [95]). Nell’esercizio delle sue funzioni il teologo biblico dice: “cercate nella Scrittura dove voi pensate di trovare la vita eterna. Ma poiché la condizione della vita eterna è soltanto il miglioramento morale dell’uomo, nessuno può scoprirla in qualche scritto, a meno di introdurvela [als wenn er sie hineinlegt]” (SF A 46; VII 37 [96]). Infatti, come già sappiamo, il testo biblico consta di due parti eterogenee, “di cui l’una costituisce il canone, l’altra l’organo o veicolo della religione” (SF A 45; VII 36 s. [96])89. Sulla base di questa costitutiva eterogeneità, Kant lascia al teologo piena competenza per quanto concerne la lettera, ma assegna al filosofo (come ad ogni essere razionale) il compito di “attribuire” al testo un significato traslato che egli stesso vi introduce. L’eterogeneità del testo biblico richiede una chiara distinzione di due livelli di senso: quello storico o empirico, che come tale è particolare e contingente, e quello morale che invece è universale. Il lavoro ermeneutico deve innanzitutto distinguere questi due livelli, deve “secernere dal discorso storico i fondamenti razionali della legislazione [die Vernunftgründe der Gesetzgebung aus dem historischen Vorträge herauszusuchen]” (SF A 36; VII 33 [90])90. Per quanto riguarda l’interpretazione dei fatti è necessaria la conosi rimproveri di essersi reso colpevole dell’uso della forza, […], deve privare di forza quegli argomenti razionali […] ricorrendo ad altri argomenti razionali, e non colpendoli con i fulmini della scomunica che fa cadere su di essi dalle nuvole dell’aria di corte” (XI 429). A Carl Friedrich Stäudlin, professore di teologia a Göttingen e successore di Michaelis, è dedicato proprio lo Streit (SF A III; VII 3 [55]). 89 Ritorna qui la definizione della Bibbia come “veicolo”; cfr. anche SF A 62; VI 44 [106]. Inoltre viene introdotta la distinzione tra “canone [Kanon]” (identificato con la fede ecclesiastica) e “organo [Organon]” (che rimanda alla fede religiosa pura). Su questa distinzione si vedano le osservazioni di F. Ricken, Kanon und Organon. Religion und Offenbarung im “Streit der Fakultäten”, in F. Ricken, F. Marty (Hrsgg.), Kant über Religion, Kohlhammer, Stuttgart 1992, pp. 181-194 (spec. pp. 184-191). 90 Sulle parti storiche del testo biblico come adiaphora cfr. anche SF A 54; VII 40 [101]; A 67; VII 47 [110]. Entrambi i passi rimandano a Rel. B 47 n.; VI 43 n. [46 n.]. In SF A 104; VII 64 [134], viene ripresa la tesi della duplice composizione del testo biblico, distinguendo una parte principale ed un accessorium.

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scenza della storia, della lingua ed il ricorso agli strumenti della filologia; per quanto riguarda il senso traslato invece, esso deve essere attribuito (unterlegen) o introdotto (hineinlegen) dall’interprete, seguendo l’impostazione costruttivistica precedentemente evidenziata. Dopo aver delimitato il ruolo del teologo biblico, Kant ripropone nuovamente in forma sistematica i “principi filosofici [philosophische Grundsätze]” (SF A 49-62; VII 38-44 [98-107]) della sua ermeneutica scritturale91. Nel tentativo di comporre il conflitto con i teologi, egli precisa tuttavia che nelle sue intenzioni “filosofici” devono essere soltanto i principi e non l’interpretazione che deriva dalla loro applicazione. Kant individua quattro principi che regolano la corretta lettura dei testi biblici; nella loro esposizione ritroviamo le tesi già note, con alcune interessanti integrazioni. Il primo principio riprende il “principio supremo” teorizzato nella Religion e afferma “che la ragione è, in materia religiosa, l’interprete suprema della Scrittura [die oberste Auslegerin]” (SF A 54; VII 41 [102]). Di conseguenza i passi biblici che contengono dottrine che oltrepassano l’ambito della ragione “possono [dürfen] essere interpretati a vantaggio della ragion pratica”, mentre “quelli che contengono proposizioni che la contraddicono, addirittura lo devono [müssen]” (SF A 50; VII 38 [99]). In entrambi i casi si tratta di “introdurre [hineintragen]” nel testo il senso traslato, andando al di là della lettera92. È interessante notare come anche in questa occasione, come già aveva fatto nella Religion 93, Kant difenda questo 91

Con l’enunciazione di questi principi Kant intende dare il suo contributo alla soluzione del conflitto con la Facoltà teologica per quanto riguarda l’interpretazione della Scrittura. Come è noto, la sua proposta è la seguente: “nel caso di disaccordo sul senso di un passo biblico, la Facoltà inferiore, che ha per fine la verità, la filosofia insomma, rivendica il privilegio di determinarne il significato” (SF A 48 s.; VII 38 [98]). 92 Si tratta di un pensiero già espresso in Rel. B 158; VI 110 [118 s.]. Qui Kant precisa che questo metodo vale anche per le “proposizioni di fede”, ossia per la dottrina trinitaria, per i dogmi dell’incarnazione, della resurrezione e dell’ascensione, che Kant considera “inutili” sotto il profilo pratico. 93 Rel. B 160; VI 111 [120]. Si tratta di un’argomentazione che si rivolge contro

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passaggio con un’argomentazione di carattere generale che fa riferimento alla storia dell’esegesi scritturale. Egli osserva infatti che il lettore è “in diritto di interpretare lo scritto dell’autore in modo conforme ai suoi principi, e non secondo la lettera”, in quanto si tratta di una pratica ermeneutica che “è sempre avvenuta con l’approvazione dei più lodati teologi” (SF A 55; VII 41 [102]). Se infatti per secoli essi hanno interpretato l’Antico Testamento come una “tipologia” del Nuovo, non si devono scandalizzare di fronte alla teorizzazione del principio della introduzione del senso morale. Per illustrare il secondo principio, Kant parte dal presupposto che nella religione tutto dipende dal fare; di conseguenza, se il contenuto delle narrazioni e delle dottrine bibliche deve essere conforme alla religione, esso deve quindi avere un significato prevalentemente etico-pratico; nel caso poi di passi in cui la lettera del testo fosse contraria a questa interpretazione, occorre stabilire un “accordo [Übereinstimmung]” col senso morale. Questo obiettivo di accordare il contenuto della Scrittura alla religione razionale è presente anche nel terzo principio, in cui si insiste sull’applicazione94, mentre il quarto regola l’interpretazione di quei passi che sembrano contenere rivelazioni soprannaturali95. Dopo aver illustrato la formulazione dei quattro principi ermeneutici, ritorniamo ora sulla distinzione tra interpretazione dottrii teologi, affrontandoli sul loro stesso terreno. Essa documenta ancora una volta la conoscenza da parte di Kant della storia dell’esegesi scritturale, come risulta dal preciso riferimento alla distinzione tra theoprepos e anthropopathos in SF 54; VII 41 [102]. 94 Il terzo principio viene precisato con questa importante integrazione: “I passi, che sembrano contenere una dedizione semplicemente passiva a una forza esterna che susciterebbe in noi la santità, devono quindi essere interpretati in modo da rendere evidente che noi stessi dobbiamo applicarci allo sviluppo della disposizione morale che è in noi” (SF A 60; VII 66 [105]). 95 Per un esame dettagliato di questi quattro principi rimandiamo a H. d’Aviau de Ternay, op. cit., pp. 220 ss., che li valorizza sensibilmente. Invece E. Katzer, art. cit., pp. 108 ss., considera questi principi come “derivati” rispetto al principio ermeneutico generale enunciato nella Religion, secondo cui la Scrittura serve al miglioramento morale dell’umanità. Secondo lui l’ermeneutica kantiana si basa su questo unico principio.

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nale e interpretazione autentica, precedentemente incontrata. Da quanto siamo venuti dicendo è ovvio che l’interpretazione letterale è subordinata a quella filosofica o morale e che solo quest’ultima dovrebbe essere qualificata come “autentica”. Tuttavia, al fine di sottoscrivere un “accordo di pace” tra la Facoltà teologica e quella filosofica (SF A 97 ss.; VII 61 ss. [130 ss.]), Kant utilizza ora la coppia concettuale dottrinale/autentico con un significato diverso da quello precedentemente fissato. Riproponendo la sua concezione della duplicità di livelli del testo biblico, egli chiama interpretazione autentica (authentisch) quella che “dev’essere letteralmente (filologicamente) conforme al senso dell’autore”, mentre definisce dottrinale (doktrinal) quell’interpretazione in cui “lo scrittore è libero d’attribuire [unterzulegen] (filosoficamente) al passo della Scrittura quel senso che l’esegesi gli conferisce dal punto di vista pratico morale (per edificare il popolo)” (SF A 109; VII 66 [137]). Il campo della hermeneutica sacra risulta così suddiviso in due ambiti di influenza chiaramente delimitati: il primo è di competenza del “dottore della Scrittura [Schriftgelehrter]”, il secondo del filosofo laico o di ciascun essere razionale. In questo modo la “ermeneutica dei dottori della Scrittura [Hermeneutik der Schriftgelehrten]” 96 si distingue dalla interpretazione dottrinale, che non pretende sapere (empiricamente) quale senso abbia collegato alle sue parole l’autore sacro, ma quale dottrina la ragione può attribuire [unterlegen] (a priori), dal punto di vista morale, ad una sentenza che sia il testo scritturale dell’interpretazione (SF A 110; VII 67 [138]). 96

Vale la pena segnalare che qui Kant usa la locuzione latina hermeneutica e il neologismo tedesco Hermeneutik (SF A 109; VII 66 [137 s.]), al posto di Auslegungskunst e Interpretation (oppure al posto dei termini più generici Auslegung e Deutung), a conferma della conoscenza della terminologia tecnica in uso nell’ermeneutica settecentesca. Confrontando i numerosi passi della Religion e dello Streit esaminati, siamo ora in grado di precisare lo specifico vocabolario tecnico dell’ermeneutica kantiana. Esso è formato dai termini unterlegen, “porre sotto”, “attribuire”, hineinlegen, “introdurre”, hineintragen, “immettere”. Tutti questi verbi definiscono l’interpretazione non come rispecchiamento passivo della mens auctoris, ma come procedimento attivo che coinvolge personalmente l’interprete secondo il principio del comprendere meglio.

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In conclusione, Kant sostiene la superiorità dell’interpretazione morale (detta ora “dottrinale”) – l’unica conforme al principio dell’introduzione del senso e del comprendere meglio – con queste parole: l’orientamento all’insegnamento popolare devono darlo non l’erudizione scritturale [Schriftgelahrtheit] e quanto per suo mezzo si ricava [herauszieht] dalla Bibbia con conoscenze filologiche che spesso sono solo disastrose congetture, ma quanto si immette [hineinträgt] in essa con un modo morale di pensare (quindi secondo lo spirito di Dio), unitamente a dottrine che non ingannano mai e non possono essere mai prive di effetto salutare. Si deve cioè usare il testo solo (o almeno principalmente) come occasione [als Veranlassung] per tutto ciò che […] migliora i costumi senza dover per questo indagare quale mira avessero avuto in mente gli autori sacri (SF A 114; VII 68 s. [141]).

Rispetto al trattato sulla religione e agli altri testi esaminati in precedenza, lo Streit si segnala per aver fornito una conferma del principio ermeneutico della introduzione del senso al di là della lettera e della mens auctoris; inoltre la sua novità consiste nello sforzo di chiarire che l’immissione del senso non è una invenzione esclusivamente soggettivistica. Dalle molte affermazioni kantiane emerge infatti che il senso può essere “introdotto” solo in quanto è già presente in ciascun interprete sotto la forma della legge morale che è santa e divina. L’interpretazione morale non è dunque un’operazione che dipende dall’arbitrio dell’interprete, bensì con essa “il Dio in noi è lui stesso l’interprete [der Gott in uns ist selbst der Ausleger]”. Si tratta di un’integrazione importante, che evidenzia come alla base della posizione kantiana vi sia una implicita circolarità ermeneutica tra autore e interprete. Nell’interpretazione orientata al principio della moralità “noi comprendiamo soltanto colui che ci parla per mezzo del nostro intelletto e della nostra propria ragione”, colui che parla nella nostra coscienza (SF A 70; VII 48 [112]). Infatti: Il Dio che parla tramite la nostra ragione (pratico-morale) [Der Gott, der durch unsere eigene (moralisch-praktische) Vernunft spricht] è un interprete [Ausleger] infallibile e universalmente intelligibile di questa sua parola, e di essa non può assolutamente esserci un altro interprete

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accreditato (per esempio in base al metodo storico): perché la religione è un puro fatto di ragione (SF A 111; VII 67 [139]).

Ancora una volta Kant ripete che non è importante ciò che “sta scritto”, la morta lettera, ma lo spirito che soffia nel testo e che l’interprete vi “immette [hineinträgt]” ascoltando la voce della propria coscienza morale che si accorda con l’intenzione dell’autore, arrivando a comprenderla meglio di quanto potesse fare lui stesso perché la realizza praticamente. Solo l’interprete moralmente orientato (“ispirato”) mette in atto la vera lettura del testo biblico. Questa conclusione rappresenta una importante integrazione dello Streit rispetto alla Religion97. Essa chiarisce che l’interpretazione non è la proiezione di pensieri soggettivi arbitrariamente attribuiti al testo dall’esterno, ma è un’operazione che entra in contatto col pensiero dell’Autore, il quale parla nell’intimo della coscienza del singolo con la voce del comandamento morale. Dio rimane “interprete infallibile e universalmente intelligibile della sua parola” (SF A 111; VII 67 [139]), ma può essere tale solo attraverso l’esplicitazione personale che il singolo interprete mette liberamente in atto. Ci sembra che questa importante integrazione sia conforme al principio della costruzione o dell’introduzione del senso morale, alla tesi del comprendere meglio e allo schema del giudizio riflettente. Ci sembra infatti che nell’atto interpretativo si venga disegnando un movimento che richiama la classica figura del circolo ermeneutico: l’Autore, ispiratore del contenuto del libro sacro (pur non essendone l’Autore materiale), suggerisce il senso spirituale all’interprete che lo “immette” nel testo; attraverso il libero ascolto l’interprete recupera l’intenzione dell’autore, ma anziché rispecchiare in modo impersonale la mens auctoris la traduce nella propria situazione e la 97

Questa novità è stata opportunamente rilevata da H. d’Aviau de Ternay, op. cit., p. 230, che commentando queste affermazioni kantiane richiama il principio agostiniano del Deus intimior intimo meo. Inoltre, a suo avviso, questa integrazione indicherebbe una rivalutazione in positivo del ruolo svolto dalla rivelazione e getterebbe anche una nuova luce sulla posizione kantiana nei confronti dell’origine ispirata del testo biblico. In effetti in SF A 102; VII 63 ss. [133 ss.], troviamo alcune osservazioni sulla “natura divina” della Bibbia o sulla “divinità del suo contenuto morale”, che andrebbero analizzate dettagliatamente.

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trasforma in intenzione morale pura. In questo modo l’atto che immette il senso nel testo, che si sforza di comprendere meglio andando al di là della lettera, perde la valenza soggettivistica e antropocentrica che nel contesto della rivoluzione copernicana ancora poteva avere. Allo stesso modo il paradigma del comprendere meglio non va inteso come affermazione di superiorità dell’interprete rispetto all’autore del testo, ma come un invito alla traduzione e alla spiegazione del senso implicito in quelle narrazioni che ad una prima lettura sembrerebbero incomprensibili perché distanti dalla situazione vitale di chi legge. Nell’autentico atto interpretativo si disegna un circolo che prevede un originario momento di ascolto ed un successivo momento di esplicitazione o di applicazione pratica del senso, secondo la libertà di coscienza del singolo interprete. Alla luce di queste osservazioni sulla struttura dell’atto interpretativo possiamo cogliere tutta l’importanza del “principio supremo” dell’ermeneutica kantiana. L’interpretazione morale non solo va al di là di ogni lettera, ma si colloca al di sopra di ogni dettato confessionale e risulta ispirata dal principio della libertà religiosa di respiro universale. Attraverso la difesa di questo principio Kant rivendica per chiunque il diritto di leggere ed interpretare la Bibbia (come qualsiasi altro libro) senza particolari conoscenze tecniche specifiche, senza pregiudizi ideologici o vincoli dogmatici. Dal punto di vista storico si può considerare la tesi kantiana come un coraggioso ampliamento in novitate et identitate spiritus del principio luterano del libero esame, esteso ad ogni essere razionale al di là delle precomprensioni dogmatiche della sola fide. Subordinando l’interpretazione specialistica degli Schriftgelehrten alla libera lettura razionale dei laici, Kant ha insegnato che nel rapporto col testo biblico e più in generale nel dominio del religioso la cosa più importante “non è l’essere cattolici, luterani, genericamente cristiani, buddisti e così via, ma il cercare di essere sempre più e sempre meglio religiosi” 98. 98

A. Caracciolo, Principio della libertà e principio della confessione nell’itinerario religioso, in Id., Religione ed eticità, Morano, Napoli 1971, p. 107. Per un approfondimento di questa prospettiva rimandiamo al saggio di G. Moretto, Rivelazione e universalità della salvezza, in Id., Il principio uguaglianza nella filosofia, ESI, Napoli

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Ogni uomo, infatti, è tale non in quanto è semplice membro di una chiesa particolare, ma proprio in quanto è originariamente locus revelationis aperto alla trascendenza: in lui si annuncia una parola di senso che non è lui a darsi, ma che è lui ad invenire e ad interpretare responsabilmente in libertate spiritus se rimane aperto all’ascolto. È sulla base di questa parola ispirata che egli può comprendere autenticamente sia il testo biblico sia sé stesso, in modo tale che l’atto ermeneutico e la propria destinazione etica si intreccino in modo indissolubile e fecondo nella vita pratica. Ogni uomo diventa interprete non perché in possesso di conoscenze, di tecniche o di strumenti eruditi che gli permettono di spiegare il significato di un versetto biblico che egli ritiene per “vero”. Piuttosto egli può diventare il più dotto Schriftgelehrter proprio perché è primariamente e costitutivamente umile Ausleger: interprete e uditore della parola di senso che lo interpella nell’intimo della sua coscienza e che secondo la prospettiva kantiana parla nel linguaggio dell’imperativo etico99. Sulla base di queste considerazioni finali ci sembra quindi non azzardato affermare che nell’itinerario del pensiero kantiano la problematica ermeneutica assume un significato strettamente collegato con l’uso pubblico della ragione, con l’esercizio della critica e con la difesa della libertà religiosa. Come abbiamo tentato di mostrare, si tratta di un significato che si accorda con la “rivoluzione copernicana” e che al tempo stesso coinvolge la destinazione del singolo, che nell’esperienza ermeneutica della lettura si apre all’annuncio del senso etico e religioso. Al di là delle periodizzazioni e delle analisi testuali, questa prospettiva ci insegna a coniugare la dimensione ermeneutica dell’ascolto con quella dell’impegno etico: ci invita a collegare l’interpretazione con la testimonianza.

1999, pp. 161-213. 99 Per lo sviluppo di questa prospettiva ermeneutica, basata sull’esperienza dell’annuncio e dell’ascolto, ci sia concesso rinviare al nostro lavoro L’ermeneutica tra Heidegger e Levinas, Morcelliana, Brescia 2001.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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Indice dei nomi

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INDICE DEI NOMI

Abele, 169. Adickes E., 91 n., 98 n., 114 n., 115 n. Agostino, 73 n. Albino di Smirne, 72. Albrecht M., 141 n. Allison, H.E., 86 n. Ammon Chr.F., 192 n. Amoroso L., 10. Andersen S., 36 n. Angelino C., 174 n. Arata C., 24 n. Aristotele, 63, 69, 72, 76. Arnoldt E., 112 n., 113 n. Assunto R., 10, 11. Barale M., 54 n. Barth K., 173 n. Basler O., 177 n. Baumeister Fr.Chr., 113 n. Baumgarten A.G., 20 n., 26 n., 37 n., 105 n., 107 n., 108 n., 109 n., 113, 114 n., 122 n., 133 n., 134 n., 145 n. Bayer O., 165 n. Benassi V., 161 n. Bennett J., 31 n. Berkeley G., 63. Bertolini L., 23 n. Bianchi M.L., 73 n. Bianco B., 103 n.

Biel G., 73 n. Birckmann C., 57 n. Boff G., 174 n. Bohatec J., 89 n., 97 n., 103 n., 138 n., 173 n., 185 n. Bollnow O.Fr., 155. Bonetti A., 111 n. Borkowski H., 183 n. Boutroux E., 31 n. Brockes B.H., 93 n. Bruch J.-L., 174 n., 181 n. Brucker J., 73 n., 74 n., 81. Bühler A., 154 n. Cacciatore G., 151 n. Caino, 169. Calov A., 69 n. Camera F., 14 n., 116 n., 201 n. Campo M., 91 n., 103 n., 117 n., 122 n., 129 n. Campodonico A., 7. Capra F., 10, 44 n. Carabellese P., 10, 11, 41 n. Caracciolo A., 200 n. Carboncini S., 31 n. Cartesio R., 63, 70, 74 n., 75 n., 82. Cassirer E., 53 n., 61 n., 129 n., 161 n. Casula M., 122 n., 193 n. Cataldi Madonna L., 154 n.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

Centi B., 14 n. Chiereghin F., 24 n., 50 n., 57 n., 111 n. Chiodi P., 83 n, 191 n. Chladenius J.M., 154. Ciafardone R., 18 n., 102 n. Cohen H., 23 n. Cristo, 189 n. Crusius Chr.A., 20 n., 69 n.,100, 101, 102, 103, 110, 133 n., 136 n., 141 n. Cunico G., 7, 88 n., 98 n., 131 n., 169 n., 180 n. D’Addio M., 82 n. D’Alessandro G., 174 n., 180 n., 187 n., 193 n. D’Altavilla C., 129 n. Daval R., 51 n. D’Aviau de Ternay H., 174 n., 176 n., 196 n., 199 n. De Flaviis G., 9, 11. De Lorenzo G., 30 n. De Toni G., 53 n., 129 n. De Vleeschauwer H.J., 23 n., 86 n., 100 n., 116 n. Dilthey W., 149, 150, 151. Del Boca S., 102 n., 122 n. Delbos V., 87 n., 104 n., 129 n. Dottori R., 168 n. Düsing K., 89 n. Eberhard J.A., 156. Eichhorn J.G., 192. Epicuro, 66, 72. Ernesti J.A., 150. Esposito C., 11. Fabian B., 137 n. Fadini A., 23 n., 100 n. Faggiotto P., 52 n., 57 n.

Fattori M., 73 n. Feder J.G.H., 73 n. Ferretti G., 45 n., 57 n., 173 n., 175 n. Fichte J.G., 190 n. Flacius M., 149, 150 n. Foerster Fr.W., 129 n. Formey J.H.S., 115 n. Förster E., 14 n. Forschner M., 111 n., 143 n. Francke A.H., 184 n. Funke G., 111 n. Gabler J.Ph., 192 n. Gadamer H.-G., 152 n. Gajek B., 165 n. Galvani L., 10. Gargiulo A., 10. Garin E., 10, 75 n. Garve Chr., 18 n., 84 n. Gehrardt V., 86 n. Geldsetzer L., 150 n., 154 n. Gentile G., 9. Gerhardt C.I., 100 n. Gerhardt G., 90 n. Ghia G., 182 n. Giacomo, 183 n. Giannetto G., 152 n. Gilson E., 31 n. Giobbe, 172, 180 n. Giorgini G., 78 n. Giovanni, 182 n., 183 n. Givone S., 60 n., 168 n. Goclenius R., 72 n. Goeze J.M., 182 n. Gonnelli F., 9, 11. Guerra A., 90 n., 92 n., 95 n., 98 n. Guzzo A., 87 n., 129 n. Hamann J.G., 162, 163, 164,

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Indice dei nomi

165, 177, 183. Heidegger M., 16 n., 45 n. Heimsoeth H., 23 n., 48 n., 65 n., 67 n., 74 n. Henrich D., 14 n., 31 n., 45 n., 86 n., 87 n., 89 n., 98 n., 103 n., 129 n., 132 n., 137 n. Herder J.G., 162, 163, 164, 165, 166 n., 169. Herrmann F.-W. von, 16 n. Herz M., 15 n., 17 n., 18 n., 72 n. Heyse H., 48 n. Hinske N., 18 n., 73 n., 82 n. Hirsch E., 174 n. Höffe O., 86 n. Hohenemser R., 10, 11. Holzhey H., 14 n., 50 n. Hornig G., 167 n. Horstmann R.P., 14 n. Hume D., 62, 84 n. Hutcheson F., 137 n. Incardona N., 7. Irmscher H.D., 165 n. Isacco, 181 n. Kaiser O., 182 n. Katzer E., 188 n., 196 n. Kaulbach F., 86 n. Kemp Smith N., 30 n., 33 n. Kiesewetter J.G., 193 n. Kopper W., 14 n. Küenburg M., 87 n., 129 n. Kümmel W.G., 161 n. Künkler H., 168 n. Jacobi F., 44 n., 71, 189 n. Jäsche G.B., 10. Jossua J.P., 173 n. Jung-Stilling J.H., 189 n.

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Laberge P., 88 n. Lamacchia A., 89 n., 95 n., 97 n., 98 n., 112 n., 120 n. Lambert J.H., 15 n., 21 n. Landolfi Petrone G., 193 n. Lange J., 102. La Rocca C., 152 n., 156 n. Lavater J.C., 159, 160, 161 n., 162, 172, 177. Lehmann G., 112 n., 115 n., 146 n. Leibniz G.W., 63, 70, 72, 75 n., 99 n., 103 n., 106. Lessing G.E., 161 n., 169, 182 n., 188. Locke J., 74 n., 75 n., 82. Lombardo-Radice G., 9. Longo M., 73 n., 74 n., 81 n. Lunati G., 138 n. Macbeath A.M., 138 n. Makkreel R., 156 n. Malebranche N., 71. Malter R., 14 n., 116 n. Malusa L., 7. Mancini I., 183 n. Manganaro P., 143 n. Marcucci S., 48 n., 70 n. Marty F., 14 n., 48 n., 51 n., 52 n., 194 n. Marx W., 14 n. Mathieu V., 9. Matteo, 189 n. Meier G.F., 75 n., 113 n., 154 n., 157 n. Melchiorre V., 52 n. Mendelssohn M., 116 n., 186 n. Menegoni F., 131 n. Menzer P., 87 n., 90 n., 91 n., 95 n., 98 n., 117 n., 129 n. Meo O., 11.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

Merk J.H., 137 n. Merker N., 10, 161 n. Michaelis J.D., 150, 164, 165 n., 178, 194 n. Micheli G., 60 n., 62 n., 79 n., 152 n. Misch G., 149 n. Mollowitz G., 65 n., 67 n., 73 n. Morelle F., 97 n. Morra G., 149. Moretto G., 172 n., 200 n. Moscato A., 14 n., 17 n., 116 n. Natorp P., 80 n. Newton I., 62, 136 n. Nohl H., 150 n. Oberer H., 141 n. O’Farrell F., 38 n., 54 n. Olivetti M.M., 10. Origene, 192 n. Osculati R., 184 n. Palumbo M., 31 n. Paolinelli M., 92 n., 98 n., 103 n., 129 n., 138 n. Paolo, 182 n., 183 n. Papi F., 96 n. Pareyson L., 47 n. Pellizzi C., 75 n. Peter J., 39 n. Philonenko A., 53 n. Piché C., 39 n., 132 n. Pimpinella P., 104 n. Pirillo N., 151 n., 175 n., 181 n. Pirni A., 132 n., 142 n. Platone, 6, 22 n., 59, 63-82, 155. Pocar E., 61 n., 161 n. Poggi A., 10. Pope A., 93 n., 98.

Prauss G., 86 n. Pupi A., 10, 11. Rambach J.J., 184 n. Ränsch-Trill B., 69 n. Ravera M., 75 n., 95 n. Reale G., 67 n. 72 n., 78 n. Redecker M., 149 n. Reicke R., 98 n. Reina M.E., 16 n. Reiner H., 129 n. Reventlow H. Graf von, 165 n. Ricken F., 194 n. Ricoeur P., 173 n., 175 n. Riconda G., 11. Rink T., 60 n. Ritter J., 69 n., 129 n. Rohs P., 41 n. Romolo, 193 n. Rosenmüller J.G., 192 n. Rötges H., 24 n. Ross D., 78 n. Sala G.B., 33 n., 38 n., 87 n., 120 n., 121 n., 141 n. Sanna G., 149 n. Santinello G., 14 n., 60 n., 74 n., 79 n., 81 n. Savj-Lopez P., 30 n. Scarpelli G., 9. Schilpp P.A., 87 n., 89 n., 91 n., 130 n. Schleiermacher F.D.E., 149, 150 n. Schlosser J.G., 64 n. Schmucker J., 38 n., 87 n., 89 n., 91 n., 97 n., 103 n., 108 n., 116 n., 118 n., 120 n., 129 n., 132 n., 133 n., 134 n., 137 n., 141 n. Schopenhauer A., 30 n. Schramm H.-P., 129 n.

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Indice dei nomi

Schröder C., 122 n. Schulz H., 177 n. Schweiger C., 87 n., 127 n., 130 n., 133 n., 134 n. Séd N.J., 173 n. Semler J.S., 150, 161, 167 n. Sorrentino S., 177 n. Spinoza B., 192 n. Stangneth B., 174 n. Stäudlin C.Fr., 178 n., 193 n., 194 n. Stolberg F.L. von, 64 n. Strawson P.F., 31 n. Suphan B., 163 n. Thouard D., 156 n., 181 n. Tieftrunk J.H., 193 n. Tommaso d’Aquino, 129 n. Tonelli G., 20 n., 23 n., 93 n., 101 n., 103 n., 138 n. Troeltsch E., 177 n.

207

Ugazio U.M., 45 n. Vanni Rovighi S., 87 n. Velotti S., 9. Venturelli D., 7, 10, 81 n., 88 n., 174 n., 175 n., 177 n., 186 n., 189 n., 191 n. Verra V., 10, 16 n., 44 n., 166 n. Vidari G., 10. Vieillard-Baron J.L., 65 n. Vincent G., 192 n. Warda A., 164 n. Wolff Chr., 20 n., 26 n., 37 n., 75 n., 102, 103, 107, 119 n., 120 n., 122, 123, 127 n., 154. Wood A.W., 33 n., 38 n. Wundt M., 23 n., 64 n., 67 n., 74 n. Zac S., 116 n., 181 n.

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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Metafisica della ragione e idea teologica

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INDICE

Prefazione ........................................................................................

5

Sigle e abbreviazioni ........................................................................

9

Capitolo I - Metafisica della ragione e idea teologica 1. Diversi significati di metafisica .................................................... 2. Il problema dell’unità sistematica della ragione ........................... 3. Aspetti e funzioni della terza idea della ragione ........................... 3.1. La funzione logica e formale della terza idea ........................ 3.2. La funzione ontologica e teologica della terza idea: il problema dell’ontoteologia ............................................................. 4. La ragione come sistema .............................................................. 4.1. La terza idea come simbolo totalizzante ................................ 4.2. La terza idea come archetipo originario ................................

13 21 30 34 36 47 48 53

Capitolo II - Il confronto con Platone nella Critica della ragion pura 1. Ragione critica e “storia della ragione” ........................................ 2. L’immagine di Platone “filosofo intellettualista” ......................... 3. Idee platoniche e idee trascendentali ...........................................

59 63 73

Capitolo III - Obbligazione e dovere nell’etica precritica 1. L’etica kantiana: un sistema di dottrine in divenire ..................... 2. Prime considerazioni sulla destinazione morale dell’uomo .......... 2.1. La posizione dell’uomo nel cosmo ....................................... 2.2. Elogio dell’uomo virtuoso .................................................... 3. Obbligazione interiore e libertà del volere nella Nova dilucidatio 3.1. L’approfondimento della necessitas moralis ........................... 3.2. Libertà del volere e principio di determinazione interiore .... 4. Perfezione morale e obbligazione nella Preisschrift del 1762/64 .. 4.1. L’analisi dei concetti di perfezione e di obbligazione ............ 4.2. La distinzione tra necessità dei mezzi e necessità del fine ..... 4.3. L’originarietà del Sollen e la nozione di fine in sé ................. 4.4. I principi materiali e il ricorso al sentimento ........................ 5. Problemi aperti e ulteriori sviluppi ..............................................

85 91 92 98 100 104 109 112 117 125 128 135 143

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Ermeneutica e filosofia trascendentale

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Capitolo IV - Ermeneutica e libertà religiosa 1. 2. 3. 4. 5.

Introduzione ................................................................................ La “rivoluzione copernicana” e il problema dell’interpretazione .. Le origini dell’interpretazione razionale ....................................... L’importanza della disputa con Herder ....................................... La critica del letteralismo e lo statuto dell’interpretazione “autentica” ............................................................................................ L’ermeneutica al servizio della religione razionale ....................... Il “principio supremo” dell’interpretazione scritturale ................ I limiti dell’interpretazione “dotta” e il principio della libertà .... Approfondimenti successivi ed integrazioni ................................

169 173 178 187 192

Indice dei nomi ...............................................................................

203

6. 7. 8. 9.

149 152 159 162

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