Ricerche logiche, Giovanni Piana (editor)
 8842821519, 9788842821519

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L'interesse di Edmund Husserl verso i problemi della logica, destinato a rimanere vivo fino alle opere pii) tarde, si trova in realtà all'origine del suo intero lavoro filosofico. Le Ricerche logiche, scritte tra il 1900 e il 1901, segnano l'emancipazione dallo psicologismo di Franz Brentano, sotto il cui influsso Husserl aveva scritto La filosofia dell'aritmetica, e rappresentano una risposta alle difficoltà di ordine generale incontrate nel realizzare il programma delineato da quell'opera. Nelle Ricerche, Husserl si propone di confutare il presupposto psicologico che caratterizzava l'indirizzo dominan­ te della logica. Ma mentre ne chiarisce i concetti costitutivi, giunge per necessità interna da un lato a generalizzare la tematica affrontata in una nuova teoria della conoscenza, dall'altro a prefigurare la futura svolta feno­ menologica. Edmund Husserl (Prossnitz, Moravia, 1859 - Friburgo 1938), fondatore della fenomenologia, ebbe tra i suoi allievi Scheler e Heidegger. Libero docente a Halle dal 1887, nel 1901 Husserl venne chiamato all'università di Gottinga e, nel1916, a quella di Friburgo. Tra le sue opere: Esperienza e giudizio '(1995), La crisi delle scienze europee e lafenomenologia trascenden­ tale (il Saggiatore, 1997), L'idea di Europa (1999).

DELLO STESSO AUTORE

L a crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale L'intero e la parte. L'obiettivismo moderno Kant e l'idea della filosofia trascendentale Metodo fenomenologico statico e genetico

Edmund Husserl

Ricerche logiche Introduzione e cura di Giovanni Piana

ilSaggiatore

©il Saggiatore S.r.l., Milano 2015 Prima edizione il Saggiatore: Milano 1 968 Titolo originale: L ogische Untersuchungen

Sommario

Introduzione Prefazione alla prima edizione (1900) Prefazione alla seconda edizione (1913) Prefazione alla «Sesta ricerca» (1920)

XIX

3 6 13

Prolegomeni a una logica pura Introduzione

19

l. La controversia sulla definizione della logica e sul contenuto delle sue dot­ trine 19- 2. Necessità di una rinnovata discussione delle questioni di princi­ pio 20- 3. Le questioni controverse. La via da seguire 22

I. La logica come disciplina normativa e in particolare come disciplina pratica 4. L' incompletezza teoretica delle scienze particolari 24 - 5. L'integrazione teoretica delle scienze particolari mediante la metafisica e la dottrina della scienza 25 - 6. La possibilità e la legittimità di una logica come dottrina del­ la scienza 26 - 7. Continuazione. Le tre più importanti caratteristiche delle fondazioni 29 - 8. Il rapporto tra queste caratteristiche della fondazione e la possibilità della scienza e della dottrina della scienza 31 - 9. I procedimenti metodici nelle scienze sono in parte fondazioni, in parte strumenti ausilia­ ri per le fondazioni 33 - 10. Le idee di «teoria» e di o «assenso>> nei confronti della mera rappresentazione

525

dello stato di cose 541 - 30. L'interpretazione della comprensione della paro­ la e della proposizione come 586

SESTA RICERCA Elementi di una chiarificazione fenomenologica

della conoscenza Introduzione

591

SEZIONE PRIMA Le intenzioni oggettivanti e i riempimenti. La conoscenza come sintesi del riempimento e i suoi gradi I. Intenzione significante e riempimento di significato l.

Se tutte le specie di atti o solo certune possano fungere come veicoli di si-

599

gnificato 599 - 2. Il fatto che tutti gli atti possano essere espressi non è risolu­ tivo. Due sensi in cui si parla di esprimibilità di un atto 601 - 3. Terzo senso in cui si parla di espressione di un atto. Formulazione del nostro tema 602 - 4. L'e­ spressione di una percezione («giudizio percettivo>>). Il suo significato non può risiedere nella percezione, ma in atti espressivi autonomi 604 - 5. Continua­ zione. La percezione come atto che determina il significato, ma non lo con­ tiene 605 - 6. L'unità statica tra pensiero esprimente e intuizione espressa. Il conoscere 610 - 7. Il conoscere come carattere d'atto e la 612 - 8. L'unità dinamica tra espressione e intuizione espressa. La coscienza del riempimento e dell'identità 617 - 9. Il diverso carattere dell'intenzione all'in­ terno e all'esterno dell'unità del riempimento 620 IO. La classe dei vissuti del -

riempimento in senso più ampio. Le intuizioni come intenzioni che hanno bi­ sogno di un riempimento 621 -

Il.

Elusione e contrasto. La sintesi della diver­

sificazione 623 - 12. L'identificazione e la diversificazione totale e parziale come fondamenti fenomenologici comuni della forma predicativa e determinativa 625

IL Caratterizzazione indiretta delle intenzioni oggettivanti e delle loro varietà essenziali mediante le differenze delle sintesi di riempimento

629

13. La sintesi del conoscere come caratteristica forma di riempimento de­ gli atti oggettivanti. Sussunzione degli atti significanti nella classe degli at­ ti oggettivanti 629 - 14. Caratterizzazione fenomenologica della distinzione tra intenzioni signitive e intuitive per mezzo delle proprietà del riempimen­ to 632 - 15. Le intenzioni signitive al di fuori della funzione significante 637 III. Sulla fenomenologia dei gradi della conoscenza 16. Mera identificazione e riempimento 641 - 17. Il problema del rapporto tra riempimento e traduzione intuitiva 644 - 18. I gradi di riempimento media­ ti. Rappresentazioni mediate 645- 19. Distinzione tra rappresentazioni me­ diate e rappresentazioni di rappresentazioni 646 - 20. Le traduzioni intuitive autentiche in ogni riempimento. La traduzione intuitiva propria e impro­ pria 647 - 21. La «pienezza>> della rappresentazione 650 - 22. Pienezza e «Statu­ to intuitivo>> 651 - 23. Rapporti di peso tra statuto intuitivo e statuto signitivo di un unico e medesimo atto. Intuizione pura e significazione pura. Contenuto percettivo e contenuto immaginativo, percezione pura e immaginazione pu­ ra. I gradi della pienezza 653 - 24. Serie di progressione del riempimento 65625. Pienezza e materia intenzionale 658 - 26. Continuazione. Rappresentanza o apprensione. La materia come senso apprensionale, la forma apprensionale e il contenuto appreso. Caratteri distintivi dell'apprensione intuitiva e signi­ tiva 661 - 27. Rappresentanze come basi rappresentazionali necessarie in tutti

641

gli atti. Chiarimento ultimo del discorso sulle modalità diverse di riferimento della coscienza a un oggetto 664 - 28. Essenza intenzionale e senso riempiente. Essenza conoscitiva. Intuizioni in specie 665 - 29. Intuizioni complete e lacu­ nose. Traduzione intuitiva adeguata e oggettivamente completa. Essentia 666

IV. Compatibilità e incompatibilità

670

30. La distinzione ideale dei significati in significati possibili (reali) e im­ possibili (immaginari) 670 - 31. Unificabilità o compatibilità come rapporto ideale all'interno della più ampia sfera dei contenuti in genere. Unificabili­ tà dei >) 737 - 63. Le nuove leggi di validità degli atti signitivi o misti con componenti signitive (leggi del pensiero indiretto) 741 - 64. Le leggi della grammatica puramente logica come leggi di ogni intelletto, e non soltanto dell'intelletto umano come tale. Il loro significato psicologico e la loro funzione normativa in rapporto al pensiero inadeguato 744 - 65. L'assurdità del problema del significato del logico 746 - 66. Classificazione delle distinzioni più importanti che vengono di solito confuse nella contrapposizione tra e «pensare>> 748

SEZIONE TERZA Chiarificazione del problema iniziale IX. Gli atti non oggettivanti come riempimenti apparenti di significato

753

67. Non ogni attività significante include una conoscenza 753 - 68. La contro­ versia sull'interpretazione delle forme grammaticali peculiari per esprimere gli atti non oggettivanti 755 - 69. Argomenti in favore e contro l'interpretazione aristotelica 757 - 70. Soluzione 764

Appendice

767

Percezione esterna e interna. Fenomeni fisici e psichici 767

Note Nota terminologica Indice dei nomi

783 a cura d i Giovanni Piana

825 835

Introduzione

l. Il lavoro di Husserl nel campo dei problemi della logica, che trova una pri­ ma e notevole espressione nelle sue Ricerche logiche, si rivela tuttora di difficile valutazione, soprattutto se si tenta di considerarlo alla luce della logica con­ temporanea nel suo complesso. Questa incertezza è visibile sia da parte degli interpreti husserliani, sia da parte del logico specialista. Nel primo caso ci si limita spesso a un discorso illustrativo, che restando rigorosamente all ' inter­ no dei principi, dei metodi e infine anche della terminologia fenomenologica, evita di entrare in contatto con la problematica logica più recente, oppure si ac­ cenna alla discussione di alcuni momenti particolari di confronto dalla quale si avverte l'assenza di un'effettiva caratterizzazione della posizione che l'opera di Husserl occupa all'interno delle linee principali di sviluppo della logica mo­ derna. Da parte del logico specialista si può notare invece, in linea generale, la tendenza a ritenere che - a parte il problema di una valutazione complessiva della filosofia di Husserl - il contributo husserliano verso la logica non rientri in quel solco che egli considera come determinante nella storia recente della propria disciplina. Che poi di fatto l'opera husserliana abbia potuto avere una certa influenza - il cui peso resta ancora, peraltro, tutto da valutare - o che al­ cuni spunti problematici di origine husserliana riemergano talora nella lette­ ratura logica, può essere considerato come una circostanza interessante, ma che non consente ancora di modificare l'atteggiamento sul problema della va­ lutazione del contributo di Husserl in questa direzione. Nella sua forma più estrema, questo atteggiamento può trasformarsi nell'interrogativo se il >.22 Fino a che punto tutto ciò abbia un significato psicologistico, è dimo­ strato dagli sviluppi successivi. Così, per esempio, il metodo della logica, nella misura in cui concerne la base teoretica della teoria del pensare corretto, viene caratterizzato in modo analogo al metodo che la psicologia usa nei confronti di tutti i fenomeni psi­ chici; esso deve descrivere in particolare le manifestazioni del pensare corretto e quin­ di rinviare per quanto è possibile a leggi semplici, cioè spiegare le manifestazioni più complesse a partire da quelle più semplici (op. cit., p. 18). E di conseguenza alla teoria logica dell'inferenza si attribuisce il compito di «fissare le leggi. . . determinare quali caratteristiche debbano possedere le premesse perché da esse si possa dedurre con evi­ denza un determinato giudizio>> ecc.

50. Il mutamento equivalente di forma dei principi logici in principi sulle condizioni ideali dell'evidenza del giudizio. I principi che ne risultano non sono psicologici Passiamo ora alla critica. Siamo ben lontani dall'ammettere l'ineccepibilità dell'asserzione da cui prende le mosse l'argomentazione citata, cioè che ogni verità si trova nel giudizio - un'asserzione che oggi circola come luogo comu-

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Ricerche logiche

ne, ma che in realtà richiede essa stessa di essere spiegata; naturalmente non abbiamo dubbi sul fatto che conoscere la verità e asserirla in modo legittimo presupponga la sua comprensione. Né dubitiamo che la tecnologia logica deb­ ba indagare le condizioni psicologiche nelle quali l'evidenza giunge a illumi­ narci nell'effettuazione dei giudizi. Vogliamo anzi fare un altro passo avanti in direzione della concezione che contestiamo. Per quanto intendiamo far va­ lere anche in questo caso la differenza tra princìpi puramente logici e princì­ pi metodologici, ammettiamo esplicitamente che i primi si trovino in qualche modo in relazione con il dato psicologico dell'evidenza e che in un certo sen­ so esibiscano le sue condizioni psicologiche. Certo, per noi questa relazione è puramente ideale e indiretta. Noi neghia­ mo che proposizioni puramente logiche dicano qualcosa sull'evidenza e sulle sue condizioni. Noi crediamo di riuscire a dimostrare che esse possano ottene­ re quel rapporto ai vissuti dell'evidenza soltanto se vengono applicate e quin­ di riformulate, nello stesso modo in cui ogni legge «che si fonda puramente nei concetti» può essere riferita per trasposizione all 'ambito, rappresentato nella sua generalità, dei singoli casi empirici di quei concetti. Tuttavia i prin­ cìpi dell'evidenza che ne risultano mantengono come prima il loro carattere aprioristico e le condizioni di evidenza che ora esprimono sono tutto meno che condizioni psicologiche, cioè reali. Le proposizioni puramente concettuali si modificano piuttosto, qui come in ogni altro caso analogo, negli enunciati re­ lativi alle incompatibilità o alle possibilità ideali. Chiarirà la questione una riflessione molto semplice. In ogni legge pura­ mente logica si possono cogliere, mediante un mutamento (evidente) di forma che è possibile a priori, certi princìpi o, se si vuole, condizioni di evidenza. Se diciamo che «dati due giudizi contraddittori l'evidenza può presentarsi in uno e in un solo giudizio», questa proposizione è sicuramente equivalente al prin­ cipio di non-contraddizione e a quello del terzo escluso combinati insieme.23 A sua volta il modus Barbara è indubbiamente equivalente alla proposizione: l'evidenza della verità necessaria di una proposizione che abbia forma «tutti gli A sono C» (oppure, più esattamente, l'evidenza della sua verità come veri­ tà necessariamente conseguente) può presentarsi in un atto inferenziale le cui premesse abbiano la forma «tutti gli A sono B» e «tutti i B sono C». Lo stesso si dica per ogni principio puramente logico. Cosa del tutto comprensibile, dal momento che evidentemente sussiste la generale equivalenza tra le proposizio­ ni «A è vero» ed «È possibile che qualcuno giudichi con evidenza che A sia». Naturalmente, le proposizioni che nel loro senso enunciano che cosa risieda per legge nel concetto della verità e indicano che l'essere-vero di proposizioni che abbiano la stessa forma proposizionale condiziona l'essere-vero di propo-

Prolegomeni a una logica pura

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sizion i di forme proposizionali correlative, ammetteranno mutamenti di for­ ma equivalenti, nei quali il possibile presentarsi dell 'evidenza viene messo in relazione con le forme proposizionali dei giudizi. Ma l'esame di questo nesso ci offre al tempo stesso l'occasione di confuta­ re il tentativo di far iniziare la logica pura dalla psicologia dell'evidenza. In se stessa, la proposizione «A è vero» non ha il medesimo senso della proposizio­ ne, a essa equivalente, «È possibile che qualcuno giudichi che A sia». La pri­ ma proposizione non parla di un giudizio pronunciato da qualcuno, anzi non parla assolutamente di qualcuno. Si tratta della stessa situazione che si verifica nel caso delle proposizioni puramente matematiche. L'enunciato «a + b b + a» significa che il valore numerico della somma di due numeri è indipenden­ te dalla loro posizione nella connessione, ma non dice nulla a proposito della numerazione o della somma effettuata da qualcuno. Ciò accade solo median­ te un mutamento di forma che sia evidente ed equivalente. Anzi, in concreto (e ciò è certo a priori) non c'è alcun numero senza l'operazione del contare, nes­ suna somma senza l'operazione del sommare. Ma anche se abbandonassimo le forme originarie dei princìpi puramente lo­ gici e li riformulassimo in princìpi dell'evidenza a essi equivalenti, da ciò non ri­ sulterebbe nulla che la psicologia possa rivendicare a se stessa. Essa è una scienza empirica, la scienza dei fatti psichici. La possibilità psicologica è quindi un caso di possibilità reale. Ma quelle possibilità di evidenza sono possibilità ideali. Ed è indubbio che ciò che è psicologicamente impossibile possa venire espresso ideal­ mente. La soluzione del problema generalizzato dei «tre corpi» - diciamo «il pro­ blema di n corpi» - può forse oltrepassare la capacità conoscitiva dell'uomo. Ciò nonostante il problema ha una soluzione e perciò è possibile un'evidenza che si riferisca a esso. Vi sono numeri del sistema decimale con un numero di posti dell'ordine dei trilioni e vi sono verità che si riferiscono a essi. Ma nessuno può realmente rappresentare numeri di questo genere ed eseguire realmente su di essi addizioni, moltiplicazioni ecc. L'evidenza è qui psicologicamente impossibile, ep­ pure, idealmente parlando, non c'è dubbio che sia un vissuto psichico possibile. =

La conversione del concetto di verità nel concetto di possibilità di un giudicare eviden­ te ha il suo analogo nel rapporto tra il concetto di essere individuale e quello di possibi­ lità della percezione. Se con percezione si intende la percezione adeguata, l 'equivalenza di questi concetti è incontestabile. Perciò è possibile una percezione che percepisce in un solo atto intuitivo il mondo intero, l'infinità inesauribile di corpi. Naturalmen­ te questa possibilità ideale non è una possibilità reale che potrebbe essere assunta da qualsiasi soggetto empirico, tanto più che un tale atto intuitivo sarebbe un continu­

um infinito dell'intuire: inteso come unità, sarebbe un'idea nell'accezione kantiana.

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Ricerche logiche

Mettendo l'accento sull'idealità delle possibilità che possono essere derivate, in rapporto all 'evidenza del giudizio, dalle leggi logiche e che ci appaiono come valide a priori in evidenze apodittiche, non intendiamo affatto negare la loro utilizzabilita psicologica. Se dalla legge secondo la quale di due giudizi con­ traddittori uno è vero e l'altro è falso, deduciamo la verità che di due giudizi contraddittori uno, e uno soltanto, può avere il carattere dell'evidenza - e que­ sta deduzione è evidentemente legittima, se definiamo l'evidenza come vissu­ to nel quale chiunque pronunzi un giudizio si rende conto della sua giustezza, cioè dell'adeguatezza del giudizio alla verità - la nuova proposizione esprime allora una verità sulle compatibilità o incompatibilità di certi vissuti psichici. Ma in questo modo anche una proposizione puramente matematica qualsiasi ci dà degli insegnamenti su eventi possibili e impossibili nel campo dello psi­ chico. Non è possibile nessun calcolo e nessuna numerazione empirica, nes­ sun atto empirico di trasformazione algebrica e di costruzione geometrica, che contraddica le leggi ideali della matematica. Pertanto queste leggi posso­ no essere utili dal punto di vista psicologico. Noi possiamo dedurre sempre da esse possibilità e impossibilità aprioristiche relative a certe specie di atti psi­ chici, ad atti della numerazione, della connessione addizionale, moltiplicativa ecc. Ma non per questo tali leggi sono senz'altro proposizioni psicologiche. È compito della psicologia, come scienza naturale dei vissuti psichici, indagare il loro condizionamento naturale. Al suo campo appartengono quindi in par­ ticolare i rapporti empirici reali delle attività matematiche e logiche. Ma i lo­ ro rapporti e le loro leggi ideali formano un campo a sé. Questo si costituisce in proposizioni puramente generali, costruite sulla base di concetti che non sono, per esempio, concetti di classe di atti psichici, ma concetti ideali, con­ cetti di essenze, che hanno la loro base concreta in tali atti o nei loro correlati obiettivi. Il numero tre, la verità che prende nome da Pitagora ecc., come ab­ biamo esposto, non sono singolarità empiriche o classi di singolarità: sono og­ getti ideali che noi cogliamo ideativamente nei correlati d'atto del contare, del giudicare evidente ecc. Così, in rapporto all'evidenza, la psicologia ha unicamente e semplicemente il compito di rintracciare le condizioni naturali dei vissuti compresi sotto que­ sto titolo, quindi di indagare i nessi reali nei quali, secondo ciò che attesta la nostra esperienza, l'evidenza appare e scompare. Tali condizioni sono la con­ centrazione dell'interesse, una certa vivacità intellettuale, l'esercizio ecc. L'in­ dagine su di esse non conduce a conoscenze di contenuto esatto, a generalità evidenti che abbiano un carattere autentico di legge, ma a universalità empiri­ che vaghe. Ma l'evidenza del giudizio non si trova soltanto sotto tali condizioni psicologiche, che noi possiamo anche indicare come condizioni esterne ed em-

Prolegomeni a una logica pura

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piriche, in quanto non si fondano puramente nella materia e nella forma speci­ . fica del giudizio, ma nel suo essere nel contesto empirico della vita psichica; in rea ltà, essa si trova anche sotto condizioni ideali. Ogni verità è un'unità idea­ le rispetto a una molteplicità, che può essere infinita e illimitata di enunciati giusti che hanno la medesima forma e materia. Ora, le leggi puramente logiche sono verità che si fondano soltanto nel concetto della verità e nei concetti a es­ so essenzialmente affini. Applicate ai possibili atti di giudizio, esse esprimono allora, sulla base della mera forma giudicativa, condizioni ideali di possibilità 0 di impossibilità dell'evidenza. Di questi due tipi di condizioni dell'eviden­ za, le prime hanno rapporto con la particolare costituzione delle specie degli esseri psichici e cadono perciò nell'ambito della psicologia, dal momento che l' induzione psicologica ha la stessa estensione dell'esperienza; le seconde in­ vece, in quanto sono condizioni ideali soggette a legge, sono in generale vali­ de per ogni coscienza possibile.

51. I punti decisivi di questa controversia Infine, anche in questa controversia la chiarificazione ultima dipende anzitutto dalla giusta conoscenza della distinzione gnoseologica più fondamentale, cioè di quella tra reale e ideale, ovvero di tutte quelle distinzioni nelle quali essa si dispiega. Si tratta delle distinzioni su cui abbiamo insistito più volte, tra scienze, leggi e verità reali e ideali, tra generalità reali e ideali (individuali e specifiche), e anche singolarità ecc. È vero che in certo modo ognuno conosce queste distinzioni e persino un empirista che procede sino alle estreme conseguenze come Hume compie la distinzione fondamentale tra relations of ideas e matters offa et, quella stessa distinzione che era già stata indicata prima di lui, sotto il titolo di vérités de raison e vérités de fait, dal grande idealista Leibniz. Ma compiere un'importante distinzione gnoseologica non significa ancora cogliere giustamente la sua essenza gnoseologica. Infatti, bisogna comprendere chiaramente che cosa sia l'ideale in se stesso nel suo rapporto con il reale, in che modo l ' ideale si riferisca al reale e come possa essere insito in esso, pervenendo così alla conoscenza. La questione fondamentale è se gli oggetti effettivamente ideali del pensiero siano - per dirla in termini moderni - puri e semplici indici di abbreviazioni espressive, introdotti per ragioni di «economia del pensiero)), i quali, una volta ridotti al loro vero contenuto, si risolverebbero in vissuti singolari individuali, in rappresentazioni e in giudizi su fatti singoli, oppure se abbia ragione l'idealista quando dice che quella teoria empiristica, benché possa essere enunciata in una nebulosa

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Ricerche logiche

generalità, non può essere portata a sviluppo coerente; quando sostiene che ogni enunciato, e anche gli enunciati che appartengono a questa stessa teoria, pretende senso e validità, e che ogni tentativo d i ridurre queste unità ideali a singolarità reali, si avvolge in assurdità inevitabili; che la frantumazione del concetto in un'estensione qualsiasi di singolarità è impensabile senza un concetto qualsiasi che conferisca a essa un'unità nel pensiero ecc. D'altro lato la comprensione della nostra distinzione tra ((teoria dell 'eviden­ za» reale e ideale presuppone concetti corretti di evidenza e verità. Nella lette­ ratura psicologistica degli ultimi decenni, si parla spesso di evidenza come se fosse un sentimento casuale, presente in certi giudizi, assente in altri, oppure nel migliore dei casi, come se essa fosse collegata a certi giudizi e ad altri no, se­ condo moduli universalmente umani - considerando cioè ogni uomo norma­ le che si trovi in circostanze normali di giudizio. In circostanze normali ogni uomo normale sente che la proposizione 2 + l l + 2 è evidente, così come sente dolore quando si scotta. Certo, si potrebbe chiedere su che cosa si fondi l'autorità di questo sentimento particolare, come esso possa presentarsi come garante della verità del giudizio, (dmprimere» in esso il ((marchio della veri­ tà», o ((manifestare» la sua verità, o in qualunque altro modo si voglia esprime­ re metaforicamente la cosa. Si potrebbe chiedere inoltre che cosa caratterizzi esattamente il discorso vago sulla disposizione normale e le circostanze nor­ mali, osservando innanzitutto che anche il ricorso alla normalità non porta a coincidenza l 'estensione dei giudizi evidenti con quella dei giudizi conformi a verità. Nessuno negherà che la maggior parte dei possibili giudizi giusti so­ no privi di evidenza anche quando vengano pronunciati da persone normali in circostanze normali. Non si vorrà pertanto intendere il concetto di norma­ lità in modo tale che nessun uomo reale o possibile che si trovi in questo con­ dizionamento naturale finito potrebbe essere detto normale. L'empirismo in generale non fraintende soltanto il rapporto tra ideale e rea­ le nel pensiero, ma anche quello tra verità ed evidenza. L'evidenza non è un sentimento accessorio che si aggiunga a certi giudizi, per caso o per una legge di natura. Non si tratta affatto di un carattere psichico che aderirebbe sempli­ cemente a un giudizio qualsiasi di una certa classe (cioè, ai cosiddetti giudizi ((veri») in modo tale che lo statuto fenomenologico del giudizio in questione, considerato in sé e per sé, resterebbe identico sia che a esso inerisca tale carat­ tere o no. La situazione è qui diversa da quella a cui siamo soliti pensare con­ siderando il nesso tra i contenuti della sensazione e i sentimenti a essi riferiti: due persone hanno le stesse sensazioni, ma diverso è il modo in cui sono tocca­ te nel sentimento. L'evidenza invece non è altro che il vissuto della verità. Na­ turalmente la verità è vissuta nello stesso modo in cui in generale qualcosa di =

Prolegomeni a una logica pura

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ideale può essere un vissuto nell'atto reale. In altre parole: la verita è un'idea il cui caso singolo è un vissuto attuale nel giudizio evidente. Il giudizio eviden­ te è tuttavia coscienza di una datità originaria. Rispetto a esso, il giudizio non evidente si comporta in modo analogo a una posizione rappresentativa qual­ siasi di un oggetto rispetto alla sua percezione adeguata. Ciò che è percepito adeguatamente non è soltanto qualcosa che è intenzionato in un modo qualsi­ asi, ma in quanto intenzionato, è anche originariamente dato nell 'atto, cioè è appreso come presente in se stesso, senza residui. Così, ciò che è giudicato con evidenza non è semplicemente giudicato (intenzionato nel modo del giudica­ re, dell'enunciare, dell'asserire), ma è dato nel vissuto giudicativa come in se stesso presente nel senso in cui uno stato di cose può essere «presente» in que­ sta o in quella struttura di significato e, secondo la sua modalità, come singo­ lare o generale, empirico o ideale ecc. E l'analogia che collega tutti i vissuti che offrono datità originarie conduce a discorsi analoghi: si chiama ((evidenza» il vedere, il comprendere, il cogliere uno stato di cose dato in se stesso («vero») oppure, compiendo un'ovvia equivocazione, la verità. E come sul terreno della percezione il non vedere non si identifica affatto con il non essere, così anche la mancanza dell'evidenza non significa affatto non-verità. L'evidenza è il vissuto dell'accordo tra l' intenzione e ciò che è presente in se stesso, che essa intende, tra il senso attuale dell'enunciato e lo stato di cose dato in se stesso, e l'idea di questo accordo è la verità. Ma è l'idealità della verità che produce la sua ogget­ tività. Non è un dato di fatto accidentale che il pensiero espresso in una pro­ posizione concordi qui e ora con uno stato di cose dato. Il rapporto concerne piuttosto il significato proposizionale identico e lo stato di cose identico. La ((validità» o l'(mggettualità» (ovvero !'«invalidità» o la «mancanza di oggetto») non spetta all'enunciato in quanto vissuto temporale determinato, ma all'e ­ nunciato in specie, all'enunciato (puro e identico) 2 x 2 = 4 ecc. Soltanto in questa concezione è vero che compiere un giudizio U (cioè un giudizio che abbia contenuto, ovvero uno statuto di significato U) nel modo di un giudizio evidente, e comprendere con evidenza che sussiste la verità U, è la stessa cosa. E correlativamente comprendiamo con evidenza che nessu­ na evidenza può contestare la nostra - nella misura in cui l'una e l'altra sono realmente delle evidenze. Questo infatti significa soltanto che ciò che è «vis­ suto» come vero è anche assolutamente vero, non può essere falso. Ma ciò ri­ sulta dal nesso essenziale generale tra vissuto della verità e verità. Soltanto per la nostra concezione viene quindi escluso quel dubbio al quale non può sfug­ gire la concezione dell'evidenza come sentimento che si aggiunge accidental­ mente e che equivale manifestamente a un totale scetticismo: il dubbio che, quando noi abbiamo l'evidenza del sussistere di U, qualcuno possa avere l'evi-

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denza che sussista U· incompatibile con U il dubbio che possa verificarsi un insolubile conflitto di evidenze con evidenze. In questo modo comprendiamo anche perché il sentimento dell'evidenza non possa avere altra condizione pre­ liminare essenziale, se non la verità del contenuto giudicativo corrispondente. Infatti, come è ovvio che dove non c'è nulla, nulla si possa vedere, non meno ovvio è che dove non c'è alcuna verità, non può esserci neppure qualcosa co­ me un vedere in verità (Wahreinsehen), in altre parole, alcuna evidenza (cfr. Sesta ricerca, cap. v). -

IX. La logica e il principio dell'economia del pensiero

52. Introduzione Strettamente affine allo psicologismo, la cui confutazione ci ha finora occupati, è un'altra forma di fondazione empiristica della logica e della teoria della cono­ scenza che negli ultimi anni si è particolarmente diffusa: la fondazione biologica di queste discipline per mezzo del principio della minima energia, secondo la de­ finizione di Avenarius, oppure dell'economia del pensiero, secondo la definizione di Mach. Che questo nuovo indirizzo sfoci ancora una volta nello psicologismo risulta chiarissimo dalla Psychologie di Cornelius. In quest'opera, il principio in questione viene espressamente posto come «legge fondamentale dell'intelletto» e al tempo stesso come «legge psicologica fondamentale e generale».1 La psicolo­ gia (in particolare la psicologia dei processi conoscitivi) costruita su questa legge fondamentale, dovrebbe al tempo stesso offrire le basi alla filosofia. 2

A me sembra che le idee presenti in queste teorie sull 'economia del pen­ siero, peraltro legittime e feconde quando siano intese entro limiti opportuni, contengano una direzione che se fosse assunta nella sua globalità significhe­ rebbe da un lato la perdita di ogni logica e teoria della conoscenza autentica, dali 'altro la perdita della psicologia. 3 Noi discuteremo anzitutto il carattere del principio di Mach-Avenarius considerato come principio teleologico di adattamento; e a questo proposi­ to determineremo il suo nucleo di validità e i fini legittimi delle ricerche che possono fondarsi su di esso in rapporto all'antropologia psichica e alla dottri­ na pratica della scienza; dimostreremo infine che esso non è in grado di offri­ re alcun contributo per la fondazione della psicologia e in primo luogo della logica pura e della teoria della conoscenza.

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53. Il carattere teleologico del principio di Mach-Avenarius e il significato scientifico dell'economia del pensiero4 Comunque venga espresso tale principio, esso ha il carattere di un principio dell'evoluzione e dell'adattamento: esso concerne la concezione della scien­ za come adattamento dei pensieri ai diversi campi fenomenici - adattamento (economico, tendente al risparmio di energia) che sia il più possibile orienta­ to secondo un fine. Nella prefazione alla sua tesi di abilitazione,5 Avenarius formula questo principio con le parole seguenti: «La modificazione che l'anima comunica alle sue rappresentazioni quando intervengono nuove impressioni è la minima possibile». Ma subito dopo leg­ giamo: . leggiamo in un altro passo5 > e formule analoghe non debbono essere prese sul serio, come sappiamo da un esame attento della questione. Espressioni come discorsi senza giudizio o privi di senso debbono e possono essere interpretate alla stregua di espres­ sioni come uomo senza sentimento, senza idee, privo di spirito ecc. Con discor­ so senza giudizio non intendiamo evidentemente un discorso dal quale siano assenti gli atti giudicativi, ma un discorso che non sia frutto di considerazio­ ni assennate e autonome. Anche l'«insensatezza» intesa come assurdità (con­ trosenso) si costituisce nel senso: inerisce al senso dell'espressione assurda il rimandare intenzionalmente a qualcosa che non è obiettivamente unificabile.

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I sostenitori della teoria opposta non possono far altro che correre ai ri­ pari formulando l' ipotesi di emergenza secondo la quale esisterebbero intu­ izioni inconsce e inavvertite. Ma che questa ipotesi sia ben poco di aiuto, lo dimostra l'esame della funzione dell' intuizione fondante nei casi in cui essa è chiaramente presente. Nella stragrande maggioranza dei casi, essa non è af­ fatto adeguata all'intenzione significante. Comunque non sussiste qui alcuna difficoltà per la nostra concezione. Se la significatività non risiede nell'intui­ zione, il linguaggio privo di intuizione non sarà per questo necessariamente privo di idee. Se viene meno l'intuizione, all'espressione (nella coscienza sen­ sibile dell'espressione) continuerà a inerire un atto dello stesso genere degli atti che si riferiscono negli altri casi all 'intuizione e che eventualmente trasmet te la conoscenza del suo oggetto. Pertanto, in entrambi i casi è presente l 'atto nel quale si realizza il significare.

20. Il pensiero privo di intuizione e la > dei segni Deve essere ben chiaro che in ampi tratti del pensiero, non tanto del pensie­ ro vago e quotidiano, ma di quello rigorosamente scientifico, l'immagi nativi­ tà della traduzione intuitiva svolge una funzione minima, se non addirittura nulla, e che possiamo giudicare, inferire, riflettere e confutare, nel senso più attuale, sulla base di rappresentazioni «puramente simboliche)). Si descrive in modo assai inadeguato questa situazione, quando si parla a questo proposito di una funzione supplente dei segni, come se i segni stessi fossero i succedanei di qualcosa, e l 'interesse del pensiero, nel pensiero simbolico, fosse rivolto ai segni stessi. In realtà questi non sono affatto, e tanto meno lo sono secondo la modalità della supplenza, gli oggetti della considerazione del pensiero: noi vi­ viamo piuttosto interamente all' interno della coscienza del significato o del­ la comprensione, coscienza che non viene meno per la mancanza di intuizioni di accompagnamento. Si deve tenere presente che il pensiero simbolico è pen­ siero solo in virtù del nùovo carattere «intenzionale)) o carattere d'atto che co­ stituisce l'elemento distintivo del segno significativo, di fronte al segno «puro e semplice)), cioè al complesso fonetico, che si costituisce come oggetto fisico nelle rappresentazioni meramente sensibili. Questo carattere d'atto è un ele­ mento descrittivo nell'esperienza vissuta del segno che viene compreso, pur es­ sendo privo di un rimando intuitivo. A questa interpretazione del pensiero simbolico si obietterà forse che essa si trova in contrasto con i fatti più sicuri che siano emersi nell'analisi del pen­ siero simbolico-aritmetico su cui io stesso ho insistito in altra sede (nella Filo-

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sofia dell'aritmetica).3 In effetti, nel pensiero aritmetico i segni puri e semplici sono surrogati dei concetti. «Ridurre la teoria delle cose alla teoria dei segni>>,

per dirla con Lambert, è l'operazione messa in atto da ogni tecnica calcolisti­ ca. 1 segni aritmetici sono «scelti e perfezionati in modo tale che la teoria, la combinazione, la trasformazione ecc., dei segni può servire in luogo di ciò che altrimenti dovrebbe essere fatto con i concetti>>.4 Ma a un esame più attento, ci si rende conto che non sono i segni puramen­ te nel senso di oggetti fisici, e la teoria, la combinazione ecc., dei segni intesi in questo modo, che possono avere per noi qualche utilità. Tutto ciò cadrebbe nella sfera della scienza fisica, o della praxis, ma non in quella dell'aritmetica. 11 vero senso dei segni in questione si rivela nel momento in cui pensiamo al­ Ia ben nota similitudine tra le operazioni di calcolo e quelle che si compiono nei giochi che si svolgono secondo regole, come quello degli scacchi. Le figure degli scacchi non intervengono, nel gioco, come cose di avorio o di legno, che hanno una determinata forma o un determinato colore. Ciò che le costituisce dal punto di vista fisico o fenomenale è del tutto indifferente e può variare a piacere. Esse diventano figure degli scacchi, cioè pezzi del gioco in questione, in virtù delle regole del gioco che conferiscono a esse il loro preciso significato di gioco. Anche i segni aritmetici posseggono, accanto al loro significato origi­ nario, per così dire, il loro significato di gioco, un significato cioè orientato se­ condo il gioco delle operazioni di calcolo e delle sue ben note regole. Se si assumono i segni aritmetici puramente come pezzi di gioco nel senso definito da queste regole, la soluzione dei compiti del gioco calcolistico condu­ ce a segni numerici, a formule numeriche, la cui interpretazione nel senso dei significati originari, propriamente aritmetici, presenta al tempo stesso la solu­ zione dei compiti aritmetici corrispondenti. Nelle sfere del calcolo e del pensiero simbolico-aritmetico non si opera dunque con segni privi di significato. Non si tratta di «meri>> segni nel senso di segni fisici separati da qualsiasi significato, che sarebbero succedanei dei se­ gni originari e animati da significati aritmetici; surrogati dei segni aritmetica­ mente significativi sono piuttosto i medesimi segni, assunti però con un certo significato operazionale o di gioco. Un sistema di equivocazioni, che si forma­ no naturalmente e in certo senso in modo inconscio, diventa eccezionalmente fecondo; il lavoro mentale incomparabilmente maggiore che è richiesto dalle serie concettuali originarie, viene risparmiato mediante le operazioni «simbo­ liche>> più semplici effettuate nella serie parallela dei concetti-gioco. Ovviamente, è necessario fondare la legittimità di un simile procedimen­ to e determinare adeguatamente i suoi limiti; qui ci importa soltanto evitare la confusione nella quale facilmente si cade se si fraintende il senso del pensiero

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«puramente simbolico)) della matematica. Se si intende nel senso sopraindica­ to il discorso relativo ai «meri segni)) che nell'aritmetica servono come «suc­ cedanei)) dei concetti aritmetici (ovvero dei segni provvisti dei loro significati aritmetici), è chiaro anche che il richiamo alla funzione supplente dei segni arit­ metici non tocca in realtà il problema di cui qui ci occupiamo, se sia possibile l'espressione di un pensiero senza un'intuizione - illustrativa, esemplificativa, evidenziante - di accompagnamento. Un pensiero simbolico inteso come pri­ vo di intuizione in questo modo e un pensiero simbolico inteso come pensiero che si realizza con concetti operazionali sostitutivi sono cose diverse.

21. Dubbi relativi alla necessità di ritornare all'intuizione corrispondente per la chiarificazione dei significati e per la conoscenza delle verità che in essi si fondano Si potrebbe chiedere: se il significato dell'espressione che funge in modo pura­ mente simbolico risiede nel carattere d'atto che distingue l'apprensione com­ prensiva della parola-segno dall'apprensione di un segno privo di senso, come mai ritorniamo all 'intuizione per fissare le differenze di significato, per met­ tere in rilievo e in evidenza l'equivocità dei significati o delimitare le fluttua­ zioni dell'intenzione significante? E si potrebbe chiedere ancora: se è giusta la concezione qui sostenuta del concetto di significato, come mai, per comprendere le conoscenze che si fon­ dano puramente nei concetti, che sorgono cioè dalla pura e semplice analisi dei significati, ci serviamo dell'intuizione corrispondente? In effetti, si dice ge­ neralmente che per portare a >, si intende appunto qualcosa di diver­ so da ciò che queste parole suggeriscono. Si intendono conoscenze che, per essere evidenti, richiedono soltanto la presentificazione delle «essenze con­ cettuali» nelle quali trovano pieno riempimento i significati verbali generali, mentre resta fuori gioco il problema dell'esistenza di oggetti corrispondenti ai concetti o sussunti sotto le essenze concettuali. Ma queste essenze concettuali non sono affatto i significati verbali stessi, ragione per cui le due formulazioni «fondarsi puramente nei concetti (cioè nelle essenze)» e «Sorgere dalla pura e semplice analisi dei significati» possono significare la stessa cosa solo per via di un'equivocazione. In realtà, queste essenze concettuali non sono di volta in volta altro che il senso riempiente, che è «dato», mentre i significati delle pa­ role (o meglio, le loro intenzioni significanti) terminano nelle corrispondenti rappresentazioni semplicemente intuitive e in certe elaborazioni o formazioni intellettuali delle medesime. L'analisi di cui si è detto non riguarda dunque le vuote intenzioni significanti, ma le forme e le oggettualità che danno loro ri­ empimento. Perciò essa non presenta neppure enunciati su mere parti o rap­ porti di significati, ma necessità evidenti in rapporto agli oggetti in generale, pensati nei significati in questo e in quel modo determinato. Queste considerazioni ci rimandano naturalmente a una sfera di analisi fe­ nomenologiche, già più volte riconosciute come indispensabili, che debbono portare a evidenza le relazioni a priori tra significato e conoscenza, cioè tra si­ gnificato e intuizione chiarificante, e quindi conferire piena chiarezza anche al nostro concetto di significato, mediante la distinzione del senso riempiente e l' indagine sul senso di questo riempimento.

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22. I differenti caratteri della comprensione e la «qualità dell'essere noto>> La nostra concezione presuppone una certa differenziazione, anche se non del tutto netta, tra i caratteri d'atto che conferiscono il significato anche nei casi in cui queste intenzioni significanti mancano di traduzione intuitiva. E in effetti non si può pensare che le «rappresentazioni simboliche» che dominano la com­ prensione, ovvero l'uso significativo dei segni, siano descrittivamente equivalen­ ti, che esse abbiano un carattere indifferenziato, identico per tutte le espressioni: quasi che la differenza fosse data soltanto dai meri complessi fonetici, veicoli sen­ sibili e accidentali dei significati. Avvalendosi di esempi di espressioni equivoche, ci si convince facilmente che possiamo riconoscere ed effettuare l'improvvisa variazione di significato senza aver il minimo bisogno di traduzioni intuitive di accompagnamento. La differenza descrittiva, che qui evidentemente viene al­ la luce, non può concernere il segno sensibile, che resta infatti lo stesso, ma ri­ guarda necessariamente il carattere d'atto che si modifica nella sua specificità. Dobbiamo ancora una volta riferirei ai casi in cui il significato resta identico, mentre la parola si modifica, come quando ci si trova in presenza di differenze puramente idiomatiche. In questo caso i segni diversi dal punto di vista sensi­ bile hanno per noi lo stesso significato (talvolta parliamo persino della «Stessa» parola, e l'unica differenza consiste nel fatto che essa appartiene a lingue diver­ se): essi ci sembrano immediatamente «identici», ancor prima che la fantasia ri­ produttiva ci possa fornire immagini per la traduzione intuitiva del significato. Al tempo stesso, in rapporto a esempi come questi, ci appare l'insosteni­ bilità dell'idea, che in un primo tempo poteva sembrare plausibile, secondo la quale il carattere di comprensione non sia altro, in ultima analisi, che ciò che RiehP ha definito come «Carattere dell'essere noto» e Hoffding,6 in modo me­ no pertinente, come «qualità dell'essere noto».7 Anche parole non comprese ci possono apparire come note da tempo; versi greci imparati a memoria restano saldi nel ricordo molto più a lungo della comprensione del loro senso: essi sem­ brano ancora ben noti, pur non essendo più compresi. Spesso la comprensione prima mancante viene in un secondo tempo a illuminarci (e ciò può accadere ancor prima dell'intervento delle espressioni di traduzione nella propria lin­ gua, o di altri sostegni del significato), e il carattere di comprensione si aggiun­ ge allora al carattere dell'essere noto come qualcosa di manifestamente nuovo, conferendo al contenuto un nuovo carattere psichico, ma senza mutarlo dal punto di vista sensibile. Ricordiamo infine come una lettura o una recitazione meccanica di poesie da tempo note si trasformi in una lettura o in una recita­ zione comprensiva. Vi è perciò una gran quantità di esempi che rendono evi­ dente la peculiarità del carattere di comprensione.

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23. L'appercezione nell'espressione e nelle rappresentazioni intuitive

Poiché ogni apprendere è in certo senso un comprendere o un interpretare, l'apprensione comprensiva8 nella quale si effettua la significatività di un segno, è affine alle apprensioni oggettivanti (che si effettuano in diverse forme), nel­ le quali, per mezzo di una complessione vissuta di sensazioni, sorge per noi la rappresentazione intuitiva (percezione, immaginazione, raffigurazione ecc.) di un oggetto (per es. di una cosa «esterna»). Tuttavia, la struttura fenomenologi­ ca delle due forme di apprensione è considerevolmente diversa. Se noi imma­ giniamo una coscienza anteriore a ogni esperienza, essa avrà la nostra stessa possibilità di avere sensazioni. Ma essa non vedrà le cose o gli eventi concre­ ti, non percepirà gli alberi e le case, il volo degli uccelli o l'abbaiare del cane. Si sarebbe quasi tentati di esprimere questa situazione nei termini seguenti: a una coscienza di questo genere le sensazioni non significano nulla, non han­ no per essa il valore di segni delle proprietà di un oggetto, la loro complessio­ ne non è segno dell'oggetto stesso; esse vengono semplicemente vissute, ma sono prive di un'interpretazione oggettivante (che sorga dall'«esperienza»). Si può qui parlare di significato e di segno così come nel caso delle espressioni e dei segni affini. Non si deve però fraintendere ciò che qui si è detto, per analogia, nel ca­ so della percezione (al quale ci limitiamo per semplicità), come se la coscien­ za si rivolgesse alle sensazioni, trasformandole in oggetti di una percezione e di un'interpretazione fondata anzitutto in esse: così come avviene nel caso degli oggetti fisici consaputi di fatto in modo oggettuale, i quali, come i complessi fo­ netici, fungono in senso proprio come segni. Le sensazioni diventano oggetti di rappresentazione manifestamente soltanto nella riflessione psicologica, mentre esse sono in realtà, nel rappresentare intuitivo ingenuo, componenti del vissu­ to rappresentativo (parti di un contenuto descrittivo), ma non suoi oggetti. La rappresentazione percettiva si realizza per il fatto che il complesso vissuto di sensazioni è animato da un certo carattere di atto, da un certo apprendere o in­ tendere; e proprio per questo ciò che si manifesta è l'oggetto percepito, e non il complesso di sensazioni e l'atto nel quale si costituisce l'oggetto percepito co­ me tale. L'analisi fenomenologica insegna anche che il contenuto della sensa­ zione fornisce, per così dire, un materiale costruttivo analogico per il contenuto dell'oggetto rappresentato mediante essa: perciò si parla, da un lato, di colori, estensioni, intensità date nella sensazione, dall'altro di colori, estensioni, inten­ sità percepite (o rappresentate). Ciò che corrisponde a entrambi gli aspetti non è affatto qualcosa di identico, ma soltanto qualcosa di affine secondo il genere, come ci si può facilmente convincere sulla base di alcuni esempi: noi non ab-

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biamo avuto sensazione della colorazione omogenea della sfera che noi vediamo (percepiamo, rappresentiamo ecc.). Ora, nel caso dei segni intesi come espressioni, troviamo alla base un'«interpretazione» di questo genere, ma soltanto come prima apprensione. Se consideriamo il caso più semplice, in cui l'espressione viene compresa, senza tuttavia essere animata da alcuna intuizione illustrativa, dalla prima appren­ sione sorge allora il manifestarsi del mero segno (per es. il complesso fonetico), dato qui e ora. Questa prima apprensione fonda tuttavia una seconda appren­ sione, che va del tutto al di là del materiale vissuto di sensazione e non trova più in esso il suo materiale costruttivo analogico per l'oggettualità ora inten­ zionata, che è assolutamente nuova. Quest'ultima è intenzionata nel nuovo at­ to del significare, ma non si presenta nella sensazione. Il significare, il carattere del segno espressivo, presuppone appunto il segno in rapporto al quale esso si­ gnifica. O, in termini puramente fenomenologici: il significare è un carattere d'atto che assume questa o quella impronta e che presuppone come fondamen­ to necessario un atto del rappresentare intuitivo. È in quest'ultimo che l'espres­ sione si costituisce come oggetto fisico. Ma essa diventa espressione, in senso pieno e autentico, solo mediante l'atto fondato. Ciò che è vero per il caso più semplice dell'espressione compresa senza in­ tuizione, dovrà anche essere vero nei casi più complicati in cui l'espressione è intessuta con un'intuizione corrispondente. Anzi, una stessa espressione, usa­ ta significativamente con o senza un'intuizione illustrativa non può attingere la propria significatività da atti di genere diverso. Non è certo facile analizzare la situazione descrittiva nelle sue diramazioni e nelle sue articolazioni più sottili, qui non considerate. In particolare, presenta molte difficoltà comprendere correttamente la funzione delle rappresentazio­ ni che realizzano la traduzione intuitiva - il rafforzamento e persino l'eviden­ ziazione dell'intenzione significante che esse operano, il loro rapporto con il carattere della comprensione o del significato, carattere che serve come vis­ suto conferitore di senso già nell'espressione non intuitiva. Vi è qui un esteso campo per l'analisi fenomenologica, un campo che il logico non può eludere se vuole chiarire il rapporto tra significato e oggetto, tra giudizio e verità, tra intenzione non chiara ed evidenza verificante. In seguito, ci dovremo impe­ gnare più a fondo in analisi di questo genere.9

III. La fluttuazione dei significati delle parole e l'idealità dell'unità di significato

24. Introduzione

Nel capitolo precedente ci siamo occupati dell'atto di significare. Nelle considera­ zioni svolte nel primo capitolo avevamo tuttavia distinto dal significare come at­ to, il significato stesso, l'unità ideale di fronte alla molteplicità degli atti possibili. Si tratta di una distinzione provvista in innumerevoli casi di un'indubbia chiarezza, così come tutte le altre che sono a essa collegate: la distinzione tra contenuto espresso in senso soggettivo e oggettivo e, in rapporto a quest'ul­ timo, tra il contenuto come significato e il contenuto come denominazione. Così, per esempio, nel caso di tutte le espressioni che si trovano inserite all'in­ terno di una teoria scientifica esposta in maniera adeguata. Ma vi sono anche casi in cui accade altrimenti. Si richiede allora un'attenzione particolare, per­ ché si tende qui a confondere ancora una volta le distinzioni ottenute. Sono ora le espressioni fluttuanti rispetto al significato, e specialmente le espressioni per essenza occasionali e vaghe, che presentano serie difficoltà. Tema del presente capitolo è la soluzione di queste difficoltà mediante la di­ stinzione tra gli atti fluttuanti del significare e i significati idealmente unitari tra i quali essi oscillano. 25. Rapporti di coincidenza tra i contenuti dell'informazione

e della denominazione Le espressioni possono riferirsi, oltre che ad altri oggetti, anche ai vissuti psichi­ ci presenti di colui che si pronuncia in esse. A questo proposito le espressioni si

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dividono in espressioni che rendono nota l'oggettualità nel momento in cui la de­ nominano (o in generale la designano) e in espressioni nelle quali vi è divergen­ za tra il contenuto denominato e il contenuto reso noto. Esempi relativi alla prima classe sono offerti dalle proposizioni interrogative, ottative, imperative; per la se­ conda classe le proposizioni enunciative che si riferiscono a cose esterne, ai pro­ pri vissuti psichici passati, a relazioni matematiche ecc. Se qualcuno esprime il desiderio «vorrei un bicchiere d'acqua)), per chi ascolta questa frase è un segnale del desiderio di chi parla. Ma questo desiderio è anche oggetto dell'enunciato. Ciò che è reso noto e ciò che viene denominato arrivano qui a coincidere parzialmen­ te. Si tratta di una coincidenza parziale, perché l'informazione ha evidentemente una maggiore estensione. A essa appartiene anche il giudizio che si esprime nel­ le parole «vorrei ecc.)). La stessa cosa si verifica naturalmente anche nel caso degli enunciati che enuncino qualcosa sul rappresentare, giudicare, presumere di chi parla, che hanno cioè la forma io mi rappresento, io sono dell'avviso, io giudico, io presumo ecc., che . . Il caso della totale coincidenza pare anzi a prima vista possi­ bile, come nell'e sempio i vissuti psichici che io rendo noti nelle parole or ora pro­ nunciate, anche se, a un esame più attento, l'interpretazione di questo esempio non sembra sostenibile. Di contro, in enunciati come 2 x 2 4, l'informazione e lo stato di cose espresso sono completamente disgiunti. Questa proposizione non ha affatto lo stesso significato della proposizione: io giudico che 2 x 2 = 4. Anzi, esse non sono neppure equivalenti; l'una può essere vera, l'altra falsa. Certo, bisogna notare che, in una formulazione più ristretta del concetto di informazione (nel senso definito in precedenza)1 gli oggetti denominati degli esempi precedenti non cadrebbero più nel campo dei vissuti resi noti. Chi enun­ cia qualcosa sui propri vissuti psichici momentanei, comunica la loro presenza con un giudizio. Solo per il fatto che rende noto questo giudizio (che ha appun­ to come contenuto che egli desidera, spera ecc., questa o quella cosa), egli viene appercepito dall'ascoltatore come colui che desidera, spera ecc. Il significato di un simile enunciato risiede in questo giudizio, mentre i corrispondenti vissuti interni appartengono agli oggetti sui quali viene pronunciato il giudizio. Ora, se si attribuiscono all'informazione in senso stretto solo i vissuti indicati che portano in sé il significato dell'espressione, i contenuti dell'informazione e del­ la denominazione restano distinti in questo come in ogni altro caso. .

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26. Espressioni essenzialmente occasionali ed espressioni obiettive Le espressioni che si trovano in una relazione denominativa con il contenuto " momentaneo dell'informazione appartengono all'insieme più ampio di espres-

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sioni il cui significato varia di caso in caso. Ma ciò avviene in un modo così peculiare che si esiterà a parlare in questo caso di equivocazione. Le medesi­ me parole io ti auguro felicità, con le quali ora io do espressione a un augurio, possono servire a infinite altre persone per dare espressione ad auguri che han­ no lo «stesso» contenuto. Eppure sono di volta in volta diversi non soltanto gli auguri, ma anche il significato degli enunciati ottativi. Poniamo che la perso­ na A si trovi in presenza della persona B e che la persona M si trovi di fronte alla persona N. Se A augura a B la «stessa» cosa che M a N, il senso della pro­ posizione ottativa è manifestamente diverso, dal momento che esso implica )a rappresentazione delle persone che si trovano di fronte. Questa plurivoci­ tà è tuttavia del tutto diversa, per esempio, da quella della parola Hund (cane) che ora significa una specie animale, ora una sorta di vagoncino (come quel­ li che si usano nelle miniere). Ogni volta che si parla di equivocazione, si pen­ sa di solito alla classe delle espressioni plurivoche, indicata da quest'ultimo esempio. Ma in questo caso la plurivocità non è in grado di scuotere la nostra convinzione dell'idealità e dell'obiettività del significato. Noi abbiamo infatti la facoltà di limitare una simile espressione a un solo significato, e in ogni ca­ so l'unità ideale di uno qualsiasi dei diversi significati non viene toccata dal­ la circostanza accidentale che essi ineriscono a designazioni uguali. Ma come stanno le cose con le altre espressioni? È ancora possibile mantenere l'unità identica di significato, che abbiamo chiarita contrapponendola al variare delle persone e dei loro vissuti, dato che ora i significati dovrebbero variare appun­ to con le persone e i loro vissuti? Evidentemente non si tratta qui di plurivoci­ tà accidentali, ma inevitabili, che non possono essere sottratte alle lingue con mezzi tecnici e convenzioni. Al fine di ottenere una maggiore chiarezza distinguiamo tra le espressioni es­ senzialmente soggettive e occasiona/i da un lato e le espressioni obiettive dall'al­ tro. Per semplicità ci limitiamo alle espressioni che fungono in modo normale. Definiamo obiettiva un'espressione quando a essa si connette, o può con­ nettersi, un significato solo mediante la sua struttura di fenomeno sonoro, e che perciò può essere compresa senza che sia necessario tener conto del­ la persona che si pronuncia e delle circostanze nelle quali essa si pronuncia. Un'espressione obiettiva può, e in modi diversi, essere equivoca; rispetto alla pluralità dei significati, essa si trova nel rapporto or ora descritto, e per que­ sta ragione quale sia il significato che essa di volta in volta di fatto suscita e in­ dica dipende da circostanze psicologiche (dalla casuale direzione di pensiero dell'ascoltatore, da ciò che è già stato detto nel corso della conversazione, dalle tendenze suscitate in essa ecc.). Può essere che anche da questo punto di vista sia utile considerare la persona che conversa e la sua situazione. Ma che la pa-

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rola sia o possa essere in generale compresa in uno di questi significati non di­ pende da questa considerazione, come se essa fosse una conditio sine qua non. Definiamo invece essenzialmente soggettiva e occasionale o, in breve, essen­ zialmente occasiona/e, ogni espressione alla quale inerisca un gruppo concet­ tualmente unitario di significati possibili in modo tale che sia per essa essenziale orientare il suo significato attuale particolare secondo l'occasione, la persona che parla e la sua situazione. Solo in rapporto alle circostanze di fatto nelle qua­ li ci si esprime si può costituire per l'ascoltatore un significato determinato tra tutti i significati coerenti. Nella rappresentazione di queste circostanze e nel lo­ ro rapporto, sottoposto a certe regole, con l'espressione stessa, debbono quindi esserci - sempre che la comprensione si realizzi in condizioni normali - spun­ ti afferrabili da parte di ciascuno e sufficientemente sicuri che consentano all'a­ scoltatore di orientarsi verso il significato inteso in quel caso determinato. Alle espressioni obiettive appartengono, per esempio, tutte le espressioni te­ oretiche, quindi quelle espressioni sulle quali si basano i princìpi fondamentali e i teoremi, le dimostrazioni e le teorie delle scienze «astratte)). Per esempio, sul significato di un'espressione matematica non hanno il minimo influsso le circo­ stanze del discorso attuale. Noi la leggiamo e la comprendiamo senza pensare affatto a un parlante. Le cose stanno del tutto altrimenti nel caso delle espres­ sioni che servono ai bisogni pratici della vita comune, così come nel caso delle espressioni che servono nelle scienze come strumenti ausiliari per l'appresta­ mento di risultati teoretici. Penso cioè alle espressioni con le quali lo scienziato accompagna le proprie attività mentali o rende note ad altri le proprie riflessio­ ni e i propri sforzi, i suoi apparati metodogici e le sue convinzioni provvisorie. Già ogni espressione che contiene un pronome personale manca di un senso obiettivo. La parola io designa di volta in volta una persona diversa, assumen­ do così un significato sempre nuovo. Si può decidere quale sia di volta in volta questo significato solo a partire dal discorso vivente e dalle circostanze intui­ tive che gli sono proprie. Se leggiamo questa parola senza sapere da chi è sta­ ta scritta, essa sarà per noi, se non priva di significato, quanto meno estraniata dal suo significato normale. Naturalmente, essa ci sembra qualcosa di diverso da un arabesco qualsiasi; noi sappiamo che essa è una parola, una parola ap­ punto con la quale chi parla indica di volta in volta se stesso. Ma la rappresen­ tazione concettuale suscitata in questo modo non è il significato della parola io. Altrimenti potremmo sostituire a io semplicemente colui che parla di volta in volta indicando se stesso. È chiaro che la sostituzione condurrebbe non soltan­ to a espressioni insolite ma di significato diverso: come se invece di dire io sono contento dicessimo colui che parla di volta in volta indicando se stesso è conten­ to. Indicare colui che parla di volta in volta è la generale funzione di significato

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della parola io, ma il concetto con il quale noi esprimiamo questa funzione non è il concetto che costituisce immediatamente e di per se stesso il suo significato. Nel discorso isolato il significato di io si realizza essenzialmente nella rap­ presentazione immediata della propria personalità, e in ciò risiede anche il si­ gnificato della parola nel discorso comunicativo. Ogni soggetto che parla ha la propria rappresentazione egologica (e quindi il proprio concetto individuale di io): in ognuno il significato della parola è dunque diverso. Ma poiché ognu­ no, nel momento in cui parla di se stesso, dice io, la parola possiede il caratte­ re di un segnale universalmente efficace di questo fatto. Per mezzo di questa indicazione, l'ascoltatore realizza la comprensione del significato, egli intende ora la persona che gli sta intuitivamente di fronte non soltanto come perso­ na che parla, ma anche come oggetto immediato del suo parlare. La parola io non ha in sé la forza di suscitare direttamente la particolare rappresentazione egologica che determina il suo significato in un certo discorso. Essa non opera come la parola leone che può in se stessa e di per se stessa suscitare la rappre­ sentazione del leone. Essa è piuttosto il veicolo di una funzione indicativa, che in certo senso si appella all'ascoltatore: colui che hai di fronte intende se stesso. A questo punto dobbiamo tuttavia aggiungere una considerazione ulterio­ re. A vedere più esattamente la cosa, non bisogna intendere tutto ciò come se la rappresentazione immediata della persona che parla afferri in sé il completo e intero significato della parola io. Certamente noi non possiamo considerare que­ sta parola come un'espressione equivoca i cui significati possono essere identi­ ficati con quelli di tutti i possibili nomi propri di persona. È chiaro che anche la rappresentazione, dell'intendere-se-stesso e del rimando, in essa implicito, alla rappresentazione individuale diretta della persona che parla, appartiene in cer­ to modo al significato della parola. Dobbiamo senz'altro ammettere che in que­ sto caso sono reciprocamente strutturati, in forma peculiare, due significati. Il primo, relativo alla funzione generale, è connesso con la parola in modo tale che nel rappresentare attuale si può effettuare una funzione indicativa; questa, a sua volta, si avvantaggia dell'altra rappresentazione, della rappresentazione singola­ re, e rende al tempo stesso noto il suo oggetto, nel modo della sussunzione, come ciò che è inteso hic et nunc. Potremmo perciò caratterizzare il primo significato come indicante, il secondo come indicato. 2 Ciò che vale per i pronomi personali, vale naturalmente anche per i pronomi dimostrativi. Se qualcuno dice questo, non suscita direttamente nell'ascoltatore la rappresentazione di ciò che egli intende, ma anzitutto la rap­ presentazione o la convinzione che egli intenda qualcosa che si trova nel suo ambito dell'intuizione o del pensiero, su cui egli vuole richiamare l'attenzio­ ne dell'ascoltatore. Nelle circostanze concrete del discorso, si tratta di un'idea

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sufficientemente orientativa in rapporto a ciò che viene effettivamente inteso. Ma se leggiamo questo nella sua singolarità, esso manca di nuovo del suo si­ gnificato proprio, e viene compreso solo nella misura in cui suscita il concetto della sua funzione di rimando (ciò che noi chiamiamo il significato indican­ te della parola). Ma il significato pieno e reale può tuttavia dispiegarsi, nel suo fungere normale, solo sulla base della rappresentazione, che si impone, di ciò a cui ci si riferisce oggettualmente. Bisogna notare tuttavia che spesse volte il dimostrativo funge in un mo­ do che potremmo ritenere equivalente a quello oggettivo. In un contesto ma­ tematico, un questo rimanda a qualcosa che è rigidamente determinato dal punto di vista concettuale, e che sarà compreso nella sua determinatezza sen­ za bisogno di tener in qualche conto la sua espressione attuale. Per esempio, se una esposizione matematica, dopo aver espressamente indicata una certa pro­ posizione, continua: questo consegue dal fatto che . . , il questo potrebbe essere qui sostituito, senza provocare modificazioni di senso di qualche rilievo, dalla stessa proposizione in questione, e ciò per via del senso oggettivo dell'esposi­ zione stessa. Naturalmente bisogna badare alla sua coerenza e alla sua conti­ nuità poiché al dimostrativo in sé e per sé non appartiene il significato inteso, ma soltanto l'idea del rimando. La mediazione effettuata tramite un significa­ to indicante è qui soltanto in funzione della brevità e serve per orientare e di­ rigere più facilmente le intenzioni del pensiero secondo un filone principale. Ma è chiaro che lo stesso non si può dire per i casi più comuni nei quali il que­ sto che opera il rinvio o forme analoghe intendono, per esempio, la casa che si trova di fronte a colui che parla, l'uccello che prende il volo di fronte a lui ecc. Qui deve intervenire l 'intuizione individuale (che varia di caso in caso): non basta rifarsi alle idee oggettive espresse in precedenza. Alla sfera delle espressioni essenzialmente occasionali appartengono inol­ tre le determinazioni riferite al soggetto qui, là, sopra, sotto oppure ora, ieri, domani, dopo ecc. Qui indica, per fare ancora qualche riflessione su un ulti­ mo esempio, l'ambito parziale, delimitato in modo vago, che sta intorno a co­ lui che parla. Chi usa questa parola intende il luogo che occupa sulla base della rappresentazione intuitiva e della posizione della sua persona con la sua loca­ lizzazione. Quest'ultima varia di caso in caso e da persona a persona, mentre ognuno può tuttavia dire qui. Denominare l 'ambito spaziale della persona che parla è ancora la funzione generale di questa parola, una funzione secondo la quale il significato vero e proprio della parola si costituisce soltanto sulla ba­ se della singola rappresentazione di questo luogo. Non c'è dubbio che il signi­ ficato abbia un carattere concettuale generale, almeno nella misura in cui qui denomina sempre un luogo in quanto tale; ma a questa generalità si aggiunge, .

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variando di caso in caso, la diretta rappresentazione di luogo che, nelle circo­ stanze date del discorso, acquista il carattere della comprensibilità mediante la rappresentazione concettuale indicante del qui e viene sussunta sotto di essa. Il carattere essenzialmente occasionate va naturalmente riferito a tutte le espressioni che contengono come proprie parti queste e analoghe rappresenta­ zioni, comprendendo così tutte le molteplici forme di discorso nelle quali colui che parla porta a espressione normale qualunque cosa che lo riguardi o che sia concepito in relazione a se stesso. Quindi, tutte le espressioni relative alle per­ cezioni, convinzioni, dubbi, desideri, speranze, timori, comandi ecc. In que­ sto caso rientrano anche tutti i costrutti con l'articolo determinativo, nei quali esso viene riferito a qualcosa di individuale, a qualcosa che è determinato so­ lo mediante concetti di classi o di qualità. Quando noi tedeschi diciamo «l'im­ peratore» intendiamo naturalmente l'attuale imperatore della Germania. Se di sera chiediamo il lume, ognuno intenderà il proprio. Nota. Le espressioni di significato essenzialmente occasionali considerate in questo paragrafo non possono essere ordinate secondo l 'utile divisione, proposta da Pau!, tra espressioni che hanno significato usuale (usuell) ed espressioni che hanno significato occasionale. Questa divisione ha le sue ragioni nel fatto che e quello di ((concetto>> intesi come specie non coincidono Abbiamo detto che i significati formano una classe di «oggetti generali>> o di specie. Invero ogni specie presuppone, se vogliamo parlare di essa, un signifi­ cato nel quale essa è rappresentata, e questo significato è a sua volta una specie. Ma il significato nel quale viene pensata una specie, e il suo oggetto - la specie stessa - non sono la medesima cosa. Come nel campo dell'individuale distin­ guiamo, per esempio, tra Bismarck stesso e le rappresentazioni che si possono avere di lui, come Bismarck - il più grande uomo di stato tedesco ecc., nello stes­ so modo, nel campo dello specifico, distinguiamo, per esempio, tra il numero 4

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stesso e le rappresentazioni (o i significati) che hanno come oggetto il 4, come il numero 4 il secondo numero pari della serie di numeri ecc. Quindi la gene­ ralità che noi pensiamo, non si risolve nella generalità dei significati nei quali la pensiamo. Senza toccare il fatto che i significati sono come tali oggetti gene ­ rali, in rapporto agli oggetti a cui si riferiscono essi si distinguono in significat i individuali e speciali, o - come preferiremmo dire per ben comprensibili ra­ gioni di linguaggio - generali (genereli). Le rappresentazioni individuali come unità di significato saranno perciò generalia, mentre i loro oggetti individualia. -

34. Nell'atto del significare il significato non arriva alla coscienza come oggetto Abbiamo detto che, nel vissuto attuale di significato, al significato unitario corrisponde un elemento individuale come caso singolo di quella specie: così come alla differenza specifica «rosso» corrisponde, nell'oggetto rosso, il mo­ mento del rosso. Se noi effettuiamo l'atto, e viviamo, per così dire, in esso, na­ turalmente intendiamo il suo oggetto e non il suo significato. Se, per esempio, effettuiamo un enunciato, esprimiamo un giudizio sulla cosa corrispondente e non sul significato della proposizione enunciativa, sul giudizio in senso logi­ co. Questo diventa oggetto per noi in un atto riflessivo del pensiero, nel quale non ci limitiamo a ritornare con lo sguardo sull'enunciato effettuato, ma com­ piamo l'astrazione (o, per dir meglio, l'ideazione) che qui si richiede. Questa riflessione logica non è, per così dire, un atto che ha luogo in condizioni ar­ tificiose e quindi in via del tutto eccezionale; esso è, al contrario, un elemen­ to costitutivo normale del pensiero logico. Ciò che caratterizza quest'ultimo è la connessione teoretica e l'investigazione teoretica che ha di mira tale con­ nessione e che si realizza in riflessioni procedenti di grado in grado dirette ai contenuti degli atti di pensiero appunto compiuti. A titolo di esempio, ci po­ tremmo servire di una forma molto comune di questo genere di investigazio­ ne. «S è p? Poniamo di sì. Ma da questa proposizione consegue l'essere di M. Ma M non può essere; quindi ciò che io ritenevo possibile, cioè che S sia p, è ne­ cessariamente falso ecc.» Si guardi alle parole in corsivo e alle ideazioni espres­ se in esse. Questa proposizione che S sia p, che è il tema che attraversa l'intera argomentazione, non è evidentemente il fuggevole momento di significato nel primo atto mentale in cui era emerso per noi questo pensiero, ma nella rifles­ sione logica, compiuta nei passi ulteriori, si continua a intendere il significato proposizionale che noi apprendiamo, nella connessione unitaria del pensiero, come unico e medesimo, nell'ideazione e nell'identificazione. La stessa cosa

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accade ogni qual volta si svolge una fondazione teoretica unitaria. Non pos­ siamo esprimere nessun dunque, se non abbiamo prima gettato uno sguardo sullo statuto di significato delle premesse. Mentre giudichiamo le premesse, non viviamo soltanto nei giudizi, ma riflettiamo sui contenuti del giudizio; solo se si guarda a essi la conclusione appare motivata. Proprio in questo mo­ do, e solo in questo modo, la forma logica delle premesse (che certo non giun­ ge a quella distinzione generale-concettuale che trova la sua espressione nelle fo rmule inferenziali) può diventare con evidenza determinante per la deriva­ zione della conclusione.

35. Significati «in sé» e significati espressi Finora abbiamo parlato prevalentemente di significati che, come dice già la parola, la quale nel suo uso normale ha un senso relativo, sono significati di espressioni. Tuttavia, non sussiste di per sé alcun nesso necessario tra le uni­ tà ideali che fungono di fatto come significati e i segni ai quali essi sono le­ gati, cioè per mezzo dei quali essi si realizzano nella vita psichica dell'uomo. Non possiamo quindi neppure affermare che tutte le unità ideali di questo ge­ nere sono significati dati in un'espressione. Ogni caso di formazione di nuovi concetti ci insegna come si realizza un significato che in precedenza non era ancora realizzato. Come i numeri - nel senso che si presume ideale dell'arit­ metica - non appaiono e scompaiono con l'atto del contare, e la serie numeri­ ca infinita rappresenta perciò un sistema fissato oggettivamente e nettamente delimitato da una legalità ideale, di oggetti generali che nessuno può accresce­ re o diminuire; così accade anche per le unità ideali, puramente logiche: per i concetti, le proposizioni, le verità; in breve, per i significati logici. Essi formano un sistema idealmente chiuso di oggetti generali, ai quali è accidentale il fatto che siano pensati o espressi. Vi sono dunque innumerevoli significati che sono, nel senso comune relativo del termine, significati meramente possibili, mentre essi non vengono mai a espressione e non potranno mai venire a espressione a causa dei limiti delle forze di conoscenza dell'uomo.

SECONDA RICERCA

L'unità ideale della specie e le teorie moderne dell'astrazione

Intro duzione

Secondo ciò che abbiamo esposto nella ricerca precedente, noi cogliamo l'uni­ significare che distin­ gue, nella sua impronta determinata, la coscienza di significato di una certa espressione da quella di un'espressione di senso diverso. Con ciò naturalmen­ te non è detto che questo carattere d'atto sia il concreto sul cui fondamento si costituisce per noi il significato come_�Feç�)l concreto in questione è piutto­ sto l'intero vissuto dell'espressione compresa nel quale risiede quel carattere come impronta animatrice. Il rapporto tra il significato e l'espressione signi­ ficante o la sua impronta di significato è lo stesso che intercorre, per esempio, tra la specie «ros_§_Q» e l'oggetto rosso dell'intuizione o il momento-rosso che si manifesta in esso. Quando intendiamo il rosso in specie, ci appare un oggetto rosso, e in questo senso dirigiamo il nostro sguardo a questo oggetto (che tut­ tavia non viene da noi inteso). Al tempo stesso, in esso emerge il momento-ros­ so, e perciò anche qui possiamo dire che dirigiamo a esso il nostro sguardo. Eppure nell'oggetto non intendiamo questo momento, questo elemento singo­ lo individualmente determinato, come facciamo per esempio, quando enun­ ciamo l'osservazione fenomenologica che i momenti-rossi delle parti disgiunte della superficie dell'oggetto che si manifesta sono altrettanto disgiunti. Mentre appare l'oggetto rosso e in esso il momento-rosso posto in rilievo, noi inten­ diamo piuttosto il rosso unico e identico, e lo intendiamo in una modalità di coscienza di nuovo genere, attraverso la quale diventa per noi oggettuale non l'individuale ma, appunto, la specie. La stessa cosa si dovrebbe dire perciò an­ che per il significato in rapporto ali 'espressione e al suo significare, sia che es­ sa sia riferita all'intuizione corrispondente o no. Il significato come sp�çie emerge quindi sullo sfondo di cui si è detto metà ideJlle del significato in rapporto al carattere d'atto del

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diante l'astrazione; ma certo non mediante l'astrazione nel senso improprio che predomina nella teoria della conoscenza e nella psicologia empiristica: l'a­ strazione intesa in questo senso non è in grado di cogliere lo specifico; non so­ lo: si ritiene che uno dei suoi meriti consista proprio nel non essere in grado di fare questo. Per una fondazione filosofica della logica pura, il problema dell'a­ strazione viene in questione per un duplice motivo. Anzitutto perché tra le di­ stinzioni categoriali dei significati con le quali ha essenzialmente a che fare la logica pura si trova anche la distinzione corrispondente alla contrapposizione tra oggetti individuali e generali. In secondo luogo, e in modo particolare, per­ ché i significati in generale - e precisamente i significati nel senso di unità spe­ cifiche - formano i domini della logica pura: ogni disconoscimento dell'essenza della specie arriva perciò necessariamente a colpirla nella sua stessa essenza. È dunque lecito affrontare fin d'ora tra le ricerche che hanno funzione introdut­ tiva, il problema dell'astrazione e, difendendo la legittimità degli oggetti spe­ cifici (o ideali) accanto a quelli individuali (o reali), assicurare il fondamento principale della logica pura e della teoria della conoscenza. Questo è il punto in cui lo psicologismo relativistico ed empiristico si distingue dall'idealismo, il quale offre l'unica possibilità di una teoria della conoscenza in sé coerente. Naturalmente per idealismo non si intende qui nessuna dottrina metafisica, ma la for­ ma della teoria della conoscenza che non toglie di mezzo l'ideale interpretandolo psi­ cologisticamente, ma lo riconosce come condizione di possibilità di una conoscenza obiettiva in generale.

r. Gli oggetti generali e la coscienza della generalità

1.

La coscienza degli oggetti generali e degli oggetti individuali si realizza per noi in atti essenzialmente diversi

In precedenza abbiamo già brevemente delineato la nostra posizione. Per giu­ stificarla non sarà necessario dilungarci in spiegazioni ulteriori. Infatti, tutto ciò che sosteniamo - la validità della differenza tra oggetti specifici e oggetti individuali e la diversa modalità rappresentativa nella quale gli uni e gli altri pervengono chiaramente alla nostra coscienza - è per noi garantito dall'evi­ del.lza. E questa evidenza è data di p�r�e stessa con la chiarificazione delle ri­ spettive rappresentazioni. Non dobbiamo far altro che rifarci ai casi in cui le rappresentazioni individuali o specifiche hanno riempimento intuitivo, e ot­ terremo allora piena chiarezza a proposito degli oggetti che sono da esse pro­ priamente intesi e di ciò che, nel loro senso, deve valere come dello stesso genere o di genere diverso. La riflessione su questi atti ci mostrerà allora se ci sono o no differenze essenziali nel modo del loro effettuarsi. " · A questo proposito l'osservazione comparativa ci dice che l'atto nel quale intendiamo lo specifico è in realtà essenzialmente diverso da quello nel qua­ le intendiamo l'individuale, sia che in quest'ultimo caso intendiamo un con­ creto come intero oppure una sua frazione o una sua caratteristica individuale. Indubbiamente, in entrambi i casi, vi è un aspetto fenomenale comune. Anzi, - è lo stesso concreto che si manifesta in essi, e nel momento in cui si manife­ sta sono dati nella stessa modalità di apprensione i medesimi contenuti sensi­ bili: il medesimo decorso di contenuti della sensazione e della fantasia si trova alla base della stessa «apprensione)) o «interpretazione)) (Deutung), nella qua­ le si costituisce per noi il fenomeno dell ogget to con le determinazioni presenta,

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te da quei contenuti. Ma lo stesso fenomeno comporta nei due casi atti diversi. Nel primo, il fenomeno è la base rappresentazionale di un atto di intenziona­ mento individuale, di un att�, cioè, nel quale intendiamo direttamente e sem­ plicemente proprio ciò che si manifesta, questa cosa o questa frazione, questa caratteristica della cosa. Nel secondo, esso è la base rappresentazionale di un at­ to dell'apprendere o dell'intendere specializzante; in altri termini, nel momento in cui si manifesta la cosa, o meglio una sua caratteristica, noi non intendiamo questa caratteristica oggettuale, questo hic et nunc, ma il suo contenuto, la sua «idea)); non intendiamo questo momento-rosso inerente alla casa, ma il ross o. È chiaro che questo intenzionamento, in rapporto alla sua base apprensiva, è un intenzionamento fondato (cfr. Sesta ricerca, § 26), nella misura in cui sul­ l'«intuizione)) della casa individuale, o del suo rosso, si edifica una nuova m9dalità dell'apprensione, che è costitutiva per la datità intuitiva dell'id��-!"O!SO. E come la specie assume esistenza in quanto oggetto generale mediante il carat­ tere di questa modalità dell'apprensione, così sorgono anche, in stretta connes­ sione con tutto ciò, formazioni come «un rosso)) (cioè, qualcosa che ha in sé il rosso), «questo rosso)) (il rosso di questa casa) ecc. Si ripresenta il rapporto pri­ mitivo tra specie e caso singolo, nasce la possibilità di cogliere comparativa­ mente nel loro complesso molteplici casi singoli ed eventualmente di enunciare con evidenza giudizi come questi: in tutti i vari casi il momento individuale è diverso, ma «in)) ognuno di essi si realizza la stessa specie; questo rosso è lo stes­ so di quel rosso - cioè, dal punto di vista della specie, si tratta del medesimo colore - e tuttavia l'uno è diverso dall'altro - cioè dal punto di vista individua­ le si tratta di singoli elementi oggettuali diversi. Come tutte le distinzioni logi­ che fondamentali, anche questa è categoriale. Essa appartiene alla forma pura di possibili oggettualità di coscienza come tali (si veda in proposito la Sesta ri­ cerca, capp. VI sgg.). 2. Non si può fare a meno di parlare di oggetti generali

Gli eccessi del realismo del concetto hanno avuto come conseguenza che non soltanto si è contestata la realtà, ma anche l'oggettualità della specie. Certa­ mente a torto. Evidentemente, si può rispondere alla domanda se sia possibile e necessario cogliere le specie come oggetti, solo risalendo al significato (sen­ so, ciò che si intende) dei nomi che denominano la specie e degli enunciati che pretendono validità in rapporto alla specie. Se fosse possibile interpretare ta­ li nomi ed enunciati, oppure comprendere l'intenzione dei pensieri nominali e proposizionali che conferiscono a essi un significato come se gli oggetti ve-

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ri e propri di questa intenzione fossero oggetti individuali, dovremmo allo­ ra ammettere la teoria avversa. Ma se le cose stanno altrimenti, se nell'analisi del significato di queste espressioni appare che la loro intenzione diretta non è evidentemente rivolta ad alcun oggetto individuale, e soprattutto se appare ch iaro che solo indirettam ente essi si riferiscono universalmente a un'esten­ sione di oggetti individuali, rinviando a nessi logici il cui contenuto (senso) si dispiega soltanto in nuovi pensieri ed esige espressioni nuove - la teoria av­ versa sarà in tal caso evidentemente falsa. In effetti non si può assolutamente evitare di distinguere tra singolarità individuali come sono, per esempio, le cose empiriche, e singolarità specifiche, come sono i numeri e le varietà nella _matematica, le rappresentazioni e i giudizi (i concetti e le proposizioni) della log ica pura. Numero è un concetto che comprende sotto di sé, come più vol­ te abbi amo notato, le singolarità l, 2, 3 . Un numero, per esempio, è il nu­ mero 2, non un gruppo qualsiasi di due oggetti singoli individuali. Volendo intendere questi ultimi, seppur in modo del tutto indeterminato, si dovrà di­ chiararlo esplicitamente, e con il mutare dell'espressione muta in ogni caso anche il pensiero. Alla differenza tra le singolarità individuali e specifiche corrisponde la dif­ ferenza, non meno essenziale, tra universalità individuali e specifiche. Queste differenze trapassano senz'altro nel campo dei giudizi e attraversano la logi­ ca nella sua totalità: i giudizi singolari si distinguono in singolari individua­ li, come Socrate è un uomo, e singolari specifici, come 2 è un numero pari, un quadrato rotondo è un concetto controsenso; i giudizi universali in universali individuali, come tutti gli uomini sono mortali, e universali specifici, come tut­ te lefunzioni analitiche sono differenziabili, tutte le proposizioni puramente lo­ giche sono a priori. Non è assolutamente possibile compensare differenze di questo genere. Non si tratta di mere espressioni abbreviative; tant'è vero che non è possibile toglier­ le di mezzo anche ricorrendo alle definizioni più sottili. Del resto, sulla base di un esempio qualsiasi, ci si può convincere direttamente che una specie diven­ ta realmente oggetto nella conoscenza, e che in rapporto a essa sono possibili giudizi che hanno la stessa forma logica di quelli che si riferiscono agli oggetti individuali. Prendiamo un esempio dal gruppo che ci interessa in modo parti­ colare. Abbiamo detto che le rappresentazioni logiche, i significati unitari in ge­ nere, sono oggetti i.dea_li, sia che rappresentino qualcosa di generale o qualcosa di individuale. Per esempio: la città di Berlino come senso che resta identico nel ripetersi dei discorsi e delle intenzioni; o la rappresentazione diretta del teore­ ma di Pitagora, senza che ci sia da parte nostra un giudizio esplicito su di esso; o anche questa stessa rappresentazione: il teorema di Pitagora. .

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Dal nostro punto di vista, faremo notare che, nel pensiero, ogni significa­ to di questo genere vale come unità e su di esso possono eventualmente essere enunciati giudizi unitari evidenti: esso può venire paragonato ad altri significa­ ti ed essere distinto da essi; può essere soggetto identico di numerosi predicati, identico punto di riferimento in molteplici relazioni; può essere collegato con altri significati e contato come unità; in quanto significato identico, esso stes­ so è di nuovo oggetto in rapporto a molteplici significati nuovi - come tutti gli altri oggetti che non sono significati (cavalli, pietre, atti psichici ecc.). Solo per­ ché il significato è qualcosa di identico, può essere trattato come tale. Ciò rap­ presenta per noi un argomento incontestabile, e naturalmente esso vale anche per tutte le unità specifiche, anche per quelle che sono non-significati.

3. Se si debba intendere l'unità della specie come unità impropria. Identità e uguaglianza Mentre noi intendiamo mantenere la rigorosa identità dello specifico nel senso della vecchia tradizione, la teoria dominante si basa sull'estensione di un mo­ do improprio di parlare dell'identità. Di fronte a cose uguali, parliamo abba­ stanza spesso delle stesse cose. Per esempio, diciamo lo stesso armadio, la stessa giacca, lo stesso cappello, quando ci troviamo di fronte a prodotti che, elaborati secondo il medesimo modello, sono del tutto uguali gli uni con gli altri, uguali cioè in tutto ciò che ci può interessare in cose di questo genere. In questo sen­ so si parla della stessa convinzione, dello stesso dubbio, dello stesso problema, dello stesso desiderio ecc. Si pensa così che questa improprietà sussista anche quando si parla della stessa specie e, in particolare, dello stesso significato. In riferimento a un vissuto di significato che resta sempre uguale, parliamo dello stesso significato (dello stesso concetto o proposizione), in rapporto a un colo­ re sempre uguale, dello stesso rosso (del rosso in generale), dello stesso blu ecc. A questo argomento io obietto che il discorso improprio sull'identità di co­ se uguali, nella misura in cui è improprio, rinvia a un discorso proprio corri­ spondente; e quindi a un'identità. In effetti, ogni qual volta vi è uguaglianza, vi è anche un'identità in senso vero e rigoroso. Non possiamo caratterizzare due cose come uguali senza indicare secondo quale rapporto esse lo siano. Secon­ do quale rapporto, abbiamo detto, e proprio in questo risiede l'identità. Ogni uguaglianza si riferisce a una specie alla quale sottostanno gli elementi che en­ trano nella comparazione; e questa specie, a sua volta, non è qualcosa di me­ ramente uguale, e non lo può essere, altrimenti sarebbe inevitabile un assurdo regressus in infinitum. Indicando secondo quale rapporto avvenga la compa-

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ra zione, rinviamo, per mezzo di un termine generico più generale, all 'ambito delle differenze specifiche, nel quale si trova la differenza che si presenta iden­ tic a nei membri della comparazione. Se due cose sono uguali in rapporto alla forma, l'identico sarà la specie relativa alla forma; se sono uguali in rapporto al colore, esso sarà la specie del colore ecc. Certamente, non ogni specie si espri­ me univocamente nella parola, e può accadere così che manchi l'espressione opportuna del rapporto, sarà forse difficile indicarlo chiaramente; tuttavia noi lo abbiamo di mira, ed è esso che determina il nostro discorso sull'uguaglian­ za. Naturalmente, voler definire l'identità, sia pure soltanto nel campo sensi­ bile , essenzialmente come caso limite dell'uguaglianza ci sembrerebbe una distorsione della verità delle cose. L'idtmtità è _as_solutamenteindefinibile, ma non l'uguaglianza. L'uguaglianza è il rapporto di oggetti che sottostanno a una e a una s_tessa specie. Se non fosse più lecito parlare dell'identità della specie, del rapporto secondo il quale si realizza l'ugu_aglianza, perderebbe il proprio terreno il discorso sull'uguaglianza stessa. 4. Obiezioni contro la riduzione dell'unità ideale alla molteplicità dispersa \_}-_ , .

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Ma anche a un altro aspetto dobbiamo rivolgere la nostra attenzione. Volendo ricondurre in qualche modo il discorso su un attributo qualsiasi al sussistere di certe relazioni di uguaglianza, dovremo riflettere sulla differenza che emer­ ge nella contrapposizione seguente. Mettiamo a confronto: 1. La nostra intenzione, quando apprendiamo unitariamente un gruppo qual­ siasi di oggetti in uguaglianza intuitiva o quando riconosciamo d 'un colpo solo la loro uguaglianza come tale; oppure ancora, quando nei singoli atti della comparazione riconosciamo l'uguaglianza di un oggetto determinato con gli oggetti singoli restanti e infine con tutti gli altri oggetti del gruppo.1 2. La nostra intenzione, quando afferriamo, eventualmente sulla base del me­ desimo sfondo irlt_l.lltivo, l'attributo che costituisce il rapporto dell'ugua­ glianza o della comparazione, come un'unità ideale. È evidente che il fine della nostra intenzione, l'oggettualità che viene intesa e denominata come soggetto dei nostri enunciati, è qualcosa di totalmente di­ verso nell'uno e nell'altro caso. Per quanto numerosi possano essere gli oggetti uguali che si presentano di fronte a noi nell'intuizione o nella comparazione, è certo che, nel secondo caso, non sono intesi né essi stessi né le loro uguaglian­ ze. Inteso è il «generale)), l'unità ideale, e non i singoli, i molti. Queste due situazioni intenzionali sono totalmente diverse non soltanto dal punto di vista logico, ma anche da quello psicologico. Nel secondo caso non

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si richiede neppure un'intuizione di uguaglianza o una comparazione. Rico­ nosco questa carta come carta e come bianca, e porto per me a piena chiarez­ za il senso generale delle espressioni carta e bianco come tali, senza bisogno di effettuare intuizioni di uguaglianza e comparazioni. D'altra parte si può dire che le rappresentazioni concettuali non sarebbero mai sorte psicologicamen­ te senza il manifestarsi insieme di oggetti uguali e che entrano in un rapporto intuitivo mediante l'uguaglianza. Ma qui, dove il problema è quello di sapere che cosa sia l'attributo nella conoscenza e quale validità gli debba essere rico­ nosciuta, questo fatto psicologico è del tutto irrilevante. È infine chiaro anche che, se si vuole rendere comprensibile l'intenzione diretta a una specie ricorrendo a un modo, comunque inteso, di rappresen­ tarsi le singolarità a partire da gruppi di uguaglianza, le singolarità di volta in volta rappresentate abbracceranno solo alcuni membri dei gruppi e non po­ tranno mai esaurire l'intera estensione. Si potrebbe chiedere perciò che cosa mai produrrebbe l'unità di questa estensione, che cosa la renderebbe possibi­ le per la nostra coscienza e il nostro sapere, se ci mancasse l'unità della specie e, insieme a essa, la forma intellettuale (Denkform) della totalità, mediante la quale essa può riferirsi alla molteplicità complessiva degli A (intesa nel senso dell'espressione totalità degli A) rappresentata dal pensiero. Non può esserci naturalmente di alcun giovamento il rimando allo «stesso» momento sempre e ovunque comune. Esso sussiste numericamente tante volte quante volte ven­ gono rappresentati i singoli oggetti dell'estensione. Come può unificare ciò che ha bisogno esso stesso di unificazione? Né può essere di giovamento la possibilità oggettiva di riconoscere come uguali tutti i membri dell'estensione; essa non può conferire unità all'estensio­ ne per il nostro pensiero e la nostra conoscenza. Anzi, se tale possibilità non viene pensata e compresa, non è nulla per la nostra coscienza. Ma in questo ca­ so si presuppone già l'idea dell'unità dell'estensione; d'altro lato, questa stessa unità ci sta di fronte come unità ideale. Evidentemente, ogni tentativo di inter­ pretare l'essere dell'ideale come un possibile essere del reale, dovrà necessaria­ mente fallire di fronte al fatto che le possibilità stesse sono a loro volta oggetti ideali. Nel mondo reale, così come non si trovano i numeri o i triangoli in ge­ nerale, non si trovano neppure le possibilità. La concezione empiristica, che vuole evitare l'assunzione di oggetti specifici rinviando alla loro estensione, è pertanto impraticabile. Essa non è in grado di dirci che cosa dia unità all'estensione. L'obiezione che segue chiarirà ancor più questo punto. La concezione che contestiamo opera con «ambiti di somi­ glianza», ma prende troppo alla leggera la difficoltà costituita dal fatto che ogni

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oggetto appartiene a una molteplicità di «ambiti di somiglianza». 1\!a che cg_­ sa dist ingue l'uno dall'altro questi stessL dice Mill (op. cit., p. 185) «è soltanto una contro­ versia di parole, perché nf!�_ll !l ()_di noi due . . . cr�de_çh� lln attributo sia una cosa reale che poss egga un'esistenza rea!� ; in ciò noi scorgiamo soltanto un modo particolare di denominare le nostre sensazioni (o le nostre aspettazioni di tali sensazioni) conside­ randole dal punto di vista del loro rapporto con un oggetto esterno che le suscita. La controversia sollevata da Spencer non riguarda quindi le proprietà di una cosa qualsia­ si realmente esistente, ma l'a.!legu��z�a comparativamente maggiore o minore a fini filosofici detenuta da due modi diversi di usare lo stesso nome.» Naturalmente neppu­ re noi asseriamo la realtà degli attributi, ma esigiamo un'analisi un po' più penetran­ te di ciò che si nasconde dietro questi