Diritto, giustizia e logiche del dominio 9788860740939


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Diritto, giustizia e logiche del dominio
 9788860740939

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BIBLIOTECA DI CULTURA MORLACCHI diretta da Antonio De Simone

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5

Morlacchi Editore

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BIBLIOTECA DI CULTURA MORLACCHI diretta da Antonio De Simone

I. II.

III.

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IV. V.

L’Io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, di Fabio D’Andrea, Antonio De Simone e Alberto Pirni Tra Dilthey e Habermas. Esercizi di pensiero su filosofia e scienze umane, di Antonio De Simone, Fabio Di Clemente, Fabio D’Andrea e Fabrizio Fornari Istantanee. Filosofia e politica prima e dopo l’Ottantanove, di Francesco Fistetti Il Novecento negato. Hayek filosofo politico, di Paolo Ercolani Diritto, giustizia e logiche del dominio, a cura di Antonio De Simone

*** FILOSOFIA E TEORIA SOCIALE CONTEMPORANEA fondata da Antonio De Simone I. II.

L’Io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, di Fabio D’Andrea, Antonio De Simone e Alberto Pirni Tra Dilthey e Habermas. Esercizi di pensiero su filosofia e scienze umane, di Antonio De Simone, Fabio Di Clemente, Fabio D’Andrea e Fabrizio Fornari

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Bruno Accarino, Luigi Alfieri, Giuseppe Cacciatore, Fabio D’Andrea Antonio De Simone, Paolo Ercolani, Francesco Fistetti, Gregor Fitzi Emanuela Fornari, Fabrizio Fornari, Domenico Losurdo Giacomo Marramao, Bruno Milone, Cristina Pasqualini Alessandro Pinzani, Alberto Pirni, Francesca R. Recchia Luciani Irene Strazzeri, Marcello Strazzeri, André Tosel

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Diritto, giustizia e logiche del dominio a cura di Antonio De Simone

Morlacchi Editore

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In copertina: Jack Delano, Chicago, Illinois. In the waiting room of the Union Station (1943). Farm Security Administration / Office of War Information / Office of Emergency Management / Resettlement Administration; Library of Congress, 101 Independence Ave. SE Washington, D.C. 20540-4730. www.wikimedia.org

Prima edizione:

2007

Ristampe

1. [ottobre 2007] 2. 3.

ISBN: 978-88-6074-093-9

copyright © 2007 by Morlacchi Editore, Perugia. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica, non autorizzata. Progetto grafico del volume: Raffaele Marciano. [email protected] – www.morlacchilibri.com Chiuso in redazione il 16 giugno 2007. Finito di stampare nel mese di ottobre 2007 da Digital Print-Service.

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Indice

Nota del curatore

xi

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Parte I. DIRITTO, GIUSTIZIA E PROBLEMI DI LEGITTIMAZIONE Tra classici e contemporanei nelle traiettorie della modernità

Bruno Milone Diritto e giustizia in Dostoevskij

3

1. Il doppio abisso; 2. La questione penale; 3. Diritto e Positivismo; 4. La questione della responsabilità; 5. La critica del sistema penale.

Bruno Accarino Jus integri: diritto, giustizia e maggioranza in Georg Simmel

43

1. Dalla vendetta alla responsabilità; 2. Intervallo e decenza; 3. Atomismo e consenso; 4. Soggetto moderno e contratto.

Antonio De Simone Razionalità e diritto in Max Weber

71

Introduzione; 1. Il diritto negli scritti storici e sociologico-giuridici di Max Weber; 2. Aspetti e problemi della “Rechtssoziologie” weberiana; 3. Sul processo di formalizzazione del diritto; 4. Razionalizzazione del diritto e innovazione giuridica: aspetti e problemi introduttivi; 5. Diritto razionale-formale, capitalismo e stato moderno.

Gregor Fitzi Comunità e società nella crisi di legittimazione dello Stato nazionale

133

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Parte II. LOGICHE DEL DOMINIO, FILOSOFIE DELLA STORIA E NORMATIVITÀ Transiti filosofico-politici e sociologici

Domenico Losurdo Logica del dominio e orrore nella contemporaneità. Filosofia della storia contra morale?

159

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1. Filosofia della storia hegeliana e Manifest Destiny; 2. Etica e filosofia della storia: plurale e singolare; 3. Etica, filosofia della storia e violenza; 4. Conflitto e limitazione del conflitto.

Paolo Ercolani 1902-2002: la logica del dominio occidentale da Hobson a Stiglitz. Un bilancio storico e sociologico del liberalismo contemporaneo 189 1. Le tre fasi del liberalismo moderno e contemporaneo; 2. Il fantomatico «libero scambio» delle merci. I casi inglese e americano; 3. La fine del liberalismo classico e lo sfruttamento dei paesi poveri; 4. Il Novecento, il liberalismo e gli esiti della storia; 5. La globalizzazione tra «fondamentalismo del mercato» e nuove forme di dominio.

Luigi Alfieri Sovranità, morte e politica

217

Fabrizio Fornari Itinerari dell’azione e giustizia: la questione normativa tra verità e finzione

247

1. Le logiche del potere e il linguaggio; 2. La giustizia come problema; 3. L’identità tra “giuridico” e “legale” come fictio juris; 4. Il concetto di regola di condotta e l’irriducibilità del normativo alla logica dichiarativa.

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Parte III. CORPO, SOGGETTIVITÀ, POTERE Decostruzioni giuridiche, figurazioni di giustizia, ontologia politica

Marcello Strazzeri Decostruzione giuridica e orizzonti di giustizia

271

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1. L’inversione cronotopica della colpa e della pena nel Processo di Kafka; 2. Punizione, riabilitazione, perdono ne I miserabili di Victor Hugo.

Alessandro Pinzani Verso una nuova ontologia politica? Soggettività e potere tra Luhmann e Foucault

311

1. Due storie, un unico tema; 2. Luhmann: il potere come medium; 3. Foucault: il potere come relazione tra forze; 4. Osservazioni conclusive.

Francesca R. Recchia Luciani «Concepire l’equilibrio»: la forza, la giustizia, l’obbligo e il loro legame con la corporeità attraverso Simone Weil

341

1. Il prodigioso potere trasfigurativo della forza; 2. L’insopprimibile tensione tra la “forza” e la “giustizia”; 3. La “naturale” vulnerabilità del corpo e la giustizia «soprannaturale».

Fabio D’Andrea Doppio gioco. Logica del dominio e astuzia in Michel Maffesoli

389

1. A guisa di introduzione. Le piccole cose; 2. Potenza/Potere; 3. In arabesco: il quantum soggettivo; 4. Astuzia; 5. In arabesco: la “piccola epopea” di Peppone e don Camillo.

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Parte IV. RATIO JURIS, DIRITTI UMANI E DIALETTICA DEL RICONOSCIMENTO Figure, temi e linguaggi della contemporaneità

Giuseppe Cacciatore Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di Giuseppe Capograssi

439

Emanuela Fornari Aporie della ragione giuridica. Transiti habermasiani

463

Irene Strazzeri Diritto e riconoscimento in Axel Honneth

481

1. Il riconoscimento nell’idea originaria di Hegel; 2. Amore, diritto, solidarietà: gli elementi strutturali del riconoscimento; 3. Violenza, privazione dei diritti, offesa: misconoscimento e integrità personale.

Cristina Pasqualini Violenza del mondo e diritti umani. La proposta ri-formatrice di Edgar Morin

513

1. Premessa; 2. Dominazione/emancipazione: i due volti dell’era planetaria; 3. Tre parole chiave nella proposta moriniana: politica, uomo e civiltà.

Parte V. DIRITTI, GIUSTIZIA, DIFFERENZE Antropologia e filosofia politica della globalizzazione

Giacomo Marramao Passato e futuro dei Diritti Umani. Dall’“ordine posthobbesiano” al cosmopolitismo della differenza 545

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Francesco Fistetti Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

561

1. Il paradosso dell’eguaglianza moderna: eguali e diversi; 2. Due tradizioni rivali della giustizia; 3. La giustizia procedurale pura; 4. Giustizia e legittimazione; 5. Lo slittamento regressivo del programma di ricerca di Rawls; 6. La giustizia globale; 7. La critica di A. Sen al “liberalismo politico” di Rawls; 8. Il Principio di Differenza come articolazione della teoria del dono; 9. Giustizia globale ed egoismo democratico; Appendice: Giustizia globale e paradigma del dono.

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Alberto Pirni La globalizzazione della differenza, tra etiche e diritti

609

1. Spostare i confini; 2. Farsi carico della differenza; 3. Oltre la differenza. Quale universalismo?; 4. Oltre la differenza. Riproporre la domanda antropologica.

André Tosel Nuovo Stato di diritto e trasformazione del Soggetto Giuridico. Elementi per una antropologia della globalizzazione. Ipotesi di lavoro

647

1. Il nuovo Stato di diritto proprio del capitalismo globalizzato; 2. Una nuova forma-soggetto egemonica: l’individuo solvibile e il suo corpo; 3. La manifattura del corpo sessuato e il venir meno della chair; 4. Il diritto alla desimbolizzazione del diritto e i suoi antidoti comunitari; 5. Conclusione: quale riscossa etico-politica?

Indice dei nomi

669

Notizia sugli autori

677

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Nota del curatore

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I

numerosi saggi raccolti in questo libro secondo una scansione che, nella loro originale individualità e varietà, li coniuga unitariamente per aree epistemologiche e tematiche, sono il risultato di un vivace, serrato e rigoroso esercizio critico di approfondimento e di confronto scientifico sviluppatosi tra generazioni diverse di storici della filosofia, filosofi politici e morali, filosofi e sociologi del diritto, studiosi di scienze umane e sociali e svoltosi presso l’Ateneo urbinate all’interno del quarto “Seminario permanente di Filosofia e Teoria Sociale Contemporanea” – ideato, promosso e coordinato da Antonio De Simone. Esso si è altresì arricchito in itinere di alcuni particolari contributi di collaboratori esterni di altre e prestigiose Università italiane, francesi e brasiliane, i quali hanno voluto con uno scritto testimoniare l’impegno e la disponibilità nell’affrontare il dibattito sul tema prescelto: il rapporto tra diritto, giustizia e logiche del dominio. Il volume, ricostruendo e interpretando trasversalmente i nessi problematici che segnano morfologicamente tale rapporto, si presenta come una “guida critica” per leggere e comprendere le trasformazioni che attraversano il legame sociale, la giuridicità e la socialità della norma, il linguaggio dei diritti e le lotte per il riconoscimento nel contesto della modernità e della globalizzazione. Entro gli orizzonti interculturali della complessità umana, essi si radicano nelle pratiche sociali e nel contempo esprimono una propensione critica a mettere costantemente in questione le forme del dominio, a reagire a situazioni di oppressione, a rivendicare autonomia, dignità e libertà della vita umana. In questo quadro di sintesi, la riflessione filosofico-politica e sociologico-giuridica contemporanea si confronta con la complessità paradigmatica del diritto moderno e con le sfide che la

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xii

Nota del curatore

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questione normativa pone alla ragione critica e al progetto di emancipazione del singolo per la realizzazione dei diritti umani e di una società di giustizia nel paesaggio accidentato della nostra epoca. Ogni autore, secondo le proprie competenze disciplinari, ha centrato un particolare plesso problematico, collocandolo in un proprio contesto critico-ricostruttivo ed esplicativo che si lega dialetticamente all’insieme del tema discusso: da qui, anche la scelta del curatore di seguire un filo conduttore nell’organizzazione del testo, i cui materiali sono stati suddivisi in cinque sezioni: Parte prima – Diritto, giustizia e problemi di legittimazione. Tra classici e contemporanei nelle traiettorie della modernità (con contributi di Bruno Milone, Bruno Accarino, Antonio De Simone e Gregor Fitzi); Parte seconda – Logiche del dominio, filosofie della storia e normatività. Transiti filosofico-politici e sociologici (con contributi di Domenico Losurdo, Paolo Ercolani, Luigi Alfieri e Fabrizio Fornari); Parte terza – Corpo, soggettività, potere. Decostruzioni giuridiche, figurazioni di giustizia, ontologia politica (con contributi di Marcello Strazzeri, Alessandro Pinzani, Francesca R. Recchia Luciani e Fabio D’Andrea); Parte quarta – Ratio juris, diritti umani e dialettica del riconoscimento. Figure, temi e linguaggi della contemporaneità (con contributi di Giuseppe Cacciatore, Emanuela Fornari, Irene Strazzeri e Cristina Pasqualini); Parte quinta – Diritti, giustizia, differenze. Antropologia e filosofia politica della globalizzazione (con contributi di Giacomo Marramao, Francesco Fistetti, Alberto Pirni e André Tosel).

Pur essendo, ovviamente, ogni saggio autonomo e in sé conchiuso, resta comunque inteso che gli “intrecci euristici” possibili tra i vari percorsi coimplicano di per sé elementi (e argomenti) attribuibili a ognuno di essi ed eventuali connessioni trasversali, adiacenze teoriche e traduzioni dei termini problematici di un discorso nell’altro. Infatti, avvalendosi metodologicamente in modo qualitativo di un’epistemologia trasversale e per intrecci

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Nota del curatore

xiii

problematici ed ermeneutici, l’intento complessivo dell’opera e i suoi preziosi risultati hanno voluto prefiggersi – sul piano analitico, critico e storiografico – l’approfondimento tematico relativo al rapporto diritto, giustizia e logiche del dominio, che costituisce senz’altro uno dei nodi centrali ed enigmatici della condizione umana per il ruolo e la forza che la questione dei mutamenti dei sistemi normativi indica nella politica, nell’economia, nel costume, nella giustizia, nel mercato, nello sfruttamento della natura-ambiente, nella formazione, nel fondamento e riconoscimento dei diritti umani e dei popoli, nelle politica di appartenenza e di cittadinanza, negli ordinamenti giuridici costituzionali, nel suo cammino lungo gli attraversamenti locali e globali della contemporaneità. Nel licenziare alle stampe questo compendioso volume, affidandolo all’attenzione, all’interesse e al giudizio dei lettori, ringrazio vivamente tutti coloro i quali, autori, amici e colleghi che, con molta disponibilità personale, hanno direttamente partecipato a questa ulteriore avventura intellettuale, sostenendola praticamente e rendendola, spero, utile strumento di riflessione su di un rapporto dilemmatico che attraversa alcuni degli aspetti più complessi che delineano le forme, i significati e le metamorfosi del legame sociale e del riconoscimento umano individuale e intersoggettivo nell’orizzonte storico-politico, giuridico e sociale contemporaneo. Un ringraziamento particolare rivolgo a Raffaele Marciano della redazione dell’Editore Morlacchi per il competente e prezioso lavoro di revisione delle bozze nella fase di editing finale di questo volume.

Urbino, 16 febbraio 2007

Antonio De Simone

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Parte I.

Diritto, giustizia e problemi di legittimazione

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Tra classici e contemporanei nelle traiettorie della modernità

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Paul Strand, Wall Street, 1915.

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Bruno Milone

Diritto e giustizia in Dostoevskij

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1. Il doppio abisso

D

ostoevskij non fu apprezzato dai suoi lettori solo come romanziere, ma anche come filosofo. Lev Sestov lo pose tra i grandi saggi dell’umanità e Nietzsche, che cominciò a leggerlo in francese dal febbraio del 1887, lo considerò «un fratello di sangue»1, perché nei personaggi de I Demoni credette di trovarvi la prefigurazione e lo smascheramento del superuomo. Successivamente Heidegger ravvisò nello scrittore russo una fonte imprescindibile per la conoscenza del nichilismo che incombeva sulla civiltà occidentale2. Già Sestov però precisava che «la filosofia teorica era estranea a Dostoevskij»3 e che al suo sapere era più congeniale la forma dialettica della tragedia4, la

1. F. Nietzsche, Lettere a Petr Gas. 7 marzo 1887, in G. Pacini, Nietzsche lettore dei grandi russi, Roma 2001, pp. 13-14. 2. M. Heidegger, Nietzsche, Milano 1994, p. 564. Scrive H.G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, Torino 1987, p. 7: «Un ruolo importante nel primo periodo della formazione di Heidegger giocò l’acquisizione di Dostoevskij: la radicalità della sua rappresentazione dell’uomo, la passionalità del suo porre in questione la società e il progresso, l’incantesimo suggestivo e l’intensa raffigurazione delle ossessioni umane e dei labirinti della psiche – e si potrebbe continuare all’infinito, mostrando come l’idea filosofica che si era condensata nel concetto di esistenza esprimeva una nuova coscienza del proprio essere esposti, un diffuso sentimento dell’esistenza». 3. L. Sestov, Sulla bilancia di Giobbe, Milano 1991, p. 268. 4. L. Sestov, La filosofia della tragedia, Dostoevskij e Nietzsche, Napoli 1950.

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4

Bruno Milone

sola capace di rappresentare l’esistenza umana con il suo mistero irriducibile senza illusioni e vane consolazioni5. Sulla scia di Sestov, György Lukács, in un libro su Dostoevskij rimasto incompiuto6, «coglie nella trasgressione, nel negativo, nelle forme insomma di non conciliazione con l’esistente, nel paradosso di una divinità diveniente, nella follia e nel delitto, le forme di una nuova utopia letteraria e religiosa»7. Poco importa che le nuove figure narrative dello scrittore russo siano criminali, santi, aristocratici e derelitti, «se predicheranno l’amore per il prossimo contro ogni ragione, e quello per il Cristo contro ogni verità, oppure l’assassinio e il terrorismo come sola igiene del mondo; tutti si iscrivono in quell’unica categoria che è inconciliabile con la prima etica kantiana: il sacrificio dell’anima»8. Infatti, in un frammento intitolato Anabattisti, Lukács scrive: «la fede deve essere trovata nella miscredenza, il cielo nell’inferno, bisognerà prima soffrire, perché la fede non viene né insegnata né data, poi sottomettersi alla Santa Croce nella somma povertà dello spirito stanco e logoro che non sa più nulla della fede e si cela nella profondità dell’inferno»9. All’opposto di questa interpretazione, Vladimir Solov’ëv10 vede in Dostoevskij l’apostolo dell’ideale cristiano, che auspica il miracolo della rinascita “dell’anima nuova” attraverso l’etica dell’amore attivo e l’intima esperienza dell’immortalità dell’anima, come sono vissute in particolare dal giovane Alëša ne I fratelli Karamazov. L’opera dostoevskiana, a suo parere, è costantemente governata da un’idea superiore a partire dalla quale giudica il suo presente. Scrive infatti Dostoevskij: «senza un’idea superiore non può esistere né l’uomo né la nazione. E di idee superiori sulla terra ce n’è soltanto una, quella cioè del-

5. G. Steiner, Tolstoj e Dostoevskij, Milano 2005. 6. G. Lukács, Dostoevskij, Milano 2000. 7. M. Cometa, Postfazione, in György Lukács, op. cit., p. 153. 8. Ivi, p. 154. 9. G. Lukács, op. cit., p. 50. 10. V. Solov’ëv, Dostoevskij, Milano 1990.

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Diritto e giustizia in Dostoevskij

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l’immortalità dell’anima»11. Questa contrapposizione, secondo Sergio Givone12, avrebbe segnato in profondità il corso successivo delle interpretazioni di Dostoevskij. Da un lato c’è lo stereotipo dello scrittore la cui discesa nel “sottosuolo” dell’anima «non ammette mediazioni dialettiche: essa è senza ritorno, cioè, in una parola, tragica»13. I personaggi come il principe Myškin o Alëša che dovrebbero portare riconciliazione e speranza in un mondo oppresso dal male, sono seguiti, passo dopo passo, dalla morte e dalla distruzione. Probabilmente per non “illudere” il lettore che esista una redenzione possibile. Dall’altro, c’è lo scrittore che pur portando all’estremo le ragioni della negatività, tanto da mostrarne il carattere fatale, non per questo le adotta e le fa sue, perché, piuttosto, le esibisce come distruttive e autodistruttive. Infatti, nelle opere di Dostoevskij, il movimento verso il basso e la sperimentazione dell’abisso del male sono già da sempre ricompresi dalla rassicurante positività della fede e dell’infinito e assoluto amore del Cristo. Queste due linee interpretative, afferma Givone, non colgono però il senso della dialettica che è propria del pensiero dostoevskiano e a cui lo scrittore stesso alludeva dicendo di sé che egli sapeva guardare «entrambi gli abissi, l’abisso di sopra e l’abisso di sotto», cioè quello della fede e quello dell’ateismo. Vasilij Rozanov, nel suo testo del 1890 dedicato alla Leggenda del Grande Inquisitore14, si è posto il problema di intrecciare le due prospettive da lui individuate nell’Inquisitore e nel Cristo. Il primo non crede più in Dio e per portare la felicità all’umanità afferma un potere assoluto e fa arrestare il Cristo tornato sulla terra. Il secondo tacitamente riafferma il primato della libertà di coscienza e della fede come vie di salvezza, anche se possono rappresentare per l’uomo un peso insopportabile e un’inesau-

11. F. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, Firenze 1963, p. 693. 12. S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, Bari 1973. 13. Ivi, p. 22. 14. V. Rozanov, Dostoevskij. La Leggenda del Grande Inquisitore, Genova 1989, p. 12.

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Bruno Milone

ribile fonte di sofferenza. Dostoevskij per Rozanov non sceglie ma sta con entrambi. La pietà per l’uomo lo spinge dalla parte del Grande Inquisitore, che afferma: «Noi abbiamo cari anche i deboli»15. L’insegnamento del Cristo, venuto a salvare il mondo, per il suo alto livello morale è contrario alla natura corrotta dell’uomo, e ha introdotto «nella storia non pacificazione e unità, ma caos e ostilità»16. L’Inquisitore merita dunque comprensione, quando sacrifica la libertà individuale, di cui l’uomo è incapace di fare buon uso, «a quel po’ di felicità, e quel po’ di riposo»17 che impediscono all’umanità di autodistruggersi. Ma Dostoevskij è anche dalla parte del Cristo, il quale non muove nessuna obiezione all’Inquisitore, limitandosi a baciarlo sulle “esangui labbra”, quando questi decide di lasciarlo andare negli “oscuri meandri della città”, purché non torni mai più a insidiare la pace sociale. Infatti, di fronte alle argomentazioni dell’Inquisitore non si può provare che “un crescente orrore”, tanto più intenso quanto più se ne riconosce l’ineluttabilità. Il fatto è che la «profonda conoscenza della debolezza umana»18 mostrata dall’Inquisitore «rasenta il disprezzo per l’uomo»19, così come «un amore che si estende fino alla disponibilità ad abbandonare Dio per andare a condividere l’umiliazione dell’uomo»20, implica la condivisione anche «della sua ferocia e della sua stupidità»21. Non è esplicitato in Rozanov se, per Dostoevskij, questo stare contraddittorio dall’una o dall’altra parte, questo portare a fondo prospettive opposte, questo attraversare l’uno e l’altro abisso raggiungano un punto di vista superiore. Anzi, dal punto di vista della prospettiva sociale o storica, sembra che la posizione di Dostoevskij sia stata più vicina a quella del Grande In15. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Torino 1993, p. 338. 16. V. Rozanov, op. cit., p. 100. 17. Ivi, p. 88. 18. Ivi, p. 131. 19. Ibidem. 20. Ibidem. 21. Ibidem.

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Diritto e giustizia in Dostoevskij

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quisitore. Il Cristo disperatamente amato e invocato non aveva nessuna risposta da dargli, sfiorandolo invece col gelo di una presenza inquietante. La Leggenda pertanto offre una chiave insostituibile per la comprensione della dialettica dostoevskiana. È un testo perfettamente autonomo che, all’interno de I fratelli Karamazov, è presentato come un frutto della fantasia di Ivan e come uno dei suoi esperimenti nichilistici. Ivan mette il nichilismo alla prova, ne saggia tutte le possibilità e ne mostra la logica implacabile e fatale alla quale Dostoevskij sembra aderire, perché se “Cristo tace” ogni possibile risposta non può venire che dal compiuto svolgimento del nichilismo stesso. Infatti, conclude Rozanov, «gli slanci verso la religione, con cui si pretenderebbe di rispondere positivamente, non esprimono altro che la sorda angoscia e la retorica delle parole, con cui, in mancanza di meglio, si leniscono le richieste del cuore»22. Dostoevskij è un filosofo che, nella sua ricerca esistenziale, elabora un nuovo modello di filosofia, narrativo, in cui il nichilismo è portato fino alle sue estreme conseguenze. L’interesse per quelli che lui chiama «i problemi sempiterni»23 non è casuale in Dostoevskij. Da questo punto di vista egli non si sente diverso da «tutta la giovane Russia»24, alla quale sembrava essere di vitale importanza dare una risposta ai massimi problemi: «esiste Dio, c’è l’immortalità?»25, mentre «quelli, poi, che in Dio non ci credono, quelli parleranno di socialismo e di anarchismo, del modo di riformare l’umanità intera secondo un nuovo ordinamento, e non ne scapperà fuori nulla di più concreto: sempre quegli stessi problemi, affrontati però dall’altro capo»26.

22. Ibidem. 23. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 312. 24. Ibidem. 25. Ibidem. 26. Ivi, p. 313.

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Bruno Milone

Così, per la giovane intellighenzia russa dell’Ottocento, politica, religione, letteratura e filosofia tendono a confondersi. Il nuovo pensiero russo e anche il romanzo sono quasi tutti dominati dalla «mania della totalità»27. La serietà d’impegno della letteratura russa è però il risultato di una impasse sociale. Dove le idee non possono articolarsi nella politica si riversano nel romanzo. Secondo il critico Cerniscevskj, la letteratura in Russia costituisce il compendio della vita intellettuale e, per Dostoevskij, il romanzo non offre semplicemente un riflesso del costume sociale, ma implica invariabilmente un atto profetico. Il problema degli intellettuali russi è nel loro rapporto con il popolo formato soprattutto da contadini e neoproletariato urbano. La moda europea della seconda metà dell’Ottocento dello «sdegno per le masse»28 è sconosciuta nella Russia coeva dove gli intellettuali privi della indipendenza sociale ed economica non si sentono lontani dal popolo. Lo stesso Dostoevskij, scrive Walter Benjamin, «si rappresenta il destino del mondo nel medium del destino del suo popolo»29. Dostoevskij scrisse nel suo Diario che la letteratura russa era «una letteratura di proprietari terrieri», con ciò sottolineando la decisa frattura rappresentata dai suoi romanzi, animati dal ritmo della vita urbana. Inoltre, egli vi rappresentava un tipo di intellighenzia cittadina sprovvista di mezzi che fece la fortuna delle idee slavofile. Gli slavofili, infatti, credevano che la Russia potesse e dovesse evitare il modello occidentale, che credevano condannato alla decadenza a causa dell’individualismo atomistico. Per questo riponevano la loro fiducia nelle tradizioni comunitarie del popolo russo30. Il movimento slavofilo non era però qualcosa di coerente e omogeneo. Per quanto al suo interno vi fossero dei reazionari

27. Irving Howe, Politica e romanzo, Milano 1962, p. 52. 28. Ivi, p. 53. 29. W. Benjamin, L’idiota di Dostoevskij, in Avanguardia e Rivoluzione, Torino 1973, p. 74. 30. I. Berlin, Il riccio e la volpe, Milano 1986.

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Diritto e giustizia in Dostoevskij

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che elaboravano fantastiche teorie a proposito dell’anima russa, si potevano trovare tracce dell’influenza degli slavofili anche fra gli scrittori e pensatori russi “occidentalizzanti” come Herzen e Turgenev, oppure fra quei socialisti e futuri bolscevichi quando dichiaravano che la Russia non avrebbe dovuto ripetere tutte le esperienze della storia occidentale. «Lo slavofilismo, secondo Howe, si può suddividere in almeno tre filoni principali: i panslavisti che danno una giustificazione logica all’imperialismo zarista; un gruppo mediano fluttuante tra il desiderio di conservare l’individualità della Russia e quello di riformare la società nella cornice di una monarchia costituzionale, e infine i radicali che aspirano a una democrazia contadina»31. Orbene, la chiave – o almeno una delle chiavi – per capire Dostoevskij, conclude Howe, «consiste nel tenere presente che egli tentò, con maggiore o minore chiarezza e accentuazione, di porsi da tutti e tre i punti di vista, contemporaneamente»32. La particolare concezione del destino russo di Dostoevskij era la sua chiave per la soluzione dei problemi sociali, politici e anche penali. Alla Russia Dostoevskij attribuiva una individualità incommensurabile con il resto del mondo: «tutto ciò che è nostro, preminentemente nazionale (e quindi antiteticamente artistico) è incomprensibile per l’Europa»33. Per lo scrittore, la Russia era inseparabile dalla Chiesa Ortodossa, il primissimo ricettacolo del Cristianesimo nel quale solamente si conservava “la divina immagine del Cristo”. Ma la Russia era anche una potenza mondiale con ambizioni imperialistiche e Dostoevskij proclamò: «Costantinopoli prima o poi sarà nostra»34. Il paradosso di Dostoevskij è la convivenza nello stesso individuo da un lato di un uomo per cui l’immagine più sacra è quella del Cristo che porge l’altra guancia e che propone una trasformazione dello Stato in Chiesa e, quindi, del giudizio del31. I. Howe, op. cit., p. 55. 32. Ibidem. 33. Ibidem. 34. Ibidem.

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lo Stato nel giudizio della Chiesa35, e, dall’altro lato, “dell’apostolo” che chiede l’uso della forza per la conquista di Costantinopoli. Questa ambivalenza dello scrittore, nota Howe, ne ha fatto un autentico precursore del moderno carattere nevrotico. In lui convivono la spiritualità di Alëša Karamazov, la lussuria di Dimitri, lo scetticismo di Ivan e il sentimentalismo torbido di Stavrogin. Dostoevskij teme “l’intelletto” autonomo, quell’andare alla deriva senza una fede, che ha sperimentato in se stesso e dovrà più tardi esprimere con il personaggio di Ivan Karamazov; egli ha paura che l’intellettuale, sciolto ogni legame con il cristianesimo e staccatosi dal “caldo cuore” del popolo russo, si sentirà libero di commettere le azioni più mostruose per placare la sua vanità. Una volta che l’uomo sarà libero da ogni responsabilità nei confronti di Dio, quale limite può essere fissato alla sua presunzione? Sicuramente il suo impegno intellettuale è in funzione della sua lotta per rinsaldare la frattura morale che non sente solo sua, e della repulsione di fronte al male che da quella frattura può derivare. Nello stesso tempo, secondo Dostoevskij la volontà di credere dell’intellettuale moderno non è esente dall’angoscia. I suoi “cercatori di Dio” raramente trovano la pace nella fede e devono ammettere che quanto più è profondo il loro desiderio di Dio tanto più soffrono per la distanza che li separa da lui. Poiché la ricerca dei suoi personaggi è in parte motivata da una opposizione per la civiltà capitalista e mercantile, essi criticano l’occidentalizzazione della società russa in modi che potrebbero accomunarli ai movimenti socialisti. Tuttavia Dostoevskij non accetta il socialismo in quanto “scientifico”, figlio bastardo dell’Illuminismo e fratello dell’ateismo razionalista.

35. «Se ora non esistesse la Chiesa di Cristo, non ci sarebbe per il criminale né alcun freno al malaffare, né rappresaglie in seguito: intendo rappresaglie reali, non già meccaniche […] il giudizio della Chiesa è un giudizio che, unico fra tutti, racchiude in sé la verità»; F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., pp. 85-86.

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Egli lo rifiuta anche perché teme che l’uomo possa rinunciare alla libertà in cambio della soddisfazione dei bisogni più elementari e quotidiani. Dostoevskij non può accettare nessuna teoria e nessun sistema politico che localizzi la redenzione nel mondo secolare, e in un certo modo la sua posizione intellettuale è basata sulla convinzione fondamentale che una vera rinascita, una grande conversione, possa venire solo dopo un grande peccato. I suoi romanzi possono essere interpretati come cerimonia rituale di rigenerazione con una serie di eroi che rivivono il dramma della resurrezione.

2. La questione penale Nell’attività artistica di Dostoevskij, la questione penale ha un ruolo centrale, come molti indizi biografici e narrativi dimostrano. Nei Ricordi della casa dei morti, libro ispirato alla sua reclusione nelle carceri zariste in Siberia, Dostoevskij discute di questioni penali, ricorda alcune figure di criminali particolarmente significative e si pone alcuni problemi riguardo ai temi della colpa e della responsabilità che ritorneranno nelle sue opere maggiori. Alla fine del 1860, preparando il materiale per i primi numeri della rivista Vremia e per attirare l’interesse dei lettori sulla futura pubblicazione, Dostoevskij redige attraenti resoconti di delitti famosi tratti dalle raccolte dei processi penali francesi. Nel secondo volume di Vremia del 1861, appare un’esposizione dettagliata del processo Lacernaire36. L’analisi di questo dramma giudiziario portò Dostoevskij a mettere in risalto alcuni nuclei tematici che risulteranno rilevanti per le analisi psicologiche dei “criminali” nelle sue grandi opere narrative. Il pluriomicida Pierre Francois Lacenaire, che nel 1829 aveva ucciso il nipote di Benjamin Costant, era, commenta Dostoevskij, «una personalità umana fenomenale e misteriosa, spaventosa e 36. L. Grossmann, La poetica di Dostoevskij, cit. in Michail Baktin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino 1968, p. 397.

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interessante. I bassi istinti e la debolezza davanti alla necessità lo hanno fatto un delinquente, ma osa ancora offrirsi come vittima del proprio secolo. E, oltre a ciò, ha una sconfinata vanità»37. Per tutti questi motivi, Piero Gobetti ritiene Dostoevskij un «discepolo dei galeotti»38. I riferimenti biografici non bastano da soli a fare di Dostoevskij un criminologo. L’osservazione di Nicolaj Berdjaev, secondo cui «Dostoevskij non è solo un antropologo, ma anche un singolare criminalista»39, sembrerebbe ridimensionare la portata delle notazioni dello scrittore a mera curiosità. Invece, l’interesse e la competenza in materia penale non sono fini a se stessi, ma sono utilizzati all’interno di una prospettiva che ha per obiettivo una esauriente fondazione del senso e del valore dell’esistenza. Scrive a questo proposito Italo Mancini: Per tanta parte Delitto e castigo procede come un giallo e ha eccellenti scansioni procedurali; ma il suo Grund sta nel metafisico incontro di Raskolnikov con Sonja, l’evangelica femmina del marciapiede. E anche l’altro grande processo che interessa i Karamazov, non è in vista della verità penale nello stretto senso del termine; è, invece, occasione dell’esplodere di un altro livello di verità, quello della visione metafisica della pena come retribuzione […]. Tutto ciò significa che in Dostoevskij si dà un passaggio dalla competenza criminalistica alla penetrazione metafisica nella cosa40.

In tal modo, conclude Mancini, «la questione della pena diventa la questione dell’essere e dell’assiologia»41. La questione penale non può prescindere dalla domanda circa l’esistenza della colpa – se sia totalmente attribuibile all’uomo o a fattori esterni che lo determinano, come la natura, la

37. Ivi, p. 398. 38. P. Gobetti, Paradosso dello spirito russo, Torino 1976, p. 97. 39. N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Torino 2002, p. 67. 40. I. Mancini, Dostoevskij e la questione penale, in Aa.Vv., Dostoevskij e la crisi dell’uomo, Firenze 1991, p. 267. 41. Ibidem.

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società, la storia. Nel corso dell’Ottocento, il diritto e la filosofia hanno teso a deresponsabilizzare il reo e a valutare un delitto in relazione alla sua pericolosità per l’ordine sociale. Dostoevskij si oppose a questa tendenza e difese invece la teoria classica della retribuzione penale. Egli vedeva operare nel delinquente la cattiva volontà e il male, anche se combinati con diversi elementi imprevedibili e misteriosi. Secondo Berdjaev, «l’etica di Dostoevskij insorgeva contro la spiegazione esteriore del male e del delitto come frutto dell’ambiente sociale e contro il ripudio, per tale motivo, del castigo»42. Tale teoria «negava la profondità della natura umana, negava la libertà dello spirito umano e la responsabilità che a questa si ricollega. Se l’uomo è solo un riflesso passivo dell’ambiente sociale esterno, se non è un essere responsabile, allora non c’è uomo e non c’è Dio, non c’è libertà, non c’è il male e non c’è il bene»43. Dostoevskij sottolinea l’imponenza e l’autonomia del male tanto da rasentare l’eresia rispetto al cristianesimo. «Il concetto che Dostoevskij ha del male è assolutamente antinomico. La complessità di tale concetto ha indotto qualcuno a dubitare che fosse cristiano. Una cosa è fuori di dubbio: il concetto che Dostoevskij ha del male non è canonico. Egli voleva conoscere il male, e in ciò era uno gnostico. Il male è il male. La natura del male è interna, metafisica, non esterna, sociale»44. Non risulta dal complesso dei suoi scritti né una conoscenza, né un’adesione di Dostoevskij allo gnosticismo. Inoltre, la forza del male non esclude la responsabilità dell’uomo e della sua volontà nel compimento del delitto. La comprensione di questo fatto, e l’accettazione della sofferenza che ne consegue, sono per il reo già parte della punizione. L’assassino ideologico e la sua origine nelle astratte e spietate teorie rivoluzionarie costituiscono un banco di prova straordinario per valutare la potenza del male e la dialettica colpa-puni42. N. Berdjaev, op. cit., p. 68. 43. Ibidem. 44. Ivi, p. 69.

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zione. In Delitto e castigo, Raskolnikov presenterà l’uccisione di “una sordida usuraia” come il gesto eroico di un uomo superiore, al quale tale atto è permesso in quanto il suo scopo è quello di sanare un’ingiustizia sociale. Ma il peso della colpa sarà tale che egli cadrà nel delirio e nella malattia e, alla fine, confesserà il delitto, cercando di espiarlo prima in modo meccanico, con il carcere e la deportazione in Siberia, poi nella prospettiva di una “nuova vita” che gli offrirà la prostituta Sonja. Così Raskolnikov compirà un itinerario esemplare dal “delitto” al “castigo”, grazie al processo di assunzione di responsabilità. Raskolnikov aveva offerto una sorta di giustificazione dell’omicidio in uno scritto che costituisce la principale prova di colpevolezza per il giudice istruttore Porfirj. Dall’articolo, afferma Porfirj, risulterebbe l’esistenza nel mondo di persone le quali «non solo possono, ma hanno il pieno diritto di commettere qualunque specie di eccessi e di delitti, e quindi la legge non sarebbe stata scritta per loro»45. Quindi «gli uomini, in un certo senso, sono divisi in “comuni” e “non comuni”. Quelli comuni devono vivere ubbidendo e non hanno il diritto di trasgredire la legge, poiché sono uomini comuni. Invece, quelli non comuni hanno il diritto di commettere qualunque delitto e di trasgredire in qualunque modo la legge, proprio perché non sono uomini comuni»46. L’indiziato non nega la sostanza di quelle affermazioni: «io, dice Raskolnikov, ho puramente e semplicemente accennato che l’uomo “non comune” ha il diritto […], cioè non un diritto ufficiale, ma un diritto personale, di autorizzare la propria coscienza a scavalcare […] certi ostacoli, e unicamente nel caso che l’attuazione della sua idea (a volte, forse, benefica per tutta l’umanità) lo esiga»47. Come si vedrà nel prosieguo nel romanzo, Raskolnikov svilupperà la sua tesi in due direzioni: con una apologia di Napoleone, consueta nell’ambiente politico e intellettuale russo del 45. F. Dostoevskij, Delitto e castigo, Milano 1982 , pp. 289-90. 46. Ivi, p. 290. 47. Ibidem.

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periodo, in cui si affermerà il diritto alla violenza di chi vuol fare emergere un ordine nuovo in opposizione a rapporti sociali antiquati e iniqui, e con un elogio invece di stampo illuminista del progresso scientifico a tutti i costi. Secondo me, – afferma Raskolnikov – se le scoperte di Keplero e di Newton, per qualche combinazione, avessero potuto essere diffuse tra gli uomini solo sacrificando la vita di una, dieci, cento persone, che avessero impedito quelle scoperte o le avessero ostacolate, allora Newton avrebbe avuto il diritto e anche l’obbligo […] di eliminare quelle dieci o cento persone, per far conoscere le sue scoperte a tutta l’umanità. Da questo, però, non deriva affatto che Newton avesse il diritto di ammazzare chiunque gli fosse saltato in mente, il primo che gli fosse capitato, o di rubare al mercato tutti i giorni48.

Raskolnikov conferma nella sostanza la teoria della divisione degli uomini in inferiori e superiori, la cui origine è, secondo Italo Mancini, in un «umanesimo sfrenatamente individualistico, dove agisce più il darwinismo del più forte e della selezione, con il diritto a vivere solo in forza di questo, che non una forma di prometeismo umanistico»49, come è nella coeva dottrina di Nietzsche dell’Oltre-uomo. Gli uomini, per legge di natura, – dice Raskolnikov – si dividono in generale in due categorie: quella inferiore (uomini comuni), ossia quel materiale, diciamo così, che serve solo per la procreazione di altri esseri dello stesso tipo, e gli uomini veri e propri, cioè quelli che hanno il dono o la capacità di dire nel loro ambiente una parola nuova. Le suddivisioni, naturalmente, sono infinite, ma le caratteristiche che distinguono le due categorie sono abbastanza nette: costituiscono la prima categoria, ossia il materiale, generalmente parlando, gli uomini per loro natura conservatori, ordinati, che vivono ubbidendo e amano ubbidire. E a mio giudizio hanno proprio l’obbligo di ubbidire, perché questa è la loro missione, e in ciò 48. Ivi, p. 291. 49. I. Mancini, op. cit, p. 102.

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non vi è nulla di umiliante per loro. Quelli della seconda categoria, invece, trasgrediscono tutti la legge, sono dei sovvertitori, o inclini a esserlo, in rapporto alle loro capacità. I delitti di questi uomini, naturalmente, sono relativi e di molte specie; in maggioranza, essi pretendono con formule diversissime di sovvertire il mondo attuale in nome di uno migliore. Ma se è necessario che uno di loro, per la propria idea, scavalchi anche un cadavere e versi anche del sangue, egli può, secondo me, nel suo intimo, in coscienza, autorizzarsi a versare quel sangue: in proporzione all’idea e alla sua importanza, notate bene50.

Il darwinismo sociale risulta confermato anche dal fatto che l’omicidio volontario non si alimenta solamente di giustificazioni astrattamente ideologiche, vi è un’altra motivazione espressa dallo stesso Raskolnikov, quando rivendica il diritto/dovere di sopprimere dei membri sordidi e improduttivi della società quali erano l’usuraia e la sprovveduta e un po’ stupida sorella Lizaveta. Sia prima di uccidere, che dopo, durante la malattia e il delirio che seguono l’omicidio e in un certo qual modo anticipano la presa di coscienza della responsabilità, Raskolnikov si ripete con sempre meno convinzione questo motivo: Delle forze giovani, fresche, che vanno perdute, per mancanza di appoggio, e a migliaia, dappertutto! Cento, mille iniziative buone che si potrebbero organizzare e aiutare con il denaro della vecchia, destinato a un monastero! Centinaia, migliaia, forse, di esistenze indirizzate nella giusta strada; decine di famiglie salvate dalla miseria, dalla disgregazione, dalla rovina, dal vizio, dai sifilicomi, e tutto questo con il suo denaro. Se l’ammazzassimo e ci prendessimo i suoi soldi per dedicarci poi con questi mezzi al servizio di tutta l’umanità e della causa comune, non credi che un solo piccolo delitto sarebbe cancellato da migliaia di opere buone? Per una vita, migliaia di vite salvate dallo sfacelo e dalla depravazione. Una morte sola, e cento vite in cambio: ma questa è aritmetica! E poi che cosa conta sulla bilancia generale della storia la vita di quella vecchiaccia tisica, stupida e cattiva? Non più della vita di 50. F. Dostoevskij, Delitto e castigo, cit., p. 292.

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un pidocchio, di uno scarafaggio; anzi, vale meno, perché quella vecchia è dannosa51.

L’individuo non ha un valore assoluto, ma relativo alla sua utilità generale: una persona, tarata e mal riuscita, pesa meno nella bilancia della società rispetto «alle migliaia di vite salvate dallo sfacelo e dalla depravazione»52. Fra il progresso materiale e la salvezza di un’anima, la civiltà occidentale sembra ormai decisamente propendere per il primo a scapito della seconda. In questa logica materialista, il delitto non è più una colpa in assoluto ma è tale solo in relazione ai risultati conseguiti. Delitto e diritto non sono altro che manifestazioni di quella forza cui bisogna far ricorso necessariamente nella lotta per la sopravvivenza. Il delitto è l’affermazione di un diritto e il diritto è tale perché ratifica la supremazia del più forte. È quel «diritto delle tigri e dei coccodrilli»53 di cui parla Dostoevskij ne L’idiota, dove è specificato: «volevo solo osservare che da questa teoria si può direttamente approdare al diritto della forza, cioè al diritto del singolo pugno e del capriccio individuale, che è del resto il modo in cui molto spesso al mondo si risolvono le dispute»54. Dopo “la morte di Dio”, non più garante di una giustizia, di un ordine e di una legge eterni e trascendenti, si afferma una concezione che sacrifica la dignità dell’individuo alle leggi generali del progresso. Anche Proudhon, continua Dostoevskij, «si è dovuto fermare sul diritto della forza. Durante la guerra americana di Secessione, molti liberali si sono schierati dalla parte dei padroni delle piantagioni, nel senso che i negri sono negri, inferiori agli uomini di razza bianca, e perciò il diritto della forza spettava ai bianchi»55.

51. Ivi, p. 73. 52. Ibidem. 53. F. Dostoevskij, L’idiota, Milano 1995, p. 397. 54. Ivi, p. 396. 55. Ibidem.

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La vaghezza dell’idea del bene, in nome della quale l’uomo superiore potrebbe arrivare fino all’omicidio, fa emergere il sospetto che la vera radice dell’azione delittuosa in Raskolnikov sia egoistica e si nasconda nel “sottosuolo” dell’individuo. La logica del sottosuolo annulla ogni sentimento di colpa, perché rivela la radicale inclinazione di ogni uomo al delitto. «Io solo, scrive Dostoevskij, ho svelato tutta la tragicità del sottosuolo, che consiste in sofferenze, autopunizioni, nella coscienza del bene e nell’impossibilità di raggiungerlo e, soprattutto, nella netta convinzione di questi infelici, che tutti siamo così e che quindi, forse, non vale la pena di correggersi»56. La verità del sottosuolo consiste nella dichiarazione che non esiste alcuna verità e il suo scopo “finale” è quello di dichiarare la fine di tutti gli scopi, di tutti i motivi, di tutte le essenze, di tutte le norme, compreso l’ideale di giustizia, e quindi compresi anche i motivi della colpa e della pena. Se manca lo scopo viene a mancare ogni fine anche alla pena e alla espiazione: di fronte alla colpa si sta come di fronte a un fatto, c’è e basta. Il modo di agire del protagonista delle Memorie dal sottosuolo, per quanto spietato e oltraggioso, non è accompagnato da nessun senso di colpa. Ogni pulsione o desiderio sono vissuti solo per il semplice fatto che esistono e basta. Nel monologo che precede il racconto dei fatti, Dostoevskij fa negare che esista un mondo di fini, di scopi e di essenze: Dove sono per me le cause prime sulle quali io possa appoggiarmi, dov’è la base di esse? […] Ho detto: l’uomo si vendica perché nella vendetta trova la giustizia. Il che vuol dire che ha trovato la causa prima, ha trovato la base, la giustizia. Per conseguenza egli è tranquillo da tutti i lati e si vendica tranquillamente e con proprio vantaggio, convinto di compiere un’azione onesta e giusta. Ma io la giustizia non la vedo e perciò se mi vendico è per cattiveria57.

56. Cit. in I. Mancini, op. cit., p. 196. 57. F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Milano 1995, p. 33.

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Se ci fosse la giustizia, il nesso colpa-pena avrebbe senso. Ma la giustizia non c’è, come non c’è un mondo di fini in generale: «Tu guardi, lo scopo scompare, le ragioni si oscurano, il colpevole non è possibile trovarlo – e allora – l’offesa non è più offesa, ma una fatalità, qualche cosa di simile a un mal di denti, del quale nessuno è colpevole, e per conseguenza non rimane che un’unica uscita, cioè battere più forte contro il muro»58. Solo l’idea di giustizia giustifica la pena. Nel “sottosuolo” Dostoevskij individua così la vocazione dell’uomo per il delitto o il male: «e se avvenisse – dice il personaggio delle Memorie – che il vantaggio dell’uomo, almeno qualche volta, non soltanto può, ma deve consistere nel desiderare, in certi casi, non il vantaggio, ma il male? – Ossia – l’uomo ama di costruire e tracciare delle strade; è indiscutibile. Ma perché ama anche la follia, la distruzione e il caos?» Se questa è la consistenza dell’esistenza, «ha ancora senso l’espiazione, la correzione o l’emenda?» Infatti «da che cosa deducete che è necessario correggere il volere umano?»59. In questa prospettiva il delitto sembra una forma di malattia. Raskolnikov si domanda perché non esista il delitto perfetto e collega l’esecuzione del crimine a un “indebolimento” della volontà malata: Il delinquente – è detto – al momento del delitto va soggetto quasi sempre a una specie di indebolimento della volontà e della ragione, alle quali subentra invece una puerile e fenomenale leggerezza […] In base a tale convinzione, questo offuscamento della ragione e questo indebolimento della realtà attaccano l’uomo a somiglianza di una malattia, hanno uno sviluppo graduale e raggiungono il loro punto culminante poco prima che il delitto sia commesso; permangono con la stessa intensità nel momento preciso del delitto e anche un po’ dopo, secondo gli individui; poi passano, come passa ogni malattia. Quanto al problema: se sia la malattia che origina il delitto, o se il delitto stesso, per la sua particolare natura, si 58. Ibidem. 59. Ibidem.

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accompagni sempre in qualche modo a una specie di malattia, non si sentiva in grado di risolverlo.

Secondo Italo Mancini, non c’è nessun riferimento alle teorie lombrosiane del delinquente nato o del delinquente sociale; semmai «c’è un’acuta analisi del comportamento malefico, che si avvicina a quella dell’angoscia di Kierkegaard e della sua analisi che lega peccato a vertigine»60. Ma l’indebolimento della volontà non attenua la responsabilità del reo e Dostoevskij, ne Il giocatore, conferma questa sua convinzione deridendo i frequenti ricorsi dei giudici alla medicina legale e all’infermità mentale per attenuare il principio di responsabilità. Di questa circostanza (della infermità mentale) ha incominciato negli ultimi anni ad abusare nel mondo giuridico: gli avvocati nei processi penali si sono messi spessissimo a giustificare i loro clienti, i delinquenti, col dire che essi, nel momento del delitto, non ricordavano più nulla, e che questo è, così si pretende, una certa malattia. «Ha picchiato – dicono – e non ricorda nulla!». La medicina fa loro eco, effettivamente conferma che c’è una malattia siffatta, una tale temporanea alienazione mentale, in cui l’uomo non ricorda niente, o ricorda a mezzo, o ricorda per un quarto61.

Nei Ricordi della casa dei morti, però, Dostoevskij, impressionato dalla “mostruosità” bestiale dei delinquenti con i quali convive nella casa penale, è quasi portato a deresponsabilizzare gli uomini per il loro comportamento e a addossarne tutta la colpa alla natura. Se mostra un inflessibile rigore quando i responsabili degli omicidi adducono motivazioni ideologiche, non nasconde la sua pietà di fronte a criminali la cui esistenza è rovinata dal gioco, dall’alcol e dalla sifilide. Il delitto, scrive, «non può essere concepito da punti di vista fissi, belli e pronti, e la sua filosofia è alquanto più difficile di quanto non si sup-

60. I. Mancini, op. cit., p. 198. 61. F. Dostoevskij, Il giocatore, Milano 1987, p. 44.

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ponga»62. Infatti, constata che tra i suoi compagni detenuti in Siberia esisteva gente dotata di “bestiale insensibilità”, e “naturalmente inconcepibile”, al punto che è portato a concludere: «qui c’è qualche difetto di costituzione, una qualche mostruosità fisica e morale, ancora ignota alla scienza, e non semplice delitto»63. Questa ipotesi lombrosiana non intende però cancellare la tesi fondamentale di Dostoevskij della responsabilità del reo. Su questo punto Dostoevskij si è espresso chiaramente attraverso uno dei personaggi che meglio lo rappresenta, il principe Myškin: Di recente sono stato nelle prigioni e ho potuto far conoscenza con alcuni delinquenti e imputati […] Ecco cosa ho notato: anche l’assassino più incallito, e immune da rimorsi, sa tuttavia di essere un delinquente, cioè stima in coscienza si avere agito male, anche se non prova alcun rimorso. E tale era ognuno di loro, mentre questi di cui ha parlato Eugenii Pavlyč non vogliono nemmeno considerarsi delinquenti e pensano di avere avuto ragione e […] addirittura di avere agito bene, o poco ci manca. Ecco, in questo, appunto, consiste, secondo me, la terribile differenza64.

Luigi Pareyson offre un’interpretazione unitaria del pensiero di Dostoevskij a partire dall’esperienza della libertà che, coerentemente alla prospettiva dostoevskiana, è intesa come contemporaneamente voluta e subita da Dio. Infatti, essa è all’origine dell’autentica fede, ma anche di ogni possibile contestazione dell’autorità divina. Dando la libertà, Dio porta nella sua stessa creazione il dissidio e la contraddizione che corrispondono al «momento ateo della divinità»65. L’esistenza è così interamente percorsa dal conflitto tra le due realtà irriducibili del bene e del 62. F. Dostoevskij, Ricordi della casa dei morti, Milano 1988, p. 18. 63. Ivi, p. 20. 64. F. Dostoevskij, L’idiota, cit., p. 456. 65. L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Torino 1993, p. IX.

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male, tra peccato ed espiazione, in cui Dio e uomo sono implicati e da cui emerge il valore di riscatto della sofferenza.

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3. Diritto e Positivismo Le affermazioni di Dostoevskij sono in controtendenza rispetto alle teorie giuridiche che si andavano diffondendo nella seconda metà dell’Ottocento nell’ambito del Positivismo e che tendono a ridimensionare se non a cancellare l’idea stessa della responsabilità del reo66. Una delle maggiori componenti della cultura positivistica è il naturalismo. Il successo delle scienze sperimentali e delle loro applicazioni tecniche suscitarono la convinzione della correttezza del loro metodo, estendibile a ogni forma di sapere, anche allo studio della società e della mente umana. Quindi anche i problemi morali e spirituali dovevano avere un approccio scientifico. Si diffuse l’idea che solo l’osservazione dei fatti poteva fondare delle conoscenze vere, e che anche i fenomeni sociali e psichici fossero soggetti a leggi naturali che rendevano possibili delle previsioni, sia pure nei limiti compatibili con la complessità superiore delle aggregazioni umane e della mente. L’aspirazione a un sapere assoluto assunse una forma moderna, solo che a realizzarla non erano più la teologia o la filosofia ma le scienze della natura, con il loro metodo che permetteva di scoprire costanti e leggi in tutti i contesti. L’essenza di ogni positivismo è il metodo, che con l’insistenza sui “fatti”, acquisiti tramite l’osservazione e l’esperimento, porta al rifiuto di ogni metafisica. In questo clima culturale la “Scuola italiana di criminologia” di Lombroso, Garofalo e Ferri rinnovò profondamente le precedenti concezioni penali. Mentre i giuristi della scuola “classica” avevano mantenuto come caposaldo della loro dottrina il criterio della imputabilità 66. G. Fasso, La filosofia del diritto dell’Ottocento e del Novecento, Bologna 1994.

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in base alla responsabilità morale, che ha come suo necessario presupposto il concetto filosofico e religioso del libero arbitrio, Lombroso, Garofalo e Ferri, negando quest’ultimo, si spinsero sulla via del determinismo. Cesare Lombroso, nel 1878, sviluppò la sua tesi antropologica e naturalista della criminalità nell’Uomo delinquente67. A lui si deve «la nozione di anormalità del delinquente, studiata nella sua genesi e nel suo meccanismo di manifestazione secondo i principi dell’antropologia criminale»68. A Raffaele Garofalo invece si deve, a partire dalla sua opera Criminologia, «la nozione della temibilità del delinquente enunciata come criterio positivo della penalità e poi accolta dai criminalisti sotto il nome più esatto di pericolosità»69. Egli ritiene non sia possibile imputare all’uomo un’azione che si è rivelata per lui “necessaria” anche contro le indicazioni della stessa ragione; pertanto, tolta di mezzo l’indipendenza morale, il criterio direttivo della pena deve essere «la temibilità del delinquente», la quale serve «a classificare i delitti secondo la loro gravità subiettiva»70. Enrico Ferri71 trasferì queste concezioni in un coerente sistema di leggi che lo fece ritenere sulle prime un semplice discepolo o seguace di Cesare Lombroso. Ma Lombroso, scrive Orfeo Cecchi, «non fu mai un criminalista. Nulla egli sapeva di ciò che è delitto, evento dannoso o pericoloso, dolo, colpa, imputabilità, pericolosità, ecc. Lombroso fu un medico e deve essere giudicato soltanto per ciò che si propose come medico o come psichiatra»72. Nel giudizio di Cecchi, tutto il lavoro di Lombro67. C. Garofalo, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, giurisprudenza e alle discipline carcerarie: delinquente nato e pazzo morale, Torino 3 1884 [1876]. 68. Aa.Vv., Enrico Ferri maestro della scienza criminologica, Torino 1941, p. 28. 69. Ibidem. 70. R. Garofalo, Criminologia, Torino 1891 [1885], p. 61. 71. E. Ferri, Studi sulla criminalità e altri saggi, Bocca, Torino 1901. 72. O. Cecchi, Enrico Ferri educatore, in Id., Enrico Ferri maestro…, cit., p. 150.

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so, «a ben guardare, si ridusse a questo: nel presupporre che i veri delinquenti siano soltanto nelle carceri e che siano tutti anormali e poi nel cercare e riscontrare in alcuni di essi, senza un metodo serio, senza un termine di confronto esatto, i segni degenerativi e anormali. Si può essere più disinvolti e infantili di così?»73. Lombroso, conclude Cecchi, «Non fu che un medico, con fantasia di romanziere, con scarsissimo senso critico, che senza i suggerimenti, la cooperazione e la propaganda di Ferri sarebbe rimasto pressoché ignoto»74. Infatti, fu sicuramente Ferri che trasformò la tesi dell’anormalità del delinquente in teoria fondamentale della scienza del diritto penale, tentando così di scalzare alla base i sistemi criminalisti del suo tempo. Egli ampliò la teoria lombrosiana non vedendo nelle manifestazioni criminose solo l’azione dei fattori biologici ma anche quella dei fattori sociali. Da qui nasce la sua classificazione dei tipi delinquenti per un verso in pazzi, nati e abituali, e per l’altro in occasionali e passionali, secondo la maggiore o minore prevalenza dell’elemento individuale, naturale, sull’elemento sociale e viceversa. Ferri reinterpretò anche il principio della pericolosità del delinquente enunciato da Garofalo, il quale non aveva stabilito una misura della responsabilità penale, eludendo il problema della gradazione delle sanzioni. Secondo Ferri, invece, la pericolosità è definita dal diritto della società alla propria conservazione, indipendentemente da una qualsivoglia responsabilità morale del delinquente. «La reazione penale è una forma di reazione naturale. Come ogni essere che si manifesti inadatto all’ambiente soccombe, così l’uomo rivelatosi inadatto all’ambiente sociale col delitto, ne subisce per necessità ineluttabile le conseguenze»75. Tradotto in formule legislative, il principio positivista della “responsabilità sociale” diventa “responsabilità legale”, come 73. Ivi, p. 150. 74. Ivi, p. 151. 75. Enrico Ferri, Lezioni di Diritto Penale dettate dal prof. Enrico Ferri. Anno accademico 1903-1904, Roma s.d., p. 158.

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quella che la legge stabilisce, prescindendo dallo stato psichico del delinquente, in relazione alla gravità dell’attacco alla società. Ferri non abbandona pertanto la nozione del reato come ciò che è vietato dalla legge penale e, quindi, del delinquente come l’autore di una azione qualificata delitto dalla legge, che tutela giuridicamente beni e interessi personali, o di particolare importanza politica e sociale. Le sanzioni di anormalità e di pericolosità, per quanto Ferri abbia tenuto fermo il significato assunto dai due termini nell’ambito dell’antropologia e della sociologia criminale, non sono sufficienti di per sé a fondare una responsabilità penale che deve rimanere ancorata comunque all’aver commesso un reato. La natura della pericolosità, rilevata con il delitto, servirebbe soltanto come criterio direttivo per l’adattamento della sanzione, tenuto conto della personalità dell’agente, dei motivi determinanti e della gravità del reato. La scuola positiva fece una campagna più dura e più di successo per una serie di riforme, considerate, fino a tempi recenti, illuminate o liberali e che implicavano, tutte, il principio della sentenza indeterminata. Per la maggior parte essi vinsero e poche persone si rendono conto, oggi, che il nostro moderno sistema della parola d’onore, della scarcerazione anticipata e della sentenza indeterminata risale in parte alla campagna di Lombroso per il trattamento differenziale dei criminali nati e di quelli occasionali76.

Lombroso, però, legando la pratica giudiziaria e psichiatrica a quanto è oggettivamente visibile77, se da un lato favorisce la documentazione statistica e fotografica in criminologia, dall’altro incoraggia la tipizzazione e la conoscenza astratta del criminale, cancellando il soggetto con il suo dolore irriducibile e con la dimensione umana della sua storia78.

76. S.J. Gould, Intelligenza e pregiudizio, Milano 1998, p. 143. 77. Aa.Vv., Locus Solus. Lombroso e la fotografia, Milano 2005. 78. R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Milano 1985.

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Il successo di queste idee è registrato da Tolstoij nel suo ultimo grande romanzo, Resurrezione, del 1889. Il protagonista, il principe Nechljudov, prova a spiegare la condanna ingiusta di una donna, che in gioventù aveva accusato a torto, negli eruditi lavori dell’antropologia criminale italiana: «Sulle prime aveva sperato di trovare una risposta nei libri e aveva acquistato tutte le opere che trattavano questo argomento, gli studi di Lombroso e di Garofalo, di Ferri, di List, di Maudsley, di Tarde e aveva cominciato a leggerli. Ma quanto più procedeva nella lettura, tanto maggiore era la sua delusione»79.

4. La questione della responsabilità La questione della colpa richiama quella della responsabilità. Dostoevskij affronta tale problema non nella sua dimensione psicologica, legata alla reazione della coscienza individuale, né nella sua dimensione sociale, legata alla percezione del delitto da parte della collettività. Entrambi i punti di vista sono, a suo parere, limitati, come lo è anche quello giuridico, in quanto la ricerca della equivalenza perfetta tra la colpa e il grado di consapevolezza interiore del reo risulta difficile da raggiungere, al punto da sembrare un mito. Quello che è opportuno, invece, è «la descrizione di come la colpa, per il suo stesso peso, generi una logica della responsabilità che porta fino all’assunzione della giustizia penale e all’invocazione della espiazione radicale»80. Raskolnikov costituisce il paradigma di questa condizione, in quanto pur non riconoscendo il proprio delitto, se lo trova progressivamente «piantato nel cuore»81, e non per motivi psicologici, sociologici o giuridici. Egli ha compiuto il delitto:

79. L. Tolstoij, Resurrezione, Torino 1982, p. 308. 80. I. Mancini, Dostoevskij e la questione penale, cit., p. 201. 81. Ibidem.

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Nessun sospetto può cadere su di lui. E qui si svolge tutto il processo psicologico del delitto. Problemi insolubili sorgono nell’assassino, sentimenti, insospettati e inattesi, lacerano il suo cuore. La volontà divina, la legge terrena si fanno valere ed egli finisce con l’essere costretto a denunziarsi, per potere, anche se finirà all’ergastolo, riavvicinarsi agli uomini. Il sentimento di isolamento e di distacco dall’umanità, che egli ha sentito subito dopo avere commesso il delitto, lo tormenta. La legge della verità e la natura umana hanno sopraffatto la sua convinzione; egli stesso decide di addossarsi la sofferenza per riscattare la propria azione82.

Dostoevskij, che presenta il suo romanzo come il resoconto psicologico di un delitto, in realtà procede da un punto di vista ontologico. Più che la psiche, è in azione la legge della verità, che produce due effetti: il primo è il risveglio dell’umanità del reo, il secondo è il processo di isolamento e di incomunicabilità che lo separa dal resto degli esseri umani. Raskolnikov evita proprio chi ama di più, la madre e la sorella, a loro volta afflitte e distrutte dal suo atteggiamento. Arriva a pensare al suicidio e lo tenta, ma l’autodistruzione c’è già stata, in quanto il delitto ha agito come un fermento di morte. Non solo sulla coscienza, ma soprattutto sull’essere stesso. Raskolnikov, ha scritto Berdjaev, «sopprimendo una vecchia insignificante e nociva, sopprime se stesso»83. Nei confronti di Raskolnikov, Dostoevskij non mostra compassione. Egli, secondo André Gide, è implacabile con «gli orgogliosi dell’intelligenza»84, tra i quali trova i rappresentanti più significativi della demonicità: «La volontà dei suoi eroi – scrive Gide – tutto quanto c’è in essi di intelligenza e di volontà, sembra precipitarli verso l’inferno»85. Raskolnikov per salvarsi dovrà arrendersi all’umile evangelismo di Sonja, la prostituta, che lo 82. F. Dostoevskij, Introduzione, in Delitto e castigo, cit. in I. Mancini, op. cit., p. 202. 83. N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Torino 1977, p. 97. 84. A. Gide, Dostoevskij, Torino, p. 147. 85. Ivi, p. 149.

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allontanerà dalle elucubrazioni penose del suo continuo ragionare. Dostoevskij sembra apprezzare di più l’“idiota” Myškin e comprendere le passioni lussuriose dei Karamazov, padre e figlio maggiore, che non la spietata intelligenza di Stavrogin o di Ivan Karamazov, che avranno il destino più tragico. Gli eroi della ragione intellettuale sono proprio i “più perfidi”, quelli affidati da Dostoevskij «alla furia nichilista della colpa»86. Secondo Gide, Dostoevskij riconosce alla psiche umana diversi strati: «una regione intellettuale, estranea all’anima e donde pertanto emanano le peggiori tentazioni. È là che abita l’elemento perfido, l’elemento demoniaco»87; una seconda regione, quella delle passioni, devastata da tempeste e da eventi tragici, incapaci però di agire sull’anima stessa dei personaggi; infine c’è la regione più profonda, che “la passione non turba”, cioè quella che si identifica con l’anima, rappresentata al meglio da Myškin, cui attinge Raskolnikov per risorgere a nuova vita. Gli intellettuali che si distinguono tra i teorici dell’omicidio ideologico, vivranno tragicamente la dialettica colpa/pena e non si salveranno finché non ritorneranno umili. Personaggi come Marmeladov, l’ubriacone generoso e sincero che non sa resistere al suo vizio, come Katerina Ivanovna, sua moglie, tisica e annichilita dalla miseria, oppure come Sonja, la loro figlia prostituta, pur non giustificati nelle loro colpe, saranno oggetto di compassione. «La pietà per i passionali e per quelli che sono esistenzialmente feriti si basa soprattutto sulla loro umiltà, ossia sul loro costante riconoscimento di essere fragili, esposti alla colpa, e quindi sempre debitori di fronte alla vita e mai creditori, anche se questa vigile e dolente coscienza, si accompagna a un atteggiamento di grande dignità»88. È in queste figure di poveri e derelitti, umiliati e offesi dalla vita che è possibile cogliere l’umanesimo di Dostoevskij, in nome del quale non accetta una visione totalmente pessimista 86. I. Mancini, op. cit., p. 203. 87. A. Gide, op. cit., p. 192. 88. I. Mancini, op. cit., p. 204.

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dell’uomo, anche quando ne riconosce la malvagità. La sua comprensione non ha nulla di intellettuale ma si mantiene sul piano esistenziale. In un brano di Umiliati e offesi, Dostoevskij afferma: Se soltanto potesse avvenire (ma data la natura umana non accadrà mai), se potesse avvenire, dico, che ciascun uomo fosse obbligato a rivelare l’intimo fondo di se stesso, ma in modo da non temere di dire non solo ciò che egli non direbbe mai agli uomini, non solo ciò che avrebbe paura di confessare ai suoi migliori amici, ma anche ciò che non osa confessare neppure a se stesso, ebbene, in tal caso, si spargerebbe nel mondo un tale fetore da soffocare tutti quanti89.

Questa nullità dell’uomo è uno dei motivi dominanti dell’opera dostoevskiana. Scrive Vincenzo Vitiello: Il tema di fondo dei romanzi di Dostoevskij non è la libertà, e neppure la dialettica tra bene e male, dialettica che comprende con la lotta la continua conversione dell’un termine nell’altro. Questi temi sono certo ben presenti e talora, anzi spesso, appaiono predominanti, sino a oscurare la visione del tema di fondo, che è la nullità dell’ek-sistere, il deserto dell’esistenza. Il grado zero: quel tramezzo, quell’atopon metaxy, che è prima della libertà e della dialettica bene/male90.

Proprio la sofferenza dell’esser nulla e l’accettazione di tale sofferenza sono ciò che permettono la salvezza rispetto a un Dio che è qualitativamente differente e “totalmente altro” rispetto all’uomo. Una profonda esperienza della nullità dell’uomo avviene nei momenti che precedono una crisi epilettica. Sia ne L’idiota sia ne I demoni, si sottolinea la funzione rivelatrice dell’attimo che 89. F. Dostoevskij, Umiliati e offesi, in Id., Romanzi e taccuini, vol. I, Firenze 1963, pp. 855-856. 90. V. Vitiello, Cristianesimo e nichilismo. Dostoevskij-Heidegger, Brescia 2005, p. 87.

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annunzia la malattia che accompagnò Dostoevskij fin dagli anni giovanili. Per chi lo prova è un momento di intensa staticità, in cui si raggiungono l’eterno e la pace, mentre chi vi assiste prova un «mistico terrore»91. Per le esistenze povere e fallite, e lo spavento esistenziale, Dostoevskij è spinto a legarsi alla sensibilità popolare che parla del delitto come di una disgrazia. Trattando, nei Ricordi della casa di morti, della considerazione in cui erano tenuti i galeotti, osserva che: La gente comune non rimprovera mai il detenuto per il suo delitto; per quanto orribile sia, gli perdona tutto per il castigo che ha subito, e, in generale per la sua disgrazia. Non per nulla il popolo dell’intera Russia chiama il delitto disgrazia e i delinquenti disgraziati. È questa una definizione profondamente significativa. Essa è tanto più importante in quanto data inconsapevolmente, istintivamente92.

È anche per questi motivi che Dostoevskij è spinto a rilevare un certo determinismo e una certa fatalità nel delitto. Lo rileva, ad esempio, a proposito del fatto che Raskolnikov viene a sapere al momento giusto, che l’usuraia Alena Ivànovna si troverà sola, in casa, a una certa ora, che poi sarà quella del delitto. E non manca di notare la crisi di volontà che sorprese Raskolnikov nell’atto di prendere la decisione definitiva, tanto da far supporre che vi sia giunto inerme e come in preda di un destino. «Per arrivare a casa gli mancavano pochi passi. Quando entrò, si sentiva come un condannato a morte. Non pensava a nulla, non era assolutamente in grado di pensare; ma d’un tratto si sentì come se avesse perso ogni libertà di ragionamento e ogni forza di volontà e tutto si fosse deciso di colpo una volta per sempre»93. Eppure la dialettica della responsabilità resta nella dimensione ontologica che porta Raskolnikov a confessare: «ho ucciso 91. F. Dostoevskij, L’idiota, cit., p. 317. 92. F. Dostoevskij, Ricordi della casa dei morti, cit, p. 63. 93. F. Dostoevskij, Delitto e castigo, cit., p. 70.

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me stesso, non la vecchietta»94. E resta nel riflesso psicologico che attanaglia in una presa oggettiva anche quando l’assassino non ci pensa, sicché a nulla servirebbe lo stesso annullamento della memoria. Ma di quello, di quello s’era completamente dimenticato; in compenso, aveva il costante ricordo di aver dimenticato qualcosa che non avrebbe dovuto dimenticare; si tormentava, si torturava cercando di ricordarsene, gemeva, in preda al furore o a una tremenda, insostenibile paura. In quei momenti faceva degli sforzi per alzarsi, avrebbe voluto scappare, ma c’era qualcuno sempre che lo tratteneva a forza, e lui ripiombava nell’impotenza e nell’incoscienza95.

5. La critica del sistema penale Il tema del castigo completa le riflessioni di Dostoevskij sulla colpa e sulla responsabilità. Il giudice istruttore Porfirj coglie nella «sofferenza»96 ciò che rende possibile l’espiazione, sia nella sua dimensione giuridica, sia in quella morale. Attraverso di essa sembra affermarsi l’idea di giustizia. Ma Sonja indicherà a Raskolnikov un’altra strada per liberarsi dalla colpa: «Cosa devi fare?» esclamò balzando in piedi; e gli occhi, fino allora pieni di lacrime, a un tratto le lampeggiarono. «Alzati!» […] «Va’ subito fuori, in questo stesso istante, fermati al crocicchio, prosternati, bacia prima la terra che hai insozzato, e poi prosternati davanti a tutto il mondo, in tutte e quattro le direzioni, e di’ a tutti, a voce alta: Ho ucciso! Allora Dio ti restituirà la vita»97.

L’idea di una confessione pubblica è ricorrente nei romanzi di Dostoevskij. Improvvisamente coloro che sono responsabili 94. Ivi, p. 472. 95. Ivi, p. 132. 96. Ivi, p. 519 97. Ivi, p. 472.

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di reati particolarmente gravi come Raskolnikov «sono presi, scrive André Gide, dal bisogno di confessarsi, di domandare perdono a un altro, che talora neppure capisce di cosa si tratta; dal bisogno di mettere se stesso in uno stato di inferiorità di fronte a colui cui si parla»98. La vittoria sull’orgoglio assicura la liberazione dalla colpa, come conferma l’epigrafe de I fratelli Karamazov: «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano, caduto nella terra, non muore, resterà solo; ma se muore, allora darà molto frutto»99. La sofferenza e il ritorno umile in seno alla comunità umana non si escludono ma permettono insieme la “resurrezione” del colpevole che può aprirsi a una nuova vita. Al contrario nelle carceri e nei tribunali, l’espiazione è un fatto “meccanico”, inefficace se non ingiusto. Dostoevskij ha sempre mostrato un grande interesse per le riforme dei codici e delle carceri sin dai tempi in cui militava nel socialismo fourierista e rivoluzionario del circolo Petraševcy100. Benché volesse diventare ingegnere militare, dedicò molto del suo tempo allo studio delle tecniche giuridiche e delle leggi di cui fece sfoggio in molti suoi romanzi. Ma difende una fondazione assolutamente «retribuzionistica»101 della pena e auspica un coinvolgimento e un impegno di tutto l’uomo. Presentando Delitto e castigo egli scrive: Nel mio racconto, vi è un accenno all’idea che la punizione giuridica inflitta per il delitto spaventa il delinquente assai meno di quanto pensino i legislatori, in parte perché il delinquente stesso l’esige dal punto di vista morale. Io lo ho osservato personalmente perfino negli uomini meno colti, nei casi più grossolani. Ho voluto esprimere ciò appunto in un uomo colto, nella nuova generazione perché l’idea fosse evidente nel modo più chiaro e tangibile102. 98. A. Gide, op. cit., p. 129. 99. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit. p. 1. 100. L. Grossmann, op. cit., p. 128. 101. Per una discussione sulle concezioni attuali del retribuzionismo cfr. P.C. Bori, Universalismo, Genova-Milano 2004, pp. 155-171. 102. F. Dostoevskij, Lettera a Katkov, cit. in Introduzione a Delitto e castigo, cit., p. XII.

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La critica di Dostoevskij al diritto penale si incentra innanzitutto sulla pena di morte, in secondo luogo sulla difficoltà di emendarsi nel mondo delle carceri, in terzo luogo sull’irrealizzabilità della parità penale in rapporto ai fatti delittuosi. Al fondo agisce l’idea della superiorità dell’espiazione morale su quella giuridica, per cui solo la dimensione metafisica può portare a quel mondo senza pena e senza delitto presentato dalla Starec Zosima con parole dal tono millenarista. Il tema della pena di morte è stato trattato da Dostoevskij dal punto di vista autobiografico e da quello della liceità della pena. Nell’Idiota abbiamo una versione che comprende entrambi i punti di vista: A Pietroburgo… si parla molto di nuovi tribunali. Uhm!… I tribunali. Sì, infatti abbiamo tribunali, adesso. Ditemi, all’estero c’è forse più giustizia nei tribunali che da noi? Non lo so. Ho sentito parlare molto bene dei nostri. Inoltre, non abbiamo la pena di morte. E all’estero c’è, invece? Sì. Ho assistito in Francia, a Lione, a un’esecuzione. Schneider mi ci aveva condotto con sé. Impiccano? No, in Francia tagliano la testa. E il condannato grida? Macché! Un momento solo, e tutto è finito. Sdraiano l’uomo, poi, di sopra, dall’alto, cade un largo coltello, che si mette in moto per mezzo di una macchina… si chiama ghigliottina… cade con gran forza… La testa si stacca in un batter d’occhio. Sono penosi i preparativi. È terribile quando si legge la sentenza, quando vestono, legano, fanno salire sul patibolo! La folla accorre numerosa, persino le donne, benché là non piaccia che le donne assistano allo spettacolo… Il condannato, un uomo di mezza età, intelligente, coraggioso, forte, si chiamava Legros. Vi dico, potete credermi o non credermi, mentre saliva sul patibolo, piangeva ed era pallido come un cencio. Non è forse una cosa che sembra impossibile? Non è forse un orrore? Piangere di paura! Non credevo che un uomo adulto, non un bambino, potesse piangere di paura, un uomo che prima non aveva mai pianto, un uomo di quarantacinque anni. Che cosa

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Bruno Milone provava in quel momento la sua anima? Che spasimi la stringevano? È una violazione dell’anima umana, niente altro! È detto: Non uccidere e, invece, perché lui ha ucciso, altri uccidono lui. No, è una cosa che non dovrebbe esserci. Ecco, è ormai passato un mese dal giorno in cui ho assistito all’esecuzione, e ancora adesso la visione mi balena sempre davanti agli occhi. L’ho persino sognata cinque volte… In mezzo a tutto, c’è questo di buono: che almeno non c’è molta sofferenza, quando la testa si distacca… Sapete che cosa vi dirò, continuò il Principe con ardore, l’osservazione che avete fatto adesso, la fanno tutti, e la ghigliottina è stata appunto inventata per questa ragione. A me, invece, balenò in mente anche allora questo pensiero: non potrebbe darsi che questo sistema fosse peggiore degli altri? Vi sembra forse ridicola e pazza una simile supposizione? Ma, con un po’ di immaginazione, un pensiero simile può avere la sua ragion d’essere. Guardate un po’: prendiamo la tortura; il dolore, le ferite, le sofferenze materiali distraggono il condannato dalla tortura morale, in modo che, fino al momento della morte, non si sentono altre torture che quelle della carne. Il vero dolore, invece, il dolore più forte, forse non consiste nelle ferite, ma nella coscienza, che, ecco, fra un’ora, poi fra dieci minuti, fra un mezzo minuto, adesso, subito, l’anima abbandonerà il corpo e si cesserà d’essere un uomo, e che tutto ciò è deciso e inevitabile, soprattutto la coscienza di ciò è inevitabile. Il momento più terribile è quella quarta parte di secondo in cui tu hai messo la testa proprio sotto il coltello e lo senti scivolare per colpirti. Dovete sapere che non è una mia idea, ma che pensano così anche molti altri. Io ci credo assolutamente, posso dire che questa è proprio la mia opinione. La pena di morte che danno per un assassinio è un castigo sproporzionatamente grave. Un assassinio legale è cento volte più terribile di un assassinio brigantesco. L’individuo che viene ucciso dai briganti, di notte, in un bosco o in qualche altro luogo, ha sempre, fino all’ultimo momento, la speranza di salvarsi. Si possono citare esempi di uomini che, con la gola tagliata, speravano e imploravano ancora, oppure cercarono di fuggire. Qui, invece, quest’ultima speranza, che rende la morte dieci volte meno terribile, vi è tolta irrevocabilmente con una sentenza di condanna; la più terribile tortura, la massima tortura che esiste nel mondo, è appunto quella consapevolezza dell’inevitabili-

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tà. Conducete un soldato in piena battaglia fin sotto la bocca di un cannone, egli spererà fino al momento che gli spareranno addosso; leggete invece allo stesso soldato un decreto che lo condanna alla morte sicura, ed egli piangerà o impazzirà. Chi ha detto che la natura umana può sopportarlo senza impazzire? Perché quel mostruoso e inutile vituperio? Può darsi che esista un uomo cui sia stata letta la condanna a morte, cui si sia lasciato sopportare questa tortura e sia stato poi detto: Va’, ti perdoniamo. Un tale uomo potrebbe raccontare molte cose. Di questa tortura e di questo terrore appunto, parlò Cristo. No, non è permesso agire in questo modo con un essere umano103.

Se il delitto non è lecito nei confronti di chiunque, non lo è neppure nei confronti dei criminali. Due punti, secondo Mario Cattaneo sono da sottolineare in questo brano: «In primo luogo la svalutazione del presunto carattere meno affittivo della ghigliottina (e della decapitazione in genere) rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti»104. Dostoevskij fa dire a Myškin che la sofferenza morale, causata dall’attesa spasmodica della morte, è forse peggiore della stessa sofferenza fisica. In secondo luogo, continua Cattaneo, lo scrittore russo «indica esattamente quale elemento caratterizza l’essenza di questa sofferenza morale: la certezza della morte, che dovrà sopravvenire di lì a poco tempo; e questo rende radicalmente diverse, e fra loro non paragonabili, la morte arrecata con il reato del delinquente e la morte a lui inflitta mediante la pena»105. Questa osservazione, conclude Cattaneo, «fa cadere completamente la tesi che vi sarebbe una giusta proporzione fra la pena e il delitto; no, la proporzione non c’è, perché la morte come pena è peggiore della morte come delitto»106.

103. F. Dostoevskij, L’idiota, cit., pp. 25-27. 104. M.A. Cattaneo, Suggestioni penalistiche in testi letterari, Milano 1992, p. 171. 105. Ibidem. 106. Ibidem.

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Nei Ricordi della casa dei morti, Dostoevskij critica invece l’idea che motiva e fonda l’istituto della pena, quella che va sotto il nome di “emenda”. Dei due caratteri della pena, afflizione ed emenda, nelle carceri resterebbe solo la prima, e la sua azione si oppone alla correzione. Dostoevskij non mette in discussione l’esistenza delle carceri ma esclude che riescano nel loro fine. Nelle carceri avviene un’espiazione della pena estrinseca e meccanica, che non tocca minimamente il reo e le sue motivazioni, da cui dovrebbe prendere l’avvio ogni possibile mutazione o rinascita interiore. Ci sono difetti del mondo carcerario che vanno al di là della sua organizzazione e che appartengono alla sua natura. Dostoevskij ne elenca alcuni: «Per esempio, non mi sarei mai potuto immaginare – scrive – che in tutti i dieci anni passati in galera non sarei stato solo neppure una volta, neppure per un minuto, e ciò era la cosa più tremenda e più tormentosa»107. Poi, sviluppando questo tema: «In seguito capii che oltre la privazione della libertà, oltre il lavoro forzato, c’è, nella vita delle carceri, una tortura, forse più forte di tutte le altre. È la coabitazione forzata»108, di cui erano un corollario gli innumerevoli pettegolezzi e le calunnie che creavano «un inferno, un turbine infinito»109. Ma la questione essenziale è quella del ravvedimento, su cui Dostoevskij è perentorio: «Nel corso di parecchi anni io non ho visto tra quella gente il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso»110. E aggiunge: È un fatto. Certamente la vanità, i cattivi esempi, la boria, la falsa vergogna erano per buona parte cagione di ciò. Del resto, chi può dire di aver toccato il fondo di quei cuori pervertiti e di averli trovati impenetrabili a ogni luce? Si può credere che in tanti anni avrei dovuto notare, intuire, afferrare in quei cuori un minimo se-

107. F. Dostoevskij, Ricordi della casa dei morti, cit., p. 13. 108. Ivi, p. 27. 109. Ivi, p. 15. 110. Ivi, p. 18.

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Diritto e giustizia in Dostoevskij

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gno che testimoniasse di un’interna angoscia, di una qualsiasi sofferenza. Ma questo non ci fu, non ci fu in alcun modo111.

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La società si deve certamente difendere e la giustizia esige, secondo Dostoevskij, che si ripari l’ordine turbato e si espii la colpa, eppure il mondo carcerario non attinge nessuno di questi due scopi. Certamente, le case di pena e il sistema dei lavori forzati non correggono il delinquente, non fanno che punirlo e difendere la società da altri attentati contro la sua tranquillità. Il carcere e i lavori forzati eccessivi sviluppano nel delinquente l’odio, la sete dei piaceri proibiti e una terribile leggerezza. Ma io sono fermamente convinto che il famoso sistema cellulare raggiunge soltanto uno scopo falso, ingannevole, tutto apparente. Esso toglie all’individuo tutta la sua forza vitale, snerva la sua anima, l’indebolisce, la spaventa, e mostra una mummia disseccata moralmente e a metà demente come un modello di ravvedimento e di pentimento. Certamente il delinquente, insorto contro la società, l’odia e quasi sempre crede d’aver ragione lui e che la società abbia torto. Quando ha subito la punizione che essa gli ha inflitta, pensa di essere assolto e pari con la società. Si può giudicare da tali punti di vista, che il delinquente venga quasi giustificato. Ma nonostante la possibilità di questi punti di vista, ognuno converrà che vi sono alcuni delitti che sempre, ovunque e con qualsiasi legge, dacché esiste il mondo, sono stati considerati delitti e tali saranno considerati finché l’uomo sarà uomo. Soltanto in carcere ho udito il racconto degli atti più orrendi, più contro natura, degli assassini più atroci, fatti con un sorriso fanciullesco, allegro, non trattenuto112.

La logica del discorso dostoevskiano non porta alla conclusione cui giungerà Tolstoj in Resurrezione, ossia l’abolizione delle carceri. Dostoevskij non intende sopprimere il mondo dell’afflizione penale ma, vista la sua inefficacia, lo vuole investito dalla logica più alta, quella evangelica della croce, anche 111. Ibidem. 112. Ivi, pp. 18-19.

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se esprime «una sensibilità giuridico-penale moderna, attenta all’influenza delle circostanze attenuanti e alle cause sociali, psicologiche, morali del delitto, nonché rivolta al recupero, morale e sociale, del colpevole»113. L’idea di giustizia in genere esige una uguaglianza nei rapporti a prescindere dai contenuti (di retribuzione, di lavoro, di onori, ecc). Tale esigenza nel campo penale si attua attraverso la parità di trattamento, espressa già pur nella sua crudezza dalla legge del taglione. Il nesso colpa-pena deve realizzare questo rapporto quasi meccanico di assoluta proporzione. Dostoevskij ritiene che, nell’ordine della retribuzione penale, una simile equazione di parità e di perfetta proporzione sia irrealizzabile. Sia perché le sfaccettature della colpa e del delitto sono incommensurabili, sia perché la pena ha una risonanza diversa tra individuo e individuo. Quindi, il sillogismo su cui posa la giustizia penale risulta molto ingiusto. Osserva Dostoevskij: Invero c’è una differenza nella durata della pena. Ma questa differenza, relativamente, è di poco, invece la differenza fra l’una e l’altra specie di delitto è immensa. Tanti caratteri, tante differenze nel delitto. Mettiamo pure che sia impossibile valutare questa differenza, che sia un problema insolubile come la quadratura del cerchio. Ma se anche questa differenza non esistesse, osservate un’altra differenza, la differenza nelle conseguenze della pena […] Ecco un uomo che in carcere si consuma, si strugge come una candela; ed eccone un altro che fino a che il suo delitto non lo ha condotto in carcere, non credeva neppure che ci potesse essere al mondo una vita così allegra, un ritrovo così piacevole di arditi compagni. Sì, ce ne sono di questi tali nelle carceri. Ecco, per esempio, un uomo colto, con una coscienza evoluta, che abbia sensibilità, che abbia cuore. Il dolore che risente nell’animo lo uccide con le sue torture più di qualunque pena. Egli stesso ha giudicato il suo delitto più severamente, più spietatamente di qualunque legge minacciosa114.

113. M.A. Cattaneo, op. cit., p. 181. 114. Ivi, p. 59.

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Anche Raskolnikov non trarrà alcun profitto dai lavori forzati e dalla segregazione siberiana, fino a quando la pur cercata pena giuridica e l’afflizione dell’ergastolo saranno vissute in modo meccanico, esteriore, separato. Il peso ontologico del delitto impone una logica diversa, quella della croce, che gli era stata suggerita da Sonja attraverso la confessione pubblica e la lettura dell’episodio evangelico della resurrezione di Lazzaro, che fece scandalo per essere fatta da una prostituta. La pena giuridica divenne liberante per Raskolnikov quando venne vissuta nel quadro della logica evangelica. Ma al di là dell’itinerario esistenziale, il dinamismo della doppia forma della pena e della superiorità di quella spirituale, vengono espresse dallo Starec Zosima, quando accoglie nella cella del suo eremo la famiglia dei Karamazov. L’avvio è dato da Ivan, quando critica la chiesa per avere assunto la concezione statuale nella concezione della pena: «Prendete – dice Ivan – il punto di vista della chiesa stessa sul delitto: non vi pare che debba essere modificato rispetto a quello di oggi che è pagano? E non vi sembra che debba trasformarsi (ma totalmente, non in modo ambiguo) dall’idea del membro infetto che viene reciso per difendere la società, come si fa oggi, nell’idea della rinascita dell’uomo, della sua resurrezione, della sua salvezza!»115. Ivan forse è ironico, ma Zosima tratta la cosa a suo modo e la trasfigura secondo l’idea panslavista della fraternità universale nel segno del Cristo russo, che, secondo Solovev, sarebbe il vero tema e il vero messaggio di Dostoevskij. Rispondendo a Ivan, lo Starec Zosima dice: In sostanza anche adesso è così […] Infatti, se oggi non ci fosse la chiesa di Cristo, il delinquente non avrebbe nessun freno nei suoi crimini e non avrebbe neppure una punizione meccanica, che nella maggior parte dei casi ottiene di irritare il cuore: la vera punizione, l’unica che abbia effetto, l’unica che spaventi e che dia

115. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 85.

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Bruno Milone la pace, cioè quella che consiste nella testimonianza della propria coscienza116.

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Dopo avere enunciato questa tesi, lo Starec la spiega con abbondanza di rilievi, sia sulla differenza tra i due tipi di pena, sia sulla funzione che ha la chiesa nell’affermare il vero tipo. Tutti questi lavori forzati preceduti anche da percosse, non correggono nessuno e soprattutto non spaventano quasi nessun delinquente, e il numero dei delitti non solo non diminuisce, ma quanto più si va avanti, tanto più aumenta… Il risultato di ciò è che la società in questo modo non è protetta, perché, anche se il membro pericoloso viene reciso e meccanicamente mandato lontano fuori della vista degli altri, al suo posto compare subito un altro delinquente e magari anche due. Se qualcosa protegge anche al tempo nostro la società, e perfino corregge il delinquente e lo trasforma in un altro uomo, è solo e sempre la legge di Cristo, che si fa sentire attraverso la testimonianza della coscienza. Solo riconoscendo la propria colpa come figlio della società cristiana, cioè della Chiesa, egli riconosce anche la propria colpa nei confronti della società stessa, cioè nei confronti della Chiesa. Così, è solo davanti alla Chiesa che il delinquente di oggi è in grado di riconoscere le sue colpe, e non già davanti allo Stato. Ora, se il diritto di giudicare appartenesse alla società in quanto chiesa, essa saprebbe chi richiamare dall’isolamento, per riprenderlo di nuovo con sé117.

Lo Starec Zosima insistendo nella identificazione della vera giustizia con “la giustizia della chiesa”, che è «l’unica giustizia che abbia in sé la verità», condanna sia l’illuminismo della cultura occidentale, sia la chiesa cattolica: «A Roma, egli afferma, sono ormai mille anni che al posto della chiesa è stato proclamato uno stato. È perciò che il delinquente stesso non si riconosce più membro della chiesa, e una volta messo al bando vive nella disperazione. Se poi ritorna a far parte della società, lo fa con un odio tale che vuole allontanare da sé la società stessa»118. 116. Ibidem. 117. Ivi, pp. 85-86. 118. Ivi, p. 86.

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Il paradosso della riduzione della società civile alla società ecclesiastica è attenuato dalla visione evangelica e universalistica, fraterna e giusta di questa società, che Zosima vede incarnata nel cristianesimo russo.

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Bruno Accarino

Jus integri: diritto, giustizia e maggioranza in Georg Simmel

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1. Dalla vendetta alla responsabilità

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ai abbastanza percepita e additata come una maledizione dal lettore e dallo studioso, la parsimonia con la quale Simmel segnala le proprie fonti rende opaca, tra le altre cose, la trama delle figure giuridiche che viene tessuta nelle sue opere. Noi non andremo alla ricerca di quelle fonti di fine Ottocento, ma cercheremo di far emergere i lineamenti di un interesse di Simmel per le istituzioni e per il diritto che non solo non è episodico, ma è il punto di arrivo di un percorso particolare. Possiamo far partire la nostra riflessione dal rapporto tra diritto penale ed economia monetaria. L’analisi di Simmel, svolta prevalentemente in un capitolo dal titolo L’equivalente in denaro dei valori personali, prende le mosse dal guidrigildo, che nell’antico diritto germanico è il prezzo che l’uccisore deve pagare alla famiglia dell’ucciso per riscattarsi dalla vendetta1. Lo stesso termine tedesco, Wergeld (guidrigildo), accenna ad un rapporto tra il «chi» (la persona) e il denaro, introducendo alla complessa costellazione di zoologia politica segnata dal lupo mannaro

1. Cfr. G. Simmel, Philosophie des Geldes [1900, 21907], ora come vol. VI della Georg-Simmel-Gesamtausgabe, a cura di D. Frisby e K.Chr. Köhnke, Frankfurt am Main 1989, tr. it. Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, Torino 1984, pp. 507-510, pp. 378-479. La traduzione dei passi simmeliani tratti da questa e da altre opere potrà essere talvolta tacitamente modificata.

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Bruno Accarino

(Werwolf )2. All’intensità con la quale la connessione tra valore dell’uomo e valore monetario domina spesso le rappresentazioni giuridiche è stata prestata, secondo Simmel, scarsa attenzione. L’origine del guidrigildo è puramente utilitaria: anche se non è interamente inquadrabile nell’ambito del diritto privato, esso appartiene comunque a uno stadio di indifferenziazione tipico dei primi passi dello sviluppo sociale. La tribù, la gens o la famiglia esigeva un risarcimento per la perdita economica arrecata dalla morte di un suo membro: tale risarcimento sostituiva la vendetta di sangue. Il guidrigildo non conosce però una grandezza economica oggettiva: è il valore dell’uomo che appare come fondamento distributivo del sistema monetario e come criterio determinativo del valore monetario. L’entità dell’indennizzo è misurata dal valore dell’ucciso. L’origine fondamentalmente privata del guidrigildo lascia tuttavia trapelare sin dall’inizio un momento oggettivo-sovraindividuale, perché la sua entità è definita dal costume o dalla legge. A misura in cui il guidrigildo diventa un istituto puramente statuale o pubblico, si passa da una valutazione misurata, per esempio, sul metro dell’utilità privata dello schiavo, a una determinatezza economica di valore dell’uomo. E significativamente, aggiunge Simmel, si può parlare di guidrigildo per un uomo libero ma non per un uomo non libero. Il configurarsi della libertà personale si accompagna a una monetarizzazione e a una oggettivazione dei valori personali. Finché il guidrigildo era richiesto nelle più varie entità dai parenti dell’offeso, finché cioè era il segno di una dismisura, si trattava di coprire una perdita personale; quando invece in un gruppo sociale determinato si fissa l’entità del guidrigildo, e questa entità rimane invariata per tutti i casi e per tutte le persone, viene a costituirsi

2. La costellazione che ci accingiamo ad analizzare è richiamata da G. Agamben, Homo sacer, Torino 1995, pp. 116-123; più recentemente, J. Vogl-E. Matala de Mazza, Bürger und Wölfe: Versuch über politische Zoologie, in Chr. Geulen-A. von der Heiden-B. Liebsch (a cura di), Vom Sinn der Feindschaft, Berlin 2002, pp. 207-217.

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un connotato decisivo della modernità: l’indifferenza nei confronti delle differenze personali. Il valore dell’uomo non consiste più in ciò che altri soggetti possiedono e perdono in lui. È alla fine di questa via patologica – o di questa patogenesi – che l’uomo acquista dignità, cioè libertà, cioè valore in sé e per sé. C’è in Simmel quasi una genealogia di questo processo, certamente non originale nei materiali utilizzati, ma che punta non a caso sull’esigenza di pace sociale e sulla necessità collettiva di emarginare la forma di risarcimento espressa nella vendetta di sangue: La fissazione del guidrigildo, attuata nell’interesse della pace sociale e onde evitare interminabili conflitti, appare dunque come la causa psicologica che trasforma la valutazione originariamente soggettivo-utilitaristica della vita umana nell’idea oggettiva che l’uomo abbia proprio questo determinato valore3.

L’espiazione del crimine trova nel superamento della vendetta e delle soluzioni cruente un primo momento evolutivo di de-soggettivazione. L’evoluzione ulteriore è nella comparsa della pena, la figura più formale di risarcimento. Posto che ogni pena abbia due possibili origini, il bisogno di difesa della società e il dovere di risarcire l’offeso, anche la vendetta omicida, che corrisponde alla responsabilità collettiva, esprime un bisogno di autodifesa collettiva, perché tende a rendere innocuo il criminale. Discriminante è però l’altra origine della pena: finché il dovere di risarcire il danneggiato è assunto privatamente da quest’ultimo, e non da una potenza oggettiva «come lo Stato e la Chiesa»4, la pena ha ancora una funzione di semplice indennizzo dell’offeso, di risarcimento del damnum. Quando invece il crimine o l’offesa sono percepiti come disturbo della pace pubblica, la violazione cessa di essere un evento personale. Avrebbe detto Nietzsche: nel quadro del passaggio a una mora3. G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 513. 4. Ivi, p. 519.

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le di tutti, l’imputazione si trasferisce dalla persona all’azione. Il reato incorpora il reo. Solo ora ha senso parlare di pena in senso proprio, e solo ora ha senso l’applicazione della pena pecuniaria. Lo scopo ultimo della pena comminata da un potere oggettivo e impersonale è quello di colpire il soggetto stesso, non quello di risarcire il danno. Il potere non più personale non ha interesse a vendicarsi, ma a ricostituire la normalità. La giustizia acquista struttura controfattuale – fiat justitia, pereat mundus, come Simmel ripete spesso –, aderendo all’imparzialità delle terze persone e autonomizzandosi dall’immediatezza bilaterale dell’azione e della reazione, dell’offesa e della replica all’offesa, del danno e della vendetta. La giustizia è misura della pena, il terzo elemento nel quale si può trovare l’equivalenza di azione e reazione, la loro commensurabilità. Ora la giustizia appare come qualcosa di oggettivo: dev’essere realizzata in quanto tale, non più come effetto di un diritto e di un torto personali. Il risultato più cospicuo dell’obsolescenza della vendetta cruenta – intesa come indice del protagonismo della responsabilità collettiva – è nel paradosso storico moderno per cui un massimo di differenziazione si accompagna a un massimo di spersonalizzazione; la necessità sociale di responsabilizzare il soggetto singolo si accompagna al livellamento prodotto dal denaro. La prima tensione è colta da Simmel – e dovrebbe essere studiata in parallelo con analoghi passaggi della sociologia weberiana delle religioni – nella diversità dell’approccio della morale religiosa e della morale mondana. La morale religiosa colpisce il peccatore dal punto di vista di un ordine divino che è stato violato e identifica il dovere etico definitivo dell’uomo nella conquista della grazia. La morale mondana sposta invece la meta al di fuori dell’io: nell’altro. Sposta cioè il terreno della grazia. Questa tensione tra religione e mondanità è solo un indizio di una tensione più generale: proprio perché il denaro acquista un crescente significato e può equivalere a molte cose, diventando sempre più incolore e sempre più privo di carattere, «non può essere al servizio della compensazione di rapporti del tutto particolari ed eccezionali, in cui dev’essere coinvolto il

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lato più intimo ed essenziale della personalità»5. La Chiesa non può adeguarsi, sul piano punitivo, allo stile freddo della pena pecuniaria: e non nonostante, ma proprio perché praticamente tutto può essere acquistato col denaro. La persistenza della pietas nella morale religiosa corrisponde a rapporti sociali ancora immaturi per accogliere la pena pecuniaria. È questa la ragione per cui il denaro, in Simmel, è herzlos. La Kultur spinge lo sviluppo del denaro in due direzioni: Da un lato essa gli conferisce un’importanza in virtù della quale esso diventa quasi l’anima mondana del cosmo degli interessi oggettivi e, andando al di là del limite che gli compete sulla base della spinta ricevuta, soffoca anche i valori personali; dall’altro lato, lo allontana però dai valori personali, rende il suo significato sempre più incomparabile con tutto ciò che è autenticamente personale6.

Un settore amplissimo del pensiero di Simmel è impegnato ad analizzare questa dissimmetria. Dove c’è l’ineffabilità dell’individuo, il denaro propone la quiete del livellamento; dove c’è la rapsodicità del sentimento, il denaro impone simmetria e calcolo. Tuttavia il costituirsi di una zona di libertà e di discrezionalità, di intimità e di personalità, è possibile non nonostante il denaro, ma grazie al denaro e alla Entlastung da esso realizzata. L’essenza del denaro è l’incondizionata fungibilità e omogeneità interna, l’essenza dell’individuo è quella di essere differente. La teoria della validità (Geltung) può delinearsi solo come approfondimento di una teoria del risarcimento (Entgeltung), perché non c’è una diacronia semplice per la quale la validità neutra del denaro abbia soppiantato il travaglio della compensazione. Bisogna non solo render conto dei rapporti sistemici ma anche reintegrare l’analisi dei rapporti personali laddove i rapporti sistemici si rivelino incapaci a coprire tutto il tessuto sociale. Qui la morale ricava il suo spazio legittimo,

5. Ivi, p. 521. 6. Ivi, p. 527.

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ma incorporando questo sviluppo patologico per cui quanto di più oggettivo e impersonale c’è nelle strutture della regolazione sociale è il frutto di una lotta di valori personali7. Anche la colpa individuale è simmetrica al merito individuale: alla responsabilità collettiva corrisponde il merito sovraindividuale. Era stato Wilhelm Wundt, tra gli altri, a ricostruire il passaggio dalla vendetta alla ricompensa come un mutamento indirizzato verso la fissazione di un criterio oggettivo (oggettivo in quanto monetario, dirà Simmel). La ricompensa instaura però un’atmosfera di drammaticità elitaria: si risarcisce chi merita di essere risarcito, come si persegue chi è in colpa o in debito nei confronti della società. L’ipotesi di fondo è che nell’evoluzione dalla vendetta alla ricompensa non vada mai smarrito il principio autoritario insito nell’equivalenza. Vale, e quindi vale anche come equivalente, ciò che ha la forza e l’autorità di farsi valere, perché è il risultato – oggettivato – di un conflitto di valori personali. In Simmel, come già nella tradizione tardo-ottocentesca, sono più di una volta sinonime la dignità e la validità (nel senso dell’autorevolezza ascrivibile a un dignitario), la reputazione e la validità, l’importanza personale e la validità. Questa trama antropologica dissacra le connotazioni della libertà giuridica. Il personale precede l’impersonale, il soggettivo precede l’oggettivo, la guerra (la vendetta) fonda la pace (la pena come ricostituzione dell’equilibrio etico violato). Simmel rileva che non a caso il merito (Verdienst) interioremorale si è linguisticamente trasposto nel guadagno (Verdienst) esteriore-economico8. Perché ci sia guadagno è necessario che l’impulso etico abbia superato gli ostacoli della tentazione, dell’egoismo, della sensibilità non padroneggiata. Il lavoro è infatti onere, fatica, difficoltà. Nessuno accetta le sofferenze e la fatica 7. Il tema colloca Simmel tra i teorici non solo e non tanto della compensazione, secondo una linea di indagine più volte proposta da Odo Marquard, ma dell’equilibrio, anche nelle sue valenze metaforiche arcaiche o premoderne: cfr. B. Accarino, Immagini filosofiche dell’equilibrio, in Id. (a cura di), La bilancia e la crisi. Il linguaggio filosofico dell’equilibrio, Verona 2003, pp. 13-68. 8. Cfr. G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 600.

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del lavoro senza avere nulla in cambio. Ciò che del lavoro viene veramente retribuito (vergolten, dice Simmel, a testimonianza del fatto che il confine tra «contraccambio» e «rappresaglia», «compenso» e «vendetta», è sottilissimo) è il dispendio psichico necessario a superare sentimenti di inibizione e di dispiacere. Se l’uomo lavorasse come i fiori fioriscono e come gli uccelli cantano, non ci sarebbe un valore retribuibile: «Come il valore propriamente morale si connette al superamento dell’ostacolo di impulsi che si contrappongono, così anche il valore economico»9. Riappare un tema caro a Simmel, quello della «resistenza» dell’oggetto: con questa interpretazione del lavoro che lo avvicina a Adam Smith10 e lo allontana da Marx, Simmel generalizza alla vita lavorativa la problematica religiosa dell’azione meritoria, tesa alla conquista della grazia di Dio. Acquisire un valore significa autoreprimersi, e per autoreprimersi è necessario programmare un futuro, scacciare le seduzioni della sensibilità immediata, accettare le mediazioni dell’agire. Della dimensione contrattuale e non comunitaria, nella quale la vigenza di principi diversi da quelli dell’amore e della concordia rende necessaria la formazione di regole dell’agire, Simmel coglie soprattutto un aspetto: il processo di civilizzazione coincide con la costruzione dell’individuo passibile di imputazione. Le funzioni della libertà sono inseparabili da quelle del controllo degli istinti, perché il potere su se stessi è perfettamente simmetrico alla rinuncia che definisce il potere sugli e rispetto agli altri. La libertà non è più solo self-command: non è un modo di agire solipsistico ma un agire sociologico, non è una condizione limitata alla unicità del soggetto ma un rapporto considerato dal punto di vista del soggetto. 9. Ibidem. 10. Cfr. in particolare la famosa formulazione che compare all’inizio del quinto capitolo della Ricchezza delle nazioni: «Il prezzo reale di ogni cosa, ciò che ogni cosa costa realmente a chi ha bisogno di procurarsela, è la pena e il disturbo di procurarsela» (A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, tr. it. di F. Bartoli, C. Camporesi, S. Caruso, Milano 1973, p. 32).

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La libertà è, intanto, cosalizzazione in quanto monetarizzazione: «Non il vincolo in quanto tale ma il vincolo a un padrone individualmente determinato è il vero e proprio polo opposto della libertà»11. La sudditanza nei confronti del denaro presuppone la soppressione di tutte le forme premoderne di sudditanza. Ma non solo di questo si tratta. La libertà non può essere giusnaturalisticamente relegata nella sfera dell’intoccabilità individuale: essa è anzi un che di tattilmente dinamico. La libertà è rapporto funzionale di potere nei confronti degli altri: «La libertà individuale non è la pura determinazione interna di un soggetto isolato ma un fenomeno di relazione, che perde il proprio senso quando non c’è una controparte»12: si può negare l’altro se dell’altro si accetta la presenza.

2. Intervallo e decenza Tutto ciò sembra riecheggiare, soprattutto in rapporto alla cosalizzazione, pagine famose di Marx; ma chi volesse inseguire corrispondenze puntuali tra l’immagine simmeliana e quella marxiana della reificazione rimarrebbe deluso. Per Simmel il nesso tra aumento della civiltà e aumento della libertà, controllo degli istinti e nascita della responsabilità, si riassume in un passaggio che non ha carattere materiale o direttamente economico-sociale: nell’alleanza tra decenza e rinuncia. Ab-stand, intervallo, è An-stand, decenza, ed è dunque un accesso privilegiato alla filosofia dello spazio13. In un quadro di teoria dei giochi14, la decenza è anzitutto rispetto pedissequo delle regole del 11. G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 431. 12. Ivi, p. 430. 13. Sulla filosofia simmeliana dello spazio cfr. A. De Simone, Filosofia e sociologia dello spazio. Saggio su Simmel, in Id. (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, Urbino 2005, pp. 21-87. 14. Simmel disponeva, ed è un punto sul quale la letteratura critica simmeliana non mi pare si sia mai soffermata, di un’avanzata teoria dei giochi: numerosi furono, in questo senso, gli interventi di Moritz Lazarus e di Wil-

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gioco: precede le mosse discrezionali dei giocatori, le strategie di avvicinamento e di allontanamento. «L’uomo decente è circondato da una sfera di riserbo esercitato nei confronti di altri, di rinunce (Resignationen) ad azioni egoistiche, che la persona senza coscienza morale compie senz’altro, perché esse possono esser vietate soltanto da impulsi etici interiori»15. Chi non ha coscienza morale è egoista e chi è decente è indifeso. Tra uomini dotati di coscienza morale esiste per così dire un vuoto ideale in cui penetra e del quale approfitta la persona immorale. L’essenza di contenuto e l’essenza sociologica di intere cerchie sociali sono determinate in base al punto a cui tra i singoli si spinge quella rinuncia a chances egoistiche, garantendo ciascuno dagli attacchi di ogni altro, oppure in base al fatto che l’atteggiamento generale si orienta secondo il motto: ciò che non è proibito, è consentito16.

In quello che forse era, se si prescinde da Nietzsche e da una tradizione di filosofia morale culminata nella Theory of Moral Sentiments di Adam Smith, il più efficace tentativo teorico a disposizione di Simmel, cioè il dialogo di Schleiermacher sulla decenza, compreso nell’edizione curata da Dilthey nei primi anni ’60 del XIX secolo17, la decenza coincideva con il «lasciarsi andare», con il puro non-agire. Si comporta decentemente non chi intenzionalmente vuol produrre un’impressione di eticità, ma chi vuole rendere più facile e più comoda la vita. La decenza liam Stern. L’opera classica è di K. Groos, Die Spiele der Menschen, Jena 1899, nella quale si analizza per esempio la civetteria (pp. 338 ss.), un tema caro a Simmel, o anche l’elemento ludico (e freudiano ante litteram) del riconoscimento del «noto» (pp. 152-160). 15. G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, ora come vol. XI della Georg-Simmel-Gesamtausgabe, a cura di O. Rammstedt, Frankfurt am Main, 1992, tr. it. di G. Giordano Sociologia, con introduzione di A. Cavalli, Milano 1989, p. 596. 16. Ivi, p. 597. 17. Cfr. F. Schleiermacher, Über das Anständige, in Aus Schleiermachers Leben, vol. IV, a cura di W. Dilthey, Berlin 1863 [rist. ivi, de Gruyter, 1974], pp. 503-33.

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introduce una certa uniformità in quanto strumento universale e indispensabile di una libera comunità di uomini. Scopo della decenza è la costruzione di aspettative e di comportamenti affidabili, per i quali ognuno sappia chi ha di fronte e in una certa misura anche che cosa può aspettarsi dall’interlocutore. Gli uomini hanno bisogno di inventare il diritto e l’eticità per abituarsi a un agire conforme a leggi ma hanno bisogno di inventare la decenza per fare le stesse cose nello stesso modo. Non è quindi possibile riferire la decenza alle azioni, che rientrano invece nell’eticità: la decenza è relativa solo al modo di compiere le azioni. L’agire implica una determinazione della volontà che è invece assente nell’ovvietà della decenza. Nell’eticità di un volere determinato, proponeva Schleiermacher, è ravvisabile sempre solo una decisione, cioè una garanzia molto incerta del carattere: nella decenza ci sono invece le tracce di un lungo esercizio e di principi e concetti sempre presenti. Se in un uomo manca qualcuno di questi principi, è lecito dubitare del valore di singole decisioni: ma non è lecito non riconoscere un uomo in possesso delle credenziali della decenza. Nel quadro dell’interesse pedagogico di Schleiermacher, è questa anche la ragione per la quale non è possibile né insegnare né imparare ad essere decenti: la decenza è qualcosa che si acquisisce con la vita stessa. Svincolando la decenza dall’agire, dall’eticità e dall’intenzionalità, Schleiermacher poneva le basi di una riflessione per la quale l’avvento dell’intenzionalità (cioè della volontà immessa nell’azione) accompagna l’agire in senso proprio come agire soggetto a imputazione. La sfera del «senso» e dell’intenzione si impone perciò – per quanto ricche possano essere, e certamente siano, le mediazioni che intercorrono tra Schleiermacher da un lato e le fonti logiche (critica della causalità) e giurisprudenziali di Simmel e di Weber dall’altro – come sfera della drammaticità decisionale dell’azione. Chi agisce è passibile di imputazione. Per questa via viene recuperato in Simmel, e immesso nel binomio calcolo/colpa, un tema classico, quello del non-agire e dell’omissione, e con una diversa strutturazione dei concetti

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etici – decency è, per esempio, un termine abbastanza frequente in Adam Smith – si tende a identificare nella decenza il terreno dell’innocenza comportamentale. Tat è azione ma anche reato. L’inazione della decenza è al di qua di ogni compromissione decisionale: ospita la Entlastung monetaria e la competenza burocratica, il disimpegno e la mancata assunzione di responsabilità. La decenza confluisce proceduralmente nella competenza: la vicinanza di competenza e decenza risulta forse più evidente se ci si riferisce non solo ad Anstand, ma anche a Zustand nel significato di «situazione» o di «condizione accidentale»; e per estensione a zuständig, «competente» o «idoneo»18. Per altro verso, il contributo specifico di Simmel all’impostazione di Schleiermacher (decenza-libertà-omissione) non avrebbe potuto essere che di carattere prossemico. La decenza rischia di corrispondere a una condizione di stasi della comunicazione sociale e di congelamento dell’intervallo spaziale. Ma il «vuoto» in cui si inserisce chi manca di coscienza morale consente al vornehmer Mensch, a chi afferra per primo, di appropriarsi di questa «non-proprietà pubblica»19, come scrive Simmel, di questo spazio neutrale, e di farne ciò che vuole. La decenza prepara la primazia e la Vornehmheit. Con il Tacito degli Annali (XIII, 55), richiamato da Simmel20: quaeque [terrae] vacuae, eas publicas esse. Da Rudolf Jhering, che fu uno dei primi studiosi a sottoporre l’analisi del diritto a un filtro antropologico ed etnologico, Simmel avrebbe potuto ricavare la concezione della Vornehmheit21 come di un atto di rapina, reso possibile dallo stato di quiete e di pacificità che l’ethos ha trovato nella decenza. Con la decenza si creano interstizi, punti morti, disponibilità al18. Sulla competenza come dimensione della spassionatezza cfr. B. Accarino, Competenza. Sul significato teorico di una parola politica, in Id., Le figure del consenso. Soggetto morale e istituzioni politiche nella filosofia moderna, Lecce 1989, pp. 183-203. 19. G. Simmel, Sociologia, cit., p. 596. 20. Cfr. ivi, p. 595. 21. Cfr. R. Jhering, Der Zweck im Recht, Hildesheim 1970 [1877-1883], II, pp. 300 ss. e in particolare p. 515.

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l’integrazione e all’intervento. Un’organizzazione sociale, scrive Simmel, non dispone mai di forze e di leggi sufficienti a modellare in tutto e per tutto il comportamento dei suoi membri: essa deve sperare che questi rinuncino volontariamente a sfruttare le lacune delle sue leggi. Non esiste però una legge che non sia lacunosa nel senso di «aperta», indeterminata, suscettibile di integrazioni. Non esiste una legge che non sia lacunosa perché non esiste una legge che non sia impari al tessuto esperienziale della vita. Si ha qui un caso evidente di tracimazione della vita rispetto alla norma, ed è il punto nel quale deve innestarsi una teoria complessiva del conflitto22. L’insufficienza della decenza come piano normativo corrisponde così all’incubazione della decisionalità. «Ciò che non è proibito, è consentito»: proibire è l’operazione più semplice, «tu non devi» è la normazione minima. Si ripropone qui lo stallo dell’autoconservazione: l’operazione più difficile non è negare ma affermare. So che cosa non devo fare ma che cosa posso? La speranza di uno sviluppo egualitario della democrazia è minata alla base dall’operazione difensiva con la quale si costruiscono regole di decenza in quanto principi deresponsabilizzanti di convivenza civile. La differenziazione e la diseguaglianza sono infatti, dato questo processo, non più patologiche ma fisiologiche: corrispondono all’irruzione delle responsabilità. Su questo sfondo, che non è solo giuridico-morale ma anche gnoseologico (la «comprensione» generalizzata e ovvia dell’intellettualismo monetario, un falso universalismo che appiattisce le differenze), si apre la critica simmeliana dell’etica kantiana. Il diritto è l’esigenza sociale minima, cioè l’insieme di quelle esigenze il cui soddisfacimento è il presupposto minimo perché una società sia possibile. La vita fattuale non può però accontentarsi di queste esigenze. Ogni società crollerebbe se non disponesse, oltre che del diritto, dell’ethos, della morale, dei legami emotivi interper22. Rinvio a B. Accarino, Il polemos e le sue forme: lo spazio del conflitto in Georg Simmel, in A. Arienzo-D. Caruso (a cura di), Conflitti, Napoli 2005, pp. 169-197.

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sonali. Ma il crollo del diritto avrebbe in ogni caso come conseguenza il crollo della società, come il venir meno del minimum intellettuale e delle norme logiche vanificherebbe i fondamenti dell’intesa comunicativa. Poiché però il minimum morale non può contenere una definizione di ciò che è positivamente etico, l’imperativo kantiano, il «poter volere», che cercava ciò che di incondizionato vi è nel dovere, deve rassegnarsi a fissare i confini di ammissibilità e di liceità dell’agire: «esso può solo proibire e non comandare», «non accenna minimamente alla scelta di ciò che sia moralmente necessario rispetto a ciò che in questo modo è determinato come moralmente possibile»23. L’etica kantiana non può fornire determinazioni positive né arrivare alla concrezione delle decisioni. E non può farlo perché non può prendere atto del dato storico nuovo – c’è in Simmel un’esplicita caratterizzazione del quadro storico della riflessione kantiana come non sufficientemente complesso – per cui il gruppo, puntando a un coinvolgimento minimale, abbandona la prospettiva di un controllo integrale degli individui. Anche all’interno di questa minimalità e di questa liceità incontestata va distinto il diritto dall’ethos, e precisamente nel senso che l’ethos è più rilevante ai fini dell’equilibrio politico. La legge penale non è identificabile con il minimum etico. C’è una relazione tra la struttura di ogni cerchia sociale e la misura delle inimicizie che essa è in grado di tollerare tra i suoi elementi costitutivi. Anche se si evitasse tutto ciò che è proibito dal punto di vista del diritto penale, uno Stato crollerebbe sotto il peso di altre inimicizie, capaci di organizzarsi al di fuori delle sanzioni giuridiche: Ogni legge penale fa conto sul fatto che la parte di gran lunga prevalente di queste energie distruttive viene trattenuta nel suo sviluppo da impedimenti a cui essa non dà, da parte sua, alcun contributo. Il minimum di comportamento etico-pacifico, senza 23. G. Simmel, Kant, tr. it. a cura di G. Nirchio, Padova 1953, p. 97.

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il quale la società statuale non potrebbe sussistere, si pone quindi al di là delle categorie del comportamento garantito dalla legge penale; si presuppone solo, in base appunto all’esperienza, che queste perturbazioni lasciate impunite non superino già di per sé la misura socialmente tollerabile24.

I fenomeni di perturbazione della normalità non passibili di pena sono dunque molti e Simmel ne indicò, come del resto Walter Benjamin, soprattutto uno: la menzogna. Come si può applicare il diritto penale a chi mente? Ma questi fenomeni non sconvolgono l’ordine sociale: indicano solo la limitatezza della capacità regolativa del diritto e affidano ad altre regole il compito di mantenere l’ordine. L’interesse di Simmel a rileggere questo problema nel quadro della teoria del conflitto è nel fatto che, rispetto a un gruppo fortemente unitario, l’inimicizia può avere significati contrapposti: o il gruppo sopravvive, proprio perché è coeso, all’antagonismo o è particolarmente minacciato dai contrasti e deve «riguardarsi». Un tasso maggiore di inimicizia è consentito dai gruppi maggiori ma i metodi da rispettare sono due e la loro «giusta» combinazione è questione vitale: da un lato la solidarietà organica, tipica dello Stato moderno e della sua capacità di utilizzare le lotte dei partiti politici a conferma della propria sovranità; dall’altro lato la forma dello Stato antico e medievale, che dalle lotte interpartitiche è invece annientato25. Siamo dunque a un punto molto alto di moralizzazione post-kantiana della politica: la pace sociale non è sconvolta dalla privatizzazione extra-giuridica dei comportamenti, così come lo Stato moderno non è messo in crisi dal pullulare delle inimicizie non regolabili per vie penali.

24. G. Simmel, Sociologia, cit., p. 249. 25. Cfr. ivi, p. 250.

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3. Atomismo e consenso Possiamo ora vedere all’opera quel fondamentale dispositivo di non-belligeranza che è la rinuncia istituzionale all’interezza dell’individuo. Possiamo cioè osservare una trama istituzionale che abbia abbandonato la pretesa di «catturare» l’individuo nella sua interezza. Con un’affermazione molto cara a Simmel si apre la digressione della Sociologia sul soverchiamento elettorale26, che rende particolarmente chiari gli effetti dell’imputazione. Ciò che di anomalo vi è nella società è che in essa unità in sé conchiuse mettono capo a una nuova unità. Non si può creare un quadro con altri quadri, un albero con altri alberi: è possibile costruire totalità solo utilizzando parti non autonome. Il punto di partenza «atomistico» era già esplicito nella Differenziazione sociale: «Si può produrre una varietà di contenuti nettamente distinti, secondo quanto esige il tutto, solo se il singolo rinuncia appunto a questi stessi contenuti: non si può costruire una casa con altre case»27. Ricchezza differenziale del tutto e ricchezza differenziale dell’individuo non sono mediatamente, cioè istituzionalmente, compossibili: uno dei due contendenti deve rinunciare. Qui è il singolo che rinuncia alla propria irriducibilità, come vi rinuncia nella Philosophie des Geldes: l’individuo desidera essere un tutto compiuto, una figura con un centro proprio, dal quale tutti gli elementi del suo essere e del suo agire ricevano un senso unitario che esprima la relazione reciproca degli elementi. Ma se il tutto dev’essere in sé compiuto, se deve realizzare con un significato autosufficiente un’idea oggettiva, «non può consentire quella compiutezza dei suoi membri»28: un albero non può nascere da altri alberi ma solo da cellule, un quadro non può nascere da altri quadri ma solo da tocchi di

26. Ivi, pp. 162-169. 27. G. Simmel, La differenziazione sociale, tr. it. a cura di B. Accarino, Roma-Bari 1982, p. 164. 28 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 695.

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pennello. Nessuno di questi elementi ha una sua compiutezza, una vita propria, un senso estetico:

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La totalità del tutto – per quanto acquisti realtà pratica solo in determinate azioni di singoli, anzi forse all’interno di ogni singolo – è in eterno conflitto con la totalità dell’individuo […]. Il conflitto tipico tra l’individuo e l’essere sovraindividuale è rappresentabile come l’inconciliabile sforzo di entrambi di diventare un’immagine esteticamente soddisfacente29.

Se l’essenza dell’arte è di formare da un frammento di realtà una totalità che poggia su se stessa e che non ha più bisogno di elementi estranei, è perché l’arte è il luogo della contemplazione a distanza, del rapporto estetico fatto di distanza ma non di contatto30. Artistici ed esteticamente compiuti sono, in questo senso, alcuni meccanismi istituzionali nei quali più evidente è la riduzione dell’individuo o la vittoria delle ragioni del tutto sulla tensione individuale alla compiutezza e all’autonomia. Esteticamente composto è il sovraindividuale. Nel tentativo reiterato di salvare la propria unità e totalità dal pericolo della disgregazione implicito nell’autonomia delle sue parti, la società riesce in ciò che in altri settori non è possibile: fa di un elemento che ha un suo centro e una sua interezza un semplice anello di una totalità che lo trascende31. Qui «anello», Glied, è uguale a «membro» o «componente», indica una serialità organizzabile solo dall’alto. Lo strumento teso a evitare che il conflitto tra i componenti di una totalità ne minaccino la sopravvivenza è la votazione, che rientra nel processo di superamento del principio di schiatta: un processo che tende alla determinazione numerica della composizione o dell’azione del gruppo e che arriva fino al «dominio moderno delle maggioranze». La digressione che 29. Ibidem. 30. Sul nesso tra teoria estetica e filosofia sociale in Simmel la letteratura è molto vasta: si rinvia ad A. De Simone, Filosofia dell’arte. Lettura di Simmel, Lecce 2002. 31. Cfr. G. Simmel, Sociologia, cit., p. 163.

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ci interessa punta infatti su un gioco linguistico che parte dalla voce (Stimme) e arriva alla reciproca esclusività di Übereinstimmung (unanimità) e Überstimmung (soverchiamento elettorale). È in questo punto, secondo Simmel, che si manifesta in modo purissimo la profonda discrepanza interna tra il pensiero sociale propriamente democratico e quello liberal-individualistico32. Nella democrazia si parte dalle persone, ma si crea una somma compiuta o «arrotondata» che non considera la peculiarità degli individui. I voti – dice Simmel con Nietzsche – si contano e non si pesano. Tutto il processo corrisponde a un abbassamento della persona singola al fatto formale che essa è una. Simmel delimita anzitutto i criteri di vigenza del principio dell’unanimità e del principio maggioritario rispetto alla verità. L’esigenza di unanimità si fonda sul presupposto, «più o meno inconsapevolmente operante, che la verità obiettiva non possa non essere sempre anche soggettivamente convincente e che viceversa l’identità dei convincimenti soggettivi sia il contrassegno del contenuto obiettivo della verità». Quando vige il principio dell’unanimità, vige la fede mistica «nel potere della verità» e nella «coincidenza di ciò che è logicamente giusto con ciò che è psicologicamente reale»33, cioè nella Richtigkeit, che è una sorta di punto di arresto operativo ma non veritativo. La differenza più rilevante passa però non tra il principio dell’unanimità e quello maggioritario, ma all’interno del principio maggioritario stesso. In un primo caso i molti sono più potenti dei pochi. All’interno del gruppo ci sono quindi due partiti, a decidere tra i quali sono i rapporti di potere o di forza. La coazione esercitata sulla minoranza è qui ancora esplicita e trasparente; diventa più torbida quando si proietta sul piano etico, quando cioè non viene più chiesto l’assenso operativo della minoranza, ma l’accettazione della volontà della maggioranza, il riconoscimento che essa ha voluto il «giusto»:

32. Ivi, p. 60. 33. Ivi, p. 164.

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La maggioranza appare come la rappresentante naturale della totalità ed è partecipe di quel significato dell’unità del tutto che, stando al di là della mera somma degli individui, non si sottrae del tutto a una totalità sovraempirica, mistica34.

Qui il Müssen trapassa in Sollen: quando Grozio afferma che la maggioranza ha naturaliter jus integri, postula un’esigenza interiore nei confronti della minoranza: «infatti un diritto non solo non si può non (muss) riconoscerlo, ma si deve (soll) riconoscerlo»35. La naturalità ovvia della procedura ci trasporta invece nel secondo caso del principio maggioritario, di gran lunga il più vicino ai meccanismi dell’odierna democrazia parlamentare. In esso il voto della maggioranza è il segno del fatto che la volontà unitaria del gruppo si è decisa in un senso o in un altro: mentre la 34. Ivi, p. 165. 35. Ibidem. Nell’Einleitung in die Moralwissenschaft [1892-1893] Simmel aveva interpretato il Müssen come parallelo al potere e il Sollen come parallelo al diritto. Il tratto decisionistico è evidente nell’uso del concetto di Erfolg, successo o conseguenza (esito). «È un tratto peculiare della natura umana che per essa il potere trapassi gradualmente in diritto, cioè che il Müssen trapassi in Sollen» (G. Simmel, Einleitung in die Moralwissenschaft = Georg-SimmelGesamtausgabe, voll. III e IV, a cura di K.Chr. Köhnke, Frankfurt am Main 1989, I, p. 69). In questo modo «l’accadere, che dalla sua ha il diritto della conseguenza, sembra poi essere, spesso, una conseguenza del diritto» (ibid.). La differenza tra il Müssen e il Sollen è nello scopo, che nel secondo manca o è opacizzato: «Ogni dovere (Müssen) in senso ordinario dipende da uno scopo e non può fare altro che, se io voglio questo scopo, rendere inevitabile una determinata via che conduce ad esso» (ivi, I, pp. 65-66). Invece: «Si potrebbe interpretare psicologicamente il Sollen etico come un Müssen nel quale lo scopo, solo presupponendo il quale esso era un Müssen, è venuto meno, o almeno si è opacizzato per la coscienza» (ivi, I, p. 66). Il passaggio al Sollen appare come interiorizzazione: «Non solo la coazione […] che proviene da altri uomini, ma anche quella che proviene da rapporti esteriori si interiorizza col tempo in modo tale da apparire come dovere, come Sollen» (ivi, I, p. 72). Il rapporto tra Müssen e Sollen, o tra potere e diritto, corrisponde al rapporto tra Anspruch, esigenza come pretesa (potestativa) e Forderung, esigenza «oggettiva» e impersonale. Si tratta di vedute abbastanza lontane da quelle del Simmel maturo e probabilmente prive di originalità: vengono qui citate a scopo di documentazione e di confronto.

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differenza di potere dei molti rispetto ai pochi è un principio di esclusione della minoranza, qui il principio agente è quello dell’inclusione. Si presuppone che la prassi proceda come se ci fosse una unità oggettiva di gruppo dotata di una volontà unitaria. La volontà dello Stato o della Chiesa può sussistere al di là del contrasto delle volontà individuali in essa contenute, così come può sussistere al di là del mutamento temporale dei suoi depositari. L’immunizzazione della sovranità istituzionale dal tempo è ancora una volta una precondizione dell’inclusione della minoranza. Rispetto a questa volontà unitaria di gruppo, gli elementi della minoranza non possono più dissentire come componenti del gruppo, ma solo come individui: l’inclusione è irreversibile. «L’elemento sovraindividuale del raggruppamento – aveva scritto Simmel –, la totale autonomizzazione della sua forma rispetto a ogni contenuto dell’esistenza singola, vive nel modo più assoluto ed energico nella riduzione dei principi di organizzazione a rapporti puramente numerici»36. Se si accetta – con Locke – che il contratto sociale originario sia stato stipulato da individui assolutamente liberi, per i quali il principio maggioritario non potrebbe valere, si accetta anche che, una volta stipulato il contratto, l’individuo sia un essere sociale, parte di un’unità. La radicalizzazione di questa impostazione è nella volonté générale di Rousseau: Quando si propone una legge nell’assemblea del popolo, ciò che si domanda ai cittadini non è precisamente se essi approvino la proposta oppure la respingano, ma se essa è conforme o no alla volontà generale, che è la loro: ciascuno dando il suo voto esprime il suo parere; e dal calcolo dei voti si trae la dichiarazione della volontà generale. Quando dunque prevale il parere contrario al mio, ciò non significa altro se non che mi ero ingannato, e che ciò che credevo essere la volontà generale non era tale. Se il mio parere particolare avesse prevalso, avrei fatto una cosa diversa da quella che volevo; e allora non sarei stato libero37. 36. G. Simmel, Sociologia, cit., p. 61. 37. J.J. Rousseau, Il contratto sociale, tr. it. a cura di V. Gerratana, Torino 1964, p. 144.

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L’allusione di Simmel a questo passaggio concettuale del Contratto sociale equivale al tentativo di assimilare un momento della teoria della volonté générale all’idea della patologizzazione del dissenso individuale – un’idea sviluppata sulla base di sollecitazioni decisionistiche –, ma anche di introdurre un’ulteriore mediazione: il sapere. Il presupposto dell’onnipotenza della maggioranza è sempre che la migliore conoscenza sia dalla sua parte, che essa disponga di un sapere vincente. Il dogma indimostrabile per cui un’opinione quantitativamente maggioritaria debba inevitabilmente cogliere il senso dell’unità di tutti è fondato sul presupposto che, anche se non si può accettare che la maggioranza sappia in quanto tale das Richtige, non c’è nessun motivo perché si debba accettare che la superiorità conoscitiva sia della minoranza. Sono allora molti gli elementi che confluiscono nella procedura elettorale: il codice vero/falso, che bolla l’errore individuale perché fissa la verità in termini quantitativi, come dimensione del convincimento; il rovesciarsi della libertà con cui gli individui hanno contratto il patto sociale originario nel vincolo di appartenenza del singolo all’unità sociale; la separazione tra individuo da un lato e membro del gruppo dall’altro. La precaria soluzione del principio maggioritario non è esente da possibili squilibri: «La separazione dell’uomo in quanto essere sociale dall’uomo in quanto individuo è certamente una finzione necessaria e utile, con la quale però non sono affatto esaurite la realtà e le sue esigenze»38. Il singolo compare non come individuo, ma nella funzione sovraindividuale di membro del gruppo. La «profonda e tragica scissione»39 che residua da questo processo non impedisce che, intanto, esso assolva il suo compito di funzionalizzare le dimensioni socializzabili del singolo. Imputabile non è l’individuo nella sua integrità, ma l’individuo come essere sociale. La posizione atomistica40 con la 38. G. Simmel, Sociologia, cit., p. 168. 39. Ibidem. 40. Si veda su questo punto il saggio di H. Böhringer, Spuren von speku-

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quale Simmel aveva aperto il discorso sulla procedura elettorale – non si può costruire un albero con altri alberi, non si può costruire una società con individui che non siano già ridotti e non più pleonessici – può avere solo un senso: l’individuo è ambiente pericoloso per la società. La sua eccedenza va messa sotto controllo. Tutta l’incessante evoluzione delle forme sociali è il tentativo di «conciliare l’unità e la totalità dell’individuo con il suo ruolo sociale come parte e contributo, di salvare l’unità e la totalità della società dalla distruzione causata dall’indipendenza delle parti»41. Il meccanismo elettorale smorza il conflitto assicurando l’unità della società al di sopra degli antagonismi e degli interessi ma non senza il contributo della Richtigkeit: in nessun momento esso aspira a riflettere le singolarità. Il gruppo sociale, si diceva nella Einleitung in die Moralwissenschaft, assume più o meno la posizione che per un uomo pio ha Dio e che per Machiavelli e Hobbes ha il principe: non c’è qualcosa di giusto e di buono a cui la volontà del gruppo si conformi ma è piuttosto la volontà del gruppo che determina ciò che è giusto e ciò che è buono: «la maggioranza vuole ciò che è giusto (das Richtige) perché la sua volontà costituisce il criterio di ciò che noi definiamo giusto»42. Vale la pena proiettarsi non all’indietro, verso Tocqueville, con il quale è evidente una notevole consonanza a distanza, ma in avanti, andando in cerca di un dissenso filosofico profondo. L’interessantissima replica di Kelsen43 coglierà infatti perfettamente il disinteresse di Simmel per una fondazione meramente teorica dell’unità della società: si tratta invece di accordare praticamente gli individui. In realtà, secondo Kelsen, il potere del conflitto tra le volizioni individuali è inadeguato a intaccare lativem Atomismus in Simmels formaler Sociologie, in Id. (a cura di), Ästhetik und Soziologie um die Jahrhundertwende: Georg Simmel, Frankfurt am Main 1976, pp. 105 ss. 41. G. Simmel, Sociologia, cit., p. 163. 42. G. Simmel, Einleitung in die Moralwissenschaft, cit., I, p. 85. 43. H. Kelsen, Der soziologische und der juristische Staatsbegriff, Tübingen 2 1928, pp. 67-74 – ma cfr. anche pp. 5-6, pp. 13-15 e altrove.

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l’unità sociale pensata come esistente e valida. Il meccanismo dello Stato democratico fondato sul rapporto maggioranza-minoranza è estraneo all’introduzione della volontà empirico-reale, cioè psichica, dell’individuo singolo (eventualmente) dissenziente rispetto alla volontà dello Stato. La maggioranza può imporre la sua volontà alla minoranza solo in quanto rappresentante o organo dell’insieme sociale che comprende anche la minoranza. Nel formarsi della rappresentanza non c’è, in altri termini, alcuna stortura: la validità normativa dell’unità entro la quale devono essere concepiti gli individui fonda, secondo Kelsen, la validità cui aspira anche una deliberazione unanime, che pure non potrebbe mai, in realtà, abbracciare tutti i soggetti. La mancanza di compresenza nello spazio di tutti gli individui non è per Kelsen elemento dirimente di riflessione sul parlamentarismo: L’unità nella quale lo Stato raccoglie «oggettivamente» e «sovraindividualmente» gli individui, il senso in cui la «volontà» dello Stato «contiene» le volizioni e le azioni individuali, si colloca in una sfera fondamentalmente diversa dal terreno dell’essere, in cui diventa attuale l’opposizione, il conflitto di queste volizioni e azioni individuali: si colloca cioè nella sfera del dover essere44.

L’unità degli individui non empirici è tanto poco intaccata da un conflitto che contraddica l’ordine normativo, quanto poco la norma è intaccata da un fatto empirico che la contraddica. L’unità dello Stato è bensì un «al di là», uno Jenseits, ma non ha nulla di metafisico o di mistico: è lo Jenseits del dover essere. Suo malgrado, Kelsen deve qui semplificare i termini messi in campo da Simmel, che punta sulle determinazioni spaziali. Superato il livello di un decentramento istituzionale forzoso, costruito sulla rappresentanza di interessi e di situazioni locali e presupposta l’unità dello Stato, le circoscrizioni elettorali istituiscono un rapporto di solidarietà con l’intero statuale: la 44. Ivi, pp. 71-72.

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loro funzione consiste nella designazione della rappresentanza. A questo livello si istituisce tacitamente, nel testo di Simmel, un’isomorfia tra il gruppo e lo Stato (meglio: tra le due unità afferenti al gruppo e allo Stato). L’accettazione del contratto sociale è la soglia che si colloca tra libertà piena e «essere sociale». Stipulato il contratto sociale, l’individuo entra in rapporti profondamente trasformati, segnati dalle alternative quantità/ qualità e specificità individuale/anonimato, com’era già chiaro nella Filosofia del denaro: Il principio per cui la minoranza deve adeguarsi significa che il valore assoluto o qualitativo del voto individuale è ridotto a una unità di significato puramente quantitativo. Il livellamento democratico, per il quale ognuno vale per uno e nessuno per più di uno, è il correlato o il presupposto di questa procedura calcolistica in cui il più o il meno aritmetico di unità anonime esprime la realtà interna di un gruppo e regge la sua realtà esterna45.

A questa procedura calcolistica, cioè quantificante, Kelsen ribatte con un’argomentazione logica cui ha fatto spesso ricorso: l’antitesi tra individuo-tutto e individuo-parte non contiene alcuna contraddizione logica (in senso proprio), ma è solo un caso del dualismo inconciliabile (del tutto ordinario, cioè noncontraddittorio) tra essere e dover essere46. Kelsen ripropone il rapporto diadico espressivo del parlamentarismo: fatticità e normatività. Simmel utilizza invece uno schema a tre potenze: la società, gli individui, l’oggettività. In questa costellazione, che in qualche modo brucia il terreno d’azione dell’antitesi kelseniana tra individuo sociale-naturale e individuo politico-normativo, «la società è spesso il terzo elemento (das Dritte) che risolve i conflitti tra l’individuo e l’oggettività o che getta ponti tra le loro sconnessioni»47. L’errore metodico dell’approccio so45. G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., pp. 627-628. 46. Una ricostruzione attenta in R. Racinaro, Introduzione a H. Kelsen, Socialismo e Stato, tr. it. Bari 1978, pp. CXXV ss. 47. G. Simmel, Sociologia, cit., p. 174.

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ciologico consiste, secondo Kelsen, nel premettere una finzione – una situazione di fatto viene a coincidere con una situazione normativa: il membro del gruppo, antropomorficamente ipostatizzato da Simmel, non può dissentire dalla volontà del gruppo –, e nell’utilizzarla poi per superare la (presunta) contraddizione tra fatticità e normatività. È quella finzione iniziale a rivelarsi del tutto superflua: «in particolare la finzione dell’unità sociale “reale” dello Stato, che si presenta come una unione in qualche modo organica dei membri dello Stato finzionalmente presupposti come reali (als real fingierten)»48. L’ipotesi finzionalistica di Simmel sembra tuttavia poter resistere alle obiezioni di Kelsen almeno in questo senso: l’orientamento moderno, non solo di tipo statuale, ma di tipo generalmente organizzativo, punta all’inclusione delle minoranze, non a ripartire il potere tra i molti e i pochi. Esso presuppone un’oggettiva unità di gruppo dotata di una volontà unitaria, sia che questa sia consapevole, «sia che la prassi proceda come se esistesse per sé una siffatta volontà di gruppo»49. La «finzione» copre così l’ordinamento statuale come l’unione di scopo, lo Zweckverband, e legge il meccanismo statuale sul filo dell’analisi del gruppo sociale (e non viceversa). Kelsen coglie perciò pienamente nel segno quando sospetta che Simmel, ridimensionando il peso stesso della statualità e trasponendo tutto il discorso su un terreno di sociologia dell’organizzazione e non di sociologia della politica, intenda svuotare di senso l’obbligazione nei confronti dello Stato parlamentare.

4. Soggetto moderno e contratto Dietro la polemica di Kelsen c’è forse anche una divergenza profonda sulla concezione del dover essere. Curiosamente, Kelsen si appellò spesso alle prime pagine della Einleitung in die 48. H. Kelsen, Der soziologische…, cit., p. 73. 49. G. Simmel, Sociologia, cit., p. 145.

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Moralwissenschaft di Simmel per ribadire la netta separazione tra essere e dover essere e per espellere la fatticità individuale dal territorio della norma. Per Simmel, tuttavia, il principio del dialogo del soggetto con se stesso investe non solo l’autoconoscenza ma anche il comportamento morale. La stessa scissione che dà all’io la possibilità di dire a se stesso «io sono», perché il soggetto che sa si contrappone a se stesso in quanto oggetto saputo, gli consente anche di dire a se stesso: «tu devi». Se non ci fosse contrapposizione di un secondo soggetto, non nascerebbe la forma di comportamento ispirata al Sollen. Ma il secondo soggetto è già nell’io: La relazione di due soggetti, che compare come imperativo, si ripete grazie alla fondamentale capacità del nostro spirito di contrapporsi a se stesso e di vedere e considerare se stesso, all’interno della medesima psiche individuale, come un altro50.

Autoconoscersi è possibile solo come conoscenza dell’altro. L’etica utilitaristica fallisce la comprensione di questo passaggio dall’obbligazione nei confronti di se stesso all’obbligazione nei confronti dell’altro. È uno sviluppo teorico immanente, fondato sull’analisi della scomposizione dell’io, a indurre Simmel alla ripresa e all’approfondimento di un’etica altruistica. Ma se individuum est ineffabile, e se la conoscenza dell’altro non è mai esaustiva, mediata com’è dalla tipizzazione e dalla riduzione della ridondanza dell’altro, anche l’autoconoscenza è impossibile come «luce» completa su se stesso. La morale germina nel rapporto dell’io con se stesso ma non ha un fondamento conoscitivo integrale: non è quindi più possibile un riconoscimento in senso proprio. Ci si può solo accettare, così come si può accettare, ma non conoscere integralmente, l’altro come interlocutore. Viene così a riformularsi il problema del contratto sociale: la crisi del contrattualismo è nel soggetto stesso. Poco dopo la digressione sulla vittoria elettorale maggioritaria da noi 50. Ivi, p. 51.

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esaminata, Simmel si chiede da che cosa derivi il duplice carattere dell’imperativo etico: da un lato c’è un comando impersonale al quale dobbiamo subordinarci, dall’altro c’è un impulso interiore che ci impone l’imperativo etico. La risposta rinvia alla capacità dell’individuo di ripetere, nella sua coscienza, le relazioni esistenti tra l’individuo nella sua interezza e il gruppo:

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[L]e rappresentazioni della psiche singola si comportano in tutti i loro rapporti, per i quali si associano e si separano, si differenziano e si uniscono, come gli individui si comportano l’uno nei confronti dell’altro51.

Questa struttura non muta se al rapporto interindividuale sostituiamo il rapporto tra l’individuo e la cerchia che lo circonda e che gli fa da ambiente: Il singolo esige da se stesso tutto ciò che la società esige dal suo membro: adesione e fedeltà, altruismo e lavoro, autodominio e veridicità52.

L’intreccio tra autoconoscenza, sapere dell’altro e nascita del Sollen rende conto così della definizione che l’ultimo Simmel dette del dovere, anzi del contenuto del dover essere (das Gesollte): esso ha la caratteristica o la qualità dell’evidenza53. La ripetitività del dovere – quella per la quale, come scrisse Weber, quando un funzionario appare quotidianamente in ufficio a un’ora stabilita non è in gioco solo un’abitudine acquisita o una situazione di interessi, ma la validità dell’ordinamento (il regolamento di servizio), che ha un carattere imperativo e la trasgressione del quale è aborrita dal sentimento del dovere per 51. Ivi, p. 173. 52. Ibidem. 53. G. Simmel, Das individuelle Gesetz, «Logos», 4, 1913, poi ampliato e rivisto in Lebensanschauung [1918, 21922], tr. it. Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, a cura di G. Antinolfi, Napoli 1997, p. 133. L’espressione Bekanntheitsqualität deriva con ogni probabilità da Harald Höffding.

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motivi razionali rispetto al valore – viene colta da Simmel nell’inadeguatezza della «coscienza della legge», prototipo presunto di tutte le esigenze etiche. È in realtà rarissimo che la coscienza più o meno chiara di ciò che dobbiamo essere e di ciò che dobbiamo fare si riferisca a una legge formulata o formulabile, vale a dire fissata o fissabile, statuita o passibile di statuizione: tale coscienza accompagna invece la realtà della nostra vita in una forma fluida o sentimentale, e «sentimento del dovere», più che «coscienza del dovere», è l’espressione tecnica per indicare questo processo. Il dovere è un sentimento, e come ogni sentimento si esercita su qualcosa di non completamente ignoto: il che non toglie – semmai accentua – il suo carattere indeterminato, cioè la sua disponibilità ad essere un «dovere» senza qualità e senza contenuti. Si chiude così il circolo tra imputazione, colpa e coattività del dovere. Anche se la pregnanza teorica del confronto di Kelsen con Simmel non è paragonabile a quella dello scontro con Schmitt del 193154, la crisi del giovane parlamentarismo tedesco e la prospettiva di un deterioramento fatale del tessuto democratico emergono senza veli dal modello simmeliano di imputazione. Ed emergono con evidenza tanto più incisiva quanto minore è la propensione di Simmel a soluzioni decisionistiche «forti», e quanto più la tragedia dell’imputazione affonda le sue radici non nella politica ma nella struttura etica dell’individuo. L’imputazione nasce quando muore l’unanimità: la forma più corrente di legittimità è la credenza nella legalità, scrive Weber, ma l’antitesi tra ordinamenti pattizi e ordinamenti imposti è solo relativa, perché anche la validità di un ordinamento pattizio non può poggiare su una stipulazione unanime e mette in conto anzi, sin dall’inizio, l’obbedienza di individui che vogliono

54. C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung [1931], tr. it. a cura di A. Caracciolo, Milano 1981; H. Kelsen, Wer soll der Hüter der Verfassung sein?, ora in Aa.Vv., Die Wiener rechtstheoretische Schule, a cura di H. Klecatsky, R. Marcic e H. Schambeck, Wien 1968 [1931], II, pp. 1873-1922.

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in maniera difforme dalla maggioranza55. Il segreto della politica, per Simmel, è l’etica. Answerable, in grado di rispondere, è già, nella tradizione morale inglese e scozzese, l’agente per le conseguenze dell’azione che in qualche modo erano intese (gemeint, si dirà in Germania), o per quelle che, almeno, hanno mostrato qualche qualità piacevole o spiacevole nell’intenzione del cuore. Le componenti dialogiche della responsabilità sono sempre in primo piano: la «rispondenza» e la congruenza delle aspettative aprono la possibilità di contare sull’interlocutore e di imprigionarlo nel circolo Rechnung-Zurechnung, calcoloimputazione. L’impertinenza della comunicazione darebbe via libera al tradimento delle aspettative reciproche. Ma è possibile salvare la pertinenza anche nel quadro della comunicazione generalizzata propria delle istituzioni? O il miracolo di equilibrio che consente alla società di essere «possibile», come suona il titolo di una delle più famose digressioni di Simmel, comporta il prezzo di una rinuncia alla comunicazione?

55. Si rammenti che, discutendo i rapporti tra maggioranza, minoranza e unanimità, Schmitt rinvia allo stesso passo di Rousseau da noi precedentemente utilizzato (cfr. C. Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, Berlin 31961 [1923, 21926], pp. 34-35). Si veda però anche questa anticipazione della tematica della procedura elettorale in Ferdinand Tönnies: «La consapevolezza dell’eguaglianza fa sì che chi prende parte alla votazione si sottopone per ciò stesso al suo senso, ed il senso della votazione è nella possibilità della chance di diventare volontà della collettività, cioè dell’assemblea, della comunità (Kollegium): questa chance risiede appunto nell’eguaglianza e, intesa in astratto, è una chance “eguale” per ogni membro»: F. Tönnies, Die Lehre von der Urversammlung [1930], ora in Id., Studien zur Philosophie und Gesellschaftslehre im 17. Jahrhundert, a cura di E.G. Jacoby, Stuttgart-Bad Cannstatt 1975, p. 336. Tönnies riprende qui un suo precedente saggio, Die grosse Menge und das Volk [1919, 21920], ora in Id., Soziologische Studien und Kritiken, II, Jena 1926, p. 301. Per ottime ragioni inerenti alla sua stessa biografia intellettuale, Tönnies respinse l’idea di una primogenitura rousseauiana della riflessione su contratto e unanimità e la ricondusse a Hobbes (il Contratto sociale di Rousseau «poggia certamente, cento anni dopo, sulle spalle di Hobbes»: Die Lehre, cit., p. 343, nota 5; e cfr. F. Tönnies, Thomas Hobbes. Leben und Lehre [31925], a cura di K.H. Ilting, StuttgartBad Cannstatt 1971, p. 254).

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Razionalità e diritto in Max Weber

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Introduzione

D

opo il Novecento, agli albori del XXI secolo l’opera di Max Weber1 calca ancora da protagonista la scena culturale nazionale e internazionale, e l’eco della sua voce continua a farsi sentire attraverso una molteplice attività critico-interpretativa e editoriale che segna con incisività il dibattito filosofico e sociologico contemporaneo2. Spirito culturalmente enciclopedico, Max Weber visse in un contesto biografico e storico-culturale di cui seppe recepire criticamente le più differenti influenze e con le quali si confrontò lungo tutto il cammino del suo pensiero3. Weber ebbe una conoscenza ampia ed erudita sia della 1. Nel 1981 la casa editrice J.C. Mohr di Tubinga, con il sostegno dell’Accademia delle Scienze bavarese e sotto la direzione di H. Baier, M.R. Lepsius, W.J. Mommsen, W. Schluchter e di J. Winckelmann, ha avviato la pubblicazione dell’edizione critica dell’opera di Max Weber (Max Weber-Gesamtausgabe, d’ora in poi con la sigla MWG), suddividendola in tre sezioni: Schriften und Reden (23 voll.), Briefe (8 voll.) e Vorlesungsmanuskripte und Vorlesungsnachschriften (2 voll.). A partire dal 2003 la casa editrice Donzelli di Roma ha programmato la pubblicazione della nuova traduzione di Economia e società di Max Weber, condotta per la prima volta sulla base dell’edizione critica tedesca, e nella quale, nel piano dell’opera, viene annunciato tra gli altri anche il relativo tomo dedicato al diritto. 2. Cfr. A. De Simone, Senso e razionalità. Max Weber e il nostro tempo, Urbino 1999 (ivi bibliografia) e Id., Weber nel Novecento, in G. ForneroS. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Milano 2002, pp. 173-180; F. Ferraresi, Max Weber fra antico e moderno. Nuove prospettive di analisi nella letteratura critica, «Filosofia politica», 1, 2003(XVII), pp. 127-151. 3. Cfr. Marianne Weber, Max Weber. Una biografia, Bologna 1995. Su Weber, tra gli altri, cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino 1956 [ultima edizione: Milano 1994]; F. Ferrarotti, Max Weber e il destino della

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storia antica e moderna sia di quella delle società orientali e fu ben addentro a tutte le opere sociologiche del suo tempo. Nella sua biografia intellettuale trovano posto i sistemi filosofici ragione, Bari 1965; L. Cavalli, Max Weber: religione e società, Bologna 1968; J. Freund, La sociologia di Max Weber, Milano 1968; K. Jaspers, Max Weber politico, scienziato, filosofo, Napoli 1969; N.M. De Feo, Introduzione a Max Weber, Bari ³1997 [1970]; M. Signore, Senso e significato in Max Weber, Lecce 1977; G. Duso (a cura di), Weber: razionalità e politica, Venezia 1980; P. Rossi (a cura di), Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Torino 1981; F. Ferrarotti, L’orfano di Bismarck. Max Weber e il suo tempo, Roma 1982; P. Rossi, Max Weber. Razionalità e razionalizzazione, Milano 1982; A. Dal Lago, L’ordine infranto. Max Weber e i limiti del razionalismo, Milano 1983; R. Bendix, Max Weber. Un ritratto intellettuale, Bologna 1984; P.P. Portinaro, Max Weber. La democrazia come problema e la burocrazia come destino, Milano 1987; P. Raynaud, Max Weber et les dilemmes de la raison moderne, Paris 1987; W. Schluchter, Il paradosso della razionalizzazione. Studi su Max Weber, Napoli 1987 e Id., Lo sviluppo del razionalismo occidentale. Un’analisi della storia sociale di Max Weber, Bologna 1987; M. Losito-P. Schiera (a cura di), Max Weber e le scienze sociali del suo tempo, Bologna 1988; P. Rossi, Max Weber. Oltre lo storicismo, Milano 1988; D. Beetham, La teoria politica di Max Weber, Bologna 1989; R. Brubaker, I limiti della razionalità. Un saggio sul pensiero sociale e morale di Max Weber, Roma 1989; W. Hennis, Il problema Max Weber, Roma-Bari 1991; W.J. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca, Bologna 1993; H. Treiber (a cura di), Per leggere Max Weber, Padova 1993; F. Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert Michels, Roma-Bari 1993; K. Löwith, Marx, Weber, Schmitt, Roma-Bari 1994; F. Ferrarotti, Max Weber. Fra nazionalismo e democrazia, Napoli 1995; P. Bouretz, Les promesses du monde. Philosophie de Max Weber, Paris 1996; F. Bianco, Le basi teoriche dell’opera di Max Weber, RomaBari 1997; A. De Simone, Senso e razionalità. Max Weber e il nostro tempo, cit.; C. Colliot-Thélène, Études wéberiennes. Rationalités, histoires, droits, Paris 2001; F. Papa, Weber politico. Tra spirito tedesco e civiltà europea, Roma 2001; S. Eliaeson, Max Weber’s Methodologies. Interpretation and Critique, Cambridge 2002; G.A. Di Marco, Studi su Max Weber, Napoli 2003; F. Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, Milano 2003; D. Kaesler, Max Weber, Bologna 2004 [1995, 21998]; A. D’Attorre, Perché gli uomini ubbidiscono. Max Weber e l’analisi della socialità umana, pref. di R. Bodei, Napoli 2004; F. Ghia, L’arte come professione. L’estetica di Max Weber, Alessandria 2004; G. Poggi, Incontro con Max Weber, Bologna 2004; B. Accarino, Le frontiere del senso. Da Kant a Weber: male radicale e razionalità moderna, Milano 2005; D. D’Andrea, L’incubo degli ultimi uomini. Etica e politica in Max Weber, Roma 2005; C. Colliot-Thélène, La sociologie de Max Weber, Paris 2006; A. De Simone, Oltre il disincanto. Etica, diritto e comunicazione tra Simmel, Weber e Habermas, Lecce 2006.

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Razionalità e diritto in Max Weber

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classici, la teologia, la storia economica, l’economia politica, la scienza politica, nonché le influenze di Nietzsche4 e di Marx5 e le rilevanti “affinità elettive” con Simmel6. All’interno di questo vasto campo di interessi culturali e scientifici, uno spazio particolarmente ampio fu ricoperto dalla costante attenzione di Weber per la storia e la sociologia del diritto tra economie antiche e capitalismo moderno. Ora, occorre chiedersi: quale ruolo il diritto ha svolto nel complesso itinera4. A partire dai lavori di E. Fleischmann, De Weber à Nietzsche, «Archives européens de Sociologie», 1964(V), pp. 190-238; R. Eden, Political Leadership and Nihilism. A Study of Weber and Nietzsche, Tampa 1983; A. Dal Lago, L’ordine infranto. Max Weber e i limiti del razionalismo, cit., pp. 35-64; W. Hennis, Le tracce di Nietzsche nell’opera di Max Weber, in Id., Il problema Max Weber, cit., pp. 193-220; D.J.K. Peukert, Max Webers Diagnose der Moderne, Göttingen 1989; A. Germer, Wissenschaft und Leben. Max Webers Antwort auf eine Frage Friedrich Nietzsches, Göttingen 1994; W. Schluchter, Zeitgemäße Unversöhnte Moderne, Frankfurt a.M. 1996, pp. 166-185; F. Bianco, Le basi teoriche dell’opera di Max Weber, cit., nonché di D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino 2002, «il tema del rapporto tra Weber e Nietzsche è diventato un passo obbligato nella recente letteratura critica weberiana, anche italiana», come ricorda nel suo puntuale e documentato saggio critico-interpretativo F. Ferraresi, Max Weber e il nichilismo compiuto, in R. Esposito-C. Galli-V. Vitiello, Nichilismo e politica, Roma-Bari 2000, pp. 186-202. 5. Sul rapporto tra Weber e Marx il testo fondamentale rimane ancora quello di K. Löwith, Max Weber e Karl Marx [1932], in Id., Marx, Weber, Schmitt, cit., pp. 1-90, per il cui commento critico rinvio il lettore al cap. II “Karl Löwith: Weber e Marx. Uomo, razionalità, libertà”, del mio già citato volume Senso e razionalità. Max Weber e il nostro tempo, pp. 31-77. 6. Sui rapporti tra Simmel e Weber, considerati a livello metodologicoepistemologico, contenutistico, storico-filosofico, sociologico e personale, cfr. tra gli altri il recente e documentato saggio di M. Picchio, Georg Simmel e Max Weber: modernità, soggettività e conseguenze pedagogiche, in M.C. Federici (a cura di), Georg Simmel e la sociologia omnicomprensiva, Perugia 2001, pp. 151-220 (ivi bibliografia) e Id., Simmel e Weber: “differenti affinità”. Modernità, identità soggettiva e quotidianità, in A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, Urbino 2005, pp. 89-144. Sul pensiero e l’opera di Simmel rinvio il lettore ai miei volumi: A. De Simone, Filosofia dell’arte. Lettura di Simmel, Lecce 2002; A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, Urbino 2002; A. De Simone (a cura di), Leggere Simmel. Itinerari filosofici, sociologici ed estetici, Urbino 2004 (ivi bibliografia).

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rio intellettuale di Weber, e quali sono i luoghi topici in cui il tema del diritto viene affrontato e sviluppato nella sua opera? Al primo interrogativo è possibile rispondere facendo osservare che il diritto ha senz’altro svolto un ruolo fondamentale all’interno della sua formazione intellettuale, nel suo programma scientifico e nella sua personale “critica ideologica”. Tuttavia, occorre sottolineare che il diritto, per Weber, pur avendo una sua autonomia d’oggetto e di indagine, è comprensibile soltanto in connessione reciproca con tutti gli altri livelli dell’agire sociale (società, religione, economia, etica, politica, potere, etc.). Inoltre, Weber ha sempre dimostrato come, lungo tutta la sua vita di studioso, si sia avvicinato al diritto da punti di vista diversi e comunque sempre interagenti nella sua più generale prospettiva d’analisi del mondo storico-sociale. Ripercorrendo questi suoi approcci al complesso fenomeno del diritto si può ben vedere come lo stesso Weber andasse oltre la semplice ricostruzione storico-sociologica del diritto, giungendo così a una sociologia tramite il diritto, nel senso che il diritto per lui non è che una variabile (storica) di un universo (sociale ed empirico) più ampio e generale, che si tratta di indagare e di comprendere nella sua multiforme, oggettiva, funzionale e simbolica complessità. Al secondo quesito si può rispondere facendo notare che l’intero VII capitolo (redatto tra il 1911 e il 1913) della seconda parte di Wirtschaft und Gesellschaft dedicato alla sociologia del diritto (Rechtssoziologie) non esaurisce la problematica weberiana del diritto, in quanto essa è presente a vario titolo e in vari modi lungo tutta l’opera di Weber. Fatte queste premesse, lo scopo “didattico” di questo breve contributo è soltanto quello di focalizzare più da vicino, in un’analisi necessariamente sintetica e ricostruttiva, il rapporto tra Weber e il diritto. Pertanto, occorrerà svolgere preliminarmente – senza alcuna pretesa di esaustività – una ricognizione, una descrizione e un’analisi ricostruttiva delle principali definizioni e dei concetti-chiave che Weber fornisce del diritto razionale-formale, con l’obiettivo di sintetizzare la sua generale ricostruzione delle varie fasi di formalizzazione delle istituzioni giuridiche antiche e moderne.

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Razionalità e diritto in Max Weber

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Successivamente prenderemo in considerazione alcuni degli aspetti principali della sociologia weberiana del diritto, ovvero il rapporto tra diritto razionale-formale e capitalismo e il rapporto tra diritto razionale-formale e stato. Infine, cercheremo di svolgere alcune considerazioni critiche sul pensiero weberiano in relazione al diritto nel più generale processo di razionalizzazione sociale che caratterizza lo sviluppo del razionalismo occidentale moderno.

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1. Il diritto negli scritti storici e sociologico-giuridici di Max Weber Nell’insieme dell’opera weberiana, l’attenzione costante alle forme del diritto e alla loro evoluzione costituisce una sorta di fil rouge che stabilisce un legame trasversale tra la sua sociologia del potere, la sua sociologia della città, i suoi lavori sulla sociologica storica del mondo antico e la sua sociologia delle religioni. Come puntualmente scrive Catherine Colliot-Thélène, in Weber «cette attention pour le droit, et les compétences qu’il pouvait mobiliser en ce domaine donnet précisément à sa sociologie politique, à sa sociologie de la ville, à sa sociologie de religions, etc. un cachet caractéristique, que l’on ne retrouve chez aucun autre représentant de ces diverses spécialités. Le droit est partout, chacun est prêt à le concéder, en ce sens que l’action sociale est toujours soumise à des régulations normatives, que ce soit sous forme coutumière ou législative, par le fait de la pression tacite du groupe ou de la sanction pénale. Mais peu d’auteurs disposent du savoir permettant de faire de la reconnaissance de cette vérité convenue autre chose qu’une généralité sans conséquence. – À cela s’ajoute […] que la réflexion de Weber sur le mode d’efficience du droit, les formes diverses de sa création et de sa diffusion, est particulièrement propice à l’éclaircissement des présupposés méthodologiques de la “sociologie compréhensive”»7. 7. C. Colliot-Thélène, Études wébériennes, cit., p. 193.

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Fatta questa necessaria premessa, è ora importante sottolineare che la produzione storico-giuridica e gli scritti di teoria e sociologia del diritto di Weber costituiscono senz’altro un compito ermeneutico difficile e un impegno analitico e storiografico decisamente improbo per chi voglia accingersi a farne oggetto di studio dettagliato8. Le difficoltà che si incontrano in una simile impresa sono di varia natura e di diversa configurazione. Da un lato, dipendono dalla peculiare prosa di Weber, dal suo complesso stile d’autore enciclopedico; dall’altro, è l’oggetto stesso del diritto in generale – e delle scienze giuridiche in particolare –, che pone di per sé numerosi problemi9. Una prima e 8. Nel sintetico e ricostruttivo contributo che segue farò esclusivamente riferimento alle maggiori tendenze interpretative presenti nella letteratura critica relativa a Weber e il diritto che sono essenziali al mio scopo. Tra gli studi monografici più recenti sull’argomento, cfr. tra gli altri: M.A. Toscano, Evoluzione e crisi del mondo normativo: Durkheim e Weber, Roma-Bari, 1975, pp. 215-360; R. Treves (a cura di), Max Weber e il diritto, Milano 1981; A.T. Kronman, Max Weber, London 1983; S. Breuer-H. Treiber (a cura di), Zur Rechtssoziologie Max Webers. Interpretation, Kritik, Weiterentwicklung, Opladen 1984; M. Rehbinder-K.P. Tieck (a cura di), Max Weber als Rechtssoziologe, Berlin 1987; H. Treiber, La place de Max Weber dans la sociologie du droit allemande contemporaine, «Droit et Société», 9, 1988, pp. 211-267 (ivi bibliografia); G. Rebuffa, Max Weber e la scienza del diritto, Torino 1989; S. Andrini, La pratica della razionalità. Diritto e potere in Max Weber, Milano 1990 (ivi bibliografia); G. Rebuffa, Nel crepuscolo della democrazia. Max Weber tra sociologia del diritto e sociologia dello stato, Bologna 1991; M.J. Farinãs Dulce, La sociologia del derecho de Max Weber, Madrid 1991; R. Marra, Dalla comunità al diritto moderno. La formazione giuridica di Max Weber, Torino 1992; Aa.Vv., Actualité de Max Weber pour la sociologie du droit, a cura di P. Lascoumes, Paris 1995; R. Marra, La libertà degli ultimi uomini. Studi sul pensiero giuridico e politico di Max Weber, Torino 1995; M. Coutu, Max Weber et les rationalites du droit, Paris 1996; C. Colliot-Thélène, Études wébériennes. Rationalités, histoires, droits, cit., pp. 192-324; M. Strazzeri, I fondamenti sociologici del diritto e dello Stato in Max Weber, in Id., Il Giano bifronte. Giuridicità e socialità della norma, Bari ²2004, pp. 79-121; A. D’Attorre, Perché gli uomini ubbidiscono, cit., pp. 119-161; M. Coutu, G. Rocher (a cura di), La légitimité de l’État et du droit. Autour de Max Weber, Paris 2006; J.-P. Heurtin-N. Molfessis, La sociologie du droit de Max Weber, Paris 2006; A. De Simone, Oltre il disincanto, cit., pp. 225-316. 9. Al riguardo, come sottolinea G. Rebuffa – nel suo saggio Weber e la scienza del diritto, in M. Losito-P. Schiera (a cura di), Max Weber e le scienze

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fondamentale difficoltà consiste nella delimitazione dell’oggetto nel rapporto tra Weber e il diritto. Infatti, se è relativamente agevole rintracciare e studiare analiticamente e criticamente gli scritti weberiani di metodologia delle scienze storico-sociali, di sociologia della religione, di storia, di politica, non è, invece, altrettanto possibile, di conseguenza, definire, delimitandoli, quanti e quali siano gli scritti sociologico-giuridici di Weber e che abbiano il diritto come loro unico referente oggettivo di indagine10. In generale, l’attenzione degli studiosi si è quasi sempre incentrata sul capitolo VII di Wirtschaft und Gesellschaft, intitolato per l’appunto Wirtschaft und Recht (Rechtssoziologie)11: sociali del suo tempo, cit., p. 189: «Parlare del rapporto di Weber con le scienze giuridiche può significare varie cose. Ci si può, in primo luogo, riferire allo studio del contributo di Weber allo sviluppo delle scienze giuridiche moderne, all’opera di Weber “giurista”. Da questa angolazione, l’aspetto di maggior interesse consiste, probabilmente, nella visione dell’organizzazione costituzionale sviluppata nelle pagine di Economia e società. Il rapporto di Weber con le scienze giuridiche può, in secondo luogo, significare l’esposizione dei rapporti di Weber con le sue fonti, cioè con la cultura giuridica germanica del suo tempo». Su questi ultimi rapporti, cfr. P. Schiera, Max Weber e la scienza giuridica tedesca dell’Ottocento, in R. Treves (a cura di), Max Weber e il diritto, cit., pp. 86-105. Come rileva criticamente R. Marra (Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber. Storia di Roma e sociologia del diritto nella genesi dell’opera weberiana, Bologna 2002, p. 195): «Per gli italiani […] il Weber dell’Ottocento è conosciuto poco e male (anche perché solo una parte molto piccola della sua produzione di questi anni è tradotta nella nostra lingua), e d’altra parte la storia costituzionale e politica della Germania prima dell’unità è un insieme così frastagliato di vicende e teorie, e i problemi del confronto con lo sviluppo europeo così complessi, che in pochi hanno davvero frequentato questi territori (va però aggiunto che quando ciò è avvenuto i risultati sono stati di grande valore)». Qui il riferimento esplicito è ai contributi di M. Fioravanti, Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, Milano 1979; I. Cervelli, Liberalismo e conservatorismo in Prussia. 1850-1858, Bologna 1983, A.G. Manca; La sfida delle riforme. Costituzione e politica nel liberalismo prussiano. 1850-1866, Bologna 1995. 10. Cfr. A. Febbrajo, Per una rilettura della sociologia del diritto weberiana, «Sociologia del diritto», 1, 1976(III), pp. 1-28. 11. Cfr. M. Weber, Economia e società, I-II, a cura di Pietro Rossi, Milano 1961, vol. II, pp. 1-202 (d’ora in poi ES).

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questo testo, «un des plus difficiles et des plus énigmatiques de l’ensemble de l’œuvre wébérienne»12, com’è noto, affronta la definizione generale del concetto di diritto e i suoi rapporti tra l’ordinamento giuridico e quello economico. Un simile criterio di “delimitazione” dell’oggetto-diritto, se da un lato corrisponde comunque a un’esigenza pratica, dall’altro comporta una relativa “rimozione” delle importanti opere giuridiche giovanili di Weber, nelle quali l’interesse per argomenti e problemi sociologico-giuridici è invece considerevolmente presente e sviluppato. Infatti, è proprio nelle opere giovanili, dominate da interessi storici, che Weber affronta costantemente la tematica sociologico-giuridica13. Nell’economia della presente trattazione non è possibile analizzare né il suo primo libro, Zur Geschichte der Handelsgesellschaften im Mittelalter. Nach südeuropäischen Quellen (frutto dell’ampliamento della Dissertationsschrift del giovane Weber) apparso a Stuttgart nell’ottobre del 188914, nato dal sodalizio scientifico intrattenuto con il giuscommercialista Levin Goldschmidt (1829-1897) suo docente di dottorato15 e considerato 12. C. Colliot-Thélène, Études wébériennes. Rationalités, histories, droits, cit., p. 192. 13. Sulla formazione giuridica di Weber e i suoi rapporti con le scienze giuridiche del suo tempo, cfr. R. Marra, Dalla comunità al diritto moderno, cit. (ivi bibliografia). 14. Poi in Gesammelte Aufsätze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte (GASW), Tübingen 1924 e 1988, pp. 312-443. 15. Di Levin Goldschmidt, cfr. in particolare Handbuch des Handelrechts: Universalgeschichte des Handelsrechts, Stuttgart 1891. Com’è noto, Goldschmidt «era fautore di un metodo avanzato per l’epoca, che proponeva, per una più efficace indagine della storia del diritto, un’integrazione di scienza giuridica, storica ed economica. Goldschmidt, che già da tempo aveva cercato di ripercorrere le tracce del diritto che nel Medioevo vigeva nelle Handelsstädte, nelle città orientate prevalentemente in senso commerciale, e aveva perciò svolto ricerche sulle istituzioni giuridiche delle città mercantili medievali e rinascimentali, aveva coinvolto lo studente Weber nel suo seminario invernale del 1887-88, spingendolo a una prima indagine sulle società commerciali medievali in Italia e in Spagna» (A. Petrillo, Max Weber e la sociologia della città, Milano 2001, p. 107). Per i rapporti tra Weber e Goldschmidt, cfr. R. Marra,

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tra i fondatori della moderna scienza del diritto commerciale –, né la Römische Agrargeschichte (Storia agraria romana)16 del 1891 (Habilitationsschrift di Weber in diritto romano): un’opera geniale, difficile e specialistica – che per la sua intrinseca complessità è stata per lungo tempo trascurata sia dagli antichisti e dagli studiosi di storia del diritto romano sia dagli stessi interpreti weberiani – e nel contempo ambigua17. La rilevanza di Dalla comunità al diritto moderno, cit. pp. 165 ss. e L. Weyhe, Levin Goldschmidt, ein Gelehrtenleben in Deutschland. Grundfragen des Handelsrechrs und der Zivilrechtswissenschaft in der zweiten Hälfte des 19. Jahrhunderts, Berlin 1996, pp. 526-531. 16. Cfr. M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht, Stuttgart 1891, ora in MWG, I-2, ed. J. Deininger, Tübingen 1986; tr. it. di S. Franchi, Storia agraria romana. Dal punto di vista del diritto pubblico e privato, prefazione di E. Sereni, Milano 1967. Per la letteratura critica sulla Römische Agrargeschichte, cfr. J. Deininger, la Einleitung e l’Editorischer Bericht alla riedizione dell’opera nella Gesamtausgabe; Id., Die antike Welt in der Sicht Max Webers, cit.; R. Marra, La “Römische Agrargeschichte”, in Id., La libertà degli ultimi uomini, cit., pp. 33-92 (ivi bibliografia); L. Capogrossi Colognesi, Max Weber e le economie del mondo antico, Roma-Bari 2000 (ivi bibliografia); R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber, cit., p. 41 ss. (ivi bibliografia). Questi contributi citati contengono un’ampia analisi ricostruttiva e una approfondita rassegna e discussione critica della ricezione della Römische Agrargeschichte compiute alla luce dei più aggiornati strumenti dell’antichistica, della romanistica e della storia giuridica. 17. Secondo quanto ha rilevato criticamente R. Marra (in Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber, cit., pp. 41-43): «La Storia agraria romana è un’opera ambigua. E lo è perché sovrappone, almeno in parte, una storia diversa a quella promessa dal titolo: e precisamente la storia della dissoluzione della costituzione agraria germanica, un processo iniziato sul finire del Medioevo e culminato poi con le riforme liberali dei primi decenni dell’Ottocento, in Prussia e in altri paesi tedeschi. Se non si mette immediatamente in luce questo aspetto, il libro è destinato a opporre ostacoli insormontabili anche ai tentativi esegetici più agguerriti. Chi nella Römische Agrargeschichte cerchi esclusivamente delle risposte a specifici problemi della storia agraria romana resterà insomma deluso. Certo, il libro ricostruisce i momenti più importanti di questa, descrive il processo di colonizzazione e la formazione della proprietà privata, lo sfruttamento dell’ager publicus e l’affermarsi del capitalismo agrario. E, non da ultimo, utilizza una documentazione, quella agrimensoria, di grande rilievo e fino a quegli anni relativamente trascurata.

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quest’opera – che con autonomia di giudizio e impaziente originalità risente tra l’altro delle idee di August Meitzen (lo storico delle strutture agrarie tedesche) e accoglie e sviluppa quelle di Theodor Mommsen (il dominatore degli studi su Roma antica)18 – consiste nel fatto che essa «da un lato può essere letta come la sintesi degli indirizzi metodologici e culturali di Weber nel momento dell’ideale perfezionamento della sua formazione giuridica. Ma d’altra parte è anche l’opera della “svolta”, il libro che configura l’impegno accademico (ed extra-accademico) come economista e storico dei rapporti agrari»19.

2. Aspetti e problemi della “Rechtssoziologie” weberiana Un’altra serie di difficoltà che s’incontrano nell’analisi degli scritti sociologico-giuridici weberiani scaturisce dalla separazione operata dalla tradizione interpretativa tra sociologia del diritto e sociologia del potere e degli ordinamenti della vita politici nell’opera di Max Weber20. Secondo quanto ha osservato In breve: l’obiettivo di descrivere l’origine e lo sviluppo della società rurale romana non può dirsi disatteso e, anzi, frequentemente è assolto in modo brillante e originale. Anche troppo. Il problema in fondo è proprio questo: l’esito più significativo dell’indagine di Weber consiste nella formulazione di alcune ipotesi sulle tappe principali dell’evoluzione agraria a Roma. Sennonché molte di queste ipotesi sono formulate sulla base di fenomeni caratteristici della storia tedesca, sia medioevale che moderna. È inutile allora che il lettore romanista interroghi le sue fonti: solo in modo intermittente e solo parzialmente, infatti, esse potranno fornire argomenti realmente credibili alle ricostruzioni di Weber». 18. Cfr. L. Capogrossi Colognesi, Max Weber e le economie del mondo antico, cit., p. 3 ss.; R. Marra, La “Römische Agrargeschichte”, cit., p. 33 ss. e Id., Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber, cit., p. 73 ss. 19. R. Marra, La Römische Agrargeschichte, cit., p. 33. 20. Sull’argomento, cfr. l’ampia e approfondita disamina di W. Schluchter, Tipi di diritto e tipi di potere, in Id., Lo sviluppo del razionalismo occidentale, cit., pp. 149-248 e di G. Rebuffa, Nel crepuscolo della democrazia. Max Weber tra sociologia del diritto e sociologia dello stato, cit. (ivi bibliografia). Utili riferimenti alla sociologia del diritto weberiana si trovano nell’importante

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criticamente Febbrajo, questa netta separazione può aver avuto le sue “ragioni storiche” dipendenti soprattutto dalla (i) formazione prevalentemente privatistica dei maggiori sociologi del diritto e dalla (ii) «diffusa accentuazione, nelle più importanti indagini sociologico-giuridiche, del momento del giudizio ai danni di altri momenti più strettamente rilevanti per la sociologia politica, come quello della legittimazione delle strutture giuridiche»21. Essa, tuttavia, «non ha un plausibile fondamento sostanziale»22. Secondo Febbrajo, infatti, la sociologia del diritto weberiana «non può essere nettamente separata dalla sociologia politica, ma rinvia costantemente ad essa e trova in essa un complemento». Questo lo si può vedere assai bene se si esaminano i criteri di distinzione fra le due discipline che vengono adottati da Economia e società: in quest’opera, «alla sociologia del diritto e alla sociologia del potere (Herrschaftssoziologie) vengono assegnati oggetti di studio che rientrano chiaramente in un unico processo sociale che può denominarsi latamente “sociologico-politico»23. Dunque, soprattutto in Economia e società, le connessioni molto complesse, articolate e problematicamente costitutive che la sociologia del diritto e la sociologia del potere intrattengono sono particolarmente importanti dal punto di vista interpretativo e come tali occorre tenerle presenti nel loro continuo rimando reciproco (tenendo conto anche del volume di V. Ferrari, Lineamenti di sociologia del diritto. I. Azione giuridica e sistema normativo, Roma-Bari 1997. Per gli aspetti centrali della struttura teorica della Herrschaftssoziologie weberiana, cfr. S. Breur, Max Webers Herrschaftssoziologie, Frankfurt a.M., 1991, nonché gli aggiornati studi di L. Manfrin, Max Weber: tra legittimità e complessità sociale, in G. Duso (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma 1999, pp. 393-408 (ivi bibliografia), di A. D’Attorre, Le basi teoriche della sociologia del potere di Max Weber, «Filosofia politica», 2, 2000(XIV), pp. 207-238 (ivi bibliografia) e di E. Hanke-W.J. Mommsen (a cura di), Max Webers Herrschaftssoziologie. Studien zu Entstehung und Wirkung, Tübingen 2001. 21. A. Febbrajo, Per una rilettura della sociologia del diritto weberiana, cit., p. 6. 22. Ibidem. 23. Ivi, p. 7.

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contributo della sociologia della religione e dell’economia)24. In particolare, inoltre, questa «continuità sostanziale» fra sociologia del diritto e sociologia del potere risulta – sempre in Economia e società – dalla stessa definizione preliminare del concetto di diritto la quale si può comprendere correttamente anche se la si riferisce alla problematica weberiana del potere. Lo snodo è importante e quindi va necessariamente chiarito. Nel § 6 (Forme di ordinamento legittimo: la convenzione e il diritto) del capitolo I della parte prima di Economia e società, Weber definisce il diritto25 come quell’ordinamento legittimo la cui «validità è garantita dall’esterno, mediante la possibilità di una coercizione (fisica o psichica) da parte dell’agire, diretto a ottenere l’osservanza o a punire l’infrazione, di un apparato di uomini espressamente disposto a tale scopo» (ES, I, p. 31). Presa isolatamente, secondo Febbrajo, questa definizione «sembrerebbe essere una chiara e indiscutibile emanazione della c.d. Zwangstheorie (o teoria della coercizione) la quale, come è noto, mira a spostare il centro di gravità della definizione del concetto di diritto dal momento del riconoscimento del consociato, sul quale insiste la c.d. Anerkennungstheorie (o teoria del riconoscimento) a quello della applicazione (o applicabilità) di sanzioni da parte di un apparato all’uopo predisposto»26. Questa definizione, che inserisce il concetto weberiano di diritto nel contesto del più generale processo di legittimazione degli ordinamenti, pur essendo stata così intesa da molti interpreti, prevede diverse possibilità dal momento che «come una sottospecie della categoria più generale degli ordinamenti legittimi, il diritto è valido nella misura in cui è possibile che i consociati 24. A tal proposito, cfr. W. Schluchter, Tipi di diritto e tipi di potere, in Id., Lo sviluppo del razionalismo occidentale, cit., pp. 149-158 e S. Andrini, La pratica della razionalità. Diritto e potere in Max Weber, cit., pp. 47-80 (ivi bibliografia). 25. Cfr. M.A. Toscano, Evoluzione e crisi del mondo normativo. Durkheim e Weber, cit., p. 220. 26. A. Febbrajo, Per una rilettura della sociologia del diritto weberiana, cit., p. 8.

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orientino il loro agire sociale “alla rappresentazione della sussistenza” dell’ordinamento stesso»27. Insomma, allorché viene inquadrata nella tipologia degli ordinamenti legittimi, la definizione weberiana del concetto di diritto assume, come ribadisce ancora Febbrajo, «un chiaro carattere consensualistico, mentre il carattere coercitivo che si suole sottolineare è rilevante, non a livello dei fondamenti di validità, ma solo a livello delle garanzie esterne di cui il diritto valido è munito, garanzie che vengono indicate da Weber allorché deve distinguere il diritto da fenomeni, come la consuetudine, l’uso, il costume, che vengono ad esso tradizionalmente accostati»28. È lo stesso Weber, quindi, che in Economia e società, nella definizione del concetto di diritto, rinvia esplicitamente alla propria sociologia del potere. Ora, procedendo all’individuazione e alla elencazione delle ulteriori difficoltà di lettura che la sociologia del diritto weberiana di per sé comporta, non si può non far riferimento al problema relativo alla sistemazione della materia riguardante appunto il diritto. Se, come si è già detto, l’area degli interessi e degli scritti sociologico-giuridici weberiani si estende ben oltre il solo capitolo VII di Economia e società, resta pur sempre vero che «proprio in questo capitolo si trova racchiuso il nucleo teorico più consistente»29 della sociologia del diritto di Weber. La Rechtssoziologie weberiana così come si configura e si sviluppa in questo capitolo presenta un’intrinseca complessità che è il risultato di una rigorosa combinazione di diverse definizioni concettuali del diritto, di differenti prospettive e delimitazioni di campo dell’oggetto “diritto” e di diversi orientamenti teorico-giuridici. Nella sua analisi del diritto, l’intenzione di Weber è duplice: egli, da un lato, intende analizzare il diritto in quanto oggetto singolare d’indagine, di cui occorre comprendere, secondo la metodologia della sociologia comprendente, la complessa costellazione di significati culturali che esso implica ed 27. Ibidem. 28. Ibidem. 29. Ivi, p. 9.

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esprime30; dall’altro, l’idea dominante dell’analisi weberiana del diritto è, come ha osservato Julien Freund, «la stessa che ispira gli altri studi di Weber: cioè esaminare i fattori che hanno contribuito alla razionalizzazione propria della civiltà occidentale e mettere in evidenza le fasi di tale processo storico. A tale scopo, Weber studia l’azione della politica, della ragione e dell’economia sull’evoluzione del diritto, senza dimenticare lo sforzo fatto dai giuristi, giureconsulti, magistrati, avvocati e in generale da tutti i professionisti del diritto»31. Oltre al problema della definizione del concetto di diritto, occorre osservare che la sociologia del diritto weberiana presenta ancora alcuni altri problemi a cui è necessario preliminarmente porre attenzione. Sinteticamente, tali problemi sono: «a) il problema del ruolo che la ricerca sociologica svolge nei confronti delle scienze giuridiche tradizionali (problema dello studio del diritto); b) il problema della effettiva rilevanza del diritto come strumento di controllo e di mutamento sociale (il problema della efficacia del diritto); c) il problema dell’influenza di fattori sociali sullo sviluppo del diritto (il problema della evoluzione del diritto)»32. 2.1. Il diritto tra punto di vista giuridico e punto di vista sociologico Fatta questa preliminare considerazione, una delle prime fondamentali distinzioni che la trattazione weberiana del diritto compie è quella tra punto di vista giuridico e punto di vista sociologico del problema relativo allo studio del diritto. È proprio

30. Cfr. J. Grosclaude, Introduction, in M. Weber, Sociologie du droit, préface de P. Raynaud, Paris 1986, p. 15. 31. J. Freund, La sociologia di Max Weber, cit., pp. 243-244; dello stesso autore cfr. inoltre La rationalisation du droit selon Max Weber, in Id., Études sur Max Weber, Genève-Paris 1990, pp. 237-262. 32. A. Febbrajo, Per una rilettura della sociologia del diritto weberiana, cit., pp. 9-10.

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sulla distinzione tra dogmatica giuridica e sociologia del diritto33, infatti, che si apre l’analisi weberiana del diritto. Tuttavia, è necessario sottolineare come Weber si sforzi di evitare ogni subordinazione culturale delle scienze tradizionali del diritto, in particolare della dogmatica giuridica, nei confronti della sociologia, e finisca, poi, nel riconoscere sia all’approccio sociologico che a quello tecnico-giuridico pari legittimità. Scrive Weber in Economia e società: «Quando si parla di “diritto”, “ordinamento giuridico”, “principio giuridico”, è necessario un particolare rigore nel differenziare il punto di vista giuridico da quello sociologico. Per il primo si domanda che cosa valga idealmente come diritto, e cioè quale significato, e quindi, di nuovo, quale senso normativo si debba attribuire, in modo logicamente corretto, a una formazione linguistica che si presenta come norma giuridica. Per il secondo punto di vista, invece, si domanda che cosa accada di fatto nell’ambito di una comunità, data l’esistenza della possibilità che individui partecipanti all’agire di comunità – soprattutto quelli che esercitano in misura socialmente rilevante un’influenza di fatto su di esso – considerino soggettivamente e trattino praticamente determinati ordinamenti come validi, e quindi orientino in vista di essi il loro proprio agire» (ES, I, p. 309). Nello specifico, sul piano metodologico, la distinzione weberiana tra «punto di vista giuridico» e «punto di vista sociologico», cioè i due modi in cui si può sviluppare un’indagine scientifica dei sistemi di diritto, riguarda innanzitutto l’oggetto stesso dell’indagine: «nel primo caso si tratta di una struttura logica che deve essere costruita al fine di collocarvi le singole proposizioni giuridiche; nel secondo della rilevazione dei comportamenti che si sviluppano di fronte ai precetti giuridici»34. 33. Cfr. S. Costantino, Dogmatica giuridica e sociologia del diritto, in Id., Diritto, potere e Stato in Max Weber, Pisa 1980, pp. 45-41; A. Febbrajo, Introduzione, in N. Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica, Bologna 1978, pp. 10 ss.; S. Andrini, La pratica della razionalità. Diritto e potere in Max Weber, cit., pp. 48-49. 34. G. Rebuffa, Nel crepuscolo della democrazia. Max Weber tra sociologia del diritto e sociologia dello stato, cit., p. 23.

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Inoltre, questa stessa distinzione vale anche rispetto al fine, agli obiettivi, dell’indagine: «per la scienza del diritto essi consistono nella verifica dell’impostazione logica in vista della corretta applicazione di una norma, mentre per l’indagine sociologica si tratta dell’accertamento di cosa accade di fatto»35. La distinzione weberiana non ha comunque «un carattere assoluto», in quanto va “storicizzata” alla luce dei postulati caratteristici della cultura e dei metodi della scienza giuridica del suo tempo. In sintesi, da essa risulta chiaramente che «il punto di vista giuridico si domanda quale “senso normativo” (normativer Sinn) si debba attribuire in modo logicamente corretto a un costrutto linguistico che si presenti come norma giuridica; il punto di vista sociologico è interessato a individuare le connessioni di fatto che si sviluppano nel corso dell’interazione sociale allorché i soggetti orientano la loro condotta in base alla convinzione della “validità” (Geltung) di un determinato ordinamento»36: e con il concetto di ordinamento, com’è noto, si entra nel vivo dell’analisi weberiana del diritto. Prima, però, di procedere oltre, è necessario ancora insistere sul rapporto tra dogmatica giuridica e sociologia del diritto. Come si è detto, per la dogmatica giuridica l’indagine verte sulla chiarificazione teorica del senso intenzionato di una determinata norma giuridica o di una legge, con l’intenzione di controllare la coerenza logica in rapporto alle altre leggi e all’insieme di un codice. La sociologia del diritto, invece, ha lo scopo di comprendere «il comportamento fornito di senso dei membri di un gruppo, in relazione alle leggi in vigore, e di determinare il senso della credenza nella loro validità o nell’ordine stabilito»37. In sostanza, la sociologia del diritto si propone di comprendere in quale misura «le regole del diritto siano osservate e come gli individui orientino la loro condotta 35. Ibidem. 36. M.A. Toscano, Evoluzione e crisi del mondo normativo. Durkheim e Weber, cit., pp. 216-217. 37. J. Freund, La sociologia di Max Weber, cit., p. 244.

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di base alle medesime»38. Per la sociologia del diritto, infatti, una norma è valida allorquando sia stabilita da un codice: cioè, occorre verificare e controllare la sua validità nell’azione sociale dei soggetti, ovvero cogliere e comprendere il rapporto che si viene a stabilire tra la legge e la sua accettazione da parte degli individui. Per la dogmatica giuridica, si è detto, una norma è valida allorquando è codificata; la sociologia del diritto, invece, deve poter controllare la sua validità nel campo dell’agire sociale degli individui in quanto non è stabilito aprioristicamente che una legge codificata sia comunque e pur sempre rispettata in quanto tale. La distinzione weberiana tra approccio sociologico e approccio dogmatico al diritto – che è stata fatta oggetto di varie considerazioni interpretative39 – è importante qualora la si consideri inserita nel contesto più ampio della stessa sociologia comprendente sviluppata da Weber. Da grande interprete, Bobbio ha scritto con efficace sintesi interpretativa: «Nel momento stesso in cui si accinge a comporre una sociologia del diritto, anche Weber si preoccupa dell’actio finium regundorum tra punto di vista sociologico e punto di vista giuridico […]. La differenza viene ricondotta da Weber alla distinzione fra validità ideale e validità empirica di una norma o di un ordinamento: una distinzione fra il piano del dover essere su cui si colloca la scienza del diritto e il piano dell’essere su cui si colloca la sociologia giuridica. Quando ci si colloca dal punto di vista della validità ideale ci si pone il problema, secondo Weber, quale sia il “senso normativo” da attribuire a una proposizione che si presenta come norma giuridica, compito che è proprio del giurista o del giudice il quale ricerca il senso “logicamente corretto” di una norma e tende a ricondurlo a un sistema logicamente privo di contraddizioni. Quando invece ci si colloca dal punto di vista della validità empirica ci si pone il problema di che cosa accada di fatto in una comunità in cui gli individui, 38. Ibidem. 39. Cfr. G. Rebuffa, Nel crepuscolo della democrazia. Max Weber tra sociologia del diritto e sociologia dello stato, cit., p. 26 ss.

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considerando un determinato ordinamento come valido, orientino il loro comportamento in vista di questo ordinamento. Ai due punti di vista corrispondono due significati diversi di ‘ordinamento’. Secondo il primo, ‘ordinamento’ è un insieme di regole valide il cui senso deve essere interpretato allo scopo di applicarle a questo o quel caso; secondo l’altro, ‘ordinamento’ sta a indicare un insieme di motivi effettivi determinanti l’agire umano, donde si dovrebbe trarre la comprensione del perché un individuo agisce in un certo modo in un certo contesto sociale. Non si dimentichi che per Weber il compito della sociologia è quello di comprendere l’agire sociale e che per agire egli intende un’azione cui l’individuo agente attribuisce un senso soggettivo»40. Ciò spiega, continua Bobbio, perché «il punto di vista sociologico rispetto al diritto dovrebbe consistere nell’analizzare le azioni che sono determinate dall’esistenza di un ordinamento giuridico, o, con altre parole, quelle azioni il cui motivo, e quindi il senso soggettivo, è la rappresentazione dell’esistenza di un ordinamento che per ciò stesso, cioè per il fatto che costituisce un punto di orientamento dell’azione dei consociati, è da considerarsi un ordinamento valido (empiricamente)»41. Quel che è importante rilevare, aggiunge Bobbio, «è la netta distinzione che Weber introduce fra validità ideale e validità empirica […]. Weber, in quanto sociologo, si sofferma a chiarire il concetto di validità empirica, in quanto è questa e non la validità ideale, che interessa la sociologia del diritto. A questo chiarimento contribuiscono soprattutto due osservazioni: a) per la validità empirica di un ordinamento non è necessario che tutti e neppure la maggioranza di coloro che orientano il loro comportamento in base a quell’ordinamento si comportino in tal modo perché quel comportamento è prescritto dalle norme dell’ordinamento; molti possono comportarsi in quel modo o per mera abitudine o per timore della disapprovazione 40. N. Bobbio, Max Weber e Hans Kelsen, in R. Treves (a cura di), Max Weber e il diritto, cit., pp. 142-143. 41. Ivi, p. 143.

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degli altri, non per un’obbedienza sentita come dovere giuridico; b) non è neppure necessario che l’ordinamento sia di fatto da tutti osservato, perché ciò che contraddistingue la validità empirica di un ordinamento non è la sua osservanza ma l’agire orientato verso di esso, e non c’è dubbio che anche chi lo viola agisca orientando la propria azione verso quella norma della cui presenza deve tener conto per poterla eludere. Entrambe le osservazioni tendono a mostrare che la validità empirica di un ordinamento non coincide con l’obbedienza alle norme da parte dei partecipanti, perché vi sono compresi tanto coloro che vi si uniformano senza propriamente ubbidirlo (nel senso forte di sentirsi obbligati da quelle norme) quanto coloro che lo disubbidiscono (ma lo tengono presente)»42. Com’è noto, nel saggio Über einige Kategorien der verstehenden Soziologie (1913), Weber ha sostenuto che si possono assumere diversi atteggiamenti nei confronti del diritto, ed è per questo motivo che ha insistito sulla distinzione tra metodo sociologico e metodo giuridico: «La sociologia – scrive Weber –, allorché prende in esame come suo oggetto il “diritto” ha da fare non con la determinazione del contenuto di senso “oggettivo”, logicamente corretto, di “proposizioni giuridiche”, bensì con un agire tra i cui elementi e le cui risultanti occupano un posto di rilievo, tra l’altro, naturalmente anche le rappresentazioni che gli uomini si formano del “senso” e della “validità” di determinate posizioni giuridiche»43. L’agire sociale, weberianamente, rinvia costantemente alla molteplicità e alla complessità dei processi storici, sociali, economici e culturali: l’agire si trova sempre al centro di una fitta rete, di un insieme assai complesso di svariati elementi reciprocamente interagenti e di molteplici risultati. Pertanto, forte è il dinamismo che presentano le rappresentazioni che gli uomini continuamente producono del senso e della validità di determinate norme 42 Ivi, p. 144. 43. M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, a cura di Pietro Rossi, Torino 1974, p. 257.

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giuridiche. Per poter comprendere siffatto dinamismo occorre un’indagine che sia in grado di mettere in luce i rapporti che si stabiliscono costantemente tra diritto e società. Per Weber, la sociologia (del diritto) deve potersi concentrare sugli effetti di influenza e di condizionamento operati da tali rappresentazioni nell’atteggiamento concreto degli uomini. In un certo senso, dogmatica giuridica e sociologia del diritto verrebbero, qui, a congiungersi, per verificare i livelli di tali condizionamenti. Per questo motivo, Weber puntualizza il significato sociologico da conferire al concetto di validità empirica di una “proposizione giuridica”. L’“agire in società” (Gesellschaftshandeln), come egli sostiene, è una forma specifica di “agire in comunità”: esso è dotato di senso ed è caratterizzato da un orientamento “razionale rispetto allo scopo”, in vista di determinate aspettative, le quali sono garantite e sostenute da un determinato ordinamento “statuito”. Il rapporto con un ordinamento – il quale è il risultato di una “statuizione” esplicita o implicita, unilaterale o bilaterale – è decisivo per la determinazione delle possibilità oggettive, e quindi anche delle “aspettative”, a cui “l’agire in società” si riferisce. Dalla diversità dell’ordinamento, e dal modo in cui è avvenuta la sua statuizione, dipende la diversità dei tipi di “agire in società”. Inoltre, l’agire soggettivo, in rapporto a un ordinamento statuito, può anche significare che, all’agire soggettivamente prevedibile degli individui associati, corrisponde, poi, il loro agire di fatto. Tuttavia, si può anche dare il caso che il senso di un ordinamento statuito possa essere interpretato dai singoli individui associati. Allora, come sottolinea Weber, «l’elemento decisivo per la “validità” empirica di un ordinamento stabilito “razionalmente rispetto allo scopo” non è già il fatto che i singoli individui agenti orientino di continuo il proprio agire in conformità al contenuto di senso da loro oggettivamente interpretato»44. Il che significa che l’agire degli individui può essere spesso soggettivamente dotato di senso e orientato verso più ordinamenti contraddittori. Riproponendo 44. Ivi, p. 263.

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il noto esempio del “baro” e del “ladro”, Weber scrive: «Noi indicheremo l’atteggiamento del “ladro” o del “baro” come una specie di agire in società (soggettivamente) “contrario a un ordinamento”; e indicheremo un agire soggettivamente conforme all’ordinamento secondo l’intenzione, ma orientato in maniera da scostarsi dalla interpretazione, che in media ne viene data, come un agire oggettivamente “anormale”. Al di là di queste categorie vi sono i casi dell’agire che è soltanto “condizionato associativamente” – cioè l’agire di chi si vede costretto, da qualche altro suo atteggiamento, a prendere in considerazione, in forma “razionale rispetto allo scopo”, le necessità che si è addossato mediante l’associazione»45. Da tutto ciò si può desumere che, per Weber, il tipo ideale razionale di associazione è l’unione di scopo, quindi una forma di agire in società avente un proprio ordinamento stipulato, in modo “razionale rispetto allo scopo”, da parte di tutti gli individui facenti parte. Si dà pertanto equivalenza, secondo Weber, tra la validità pratica dell’ordinamento (che orienta le diverse attività dei singoli) e la sua legittimità. Detto altrimenti, è lo stesso ordinamento a determinare possibili uniformità di forme di agire sociale, e la sua relativa legittimità è consentita allorquando gli attori sociali agenti si orientano in base alla rappresentazione conseguente della sua validità. Si possono, comunque, verificare uniformità rilevanti di forme di agire sociale anche in assenza di un ben codificato sistema di norme: è questo il caso dell’agire economico. Infatti, l’agire economico degli attori sociali corrisponde, mediamente, ai loro normali interessi stimati pur sempre in maniera soggettiva. Un esempio alquanto probante di questo tipo di uniformità è dato dalla caratteristica formazione del prezzo in regime di mercato libero. Scrive Weber in Economia e società: «Gli individui interessati a un certo mercato orientano appunto il proprio atteggiamento, considerato come “mezzo”, in vista dei propri tipici interessi soggettivi di carattere economico, considerati come “scopo”, e in vista delle aspettative tipiche derivanti 45. Ivi, p. 266.

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dall’atteggiamento prevedibile degli altri individui, considerate come “condizioni” per raggiungere quello scopo. Quanto più rigorosamente essi agiscono in modo razionale rispetto allo scopo, tanto più reagiscono in maniera simile di fronte a date situazioni; e da ciò sorgono omogeneità, uniformità e continuità di disposizione e di azione, le quali molto sovente sono assai più stabili di quando l’agire si orienta in base a norme e a doveri che effettivamente abbiano valore “vincolante” in un ambito di uomini» (ES, I, p. 27). Queste considerazioni confermano quanto fosse rilevante per Weber il rapporto tra economia e diritto, rapporto che spiega anche la consistenza della validità di un ordinamento giuridico nel quadro delle motivazioni dell’agire sociale: com’è noto, il processo di razionalizzazione del diritto e il suo rapporto con l’economia costituisce uno dei tepi rilevanti della riflessione weberiana46 su cui sarà necessario ritornare in seguito. Ora, però, occorre riprendere in considerazione la definizione weberiana del concetto di diritto che sopra abbiamo richiamato. Alcuni dei problemi inerenti tale definizione47, in generale sono i seguenti. Per Weber il diritto è valido nella misura in cui è possibile che i consociati orientino il loro agire sociale «alla rappresentazione della sussistenza» dello stesso ordinamento. Da ciò consegue in primo luogo (i) che la definizione weberiana del concetto di diritto, qualora venga inserita nella tipologia degli ordinamenti, assume chiaramente, come si è già detto, un carattere consensualistico. Inoltre, (ii) nella propria definizione del diritto, Weber opera sempre una combinazione concettuale di due prospettive: il modo di concepire la dinamica del processo di razionalizzazione e di formalizzazione del diritto e la relativa prospettiva sociologica con cui indagare il diritto stesso. Il livello macrosociologico del modello weberiano del diritto sottende

46. Cfr. Pietro Rossi, Max Weber. Oltre lo storicismo, cit., pp. 149-169; W. Schluchter, Lo sviluppo del razionalismo occidentale, cit., p. 149 ss. 47. Cfr. ES, I, p. 31.

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Razionalità e diritto in Max Weber

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la razionalità degli specifici apparati istituzionali; mentre quello microsociologico esprime la razionalità tipica dell’attore sociale. Viene a questo punto da chiedersi: che cos’è, per Weber, il diritto? La sua risposta è: «“diritto” è per noi un ordinamento fornito di certe specifiche garanzie per la possibilità della sua validità empirica» (ES, I, p. 311). Il concetto di validità ha dunque una rilevanza fondamentale non soltanto in relazione all’agire sociale, ma anche per quel particolare tipo di agire sociale che è orientato in rapporto alla rappresentazione di un ordinamento (Ordnung) legittimo. Il diritto è un ordinamento valido; ma nella definizione della “validità” del diritto è necessario distinguere i fondamenti della validità di un ordinamento dalla garanzia di validità dello stesso ordinamento. La tradizione, la credenza effettiva o emotiva, la credenza razionale rispetto al valore, una situazione positiva la cui legalità e legittimità deriva o dalla diretta stipulazione degli attori sociali o dalla imposizione di un potere legittimo esercitato da altri e che trova corrispondenza da parte dei soggetti ubbidienti, sono alcuni dei fondamenti sui quali si basa appunto la “validità” di un ordinamento. Mentre, per quanto riguarda la garanzia interna o esterna della stessa “validità” di un ordinamento, i fattori rilevanti possono essere individuati: in modo affettivo-sentimentale; in modo razionale rispetto al valore (etico, estetico, etc.); da fattori religiosi; da aspettative, da interessi e da convenzioni reciproche. Sul problema della “validità” di un ordinamento occorre ancora prestare attenzione sia sotto l’aspetto della validità empirica di un ordinamento che sotto quello della sua validità normativa e giuridica. Diverse, a questo riguardo, sono le forme di osservanza o di inosservanza che decidono della validità (o della invalidazione) di un determinato ordinamento giuridico. Di fatto, la conformità degli attori sociali a un determinato ordinamento giuridico dipende sovente dalla approvazione o disapprovazione dell’ambiente sociale, dagli interessi particolari, da norme abitudinarie e stereotipate di comportamento, dal costume. Tutto ciò, poi, può avere o non avere un rapporto di ubbidienza sentito come obbligo o dovere di tipo giuridico.

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Dunque, la sanzione dell’ambiente sociale, l’abitudine, gli interessi, i costumi, condizionano una specifica pratica di osservanza di un determinato ordinamento giuridico. Tuttavia, per Weber, ciò che decide principalmente della sua “validità” dipende dal fatto che l’azione degli attori sociali è orientata in base a un ordinamento. Scrive Weber: «Si può “orientare” il proprio agire in base alla validità di un ordinamento non soltanto mediante l’“osservanza” del suo senso (quale è inteso in media). Anche nel caso di una “elusione” o di una “infrazione” di tale senso (inteso in media), può tuttavia operare la chance della sua validità in qualsiasi ambito (come norma vincolante): e ciò anzitutto in maniera puramente razionale rispetto allo scopo. Il ladro orienta il proprio agire in base alla “validità” della legge penale, e perciò cerca di nasconderlo. La validità di tale “ordinamento” entro un ambito di uomini viene a manifestarsi appunto per il fatto che egli deve celare la sua mancanza» (ES, I, p. 29). Validità di un ordinamento e diritto garantito sono due componenti importanti della definizione weberiana del concetto di diritto a cui occorre prestare attenzione. Per Weber, «diritto obiettivo garantito» è quell’ordinamento la cui garanzia è resa possibile dall’esistenza di un apparato di coercizione giuridica. Se la validità di un ordinamento dipende dalle molteplici motivazioni di senso relative alle azioni degli attori sociali, per il diritto oggettivo garantito bisogna osservare che non soltanto non ogni diritto oggettivo è di per sé garantito, ma che non ogni diritto garantito fa ricorso necessariamente all’uso della forza (Gewalt), ricordando, appunto, che la coercizione può essere di natura fisica o psichica, rivolta ad agire direttamente o indirettamente su persone, gruppi, comunità o istituzioni. L’uso della forza quale caratteristica peculiare della coercizione giuridica è, nel mondo moderno, monopolio dello Stato. Ciò, secondo Weber, non esclude che possano sussistere altre forme di coercizione non statuali e, quindi, diritti extrastatuali: «Noi – rileva Weber – parliamo piuttosto di un “ordinamento giuridico” in tutti i casi in cui si prospetta l’applicazione di qualsiasi mezzo coercitivo, fisico o psichico, la quale venga esercitata da un ap-

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parato coercitivo – ossia da una o più persone che si tengono pronte nel caso del verificarsi della situazione in questione; in tutti i casi, quindi, in cui esiste una specifica forma di “coercizione” a scopo di associazione giuridica» (ES, I, p. 315). Dunque, weberianamente, si danno sia un diritto propriamente statuale e garantito dalla coercizione giuridica statuale, laddove lo Stato interferisce anche con mezzi coercitivi di altri gruppi sociali (ad esempio i cartelli internazionali); sia diritti extrastatuali (ad esempio il diritto ecclesiastico o quello dei club).

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2.2. Diritto, convenzione, costume. Agire e consenso Le considerazioni sin qui svolte sollevano però uno dei problemi rilevanti della sociologia del diritto weberiana, vale a dire il problema della efficacia del diritto. Com’è noto, la soluzione weberiana in tema di validità, di garanzia e di efficacia del diritto è alquanto complessa e articolata. In estrema sintesi, per Weber, il fondamento della validità del diritto è dato dall’orientamento dell’agire in base a un ordinamento e non soltanto e semplicemente in base alla sua osservanza. Nella sua definizione, Weber considera il diritto come un complesso di motivi che determinano l’azione del singolo, per cui diritto è «un complesso di motivi che dirigono il comportamento, ma tutti obbedienti alla necessità di conformarsi a un dovere giuridico, ossia tutti già vissuti nella sfera del diritto»48. Tuttavia, se dal punto di vista dell’attore sociale il diritto si presenta come un complesso di motivi determinanti la condotta umana, dal punto di vista dell’osservatore il diritto si configura come un ordinamento fornito di determinate garanzie per la possibilità della sua stessa validità empirica, cioè, esso deve poter essere dotato di un apparato di coercizione tale da farlo valere, e questo stesso apparato rappresenta la sua garanzia empirica. Nel quadro teorico formale weberiano, l’esistenza di un apparato 48. M.A. Toscano, Evoluzione e crisi del mondo normativo. Durkheim e Weber, cit., p. 226.

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di coercizione è determinante per la stessa definizione del diritto, ciò non esclude che vi possano essere altre definizioni. Quando ci si trova di fronte a un apparato di coercizione, allora weberianamente è lecito e possibile parlare di diritto. Infatti, a differenza del diritto, la norma convenzionale (Konvention) è «garantita esteriormente dalla possibilità che gli individui, discostandosene, si espongano a una riprovazione accompagnata da certi effetti pratici. Presenta dunque anch’essa carattere obbligatorio, ma non implica alcun apparato di coercizione»49. Per Weber, la convenzione corrisponde a una situazione «in cui esiste sì una spinta verso un determinato comportamento, ma senza coercizione fisica o psichica di nessun genere, e anzi, almeno normalmente e immediatamente, senza alcun’altra reazione che non sia la pura approvazione o disapprovazione di una cerchia di uomini che costituiscono lo specifico ‘ambiente’ del soggetto che agisce» (ES, I, p. 318). Pertanto, la convenzione non soltanto comporta determinate sanzioni che dipendono dal gruppo sociale a cui appartiene l’attore, e non da una determinata istituzione, ma essa si distingue dalle altre forme di regolarità della vita sociale che sono l’uso (Brauch) e il costume (Sitte). Mentre l’uso costituisce una uniformità dell’agire sociale che implica la probabilità di un determinato comportamento regolare di essere adottato effettivamente in pratica, il costume è «un atteggiamento tipicamente uniforme, che viene mantenuto nel solco della tradizione semplicemente in base alla sua abitudine e ‘imitazione’ – cioè il caso di un ‘agire di massa’ che nessuno in qualche senso ‘esige’ venga continuato dal singolo» (ES, I, p. 318). Nel loro reciproco interagire, «né l’uso, né il costume sono obbligatori, né sono oggetto di sanzioni esteriori; non si può dunque imporre a nessuno di seguirli»50. La concezione weberiana dell’efficacia e validità del diritto prevede la possibilità di una situazione di contrasto e di conflitto tra norme giuridiche valide e regole convenzionali diffuse; 49. J. Freund, La sociologia di Max Weber, cit., pp. 246-247. 50. Ivi, p. 247.

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così come è quivi possibile registrare il caso (abbastanza frequente) che «norme giuridiche vengano razionalmente statuite al fine di modificare costumi vigenti; benché accada normalmente il contrario: e cioè che l’ordinamento giuridico non vale empiricamente per effetto della coercizione che l’accompagna; la sua validità è acquisita come costume ed è entrata nella pratica; e trova una ulteriore garanzia nella convenzione con la sua dialettica approvazione/disapprovazione»51. In sostanza, per Weber, la situazione normale è da ricercare nel fatto che un determinato ordinamento giuridico fonda la sua validità empirica perché questa stessa è acquisita come costume, si è concretamente diffusa e socializzata nella vita pratica degli attori sociali, e perché si è venuta a determinare una regola convenzionale la quale disapprova ogni comportamento deviante che non corrisponda a quella validità. Di fatto, non è la semplice esistenza della garanzia coercitiva che dà validità all’ordinamento giuridico. Pertanto, secondo l’interpretazione weberiana, il problema dell’efficacia delle norme giuridiche «non viene dato per risolto […], ma al contrario si suggerisce l’idea che da ogni norma si liberi un fascio di conseguenze primarie e secondarie, manifeste e latenti, che, filtrate attraverso vari diaframmi (moventi ideologici, subculture), toccano in diversa misura diversi gruppi di consociati svolgendo per ciascuno di essi particolari funzioni. È appunto rispetto a queste funzioni che si forma faticosamente, e in modi diversi nelle varie situazioni storiche, il ‘consenso’. Il consenso, quindi, non ha una matrice universale qual è la solidarietà nella prospettiva durkheimiana, ma deve essere conquistato su vari fronti attraverso complessi processi di cristallizzazione di interessi e idee»52. Per Weber, l’agire di consenso (Einverständnishandeln) è «una struttura che non si basa su nessuno statuto, dunque su nessuna specie di accordo, 51. M.A. Toscano, Evoluzione e crisi del mondo normativo. Durkheim e Weber, cit., p. 246. 52. A. Febbrajo, Per una rilettura della sociologia del diritto weberiana, cit., p. 13.

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convenzione e regolamento, ma che i partecipanti rispettano come se ci fosse obbligo, perché vi trovano un riferimento di senso»53. Sul problema del consenso, quindi, occorre fare attenzione. Muovendosi nel campo del diritto formale, Weber considera il consenso normativo come un “dovere” che solleva aspettative corrispondenti (diritto) nel campo dell’interazione e della organizzazione del gruppo degli attori sociali. Il diritto, la statuizione normativa, l’apparato coercitivo, si configurano come simboli della organizzazione del gruppo degli attori sociali: è il gruppo che, weberianamente, è portatore di diritto. Scrive Weber: «La ‘validità’ del diritto – dato che esso presuppone, secondo la definizione, un apparato coercitivo – è invece sempre una componente di un ‘agire di gruppo’ (attuale o potenziale)» (ES, I, p. 323). Se, come si è detto, il gruppo è, per Weber, il reale portatore del diritto, ciò tuttavia non significa che lo stesso gruppo, oppure l’associazione, la comunità o l’istituzione agiscano soggettivamente soltanto in vista di norme giuridiche. Uniformità di comportamento riscontrabili nei confronti di un determinato ordinamento – fermo restando il criterio formale di distinzione rappresentato dall’esistenza dell’apparato coercitivo – derivano da molti elementi che si intrecciano nel complesso tessuto del diritto lungo una serie di gradi che connotano l’esperienza normativa che si dispone lungo una curva che spinge originariamente dal costume per poi svilupparsi con la convenzione e, attraverso il diritto consuetudinario, giungere al diritto. Per il dogmatico del diritto, quindi, il prius concettuale è la validità ideale della norma giuridica; mentre per il sociologo, la «regolamentazione giuridica – specialmente se statuita in modo razionale – di un atteggiamento costituisce empiricamente soltanto una componente che appare per lo più tardi storicamente e agisce con efficacia assai varia» (ES, I, pp. 331-332). Inoltre, come specifica ancora Weber: l’intervento sempre crescente di ordinamenti statuiti rappresenta soltanto un elemento particolarmente caratteristico di quel processo 53. J. Freund, La sociologia di Max Weber, cit., 126.

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di razionalizzazione, la cui progressiva espansione in ogni agire di comunità dovrà essere seguita in tutti i campi «come forza propulsiva di sviluppo» (ES, I, p. 332). Ora, prima di affrontare il problema dell’evoluzione e della formalizzazione del diritto – che è quello che viene più ampiamente ed esplicitamente discusso nella sociologia del diritto weberiana, processo che viene indagato da Weber in modo anch’esso “formale”, cioè riferendosi non tanto ai soli contenuti delle norme giuridiche quanto piuttosto ai loro procedimenti di formazione e alla loro struttura e cultura specificamente giuridica – e prima ancora di analizzare i caratteristici processi di razionalizzazione formale e materiale del diritto, occorrerà fare riferimento ad alcuni problemi che necessitano di un’ulteriore chiarificazione. Di fatto, pur essendo molteplici e diversi i motivi di conformità al diritto, bisogna osservare che lo stesso diritto è solo uno tra i molti fattori possibili di conservazione e di consolidamento di un determinato ordinamento e, inoltre, non si identifica con l’ordinamento totale di un gruppo di attori sociali. Weber, da parte sua, considera valido il fermo principio sociologico della relatività del diritto. Ora, un esempio alquanto eclatante della storicizzazione del diritto e del conseguente “pluralismo funzionale” che caratterizzano la coercizione giuridica – secondo Weber – affiora con particolare evidenza dall’analisi dei rapporti tra diritto e economia. Sulle relazioni generali che intercorrono in questo rapporto bisogna innanzitutto precisare tutta una serie di proposizioni che Weber ritiene come acquisite e inerenti la sua stessa concezione sociologicogiuridica. In primo luogo (i), è necessario tener presente che l’economia sociale poggia su presupposti diversi da quelli dell’ordinamento giuridico. Scrive Weber: «1) Il diritto (sempre in senso sociologico) non garantisce affatto soltanto interessi economici, bensì gli interessi più diversi, dai più elementari come la tutela della pura sicurezza personale, fino ai beni meramente ideali come l’“onore” proprio e quello di potenze divine. Esso garantisce soprattutto anche posizioni di autorità politica, ecclesiastica, familiare o di altra natura, e più in genere situazioni

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sociali di privilegio di ogni specie, che potranno bensì essere economicamente condizionate e rilevanti nelle più diverse relazioni, ma che di per se stesse non rappresentano nulla di economico e nemmeno qualcosa di necessariamente o prevalentemente desiderato per motivi economici. 2) Un “ordinamento giuridico” può in certe circostanze rimanere immutato, benché le relazioni economiche si modifichino radicalmente […]. 3) Il regolamento giuridico di una situazione può, dal punto di vista delle categorie del diritto, essere fondamentalmente diverso senza che le relazioni dell’economia vengano con ciò toccate in misura rilevante, qualora l’effetto pratico per gli interessati rimanga lo stesso nei punti che hanno, di regola, rilevanza economica […]. 4) Naturalmente la garanzia giuridica sta, nell’ambito più ampio, direttamente al servizio di interessi economici» (ES, I, pp. 332-33). Di fatto, gli interessi economici si pongono come tra i più potenti fattori che influenzano concretamente la formazione del diritto: ogni potere, infatti, che deve garantire un determinato ordinamento giuridico, si fonda sull’esistenza dell’agire di consenso dei gruppi sociali sottostanti che lo costituiscono e la cui formazione è notevolmente condizionata da “costellazioni di interessi materiali”. Da ciò si desume che il diritto è, quindi, garantito dal potere dei gruppi sociali esistenti sulla base di ben determinati interessi materiali. Per cui, la coercizione che presuppone l’ordinamento giuridico è di per se stessa limitata nello specifico campo dell’agire economico: «Le conseguenze che si possono ottenere attraverso l’eventualità della coercizione che sta dietro l’ordinamento giuridico, specialmente nel campo dell’agire economico, sono limitate, oltre che da altre circostanze, anche dal suo carattere specifico» (ES, I, p. 333). La coercizione, in quanto tale, non è sufficiente per determinare un comportamento conforme alla norma. Weber osserva come ciò valga per ogni forma di coercizione che non consideri l’individuo come semplice oggetto di natura: «Anche i più drastici mezzi di coercizione e punitivi falliscono dove i soggetti non vi si sottomettono a nessun costo» (ES, I, p. 333). La sottomissione implica un problema di educazione. Weber

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non manca di registrare un processo di crescita dell’educazione alla sottomissione del diritto a seconda e in misura della pacificazione sociale; tuttavia, sottolinea la debolezza della potenza del diritto sull’economia: «il grado di possibilità di influenzare il comportamento economico degli uomini non è dunque semplicemente funzione della generica sottomissione alla coercizione giuridica» (ES, I, p. 334). Pertanto, i limiti dell’efficacia della coercizione giuridica nel campo dell’agire economico sono rapportabili ai limiti del potere economico degli interessati: di fatto, non soltanto viene ad essere limitata l’effettiva quantità dei beni disponibili, ma anche i diversi modi di impiego che così sono limitati dai peculiari rapporti reciproci che le diverse forme di economie stabiliscono tra di loro. Per questo motivo, la possibile loro sottomissione a ordinamenti eteronomi avverrebbe con forti frizioni e tensioni sul terreno dei rapporti di forza tra interessi privati e interessi giuridici, e richiederebbe poi difficili mutamenti di orientamento di tutte le disposizioni economiche nell’ambito generale del sistema economico, con una conseguente attenzione delle capacità di calcolo e quindi con relative perdite e contraddizioni da esse derivanti. Dal punto di vista teorico generale, per Weber non è possibile definire il grado di efficacia del diritto sull’economia. Di fronte alle difficoltà nello stabilire la portata del potere effettivo del diritto sull’economia e viceversa, Weber non propone definizioni generali e sostiene, invece, la necessità di indagare i singoli casi e relativamente a settori limitati della vita economica e, quindi, anche in sede di analisi dell’economia politica. Lo schema interpretativo weberiano del rapporto tra economia e diritto presenta ancora alcuni elementi che occorre considerare e che non sono di per sé esenti da certe contraddizioni. Infatti, sul piano teorico, si può dire weberianamente che la monopolizzazione, e quindi la trasparenza del mercato, «favorisce di norma la possibilità della coercizione giuridica in economia: se ciò non si verifica di fatto, la causa va ricercata nel “particolarismo del diritto che deriva dalla sussistenza di gruppi politici concorrenti” e nella forza degli interessi privati

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che possono essere controllati e scatenati, all’occorrenza, dai monopolisti»54. Resta comunque da chiedersi, che senso ha, di fatto, l’identificazione della “completa monopolizzazione” con la trasparenza del mercato? Un altro aspetto che bisogna tener presente dal punto di vista concettuale è dato dal ruolo dello Stato nel rapporto tra economia e diritto. Secondo Weber, «la garanzia “statuale” del diritto non è, da un punto di vista puramente teorico, indispensabile ad alcun fenomeno economico fondamentale» (ES, I, p. 335). Ora, ancor prima di affrontare sinteticamente il complesso rapporto tra razionalizzazione dell’economia e razionalizzazione del diritto, cioè del rapporto tra capitalismo, stato moderno e diritto razionale-formale – a cui si farà cenno in seguito –, è necessario chiarire il punto di vista weberiano sulla relazione esistente tra ordinamento economico e ordinamento giuridico, ovvero tra economia, diritto e stato. Secondo Weber, «lo “stato” non è mai necessario per l’economia, dal punto di vista puramente “concettuale”» (ES, I, p. 335), in quanto si danno numerosi esempi come quello appunto della tutela del possesso fornita anche dal sostegno del gruppo parentale e dalla tutela delle obbligazioni di debito garantita storicamente in modo più efficace dalle comunità religiose piuttosto che da quelle politiche; inoltre, il denaro è esistito storicamente come mezzo di pagamento anche senza l’intervento e la garanzia dello «stato». Ma, com’è noto, il progressivo processo di razionalizzazione del diritto e dell’economia nella modernità implica problemi tali che un determinato ordinamento economico (moderno) non può costituirsi e reggersi senza il funzionamento di un ordinamento giuridico statuale. Il diritto, weberianamente, deve sempre più essere garantito da un potere coercitivo “il più forte possibile”, anche in conseguenza del fatto che le regole e le logiche di funzionamento dell’economia moderna, per il loro intrinseco carattere, hanno praticamente soppiantato gli altri gruppi sociali portatori autonomi di diritto, 54. M.A. Toscano, Evoluzione e crisi del mondo normativo. Durkheim e Weber, cit., p. 250.

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e, quindi, di garanzie giuridiche. Al centro di questo complesso processo di sviluppo storico dell’economia moderna si situa “il potere universale dell’associazione di mercato”, il quale esige, come sottolinea Weber, «da una parte un funzionamento del diritto calcolabile secondo le regole razionali»; e dall’altra, «l’estensione del mercato […] favorisce, per le conseguenze ad essa immanenti, la monopolizzazione e la regolamentazione di ogni potere coercitivo “legittimo” attraverso una istituzione coercitiva di portata universale, mediante la disgregazione di tutti gli organismi coercitivi particolari, di ceto o di altra specie, fondati di solito su monopoli economici» (ES, I, p. 336). Come si evince da queste rapide considerazioni sul rapporto tra diritto e economia, per Weber il problema della validità di un ordinamento giuridico rinvia direttamente alla sua concreta praticabilità connessa agli scopi reali (economici) di un agire sociale razionale. Inoltre, il fulcro del discorso weberiano incentrato sul rapporto economia-società-diritto, rinvia di fatto al complesso problema politico che solleva l’ulteriore rapporto tra diritto e potere. Ora però, prima di procedere ad analizzare altri importanti problemi e aspetti della sociologia del diritto weberiana (quali risultanti del rapporto tra razionalizzazione dell’economia, razionalizzazione del diritto, capitalismo e stato moderno) dobbiamo considerare il problema dell’evoluzione, della formalizzazione e della secolarizzazione55 del diritto e della dinamica dell’innovazione giuridica, per poi affrontare ancora i problemi inerenti la razionalità formale e materiale del diritto. Soltanto dopo aver condotto a termine l’analisi di queste problematiche, sarà possibile affrontare sinteticamente i rapporti complessi tra diritto, potere, stato ed economia e giungere a 55. In generale, sulle dinamiche peculiari della secolarizzazione nella modernità (con riferimenti precipui anche alle analisi weberiane), cfr. P. Grassi, Figure della religione nella modernità, Urbino 2001. Sul tema della secolarizzazione, v. inoltre R. Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea, Roma-Bari 2003. Sul rapporto diritto, secolarizzazione e modernità, cfr. E.-W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, Laterza, RomaBari 2007.

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una conseguente valutazione interpretativa della sociologia del diritto weberiana.

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3. Sul processo di formalizzazione del diritto Abbiamo visto quali siano gli aspetti oggettivi della definizione weberiana del concetto di diritto: ovvero, quando, come e dove siamo autorizzati a parlare di diritto. Ora, invece, seguiamo come complessivamente si sviluppa il processo di formalizzazione del diritto, considerando appunto quello che per Weber è il nucleo centrale dell’evoluzione che caratterizza il diritto, la scienza giuridica e l’organizzazione normativa: cioè il processo di razionalizzazione56, che porta alla definizione del carattere razionale-formale, tipico del diritto moderno, e che costituisce un aspetto del processo di razionalizzazione nel quale si raccoglie tipicamente lo sviluppo della società occidentale57. L’evoluzione, le fasi tipiche e le direzioni tipiche di questo processo assumono una particolare connotazione nella sociologia del diritto weberiana58. 56. Per una più diffusa e analitica ricostruzione della teoria weberiana del processo di razionalizzazione rinvio il lettore al mio già citato volume Senso e razionalità. Max Weber e il nostro tempo (ivi bibliografia). 57. Cfr. R. De Giorgi, Materiali per una teoria sociologica del diritto, Bologna 1981, p. 161. 58. Si veda a questo proposito, tra gli altri, gli studi citati in precedenza nelle note 2 e 7. Nella sua relazione al Congresso di sociologia tedesca di Heidelberg [1964] dedicato a Max Weber e la sociologia oggi, Talcott Parsons incentrò l’analisi weberiana del diritto sul concetto di razionalità formale come fondante un «ordine normativo indipendente sia da fattori ideali che reali». Nella formalizzazione del diritto Parsons individua una specie di sua autonomizzazione dalle «costellazioni di interessi politici ed economici più particolaristici» (Relazione ai valori e oggettività nelle scienze sociali, in Max Weber e la sociologia oggi, a cura di G.E. Rusconi, Milano 1967, p. 75). Secondo Parsons, «la sociologia giuridica di Weber è […] la chiave per comprendere la sua analisi dei fenomeni politici ed economici; l’anello di collegamento forse più importante è la concezione del potere razionale-legale. Questa concezione caratterizza tutti gli aspetti essenziali del rapporto specifico di un ordine

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Per Weber, l’evoluzione del diritto, in contrasto con l’indirizzo perseguito dalla scuola storica del diritto, si può riassumere in quanto egli scrive in uno dei passaggi conclusivi del capitolo VII di Economia società: «Lo sviluppo generale del diritto e del processo – determinato nei suoi “stadi di sviluppo” teorici – reca dalla creazione carismatica del diritto a opera di “profeti giuridici” alla creazione e alla produzione empirica del diritto a opera di notabili giuridici (produzione giuridica mediante giurisprudenza cautelare e precedenti), per poi condurre all’imposizione del diritto da parte di un imperium secolare e di poteri teocratici, e infine alla statuizione sistematica del diritto e all’“amministrazione della giustizia” specializzata a opera di giuristi di professione che ricevono una formazione letteraria e logico-formale. Le qualità formali del diritto si sviluppano così da una combinazione di formalismo magicamente condizionato e di irrazionalità condizionata da rivelazioni nel processo primitivo, passando eventualmente per una fase di razionalità rispetto allo scopo di carattere materiale, e quindi non formale, condizionata da motivi teocratici o patrimoniali, per arrivare a una razionalità e a una sistematica giuridica sempre più specializzata, cioè di carattere logico, e pertanto – da un punto di vista puramente esteriore – a un grado sempre maggiore di sublimazione logica e di rigore deduttivo del diritto, oltre che a una tecnica del processo sempre più razionale» (ES, II, p. 188)59. giuridico altamente sviluppato, sino all’organizzazione di potere e potenza nel sistema di governo» (Ibidem). 59. Nel suo commento relativo anche a questo passaggio weberiano, A. Ponsetto (Max Weber. Ascesa, crisi e trasformazione del capitalismo, Milano 1986, p. 129), ha scritto: «La ‘positività’, il ‘legalismo’ e la formalità, che caratterizzano il diritto moderno, sono indice di una demitizzazione giunta al suo stadio maturo e incapace perciò di fare appello a valori trascendentali: valido è ormai solo più il diritto in quanto positivamente posto. Esso non è più interpretazione di tradizioni riconosciute come normative, ma unicamente espressione della volontà di un legislatore sovrano, che regola i “fatti sociali” secondo “convenzioni”, servendosi dei mezzi offerti dall’“organizzazione giuridica”. Il diritto moderno non sottopone le persone ad alcun imperativo morale, se si eccettua quello di una generale obbedienza al diritto. Ad esso non

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Occorre subito notare che da questa citazione risulta abbastanza chiaramente che non soltanto le principali fasi tipiche che caratterizzano lo sviluppo del diritto e della cultura giuridica rinviano alle tre fondamentali forme del potere legittimo, ma soprattutto che la direzione che lo sviluppo del diritto presenta viene fatta coincidere da Weber con lo sviluppo sociale e con il progressivo processo di razionalizzazione. Inoltre, il brano weberiano presenta lo specifico carattere tipico-ideale e indica che il processo di razionalizzazione, per quanto concerne il diritto, non è detto che si sia verificato secondo l’ordine precisato. Weber, infatti, sottolinea che gli stadi del processo di razionalizzazione in esso teoricamente costruiti «non si sono nella realtà stessa susseguiti secondo l’ordine del loro grado di razionalità, e non si sono verificati ovunque». Nel capitolo VII di Economia e società, Weber indaga e riflette sul processo di razionalizzazione nella sua peculiare configurazione storico-sociale, cercando di coglierne e comprenderne contemporaneamente la pluralità delle cause e degli esiti che esso produce. Lo stesso concetto di “razionalizzazione”, secondo Weber, deve essere utilizzato, nella sua semantica, con una certa duttilità per poter ricevere applicazione nel campo specifico del diritto. Nella sua peculiare struttura, il processo di razionalizzazione del diritto è un fenomeno storico-sociale che deve essere indagato nelle modalità specifiche del suo sviluppo, in quanto esso può avere contenuti e forme differenti a seconda, anche, della direzione nella quale il pensiero giuridico prosegue sulla via della razionalizzazione. interessano quindi le “intenzioni” degli individui, ma soltanto le loro azioni, per misurarne la conformità o meno alle norme stabilite. Si tratta dunque di un diritto formale, che regola l’insieme dei rapporti in un contesto di esistenza neutralizzato rispetto alla morale. Le conseguenze delle azioni sono considerate dal punto di vista esclusivamente giuridico e, per questo, sono minuziosamente previste. Non potendo fare appello ad alcun valore ontologicamente fondato, il diritto “misura il comportamento umano” in forma puramente negativa, sulla base dei limiti imposti dai diritti riconosciuti: tutto è permesso, se non è proibito dal diritto. Esso si considera perciò autonomo da ogni altro principio, che non sia il diritto stesso».

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Razionalità e diritto in Max Weber

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Egli, perciò, distingue le due principali direzioni che il pensiero giuridico ha storicamente seguito nell’evoluzione del processo di razionalizzazione del diritto. La prima è quella della casistica, la quale si fonda sull’analisi degli elementi ultimi costitutivi della fattispecie e sulla correlativa incidenza che la costruzione di «principi giuridici» produce nei confronti della «delimitazione dei vari possibili elementi rilevanti della fattispecie» (ES, II, p. 14); la seconda è quella della sistematica, la quale – essendo qualcosa di molto recente nell’evoluzione giuridica – secondo gli schemi giuridico-concettuali moderni «consiste nel coordinamento di tutti i principi giuridici ricavati con il lavoro di analisi, in modo tale da formare un sistema di regole logicamente chiaro, privo di contraddizioni interne e soprattutto – almeno in linea di principio – privo di lacune; il che comporta che tutte le fattispecie pensabili devono poter essere sussunte sotto una norma del sistema, se non si vuole che il loro ordinamento resti privo di una garanzia efficace» (ES, II, p. 15). La sistematica ha dunque permesso di procedere «a una costruzione logica dei principi giuridici e a una interpretazione anch’essa logicamente coerente del comportamento umano giuridicamente valido»60. Dopo questa distinzione tra casistica e sistematica, Weber elabora uno schema tipologico generale del processo di razionalizzazione del diritto e tende a disegnare un quadro concettuale più complesso nel quale si collocano vari tipi ideali di razionalità e di irrazionalità del diritto, in particolare della legislazione e della giurisdizione61. Sinteticamente questo schema si configura nel modo seguente (cfr. ES, II, p. 16): A) legislazione e giurisdizione possono essere irrazionali o razionali; B) in ciascun caso possono esserlo in senso materiale o in senso formale. 1) Sono formalmente irrazionali quando in esse vengono impiegati «mezzi diversi da quelli controllabili razionalmente, come il ricorso a 60. R. De Giorgi, Materiali per una teoria sociologica del diritto, cit., p. 165. 61. Cfr. W. Schluchter, Tipi di diritto e tipi di potere, in Id., Lo sviluppo del razionalismo occidentale, cit., pp. 158-161.

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oracoli o forme equivalenti»; 2) sono materialmente irrazionali quando «per la decisione assumono rilevanza valutazioni concrete del caso singolo – siano esse di natura etica, affettiva o politica – e non invece norme generali». C) La legislazione e la giurisdizione razionali possono essere formalmente o materialmente razionali. 1) Formalmente razionale è ogni diritto formale, ossia un diritto che consideri solo le caratteristiche univoche della fattispecie; ma questo formalismo del diritto può avere un duplice aspetto: i) le caratteristiche giuridicamente rilevanti hanno evidenza sensibile (la pronuncia di una parola, una formula, un rito) – questa è la specie più rigorosa di formalismo giuridico; ii) le caratteristiche giuridicamente rilevanti possono venire individuate attraverso un’interpretazione logica, che dà vita a concetti giuridici definiti sotto forma di regole rigorosamente astratte – secondo questa forma della razionalità, il formalismo è certo più attenuato, in quanto la univocità delle caratteristiche è di natura puramente logica. 2) Materialmente razionale è il diritto che prevede per la decisione di questioni giuridiche l’appello a norme di «dignità qualitativa» diversa dalle generalizzazioni logiche (ovvero principi di natura etica, politica, di opportunità, ecc.) che infrangono sia il formalismo della caratteristica esteriore sia quello dell’astrazione logica. La conclusione a cui perviene Weber è implicita nelle stesse premesse della costruzione del suo schema62: «una sublimazione specificamente tecnico-giuridica del diritto, in senso moderno, è possibile soltanto in quanto questo abbia carattere formale» (ES, II, p. 16), e questa sublimazione «è limitata alla casistica se prevale l’assoluto formalismo della caratteristica sensibile; l’astrazione interpretativa consente invece di approdare alla sistematica come momento ultimo della coordinazione razionale del diritto»63.

62. Cfr. ivi, p. 166. 63. M.A. Toscano, Evoluzione e crisi del mondo normativo, cit., p. 276.

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4. Razionalizzazione del diritto e innovazione giuridica: aspetti e problemi introduttivi Nella sua complessa analisi del processo di razionalizzazione sociale, Weber ha collegato il problema del diritto razionaleformale alla genesi e allo sviluppo del capitalismo e dello stato moderno64 e ad altre specifiche sfere vitali, culturali e sociali prodotte nel corso della “evoluzione” storica del razionalismo occidentale65. Per Weber, il diritto razionale-formale come lo stato moderno con la sua organizzazione burocratica sono fenomeni che appartengono esclusivamente all’Occidente e che non trovano riscontro in altre forme di società o in altri periodi storici66. Leggiamo Weber: «Soltanto l’Occidente conobbe il pieno sviluppo della giustizia di assemblea popolare, e la stereotipizzazione in base al ceto propria del patrimonialismo, nonché l’ascesa dell’economia razionale, che venne alleandosi dapprima con la potenza dei principi allo scopo di abbattere i poteri dei ceti, per poi impegnarsi in una rivoluzione contro il primo. Soltanto l’Occidente conobbe perciò anche il diritto naturale; soltanto esso vede oggi completamente eliminato il principio della personalità del diritto e il principio che “il diritto arbitrario prevale sul diritto generale del paese”. Soltanto l’Occidente, infine, ha visto nascere un organismo della specie del diritto romano e ha vissuto un processo come quello della sua recezione […]. Questa è anche la ragione per la quale la fase del diritto di formazione tecnica specializzata è stata raggiunta appieno soltanto in Occidente» (ES, II, p. 189).

64. Cfr. A. Febbrajo, Capitalismo, stato moderno e diritto razionale-formale, in R. Treves (a cura di), Max Weber e il diritto, cit., pp. 39-64. 65. Cfr. A. De Simone, Senso e razionalità. Max Weber e il nostro tempo, cit. (ivi bibliografia). 66. Sui termini essenziali dell’argomento, cfr. Pietro Rossi, Il processo di razionalizzazione del diritto e il rapporto con l’economia, in R. Treves (a cura di), Max Weber e il diritto, cit., pp. 24 ss. e G. Rebuffa, Max Weber e la scienza del diritto, cit., pp. 73 ss.

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Weber ha sempre sostenuto che una corretta comprensione storica e sociologica del diritto razionale-formale dev’essere resa intelligibile in un quadro comparativo, cioè rapportata al dispiegamento del processo di razionalizzazione che si verifica nel campo della vita sociale, economica, politica e giuridica. Tuttavia, se il diritto razionale-formale ha trovato nell’Occidente il suo terreno esclusivo, il processo di razionalizzazione si è manifestato in diverse forme e direzioni anche in altre realtà ed epoche storiche, segnando il distacco definitivo dalla concezione magica del mondo e dai legami del gruppo parentale, dal quale emergono le religioni di redenzione. Rifiutando la magia, forme diverse di religione tendono progressivamente a elaborare sistematicamente una concezione del mondo rivolta a costituire un “sapere sacro”. Anche il processo di razionalizzazione del diritto si configura in direzione della generalizzazione e della sistematizzazione dei principi giuridici. Dunque, come sappiamo, il processo di razionalizzazione orienta lo sviluppo giuridico o in senso formale o in senso materiale. Weber ha definito il diritto – sia nel senso della sua creazione (Rechtsschöpfung) che in quello della sua interpretazione e applicazione (Rechtsfindung) – in rapporto alla dialettica di due coppie di antitesi: quella tra razionalità e irrazionalità e tra “formale” e “materiale”67, dialettica in cui si dispiega la formazione del diritto. Ora, come già sappiamo (v. supra), per Weber, non soltanto la legislazione e la giurisdizione possono essere sia razionali che irrazionali, ma lo possono essere anche sia dal punto di vista formale o materiale. Sul piano della razionalità del diritto si ha che la razionalità formale coincide, sul terreno giuridico e processuale, con il ricorso a regole astratte che orientino la decisione nel caso singolo; mentre la razionalità materiale fa presente il ricorso a norme di genere extra-giuridico. Pertanto, weberianamente avremo che il diritto razionale-formale comporta comunque un livello alto di calcolabilità; diversamente il diritto materialmente razionale 67. Cfr. Pietro Rossi, Il processo di razionalizzazione del diritto e il rapporto con l’economia, cit., p. 25.

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è meno prevedibile nella sua applicazione in quanto dipendente (anche) da fattori extra-giuridici che condizionano il processo decisivo. La distinzione weberianamente operata tra diritto formalmente razionale e diritto materialmente razionale (e la relativa distinzione tra i due tipi di diritto irrazionale, già indicati), costituisce – come ha rilevato Pietro Rossi – «l’applicazione alla sfera giuridica della determinazione di due diverse forme di razionalità, effettuata da Weber all’inizio di Wirtschaft und Gesellschaft in corrispondenza alla distinzione tra l’atteggiamento razionale rispetto allo scopo e l’atteggiamento razionale rispetto al valore. Sotto questo profilo essa ha per oggetto le caratteristiche specifiche sia della creazione del diritto sia della sua interpretazione e applicazione, in quanto riconducibili (in ultima analisi) a un differente orientamento dell’agire. Appare quindi legittimo utilizzare le due coppie di antitesi per identificare […] il diritto materialmente irrazionale con il diritto “tradizionale”, quello formalmente irrazionale con il diritto “rivelato”, quello materialmente razionale con il diritto “derivato” in base a criteri di decisione extra-giuridici, e infine quello formalmente razionale con il diritto “statuito”»68. Di conseguenza, Weber costruisce una specifica tipologia delle forme di diritto sulla base di una determinata scala di razionalità con al suo apice il diritto razionale-formale. Tuttavia, occorre osservare che Weber non ha semplicemente elaborato una tipologia delle forme di diritto dalla quale potesse emergere – in modo comparativo – la specificità tutta occidentale del diritto razionale-formale. Nella Sociologia del diritto, Weber ha anche enucleato gli specifici momenti di sviluppo del processo di razionalizzazione del diritto. Tale processo ha inizio là dove si consuma il definitivo distacco dalla magia e dalla dissoluzione della struttura del gruppo parentale e del suo particolare tipo di autorità (autorità patriarcale del capo o degli anziani del gruppo). Anche il processo di razionalizzazione della sfera 68. Pietro Rossi, Max Weber. Razionalità e razionalizzazione, cit., pp. 8384.

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religiosa e quella del diritto costituiscono alle origini fenomeni paralleli e reciprocamente correlati. Comunque, per Weber, un punto è fermo: il processo di razionalizzazione del diritto non procede lungo una sola direzione, ma si configura ora nella forma di razionalità formale ora in quella di razionalità materiale. Inoltre, in riferimento all’Occidente moderno, i due modelli di razionalità del diritto sono, in una prospettiva storico-evolutiva, compatibili con lo sviluppo del capitalismo moderno, però non nel senso di essere «due fasi successive di un unico processo di razionalizzazione della sfera giuridica»69. Ora, l’evoluzione e la successione dei momenti che contraddistinguono lo sviluppo del processo di razionalizzazione del diritto, sia in senso formale che materiale, evidenziano e sollevano il complesso problema della conseguente determinazione delle condizioni e delle forme di creazione e di innovazione del diritto una volta che questo si sia completamente distaccato dal formalismo giuridico primitivo, e che abbia reciso ogni legame con la magia e la struttura del gruppo parentale. Al centro dell’analisi weberiana dello sviluppo generale del diritto, come già indicato, si situa la dialettica tra norme e istituti giuridici tramandati dalla “tradizione” e il processo di “creazione” del diritto come introduzione di norme e di istituti giuridici nuovi. Gli operatori del diritto portatori di innovazioni sono, secondo Weber, i profeti giuridici, i notabili giuridici e i giuristi di professione. Tutti costoro, con la loro opera, non soltanto spingono verso differenti processi di innovazione giuridica con il risultato comune di mettere in crisi, comunque, l’assetto tradizionale del diritto; ma – come principali forme e figure di creazione (e innovazione) del diritto – sono altresì direttamente correlati alla tipologia weberiana del potere (tradizionale, carismatico e razionale). Ciò detto, occorre comunque puntualizzare quanto segue: 1) il potere tradizionale fa da riscontro al diritto tramandato; 2) il potere carismatico intrattiene una diretta corrispondenza con la creazione del diritto da parte dei profeti giuridici; 69. Ivi, p. 86.

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Razionalità e diritto in Max Weber

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3) mentre, il potere razionale si collega alla creazione del diritto da parte di notabili giuridici o di giuristi di professione. Inoltre, la creazione del diritto a opera di notabili giuridici e di giuristi di professione determina, nel processo di razionalizzazione del diritto, un diritto razionale orientato sia in senso materiale o formale, «statuito razionalmente rispetto al valore o rispetto allo scopo» (ES, I, p. 212), e che si avvale di «un apparato amministrativo burocratico» (ES, I, p. 215). Com’è noto, una tale organizzazione amministrativo-burocratica costituisce il nucleo del moderno stato occidentale, un’organizzazione strettamente correlata a un processo di razionalizzazione formale del diritto. Infatti, la creazione del diritto a opera di notabili giuridici persegue un criterio di razionalità materiale; mentre i giuristi di professione, forniti di un particolare tipo di istruzione professionale, tendono a trasformare il diritto in direzione razionaleformale. Per concludere, si può constatare che «nel corso del processo di razionalizzazione il diritto si è quindi sottratto al rapporto prevalente con la religione, che lo caratterizzava nel caso della creazione di norme a opera dei profeti giuridici; a tale rapporto è subentrato, in forme quanto mai diverse, quello con la sfera politica. Mentre il diritto “rivelato”, essendo materialmente irrazionale, trova il proprio fondamento di legittimità nella credenza del carattere sacro delle norme che prendono il posto di quelle tradizionali, il diritto razionale – sia esso formale o materiale – risulta qualificato piuttosto dalla relazione con determinate strutture politiche, nel cui ambito agiscono appunto sia i notabili giuridici sia i giuristi di professione. A questo mutamento si accompagna […] l’acquisizione da parte del diritto di una autonomia fondata su una tecnica specializzata. Come per le altre sfere della vita, così anche per il diritto il distacco dalla religione coincide con la conquista di una propria specificità»70.

70. Ivi, p. 92.

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Per riassumere Nella sociologia del diritto weberiana emergono una serie di distinzioni nell’evoluzione, nella formalizzazione e nella innovazione del diritto che si possono sinotticamente riassumere nel modo seguente. In primo luogo (i), per Weber occorre distinguere il diritto pubblico – quale insieme delle norme giuridiche che regolano le attività e le funzioni relative all’istituzione statale – dal diritto privato, che è costituito da quell’insieme di norme che si riferiscono ad attività e funzioni diverse da quelle specifiche dello stato. Un altro criterio di differenziazione seguito da Weber consiste nell’identificare il diritto pubblico con l’insieme dei regolamenti afferenti all’amministrazione, vale a dire la normativa contenente le direttive governative. Ancora. Un ulteriore criterio considera il diritto pubblico come implicante, tra le parti in causa, un rapporto gerarchico tra comando e obbedienza, tra potere e subordinazione; mentre considera diritto privato ogni interesse nel quale le parti in causa sono giuridicamente in posizione di uguaglianza. Queste distinzioni tra diritto pubblico e diritto privato non eludono, comunque, la possibile obiezione che si possano stabilire tra di loro relazioni reciproche, come nel caso in cui lo stesso diritto privato è più volte garantito dall’autorità pubblica (stato). In secondo luogo (ii), l’altra distinzione ricorrente è quella stabilita tra diritto positivo e diritto naturale. Weber contrappone decisamente il diritto naturale al diritto positivo in quanto il primo si sofferma su norme immanenti (del tipo “ciò che deve essere”), mentre il secondo sulla realtà (su “ciò che è”). Questa contrapposizione – che sarà poi maggiormente sviluppata e approfondita da Hans Kelsen71 – sospinge il diritto «in direzione anti-formale da tutti quei poteri che pretendono fare della prassi giuridica qualcosa di diverso da uno strumento per la composizione dei conflitti di interesse» (ES, II, p. 201). Weber 71. Cfr. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello stato, Milano 1974, pp. 397-405.

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ritiene che tra questi poteri antiformali devono comunque essere considerate «le aspirazioni di giustizia materiale di ideologie e interessi di classi sociali». Naturalmente, egli ritiene che di fatto non possa ancora sussistere un diritto naturale formale il quale sancisca i diritti degli individui in quanto uomini e cittadini, e – insieme a questi – la figura astratta dello stato di diritto costituzionale: infatti, alla validità di questi assiomi di tipo giusnaturalistico non credono più né i giuristi di professione, né i popoli politicamente civili. Pertanto, per Weber, possono esistere postulati giusnaturalistici materiali, che – venendo condivisi da classi non privilegiate e da strati intellettuali a loro vicini – possono anche supplire alla «scomparsa delle antiche concezioni giusnaturalistiche», e ostacolare, così, quella completa trasformazione del diritto in «prodotto e mezzo tecnico di un compromesso di interessi» (ES, II, p. 184), che i giuristi specializzati progressivamente perseguono. Oltre a tutto ciò, la sociologia del diritto weberiana presenta altre due distinzioni: quella tra diritto oggettivo e diritto soggettivo. Pur non avendone formulata una definizione organica ed esaustiva, Weber intende per diritto oggettivo l’insieme delle norme e dei regolamenti che valgono indistintamente per gli individui e i gruppi facenti parte dell’ordine giuridico generale. Per diritto soggettivo, invece, Weber intende le capacità e le possibilità che mettono nelle condizioni un individuo di poter fare appello all’apparato di coercizione giuridica affinché i suoi diritti materiali e spirituali siano rispettati e garantiti. In altri termini, come ha osservato Julien Freund: «I diritti soggettivi danno la sicurezza a persone che dispongono di un potere su altri individui o su cose (per esempio proprietà); li autorizzano a imporre, proibire o permettere agli altri una condotta determinata. Può stupire che Weber concede un posto così grande a questa specie di diritti che infine non sono altro che interessi protetti giuridicamente, sia che si tratti per esempio della libertà del datore di lavoro, sia della libertà di lavoro del dipendente. Non bisogna tuttavia dimenticare la linea generale della sua sociologia giuridica: da una parte intende presentare i vari

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processi che hanno condotto alla razionalizzazione del diritto moderno, e dall’altra illustrare una volta di più la singolarità della civiltà occidentale»72. Di fatto, nel progressivo processo di razionalizzazione, i diritti soggettivi «costituiscono un aspetto fondamentale di questa civiltà, perché hanno avuto una parte determinante nelle transazioni private che contribuiscono alla formazione del capitalismo moderno»73. Nella sua sociologia del diritto, Weber costruisce un quadro concettuale generale del processo di razionalizzazione del diritto servendosi della seguente quadripartizione: razionalità materiale del diritto, razionalità formale e irrazionalità materiale, irrazionalità formale. Sui vari tipi ideali di razionalità e irrazionalità del diritto ci si è già soffermati. Ciò che occorre ancora sottolineare è che proprio la distinzione tra diritto formale e diritto materiale condizioni in maniera diretta il processo di razionalizzazione del diritto. Julien Freund ha cercato di chiarire questo aspetto della sociologia del diritto weberiana scrivendo che: «Weber intende per legge formale la disposizione giuridica che può essere dedotta logicamente dai soli presupposti di un sistema determinato di diritto. Il diritto formale è dunque l’insieme del sistema del diritto puro, le cui norme obbediscono tutte unicamente alla logica giuridica, senza intervento di considerazioni estranee al diritto. Il diritto materiale al contrario tiene conto di elementi extragiuridici, e si riferisce, nel corso dei suoi giudizi, a valori politici, economici o religiosi. Di qui due modi di concepire la giustizia: l’uno si attiene esclusivamente alle regole dell’ordine giuridico, e ritiene giusto ciò che è stabilito e conforme alla lettera, o alla logica del sistema; l’altro tiene conto della situazione, delle intenzioni degli individui e delle condizioni generali della loro esistenza […]. La razionalità del diritto può di conseguenza essere anch’essa formale o materiale, il che significa che non sarà mai perfetta perché tutti i conflitti giuridici nascono dall’antagonismo insuperabile tra questi due tipi di diritto»74. 72. J. Freund, La sociologia di Max Weber, cit., p. 250. 73. Ibidem. 74. Ivi, pp. 251-252.

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5. Diritto razionale-formale, capitalismo e stato moderno Nelle pagine di Wirtschaft und Gesellschaft, com’è noto, Weber affronta, tra l’altro, i rapporti tra capitalismo, diritto razionaleformale e stato moderno all’interno di un complesso progetto di ricerca, studiando tali problematiche sulla scorta di un vasto materiale storico-sociologico e perseguendo analoghi presupposti sia sul piano teorico che metodologico. Secondo Weber, da un punto di vista teorico, il capitalismo, il diritto razionale-formale e lo stato moderno sono il risultato di un unico e complesso processo di razionalizzazione che si è via via progressivamente realizzato nei diversi campi della vita sociale moderna occidentale75. Invece, sul piano più strettamente metodologico, questi fenomeni sono considerati quali risultanti di un medesimo procedimento tipico-ideale che non esibisce alcuna esaustiva corrispondenza con il reale dispiegamento degli eventi, delle fasi principali e delle manifestazioni fondamentali del processo di razionalizzazione. Descrivendo le caratteristiche e le fasi del razionalismo occidentale, Weber ha affermato nella Vorbemerkung (uno degli ultimi suoi scritti, steso poco prima della morte) ai Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie76 che soltanto in Occidente si è consolidata una «struttura razionale del diritto» la quale ha fornito «un diritto calcolabile» e un’amministrazione secondo regole formali. Soltanto in Occidente si assiste alla formazione «della forza più fatale della nostra vita moderna, il capitalismo», inteso non in modo ingenuo e riduttivo come “impulso acquisitivo”, “aspirazione al guadagno”, al guadagno monetario più grande possibile, ma che si identifica «con l’aspirazione al guadagno nell’impresa capitalistica continuativa, di carattere 75. Sulla centralità del processo di razionalizzazione nella concezione weberiana della storia, cfr. D. Conte, Max Weber, in Id., Storicismo e storia universale. Linee di un’interpretazione, Napoli 2000, pp. 73-128 e G.A. Di Marco, Studi su Max Weber, cit. 76. Cfr. M. Weber, Premessa, in Id., Sociologia della religione. I. Protestantesimo e spirito del capitalismo, a cura di Pietro Rossi, Torino 2002, pp. 5-18.

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razionale, e a un guadagno sempre rinnovato, ossia alla “redditività”», dove l’agire «è orientato secondo il calcolo in termini di capitale» attraverso «l’organizzazione capitalistico-razionale del lavoro (formalmente) libero». Soltanto in Occidente, infine, assistiamo alla formazione e al consolidamento dello «stato» inteso come «un’istituzione politica con una “costituzione” razionalmente statuita, con un diritto razionalmente statuito e con un’amministrazione affidata a funzionari specializzati, secondo regole razionalmente statuite». Ciò detto, occorre rilevare che per Weber il rapporto tra capitalismo, diritto razionale-formale e stato moderno non si configura, secondo un’analisi comparativa e storico-evolutiva, come una correlazione necessaria. Nel mondo occidentale moderno essi, weberianamente, si presentano come fenomeni e come processi di sviluppo reciprocamente correlati, ma pur sempre relativamente indipendenti77. Sulla base di questo presupposto teorico e metodologico, Weber affronta – in particolare nel capitolo settimo di Wirtschaft und Gesellschaft, quello che qui interessa – i rapporti che li correlano su vari e complessi livelli di astrazione. Qui di seguito, sinteticamente e per comodità di esposizione, descriveremo prima A) i rapporti tra diritto razionale-formale e capitalismo (diritto privato) e, poi, B) i rapporti tra diritto razionale e stato moderno (diritto pubblico)78. A. Diritto razionale-formale e capitalismo Nell’analizzare i rapporti tra diritto razionale-formale e capitalismo, Weber si sforza di: 1) descrivere un quadro generale dei principali rapporti tra diritto ed economia; 2) cogliere i possibili 77. Cfr. Pietro Rossi, Il processo di razionalizzazione del diritto e il rapporto con l’economia, in R. Treves (a cura di), Max Weber e il diritto, cit., pp. 18-37. 78. Per esigenza di sintesi espositiva, su questi due punti, tra l’altro, faremo particolare riferimento ai lavori di Pietro Rossi, Il processo di razionalizzazione del diritto e il rapporto con l’economia, cit.; A. Febbrajo, Capitalismo, stato moderno e diritto razionale-formale, cit. e di G. Rebuffa, Nel crepuscolo della democrazia. Max Weber tra sociologia del diritto e sociologia dello stato, cit., a cui si rimanda per gli ulteriori approfondimenti tematici e bibliografici.

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Razionalità e diritto in Max Weber

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collegamenti tra diritto razionale-formale ed economia capitalistica; 3) analizzare i singoli istituti giuridici che nel più generale processo di razionalizzazione formale hanno comunque favorito l’affermazione di tale diritto di organizzazione economica. Procedendo sinotticamente, occorre registrare quanto segue. [A] In primo luogo (1), analizzando i rapporti intercorrenti tra diritto ed economia, Weber – particolarmente in Wirtschaft und Gesellschaft – ha sempre sottolineato l’impossibilità di una semplicistica derivazione del diritto dall’economia, affermando esplicitamente che lo stesso diritto (sempre in senso sociologico) «non garantisce affatto soltanto interessi economici, bensì gli interessi più diversi, dai più elementari come la tutela della pura sicurezza personale, fino ai beni meramente ideali come l’“onore” proprio e quello di potenze divine. Esso – aggiunge Weber – garantisce soprattutto anche posizioni di autorità politica, ecclesiastica, familiare o di altra natura, e più in genere situazioni sociali di privilegio di ogni specie, che potranno bensì essere economicamente condizionate e rilevanti nelle più diverse relazioni, ma che di per se stesse non rappresentano nulla di economico e nemmeno qualcosa di necessariamente o prevalentemente desiderato per motivi economici» (ES, I, p. 332). In secondo luogo (2), ribadendo questo principio generale, Weber ha sottolineato la “relativa autonomia” che si stabilisce tra l’ordinamento economico e quello giuridico, ricordando che la stessa coercizione giuridica non è un fattore determinante per la regolamentazione dell’attività economica. Nella visuale interpretativa di Weber, diritto ed economia vengono pertanto presentati «come meccanismi diversi di controllo sociale che si servono di strumenti propri, ricordando che una economia sviluppata, attraverso lo strumento della formazione dei prezzi, è in grado di resistere a interventi coercitivi anche massicci, come mostra il generale fallimento di provvedimenti calmieristici»79. Inoltre, Weber ha fatto presente come sia possibile constatare l’esistenza di una “indifferenza reciproca” tra l’ordinamento 79. A. Febbrajo, Capitalismo, stato moderno e diritto razionale-formale, cit., p. 52.

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giuridico e quello economico a misura che si modifichino radicalmente per l’uno e per l’altro le relazioni principali. [B] Weber, dopo aver registrato la relativa autonomia e indipendenza tra la sfera del diritto e quella dell’economia, non ha però escluso che nelle società occidentali avanzate queste stesse sfere possano intrattenere rapporti di reciproco condizionamento. «Se è vero, infatti, che la garanzia “statale” del diritto non è, da un punto di vista puramente teorico, indispensabile ad alcun fenomeno economico fondamentale in quanto, ad esempio, la tutela del possesso può essere sostenuta dal gruppo parentale e la tutela dei debiti può essere sostenuta ancor più efficacemente da comunità religiose mediante la minaccia di scomuniche, è anche vero che uno specifico ordinamento economico di tipo moderno non può reggersi senza un ordinamento giuridico dotato di qualità razionali formali»80. Il rapporto tra sistema di relazioni economiche moderne (capitalismo) e struttura del diritto costituisce uno dei temi conduttori di Weber. Nella Vorbemerkung ai Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Weber osserva che qualunque tentativo di riconoscere e di spiegare nella sua genesi la particolare specificità del razionalismo occidentale e, nell’ambito di questo, del razionalismo occidentale moderno «deve prendere 80. Ivi, p. 53. Come ha scritto G. Rebuffa (Nel crepuscolo della democrazia. Max Weber tra sociologia del diritto e sociologia dello stato, cit., p. 97): «L’obiettivo della sociologia del diritto che Weber costruisce nelle pagine di Economia e società è quello di analizzare il rapporto tra prescrizioni giuridiche e sistema delle relazioni economiche. Al centro di tale analisi si collocano non solo gli istituti del diritto privato, la proprietà, l’autonomia contrattuale, i meccanismi di tutela dei diritti soggettivi: ogni considerazione sugli istituti privatistici non è isolabile dalla sociologia dello Stato e dalle regole del diritto pubblico. Questo collegamento ha almeno due ragioni. Da un lato il fatto che gli istituti del diritto privato, così come si sono configurati in Occidente, non servono soltanto a garantire (o a rispecchiare) le dinamiche del mercato, ma hanno il ruolo costituzionale di definire i limiti e i confini dell’azione dei soggetti pubblici. Dall’altro lato il fatto che l’equilibrio dei due settori, autonomia privata e intervento pubblico, definiscono la struttura stessa e i caratteri del potere».

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Razionalità e diritto in Max Weber

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in considerazione soprattutto le condizioni economiche, data la fondamentale importanza dell’economia. Ma non deve neppure venir trascurato il nesso causale inverso. Infatti il razionalismo economico, nella sua origine, dipende anche – oltre che da una tecnica razionale e da un diritto razionale – dalla capacità e dalla disposizione delle persone verso determinate forme di condotta della vita pratico-razionale in generale»81. [C] In numerosi luoghi del capito VII di Economia e società dedicato alla sociologia del diritto, Weber specifica dettagliatamente le interrelazioni tra diritto ed economia capitalistica rapportandole ai particolari tipi di istituti giuridici. Muovendo dal presupposto generale che «le situazioni economiche non generano automaticamente nuove forme giuridiche, ma implicano soltanto la possibilità che un’invenzione tecnico-giuridica, una volta nata, trovi anche diffusione» (ES, I, p. 40), Weber concentra, com’è noto, la propria attenzione sugli specifici istituti giuridici che avrebbero in una certa misura “favorito” l’avvento di un’economia di tipo capitalistico (ad esempio la societas maris e la commenda). Dall’esposizione weberiana, in generale, emerge un dato di fatto: le relazioni risultanti dal rapporto tra diritto razionale-formale ed economia capitalistica sono ricostruibili non attraverso un riduttivo e semplicistico rapporto di causa-effetto, ma mediante «un più complesso rapporto di affinità strutturali e di complementarità funzionali adatto a mettere in evidenza che un ordinamento giuridico razionale-formale, prodotto […] da fattori non necessariamente né principalmente economici, può da un lato favorire la formazione di imprese capitalistiche ispirate dagli stessi criteri di razionalità formale e, dall’altro, può essere rafforzato e diventare maggiormente diffuso […] grazie al sostegno delle classi capitalistiche emergenti»82. Con peculiare sensibilità, nella sua sociologia della storia dell’Occidente moderno, Weber ha sempre sottolineato la plu81. M. Weber, Premessa, in Id., Sociologia della religione. I. Protestantesimo e spirito del capitalismo, cit., p. 15. 82. A. Febbrajo, Capitalismo, stato moderno e diritto razionale-formale, cit., p. 55.

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ralità delle cause che influenzano i fenomeni sociali e le interdipendenze che rendono fuorviante qualsiasi analisi unidirezionale dei flussi causali. Tutto ciò vale non solo per la sua complessa ermeneutica del capitalismo83 (che non gli ha risparmiato certo aspre e dure critiche), ma anche per la comprensione della logica che presiede il rapporto che egli stabilisce tra diritto ed economia. Per comprendere a questo proposito il metodo d’analisi di Weber, può essere utile rileggere la pagina di uno dei suoi grandi interpreti contemporanei, R. Aron, il quale ha scritto: «Questa forma di concettualizzazione porta Max Weber a chiedersi qual è l’influenza che una forma di potere esercita sulla organizzazione e la razionalità dell’economia, qual è il rapporto tra un certo tipo di economia e un certo tipo di diritto. In altre parole, la concettualizzazione non ha come fine soltanto una comprensione più o meno sistematica, ma mira anche a porre problemi di causalità e d’influenze reciproche tra i diversi settori dell’universo sociale. La categoria che domina questa analisi causale è quella di influenza e di probabilità. Un tipo di economia influenza il diritto in una certa direzione; è probabile che un certo tipo di potere si esprimerà nella amministrazione o nel diritto in una certa maniera»84. L’individuazione di questa correlazione strutturale e funzionale – non totalizzante – del diritto razionale-formale con l’economia capitalistica, secondo Febbrajo, non fa di Weber «un apologeta del capitalismo», in quanto egli ha saputo cogliere anche «gli effetti discriminanti, spesso impliciti, che il capitalismo, e gli istituti giuridici che lo sostengono finiscono per svolgere dietro la loro apparente neutralità»85.

83. Cfr. F.S. Trincia, Un’ermeneutica del capitalismo: Marx, Weber, Löwith, in Id., Normatività e storia. Marx in discussione, Milano 2000, pp. 208-234 e C. Trigilia, Capitalismo e civiltà occidentale: Max Weber, in Id., Sociologia economica. I. Profilo storico, Bologna 2002, p. 183-227. 84. R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Milano 1972, p. 511. 85. A. Febbrajo, Capitalismo, stato moderno e diritto razionale-formale, cit., p. 55.

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B. Diritto razionale-formale e stato moderno Dopo aver affrontato i rapporti tra diritto razionale-formale ed economia capitalistica che caratterizzano i contenuti di una sociologia del diritto privato, Weber si è anche addentrato nell’analisi dei rapporti tra diritto razionale-formale e stato moderno, rapporti che non soltanto appartengono all’ambito di una sociologia del diritto pubblico86, ma che costituiscono uno dei principali capisaldi della sociologia politica e del potere di uno dei grandi protagonisti della storia novecentesca delle dottrine politiche, della filosofia politica e delle scienze sociali e politiche87. Sintetizzando oltremodo, possiamo dire che per Weber l’affermazione della razionalità dello stato moderno come formazione politica si collega alla specificità propria della modernità occidentale. La modernità è anche avviata dall’etica protestante, che a sua volta promuove la formazione dello «spirito del capitalismo»88: l’agire determinato in modo razionale rispetto allo scopo prevale “funzionalmente” nella sua applicabilità sull’agire determinato in modo razionale rispetto al valore e sull’agire tradizionale; le azioni umane, razionalizzandosi, soggiacciono al principio della razionalità formale89. Il processo di razionalizzazione sociale pervade le sfere di valore culturali, gli ordinamenti 86. Cfr. sull’argomento G. Rebuffa, Il crepuscolo della democrazia. Max Weber tra sociologia del diritto e sociologia dello stato, cit.; M. Zängle, Max Webers Staatstheorie in Kontest seines Werkes, Berlin 1988 e A. Anter, Max Webers Theorie des modernen Staates. Herkunft, Struktur und Bedeutung, Berlin ²1996. 87. Cfr. F. Tuccari, Max Weber, in Aa.Vv., Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine, vol. III, Ottocento e Novecento, t. 2, Torino 1999, pp. 379-408 (ivi bibliografia). 88. Cfr. F.R. Recchia Luciani, La razionalità come vocazione. Saggio su “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, Lecce 1988, pp. 57-73. 89. Cfr. F. Bianco, Razionalità e azione. Osservazioni in margine al paradigma weberiano, in F. Bianco-G. Di Bernardo (a cura di), Episteme e azione, Milano 1991, pp. 21-43; A. Izzo, Max Weber: i diversi tipi di razionalità e la razionalizzazione del mondo, in Id., I percorsi della ragione. Il tema della razionalità nella storia del pensiero sociologico, Roma 1995, pp. 53-74.

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vitali e le immagini del mondo, con profonde conseguenze sulla vita individuale e collettiva, che com’è noto Habermas nella sua lettura della diagnosi epocale weberiana della razionalizzazione e del disincantamento del mondo ha sussunto nelle due componenti della perdita di senso e perdita di libertà90. La razionalità formale genera le istituzioni della modernità che sono rappresentate dallo Stato moderno burocratizzato. Occorre ricordare che Weber muore (14 giugno 1920) mentre lavora non soltanto all’analisi dello stato burocratico moderno, ma anche quando è impegnato politicamente nella riorganizzazione della Germania sconfitta nella prima guerra mondiale. Secondo taluni interpreti, «partecipare alla riorganizzazione dello Stato è un impegno che richiede a Weber molte risorse intellettuali. Risorse sottratte allo studio. Le analisi sullo Stato moderno di Weber non possono dirsi concluse, come quelle sull’etica economica delle religioni del mondo»91. Weber non ha mai escluso l’esistenza di altre forme di organizzazione politica di carattere statuale in altri contesti storici differenti da quello europeo-occidentale. Egli ha però inteso sottolineare come lo stato moderno sorto nell’ambito storico della civiltà occidentale sia la forma di stato razionale in quanto le altre precedenti forme di stato possedevano tutte un carattere patriarcale, patrimoniale e carismatico e il loro apparato amministrativo non possedeva quell’oggettività dell’ordinamento giuridicoamministrativo che è invece tipico della razionalità dello stato moderno di diritto92. 90. Cfr. J. Habermas, La teoria della razionalizzazione di Max Weber, in Id., Teoria dell’agire comunicativo, vol. I, Razionalità dell’azione e razionalizzazione sociale, Bologna 1986, pp. 229-378. Sul confronto critico di Habermas con Weber, rinvio alle pp. 118-124 del mio già citato volume Senso e razionalità. Max Weber e il nostro tempo; cfr. inoltre, il cap. III (Immagini del mondo e morfologie del moderno. Disincanto, senso, razionalizzazione: tra Habermas e Weber) del mio già citato volume Oltre il disincanto, pp. 317-356. 91. T. Fabbri, Il disincanto: Max Weber, in R. Caccamo, Leggere il mutamento. Percorsi della sociologia, Roma 2003, p. 107. 92. Sul senso che dal punto di vista storico-semantico il tema dello Stato di diritto ha assunto nel dibattito filosofico-politico e filosofico-giuridico con-

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Secondo la definizione che Weber ha dato in Economia e società, lo stato moderno è da intendere come «un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti» (ES, I, p. 53). Su questa definizione la mole dei commenti offerti dagli interpreti è esorbitante. Tra questi possiamo soffermarci su quanto ha scritto Bobbio, secondo il quale «la definizione weberiana di stato non è solo formale ma anche realistica, proprio perché non è una definizione giuridica, ma è in largo senso storica e sociologica. Che il potere politico venga definito attraverso la capacità che esso solo ha di raggiungere i propri fini, quali che essi siano, ricorrendo se pure in ultima istanza all’uso della forza fisica, e può farlo a differenza di tutti gli individui o gruppi che vivono sullo stesso territorio perché ne ha il monopolio, è un modo di definire lo stato mediante l’analisi storica del processo attraverso cui si è venuta formando la concentrazione di potere caratteristica dei grandi stati territoriali e mediante l’analisi dei mutamenti sociali che hanno reso possibile questa concentrazione»93. Essendo il diritto, nella definizione weberiana, un ordinamento legittimo tutelato da un apparato coercitivo, ne consegue una interrelazione fondamentale tra diritto razionale-formale e stato moderno, poiché la coercizione di cui ha bisogno il diritto non può non essere esercitata che dalla coercizione fisica legittima dello stato razionale. Scrive ancora Bobbio: «Il monopolio della forza […] è la condizione necessaria ma non sufficiente per l’esistenza di un gruppo politico che possa definirsi “stato”. In tutti i contesti Weber aggiunge che questa “forza” deve essere “legittima” […]. Il problema che si affaccia subito è che solo un

temporaneo, cfr. P. Costa-D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano 2002. 93. N. Bobbio, La teoria dello stato e del potere, in Pietro Rossi (a cura di), Max Weber e l’analisi del mondo moderno, cit., pp. 221-222.

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potere legittimo è destinato a durare nel tempo e solo un potere durevole può costituire uno stato»94. Nella differenziazione di sfumature di significato che la definizione weberiana di stato moderno comporta, occorre comunque compiere una sottolineatura di carattere storico. In primo luogo, per Weber, lo Stato moderno è il processo di concentrazione di poteri normativi. Al riguardo, però, vanno fatte due osservazioni che Rebuffa così sintetizza: «Se per un verso Weber sembra far proprio lo schema storiografico secondo cui il Rechtsstaat coincide con la razionalizzazione delle strutture giuspolitiche e determina una forma di organizzazione politica superiore a quella della “società per ceti”, egli tuttavia rifiuta una definizione astorica, meramente dogmatica e concettuale, di Stato, qual era quella della dottrina giuridica del suo tempo. Lo Stato moderno è invece un processo storico di appropriazione e di accentramento di poteri normativi da parte di un unico soggetto “pubblico”, che si oppone con successo alla frammentazione delle potestà normative attribuite a soggetti “privati”»95. Un secondo importante aspetto presente nella definizione weberiana è collegato all’idea che lo Stato (moderno) sia “un insieme di detentori di imperia”, là dove il concetto di imperium (desunto semanticamente dal diritto pubblico romano) qui utilizzato dev’essere però connotato secondo due accezioni di significato: «a) l’imperium va distinto concettualmente in “potere di punire” (che si esprime nelle norme penali) e in “potere disciplinare” (Disziplinargewalt); questo secondo carattere dell’imperium è quello che si rivolge “contro altri organi subordinati al detentore di un imperium”; b) lo Stato moderno appare una costellazione di imperia e su questa combinazione poggia l’istituzione statale moderna articolata secondo “competenze”»96. Da tutto ciò emerge il punto fondamentale della definizione weberiana 94. Ivi, p. 223. 95. G. Rebuffa, Nel crepuscolo della democrazia. Max Weber tra sociologia del diritto e sociologia dello stato, cit., p. 166. 96. Ivi, pp. 166-167.

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dello Stato moderno: «un’organizzazione di competenze ripartite e reciprocamente limitate». Questa è la ragione per cui esso può essere descritto storicamente «come l’esito di un “processo di espropriazione politica”, dove la divisione regolata delle competenze, degli imperia, fa sì che la “pretesa al monopolio della forza fisica” possa presentarsi come “legittima”, e perciò ottenere obbedienza: lo Stato non è il mero ordine giuridico, ma il monopolio dei mezzi di “impresa politica” e, soprattutto, la credenza nella legittimità di questo monopolio»97. Perciò, «questo tipo di ordine formale è altresì l’unica forma di garanzia delle posizioni soggettive, giacché “soltanto la burocratizzazione dello Stato e del diritto contempla in generale anche la possibilità definitiva di una netta distinzione concettuale di un ordinamento giuridico ‘oggettivo’ dai diritti ‘soggettivi’ degli individui garantiti per mezzo suo”. Lo Stato moderno ha tra i suoi fondamenti la credenza nella legalità formale; ed è per questo che le trasformazioni della legalità si riflettono direttamente sulla sua legittimità»98. Se per Weber lo Stato moderno è , come si è detto, «nella sua essenza un’associazione istituzionale di detentori – scelti secondo regole determinate – di determinati imperia parimenti delimitati all’esterno da regole generali di divisione dei poteri, i quali, nello stesso tempo, incontrano tutti i limiti interni alla legittimità del loro potere di comando, per effetto di una limitazione dei poteri statuita» (ES, I, pp. 11-12), allora tutto ciò implica, come ha osservato Febbrajo, che «da un lato, infatti, il processo di monopolizzazione della forza, da cui […] ha origine lo stato, non si limita ad assicurare l’accentramento e l’univocità delle decisioni relative all’uso della coercizione fisica, ma garantisce anche, nell’ambito della comunità politica, quella combinazione di calcolabilità e di specificità funzionale che si è visto essere propria del concetto di diritto razionale-formale. D’altro lato, se il diritto ‘presuppone’ lo stato, non è meno vero che lo stato presuppone il diritto – e in particolare un diritto 97. Ivi, p. 167. 98. Ibidem.

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razionale-formale – come indispensabile strumento regolativo del potere da esso esercitato […]. Tutto questo spiega perché stato moderno e diritto razionale finiscono col richiamarsi alla medesima fonte di legittimità: ‘la credenza nella legalità’, cioè la disposizione a obbedire a statuizioni formalmente corrette e stabilite nel modo consueto»99. Qualora ci si chieda in che cosa consista effettivamente la razionalità dello stato moderno secondo Weber, la risposta dovrà comunque essere ricercata da parte di un determinato tipo di potere che esso esercita e dall’altra nel fondamento sul quale riposa. Fermo restando che la sociologia del potere costituisce senza dubbio un pezzo fondamentale di quella «sociologia dello Stato» che Weber, per la sua morte prematura, non poté portare a termine e che il problema dello Stato non esaurisce il problema della politica in Weber100, occorre ricordare che la teoria weberiana dello stato poggia su una teoria delle forme di potere101, e le varie forme di organizzazione politica devono essere ricondotte a uno dei tre tipi “puri” di potere legittimo (o combinazioni di essi); tutto ciò è anche valido per lo stato, cioè per quella peculiare organizzazione che vanta la pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima. Schematizzando nella sua composizione essenziale tutta la complessa analisi della Herrschaftssoziologie weberiana, si può ragionevolmente sostenere che tre sono le principali categorie frequentemente adottate da Weber per sistematizzare tipologicamente le forme di stato e le loro relazioni con le forme di potere: 1) il patrimo99. A. Febbrajo, Capitalismo, stato moderno e diritto razionale-formale, cit., pp. 57-58. 100. Cfr. F. Tuccari, Max Weber, cit., p. 388. Tra le più importanti ricostruzioni del pensiero politico di Weber, cfr. quelle di D. Beetham, La teoria politica di Max Weber, cit. e di W.J. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca, cit. Tra i più recenti contributi sul pensiero politico di Weber, cfr. F. Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, cit.; G. Fitzi, Max Webers politisches Denken, Konstanz 2004; D. D’Andrea, L’incubo degli ultimi uomini, cit. 101. Cfr. N. Bobbio, La teoria dello stato e del potere, in Pietro Rossi (a cura di), Max Weber e l’analisi del mondo moderno, cit.

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Razionalità e diritto in Max Weber

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nialismo patriarcale (o arbitrario); 2) il patrimonialismo di ceto (o stereotipato); 3) lo stato burocratico-razionale. Questa tipologia non è ricavata facendo ricorso a un solo criterio, ma applicando – in modo incrociato – tre diverse distinzioni: a) quella tra gruppo policratico e gruppo monocratico, formulata in base al tipo di rapporto sussistente tra detentore del potere e relativo apparato amministrativo; b) quella sussistente tra potere tradizionale e potere razionale, formulata sulla base della teoria weberiana della legittimità102; c) e quella, infine, tra potere dispotico e potere limitato, fondata essenzialmente sulla recezione della teoria della divisione dei poteri. Di conseguenza, la prima distinzione (a) evidenzia la contrapposizione del patrimonialismo di ceto tanto dal patrimonialismo arbitrario quanto dalla moderna burocrazia. La seconda (b) serve invece a dissociare queste due forme e a illuminare la connessione tra i vari tipi di patrimonialismo sempre nell’ambito del potere tradizionale. La terza (c) distingue invece il patrimonialismo arbitrario sia dalle formazioni di ceto che da quelle burocratiche. Per quanto concerne lo stato moderno occorre altresì sottolineare che, per Weber, la sua peculiarità consiste nel fondarsi sulla credenza nella legalità degli ordinamenti statuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati a esercitare il potere (il potere legale) in base ad essi. Per cui, i presupposti sui quali poggia questo tipo di potere sono di fatto la statuizione razionale del diritto nell’ambito organizzato di potenza del gruppo, un diritto organizzato sotto forme di cosmo di regole astratte, una giurisdizione che consiste nell’applicazione di queste regole al caso particolare e un’amministrazione che ha come compito la cura e la tutela razionale di interessi prescritti dagli ordinamenti di gruppo, il carattere impersonale dell’ordinamento e la subordinazione ad esso anche del detentore o dei detentori del potere, l’obbedienza esclusiva al diritto e non a 102. Sugli sviluppi weberiani e postweberiani di questa problematica, cfr. S. Costantino, Sfere di legittimità e processi di legittimazione. Weber, Schmitt, Luhmann, Habermas, Torino 1994.

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Antonio De Simone

comandi e imperativi arbitrari, nonché il principio della competenza oggettiva che fissa i limiti dell’efficacia dell’ordinamento. Il diritto razionale-formale e lo stato moderno, fondandosi sul tipo “razionale” o “legale” di potere, consentono a Weber di distinguere e valutare criticamente l’amministrazione burocratica dalle altre forme di apparato amministrativo appartenenti a forme differenti di organizzazione politica103. Com’è noto, l’organizzazione burocratica viene designata da Weber come «il modo formalmente più razionale di esercitare il potere». Sottolineando la specificità storica tutta moderna della burocrazia, Weber osserva che allo stato moderno è essenziale un «ordinamento amministrativo e giuridico» che funzioni e agisca come impresa di carattere continuativo: anzi è lo stato stesso ad essere paragonato da Weber a un’impresa al pari della fabbrica. Le caratteristiche peculiari della burocrazia sono così definite da Weber in Economia e società (cfr. ES, I, pp. 213-214): la burocrazia è vista come «un esercizio continuativo, vincolato a regole, di funzioni di ufficio» entro un definito campo di competenze; come «il principio della gerarchia degli uffici»; come un corpo di funzionari forniti di una preparazione professionale specializzata; come la «completa separazione dell’apparato amministrativo dai mezzi di amministrazione e di acquisizione»; come la mancanza di qualsiasi forma di «appropriazione» dell’ufficio da parte dei funzionari; come «il principio della conformità agli atti» dell’amministrazione e come il prevalere della disposizione scritta sulla discussione orale, cioè del carattere professionale del corpo dei funzionari. L’organizzazione burocratica, secondo Weber, ha trovato – a causa dei suoi molteplici e oggettivi vantaggi – una rapida diffusione non soltanto nell’amministrazione interna dello stato e delle altre istituzioni pubbliche, ma 103. Cfr. P.P. Portinaro, Max Weber. La democrazia come problema e la burocrazia come destino, cit., pp. 53-60; W. Schluchter, Burocrazia e democrazia. Sul rapporto tra efficienza politica e libertà politica in Max Weber, in Id., Il paradosso della razionalizzazione. Studi su Max Weber, cit., pp. 96-149 e C. Senigaglia, Teoria della burocrazia, in Id., Razionalità e politica. Fondamenti della riflessione di Hegel e di Weber sulla burocrazia, Milano 1996, pp. 215-276.

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Razionalità e diritto in Max Weber

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anche nell’impresa economica di tipo capitalistico. Weber ha sottolineato più volte il carattere di “impresa” dello stato moderno, inducendone il parallelismo con l’economia capitalistica moderna. Tuttavia, tra la burocrazia politico-amministrativa dello stato moderno e quella economica dell’impresa capitalistica non c’è soltanto un semplice parallelismo, ma è possibile, invece, rinvenirne una profonda connessione. L’organizzazione e la direzione del capitalismo moderno fondato sulla logica del mercato e del calcolo del capitale sono inconcepibili senza la protezione e la garanzia formale dell’ordinamento giuridico e del potere politico. Per Weber, come ha osservato Pietro Rossi, «alla base dello stato moderno e del capitalismo moderno vi è la medesima dimensione di razionalità formale, e quindi di “calcolabilità”, che permette da un lato al cittadino di prevedere il funzionamento dell’ordinamento giuridico e dall’altro all’imprenditore di comportarsi in base alle possibilità offerte dal mercato»104. Dunque, «il fondamento meccanico del capitalismo trova la sua empirica realizzazione nell’attività professionale, la quale, a sua volta, è costretta nella gabbia d’acciaio dell’agire determinato rispetto allo scopo. L’attività professionale trova la sua antonomasia nell’attività burocratica di pianificazione la quale organizza risorse materiali e umane in vista di scopi»105. L’organizzazione burocratica dell’impresa e dello Stato moderno è, per Weber «il frutto della modernità» attraverso le vie del disincantamento: essa si realizza con l’affermarsi della razionalità formale anche nel diritto. Al pari dello stato moderno – che opera in base a un diritto razionalmente statuito e secondo regolamenti razionalmente definiti – e della impresa capitalistica moderna – che si fonda interamente sul principio del calcolo –, anche altri campi della vita sociale vengono sempre più coinvolti dal generale processo di burocratizzazione, da quella «gabbia d’acciaio» che Weber ha “profetizzato” come il destino 104. Pietro Rossi, Max Weber. Razionalità e razionalizzazione, cit., p. 102. 105. T. Fabbri, Il disincanto: Max Weber, in R. Caccamo, Leggere il mutamento. Percorsi della sociologia, cit., p. 107.

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Antonio De Simone

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che pervade il processo di razionalizzazione formale-materiale che contraddistingue la modernità e che si presenta come «un processo globale con cruciali conseguenze sugli individui»106 e sul senso del loro agire.

106. Ivi, p. 110.

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Comunità e società nella crisi di legittimazione dello Stato nazionale

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I.

L

a sintesi hegeliana fra l’idea di società civile e quella di comunità grazie a un concetto forte ed eticamente connotato di Stato rappresenta il punto più alto dell’autocoscienza politica moderna. Nel suo quadro il conflitto d’interessi prodotto dal sistema dei bisogni caratteristico della società di mercato viene dialetticamente superato all’interno di un concetto assoluto di sovranità, capace di valorizzare l’elemento comunitario tipico dei legami familiari sul piano complessivo della nazione1. Tale modello teoretico rispecchia tuttavia anche il nucleo problematico della realtà statuale moderna. Come sottolinea Habermas2, Stato e nazione vengono a fondersi nel concetto di Stato nazionale soltanto a partire dalla fine del XVIII secolo. Da quell’epoca il riferimento all’appartenenza nazionale costituisce il momento positivo a partire dal quale i «sudditi della nazione» si trasformano in cittadini politicamente attivi. La nazionalità rappresenta, infatti, la modalità di legittimazione di cui lo Stato secolarizzato aveva bisogno, dopo che la secessione religiosa della riforma ne aveva reso impossibile la legittimazione tramite la grazia divina. A ciò seguì un lento processo di sviluppo, che 1. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto: diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, a cura di G. Marini, Roma 1999. 2. Cfr. J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Frankfurt a.M. ²1997, p. 130.

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Gregor Fitzi

nell’arco di un secolo portò all’instaurarsi di una «nuova cittadinanza» fondata sulla partecipazione democratica, cosicché lo «Stato del principe» dovette infine far posto allo «Stato del popolo». Per poter sussistere, tale «repubblica formale» richiedeva tuttavia la forza integrativa della «nazione dei cittadini». Conseguenza di ciò fu una duplice codificazione della cittadinanza: lo status del citoyen definito tramite la carta dei diritti del cittadino implicava, infatti, il presupposto prettamente culturale dell’appartenenza al popolo. Sorsero così quelle ambivalenze nel rapporto fra repubblicanesimo e Stato nazionale che in seguito degenerarono nelle tendenze espansionistiche della politica di potenza e nel razzismo. Di conseguenza il concetto di cittadinanza può essere interpretato in due modi opposti: da un lato nel senso della nazione dei cittadini che si concepiscono come altrettanti «patrioti costituzionali» propugnando la libertà nazionale in termini cosmopolitici e non espansionistici; dall’altro, però, la nazione può essere concepita anche in senso naturalistico, come una grandezza prepolitica, poiché il concetto stesso di Stato nazionale implica la tensione fra l’universalismo di una comunità di diritto egualitaria e il particolarismo di un destino storico condiviso. Tale ambivalenza è per Habermas inoffensiva finché la concezione cosmopolitica della nazione dei cittadini mantiene il sopravvento. La virtù repubblicana si trova invece in pericolo, quando la forza integrativa della nazione dei cittadini viene ricondotta alla fattualità prepolitica dell’idea di un popolo primigenio. Essa rende infatti necessario il ricorso a una fondazione mitica dell’appartenenza nazionale per spiegare le modalità attraverso cui si costituisce quella fondamentale unità, su cui si edifica lo Stato. Tale forma di nazionalismo si presta così alle strumentalizzazioni politiche volte a manipolare le tensioni sociali della moderna società industriale a vantaggio delle tendenze espansionistiche di tipo imperialista. L’idea hegeliana di Stato nazionale rappresenta comunque la soglia teorica che introduce alla riflessione contemporanea sulla «sintesi politica» delle società complesse e sulla sua intrinseca

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Comunità e società nella crisi di legittimazione dello Stato

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difficoltà. La capacità dello Stato di superare il dualismo fra l’aspetto meccanico e organico, ovvero fra quello materiale e astratto della realtà sociale moderna, resta, infatti, un miraggio sullo sfondo dell’orizzonte a cui guardano le concezioni post-hegeliane della società. Di conseguenza, il concetto di Stato svolge la funzione di un ideale regolativo tendenzialmente irraggiungibile nell’ambito dell’autorappresentazione, che la società fondata sul modo di produzione capitalistico ha di se stessa, poiché essa vede la ragione stessa della sua esistenza nel «conflitto fondamentale» fra le classi sociali che la caratterizza. Le dottrine politiche del primo Ottocento tendono così a loro volta a vagheggiare una sintesi fra l’elemento comunitario e quello societario della convivenza, avvalendosi di proiezioni ideologiche o utopistiche che la rimandano a un ambito trascendente rispetto all’orizzonte della società moderna. Ne sono esempio da un lato le concezioni del socialismo utopistico – ma anche l’idea di una «comunità politica» in cui il cittadino supera la condizione del borghese per realizzare compiutamente il suo essere politico, esposta da Marx nel saggio sulla questione ebraica3; dall’altro lato tali proiezioni teoriche inseguono la chimera di una sintesi organica degli interessi sociali appoggiandosi alla visione ideologica e idealizzata della società d’ancien régime, che ricorre negli scritti del cosiddetto «romanticismo politico»4. Verso la metà del XIX secolo il forte contrasto prodotto dall’impetuoso sviluppo della tecnica e dei risultati delle scienze naturali di fronte alla miseria della realtà sociale spinge invece a tentare di ricondurre la tensione utopistica di riforma sociale all’interno dell’alveo del pensiero scientifico. Si assiste così alla nascita della scienza sociale moderna sulla base dell’impul3. Saint-Simon, Doctrine de Saint-Simon, Parigi 1829; K. Marx, La questione ebraica. Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, a cura di Raniero Panzieri, Roma 2000. 4. A.H. Müller, Die Elemente der Staatskunst: 36 Vorlesungen, Berlin 1968 [1808-1809], tr. it. Gli elementi dell’arte politica, a cura di M. Mori, Milano 1989.

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so prodotto dallo «spirito positivo» che caratterizza l’autocoscienza del progresso materiale e intellettuale tipico delle forze-guida dello sviluppo economico dell’epoca. La concezione della sociologia propugnata dai suoi fondatori, quali Comte e Spencer, è così legata a doppio filo all’idea di poter trasporre categorie e metodi delle scienze naturali se non alla soluzione, almeno alla terapia dei conflitti della società moderna, senza dover peraltro ricorrere a un suo utopistico superamento5. Non è un caso che la «coscienza positiva» di una possibile soluzione del conflitto insito alla struttura della società moderna, nasca in paesi quali l’Inghilterra e la Francia, che già conoscono uno sviluppo più avanzato delle strutture economiche e sociali moderne. Essi possono, infatti, guardare ai fenomeni di dissoluzione delle strutture feudali della convivenza come a un risultato già in buona parte acquisito. Saranno in questo caso Engels e Marx a mostrare col loro lavoro d’analisi della società capitalistica come tale concezione progressistico-positivista sia una visione parziale della società moderna prodotta dalla realtà sociale della borghesia imprenditoriale, mentre nella stessa epoca le classi lavoratrici registravano un peggioramento delle loro condizioni di vita6. Completamente diversa da quanto si può osservare nel caso di Francia e Inghilterra è invece la percezione della trasformazione sociale in atto nei paesi che erano giunti soltanto da poco a uno sviluppo economico di tipo capitalistico moderno e segnatamente nella Germania della seconda metà del XIX secolo. Sull’onda delle guerre napoleoniche seguite alla Rivoluzione Francese, la Germania aveva conosciuto un sussulto nazionalistico che finiva per identificare la coscienza nazionale con tutto 5. A. Comte, Discorso sullo spirito positivo, a cura di Antimo Negri, RomaBari 2001; Id., Corso di filosofia positiva, a cura di Almerino Lunardon, Brescia 1987; H. Spencer, Principi di sociologia, a cura di Francesco Ferrarotti, Torino ²1987. 6. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra [1842], ora in Id., Marx-Engels Opere, vol. IV, Roma 1972, pp. 235-514; K. Marx, La giornata lavorativa [1867], in Id., Il capitale, Roma 1972, pp. 251-330.

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Comunità e società nella crisi di legittimazione dello Stato

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quanto vi era di opposto ai valori razionalisti rivoluzionari. Al fenomeno del risveglio nazionale tedesco fece tuttavia seguito un’epoca d’impetuoso sviluppo capitalistico, che conobbe il suo punto più alto nella fase successiva all’unificazione e costrinse il Kaiserreich tedesco a bruciare le tappe di una trasformazione che gli altri paesi avanzati avevano visto distribuirsi sull’arco di un secolo. Le strutture feudali della convivenza, che avevano continuato a sussistere a causa della frammentazione del «Sacro Romano Impero della Nazione tedesca», furono così spazzate via nel corso di pochi decenni, espellendo gran parte della popolazione rurale verso le agglomerazioni urbane e segnatamente verso la metropoli berlinese, che conobbe uno sviluppo urbano drammatico. I problemi sociali che ne derivarono furono enormi e produssero un affresco vivente dell’inarrestabile distruzione delle forme comunitarie della convivenza provocata dall’affermarsi della moderna società capitalistica. Non vi era certo miglior riscontro empirico di questo per dimostrare il fondamento di quelle concezioni politiche nostalgiche che, legando il romanticismo letterario con l’ideologia della rivalsa nazionale sorta durante la conquista napoleonica, cercavano di reperire nelle strutture sociali d’ancien régime un modello atto a superare i disagi e i conflitti sociali della modernità. Di fronte a tale realtà la scienza dello Stato tedesca fu portata a dare un forte impulso agli studi storici sia sulla struttura e sulle istituzioni delle società premoderne, sia sulle caratteristiche dei movimenti politici protagonisti della trasformazione dei paesi occidentali7. Da tale crogiuolo di ricerche sorse però 7. O. v. Gierke, Das deutsche Genossenschaftsrecht, vol. I, Rechtsgeschichte der deutschen Genossenschaft, Berlin 1868; vol. II, Geschichte des deutschen Körperschaftsbegriffs, Berlin 1873; vol. III, Die Staats- und Korporationslehre des Alterthums und des Mittelalters und ihre Aufnahme in Deutschland, Berlin 1881; vol. IV, Die Staats- und Korporationslehre der Neuzeit, Berlin 1913. L. v. Stein, Sozialismus und Kommunismus im heutigen Frankreich, 2 voll., 1842-50; Id., Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich von 1789 bis auf unsere Tage, 3 voll., 1850; Id., Das System der Staatswissenschaft, 2 voll., 1852-56.

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anche l’esigenza di una sistematizzazione concettuale e di una fondazione metodologica delle scienze sociali, che darà corpo a quella particolare corrente di pensiero nota con il nome di «sociologia classica tedesca». Nel suo àmbito la questione del contrasto fra le forme di convivenza societaria e comunitaria, come della loro mancata sintesi in un concetto sintetico come quello dello Stato hegeliano, assunse un valore particolare su cui occorre soffermarsi per poter comprendere lo sviluppo che tale problematica ebbe poi nell’opera di Weber e della Arendt, ossia nella riflessione socio-politica successiva rispettivamente alla crisi della Prima e della Seconda Guerra mondiale. Si deve a Ferdinand Tönnies il primo tentativo di sistematizzare i risultati delle ricerche storiche sulle differenze strutturali fra la società antica e quella moderna all’interno di un progetto di fondazione della sociologia come scienza. Traendo spunto dagli studi storici di Gierke e Sumner Maine, dalla riflessione di Schleiermacher sulla socialità, come anche dalla distinzione marxiana fra i concetti di socialismo e comunismo8, Tönnies nell’opera omonima elaborò una teoria della comunità e della società come forme fondamentali della convivenza9. Al di là di tutte le sue ulteriori caratteristiche, vi sono due aspetti della riflessione di Tönnies che occorre sottolineare. Tönnies, infatti, da un lato si sforza di neutralizzare il più possibile la connotazione ideologica della dicotomia fra comunità e società, analizzando le caratteristiche strutturali di entrambe le forme della convivenza da un punto di vista meramente descrittivo, senza entrare nella polemica sulla conflittualità della realtà sociale moderna. Si potrebbe anzi affermare che il fatto stesso che Tönnies limiti programmaticamente la sua analisi «alle forme positive della convivenza», è volto a mostrare quanto le forme della conviven8. F. Tönnies, Die Entstehung meiner Begriffe Gemeinschaft und Gesellschaft, «Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», 3, 1955(VII), 1955, pp. 463-467, p. 463. 9. F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft. Grundbegriffe der reinen Soziologie, Leipzig 1887, 21912 riveduta e ampliata, Berlin; tr. it. a cura di G. Giordano, Milano 1963.

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Comunità e società nella crisi di legittimazione dello Stato

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za societaria siano in realtà dei rapporti di sostegno reciproco e non delle mere forme di conflitto fra soggetti sociali. Dall’altro lato Tönnies incentra la sua analisi delle forme della convivenza comunitaria sul modo in cui al suo interno si forma una volontà comune e segnatamente sulle «forme del consenso» che le permettono di agire come un’unità. L’accento della teoria della comunità si sposta così dal piano dell’enfasi sulla natura organica e primigenia dei suoi legami allo studio della particolare problematica del consenso che ne garantisce la coesione. L’attenzione non s’incentra più sul contrasto fra comunità e società, organismo e meccanismo, ma sull’opposizione fra consenso e contratto quali momenti fondanti la costituzione dei legami di convivenza. L’importanza di tale passaggio sta nel fatto di permettere una considerazione scientifica delle differenti modalità d’associazione, allontanandosi dalla polemica ideologica tendente a privilegiare l’interesse per una di loro. Sarà poi soprattutto Weber a mettere a frutto le potenzialità di tale distinzione analitica per lo sviluppo di una teoria sociologica del potere e dello Stato. Il portato dell’analisi tönnesiana è, infine, quello di ricollocare la questione della dicotomia fra comunità e società dal piano diacronico a quello sincronico. Da un punto di vista sociologico non si tratta quindi di affrontare una distinzione fra tipi di convivenza moderni e premoderni, bensì della distinzione fra due modalità d’associazione che sono fondate rispettivamente sul consenso oppure sul contratto e la cui prevalenza caratterizza un’epoca piuttosto che un’altra. Pur salutando la nascita d’istituzioni volte ad alleviare in senso solidaristico e comunitario le conseguenze della disuguaglianza sociale moderna, Tönnies rimase sempre molto scettico di fronte all’idea di risolvere i conflitti della società industriale grazie a una sintesi etico-politica dei suoi elementi secondo il modello hegeliano. Nel suo pensiero la modernità si caratterizza così per la sua insuperabile matrice dicotomica, senza che ciò debba per forza portare a un crollo della società capitalistica a favore di un suo superamento in senso comunitario.

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II. Nel travagliato percorso che lo ha portato a gettare le basi di un sistema categoriale capace di fondare la sociologia, e che sfocerà nella pubblicazione postuma di Economia e società, Max Weber ha tenuto conto del lavoro concettuale di Ferdinand Tönnies soprattutto nella prima fase di stesura del suo contributo per il Grundriss der Sozialökonomik. Si tratta quindi degli anni che vanno dal 1909 al 191310 e che si chiudono con la pubblicazione del saggio sulle categorie sociologiche fondamentali nella rivista del «neokantianismo del Baden», il Logos11. In tale saggio Weber fonda la sua «analisi comprendente» del mondo sociale sulla dicotomia fra l’«agire in società» e l’«agire di consenso», mettendo in luce il suo debito nei confronti della distinzione categoriale introdotta da Tönnies ma reinterpretandone al contempo profondamente il significato. Il fuoco dell’analisi passa, infatti, dalle forme della convivenza ai tipi dell’agire, introducendo un momento schiettamente processuale nella fondazione teorica della sociologia12. Non sono così gli aggregati sociali a costituire il suo oggetto di studio, bensì l’attività degli individui, che li producono. Il saggio del 1913 si presenta nelle vesti di un’analisi critica del modello contrattualista tipico del pensiero politico moderno. Seguendo la premessa che la società si fonda su di un contratto fra gli individui, in essa conviventi, si giunge alla conclusione che la forma contrattuale dell’agire rappresenta la base di 10. W. Schluchter, Wirtschaft und Gesellschaft – das Ende eines Mythos, in J. Weiß (a cura di), Max Weber heute. Erträge und Probleme der Forschung, Frankfurt a.M. 1989, pp. 55-89. 11. M. Weber, Über einige Kategorien der verstehenden Soziologie, in Id., Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tübingen 1988, pp. 427-474; tr. it. in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, a cura di Pietro Rossi, Torino 2003, pp. 181-239. 12. È la lezione simmeliana che si fa sentire in questo ambito. Cfr. G. Simmel, Soziologie, ora in Georg Simmel Gesamtausgabe, vol. XI, Frankfurt a.M. 1992, tr. it. Sociologia, a cura di G. Giordano, Torino 1998.

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tutto l’edificio sociale, poiché porta alla statuizione delle norme e degli ordinamenti che ne regolano il funzionamento. Accade, però, e questa è l’osservazione cruciale proposta da Weber, che si abbiano forme dell’agire in cui gli individui operano come se (als ob) un processo di statuizione avesse avuto luogo, anche se ciò non è accaduto. Vi sono allora rapporti sociali regolati da un sostanziale consenso (Einverständnis) rispetto a comuni modalità dell’agire, senza che esso sia necessariamente preceduto da un processo di contrattazione degli ordinamenti scritti o taciti, che le regolano. La domanda che allora si pone è quella relativa alla loro origine: se non sono di tipo pattizio tali ordinamenti possono essere di tipo tradizionale, oppure essere il prodotto dell’attività governamentale di un’istanza sociale volta a dettare le regole dell’agire. Con ciò si apre la questione dell’inquadramento sociologico del fenomeno politico o, per dirla con Weber, del potere inteso come dominio (Herrschaft), ossia come un rapporto sociale in cui una parte «dà gli ordini» e l’altra «li esegue» sulla base di un consenso ormai interiorizzato, che legittima l’istanza di potere13. Dal fuoco di tale problematica si svilupperà l’intera tipologia delle forme dell’agire e delle forme del potere, che caratterizza Economia e società14. In tale passaggio della riflessione di Weber si ritrova tuttavia anche il “precipitato” di tutta la tradizione della dottrina tedesca dello Stato e soprattutto della contrapposizione fra la scuola storica e la scuola razionalistica del diritto, cui già Tönnies aveva fatto riferimento15. Weber però concentra l’attenzione sul fatto che non tutta la somma dei rapporti sociali è riconducibile alla metafora dell’accordo contrattuale, poiché segnatamente la costituzione e il funzionamento dei rapporti politici vi sfugge. 13. Cfr. M. Weber, Economia e società, a cura di Pietro Rossi, Torino 1999, vol. I, p. 52; soprattutto il passaggio definitorio fra il concetto di potere e quello di disciplina. 14. Ivi, pp. 21-23 (Fondamenti determinanti l’agire sociale) e pp. 210-211 (Tipi di potere legittimo). 15. Cfr. F. Tönnies, Die Entstehung meiner Begriffe Gemeinschaft und Gesellschaft, cit., pp. 463-467.

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Leggendo la questione dal punto di vista della dottrina politica su cui tornavano Hegel e Habermas, si può allora osservare che nella riflessione weberiana vi è un implicito riferimento al fatto che l’integrazione dello Stato moderno non si compie soltanto in virtù degli ordinamenti contrattuali caratteristici della costituzione repubblicana, ma anche sulla base di un’appartenenza consensuale identificata tradizionalmente con l’idea della nazione. All’interno del linguaggio avalutativo ossia politicamente neutralizzato della sociologia classica tedesca, tutto ciò assume, tuttavia, una veste semantica profondamente diversa da quella della dottrina politica. Non è un concreto principio di valore, o un’esperienza storica condivisa, che attraverso l’«agire di consenso» legittima per Weber gli ordinamenti sociali e l’esercizio del potere politico. Si tratta, invece, di una «forma di comunicazione» non più biunivoca come quella contrattuale bensì unidirezionale, poiché contempla il fatto che una parte indichi quale modalità dell’agire sia da adottare e che l’altra acconsenta a tale indicazione in modo consensuale. È perciò che l’agire di consenso caratterizza i fenomeni d’istituzionalizzazione dell’agire e segnatamente la dinamica di legittimazione tipica delle relazioni politiche, mentre l’«agire in società», ossia la modalità pattiziocontrattualista della convivenza, costituisce il cardine su cui si fondano i rapporti socio-economici tipici della moderna società di mercato. A tali considerazioni sul fondamento delle relazioni sociali, Weber affianca poi una ricostruzione dei rapporti sociali più complessi volta a tracciare il percorso attraverso cui l’intera realtà sociale può essere derivata a partire dai semplici rapporti associativi o consensuali fra gli individui. La sociologia weberiana passa così dalla questione relativa alle istanze necessarie a garantire gli accordi prodotti attraverso l’attività patrizia degli individui, alla ricostruzione delle strutture sociali che permettono la sussistenza del diritto e l’applicazione delle sue sanzioni, per giungere alla definizione del concetto di gruppo sociale (Verband) quale organismo capace di esercitare il potere su di

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un determinato numero di individui, regolamentandone l’agire in base a delle norme sanzionate. Con riguardo alle strutture di potere che caratterizzano il Verband, Weber propone poi la nota tipologia fondata sulla considerazione delle forme di legittimazione che le caratterizzano. Si ha così la distinzione fra il «potere burocratico-razionale», il «potere tradizionale» e il «potere carismatico». Tale tipologia vale, tuttavia, per ogni forma d’esercizio del potere, da quella che caratterizza un partito politico a quella interna a un’azienda, da una corporazione medievale fino ad arrivare alle differenti forme moderne del potere politico16. Ciò che invece provoca il passaggio alla forma territoriale moderna del potere, da cui si sviluppa poi lo Stato nazionale, è rappresentato per Weber dalla capacità di uno dei politische Verbände presenti su di un determinato territorio di imporsi come monopolista del ricorso legittimo all’uso della forza, dando così luogo alla nascita della comunità politica (politische Gemeinschaft), il cui concetto rappresenta il nucleo della sociologia weberiana dello Stato17. In conseguenza di tale costruzione concettuale la dicotomia fra l’agire in società e l’agire di consenso è reperibile in tutto lo sviluppo di Economia e società e specialmente nei testi di stesura più antica, rispetto ai quali Weber non aveva ancora portato a termine quella semplificazione terminologica che caratterizza, invece, il primo capitolo dell’opera sui concetti sociologici fondamentali o i passaggi più recenti dei testi di cui si ha una doppia versione come, ad esempio, la sociologia del potere. Dal punto di vista della dottrina politica, nella ricostruzione sociologica delle macrostrutture istituzionali che conformano lo Stato moderno si riscontra invece la presenza di alcune opzioni teoriche che Weber utilizza sottotraccia, pur mantenendo salva la distinzione metodologica fra giudizi di valore e giudizi descrittivi. Una di tali opzioni, quella relativa alla questione della sovranità, gioca un ruolo de16. Cfr. M. Weber, Economia e società, cit., vol. I, pp. 207-251. 17. Cfr. ivi, vol. IV, pp. 1 s.

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cisivo per l’analisi weberiana della funzione sociale del potere e in modo particolare di quella dello Stato moderno quale sua massima espressione. La sussistenza dello Stato nazionale, inteso come il garante del diritto su di un determinato territorio, costituisce una delle preoccupazioni caratteristiche della riflessione politologica e sociologica successive alla Prima Guerra mondiale. La drammaticità della questione delle «nazionalità senza Stato», prodotta dal dissolvimento degli imperi centrali, metteva infatti in forse il rapporto fra il principio comunitario della nazione e quello societario della repubblica formale tipici dello Stato moderno. Nella sua ricostruzione concettuale del fenomeno politico, che comincia prima della guerra e non subisce variazioni sostanziali in seguito, Weber tuttavia concentra la sua attenzione sui fenomeni disgregativi interni allo Stato nazionale tedesco, proponendo una diagnosi e delle linee d’intervento per affrontarne lo sviluppo18. La struttura federale imperfetta dello Stato, caratterizzata dalla predominanza della Prussia sulle altre realtà regionali, lo spinge così a concepire una redistribuzione dei poteri fra le regioni tedesche. La problematica cui Weber è maggiormente sensibile è però quella della burocratizzazione dello Stato moderno. La burocrazia incorpora l’elemento razionale delle procedure d’amministrazione dello Stato, che rappresenta un’acquisizione ineliminabile della modernità; d’altro canto essa tende a soffocare la vita politica, poiché ne traduce lo svolgimento in procedure amministrative coperte dal segreto e volte esclusivamente al soddisfacimento degli interessi dell’esecutivo. Tale momento di crisi, che trasforma l’efficiente macchina amministrativa burocratica in uno strumento di potere impermeabile all’indagine critica dell’opinione pubblica e insofferente agli indirizzi delle istanze politiche parlamentari, rappresenta per Weber uno dei maggiori pericoli cui è sottoposto lo sviluppo dello Stato moderno. 18. M. Weber, Parlamento e governo: per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti, tr. it. a cura di Francesco Fusillo, Roma-Bari 2002.

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Infatti la burocratizzazione della politica provoca da un lato lo sviluppo autoritario dello «Stato del popolo» (Volksstaat) nello «Stato dell’élite politico-amministrativa» (Obrigkeitsstaat)19, comportando, dall’altro, una crescente incapacità dell’apparato statale a reagire alle novità del quadro politico, poiché la sua guida si impernia sul ceto burocratico amministrativo e non su quello dei politici di professione. L’altro pericolo che Weber vede emergere dalla struttura sociale del fenomeno politico moderno, riguarda invece proprio tale ceto politico professionale. La massificazione dei partiti politici moderni ne porta alla guida i leader dotati delle capacità demagogiche che permettono di conquistare le maggioranze assembleari dapprima all’interno dei partiti e poi nel parlamento. Avviene così che dei demagoghi senza scrupoli possano scalare le vette dei partiti e appropriarsi poi dei posti-chiave nella guida politica dello Stato. Vi è tuttavia per Weber un modo di ovviare a tali pericoli ricorrendo a un rafforzamento dei poteri del parlamento quale istanza di controllo dell’amministrazione e di selezione del personale politico, cosicché da un lato l’operato della burocrazia venga reso pubblico ed emendato e dall’altro, passando attraverso la fucina del lavoro parlamentare, i demagoghi possano trasformarsi negli statisti al contempo responsabili e carismatici, di cui necessita la guida del moderno Stato burocratico. Al contrasto politologico fra l’elemento comunitario della nazione e quello societario della repubblica formale viene così a giustapporsi il contrasto sociologico fra l’aspetto burocraticorazionale e quello personale-carismatico della vita politica, necessari al funzionamento dello Stato moderno. Weber affronta la problematica appoggiandosi a una costruzione concettuale, che mostra quanto il suo pensiero sia legato all’idea di una sovranità forte quale garanzia irrinunciabile sia della sussistenza sia della legittimità dello Stato, il cui modello è reperibile nella dottrina politica di Thomas Hobbes20. La concezione della «sovranità 19. Cfr. ivi, p. 44. 20. T. Hobbes, Leviatano, a cura di Tito Magri, Roma 1998.

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popolare», tipica della riflessione liberale post-hobbesiana, e il suo fondamento sul rispetto dei diritti dell’uomo e del cittadino quale fonte ultima di legittimazione dello Stato di diritto, non trovano, invece, un’adeguata ricezione nel pensiero politico di Weber. La sua tarda riflessione sulle istituzioni necessarie all’impianto costituzionale della Repubblica di Weimar, tenderà anzi a identificare nell’elezione popolare del presidente della repubblica lo strumento capace tanto di garantire l’esercizio di un forte potere esecutivo, quanto di fungere da correttivo carismatico rispetto al potere delle burocrazie partitiche e statuali, accentuandone così l’aspetto personalistico e plebiscitario. Tale forma mentis weberiana è stata ampiamente criticata, accusandola di rappresentare una concessione del pensiero sociologico alla visione del potere politico assoluto che secondo alcuni interpreti avrebbe concorso poi a legittimare le dottrine giuridiche che negli anni Trenta spianarono la strada al totalitarismo21. Vi è certamente la questione del rapporto di contiguità e di distanza fra il pensiero di Weber e quello di Carl Schmitt, su cui occorrerebbe aprire una discussione che non è possibile sviluppare in questo ambito22. Ciò che tuttavia è importante sottolineare, è la forte preoccupazione di Weber volta ad assicurare la sovranità quale fondamento tanto della legittimità del moderno Stato di diritto quanto della sua capacità di azione di fronte a una realtà politica e sociale come quella successiva alla Prima Guerra mondiale, che ne metteva in forse l’esistenza. A differenza di quanto osserverà la Arendt dopo la Seconda Guerra mondiale, la problematica della dissociazione fra il momento comunitario-nazionale e quello formale-razionale della cittadinanza non rappresenta per Weber l’aspetto cruciale a partire dal quale si sviluppa la crisi della funzione di garanzia dello Stato moderno. Weber aveva certo registrato la necessità di legare l’intera nazione a un’istituzione politica 21. W.J. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca, tr. it. a cura di Domenico Conte, Bologna 1993. 22. Cfr. ivi, p. 565, nota 159.

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rappresentativa come quella del presidente eletto a suffragio universale diretto, garantendo in tal modo l’«identificazione comunitaria» dei cittadini con le istituzioni statali. Ciò che però lo preoccupava maggiormente, specie nella fase successiva alla Prima Guerra mondiale, era quella che si potrebbe chiamare la “tendenza entropica” dell’edificio politico ereditato dal Kaiserreich. Infatti da un lato esso veniva a chiudersi nel segreto amministrativo della burocrazia prussiana, dall’altro a sbriciolarsi sotto gli urti della rivoluzione dei consigli e dei tentativi restaurativi delle forze politiche reazionarie. Tale situazione di decadenza e d’immobilismo dello Stato tedesco – di cui vedeva le origini nella politica di Bismarck che aveva relegato troppo a lungo il parlamento in una funzione meramente consuntiva, impedendo la selezione di leader politici capaci nel suo ambito – poteva per Weber essere superata soltanto a condizione di puntare tutto sull’elemento umano, ossia facilitando l’accesso al potere dei politici di professione, che avrebbero interrotto il ciclo autoreferenziale dell’amministrazione burocratica dello Stato per dirigerne l’attività verso nuovi orizzonti politici. Per ovviare alla degenerazione politica successiva alla guerra, Weber proponeva così un modello, il cui cardine sarebbe stato un forte leader carismatico eletto a suffragio universale diretto, cui avrebbe fatto da contrappunto un parlamento dotato di forti poteri di controllo. In tal modo Weber intendeva scongiurare la crisi dello Stato tedesco nel delicato passaggio della sua trasformazione in repubblica, guarendo quelle che gli apparivano le sue due maggiori storture: l’eccessivo potere della burocrazia e l’accesso incontrollato ai vertici dell’edificio politico dei demagoghi privi di formazione politica parlamentare. La mancanza di sensibilità per il formalismo democratico, che caratterizza il pensiero di Weber soprattutto nella concezione dei poteri discrezionali del presidente e la sua eccessiva fiducia nell’elemento carismaticopersonale della politica moderna, pesarono fortemente sulla sua diagnosi, che fu certamente affrettata poiché dettata dalle incertezze e dai timori dei primi anni successivi alla guerra. Nel-

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l’elaborazione della costituzione per la Repubblica di Weimar, Hugo Preuss tenne conto delle idee di Weber, senza tuttavia seguirne alla lettera il dettato. Nell’arco di tempo che va dalla morte di Weber nel 1920 fino al collasso della repubblica nel 1933, si succedettero poi una serie di dibattiti, polemiche e reinterpretazioni dell’architettura costituzionale weimariana, di cui Carl Schmitt fu uno dei maggiori protagonisti, piegando sempre più l’interpretazione delle prerogative costituzionali del presidente al progetto politico volto a instaurare la dittatura. Non possiamo sapere come Weber avrebbe reagito a tali sviluppi, anche se si deve riconoscere la sua tendenza a sopravvalutare l’impatto positivo del potere carismatico-plebiscitario per lo sviluppo della Repubblica di Weimar. La risposta di Weber alla problematica del rapporto fra comunità e società nella realtà politica moderna è dettata dalla preoccupazione per la crisi endogena dello Stato, che ne provocherebbe il dissolvimento a causa di una perdita di sovranità e di capacità operativa. La sua diagnosi politica è quindi volta a ovviare a ciò, reinstaurando la sintesi fra l’elemento societario e quello comunitario dello Stato, visti però dal punto di vista sociologico, ossia facendo interagire fra loro la burocrazia e la leadership carismatica all’interno di un circolo virtuoso prodotto dalla loro sottoposizione all’istanza regolativa di un forte parlamento. Quest’ultimo rappresenta il nucleo del progetto costituzionale weberiano volto a temperare i due mali necessari dello Stato moderno, la burocrazia e il potere carismatico. La crisi della Repubblica di Weimar dimostrerà le debolezze della diagnosi politica che Weber aveva proposto fra il 1917 e il 1920, sviluppandosi negli anni successivi nella direzione che porterà alla tragedia del totalitarismo e dello sterminio.

III. L’esito della Prima Guerra mondiale impresse alla struttura politico-istituzionale del continente europeo uno sviluppo che

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portò in breve tempo alla sua crisi sia sul piano dei rapporti interstatuali, sia all’interno degli Stati nazionali. Max Weber non fu testimone di tale processo, cosicché l’interrogazione sul rapporto fra l’aspetto nazionale-comunitario e quello costituzionale-societario nella crisi dello Stato moderno, che portò allo sviluppo del totalitarismo, deve fare un passo avanti e rivolgersi a quanti ne hanno tentato un’analisi alla fine della sua parabola. Della realtà politica successiva alla Prima Guerra mondiale Hannah Arendt disegna un affresco al contempo lucido e impietoso nel suo studio sulle origini del totalitarismo23. Fenomeni quali la disoccupazione di massa, la guerra civile, le migrazioni e la conseguente presenza di profughi non assimilati caratterizzarono in effetti la maggior parte dei paesi europei negli anni Venti. L’«apolidicità», ossia la privazione dei diritti umani e politici garantiti dalla cittadinanza, relegò infine masse rilevanti della popolazione europea in una condizione di sostanziale assenza di statuto legale. I cittadini dello «Stato nazionale» si trovarono così a convivere con gruppi sempre maggiori di persone per le quali cessarono di valere le norme giuridiche e di civile convivenza del mondo circostante, continuando però a vederle come una mera eccezione rispetto al quadro normativo dello Stato di diritto. Tuttavia ciò avrebbe ben presto portato a un’estensione della deprivazione dei diritti a gruppi sempre più importanti della popolazione, fino a investirne il suo complesso col trionfo dei regimi totalitari. Alla situazione prodottasi dal deterioramento del sistema giuridico interstatuale si accompagnò inoltre un processo di progressiva disgregazione della vita politica interna agli Stati nazionali: un fenomeno diffuso anche nei paesi usciti vincitori dalla guerra ma predominante nei paesi sconfitti, specie in quelli sorti dalla caduta dell’Austria-Ungheria e del regime zarista. In interessante contrasto con la diagnosi weberiana dell’onnipotenza della moderna burocrazia, tale crisi politica 23. H. Arendt, Le origini del totalitarismo [1948], tr. it. a cura di S. Forti e A. Martinelli, Torino 2004, qui citato con ODT, cap. IX, pp. 372-419.

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per Arendt fu contrassegnata dal tracollo della «burocrazia dispotica accentrata» degli imperi plurinazionali che ne aveva permesso fino ad allora la tenuta istituzionale, legando la congerie di nazionalità che li costituiva a un’identità statuale unica. Finita la guerra, ogni gruppo etnico nazionale si trovava invece schierato contro tutti gli altri e, in particolare, contro il vicino più immediato, permeando la mappa dell’Europa orientale e meridionale di un groviglio indistricabile di conflitti: i Cechi contro gli Slovacchi, i Russi contro gli Ucraini, i Croati contro i Serbi e così via (ODT 373). Ancor più grave era il danno provocato da un secondo lascito della guerra, ossia la nascita delle «minoranze senza Stato». Tali minoranze rappresentavano l’equivalente degli apolidi sul piano delle nazionalità, poiché erano prive di un governo che le rappresentasse e le proteggesse, costituendo dei gruppi oppressi, che avevano perso i loro diritti politici e umani, considerati fino ad allora inalienabili. Nella migliore delle ipotesi, esse vivevano al riparo della legge eccezionale dei trattati sulle minoranze, o nella peggiore al di fuori di ogni legge, alla semplice mercè della tolleranza altrui. Le minoranze dell’Europa orientale e meridionale e gli apolidi che si sparsero in folti gruppi in Europa centro-occidentale finirono così per rappresentare un nuovo elemento di disgregazione all’interno dell’architettura istituzionale europea, sia statuale sia interstatale. Gli indesidérables che gli altri avevano cacciato restarono tali anche nei paesi di accoglienza, cosicché i regimi totalitari ebbero buon gioco nell’affermare che gli inalienabili diritti dell’uomo e le pretese della democrazia fossero una pura ipocrisia. La «denazionalizzazione» degli individui e delle minoranze divenne di conseguenza un’arma a disposizione dei governi totalitari, cui si associava l’incapacità dei governi democratici nel garantire i diritti umani ai popoli perseguitati. Oltre a ciò, però, anche la questione della sovranità degli Stati nazionali costituiti, cui all’indomani della guerra andava la preoccupazione di Weber, si trasformò per Arendt in un’illusione a causa delle moderne condizioni del potere prodotte dall’imperialismo e dall’espansionismo. Per

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tutti, infatti, tranne che per i grandi Stati imperialisti la cui ascesa, insieme alla comparsa dei pan-movimenti, aveva minato la stabilità del sistema interstatuale europeo, l’affermazione della sovranità nazionale era divenuta un’utopia. La disintegrazione interna agli Stati nazionali cominciò, invece, solo qualche tempo dopo la guerra, con la comparsa delle minoranze create dai trattati e col crescente afflusso di profughi provocato dalle rivoluzioni. Per Arendt fu principalmente l’incapacità politica dei negoziatori dei trattati di pace nell’inquadrare lo stato di crisi del sistema politico europeo a produrre tale realtà, che tese a risolvere il problema delle nazionalità tramite la creazione di nuovi Stati nazionali e la stipulazione di trattati sulle minoranze24. Nell’Europa orientale e meridionale mancavano, infatti, le condizioni di base per la sussistenza degli Stati nazionali, ossia l’omogeneità della popolazione e il radicamento alla terra, come mostrava la stessa carta etnografica di tali regioni. Più popoli furono allora raggruppati in uno Stato e fu data a uno di essi la qualifica di «popolo statale» presupponendo che gli altri avrebbero avuto una parte adeguata nell’amministrazione del paese, cosa che invece non avvenne. Il resto delle nazionalità fu invece trasformato arbitrariamente nel gruppo delle «minoranze», rispetto alle quali gli Stati dovevano osservare speciali norme. Si avevano così popoli statali, cui si contrapponevano popoli senza Stato riconosciuti come 24. Le cancellerie erano interessate al mantenimento per quanto più possibile dello status quo, tuttavia esse non potevano negare il diritto all’autodeterminazione a 100 milioni di europei quando si apprestavano a riconoscerlo ai popoli coloniali. La creazione di nuovi Stati portò tuttavia il 30% di tali popolazioni a trovarsi nella condizione di essere relegate allo status di minoranze, di cui alcune non furono successivamente neppure riconosciute come tali nei trattati, in quanto popoli troppo piccoli o troppo sparsi per avere diritto alla dignità nazionale. Nella prassi politica i trattati sulle minoranze finirono per rappresentare il preludio all’assimilazione, il che portò alla reazione politica delle minoranze, che indissero un loro congresso opposto alla politica della Lega delle Nazioni. Al suo interno i gruppi prevalenti erano rappresentati dai tedeschi e dagli ebrei che mantennero dei rapporti armonici fino alla crisi della Repubblica di Weimar nel 1933. Cfr. ODT, p. 378.

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minoranze e infine semplici nazionalità non riconosciute. La conseguenza fu che questi ultimi due gruppi considerarono i trattati o come un gioco arbitrario oppure come un’aperta violazione delle promesse fatte durante la guerra, protestando per la disparità di trattamento riservato, ad esempio, a un perdente del conflitto come la Germania (ODT 377). Il non-riconoscimento del pieno diritto di cittadinanza per le minoranze all’interno degli Stati nati o ridisegnati dopo la Prima guerra mondiale rappresenta per Arendt il momento di rottura che innescò la trasformazione dello Stato moderno da strumento costituzionale di garanzia in mero strumento di potere della nazione definita in senso etnico. Tale pericolo era insito da sempre alla struttura dello Stato nazionale moderno, la cui nascita era però anche coincisa con l’istaurazione del governo costituzionale, imponendo l’autorità della legge contro l’arbitrio dell’amministrazione dispotica. Infranto il precario equilibrio fra nazione e Stato, ossia fra l’appartenenza etnica e le istituzioni giuridiche repubblicane, la disintegrazione dello Stato di diritto avvenne con terribile rapidità. Come giustamente osserva Arendt, l’identificazione fra nazione e Stato si era prodotta sotto l’impulso della Rivoluzione francese, come nel caso di una nazione relativamente omogenea, cosicché la sua trasposizione a territori etnicamente misti, contesi e per di più con notevoli masse di apolidi rappresentava un compito assai arduo. Fu tuttavia la discriminazione introdotta fra tali gruppi a provocare la «malattia mortale» che portò al dissolvimento degli Stati plurietnici, nel cui vuoto di potere si inserirono poi le pretese imperialiste del totalitarismo (ODT 383 s.). Una volta violato il principio di eguaglianza di tutti (non solo dei cittadini etnici) di fronte alla legge, lo Stato nazionale non poteva, infatti, più sussistere in quanto tale e veniva a dissolversi in una contrapposizione anarchica fra diseredati e privilegiati. Tale passo introdusse al piano inclinato che portava alla nascita del totalitarismo, poiché, lasciate le minoranze e gli apolidi in balìa di pure e semplici misure poliziesche, fu poi difficile resistere alla tentazione di sottoporvi indiscriminatamente

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tutti i cittadini. Alla luce di tali eventi, la fondazione dello Stato di diritto sulla dichiarazione dei diritti dell’uomo implica per Arendt un duplice paradosso: da un lato in senso teorico, per il fatto di fondarsi su di un concetto di «uomo astratto», che non può sussistere senza una base reale, e dall’altro in senso storico, poiché la concretizzazione di tale base reale s’intreccia inestricabilmente con la questione dell’emancipazione nazionale. Solo la sovranità del proprio popolo sembra allora garantire i diritti umani, cosicché l’immagine dell’uomo finisce per corrispondere più al popolo che non all’individuo. La portata costitutiva di tale identificazione dei diritti umani con i diritti dei popoli nel garantire la sussistenza del sistema europeo degli Stati nazionali emerse soltanto, però, quando in Europa comparve una schiera crescente di persone e di gruppi etnici privi di salvaguardia statuale. I diritti umani allora non sembrarono più essere inalienabili, bensì legati alla presenza di governi capaci di tutelarli (ODT 402-404). Tale analisi porta Arendt a concludere che i diritti umani si rivelano inapplicabili ogni qual volta compaiano individui che non sono più cittadini di alcuno Stato sovrano. È questo il paradosso che si frappone alla «globalizzazione dei diritti umani» a partire dalla crisi europea degli anni Venti. L’umanità, che per tanto tempo era stata considerata una «famiglia di nazioni», aveva raggiunto lo stadio in cui chiunque venisse escluso da una di tali comunità chiuse e rigidamente organizzate si trovava escluso dall’intera famiglia delle nazioni, cioè dall’umanità. Chi non era protetto dalla cittadinanza si trovava così al di fuori d’ogni legalità. Il punto decisivo a tale riguardo è, tuttavia, che i diritti e la dignità umana ad essi legata dovrebbero rimanere validi anche se sulla terra vi fosse un solo uomo, ossia anche per «l’uomo senza comunità». Ciò invece non avviene, il che legittima il dubbio metodologico di Arendt che chiede se alla fine non si sia costretti a dare ragione a Burke, che nella sua critica della Rivoluzione francese e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo aveva sostenuto la superiorità dei diritti «tramandati dalla tradizione» rispetto all’astrazione dei diritti

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umani, affermando di preferire «i diritti d’un inglese» rispetto a questi ultimi25. L’esperienza della Seconda Guerra mondiale confermava l’indissolubile legame fra i diritti umani e l’esistenza della nazione di cui, secondo Arendt, la vicenda del popolo ebraico rappresenta l’esempio più tragico ed emblematico, poiché soltanto la fondazione dello Stato di Israele ne aveva infine assicurato la garanzia dei diritti umani e politici. La questione della dipendenza del momento giuridico-costituzionale dello Stato moderno dalla sussistenza di una «comunità nazionale» si riproponeva così in tutta la sua drammaticità anche all’indomani della Seconda guerra mondiale. Gli apolidi moderni, esclusi dalla società e privati dei loro diritti, si erano trovati in una specie di «stato di natura» non potendo più contribuire alla comune edificazione del mondo umano. Pur vivendoci dentro essi avevano perso la loro posizione nella comunità, poiché erano stati rigettati nella pura e semplice «sfera privata»: ossia nel settore del meramente dato, che da sempre costituisce una minaccia per l’esistenza della «sfera pubblica» fondata sulla legge dell’eguaglianza. Gli esseri umani, infatti, non nascono eguali, ma lo diventano come membri di un gruppo sociale grazie alla decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti. Tuttavia è sempre in virtù dello stesso principio che l’«omogeneità nazionale» finisce per divenire la garanzia dell’esistenza della sfera pubblica. L’incapacità di realizzare i necessari processi d’integrazione, laddove tale omogeneità non è data, porta al dissolvimento della sfera pubblica sulla quale si fonda l’esistenza dello Stato di diritto che tutela i diritti di tutti i cittadini. La crescita esponenziale del numero degli apolidi nel periodo fra le due guerre rappresenta così per Arendt il sintomo più evidente del processo di decomposizione cui era giunto il principio costitutivo dello Stato nazionale, mettendo in crisi l’equilibrio che storicamente ne aveva permesso la sussistenza (ODT 417). 25. E. Burke, Reflections on the Revolution in France, a cura di Payne, E.J. Everyman’s Library [1790]. Cfr. anche ODT, 414.

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Il dissolvimento dello Stato quale sintesi fra la comunità nazionale e la repubblica costituzionale facilitò la nascita delle entità sovrastatali imperialiste, che andarono a riempire il vuoto lasciato dal dileguare del principio repubblicano di eguaglianza garantito su base territoriale. Da ciò si sviluppò la tragedia del totalitarismo, che portò alla negazione assoluta d’ogni diritto umano, fino ad arrivare allo sterminio perpetrato nei campi di concentramento. La realtà successiva alla Seconda Guerra mondiale ha permesso l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale fondato su di una rigida irregimentazione – sia ideologica sia politico-militare – del conflitto europeo all’interno dell’equilibrio del terrore. Finita l’epoca della guerra fredda, e soprattutto grazie alla capacità delle nazioni europee di perseguire già da tempo un diverso progetto d’integrazione su base continentale, oggi l’Europa può contare su di un ordinamento interstatuale capace di garantire la coesistenza pacifica dei differenti Stati nazionali che in passato si erano a più riprese affrontati in guerra. Tale processo ha come presupposto ineliminabile la rinuncia volontaria da parte degli Stati ad aspetti centrali della loro sovranità a vantaggio d’istituzioni sovranazionali dotate di effettivi poteri politici. In tale quadro appare possibile sia la garanzia dell’equilibrio interno agli Stati sia la tutela dei diritti delle minoranze, in modo da poter avviare a soluzione, anche se con colpevoli omissioni e ritardi, i superstiti conflitti etnicopolitici presenti nel continente europeo. Come obiettivo finale di tale processo si può immaginare la costituzione di uno «Stato federale europeo», come lo prospetta Reiner Lepsius26, anche se prevedibilmente ciò rimarrà per lungo tempo più un ideale regolativo che una realtà istituzionale della politica europea. Sul piano globale delle relazioni interstatali, la situazione appare invece più problematica rispetto alla fase della guerra fredda, che nel bene e nel male aveva saputo edificare un or26. R.M. Lepsius, Die Europäische Gemeinschaft und die Zukunft des Nationalstaates, in Id. Demokratie in Deutschland, Göttingen 1993, pp. 249264.

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dinamento mondiale sulla base dell’equilibrio del terrore. Le rinnovate tendenze imperialiste e la mortificazione della legalità internazionale attraverso l’operato delle superpotenze superstiti, rischiano di incrinarne l’edificio costruito al prezzo di infiniti sforzi volti a scongiurare i conflitti dell’epoca della guerra fredda. Ciononostante, nel medio e lungo periodo si può intravedere l’instaurarsi di un nuovo equilibrio fra potenze, prodotto dal progressivo indebolimento della supremazia statunitense e dall’emergere di nuove potenze regionali, cosicché è pensabile l’esistenza di un globo multipolare, in cui la semplice contrapposizione fra più soggetti, quali gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Cina, la Russia, l’India e il Brasile, instauri una dinamica virtuosa capace di portare all’edificazione di un nuovo ordinamento mondiale e di garantire la pace e la tutela dei diritti umani e politici, indipendentemente dall’appartenenza nazionale degli individui.

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Parte II.

Logiche del dominio, filosofie della storia e normatività

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Transiti filosofico-politici e sociologici

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Charles Sheeler, Suspended Power, 1939.

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Domenico Losurdo

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Logica del dominio e orrore nella contemporaneità. Filosofia della storia contra morale?I

1. Filosofia della storia hegeliana e Manifest Destiny

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a catastrofe o le catastrofi del Novecento sono il risultato del sacrificio della morale sull’altare della filosofia della storia: questo il bilancio storico comune ad autori tra loro pur così diversi come la Arendt, Löwith, Berlin, Bobbio. Ed è un bilancio che chiama pesantemente in causa Hegel e Marx. Nel liquidare come una semplice sequela di orrori la vicenda storica iniziata con la rivoluzione d’Ottobre e nel denunciare la convergenza disastrosa tra filosofia della storia e Realpolitik, Bobbio istituisce una sorta di linea di continuità che va da Machiavelli a Stalin passando per Hegel: ad accomunarli è «la massima che il fine giustifica i mezzi». Dell’autore delle Lezioni sulla filosofia della storia viene messo in stato d’accusa in particolare il tema delle personalità storico-mondiali protese alla realizzazione di un fine indicato in modo così «irresistibile» dalla filosofia della storia da rendere vano e ridicolo ogni scrupolo morale1. In modo analogo argomenta un eminente storico americano, Bullock, che richiama in particolare l’attenzione su I. Il testo qui presentato è la relazione introduttiva al Congresso della «Internationale Gesellschaft für dialektische Philosophie-Societas Hegeliana» svoltosi a Pavia i giorni 11-14 settembre 1996. 1. N. Bobbio, I comunisti e l’Ungheria [1986], in L’utopia capovolta, Torino 1990, pp. 113-116.

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Domenico Losurdo

un brano peraltro celeberrimo: «Nel suo cammino, una grande figura calpesta più di un fiore innocente, qualcosa è pur costretto a frantumare»2. Ebbene, l’«eroe» hegeliano avrebbe finito col trovare la sua incarnazione in Hitler e Stalin!3 Colpisce di queste requisitorie l’ingenuità storica, come se non fosse agevole rintracciare citazioni ben più compromettenti in altre tradizioni di pensiero. Il filosofo e lo storico impegnati a ricostruire le origini ideologiche dei massacri del nostro secolo avrebbero potuto trarre profitto dalla lettura di un contemporaneo americano di Hegel. Nel gennaio del 1793, senza lasciarsi impressionare dalle corrispondenze da Parigi che parlano di «strade […] letteralmente rosse di sangue», Jefferson continua a difendere con passione la «causa» della rivoluzione francese: «Piuttosto di vederla fallire, preferirei vedere metà della terra desolata. Rimanessero solo un Adamo e un’Eva in ciascun paese, ma liberi, sarebbe meglio di com’è ora». Il fine dell’abbattimento del «dispotismo» sembra giustificare costi umani che vanno ben al di là di quelli messi in conto dalle hegeliane Lezioni sulla filosofia della storia4. Coloro che pensano di poter additare nella critica della filosofia della storia un antidoto contro la violenza e un sicuro fondamento della democrazia, farebbero bene a riflettere su questo fatto. Tra i primi a mettere in stato d’accusa, già nel 1921, la filosofia della storia hegeliana e bolscevica, è Carl Schmitt; ma ciò non gli impedisce una decina di anni dopo di aderire al nazismo. Anzi, la marcia di accostamento a Hitler è scandita dalla denuncia del carattere aggressivo delle diverse filosofie della storia dei nemici della Germania, a cominciare, prima ancora della Russia sovietica, dalle potenze dell’Intesa. Esse si erano sentite investi2. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, in Werke in zwanzig Bänden, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Frankfurt a.M. 1969-79, vol. XII, p. 49. 3. A. Bullock, Hitler and Stalin. Parallel Lives, New York 1992, pp. 347348. 4. Riportato in S. Elkins-E. McKitrick, The Age of Federalism. The Early American Republic, 1788-1800, New York-Oxford 1993, pp. 316-317.

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te della missione di debellare l’antico regime che additavano nel Reich guglielmino; si erano proposte di accelerare «la marcia trionfale della democrazia», a favore della quale sembrava valere una precisa «disposizione della Provvidenza»5. Ad essere animati dalla «fede indiscussa che la storia era dalla loro parte» sono stati a loro tempo anche gli abolizionisti americani, sicuri che l’istituto della schiavitù si trovasse nel suo «stadio finale»6. Ed è stata questa certezza a conferire loro una fanatica carica missionaria, elemento essenziale della preparazione ideologica di un conflitto così sanguinoso come la guerra di Secessione. Considerazioni analoghe si possono svolgere, e vengono effettivamente svolte da storici autorevoli per quanto riguarda l’agitazione che precede in Inghilterra la rivoluzione puritana7. Per dirla con lo Schmitt del 1921, partiti e movimenti che ritengono di muoversi in sintonia col processo storico sono inclini ad attribuirsi il «diritto a ogni forma di violenza» contro ciò che è vecchio e morente: «a chi sta dalla parte del futuro è ben lecito dare una spinta a ciò che già sta per cadere»8. La filosofia della storia non inizia certo con Hegel, ed essa non è sinonimo di totalitarismo, così come la sua critica non è sinonimo di democrazia. È la conferma dell’ingenuità storica, prima ancora che filosofica, del consueto bilancio delle catastrofi del Novecento, un bilancio che potrebbe essere sintetizzato parafrasando un celebre motto degli anni della Restaurazione: c’est la faute à Hegel, c’est la faute à Marx! Se i teorici della Restaurazione tuonavano contro la filosofia in quanto tale, oggi ci si accontenta di mettere in stato d’accusa la filosofia della storia. 5. C. Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, Berlin 1985 [21926], pp. 30-31. 6. D.B. Davis, The Problem of Slavery in the Age of Revolution 1770-1823, Ithaca-London 1975, p. 50. 7. Su ciò cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, RomaBari 1996, cap. II, § 9. 8. C. Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, München-Leipzig 1921, p. VIII e pp. 146-147.

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E, tuttavia, non c’è dubbio: in certe pagine, se non di Marx, comunque di Engels, la filosofia della storia si presenta con un volto ripugnante per la nostra odierna coscienza morale. Mi riferisco alla teoria delle «nazioncelle» (Natiönchen) slave che «non hanno mai avuto una storia» e ormai condannate dal processo storico: esse possono raggiungere la «civiltà» solo grazie a un «giogo straniero»; in caso di necessità, allorché infuriano contro la rivoluzione e la democrazia – come stava avvenendo nel 1849 – esse devono essere combattute col «terrorismo più deciso», anzi con «una lotta di annientamento e un terrorismo privo di scrupoli»9. Ma sono queste dichiarazioni una conferma della giustezza della tesi della linea di continuità da Hegel al gulag? Esaminiamo la prima delle figure storico-mondiali di cui parlano le Lezioni sulla filosofia della storia. Messosi in marcia col desiderio di «condurre a termine l’antico dissidio e l’antica lotta tra Occidente e Oriente», Alessandro vendica sì la Grecia per i torti ad essa inflitti dall’«Asia», ma a questa finisce anche con l’apportare la «maturità e l’altezza della civiltà» occidentale. Risiede qui il merito immortale del grande condottiero che ha «per primo aperto il mondo orientale agli europei». Dinanzi a tali risultati, farebbero bene a tacere gli storici «filistei» che trinciano giudizi in nome della «virtù o moralità»10. Dunque, prima e piuttosto che al gulag, la metafora dei fiori calpestati dall’eroe finisce con condurci alla storia dell’espansione coloniale e della marcia irresistibile dell’Occidente. A questo punto conviene rileggere anche il testo di Engels. Esso non si occupa solo dell’Europa centrale e orientale. Balza agli occhi la celebrazione della conquista del Messico a opera degli Usa avvenuta qualche anno prima: grazie anche al «valore dei volontari americani», «la splendida California è stata 9. F. Engels, Der demokratische Panslawismus [1849], in K. Marx-F. Engels, Werke, Berlin 1955 ss. (d’ora in poi MEW), vol. VI, pp. 273-275 e 286. 10. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, cit., pp. 332-334.

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strappata agli indolenti messicani, i quali non sapevano cosa farsene»; mettendo a profitto le nuove gigantesche conquiste, «gli energici Yankees» danno nuovo impulso alla produzione e alla circolazione della ricchezza, al «commercio mondiale», alla diffusione della «civiltà» (Zivilisation). Il ruolo dagli Usa svolto nel continente americano Engels sembra volerlo attribuire alla Germania in Europa centrale, mentre il posto del paese latinoamericano sembra esser preso dalle «nazioncelle» senza storia del mondo slavo. Le obiezioni di carattere morale o giuridico vengono messe a tacere piuttosto sbrigativamente: certo, quella scatenata contro il Messico è un’aggressione, ma un’aggressione che rappresenta un «fatto storico universale» di enorme e positiva portata11. Sono gli anni in cui negli Stati Uniti conosce grande diffusione il tema del Manifest Destiny, ovvero della missione provvidenziale di cui essi si sentono investiti, che li conduce ad annettersi estesi territori e che ulteriormente li spinge a porre sotto controllo e civilizzare l’intero continente. È il motivo ideologico di fondo che accompagna l’espansione coloniale dell’Occidente nel suo complesso. Agli inizi del Novecento, nel polemizzare contro i profeti americani ed europei dell’imperialismo, Hobson, liberale inglese di sinistra, li caratterizza ironicamente come il «partito del destino» e della «missione civilizzatrice»12. Il tema del destino assume una connotazione esplicitamente religiosa nella celebrazione cui Tocqueville procede dell’America e dei coloni bianchi che vanno ad abitare una terra momentaneamente occupata dai pellerossa: «Sembra che la Provvidenza, ponendo queste genti fra le ricchezze del Nuovo Mondo, ne abbia dato loro solo un breve usufrutto; in un certo senso essi erano là solo “in attesa”. Quelle coste così adatte al commercio e all’industria, quei fiumi così profondi, quella inesauribile val-

11. F. Engels, Der demokratische Panslawismus, cit., pp. 273-275. 12. J.A. Hobson, Imperialism. A Study [1902; 31938]; tr. it. di L. Meldolesi, L’imperialismo, Milano 1974, p. 69.

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lata del Mississippi, quell’intero continente, apparivano allora come la culla vuota di una grande nazione»13. Dati tali presupposti, non solo le successive deportazioni della popolazione nativa, anche il loro esito finale sembra rientrare nei disegni della Provvidenza. Il fatto è che sul pellerossa «la civiltà ha poca presa»; egli, «lungi dal voler piegare i suoi costumi ai nostri, si affeziona alla barbarie come a un segno distintivo della sua razza, e respinge la civiltà». Ecco perché «questi selvaggi non solo sono stati indietreggiati, sono stati distrutti»14. Oltre che nella rimozione degli indiani, la collaborazione coi disegni della Provvidenza e della civiltà può esprimersi in altro modo. Nel 1790 Franklin scrive: Se rientra tra i disegni della Provvidenza estirpare questi selvaggi al fine di far spazio ai coltivatori della terra, mi sembra probabile che il rum sia lo strumento appropriato. Esso ha già annientato tutte le tribù che precedentemente abitavano la costa15.

Il rum è una sorta di eutanasia per una razza condannata e già moribonda. D’altro canto, non è invalicabile il confine che separa il ricorso all’alcol dalla diffusione ad arte di malattie contagiose e da altre forme ancora più radicali di accelerazione della marcia irresistibile della civiltà. «A chi sta dalla parte del futuro è ben lecito dare una spinta a ciò che già sta per cadere»: potremmo ripetere con lo Schmitt critico della filosofia della storia. Ma a segnare la tragedia che si consuma in America è una filosofia della storia che alle sue spalle ha il Vecchio Testamento. Questa, almeno, l’opinione di Arnold Toynbee:

13. A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique [1835-1840], in Oeuvres complètes, a cura di J.P. Mayer, Paris 1951 ss., vol. I, 1, p. 25; tr. it. in Scritti politici, a cura di N. Matteucci, Torino 1968, vol. II, p. 42. 14. Ivi, pp. 334-337; tr. it. cit., pp. 376-379. 15. Riportato in R. Slotkin, The Fatal Environment. The Myth of the Frontier in the Age of Industrialization 1800-1890, New York 1994 [1985], p. 79.

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Il “cristiano biblico” di razza e origine europea che si è stabilito oltremare fra popoli di razza non europea ha finito inevitabilmente per identificarsi con Israele che obbedisce al volere di Jahvé e compie l’opera del Signore impossessandosi della Terra Promessa, mentre d’altra parte ha identificato i non Europei incontrati sulla sua strada coi canaaniti che il Signore ha messo in mano al suo Popolo Eletto perché li distruggesse o soggiogasse. Sotto questa suggestione, i coloni protestanti di lingua inglese del nuovo mondo sterminarono gli Indiani nordamericani, al pari dei bisonti, da una costa all’altra del Continente16.

Tocqueville sottolinea calorosamente il fervore religioso dei fondatori della Nuova Inghilterra, che si considerano discendenti della «stirpe di Abramo»: negli scritti e nei documenti da loro lasciati si avverte «una sorta di profumo biblico». Ed è un profumo che finisce con l’inebriare lo stesso liberale francese, il quale inneggia al «grande popolo, che Dio vuol deporre con le sue mani su una terra predestinata» e che affronta impavido «un deserto orrido e desolato, pieno di animali e di uomini selvaggi» di cui ignora «il grado di ferocia e il numero»17. Sta per iniziare una vicenda che si conclude col genocidio dei «selvaggi»; ma ad essere anticipatamente bollate per la loro «ferocia» sono le vittime, gli ostacoli alla missione provvidenziale di quel popolo eletto che l’Occidente ritiene di essere. Se gli odierni critici della filosofia della storia prendessero realmente sul serio la loro critica dovrebbero mettere in stato d’accusa la filosofia della storia e la storia dell’Occidente nel suo complesso. E invece: c’est la faute à Hegel, c’est la faute à Marx!

16. A. Toynbee, A Study of History [1934-1954]; tr. it. di G. Cambon, Panorami della storia, Milano 1954, vol. II, 1, pp. 47-48. 17. A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, cit., pp. 32-34; tr. it. cit., pp. 50-52.

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2. Etica e filosofia della storia: plurale e singolare Altrettanto esaltata è la filosofia della storia con cui Tocqueville legge l’espansione coloniale dell’Europa nell’Ottocento. La preoccupazione per l’«avvenire della civilizzazione e del progresso dell’umanità»18 lo spinge persino a celebrare in termini lirici la guerra dell’oppio! Analogo è l’atteggiamento di John Stuart Mill19. È vero che la filosofia della storia fondata sul pathos dell’Occidente è ben presente anche in Hegel ma in forma più problematica che nella tradizione liberale. Assieme a fiori incolpevoli, gli eroi calpestano anche «interessi sacri»20. Emergono così i conflitti di interessi e di valori, i costi umani e sociali del «progresso», e non potrebbe essere diversamente in un autore che liquida in quanto affetta da «edificazione» e «insipidezza» ogni visione della storia che ignori o rimuova «il dolore, la serietà del negativo»21. Una serietà che assume ancora maggior forza nelle pagine di Marx. La sua opera principale può essere letta come una riflessione critica sulla filosofia della storia borghese e occidentale: dopo aver sottolineato che «il capitale nasce grondando sangue e fango, da tutti i pori, dalla testa ai piedi» e dopo aver messo in evidenza che tra gli «idilliaci processi» caratterizzanti «l’aurora dell’era della produzione capitalistica» rientrano la trasformazione dell’Africa in una «riserva di caccia per i mercanti di pellenera» e, in America, l’«annientamento, schiavizzazione e seppellimento degli indigeni nelle miniere», il capitolo sull’«accumulazione originaria» si conclude parafrasando ironicamente il motto con cui Virgilio 18. Lettera del 2 agosto 1857, in A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, cit., vol. VI, 1, p. 230. 19. D. Losurdo, Marx, die liberale Tradition und die geschichtliche Konstruktion des Allgemeinbegriffs Mensch, in D. Losurdo (a cura di), Zukunft des Marxismus, Köln 1995, pp. 9-32. 20. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, cit., p. 49. 21. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes [1807], in Werke in zwanzig Bänden, cit., vol. III, p. 24.

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sintetizza la fondazione di una città chiamata dagli dei a dominare il mondo: Tantae molis erat…22 Non che sia assente in Marx il tema del «destino» (fate) che presiede all’assoggettamento dell’India a opera dell’Inghilterra, «strumento inconscio della storia» nel realizzare in quell’immenso paese, l’«unica rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto»23. Epperò, i crimini orribili di cui si macchiano i conquistatori gettano un’ombra sempre più inquietante sul «progresso»: «Quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese – il mercato del mondo e le forze di produzione moderne – e le avrà assoggettate al controllo comune dei popoli più civili, solo allora il progresso umano cesserà di assomigliare a quell’orribile idolo pagano, che non voleva bere il nettare se non dai teschi degli uccisi»24. Tanto più problematici appaiono ora il «progresso» e la filosofia della storia di Tocqueville e Mill, per il fatto che labile comincia a rivelarsi il confine tra civiltà e barbarie. Il Manifesto del Partito Comunista precisa che quella imposta dall’«Occidente» all’«Oriente» non è la «civiltà» in quanto tale, bensì «la cosiddetta civiltà», cioè i rapporti «borghesi»25. Ma la filosofia della storia qui in questione viene pienamente superata solo da Lenin. Il programma politico da lui formulato esige «la rottura completa con la barbara politica della civiltà borghese» che legittima e celebra il dominio di «poche nazioni elette» sulle colonie e sul resto dell’umanità26. 22. K. Marx, Das Kapital [1867-1894], in MEW, vol. XXIII, pp. 788, 779. 23. K. Marx, The Future Result of British Rule In India [8 agosto 1853], in K. Marx-F. Engels, Gesamtausgabe (MEGA), Berlin, in corso di pubblicazione, vol. I, 12, pp. 248 e 253 (cfr. anche la lettera di Marx a Engels dell’8 ottobre 1858, in MEW, vol. XXIX, p. 360) e K. Marx, The British Rule in India [25 giugno 1853], in MEGA, vol. I, 12, pp. 172-173. 24. K. Marx, The Future Result of British Rule In India, cit., p. 253. 25. K. Marx-F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei, in MEW, vol. IV, p. 466. 26. V.I. Lenin, Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato [17 gennaio 1918], in Opere complete, Roma 1955 ss., vol. XXVI, p. 403.

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Va da sé che Marx e Lenin criticano o mettono radicalmente in discussione una filosofia della storia ma ne inaugurano un’altra. Ci si può interrogare sul rapporto tra le due. Ci si può chiedere se nel corso di quella rivoluzione dall’alto che è stata in URSS la collettivizzazione dell’agricoltura non abbia continuato a pesare la filosofia borghese e occidentale della storia, la visione della rivoluzione esportata nelle campagne e nell’Asia, tra le nazioni «prive di storia» a partire dalla metropoli (non più capitalista ma socialista). Epperò, nel complesso un mutamento radicale si è verificato. In Tocqueville, la causa del «progresso» e della marcia della civiltà s’incarna permanentemente nella «razza europea» che assoggetta o egemonizza «tutte le altre razze»27. Il Manifest Destiny consacra il popolo americano, gli Stati Uniti, i quali si atteggiano, talvolta in modo esplicito, a nuova Israele. Il tema dell’exceptionalism che attraversa in profondità la storia americana, non è altro che la ripresa, in chiave superficialmente laicizzata, del tema del popolo eletto. È una visione che continua a rivelarsi viva e vitale ancora ai giorni nostri: l’America «deve continuare a guidare il mondo», «la nostra missione è senza tempo» – proclama Bill Clinton nel suo discorso di insediamento. Nel caso di Marx, invece, la «missione» non compete in esclusiva a un popolo eletto o a un gruppo di popoli eletti, e neppure, propriamente, a una classe. Di una «missione» (mission) è portatrice la borghesia per quanto riguarda la creazione del mercato mondiale28, momento essenziale della costruzione della storia universale, che «è un risultato»29. Subentra poi l’ulteriore e più ambiziosa missione di emancipazione propria del proletariato. Con Marx, la filosofia della storia riflette sul processo che è alle sue spalle: essa presuppone un’idea di storia universale e, 27. Lettera a Reeve del 12 aprile 1840, in A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, cit., vol. IV, 1, p. 58. 28. K. Marx, The Future Result of British Rule In India, cit., p. 248. 29. K. Marx, Grundrisse der politischen Oekonomie, Berlin 1953, p. 30.

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dunque, l’affermazione e la costruzione dell’unità del genere. E, come la storia universale, anche la filosofia della storia viene ora declinata al singolare, nel senso che il suo fine e il suo soggetto reale è l’umanità. È «l’umanità» che è chiamata a «compiere il suo destino»30, utilizzando come soggetti inconsci una molteplicità di soggetti particolari. Ciò significa che il confine tra progresso e reazione è estremamente mobile e non può essere definito una volta per sempre. È un punto su cui insiste in particolare Lenin. Lo stesso proletariato non è necessariamente sinonimo di progresso e non lo è neppure uno Stato socialista. In determinate circostanze, il proletariato vittorioso può esprimere tendenze scioviniste o egemoniche, può coltivare la tentazione di «sedersi sulle spalle altrui»: e dunque «sono possibili sia delle rivoluzioni – contro lo Stato socialista – sia delle guerre»31. Avendo ora come soggetto e fine il genere umano, la filosofia della storia non solo non esclude ma esige un’analisi concreta della situazione concreta. Non c’è più, o non dovrebbe esserci più, un soggetto particolare che possa rivendicare permanentemente per sé la legittimazione e trasfigurazione universalistica fornita dalla filosofia della storia. Ma la costruzione dell’unità del genere umano è il presupposto anche della morale, almeno se per morale s’intende un sistema di norme che si rivolgono e possono fare appello all’uomo in quanto tale. Per rendersi conto del carattere tormentato di questo processo si tenga presente che, ancora per Sieyès, la maggior parte degli uomini sono «macchine di lavoro»: è una «folla immensa di strumenti bipedi, senza libertà e senza vita morale e intellettuale» (instruments bipèdes, sans liberté, sans moralité, sans intellectualité). Semplice instrumentum vocale, agli occhi anche di Burke, il lavoratore salariato viene rappresentato dalla successiva tradizione liberale come un eterno fanciullo cui è per sempre precluso il conseguimento della maggiore età: in tal 30. K. Marx, The British Rule in India, cit., p. 173. 31. V.I. Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione [1916], in Opere complete, cit., vol. XXII, p. 350.

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modo continua a non essere considerato né un soggetto politico né un soggetto morale a pieno titolo. Ciò vale a maggior ragione per gli schiavi delle colonie o del Sud degli Usa o per i membri delle «razze» da Mill considerate «minorenni»32. Perché la compassione possa configurarsi come «compassione generale», è necessario – osserva Tocqueville – l’abbattimento delle barriere di casta dell’antico regime e delle barriere di razza che sussistono in America33. Marx, a sua volta, denuncia i persistenti limiti particolaristici dei sentimenti morali, proprio nel corso della polemica contro l’opinione pubblica liberale del tempo che ribolle di indignazione per le crudeltà e gli «orrori» degli insorti in India e Cina, ma che continua a conservare la sua buona coscienza nonostante tutti i crimini che l’Europa commette nelle colonie34. La complessità del processo di costruzione dell’universalità morale è confermata dal fatto che a lungo la morale continua ad essere declinata al plurale. Adam Smith distingue «morale liberale» delle classi dominanti e «morale austera» delle classi subalterne e delle donne: è solo quest’ultima ad essere caratterizzata dalla glorificazione del lavoro e del sacrificio, dalla diffidenza e ostilità nei confronti del lusso e della libertà sessuale e spirituale35. O si pensi a Mandeville, esponente di una morale liberale o libertina per la classe dominante ma che, per un altro verso, pretende che i lavoratori salariati vengano tenuti lontani da divertimenti dissipanti per assistere invece alle funzioni re-

32. D. Losurdo, Marx, die liberale Tradition…, cit., pp. 17-19. 33. A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, vol. I, 2, pp. 173175; tr. it. cit., pp. 657-659. 34. K. Marx, The Indian Revolt [16 settembre 1857], in S. Avineri (a cura di), Karl Marx on Colonialism and Modernisation, New York 1968, pp. 212213 (cfr. MEW, vol. XII, p. 288). 35. A. Smith, An Inquiry into the Nature and the Causes of the Wealth of Nations, Indianapolis 1981 [1775-1776; 31783] (= vol. II dell’ed. di Glasgow), p. 794, tr. it. di F. Bartoli, C. Camporesi e S. Caruso, Indagini sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori, Milano 1977, p. 782.

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ligiose domenicali in grado di stimolare la loro laboriosità e di rafforzare il senso della disciplina36. La costruzione dell’universalità morale conosce una tappa decisiva con le correnti più radicali dell’illuminismo. Di «morale universale (morale universelle) fondata sull’identità dei bisogni, delle pene, dei piaceri» parlano Raynal e Diderot in quella Storia delle due Indie che denuncia i conquistadores ed evoca la figura di uno Spartaco nero37. Analogamente, in Condorcet la condanna appassionata della schiavitù va di pari passo con la teorizzazione di una morale non confinata all’Europa e ai bianchi (come quella dei proprietari di schiavi) ma capace di guardare alla «terra intera» e agli «infelici» che la abitano38. Vanno ormai maturando gli sconvolgimenti che, nel 1794, condurranno all’abolizione della schiavitù nelle colonie. Contrariamente a quanto suggeriscono le condanne moralistiche della rivoluzione francese, senza il suo contributo e quello delle correnti filosofiche che la preparano ideologicamente, non può essere pensata la costruzione dell’universalità morale. La cosa ben si comprende. La rivendicazione dell’uguaglianza della norma giuridica va di pari passo o s’intreccia con la rivendicazione dell’universalità della norma morale. Sono gli anni e decenni in cui si assiste al passaggio dalle libertates della tradizione medioevale ognuna delle quali compete a un ceto diverso alla libertas di cui è titolare il cittadino; sono gli anni in cui il sentimento morale della compassione comincia a mettere in discussione le barriere di casta e di razza; sono gli anni in cui gli esclusi, assieme a quella di cittadino, cominciano a rivendicare la dignità di soggetto morale.

36. B. de Mandeville, An Essay on Charity and Charity Schools [1723], in Id., The Fable of the Bees, Indianapolis 1988, p. 308. 37. G.Th. Raynal, Histoire philosophique et politique des Deux Indes, a cura di Y. Benot, Paris 1981, pp. 368 e 354; sull’evocazione di Spartaco, cfr. p. 202. 38. Condorcet, Réflexions sur l’esclavage des nègres [1781; 1788], in Oeuvres, rist. anast. Stuttgart-Bad Cannstatt 1968, vol. VII, pp. 97 e 130.

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Significativamente, Condorcet che partecipa in posizione eminente alla costruzione della figura del citoyen e che, in nome della «morale universale», condanna con parole di fuoco l’istituto della schiavitù, è anche uno dei primi autori a impegnarsi nella teorizzazione di una filosofia del storia, il cui soggetto è l’umanità in quanto tale. Una considerazione analoga vale per Kant: se da una parte mette al centro della morale la categoria dell’universalità, dall’altra s’impegna in una riflessione sul destino del genere umano, sulla «storia universale da un punto di vista cosmopolitico». Quello che va dall’illuminismo alla filosofia classica tedesca è il periodo in cui si costruisce la figura dell’uomo in quanto tale, sul piano morale e politico, e questa figura diviene il soggetto della storia universale e della filosofia della storia. Anche la decostruzione della «morale universale» procede di pari passo o s’intreccia con la decostruzione della storia universale e della filosofia della storia. È quello che avviene in Nietzsche: liquidate la «cosiddetta storia universale»39 e la filosofia della storia come un residuo teologico, la morale torna ad essere declinata al plurale: morale dei servi e morale dei signori. Ferme restando tutte le altre differenze, darwinismo sociale e nazismo ereditano dal filosofo la decostruzione sia della filosofia della storia che della morale. La polemica contro la filosofia della storia e contro la tensione verso il nuovo che la caratterizza è ricorrente in Gumplowicz il quale, a ogni idea di progresso, contrappone l’«eterna spinta allo sfruttamento e al dominio a opera del più forte, del superiore», l’«eterna lotta razziale», la «lotta eterna senza progresso»40. Indicando un telos immaginario, l’hegeliana filosofia della storia ignora o rimuove l’«eterna uguaglianza essenziale dei processi sociali»41, dimen39. F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie [1872], in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, München 1980, vol. I, pp. 56 e 100. 40. L. Gumplowicz, Der Rassenkampf. Sociologische Untersuchungen, Innsbruck, 1883. pp. 218, 260 e 353. 41. Ivi, pp. 2 e passim e 172 ss.

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tica che «non vi è né progresso né regresso, è sempre la medesima realtà»42. Alla filosofia della storia, Gumplowicz contrappone la «sociologia», la scienza capace di insegnare le «verità amare»43 taciute o ignorate da coloro che si attendono chissà quali novità dal processo storico. Assieme alla tensione verso il novum viene a cadere anche l’altro presupposto essenziale della filosofia della storia, il soggetto unitario della storia universale che ormai si dissolve nella molteplicità di razze tra loro separate da una barriera insormontabile. Ma in tal modo si dissolve anche la comunità morale universale: i boeri sterminano gli ottentotti come «cacciagione del bosco», ma ciò è la conferma, agli occhi di Gumplowicz, che il concetto di uomo in quanto tale è un’«astrazione idealistica»44. Richiamandosi a Nietzsche, oltre che a Ranke, e polemizzando con Hegel, Rosenberg ironizza a sua volta sul «dogma di un presunto “sviluppo generale dell’umanità”»45; ogni popolo incarna un «valore peculiare» che non può andare dissolto «nella corrente di un presunto progresso»46; «“umanità”» è solo un nome nuovo del «vecchio Jahvé»47. Paradossalmente, a Hegel filosofo della storia il caporione nazista contrappone Kant teorico della morale. A quest’ultimo, ripetutamente citato e con grande calore, il Mito del XX secolo attribuisce il merito di aver rifiutato col suo criticismo la superstizione in una ragione universale e onnipotente e quindi di essersi collocato in un rapporto della «più acuta antitesi con tutti i sistemi “assoluti” e “universalistici” che, sulla base di una presunta umanità, di nuovo esigono l’unitarietà, e per sempre, di tutte le anime»48. In tal modo, Kant avrebbe incarnato «lo spirito nordico» e gettato le basi 42. Ivi, pp. 348-349. 43. Ivi, p. 354. 44. Ivi, pp. 249 e 247 nota. 45. A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts, München 1937, p. 40. 46. Ivi, p. 690. 47. Ivi, p. 127. 48. Ivi, p. 136.

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per una «cultura nordica razziale» (arteigene deutsche Kultur)49. Una volta distrutta l’unità della comunità morale (elemento decisivo dell’etica kantiana), una volta che la morale ritorna ad essere declinata al plurale con la conseguente contrapposizione della morale germanica e nordica alle altre, Rosenberg non ha alcuna difficoltà a celebrare l’«idea di dovere» (Pflichtidee) e a indicare in Kant il suo «più sublime maestro»50. Il nazismo risulta così in netta antitesi rispetto sia all’autentica morale kantiana che alla hegeliana filosofia della storia: entrambe presuppongono la categoria di universalità e l’unità del genere umano. Anche per una ragione ulteriore è privo di senso voler sussumere quel movimento politico e ideologico sotto la categoria di filosofia della storia. Gli aggettivi più ricorrenti nella pubblicistica nazista (e socialdarwinistica) sono «naturale» ed «eterno»: due aggettivi che implicano la negazione totale sia della metafisica dei costumi (della morale kantiana) sia della storia universale e della filosofia della storia. Insostenibile, e dettata solo dalle esigenze della guerra fredda, si rivela la tesi della Arendt che accosta comunismo e nazismo in quanto entrambi colpevoli di sacrificare, sia pure in modo diverso, la morale sull’altare della filosofia della storia.

3. Etica, filosofia della storia e violenza L’indagine storica rivela altresì l’estrema problematicità della tesi che vede nella morale l’antidoto alla violenza legittimata dalla filosofia della storia. Si dimentica il fatto che l’hegeliana filosofia della storia si è sviluppata a partire anche dal bilancio critico della rivoluzione francese. Come spiegare il Terrore? È noto che, agli occhi di Hegel, Robespierre pecca di moralismo, è in un certo senso un kantiano. In questa valutazione il filosofo non è isolato. Nel celebre dramma da Büchner dedicato alla 49. Ivi, pp. 134-35. 50. Ivi, p. 630.

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Morte di Danton, Robespierre sembra esprimersi col linguaggio di Kant: nella lotta a fondo contro «il vizioso […] il nemico politico della libertà», bisogna guardarsi dall’abbandono a una «sensibilità delicata e falsa» (falsche Empfindsamkeit). Il pensiero corre alla Dottrina del diritto che accusa Beccaria, critico della pena di morte, di «sensibilità delicata e compassionevole di una umanità affettata (compassibilitas)» (teilnehmende Empfindelei einer affektierten Humanität (compassibilitas)»51. Ma, in questo contesto, conviene ricordare soprattutto il celebre paragone da Heine istituito tra sviluppo politico in Francia e sviluppo filosofico in Germania: a Robespierre corrisponde Kant, a Napoleone Fichte, a Carlo X Schelling. A Luigi Filippo, il re borghese che nel suo sistema costituzionale e con la sua politica di juste milieu riconosce in qualche modo la parziale legittimità delle diverse parti in lotta, corrisponde Hegel, «l’Orleans della filosofia» (der Orleans der Philosophie)52 Va da sé che non si possono pretendere rigore storico e filologico da questo scintillante gioco di analogie e metafore. È però un fatto che, per Heine, è la filosofia hegeliana, col suo robusto senso storico, a dimostrare una superiore capacità di mediazione e conciliazione. Si può tranquillamente respingere il bilancio di Heine, Büchner e Hegel; ma ribaltarlo senza prender consapevolezza di tale ribaltamento è indice, ancora una volta, di superficialità storica e filosofica. Le odierne requisitorie contro la filosofia della storia promuovono disinvoltamente a rimedio universale contro la violenza il pathos morale a suo tempo messo in stato d’accusa per il Terrore giacobino. Ritengono superfluo misurarsi con l’analisi di Hegel. Conviene qui tentare di colmare questa lacuna. Sul piano filosofico e logico-epistemologico, fondamentalmente simili sono i rico51. I. Kant, Die Metaphysik der Sitten. Rechtslehre [1797], in Gesammelte Schriften (ed. dell’Accademia delle Scienze), Berlin-Leipzig 1902-1923, vol. VI, pp. 334-335; tr. it. di G. Solari e G. Vidari in Scritti politici, Torino 2 1965, p. 525. 52. H. Heine, Einleitung zu: Kahldorf über den Adel [1831], in Sämtliche Schriften, a cura di K. Briegleb, München 21969-1978, vol. II, p. 656.

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noscimenti e le critiche che la filosofia hegeliana esprime nei confronti di Robespierre e Kant. In entrambi gioca un ruolo centrale la categoria di universalità; ma si tratta di un’universalità non ancora matura, che non si è ancora data un contenuto concreto; l’«universalità più prossima» (nächste Allgemeinheit) è per l’appunto la «moralità»53. L’«autocostrizione della virtù kantiana» (Selbstzwang der Kantischen Tugend), di cui parlano gli scritti giovanili di Hegel, sembra incarnarsi in Robespierre. Questi prende «veramente sul serio» la virtù, che con lui diviene «la cosa più alta»54; è un «tempo terribile», epperò «è qualcosa di molto profondo che gli uomini siano pervenuti a tali principi»55; il dirigente giacobino «compì facta universalmente ammirati»56. Analogamente, pur nella sua grandezza, anche la kantiana «ragion pratica non può produrre null’altro se non un sistema della tirannide e della lacerazione dell’eticità e della bellezza»57. Al tempo stesso grande e terribile è l’universalità. Essa implica «assoluta negazione»58, la cancellazione di «ogni particolarità, ogni determinatezza»59. È questa universalità ferma al momento della negazione a produrre il terrore, e nel corso non solo della rivoluzione francese ma anche di quella anabattista che pure agita parole d’ordine cristiane: 53. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, a cura di K.H. Ilting, Stuttgart-Bad Cannstatt 1973 ss. vol. IV, p. 338. 54. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, a cura di J. Hoffmeister [ristampa della V edizione del 1955], Hamburg 1980, p. 930. 55. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, cit., vol. IV, p. 657. 56. G.W.F. Hegel, Die Philosophie des Rechts [è il corso del 1817-1818, trascritto da P. Wannenmann], a cura di K.H. Ilting, Stuttgart 1983, § 133 A. 57. G.W.F. Hegel, Glauben und Wissen [1802], in Werke in zwanzig Bänden, cit., vol. II, p. 383. 58. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, cit., vol. III, pp. 112-113. 59. Ivi, vol. IV, p. 112.

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Ciò caratterizza il fanatismo, che esso vuole qualcosa di universale e solo nella forma dell’universalità […]. L’universale è il negativo verso ogni particolarità […]. Nel fanatismo religioso tutti i legami di ordine, di onore, di famiglia, di proprietà non valgono; essi contraddicono la rappresentazione, l’astratta unità60.

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Ma è corretta questa interpretazione di Robespierre? Leggiamo un celebre discorso pronunciato dal dirigente giacobino mentre infuria il Terrore: Il vizio e la virtù fanno i destini della terra: essi sono i due geni opposti che se la disputano. La sorgente dell’uno e dell’altra è nelle passioni dell’uomo […]. L’unico fondamento della società civile è la morale. Tutte le società che ci fanno la guerra riposano sul crimine: esse non sono – agli occhi della verità – che orde di selvaggi inciviliti e di briganti disciplinati. A che cosa si riduce, dunque, tutta quella scienza misteriosa della politica e della legislazione? A mettere nelle leggi e nell’amministrazione le verità morali relegate nei libri dei filosofi e ad applicare alla condotta dei popoli le nozioni elementari di probità che ciascuno è costretto a adottare per la sua condotta privata […]. Con quale impudenza essi [«i re e i loro complici»] fanno leggi contro il furto quando invadono la fortuna pubblica! Si condannano gli assassini in loro nome, mentre essi assassinano milioni di uomini con la guerra e con la miseria61.

È evidente la carica di violenza implicita in questa visione che sembra pronta a criminalizzare il mondo intero. A spiegare tale carica non è una filosofia della storia qui del tutto assente (eterna sembra essere la lotta tra bene e male, ed essa affonda le radici già nell’intimità del soggetto). E tanto meno è il machiavellismo. Al contrario, il «machiavellismo» è esplicitamente condannato da Robespierre, assieme alla ragion di Stato e a ogni 60. Ivi, pp. 114-5. 61. Discorso del 18 floreale anno II [7 maggio 1794], in M. Robespierre, Oeuvres, Paris 1912-1967, vol. X, p. 446; tr. it. in La rivoluzione giacobina, a cura di U. Cerroni, Roma 1967, p. 186.

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comportamento che si rifiuti di estendere sino in fondo alla vita politica le norme morali della vita privata62. A spiegare la carica di violenza è proprio l’indignazione morale; la consacrazione della morale come «unico fondamento della società civile» va di pari passo con la criminalizzazione di tutto ciò che è, o appare, non conforme alle norme etiche della vita privata. Nel leggere il Terrore, Hegel si rivela infinitamente superiore a coloro che, in modo un po’ filisteo, consideravano, e considerano, il dirigente giacobino alla stregua di una belva o di un Realpolitiker assetato solo di potere; il filosofo, invece, individua con precisione il rapporto stretto tra indignazione morale e violenza, sottolinea l’enorme carica negativa propria della morale. Siamo in presenza di un’universalità astratta che sotto la categoria di virtù o onestà morale non è capace di sussumere nulla, non i rapporti sociali vigenti (la «miseria»), non i rapporti internazionali (la «guerra»); gli uni e gli altri sono assimilati al furto e all’assassinio, a una violenza illecita che una morale sdegnosa dell’ipocrisia e della cautela della Realpolitik deve saper smascherare e annientare. È solo la coscienza storica, qui del tutto assente, che può consentire di conferire legittimità parziale a istituti e rapporti che la coscienza e l’indignazione morale finiscono con l’identificare con il vizio in quanto tale. Ma non molto diverse sembrano essere in Kant le conseguenze del pathos morale. Per certi delitti, la pena di morte è un imperativo categorico che non lascia via di scampo: «Anche quando la società civile si dissolvesse col consenso di tutti suoi membri […], l’ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe prima essere giustiziato». L’indignazione morale sembra per un attimo mettere in crisi persino il principio della responsabilità individuale: «l’ultimo assassino» dev’essere messo a morte non solo «affinché ciascuno porti la pena della sua condotta», ma anche perché «il sangue versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione: perché questo

62. Ivi, p. 447; tr. it. cit., p. 187.

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popolo potrebbe essere considerato allora come complice di questa violazione pubblica della giustizia»63. La Dottrina del diritto fa valere tali considerazioni «anche nel caso in cui non si tratti di un assassinio, ma di un altro pubblico delitto», come la «congiura», che «la morte sola può espiare»64. A tal proposito, adduce un esempio concreto, quello della rivolta giacobita in Scozia del 1745. È bene subito dire che la repressione inglese non è certo meno spietata di quella circa cinquant’anni dopo messa in atto dal potere giacobino contro la Vandea; anzi, alcuni storici scozzesi contemporanei si spingono sino ad accusare i governanti inglesi di aver accarezzato per qualche tempo l’idea di una «soluzione finale», da realizzare mediante esecuzioni e deportazioni su larga scala65. Ovviamente, privo di senso sarebbe mettere sul conto di Kant particolari e dettagli della repressione da lui ignorati. Epperò, conviene tornare alla Dottrina del diritto: se il numero dei congiurati «è così grande, che lo Stato non può disfarsi di tutti i criminali senza esporsi a non avere ben presto più nessun suddito, e se d’altra parte esso non vuole dissolversi, vale a dire ricadere in uno stato di natura ben peggiore», allora il sovrano può commutare in alcuni la pena di morte con quella della deportazione66. Di nuovo emerge la carica di violenza che può essere sprigionata dalla tensione morale. Estromessa dalla morale la storia e ogni considerazione storica, una rivolta è una rivolta e un delitto è un delitto; l’universalità della virtù e della norma non può prendere in considerazione l’individualità di un popolo, le sue tradizioni, la sua cultura, i legami di solidarietà che lo stringono assieme e lo tengono unito nella lotta contro un potere considerato illegittimo in quanto imposto dall’esterno. 63. I. Kant, Metaphysik der Sitten. Rechtslehre, cit., p. 333; tr. it. cit., p. 523. 64. Ivi, p. 333; tr. it. cit., pp. 523-24. 65. Su ciò cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, cit., cap. II, § 4. 66. I. Kant, Metaphysik der Sitten. Rechtslehre, cit., p. 334; tr. it. cit., p. 524.

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Così, la rivolta di un intero popolo può essere sussunta sotto la categoria di congiura; un popolo nel suo complesso può essere considerato responsabile di un delitto che merita la morte; e se la commutazione di questa pena con la deportazione evita il genocidio, non evita comunque l’etnocidio. La compassibilitas non può distogliere dalla punizione del colpevole: «la legge penale è un imperativo categorico»67. La mancata esecuzione rischia di rendere persino priva di senso l’esistenza del genere umano: «se la giustizia scompare, non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra»68. Se Jefferson ipotizza almeno la sopravvivenza di «un Adamo e un’Eva», ora sembra risuonare nella sua estrema radicalità il motto: Fiat justitia, pereat mundus! La Dottrina del diritto è del 1796. Qualche anno dopo a Jena, nel suo primo abbozzo di filosofia della storia, Hegel traccia un bilancio del Terrore giacobino: «Nella rivoluzione francese un potere terribile conservò lo Stato, l’intero in generale. Questo potere non è dispotismo, bensì tirannia, pura spietata signoria; ma essa è necessaria e giusta, in quanto costituisce e conserva lo Stato comune, questo individuo reale»69. Se Robespierre, nel dare impulso al Terrore, tuona contro il «machiavellismo», Hegel lo giustifica richiamandosi al Principe e senza esitare a parafrasare le espressioni più dure di Machiavelli: «non vale alcun concetto di buono e cattivo, di vergognoso e infame, di perfidia e di inganno; esso [lo Stato] è al di sopra di tutto questo, giacché in esso il male è riconciliato con se stesso»70. Epperò, col superamento dello stato d’eccezione, «la tirannia» diviene «superflua»; essa deve ora cedere il posto alla «signoria della legge». Di ciò non si rende conto Robespierre, che viene non solo abbattuto, ma anche demonizzato: «La sua forza lo ha abbandonato, perché lo [aveva] abbandonato la necessità, e così egli fu abbattuto 67. Ivi, p. 331; tr. it. cit., p. 521. 68. Ivi, p. 332; tr. it. cit., p. 521. 69. G.W.F. Hegel, Jenaer Realphilosophie, a cura di J. Hoffmeister, Hamburg 1969, p. 246; tr. it. di G. Cantillo, Filosofia dello spirito jenense, Bari 1971, p. 185. 70. Ivi, p. 246; tr. it. cit., p. 186.

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con violenza. Il necessario accade, ma ogni parte della necessità suole essere attribuita soltanto ai singoli»71. Il Terrore si è autonomizzato rispetto alla situazione oggettiva che pure l’ha provocato; la tirannia di Robespierre non può sopravvivere a lungo al superamento che essa stessa ha conseguito dello stato d’eccezione. Il rovesciamento e la morte del dirigente giacobino mettono fine al processo di autonomizzazione della tirannia, stimolato dal moralismo e da una «virtù» decisa comunque a perseguire il vizio. Viene in mente Kant, secondo il quale l’assoluto obbligo morale di eseguire la condanna a morte dell’assassino (o del congiurato) sussisterebbe in pieno «anche quando la società civile si dissolvesse col consenso di tutti i suoi membri»72. In Hegel, invece, la comprensione della necessità storica non cancella lo spazio proprio del giudizio morale: ma, paradossalmente, ad essere oggetto di condanna sul piano morale è il moralismo di Robespierre che, col suo fanatismo, ha prodotto un supplemento superfluo o gratuito di violenza: questo giudizio morale è al tempo stesso un giudizio storico e politico. Filisteo e dimentico di uno dei lati della «necessità» è il giudizio morale che demonizza Robespierre; ma Hegel individua anche la genesi storica dell’emergere del filisteismo: il dileguare di un lato e l’emergere di un altro lato della necessità. Cogliere entrambi i lati può solo una ragione dialettica capace di misurarsi con la storia, consapevole del fatto che, per essere autentica, l’universalità deve saper sussumere il particolare. Di ciò risulta incapace la morale di Kant e Robespierre. Ma a questa medesima prova possono e devono essere sottoposte le diverse filosofie della storia. Superiore all’ideologia del Manifest Destiny, almeno nelle sue versioni più volgari, si presenta la filosofia engelsiana della storia. Essa ha pienamente conseguito lo stadio dell’universalità; ma è un’universalità che non sa in 71. Ivi, pp. 247-8; tr. it. cit., p. 187. 72. I. Kant, Metaphysik der Sitten. Rechtslehre, cit., p. 333; tr. it. cit., p. 523.

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alcun modo sussumere il particolare delle «nazioncelle» slave «senza storia», così come l’universalità morale kantiana non sa sussumere il particolare del popolo scozzese impegnato in una «congiura» moralmente inammissibile.

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4. Conflitto e limitazione del conflitto Epperò, Hegel ha finito col giustificare la violenza rivoluzionaria, sia pur denunciandone l’indebita dilatazione e autonomizzazione rispetto alla necessità storica che l’aveva stimolata o imposta. Non è questo un atteggiamento moralmente riprovevole? Non risiede in ciò l’intrinseca immoralità della filosofia della storia? La condanna della filosofia della storia in quanto tale sembra nutrire l’illusione di poter risolvere o regolamentare il conflitto semplicemente mediante un supplemento di moralità. La dicotomia religione/filosofia, propria degli anni della Restaurazione, è divenuta o si configura ai giorni nostri come la dicotomia morale/filosofia della storia. Fermo è rimasto l’approccio edificante. Esso non è in grado, nonché di risolvere, neppure di comprendere i conflitti reali. Per Bobbio, nette e chiare sono le dicotomie Kant/Hegel, morale/filosofia della storia, democrazie liberali/bolscevismo. Senonché proprio in Italia, sull’onda del primo conflitto mondiale e della rivoluzione d’Ottobre si sviluppa un dibattito che basterebbe da solo a mettere in crisi le tranquille certezze del filosofo torinese. Per Gramsci l’intervento imposto dall’alto è la conferma che le classi subalterne sono semplice «materiale umano»73, «materiale grezzo per la storia delle classi privilegiate»74. Nel 1918, mentre ancora imperversa la guerra, dopo aver ribadito la distinzione tra morale e politica, il liberale Benedetto 73. A. Gramsci, Stregoneria [1916], in Cronache Torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Torino 1980, p. 175. 74. A. Gramsci, La forza della rivoluzione [1920] in L’Ordine Nuovo 19191920, a cura di V. Gerratana e A.A. Santucci, Torino 1987, p. 520.

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Croce polemizza contro i «moralisti politici» – in primo luogo i bolscevichi – che «si sono dati a pronunciare giudizio morale sugli Stati» e pretenderebbero, «in nome della moralità», di condannare la guerra proclamata dagli Stati75. In quello stesso periodo di tempo, Giovanni Gentile (in questo momento attestato anche lui su posizioni liberali) è costretto a polemizzare con una rivista conservatrice («Voci del tempo») che formula un aut aut che al filosofo pare troppo rude e che si può così sintetizzare: o Realpolitik o leninismo!76 Per l’appunto questo dilemma, ma con un giudizio di valore rovesciato, sembra esser fatto proprio dal giovane Lukács il quale vede nel «movimento storico» del «socialismo» una radicale resa dei conti con la «Realpolitik»77. Procedendo a ritroso, può essere interessante osservare che già Burke bollava i rivoluzionari francesi come «politici moraleggianti» (moral politicians)78. Al contrario di Bobbio, Croce e Gentile erano ben consapevole della carica morale (l’orrore per l’immane carneficina) che spingeva tanti giovani verso il bolscevismo. Per questo si preoccupavano di mettere in guardia contro la «morale astratta», la «morale d’intenzioni»79; è un linguaggio che richiama alla memoria quello di Weber: anche la sua teorizzazione dell’«etica della responsabilità» non si può comprendere senza la polemica contro coloro che, in nome della Gesinnungsethik, esigevano la pace a ogni costo; e tra costoro non mancavano certo coloro che sentivano il fascino delle parole d’ordine comuniste.

75. B. Croce, Soppravvivenze ideologiche [1918], in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari, 1950, pp. 252-253. 76. G. Gentile, Tra Hegel e Lenin [maggio 1918], in Guerra e fede, a cura di H.A. Cavallera (vol. XLIII delle Opere), Firenze 31989, pp. 139-143. 77. G. Lukács, Taktik und Ethik [edizione ungherese originale del 1919], in Id., Schriften zur Ideologie und Politik, a cura di P. Ludz, Neuwied-Berlin 1976, p. 5. 78. E. Burke, Reflections on the Revolution in France [1790], in The Works. A new Edition, London 1826, vol. V, p. 86. 79. G. Gentile, Tra Hegel e Lenin, cit., p. 142.

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Subito dopo la seconda guerra mondiale, nel polemizzare contro l’etica kantiana, Sartre fa intervenire i dilemmi morali di un partigiano da lui conosciuto. La madre, che ha già subito la perdita di un altro figlio, lo scongiura di non raggiungere anche lui le file dei partigiani:

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La morale kantiana dice: non trattare mai gli altri come mezzo ma come fine. Perfetto: se rimango vicino a mia madre la tratto come fine e non come mezzo, ma, appunto perciò, corro il rischio di trattare come mezzo chi combatte attorno a me; d’altro canto, se vado a raggiungere chi combatte lo tratto come fine, ma rischio di trattare come mezzo mia madre80.

La realtà del conflitto finisce con l’emergere dalle stesse pagine di Kant. È nota la tesi da lui formulata secondo cui in nessun caso è lecito pronunciare una menzogna, anche se il rispetto della verità dovesse facilitare o dovesse comportare il rischio di facilitare l’assassino nell’esecuzione del suo delitto. La situazione qui descritta evidenzia un dilemma: si tratta di scegliere tra la violazione del valore della veridicità e la violazione del valore della vita umana; la rimozione a ogni costo del conflitto di valori spiega la risposta sorprendente del grande filosofo morale. Si è parlato a tale proposito di «una sorta di egoismo morale»: nella sua «volontà di purezza» e nel «desiderio esclusivo di salvare la pace dell’anima nel silenzio mediante il rifiuto di ogni conflitto», esso si preoccupa soprattutto di «mettersi al riparo da ogni responsabilità nella realtà e della realtà e si ripiega su una buona coscienza che, per poter restar pura da ogni sozzura possibile, dovrebbe svuotarsi di ogni contenuto e abiurare ogni contatto umano»81. Questo severo giudizio morale è di Eric Weil che in tal modo riprende la critica hegeliana dell’anima bella. Peraltro, non è necessario far ricorso ad esempi scolastici. Pensate in profondità, le grandi crisi storiche rivelano sempre 80. J.P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme [1946], tr. it. di F. Fergnani, L’esistenzialismo è un umanismo, Milano 1978, pp. 67-68. 81. E. Weil, Philosophie morale, Paris 41987 [1960], pp. 114-116.

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analoghi dilemmi morali. L’universalità deve sapere sussumere il particolare, ma è proprio su questo terreno che si sviluppa il conflitto. Alla fine del Settecento, con lo sguardo rivolto alle colonie inglesi in America, dove c’è una sorta di autogoverno locale esercitato dai coloni bianchi (spesso proprietari di schiavi, gelosi custodi della loro proprietà), Adam Smith osserva che la schiavitù può essere soppressa più facilmente sotto un «governo dispotico» che non sotto un «governo libero». Poi aggiunge: «La libertà dell’uomo libero è la causa della grande oppressione degli schiavi. E dato che essi costituiscono la parte più numerosa della popolazione, nessuna persona provvista di umanità desidererà la libertà in un paese in cui è stata stabilita questa istituzione»82. L’umanità di cui qui si parla è sinonimo di moralità; ma questa universalità deve sussumere sotto di sé la libertà degli schiavi o dei loro proprietari? Smith ha anticipato i dilemmi morali del popolo americano a cavallo della guerra di Secessione. Lasciamo pure da parte i difensori dichiarati dell’istituto della schiavitù. Coloro che auspicano un processo lento e indolore di riforma, accettano una sia pur momentanea riduzione a mezzo e a cosa degli schiavi neri; gli abolizionisti più radicali, che prima spingono in direzione dello scontro e poi sostengono la dittatura militare per diversi anni esercitata dall’Unione sul Sud, di fatto accettano la riduzione a mezzo delle vittime del conflitto e della successiva dittatura militare. Il ritorno degli stati del Sud all’autogoverno comporta il trionfo del regime di white supremacy, con una nuova imposizione del servaggio o di rapporti di semi-servaggio a danno dei neri, sacrificati sull’altare della ritrovata concordia all’interno della comunità bianca. In ogni suo stadio di sviluppo, il conflitto reale consente la scelta solo tra due forme diverse di violenza. Assistiamo qui non già allo scontro tra morale e filosofia della storia bensì tra due opposte valutazioni morali, sorrette da due diverse filosofie della storia. 82. A. Smith, Lectures on Jurisprudence, Indianapolis (= vol. V dell’edizione di Glasgow) 1982 [1762-1763 e 1766], pp. 452-453 e 182.

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La morale kantiana non sembra resistere alla prova dei reali conflitti storici. Sull’onda della prima guerra mondiale e dell’indignazione per l’immane carneficina, giovani e meno giovani sono attratti dalla via indicata dalla rivoluzione d’Ottobre. Ma a spingerli su questa strada non è tanto la filosofia della storia quanto la condanna, moralmente motivata, dell’«egoismo morale» di cui parla Eric Weil. Una condanna dunque motivata moralmente. Secondo il filosofo francese, la preoccupazione ossessiva di evitare ogni «sozzura» e ogni contaminazione spinge Kant a teorizzare una sorta di «viltà» e di mancanza di «coraggio morale» nei confronti dell’assassino: il culto della «purezza» finisce col mettere in conto il sacrificio di una vita concreta. Ma è in modo analogo che argomenta, ad esempio, il giovane Lukács che, nell’affermare l’ineludibilità della «colpa» per tener fede non già a una filosofia della storia bensì alla «serietà» (Ernst), alla «coscienza» (Gewissen) e al «senso di responsabilità» (Verantwortungsbewußtsein) morale, esclama con Hebbel: «E se Dio, tra me e il compito a me assegnato, avesse posto il peccato, chi sono io per poter sottrarmi a questa scelta?»83. I conflitti e i connessi dilemmi morali non cessano di presentarsi ancora ai giorni nostri. E oggi come ieri, il pathos morale è tutt’altro che un sicuro antidoto contro la violenza. Prendiamo uno storico contemporaneo, in prima fila nel denunciare le conseguenze orribili della filosofia della storia, in particolare di quella di Hegel, contrapposto ancora una volta a Kant84. Epperò, l’autore in questione ha così pochi dubbi «sull’opportunità o la giustezza morale» dell’uso della bomba atomica a danno di Hiroshima e Nagasaki da affermare che il non usarla «sarebbe stato illogico, addirittura irresponsabile». Certamente, si è verificato un massacro della popolazione civile, ma la colpa ricade sul governo giapponese e sulla sua «ideologia perversa,

83. G. Lukács, Taktik und Ethik, cit., pp. 6-11. 84. P. Johnson, The Birth of the Modern. World Society 1815-1830, New York 1991, pp. 71-72 e 811-814.

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Logica del dominio e orrore nella contemporaneità

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che aveva liquidato non solo i valori morali assoluti, ma la stessa ragione»85. Conviene da ultimo porsi una domanda che, facendo riferimento al presente vicino, coinvolge direttamente la nostra responsabilità morale. È stato giusto appoggiare la I guerra del Golfo e l’embargo? Le conseguenze di quest’utima misura sono state così descritte in un articolo-intervento sul «Washington Post», firmato da Roger Normand, direttore del «Center for Economic and Social Rights»: «Stando a calcoli effettuati da organismi dell’Onu, più di 500.000 bambini irakeni sono morti di fame e di malattie: pressappoco il tributo risultante mettendo assieme le due bombe atomiche sul Giappone e il recente flagello della pulizia etnica»86. A questa denuncia si poteva rispondere adducendo la necessità di continuare la lotta contro un regime dittatoriale e criminale e accusando i critici della guerra del Golfo e dell’embargo di essersi resi e di rendersi corresponsabili delle malefatte dell’allora dittatore Saddam Hussein. Ma ecco la replica dell’articolo già citato: per pesante che fosse l’atto d’accusa contro i dirigenti irakeni, esso non può giustificare il ricorso a una terribile «punizione collettiva». La «punizione collettiva» è una pratica tipica del totalitarismo. Dobbiamo mettere l’embargo sul conto della filosofia della storia o del fanatismo morale? La prima guerra del Golfo è stata giustificata o celebrata sia in nome della necessità della lotta contro regimi che avevano violato il diritto internazionale e assunto l’eredità dell’Impero del Male, sia in nome dell’accelerazione da imprimere alla marcia irresistibile della «democrazia» nel mondo. In tempi recenti, un esponente dell’amministrazione americana ha giustificato l’ulteriore inasprimento dell’embargo contro Cuba con la necessità di consegnare fi-

85. P. Johnson, A History of the Modern World from 1917 to the 1980s [1983]; tr. it. di E. Cornara Filocamo, Storia del mondo moderno, Milano 1989, pp. 471 e 473-474, corsivo mio. 86. R. Normand, Deal Won’t End Iraqi Suffering, riportato in «International Herald Tribune» del 7 giugno 1996.

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nalmente alla «spazzatura della storia» un regime colpevole di infinite malefatte. Pathos morale e filosofia della storia s’intrecciano strettamente nel rivendicare il ricorso alla pratica della «punizione collettiva». Un analogo intreccio si è verificato negli anni del terrore staliniano che fa appello alla necessità sia di avanzare verso la meta indicata dalla filosofia della storia, sia di lottare contro i kulaki che, stando alle accuse loro rivolte dal potere, danno prova di un comportamento moralmente odioso: accaparrano le derrate alimentari e condannano così all’inedia le popolazioni urbane87. I permanenti conflitti politici non possono essere interpretati in base alla dicotomia etica/filosofia della storia, né questa dicotomia col suo implicito appello a un supplemento di moralità può essere di reale aiuto allo scioglimento dei dilemmi morali. Ciò non significa che si debba capitolare dinanzi al conflitto e al conflitto nella sua forma più brutale. È evidente che le teorie del conflitto non si equivalgono. Ad esempio, una teoria che spieghi con l’antagonismo di razza il conflitto ne impedisce la limitazione e il riassorbimento. E una morale e una filosofia della storia vanno giudicate anche sulla base della loro capacità di limitare e riassorbire il conflitto.

87. Su ciò cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, cit., cap. II, § 8.

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1902-2002: la logica del dominio occidentale da Hobson a Stiglitz. Un bilancio storico e sociologico del liberalismo contemporaneo Se un paese straniero può rifornirci di una merce a un prezzo inferiore rispetto a quello cui noi stessi potremmo produrla, è meglio che acquistiamo la merce suddetta da quel paese. Documento acquistato da () il 2023/09/20.

(A. Smith, The Wealth of Nations (1776), in The Glasgow Edition of the Works and Correspondence of Adam Smith, Indianapolis 1984, v. II, p. 457). Lo storico riesce a vedere più comodamente i come rispetto ai perché, e meglio le conseguenze che le origini dei grandi problemi. Ragione di più, ben inteso, perché egli si appassioni maggiormente per la scoperta di quelle origini che, così regolarmente, gli sfuggono e lo scherniscono. (F. Braudel, La dynamique du capitalisme (1976), Paris 1985, p. 84).

P

uò convenire partire da un episodio di sport assai significativo: siamo nel 1898, nell’Africa orientale sotto il dominio inglese. Il governatore britannico fa costruire due campi da cricket, uno per gli europei e l’altro per gli indigeni. Inevitabilmente, col passare del tempo, le due squadre iniziano a confrontarsi e le partite diventano dei veri e propri scontri tra razze o, come diremmo oggi, fra civiltà. La compagine britannica, soprattutto all’inizio e data la maggiore confidenza con la disciplina, fa registrare vittorie su vittorie. Poi però, col passare del tempo e delle partite, gli abitanti del posto diventano sempre più abili ed esperti. Ed è proprio in quel momento che, quando il gioco

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regolare cominciava a vedere gli inglesi ripetutamente sconfitti, gli incontri di cricket, un bel giorno, vengono improvvisamente interrotti da parte dell’autorità inglese1. Per ora, possiamo limitarci a constatare come in un ambito in cui dovrebbe vigere la più totale e libera concorrenza dei partecipanti, lo sport appunto (per di più una disciplina tradizionale inglese), tale assunto sia stato clamorosamente smentito nel momento in cui a vincere non erano coloro che avrebbero dovuto farlo. E dire che la metafora sportiva e del gioco viene ancora oggi particolarmente usata dai neoliberali per esemplificare un contesto in cui, fatte salve le regole fissate e valide per tutti, vige la massima libertà dei concorrenti per conseguire l’obiettivo.

1. Le tre fasi del liberalismo moderno e contemporaneo Nell’Ottocento non si era ancora sviluppata la metafora sportiva, ma di sicuro si è trattato di un secolo in cui i massimi esponenti liberali erano anche impegnati nell’esaltazione delle virtù del libero scambio e della concorrenza in genere. È il caso, per esempio, di Bastiat, l’allievo di Jean Baptiste Say, il quale identificava la concorrenza con la libertà, fino ad arrivare al punto di definirla «la legge democratica per eccellenza», la più «progressista ed egualitaria», persino la più «comunitaria» di tutte quelle a cui la Provvidenza ha affidato il progresso delle società umane2. Non solo essa non produce ineguaglianza, prosegue l’autore francese introducendo una spiegazione alla differente condizione economica tra paesi occidentali e orientali, ma è vero anzi il contrario, tanto che se l’«abisso» economico è più profondo «tra il grande Lama e un paria piuttosto che tra il Presidente e 1. Cit. in D. Landes, The Wealth and Poverty of Nations, London 1998, p. 425. 2. F. Bastiat, Oeuvres Complètes, Paris 1862, vol. VI, pp. 350-352.

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un artigiano degli Stati Uniti», ciò è dovuto al fatto che la concorrenza (o la libertà), repressa in Asia, non lo è in America3. Se dalla Francia ci spostiamo all’Inghilterra, prendendo in considerazione un autore fra i più celebrati, John Stuart Mill, troviamo un ragionamento ancora più significativo. Questi infatti, lamentando che il sentimento di rivalità fra i commercianti, essendo stato prevalente fra le nazioni, aveva annullato per secoli tutto il senso di comunità generale che proveniva dal libero commercio con gli altri paesi e che derivava dalla prosperità reciproca, prende atto del fatto che nel tempo in cui si trovava a scrivere, proprio quello spirito commerciale fondato sulla libera concorrenza tra i paesi, che assicurava la prosperità di tutti, costituiva uno dei più grossi ostacoli alla guerra4. Ma si trattava veramente di prosperità per tutti? Si trattava veramente di una libera concorrenza internazionale fondata su quello spirito commerciale descritto da Stuart Mill, che per di più costituiva anche un ostacolo alla guerra? La concorrenza è libertà, scriveva Bastiat, distruggerla equivale ad annientare ogni facoltà di scegliere e giudicare: «significa uccidere l’intelligenza, il pensiero, insomma uccidere l’uomo»5. Il principio di libera concorrenza, sempre secondo Bastiat, coincide o dovrebbe farlo nientemeno che con il «bene dell’umanità», tende a «cancellare le gelosie internazionali», a distruggere le «idee di invasione e di conquista», a unire i popoli lasciando a ognuno di questi «tutta la sua autorità intellettuale e morale»6. Che lo sviluppo dell’Occidente liberale, pur con i suoi valori di libera concorrenza e prosperità per tutti i popoli dell’umanità, sia avvenuto anche a spese di tutta una serie di nazioni ed etnie, sterminati, schiavizzati e sfruttati, è quanto ha dimostrato Losurdo in un recente e illuminante lavoro, arrivando a documentare quel vero e proprio «parto gemellare» tra sviluppo 3. Ivi, p. 352. 4. J. Stuart Mill, Principles of Political Economy, London 1848, p. 221. 5. F. Bastiat, op. cit., vol. VI, p. 350. 6. Ivi, vol. II, p. 177.

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della civiltà liberale e schiavitù dei popoli esclusi dalla comunità dei liberi che sovente si è voluto rimuovere7. La tesi di Losurdo, peraltro difficilmente smentibile visti l’acume argomentativo e la notevole mole di riferimenti, è che l’Occidente liberale, almeno fino allo scoppio della Prima Guerra mondiale, ha portato avanti la sua logica (e pratica) di dominio fondandola su palesi «clausole di esclusione», che hanno appunto escluso tutta una serie di categorie sociali e di popoli dal godimento di quelle libertà e quei diritti assicurati nell’ambito della comunità dei proprietari e dei liberi. In questo modo il capitalismo ha potuto affermarsi anche grazie alle espropriazioni e all’oppressione messe in atto nelle metropoli e nelle colonie, cosicché i paesi e le classi liberali hanno potuto godere dell’autogoverno e della libera proprietà (anche di schiavi e servi), il tutto all’insegna del «governo della legge». Afferma quindi Losurdo: «Possiamo allora dire che quella liberale è la tradizione di pensiero che con più rigore ha circoscritto un ristretto spazio sacro nell’ambito del quale vigono le regole della limitazione del potere; è una tradizione di pensiero caratterizzata, più che dalla celebrazione della libertà o dell’individuo, dalla celebrazione di quella comunità di individui liberi che definisce lo spazio sacro»8. Il citato «abisso» di cui parlava Bastiat, più profondo tra il grande Lama e un paria piuttosto che tra il presidente e un artigiano degli Stati Uniti, ben lungi che dall’essere dovuto al fatto che in Oriente fosse repressa la libera concorrenza, diviene per Losurdo l’abisso che separa lo «spazio sacro» dallo «spazio profano», il regno del governo della legge e della libertà che fonda la propria prosperità sullo sfruttamento delle altre etnie e popolazioni, capziosamente escluse da quella libertà e quei diritti, lo abbiamo visto con Bastiat e Stuart Mill, in molti casi teorizzati per tutti e validi, almeno in teoria, universalmente.

7. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Roma-Bari 2005, passim e in particolare i capp. II, VII e IX. 8. Ivi, p. 305.

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Se il liberalismo classico del XVIII e XIX secolo ha fondato il proprio dominio sulla teorizzazione di diritti da cui venivano escluse tutta una serie di categorie sociali e popoli, con l’inizio del Novecento assistiamo a un primo cambiamento di rotta: il pensiero liberale continua ad affermare i suoi valori fondanti in sede teorica (libero scambio, intervento dello stato limitato al massimo, governo della legge uguale per tutti etc.), salvo però che i paesi liberali, de facto, abbandonano i suddetti valori9, a fronte di politiche protezionistiche e fortemente incentrate sull’intervento dei rispettivi stati al fine di garantire il dominio sulle altre economie concorrenti. Una terza e ultima fase dell’evoluzione liberale è sotto gli occhi di tutti ai giorni nostri: i valori e le pratiche del liberalismo economico vengono dai paesi benestanti imposti a quelli poveri o in via di sviluppo, molto spesso strozzando le economie e le possibilità di crescita di quegli stessi paesi. Anche stavolta ci sono gli esclusi, ma in questo caso a essere esclusi dal rispetto delle regole del libero scambio sono proprio i paesi liberali, che sulla base di questa ulteriore esclusione fondano il nuovo tipo di dominio sui paesi poveri. Se la prima fase può essere ribattezzata quella del «liberalismo classico», la seconda come l’epoca dell’«imperialismo», la terza e ultima, tipica dell’economia globalizzata, è la fase del «fondamentalismo del mercato», per usare l’espressione di un autorevole Nobel per l’economia dei giorni nostri.

2. Il fantomatico «libero scambio» delle merci. I casi inglese e americano A ricostruire la vicenda della seconda fase del liberalismo è Hobson, nel suo celebre studio sull’imperialismo del 1902. 9. Per una ricostruzione storico-sociale più puntuale di tali questioni mi sia consentito il rimando a P. Ercolani, L’Occidente anfibio. Per una lettura polisemica del mondo contemporaneo, fra tradizione liberale e giacobino-socialista, «Marxismo oggi», 1, 2004, pp. 41-79.

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Questi, da buon liberale, non nega affatto e anzi esalta lo spirito dell’inizio del XIX secolo, quando il vecchio nazionalismo non impediva alle diverse nazionalità di crescere e prosperare l’una a fianco dell’altra, e aveva più di un senso il sogno dei liberali di vedere prosperare, all’insegna del libero scambio, un «efficace, informale internazionalismo», fondato su un «pacifico e produttivo interscambio di merci e idee» tra le nazioni che riconoscevano una «giusta armonia di interessi fra i popoli liberi»10. Ma mentre più nazionalità coesistenti fra loro sono in grado di fornirsi aiuto reciproco, poiché non è automatico l’antagonismo di interessi, il fiorire dell’idea imperiale comporta la compresenza di più imperi, ognuno votato all’allargamento dei confini e al potenziamento industriale e quindi destinati a entrare in conflitto. Al di là dell’opinabilità della ricostruzione di Hobson – l’Inghilterra era di fatto un impero da almeno due secoli e la sua idea sembra quella di uno che rimpiange i tempi in cui un solo paese, il suo, poteva arricchirsi sulla base dello sfruttamento dei paesi colonizzati – è importante notare come l’emergere di conflitti fra più nazioni economicamente forti (tali nazioni, all’inizio del XX secolo, erano la Germania, la Francia, la Russia e il Giappone, stante il fatto che gli Usa si erano riservati più o meno tutto l’altro emisfero), e votate all’imperialismo, ha comportato l’aver «ripudiato il libero scambio», a favore di un’economia fondata su una «base protezionista». È perfettamente «logico e coerente», secondo l’analisi di Hobson, che un imperialista diventi un «protezionista aperto e confesso»11: l’imperialismo infatti si sforza di legare alla madrepatria i mercati di ogni acquisizione territoriale, convinto così di recuperare gli ingenti investimenti nazionali richiesti dalla politica imperialista; il libero scambio, invece, «affida l’incremento dei nostri scambi esteri all’attività interessata delle altre nazioni che scambiano con noi». Così, è l’esempio dell’autore inglese, il libero commercio della gomma da parte della Francia nell’Africa 10. J. Hobson, Imperialism. A Study, New York 1902, p. 10. 11. Ivi, p. 72.

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orientale (che era sotto il dominio inglese), contribuisce ad aumentare l’offerta di gomma e tenere i bassi i prezzi anche per i consumatori inglesi12. Il problema che ha reso appetibile l’imperialismo, e con esso l’adozione di politiche statalistiche e protezionistiche, ai grandi paesi industrializzati, è da ricercare proprio nei meccanismi che regolano il funzionamento dell’economia di mercato. Facendo marxianamente riferimento alla «legge dei rendimenti decrescenti (law of diminishing returns)»13, Hobson ricostruisce prima la vicenda inglese, dicendo espressamente che «finché l’Inghilterra ha avuto un monopolio virtuale dei mercati mondiali rispetto a determinate e importanti classi di merci manufatte, l’imperialismo non era stato necessario». Col 1870 e l’indebolimento del monopolio commerciale a favore di altre nazioni (in specie gli Usa, la Germania e il Belgio), l’imperialismo si è reso necessario all’Inghilterra per trovare nuovi mercati a cui vendere l’eccesso di prodotti del sistema produttivo inglese, dovendo quindi avvalersi di rigide tariffe protettive che limitavano l’efficacia della concorrenza delle altre nazioni, e in generale di una bellicosa politica statalista mirante ad assicurarsi annessioni territoriali e protettorati14. Ma Hobson analizza anche il caso degli Stati Uniti, definito ancora più significativo per comprendere il passaggio dall’economia di mercato a quella statalista o protezionista. Il fatto che con la fine dell’Ottocento gli Usa iniziano una politica espansionista e imperialista, apparentemente fondata sulla «missione civilizzatrice», non deve far perdere di vista il vero fattore propulsivo, ancora una volta economico: la più grande economia del mondo si sviluppò anche e soprattutto grazie a «rigide tariffe protettive» e alla costituzione di «cartelli industriali»15. La storia di ogni cartello, ricorda Hobson, dimostra in modo preciso e 12. Ivi, p. 73. 13. Ivi, p. 74. 14. Ivi, p. 77. 15. Ivi, p. 79.

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completo che nella fase di libera concorrenza delle manifatture l’economia americana era gravata da una cronica condizione di «sovrapproduzione», cui si riuscì a far fronte eliminando «lo spreco della concorrenza (the waste of competition)». La capacità produttiva di un paese come gli Usa, nota Hobson, può svilupparsi così in fretta da eccedere la capacità di domanda del suo mercato interno, ed è precisamente ciò che accadde alle sue industrie più sviluppate con la fine dell’Ottocento16. L’avventuroso entusiasmo del Presidente Roosevelt e il suo partito del «destino manifesto» e della «missione civilizzatrice» non devono trarci in inganno secondo Hobson, poiché furono i Rockefeller, i Morgan e i loro associati ad aver avuto bisogno dell’imperialismo e ad averlo gravato sulle spalle degli Stati Uniti17. Stessa cosa accadde per i maggiori paesi europei e la conclusione di Hobson non può essere più eloquente: «Ogni miglioramento dei metodi di produzione, ogni concentrazione di proprietà e di controllo sembra accentuare questa tendenza. Via via che ogni nazione entra nell’economia delle macchine e adotta metodi industriali avanzati, diventa più difficile per i suoi produttori, mercanti e finanzieri disporre con profitto delle loro risorse economiche, così da essere tentati ogni volta di più di utilizzare i propri governi in modo da assicurare al loro uso particolare, per mezzo di annessioni e protettorati, qualche lontano paese arretrato»18. Autorevoli studiosi di storia economica dei giorni nostri sono ben lungi dallo smentire la ricostruzione hobsoniana. È il caso del già citato Landes, il quale riconosce che sussidi e aiuti diretti costituiscono solo una parte della storia dello sviluppo del capitalismo inglese ai suoi esordi. Non di «mano invisibile» si trattava, bensì di una onnipresente e pesante «mano dello stato (state’s hand)» che si estendeva ovunque, anche laddove 16. Ivi, pp. 80-81. 17. Ivi, pp. 82-83. 18. Ivi, p. 86.

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non appariva manifesta immediatamente. In Gran Bretagna il governo sostenne e protesse il commercio d’oltreoceano, non solo facendo pagare al paese i costi delle imprese e delle avventure private in mari distanti da parte dei grandi commercianti e finanzieri, ma anche attraverso misure protezionistiche finalizzate alla difesa contro la competizione straniera. La conclusione di Landes è quantomai significativa: «I massimi fautori del libero commercio – la Gran Bretagna vittoriana e gli Stati Uniti post II Guerra Mondiale – erano stati fortemente protezionisti durante la propria fase di sviluppo»19. Ciò è confermato anche da un altro studioso americano dei giorni nostri, il quale, proprio in un’opera dedicata allo sviluppo della ricchezza in America, constata come sin dal 1790 efficaci regimi nazionali negli Usa hanno quasi sempre impiegato, piuttosto che disimpegnare, il potere federale per favorire l’economia20. Sin dai primi dieci anni di vita il governo federale americano aveva giocato un ruolo assai rilevante nell’incoraggiamento dell’industria, attraverso passaggi quali il Navigation act del 1817, che di fatto chiuse completamente le coste americane al commercio con i paesi esteri. Ma persino dopo il 1865, con l’inizio della cosiddetta Età d’Oro, costituì un grande errore parlare di «epoca del laissez-faire» (l’autore usa proprio l’espressione «mito») e di credere che in quegli anni il governo federale avesse ridotto il suo ruolo negli affari della nazione21. Il «più adatto», cioè colui la cui capacità imprenditoriale lo faceva trionfare nell’agone economico, non avrebbe assolutamente potuto sopravvivere senza usare il governo, e in una dimensione che andava ben oltre il binario statale protetto delle commissioni o la corruzione dei consiglieri comunali22.

19. D. Landes, op. cit., pp. 265-266. 20. K. Phillips, Wealth and Democracy, New York 2002, p. 93. 21. Ivi, pp. 93, 232, 235-6. 22. Ivi, p. 236. È appena il caso di ricordare che, in chiave antistatale e di magnificazione della piena e libera concorrenza in ambito sociale, parlava di sopravvivenza degli adatti o degli inadatti il socialdarwinista H. Spencer, So-

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3. La fine del liberalismo classico e lo sfruttamento dei paesi poveri Il fondamentale intervento dello stato nelle questioni economiche, caratteristica precipua del capitalismo occidentale fin dai suoi esordi, si fece ancora più pregnante con la fine del 1800. A tal proposito uno storico dell’Inghilterra a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento registra il fatto che, in Germania, Bismarck aveva mostrato come una via per resuscitare il pensiero conservatore fosse quella di adottare un’azione di riforme sociali finanziate attraverso la politica fiscale. Altri paesi europei seguirono l’esempio del Cancelliere tedesco, per contrastare il dominio inglese in materia di esportazione di prodotti ma anche per dare forza alle grandi industrie che stavano nascendo nei singoli stati. In forza di queste politiche governative di protezione si svilupparono le grandi industrie europee, ma anche gli Stati Uniti, nel 1890, adottarono un rigoroso sistema protezionistico (MacKinley Tariff ). La tendenza era ormai generalizzata, nell’Inghilterra liberale riforme quali l’Old Age Pension Act del 1908 e il National Insurance Act del 1911 erano lì a testimoniare l’importanza della legislazione sociale in materia economica, tanto che nel 1892 il leader conservatore inglese Lord Salisbury arrivava a giustificare il metodo delle tariffe doganali e, più in generale, si era verificata una modifica non di poco conto dello slogan dei conservatori: non più «free trade», ma «fair trade», sebbene ufficialmente si continuasse a proclamare il mercato libero come un ideale ancora attuale23. Rispetto a tale tendenza non fa eccezione la Francia, sfuggita alla crisi economica mondiale del 1873, che aveva colpito paesi come l’America e l’Inghilterra,

cial Statics, abriged and revised, together with The Man vs the State, London 1892, p. 358. 23. D. Thomson, England in the Nineteenth Century (1815-1914), Harmondsworth 1950, p. 194.

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grazie alle barriere doganali con le quali l’aveva astutamente cinta il Thiers24. Di questa situazione diffusa, con analisi e prospettive diverse, si accorsero sia i liberali maggiormente votati al liberismo, sia quelli che propendevano per una maggiore eguaglianza delle opportunità ed estensione universale della libertà individuale. Fra i primi si può citare Bruce Smith, autore di un’opera monumentale su «Libertà e Liberalismo», che porta il significativo sottotitolo di «protesta contro la tendenza montante verso un’indebita interferenza dello stato nella libertà individuale, nell’impresa privata e nel diritto alla proprietà». Questo studioso, dopo aver attentamente analizzato la realtà del proprio tempo, parla del «sistema di protezione delle industrie locali», come di una realtà che di fatto impone una punizione a ogni cittadino che vuole esercitare il diritto di «comperare ogni cosa di cui avesse bisogno», e che così facendo interferisce, attraverso la mediazione dello stato, con quel particolare diritto. Il protezionismo, conclude Smith, si rivela come un «inqualificabile trasgressione di uno dei primi principi del governo (liberale), nonché come un’«interferenza dello stato nella nostra libertà civile»25. Il protezionismo, insomma, era colpevole secondo Smith di ledere la libertà individuale, per di più con la complicità dello stato, a favore di imprese protette che potevano gestire a proprio piacimento le merci e soprattutto i prezzi, senza dover sottostare alle regole della libera concorrenza e del mercato. Dall’altra parte abbiamo Hobhouse, un liberale che nei primissimi anni del Novecento, proprio perché partiva da una premessa spesso contrastante con i pensatori a lui affini («la libertà implica l’uguaglianza»26), criticava l’assunto classico del liberalismo secondo cui «la possibilità dell’individuo di agire senza restrizioni è il principio cardine di ogni progresso» e bia24. P. Miquel, Histoire de la France, Paris 1976, p. 426. 25. B. Smith, Liberty and Liberalism, London 1887, pp. 540-541. 26. L. T. Hobhouse, Liberalism, New York 1911, p. 17.

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simava come spirito poco profondo («shallow wit») quello della sua epoca, in cui si rimproverava al liberalismo un’incoerenza coi propri valori nel promuovere al tempo stesso un protezionismo economico per le imprese e una legislazione protettiva per i lavoratori: le due azioni non hanno nulla in comune fra loro secondo Hobhouse, e certamente contrastano con i valori del liberalismo classico, ma di certo operano nell’interesse della collettività, sulla base del principio per cui la «buona libertà» non è quella di uno che guadagna alle spese degli altri, ma quella che può essere goduta da tutti coloro che vivono insieme27. Fino a qui potrebbe sembrare che anche Hobhouse, pur andando ben oltre gli assunti individualisti del liberalismo classico, si fermi però alla dimensione nazionale, o magari a quella occidentale, laddove parla di «libertà goduta da tutti coloro che vivono insieme». In realtà l’autore inglese va ben oltre, ed è significativo che lo faccia all’interno del capitolo sul «laissezfaire». Per completare la libertà personale occorre una libertà nazionale, scrive Hobhouse, ma anche una libertà delle colonie dallo sfruttamento della madrepatria, perché «libertà personale, coloniale e internazionale sono parti di un intero», che evidentemente è dato dalla Libertà, priva di senso se non coniugata al plurale ed estesa universalmente a tutti gli individui28. Ma i liberali, o coloro che ancora si dichiaravano tali, avevano pronta una spiegazione per il colonialismo e per lo sfruttamento dei paesi poveri. Questa spiegazione consisteva nel fatto che la libertà è un qualcosa che si guadagna, che si ottiene lentamente e nell’ambito di un contesto culturale e sociale favorevole. Con ciò si spiega il concetto di «missione» educativa e di civiltà nei confronti delle colonie, al fine di esportare la cultura dell’«autogoverno rappresentativo» e della «democrazia». Ma ancora una volta ci pensa Hobson a smentire questa visione mitologica, laddove constata con nettezza che «asserire che la nostra regola fissa di azione è stata quella di educare i 27. Ivi, pp. 44 e 51. 28. Ivi, p. 45.

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nostri possedimenti a questa teoria e pratica, costituisce la più enorme falsità (largest misstatement) rispetto alla reale politica coloniale e imperiale. Alla stragrande maggioranza dei popoli del nostro impero non abbiamo concesso alcun reale potere di autogoverno, né abbiamo mai avuto alcuna seria intenzione di farlo o di pensare che fosse nelle nostre reali possibilità»29. E infatti la realtà fu ben diversa, come hanno documentato personalità di opinioni e periodi assai lontani. Il capitalismo occidentale fiorì e si sviluppò anche e soprattutto grazie alla schiavizzazione e sfruttamento di intere razze e popoli. Ce lo ricorda Eric Williams, che nel 1944 scrisse un’opera dal titolo eloquente (Capitalism and Slavery) in cui si documenta come i «profitti del commercio di schiavi» e lo «sfruttamento del lavoro schiavistico» avessero «innaffiato il giardino del nascente capitalismo (watered the garden of a nascent capitalism)» e «fertilizzato l’intero sistema produttivo del paese». Ma già Adam Smith, del resto, aveva parlato di un «sistema atlantico basato sulla schiavitù», che aveva reso possibile per l’Inghilterra la divisione del lavoro e la trasformazione delle strutture economiche e sociali30. L’autore contemporaneo da cui abbiamo tratto queste citazioni, non si esime dal cercare di dimostrare che, di fatto, sul piano strettamente economico l’apporto fornito dal colonialismo e dalla schiavitù non fu poi così ingente, ma è poi costretto ad ammettere che «senza la schiavitù, tuttavia, l’industria si sarebbe sviluppata molto più lentamente»31. Sempre Landes, poco più avanti e riferendosi all’esempio delle piantagioni di zucchero create dalla dominazione spagnola, riferisce in maniera cruda e particolareggiata delle «brutali29. J. Hobson, op. cit., p. 120. Poco più avanti lo stesso autore definisce come un vero e proprio «luogo comune (commonplace)» del pensiero liberale quello di ritenere che la missione imperiale dell’Inghilterra fosse finalizzata a diffondere le arti del libero governo (to spread the arts of free government), ivi, p. 124. 30. Cit. in D. Landes, op. cit., p. 119. 31. Ivi, p. 121.

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tà» commesse, in cui padroni e negrieri costringevano a lavorare i maschi adulti fino a venti ore al giorno, senza che molto spesso gli venisse dato da mangiare. Gli schiavi venivano trattati come «macchine inanimate (inanimate pieces of equipment)» e peggio degli animali, verso cui i padroni mostravano maggiore cura. Inutile ribadire che tali pratiche di sfruttamento brutale del lavoro umano proseguì nei secoli ben oltre la dominazione spagnola32. La realtà a cavallo tra Ottocento e Novecento, sotto gli occhi di tutti coloro che volevano vederla, era quella di un liberalismo classico alle corde, abbandonato da quegli stessi capitani di industria e governanti che trovavano assai più redditizio sposare la causa dell’imperialismo per incrementare i propri profitti. I liberali, costretti a evidenti ripensamenti o contraddizioni rispetto ai valori fondanti della loro idea, con la fine dell’Ottocento si sono trovati di fronte a «sconfitte schiaccianti (crushing defeats)», tanto che lo stesso liberalismo poteva essere definito un «fossile che occupava, più che altro, una goffa posizione tra due macine che si muovevano in maniera più attiva ed energica»: l’imperialismo plutocratico, soprattutto, ma anche la socialdemocrazia33. Tra i ranghi liberali molti degli uomini più potenti erano passati sotto l’influenza dell’imperialismo, tanto che Hobson parla di vero e proprio «crollo del partito liberale» sul continente e anche in Gran Bretagna: tale cedimento all’imperialismo si spiega, secondo l’autore inglese, col fatto che alla causa del liberalismo i liberali hanno preferito gli interessi economici delle classi possidenti e speculatrici, cui molti di loro appartengono, finendo con lo svendere la causa delle riforme liberali, che co32. Ivi, p. 123. L’autore citato si limita alla dominazione spagnola, ma per vedere come questa tradizione di sfruttamento e de-umanizzazione degli schiavi a fini di profitto fosse proseguita, nella teoria come nella pratica, con le dominazioni francese, inglese, americana e dei paesi ricchi occidentali in genere, almeno fino ai primi decenni del Novecento, si può consultare l’ottimo saggio di D. Losurdo, op. cit.. 33. L.T. Hobhouse, op. cit., p. 110.

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stituiva la loro principale eredità, a un imperialismo che ha fatto appello ai loro interessi economici e ai loro privilegi sociali34. Insomma, lo sviluppo della democrazia all’interno dei paesi occidentali (col guadagno, da parte delle classi popolari, di riforme quali il suffragio universale maschile e la legislazione sociale in favore dei lavoratori), aveva messo i liberali conservatori (a quel tempo la maggioranza) di fronte al bivio se continuare sulla scia delle riforme sociali oppure allearsi con gli elementi dell’imperialismo plutocratico, per continuare a conseguire enormi profitti (e commerciare i propri prodotti, spesso in eccesso) sulle spalle dei popoli e delle nazioni colonizzati. La stragrande maggioranza dei liberali optò evidentemente per la seconda ipotesi, portando l’imperialismo al suo apogeo e provocando alla teoria liberale una sconfitta sonora da cui sarebbe uscita solo al prezzo di forti cambiamenti dei propri valori di fondo.

4. Il Novecento, il liberalismo e gli esiti della storia Risultano oltremodo evidenti i capisaldi che il liberalismo ha dovuto abbandonare sull’onda di rivolgimenti storici ed economico-sociali di enorme portata. Le due guerre mondiali, intervallate dalla grande crisi economica del 1929, con la disoccupazione di massa e la fine del mercato autoregolantesi, segnano anzitutto la crisi del modello liberale classico, che sarebbe uscito da quel periodo così trasformato da essere quasi irriconoscibile. È importante rilevare come non si tratta soltanto di una trasformazione dovuta a cause esogene (le guerre, l’estensione del suffragio con la relativa influenza dei partiti socialisti, la legislazione sociale e lo sviluppo dei diritti di cittadinanza), ma anche endogene al liberal-liberismo stesso. Il sempre più compiuto dominio dell’industria da parte di un ristretto numero di società per azioni, che ha mutato il carattere della sfe34. Ivi, p. 113 e J. Hobson, op. cit., pp. 150-152.

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ra economica fino a produrre processi di accentramento e di concentrazione e l’iniziale mediazione istituzionale del potere politico nella società capitalistica, che poi è sfociato in una vera e propria «programmazione» del mercato da parte dello stato, hanno portato più autori a parlare di «post-capitalismo» e a chiedersi addirittura se quella uscita dalla grande crisi potesse essere ancora definita una società capitalistica35. Il mondo stava cambiando con una velocità impressionante, mentre la portata stessa dei rivolgimenti rendeva anacronistiche le istanze del liberalismo classico. La recessione economica cominciata in America col crollo di Wall Street verso la fine del 1928, con il conseguente dirottamento dei fondi dal prestito estero alla speculazione interna, ciò unito alla richiesta da parte delle banche statunitensi del rimborso dei crediti europei, incrementarono oltremodo la crisi dei paesi europei, già flagellati dalla disoccupazione di massa e dalle sempre più frequenti proteste sociali. Cosicché «un paese dopo l’altro fu costretto a proteggere la propria moneta mediante il ricorso alla svalutazione o al controllo valutario. La sospensione della convertibilità in oro della sterlina inglese nel settembre del 1931 portò alla definitiva distruzione dell’unica rete di transazioni commerciali e finanziarie mondiali su cui erano basate le fortune della City di Londra». Il protezionismo imperversò, mentre il capitalismo si chiuse negli iglù delle sue economie di stati-nazione. Si trattò di una vera e propria rivoluzione mondiale, le cui caratteristiche principali erano la scomparsa della haute finance dalla politica mondiale, il crollo della Società delle Nazioni a vantaggio degli imperi autarchici (e degli stati-nazione), l’ascesa del nazismo in Germania, i piani quinquennali in Unione Sovietica e il lancio del New Deal statunitense36.

35. Ci stiamo limitando a citare il caso di A. Giddens, The Class Structure of the Advanced Societes, London 1973, IX-1, ma la lista potrebbe essere agevolmente ampliata. 36. Per tutto ciò cfr. G. Arrighi, The Long Twentieth Century; tr. it. Il lungo XX secolo, Milano 1994, pp. 358-359.

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Che non si era di fronte a cambiamenti di poco conto è confermato anche da quanto dichiarava nel 1946 ai suoi concittadini un autorevole statista americano di rigorosa fede capitalista: «Nel nostro paese la gente non teme più parole come “pianificazione” […] la gente ha accettato il fatto che il governo debba pianificare così come in questo paese ogni cittadino pianifica il proprio futuro»37. Né si trattava di cambiamenti cui di fatto ci si potesse opporre, poiché gli esiti della storia erano chiari e vano sarebbe stato tentare di evaderli. È lo stesso Keynes a scrivere nella sua opera principale, agli inizi degli anni Trenta, che «la teoria classica» (quella dell’individualismo sfrenato, del laissez-faire, del non intervento dello stato nelle questioni economiche) rappresentava «il modo nel quale vorremmo che la nostra economia si comportasse, ma supporre che di fatto essa si comporti così, significa ritenere inesistenti le grandi difficoltà cui ci troviamo di fronte»38. L’autorevole teorico del New Deal, che elaborava le sue teorie sull’onda della grande depressione degli anni ’30, arrivava così a concludere che «l’intervento dello stato per promuovere e finanziare nuovi investimenti» costituiva l’unica «via d’uscita da una depressione prolungata e forse interminabile»39. Proprio gli esiti della storia hanno condotto un grande studioso della materia a concludere che, dopo il 1945, pressoché tutti i paesi dell’Occidente respinsero nelle intenzioni e nei fat37. Cit. in C.S. Maier, In Search of Stability. Explorations in Historical Political Economy, Cambridge 1987, p. 129. 38. J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, London 1949 [1936], p. 34. 39. J.M. Keynes, The Collected Writings of John Maynard Keynes, 30 voll., London 1971-1989, vol. XXI, pp. 59-60. Al contrario di quanto certi autori hanno affermato, l’adesione di Keynes ad alcune pratiche vagamente socialistiche non era ideologica, bensì era dettata dalla constatazione scientifica della realtà socio-economica che il grande economista si trovava ad analizzare. Lui stesso ricorda come per molti anni avesse convintamente sostenuto le teorie del liberismo classico e come le avesse dovute abbandonare sulla scorta della necessità imposta dagli eventi, cfr. J.M. Keynes, The General Theory, cit., p. VI.

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ti l’economia di mercato, aderendo ai principi della direzione pubblica e della pianificazione statale e nella ferma convinzione che solo l’intervento della stato nell’economia potesse impedire un ritorno alle catastrofi economiche avvenute tra le due guerre mondiali (che avevano condotto le masse esasperate a aderire ai progetti palingenetici del nazismo e del fascismo)40: «Il capitalismo post-bellico era innegabilmente […] una sorta di matrimonio fra il liberalismo economico e la democrazia sociale […] con aspetti non secondari presi a prestito dalla politica economica dell’Urss, che per prima aveva praticato la pianificazione economica». Ciò malgrado le fervida opposizione da parte dei teologi del libero mercato (su tutti il von Hayek di The Road to Serfdom, del 1944), i quali ritenevano che questa grande trasformazione dell’economia (e della politica) dell’Occidente avrebbe condotto direttamente a una nuova servitù della gleba. «Essi – ricorda Hobsbawm – si erano schierati per l’intoccabile purezza del mercato anche durante la Grande Crisi. Continuarono poi a condannare le politiche che fecero aurea l’Età dell’oro, quando il mondo divenne più ricco e il capitalismo (insieme col liberalismo politico) rifiorirono grazie alla mescolanza di mercato e di stato nell’economia. Ma fra gli anni ’40 e gli anni ’70 nessuno prestò orecchio a questi vecchi credenti»41. La ricostruzione di Hobsbawm, uno storico dichiaratamente di sinistra, può non soddisfare appieno il nostro tentativo di obiettività. Ma le considerazioni non divergono molto se ci spostiamo dalle parti di un grande sociologo come Schumpeter, non certo rubricabile tra le file del pensiero di sinistra. Questi, infatti, nel capitolo finale del suo capolavoro, dapprima parla di quello capitalistico come di un ordine che «tende a distruggere se stesso» e di cui il centralismo socialista sembra essere un erede verosimile, quindi fornisce un elenco preciso di misure che caratterizzano il moderno «processo di disintegrazione 40. E.J. Hobsbawm, The Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, London 2003 [1994], p. 176. 41. Ivi, pp. 270-271.

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della società capitalistica» e che vengono date per assodate e accettate dalla totalità (qui l’autore esagera) degli economisti che si dichiarano ostili al socialismo, ma che indubbiamente sono collocabili sotto la pratica dell’«ingegneria economica»: 1) le varie politiche di stabilizzazione volte a prevenire recessioni o almeno depressioni (che significa una buona fetta di amministrazione pubblica rispetto agli affari economici); 2) la desiderabilità di una maggiore eguaglianza rispetto ai redditi cui è connesso il principio della tassazione redistributiva; 3) un ricco assortimento di misure regolative per ciò che concerne i prezzi; 4) controllo pubblico sul mercato del lavoro e del denaro; 5) l’indefinita estensione della sfera dei bisogni che l’intrapresa pubblica ha il compito di soddisfare e, in ultimo, naturalmente, ogni tipo di legislazione assistenziale (security legislation). Queste analisi portano Schumpeter a concludere che «abbiamo percorso un bel po’ di strada, a dire il vero, dai principi del capitalismo del laissez-faire e che, questo il fatto ulteriore, è oggi possibile sviluppare e regolare le istituzioni capitalistiche al fine di condizionare il lavoro dell’impresa privata in una maniera che differisce solo di poco da una genuina pianificazione socialista (genuinely socialist planning)»42. Ciò fu vero al punto che un ritorno alle pratiche precedenti la I Guerra mondiale si rivelò impossibile anche laddove fu tentato, come nel caso dell’Inghilterra con l’insuccesso della sua politica aurea. La crisi del ’29 e la II Guerra mondiale costituirono degli ulteriori «acceleratori», al punto che la politica di forte intervento statale venne fatta propria anche dagli Stati Uniti e persino la stessa classe economica e commerciale «accettò dei congegni regolamentativi che prevenissero il ripresentarsi di esperienze simili a quelle del 1929-32 e, in seguito, altri ancora che potessero prevenire una crisi post-bellica come quella del 1921».

42. J.A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, London 1976 [1943], pp. 423-425.

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Così come la stessa classe economica accettò di buon grado nuovi oneri fiscali (fiscal burdens), una mera frazione dei quali sarebbe stata insopportabile (unbearable) solo cinquant’anni prima (e come del resto apparve a tutti i maggiori economisti del tempo)43. Insomma, siamo di fronte a un dato di fatto incontrovertibile: dalla grande crisi economica del 1929, dalla disoccupazione di massa, dalle proteste sociali sfociate nel fascismo e nel nazismo, il liberalismo non uscì certo facendo appello ai propri capisaldi classici, bensì attraverso il fordismo da una parte (che consisteva nel ridistribuire i progressi della produzione industriale sotto forma di un aumento dei salari, dato che il miglioramento del potere d’acquisto stimolava la produzione), e il keynesismo dall’altra (basato sull’intervento dello stato e sul deficit di bilancio come strumenti privilegiati della politica economica). In due parole, lo straordinario progresso successivo alla seconda guerra mondiale si fondò sul Welfare State e durò fino alla fine degli anni ’70, quando questo modello entrò in crisi e ripresero forza le teorie liberiste (ispirate da von Hayek e Friedman e realizzate da Reagan e dalla Thatcher). Le teorie (e pratiche) liberiste, fondate sul disimpegno dello stato e sul ripristino dei profitti delle imprese (grazie anzitutto alle politiche di abbassamento del costo del lavoro), però, passando attraverso politiche di austerità che riducono i consumi (perché investire, infatti, se le capacità di produzione superano di molto la domanda solvibile?), non tardarono a mostrare i loro limiti e a produrre una nuova recessione, a partire dal 1990, rispetto a cui ancora oggi non si scorge una credibile uscita44. Gli stessi Stati Uniti, che i liberisti portavano a modello di un mercato autoregolantesi che non aveva bisogno della protezione statale, si adeguarono all’interventismo europeo (la protezione del suolo e dei lavoratori, la sicurezza sociale per i lavo43. Ivi, p. 425. 44. A. Gauthier, L’économie mondiale depuis la fin du XIX siècle; tr. it. L’economia mondiale dal 1945 ad oggi, Bologna 1995, pp. 103-105.

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ratori per mezzo del sindacalismo e della legislazione, la banca centrale), non appena si esaurì quel grande bacino di ricchezza che era costituito dalla frontiera aperta verso l’Ovest, che assicurò terra, lavoro e moneta in abbondanza e preservò gli Usa dalla necessità del Welfare State fino al 192945. Non è casuale che, ancora nel 1980, il liberista americano Friedman lamentasse il fatto che persino gli Stati Uniti, malgrado lì non si fosse adottata una politica economica centralizzata, si fossero diretti «negli ultimi cinquant’anni» verso un’espansione del ruolo del governo nell’economia, con limitazioni della libertà economica che minacciavano di porre fine al progresso economico degli ultimi due secoli46.

5. La globalizzazione tra «fondamentalismo del mercato» e nuove forme di dominio Per comprendere il senso del nostro discorso sulla globalizzazione o mondializzazione dell’economia, presupposto necessario è costituito dal constatare come il liberalismo, nella teoria quanto nella pratica, abbia dovuto fare i conti con la storia fino al punto di modificare in maniera radicale gli assunti che l’avevano caratterizzato nella fase classica. Per fare ciò possiamo servirci proprio di un autore liberale della seconda metà del Novecento, il quale traccia un bilancio secondo cui socialismo e liberalismo sono ormai usciti fuori dalle «identità prefissate» con le quali si 45. Cfr. K. Polanyi, The Great Transformation; tr. it. La grande trasformazione, Torino 1974 [1944], pp. 256-257. Un premio Nobel per l’economia dei giorni nostri si spinge addirittura oltre, affermando che anche nell’America dell’800 «il governo svolse un ruolo fondamentale per forgiare l’evoluzione dell’economia», cfr. J. Stiglitz, Globalization and Its Discontents, New YorkLondon 2002, p. 18. Un ottimo studio che documenta ampiamente, fra le altre cose, come lo stato abbia ovunque avuto un ruolo fondamentale nella nascita della società capitalistica è quello del sociologo J.A. Hall, Powers and Liberties: The Causes and Consequences of the Rise of the West, Oxford 1985. 46. M. & R. Friedman, Free to Choose, New York-London 1980, p. 64.

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era soliti qualificarli («planned economy o free enterprise», per esempio), tanto che il secondo si è trasformato a tal punto che ormai non solo con esso si intende sia la «libertà individuale» sia l’«intervento dello stato», ma soprattutto «sotto molti punti di vista noi possiamo oggi riconoscere che il liberalismo non è una singola entità. Al giorno d’oggi, infatti, noi siamo abituati a riferire il termine “liberale” al partito laburista inglese, al partito democratico americano e a partiti simili altrove. Ognuno di questi partiti ha legiferato attraverso politiche che possono essere descritte come socialiste e finalizzate al benessere sociale (socialist and welfarist), ripudiando larghe parti di quella che era intesa come dottrina liberale nei secoli più vicini»47. Per troppo tempo, e ancora oggi spesso, si è ritenuto che la nostra società si sia evoluta in base alla visione ottimistico-individualistica elaborata alla fine del 1700 da Adam Smith, quella per cui «lo sforzo naturale (natural effort) di ciascun individuo per migliorare la propria condizione, qualora lo si lasci esercitare con libertà e sicurezza, è un principio così potente che basta da solo, e senza alcun aiuto, non soltanto a portare la società alla ricchezza e alla prosperità, ma a superare i centinaia di inopinati impedimenti (impertinent obstructions) con i quali la follia delle leggi umane troppo spesso intralcia (encumbers) la sua azione»48. Si è dovuto attendere John Rawls e il 1971 per assistere a un autore che, pienamente riconosciuto all’interno della galassia liberale, teorizzasse una concezione della giustizia che «annulli 47. K. Minogue, The Liberal Mind, London 1963, pp. VII e 13-14. A esprimere tali considerazioni non è un autore socialista, bensì un serio esponente liberale del ’900, il quale, dopo aver rimarcato le notevoli differenze tra il classical liberalism e il modern liberalism, ammette chiaramente che «l’unità che in questi ultimi secoli ci ha permesso di discutere di liberalismo come di un’entità singola e all’insegna della continuità è puramente intellettuale», infatti «nel rapportarci con una tale dottrina di pensiero, noi ci rapportiamo con un’astrazione (abstraction), perché non c’è nessuna singola persona della quale si possa dire che è un liberale puro e semplice (eccetto forse John Stuart Mill)», ivi, pp. 14-5. 48. A. Smith, op. cit., vol. II, p. 40.

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gli accidenti della dotazione naturale» e la «contingenza delle circostanze sociali», poiché «l’arbitrio presente nel mondo deve essere corretto»49. Quindi, cercando di tracciare un bilancio, si può riassumere la questione in questi termini: il liberalismo classico, rimasto in vigore fino agli ultimi anni dell’Ottocento, aveva fondato i suoi assunti e valori su clausole di esclusione che vedevano privati del godimento di certi diritti tutta una serie di categorie sociali, sia interne sia esterne alla comunità dei liberi propria dei paesi occidentali. Il liberalismo commistionato con le istanze imperialistico-plutocratiche, istanze cui alla fine si era arreso fino ad arrivare a contraddire i propri valori fondanti, si è affermato con gli ultimi anni dell’Ottocento, caratterizzandosi per uno sfruttamento selvaggio dei paesi colonizzati al fine di recuperare possibilità di smercio e di accumulo di ricchezza per l’industria occidentale, ormai gravata da crisi di sovrapproduzione e bisognosa di trovare nuovi sbocchi. Entrambi i liberalismi, lo abbiamo visto e documentato, ben lungi dal caratterizzarsi per la presenza di un mercato autoregolantesi, hanno beneficiato dell’intervento massiccio e fondamentale da parte degli stati. Al punto che lo stesso Liberalismo tout court è uscito dalla grande crisi del ’29 grazie a un ripensamento completo dei suoi valori, fino ad arrivare a quella vera e propria commistione con le istanze del socialismo che ha caratterizzato l’«Età d’oro» dell’economia occidentale fino alla fine degli anni ’70 del XX secolo. In questa direzione è andata la controversa e conflittuale storia del liberalismo, in cui, tra conflitti e compromessi con la tradizione democratico-socialista, si può dire che i cittadini dei paesi occidentali sono giunti a vedere gradualmente riconosciuti tutta una serie di diritti inizialmente non contemplati (per tutti) dal liberalismo classico. Ma tale conclusione non è sufficiente, non può bastare. Perché comunque è innegabile che viviamo purtuttavia in un mondo regolato da un modo capitalistico di produzione e, come gli 49. J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge (Mass.) 1971, pp. 15 e 141.

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studiosi di economia ben sanno, dobbiamo tenere presente un principio basilare, individuato da Marx: quello per cui il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso e la produzione capitalistica supera continuamente questi limiti immanenti «unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta»50. Qui è, a nostro avviso, il fulcro della mondializzazione dell’economia, che, proprio su una scala nuova e più alta (globale, appunto), ci pone di fronte a situazioni simili rispetto a quelle viste nel passato. Da una parte, infatti assistiamo al ripetersi dello sfruttamento del lavoro umano, stavolta però all’interno degli stati in via di sviluppo, anche se molto spesso da parte di multinazionali occidentali che godono di un’alleanza, reciprocamente vantaggiosa, con i governi di quei paesi. Basti pensare alla situazione dei lavoratori in Asia, per esempio, in balia delle multinazionali che ne sfruttano l’opera in una condizione di totale assenza di legislazione in materia: «Indipendentemente dal luogo in cui sono ubicate le zone industriali di esportazione, per i lavoratori la storia non cambia. Si tratta perlopiù di giovani donne assunte da appaltatori o subappaltatori di Corea, Taiwan o Hong Kong e costrette a sostenere turni di lavoro interminabili (14 ore in Sri Lanka, 12 in Indonesia, 16 in Cina meridionale, 12 nelle Filippine). Gli appaltatori producono in genere merci commissionate da società statunitensi, inglesi, giapponesi, tedesche o canadesi. La direzione è di tipo militare, i supervisori sono spesso arroganti, i salari inferiori ai livelli di sussistenza e il lavoro monotono e poco specializzato»51. Dall’altra parte, il sistema globale dell’economia ci pone di fronte, ancora una volta, a un Occidente che, in grado di dominare economicamente e, salvo rare eccezioni, militarmente il mondo, grazie all’ausilio di istituzioni internazionali sotto il suo esclusivo controllo, sfrutta e impoverisce paesi in via di sviluppo grazie all’imposizione di valori (quali il libero scambio e il non 50. Cit. in G. Arrighi, op. cit., p. 289. 51. N. Klein, No Logo; tr. it. No Logo, Milano 2000, p. 184.

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intervento dello stato), che, lo abbiamo visto, sono stati rifiutati e superati dai medesimi paesi occidentali al proprio interno. Esattamente cento anni dopo la lucida analisi di Hobson, è stavolta un altro liberale, recente premio Nobel per l’economia, a mettere in luce questa realtà. Partendo subito da una premessa, che al tempo stesso è una conclusione, davvero eloquente. Partendo dall’analisi dei danni e delle ingiustizie della cosiddetta globalizzazione, l’autore giunge a biasimare il fatto che al giorno d’oggi «non abbiamo un governo mondiale, responsabile davanti ai cittadini di ogni paese, che possa sovrintendere al processo di globalizzazione in maniera paragonabile a quanto fecero i governi degli Stati Uniti e di altri paesi nel guidare il processo di nazionalizzazione [dell’economia, ndr.]»52. La concezione oggi imperante nel rapporto degli stati ricchi con i paesi poveri, lamenta Stiglitz, è fondata su politiche «neoliberiste», su un «fondamentalismo del mercato» che altro non è se non un ritorno all’economia del laissez-faire propugnata nell’800: «Dopo la grande depressione e il riconoscimento di altri fallimenti del sistema di mercato, dalle profonde disuguaglianze alle città rese invivibili dall’inquinamento e dal degrado, i paesi industriali più avanzati hanno rifiutato queste politiche liberiste, sebbene rimanga sempre aperto il dibattito su quale sia il giusto equilibrio tra regolamentazione e libero mercato»53. Ma l’economia mondiale, oggi, è dominata da poche istituzioni controllate dai paesi ricchi (Fmi, Wto, Banca mondiale) e da pochi protagonisti (finanza, commercio, ministeri del commercio), strettamente collegati a interessi finanziari e commerciali ben delineati, mentre coloro che ne subiscono le decisioni non hanno praticamente voce in capitolo. Questo fa sì che gli stessi paesi ricchi, proprio perché nel corso della storia, e sulla propria pelle, si sono accorti del fatto che la «liberalizzazione del commercio» spesso non mantiene le sue promesse ma semplicemente conduce a un aumento della disoccupazione, hanno 52. J. Stiglitz, op. cit., p. 21. 53. Ivi., p. 74.

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Paolo Ercolani

spinto la liberalizzazione del commercio per quanto concerne l’esportazione dei propri prodotti, salvo, allo stesso tempo, continuare a proteggere quei settori nei quali la concorrenza dei paesi in via di sviluppo poteva minacciare le loro economie. Ciò avveniva e avviene nei famosi incontri dei G8, ricorda Stiglitz, e la contestazione iniziata a Seattle è cominciata proprio nell’ambito di uno di questi incontri in cui i paesi ricchi allacciavano accordi e gestivano le leggi del mercato sulla base del proprio esclusivo interesse, a spese dei paesi in via di sviluppo cui non veniva permesso di esportare i propri prodotti liberamente54. Inutile dire che ci troviamo ancora una volta di fronte a una costante del mondo liberale: quella dei due pesi e due misure. I principi liberisti vengono propugnati (e imposti) ai paesi poveri o in via di sviluppo (che ne pagano conseguenze pesantissime, senza peraltro goderne gli eventuali benefici), mentre le economie dei paesi ricchi continuano a godere delle sovvenzioni, e della forte protezione, dei rispettivi governi e stati (quando non delle suddette istituzioni economiche transnazionali)55. E dire che lo stesso Stiglitz riconosce che si tratta di «una lunga storia di ipocrisie e ingiustizie», ricordando come già nel XIX secolo le potenze occidentali, cresciute loro stesse proteg54. Ivi, pp. 60-61. 55. Emblematico è il caso della Russia dopo il crollo del muro di Berlino. Questo paese, storicamente grande produttore di alluminio, dopo la fine della Guerra Fredda, era diventato potenzialmente un grande esportatore, vista anche la domanda interna notevolmente diminuita (gli aerei da combattimento non si producevano più in maniera massiccia). Poiché anche la domanda internazionale per la produzione di lattine per le bevande andava diminuendo, Paul O’Neill, presidente di Alcoa (un’azienda leader americana del settore), propose e ottenne la formazione di un cartello mondiale per fare fronte al crollo dei prezzi. Naturalmente la proposta fu accolta, i prezzi risalirono, la Russia non poté ottenere i benefici che le sarebbero spettati in un mercato veramente libero e i consumatori pagarono l’alluminio a un prezzo più alto di quello che, sempre un mercato libero, avrebbe potuto garantire: «Pur propagandando le virtù dei mercati competitivi, gli Stati Uniti non ci pensarono due volte ad auspicare, la creazione di cartelli mondiali nei settori dell’acciaio e dell’alluminio in cui le loro industrie nazionali sembravano minacciate dalle importazioni», cfr. J. Stiglitz, op. cit., pp. 173 ss.

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1902-2002: la logica del dominio occidentale da Hobson a Stiglitz

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gendo le proprie economie, non si esimevano dallo stipulare trattati commerciali assai sleali. Il più «oltraggioso», fu quello seguito alla «guerra dell’oppio», in cui Regno Unito, Francia, Russia e Stati Uniti si unirono contro la Cina (nel 1858) non soltanto per costringerla a concessioni territoriali e commerciali, con la garanzia di esportare a basso prezzo le merci prodotte in Occidente, ma anche per vincolarla ad aprire i propri mercati all’oppio, condannando così milioni di cinesi all’assuefazione56. La protesta contro questo tipo di globalizzazione iniziò a Seattle proprio per combattere questo tipo di iniquità ripetute, quando per l’ennesima volta i paesi industrializzati si stavano accordando per imporre ai paesi in via di sviluppo le proprie merci e chiudere le proprie frontiere ai prodotti agricoli e tessili del Terzo mondo. Contemporaneamente, sulla base dell’ideologia del fondamentalismo del mercato, gli stessi paesi industrializzati da una parte imponevano a quelli poveri di non sovvenzionare le loro industrie con aiuti governativi, salvo dall’altra elargire sovvenzioni per miliardi ai propri agricoltori, distruggendo di fatto ogni possibilità di concorrenza giusta57. Anche questo è stato ed è a tutt’oggi il capitalismo occidentale, un sistema che, in maniera travagliata e conflittuale, ha reso benestante la grande maggioranza dei cittadini occidentali, ma che si è esteso al resto del mondo facendo sì che questa estensione assumesse la forma di una «sottomissione del mondo all’Occidente»58. Ecco perché, per concludere, può tornare utile, per capire il mondo globalizzato in cui viviamo oggigiorno, la riflessione che Braudel fece esattamente trent’anni addietro. Questi, constando che il mondo si sviluppava sotto il segno dell’ineguaglianza, alla definizione di «economia mondiale», per comprendere le dinamiche dell’ineguaglianza medesima, preferiva la definizione di 56. Ivi, pp. 61-2. 57. Ivi, p. 244. 58. S. Latouche, L’occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de l’uniformation planetarie, Paris 1989, p. 43.

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Paolo Ercolani

«economia-mondo», caratterizzata non dall’economia del mondo presa nel suo intero, bensì da tre caratteristiche precipue: uno «spazio geografico dato» (e quindi limitato), da un «polo» o centro rappresentativo costituito da una città dominante (già allora parlava di New York) e soprattutto da una divisione in zone successive, la cui ultima, più lontana dal centro nevralgico e più estesa di tutte le altre, si trova a recitare un ruolo subordinato e dipendente più che partecipante59. Da questa lucida e precisa analisi di Braudel si dovrebbe partire per capire il mondo di oggi. Un mondo in cui, per rifarci all’episodio sportivo con cui abbiamo iniziato, si svolge un grande gioco in cui le regole non sono uguali per tutti e gli arbitri sono decisamente di parte. Così che alle squadre più deboli, bene che gli vada, è concessa qualche sporadica vittoria cui farà seguito, immancabile, l’interruzione della partita stessa.

59. F. Braudel, op. cit., pp. 83-86.

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Luigi Alfieri

Sovranità, morte e politica I

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1.

Propongo qui un tentativo di riflessione radicale sul concetto di sovranità, al di là delle nozioni giuridiche correnti, che, come spesso fanno le nozioni giuridiche, rischiano di addormentare i problemi. Ammettiamo pure, anzitutto, che la sovranità abbia a che fare col decidere in ultima istanza, o col non riconoscere un superiore1. Ma cosa significa questo realmente, cioè al di là delle forme istituzionali, delle definizioni normative e di tutto ciò che ci dà la gradevole illusione che qui si stia parlando di un ordine razionale della convivenza? Se una volontà, non importa di chi, si pone come sovrana, come si rapporterà alle volontà altrui? Sicuramente e per definizione, non le riconoscerà come superiori. Va dunque ovviamente escluso che una volontà sovrana possa essere una volonI. Una versione molto abbreviata di questo lavoro è stata pubblicata nel vol. Politica della vita, a cura di L. Bazzicalupo e R. Esposito, Roma-Bari 2003, che raccoglie gli atti del convegno svoltosi a Napoli il 14-15 giugno 2002 presso l’Istituto di Studi Filosofici. Pubblico qui per la prima volta la stesura integrale del mio contributo. 1. Per limitarsi ai due vertici contrapposti della riflessione giuridica sul tema, cfr. H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, tr. it. e prefazione di R. Treves, Torino 1967, pp. 140-69; Id., Essenza e valore della democrazia, tr. it. di G. Melloni, in La democrazia, a cura di M. Barberis, Bologna 1998, pp. 127-40; C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, tr. it. di P. Schiera, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna 1988 [ristampa], pp. 27-86; Id., Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, tr. it. di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Milano 1991, pp. 141-47 e 168-73.

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Luigi Alfieri

tà obbediente2. Sarà certamente una volontà imperante, quando incontra volontà ritenute inferiori. Sarà invece una volontà confliggente, nel caso in cui incontri volontà con essa contrastanti, ma appartenenti a soggetti riconosciuti come del medesimo rango. Chi non riconosce superiori può certamente riconoscere pari, ma, tra volontà pari, o si delimitano i rispettivi campi di competenza (e in questo caso le volontà non s’incontrano, in quanto reciprocamente si escludono dalle rispettive sfere d’attribuzione – si saranno forse incontrate in precedenza, per delimitarsi consensualmente), oppure, se non ci sono delimitazioni riconosciute, ogni volontà si presenta all’altra come totale, e in questo caso il contrasto si risolve solo con un atto di forza che elimini o sottometta una delle volontà in contrasto. Dunque, una volontà sovrana può ammettere di fronte a sé solo volontà obbedienti o volontà consenzienti. Di fronte a volontà disobbedienti o dissenzienti, o la volontà sovrana si ritrae, cessando con ciò stesso di essere sovrana, almeno sovrana in quella sfera, oppure può affermarsi unicamente come forza coercitiva, punitiva o distruttiva. Ma come forza sostenuta dal diritto di essere coercitiva, punitiva o distruttiva; dunque (per usare un’espressione che bisognerà chiarire) come forza legittima. 2. È soprattutto a questo livello che emerge una differenza tra sovranità interna e sovranità esterna. La sovranità interna non può riconoscere pari, altrimenti si nega in quanto sovranità. Perciò ogni contrasto di volontà, ogni disobbedienza implica il disconoscimento della sovranità, e quindi una lotta per essa. La sovranità interna si afferma come l’unica volontà legittima in quella sfera: le eventuali volontà in contrasto sono per ciò stesso volontà colpevoli, indegne d’esistere, meritevoli di di-

2. È forse meno ovvio che non potrà essere obbediente neppure nei confronti della legge, neppure nei confronti della costituzione. Il sovrano è legibus solutus, o non è. E se la sovranità è della legge, questo può significare soltanto che non c’è un sovrano, cosa peraltro possibilissima, e anzi probabilmente auspicabile. Ma su questo bisognerà tornare.

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Sovranità, morte e politica

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struzione. Se il contrasto di volontà dovesse risolversi in contrasto di forze, una sola di esse, quella che si pretende sovrana, avrebbe diritto d’esserci (e se non riuscisse a schiacciare le altre, verrebbe dunque rovesciata e distrutta in quanto sovrana, o dovrebbe almeno cedere alle altre uno dei suoi spazi di sovranità, come può accadere ad esempio quando un territorio appartenente a uno Stato riesce ad affermare la propria indipendenza, o quando un’autorità rinuncia a vincolare la fede religiosa o il pensiero). La sovranità esterna, invece, si esercita tra pari, e pari è chiunque le resista e riesca a mantenersi in questa resistenza: chiunque, di fronte a una volontà che pretende di soverchiarlo, possa lottare per mantenere la propria volontà e riesca a non essere sconfitto, o a non esserlo totalmente. Cioè, detto in termini più concreti, sovrano è in questo caso chiunque riesca a fare la guerra senza perderla o, pur perdendola, riesca a convincere l’avversario che il rispetto della propria esistenza come soggetto sovrano è preferibile al tentativo di sottometterlo o distruggerlo. Nell’ambito della sovranità esterna (non dirò del diritto internazionale, perché i concetti giuridici sono maschere, e non dirò neppure dei rapporti tra Stati, perché qui stiamo parlando di qualcosa di più antico e universale dello Stato) la guerra ha una funzione costitutiva: è precisamente essa a determinare chi sia sovrano. Definizione di sovranità esterna: sovrano è chi vince la guerra (o almeno, non la perde del tutto). E s’intende che questa funzione costitutiva non è circoscritta a un unico momento originario, ma è continua nel tempo. La sovranità esterna, infatti, non è mai conquistata una volta per tutte. Non è mai garantita, neppure da eventuali accordi, che valgono soltanto finché la forza di ciascun contraente è tale da indurre gli altri a rispettarli. Chiunque possa fare la guerra ha il diritto di contestare l’altrui sovranità, perché questa sovranità non si fonda in nessun caso su un titolo di legittimità che non sia la guerra. È sempre la guerra a decidere chi resta sovrano, chi lo diventa, chi cessa di esserlo. E la guerra ha tempo, la guerra non ha fretta. Non tolgono dunque nulla a questa verità i lunghi o

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Luigi Alfieri

anche lunghissimi periodi di pace, neanche quelli tanto lunghi da far affermare come nozione di senso comune che la sovranità esterna si fondi sugli accordi, sul reciproco riconoscimento. Il reciproco riconoscimento non consiste in altro che nell’essere venuti ugualmente a capo di una guerra, restando ancora in piedi. In ciascun momento storico, i soggetti sovrani costituiscono la comunità, sempre provvisoria, dei sopravvissuti alla guerra3. E la sovranità continua finché dura la capacità di sopravvivere alla guerra, o la convinzione degli altri soggetti che questa capacità ci sia e non convenga sfidarla. E quando sorgeranno dubbi, quando la sovranità inizierà a scricchiolare, il solo possibile modo di confermarla sarà metterla a rischio nella guerra. Non sembra che ci siamo ancora accorti, stranamente, che da poco più di cinquant’anni in tutto questo c’è stato un mutamento straordinario, forse l’unico mutamento vero e radicale da quando esiste l’uomo. L’arma nucleare, naturalmente. Mi risulta che i manuali di diritto internazionale riescano spesso a non menzionarla neppure. Eppure, essa ha completamente ridefinito, per la prima volta nella storia, l’ambito della sovranità esterna. In maniera molto chiara e logica. Nessuno può resistere a chi possiede le armi atomiche, se non chi a propria volte le possiede. Dunque, solo chi ha le bombe atomiche è sovrano, e può riconoscere come sovrani solo gli altri possessori di bombe. Quindi, dal punto di vista della sovranità esterna, oggi esistono soltanto le potenze nucleari: tutto il resto è colonia o protettorato. Ci possono essere anche protettorati riottosi, che riescono in qualche modo a ritagliarsi un proprio spazio, ponendo le potenze protettrici nell’alternativa di tentare di sottometterli con una guerra convenzionale lunga, costosa e incerta, o di ricorrere appunto all’arma nucleare per un motivo sproporzionato e con conseguenze difficilmente prevedibili. Ma anche in questo caso, è pur sempre la presenza di altre potenze nucleari ad essere il fattore determinante, da cui può derivare l’illusione che la so3. Sul potere come sopravvivenza, cfr. E. Canetti, Massa e potere, tr. it. di F. Jesi, Milano 1981, pp. 273-336.

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Sovranità, morte e politica

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vranità esterna sia più pluralistica e meglio distribuita di quanto in realtà non sia. La guerra del Vietnam ne è un esempio chiaro. Non si è trattato di una sconfitta militare degli Stati Uniti (nessuna potenza nucleare può essere davvero sconfitta da una potenza non nucleare, e la cosa è ovvia), ma della decisione di abbandonare una guerra non realmente necessaria, che poteva essere vinta solo a un costo molto alto, mentre l’uso dell’arma atomica, che sarebbe stato risolutivo sul terreno, avrebbe provocato il rischio di un conflitto nucleare generalizzato. Senza l’Unione Sovietica e la Cina, sarebbe bastata anche solo la credibile minaccia dell’uso dell’arma atomica per porre fine alla guerra immediatamente. E qui scorgiamo l’altra innovazione fondamentale propria dell’era atomica (una definizione in passato usuale, ora stranamente desueta: come se questa non restasse, e non fosse destinata a restare per sempre, una svolta nei destini umani almeno altrettanto importante dell’uso del fuoco, e sicuramente d’importanza enormemente maggiore rispetto alla caduta dell’Impero romano o alla scoperta dell’America). Chi non possiede armi atomiche, semplicemente non esiste come soggetto sovrano (ciò non toglie che si possa esistere comodamente, e anche dignitosamente, come protettorati, se la potenza protettrice non ha troppe pretese). Ma chi le possiede, deve rinunciare a priori a mettere in discussione che tutte le altre potenze nucleari (almeno al di sopra di una certa soglia di capacità distruttiva) siano definitivamente sue pari. Non c’è più la pressione selettiva della guerra sulla sovranità. Chi ha la bomba, è sovrano per sempre, o per meglio dire è sovrano finché ce l’ha: a dispetto di ogni insuccesso competitivo, di ogni crisi interna, di ogni spinta centrifuga, di ogni perdita d’identità (il caso della Russia è evidente ed esemplare). Gli imperi non crollano più: chi ha la bomba è condannato ad essere immortale. E quindi, tra potenze nucleari non ci sono più vincitori e vinti. Non c’è più sopravvivenza. Siamo davvero, oggi, oltre la guerra4. 4. Rinvio sul tema ai miei saggi La guerra impossibile: dalla deterrenza alla pace?, in Aa.Vv., Il nuovo volto di Ares o il simbolico nella guerra post moderna,

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Luigi Alfieri

Ci siamo accorti che la parola “guerra” non si usa quasi più? Non è solo un’ipocrisia, e anche se lo fosse sarebbe ugualmente significativa. Una guerra che non si vuole o non si può nominare è davvero cosa diversa rispetto alla guerra il cui nome era addirittura invocato con orgoglio e speranza. Ma non è, appunto, solo questione di nomi. Certamente non è finita la violenza, certamente non è finita la capacità e la volontà di uccidere, su larga o larghissima scala. È finita precisamente la possibilità che ciò decida della sovranità. I pari restano pari, anche se alcuni sono ricchissimi e altri poverissimi, alcuni democrazie e altri dittature, alcuni solidi e altri instabili, alcuni in espansione e altri in arretramento. Non possono più sfidarsi, non possono più disconoscersi, perché perderebbero tutti. Ma se finisce la lotta per la sovranità, se finisce la guerra, finisce propriamente l’intera dimensione esterna della sovranità. Il mondo è un condominio di potenze nucleari, che se sono in conflitto dovranno accuratamente delimitare gli spazi che il conflitto non dovrà mai valicare, e che dunque non potranno mai essere veramente in conflitto (lo abbiamo davvero capito, quant’è stato paradossale il concetto di guerra fredda?)5. È questa la vera globalizzazione, di cui ogni altro aspetto è una conseguenza. In qualche modo, lo Stato mondiale sognato dagli illuministi esiste già, per quanto poco entusiasmante possa apparire la sua realtà rispetto ai sogni: esiste come confederazione (sia pure disordinata e litigiosa) di potenze nucleari che gestiscono i propri rispettivi clienti in un contesto di reciproca compatibilità, e in cui l’esercizio della violenza (per nulla meno frequente o meno cruento di prima) non può assumere la forma della guerra vera e propria (cioè del conflitto per la vita e la morte tra soggetti sovrani), ma piuttosto quella dell’azione di polizia o dell’applicazione della pena. Cioè le forme proprie della sovranità interna6. a cura di C. Bonvecchio, Padova 1999, pp. 51-59, e La stanchezza di Marte. Prospettive sulla guerra globale, «La società degli individui», 1, 2005, pp. 1931. 5. Cfr. R. Escobar, Metamorfosi della paura, Bologna 1997, pp. 19-30. 6. Cfr. Schmitt, Il nomos della terra cit., pp. 429-31. L’intervento anglo-

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Sovranità, morte e politica

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È ovvio che questo alimenti il terrorismo. Si tratta dello stesso effetto proprio di una sovranità interna contrastata da rivendicazioni radicali e irriducibili, ma che non riescono né possono riuscire a rovesciarla o riformarla. Il dissenziente che non si accontenta d’essere criminale, ma che non ha la forza per fare con successo una rivoluzione, non può che diventare terrorista. Il terrorismo è l’illusione di poter fare la guerra senza essere soggetti sovrani, cioè senza essere soggetti davvero capaci di uccidere. Il terrorista può uccidere ogni singolo individuo, ma non può “colpire al cuore lo Stato”. Probabilmente perché un cuore dello Stato oggi non c’è, in ogni caso perché qualsiasi cosa possa approssimarsi a questo romantico e ingenuo concetto è troppo al di fuori della sua portata. Cosa importa chi governa o sgoverna alla periferia dell’impero? Qualsiasi cosa cambi a quel livello, nulla cambia davvero. E se davvero c’è un cuore della sovranità, questo non può che identificarsi appunto con la sua essenza, la sua capacità cioè di dare morte, che è invulnerabile rispetto a ogni forza che non sia dello stesso rango. L’impero ha un cuore nucleare, scudi nucleari, spade nucleari. Con pistole o tritolo, non si va lontano. Ma non realmente diversa è la situazione per il terrorismo internazionale. Anzitutto, perché non c’è più alcuna vera “internazionalità”. E poi perché a questi livelli d’asimmetria delle capacità distruttive non può esserci vera guerra, cioè reale possibilità di vincere distruggendo l’avversario. Il terrorista s’illude di poter compensare la sproporzione di forze rendendosi invisibile e onnipresente, ma una reale invisibilità comporterebbe dispersione e debolezza, mentre ogni significativa concentrazione di forze implica il diventare bersaglio. E sarebbe del resto quasi impossibile concentrare le forze senza la protezione di uno Stato o l’identificazione con uno Stato. Che, se è una potenza nucleare, si servirà dei terroristi che protegge solo fino a che ciò non gli fa rischiare il conflitto generalizzato che lo distruggeamericano in Iraq (con “volenterosi” clientes al seguito) ne è una prova inequivocabile, peraltro tra tante.

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Luigi Alfieri

rebbe insieme con ogni altra cosa; e se è un protettorato, potrà agire solo nei limiti che le potenze protettrici (tutte le potenze protettrici nel loro insieme) sono disposte a concedergli. Non c’è comunque vera gara, perché non può esserci vera guerra. Diverso sarebbe il discorso se il terrorista potesse avere abbastanza armi nucleari (o equivalenti) da rappresentare una minaccia non estirpabile senza un conflitto nucleare completamente distruttivo. Allora però sarebbe diventato un soggetto sovrano: non solo uno Stato, ma molto di più di quello che la maggior parte degli Stati oggi sono. A quel punto, però, le sue armi non le potrebbe più usare, perché non ci sarebbe nessuno scopo, nessun vantaggio, nessun cambiamento, nessun evento: se non la fine di tutto. Ciò è lungi dall’essere impossibile, purtroppo7. Ma qui saremmo oltre i limiti d’ogni riflessione e d’ogni attribuzione di senso, nel pieno mistero del male. 3. Se tutto questo è vero, la sovranità interna rappresenta oggi non più solo una parte, ma il tutto della sovranità. Per capirlo bene, però, dobbiamo anzitutto considerarne la forma classica, la forma di quando c’era ancora un esterno. Dunque: un soggetto sovrano di tipo classico si rapporta all’esterno con propri pari (in quanto non ha potuto “ucciderli”), e all’interno solo con inferiori e subordinati (altrimenti li ucciderebbe). All’esterno, la sovranità coincide interamente con la capacità di uccidere e non ha nessun altro reale fondamento (a parte le sofisticherie metafisico-giuridiche). All’interno, invece, interviene un altro singolare elemento, denominato in genere legittimità. È un elemento molto sfuggente, ma non è una mera sofisticheria. E non lo è per due motivi almeno. Anzitutto, perché nessun soggetto sovrano allega mai, nei rapporti interni, la semplice forza come fondamento ultimo della propria esistenza (mentre all’esterno è così: non ha alcun senso e alcun effetto pratico negare legittimità a chi ha abbastanza forza da 7. A distanza di qualche anno dall’originaria stesura di questo lavoro, ciò mi pare oggi più possibile di allora.

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Sovranità, morte e politica

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resistere a questa negazione, e chi ha la forza non ha veramente bisogno di nient’altro), e se ai sudditi si opponesse la mera forza del sovrano ciò sarebbe unanimemente definito tirannide (non esistono invece “tiranni” all’esterno, perché tutti lo sono ugualmente). Ma, principalmente, ciò accade perché la stessa volontà sovrana non ha alcuna reale autonomia né alcuna reale superiorità di forza rispetto alle volontà dei sudditi, da cui è interamente costituita (e che le conferisce anche la possibilità di aspirare alla sovranità esterna). Da Hobbes in poi, non può destare più alcuna sorpresa l’idea che siano i sudditi a fare il sovrano8. E poco o nulla si potrebbe aggiungere o mutare in questo supremo svelamento del mistero della sovranità. Sotto questo profilo, la sovranità è il consenso, e non cambia molto se il consenso è argomentato e ragionevole, o convinto ed entusiastico, o indiretto e passivo. Per questo la volontà sovrana (che è davvero in qualche modo definibile come volontà generale) non può riconoscere altre volontà accanto a se stessa: fuori del tutto c’è niente, magari un niente vorace, aggressivo, nemico, da cancellare. E qui risiede tutta la differenza tra la devianza (che è “criminale”) e la rivoluzione (che è legittima, anzi fonte di legittimità, perché è un cambiamento della volontà sovrana). Finché la maggioranza (non solo numerica: per usare un concetto molto generico, di cui forse possiamo qui accontentarci, si tratta piuttosto di una maggioranza di “forze sociali”, da intendere assai variamente nelle diverse epoche e situazioni) sostiene o accetta l’autorità, questa è comunque sovrana. E legittimità è non tanto il fatto del consenso, quanto la convinzione, più o meno intensa e consapevole, che il consenso sia dovuto o necessario, perché non risulta pensabile che di quella forma d’autorità si possa fare a meno. Per questo il princeps è legibus solutus: proprio perché è legittimo, cioè sostenuto da questo tipo di consenso, e quindi non vincolabile da altro, neppure dalla sua propria volontà. La 8. Cfr. Th. Hobbes, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, tr. it. di A. Lupoli, M.V. Predaval e R. Rebecchi, a cura di A. Pacchi e A. Lupoli, Roma-Bari 62000, parte II, cap. XVII, pp. 139-44.

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Luigi Alfieri

volontà del sovrano è la risultante delle volontà, nell’essenziale convergenti, dei sudditi. Non possono entrare in gioco forze diverse da queste, e il sovrano che dovesse riconoscere altri limiti diverrebbe paradossalmente illegittimo. Il sovrano può sempre fare ciò che i sudditi gli fanno fare (sia nel senso che lo obbligano a fare, sia nel senso che gli permettono di fare). Se riconoscesse vincoli diversi, si negherebbe in radice come soggetto sovrano, cioè negherebbe il sostanziale rapporto che lo lega al consenso, con una contraddizione logicamente insostenibile e fattualmente impossibile. È invece del tutto possibile che non ci sia sovrano. Anche qui il diritto rappresenta solo un ostacolo alla comprensione dell’essenziale. La sovranità non è la stessa cosa della statualità, né è necessariamente implicata dall’esistenza di una qualsiasi autorità di governo. Ci sono, e sono anzi numerosissime, delle forme d’organizzazione sociale che della sovranità fanno tranquillamente a meno, utilizzando altri princìpi ordinatori ugualmente efficaci. Per questo il concetto di sovranità della legge è insensato, senza che questo comporti come necessaria conseguenza il dover accettare forme assolute o totalitarie di sovranità. Sovranità della legge è solo un modo suggestivo e iperbolico, e altamente fuorviante, per designare un sistema in cui non c’è autorità sovrana, ma una rete complessa di forze sufficientemente convergenti da potersi presentare e rappresentare (anzitutto a se stesse) come un tutto. E la stessa cosa si può dire per il concetto (diverso anche se non necessariamente confliggente) di “sovranità del popolo”. Un’espressione che se presa alla lettera è solo un’evidente falsità (e sarebbe inutile insistere su un punto che nella scienza politica contemporanea è definitivamente assodato), ma può essere un modo sensato e simbolicamente efficace di esprimere, con una connotazione di valore positiva e carica di risonanze immaginative ed emotive, appunto l’assenza di sovranità. 4. È proprio qui, però, che il modello hobbesiano cessa di assisterci. È ovviamente inconcepibile, secondo questo modello,

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che la sovranità possa mancare senza che manchi l’ordine. Mentre è un fatto che, in molte società premoderne, ma probabilmente anche in moltissime società contemporanee, la sovranità non c’è9. E la ragione per cui Hobbes scambia il tutto dell’ordine con una sua parte pur importante, appunto la sovranità, è probabilmente la stessa ragione per cui è insufficiente a chiarire sino in fondo cosa è legittimità. Mi ritengo ovviamente dispensato dal compito di riassumere Hobbes. Si può andare direttamente all’essenziale: il modello del consenso razionale espresso nel pactum e motivato dalla paura e dal bisogno di sicurezza. Certamente, non c’è niente di nuovo nel rilevare l’intima contraddizione di un bisogno di sicurezza che si soddisfa personificando la paura e consegnandosi ad essa senza limiti e senza riserve. Ci sarebbe un modo molto più semplice di realizzare la sicurezza senza la sovranità, ed è proprio ciò che Hobbes ha invece individuato come l’essenza del disordine e il cuore stesso della paura: l’uguaglianza degli uomini sotto il profilo della pari e reciproca uccidibilità10. Perché mai il consegnarsi inermi a un monopolista dell’uccidere darebbe più sicurezza della possibilità di uccidere ogni potenziale uccisore? La pari uccidibilità non è necessariamente bellum. Anzi, tutte le guerre sono prodotte da uno squilibrio di forze (o, spessissimo, dall’illusione che questo squilibrio ci sia e sia a proprio vantaggio). Nessuno (sempre che non sia aggredito, e forse neanche allora) fa la guerra, se non pensa di poterla vincere, o almeno di poterle sopravvivere. In un contesto d’uccidibilità realmente pari, la guerra non si fa. Se davvero tutti possono uccidere tutti, dunque, il sovrano è assolutamente superfluo. È esattamente quello che c’insegna, sotto un altro profilo, l’equilibrio del terrore atomico. Che è terrore, ma equilibrio, ordine, in qualche strano modo pace, e persino unificazione del mondo.

9. Cfr. T.C. Lewellen, Antropologia politica, tr. it. di C. Rossetti, Bologna 1992 [ristampa], pp. 33-53. 10. Cfr. Hobbes, Leviatano cit., parte I, cap. XIII, pp. 99-104.

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C’è in Hobbes, oserei dire, un concetto latente di democrazia, ben lontano dalle note invettive tucididee contro la democrazia da lui pronunciate11. E consiste precisamente nell’uguaglianza degli uomini per natura, perché nessuno è per natura esente dal rischio di essere ucciso, in quanto nessuna forza fisica può mettere al riparo dall’ingegnosità o dalla capacità di coalizzarsi dei più deboli. Specialmente se si hanno armi, e armi la cui efficacia sia indipendente dalla forza fisica o dal coraggio o da particolari abilità di chi le usa (com’è evidentemente il caso delle armi da fuoco). Immaginiamo un sistema politico in cui tutti i cittadini siano armati, o possano armarsi con facilità. Ne risulterà che nessuna disuguaglianza sociale potrebbe risolversi in un diritto dei più favoriti di togliere impunemente la vita ai meno favoriti, e che nessun’autorità potrebbe prevaricare al punto di mettere arbitrariamente a rischio la vita dei cittadini. Altrimenti si spara, e questo non conviene a nessuno. Non è un esempio del tutto teorico. Noi europei non capiamo quasi niente degli Stati Uniti, perché pensiamo che si tratti della stessa cosa dell’Europa, solo in forma un po’ più barbara. In particolare, pensiamo che parlare di democrazia in America e in Europa sia in sostanza la stessa cosa. E invece no. In Europa, democrazia significa poter andare a votare. In America, può significare poter andare a sparare. L’attaccamento degli americani alle armi da fuoco non sarà encomiabile, ma non è un incomprensibile e irragionevole feticismo della violenza. Cittadino è chi può difendere con le armi la propria libertà. E questa libertà consiste precisamente nell’essenza della sovranità classicamente intesa, cioè nel poter uccidere. In realtà, il concetto di “popolo sovrano” ha probabilmente un senso proprio, e non vagamente metaforico, solo così. Tutti possono uccidere chi viola i loro spazi vitali, dunque tutti sono sovrani, dunque un sovrano non 11. Mi riferisco alla senile autobiografia in versi latini: Th. Hobbes Malmesburiensis Vita, scripta anno MDCLXXII, in Opera philosophica quae latine scripsit omnia, 5 voll. London 1839-45 [ristampa fotostatica, Aachen 1961], vol. I, p. LXXXVIII.

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c’è. È un ordine fortemente violento, ma è un ordine, e non si vede proprio come si possa ritenere meno violento l’ordine della sovranità hobbesiana, in cui uno solo, col consenso di tutti, può uccidere chiunque. Nell’Ottocento queste cose si sarebbero comprese meglio: ci siamo dimenticati quanto fosse importante, per il movimento costituzionalista, la rivendicazione della Guardia Nazionale, da contrapporre come presidio delle libertà civili alle forze mercenarie al servizio della monarchia, o quanto nel Risorgimento, tra i mazziniani e i garibaldini, l’idea d’indipendenza nazionale sia legata a quella d’esercito di popolo12. È un’idea molto chiara e molto lucida: non è possibile che sia sovrano chi non ha gli strumenti per uccidere. Ma il principale di questi strumenti è, lo abbiamo già visto, il consenso, che si autointerpreta come “legittimità”. E qui resta il nucleo, ancora parzialmente inesplorato e misterioso, della sovranità. Perché il vero problema non è quello hobbesiano del passaggio dal disordine senza sovranità all’ordine sovrano. Il vero problema è come e perché si passa, da una forma in qualche modo naturale di “democrazia” basata sulla reciproca uccidibilità che costringe a una delimitazione consensuale dei rispettivi spazi vitali, a una forma monarchico-oligarchica, a una forma comunque concentrata, monopolizzatrice. Che vantaggio offre la sovranità concentrata rispetto alla sovranità diffusa? Per Hobbes, dovrebbe essere un vantaggio di sicurezza. Ma questo è fattualmente falso. Tutta la storia dimostra ad abundantiam, con quello che si potrebbe chiamare un vero scialo di morte13, che la sovranità concentrata uccide infinitamente di più di quella diffusa. Nelle società “segmentarie” o “acefale” di cui parla l’antropologia culturale, la violenza è certamente endemica, ma 12. Cfr. il mio saggio Modelli di difesa militare nella Costituzione, «Studi urbinati», sez. B, Scienze umane e sociali, 1990(LXIII), pp. 11-20. 13. Penso qui al compianto Italo Mancini, del cui linguaggio filosofico questa è un’espressione caratteristica. Cfr., per esempio, I. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, Milano 1982, p. 12. Sugli argomenti qui trattati, merita però particolarmente d’essere letto, di questo libro, l’intero cap. III, pp. 115-73.

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è soggetta a meccanismi di controllo e limitazione molto efficaci: il fatto stesso di non poter mai essere davvero soverchiante di fronte alle forze in gioco, all’incirca paritarie e comunque mai inermi, ne provoca presto o tardi il blocco o almeno una canalizzazione socialmente tollerabile14. E anche rispetto alle democrazie contemporanee sarebbe possibile notare qualcosa di simile. Certo, salvo forme parziali e in qualche modo folcloristiche (come quelle americane), non abbiamo qui la pari uccidibilità, ma abbiamo pur sempre un pluralismo pressoché illimitato (e dispersivo) delle forze sociali, che ne rende difficile una convergenza talmente rapida, intensa, determinata e concentrata da poter esprimere una violenza altamente distruttiva nei confronti di forze dissenzienti. Si dice spesso che le democrazie non fanno la guerra, e questo sicuramente non è vero, ma non è neppure falso del tutto, e in qualche modo coglie comunque un carattere distintivo di grande importanza. Se invece parliamo di monarchie assolute, di dittature, di sistemi totalitari, di forme in qualsiasi modo accentrate e concentrate di potere, con un vertice ben chiaro e riconosciuto che sfocia nella preminenza di un individuo, di un gruppo sociale, di un’istituzione, cioè se parliamo di tutti i casi in cui, comunque lo si definisca, esiste un sovrano (non importa se re, vicario di un dio, capo carismatico, dittatore, condottiero, classe dominante, partito unico o quel che si vuole), allora è difficile avere dubbi su quel che succede sotto il profilo della violenza. Guerre di conquista e di sterminio, persecuzioni, inquisizioni, esecuzioni, massacri, lager, gulag: si può davvero credere che il sovrano pacifichi? Ma se non pacifica, allora, perché lo si vuole? Perché si crede che pacifichi, e non si riuscirebbe a credere altrimenti nella possibilità della pace? O proprio perché non pacifica, proprio perché apre la strada a una violenza che altrimenti sarebbe limitata, bloccata, frustrata? 14. Cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Roma-Bari 1999, pp. 132-37 e 180-87.

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5. Le due ipotesi appena enunciate non si escludono a vicenda. Anzi, potremmo dire che si completano. Per volere o accettare un sovrano, bisogna credere che pacificherà. Grande, immensa anzi, è sempre la forza del disordine, del caos che preme ai confini, della paura, radicata nel cuore dell’esistenza e mai realmente superabile. Bisogna credere che qualcuno possa allontanare il male o limitarlo, aprendoci uno spazio di sicurezza e di pace. Non c’è solo servilismo, nella volontà di avere un sovrano, sebbene il servilismo non sia mai raro nella storia degli uomini. C’è anzitutto la volontà di un principio unificatore, di qualcuno o qualcosa che garantisca la possibilità dell’incontro, della convergenza d’intenti, dello scambio pacifico e concorde. Per questo non ci basterebbe l’essere semplicemente liberi. Una torre dalle solide mura o un buon fucile possono bastare, per essere liberi. E se tutti hanno una torre o un fucile, non è affatto impossibile che questo dia davvero, anche per lunghi periodi, una ragionevole e accettabile sicurezza. Ma, di per sé, non ci dà un senso. Un termine molto vago, che conviene prendere in un’accezione molto concreta e specifica: senso è anzitutto direzione. In un contesto, per così dire, di libertà originaria, di pari uccidibilità hobbesiana, si sta fermi, o ci si muove (ma non è molto diverso) nella propria breve cerchia. Non si ha un cammino da compiere. Non si ha un compito. Non si ha un destino. Anzi, ci si paralizza a vicenda: nessuno potrebbe muoversi (in senso reale o figurato) al di fuori dello spazio che è riuscito a delimitare come proprio, senza invadere o impedire lo spazio di un altro. Si sta in pace e in sicurezza solo se si sta tutti fermi. Ciò è terribilmente angosciante: perché non abbiamo abbastanza tempo da poter apprezzare a lungo la sicurezza, l’immobilità. Tutte le torri prima o poi crollano, e nessun fucile può sparare alla morte. È questo il limite invalicabile dell’esperienza individuale, ma anche il limite decisivo dell’individualismo come teoria, come forma di pensiero. L’indipendenza reciproca (la pari uccidibilità) può darci sicurezza meglio di quanto farebbe qualunque sovrano. Ma ci lascia soli con la nostra morte. E non è tanto della morte che abbiamo paura, quanto dell’essere soli

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con lei: del non poter avere una storia che, collegandoci insieme, ci apra un futuro indeterminato, ci consenta di pensare a noi, al noi anzi, come qualcosa che non muore, rendendoci così perfettamente tollerabile (quasi desiderabile, addirittura) che muoia l’io. Per questo crediamo così facilmente alla promessa del sovrano (o aspirante tale) di darci la pace: quella pace che in realtà abbiamo già, per conto nostro, ma per conto nostro non ha appunto senso. Il sovrano mente, nella sua promessa? Può darsi, ma non è affatto ovvio come si potrebbe pensare. Anzi, è tutto sommato piuttosto improbabile. L’idea del sovrano (o, più semplicemente e genericamente, del capo, del potente, del leader) che come un truffatore qualsiasi inganna coscientemente e spudoratamente i suoi seguaci per ricavarne vantaggi personali, ha una verosimiglianza storica e psicologica davvero scarsa. O meglio: spesso il “capo” mentirà senza ritegno in moltissime cose, magari anche per i vantaggi personali più abietti, ma quasi mai mentirà coscientemente riguardo a ciò che rappresenta l’essenza della sua promessa, del consenso che gode, la base della sua legittimità, e cioè proprio l’indicazione di un senso, di una direzione di marcia, la costruzione di un piano, di un progetto di convergenza e unificazione delle volontà e dei destini. Se il capo non crede nel suo senso, che capo è? Se lui per primo si sa illegittimo, com’è possibile che il suo potere si consolidi, che gli altri credano a lungo nella sua legittimità? Può darsi che il capo menta; ma per avere efficacia politica apprezzabile ed essere qualcosa di più che il protagonista di una breve tragicommedia, deve allora saper mentire anzitutto a se stesso. Si può forse tentare, ora, un passo avanti nella comprensione di ciò che è legittimità. È anzitutto consenso, lo si è già visto. Ma in un’accezione etimologica molto precisa: con-senso, senso condiviso, senso comune. Consenso è ciò che ci fa procedere insieme, che ci fa marciare insieme, che ci dà una direzione, una strada, un obiettivo. Che ci dà un nemico. Che traspone la nostra distruttività dalla dimensione disgiuntiva dell’essere parimenti uccidibili a quella congiuntiva dell’essere consensual-

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mente uccisori15. È a questo che serve realmente il sovrano hobbesiano. Non a darci la pace, che avremmo già, ma a darci la guerra. Non per sadismo, malvagità o “aggressività” (un vero e proprio mito pseudoscientifico, quest’ultima). Ma perché è il modo più semplice d’inserirci in una direzione, di costruire una storia comune, di perseguire un progetto che ci consenta di proiettare la nostra esistenza fino a un tempo al di là di noi, sia nel passato sia nel futuro. Il consenso legittima anzitutto se stesso: ogni senso comune è garantito, è indiscutibile, è certo, è continuamente confermato dal “sì” di tutti, realizza con una facilità altrimenti impensabile l’unità di linguaggi. Il sovrano è la via più breve (non l’unica, in verità) per giungere al “noi”. Non è un fine, è uno strumento. Viene usato da quelli stessi che usa. Viene usato anzitutto per potersi rappresentare in un’immagine potente, solenne, chiara, mostruosamente grandiosa e grandiosamente mostruosa, leviatanica, l’immenso sollievo del passaggio dalla dimensione dell’essere uccidibili a quella dell’essere uccisori. Per questo, la seconda risposta alla domanda sulla funzione del sovrano non è per niente in contrasto con la prima, ma ne è un logico sviluppo. Vogliamo il sovrano per avere una protezione non contro il bellum hobbesiano, ma contro la solitudine del non-senso, contro la gratuità di un’esistenza che, in quanto isolata e fuori di un senso comune, non ha altro luogo verso cui procedere che non sia la morte, la morte come mero nulla, come indicibilità e silenzio, come fine d’ogni possibile linguaggio. Noi stessi, ciascuno di noi, non siamo dicibili se non riusciamo a dirci sulla nostra morte qualcosa che abbia senso, cioè ci metta in cammino con altri. Ma precisamente il bisogno di pace, cioè di salvarci nel linguaggio, in parole definitive, in parole che fondano, consolidano, formano il nostro esistere all’interno di una 15. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica ed E. Czerkl, Milano 21986, pp. 97-160. Questo è il tema centrale del volume mio e dei miei allievi e collaboratori: L. Alfieri-C.M. Bellei-D.S. Scalzo, Figure e simboli dell’ordine violento, Torino 2003.

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promessa comune (“voi sarete, voi vivrete, voi marcerete insieme: il vostro essere non morirà, ma percorrerà tutto il tempo tra passato e futuro, da una generazione all’altra, perché voi siete un noi”) richiede, in maniera difficilmente eludibile, una rappresentazione proiettiva del non-senso da cui si vuole evadere in uno spazio esterno che possa essere individuato, delimitato e colpito. Perché siamo carenti d’essere? Perché siamo effimeri e casuali? Perché non riusciamo a consistere in noi stessi, ad appagarci di noi? Perché c’è la morte? La risposta più facile è: perché c’è un nemico. Perché abbiamo un nemico. Perché qualcuno ci ruba vita, ci sottrae identità, ci interdice il nostro destino, ci ostacola nel nostro marciare. Stiamo già dicendo noi, così: è difficile dirlo in altro modo. È probabilmente così che abbiamo cominciato a dirlo, in epoche abissalmente remote16. Ed è così che la nostra vicenda diventa appunto nostra: comune, con-sensuale, dicibile in un linguaggio condiviso e compreso, racchiudibile in una narrazione compiuta, in un mito. È sempre lo stesso mito, ma non ce ne stanchiamo mai. Ci sono i buoni: “autentici”, retti, giusti, liberi, conformi alla natura delle cose, destinati. Noi. E ci sono i cattivi: finti, malfidi, abietti, devianti dal giusto ordine, innaturali e contorti. Loro. I buoni avrebbero la pace e la felicità che meritano, avrebbero vita, se non fosse per i cattivi, che nella loro disperata mostruosità vogliono corromperli, asservirli, distruggerli. Ma i buoni marceranno eroicamente, insieme, e dopo molte tragiche vicissitudini, ulteriormente purificati, giustificati, legittimati, consensualizzati dal pericolo e dal dolore condivisi, vinceranno, aprendosi così un certo, luminoso, beato avvenire, convissuto in un noi finalmente senza morte17.

16. Cfr. C.M. Bellei, Violenza e ordine nella genesi del politico. Una critica a René Girard, Trieste 1999, pp. 41-57. 17. Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il coraggio di Shahrazàd, Bologna 2001, pp. 7-11 e 31-49. Ma tutto il presente saggio, in realtà, si può considerare un commento a questo libro.

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Ma ogni mito deve avere un narratore autorizzato, che ne garantisca la “verità”, la stabilità nel tempo, la capacità fondativa. E il mito del Noi ha bisogno di un narratore particolare: un definitore d’identità, un promettitore di futuro, uno scovatore di nemici, uno smascheratore di tradimenti e inganni, un semplificatore e uniformatore, un costruttore, ancora una volta, di con-senso. Una proiezione del noi in un singolo io o in un gruppo, un noi più piccolo e più facilmente percettibile, che in quanto rappresentante dell’unità dei molti possa fungere da simbolo leviatanico e così guidare, sovranamente, la marcia. La marcia degli uccisori. La marcia degli uccisori della Morte. Naturalmente, vince sempre Lei. Questa stessa marcia è una sua vittoria. E sicuramente ci sarebbe meno morte se restassimo trincerati, liberi e guardinghi, dentro la nostra pari uccidibilità originaria. Però ci dev’essere un vantaggio, se così facilmente e volenterosamente preferiamo metterci in marcia, sacrificando all’uccidere tutto, spesso anche la nostra vita. Il vantaggio, evidentemente non piccolo, di non morire da soli18. 6. Non rendiamoci le cose troppo facili. Non si tratta d’inganni da smascherare, di tirannidi da abbattere, di colpevoli da punire. Non ci accorgiamo che così stiamo ancora raccontando esattamente lo stesso mito? Magari nella versione, tutt’altro che nuova, secondo cui il nemico è il Potere e il bene si consegue rovesciando il Sovrano. Il grande mito dei Noi buoni e dei Loro cattivi ha tutte le varianti immaginabili, “di destra” e “di sinistra”: può essere tutto quello che si vuole, nazionalista, razzista, fondamentalista, conservatore, progressista, passatista, futurista, reazionario, rivoluzionario, persino anarchico. E quando il grande mito capita in mano a un artista, un poeta della politica, riesce sempre a farci battere il cuore, anche al più saggio, disincantato, razionalista o nichilista di noi. Sarebbe troppo fa18. Cfr. R. Escobar, Il campanile di Marcellinara. Ipotesi sull’obbedienza, in Aa.Vv., L’immaginario e il potere, a cura di G.M. Chiodi, Torino 1992, pp. 183-209.

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cile e poco onesto pensare che si abbia qui a che fare soltanto con inganni per gonzi, propaganda per le masse sprovvedute, bieche imposizioni di fanatici senza intelletto. Lo “squillar di fanfare” e il “coraggio che assalti” ci faranno sempre tremare d’emozione, di commozione e di speranza19. Non si esce dal mito: non c’è nulla fuori. Cioè: non c’è un fuori del mito. Non si parla se non insieme, non c’è senso senza con-senso20. E d’altra parte, nemici e tiranni possono esistere davvero, pur se probabilmente nel loro esistere c’è sempre una parte di colpa anche di chi contrasterà quei nemici e si ribellerà a quei tiranni. Per quanto complesso sia il problema (certo non affrontabile qui) della guerra giusta e della giusta resistenza o ribellione, il rifiuto assoluto dell’inimicizia e della violenza, in politica, appare una posizione poco plausibile e che solo un partito preso da fanatici consentirebbe di sostenere sino in fondo (pace anche con Hitler? Non violenza anche verso gli assassini? E con le vittime, come la mettiamo?)21. E quand’anche, staremmo solo raccontando una nuova versione del mito, quella in cui Noi siamo i “pacifisti” e Loro sono i “guerrafondai”, e bisogna fare “guerra alla guerra”: non sembra che cambi molto. Dopo tutto, un pensiero maturo deve pur fare i conti col fatto che esistono problemi senza soluzione, e che il problema più insolubile è proprio l’uomo, l’unico essere vivente che non è mai dato a se stesso una volta per tutte, che deve continuamente

19. Sono celebri espressioni nietzschiane. Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte III, cap. La visione e l’enigma, tr. it. di M. Montinari, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI, tomo I, Milano 21973, pp. 190-91. 20. In questo debbo parzialmente dissentire da un testo che pure apprezzo molto: R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 1998, specc. Introduzione, pp. XXVI-XXXII. Assai più che un’“insidia”, la “deriva mitica” che Esposito denuncia mi pare un’inevitabile caratteristica antropologica, di cui è importante essere consapevoli e i cui probabili effetti nefasti è bene per quanto possibile cercare di prevenire, ma che non ha alternative all’interno della dimensione umana. 21. Cfr. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, cit., pp. 325-53.

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prendere posizione su di sé22. Un problema che sarebbe “risolto” solo se tornassimo animali, diventassimo macchine o ci trasformassimo in esseri divini immortali e invulnerabili: tutte cose non solo poco plausibili, ma di assai dubbia desiderabilità. Il nostro orizzonte, intrascendibile finché saremo uomini, è quello del senso come con-senso, che richiede necessariamente l’espulsione dei sensi non compatibili, dei dis-sensi, e la costituzione dell’Altro come nemico (almeno potenziale). In questa nostra problematicità che ci costringe al mito, continueremo a sentire come intollerabilmente angoscioso restare ad aspettare la morte trincerati nella nostra libera solitudine: che ogni tanto qualcuno ci chiami, ci evochi, ci raduni in schiera e ci scateni come uccisori in caccia della morte, resterà verosimilmente un sollievo che dovremo continuare a concederci; e bisognerebbe essere molto moralisti e molto inconsapevoli di ciò che siamo per pensare che questo sia sempre e soltanto un Male cui contrapporre il Bene (che è poi ancora una volta il solito mito). Con i problemi insolubili, dobbiamo imparare a convivere. E siccome è bene prendere sul serio le parole e non trascurare, dietro i loro significati convenzionali, dimensioni più profonde, non facciamoci sfuggire che con-vivere è il contrario di con-morire. Convivere con un problema significa impedire che ci uccida, o almeno limitare e contenere la sua capacità di farlo. Non si esce dal mito, non si evade dal “luogo comune”, dal con-senso; ma si possono avere molti miti anziché uno soltanto23. Più precisamente: si può comprendere che tutti i miti sono provvisorie configurazioni del senso, che cambiano sempre, che sono sempre cambiati, e che, senza mai essere meri inganni, allo stesso modo non sono mai “verità”. E si può comprendere che tutti, anche quelli che contrastano i nostri miti, hanno un mito, che può lecitamente non piacerci, ma che altrettanto lecitamente ad altri piace e non deve essere fatto tacere. Bisogna relativizzare 22. Cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. di C. Mainoldi, introduzione di K.-S. Rehberg, Milano 1990, pp. 35-47. 23. Cfr. Escobar, Il silenzio dei persecutori, cit., pp. 142-62.

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i racconti, oltre che moltiplicarli. Può essere giustificato persino morire per il nostro mito, ma non è mai giustificato uccidere, solo per questo motivo, chi ha un mito diverso dal nostro. Per quanto un mito ci “afferri” (e come vivere, se nessun mito ci afferra?)24, dobbiamo sforzarci di lasciare in noi stessi uno spazio aperto al suo cambiamento o alla sua sostituzione, senza spaventarci o vergognarci del nostro “tradimento”. Dei nemici certamente li avremo, ma ci sono tanti modi di averne, e ci vuole poca fantasia per pensare solo a inimicizie mortali. Bisogna cercare di non semplificare la figura del nemico, di non mostrificarla, di riconoscere in essa la nostra stessa molteplicità e variabilità. Possiamo riconoscere che il nostro nemico ha tanto diritto d’essere nostro nemico quanto noi ne abbiamo d’essere nemici suoi: hostis sì, ma iustus; possiamo creare amity lines dietro le quali chi sotto altri profili è nostro nemico possa tranquillamente trattare e collaborare con noi25. Possiamo cercare di rafforzare e diffondere quella forma di guerra senza morti che è la competizione democratica26. E questo significa anche che, senza con questo ripristinare la pari uccidibilità originaria, che è probabilmente essa stessa soltanto un mito (o, se si preferisce, un “tipo ideale”) necessario per pensare con maggior chiarezza, contrastivamente, una realtà effettuale che è sempre stata di con-senso, dobbiamo “limitare” la sovranità. Che è poi una contraddizione, in base a ciò che è stato detto all’inizio. Di fatto, il sovrano “limitato” è un non-sovrano. Ma forse dovremmo piuttosto dire che non è un sovrano. Bensì una dimensione simbolica di sovranità, un’allusione, una rappresentazione non eccessivamente presa sul serio d’unità, un centro impersonale occupabile, a turno, da una pluralità di soggetti, uno spazio di con-senso provvisorio, parziale e non costrittivo, da cui si può 24. Sull’“afferramento” da parte del mito, cfr. K. Kerényi, Introduzione: origine e fondazione nella mitologia, in C.G. Jung-K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, tr. it. di A. Brelich, prefazione di M. Trevi, Torino 1972, pp. 38-43. 25. Cfr. Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 88-103, 133-40, 163-266. 26. Cfr. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 224-27.

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a tempo e luogo entrare e uscire, senza rinunciare, all’occorrenza, a trincerarsi in una libera e coraggiosa solitudine (quando è proprio necessario, sparando)27. Non è la soluzione. Una soluzione non c’è. C’è una gamma vastissima di soluzioni tutte possibili e tutte provvisorie, tra cui naturalmente non possiamo scegliere in astratto. Scelgono il tempo, le circostanze, il caso, la configurazione del nostro io e del nostro noi che in ciascun momento riesce a concretarsi. L’importante è non perdere mai di vista che si tratta appunto di scelte, senza altro fondamento che la nostra capacità di raccontarcele e, sperabilmente, la bellezza del nostro racconto. 7. Queste considerazioni debbono essere confrontate, per dare al discorso, pur nella sua rapidità e sommarietà, quel minimo d’attendibilità che può avere, con la realtà contemporanea, con la crisi della sovranità esterna di cui prima si parlava. Non è più possibile, con l’arma atomica, la lotta per la sopravvivenza tra sovrani, e dunque non è possibile un vero rapporto internazionale tra amici e nemici. I sovrani residui sono in una condizione di pari uccidibilità perfetta, da assumere alla lettera: nessuno potrebbe “uccidere” l’altro senza esserne ucciso. Dunque le volontà sovrane debbono necessariamente convergere, almeno sulle questioni essenziali, e quindi sono sostanzialmente unificate. Possiamo considerare compiuto il passaggio dagli Stati nazionali a un unico impero mondiale, che ha la particolarità di essere una sorta d’impero condominiale, non certamente egualitario, ma in cui neanche la potenza chiaramente preminente (gli Stati Uniti) può agire senza il consenso almeno implicito delle altre potenze nucleari, in un contesto in cui è interesse comune che non vi siano dissensi radicali, e

27. Rinvio in proposito ai miei saggi Libertà senza verità. Filosofia, simboli e democrazia, in Aa.Vv., Filosofia e democrazia, a cura di D. Fiorot, Torino 1992, pp. 203-14, e Il fuoco e la Bestia. Commento filosofico-politico al “Signore delle Mosche” di Golding, ora in L. Alfieri-C.M. Bellei-D.S. Scalzo, Figure e simboli dell’ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, cit.

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in cui quindi la disponibilità a compromessi anche pesanti e svantaggiosi è abbastanza diffusa da parte di tutti (compresi i più forti). I protettorati (cioè gli Stati non nucleari) sono tutti soggetti a questo condominio imperiale, con alcune ripartizioni territoriali abbastanza imprecise e molto variabili, senza dunque che si possa parlare di vera e propria spartizione del mondo (che implicherebbe una pluralità d’imperi, finita col chiudersi della guerra fredda). Questo ha implicazioni non soltanto negative, e anzi per certi versi sicuramente benefiche: basti pensare a quanto si sia allontanato (anche se non potrà mai del tutto svanire) lo spettro dell’apocalisse nucleare28. Ha però conseguenze complesse e irrisolte proprio riguardo alla struttura attuale della sovranità, e in particolare agli spazi di libertà che possono esserle sottratti. Che la sovranità interna debba essere limitata e relativizzata, che debba essere per quanto possibile una sovranità senza sovrano, è un valore da tempo ampiamente condiviso, anche se solo un superficiale ottimismo potrebbe farlo credere definitivamente conseguito. Il problema, però, è che, sulla base di quanto prima si diceva, oggi la sovranità è solo “interna”, ma è una sovranità imperiale. Mondiale, “globalizzata”, onnipresente sebbene sia lungi dall’essere onnipotente (e sia anzi spesso paralizzata dalla sua stessa complessità), senza confini, senza alternative. Come in ogni impero in senso proprio, non c’è più un altrove: i confini assenti sono i soli confini assoluti, invalicabili. Come in ogni impero, c’è dunque una fondamentale costrittività, che non consiste in una precisa volontà coercitiva, tanto meno in imposizioni esplicite, quanto piuttosto in una sorta di “necessità” onnipervasiva, che ha più il carattere di una sorta di legge di natura che di una volontà imperativa. C’è un ordine di

28. Oggi lo spettro è di nuovo più vicino: ma è impossibile dire se la nascita a quanto pare imminente di nuovi sovrani, cioè di nuove potenze nucleari, non possa essere piuttosto un fattore di stabilizzazione in aree altrimenti consegnate a una guerra infinita, come (con un po’ di ottimismo) è teoricamente possibile.

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possibilità molto ampio, vario e pluralistico, in cui però alcune cose sono radicalmente impossibili: non tanto in quanto proibite, ma piuttosto in quanto, alla lettera, fuori del mondo, esterne all’ordine esistente, non compatibili con la realtà. Una sorta di vaga e distratta tirannide, se così vogliamo dire, o piuttosto una specie di blando totalitarismo, involontario e inconsapevole, lento, complicato e inefficiente, spessissimo condannato allo scacco e all’insuccesso, ma nella sua sostanza invincibile perché senza alternative accettabili: le alternative, infatti, o sono chiaramente impossibili o sono chiaramente peggiori. Il mondo può essere solo com’è: non è affatto chiaro come sia, nessuna volontà è propriamente intenzionata a determinarlo o capace di farlo, non si può proprio dire che esista un governo mondiale di qualsiasi tipo che imponga precisi comandi o precisi divieti, tutto si può affermare tranne che esista un pensiero unico. Semplicemente, non si può fare nulla che sia radicalmente diverso da ciò che già si fa (alla lettera: il mondo è qualcosa che si fa da solo, senza che nessuno sappia o decida come). Ogni tanto s’incontrano dei muri, invisibili, trasparenti: nessuno ammette d’aver costruito muri, però in qualche modo ci sono, perché proprio non si riesce ad andare di là. E ogni sforzo di pensare un ordine alternativo deve presto o tardi riconoscere la propria futilità: non senza sensi di colpa, spesso, se si è onesti, perché quasi sempre si tratta di vaghe e impotenti nostalgie di mondi passati innegabilmente peggiori. Parlare di “fine della storia” è inutilmente e scioccamente enfatico; però, in un certo senso, è di questo che si tratta. La situazione complessiva è tutt’altro che sgradevole, ad essere sinceri, se si appartiene agli strati privilegiati dell’umanità: come sempre una piccola minoranza rispetto alla totalità, ma sicuramente una minoranza ampia e diffusa, come mai prima d’ora era accaduto. Ma c’è una caratteristica nuova e difficile, con cui dobbiamo ancora fare bene i conti e che probabilmente non abbiamo ancora veramente pensato, e ha insieme aspetti molto buoni e aspetti molto cattivi. Ed è che, in questa situazione di sovranità mondiale imperial-condominiale dif-

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fusa e amorfa, non sono possibili né vero consenso, né vero dissenso. La sovranità mondiale, pur non essendo affatto inesistente, è larghissimamente inefficace. Il sovrano non ha vera volontà, non esercita vero governo, non ha veri nemici, non fa più la guerra (ogni tanto, un po’ a caso, manda truppe, bombarda, punisce, per calmare le cose nelle aree di disordine eccessivo). Difficile decidere se uccide tanto o uccide poco: forse uccide tantissimo, ma nella maniera impersonale e “naturale” di un’epidemia, come facevano gli dèi nei buoni vecchi tempi, non nelle forme “gloriose” dei grandi assassini che riempiono i nostri libri di storia. Più che uccidere, fa, o lascia, morire29. Non può esserci con-senso: nessuno ci chiama a marciare in una precisa direzione, a uccidere sempre di nuovo la Morte secondo un preciso progetto, una precisa narrazione; non c’è più un mito che ci dia un destino. Ma, d’altra parte, come dis-sentire? Ogni tentativo di miti alternativi si perde per strada, naufraga nella futilità, magari dando luogo a qualche piccolo grottesco massacro: sforzarsi di riportare in vita nazionalismi o tribalismi nell’epoca del primo vero impero globale fa l’effetto di una tragedia recitata da guitti, di una pur cruenta carnevalata. E ciò raddoppia la difficoltà del dissenso, appunto perché ogni volta ci si scontra immancabilmente con alternative non solo impraticabili, ma quasi sempre decisamente peggiori. Un altro problema insolubile. Ma i problemi insolubili non debbono necessariamente farci paura. Bisogna imparare a goderseli. Visti sotto un altro aspetto, i problemi insolubili sono punti fermi. Un’espressione ambigua, come la realtà cui si riferisce. I punti fermi sono limiti, certo, ma sono anche conquiste. Basi solide su cui costruire. Molti dei nostri odierni punti fermi, di cui ci permettiamo il lusso di lamentarci, sono stati vissuti per secoli come vertiginose utopie. Ora che hanno il torto, ai 29. Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino 2002, specc. pp. 161-72.

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nostri occhi viziati, d’essere diventati banali realtà, invece di distogliere lo sguardo delusi cerchiamo di usarli come balconi su utopie future. Dunque atteniamoci ai punti fermi, per cominciare. Ci sono almeno due forze, due tensioni tra loro divergenti che cercano di toglierli di mezzo. Anzitutto, il tentativo, oggi particolarmente visibile, di riportare l’imperialità globale entro lo schema tradizionale della sovranità esterna: di trovare un nuovo nemico, di fare di nuovo la guerra, magari nell’illusione che si possa in tal modo fondare un effettivo, univoco dominio mondiale. Il sonnolento e impersonale sovrano globale coltiva a volte incubi totalitari. Non bisogna permetterglielo, ed è assai meno difficile di quel che potrebbe sembrare. Basta non mettersi in marcia, basta negare con-senso. Le sue guerricciole le fa lo stesso, e nessuno può spingersi troppo oltre nello sforzo d’impedirglielo. Possiamo però ostacolarle, stancarle, esaurirle a furia di piccoli dis-sensi, che per fortuna ci sono e ci saranno. Possiamo isolarle e sterilizzarle come un episodio patologico che non cambia la situazione complessiva, e probabilmente è proprio questo che accadrà. Quel che è da temere, infatti, non è tanto la reazione violenta che singoli episodi di stupidità bellicista possono provocare, quanto la ricostituzione di schemi da guerra fredda, una nuova suddivisione del mondo in imperi nemici che ci riporterebbe in pieno in un rinnovato terrore nucleare. La sola cosa che può derivare dallo sforzo di essere un forte, compatto, invincibile Impero del Bene, è riportare in vita una qualche forma d’Impero del Male. La sovranità esterna di tipo classico, che può suscitare qualche nostalgia in astratti dottrinari che magari si credono fini politici, è comunque sparita dall’orizzonte storico, e non ha senso perseguire una dimensione leviatanica che si risolverebbe in una nuova suddivisione del mondo tra nemici parimenti uccidibili. “Rassegniamoci” piuttosto al fatto che, nell’orizzonte politico mondiale, sta probabilmente sparendo la possibilità, la pensabilità stessa di un con-senso mitico d’uccisori. È una dimensione scomoda, perché radicalmente innovativa, ma cerchiamo di partire da qui, e vediamo che succede.

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L’altra tendenza da contrastare è quella opposta: anziché spingere verso un rafforzamento potenzialmente totalitario dell’ordine mondiale, spezzare quest’ordine e ripristinare le vecchie identità locali. Come se non avessero dato nei secoli già prova di sé, come se non sapessimo l’unico risultato che possono produrre le vecchie intolleranze con in mano le nuove tecnologie. Del resto, non si tratta di rifiutare virtuosamente qualcosa di malvagio. Si tratta semplicemente di comprendere che le vecchie identità non esistono comunque più, che non si può essere, oggi, nazionalisti, etnicisti, fondamentalisti, razzisti, ma neanche, ahimè, rivoluzionari, come nei bei tempi andati, in cui ci si poteva entusiasticamente massacrare solo perché si pensava che il mondo fosse tutto lì, e dunque il massacrarsi cambiasse il mondo. Prima che dalla probabile reazione di un ordine mondiale infastidito (qualche bomba un po’ a caso, finché la situazione si calma), questi tentativi di risemplificare il mondo in nome della Vera Religione, dell’Identità Nazionale, del Proletariato Mondiale o di qualche altra forma archeologica del Bene politico, sono vanificati dal loro stesso ridicolo provincialismo, che può far presa solo su disperati o analfabeti. Se davvero vincessero, la loro stessa vittoria li porterebbe presto all’evidenza della loro nullità. Dunque, il punto fermo principale è che il mondo è uno e una e l’umanità. Non è un brutto mito, oltre tutto: anzi, è stata per secoli una delle utopie più audaci e più epiche. Cerchiamo di spolverarlo un po’, di liberarlo dall’impressione di noiosa banalità che ci suscita ciò che ormai appare meramente necessario. Cerchiamo di considerarlo, com’è, una vittoria, una conquista. Un secondo punto fermo non è ancora così fermo, e richiede ancora un forte impegno a consolidarlo: è che, pur uno, il mondo è complesso, e pur una, l’umanità è varia, e così dev’essere anche in futuro. Il mondo non è più una dimensione d’incontro-scontro tra sovranità esterne, ma non diventi per questo un interno murato e soffocante: sia piuttosto un insieme di cerchi mobili in vario modo intersecantisi, ruotanti intorno a un centro sempre approssimativo. Con molti piccoli dis-sensi, che

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Sovranità, morte e politica

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però non escludano un con-senso di fondo, opportunamente generico e vago. Che ognuno di questi due punti sia base e limite dell’altro, anziché un mero opposto. Che l’unità non divenga mai uniformità, omologazione totalitaria alla volontà del più forte; ma che il rifiuto del consenso totale non si trasformi in esplosione anarchica. Ancora una volta, molti miti, non troppo cogenti, non troppo “veri”, capaci di confliggere con distruttività contenuta, in uno spazio mitopoietico comune. Grande ormai quanto il mondo. Senza un sovrano, ma con una dimensione mobilmente ordinatrice di sovranità. Un’imperialità senza imperatore, in qualche modo. Vogliamo provare a chiamarla democrazia globale? Insomma, la vecchia storia è senza dubbio finita, e ci vorrebbe un bel coraggio per rimpiangerla. Ma non è finita la storia. E non c’è mai stato un uditorio più vasto, per chi voglia ancora cimentarsi nel narrare miti che ingannino la Morte.

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Fabrizio Fornari

Itinerari dell’azione e giustizia: la questione normativa tra verità e finzione

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1. Le logiche del potere e il linguaggio

I

l tema della finzione, nonostante la foucaultiana e post-moderna “morte dell’uomo”, resta ancora oggi un tema di indubbia attualità. Di rimbalzo, continua a mostrarsi essenziale anche il tema della verità, senza il quale la finzione neppure risulterebbe intelligibile. In effetti, com’è stato notato, lungi dall’essere un aspetto che, sotto la spinta del processo di codificazione e di razionalizzazione del discorso giuridico-politico, viene progressivamente dissolvendosi, la finzione sembra permanere come un necessario e sempre ricorrente espediente del linguaggio1. In ordine a questo tema, vorrei qui svolgere alcune riflessioni, tentando di chiarire quale sia il senso del rapporto tra finzione e linguaggio, e soprattutto in che modo le logiche del potere usino il linguaggio come mezzo di finzione e quindi di mistificazione. Perché la finzione sembra essere un necessario e ricorrente espediente del linguaggio? Secondo una nota massima di Epitteto – ha scritto Reinhart Koselleck – «non sono gli atti a turbare gli uomini ma le parole relative agli atti». Nonostante l’intenzione stoica di non lasciarsi irritare dalle parole, continua Koselleck, «il contrasto fra pragmata e dogmata è certo più complesso di quanto non ammetta la prescrizione morale di Epit1. Cfr. P. Rescigno, Le finzioni del diritto privato, «Contratto e impresa», Padova, 2, 2002, pp. 585-596.

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Fabrizio Fornari

teto. La massima ci ricorda la forza propria delle parole, senza le quali il nostro agire e subire umani sono quasi inesperibili, e certamente non comunicabili. Essa si situa nella lunga tradizione che si è occupata, fin dall’antichità, del rapporto tra le parole e la cosa, lo spirito e la vita, la coscienza e l’essere, il linguaggio e il mondo»2. Tenendo fermo questo passo di Reinhart Koselleck, si comprende in modo agevole che qui il problema del rapporto tra linguaggio e finzione è esso stesso un problema di carattere linguistico, la cui natura rinvia alla più ampia questione dell’espressione. Questo problema consiste nel fatto che, essendo il medio linguistico eterogeneo rispetto a ciò che viene espresso, esso rappresenta contemporaneamente di meno e di più di quanto si vorrebbe3. In questo senso, il linguaggio può, nella sua intenzionalità ultima, essere rivelativo; e, tuttavia, il linguaggio stesso può anche occultare, essendo l’unico luogo nel quale la menzogna può apparire. Le cose di per sé non mentono. Può mentire, infatti, solo chi possiede un linguaggio. Il linguaggio veicola “intenzioni” apparenti e nasconde quelle recondite. Può veicolare intenzioni “consce”, lasciando celate quelle “inconsce”. Lasciando da parte quest’ultimo aspetto, che non riguarda direttamente il tema di fondo del presente saggio, si può dire che la natura linguistica della finzione, scientificamente controllabile e rispetto alla quale si potrebbero addurre esempi rigorosamente sperimentali, non sia stata ancora sufficientemente indagata dalla nostra tradizione culturale. Soprattutto con l’avvento della razionalità moderna e cartesiana, si è consolidata l’ipostasi secondo la quale esiste una perfetta trasparenza (diafania) della riflessione e del medio linguistico rispetto ai loro propri contenuti, cioè rispetto al mondo.

2. Cfr. R. Koselleck, Futuro e passato. Per una semantica dei tempi storici, tr. it. Genova 1986, p. 91. 3. Cfr. E. Melandri, Contro il simbolico, Firenze 1989, p. 36.

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Itinerari dell’azione e giustizia

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A partire dalla tradizione aristotelica prima e cartesiana poi, si è ritenuto che il linguaggio dica le cose così come esse sono. Tale assunzione ha comportato che il soggetto venisse assunto come istanza identitaria granitica e rocciosa, come sostrato irrefutabile della rappresentazione, nell’ambito di una perfetta corrispondenza tra l’ordine del linguaggio e quello delle cose. Tuttavia, se si riflette in modo critico sulla presunta trasparenza che il soggetto intratterrebbe con se stesso, si comprende, senza scomodare gli esiti della fenomenologia post-husserliana oppure quelli dell’ermeneutica, che l’identità non è un fenomeno di struttura, bensì di flusso e che non esistono rappresentazioni concettuali o linguistiche corrispondenti all’essenza delle cose, dato che gli eventi, non solo quelli sociali, non esistono indipendentemente dalla teorie o dal linguaggio che usiamo per definirli e descriverli. Ne segue che il linguaggio è libero dalla referenzialità, nel senso che non è la cosa a provocare il riferimento ad essa del linguaggio; piuttosto la cosa si dà solo nel riferimento linguistico che la rende significante. A ben vedere, è proprio questa libertà dalla referenzialità ciò che alimenta lo spazio stesso della finzione. Senonché, il linguaggio determina pure la soggettività, la quale, essendo linguisticamente determinata, si produce svincolandosi dal puro riferimento a una sua presunta naturalità, per convertirsi in evento carico di cultura e di storia. Identità e finzione qui convergono verso un medesimo spazio, all’interno del quale emergono quelle che sono le condizioni originarie dell’agire, le quali non possono essere spiegate in riferimento a nessuna causa esterna, in quanto nessuna causa ambientale e naturalistica può contenere, né predeterminare il significato delle parole che suscita – e ritengo che sia questa convinzione teorica l’implicita base intorno alla quale Erving Goffman fa ruotare l’impianto drammaturgico e teatrale del soggetto dell’azione4. Del resto, il linguaggio è per definizione sociale: il si4. Cfr. E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, tr. it. Bologna 1969.

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gnificato di un termine e, quindi, di un concetto non può, infatti, che risolversi nelle forme intersoggettive della sua applicazione (nel suo essere corretta o scorretta, conforme o non conforme): «Non può essere stata neppure una ragione, quella per cui certe razze umane hanno adorato la quercia, ma semplicemente il fatto che quelle razze e la quercia erano unite in una comunità di vita, e perciò si trovavano vicine non per scelta ma per essere cresciute insieme, come il cane e la pulce»5. Il linguaggio, come forma di vita e come momento dell’agire, determina così, al contempo, sia lo spazio della finzione sia quello di un’identità che si scopre – e, nel medesimo tempo, s’inventa – come plurima. Questa scoperta, relativamente semplice, della pluralità delle istanze coabitanti in uno stesso condominio comune a tutta la vita psichica di ogni singolo uomo è stata senza dubbio di grande rilievo. Ad essa si deve l’impulso che ha determinato la maggiore trasformazione della mentalità nell’epoca contemporanea. Dal canto suo, tale mutamento di prospettiva ha inciso in profondità anche nella concezione “politica” del diritto, avviandolo più decisamente sulla via civilistica, in contrapposizione a quella penalistica, della sua interpretazione6. A questo livello, quello delle istanze coabitanti in uno stesso spazio, la finzione tende tuttavia ad apparire come un fenomeno rilevabile soltanto ex post. Potremmo individuare Raskolnikov, il protagonista di Delitto e castigo di Dostoevskij, come emblema di questa tendenza. Raskolnikov è uno spregevole piccolo borghese che si mantiene a stento. A un certo punto, messo alle strette dalla sua coscienza sì inquieta ma lucida, concepisce il delitto come unica soluzione alla sua situazione problematica. Uccide a scopo di rapina una vecchia usuraia asociale, la cui perdita non è rimpianta da nessuno. Il delitto è perfetto. Ma un oscuro istinto spinge lo stesso Raskolnikov alla confessione 5. Cfr. L. Wittgenstein, Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, tr. it. Milano 1975, p. 35. 6. Cfr. E. Melandri, Contro il simbolico, cit., p. 104.

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del delitto; egli si redime perché riscopre la verità imperitura della religione che aveva rinnegato. E Dostoevskij descrive la resipiscenza finale di Raskolnikov come abreazione a un atto compiuto sotto l’influsso plagiario e ossessivo della mentalità pragmatistica moderna (per la quale è, appunto, razionale tutto ciò che è azione diretta allo scopo). Raskolnikov scopre che l’io dell’atto delittuoso non era lui e per recuperare questo “sé” diverso deve condannare l’altro espiando di persona7. E in questo “non essere lui”, peraltro, si adombra per Dostoevskij l’azione di un potere, e di un sostrato ideologico ad esso organico, che foucaultianamente diventano fattori di produzione del sapere e delle sue rappresentazioni. Ma ciò che qui mette conto rilevare è come l’identificazione che Raskolnikov compie di se stesso con l’io del discorso razionalizzatore, autogiustificatorio, diventi appunto una finzione, anzi una mistificazione che non si estende alla realtà complessiva accessibile alla coscienza, e sia quindi divaricante, fallimentare fin dal suo nascere – come mistificante sarà per Foucault il tentativo di far coincidere il potere giuridico con il potere tout court8. Al livello, invece, del linguaggio come radice della finzione e della menzogna che si esercita ex ante, opera il senso di un fare che mira alla distorsione, alla manipolazione e all’inganno. È il caso in cui la finzione diventa menzogna, rispetto alla quale l’etica ripropone la doverosità della sincerità sempre e in ogni caso. In questo contesto, il discorso usa la consapevolezza di una stratificazione dei sensi possibili dell’azione, inducendo l’altro, che a quella doverosità si richiama, almeno nell’ambito, se non morale, sociologico delle reciproche aspettative, a misurarsi con credenze “erronee”. Se nelle finzioni che operano in Raskolnikov vive la pressione di un potere che si insinua nella pluralità delle istanze coabitanti in ciascuno di noi, in quelle incarnate dal tema dell’inganno 7. Cfr. ivi, pp. 117-118. 8. Cfr. M. Foucault, Microfisica del potere, tr. it. Torino 1977, p. 184.

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Fabrizio Fornari

opera, invece, la sartriana “malafede”. Rispetto a queste ultime bisogna ribadire che la coscienza avrebbe da essere obiettivamente etica, riconfermando, contro le derive decostruzioniste di certo post-modernismo, che il soggetto dell’azione non può rinunciare all’esigenza, tutta umana e pratica, di essere un io convenzionale, legale e formale.

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2. La giustizia come problema Nella Metafisica dei costumi (1797) Immanuel Kant aveva osservato che il giurista può conoscere ciò che in un dato tempo e in un dato luogo le leggi prescrivono; ma aveva anche notato che ciò che queste leggi prescrivono sia anche giusto non può conoscerlo, a meno che non cerchi l’origine dei propri giudizi nella ragione9. L’idea kantiana di ragione è attualmente certo meno solida di quanto lo fosse nell’epoca in cui lo stesso Kant visse. E tuttavia ancora oggi, al di là di ogni nostalgia giusnaturalistica, l’osservazione kantiana mantiene una sua legittimità teorica: che cosa rende giuste le leggi? E poi, ancora: esiste una società giusta? Non sembra, in effetti, che possa ritenersi superata la tesi espressa, ormai più di un decennio fa, da Philippe Van Parijs: «La nostra è una società ingiusta. La nostra azione la può rendere meno ingiusta. Una riflessione su che cos’è una società giusta è essenziale per guidare quest’azione»10. Van Parijs qui adombra il rifiuto del modello relativistico; infatti, che cosa succederebbe se dovessimo cedere alla convinzione secondo la quale la razionalità non è un universale culturale ma un contesto localizzato di processi di razionalizzazione differenziati? Si dovrebbe forse riconoscere che la giustizia è semplicemente una fictio del potere volta a determinare il controllo funzionale 9. Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, tr. it. Torino 1970. 10. P. Van Parijs, Che cos’è una società giusta?, tr. it. Firenze 1995, p. I.

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e sanzionatorio dell’ordine sociale? E, d’altro canto, cosa succederebbe se non ci fossero argomenti da contrapporre all’atteggiamento integralista? Del resto, se non fosse possibile definire un parametro di “giustizia”, che cosa controbattere a chi dovesse sostenere le ragioni dell’integralismo? Così Van Parijs: «Che l’ordine stabilito sia giudicato ingiusto e che un deliberato miglioramento delle istituzioni sia considerato impossibile, non è certo cosa nuova. Al di fuori dei milieux più conservatori, ci sono nelle nostre società sentimenti che sono stati largamente condivisi fin dagli albori dell’età industriale. Quello che è molto più nuovo è il bisogno pressante di una riflessione sistematica sui contorni di ciò che sarebbe una società giusta. In questa epoca al tempo stesso postcomunista e postneoliberale, alle false evidenze è subentrato il disorientamento. Questo può facilmente condurre all’estremismo relativista del postmodernismo o all’impennata dogmatica degli integralismi. Per quelli fra noi che rifiutano l’uno e l’altra, non c’è che un’unica opzione possibile: tentare di formulare una concezione esplicita della giustizia che prenda in considerazione le nostre intuizioni forti riguardo a ciò che è ingiusto, rivoltante e inaccettabile, e che al tempo stesso resista alle obiezioni più diverse che eventualmente le verranno opposte»11. Tale esigenza – che, del resto, costituisce il nodo centrale di ogni fondazione dell’etica e della politica e che è al centro da anni di un grande dibattito che in questa sede può essere solo accennato – è stata variamente trattata dai principali autori del pensiero etico-politico contemporaneo, da John Rawls a Robert Nozick, dagli esponenti dell’utilitarismo normativo a quelli del marxismo analitico, da Alasdair Chalmers MacIntyre a Hans Kelsen. Se la posizione “analitica” di Rawls tende a risolvere la questione della giustizia e, più in generale, il problema morale in termini strictu sensu procedurali, Nozick, dal canto suo, tramite il costante confronto critico con l’anarchismo libertario, tenta 11. Ivi, pp. I-II.

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di fornire una risposta al perché gli individui, che agiscono in modo razionale, arrivino, a un certo punto, a formare uno Stato: Tale risposta, per Nozick, risiede nella naturale tendenza, propria della libertà individuale, a stringere il contratto sociale. Alla luce di questa tendenza egli riduce ad absurdum qualsiasi tentativo di limitare questa libertà contrattualistica. Per il libertarismo – che appunto trova in Nozick uno dei suoi principali esponenti –, l’errore macroscopico dell’anarchismo classico consiste nell’ostilità dimostrata nei confronti del libero gioco del mercato. Dal suo punto di vista, invece, il coordinamento economico di una società complessa, qual è quella attuale, è garantito dal mercato stesso. A chi intendesse controargomentare che la regolazione dei rapporti intersoggettivi mediante il mercato è inevitabilmente destinata a produrre notevoli disparità di reddito, il libertarismo fa notare che quel che determina la giustizia o l’ingiustizia di una distribuzione particolare dei redditi non intrattiene nessuna relazione con la sua prossimità rispetto a questa o a quella struttura ideale prestabilita (ad esempio egualitaria). Ciò che invece davvero conta è che la distribuzione realizzata sia il prodotto di transazioni, costitutivamente prive di costrizioni, tra soggetti aventi ciascuno un eguale diritto di disporre liberamente del proprio corpo e di una proprietà acquisita in modo legittimo12. MacIntyre, in un’ottica completamente diversa, afferma che la condizione attuale dell’etica versa in un grave disordine e che oggi, anche in relazione alla nozione di “giustizia”, il tratto distintivo del dibattito è l’indecidibilità, ossia l’incommensurabilità di argomentazioni contrapposte e irriducibili. La nostra 12. Cfr. ivi, pp. 127-128, nonché K.J. Arvon, Les Libertariens américains, Paris 1983; P. Lemieux, Du libéralisme à l’anarcho-capitalisme, Paris 1983; J.-P. Dupuy-P. Dumouchel, L’individu libéral, cet inconnu: d’Adam Smith à Friedrich Hayek, in C. Audard-J.-P. Dupuy-R. Sève (a cura di), Individu et et Justice sociale. Autor de John Rawls, Paris 1988, pp. 73-125. Per un’analisi strettamente sociologica del tema della proprietà rinvio invece a A. Bixio, Proprietà e appropriazione. Individuo e sovranità nella dinamica dei rapporti sociali, Milano 1988.

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cultura etica, lungi dall’esprimere una ricerca volta a trovare parametri finalistici nell’agire normativo, si è basata, più o meno esplicitamente, su ciò che MacIntyre definisce «emotivismo». Questo atteggiamento, a sua detta ancora dominante, testimonia il naufragio del progetto illuministico dello stesso Kant, di Denis Diderot e di Adam Smith, i quali funzionarono perlopiù da cassa di risonanza di schemi predefiniti di credenze morali, del tutto privi di coerenza interna13. Infatti non è possibile secondo MacIntyre espungere dall’idea di natura umana il concetto aristotelico di telos, pena la riduzione delle stesse norme etiche a meri assunti di fatto. Da qui, peraltro, l’improprio passaggio da un’etica delle virtù, strutturalmente votata alla giustizia, a un’etica delle norme. Contro questa tendenza, si tratta di riproporre il concetto di giustizia come virtù politica, come capacità di cementare, fornendolo di identità, l’edificio della comunità. Là dove, come nelle teorie liberali di Rawls e di Nozick, essa non venga riconosciuta – e si dia una comunità priva del consenso pratico su una concezione della giustizia –, si determina un’interpretazione riduttiva del vivere sociale, totalmente schiacciata sull’accettazione acritica di un altissimo tasso di frammentazione e di anomia sociale. E, tuttavia, secondo MacIntyre, anche nelle argomentazioni egualitarie di Rawls o in quelle libertarie di Nozick riecheggia il lascito di una concezione morale più antica, ispirata proprio all’etica delle virtù – si pensi, in proposito, alla questione del merito, la quale non può essere omessa da un discorso che intenda assumere rigorosamente le questioni della giustizia e dell’ingiustizia14. Al “divisionismo etico” di humiana memoria – introdotto nella cultura del Novecento dalla sociologia avalutativa di Max Weber – si richiama, invece, il positivismo normativo e giuridico di Kelsen. Per Kelsen, la giustizia non può essere legittimata razionalmente. Essa, anzi, resta un “ideale” del tutto irraziona13. Cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù, tr. it. Milano 1988. 14. Ibidem.

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le ed è privo di valore il tentativo di usare tale concetto come criterio di valutazione del diritto vigente, ossia dell’insieme di quelle norme imperative che costituiscono l’ossatura stessa dell’ordinamento giuridico. Contro qualsiasi cedimento giusnaturalistico, egli fa discendere il carattere di quell’ordinamento da un sistema gerarchico di norme, appunto, il quale troverebbe la propria validità in una norma positiva fondamentale15. Nell’ottica di Kelsen, pertanto, la scienza giuridica presenta il diritto così come esso è, rinunciando a difenderlo come “giusto” o a condannarlo come “ingiusto”. Essa si occupa del “diritto positivo” e, in questa prospettiva, la scienza giuridica non può che essere realista ed empirica.

3. L’identità tra “giuridico” e “legale” come fictio juris Commentando la nozione di “diritto positivo”, Achille de Nitto ha osservato: «I giuristi, di regola, assumono come parametri dei loro ragionamenti proposizioni di carattere imperativo, quale che se ne reputi poi il fondamento e la specie»16. Per questa ragione, i giuristi, occupandosi di “diritto positivo”, sarebbero sempre “giuristi positivi”17. Ma, dal punto di vista terminologico, l’espressione positum è tutt’altro che semplice. Ius positum equivarrebbe a ius constitutum. Francesco Filomusi Guelfi, dal canto suo, ricorda che quisque populus ipse sibi ius constituit e, a proposito di ius gentium, segnala che naturalis ratio inter omnes hominis constituit. In altri casi, ad esempio nella cultura giuridica francese di fine Seicento, l’espressione droit positif è usata in riferimento alle 15. Cfr H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello stato, tr. it. Milano 1974, p. 397. Su questo punto cfr. inoltre A. De Simone, Oltre il disincanto. Etica, diritto e comunicazione tra Simmel, Weber e Habermas, Lecce 2006, pp. 300-302. 16. A. de Nitto, A proposito di ‘diritto positivo’ e ‘diritto legale’, «Ritorno al diritto», 2, 2005, p. 200. 17. Ibidem.

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loix humaines et arbitraires, parce que les hommes les ont établies, in quanto distinte da quelle qui sont du droit naturel et de l’equité18. Questi significati, tuttavia, non esauriscono l’arco semantico dell’espressione “positivo”. Positum, innanzitutto, essendo participio di verbo transitivo – e quindi partecipe delle funzioni sia del verbo, sia dell’aggettivo – ha senza dubbio una valenza passiva. Positivus, latino tardo, avrebbe verosimilmente significato certus, praescriptus. Tuttavia, «in italiano, per i valori traslati di porre, “positivo” indica però anche, in certo senso, il contrario: e cioè “che prescrive qualcosa”, in contrapposizione a “negativo”, che invece sta per “che vieta qualcosa o che prescrive di non fare qualcosa”. Un’accezione talmente “prescrittiva” da indicare anche “effettivo”, “reale”, “sicuro”, o anche “utile”, “vantaggioso”, “favorevole”; e così via»19. Assumendo queste ultime coloriture del termine “positivo”, si potrebbe trovare un filo rosso che ne spieghi il senso non meramente positivistico. In effetti, il “diritto positivo” è innanzitutto un insieme composito di comportamenti e non già un puro sistema di norme date: «il diritto non è solo l’insieme delle regole così come un gioco non è solo le regole del gioco»20. La natura “prescrittiva” del positum – e quindi del diritto positivo – sarebbe perciò quella di mettere in ordine l’esperienza, orientando l’azione (intentio, questa, già tutta dispiegata nello stesso costituirsi di ciò che vale come “ordinamento”). Ma, si badi, si tratta di un “ordinare” non più formalistico o meramente concettuale; si tratta, piuttosto, di una dis-posizione attiva fortemente partecipativa, dal momento che non vi sarebbe “disciplina” se non vi fosse l’interazione tra il discipulus e il doctus: affinché qualcuno possa imparare, ci deve essere qualcun altro disposto a insegnare. Per questa ragione, l’interazione non va più pensata come fenomeno di natura esclusivamente relazio18. Cfr. ivi, p. 201. 19. Ibidem. 20. Ivi, p. 202.

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nale e sociale; essa, piuttosto, va concepita come momento costitutivo dello stesso “diritto positivo”. Il diritto, detto altrimenti, è un modo di fare cultura, di aprire solchi nella convivenza per renderla feconda21. In questa prospettiva, il diritto appare come ciò che è “effettivo”, “efficace”, determinabile se non determinato. Nell’idea del “diritto positivo” si esprime così «il carattere della concretezza dell’azione del collocare in uno specifico luogo; del porre, appunto, nel senso del situare o del depositare, dell’attribuire, o almeno pro-porre, una posizione stabile e, perciò, di stabilire; del mettere in una posizione determinata e perfino dell’assumere, o del far assumere una postura: porre una sentinella di guardia, un vaso sul davanzale, la firma su un documento, un termine di scadenza a un contratto; ma anche un testo in versi o in musica, o qualcuno o qualcosa in salvo o al riparo o al bando; e così via»22. In quanto tale, il “diritto positivo” aspira anche a porre limiti all’esperienza. Procede per delimitazioni e incanalamenti. Vuole determinare l’orizzonte di ciò che possiamo esperire. Non si deve, tuttavia, pensare che il diritto intenda determinare l’esperienza con il solo fine di renderla intelligibile e controllabile; piuttosto si dovrebbe comprendere come in esso funga l’esperienza dell’insopprimibilità del determinarsi inarrestabile dell’orizzonte normativo e simbolico (nel senso che o l’esperienza è determinata oppure non è esperienza affatto). In questo senso, le «determinazioni dell’esperienza» presuppongono «l’esperienza delle determinazioni». Ciò significa che la positività non sta nel discorso astratto sui limiti (imposti), bensì «proprio nella pratica dei limiti anche attraverso il discorso»23. Per questo il diritto ha una sua vocazione eminentemente “pratica”. E qui prassi significa anche mediazione, stante che 21. Cfr. ibidem. 22. Ibidem. 23. Cfr. ivi, p. 203.

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il partecipato “mettere ordine” proprio del diritto implica un determinarsi dell’indeterminato, una gestione dei conflitti, un superamento di quello scontro che, finché sussiste, impedisce al diritto d’essere, appunto, un positum, un elemento ordinatore. Tuttavia, questa gestione del conflitto non deve essere intesa come momento di assoluta conciliazione tra istanze contrapposte. La condizione necessaria affinché tale superamento non sia inteso come cancellazione di una delle parti del conflitto va vista nella capacità di mantenere attivo, nello stesso concetto di superamento, il concetto di “tensione”. Infatti, la sfera del diritto funge da elemento di mediazione volto a gestire poli contrapposti, mantenendoli come compresenti e contemporanei: conflitto significa «tensione verso il riconoscimento delle ragioni compatibili, sforzi permanenti di confronto nella prospettiva del dialogo […], discorsi che aprano varchi nell’intelligenza e nelle emozioni alla ricerca di soluzioni condivisibili o condivise: soluzioni che appaiano, nelle situazioni specifiche, e con gli elementi a disposizione, non corrette, ma giuste»24. A questo livello, la classica assimilazione tra “giuridico” e “legale” non sembra più appropriata. Anzi, essa sembrerebbe configurare, se mantenuta, una vera e propria fictio juris25. Il rischio qui è quello di comprimere l’orizzonte della prassi giuridico-normativa sul diritto vigente, laddove il diritto, in effetti, nel suo carattere di formazione storica e processuale, non si trova a coincidere tout court con la legge, ovvero con il sistema legale effettivamente dato. Alla base dell’assimilazione tra “giuridico” e “legale”, nonché della compressione del primo sul secondo, si trova, tuttavia, un presupposto non esplicitato, per il quale la funzione legislativa si risolverebbe tout court nell’ambito del carattere dichiarativo – apofantico – della statuizione delle norme.

24. Ibidem. 25. Sul tema di una possibile strumentalizzazione dell’elemento giuridico, convertito in mera e inadeguata “finzione”, rinvio a A. Rufino-G. Teubner, Il diritto possibile. Funzioni e prospettive del medium giuridico, Milano 2005.

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Dal punto di vista di tale presupposizione, l’atto del legislatore ha di per sé la presunzione assoluta di essere l’espressione immediata del diritto. Ciò nonostante, l’elemento dichiarativo del diritto non sembra dissolvere quel positivus che si attesta nell’insopprimibile riconoscimento del determinarsi processuale e pratico dell’esperienza. In tal modo, non il determinato simpliciter è il giuridico; bensì quest’ultimo si dà nel processuale determinarsi simbolico e normativo di ciò che vive nel multiversum della socialità26. Emerge qui una sorta di primato del giuridico, ossia di quelle regole, scritte o non scritte, «che attraversano il concorso, nelle diverse forme, di una pluralità di attori e di fattori e, in relazione ai diversi interessi di vita, si formano e vengono riconosciute, e sentite, come tali, sul terreno dell’esperienza, nelle sue sovrapposizioni e i suoi intrecci; e non solo di quelle regole che, in quanto prodotto dell’attività legislativa e, in ultima analisi, della decisione politica, possano risultare, specialmente in quanto scritte, come espressamente e tassativamente volute»27. Se in quest’ultimo caso, l’orizzonte del lecito coincide con quello del legittimo, nell’altro caso «le rispettive aree s’intersecano variamente: come se i limiti dei comportamenti, e dei poteri, nonché le corrispondenti garanzie, lungi dall’essere esclusivamente determinati dai legislatori, derivassero anche da ciò che, in date circostanze, la coscienza collettiva, la sensibilità e la cultura avvertano “positivamente” nel profondo, nella dimensione costituzionale della convivenza. Intrinsecamente “giuridica”, a prescindere dalla legge»28. Ed è proprio in questo carattere intimamente giuridico dell’esperienza che vive la normatività del conoscere e dell’esperire, e senza di cui nessuna descrizione epistemologica del mondo 26. Per quanto concerne il tema del rapporto tra sfera giuridica e comportamenti sociali cfr. A. Rufino, Cultura giuridica e regole sociali. Temi di sociologia del diritto, Soveria Mannelli 2003. 27. A. de Nitto, A proposito di ‘diritto positivo’ e ‘diritto legale’, cit., p. 208. 28. Ibidem.

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e nessun momento dichiarativo della funzione legislativa potrebbe darsi e sussistere29.

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4. Il concetto di regola di condotta e l’irriducibilità del normativo alla logica dichiarativa Se il fine di ogni ricerca interpretativa – e la ricerca mi sembra debba sempre essere interpretativa – è quello di portare un testo o un insieme di testi a dire esplicitamente quello che non ha detto o che non hanno detto (anche qualora il non detto faccia emergere la contraddittorietà del testo o di alcune sue parti), ma che non potrebbe e non potrebbero non dire se fosse posta la domanda (nel senso che mettendo varie affermazioni a confronto deve scaturire, nei termini del testo studiato, quella risposta o un certo insieme di risposte), allora mi sembra di poter dedurre, da quanto fin qui detto, che il diritto è una scienza pratica, proprio nel senso aristotelico del termine, irriducibile ai parametri del naturalismo. In effetti, e lo si è visto, la differenza tra “giuridico” e “legale” non può che confluire in un’altra e ben più sostanziale differenza, quella tra “normativo” e “descrittivo”. Non tanto nel senso del “divisionismo etico” prima richiamato, quanto in quello del normativismo semantico weberianamente inteso, alla luce del quale l’attribuzione intenzionale di significato che fornisce senso all’agire è al tempo stesso attribuzione di regole. Quest’ultima, anzi, è condizione logica della stessa identità delle azioni. In questo senso, «ogni azione va collegata a uno sfondo istituzionalizzato di altre azioni, uno sfondo – chiamiamolo prassi – condividendo il quale ciascun attore potrà ricavare implicitamente il senso di ciò che sta facendo»30. Ciò è quanto è stato fatto valere da Peter Winch e dalla rilettura del concetto di regola wittgensteiniana che egli ha elabora29. Cfr. A. Bixio, Contingenza e socialità dell’azione, Milano 1988. 30. D. Sparti, Epistemologia delle scienze sociali, Roma 1995, pp. 166167.

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to, nell’intento di analizzare non quanto può essere dimostrato in modo empirico, bensì cosa intendiamo quando parliamo di società, di azione e di attore31. Del resto, anche il primo Habermas legge nel concetto di agire “guidato da regole”, e proprio in riferimento alle tesi espresse da Winch, il nuovo criterio di distinzione tra scienze sociali e scienze naturali: «Una norma può essere infranta, ma non per principio una legge naturale. Relativamente alla norma che la guida, un’azione può essere corretta o errata; mentre una legge non è confutata che da prognosi errate»32. Ciò non significa che ogni azione è semplicemente l’effetto predeterminato di norme preesistenti – come vorrebbe il funzionalismo sistemico. Piuttosto qui si tratta di comprendere come l’azione, implicando al proprio interno un mondo dinamico fatto di storia, di eventi e di processi, non rinvii a un mondo già dato una volta per tutte, in quanto le regole, nel loro statuto ontologico, non si riferiscono a un mondo che preesisterebbe all’azione, ma costituiscono la condizione per la sua intelligibilità. Le regole sono forme di vita – Lebenswelt – e, come tali, sono soggette ai processi di trasformazione che ogni forma vitale ha iscritti, simmelianamente, in se stessa. In questo senso, è stato notato che la stessa dinamica sociale è caratterizzata dall’oscillazione tra l’osservanza e l’infrazione della norma33, sebbene l’intelligibilità di una condotta in viola-

31. Cfr. Il concetto di scienza sociale e le sue relazioni con la filosofia, Milano 1972, p. 132 ss.; nonché D. Sparti, Epistemologia delle scienze sociali, cit., p. 167. Su questi temi, nel contesto di un loro sviluppo critico, si veda l’importante e denso saggio di Luigi Cimmino, Significato e divenire. Wittgenstein e il problema delle regole, Perugia 2003. 32. J. Habermas, Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, tr. it. Bologna 1967, pp. 199-200. Per un’analisi dei temi centrali del primo Habermas rinvio a A. De Simone, Tradizione e modernità. Ermeneutica filosofia pratica e teoria politica nel primo Habermas, Urbino 1991. 33. Cfr. F. Crespi, Le vie della sociologia, Bologna 1994, p. 244. Ormai da molti anni, Franco Crespi legge queste dinamiche nell’ambito di una più ampia riflessione sul potere e sulla dimensione simbolico-normativa dell’agire

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zione della norma non si darebbe se non vi fosse, pienamente operante, la norma medesima. Dal punto di vista di un’ontologia dell’azione è dunque necessario distinguere due significati del termine “regola”: le regole come “determinanti” empirici dell’azione, e le regole come “costituenti” logici del significato dell’azione. Le prime, che sono più intuitive da comprendere, «si riferiscono alla prescrizione di una certa sequenza di azioni. Si pensi, ad esempio, alle regole del traffico: chi le viola guida male e subisce una contravvenzione, ma certo non cessa di guidare»34. Nel caso delle regole costitutive, invece, come già si notava, le regole non si riferiscono a un comportamento ma, appunto, lo costituiscono. In quest’ultimo caso, l’azione non può mai essere separata dall’orizzonte normativo che la costituisce. Da ciò si evince che gli eventi sociali – e quindi anche il “diritto positivo” – hanno uno statuto autonomo. E lo hanno, è opportuno ribadirlo, nel senso che gli eventi sociali non esistono indipendentemente da quell’insieme di regole che ne costituisce il necessario sfondo operativo35. Del resto, tale riconoscimento si è oggi radicato anche nel solco dell’epistemologia contemporanea, per la quale non si dà un’oggettività (una realtà neutrale extra interpretationem) al di fuori delle teorie o dei linguaggi che usiamo per definirla e descriverla36. Senonché l’impossibilità di un approccio metodologico di tipo naturalistico-descrittivo al diritto può essere trattata anche da un altro punto di vista, quello legato al peculiare modo di sociale. In proposito, tra i suoi molti lavori teorici, cfr. Azione sociale e potere, Bologna 1989, nonché Teoria dell’agire sociale, Bologna 1999, pp. 319-347. 34. D. Sparti, Epistemologia delle scienze sociali, cit., p. 169. 35. Cfr. M. Bianchin, Ragione e linguaggio, Milano 1995, pp. 59-95. 36. A titolo meramente esemplificativo rinvio a M. Hesse, Socializzare l’epistemologia, «Rassegna Italiana di Sociologia», 3, XXVIII, pp. 334-356; F. Fornari, Spiegazione e comprensione. Il dibattito sul metodo nelle scienze sociali, Roma-Bari 2002; Id., Epistemologia e sociologia della conoscenza, in A. De Simone-F. Di Clemente-F. D’Andrea-F. Fornari, Tra Dilthey e Habermas. Esercizi di pensiero su filosofia e scienze umane, Perugia 2006.

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argomentare delle scienze pratiche (emblematica, al riguardo, la parabola intellettuale dello stesso Habermas). Se, infatti, le regole come “costituenti” logici del significato dell’azione – e che presuppongono il riferimento a un comportamento – rappresentano la condizione per la sua intelligibilità, le regole come “determinanti” empirici dell’azione medesima aspirano all’efficacia della norma, secondo i parametri di quell’area tematica della filosofia del diritto che Norberto Bobbio ha chiamato fenomenologica37. La ricerca dell’efficacia della norma, dal canto suo, mette capo a quello che Alessandro Giuliani ha definito «modello di legislatore ragionevole», nel quale campeggia il tema procedurale del corretto mutamento delle leggi. Un tema, questo, che spesso ha spinto i grandi sistemi, fin dal mondo antico, a considerare la categoria dell’ordine nella procedura della conoscenza in un rapporto di distinzione-connessione con le tecniche della procedura legislativa38. In relazione al nesso tra procedura del metodo dialettico e procedura ateniese di riforma delle leggi – diorthosis ton nomon – sembra esplicita l’affermazione di Aristotele: «allo stesso modo che nelle assemblee è consuetudine di presentare una legge, e quando la legge proposta risulta migliore di quella vigente, si abroga la legge anteriore, così bisogna fare a proposito delle definizioni, proponendo una differente espressione definitoria»39. Conformemente a questo dettato del mondo classico, e tralasciando la metafora per la quale la legislazione sta alla giurisdizione come la macchina in riposo sta alla macchina in movimento40, nella nostra civiltà comunale la funzione della correctio 37. Cfr. N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Torino 1958, p. 35. 38. Cfr. A. Giuliani, Il modello di legislatore ragionevole, in M. Basciu (a cura di), Legislazione. Profili giuridici e politici, Milano, pp. 13-56. 39. Aristotele, Top., 151 b 12 (tr. it. di Giorgio Colli). 40. Così, Francesco Bacone esprime la relazione tra legge e processo (formulae agendi): «Formulas agendi diversas in unoquoque genere colligito. Nam et practicae hoc interest; et certe pandunt illae oracula et occulta legum.

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legis e della emendatio legis era, in effetti, delegata al ceto dei giuristi e l’attività del potere politico, soprattutto di carattere normativo, era costantemente sottoposta al controllo della procedura giudiziaria. Addirittura nella scuola dei glossatori, il punto di partenza per l’elaborazione di una complessa teoria dei limiti del potere del principe è costituito da una Costituzione di Teodosio II e Valentiniano III, in cui viene prescritto al giudice di annullare i «rescripta» contra ius41. Infine, limitandoci qui a sottolineare solo gli aspetti metodologici di tale problematica, nel vichismo giuridico, ovvero nel mos italicus, viene espressa una concezione della topica come “arte di apprendere il vero” al cui interno viene chiaramente privilegiato il punto di vista “dialettico” del giudice rispetto a quello “sofistico” dell’avvocato42. Ora, questa centralità del momento dialettico nell’attività del legislatore sembrerebbe indicare quali siano le condizioni che la ricerca nel dominio della prassi deve soddisfare per convertire il pensiero normativo in un’autentica attività intellettuale: il carattere pubblico della ricerca, da un lato, il carattere “negativo” delle regole di condotta, dall’altro. La prima condizione statuisce che il diritto non è l’opera di una ragione solitaria, ma è legato a una ragione sociale e presuppone la collaborazione delle intelligenze, anche distanti nel tempo; la seconda, invece, ci riporta al già richiamato collegamento che Aristotele individua tra “regole” e “definizione”. Più precisamente, tra “regole” e “definizione dialettica”, nel suo differire dalle definizioni reali o nominali. Infatti, mentre queste ultime non dipendono da una Sunt enim non pauca quae latent in legibus, at in formulis agendi melius et fusius perspiciuntur; instar pugni e palmae» (Tractatus de «Justitia Universali», sive de «Fontibus Juris», in uno titulo, per aphorismos, in De dignitate et augmentis scientiarum, app. L. VIII, aph. 88, in The Works of Francis Bacons, collected and edited by J. Spedding, R. Leslie, D.D. Heath, London 1958, ristampa anastatica, Stuttgart-Bad Connstatt, 1963, vol. 1., p. 824). 41. Cfr. A. Giuliani, Il modello di legislatore ragionevole, in M. Basciu (a cura di), Legislazione. Profili giuridici e politici, Milano, p. 16. 42. Cfr. ivi, pp. 15-16.

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scelta umana, la definizione dialettica, come le norme, è strettamente legata alle decisioni umane, al punto che esse possono cambiarla43. Come le regole sono topoi, la cui applicazione richiede l’intervento della phronesis, ossia della saggezza e della prudenza, così la definizione è “sapere problematico”, “dialettico”, basato sull’elenchos. La definizione dialettica è il risultato di un procedimento di ricerca condotto in termini negativi. Il suo punto di partenza sono le opinioni umane, appunto. Ed è proprio questo il senso in cui il carattere negativo, confutatorio, del procedimento definitorio si ripercuote sul modo di concepire la regola, presupponendo quest’ultima il divieto di certe azioni: come possiamo escludere le false definizioni, anche se non ci è data la possibilità di conseguire una definizione vera in assoluto, così la regola viene definita attraverso un processo di esclusione e di delimitazione44. Ciò significa che la ricerca della regola – come quella della definizione – avviene in una situazione controversiale, confutatoria, dato che nessuna mente individuale potrebbe conoscere tutte le circostanze rilevanti. In questa prospettiva, «il trasferimento del modello giuridico di ragionamento sul piano del ragionamento morale comunica a quest’ultimo un carattere di dinamicità, che frena ogni tentazione verso la costruzione di una morale come scienza. Il diritto non è per Aristotele qualcosa di statico: è un kineton. Esso è il modello di una tradizione intellettuale che si trasmette nel dissenso e nella controversia: e il suo mutamento è strettamente legato a una logica del dialogo e della controversia. Il fine del diritto, come della morale, non è la conoscenza, ma la prassi»45. Ed è qui, a questo livello, che trova un’ulteriore giustificazione la differenza prima esaminata tra giuridico e legale e il 43. Cfr. A. Giuliani, Il concetto classico di regola di condotta, Perugia s.d., pp. 3-27. 44. Cfr. ivi, pp. 14-15. 45. Ivi, pp. 15-16.

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rifiuto dell’idea che il diritto possa essere ridotto al carattere dichiarativo della funzione legislativa. Nel tentativo di comprendere se la messa al bando di Kelsen di ogni processo che non s’identifichi con la norma positivistica assorba in sé il più vasto mondo dell’elemento giuridico, si è giunti così a cogliere l’impossibilità di appiattire il giuridico sul legale. E, infine, si è mostrato che il modo di argomentare intorno a questioni pratiche assume come regola ciò che si sottrae ai processi della confutazione. Proprio in quest’ottica, del resto, sempre riferendosi al concetto di agire come comportamento guidato da regole, Habermas ha messo in evidenza come alla base di ogni rapporto comunicativo siano reperibili dei presupposti intrascendibili di verità e razionalità che, una volta portati alla luce, possono fornire criteri di validità in grado di riconoscere le forme distorte della comunicazione. Nel discorso, detto altrimenti, fungono regole logiche che non possono essere aggirate. Secondo Habermas, l’adesione dei parlanti a regole comuni (in primis: comprensibilità grammaticale e riferimento all’esperienza), nonché le pretese di verità di chi parla – verità, giustezza normativa, veridicità – sono momenti del discorso che, appunto, non possono venire negati, in quanto sono elencticamente presupposti da chi intenda negarli46. Colui che intendesse negarli cadrebbe in una contraddizione preformativa di tipo elenctico, rendendo insensata la sua stessa negazione. Tale struttura argomentativa fonda la portata universale del discorso, neutralizzando ogni movente che non sia quello della ricerca cooperativa della verità47. In questo senso, l’agire comunicativo permetterebbe da una parte di contenere le pretese imperialiste della ragione strumentale e, dall’altra, di smascherare le “ideologie”, là dove per 46. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, tr. it. Bologna 1986, pp. 379 ss.; Id., Vorstudien und Ergänzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt am Main 1984, p. 106. 47. Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, Roma-Bari 1989.

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“ideologia” s’intenda la manipolazione del consenso da parte del potere costituito. In tal modo, nella sua fondazione dell’etica e del momento pratico, la validità stessa del momento dialogico diventa la stessa condizione necessaria o sufficiente di giustizia dello stesso orizzonte normativo. Indipendentemente dal valore che s’intende attribuire alla posizione di Habermas48, il merito del suo sforzo teorico va individuato nell’aver rivitalizzato il senso di un’argomentazione non causalista e descrittivista nelle scienze pratiche. Se la logica dichiarativa è fondamentalmente la logica di un mondo statico che non cambia e che si presume stare in una sua data fissità, la logica confutatoria o elenctica, in quanto ricerca della regola in un mondo ove processi ed eventi svolgono un ruolo primario, è, invece, la logica di un mondo che cambia, il mondo dell’azione, quel mondo nel quale, anziché essere fatta, la realtà si fa.

48. I limiti dell’argomentazione di Habermas nascono dal fatto che egli, nella sua fondazione universalistica dell’etica, non riesce a mantenere la dimostrazione elenctica nell’ambito di quel “sapere contingente” che è il sapere pratico. Su questo punto rinvio al mio Epistemologia e sociologia della conoscenza, in A. De Simone-F. Di Clemente-F. D’Andrea-F. Fornari, Tra Dilthey e Habermas. Esercizi di pensiero su filosofia e scienze umane, cit., Perugia 2006.

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Parte III.

Corpo, soggettività, potere

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Decostruzioni giuridiche, figurazioni di giustizia, ontologia politica

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Jacques-Henri Lartigue, Son hydroglisseur avec propulseur, 1904.

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Marcello Strazzeri

Decostruzione giuridica e orizzonti di giustizia

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I

l problema della decostruzione delle categorie giuridiche, quale presupposto fondativo di nuovo diritto, è stato posto in ambiti disciplinari diversi e, recentemente, nel quadro di un’organica teoria filosofico-giuridica, da Jacques Derrida1. Non sarà inutile, pertanto, una preliminare chiarificazione sugli obiettivi che orientano il percorso che qui si propone: scuotere dalla sua autoreferenzialità un campo discorsivo forte che ha nel diritto il suo epicentro. Uso il termine diritto intendendo con ciò significare un processo di produzione di enunciati alimentato dalle risorse di un “archivio”2 sedimentato nel tempo. La prospettiva metodologica utilizzata sarà di tipo genealogico: una sorta di “archeologia del sapere”3 con specifico riferimento al campo di discorsività definito diritto. L’obiettivo proposto, sulla base della prospettiva menzionata è il seguente: verificare le potenzialità decostruttive di una epistemologia che si richiama a Michel Foucault4. La descrizione del processo di emersione di figurazioni della legge quale metafora del potere sarà fondata su testi analizzati nella prospettiva di funzionare come discorsi capaci di raccontare la legge mettendo in scena il diritto5.

1. J. Derrida, Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, a cura di F. Garritano, Torino 2003. 2. M. Foucault, L’archeologia del sapere, Milano 1980, pp. 105-176. 3. Ivi, pp. 179-185. 4. Ivi, p. 176. 5. Su diritto e letteratura, per una trattazione sistematica del problema con ampie esemplificazioni tratte da scrittori cfr. F. Ost, Raconter la loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Paris 2004; in particolare, il capitolo Kafka ou l’en deçà de la loi, pp. 338-405.

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Marcello Strazzeri

Ho usato l’enunciato “figurazioni della legge” con esplicito riferimento a Norbert Elias6, di cui utilizzerò le implicazioni rivenienti della sua concezione del potere come struttura regolativa delle relazioni che si stabilizzano tra gli individui in una realtà determinata, articolandole, trasformandole, disperdendole lungo una catena di interdipendenze le cui singole maglie è possibile individuare attraverso figurazioni che, in particolare nella letteratura, consentono di rappresentare il potere, la legge, il diritto in azione7. Fatta questa premessa di carattere metodologico, occorre tornare al problema, già posto, della decostruzione delle categorie giuridiche con una dichiarazione di intenti che mi riservo di approfondire ulteriormente: non intendo recare un ulteriore contributo alla ideologia del pensiero debole, ma dare una risposta plausibile all’emergere crescente di una esigenza di ri-verifica delle categorie fondanti una produzione discorsiva che ha nella dogmatica giuridica il livello massimo di auto-referenzialità. La prospettiva da cui muovo, infatti, assume la teoria della decostruzione non come ideologia negativa appagata dalla sua capacità di individuare aporie e paradossi ma, al contrario, come possibilità di contribuire alla nascita di nuovo diritto sostitutivo di quello messo in crisi da pratiche discorsive e movimenti espressione dell’emergenza di una nuova strutturale interdipendenza sintomatica di una «grammatica stessa delle forme di vita»8. In questo senso ultimo l’accentuazione della dimensione decostruttiva di questo mio percorso vuole essere un modesto contributo alla problematica della costruzione di nuovo diritto orientato dalla possibilità di altri orizzonti di giustizia; quanto 6. N. Elias, Che cos’è la sociologia, Torino 1990, p. 152; ma cfr. anche sul concetto di figurazione in Elias, M. Strazzeri, Figurazioni letterarie del mutamento sociale, Lecce 2003. 7. Cfr. G. Minda, Teorie postmoderne del diritto, Bologna 2001, in particolare il capitolo Diritto e letteratura, pp. 247-276; Aa.Vv., Lettres et lois: le droit au miroir de la littérature, Bruxelles 2001. 8. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, II vol., Bologna 1986, p. 1072 ss.

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Decostruzione giuridica e orizzonti di giustizia

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tale esigenza sia correlata – per un verso ai processi di globalizzazione in atto, alla rete di interdipendenza sempre più stretta tra uomini, popoli, culture, nazioni; per altro alle sempre più pervasive e penetranti forme di dominio politico e culturale emergenti – è questione oggetto di una letteratura vastissima: dal processo di universalizzazione dei diritti umani posto in crisi dai rigurgiti etnocentristi, alla emergenza dei cosiddetti asian values9, in una prospettiva di cittadinanza planetaria in grado di bilanciare lo sviluppo senza frontiere di una lex mercatoria che, scavalcando stati e nazioni che dei principi fondativi del costituzionalismo moderno avevano fatto l’apparato legittimante, mette in crisi i presupposti della loro sovranità nazionale. Tutto ciò nel quadro di un avanzante processo di de-territorializzazione e concentrazione del potere determinato dalla globalizzazione della produzione, dei mercati, delle tecnologie, supportata da organismi quali il Fondo monetario internazionale, il Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Una dinamica di crescita senza sviluppo per due terzi del pianeta sembra giustificare, nell’ambito della nascita di una sorta di biopolitica del potere, l’affermazione di Foucault secondo cui al “vecchio potere di vita e di morte”, esercitato in passato nell’epoca dell’assolutismo, se ne sarebbe sostituito, oggi, un altro solo apparentemente meno cruento, “il far vivere” un terzo dell’umanità a scapito del “lasciar morire” gli altri due terzi, falcidiati da denutrizione, epidemie, catastrofi naturali, genocidi, migrazioni di massa, guerre preventive10. Dallo scenario delineato, solo apparentemente apocalittico perché verificabile sulla base delle rilevazioni statistiche degli organismi internazionali, emerge la necessità della decostruzione e contestuale ricostruzione di nuove regole fondate sulla

9. Cfr. Id., L’inclusione dell’altro, Milano 1998, pp. 225-229. 10. Cfr. M. Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica. 1975-1984, Milano 2001; cfr. anche M. Strazzeri, Dal potere sui corpi alla biopolitica della vita, in Id. (a cura di), Potere, strategie discorsive, controllo sociale, Lecce 2003, p. 305.

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Marcello Strazzeri

universalizzazione dei diritti umani, riconosciuti e garantiti da organi internazionali dotati di potere di esecuzione. Si tratta, come è ovvio, di questioni di grandi complessità a cui ho accennato con il solo intento di motivare l’esigenza di stabilire una connessione funzionale tra pratica decostruttiva di diritti vigenti e ipotesi ri-costruttiva di nuovo diritto secondo un’idea regolativa di giustizia. Posto, infatti, che la giustizia in quanto infondata e non costruita non è decostruibile e che il diritto, al contrario, è decostruibile, perché fondato e costruito nel corso di una produzione discorsiva stratificata e trasferibile, ne deriva che, sostiene Derrida, «la decostruzione ha luogo nell’intervallo che separa l’indecostruibilità della giustizia e la decostruibilità del diritto»11. Ma, se la giustizia, in quanto infinita, è incalcolabile rispetto alla necessaria calcolabilità del diritto evidente nella proporzione tra il delitto e la pena, o nella relazione tra danno e risarcimento, ne deriva una inadeguatezza costitutiva del diritto rispetto alla giustizia, posto che quest’ultima non può fare a meno della prima per la sua effettività. Come uscire dall’aporia costitutiva di ogni situazione giuridica consistente nell’amministrare diritto calcolabile in nome di una giustizia per definizione incalcolabile? La figurazione della decostruzione nella prospettiva delineata da Derrida consiste nella critica permanente di questa aporia inerente a ogni situazione giuridica. Non a caso il filosofo francese – dopo aver ricordato che, in un passato non lontano, noi uomini significava noi Europei: adulti, maschi, bianchi e che ancora oggi nella specie umana molti soggetti non essendo riconosciuti come soggetti di diritto, ricevono un trattamento animale – perveniva a una conclusione che ritengo possa orientare la prospettiva ricostruttiva del percorso che mi accingo a intraprendere:

11. J. Derrida, Forza di legge, cit., p. 64.

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Decostruzione giuridica e orizzonti di giustizia

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decostruendo le divisioni che istituiscono il soggetto umano […] riguardo al giusto e all’ingiusto non si perviene necessariamente all’ingiustizia, né alla cancellazione di una opposizione tra il giusto e l’ingiusto ma, forse, in nome di un’esigenza insanabile di giustizia alla re-interpretazione di tutto l’apparato dei limiti in cui una storia e una cultura hanno confinato i loro criteri12.

Il contesto teorico-metodologico enunciato comporta l’abbandono di ogni suggestione storicistica fondata su una qualche idea evolutiva di progresso la cui ratio si tratterebbe di estrarre dalla sequenza degli eventi descritti. In tale prospettiva la ripresa genealogica di enunciati e proposizioni riferibili al «campo giuridico»13 si colloca all’interno di una catena di interdipendenze14 nei cui snodi significativi si manifesta la “volontà di verità” prodotta dal regime epistemico dell’epoca. La sua egemonia, pertanto, è sì ascrivibile al weberiano monopolio della forza fisica legittima15 ma, al contempo, a una produzione discorsiva, nella fattispecie quella interna al “campo giuridico”, congruente con l’apparto di produzione della sua verità: sarà quest’ultimo a costituire il quadro esplicativo di un processo, quale quello delineato, in cui eventi discorsivi che supportano, essendone contestualmente supportati, determinate relazioni di potere all’interno di una data struttura di interdipendenza, possono contribuire a sovvertirne l’equilibrio, determinando discontinuità, cesure, soglie, decostruite le quali emergono nuove reti di potere-sapere: sia sul piano della loro enunciazione (diritto penale, procedure, ordinanze, editti, ecc.) che della loro visibilità16 (tribunali, prigioni, apparati di esecuzione). 12. Ivi, p. 70. 13. Cfr. P. Bourdieu, La force du droit. Eléments pour une sociologie du champ juridique, «Actes de la recherche en sciences sociales», 64, 1986, pp. 219. 14. Cfr. N. Elias, La società degli individui, Bologna 1990, p. 26 ss. 15. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, 1948, pp. 48-49. 16. Cfr. G. Deleuze, Foucault, Milano 1987.

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Marcello Strazzeri

I testi individuati, nella misura in cui articolano gli snodi del percorso, saranno assunti quali «campioni logico-storici»17 significativi di una pratica discorsiva che, all’interno del regime epistemico dell’epoca considerata, produce processi di stabilizzazione e/o decostruzione del campo giuridico vigente: emergono nuovi paradigmi dalla dissoluzione dei vecchi, per effetto dei mutamenti, delle rotture, degli squilibri determinati dalle dinamiche delle relazioni di potere all’interno della catena delle strutture di interdipendenza. Come ciò avvenga, quali figurazioni si determinino, quali pratiche discorsive si riproducano, disperdano, riemergano costituisce l’obiettivo che intendo perseguire. Ciò comporta la decostruzione delle categorie su cui si è tradizionalmente fondata la teoria e la pratica della conoscenza e dunque il riferimento, per così dire, obbligato al Nietzsche della Gaia scienza18 e di alcuni Aforismi, nell’ambito di una utilizzazione strumentale al mio percorso, di taluni aspetti della sua opera e, dunque, al di fuori di ogni pretesa analitica ed esegetica. Porrò, pertanto, a fondamento del mio discorso, né storicistico né evoluzionista, come enunciato in premessa, la liquidazione di ogni prospettiva relativa alle origini della conoscenza (Ursprung) e alla sua sostituzione con quello relativo alla sua invenzione (Erfindung). Ne consegue il rifiuto di qualsiasi nesso tra soggetto e oggetto della conoscenza e, pertanto, la sua casualità da intendersi secondo la metafora nietzschiana della «spada che producendo la scintilla non ha alcun rapporto con quest’ultima»19. La negazione dell’idea del soggetto che produce il suo oggetto è radicale in una prospettiva come quella da me adottata con riferimento a una epistemologia come quella foucaultiana in cui, com’è noto, entrambi, soggetto e oggetto, sono il prodot-

17. G. Della Volpe, Logica come scienza positiva, Messina 1950, pp. 304305 ss. 18. Citato da Foucault in M. Foucault, Archivio Foucault. 2. 1971-1977, Milano, p. 88 ss. 19. Ivi, p. 89.

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to non determinabile soggettivamente di oggettive relazioni di potere-sapere. Se, e in quale misura, pratiche giudiziarie intese quali pratiche discorsive articolino un campo semantico entro cui esse dispiegano “casualmente” effetti conoscitivi è quanto tenterò di spiegare nel corso di questo lavoro, nella seconda parte del mio percorso. Ciò premesso, è indispensabile precisare, nell’ottica assunta, le conseguenze determinate dalla relazione ricorsiva conoscenza-potere-verità in quanto costitutiva di ogni situazione giuridica. Utilizzerò a tal fine un testo di Walter Benjamin, decisivo per l’articolazione del mio discorso. Si tratta del saggio Per la critica della violenza20, di cui viene evidenziata la portata ermeneutica della fondamentale distinzione che struttura l’impianto teorico del giovanile scritto benjaminiano: quella tra violenza che crea diritto e violenza che conserva diritto, quest’ultima attraverso la gestione monopolistica della forza fisica da parte di un’organizzazione che, come lo stato, la esercita in forme supportate da credenza nella sua legittimità. È proprio questa che, weberianamente accettata dai suoi destinatari sulla base di tradizione, carisma, legalità del suo effettualizzarsi, contrasta l’insorgere di nuovo diritto: nuovo in quanto strutturato sul fondamento di un paradigma alternativo alla violenza. È in tale prospettiva ultima, infatti, che al tempo del diritto mitico può subentrare, nell’ambito di una filosofia non storicistica della storia, il diritto di una nuova epoca: la sola che sul fondamento di un’idea di giustizia, derridianamente non calcolabile in quanto non costruita, potrebbe amministrare diritto calcolabile al di fuori dell’oscillazione tra violenza fondatrice (ma pur sempre violenza) e violenza conservatrice (violenza legittimata). Si tratta, come si può rilevare, di una prospettiva in cui viene in primo piano la costitutiva ambiguità di ogni situazione giuridica: quella che, dice Benjamin, citando Anatole France, «fa divieto ai ricchi e ai poveri di dormire sotto i pon20. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino 1962, pp. 5-30.

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ti»21 e che in una successiva ripresa argomentativa gli fa citare nel saggio Destino e Carattere22, il Goethe che rivolto ai giudici afferma: «voi fate diventare il povero colpevole»23. Se, infatti, tale costitutiva ambiguità è intrinseca alla ratio stessa di ogni sistema giuridico, quest’ultimo non può non assumere i caratteri di un destino che informa tutto il processo di costruzione del campo giuridico: dalla fondazione alla produzione e alla amministrazione della giustizia.

1. L’inversione cronotopica della colpa e della pena nel Processo di Kafka Il Processo di Kafka è la figurazione più significativa di una radicale de-costruzione delle categorie fondative del campo giuridico: quelle di spazio e tempo. Tali categorie emergono con la figurazione del primo tribunale della storia, rappresentato da Eschilo nelle Eumenidi. Spazio e tempo si dispongono in modo funzionale nel definire le sequenze attraverso cui le parti svolgono i ruoli prefissati in quel primo progetto di istituzionalizzazione della giustizia. Alla colpevolezza o innocenza dell’imputato, da provare in un serrato confronto tra accusa e difesa, segue la sentenza di condanna o di assoluzione. L’alternarsi delle parti in conflitto dà vita a un contraddittorio regolato da una parte terza in presenza di una giuria cui spetta la pronuncia della sentenza di fronte a un pubblico di cittadini che ascoltano senza interferire. Il tempo di svolgimento del processo è lineare. Alla contrapposte tesi relative alla colpevolezza o alla innocenza dell’imputato, segue la sentenza da parte dei cinquecento cittadini investiti da Athena della funzione giudicante. Si tratta di un modello la cui persistenza ha caratterizzato le pratiche giudiziarie della civiltà 21. Ivi, p. 25. 22. W. Benjamin, Destino e carattere, in Id., Angelus Novus, cit., pp. 3138. 23. Ivi, p. 35.

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occidentale moderna tra abbandoni, totali o parziali, in epoca medievale e recuperi sostanziali in epoca moderna. Nella prospettiva dell’archeologia del sapere la riemergenza del modello è stata caratterizzata dall’intersecarsi di due piani: quello della visibilità e quello degli enunciati, articolati a loro volta in un tempo linearmente distribuito e in uno spazio semanticamente classificato. Non a caso, nella teoria giuridica moderna, segnatamente con Kelsen, tali categorie kantianamente a priori sono il presupposto della validità ed efficacia del diritto: decostruire tali categorie significa, pertanto, minare le fondamenta su cui poggia lo stato di diritto nella società occidentale moderna24. Spazio e tempo, infatti, in quanto realtà a priori, non poste ma pre-supposte, rappresentano sul fondamento di una condivisa Grundnorm la condizione stessa della pensabilità del giuridico. Rinvio alla vasta letteratura di riferimento non senza rilevare la specificità del nesso potere-sapere su cui poggia il regime epistemico di tale prospettiva unitamente alla sua riemersione dallo spazio di dispersione in cui era depositata. Di tale prospettiva non mi interessa, nell’ottica qui assunta, verificare la tenuta, congruenza, validità, quanto la sua istituzionalizzazione nel campo del sapere giuridico. All’interno di tale fondativa premessa kelseniana, la relazione condizionante azione-imputazione fa funzionare le singole parti dell’ordinamento nel quadro di una gerarchia delle norme secondo la quale quelle costituzionali, in quanto sovraordinate, conferiscono validità a quelle sottoordinate, prodotte dalla legislazione e dalla amministrazione. La giurisdizione si assume l’onere di interpretare e applicare le norme e, nello specifico del diritto penale, sanzionare i trasgressori. In estrema sintesi, posto che nel campo penale la riconoscibilità di una norma come

24. Cfr. H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, 1975, e Id., La dottrina pura del diritto, Torino, 1966; per un’analisi delle categorie fondanti la teoria giuridica kelseniana cfr. M. Strazzeri, L’ordinamento giuridico nella dottrina pura del diritto di Hans Kelsen in Id., Il Giano Bifronte, Bari 2004, pp. 51-89.

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giuridica è determinata dal suo essere munita di sanzione, il modello ipotetico-deduttivo proposto da Kelsen può essere esemplificativamente posto nel modo seguente: se l’attore A commette un azione B (ipotesi condizionante) ci sarà una sanzione C che la sanzionerà penalmente (conseguenza condizionata), nel caso l’azione di cui trattasi rientri nelle fattispecie previste come contravvenzione delitto. Ho sin troppo schematicamente richiamato taluni aspetti della teoria del diritto di Kelsen nel tentativo di verificare se e quanto il Processo di Kafka possa essere considerato, nella mia prospettiva, come figurazione radicalmente decostruttiva di una serie di enunciati e pratiche giudiziarie consolidate nel moderno stato di diritto. Ovviamente, in tale prospettiva né storicista né continuista ma foucaultianamente genealogica, non interessa più di tanto stabilire più o meno puntuali comparazioni storiche e filologiche tra gli enunciati discorsivi di Kafka e quelli di Kelsen. Posto, infatti, che nei termini dell’archeologia del sapere la concatenazione di enunciati kelseniani ha costituito lo snodo di una diffusa produttività discorsiva, fatta di riprese e di rilanci, recuperi e dispersioni, di dispositivi e pratiche giudiziarie applicate nei tribunali, l’obiettivo che mi propongo è quello di verificare la possibilità di interpretare il Processo di Kafka come figurazione letteraria radicalmente eversiva del campo giuridico e delle sue fondanti categorie: spazio e tempo. E va da sé che non si tratta, lo si ripete, dell’ennesimo tentativo di interpretazione di un romanzo qual è quello di Kafka, produttivo di una serie di meta-testi critici proliferati nel tempo25, ma del tentativo di verificare quanto e come la carica negativa alimentata dal concatenamento discorsivo del romanzo 25. Cfr., tra gli altri, taluni critici più vicini ai presupposti su cui si fonda il presente lavoro: G. Anders, Kafka. Pro e contro, a cura di B. Maj, Macerata 2006; G. Baioni, Romanzo e parabola, Milano 1962; M. Blanchot, Da Kafka a Kafka, Milano 1983; G. Deleuze-F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Milano 1975; E. De Angelis, Franz Kafka in Id., Arte e ideologia grande borghese, Torino 1971, pp. 134-170; cfr. inoltre F. Kafka, Opere, Milano 1993, qui utilizzato per le citazioni delle opere kafkiane, e alla cui ampia bibliografia

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possa essere utilizzata nella prospettiva di una de-costruzione propedeutica alla ricostruzione di nuovo diritto. Mi riferirò, pertanto, all’interno della prospettiva foucaultiana e della teoria della figurazione eliasiana a quei concatenamenti di enunciati discorsivi e a quelle figurazioni che meglio possono supportare l’approdo, oggettivamente in-concludente, del mio percorso: raccontare la legge mettendo in scena il diritto. Se questo racconto, interpretabile quale critica radicale delle ideologie giuridiche dominanti, sarà in grado di rivelare crepe, cesure, aporie, nello strato di potere-sapere che regge il regime epistemico entro cui si collocano quei discorsi, l’obiettivo, per modesto che sia – decostruire diritto (calcolabile) per costruire un nuovo diritto (non calcolabile) nella prospettiva di una giustizia (trascendente le relazioni potere-sapere date) – sarà stato raggiunto. La problematica della globalizzazione dei diritti fondamentali, ivi compresi quelli relativi alla sopravvivenza di popolazioni che continuano a morire nelle sterminate periferie del mondo, potrebbe mettere in discussione un regime di verità fondato sulla persistenza di pratiche discorsive attraverso cui si esercita un rinnovato diritto di vita e di morte, quello di far vivere e lasciar morire, in nome di una sorta di biopolitica della vita, a cui si lega un conseguente biodiritto26. Ma torniamo a Kafka, con specifico riferimento a La colonia penale, il racconto plausibilmente interpretabile come una sorta di regressione arcaica della pratica giudiziaria: una regressione pre-illuminista rispetto al regime epistemico emerso dagli enunciati discorsivi presenti in Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Tale racconto rappresenta l’antecedente crono-logico più significativo del Processo. La vicenda è nota: un esploratore si rinvia per ulteriori approfondimenti. Sul concetto di “meta-testo”, infine, cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso, Torino 1972. 26. Sui concetti di bio-politica e bio-diritto, cfr. i corsi tenuti al Collège de France da M. Foucault con particolare riferimento a quelli degli anni 19781979 e 1980-1981. Per quanto attiene la bio-politica, in particolare, vedi M. Foucault, Nascita della biopolitica, Milano 2005; cfr. anche M. Strazzeri (a cura di), Potere, strategie discorsive, controllo sociale, cit.

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di formazione illuminista si reca in un’isola per osservare le sue pratiche di governo. Egli apprende dal vice comandante, succeduto al comandante morto di recente, la straordinaria efficacia di una singolare macchina penale che letteralmente in-scrive la sentenza di condanna del reo nel suo corpo per mezzo di un dispositivo di potere che, foucaultianamente, lo assume come oggetto non mediato di applicazione della pena. Il condannato è un soldato da punire con la morte per aver aggredito l’ufficiale che lo aveva bruscamente svegliato mentre era di guardia: è a lui che viene applicata la macchina penale inventata dal vecchio comandante. La macchina è costituita da una sorta di mega-pantografo che per mezzo di punte acuminate inscrive nel corpo del soldato la sentenza. Quest’ultima viene appresa dal condannato nel corso della sua scrittura, una scrittura a cui egli collabora con il suo sangue. Il condannato, infatti, muore dissanguato nel corso di tempo occorrente alla stesura della sua motivazione e del dispositivo della sentenza. Non si è lontani dalle pratiche di tortura poste in essere dal Tribunale dell’Inquisizione: anche questo richiedeva all’inquisito di collaborare tramite la sofferenza inflitta al suo corpo alla produzione della verità, posto che solo la sofferenza, comminata dalla tortura, poteva purgare l’anima del suppliziato e con essa il corpo sociale infetto da eresia o stregoneria27. Al di là dell’efficacia di un potere di punire che direttamente entra nel corpo delle sue vittime, quello che rileva è quanto e come il racconto di Kafka possa essere letto come espressione di una violenza istituzionalizzata che, spoglia delle forme di mediazione simbolica di cui la rivestiranno più civilizzate pratiche 27. Risulta fondamentale per capire la ratio della tortura F. von Spee, Cautio Criminalis ovvero Dei processi contro le streghe, Roma 1986; cfr. inoltre F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari, 1981; Id., Criminalia, Roma-Bari 1999; B.P. Levack, La caccia alle streghe in Europa agli inizi dell’età moderna, Roma-Bari 1999; e, naturalmente, M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino 1993, specialmente la parte prima, Il corpo del condannato e Lo splendore dei supplizi, pp. 5-75. Si rimanda, infine, all’ottima bibliografia S.V. “Tortura” in Enciclopedia, Torino 1981, pp. 344-368.

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giudiziarie, non si rivela sostanzialmente diversa da quella subita da K., il protagonista del Processo, nel corso del suo svolgimento e, poi, nella sua esecuzione, “come un cane”, a conclusione del romanzo: una sorta di metamorfosi di un innocente che, nel corso del processo, si convince di essere colpevole e che pertanto collabora alla sua esecuzione porgendo spontaneamente il collo ai due carnefici con i quali ha significativamente sintonizzato il passo mentre si avviavano al luogo in cui K. sarà giustiziato. Il riferimento a Benjamin, già citato, sorge spontaneo: la violenza è insita più che in questa o quella specifica punizione in ogni istituzione giudiziaria, impossibilitata per sua intrinseca natura a esorcizzare la violenza fondatrice inglobata in ogni situazione giuridica. La perenne oscillazione tra violenza fondatrice e violenza conservatrice instaura una sorta di circolo vizioso all’interno del quale si instaura, per dirla con Benjamin, una violenza mitica che non conosce vie di fuga che non siano quella dell’ascesi, della mistica, dei buoni sentimenti. Diversamente, si è predestinati alla colpa come il K. del Processo che, coerentemente, si convince di dover collaborare alla sua esecuzione, a conclusione di un processo in cui l’inversione cronologica della colpa e della pena ha rivelato il vero delitto di K.: chiedere, interrogarsi, su procedure il cui unico senso è quello dell’eterno ritorno della violenza. Il fatto è che sia nella prospettiva teorica del Benjamin di Per la critica della violenza che nelle figurazioni discorsive del Processo di Kafka è impossibile trovare una ratio non violenta della legge, inaccessibile nel suo fondamento primo (l’uomo di campagna la cerca per tutta la vita prima di morire sulla sua porta) e nel suo coerente esito ultimo (“come un cane” è l’ultima frase di K. prima della sua condivisa esecuzione). Ho citato il racconto di Kafka Davanti alla legge inserito non casualmente nel capitolo che precede l’esecuzione di K. La sua lettura strumentale al mio discorso, ancorché non arbitraria, può costituire la chiave ermeneutica di tutto il romanzo. La vicenda è nota: l’uomo di campagna cerca per tutta la vita l’accesso alla Legge. Tra lui e

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quest’ultima si frappone una porta aperta, dunque, in linea di principio, sarei per dire in linea di diritto, accessibile. Alla sua richiesta di entrare, infatti, il guardiano non risponde: «No!» ma «È possibile […] adesso però no»28. Ma chi è il guardiano? Certo non è la Legge ma nemmeno un suo rappresentante dal momento che l’accesso è inibito anche a lui, come egli stesso afferma, dopo aver visto l’uomo di campagna tentare di sbirciare oltre la porta della Legge: Se ti alletta tanto, prova pure a entrare malgrado il mio diniego. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei guardiani. Di sala in sala c’è sempre un guardiano più potente dell’altro. Già al terzo, neppure io riesco a sostenerne la vista29.

Siamo agli antipodi della kelseniana gerarchia, dai suoi fondanti principi, norme in cui quelle sovraordinate legittimano quelle sottordinate, ma di fronte a una struttura violenta, graduata nella sua intensità dalla forza crescente dei guardiani. L’uomo di campagna, pur convinto che la «legge dovrebbe essere accessibile a tutti e sempre», dopo aver osservato l’aspetto minaccioso con cui essa si presenta, decide di aspettare. Qui la prima aporia: accessibilità della legge in linea teorica, impossibilità pratica di accedervi. Sembra di sentire l’eco delle parole di K. dopo che i poliziotti e l’ispettore hanno fatto irruzione nella sua stanza all’inizio del romanzo per comunicargli il suo arresto: Che uomini erano? Di cosa parlavano? Quale autorità rappresentavano? In fin dei conti K. viveva in uno stato di diritto, dappertutto regnava la pace, le leggi erano tutte in vigore, chi osava coglierlo di sorpresa in casa sua?30

28. F. Kafka, Opere, cit., p. 590. 29. Ibidem. 30. Ivi, p. 390.

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L’uomo di campagna, certo meno acculturato di K., o forse dotato di un più rustico senso pratico, non protesta, non si agita, decide di attendere dopo aver osservato l’aspetto del guardiano oltreché riflettuto sulle sue parole:

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ma poi guarda il guardiano nella sua pelliccia, il suo gran naso a punta, la sua lunga, smilza, nera barba tartara, e decide che farà meglio ad aspettare finché non avrà ottenuto il permesso di entrare31.

Il contadino, seduto sullo sgabello che gli ha indicato il guardiano, aspetta per giorni e anni non cessando di supplicarlo di farlo entrare, ricorrendo anche a vari tentativi di corruzione. Il guardiano accetta tutto ma subito dopo aggiunge: Lo accetto solo perché tu non pensi di aver lasciato nulla di intentato32.

L’uomo di campagna invecchia, rincretinisce, la sua vista si indebolisce al punto da non distinguere se sia la sua vista a essersi abbassata o le cose attorno a lui a essersi oscurate, pur riuscendo a distinguere talvolta un bagliore proveniente dalla porta della legge. Ormai sta per morire quando, rivolto al guardiano che spazientito dal ripetersi delle sue richieste è costretto a chinarsi per sentirlo, gli chiede per l’ultima volta: Tutti tendono alla legge […] come mai in tutti questi anni nessuno ha chiesto accesso all’infuori di me?33

Il guardiano, accortosi che l’uomo di campagna è alla fine, risponde: Qui nessuno poteva ottenere accesso, quest’entrata era destinata unicamente a te. Adesso vado a chiuderla34. 31. Ivi, p. 590. 32. Ivi, p. 591. 33. Ibidem. 34. Ibidem.

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Anche K. nel Processo cerca di accedere alla Legge per rivendicare il suo diritto: quello di sapere da chi e per cosa è accusato. Anche per lui nessuna possibilità di accesso alla Legge in nome della quale lo si arresta, che non sia l’ipotesi prospettata da Titorelli, il pittore italiano del tribunale, l’unico a rivelare a K. il funzionamento vero di quella assurda macchina giudiziaria. Titorelli, dopo aver escluso come impraticabile l’assoluzione effettiva propone a K. questa alternativa: l’assoluzione apparente oppure il differimento infinito. In altri termini, una situazione di indeterminata precarietà oscillante tra la condizione di libero apparente e di imputato reale sempre possibile, per una colpa giuridicamente inesistente a fronte di una pena concretamente vigente: la condizione di arrestato ancorché in libertà, anticipata rispetto a una colpa a lui ignota. La prima si abbatte su di lui, arrestato e poi giustiziato “come un cane”; la seconda, per l’impossibilità di accedere alla legge, non gli sarà resa nota mai nemmeno in punto di morte, come a l’uomo di campagna a cui sino alla fine viene negato l’accesso alla porta della Legge, ancorché a lui predestinata. Il rovesciamento della certezza del diritto nel suo contrario non poteva essere più totale. Ho proposto una lettura del Processo radicalmente decostruttiva nel tentativo di mostrare come Kafka abbia oltrepassato le soglie del campo di sapere giuridico prodotto dal regime discorsivo del suo tempo. Nel far ciò mi sono riferito alla demolizione da lui operata dei fondamenti stessi su cui poggia l’ordinamento giuridico teorizzato dall’autore dei Lineamenti di dottrina pura del diritto: la norma fondamentale, la gerarchia delle norme, la loro capacità di qualificare l’agire da un punto di vista giuridico, la logica ipotetico-deduttiva fondata sul nesso azione-imputazione, l’efficacia infine del diritto nello spazio e nel tempo di proiezione dei suoi dispositivi di esecuzione. La scelta di leggere il Processo attraverso una lente idealtipica quale quella kelseniana può apparire paradossale se non fosse proprio il disvelamento del paradosso l’obiettivo perseguito: un paradosso, ovviamente, non fine a se stesso ma esemplificativo di un processo di destrutturazione che investe la ratio e la forma stes-

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sa di un regime enunciativo chiuso alla complessa problematicità del suo ambiente. Che tale chiusura sia poi degenerata nel corso del XX secolo negli universi concentrazionari dei regimi totalitari, è indiretta conferma di quanto e come, attraverso la concatenazione degli enunciati kafkiani, un “pensiero del fuori” possa valicare i limiti imposti dalla “volontà di verità” del potere discorsivo dominante, ivi compreso quello giuridico. È questa la forza discorsivamente eversiva del Processo, la sua capacità di incunearsi, attraverso l’uso del paradosso, nelle crepe di uno strato di potere-sapere il cui nesso strutturante sarebbe stato di lì a poco sconvolto dall’avvento dei regimi totalitari nazista e stalinista. Che l’opera di Kafka abbia anticipato metaforicamente «le potenze diaboliche dell’avvenire»35 è peraltro tesi suggestiva ancorché fuori della logica argomentativa che fonda la mia prospettiva, indisponibile a considerare gli enunciati strutturanti un determinato regime discorsivo come anticipazione del riarticolarsi di un nuovo nesso potere-sapere. È per tale motivo che ci siamo limitati a rivelare nel romanzo la serie di enunciati discorsivi che, attraverso le figurazioni del Processo, assumevano una funzione oggettivamente decostruttiva di pratiche giudiziarie (piano della visibilità) legittimate da congruenti discorsi (piano degli enunciati). Ma ripartiamo da quanto premesso all’inizio, con specifico riferimento alla disarticolazione delle categorie di spazio e di tempo intese quali presupposto di ogni prassi giuridica, della possibilità stessa del diritto, della sua efficacia e validità. Tali categorie, già nel racconto Davanti alla legge, come si è visto, erano state disarticolate nella misura in cui lo spazio che separava la legge dalla sua possibilità di accesso era stato rinviato a un tempo indeterminato («Non ora»): un tempo infinitamente differito quale quello esplicitato dal pittore Titorelli. Si tratta, come cercherò di dimostrare, di un tempo aleatorio, orizzontale, esteso e, come si vedrà più chiaramente attraverso una serie di enunciati, invertito nella misura in cui la pena precede la colpa, 35. G. Deleuze-F. Guattari, Kafka, cit., p. 91.

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la punizione l’imputazione. Ma qual è il tempo del processo? In che cosa e perché si distingue da quello della vita quotidiana? Se ne distingue nella misura in cui lo spazio del processo è inserito in una cornice simbolica temporalmente oltreché spazialmente condiviso: un tempo ordinato, con un inizio e una fine, sequenzialmente articolato nelle varie udienze e nella distribuzione tra gli attori, governato da regole perentorie generatrici di effetti irreversibili, quali quelle espresso nel concetto di cosa giudicata (res judicata pro veritate habetur). Tali caratteri, diventano, come si è visto, nel Processo, aleatori, eventuali, discrezionali, nella misura in cui dissolvono il suo carattere istituente, la sua rigorosa separazione dalla vita quotidiana e, dunque, la sua funzione ordinatrice, la sua capacità di arrestare la sequenza caotica della violenza, la spirale perversa della ritorsione e della vendetta. Sul fondamento di tali enunciati è nato e si è sviluppato in epoca classica, in Grecia prima e poi a Roma, il discorso sulla giustizia, sui suoi luoghi (semanticamente strutturati), i suoi tempi (sequenzialmente regolati), i ruoli preventivamente stabiliti (giuria, accusa, difesa). Ma vediamo in concreto, attraverso gli enunciati che strutturano le figurazioni del Processo, come tale ordine antico e condiviso venga ribaltato, mera fantasmagoria di una legge ormai remota della cui impossibile riattivazione, come macchina astratta era già stato costretto a prendere atto il vice-comandante ne La colonia penale e, come macchina concreta scandita dalla inversione di tempi e luoghi, il K. del Processo: a partire dalla data di convocazione della prima udienza al tribunale, in un luogo che è un non-luogo, a-topico e a-temporale36, al contempo sincronico e a-sincronico, che nega ogni ratio ordinatrice alla “realtà processuale” ed è, pertanto, generatore di situazioni paradossali, come quella in cui, senza che gli sia stato fissato un

36. Per il concetto di non-luogo cfr. M. Augé, Nonluoghi: introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano 1993; M. Foucault et al., Eterotopia: luoghi e non-luoghi metropolitani, Milano 1994.

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orario, il giudice istruttore rimprovera K. per il ritardo con cui si è presentato alla prima udienza:

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Come giorno di udienza era sta scelta la domenica per non disturbare K nella sua attività professionale. Si supponeva fosse d’accordo, se avesse desiderato una scadenza diversa, gli si sarebbe venuti incontro nei limiti del possibile. Le udienze per esempio potevano svolgersi anche di notte, ma allora K. non sarebbe stato abbastanza fresco. In ogni modo, fintanto che K. non faceva obiezioni, restava deciso per la domenica37.

A una convocazione generica non solo dal punto di vista temporale, ma dello stesso luogo, anonimo, periferico, desimbolizzato: (Ma la Juliustrasse, in cui doveva trovarsi e al cui inizio K. sostò un momento, allineava da entrambi i lati case quasi eguali, case da affitto alte, grigie, abitate da povera gente38),

segue il battibecco nella sala d’udienza, finalmente trovata, tra il giudice istruttore e K. per il ritardo con cui si è presentato: «Lei avrebbe dovuto presentarsi un’ora e cinque minuti prima» […] «Già» disse l’uomo «ma adesso non sono più tenuto a interrogarla» […] «ma in via eccezionale per oggi lo farò lo stesso»39.

Subito dopo, il giudice istruttore, dopo aver sfogliato l’unico lacero quadernetto posto sul suo tavolo, si rivolge a K. perentorio e al contempo confuso: «Lei è imbianchino?». «No» disse K. «sono primo procuratore di una grande banca»40.

37. F. Kafka, Opere, cit., p. 415. 38. Ivi, p. 417. 39. Ivi, pp. 422-423 40. Ibidem.

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La stessa con-fusione fra tempo della giustizia e tempo privato si registra nell’uso dello spazio dal momento che usciere, custodi, impiegati, alloggiano tutti nei locali del tribunale, in una generale promiscuità, paradossale per una giustizia che, nella misura in cui si proponga di re-istituire l’ordine infranto dal reato, non può non avere un inizio preciso, uno svolgimento sequenziale, una conclusione certa, il tutto scandito da piani enunciativi e di visibilità, spazio-temporalmente articolati nel quadro di una procedura stabilita in cui gli attori interpretino ruoli definiti, all’interno di turnazioni discorsive regolate. La giustizia con cui si confronta K. è al contrario quella del susseguirsi orizzontale di sequenze illimitate, imprevedibili, sempre differibili, come si evince dalle parole del pittore Titorelli, non un magistrato ma “uno che sa” per essere, da generazioni, interno alla fattualità di quella normatività fantasmatica. Il comportamento dell’avvocato Huld, che dopo mesi dall’inizio del processo a K. non ha prodotto ancora nessun atto formale di difesa, in linea di continuità con quanto accaduto a un altro suo cliente, il commerciante Bloch, il cui processo si trascina da cinque anni senza progresso alcuno, rappresenta la conferma indiretta di quanto asserito da Titorelli circa le alternative possibili per la vicenda giudiziaria di K. una volta che sia stata scartata come mero retaggio mitologico l’assoluzione reale: l’assoluzione apparente o il differimento infinito. Nel primo caso, come già rilevato, l’accusato può non occuparsi del procedimento giudiziario che lo riguarda, il quale segue, tuttavia, autonomamente il suo corso, rimbalzando senza sosta da uno all’altro ufficio, salvo la possibilità che l’accusa possa essere improvvisamente riattivata, per ordine del tribunale, che, rileva l’informato Titorelli, «non conosce l’oblio». Nel secondo caso l’accusato non deve cessare di interessarsi del procedimento che lo riguarda, il quale, tuttavia, è «costantemente tenuto a livello inferiore, in una sorta di arresto temporale, che non blocca, né assolve, ma continuamente rinvia». Ne consegue, che, quale che sia l’opzione eventualmente scelta, l’imputato si trova dinanzi a un processo senza fine, una

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sorta di «malattia cronica che esige cure costanti […] un’infezione latente segnata da crisi improvvise»41 in relazione a cui la stessa esecuzione capitale, non rappresenta la “conclusione” temporale del processo:

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Con gli occhi che si velavano K. si vide ancora davanti vicino al viso quei signori che accostati guancia contro guancia osservavano la conclusione. «Come un cane!» disse, fu come se la vergogna dovesse sopravvivergli42.

Quanto detto sul tempo, indeterminato e non lineare, determina il paradosso di una vera e propria inversione cronologica della colpa e della pena, nel senso che quest’ultima precede la prima: K. è condannato prima che egli abbia avuto cognizione della sua colpa, vera o presunta. È in tale senso che il romanzo, come si è gia accennato, può essere letto come la “metamorfosi” di uno che da innocente si convince che è colpevole, colpevole quanto più chiede di sapere, almeno nella prima parte del romanzo, poi con sempre minore determinazione, circostanze e motivazioni di un’imputazione che nello schema kelseniano dovrebbe essere “la conseguenza condizionata” di una “causa condizionante”. Una richiesta assurda, quella di K., nella misura in cui viene rivolta a un tribunale che, come precisa il cappellano del carcere alla sua domanda, non dà conto a nessuna istanza: «Appartengo quindi al tribunale» disse il sacerdote. «Allora perché dovrei volere qualcosa da te? Il tribunale non vuole niente da te. Ti accetta quando viene e ti congeda quando vai»43.

Una giustizia che voglia ricomporre l’ordine infranto dal reato simbolizza visibilmente se stessa attraverso una triangolazione spaziale, che assegna luoghi e ruoli distinti al giudice, 41. F. Ost, Raconter la loi, cit., p. 398. 42. F. Kafka, Opere, cit., p. 604. 43. Ivi, p. 598.

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all’accusa e alla difesa: luoghi separati dal pubblico che assiste in silenzio. Il luogo in cui si svolge la prima udienza di K. è la negazione di tutto questo. K. si trova nel mezzo di un’assemblea vociante apparentemente divisa in due partiti, che urla, ride, contesta o applaude. Ecco la scena in cui K. viene condotto dal giudice istruttore:

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Qualcuno saltò giù dalla pedana di modo che si liberò un posto che K. salì a occupare. Si trovò pigiato contro il tavolo, dietro di lui la calca era tale che dovette cercare di contrastarla, se non voleva far rotolare giù dalla pedana il tavolo del giudice istruttore e il giudice istruttore stesso44.

Siamo gli antipodi della figurazione discorsiva attraverso cui nella terza delle piéce della Orestiade Eschilo aveva rappresentato la nascita, per volontà di Athena, del primo tribunale della storia. Lì la giustizia si rendeva visibile nella ripartizione triangolare degli spazi assegnati alle parti, separate dal pubblico che assiste in silenzio; qui un’assemblea tumultuante, divisa in due apparenti partiti collocati a destra e a sinistra della sala, ma che sono in realtà uno solo, come constaterà K., quando si accorgerà che tutti portano sul vestito un identico distintivo: A quanto vedo siete tutti impiegati, siete voi la banda corrotta contro cui mi sono scagliato, avete formato dei finti partiti, uno dei quali mi ha applaudito per mettermi alla prova, volevate imparare come si fa a lusingare degli innocenti!45.

Il fatto è, come è stato rilevato46, che è la “promiscuità periferica” a caratterizzare, ora, il tribunale del Processo così come la “separazione centrale” aveva caratterizzato quello delle Eumenidi: lì uno spazio sacralizzato, gravido di una simbologia forte, qui una mescolanza indistinta incapace di separare la 44. Ivi, p. 423. 45. Ivi, p. 430. 46. F. Ost, Raconter la loi, cit., p. 399.

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realtà quotidiana dalla realtà processuale, la confusa promiscuità della prima dalla pretesa ordinatrice della seconda. Ecco perché le persone del tribunale sono dappertutto, mescolati ai personaggi della vita privata di K.: uscieri, custodi, guardie, impiegati della banca, coinquilini. Il tribunale è ovunque e in nessun luogo come le due guardie fustigate nel ripostiglio attiguo al suo ufficio, punite del furto dei vestiti denunciato da K. nella prima udienza del tribunale. I due torturatori, invitati da K. a sospendere la fustigazione, anticipando tempi bui, rispondono nel modo in cui altri torturatori, nei regimi nazisti e stalinisti, si sarebbero giustificati: «Quello che mi dici suona convincente» disse il picchiatore «ma io non mi lascio corrompere. Sono stato assunto per bastonare e bastono»47.

Risposta analoga, come è stato rilevato da un autorevole critico, sarà data dai torturatori nazisti interrogati al processo di Norimberga, quando nel tentativo di difendersi si trincereranno dietro l’esecuzione di ordini imposti da un ruolo interpretato al di là di ogni ragionevole umanità48. Anche le peregrinazioni labirintiche a cui K. è costretto per raggiungere la sala delle udienze che, a causa di fuorvianti indicazioni lo portano ai granai soffocanti di un immobile di periferia, sono espressione di questa giustizia onnipresente e tuttavia priva di centralità: una topografia al limite dell’assurdo, come ha modo di verificare K. quando, recatosi nella stanza del pittore Titorelli, il quale abitava in un sobborgo diametralmente opposto a quello del tribunale, nota con stupore una porta collocata dietro il letto del pittore: «Cos’è che la meraviglia?» chiese questi meravigliato a sua volta. «Sono le cancellerie del tribunale? Di cancellerie del tribunale ce ne sono quasi in ogni solaio, perché non dovrebbero essercene 47. F. Kafka, Opere, cit., p. 468. 48. G. Anders, Kafka. Pro e contro, cit., pp. 75-76.

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proprio qui? Veramente, anche il mio studio appartiene alle cancellerie del tribunale…»49.

Alla dissoluzione della semantica dei luoghi e alla inversione temporale consegue quella della dissoluzione dei ruoli costitutivi della triade processuale. È da rilevare, infatti, l’assenza del giudice terzo tra accusa e difesa, e pertanto la riduzione della dialettica processuale al rapporto tra giudice istruttore e imputato. Con la rinuncia da parte di K. alla difesa dell’avvocato Huld il confronto diviene duale, diretto, tra il tribunale inteso quale accusatore anonimo ma ubiquo e l’imputato Joseph K. L’incontro che si svolge all’interno della cattedrale tra il cappellano del carcere e K. può essere inteso come snodo significativo di una sorta di interiorizzazione del conflitto: si affievolisce, infatti, sempre più la pretesa di innocenza di K., cresce il suo interrogarsi angoscioso sulla legge, la colpa, la pena. Non a caso la parabola dell’uomo di campagna davanti alla legge si colloca nel capitolo che precede l’esecuzione di K. È in questa parte del romanzo che K. acquista la consapevolezza dell’inutilità del suo interrogarsi su una colpa oggettivamente intrinseca alla condizione stessa dell’uomo, «al contesto colpevole di ciò che vive»50. Nei confronti di tale “contesto” il tribunale, ogni tribunale, non può che «infliggere ciecamente destino»51, come ricorda Benjamin nel suo saggio Destino e carattere. Ma se il giudice non può che infliggere colpa come destino, che senso ha interrogarsi su quest’ultimo, come pure K. continua a fare? È quello che alla fine, diversamente dalla scena dell’arresto all’inizio del romanzo, sembra aver compreso K. quando arrivano, senza alcun preavviso, i due carnefici per giustiziarlo. Allora, a “metamorfosi” non ancora compiuta, K. aveva contestato la legittimità, in uno stato di diritto, di quella irruzione in casa propria; ora K. non discute ma si limita a pren49. F. Kafka, Opere, cit., p. 541. 50. W. Benjamin, Destino e carattere, cit., p. 35. 51. Ibidem.

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dere atto del processo di identificazione colpa-destino; di essere cioè un “predestinato alla colpa” e, quindi, un pre-giudicato. L’inversione cronologica della colpa e della pena ha qui il suo fondamento oltre che il suo esito ultimo:

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Si alzò subito e guardò quei signori con curiosità. «Mi sono stati dunque assegnati loro?» chiese. I signori annuirono indicandosi col cilindro in mano l’un l’altro. K. confessò a se stesso di essersi aspettato una visita diversa52.

Il fatto è che K. solo ora ha compreso qual è la sua vera colpa: voler accedere a una Legge imperscrutabile nel suo fondamento primo, accessibile solo nel suo tragico esito ultimo. Ecco perché K. muore come un cane ma, diversamente da quest’ultimo, con l’angoscia che «l’onta gli sopravviva». Che la “metamorfosi” di K., quella che lo trasforma da innocente in colpevole, sia pervenuta a compimento, lo si può evincere dalla descrizione minuziosa che Kafka fa del tragitto che lo separa dalla sua abitazione alla cava in cui sarà giustiziato: stretto tra i suoi due carnefici, egli passa da una resistenza passiva a una perfetta sincronia con i loro passi, i loro movimenti, i loro corpi: […] fu semplicemente la futilità della propria resistenza ad affiorare improvvisamente in lui con lucidità. Non c’era niente di eroico se adesso resisteva, se adesso dava del filo da torcere a quei signori, se adesso, nella difesa, cercava di godere l’ultima parvenza di vita. Si mise in marcia, e qualcosa della contentezza che in questo modo procurava a quei signori arrivò a trasmettersi anche a lui53.

Non c’è dubbio: K. è ormai convinto di dover scontare la “sua colpa” a cui trova persino una qualche vaga giustificazione:

52. F. Kafka, Opere, cit., p. 599. 53. Ivi, p. 601.

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«L’unica cosa che adesso posso fare» si disse, e l’uniformità tra i suoi passi e i passi dei due confermò i suoi pensieri, «l’unica cosa che adesso posso fare è conservare sino alla fine la mente che serena discerne. Ho sempre voluto allungare sul mondo venti mani, e oltre a tutto per uno scopo non encomiabile. Era sbagliato. Adesso darò a vedere che neppure un anno di processo mi ha insegnato qualcosa? Me ne andrò come uno che si ostina a non capire? Si dirà di me che all’inizio del processo volevo concluderlo e adesso che si sta concludendo lo voglio ricominciare da capo? Non voglio che lo si dica»54.

Rimane da chiarire, prima dell’esecuzione, il significato di quella casa da cui promana una luce e dalla cui finestra si staglia una figura che sembra a K., prima di morire, esprimere nel suo gesto di rassegnazione non solo l’ineluttabilità della colpa e del castigo, ma forse anche il rimpianto per una vita condannata prima di essere vissuta: Il suo sguardo cadde sull’ultimo piano della casa attigua alla cava. Come guizza una luce, così a una finestra lassù si spalancarono le imposte, una persona, debole e sottile per la distanza e l’altezza, si sporse di slancio molto in fuori e tese le braccia più avanti ancora55.

Anche nel racconto Davanti alla Legge l’uomo di campagna, in punto di morte, dopo aver tentato invano per tutta la vita di accedere alla porta della Legge, vede una luce, un bagliore, che si accendevano oltre i sette guardiani che la custodivano. Ritorna il mistero angosciante dell’irrisolto rapporto con l’altro, forse con la società, le istituzioni, con un destino che ha «naturalizzato la colpa e la sventura»: Chi era? Un amico? Una persona buona? Uno che partecipava? Uno disposto a dare aiuto? Era uno solo? Erano tutti? Era ancora un aiuto? Esistevano obiezioni che erano state trascurate? Certo 54. Ibidem. 55. Ivi, p. 604.

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che esistevano. La logica è inoppugnabile, ma a un uomo che vuol vivere non resiste. Dov’era il giudice che non aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale a cui non era mai arrivato? Alzò le mani e allargò tutte le dita56.

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La triade divenuta diade è ora una monade solitaria che ha portato a termine il suo percorso: dalla presunzione individuale di innocenza alla colpa comune con-divisa, da pre-destinato alla colpa a colpevole, come lo stesso K. riconosce, porgendo docile il collo ai due carnefici che lo giustiziano «come un cane!».

2. Punizione, riabilitazione, perdono ne I miserabili di Victor Hugo Ne I Miserabili di Victor Hugo è possibile rilevare, nel quadro di una messa in scena del campo giuridico, da un lato, il nesso potere-sapere, su cui si fonda il regime politico del Secondo Impero; dall’altro, l’emergenza discorsiva di un’idea di giustizia che, trascendendo il regime epistemico dell’epoca, valica le soglie che articolavano i suoi saperi (diritto, morale, etica pubblica) determinando discontinuità, cesure, faglie. Nella scrittura del narratore francese si delineano i tratti di una strategia discorsiva riferibile a un “pensiero del fuori” da cui emerge un’idea di giustizia che decostruisce il diritto vigente nella prospettiva di un nuovo diritto, inteso come forma di espressione (piano dell’enunciazione) e di una forma di contenuto (la delinquenza), capace di determinare le condizioni di visibilità di un altro strato a sua volta articolato in una forma di espressione (le aree urbane e sub-urbane della città e della banlieue parigine) e una di contenuto (poveri, emarginati, stigmatizzati). Da questa prospettiva il romanzo può essere letto come una sequenza di figurazioni, per un verso, del nesso potere-sapere che supporta il regime politico dominante (discor56. Ibidem.

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si di diritto penale); per l’altro, delle crepe che al suo interno si manifestano per l’insorgenza nelle sue pieghe di possibilità discorsive altre rispetto al diritto vigente, quest’ultimo inteso come campo istituzionalizzato di potere-sapere. Al di là del lessico foucaultiano ma all’interno della sua genealogia dei saperi, ci proponiamo di descrivere la dispersione e il coagulo dei discorsi attraverso cui si determina un altro campo di sapere sul diritto, il delitto, la pena, con riferimento a un’altra idea di giustizia che scardina la compattezza del regime epistemico definitosi nell’Illuminismo: una sequenza di figure discorsive e una pratica penale, un piano di enunciati e un piano di visibilità, che a partire dalla nascita della prigione, quale traduzione visibile del “paradigma panottico”, aveva trovato in Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria una organica strutturazione discorsiva. Come è noto, soggiaceva allo specifico campo giuridico beccariano un’idea di giustizia retributiva, calcolabile, alimentata da una straordinaria proliferazione enunciativa al cui centro si collocava una concezione dell’uomo genealogicamente cartesiana: l’uomo come soggetto autonomo dotato di ragione, incondizionatamente libero di scegliere tra il bene e il male. A tale soggetto, discorsivamente costruito, assolutamente libero e, dunque, incondizionatamente imputabile faceva riferimento una concezione meramente retributiva della pena da comminare in modo rigorosamente calcolabile, sulla base di leggi pre-fissate, generali, astratte, che un giudice, bocca della legge, doveva limitarsi a applicare. È il diritto costruito di cui parla Derrida, emerso all’interno di una ben definita strategia discorsiva, espressione del regime epistemico dominante57. Ma se tale diritto è calcolabile in quanto costruito all’interno della relazione diagrammatica delle forze che strutturano le soglie in cui esso si articola, quest’ultimo può essere derridianamente decostruito attraverso il ricorso a un’idea di giustizia situata fuori delle pratiche discorsive dell’epoca. Lo aveva enunciato, d’altronde, lo stesso Foucault, parlando di un “pensiero 57. Cfr. J. Derrida, op. cit.

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del fuori” che pur non prodotto dal regime discorsivo dell’epoca, si inseriva nelle faglie dello “strato”, al di là delle soglie discorsive istituzionalizzate all’interno del suo campo, scardinando il nesso potere-sapere che lo aveva istituito. È all’incrocio di tale prospettiva che ci proponiamo di esaminare, attraverso l’uso strumentale della teoria della figurazione di Elias, le rappresentazioni che Victor Hugo ne I miserabili ci dà del diritto in azione, attraverso la messa in scena di un universo, immaginario certo, ma verisimile nella sua capacità di rappresentare la crisi del vecchio e l’emergenza di un nuovo paradigma regolativo delle relazioni di potere interne al campo giuridico58. Tale figurazione costituisce il mezzo attraverso cui la prospettiva epistemologica a cui ci siamo richiamati si auto-rappresenta. Ma entriamo nel vivo! Jean Valjean esprime nel suo percorso umano-sociale il compimento di una metamorfosi discorsiva che de-struttura i dati della sua soggettivazione (intesa come assoggettamento da parte del potere), più che in forza di un qualche processo di intima conversione dal male al bene, sull’onda di un mutamento segnato da reciproche catture tra vecchi ed emergenti paradigmi di de-costruzione e ri-strutturazione delle relazioni di potere. Jean Valjean, uscito dal bagno penale, dopo aver scontato diciannove anni di lavori forzati, porta visibilmente, anche nel corpo, le stigma di un potere fatto di enunciati e pratiche penali che hanno prodotto la soggettivazione dell’ex forzato alla logica implacabile dei poteri-saperi in campo. Poco importa nell’ottica punitiva del regime discorsivo vigente che egli abbia iniziato la sua carriera deviante dopo aver rubato un pane per sfamare le orfanelle della sua sorella maggiore. La pena comminata per quel furto, a cui si aggiunge quella per tre tentativi di fuga dal riformatorio, trasformano l’ex forzato non già in un soggetto riabilitato dall’aver pagato, nell’ottica retributiva stabilita dalle pratiche penali vigenti, il suo debito nei confronti di una società che ha contrattualisticamente trasferito il potere di punire dal corpo del re al corpo sociale, in 58. Cfr. sempre P. Bourdieu, op. cit.

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un corpo assoggettato dalle pratiche disciplinari subite nei diciannove anni di lavoro forzato nella colonia penale. Un corpo indelebilmente marchiato dalle pratiche punitive dell’epoca che non ammettono recupero riabilitativo, perdono, ma solo punizione, nella forma di una emarginazione perenne. La logica del carcere, in quanto potere disciplinare che si in-scrive nei corpi in termini di soggettivazione-assoggettamento al suo potere di disciplinamento, non investe, tuttavia, nell’ambito di quella specifica economia politica del potere di punire, solo sul corpo, ma sull’intera persona del detenuto intesa quale unità somato-psichica pre-destinata, per l’intero corso della sua esistenza, alla colpa e al castigo. Il passaggio al determinismo positivista e alla conseguente deriva biologicistica sarà lo sviluppo congruente con l’astrazione di ascendenza razionalistica e illuministica di un individuo isolato, “libero” di scegliere il bene o il male, il giusto o l’ingiusto, la vita buona o quella cattiva. Questa concezione dell’uomo, sedimentata nell’archeologia del sapere occidentale di ascendenza giudaico-cristiana, segnata nell’evento del suo riproporsi dai nomi di Descartes, Locke, Voltaire, Beccaria, Kant, de Tocqueville, è stata essa stessa il prodotto di un nesso potere-sapere emerso dalle faglie dello strato precedente. Sollecitata dall’emersione di nuove condizioni di possibilità enunciative e dal concorso di forze “del fuori” rispetto al regime epistemico dominante, ha prodotto come suo oggetto discorsivo la concezione nietzschiana della “morte di Dio” e poi quella foucaultiana della “morte dell’uomo”. Si è trattato, anche qui, di un campo discorsivo determinato da mutate relazioni di potere: parafrasando Elias, in conseguenza dell’inter-penetrarsi di processo e struttura, del combinarsi di relazioni simmetriche e asimmetriche di potere. Per tornare al romanzo, assunto come figurazione letteraria di un discorso giuridico in azione ma al contempo in conflitto con l’emergere di altri discorsi, prenderemo in considerazione tre nuclei tematici significativi del percorso argomentativo avviato: la relazione tra Jean Valjean e il vescovo Myriel; quella tra Jean Valjean e l’ispettore Javert; la crisi del nesso potere-sapere come confron-

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to-scontro tra le pratiche discorsive dominanti e quelle emergenti nella Comune di Parigi. È alle pratiche di quest’ultima che è possibile ricondurre l’impianto ideologico del romanzo, la tensione costante tra diritto costruito, calcolabile e quindi decostruibile, e l’insorgenza di pratiche discorsive ricostruttive di un altro diritto. Esamineremo, secondo la sequenza descritta, il quadro figurazionale attraverso il quale si auto-rappresentano i piani enunciativi e di visibilità che ristrutturano, decostruendolo, un nesso potere-sapere messo in crisi dal prodursi delle condizioni di possibilità di un ‘altro’ regime discorsivo. Il dialogo che si sviluppa tra l’ex forzato Jean Valjean e il vescovo Myriel merita di essere citato perché delinea, all’interno del sistema discorsivo dominante, la possibilità di andare oltre in nome di un’idea di giustizia fondata sul perdono, la riabilitazione, il recupero: dunque fuori delle pratiche discorsive istituzionalizzate nel campo giuridico vigente. In tal senso, con riferimento a Benjamin, Valjean non è solo l’ex forzato che ha scontato una pena commisurata al reato commesso ma un predestinato alla colpa nei cui confronti il giudice più che compiere un atto di giustizia ha «inflitto ciecamente destino» in conseguenza del «contesto colpevole in cui egli vive» – quel contesto che, secondo Anatole France, in nome dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge «proibisce del pari ai ricchi e ai poveri di dormire sotto i ponti». E va da sé che nella prospettiva assunta la colpevolezza del contesto non è metafisica ma sociale, riscattabile solo a partire dalla rimozione delle cause specifiche che la determinano come predestinazione alla colpa. Un concetto, quest’ultimo, inarticolabile all’interno del campo giuridico dato, incapace di determinarne le condizioni discorsive di enunciabilità, costrette pertanto a infiltrarsi nelle faglie, crepe, cesure prodotte dall’oltrepassamento delle soglie istituzionalizzate di quel sapere. Non a caso, il vescovo Myriel, portatore di un sapere evangelico-cristiano aperto alla trascendenza, in una prospettiva dunque funzionalmente assimilabile al foucaultiano “pensiero del fuori”, riesce a trascendere il diritto costruito e a decostruirlo, sul fondamento di un’idea di giustizia esterna alle

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pratiche giuridico-discorsive imposte dall’episteme dell’epoca. Lo stesso Valjean stenta, inizialmente, ad andare oltre la soggettivazione disciplinare impostagli durante gli anni trascorsi nel bagno penale: lo dimostra non solo l’incredulo stupore di fronte all’accoglienza riservatagli dal vescovo nella sua casa ma anche, dopo il furto dei candelieri d’argento e la sua cattura da parte dei gendarmi, la violenza inflitta a Petit Gervais con il furto dei quaranta soldi consumato a suo danno. Il fatto è che la forma dell’espressione in cui si articolava il potere di punire, vale a dire il diritto penale, e la sua correlata forma di visibilità, la prigione, hanno costituito Jean Valjean come soggetto nell’ambito di un potere disciplinare, quello carcerario, attraverso cui, come rileva Foucault, si definisce la personalità del delinquente. Il percorso discorsivo vittorughiano sottolinea la sua contraddittoria emancipazione da un assoggettamento consolidatosi nel tempo per la cui definitiva fuoriuscita il confronto discorsivo con Myriel è condizione indispensabile ma tuttavia non sufficiente ove si consideri che il governo del sé a cui perviene Jean Valjean, in quanto determinato da un’idea di giustizia trascendente, oltrepassa i saperi dominanti all’interno dello strato, nella direzione di un approdo discorsivo frutto di una riflessione lunga e tormentata, sottoposta a prove durissime: quella, per esempio, in cui Valjean, divenuto ricco, potente, stimato benefattore di un’intera comunità di cui è sindaco, decide di costituirsi per impedire che un innocente paghi per il furto da lui commesso a danno di Petit Gervais; quella, ancora, in cui egli, potendo definitivamente liberarsi dell’ispettore Javert, praticamente nelle sue mani, prigioniero dei comunardi, durante le barricate, lo grazia in nome di un’idea di giustizia trascendente ogni pur umano senso di risentimento o di vendetta. È nell’incontro-scontro tra la prospettiva maturata tra Jean Valjean a conclusione del suo percorso di liberazione dall’assoggettamento inflittogli dalle pratiche discorsive del carcere e quella di Javert, rappresentante di una legalità quale quella descritta da Benjamin, fondata sulla violenza conservatrice di un diritto ossessivamente vissuto come pratica identitaria, che si delineano i

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tratti di un discorso capace di interpretare la trama del romanzo come figurazione complessiva di una articolata catena di interdipendenze, tra punizione, riabilitazione, perdono. La figurazione discorsiva del vescovo Myriel, forte di un’idea di giustizia fondata sulla misericordia, la riabilitazione, il perdono, infatti, si distacca radicalmente da un’idea della legge fondata sul sostrato costitutivo delle pratiche discorsive interne al campo giuridico dell’epoca: quello che condanna ai lavori forzati Jean Valjean, reo di aver rubato per sé e la sua famiglia un pane. È in questa prospettiva che è possibile interpretare la figura del vescovo di Digne, quale emerge dal dialogo con Jean Valjean, come l’esito coerente di una pratica discorsiva oggettivamente decostruttiva di diritto vigente. In tal senso, l’idea di giustizia di Myriel enunciata a Valjean costituisce il polo positivo di una pratica discorsiva intrecciata a congruenti scelte di vita poste in essere da lui e poi, come si vedrà, dallo stesso Valjean. È in tal modo che si determina nel corso di tutto il romanzo l’istituirsi di una conflittualità dialettica da cui emergeranno le condizioni di possibilità di un altro regime discorsivo destinato a modificare il campo giuridico pre-esistemte. E va da sé che non si tratta, nell’ottica da noi assunta, di una prospettiva storico-evolutiva ma solo della possibilità si render conto della crisi e dell’emergenza di regimi discorsivi alternativi nell’ambito di uno stesso strato o da uno strato all’altro. Certo la prospettiva di Myriel non è politica e nemmeno giuridica, certamente fuori del regime discorsivo dell’epoca, sia quello fondato sul senso comune sia quello elaborato dai vari saperi, etici, morali, politici, giuridici, nel quadro dell’episteme dell’epoca: sono le idee prodotte da una “discorsività altra” circolante tra le faglie e le cesure dello strato e pertanto capace di incrinarne la compattezza. Sono questi discorsi a determinare le condizioni di emergenza di enunciati estraibili nell’ambito di una pratica discorsiva che pone le condizioni di una diversa configurazione dello strato emergente. A Jean Valjean, che ha chiesto e ottenuto ospitalità dal vescovo di Digne dopo esser stato scacciato da tutte le locande del paese e persino dalla cuccia di un cane

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in cui si era rifugiato, e che continua a ripetere che egli è un forzato, un galeotto, Myriel risponde, evocando un’idea comunitaria di proprietà, di misericordia, di giustizia, certo interne all’archivio storico dell’epoca ma non al regime epistemico su cui si fondava il campo giuridico discorsivo vigente: Potevate non dirmi chi siete. Questa non è casa mia, è la casa di Gesù Cristo. Questa porta non domanda a chi entra se ha un nome, ma soltanto se ha un dolore. Voi soffrite; avete fame e sete; siate il benvenuto. E non mi ringraziate, non ditemi che vi ricevo a casa mia. Nessuno è in casa sua qui, fuorché quello che ha bisogno di asilo. A voi che passate, io dico che siete più in casa vostra di me stesso. Tutto quello che è qui dentro è vostro59.

Gli episodi successivi attraverso cui si snoda la vicenda sono ben noti: il furto dei candelieri d’argento, Valjean catturato e messo a confronto con Monsignor Myriel che dichiara di averglieli regalati in tal modo scagionandolo, ma anche riconfermando, nella coerenza del suo comportamento, quanto aveva in precedenza enunciato. È da qui che si avvia la metamorfosi di Jean Valjean in una direzione completamente diversa da quella del romanzo di Kafka, ma non senza contraddizioni, che dimostrano la sofferta linearità di quel processo di conversione: è quanto successivamente si evince dall’episodio del furto a danno di Petit Gervais. Un furto di cui Valjean si pente subito, dal momento che vorrebbe restituire al ragazzo i quaranta soldi rubatigli, ma il ragazzo, impaurito, non risponde, lasciando solo Jean Valjean a piangere e a riflettere sulla sua vita. Qui discorsività e visibilità concorrono a determinare la figurazione attraverso cui l’ex condannato ai lavori forzati descrive la sua vita passata prima di iniziare la nuova: Mentre piangeva, la luce si faceva finalmente intera nel suo cervello, una luce straordinaria, una luce meravigliosa e terribile al 59. V. Hugo, I miserabili, tr. it. a cura di Riccardo Reim, Roma 1995, pp. 66-67.

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tempo stesso. La sua vita passata, il primo fallo, la lunga espiazione, il suo abbrutimento esteriore, il suo indurimento interiore, la sua scarcerazione rallegrata da tanti piani di vendetta, ciò che gli era successo dal vescovo, l’ultima cosa che aveva fatto, quel furto di quaranta soldi a un ragazzo, delitto tanto più vile e tanto più mostruoso in quanto veniva dopo il perdono del Vescovo, tutto ciò gli tornò dinanzi e gli apparve chiaramente, ma in una chiarezza mai conosciuta prima. Guardò la sua vita e gli parve orribile; la sua anima gli parve spaventosa. Tuttavia sorgeva un’alba di dolcezza su quella vita e quell’anima. Gli sembrò di vedere Satana alla luce del Paradiso60.

La descrizione del percorso biografico di Jean Valjean rivela le circostanze di estrema indigenza sociale che lo hanno indotto al reato, poi ai lavori forzati, successivamente all’aggravamento ulteriore della pena per ognuno dei tre tentativi di evasione, per un totale di diciannove anni. Da questa ratio del diritto penale vigente fondata per un verso su una concezione meramente retributiva della pena, astrattamente vendicativa, estranea a ogni prospettiva riabilitativa, si passa, in conseguenza del processo di destrutturazione giuridico discorsiva avviato, allo scardinamento del nesso potere-sapere su cui quella pratica punitiva si fondava. La sostituzione di quella concezione della penalità prodotta dall’emergere di un’idea di giustizia fondata sulla misericordia, la riabilitazione e il perdono, produce dall’esterno, cioè fuori del regime discorsivo dominante, l’insorgere di una diversa combinazione dei poteri e dei saperi in campo. Jean Valjean è in tal senso l’unità somato-psichica in cui il processo descritto foucaultianamente si in-corpora ed elisianamente si con-figura nell’ambito di un’idea di giustizia decostruttiva del diritto vigente che determina le condizioni enunciative di un altro diritto, nella linea teorica indicata da Derrida. Sullo sfondo, la crisi di un regime politico, quello del Secondo Impero, la Comune di Parigi, l’irruzione di piani enunciativi intrecciati a piani di visibilità, da cui si evince quanto e come i segni di 60. Ivi, p. 89.

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un nuovo potere si insinuino nei corpi costituendo le condizioni di radicale ristrutturazione dello strato esistente per effetto della disseminazione e dispersione di nuovi piani enunciativi e di visibilità. Di tali strutture di interdipendenza, il romanzo di Victor Hugo ha costituito una straordinaria messa in scena segnata da crisi, trasformazione, emergenza, di altri campi si sapere etico-giuridici. Se è, infatti, plausibile nella prospettiva decostruzionista di cui Valjean è un punto di forza singolare collegato da vettori discorsivi con altri punti di forza singolari nella catena di figurazioni rappresentate da Javert, Myriel, Gavroche, Marius, Cosette, i comunardi delle barricate, gli stessi Thénardier, è allora anche coerente che l’ispettore Javert, in quanto rappresentante di un diritto decostruito, ma di cui egli aveva fatto la propria assoluta ragione identitaria ed esistenziale, si suicidi dopo aver liberato l’ex forzato catturato per il vecchio furto ai danni di Gervais. Il filo discorsivo che prepara il suicidio come atto ineludibile non è tanto quello psicologico di Javert, ma quello di un rappresentante della legge il cui fondamento è stato destrutturato dalla pratica decostruzionista e dai conseguenti comportamenti a cui si è attenuto con rigore e coerenza Jean Valjean. Il comportamento di quest’ultimo è il correlato oggettivo del suicidio dell’ispettore, all’interno di una figurazione articolata da sequenze discorsive da cui è possibile evincere la crisi del diritto vigente come scontro tra pratiche discorsive dominanti e pratiche discorsive emergenti. All’interno di tale figurazione gli stessi soggetti altro non sono che meri epifonemi di un regime di verità decostruito dal riarticolarsi su altre basi discorsive del nesso potere-sapere che ne era il supporto. È quanto ci sembra di cogliere nella catena di figurazioni delle barricate parigine del 1870: piani discorsivi e di luminosità articolati tra loro da una logica di mutua e reciproca cattura fatta da luci ed enunciati, idee, spazi, corpi in movimento. Che importa? Che importa se vanno a piedi nudi? Non sanno leggere? Tanto peggio. Volete abbandonarli per questo? Farete della

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loro miseria una maledizione? La legge non può forse penetrare in queste masse?61.

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E d’altronde le rivoluzioni, si chiede Hugo, «non sono forse trasfigurazioni»? Questo «fallo può essere sublime» se impariamo «a servirci di quel vasto numero di principi, virtù, che in certe ore scoppietta, risplende e preme»: Andate, filosofi insigni illuministi, rischiarate, pensate altamente, parlate forte, correte giocando al gran sole, affratellati con le pubbliche piazze, annunciate la buona novella, prodigate l’alfabeto, proclamate i diritti, cantate la marsigliese, suscitate gli entusiasmi, strappate i rami verdi alle querce […] fate delle idee un turbine62.

Un turbine fatto di luce, idee, spazi, corpi in movimento, sembra costituire nella prospettiva della scrittura vittorhughiana la massa critica di ingredienti discorsivi dal cui rimescolamento si possono produrre le condizioni di emergenza di un nuovo “strato” fondato su una ristrutturazione radicale del nesso potere-sapere. È quanto si esprime nel discorso di Javert che dopo aver liberato Jean Valjean angosciosamente si chiede prima di suicidarsi: A che punto era? Si cercava e non si riconosceva più. Che fare? Arrestare Valjean era male, lasciarlo libero era male, nel primo caso l’uomo dell’autorità cadeva più in basso dell’uomo del bagno penale, nel secondo caso, il galeotto si faceva superiore alla legge e la calpestava […]. che Javert e Valjean, fatti l’uno per incrudelire, l’altro per subire, che questi uomini, entrambi cosa della legge, fossero giunti al punto di mettersi l’uno accanto all’altro al di sopra di essa non era un fatto mostruoso?63.

61. Ivi, p. 402. 62. Ibidem. 63. Ivi, p. 870.

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Il fatto è che, sia il primo che il secondo, sia pure attraverso percorsi diversi, avevano valicato le soglie su cui poggiava il nesso potere-sapere dell’epoca mettendone in luce crepe, faglie, fratture:

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Il codice non era più che un troncone inutile nelle sue mani. Aveva a che fare con scrupoli […] Avveniva in lui una rivelazione sentimentale del tutto diversa dall’affermazione legale, fino allora sua unica norma. Rimanere nell’antica onestà non poteva più: tutto un ordine di fatti inattesi sorgeva e lo soggiogava […]64.

Il filo discorsivo vittorughiano si dipana ulteriormente, quasi una messa in scena dell’incrinarsi del regime epistemico vigente e, al suo interno, del campo giuridico che ne aveva costituito il supporto di potere. È quanto si manifesta nell’autocoscienza critica di Javert alla cui tenuta non bastano più le certezze discorsive che lo hanno costituito come soggetto, funzionario dello stato, guardiano della legge: Come! Il difetto della corazza della società poteva essere trovato da un miserabile magnanimo. Come! Un onesto servitore dello stato poteva trovarsi preso tra due delitti, quello di lasciar fuggire un uomo e quello di arrestarlo? Non vi era più certezza negli ordini imposti dallo Stato al funzionario? Poteva imbattersi in un vicolo cieco sul cammino del dovere? Ed era vero che un vecchio galeotto curvo sotto le condanne poteva raddrizzarsi e finire per avere ragione? Era cosa credibile? Si danno dunque dei casi in cui la legge deve ritirarsi dinanzi ai delitti balbettando delle scuse? Sì era vero65.

La conclusione esistenzialmente drammatica a cui perviene Javert è quella che lo porterà di lì a poco a suicidarsi gettandosi nella Senna. Né può egli trovare soluzione nella fede, nella misericordia, nel perdono, dal momento che non essendo «ciò che il mondo chiama un volteriano, o un filosofo, o un incredulo» 64. Ivi, p. 871. 65. Ivi, p. 874.

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Decostruzione giuridica e orizzonti di giustizia

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era «istintivamente rispettoso verso la Chiesa stabilita» considerata però solo come «una parte augusta dell’insieme sociale»66:

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da quando aveva raggiunto l’età dell’uomo e del funzionario, infatti, riponeva quasi tutta la sua religione nella Polizia, e faceva la spia come altri fanno il sacerdote67.

Deriva da qui la dissoluzione della sua identità dopo la liberazione di Jean Valjean, una identità socialmente costruita, discorsivamente strutturata che soggettivizza sino alla sua in-corporazione somato-psichica la volontà di verità dell’epoca. Tale coerenza non può esser incrinata in Javert da un compromesso con un forzato se non al prezzo della completa disintegrazione di sé stesso come soggetto psichico e giuridico. Certo, se come egli è fermamente convinto: la qualità, la cosa giudicata, la forza dovuta alla legislazione, le sentenze delle corti sovrane, la magistratura, il governo, l’accusa, la repressione […] tutti i dogmi sui quali è basata la sicurezza politica e sociale, la sovranità, la giustizia, la logica che emana dal codice, l’assoluto sociale, la verità pubblica

diventavano rovina, ingombro, caos68.

La decostruzione del diritto vigente, nel senso posto da Derrida, non poteva essere più serrata visto che Javert, alla fine, di fronte all’alternativa: ricondurre in carcere Jean Valjean oppure farla finita suicidandosi, sceglie la seconda. È qui che il piano dell’enunciato, dopo averne costruito le condizioni di possibilità e plausibilità, cede il posto a quello della visibilità:

66. Ivi, p. 872. 67. Ibidem. 68. Ivi, p. 874.

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Marcello Strazzeri

un momento dopo una figura alta e nera, che qualche passante ritardatario, da lontano, avrebbe potuto scambiare per un fantasma, appariva in piedi sul parapetto; si chinò verso la Senna, poi si rialzò e cadde dritta nelle tenebre. Si udì un tonfo sordo, e l’ombra soltanto rimase partecipe delle segrete convulsioni di quella forma oscura, scomparsa sott’acqua69.

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È così che, nell’ottica assunta, la forma dell’espressione intesa come insieme di sequenze discorsive sulla legge, il diritto, la giustizia, lo stato si dissolve nell’acqua insieme alla forma del suo contenuto: il corpo di Javert.

69. Ivi, p. 876.

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Alessandro Pinzani

Verso una nuova ontologia politica? Soggettività e potere tra Luhmann e Foucault

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1. Due storie, un unico tema

U

n uomo, ricco e giovane, desidera conquistare la moglie, bella e giovane, di un altro uomo, vecchio e credulone. Servendosi delle sue ricchezze, assolda un frate senza scrupoli e un furbastro della peggior specie. Il primo, approfittando della sua autorità morale, convincerà la giovane che non farà peccato andando a letto con il giovanotto; il secondo, ricorrendo alle sue (presunte) conoscenze in fatto di erbe magiche, convincerà il marito a spingere la moglie tra le braccia del rivale. Un uomo, figlio di uno dei sovrani più importanti del suo tempo, desidera conquistarsi un regno. Servendosi dell’autorità paterna e della diplomazia, si fa “prestare” un esercito da un altro monarca, occupa alcune città, vi manda un luogotenente a ristabilire l’ordine con la più brutale delle repressioni, poi arriva lui stesso in loco e fa giustiziare (altrettanto brutalmente) il suo inviato. Il popolo, convinto che lui fosse all’oscuro delle crudeltà di quest’ultimo, lo acclama, colmo di gratitudine e dimentico del fatto che in fondo si tratta di un conquistatore, non di un liberatore. Due storie simili, anche se una è una commedia e l’altra di comico ha ben poco (ed è, non a caso, l’unica vera delle due), entrambi immortalate dalla penna di uno dei più famosi scrittori politici di tutti i tempi, Niccolò Machiavelli. La prima è la storia di Callimaco, Lucrezia, fra’ Timoteo, Ligurio e messer

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Alessandro Pinzani

Nicia, i protagonisti della Mandragola. La seconda è la storia, esposta nel Principe, di come Cesare Borgia, il Valentino, conquistò le Romagne e ne sottomise le popolazioni grazie al suo luogotenente Ramiro de Lorca, la cui testa mozza fu poi esposta in piazza a Cesena a sollievo e, al tempo stesso, a monito della popolazione. Cosa le rende simili? Il fatto di essere storie di potere. Potere inteso come capacità di conquista (amorosa o militare), di manipolare i sentimenti altrui, di influenzarne le azioni. Quel potere che costituisce il nucleo del pensiero machiavelliano e al quale il segretario fiorentino ha dedicato pagine ancor oggi illuminanti. Illuminanti perché ci mostrano un aspetto del fenomeno spesso trascurato: il suo non limitarsi alla sfera politica. Il potere non è solo quello del principe (o aspirante tale), ma è anche quello del pretendente danaroso, della donna giovane e bella, del sacerdote manipolatore di anime, del “sapiente” capace di zittire gli ignoranti con un paio di formule latine o di paroloni altisonanti (si pensi anche all’Azzeccagarbugli manzoniano). Eppure, nella storia del pensiero politico, ci si è concentrati sulla dimensione politica del potere, spesso su quella forma peculiare di potere che è il potere sovrano, su quell’entità particolare chiamata Stato, sulla relazione che unisce (e allo stesso tempo distingue e separa in maniera inequivocabile) governante e governato, sovrano e suddito – o, meglio, per usare dei termini tedeschi e inglesi assai più trasparenti al riguardo, Machthaber e Untertanen, power holder e subjects1. La maggior parte delle teorie moderne e contemporanee cercano di far dimenticare il fatto bruto del potere, di darne una visione rassicurante ponendo la questione della sua legittimità. Da Hobbes a Rawls, i filosofi politici si sono interrogati 1. Vedasi ad esempio la collettanea (per altro eccellente) intitolata Il potere, curata da Giuseppe Duso e che raccoglie saggi tutti incentrati sulle maggiori teorie della sovranità e dello Stato della modernità, come se il potere non si manifestasse in altre dimensioni al di fuori di quella strettamente politico-istituzionale (Giuseppe Duso, Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma 1999).

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Verso una nuova ontologia politica?

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su come legittimare l’esistenza del potere politico (identificato quasi sempre con il potere dello Stato). Solo pochi pensatori hanno offerto del potere un’altra immagine, sottolineandone a volte il suo carattere di forza e di arbitrarietà (Schmitt), a volte quello di esperienza di libertà (Arendt). Nel presente saggio non prenderò in considerazione queste teorie ‘eterodosse’ del potere, ma vorrei piuttosto occuparmi di due pensatori apparentemente distanti tra loro e che hanno, entrambi, cercato di prendere le distanze dal tradizionale modo di pensare il potere: Luhmann e Foucault. Quest’ultimo afferma, in un’intervista del giugno 1976, che «la teoria politica è rimasta ossessionata dal personaggio del sovrano» e che occorre, invece, elaborare «una filosofia politica che non sia costruita intorno al problema della sovranità». Con una frase a effetto, Foucault conclude: «bisogna tagliare la testa del re: non lo si è ancora fatto nella teoria politica»2. Occorre, quindi, smettere di pensare il problema del potere in termini di Stato. Ritengo che tutta la filosofia politica contemporanea sia racchiusa entro i due poli rappresentati da queste posizioni antitetiche. Antitetiche non soltanto in relazione al modo di pensare il potere ma anche, e questo mi sembra particolarmente rilevante, al modo di pensare il soggetto in generale e quello delle relazioni di potere in particolare. Eviterò di ricorrere alla coppia di concetti di ‘moderno’ e ‘postmoderno’, che considero inappropriata; ma credo che sia sulla questione della natura del soggetto che corre la linea divisoria che separa le teorie politiche con2. Michel Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Torino 1977, p. 15. L’espressione è ripresa dallo stesso Foucault in La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano 1988, p. 79. Su questa affermazione di Foucault e sulla «ossessione della sovranità» da lui sottolineata cfr. Giacomo Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità nella filosofia politica, Torino 1995, pp. 317 ss. Marramao si muove su linee molto distanti da quelle del pensatore francese e giunge a esiti incompatibili con quelli foucaultiani. D’altro canto la pubblicazione dei corsi al Collège de France (successiva alla stesura dell’opera di Marramao) ci obbliga a rivedere molte delle interpretazioni correnti relative al modo in cui Foucault si è occupato del concetto di potere.

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temporanee in due grandi gruppi: le teorie in cui il protagonista è ancora il soggetto cartesiano3, e quindi in cui il potere è una relazione tra volontà, è qualcosa che Ego detiene e a cui Alter è sottomesso; e le teorie in cui il soggetto occupa una posizione eccentrica o in cui più che di soggetto si dovrebbe parlare di processi di soggettivazione, e in cui il potere è una relazione tra forze, qualcosa che non può essere posseduto ma che si stabilisce tra singolarità plurali. Ritengo che la posizione di Luhmann e di Foucault rientri in quest’ultima famiglia di teorie, anche se con sfumature diverse (per Luhmann, come vedremo, il potere è qualcosa che si possiede e che si istituzionalizza, almeno in campo politico) e soprattutto con esiti opposti. Mentre infatti Luhmann ricade nella questione tradizionale della legittimità del potere (per quanto egli si serva di un concetto di legittimità di tipo particolare), Foucault, collegando al tema del potere la questione della formazione del soggetto, offre una nuova prospettiva: il mondo della politica si apre su quello dell’etica, ma di un’etica di tipo particolare.

2. Luhmann: il potere come medium Secondo Luhmann, il potere è um medium comunicativo (come il denaro, o la verità) per mezzo del quale Ego determina le scelte di Alter – dove i termini Ego e Alter designano non due individui ma due funzioni: il detentore del potere e chi gli è sottomesso. Com’è noto, secondo il sociologo tedesco, i sistemi sociali si formano esclusivamente per mezzo della comunicazione, e poiché quest’ultima implica sempre la possibilità del rifiuto dei contenuti offerti per mezzo di essa, tutti i sistemi sociali sono potenzialmente dei conflitti («Alle soziale Systeme sind

3. Per un recente (e affascinante) tentativo di recuperare il soggetto cartesiano in politica vedi Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Milano 2003.

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potentiell Konflikte»)4. L’elemento rilevante per l’analisi del fenomeno del potere consiste nel fatto che un medium comunicativo può formarsi ogniqualvolta i meccanismi selettivi di Ego servano al tempo stesso da struttura motivazionale per Alter. Quando, insomma, Alter è mosso a preferire una certa opzione sulla base delle preferenze di Ego, riducendo la conflittualità presente nel sistema. La comunicazione in questione mira, pertanto, a dirigere Alter nelle sue scelte – e questo accomuna tra loro vari media comunicativi: il potere, la verità o l’amore (come ci ha mostrato anche Machiavelli nella Mandragola). Fondamentale per l’esistenza del potere è che vi sia incertezza riguardo al tipo di selezione privilegiato da Ego, il quale dispone sempre di più di una alternativa. Ma al tempo stesso, lo stesso Ego può e deve ridurre l’incertezza in questione (vedremo come). Proprio questa possibilità di produrre e di ridurre l’incertezza costituisce il presupposto per eccellenza del potere5. Occorre qui aprire una breve parentesi relativa al concetto di individuo propria della concezione luhmanniana. In Soziale Systeme Luhmann afferma che i sistemi sociali non consistono di individui, sebbene in essi siano presenti individui. Ma egli preferisce sostituire al concetto di individuo quello di sistema psichico (che però non corrisponde pienamente ad esso)6. I sistemi psichici costituiscono lo Umwelt, l’ambiente dei sistemi sociali, nel senso che questi ultimi si formano autonomamente da essi e sulla base di operazioni comunicative loro proprie. Come sempre in Luhmann, occorre considerare gli oggetti della teoria nella loro funzione relativa. Considerati in quanto ambiente dei 4. Niklas Luhmann, Macht, Stuttgart 2003 [1975], p. 5. Curiosamente, in questo testo, Luhmann “rovescia” la coppia tradizionale Ego-Alter, attribuendo al secondo il potere e facendo del primo colui che gli obbedisce. In questo contesto preferisco utilizzare i due termini nella maniera più usuale e fare di Ego il power holder. 5. Ivi, p. 8. 6. Niklas Luhmann, Soziale Systeme. Grundriss einer allgemeinen Theorie, Frankfurt a.M. 1984, p. 347 (tr. it. Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna 1990).

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sistemi sociali, i sistemi psichici sono qualcosa di estremamente mutevole e complesso, che obbligano i sistemi sociali a reagire alla loro imprevedibilità e complessità creando a loro volta strutture e meccanismi altamente sofisticati. Considerati invece a loro volta in quanto sistemi autopoietici, i sistemi psichici si riproducono sulla base di un modo operazionale loro specifico, la coscienza, che si serve di ‘particelle elementari’ che Luhmann designa, genericamente, come «rappresentazioni»7. Da questo punto di vista l’individualità consiste nella circolarità di questa riproduzione autoreferenziale. Nel processo di riflessione (che è a sua volta un’operazione della coscienza), essa si rivela come un auto-presupporsi della coscienza: autocoscienza come autoreferenza. Come ogni autopoiesi, tale circolarità è indivisibile; essa può venire distrutta, può cessare (con la morte), ma non può essere modificata. Essa è la base fattuale dell’individualità dei sistemi psichici8. I sistemi psichici entrano in contatto tra loro per mezzo della comunicazione, come ogni altro sistema. Il potere costituisce appunto uno dei medium di comunicazione tra sistemi psichici. In quanto medium comunicativo, il potere non ha carattere esclusivamente repressivo o costrittivo, ma piuttosto costruttivo. Esso costituisce, secondo Luhmann, un catalizzatore, in quanto accelera (o rallenta) il verificarsi di eventi, risultando in un “risparmio di tempo” – preziosissimo per la costruzione e il funzionamento di sistemi complessi9. Il potere contribuisce a ridurre o eliminare il conflitto sempre possibile nella comunicazione, a fare del “no”, con il quale il partner può reagire a ogni contenuto oggetto della comunicazione, un “sì”. Non si tratta quindi di reprimere semplicemente un’eventuale renitenza di Alter, ma di aumentare le probabilità di un adeguamento delle sue scelte a quelle di Ego. Come osserva Byung-Chul Han, «la positività o produttività del potere in quanto ‘chance’ 7. Ivi, 355 s. 8. Ivi, p. 358 ss. 9. Macht, p. 12.

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si estende su tutto l’ampio spettro che va dal giubilo alla costrizione»10. Anzi: la costrizione (quella che in Foucault sarà la dominazione) costituisce la negazione del potere, dimostrando in fondo l’impotenza di Ego a dirigere la volontà di Alter, le cui possibilità di scelta vengono semplicemente annullate. L’uso della costrizione non serve quindi a ridurre la complessità del sistema e a renderne più snello il funzionamento, ma finisce, anzi, con lo scaricare sulle spalle del solo Ego tutto il peso della selezione di opzioni e della decisione. Contrariamente a quanto si tende a pensare, il potere di Ego cresce con l’aumentare delle opzioni che restano aperte per Alter: il potere è tanto maggiore quanto maggiore è la libertà di entrambi i soggetti11. Il potere di un signore sui suoi schiavi è minore di quello del presidente di una Banca Centrale nazionale, sebbene gli individui sottoposti di quest’ultimo siano a loro volta dotati di ampi poteri (sono presidenti di istituti di credito) e di ampia libertà di azione (contrariamente agli schiavi). Libertà va comunque intesa qui come semplice disponibilità potenziale di alternative, e in questo senso un presidente di banca è certamente più libero di uno schiavo, pur essendo sottomesso al potere del governatore della Banca Centrale. Di fatto, il potere mira appunto a ridurre l’ambito delle scelte che Alter farà concretamente, fino al punto (che rappresenta la situazione ideale per il detentore del potere) in cui Alter si adeguerà automaticamente alle scelte di Ego12. Il meccanismo causale proprio del potere non mira a piegare o spezzare la volontà di chi gli è sottomesso, ma piuttosto a neutralizzare tale volontà13. Lo scopo di Ego è quello di spingere Alter a fare proprie le scelte di Ego, a far coincidere la propria volontà con quella del detentore del potere.

10. Byung-Chul Han, Was ist Macht?, Stuttgart 2005, p. 17. 11. Macht, cit., p. 9 s. 12. Niklas Luhmann, Macht und System. Ansätze zur Analyse von Macht in der Politikwissenschaft, «Universitas. Zeitschrift für Wissenschaft, Kunst und Literatur», 5, 1977, p. 476. 13. Macht, cit., p. 11 s.

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Questo aspetto essenziale del potere è stato colto acutamente da Hobbes che, non a caso, riduce il contratto sociale a un contratto di autorizzazione, ossia a un impegno a riconoscere come proprie le decisioni e le azioni del sovrano14. Nel momento in cui Alter passa a riconoscere sempre come proprie le decisioni di Ego, questi esercita su di lui un potere assoluto, ossia svincolato da qualsiasi condizione. In caso di funzionamento ottimale della “macchina” (non inganni la metafora organica del corpo immane formato dai sudditi: lo Stato per Hobbes è il prodotto di un artificio), il sovrano che costituisce la testa pensante (ma anche le braccia attive) del Leviatano non ha bisogno di ricorrere alla violenza con i suoi sudditi per imporre loro il proprio volere, in quanto questi ultimi accettano come loro le sue decisioni. Si badi bene, che non si tratta qui di interiorizzare la volontà del sovrano (ciò che i sudditi devono interiorizzare sono semmai i dettami della ragione)15, ma semplicemente di adeguare la propria volontà alla sua senza discutere. Compito del sovrano è quindi quello di sviluppare degli automatismi che portino i sudditi a seguire sempre e soltanto la strategia di azione da lui prescelta. Luhmann (come Hobbes prima di lui) è consapevole del fatto che paradossalmente il successo di Ego nel diminuire l’incertezza risulta in una limitazione per il suo potere. Vale infatti la pena notare come la produzione e la riduzione di incertezza siano reciproche: se è vero che Ego dispone di più opzioni di scelta che non Alter, così che quest’ultimo non sa mai con certezza per cosa si deciderà Ego, è anche vero che – una volta che Ego abbia manifestato le sue preferenze o il suo volere – il comportamento di Ego risulta più facilmente prevedibile per Alter che non viceversa. Ego riduce le alternative disponibili per Al-

14. Thomas Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Roma-Bari 62000, cap. XVII, p. 142 s. 15. Ivi, p. 116 ss.; cfr. Alessandro Pinzani, Ghirlande di fiori e catene di ferro. Istituzioni e virtù politiche in Machiavelli, Hobbes, Rousseau e Kant, Firenze 2006, p. 159 ss.

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ter, ma non sa se questi farà esattamente quello che lui vuole che faccia. D’altro canto, Alter sa che se la sua scelta non sarà quella voluta da Ego, questi lo punirà (ad esempio, se Alter non fa a Ego il regalo che egli si aspetta, lui gli terrà il muso; se lo studente Alter non dà al professore Ego la risposta desiderata, riceverà un brutto voto, ecc.). Per cercare di rendere prevedibile il comportamento di Alter, Ego è costretto a rendere trasparente il proprio – quanto meno nella sua qualità di risposta al comportamento di Alter. Come sottolinea Luhmann, il potere non si limita a servire da strumento a una volontà già presente, ma “crea” questa volontà e le impone certi obblighi16. La relazione di potere non è monodirezionale, e quindi il potere non è localizzabile esclusivamente dalla parte di Ego, sebbene questi possa possederlo in quantità maggiore che non Alter. L’essenza stessa della relazione di potere pone limiti alle opzioni di Ego e lo spinge a sceglierne alcune piuttosto che altre. Se Ego rispondesse arbitrariamente alle scelte di Alter, questi non saprebbe più come comportarsi (quindi il meccanismo di potere risulterebbe inefficace) e tenderebbe a non accettare più il potere di Ego, che quindi perderebbe legittimità – concetto, questo, che Luhmann intende in senso empirico e non normativo come la disponibilità generica a fare proprie le scelte del detentore del potere. Il potere incorre quindi in un dilemma cruciale: o rinunciare alla propria legittimità o rinunciare al proprio carattere di imprevedibilità. Nel primo caso esso manterrebbe intatta la sua forza ma perderebbe efficacia, nel secondo esso diminuirebbe in forza ma ne guadagnerebbe in efficacia. È quindi inevitabile, secondo Luhmann, che si abbia una istituzionalizzazione del potere, come appare evidente nel caso del potere politico quando questi si trasforma in potere legale o istituzionale. In questo contesto sorge un sistema specifico particolare, lo Stato, che si serve della violenza fisica come strumento di minaccia per garantire una migliore organizzazione e allo stesso

16. Macht, cit., p. 21.

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tempo per generare potere17. Luhmann distingue qui la figura del detentore del potere dall’apparato “Stato” di cui egli si serve per imporre le proprie decisioni. In questo senso Ego, che potremmo definire classicamente “il sovrano”, mantiene una posizione eccentrica, trascendente al sistema dello Stato. Lo Stato è solo lo strumento della volontà del sovrano, come in Hobbes, anche se a questo fine è necessario un alto grado di formalizzazione, ossia la creazione di un sistema giuridico che permetta l’esercizio del potere anche senza la diretta manifestazione della volontà sovrana (le leggi permettono al detentore del potere di non doversi esprimere ogni volta di nuovo con una decisione ad hoc). In società altamente complesse come la nostra, però, il potere politico non riesce a soddisfare pienamente il proprio compito (ossia la riduzione dell’incertezza e l’organizzazione delle scelte e delle azioni dei vari attori). I problemi che si presentano in una società del genere sono troppi e troppo complicati, e richiedono una competenza e una rapidità e capacità di decisione che il potere politico non possiede in maniera sufficiente18. In parte è egli stesso la causa di questi problemi, poiché ogni decisione a favore di una certa strategia di azione può provocare, escludendo tutte le altre possibilità, una serie di difficoltà inattese. Inoltre accanto al potere politico vi sono altri poteri che non sono altrettanto pervasivi e totali, visto che riguardano solo ambiti limitati, ma che nondimeno sono spesso più efficaci. Luhmann si riferisce in primis al potere burocratico, che può ostruire l’azione del potere politico rallentando (o bloccando

17. Niklas Luhmann, Die Politik der Gesellschaft, Frankfurt a.M. 2000, p. 55. Potremmo chiederci in che misura la violenza fisica dello Stato teorizzata in questa opera non costituisca la negazione del suo potere, come nel caso della costrizione analizzata dallo stesso Luhmann nel precedente Macht. Ma preferisco lasciare da parte la questione. 18. Del resto l’idea che esista uno scarto costante tra la complessità dei sistemi e la complessità del loro ambiente è un’ipotesi centrale nel pensiero di Luhmann.

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del tutto) l’esecuzione concreta di decisioni politiche19. Ma lo stesso avviene in altri ambiti in cui si sviluppano relazioni di potere, come quelli della famiglia, dell’economia, dell’educazione e della religione: basti pensare alla supremazia dei legami familiari sui doveri politici o giuridici tipica di molte culture (inclusa, almeno in parte, quella italiana), o al potere delle lobby economiche, o al fatto che solo persone con un’educazione superiore hanno davvero accesso alle posizioni chiave della società, o all’obiezione di coscienza con motivazioni religiose20. In questo modo, si ha una apparente commistione di poteri – apparente perché, in realtà, qualunque tipo di potere sociale (religioso, economico ecc.) deve trasformarsi in potere politico per influenzare il sistema politico stesso. Si presenta quindi un doppio problema: da un lato il sistema politico è minacciato da poteri sociali, dall’altro i poteri sociali rischiano di perdere la loro funzione specifica a causa della loro progressiva trasformazione in potere politico21. Luhmann identifica in due opzioni le soluzioni caratteristiche della nostra epoca, per poi rigettarle entrambe a causa della loro inefficacia. La prima consiste nella giuridificazione, ossia nell’estensione della sfera giuridica, in un crescente controllo giuridico di ambiti sempre nuovi e sempre più ampi (il potere politico cerca, dunque, di invadere in veste di potere giuridico ambiti che non gli spettano); la seconda consiste nell’estensione della partecipazione democratica sia in senso quantitativo (ossia rispetto a un numero crescente di processi decisionali) sia in senso qualitativo (ossia rispetto a processi che erano già democratici, ad esempio per mezzo della creazione di nuove forme di partecipazione oltre a quelle tradizionali come elezioni, referendum ecc.)22. Il modo migliore (ma non infallibile) di affrontare i problemi summenzionati consiste invece, secondo Luhmann, 19. Macht, cit., p. 84. 20. Ivi, p. 92. 21. Ivi, p. 93. 22. Ivi, p. 94 ss.

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nella pianificazione politica, ossia nel fatto che l’agenda politica viene determinata dai detentori del potere politico, impedendo alla cosiddetta “società civile” di imporre loro questioni “difficili”23. Il processo decisionale, a sua volta, dovrebbe ridursi il più possibile a mero atto amministrativo effettuato sulla base di procedure prefissate. In questo senso la traduzione del potere politico in potere giuridico diventa centrale per il funzionamento del sistema dello Stato e, indirettamente, degli altri sistemi, ognuno dei quali manterrebbe così la sua autonomia, in conformità all’imperativo dell’efficienza sistemica che pervade la teoria luhmanniana. Proprio questo imperativo mi sembra costituire al tempo stesso l’elemento caratteristico del pensiero luhmanniano e ciò che, paradossalmente, lo avvicina alle tradizionali teorie del potere summenzionate. Luhmann svincola la questione della legittimità del potere da qualsiasi ideale trascendente come la nozione di giustizia o persino di interesse (sia quest’ultimo inteso in senso utilitaristico o nel senso habermasiano di interesse ponderato), e la colloca sul piano – squisitamente immanente – dell’efficacia sistemica. Il potere è legittimo se viene accettato da chi gli è sottoposto e se quindi può adempiere efficacemente alla sua funzione. Ma anche una nozione come quella di efficacia sistemica corrisponde a un criterio normativo di qualche tipo. Certo, non si tratta di una normatività categorica come nel caso del criterio della giustizia; semmai di una normatività condizionata o ipotetica, per dirla con Kant: se il sistema deve essere efficace, occorre che il potere esercitato al suo interno sia legittimo. Però resta il fatto che siamo in presenza di un criterio da soddisfare. Non che il sistema debba necessariamente essere efficace: in questo caso saremmo di fronte a una normatività categorica. Ma se il sistema deve essere efficace (e ogni sistema tende a esserlo, anche se non sempre con successo), allora il potere esercitato al suo interno deve essere legittimo. Nel caso 23. Sul tema vedi Niklas Luhmann, Politische Planung, Opladen 1971 (tr. it. parziale Stato di diritto e sistema sociale, Napoli 1978).

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del potere politico, esso deve essere addirittura istituzionalizzato per risultare legittimo. Da questo punto di vista, potremmo dire che Luhmann non ha ancora tagliato la testa al re, visto che la sua visione del potere (e del detentore del potere) si avvicina molto a quella tradizionale dei pensatori della sovranità. In realtà la questione dell’istituzionalizzazione del potere sembra porsi soltanto in certi casi, come quello, appunto, del potere politico, e non in tutti, come sembra sostenere Luhmann. Non vale sempre, ad esempio, nel caso di quello che potremmo chiamare potere cognitivo (il potere che gli “esperti” possiedono sugli “ignoranti”)24, del potere economico (per quanto anche in questo caso sia necessaria una certa prevedibilità, che comunque non si traduce necessariamente nella creazione di istituzioni) o del potere che l’amato esercita sull’amante. Se Alter è follemente innamorato di Ego e Ego reagisce in maniera arbitraria al comportamento di Alter, può succedere che l’amore di Alter per Ego si raffreddi o che il potere di Ego su di Alter si rinforzi, ma non è detto che abbia luogo un’istituzionalizzazione della relazione di potere (a meno che non si creino dei vincoli come quello matrimoniale). Inoltre, il dilemma si pone solo nel caso in cui Ego reagisca al comportamento (alle scelte) di Alter. Ma questa è solo una delle possibili forme di esercizio del potere caratteristica del potere politico (prima e dopo la sua trasformazione in potere legale istituzionalizzato). Infatti, si può esercitare potere su Alter anche escludendolo dal possesso (o dal raggiungimento) di certi beni come l’istruzione, l’indipendenza economica, determinati diritti individuali ecc. Ridurre le possibilità di scelta di Alter non significa necessariamente obbligarlo ad agire in un certo modo, ma può anche risultare in un controllo delle sue

24. Ovviamente si può avere istituzionalizzazione anche in questo caso: l’introduzione di curricula scolastici di ogni ordine e grado, di diplomi e di titoli accademici e la creazione di istituti cui è demandata la produzione e diffusione di sapere ne sono un esempio. Ma ciò non avviene in tutte le società e non in relazione a ogni tipo di sapere.

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possibilità esistenziali. Ego può esercitare potere su Alter non solo in relazione a ciò che questi può (o non può) fare, ma anche in relazione al tipo di individuo che questi può (o non può) essere, al tipo di vita che egli può condurre, al tipo di ambiente sociale con il quale egli può interagire. Luhmann è convinto che l’individualità, ossia il processo di formazione dell’individuo all’interno di un sistema psichico, sia un processo chiuso e autosufficiente, indipendente dal suo ambiente (in questo caso costituito dalla società). Si tratta, appunto, di un processo autopoietico, sebbene esso possa venire influenzato o determinato (ma non causato) dall’ambiente25. Come medium comunicativo, il potere costituisce una delle forme in cui sistemi sociali – in quanto ambiente dei sistemi psichici – possono influenzare il processo autopoietico della coscienza o in cui sistemi psichici (Ego) possono influenzare altri sistemi psichici (Alter). Ma Luhmann limita le possibilità di influenza reciproca aperte dall’uso del potere all’influenza su scelte e strategie di comportamento. Nella sua visione si hanno quindi da un lato un detentore del potere e dall’altro soggetti sottomessi al suo potere – potere che quindi costituisce sì un medium comunicativo, ma nel senso di segnalare ad Alter il tipo di scelte che gli è lecito fare, e di vincolare almeno in parte le decisioni di Ego al fine di ridurre l’insicurezza e di creare delle attese riguardo al comportamento di tutti gli attori, di Ego come di Alter. Se è vero che il medium del potere ha una funzione “creatrice”, visto che determina la volontà di Alter e di Ego (come abbiamo visto), è anche vero che tale funzione non va oltre la determinazione delle scelte e delle azioni degli attori coinvolti, lasciandone intatta la loro soggettività. Ritengo, invece, che il potere (politico o no) non sia semplicemente una relazione tra due volontà, ma che esso sia anche un modo di creare soggetti, per quanto instabili. Il potere è una forma di soggettivazione, è lui che fa di Ego Ego e di Alter Alter; di più: che fa di Ego questo Ego specifico e di Alter questo Alter specifico, sebbene 25. Soziale Systeme, cit., p. 360 ss.

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si tratti di soggetti mutevoli, destinati a mutare appunto con il modificarsi della relazione di potere che li unisce. L’amante senza l’amato o il re senza i sudditi sono semplicemente impensabili. Ma non solo: la natura della loro relazione specifica determina anche il tipo di soggetti che essi vengono ad essere. Proprio questo aspetto sta al centro della “teoria” del potere di Foucault.

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3. Foucault: il potere come relazione tra forze Parlando di “teoria” del potere in Foucault ho usato le virgolette. La ragione di ciò è evidente a chi abbia dimestichezza con il pensiero del filosofo francese. Nonostante il fenomeno del potere rivesta un’importanza centrale in tale pensiero, Foucault non vuole (e, dal suo punto di vista, non può) offrirne una teoria nel senso che comunemente si dà a questa parola. Per lui ogni sapere intorno a un oggetto è storicamente determinato, ogni teoria è provvisoria e accidentale. Questo vale a maggior ragione per un fenomeno complesso come il potere, che non ha una natura, un’essenza definibili una volta per tutte e sulla base di caratteristiche universali. Il potere non è una cosa, ma una pratica sociale. Pertanto Foucault ce ne offre non una teoria, ma un’analitica, un’analisi dei suoi vari dispositivi, in modo da mostrarcene i meccanismi e gli effetti26. Ovviamente non è possibile ricostruire in questo contesto le complesse analisi foucaultiane del fenomeno “potere” nelle sue varie manifestazioni (e che lo portano a parlare di una «microfisica del potere»), anche perché in fondo ciò significherebbe esporre il pensiero di Foucault nella sua totalità. Basti dire che in una prima fase del suo pensiero Foucault si occupa principalmente della storia del soggetto moderno: sia in quanto storia delle teorie del soggetto, sia in quanto studio delle istituzioni che fanno di certi individui oggetti di sapere e di dominazione (la clinica psichiatrica, la 26. La volontà di sapere, cit., p. 73.

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scuola, la prigione ecc.) e delle forme di sapere che permettono la creazione di tale istituzioni27. Dall’analisi delle discipline, Foucault passa a un’analisi di forme di potere più ‘tradizionali’, facendo una distinzione fondamentale tra i concetti di sovranità e di governo28. Ma nel corso dei suoi studi sulla sessualità, egli si rende conto che esistono, oltre alle tecniche di dominazione “esterne”, anche delle tecniche interne, adottate dallo stesso soggetto volte a operare in lui delle modificazioni nel corpo, nell’anima, nei pensieri, nella condotta ecc. Questo insieme di tecniche è riassunto da Foucault con l’espressione «tecniche di sé» e la loro analisi dominerà gli ultimi anni di vita del pensatore francese29. In questo contesto mi limiterò ad alcune considerazioni sull’approccio di Foucault al fenomeno del potere e sulla relazione che egli stabilisce tra esso e i processi di soggettivazione. Come già osservato in precedenza, le teorie tradizionali del potere presuppongono «sempre un soggetto umano il cui modello è stato fornito dalla filosofia classica e che sarebbe dotato di una coscienza di cui il potere s’impadronirebbe»30. Nella visione tradizionale si hanno da una parte il potere legislatore, dominatore e controllore, dall’altra un soggetto obbediente e sottomesso31. In Sorvegliare e punire e in La volontà di sapere Foucault rifiuta alcuni postulati che caratterizzano tale modo

27. Si vedano: Storia della follia nell’età classica, Milano 1963; Nascita della clinica, Torino 1969; Le parole e le cose, Milano 1967 e L’archeologia del sapere, Milano 1971. 28. Si vedano: Sorvegliare e punire, Torino 1976; La volontà di sapere, cit.; Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-76), Milano 1998; Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-77), Milano 2005 e Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-79), Milano 2005. 29. Si vedano: L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Milano 1991, e La cura di sé. Storia della sessualità 3, Milano 1991. 30. Michel Foucault, Potere-corpo, in Id. Microfisica del potere, cit., p. 140. 31. Michel Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 76.

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di pensare il potere32. In primo luogo, esso non è un privilegio acquisito dalla classe dominante (i ‘detentori del potere’), non è una proprietà, ma una strategia; qualcosa che non si possiede, ma si esercita. In secondo luogo il potere non può essere localizzato nello Stato o in nessun altro apparato. Lo stesso Stato è il risultato d’insieme di una molteplicità di ingranaggi di potere. Non esiste, insomma, un luogo privilegiato che sia la fonte del potere. Esso è ovunque, pervade tutte le relazioni sociali (che sono, appunto, relazioni di potere) e si esercita anche in microambiti. In terzo luogo, il potere non è subordinato a un certo modo di produzione, come quello capitalista. Foucault rifiuta insomma qualsiasi tentativo di spiegare il fenomeno del potere in chiave di determinismo economico come fa il marxismo ortodosso. In quarto luogo il potere non possiede un’essenza, né è un attributo di chi lo possiede, già che esso è una relazione tra forze (su questo punto tornerò tra breve). In quinto luogo, in quanto relazione tra forze il potere non ha una modalità esclusivamente repressiva, ma produttiva: esso non si limita a proibire o impedire, ma incita, suscita, articola ecc. Il potere produce corpi “docili e utili”, provoca piacere33, crea saperi e discorsi. Infine, il potere non si esprime primariamente sotto forma di legge giuridica, già che quest’ultima non consiste che in una gestione e formalizzazione delle attività illegali, permesse ad alcuni e proibite ad altri34.

32. Seguo qui l’interpretazione delle pagine iniziali di Sorvegliare e punire offerta da Deleuze in Gilles Deleuze, Foucault, a cura di P.A. Rovatti e F. Sossi, Milano 1987. 33. Come evidenziato in La volontà di sapere, lungi dal reprimere e far tacere la sessualità, il potere innesca un meccanismo che porta a tematizzarla, a parlarne, a confessarla. Invece di negarla, egli la pone al centro della nostra vita pretendendo di normalizzarla, laddove l’etica antica (come mostrano L’uso dei piaceri e La cura di sé) si preoccupava di controllarla pur riconoscendo la naturalità di ogni sua espressione. 34. Si pensi al caso delle banche, cui è permesso stampare denaro (per mezzo della Banca Centrale di cui sono azioniste) o applicare tassi d’interesse elevati sui prestiti: tutte attività illecite per un privato.

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Contestando la concezione giuridica del potere, Foucault si meraviglia apertamente che «in una società come la nostra in cui gli apparati del potere sono così numerosi, i suoi rituali così visibili e i suoi strumenti in fondo così sicuri» i dispositivi di potere siano ridotti «alla sola procedura della legge di proibizione»35. Il filosofo francese identifica due ragioni per questo fatto. La prima è una ragione «generale e tattica»: il potere «è tollerabile a condizione di dissimulare una parte importante di sé», di nascondere almeno in parte il suo essere «cinico»36. Il potere viene accettato da chi lo subisce perché questi crede di rintracciarvi non solo un limite al proprio desiderio, ma anche un momento di libertà37. La seconda è una ragione storica: «a partire dal Medio Evo, nelle società occidentali, l’esercizio del potere si è formulato sempre nei termini del diritto»38. Anche la critica più radicale, quella che vede nello stesso sistema del diritto solo un modo di esercitare violenza, si basa ancora sul postulato che il potere debba essere esercitato sulla base di un diritto più fondamentale, in maniera più giusta. È in questo contesto che Foucault afferma che occorre «tagliare la testa al re», liberarsi di una certa immagine del potere come legge o diritto e «costruire un’analitica del potere che non prenda più per modello e per codice il diritto»39. 35. La volontà di sapere, cit., p. 76 s. In realtà nel testo Foucault parla di «dispositivi della dominazione». Ma visto che in questo contesto egli non opera alcuna distinzione tra dominizione e potere (distinzione invece da lui altrove giudicata fondamentale), ho preferito usare il termine «dispositivi di potere» per evitare equivoci. Foucault parla anche del paradosso della nostra società, «che dal XVIII secolo ha inventato tante tecnologie di potere estranee al diritto, ch’essa in realtà ne teme gli effetti e le proliferazioni e cerca di trascriverle nelle forme del diritto» (ivi, p. 98). Potremmo leggere in queste righe un’interpretazione del fenomeno della giuridificazione descritta da Luhmann, tra gli altri. 36. La volontà di sapere, cit., p. 76. 37. Rifacendosi a Bourdieu, Byung-Chul Han osserva che «il potere è più potente e più stabile laddove crea un sentimento di libertà» (Was ist Macht?, cit., p. 57). 38. La volontà di sapere, cit., p. 78. 39. Ivi, p. 80.

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Il potere indica quindi una molteplicità di rapporti di forza. Pertanto esso è onnipresente, «perché si produce in ogni istante, in ogni punto, o piuttosto in ogni relazione fra un punto e un altro. Il potere è dappertutto non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove». Esso «è qualcosa che si esercita a partire da innumerevoli punti», è immanente a ogni tipo di rapporto (processi economici, rapporti di conoscenza, relazioni sessuali) e «viene dal basso». Con quest’ultima espressione Foucault vuole dire che esso non si basa sull’opposizione tra dominanti e dominati; le relazioni di potere si formano piuttosto a tutti i livelli del corpo sociale e lo pervadono. Infine, «là dove c’è potere c’è resistenza». Nella trama del potere, nella rete di relazioni che unisce tra loro i punti di forza, sono sempre presenti dei punti di resistenza che «svolgono il ruolo di avversario, di bersaglio, d’appoggio, di sporgenza per una presa». Possono essere di vario tipo («possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti» ecc.), a volte si traducono in «grandi rotture radicali», ma più spesso si manifestano in «punti di resistenza mobili e transitori», che però possono rendere possibile anche una rivoluzione. Possiamo pensare queste resistenze in analogia al ‘contropotere’ esercitato inevitabilmente da Alter su Ego nella teoria luhmanniana: esse sono «l’altro termine nelle relazioni di potere, vi s’iscrivono come ciò che sta irriducibilmente di fronte a loro»40. Fondamentale, a questo punto, sottolineare la distinzione tra relazione di potere e relazione di dominazione. Mentre la prima rimanda a una costellazione mutevole, a un campo di forze in continua trasformazione (e ciò rende appunto inevitabile il prodursi di punti di resistenza), la seconda implica una situazione di fissità, di immutabilità in cui non è possibile modificare la relazione tra le forze coinvolte. La relazione di potere è una relazione pluridimensionale, come sottolineato anche da Luhmann; quella di dominazione no. Secondo Foucault, è dai rapporti di dominazione che dobbiamo liberarci, non da quelli di 40. Ivi, p. 84 ss.

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potere, visto che questi ultimi sono costitutivi per la formazione del soggetto stesso (o, meglio, di soggettività, come vedremo). Le relazioni di potere collegano tra loro le varie singolarità e determinano così l’esistenza di un campo di forze. Le istituzioni non sono ‘detentrici’ del potere, ma sono pratiche che si limitano a fissare le relazioni di potere, a riprodurle senza produrle. Studiare un’istituzione significa studiare le relazioni di potere da essa fissate e integrate. Persino nel caso dello Stato si dovrebbe parlare di una “statalizzazione continua”, di un processo ininterrotto di fissazione di certe relazioni di potere41. Lo Stato presuppone quindi l’esistenza di tali relazioni e non ne è la fonte. È per questo che Foucault assegna priorità al concetto di governo su quello di Stato, dedicando ad esso numerosi corsi al Collège de France42. Nella celebre lezione sulla governamentalità del primo febbraio 197843, Foucault contrappone alla concezione machiavelliana, secondo cui l’obiettivo dell’arte di governo consiste nel ‘mantenere lo Stato’, ossia nella capacità del principe a mantenere la propria sovranità (il proprio potere) su un territorio e su una popolazione, una concezione secondo la quale il governo del principe è solo una tra le varie forme di governo possibili, tutte interne alla società o allo Stato. Gli autori citati da Foucault, per lo più preoccupati di istruire futuri monarchi44, distinguono almeno tre tipi di governo: quello di se stessi, che attiene alla morale, quello della famiglia, che attiene all’economia, e quello dello Stato, che attiene alla politica. Tra queste 41. Cfr. Deleuze, Foucault, cit., p. 80 ss. 42. Cfr. Sicurezza, territorio, popolazione, cit.; Nascita della biopolitica, cit. e Sul governo dei viventi, corso degli anni 1979-1980 ancora inedito. 43. Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 70 ss. 44. Il Principe, al contrario, non rientra nel genere dei Fürstenspiegel, se non esteriormente. Machiavelli non scrive per un giovane principe che deve essere educato a diventare un giorno un monarca, e i suoi consigli si limitano all’arte di ottenere e mantenere il potere, non a quello di divenire un buon principe nel senso in cui il termine è inteso dalla tradizione o anche dagli scrittori citati da Foucault.

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tre forme di governo esiste una «continuità ascendente, perché chi vuole essere capace di governare lo Stato deve innanzitutto saper governare se stesso; poi, su un altro livello, deve saper governare bene la sua famiglia, i suoi beni, la sua proprietà e solo allora, in ultima istanza, riuscirà a governare lo Stato»45. Mentre l’oggetto del potere sovrano nella visione di Machiavelli sono il territorio e i suoi abitanti (i sudditi del principe o i cittadini della repubblica), l’oggetto del governo è «il complesso costituito da uomini e cose», quindi «le ricchezze, le risorse, i mezzi di sussistenza, certamente anche il territorio, nei suoi confini e con le sue qualità, come il clima, il terreno arido o fertile. Sono gli uomini, nei loro rapporti con altre cose quali le consuetudini, le usanze, i modi di fare o di pensare. E infine, gli uomini nei loro rapporti con altre cose ancora, quali gli incidenti o le disgrazie come le carestie, le epidemie, la morte»46. Il fine del sovrano è l’obbedienza dei sudditi (ossia il rispetto della sovranità) e il suo strumento principale è la legge, mentre il governo si pone una pluralità di fini specifici e per realizzarli egli deve «disporre delle cose» summenzionate, quindi ricorrere «più a tattiche che a leggi»47. A partire da questo momento «sarà il successo o il fallimento a costituire il criterio dell’azione di governo, non più la legittimità o l’illegittimità»48. Il baricentro si sposta verso l’ambito economico, il governo diviene in primis governo dell’economia, ed è per questo che nel corso dedicato alla Nascita della biopolitica Foucault si dedica a un’analisi minuziosa del neoliberalismo (o liberismo) americano ed europeo, che giudica appunto l’attività di governo in base a criteri economici: è il mercato, adesso, che permette di stabilire se un governo è un buon governo49.

45. Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 75 s. 46. Ivi, p. 78. 47. Ivi, p. 80. 48. Nascita della biopolitica, cit., p. 27 s. 49. Ivi, p. 39.

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Il passaggio dall’idea tradizionale di sovranità a quella di governo non è solo teorica, ma avviene anche nella pratica (sebbene non in coincidenza con il mutamento di paradigma teorico). A un certo modo di concepire ed esercitare il potere si sostituisce un altro, secondo un processo descritto da Foucault anche in La volontà di sapere e nel ciclo di lezioni In difesa della società. Il potere ‘tradizionale’ si esercita «essenzialmente come istanza di prelievo, meccanismo di sottrazione, diritto di appropriarsi di una parte delle ricchezze, estorsione di prodotti, di beni, di servizi, di lavoro e di sangue, imposti ai sudditi»50. Il sovrano si caratterizza per il suo potere di vita e di morte, che in realtà è, fondamentalmente, potere di morte, diritto di uccidere i sudditi per garantire la sopravvivenza della sovranità stessa: giustiziando i ribelli, mandando i propri soldati a morire combattendo per lui. Il potere viene quindi esercitato negativamente: come sottrazione dei beni o della vita. Ma nel corso dei secoli XVII e XVIII qualcosa cambia. Il potere comincia a esercitarsi positivamente sulla vita, e il mutamento si sviluppa in due forme principali, ognuna delle quali ha il proprio oggetto: il corpo e la popolazione. Nel primo caso il corpo viene reso docile e utile per mezzo delle discipline analizzate dallo stesso Foucault negli scritti degli anni Sessanta. Si tratta di quella che il pensatore francese chiama «anatomo-politica». Nel secondo caso si tratta di intervenire sulla popolazione regolandone i processi biologici per mezzo di tattiche legate a saperi specifici: controllo delle nascite, misure di salute pubblica, rilevamento statistico di dati concernenti tassi di nascita, di mortalità, di longevità, ecc. Nasce quella che Foucault chiama «bio-politica». Oggetto della bio-politica è quindi la popolazione vista non più (come nella visione giuridica del potere) come l’insieme dei sudditi sottoposti alla legge, ma come dato biologico che deve essere controllato, misurato, regolato. La vita biologica diventa un elemento politico centrale51. La tradizionale visione giuridica 50. La volontà di sapere, cit., p. 110. 51. Cfr. Antonella Cutro (a cura di), Biopolitica. Storia e attualità di un

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del potere ci impedisce di cogliere questo mutamento essenziale ed è per questo che Foucault ci invita a «tagliare la testa al re», a porci cioè la questione del potere non in termini di sovranità, in termini giuridici, ma «in termini di esistenza»52. Sarà proprio quest’ultimo problema a occupare Foucault negli ultimi anni della sua vita, dapprima in relazione al concetto di esistenza in senso biologico, spingendolo a sviluppare ulteriormente la nozione di bio-politica53; poi, in relazione alla dimensione dell’esistenza individuale, portandolo a studiare l’etica della cura di sé che caratterizza la cultura greca e romana. Sono proprio questi studi, quelli su cui vorrei brevemente concentrarmi adesso. Potremmo dire che Foucault parte dal diagramma di potere introdotto dai teorici “anti-machiavellici” che per primi avevano teorizzato in era moderna l’importanza dell’azione di governo, e ne rintraccia le radici nel pensiero greco, che – nella lettura foucaultiana – ruota intorno alla grande questione del governo di se stesso e degli altri. Già i greci avevano infatti riconosciuto che «assicurare la direzione di se stessi, assumere il governo della propria casa e partecipare a quello della città, sono tre pratiche dello stesso tipo»54. Come il giovane principe al quale erano rivolti gli scritti degli autori summenzionati, colui che voglia fare di sé un uomo libero (politicamente e moralmente) deve operare su di sé un’azione educativa che passa per l’esercizio di una serie di pratiche di vario tipo, incentrate tutte sul controllo dei piaceri (non però sulla loro repressione, come nel caso del cristianesimo). «La capacità di governo di sé e degli concetto, Verona 2005, p. 11 ss. In questo contesto preferisco lasciare da parte le interessantissime considerazioni sui concetti di razza e di classe, sul razzismo, sul socialismo e sul nazismo presentate da Foucault nel corso In difesa della società. 52. Michel Foucault, La filosofia analitica della politica, in Id., Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1979-1985, a cura di A. Pandolfi, Milano, 1998, p. 103 (cit. in Cutro, Biopolitica, cit., p. 12). 53. Nozione che ha conosciuto un immenso successo nel pensiero politico contemporaneo. Al riguardo rimando a Cutro, Biopolitica, cit. 54. L’uso dei piaceri, cit., p. 81.

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altri viene plasmata contemporaneamente»55 per mezzo di una vera e propria ascetica organizzata intorno a una serie di «punti di problematizzazione» legati all’uso dei piaceri56, ossia: la cura del corpo, il matrimonio, i rapporti con i ragazzi. Non è, naturalmente, questo il luogo per addentrarsi in una disamina delle lunghe e minuziose analisi dedicate da Foucault alle prescrizioni dietetiche, alle pratiche ascetiche, alle considerazioni filosofiche elaborate dagli autori greci e latini da lui presi in esame. Quello che mi interessa è fare quattro constatazioni, legate l’una all’altra. La prima, riguarda la nozione di soggetto. Secondo Foucault, i greci non hanno mai formulato una definizione di soggetto sul tipo di quella della Bewußtseinsphilosophie, nonostante abbiano collocato l’individuo al centro della loro riflessione. A questo proposito, riferendosi alle condizioni che rendono possibile all’individuo avere delle esperienze in generale, Foucault parla di soggettivazione, intendendo con questo termine un processo per mezzo del quale si costituisce una soggettività, che altro non è che una delle varie possibilità di organizzazione di una coscienza di sé57. Il soggetto non è una sostanza, è una forma, e non sempre questa forma è identica a se stessa: un individuo non ha con se stesso sempre lo stesso tipo di relazione al mutare delle esperienze (ad esempio come soggetto politico che si reca a votare o come soggetto sessuale che cerca di soddisfare il proprio desiderio)58. L’individuo assume quindi varie forme di soggettività nel corso e per mezzo di determinate esperienze, ivi incluse le pratiche ascetiche summenzionate. La seconda constatazione: tali pratiche non sono inventate dall’individuo. Sono schemi che egli incontra nella propria cultura e che gli sono «proposti, suggeriti, imposti» da questa cul55. Ivi, p. 82. 56. Ivi, p. 26. 57. Michel Foucault, Il ritorno della morale, in Id., Archivio Foucault 3, cit., pp. 262-272. 58. Michel Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Id., Archivio Foucault 3, cit., pp. 273-306.

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tura, dalla sua società e dal suo gruppo sociale59. Sono quindi determinate relazioni di potere che spingono l’individuo a adottare certi schemi e, di conseguenza, a creare certe soggettività. D’altro canto, ogni relazione di potere implica la possibilità di una resistenza. L’individuo può sottrarsi, in una certa misura e in una forma o nell’altra, alle pressioni della propria cultura, della propria società, del proprio ambiente familiare ecc. È vero che Foucault non tematizza questa possibilità riguardo ai greci e ai romani, ma essa mi sembra essere una conseguenza della sua concezione delle relazioni di potere. Sulla possibilità di una resistenza in questo senso tornerò in seguito. La terza constatazione: le pratiche ascetiche mirano non alla rinuncia di sé o alla repressione del desiderio ma, al contrario, alla padronanza di sé ottenuta modificando «gli elementi costitutivi della soggettività morale»60. Tale processo di educazione o addestramento morale non si può mai dire concluso, come rileva Seneca quando ci esorta a «imparare per tutta la vita a vivere», ossia a «trasformare l’esistenza in un esercizio permanente»61. L’essere umano, secondo la definizione di Epitteto, è «l’essere che è stato delegato alla cura di sé», e pertanto il principio secondo cui dobbiamo prendere cura di noi stessi, del nostro corpo e della nostra anima, fino a diventare padroni di noi, «è un principio valido per tutti, continuamente e per l’arco intero della vita»62. L’oggetto dell’etica è quindi la creazione di un certo tipo di individuo e il suo ambito di applicazione è l’esistenza stessa nella sua interezza. La quarta constatazione: se la cura di sé (che è al tempo stesso processo di costituzione della propria soggettività) non ha mai fine, significa che non esiste una natura umana ‘vera’ in attesa di essere raggiunta o liberata per mezzo di pratiche di liberazione

59. Ibidem. 60. La cura di sé, cit., p. 70. Foucault parla di una «etica della padronanza» (ivi, p. 68). 61. Ivi, p. 52. 62. Ivi, p. 50 s.

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o emancipazione. La stessa cura di sé è pratica di libertà63. Se la libertà è la condizione ontologica dell’etica, questa è la forma riflessa che la libertà assume. L’etica greco-romana della cura di sé costituisce appunto il modo in cui la libertà individuale fu pensata come etica. Il tema fondamentale dell’etica antica era quello di conoscersi e controllarsi, di non essere schiavo delle proprie passioni, quindi di essere libero. Secondo Foucault, ciò risulta in uno spostamento dell’intera tematica sul piano politico, già che la libertà è in sé politica, e poco importa che si tratti della libertà dalle proprie passioni. Foucault sottolinea come per i greci (almeno nella sua lettura) il governo di sé e quello degli altri non debbano essere distinti qualitativamente, visto che entrambi fanno parte della medesima disciplina, l’arte di governare. La cura di sé implica la relazione con gli altri, sia nella figura del maestro o dell’amico cui ricorrere per ricevere precetti o per avere consiglio, sia nella figura dei concittadini con i quali si divide il compito di reggere la polis (o nella figura dei sudditi da governare, quando si tratti della tradizione imperiale)64. Foucault tenta quindi di recuperare al pensiero politico contemporaneo la questione del soggetto etico, distinto dal soggetto giuridico delle teorie tradizionali, e lo fa rifacendosi a un’etica incentrata sulla cura di sé vista come pratica di libertà. Ma questo non significa che egli ci inviti a un impossibile ritorno all’antichità e alle sue pratiche di vita. Il suo giudizio sui greci è tagliente: «Non [li ho trovati] un granché. Sono inciampati subito in ciò che mi sembra essere il punto di contraddizione della 63. Le osservazioni seguenti sono basate su L’etica della cura di sé come pratica della libertà, cit. 64. La cura di sé e il potere su di sé hanno quindi una posizione primaria, ma non escludono né la cura degli altri, né l’esercizio del proprio potere sugli altri. La classica figura del tiranno, paradigma del governante che abusa del suo potere, è caratterizzata dall’incapacità di porre un freno ai propri desideri e di imporli ai sudditi. Colui che non sa dominare se stesso, corre dunque il rischio di trasformarsi in un tiranno per gli altri. La tradizione successiva, quella cristiana, rovescerà quest’ordine di priorità, vedendo nella cura di sé una forma di amor proprio egoistico, un difetto morale causa di tanti mali, e predicherà quindi la rinuncia di sé. Ma questa è un’altra storia…

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morale antica: da un lato una ricerca ostinata di un certo stile dell’esistenza, dall’altro lo sforzo di renderlo comune a tutti»65. E del resto, nel suo breve scritto sull’illuminismo, Foucault insiste sull’importanza di riflettere sull’oggi, di pensare il tempo attuale e di creare quella che egli chiama, un po’ oscuramente, «un’analitica del presente, una ontologia di noi stessi»66. Egli ricorre agli antichi perché essi dimostrano che è possibile (dato che lo è stato una volta) «pensare la soggettività in modo diverso»67. Ciò che gli preme è mostrarci come sia possibile per l’individuo elaborare nuove soggettività per mezzo di pratiche di libertà, che non devono necessariamente e spesso non possono essere le stesse dei greci e dei latini. Nelle sue ultime interviste prima della morte, Foucault si è occupato di alcune di queste pratiche di libertà che si offrono all’uomo contemporaneo, particolarmente in relazione all’esperienza omosessuale. Proprio leggendo queste testimonianze, appare evidente che Foucault rifiuta la nozione di identità, ivi inclusa quella di identità sessuale: l’individuo omosessuale non deve affermare la propria identità, ma far valere al massimo la “forza creativa” di una sessualità non normativizzata. La sessualità omosessuale diventa pratica di libertà nel momento in cui è vissuta come scelta e non come necessità, come comportamento e non come espressione di una natura immutabile, di un’identità omosessuale68. Il processo di soggettivazione va quindi inteso come una libera scelta in favore di una certa soggettività, attingibile per mezzo di determinate esperienze, di determinati comportamenti, di determinate pratiche. È nella scelta delle proprie soggettività (già che, come detto, non ne esiste una fissa e immutabile) che 65. Il ritorno della morale, cit., p. 264. 66. Michel Foucault, Che cos’è l’illuminismo?, in Id., Archivio Foucault 3, cit., p. 232. 67. Stefano Catucci, Introduzione a Foucault, Roma-Bari 2000, p. 152. 68. Vedi Michel Foucault, Scelta e atto sessuale, in L’illustrazione italiana, 13, 1983, pp. 88-94; Id., De l’amitié comme mode de vie, in Id., Dits et écrits, Paris, 1994, vol. IV, pp. 163-167; Id. Michel Foucault, une intervue: sexe, pouvoir et la politique de l’identité, in Id., Dits et écrits, cit., pp. 735-746.

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l’individuo manifesta dunque la propria libertà, sottraendosi alle relazioni di dominazione che gli impongono l’assunzione di una certa identità, ma non a quelle di potere nelle quali, anzi, egli incontra un orizzonte di possibilità concrete di realizzazione di sé. Rompere i rigidi lacci dei rapporti di dominazione che ci impongono un’identità, esercitare resistenza contro il potere di forze che cercano di farci assumere determinate soggettività, rendersi in una parola padroni di se stessi: questo mi sembra essere il messaggio che l’ultimo Foucault ha cercato di trasmetterci nelle sue ultime interviste.

4. Osservazioni conclusive All’inizio di questo scritto ho definito Luhmann e Foucault due pensatori apparentemente distanti tra loro. Credo che, per quanto breve, l’analisi seguita a tale affermazione abbia mostrato il senso di quell’avverbio. Entrambi concepiscono il potere non come un’essenza, ma come una relazione multilaterale e creativa. Ma mentre nel caso di Luhmann esso si limita a creare e determinare volontà, scelte, strategie di azione, nel caso di Foucault esso contribuisce a creare soggettività. In Luhmann, i sistemi psichici sono black boxes destinate a restare inaccessibili le une alle altre se non per mezzo della comunicazione. Così, ad esempio, il potere pone in relazione tra loro due sistemi psichici solo nel senso di selezionare una serie di opzioni per l’uno e per l’altro. Ma il processo di formazione dell’individualità di ciascuno dei due sistemi viene toccato solo in maniera contingente da tale comunicazione. Le relazioni di potere possono avere influenza su di esso come qualsiasi altro fattore ambientale. In Foucault, invece, il potere è decisivo nella formazione di soggettività individuali. L’individuo sviluppa tali soggettività solo nel contesto di relazioni di potere con altri individui o con quelle forme cristallizzate di relazioni di potere che sono le istituzioni. Ciò comunque non va visto nell’ottica funzionalista

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di Luhmann. Non è che io sviluppi semplicemente una determinata soggettività in base alla funzione da me assolta in una certa relazione di potere (ad esempio in quanto professore, o in quanto genitore, o in quanto governante). Certo, anche la funzione riveste un ruolo importante, essa è una delle esperienze per mezzo delle quali l’individuo crea la sua soggettività (o meglio: le sue soggettività), ma Foucault apre una breccia per l’intervento della libertà e della scelta individuali. Le relazioni di potere, di qualunque tipo esse siano, confrontano tra loro forze libere e stabiliscono la misura in cui Alter riesce ad essere libero, che è al tempo stesso la misura in cui Ego gli permette di essere libero. Non vi è mai, comunque, una situazione di equilibrio o di stallo. La relazione tra le forze è instabile, il confronto non termina mai – a meno che uno degli attori non esca di scena (e anche in questo caso non è detto che esso non continui a influenzare l’altro con il suo ricordo o addirittura con il semplice fatto della sua assenza). Per quanto efficaci possano essere i meccanismi del potere, vi è sempre spazio per la resistenza, la renitenza, il rifiuto. Può darsi che il condensarsi e l’articolarsi dei punti di resistenza all’interno di un tessuto di potere porti a una rivoluzione, a una “grande rottura”, ma non dobbiamo necessariamente attendere quel momento. Scettico nelle possibilità dei grandi movimenti di liberazione di massa, il filosofo francese preferisce confidare nell’individuo, nella sua capacità di vivere un’esistenza che sia lotta e affermazione continua della propria libertà, esistenza che quindi al tempo stesso possiede una forte valenza etica e politica. Certo, in mancanza dei grandi ideali della giustizia o dell’uguaglianza, non è facile per l’individuo muoversi nella rete delle relazioni di potere o individuare (e magari spezzare) i nodi della dominazione. D’altro canto, Foucault è convinto che la ricerca di una forma di morale che cerchi di essere accettabile per tutti (ossia, per Foucault, tale che tutti si dovrebbero sottomettere ad essa) sia catastrofica69. In questo senso, l’esito ultimo 69. Il ritorno della morale, cit., p. 272.

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del pensiero foucaultiano sembra essere quello di un’etica antiuniversalistica. Però proprio nell’insistita opposizione a forme di morale universale, così come in quella a ogni relazione di dominazione, consiste in fondo l’affermazione di un punto di vista non relativista, un ubi consistam etico e politico che cerca disperatamente di attribuire all’individuo quella dignità e quel peso ontologico perduti nel corso dell’età moderna (ma la perdita era già iniziata da tempo in età antica e si era aggravata ancor più nel Medioevo). Parlo di peso ontologico perché ritengo che l’individuo foucaultiano, per quanto non sia un soggetto in senso classico, ne possiede uno considerevole (forse in questo consiste la summenzionata «ontologia di noi stessi»). Mentre Luhmann, una volta liberatosi del soggetto, sa solo pensare l’individuo in quanto sistema psichico autopoietico e inaccessibile o in quanto funzione, Foucault gli attribuisce una densità inaspettata. Per usare una metafora della fisica quantistica, è come se le teorie basate sul soggetto cartesiano considerassero gli individui come particelle, e Foucault li considerasse come onde. Non meno reali, non meno tangibili, in fondo, ma di diversa natura. Un soggetto che non è hypokeimenon, ma punto di incontro di forze, sempre mutevole, sottoposto a continue tensioni esterne, eppure incessantemente libero. Forse sta proprio in questa rivoluzione del modo di pensare l’individuo e la soggettività il grande legato che Foucault ha trasmesso alla filosofia politica contemporanea – un legato che è, al tempo stesso, un invito a pensare diversamente non solo il potere, la politica o l’etica, ma anche l’uomo. Un invito non facile da seguire, ma in fondo irresistibile.

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«Concepire l’equilibrio»: la forza, la giustizia, l’obbligo e il loro legame con la corporeità attraverso Simone Weil

Nella catastrofe del nostro tempo, carnefici e vittime sono anzitutto, gli uni come gli altri, involontari testimoni dell’atroce miseria nella quale siamo immersi. (Simone Weil, La prima radice)

1. Il prodigioso potere trasfigurativo della forza

C

ausa delle guerre: ogni uomo, ogni gruppo umano si sente, a ragione, legittimo signore e possessore dell’universo. Ma questo possesso è mal compreso, se non si capisce che per ciascuno la via d’accesso – per quanto è possibile all’uomo sulla terra – passa per il proprio corpo; (per il finito)1.

Com’è noto Simone Weil si interroga instancabilmente e con affilata audacia teorica sul tema della forza, talvolta declinato sotto il segno della violenza, talaltra sotto quello della guerra, ma sempre senza perdere di vista ciò che con la sua singolare capacità d’intuizione e penetrazione ella concepisce come “lo straordinario potere” che essa veicola, che essa dispiega quando la vediamo all’opera, quando assistiamo o partecipiamo allo spettacolo del suo dominio, alla messa in scena della sua potenza. Nondimeno, ciò che mette conto sottolineare, è che dalla sua idea della “forza” traspare in filigrana un sostanziale signifi-

1. S. Weil, Quaderni, tr. it. e Introduzioni ai 4 voll. di G. Gaeta, Milano 1982-1993, vol. I, p. 244.

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cato filosofico che è l’asse portante di tutte le sue considerazioni su questo tema. Ovvero, la forza implica un assolutamente altro da sé, addita proprio ciò che le è più distante, segnala quanto le appare più estraneo: essa, infatti, esprime e mette in mostra la dimensione finita, limitata, contingente e transeunte dell’umano, giacché essa è l’indice, il segno indelebile, la cifra imprescindibile della “miseria umana” cui sempre allude la minaccia della sua potenza, del suo potere sui viventi2. Ora, il luogo in cui e a partire dal quale la forza manifesta tutte le sue micidiali potenzialità, dipana tutte le sue tremende risorse è la dimensione corporea degli esseri umani3, ovvero essa svela il suo sortilegio nel contatto col corpo umano, col versante più esposto di ognuno di noi, più fragile e vulnerabile, sempre indifeso rispetto al potere annientante, nullificante, “mortale” della forza stessa, che è spesso quello stesso corpo umano a concretizzare esercitandola. Sotto questa luce si comprende il senso dell’affermazione riportata: il potere illimitato cui ognuno, per una sorta di intrinseca, naturale vocazione, aspira «passa» per il corpo, attraversa e percorre il piano parallelo del «finito» che interseca la nostra vita materiale, lo spessore della nostra esistenza concreta, la densità del vissuto di ognuno, la natura intrinseca della nostra mortalità. Allora, è nella tensione fortissima che si instaura tra limite e illimitato, tra potere e impotenza, tra forza e fragilità, tra violenza che viola e corpo violato, che si gioca la comprensione della dialettica del dominio che da sempre contrappone, e al contempo mette in relazione, ogni essere umano 2. È questo il tema del bellissimo saggio L’Iliade, poema della forza, in S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. it. a cura di C. Campo, Roma 2 1984, pp. 9-41 [Torino 1967], che analizzeremo distesamente in queste pagine. 3. Il corpo umano è al centro di molte delle considerazioni di Simone Weil; si veda per esempio l’ampia sezione che vi è dedicata nelle sue Lezioni di filosofia (1933-34), Raccolte da A. Reynaud-Guérithault, tr. it. di L. Nocentini, Milano 1999, pp. 19-89; oppure il bel saggio sul ruolo del corpo nella percezione e, di conseguenza, nella conoscenza umana intitolato La percezione o l’avventura di Proteo, in Ead., Primi scritti filosofici, tr. it. e Introduzione di M. Azzalini, Genova 1999, pp. 136-65.

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col suo vicino, con l’altro da sé, col suo prossimo. L’universo, infinito per definizione, si trova, pertanto, a essere misurato col metro “umanissimo” del finito, anzi con quanto di più umano, “troppo umano”, ci configura, ci plasma, ci contraddistingue: la corporeità. Se si assume l’idea weiliana che «la nozione greca di misura ha senso solo rispetto alle dimensioni del corpo umano»4, nel calcolare l’estensione della forza, e del suo “illimitato” potere, occorre aprire il varco a una lettura trascendentale della forza stessa. Una visione che consenta di intravederne l’ampiezza sconfinata, in-finita, in grado di travalicare ogni limite umano, sfondando qualsiasi dimensione già nota e muovendo al di là delle “colonne d’Ercole” del nostro arcaico e protagoreo misurare la realtà (e l’irrealtà che essa cela) sulla base delle dimensioni del corpo umano. In tal senso, la filosofia weiliana della forza possiede un’intima dimensione bio-filosofica5, poiché ingloba e include il corpo umano, proprio in quanto esso si configura come corpo vivente ed essenzialmente come corpo-misura, dentro l’analisi avvertita e consapevole del dominio e della forza come leggi – atroci e spietate “regole auree” – della relazione tra gli esseri umani. I temi della giustizia, della violenza, del potere che filtrano e traspaiono dalla oggettivizzazione-tematizzazione della forza, protagonista indiscussa delle relazioni tra individui e tra gruppi, risultano illuminati e messi a fuoco nel confronto essenziale con la corporeità, con la dimensione fisico-biologica dell’umano. Infatti, il bios si configura come una caratteristica ineludibile nella misura in cui connette stabilmente e indissolubilmente ogni singolo sia alla natura, al cosmo vivente degli esseri, sia agli altri umani, ai propri simili, istituendo, per tale via, legami istintivo-naturali per un verso, e socio-culturali per l’altro. Il corpo disegna e mostra, allora, il profilo stesso della 4. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. I, p. 147. 5. Ho usato e tematizzato l’espressione “bio-filosofia” nel mio Pluversalismo e biofilosofia: la dimensione corporea dei diritti e delle libertà, «La rivista di pedagogia e didattica», 3-4, 2005(II), pp. 57-60.

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nostra esistenza, ne traccia i limiti, ne esplica le potenzialità, ne manifesta lacune e qualità: noi siamo il nostro corpo, e la nostra vita è quella che il nostro corpo consente che sia. E poiché la forza e i suoi effetti, le conseguenze che scaturiscono dall’esercizio attivo o passivo della forza, occupano un posto di primissimo piano nell’esistenza umana, essa è un luogo privilegiato d’osservazione sul mondo e su coloro che vi abitano, una lente d’ingrandimento che rivela un’antropologia, ed è rivestendo questo ruolo che essa viene a occupare il cuore stesso di alcune tra le più profonde riflessioni weiliane. In uno dei suoi saggi più celebri, e a buon diritto più celebrati, L’Iliade, poema della forza, Simone Weil dà conto di ciò che questo potere straordinario rappresenta nell’ambito della vita umana. Nel capolavoro della poesia omerica ella riesce a scorgere, anzi a «leggere» al di là delle vicende di donne, di uomini e di divinità umanizzate, la descrizione di un affresco di potente lucidità e pregnanza che illustra eventi dell’esistenza umana che oltrepassano le epoche storiche e i luoghi geografici per tramutarsi in narrazione puramente trascendentale di rapporti, di legami, di interrelazioni fra protagonisti che proprio l’intima natura universalmente “umana” riesce a rendere valida in ogni tempo e in ogni luogo. L’Iliade è, pertanto, il racconto di ciò che donne e uomini sono, possono essere e sempre saranno quando vengono a contatto con la forza, quando ne subiscono, da qualunque versante vengano osservati – quello delle vittime, al pari di quello dei carnefici –, la contaminazione. Il vero eroe, il vero argomento, il centro dell’Iliade, è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini6.

La carne degli esseri umani, il corpo che fa degli umani degli esseri viventi, è il luogo, lo spazio specifico in cui si consuma la malsana relazione con la forza; non perché non esista una forza 6. S. Weil, L’Iliade, poema della forza, tr. it. cit., p. 11.

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in grado di abbattere la dimensione morale dell’umano, quell’universo valoriale e assiologico che costituisce il riferimento proprio e peculiare che consente a ognuno di identificare l’altro da sé e di riconoscere se medesimo come appartenente al “consorzio” degli umani, ma perché solo quando la forza passa attraverso il corpo, lo penetra e lo avvilisce, sino a impossessarsene, essa giunge a compiere, dispiegando il suo massimo grado di potenza devastante, la sua opera distruttrice, la sua missione di annientamento. In un certo senso, potremmo dire che la forza ha bisogno del corpo umano per mostrare ciò di cui è capace; il corpo ferito, violato, offeso è lo spazio, il topos insostituibile del suo trionfo. Letta attraverso queste lenti, l’Iliade descrive, anzi si dovrebbe dire con un anacronismo, fotografa con iperrealistica efficacia l’attimo in cui l’esercizio della forza è “all’opera”, il momento stesso nel quale tutti, proprio tutti gli esseri umani che vengono a contatto con essa vengono modificati, trasformati, trasfigurati da quel contatto medesimo. E Simone Weil è affascinata e sedotta da quell’immagine, ed è per questo che ella traduce in espressioni verbali e metafore di rara bellezza ed energia quel disancoramento dal reale che la forza produce – lo iato, anzi l’abisso che essa spalanca tra il suo prima e il suo dopo. Di certo, non ha torto quando afferma che protagonista dell’Iliade è la forza col suo straordinario potere, quel dominio che si esercita sui corpi e sull’anima7 degli esseri umani modificandoli definitivamente, eternamente, al punto che essa può dirsi «oggi come un tempo, al centro di ogni storia umana», consentendo all’oggi di riflettersi nell’Iliade come in uno specchio, «il più bello, il più puro degli specchi»8. L’Iliade rimanda a noi l’immagine speculare di ciò che siamo in quanto umani e, 7. Il legame tra “corpo” e “anima” è per Simone Weil fondamentale, ma è tuttavia un nesso che viene oggigiorno minacciato. Nei suoi appunti leggiamo: «L’anima è l’essere umano (il corpo umano…) considerato come avente valore in sé» (Quaderni, tr. it. cit., vol. I, p. 142); e poco oltre: «La civiltà in cui viviamo, sotto tutti i suoi aspetti, schiaccia il CORPO umano. Lo spirito e il corpo sono divenuti estranei l’uno all’altro. Il contatto è perduto» (ivi, p. 149). 8. S. Weil, L’Iliade, poema della forza”, tr. it. cit., p. 11.

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proprio perché tali, sempre in balia della forza – deboli, fragili, vulnerabili, in ogni momento esposti alla nostra fine, alla morte verso cui la nostra vita tende sin dal suo primo giorno, sin dalla nostra nascita. Il vigore del corpo, la sua bellezza9, la sua potenza non sono che un aspetto, quello normale, banale, di ciò che fisicamente noi siamo; la forza spalanca e costringe il nostro sguardo alla visione del versante in ombra della nostra natura corporea, del suo lato opaco, oscuro, rivelandone l’appartenenza al mondo degli oggetti. Un corpo umano è un essere vivente, ma è anche una cosa, un oggetto tra i tanti che la forza svela nella sua scabra nudità, rivelando l’essenza desolata della sua natura “cosale”, il suo essere una natura viva e vitale sempre in procinto di divenire “natura morta”, di tramutarsi, dunque, in cosa tra le cose. La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C’era qualcuno, e un attimo dopo non c’è nessuno10.

Il trionfo della forza è in questa plurima trasformazione, nella sequenza di inimmaginabili metamorfosi che realizza: la vita che diviene morte, il vivente che diviene cosa, corpo inanimato e disabitato, puro e semplice oggetto privato d’ogni tratto umano, per sempre espropriato di ciò che lo rende tale, la sua anima. Questo terrificante potere concede alla forza non soltanto la capacità indiscussa di evocare e di concretizzare la morte, la reificazione del vivente, ma anche di anticiparla, di presagirla, mostrandone tutto l’orrore prima ancora che essa si compia, esplicitando e disvelando così quell’estrema “miseria” che connota l’umano e che ne è il vero emblema, il suo incancellabile 9. «Il corpo umano è l’oggetto bello per eccellenza, l’unione dello spirito e della natura vi si trova realizzata al sommo grado»: così Simone Weil in Premiers écrits philosophiques, Paris 1988, tome I, p. 280, citato in S. Weil, Lezioni di filosofia, tr. it. cit., p. 278. 10. S. Weil, L’Iliade, poema della forza, tr. it. cit., p. 11.

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segno di riconoscimento. Infatti, Simone Weil nota con acume che più forte della «forza che uccide» è l’«altra forza, quella che non uccide ancora», poiché essa in quell’intervallo temporale dell’attesa, in quel “non ancora”, in quel futuro immancabilmente prossimo mostra e fa sfoggio di un ulteriore, strabiliante potere, quello che «muta l’uomo in pietra», ma – per sua sventura – lasciandolo allo stesso tempo uomo, sospeso a metà strada tra la condizione umana e quella oggettuale. Ecco di cosa è capace questo «prodigioso» potere: esso sta nel […] mutare in cosa un uomo che resta vivo. È vivo, ha un’anima; è, nondimeno, una cosa. Strana cosa una cosa che ha un’anima; strano stato per l’anima. Chi sa quale sforzo le occorre a ogni istante per conformarsi a ciò, per torcersi e ripiegarsi su sé medesima? L’anima non è fatta per abitare una cosa; quando vi sia costretta, non vi è più nulla in essa che non patisca violenza11.

Ciò che qui viene descritto è l’inafferrabile evento che occupa l’attimo infinito che intercorre tra il presagio, la minaccia di morte e la sua realizzazione, il tragico compimento di quell’imminente pericolo. Il soggetto che ne è protagonista, la vittima designata viene così a trovarsi sospesa tra la vita e la morte, tra uno stato umano e uno non-umano, nell’istante in cui la sua natura dinamica di vivente subisce la definitiva trasformazione che mortificherà per sempre la sua prorompente vitalità nella statica, inerte condizione di oggetto. È tutta qui la differenza, atroce discrepanza, tra ciò che Weil definisce la “forza che uccide” e l’altra, la forza che “pietrifica”, un attimo prima di uccidere. Entrambe possiedono la chiave di quel passaggio arcano, inconcepibile che trasfigura un essere umano pensante (essere umani equivale ad essere pensanti) in «materia» che «non può pensare più nulla»12, poiché di fronte alle prodigiose potenzialità della forza, anche quand’essa è ancora inespressa, il

11. Ivi, p. 13. 12. Ibidem.

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più debole è messo nella condizione in cui «la sua carne perda la principale proprietà della carne viva», quella di «sussultare», ovvero di reagire, di fremere, di trasalire, annullando ogni pallida differenza residua tra essere e non-essere: «lo spettacolo di un uomo ridotto a questo grado di sventura agghiaccia pressappoco come la vista di un cadavere»13. Difatti, egli è ancora un essere umano, eppure è già una cosa; in lui la vita si è raggrumata in un solo punto, il cui peso specifico è equivalente a quello della materia inerte, di pura e semplice massa. Qui si staglia ancor più netta l’incommensurabilità ontologica tra l’essere umano e il cadavere, che rispetto al primo è davvero, radicalmente e definitivamente, il “totalmente altro”, l’inconoscibile “alieno”, l’imperscrutabile “estraneo”, il “diverso” per antonomasia, nella sua peculiare qualità di “umano non più umano”, di ciò che è divenuto per sempre pura e semplice cosa. Allora, comprendere la forza e il suo potere trasfigurativo significa anche giungere a concepire quell’incommensurabile diversità qualitativa che contraddistingue la natura sostanziale, l’intrinseca essenza degli umani rispetto a quella degli oggetti, differenza ontologico-esistenziale fondamentale di cui ognuno è sin da principio più o meno inconsciamente consapevole14. Nel nostro relazionarci con gli oggetti ogni volta noi misuriamo anche la distanza che separa questo tipo di rapporto da quello che intratteniamo con altri esseri umani, ovvero immancabilmente ci comportiamo in modo molto diverso nei confronti delle persone, di altri esseri viventi simili a noi, rispetto a quel che facciamo quando di fronte abbiamo soltanto cose, enti inanimati. Simone Weil chiarisce in questo modo tale decisivo punto di vista:

13. Ivi, p. 14. 14. Su questo aspetto sono illuminanti le considerazioni di P. Winch, nel suo Simone Weil: “la giusta bilancia”, tr. it. e Introduzione di F.R. Recchia Luciani, Bari 2005, contenute in particolare nel capitolo XII, intitolato per l’appunto “Incommensurabilità”.

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Gli esseri umani che vengono a trovarsi intorno a noi hanno, grazie alla loro sola presenza, un potere (che appartiene soltanto a loro) di arrestare, reprimere, modificare ciascuno dei movimenti che il nostro corpo abbozza; un passante devia il nostro cammino per una strada in un modo diverso da quello di un cartello; quando siamo soli non ci alziamo, non camminiamo, non stiamo in una stanza nello stesso modo in cui lo si fa quando c’è un visitatore.

Vi è, pertanto, qualcosa che ella definisce come «l’influenza indefinibile della presenza umana» che condiziona sempre i nostri movimenti e la nostra relazione sensoriale e percettiva col mondo. Ebbene, coloro che sono condannati alla morte perdono proprio questo genere di influenza, tale innata capacità di modificare il comportamento altrui per mezzo dell’innegabile impatto sugli altri che ognuno possiede anche in virtù della propria sola presenza, poiché «dinanzi a questi uomini gli altri si muovono come se loro non esistessero; ed essi a loro volta, nel pericolo di esser ridotti al nulla in un attimo, imitano il nulla»15. Questi sventurati in bilico tra la vita e la morte prendono a mimare ciò che presto saranno, anticipano già il loro immediato futuro: il terrore pietrificante, paralizzante della morte li rende più simili a ciò che stanno per diventare che a ciò che apparentemente ancora sono. Tale condizione d’attesa e sospensione può addirittura divenire permanente per i più infelici: «[…] vi sono altri esseri più sventurati ancora che, senza morire, sono divenuti cose per tutta la loro vita», e questi danno luogo persino a «un’altra specie umana, un compromesso tra l’uomo e 15. S. Weil, L’Iliade, poema della forza, tr. it. cit., p. 15. Anche nei Quaderni sono presenti numerosi appunti relativi alla lettura dell’Iliade, come per esempio quello che segue: «Dal momento che può uccidere, la forza può, anche senza uccidere, fare dell’uomo ancora vivo una cosa. Stato violento, morte e vita. Il più debole ha appena la scelta tra questo stato e quello di cadavere. […] Questo essere (il debole), che in un istante può essere trasformato in una cosa, non impone ai riflessi del forte altri limiti, se non quelli che richiederebbe la presenza di una cosa. […] Il debole da parte sua, poiché ogni espressione della sua esistenza è divenuta così pericolosa, imita la cosa inerte: “Non si vide entrare il grande Priamo”» (ivi, vol. I, pp. 122-23).

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il cadavere». È per noi certamente una contraddizione logica, un controsenso, un’incongruenza che un essere umano divenga cadavere, eppure «quando l’impossibile è divenuto realtà, la contraddizione diventa strazio dell’anima»16.

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Questa cosa aspira ogni momento ad essere un uomo, una donna, e in nessun momento vi riesce. È una morte che si allunga, si stira per tutto il corso di una vita; una vita che la morte ha raggelato molto prima di averla soppressa17.

La terribile condizione che qui viene descritta può essere assunta come paradigma della disumanità, o meglio di un’umanità definitivamente perduta: quegli esseri, il cui status non è più umano perché hanno smarrito le caratteristiche pregnanti che statuiscono la propria appartenenza al genere umano, sono per coloro che in essi si imbattono equivalenti a cadaveri ambulanti, a cose, al nulla per l’appunto18. Una loro possibile “incarnazione”, per esempio, nel corso del XX secolo totalitario, corrisponde alla figura del Muselmann che compare nei campi di sterminio nazisti come prodotto terminale della biopolitica in quanto tanatopolitica realizzata dal regime hitleriano, soggetti privati, espropriati a tal punto della vita da essere divenuti null’altro che «un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia» (Amery), per i quali – per usare un’espressione di Agamben – «la morte è, a questo punto, un semplice epifenomeno»19. 16. S. Weil, L’Iliade, poema della forza, tr. it. cit., p. 15. 17. Ivi, pp. 15-16. 18. L’immagine ricorda da vicino quella dei “morti viventi” descritti da tanti testimoni dell’Olocausto degli ebrei nella Germania hitleriana. Di recente mi sono occupata di questo tema in un saggio sull’interpretazione che dà H. Arendt dei Lager nazisti: L’esperienza arendtiana dell’estremo: la deumanizzazione del corpo nelle ‘fabbriche della morte’, in F. Fistetti-F.R. Recchia Luciani (a cura di), Hannah Arendt. Filosofia e totalitarismo, Genova 2007. 19. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Torino 1998, p. 80. L’espressione di J. Améry, «intellettuale ad Auschwitz», che viene riportata si trova nel libro di Agamben a p. 37.

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Egli è veramente la larva che la nostra memoria non riesce a seppellire, l’incongedabile col quale dobbiamo deciderci a fare i conti. In un caso, infatti, egli si presenta come il non-vivo, come l’essere la cui vita non è veramente vita; nell’altro, come colui la cui morte non può essere detta morte, ma soltanto fabbricazione di cadaveri. Cioè, come l’iscrizione nella vita di una zona morta, e, nella morte, di una zona viva. In entrambi i casi – poiché l’uomo vede andare in pezzi il suo legame privilegiato con ciò che lo costituisce come umano, cioè con la sacertà della morte e della vita – a essere revocata in questione è la stessa umanità dell’uomo. Il musulmano è il non-uomo che si presenta ostinatamente come uomo e l’umano che è impossibile sceverare dall’inumano20.

La paradossale epoche che questi speciali internati – o meglio, in termini weiliani, coloro che appartengono a questa inedita “specie umana”, punto intermedio tra essere umano vivente e cadavere – esperiscono quotidianamente non è una pura e semplice sospensione del giudizio, ma una specie di interruzione generalizzata di tutte le loro facoltà mentali, di ogni elemento morale o spirituale della loro personalità, di ogni benché minimo residuo di vita immateriale, ovvero non strettamente biologica o rispondente a mere necessità fisiologiche. L’inimmaginabile, perversa e inconcepibile parentesi in cui si trovano a sopravvivere, proprio in quanto, come spiega Primo Levi, «sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi» all’«infernale groviglio di leggi e divieti» che vige nel campo, li rende presto «dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente», al punto che «si esita a chiamare morte la loro morte». Per queste loro spaventose caratteristiche, essi divengono l’emblema della più abissale “miseria umana”, la cui descrizione consente di «racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo»: «un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero»21.

20. Ivi, p. 76. 21. P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, 41995, p. 82. Corsivi miei.

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Simone Weil, contemporanea dei campi nazisti seppure ignara della loro esistenza22, sa penetrare così a fondo nell’epopea omerica da intuire che quella forza che ella vede nella narrazione dell’Iliade rivestire il ruolo di protagonista unica e assoluta ha il potere di cancellare, di annullare prodigiosamente la principale caratteristica che segna, connota e identifica gli esseri umani, ovvero il pensiero, “la scintilla divina” che li rende parte dell’umanità, membri del consorzio umano. La sua capacità d’intuizione, insieme lucida e visionaria, le consente di scorgere che perché ciò accada non occorre essere morti, basta aver rinunciato a pensare, aver definitivamente abdicato alla propria umanità di esseri pensanti, aver ceduto e abbandonato ciò che caratterizza gli esseri umani proprio e in quanto esseri che pensano, poiché si è umani se si pensa, ovvero quando si pensa. Peter Winch, nel suo libro su Simone Weil, ha molto insistito sul ruolo che per lei il pensiero gioca nella vita degli esseri umani, nel dare forma alle loro esistenze, sebbene

22. A tal proposito non si può fare a meno di citare un passaggio che, scritto da Simone Weil nel 1934 (nelle sue importanti Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, tr. it. a cura di G. Gaeta, Milano 1983, p. 51), suona davvero come un’impressionante premonizione riguardo al trattamento che gli ebrei subiranno da parte dei nazisti: «Ma gli uomini sono esseri essenzialmente attivi, e posseggono una facoltà di autodeterminarsi a cui non possono mai abdicare, anche se lo desiderano, se non il giorno in cui morendo ricadono nello stato di materia inerte; cosicché ogni vittoria sugli uomini racchiude in sé il germe di una possibile disfatta, a meno di spingersi fino allo sterminio. Ma lo sterminio sopprime la potenza sopprimendone l’oggetto». A ciò si aggiunga il seguente passaggio dei Quaderni: «Vi è qualcosa di infinito nello sterminio totale di un popolo. In un certo senso, è vero, l’azione sembra disinteressata, perché non c’è né bottino, né schiavi, né soggetti, n’è coazione. Ma c’è una specie di onnipotenza, la distruzione in un istante di secoli accumulati»; ivi, vol. I, p. 316. D’altra parte, Simone Weil si sofferma in pagine bellissime sulla storia di uno sterminio, quello che, compiuto a opera degli Albigesi, ha cancellato nel XIII secolo la civiltà d’Oc: su ciò si veda S. Weil, I catari e la civiltà mediterranea, tr. it. di G. Gaeta, con una Nota di G.L. Podestà, Genova 1996. Sul rapporto complesso tra Weil e l’ebraismo, si veda T.R. Nevin, Simone Weil. Ritratto di un’ebrea che si volle esiliare, tr. it. di G. Boringhieri, Torino 1997.

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l’accento su questo tema cada con intensità mutevole a seconda delle epoche della sua riflessione. In particolare, a partire dalle sue giovanili considerazioni su questo argomento, Winch si spinge sino ad affermare che Weil non si limita a sostenere «che il pensiero è una specie di attività, ma che è, piuttosto, attività esso stesso, o almeno è implicato dovunque vi sia attività – è, in un certo senso, l’ingrediente attivo in ogni attività vera. Pensa ad esso come pura spontaneità»23. Dunque, è in virtù di questa idea relativa alla suprema energia del pensiero, alla sua irriducibile capacità di espandersi illimitatamente che, di fronte al tremendo potere che ha la forza di tramutare esseri pensanti in «materia», Weil sottolinea come è proprio della materia l’assenza di pensiero, poiché un essere umano che sia divenuto, che sia stato trasformato in materia «non può pensare più nulla», è per sempre ridotto allo stato per definizione inumano di oggetto. Colui che possiede la forza avanza in un ambiente privo di resistenza senza che nulla, nella materia umana intorno a lui, sia di natura tale da suscitare tra l’impeto e l’atto quel lieve intervallo ove s’inserisce il pensiero. E dove non ha dimora il pensiero, non ne ha la giustizia né la prudenza24.

23. P. Winch, Simone Weil: “la giusta bilancia”, tr. it. cit., p. 16. Sul legame inscindibile tra pensiero e azione, o meglio sulla corrispondenza tra pensare e agire si innerva il fulcro dello stile filosofico weiliano, in base al quale la filosofia come attività di riflessione ha senso e valore solo in riferimento a una prassi, a un agire, a una coerente condotta di vita, attitudine che ho definito “socratismo” in un recente saggio cui mi permetto di rinviare: Lo sguardo perspicuo: filosofia e vita quotidiana. Il “socratismo” di Ludwig Wittgenstein e di Simone Weil, in A. De Simone-F. D’Andrea (a cura di), La vita che c’è. Teorie e forme dell’agire quotidiano, 2. voll., Milano 2006, vol. I, pp. 67-103. Tale centralità dell’azione è un aspetto così fondamentale da informare anche la metodologia didattica di Simone Weil insegnante di filosofia, su ciò si veda G. Gaeta, Una filosofia in atto e pratica, in S. Weil, Lezioni di filosofia, tr. it. cit., pp. 317-31. 24. S. Weil, L’Iliade, poema della forza, tr. it. cit., p. 21.

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In uno spazio privato del pensiero, dunque per sempre defraudato di ogni segno, di ogni traccia di umanità, non vi è posto per nessuna delle virtù etiche che fanno vivere insieme gli esseri viventi e che danno ai loro gruppi la coesione di una relazione sociale, di un rapporto tra pari: insieme ai singoli esseri umani muore ciò che li tiene insieme e li fa membri della stessa specie, e sparisce dileguandosi definitivamente anche l’etica stessa, di certo non l’unica vittima, ma forse la più illustre, del prodigioso potere trasfigurativo della forza.

2. L’insopprimibile tensione tra la “forza” e la “giustizia” Non vi sono altri limiti ai nostri voleri se non le necessità della materia e l’esistenza degli altri esseri umani intorno a noi. Ogni estensione immaginaria di questi limiti è voluttuosa, e così vi è voluttà in tutto ciò che fa dimenticare la realtà degli ostacoli. […] È anche per questo che la schiavitù è così piacevole per i padroni25.

In condizioni normali gli oggetti e gli altri esseri intorno a noi sono «ostacoli», si delineano per la loro stessa esistenza-presenza come limiti alla nostra volontà, tuttavia, in determinate situazioni e circostanze si può avvertire il piacere voluttuoso di una obliterazione, di una rimozione di tali «ostacoli». Uno degli stati che più facilmente permette di ottenere questo effetto è quello consentito dall’essere detentore di un potere, come per esempio accade al signore che, nell’esercitare la propria nietzscheana “volontà di potenza”, consegue una posizione nella quale il servo non rappresenta più per lui un ostacolo, un limite per la sua autonoma e libera volontà; pur persistendo la sua natura di essere vivente, egli non simboleggia più alcun impaccio, né un condizionamento per la libertà completa del signore. Simone Weil rilegge la dialettica hegeliana, che nella Fenomenologia

25. S. Weil, La Persona e il sacro, in Ead., Morale e letteratura, tr. it. a cura di N. Maronger, Pisa 1990, p. 39.

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dello spirito si incarna nelle figure servo/signore, a partire dalla nozione di rapporto, di relazione, e in definitiva di equilibrio. Ma quel che conta sono i termini del legame che viene a crearsi, la natura del vincolo che si stabilisce nell’interconnessione tra i ruoli e i soggetti che li ricoprono, e che mutano la relazione di dominio e il senso del potere che questo istituisce.

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Considerare sempre gli uomini al potere come cose pericolose. […] andarsi a spezzare contro la loro potenza [considerandosi] come vinti dalla natura delle cose e non dagli uomini. […] Quel che il potere ha di terribile è ciò che contiene di illimitato26.

Il potere, la forza che sono in grado di esercitare gli esseri umani può spingersi nella sua sfrontata illimitatezza sino a sfondare solide barriere, ad abbattere confini stabiliti, e quando non incontra più ostacoli, ovvero quando giunge finanche a non riconoscere gli altri in quanto tali, a cancellarli, occorre che venga considerata come del tutto equivalente alla dura, cogente necessità delle cose, senza più riconoscerne l’origine né l’appartenenza umana. È anche in tal senso che va intesa l’idea secondo cui la forza è capace di trasformare in cosa, di reificare persino chi la esercita, e non solo chi la subisce: da quel momento in poi l’imperio della forza è il solo evento necessitante e ineluttabile, e non abbisogna di alcun intervento soggettivo perché esso è già giunto a situarsi al di fuori dell’umano, sino ad assumere le sembianze della pura necessità. Ed è per questo che l’unica soluzione umanamente possibile per arrivare a concepire – sebbene non ad accettare – quella condizione di opprimente dipendenza che la relazione originariamente dinamica servo/signore immancabilmente innesca quando cessa di essere un punto di equilibrio e si sbilancia in una delle due direzioni «consiste nel sostituire l’idea insopportabile della costrizione […] con la nozione della necessità»27. 26. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. I, pp. 125-26. 27. Ivi, p. 154.

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Essere di fronte alla natura, non agli uomini, è la sola disciplina. Dipendere da una volontà estranea vuol dire essere schiavi. Ora, è questa la sorte di tutti gli uomini. Lo schiavo dipende dal signore e il signore dallo schiavo. Situazione che rende o supplici o tiranni, o le due cose a un tempo (omnia serviliter pro dominatione). Al contrario, di fronte alla materia inerte non vi è altra risorsa che pensare. [Non si può dipendere dagli esseri umani senza aspirare a tiranneggiarli. È questa la fonte di tutte le crudeltà private e pubbliche.] Trovarsi in faccia alle cose libera lo spirito; trovarsi in faccia agli uomini avvilisce, se si dipende da essi, e ciò avviene, sia che questa dipendenza prenda forma di sottomissione, sia che prenda forma di comando28.

La forza gioca un ruolo decisivo nell’universo degli esseri umani, e in particolare nella determinazione dei rapporti tra di essi, proprio perché nel suo esplicarsi la forza ha talvolta il potere di plasmare, modificare, erigere o abbattere tali relazioni, sempre di influenzarle. Nella rilettura weiliana dell’Iliade questo dato emerge con chiarezza, proprio nei passaggi riguardanti la condizione di sottomissione, di vera e propria schiavitù che viene a istaurarsi tra il vincitore e colei o colui che è stato vinto, divenendo una sorta di bottino di guerra. Da quel momento «in nessuna occasione lo schiavo ha il permesso di esprimere qualcosa, se non ciò che può piacere al padrone»; in quella situazione così disperata l’unico sentimento ammesso è «l’amore per il padrone» che può giungere «a un grado incredibile» quando si intravede nel padrone la possibilità, anche remota, di essere liberati, di ridiventare vivi, di tornare ad essere umani. «Non si può perdere più di quanto perda lo schiavo; egli perde ogni vita interiore. […] Tale è l’imperio della forza: un imperio che arriva lontano quanto quello della natura», poiché anch’essa «quando

28. S. Weil. L’ombra (Pesanteur) e la grazia, tr. it. di F. Fortini, Introduzione di G. Hourdin, Prefazione di M. Bettetini, Milano 31996, pp. 160-161 (per il primo dei due passi si è preferita la traduzione che si trova in Ead., Quaderni, tr. it. cit., vol. I, p. 137).

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entrano in gioco i bisogni vitali, cancella ogni vita interiore», proprio come i morsi della fame che riescono ad annullare «persino il dolore di una madre», così la «miseria dell’uomo» può renderlo «incapace persino di sentire la sua miseria»29. È anche in virtù di questo potere di ottundimento, di questa capacità nientificante che la forza bruta può essere paragonata solo alla brutalità della natura, in quanto entrambe possono aggrumarsi e rapprendersi «in un potere perpetuo di vita e di morte», un imperio «freddo» e «duro» come se provenisse «dalla materia inerte»30, per la quale non vige nient’altro che la legge della necessità equivalente a quella “legge di gravità” che, per mezzo della pesanteur, salda le cose e gli umani al mondo. Apparentemente, dunque, è soltanto situandosi dall’angolazione prospettica della necessità, riconoscendosi consapevolmente sottomessi esclusivamente alla dura legge delle cose, alle imposizioni della materia inerte e insensibile, e mai ad altri esseri umani, che ci si sottrae alle strette maglie che l’ingannevole rete della relazione dialettica tende a chi confida in essa sperando in un’illusoria reciprocità. Senza dubbio quel «che v’è d’intelligibile» nella dialettica – ovvero, ciò che di essa si riesce nitidamente a “pensare” – è unicamente la «nozione di rapporto», proprio in quanto sia per l’uso che ne fa Platone nei suoi dialoghi, sia nella relazione hegeliana servo-signore, ciò che emerge, ciò che per essa vale come spina dorsale concettuale è l’idea del rapporto geometrico, della misura, della simmetria, dell’equilibrio31. E difatti, almeno in astratto, il riconoscimento dialettico per essere efficace, vale a dire reciproco, deve essere un processo in grado di innescare una relazione simmetrica, un rapporto geometrico-quantitativo di corrispondenza, di equivalenza matematica biunivoca, la cui chiave sia l’equità, la «giusta bilancia»32. Tuttavia, tra le pieghe del dispositivo dialet29. S. Weil, L’Iliade, poema della forza, tr. it. cit., pp. 17-18. 30. Ivi, p. 18. 31. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. I, pp. 125-126. 32. Non è ovviamente un caso che sia proprio questo sintagma, spesso

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tico-relazionale si cela l’esercizio, tendenzialmente “illimitato”, del potere, del dominio, della forza. Vale a dire, è dall’interno stesso, dal nucleo conchiuso di quel legame che al contempo contrappone e interconnette i protagonisti della relazione dialetticamente significativa che si diparte e prende corpo la potenzialità e l’evenienza della sopraffazione e del dominio; più che una possibilità, un’infausta prospettiva sempre reale e concreta che il rapporto di reciprocità venga presto o tardi, su un versante o sull’altro, tradito e rovesciato in imposizione, abuso e prevaricazione. Le regole e le prescrizioni del dominio e del potere, in breve, prorompono dal cuore stesso, intimo e segreto, di una relazione simmetrica e paritaria che la dialettica apparentemente dispone con una promessa che non riesce quasi mai a mantenere perché, nel corso del tempo e della storia, sembra destinata ad essere ogni volta delusa e violata. Seguendo questa linea di pensiero Weil rilegge Hegel, ne reinterpreta l’idea dialettica di reciproco riconoscimento, pur rigettando come «una frottola ridicola» la celebre “negazione della negazione”: «Il signore è schiavo dello schiavo nel senso che lo schiavo FABBRICA il signore»33. Affermazione che vale solo e soltanto nella misura in cui può venire in ogni momento decostruita e capovolta al fine di ribaltarne soggetti e relativi ruoli, la cui chiave sta perciò tutta dentro il significato di reciprocità, di alternanza, di simmetrico equilibrio che essa illustra e cui dà vita. E, infatti, col variare del punto di vista, in virtù del puro e semplice ribaltamento prospettico, la dialettica servo-padrone si mostra a Weil con la durezza di un’impietosa ingiustizia verso il signore, un’iniquità dunque apparentemente “rovesciata”, inversa rispetto a ciò che si intende con l’espressione “ingiustizia sociale”, infatti: «Il padrone è l’essere detestato da tutti. E tuttavia è lui che fa vivere tutti. È curiosa questa ingiustizia»34. ricorrente nei testi e soprattutto negli appunti weiliani, a dare il titolo al libro di P. Winch su Simone Weil che abbiamo citato. 33. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. I, p. 127. 34. Ivi, p. 121. Corsivo mio. In questo appunto ella sta ricostruendo il

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D’altronde, se il «solo modo di conservare la propria dignità nella sottomissione forzata [è di] considerare il capo come una cosa»35, ciò significa che né il signore, né il servo sono in grado di accedere a un’altra possibilità pur di sottrarsi alle strettoie e ai vincoli imposti dalla propria reciproca relazione, se non quella di accettarne l’intrinseca necessità, la natura cogente e coatta, la sua appartenenza al mondo delle cose, o al cosmo naturale, ma mai a quello degli umani. Tutto ciò ha, naturalmente, delle ricadute di notevole rilevanza sul piano dell’analisi socio-politica che rappresenta un interesse fondamentale di Simone Weil in grado di animare la sua riflessione filosofica, risultando con essa sempre inestricabilmente intrecciato, al punto che si potrebbe dire che la sua potente capacità speculativa si esercita lungamente e con particolare intensità proprio nel tentativo riuscito di penetrare i segreti dei meccanismi sociali al fine di comprenderli, ma anche di elaborare una teoria critica di essi che apra prospettive di oltrepassamento della condizione di sfruttamento dei lavoratori e di emancipazione politica per gli individui e per la loro vita in comunità36. Nell’importante e noto saggio del 1934, Riflessioni punto di vista dei padroni («gli industriali del Nord») rispetto alle rivendicazioni operaie, dunque mostra chiaramente la consapevolezza dell’apertura costante della relazione dialettica al rovesciamento, al capovolgimento dei termini del rapporto. 35. Ivi, p. 155. 36. Questo aspetto rappresenta un interesse prioritario per Simone Weil nel corso di tutta la sua riflessione, sebbene si possano registrare anche delle importanti modificazioni e ripensamenti riguardo a temi come il “diritto” e la “democrazia”, dapprima invocati, e poi mano a mano che il richiamo della dimensione religioso-trascendentale si fa prevalente, ritenuti non sufficienti a offrire una prospettiva di reale emancipazione per gli esseri umani. Nelle sue Lezioni di filosofia del 1933-1934, per esempio, in un paragrafo intitolato La costrizione: i “diritti dell’uomo” calpestati, ella scrive: «Conseguenze politiche di tale stato di cose: il nostro sistema sociale è fondato sulla costrizione. Gli operai lo subiscono, ma non possono accettarlo. La costrizione è incompatibile con la democrazia. È chiaramente impossibile che uomini trattati come cose nel mercato del lavoro e nella produzione siano trattati come cittadini nella vita pubblica» (ivi, p. 170). Nel suo già citato La Persona e il sacro del

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sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Weil consegue due obiettivi fondamentali in tal senso. In primo luogo, mette del tutto a fuoco la sua critica alla teoria marxiana (nella quale ella stessa, come tanti, aveva confidato in tempi passati), rilevandone in positivo la qualità di scienza sociale necessaria che trova nel metodo del materialismo storico il suo punto di forza, e contemporaneamente, però, rintracciando in negativo, nella sua natura insieme dogmatico-scientifica e “mitologica” di teodicea laica, di «religione delle forze produttive»37 che si nutre di provvidenzialismo, la degenerazione sostanziale del tentativo di Marx di ribaltare la dialettica hegeliana restituendole concretezza. L’idea di Weil, in relazione a questo tema, è che benché Marx abbia elaborato una visione che, proprio in virtù del suo materialismo storico e metodologico, è molto più ricca e sofisticata di un puro e semplice «hegelismo alla rovescia»38, essa soffra tuttavia di determinismo pseudo-scientifico nell’avventurarsi sulla strada predittiva e finanche profetica dell’ineluttabilità escatologica della prospettiva rivoluzionaria. E proprio in ciò viene a incarnarsi la più profonda incomprensione – nonché la grande iattura – dei marxisti teorici e dei militanti comunisti39: che questi cosiddetti rivoluzionari hanno adottato acriticamente l’ottica della logica fatale e necessitante dell’evoluzione sociale delle forze produttive senza fare tesoro dell’idea più incisiva 1942-1943, coevo del più celebre L’Enracinement, tanto il “diritto” che la “democrazia” saranno oggetto di una critica aspra e radicale proprio per via del loro particolarismo e della conseguente “insufficienza” assiologica. 37. S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, tr. it. cit., p. 21. 38. Ivi, p. 22. 39. Su questo punto, tuttavia, non si può trascurare il convincimento weiliano relativo al vero spirito, tutto sommato generoso e altruista, che infiamma gli animi dei militanti comunisti: «La forza d’animo dei comunisti è dovuta al fatto che essi si rivolgono non solo verso ciò che credono essere il bene, ma verso ciò che credono dovrà prodursi ineluttabilmente e prossimamente. Così, senza essere dei santi – cosa da cui sono ben lontani –, possono sopportare rischi e sofferenze che solo un santo sopporterebbe per la giustizia in quanto tale», in Quaderni, tr. it. cit., vol. II, p. 312.

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espressa da Marx, ovvero che «nella società come nella natura tutto si svolge mediante trasformazioni materiali»40 (annotazione che rivela in controluce anche una profonda contraddizione tra materialismo oggettivistico ed escatologia destinale interna alla stessa politologia marxiana, piuttosto ingenuamente ereditata dai suoi epigoni). Questo significa, per Weil, che nella dura realtà indotta dall’oppressione sociale non vi è dunque alcuna aspirazione al bene da parte della materia in quanto tale che possa fungere da motore per il compimento della necessità storica della rivoluzione41, ma solo un imprevedibile e a-deterministico sviluppo delle condizioni oggettive e materiali delle forze produttive che opera come unico elemento davvero dinamico della storia. Ciò nondimeno, tale aspra e vibrante critica rivolta alla teoria marxiana non è, come si è detto, il solo effetto di peso delle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, anzi per molti aspetti la seconda conseguenza di questa inesorabile analisi weiliana dei meccanismi del potere e dei rapporti di dominio determinati dal modo di produzione capitalistico è ancora più rilevante (soprattutto in riferimento a quella tensione dialettica che contrappone necessità e libertà), poiché di fatto consiste nella descrizione e definizione dell’unica vera arma di 40. S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, tr. it. cit., p. 22. 41. È estremamente severo il giudizio di Weil su questo punto: «La parola rivoluzione è una parola per la quale si uccide, per la quale si muore, per la quale si mandano le masse popolari alla morte, ma che non ha alcun contenuto», ivi, pp. 35-36. A tal proposito non bisogna, tuttavia, dimenticare che queste intense Riflessioni seguono di pochi mesi alcuni testi importanti di Simone Weil, composti tra il ’32 e il ’33, che costituiscono i suoi interventi sulla «crisi tedesca», e dai quali emerge chiaramente la delusione e il disincanto nei confronti delle speranze rivoluzionarie di cui ella stessa si era alimentata sino a quegli anni e che ora, a ragione, presagisce per tanta parte del proletariato e della classe operaia, su ciò si veda la Prima Parte di Sulla Germania totalitaria, tr. it. a cura di G. Gaeta, Milano 1990, e il saggio del curatore contenuto nello stesso volume e intitolato La rivoluzione impossibile e lo spettro del totalitarismo, pp. 281-313.

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emancipazione dall’oppressione concessa agli individui, vale a dire, il lavoro. Se nei suoi appunti leggiamo: «Il segreto della condizione umana è che l’equilibrio tra l’uomo e le forze della natura circostanti “che lo superano infinitamente” non è nell’inazione, bensì soltanto nell’azione con la quale l’uomo ricrea la sua vita: il lavoro»42, questa convinzione si riflette puntualmente nelle sue idee circa la natura del rapporto tra società e individuo come relazione modulata secondo le variabili storicamente significative dell’oppressione e della libertà43. Il sistema produttivo che disciplina e coordina gli sforzi umani messi in atto per fronteggiare «le necessità naturali e la costrizione sociale che ne risulta» va, infatti, del tutto ripensato nei termini inediti di un’«organizzazione liberatrice» in grado di alleviare «il duplice peso della natura e della società che grava sull’uomo»44. Infatti, l’oppressione sociale è intrinseca al sistema produttivo, e pur venendo generata «esclusivamente da condizioni oggettive», si manifesta sotto forma di originaria asimmetria, di primigenio squilibrio sociale che fa sì che coloro che, per via di determinate circostanze corrispondenti «a tappe probabilmente inevitabili dello sviluppo umano» hanno conseguito dei privilegi, «benché dipendano, per vivere, dal lavoro degli altri, hanno in mano la sorte di quegli stessi da cui dipendono, e l’uguaglianza muore»45. In questo si condensa la rilettura weiliana, chiaramente filtrata da Marx, della dialettica hegeliana servo-padrone: non 42. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. I, pp. 126-27. 43. Ho già affrontato la complessa relazione che Simone Weil vede intrecciarsi tra società e individuo in Etica dei doveri e doveri dell’etica, Introduzione a P. Winch, Simone Weil: “la giusta bilancia”, tr. it. cit., pp. XI-LV, cui mi permetto di rinviare. 44. S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, tr. it. cit., p. 37. Va sottolineato che quel che Weil pensa dell’organizzazione industriale del lavoro è il frutto della sua personale esperienza in fabbrica, oltre che dell’intensa attività sindacale in cui si impegnò per molto tempo, entrambe testimoniate in Ead., La condizione operaia, tr. it. di F. Fortini, Milano 1952. Su questi aspetti si veda A. Treu, Esperienza di fabbrica, teoria della società e ideologia in Simone Weil, in «Aut Aut», 144, 1974, pp. 79-101. 45. Ivi, p. 47.

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più clausola che condiziona il reciproco riconoscimento, quanto piuttosto dispositivo fittizio – una sorta di artificio barocco – che, combinando privilegi e «lotta per la potenza» (di possibile matrice nietzscheana), conduce all’annientamento dell’uguaglianza e alla contemporanea istituzione di sperequazioni e differenze sociali da quel momento insopprimibili, in una parola, realizza l’oppressione sociale, mancando definitivamente e drammaticamente il bersaglio, ovvero, la missione di stabilire l’equilibrio46. In generale, i rapporti di dominio e di sottomissione tra gli esseri umani, poiché non sono mai pienamente accettabili, costituiscono sempre uno squilibrio senza rimedio e che si aggrava perpetuamente47.

Questa consapevolezza è la riprova che per Weil esiste un insanabile contrasto tra la giustizia, simboleggiata dalla «bilancia in equilibrio»48, e la necessità, contrapposizione radicale e fondamentale che costituisce una frattura originaria nell’evoluzione naturale dell’umanità e che viene magistralmente illustrata da un’argomentazione riportata da Tucidite nella sua ricostruzione della guerra del Peloponneso, cui Weil si mostra particolarmente sensibile. In poche, mirabili frasi che vengono scambiate tra gli ambasciatori ateniesi e le autorità dell’isola di Melo, che essi intendevano sottomettere al proprio imperium, 46. Weil poco più avanti si riferisce esplicitamente alla dialettica hegeliana, che ridiscute in collegamento col tema della “lotta per la potenza”: «[…] poiché qui ci troviamo in un circolo senza via d’uscita, dove il padrone è temibile per lo schiavo per il fatto stesso di temerlo, e viceversa […]. Così il più funesto dei circoli viziosi trascina la società intera al seguito dei suoi padroni in un girotondo insensato»; ivi, p. 50. 47. Ivi, p. 52. 48. S. Weil, Attesa di Dio, a cura di J.-M. Perrin, tr. it. di O. Nemi, Milano 3 1988, p. 107. A proposito della “bilancia”, la Weil “mistica” scrive: «Croce come bilancia, come leva. Discesa, condizione della salita. Il cielo che scende sulla terra solleva la terra in cielo» (Ead., L’ombra e la grazia, tr. it. cit., p. 102).

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noncuranti dell’abuso che l’uso stesso della forza implica necessariamente, ritroviamo – beneficiando dello sguardo ambivalente e mobile di Simone Weil – la sintesi di un’antinomia essenzialmente connaturata a quella che può essere definita come la “giustizia del più forte”, il quale, nel riconoscere l’ingiustizia intrinsecamente radicata nella propria posizione di potere, giunge ad approssimarsi più di ogni altro alla «carità». Vi è un apparente paradosso, infatti, nell’affermazione degli ateniesi che, contro l’autodifesa dei meli, sostengono di ritenere «legittimo cercare di ottenere quello che è fattibile in base alle vere intenzioni che ciascuno di noi ha, perché come noi anche voi sapete che nel linguaggio umano il diritto si giudica a parità di condizioni, altrimenti i potenti fanno quello che possono e ai deboli tocca dichiararsi d’accordo». Soprattutto se accostata a ciò che gli ateniesi stessi, di fronte alle rimostranze dei meli che credono di avere il favore degli dèi perché la loro causa è giusta, giungono ad asserire: Perché siamo convinti che tanto l’uomo che la divinità, dovunque hanno potere, lì lo esercitano, l’uno apparentemente, l’altro visibilmente e per sempre, per un insopprimibile impulso della natura. E non siamo noi che abbiamo imposto questa legge, né siamo stati i primi ad applicarla quando già esisteva. Essa esisteva quando noi l’abbiamo ereditata ed esisterà in eterno quando noi la lasceremo in eredità, e dunque l’applichiamo consapevoli che anche voi, come altri, agireste esattamente come noi se aveste la nostra stessa potenza. E dunque, in rapporto alla divinità abbiamo buoni motivi per non temere di essere svantaggiati […]49.

49. Tucidide, La guerra del Peloponneso, tr. it. a cura di L. Canfora, RomaBari 1986, Tomo II, Libro V. 89, pp. 366-67, e Libro V. 105, p. 369. Winch chiarisce bene l’importanza di questo dialogo tra ateniesi e meli nel contesto delle idee di Simone Weil sulla relazione tra giustizia e necessità, infatti scrive: ella «rimase affascinata dalla chiarezza e dal candore della descrizione della loro posizione da parte degli ateniesi. […] pensò inoltre che, a un certo livello, essi avessero ragione riguardo alla dipendenza della giustizia dall’uguaglianza del potere tra le parti». Intorno a questo scambio di battute tra ateniesi e meli, Simone Weil si sofferma anche nel bel saggio intitolato Luttons-nous pour la

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Un paradosso che si scioglie proprio nella risoluzione dell’enigma della necessità, concepita nella sua ambigua interconnessione dialettica con la giustizia: quella necessità “naturale” che gli ateniesi non tentano neppure di “giustificare”, di rendere apparentemente “giusta” ammantandola di significati di cui è priva, e che piuttosto fa loro sostenere (in modo a prima vista cinico) che chi possiede la forza non può fare a meno di esercitarla, reagendo in modo pressoché passivo all’impulso da cui è mosso, seguendo pertanto un moto che si potrebbe quasi definire inerziale – ebbene, è la medesima necessità che fa da contrappeso alla giustizia. L’argomentazione degli ateniesi appare a Weil a tal punto convincente che ella sorprendentemente, ma come sempre originalmente, commenta: «Questa lucidità di intelligenza riguardo al concetto di ingiustizia è la luce che precede immediatamente quella della carità»50. Difatti, per lei ciò che è essenziale è la corretta convinzione degli ateniesi di non trovarsi in una posizione che contempli la “giustizia”, consapevoli come sono dell’ingiusto vantaggio concesso loro dal possesso esercitato della forza, quanto piuttosto in una che è connotata dalla “necessità”, in tal modo essi sfuggono alle «tenebre, dove il forte crede sinceramente che la sua causa sia più giusta di quella del debole», poiché l’ambito cui appartengono le loro scelte è quello delimitato unicamente dal possibile e dal necessario. Per Weil, infatti, il senso profondo del dialogo tra ateniesi e meli si inscrive dentro questa logica: Possibilità e necessità, nelle frasi riportate, sono termini opposti a giustizia. Possibile è tutto ciò che il forte può imporre al debole. Può essere utile esaminare fin dove si spinge questa possibilità. Ammesso che essa ci sia nota, è certo che il forte realizzerà il proprio volere fino al limite estremo del possibile. È una necessità meccanica. Altrimenti sarebbe come se egli volesse e non volesse

justice?, contenuto nella raccolta Écrits de Londres et dernières lettres, Paris 1957, pp. 45-57. 50. S. Weil, Attesa di Dio, tr. it. cit., p. 106.

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nello stesso tempo. Sia il forte che il debole si trovano di fronte alla necessità51.

La necessità, pertanto, viene a coincidere con il nucleo atomico di una legge naturale (una sorta di “attrazione gravitazionale” pari a ciò che Weil definisce pesanteur), indiscussa e indiscutibile, cui obbediscono tutti gli esseri umani in qualunque situazione parallela a quella descritta e che, dunque, vale universalmente come tratto che circoscrive e definisce la giustizia “umana”, la quale, tuttavia, proprio per queste sue caratteristiche, pur differenziandosi “incommensurabilmente” da quella divina, essa sì inarrivabile, inattingibile perché fondamentalmente trascendente, sola e autentica «virtù soprannaturale» (equivalente, nella terminologia religiosa weiliana alla “grazia”), a quella deve ispirarsi e tendere. E, d’altra parte, la tensione essenziale che oppone la cosiddetta “legge naturale” alla “giustizia” in quanto tale è – come è noto – il tema portante della basilare discussione che si svolge tra Socrate e Trasimaco nel I libro della Repubblica – allorquando l’argomentazione socratica si contrappone alla tesi «che in ogni caso il giusto è sempre l’identica cosa, l’utile del più forte» (338, 339) –, nonché la materia che separa Callicle da Socrate nel Gorgia (483 d-e, 484 a-b). Infatti, in ambedue quei passaggi fondamentali dell’intero discorso socratico-platonico contro le pretese della “legge del più forte” ciò che emerge è un’idea potente di “giustizia” come di un bene essenziale per la natura e la vita umana, al punto che la provocante tesi socratica che sempre e in ogni caso è meglio subire il male piuttosto che commetterlo (Gorgia, 474 b) appare come una conseguenza inevitabile e obbligata di tutto il percorso discorsivo che si oppone all’ineluttabilità della “legge di natura”. Cosicché, quando Socrate, sollecitato da Polo, afferma che, con riferimento all’ingiustizia, «preferirei non avere né a patirla né a farla; ma se fossi obbligato dalla scelta, certo, vorrei piuttosto patire ingiustizia anziché farla» (Gorgia, 469 c), 51. Ibidem.

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risulta perfettamente coerente con questa concezione la sua risposta a Callicle, il quale, a partire dalla contrapposizione tra “convenzione” e “natura” («due cose perfettamente in antitesi», Gorgia, 482 e), sostiene la tesi dell’assoluta “naturalità” del prevalere del “più forte”. Socrate, infatti, di fronte alla seguente asserzione del suo interlocutore: «la legge […] bolla l’ineguaglianza come ingiustizia. Ma la natura, essa, proclama chiaro e aperto che è giusto invece che il migliore prevalga sul peggiore, che il più forte abbia più di chi è meno forte» (Gorgia, 483 d), replica argomentando lungamente che, non soltanto non vi è contrasto e opposizione tra le “leggi degli uomini” e quelle della “natura”, respingendo l’idea del suo interlocutore che considera tutto l’apparato delle leggi e delle convenzioni umane come null’altro che «morale degli schiavi», ma, cosa ancor più rilevante, che il «bene» viene a coincidere con l’obbedienza alle leggi della città52. Dunque, sul tema della giustizia come valore irrinunciabile degli umani che si afferma in perenne contrapposizione col potere del più forte per la cui origine ci si appella alla “natura”, malgrado l’apparente inconciliabilità determinata da una diversità di vedute a prima vista radicale che una lettura superficiale può ingenerare, il punto di vista per così dire “razionalistico” 52. «Ordine e proporzione nell’anima hanno nome di disciplina e di legge, e son esse che rendono gli uomini giusti e costumati. Queste qualità son quelle che costituiscono la giustizia e la costumatezza» (Gorgia, 504 d). Le citazioni socratiche sono tratte dalle seguenti ed. italiane: Platone, La Repubblica, tr. it. a cura di F. Sartori, Introduzione di M. Vegetti, Roma-Bari 1994; Id., Gorgia, tr. it. a cura di V. Arangio-Ruiz, Milano 1986. Com’è noto, quello del rispetto della legge è un leit-motive della morale socratica, si veda sia l’Apologia, sia l’immaginario incontro tra Socrate e le leggi della città illustrato in Le Leggi. Anche Simone Weil non si sottrae a questa decisiva valorizzazione della legge sino a interpretarla come chiave dello sviluppo umano: «Leggi, sola fonte della libertà. Per questo sul piano delle religioni primitive, tutto ciò che è regola (formule e riti magici, tabù) costituisce un grande progresso» (Quaderni, tr. it. cit., vol. I, p. 112). Resta, tuttavia, una profonda differenza tra Socrate e Weil su questo punto, e consiste – come vedremo – nella diversissima considerazione che essi mostrano della dimensione sociale, della collettività.

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espresso da Socrate finisce per convergere con quello weiliano che potrebbe invece essere definito con terminologia spinoziana sub speciae aeternitatis. Infatti, laddove l’idea socratica di giustizia si incarna nella legge dello Stato che esige di essere rispettata perché la comunità non precipiti hobbesianamente in un caos primordiale dove vigono solo le regole imposte dalla prepotenza connaturata al possesso della forza, quella weiliana è complicata dall’intreccio inestricabile in cui essa si trova, sul versante “umano”, con la necessità (e con la possibilità), che le si impone ogniqualvolta fa pendere da un solo lato la «bilancia in equilibrio», simboleggiante la giustizia in quanto «virtù soprannaturale». E tuttavia il punto in cui queste due nozioni così pregnanti di giustizia giungono a collimare e a incrociarsi è l’identificazione di uno spazio assiologico totale, cui essa corrisponde e a partire dal quale si dispiega e si impone, o tenta di imporsi, contrastando i vincoli e i limiti che le vengono imposti dalla necessità. Spazio che se nella visione socratica è reale, concreto, prettamente umano perché costituito da regole di condotta comuni che sole garantiscono la civile convivenza (valorizzando, dunque, la dimensione sociale della giustizia stessa), in quella weiliana esso invece appartiene a un universo valoriale trascendente e assoluto, verso cui si tende pur consapevoli dell’impossibilità di attingervi pienamente in questo mondo, una sorta di principio regolatore universale che fa della Giustizia un’equivalente dell’«amore soprannaturale» e che la rende (come scrive Weil riecheggiando le parole che Antigone rivolge a Creonte) «compagna delle divinità dell’altro mondo», proprio in quanto prescrive un «eccesso d’amore»53. Weil, d’altra parte, insiste che una siffatta nozione di giustizia non ha nulla a che fare con quella di diritto, che «ci viene da Roma» e che, dunque, è per definizione «pagana e non battezzabile», anche perché di fatto cela e occulta un’idea insopprimibile di forza e di esercizio 53. S. Weil, La Persona e il sacro, tr. it. cit., p. 51. A conferma di ciò, in Attesa di Dio, Weil scrive che c’è una «virtù soprannaturale e sacramentale racchiusa in ogni puro atto di giustizia» (tr. it. cit., p. 105).

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smisurato di essa, proprio in quanto ab origine si caratterizza come «diritto di usare e abusare. E in effetti la maggior parte di quelle cose di cui ogni proprietario aveva il diritto di usare e abusare erano esseri umani»54. Ed è per questa ragione che ad essa Weil oppone la nozione greca di giustizia, lontanissima da quella di diritto che di fatto è del tutto «estranea allo spirito greco», proprio in quanto fatta di un’altra pasta, appartenente a un universo di valori del tutto lontano e differente da quello dei “diritti”, poiché «il diritto non ha nessun legame diretto con l’amore», esclude «ogni sfumatura di carità»55. La diffidenza weiliana nei confronti della nozione di derivazione romana di diritto fa il paio con la sua idiosincrasia verso il collettivo, il sociale, il Grosso Animale platonico che tende per sua stessa natura a soffocare e reprimere il singolo, l’individuo e la sua sacralità: «C’è in ogni uomo qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. Non è neppure la persona umana. È semplicemente lui, quest’uomo»56. Ecco un passante per la strada che ha delle lunghe braccia, degli occhi celesti, una mente dove si agitano pensieri che ignoro ma che forse sono mediocri. Non è né la sua persona, né la persona umana in lui che mi è sacra. È lui. Lui tutto intero. Le braccia, gli occhi, i pensieri, tutto. Non violerei niente di tutto questo senza infiniti scrupoli. Se la persona umana in lui corrispondesse a quanto per me è sacro, potrei facilmente cavargli gli occhi. Una volta cieco sarà una persona umana esattamente quanto lo era prima. Non avrò assolutamente colpito in lui la persona umana. Avrò distrutto soltanto i suoi occhi57.

Questa immagine ci restituisce con estrema, luminosa chiarezza il senso della sacralità di ogni essere umano, così come 54. Ivi, p. 50. 55. Ivi, p. 51, p. 52. 56. Ivi, p. 37. 57. Ibidem.

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viene intesa da Simone Weil: ciascun organo, ciascun singolo elemento del corpo e della mente di ogni singolo individuo, di ogni essere umano in quanto tale, merita il medesimo rispetto che si presume debba essere riservato alla sua cosiddetta “persona”, che tuttavia resta quanto di più generico e imprecisato possa esservi in relazione alle donne e agli uomini, ai bambini e agli anziani che compongono il genere umano. All’interno di questa concezione il canone e il criterio del carattere sacro di ciascuno è la sua integrità, la sua pienezza di essere dotato di un corpo e di una mente di cui liberamente disporre, entrambi intangibili e inviolabili, come l’esempio dell’uomo cui vengono cavati gli occhi dimostra con lampante evidenza. Dunque, è di nuovo il corpo, inteso come totalità compiuta, finita, che segna il perimetro e lo spazio occupato da ogni essere umano individuale, la “misura” del mondo, nel senso che esso è l’estremo margine, il limite invalicabile della libertà di ciascuno, libertà non limitabile da nulla e da nessuno, e dunque, dentro i confini tracciati da quello spazio, essa sì infinita. In tal senso, il corpo, come la “giusta bilancia”, è “immagine dell’universo”: Bilancia giusta; il corpo stesso è la bilancia, perché a ogni istante non può compire che un’azione. Esso è una bilancia giusta quando l’attenzione è uguale. […] Bilancia, immagine dell’universo. […] L’uomo, un pensiero legato a un corpo, può esistere solo a patto che questo corpo sia un’immagine dell’universo e che le porzioni limitate di materia a cui ha accesso siano – alcune – immagini dell’universo. Allo stesso modo porzioni finite di tempo devono racchiudere un’immagine dell’eternità. Istanti, ma anche porzioni finite. La scultura deve rappresentare il corpo umano come un’immagine dell’universo, vale a dire come un equilibrio58. 58. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. I, p. 276 e, di seguito, p. 348. Va ricordato qui che il corpo, per Weil, è sempre concepito anche nel suo legame con l’anima; nei suoi appunti, poco prima rispetto al passo riportato, leggiamo: «[…] che l’anima di un uomo prenda per corpo l’universo intero. […]

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Corpo, universo, equilibrio: un triangolo di immagini che riflettendosi una nell’altra, fanno rimbalzare la propria luce in un rifulgente riverbero che apre a significati e a orizzonti di senso inusitati, imprevisti in grado di rischiarare non solo il contenuto di ognuno di questi termini, ma anche l’insospettata relazione di senso che sussiste tra essi. «Equilibrio come istante, come limite tra due squilibri»59: da un lato, la bilancia della giustizia sempre in precario, provvisorio, incerto equilibrio; dall’altro, il corpo umano continuamente esposto alla sua connaturata vulnerabilità, alla sua fragilità, alla precarietà del suo sussistere e del suo resistere alla minaccia costante della forza. Ancora la forza, ciò che mette in pericolo il corpo, che ne insidia in ogni istante l’integrità e il benessere rivelandone al contempo la tragica fragilità, è anche ciò che rappresenta un pericolo mortale per la giustizia, per tutto quel che in essa equivale all’equilibrio che garantisce la simmetria tra il bene e il male. La corporeità degli esseri umani è in un certo senso all’origine della giustizia umana, poiché in quanto unico tratto comune a tutti, universale ma pur sempre plurale, eterogeneo, differenziato, tuttavia è anche ciò che accosta e accomuna tutti gli esseri umani nella stessa vulnerabilità, nella medesima precarietà, esponendo ognuno indistintamente – ricchi e poveri, padroni e servi, signori e schiavi – a quell’estrema miseria verso cui è proteso il destino umano, ovvero alla morte. Questo legame tra la corporeità e la giustizia che fa temere a entrambe la forza come ciò che più di ogni altra cosa ne minaccia l’esistenza, è anche ciò che, nella riflessione weiliana sempre aperta e sensibile al trascendente, rende tanto l’una quanto l’altra qualcosa di “sacro”. Infatti, questo sembra essere il terreno di coltura che, nel contesto di una critica serrata al personalismo di matrice cattolica (di Mounier e Maritain in primis) allora in voga, consente a Simone Weil di chiarire alcuni L’anima si trasferisce, fuori del proprio corpo, in un’altra cosa. Che dunque si trasferisca in tutto l’universo» (ivi, p. 225). 59. Ivi, p. 348.

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aspetti fondamentali della sua idea di giustizia soffermandosi, in particolare, proprio sulla natura assolutamente sacra che ella le attribuisce. Prendendo le mosse dalla constatazione che non solo «è impossibile definire il rispetto della persona umana», ma inoltre che, proprio per via di questa intrinseca difficoltà, è estremamente pericoloso «assumere per regola della morale pubblica» una nozione indefinibile, peggio ancora quando questa viene associata a un altro concetto impreciso come quello di “diritto”, Weil sostiene con risolutezza che «amalgamare due nozioni insufficienti parlando dei diritti della persona umana non ci porterà molto lontano»60. Questa convinzione è determinata dal fatto che per lei qui si sommano e si fondono due temi sui quali, come è già stato notato, ella è particolarmente intransigente: la sua sfiducia riguardo al sociale, al collettivo in quanto tale, con il suo pessimismo relativo alla possibile utilizzazione di una categoria da lei considerata compromessa e deleteria come quella di diritto: «La persona è per natura sottomessa alla collettività. Il diritto è per natura dipendente dalla forza»61. Torna, dunque, il tema dell’ineluttabilità “naturale” del dominio della forza che può essere contrastata soltanto, in quella che abbiamo definito prospettiva sub speciae aeternitatis di Simone Weil, opponendo alla nozione romana di “diritto” il concetto greco, ben più denso e significativo, di “giustizia”, «virtù soprannaturale» la cui parentela col sacro62 la rende in grado di fronteggiare la 60. S. Weil, La Persona e il sacro, tr. it. cit., pp. 37-38. Sulla critica weiliana al diritto in chiave anti-personalistica, si veda R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Bologna 1988, pp. 189-244, in particolare pp. 239-40. 61. Ivi, p. 49. Corsivi miei. 62. In L’Enracinement troviamo la descrizione della natura di questa “parentela”: «È falso che non vi sia rapporto fra la perfetta bellezza, la perfetta verità, la perfetta giustizia; più che un rapporto, vi è un’unità misteriosa, perché il bene è uno»; S. Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, tr. it. a cura di F. Fortini, con un saggio di G. Gaeta, Milano 1990, p. 211. Da questa affermazione traspare chiaramente il platonismo che impregna tutta la riflessione weiliana, su questo tema si veda I. Murdoch, Esistenzialistici e mistici, ed. it. a cura di P. Conradi, Introduzione di L. Muraro, Milano 2006.

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minaccia terribile della forza. Pertanto, per chi è colpito dalla «sventura», per chi è esposto con la propria vulnerabilità alla miseria della condizione umana, l’unica scelta possibile è «tra il bene soprannaturale e il male». Ciò significa che non si danno possibilità alternative a questi due estremi, scelte intermedie o di misura, ideali transitori senza pretese di assolutezza, di qui l’inefficacia e il danno risultante dal «mettere in bocca agli sventurati parole che appartengono alla regione media dei valori, quali democrazia, diritto o persona», proprio in quanto «tali nozioni non hanno il loro posto nel cielo, sono sospese nell’aria, e per questa stessa ragione, sono incapaci di mordere la terra»63. Dunque, bisogna trovare concetti e idee in grado di “avere presa” sull’universo della sofferenza umana, e a tale scopo così come è inutilizzabile la generica nozione di “persona” per via della sua inconsistenza, è altrettanto necessario che i criteri del giusto e dell’ingiusto vengano attinti altrove, in particolare essi vanno ricercati nella costellazione dei valori supremi, poiché hanno a che fare col bene e col male64. E, per la medesima ragione, ovvero perché essi siano messi in condizione di «mordere la terra», il loro campo di applicazione non potrà in alcun caso essere quello della cosiddetta “persona umana”, quanto piuttosto quello relativo a ogni singolo essere umano in carne e ossa, inteso nella sua integrità, un’interezza che include il suo corpo e la sua mente, e in virtù del puro e semplice fatto d’essere al mondo. In tal senso, va ancora una volta evidenziato come l’afflato misticoreligioso che caratterizza il pensiero di Simone Weil non oscura mai il suo interesse per il mondo umano, anzi lo accresce e lo vivifica di continuo, non facendole mai perdere di vista la natura concretissima e “terrena” di ciò che ella chiama la «sventura» 63. Ivi, pp. 54-55. 64. In tal senso, l’immagine della “bilancia” si applica anche ai valori: essa serve per confrontarli e misurarli, per valutarne la corretta applicazione, per soppesarne l’efficacia. Così funziona questa “bilancia dei valori”: «Bene e male. Realtà. È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie»; S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. I, p. 199.

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che continuamente minaccia l’umana fragilità. E tutto questo è ancor più vero nel caso della “giustizia”, la cui sacralità di fatto si manifesta soltanto a contatto con l’“umanissima” sofferenza degli individui, di ogni singolo essere umano, che non ha nulla in sé di «soprannaturale», e che al contrario appartiene del tutto “a questa terra”. Parafrasando le parole di Weil si potrebbe dire che vi è ingiustizia ogni qualvolta un essere umano è costretto a porsi la domanda straziante «che il Cristo stesso non ha saputo trattenere: “Perché mi viene fatto del male?”»65. Ed ella insiste che quel grido di dolore è intraducibile, non esistono né concetti né parole che possano esprimerlo, esso «sorge sempre dalla sensazione di un contatto con l’ingiustizia attraverso il dolore», è una «protesta impersonale», ma terribilmente umana perché si leva dinanzi a ciò che viola qualcosa di sacro, ovvero «ciò che, in un essere umano, è impersonale»66. Di qui si rinfocola la sua critica all’invadenza e all’invasività del Leviatano, ovvero alla collettività, alla dimensione sociale, proprio in quanto essa mostra continuamente l’insopprimibile tendenza a sostituirsi, in quanto sommatoria, alle singole unità che la costituiscono, e che invece sono le sole ad avere senso poiché si tratta di esseri umani veri e propri, e non di astratte entità, di istituzioni globali come è, per l’appunto, la società stessa. Con lo sguardo fisso sui singoli occorre sforzarsi di attingere all’impersonale anche per sconfiggere la pericolosa «tendenza della persona a precipitarsi, ad affogare nel collettivo», soltanto per tal via si può sperare di oltrepassare il generico, fumoso e insufficiente «rispetto dovuto alla persona» sostituendolo con ciò che Simone Weil considera come la concreta e coerente essenza stessa della giustizia: il «rispetto per il carattere sacro degli esseri umani»67. In ciò, in definitiva, consiste la giustizia, nell’esercitare concretamente e nell’avvalersi costantemente di una pratica del rispetto per la sacralità di tutti e di ciascuno, per ciò che ognuno è nella vita che 65. S. Weil, La Persona e il sacro, tr. it. cit., pp. 38-39. 66. Ivi, p. 41. 67. Ivi, pp. 44-45.

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conduce in questo mondo: il sacro qui è, dunque, fittamente intessuto con la natura “terrena” degli umani, con la loro appartenenza alla “terra” che il sol fatto di avere un corpo sancisce a priori. In questo contesto, risulta chiaro come l’esercizio della giustizia resta un fatto prettamente umano, non vi è spazio né alcuna accondiscendenza per l’idea di una giustizia “ultraterrena” rimandata a un futuro imprecisato che si può procrastinare all’infinito, e anzi si avverte l’eco di un richiamo potente alla responsabilità di ognuno nei confronti dei propri simili, poiché – come scrive Simone Weil – «tocca agli uomini badare che non venga fatto del male agli uomini»68. Solo il reciproco rispetto e la responsabilità condivisa possono restituire dignità alla collettività, poiché sono i soli valori in grado di apportare l’equilibrio della «giusta bilancia» alla società umana. In tutto ciò che è sociale c’è la forza. Solamente l’equilibrio annulla la forza. Se si è consapevoli delle ragioni dello squilibrio sociale, occorre fare ciò che è in proprio potere per aggiungere peso sul piatto troppo leggero. Anche se il peso fosse il male, forse maneggiandolo con questa intenzione non ci si macchia. Ma bisogna aver concepito l’equilibrio, ed essere sempre pronti a cambiare parte, come la Giustizia, questa “fuggitiva dal campo dei vincitori”69.

3. La “naturale” vulnerabilità del corpo e la giustizia «soprannaturale» I limiti intrinseci alla nozione di diritto, intesa nel suo legame con l’idea «di divisione, di scambio, di quantità», con quello «spirito di mercanteggiamento»70 che finisce per mostrarne solo la dimensione biecamente economicista, intersecano e si connettono inestricabilmente al contesto sociale, storico, culturale, 68. Ivi, p. 64. 69. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. III, p. 158. 70. S. Weil, La Persona e il sacro, tr. it. cit., pp. 48-49.

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politico nel quale i diritti veri e propri vengono proclamati e riconosciuti in quanto tali, contesto, peraltro, nel quale si pretende di esercitarli rivendicandoli. Vale a dire che, dal momento che – come sottolinea Weil – «i diritti appaiono sempre legati a date condizioni», ovvero anche a situazioni particolari e specifiche, perché la giustizia possa divenire una guida eticamente significativa nelle relazioni umane occorre attingere a un sistema di valori che, proprio come la giustizia stessa, abbia una risonanza e una pretesa di validità sub speciae aeternitatis, e perciò autenticamente in grado di esercitare una reale influenza sugli esseri umani e sulla loro condotta di vita, imprimendo ad essa un senso “ulteriore” che almeno aspiri all’universale, al trascendente. Il concetto di “obbligo” possiede queste caratteristiche e risponde a questi requisiti, infatti «solo l’obbligo può essere incondizionato», in quanto «esso si pone in un campo che è al di sopra di ogni condizione, perché è al di sopra di questo mondo»71. La natura “condizionata” e particolaristica del diritto è, dunque, quel piano scosceso che, orientando la percezione di sé verso il basso, di fatto impedisce agli esseri umani di concepirsi dapprima come vincolati dalla natura universale e trascendente dell’obbligazione responsabile nei confronti degli altri esseri umani, e soltanto dopo come detentori, a propria volta, di diritti. Tuttavia, si badi bene, “al di sopra di questo mondo” non significa “fuori” da esso: L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia a intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno. […] Quest’obbligo è eterno. Esso risponde al destino eterno dell’essere umano. Soltanto l’essere umano ha un destino eterno. Le collettività umane non ne hanno. Quindi, rispetto a loro, non esistono obblighi diretti che siano eterni. È eterno solo il dovere verso l’essere umano come tale. 71. S. Weil, La prima radice, tr. it. cit., p. 13.

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Quest’obbligo è incondizionato. […] Il fatto che un essere umano possieda un destino eterno impone un solo obbligo, il rispetto. L’obbligo è adempiuto soltanto se il rispetto è effettivamente espresso, in modo reale e non fittizio; e questo può avvenire soltanto mediante i bisogni terrestri dell’uomo72. Per il rispetto verso l’essere umano che ciascuno avverte esiste una sola possibilità di espressione indiretta ed è fornita dai bisogni degli uomini in questo mondo, i bisogni terrestri dell’anima e del corpo. Essa è fondata su un legame stabilito nella natura umana tra l’esigenza di bene che è l’essenza stessa dell’uomo e la sensibilità73.

Nel Preludio a una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Simone Weil chiarisce con queste parole come, pur senza distogliere mai lo sguardo dalla costellazione dei valori assoluti e trascendenti, è proprio sui “bisogni terrestri” che si misura la nostra capacità di compiere il dovere cui siamo chiamati in quanto esseri umani che vivono in un mondo popolato da altri esseri umani. Infatti, sono proprio la fame e il bisogno di nutrimento – bisogno avvertito tanto dal corpo quanto dall’anima del singolo – a costituire il parametro rispetto al quale commisurare la natura stessa degli obblighi che ci vincolano agli altri e ci mettono in relazione con i nostri simili. Pertanto, la giustizia, il dovere, il rispetto verso l’essere umano, che pure costituiscono i termini e i sintagmi di un nuovo vocabolario del linguaggio etico-morale, in sostituzione degli abusati vocaboli

72. Ivi, pp. 14-15. 73. S. Weil, Étude pour une déclaration des obligations envers l’être humain, in Ead., Écrits de Londres et dernières lettres, cit., pp. 74-84, la citazione si trova a p. 77. Questo breve testo è una sorta di abbozzo del suo Preludio. Se si prendono sul serio queste idee di Weil è del tutto condivisibile la tesi di G. Gaeta che le attribuisce l’invito «mai preso in seria considerazione», «di radicare la politica nell’umanità dell’individuo, nella sua creaturalità» (Id., Politica e religione nel pensiero di Simone Weil, in G. Gaeta-C. Bettinelli, A. Dal Lago, Vite attive, Simone Weil, Edith Stein, Hannah Arendt, Roma 1996, p. 35).

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come “diritto”, “democrazia” o “persona” che ella ritiene superati e insufficienti, sono e restano radicati nella natura corporea e “terrestre” degli umani. In tal senso, la visione spinozianoweiliana sub speciae aeternitatis non oscura mai il mondo, e soprattutto gli esseri umani in carne e ossa che vi appartengono e che lo abitano, anzi è in esso che il trascendente affonda le sue più profonde radici ed è ai bisogni concreti – tanto del corpo, quanto dell’anima – di quegli individui che tenta di dare delle risposte. Questo “radicamento” del trascendente nel mondano, dell’assoluto nel relativo, dello spirituale nel “terrestre”, del “soprannaturale” nel naturale fa il paio con quello speciale “radicamento” che ogni anima umana avverte come un suo bisogno fondamentale, anche perché «a ogni essere umano occorrono radici multiple», poiché «ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente»74. Questa è la ragione per cui lo «sradicamento» è un’atroce «malattia del nostro tempo»75, in quanto esso, pur assumendo svariate forme (dallo «sradicamento operaio» a quello «contadino», sino a quello «geografico»), è sempre e in ogni caso non soltanto il segno del distacco tra la natura umana e il mondo cui essa appartiene, ma anche la rappresentazione dell’ancor più netta separazione tra l’esigenza di «bene assoluto» avvertita dall’anima umana e i valori provvisori e relativi che le vengono offerti nella realtà mondana quotidiana. La nozione di obbligo, allora, viene a costituire «il punto di contatto, seppure indiretto, tra queste due realtà assolutamente 74. S. Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, tr. it. cit., p. 49. Corsivo mio. 75. G. Gaeta, Il radicamento della politica, in S. Weil, La prima radice, pp. 269-86, l’espressione citata si trova a p. 282. Sull’esperienza di «sradicamento», in particolare su quello provocato secondo modalità analoghe dal nazismo e dal colonialismo, Simone Weil si soffermerà anche nel saggio La questione coloniale e il destino del popolo francese, ora in tr. it. in Ead., Sul Colonialismo, a cura di D. Canciani, Milano 2003, pp. 27-56. Su questo si veda il saggio di D. Canciani, Dalla dominazione coloniale all’incontro tra Occidente e Oriente, che introduce il volume, ivi, pp. 7-23.

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separate»76, ovvero il punto di sutura, il solo collegamento possibile tra il «soprannaturale» e il naturale nel quale l’essere umano incontra e riconosce le proprie “multiple radici”, comprese quelle radici “aeree” che lo mettono in comunicazione con la realtà extra-mondana. In altre parole, è nello «sradicamento» il luogo dell’allontanamento e della smisurata distanza che separa il bisogno umano di una giustizia pura da quel che, dopo il 1789, la sfera politico-giuridica è in grado di offrire: il diritto, il quale però «non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo»77. L’alternativa netta e radicale tra la giustizia e la forza rispecchia allora quella tra l’obbligo e il diritto, l’insopprimibile tensione che contrappone le prime si riflette nel contrasto insanabile tra i secondi, a meno che non si sia capaci di ribaltare la prospettiva, di porsi dal punto di vista della vera giustizia, restituendo valore ai diritti fondandoli sui doveri che vi corrispondono: «l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa»78. È questa, in definitiva, l’unica via per sottrarsi alla prepotenza e alla supremazia della forza, e per liberare il diritto dai micidiali lacci che essa gli impone: riconoscere la realtà superiore della giustizia, poiché essa «è incancellabile nel cuore dell’uomo», e ciò «vuol dire che essa ha, in questo mondo, una sua realtà»79.

76. Ivi, p. 279. 77. S. Weil, La Persona e il sacro, tr. it. cit., p. 49. Nella Prima radice, tutto ciò viene espresso con estrema chiarezza: leggiamo: «[…] la nozione di diritto è infinitamente più remota dal bene puro. Essa contiene in sé bene e male; perché il possesso di un diritto implica la possibilità di farne un uso buono o cattivo. L’adempimento di un obbligo è invece, sempre e incondizionatamente, un bene sotto qualsiasi riguardo. Per questo gli uomini del 1789 hanno commesso un errore tanto disastroso, quando hanno scelto a fondamento della loro opera la nozione di diritto»; ivi, pp. 247-48 . 78. S. Weil, La prima radice, tr. it. cit., p. 13. 79. Ivi, p. 219. Corsivi miei.

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Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini. La struttura di un cuore umano è una realtà fra le realtà di questo universo, non diversamente dalla traiettoria di un astro. L’uomo non ha il potere di escludere assolutamente ogni sorta di giustizia dai fini che egli propone alle azioni sue. Persino i nazisti non hanno potuto farlo. Se un uomo lo potesse, essi l’avrebbero certo potuto80.

La giustizia è dotata di una realtà in grado di opporsi alla forza, alla bruta necessità della forza, al punto che essa può manifestarsi anche a partire da atti che muovono in direzione opposta, può germogliare come un fiore nel deserto delle più malvagie e crudeli azioni umane. E tuttavia essa può essere consapevolmente perseguita soltanto quando viene a coincidere con l’obbligazione responsabilmente avvertita dagli esseri umani verso i propri simili, con quei «doveri verso la creatura umana» che Weil addita come spazio mondano, pertanto concreto e praticabile, della giustizia terrena, che pure resta «virtù soprannaturale» per eccellenza. Soltanto il senso del dovere, l’obbligo in quanto tale, in definitiva, può rappresentare un legame e un ponte tra cielo e terra; solo la responsabilità nei confronti dell’altro da sé può divenire luogo di ricongiungimento tra umano e divino; solamente la giustizia, prima ed eccelsa tra le «virtù naturali», «si situa nel punto di contatto del naturale e del soprannaturale»81. Riconoscere un’incondizionata priorità dei doveri rispetto ai diritti costituisce la nostra unica possibilità di sottrarci al potere di trasfigurazione della forza, alla sua capacità di annullare l’equilibrio e di negare la giustizia, soltanto in nome dell’obbligo si può tentare di spezzare il fatale incantesimo insito nel fatto «che tutti siano destinati nascendo a patire violenza»82, anche 80. Ivi, p. 218. 81. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. II, p. 310. 82. S. Weil, L’Iliade, poema della forza, tr. it. cit., p. 21.

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perché la verità della forza è che «tanto spietatamente la forza stritola, tanto spietatamente essa inebria chiunque la possieda o creda di possederla. Nessuno la possiede veramente», tutti sono prima o poi costretti «a piegare sotto la forza»83. E anche i più forti […] non possono non perire. Essi infatti non considerano la propria forza come una quantità limitata, i loro rapporti con gli altri come un equilibrio tra forze impari. Dato che gli altri uomini non impongono ai loro movimenti quella battuta di arresto da cui solo può nascere il rispetto verso il prossimo, essi concludono che il destino ha dato loro ogni diritto e nessuno ai loro inferiori. Da quel momento essi vanno al di là della forza di cui dispongono. È inevitabile, perché ignorano che quella forza ha dei limiti84.

Laddove vige e impera la legge della forza, come accade in quell’opera archetipica che è l’Iliade, essa procede con moto incessante, con ininterrotta ferocia: lì non si dà né «tra l’impeto e l’atto quel lieve intervallo ove s’inserisce il pensiero», né «quella battuta d’arresto da cui solo può nascere il rispetto verso il prossimo»85 – tutti, vittime e carnefici, sono in balia della forza, trascinati dalla sua illimitata potenza, senza sosta alcuna percepiscono indistintamente l’orrore della miseria umana in cui tutti siamo immersi. Ma pure nella forza in un certo senso vi è giustizia, anche la forza sa essere spietatamente equilibrata e atrocemente equa nel distribuire orrore e disgrazia a tutti coloro che vengono a contatto con essa, a tutti senza distinzioni, e infatti un castigo «di rigore geometrico» punisce l’abuso della forza, e tramite esso si realizza una simmetria nel potere distruttivo della forza tale da punire sia chi la usa sia chi la subisce. In tale prospettiva, la Nemesi incarna la geometria greca delle virtù, in cui le nozioni di “limite”, “misura”, “equilibrio” conservano il

83. Ivi, p. 18. 84. Ivi, pp. 21-22. Corsivi miei. 85. Ivi, p. 21. Corsivi miei.

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loro significato eminentemente etico così caro a Simone Weil.86 È per questo che il corso della guerra di Troia, come quello di ogni altro conflitto, è un «gioco pendolare», i vinti e i vincitori si scambiano continuamente i ruoli:

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Così la violenza stritola quelli che tocca. Essa finisce per apparire esteriore a colui che la esercita come a colui che la soffre; nasce allora l’idea di un destino sotto il quale i carnefici e le vittime sono del pari innocenti, i vincitori e i vinti fratelli nella stessa miseria. Il vinto è causa di sventura per il vincitore come il vincitore per il vinto87. Il contatto con la spada contamina comunque, che avvenga dal lato dell’impugnatura o da quello della punta. […] L’armatura è fatta di metallo come la spada. […] La purezza assoluta consiste nell’assenza di qualsiasi contatto con la forza. L’immagine della purezza consiste in un equilibrio di forze. La purezza assoluta sta nel non subire né esercitare la forza88.

La forza, questa eroina dell’“orrore”, che domina il mondo umano col potere inesorabile della necessità, così come la materia inerte subisce passivamente l’impeto che la muove, possiede, allora, questa «doppia proprietà di pietrificazione»89: Tale la natura della forza. Il potere ch’essa possiede, di trasformare gli uomini in cose, è duplice e si esercita da ambo le parti; essa pietrifica diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano90.

Simone Weil fa notare come nell’Iliade la rappresentazione dell’amore, dell’amicizia, della giustizia, «le brevi evocazioni del mondo della pace»91, hanno come unico scopo quello di «far sentire con estremo rimpianto ciò che la violenza fa e farà 86. Ivi, p. 22. 87. Ivi, pp. 25-26. 88. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. III, p. 195. 89. S. Weil, L’Iliade, poema della forza, tr. it. cit., p. 32. 90. Ivi, p. 31. 91. Ivi, p. 36.

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perire»92, mostrando la «vita dei viventi» minacciata dalla guerra come qualcosa la cui realtà è ancor più «calma e piena»93. In questo poema, che ella definisce «cosa miracolosa», «l’amarezza verte sull’unica giusta causa di amarezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, vale a dire, in fin dei conti, alla materia»94.

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Tutto ciò che all’interno dell’anima e nei rapporti umani sfugge all’imperio della forza è amato, ma amato dolorosamente per quel pericolo di distruzione continuamente sospeso95.

Tale minaccia incombente, ossia la vulnerabilità, la fragilità, l’estrema precarietà che connota intrinsecamente la natura umana, cifra che segna indelebilmente e ne contraddistingue, attraverso la corporeità, la sua appartenenza all’universo fisiconaturale, è ciò che l’imperio della forza continuamente illumina ed evidenzia, esponendo in ogni momento l’esistenza di ogni singolo essere umano al rischio, al pericolo, alla fine. All’Iliade, alla tragedia attica di Eschilo e di Sofocle e, da ultimo ma nel modo più mirabile e straordinario, al Vangelo – nel quale per la prima volta si incontrano e si ricongiungono l’umano e il divino, corpo e spirito –, Simone Weil riconosce la rarissima qualità di saper illustrare quel che veramente caratterizza donne e uomini, riuscendo a mettere a fuoco la più intima e recondita essenza degli umani, proprio in quanto in quelle opere viene, come mai prima e come molto di rado dopo, «esposta la miseria umana»96. Questa è il solo, vero elemento comune a ogni individuo, a tutti e a ciascuno nella stessa misura, poiché ognuno è prima di tutto dotato di un corpo, è il proprio se stesso in carne e ossa: l’universale vulnerabilità che ci caratterizza in quanto appartenenti al genere umano per via della nostra 92. Ivi, p. 34. 93. Ivi, p. 36. 94. Ivi, pp. 37-38. 95. Ivi, p. 38. Corsivi miei. 96. Ibidem.

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fragile corporeità, quella che Weil etichetta come “miseria”, è – essa sì – indubbiamente distribuita equamente e con giustizia, attraverso la nostra particolare composizione di esseri pensanti che abitano un corpo che è, per l’appunto, vulnerabile.

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La nostra carne è fragile; qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, strapparla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi meccanismi interni97. Le sequenze della Passione mostrano che uno spirito divino, unito alla carne, è alterato dalla sventura, trema dinanzi alla sofferenza e la morte, si sente, nel fondo del suo abbandono, separato dagli uomini e da Dio98.

La sofferenza del corpo è tout court la sofferenza dell’anima: nel Cristo umano-divino, e in particolare nel simbolo della croce99, cui il suo corpo viene inchiodato, si incontrano, si incrocia97. Il seguito di questo passo illustra nel modo più efficace quanto per Weil la condizione umana sia segnata dalla vulnerabilità e dalla fragilità: «La nostra anima è vulnerabile, soggetta a depressioni spesso non motivate, pietosamente dipendente da ogni sorta di cose e di esseri altrettanto fragili e capricciosi. La nostra persona sociale, dalla quale dipende quasi il sentimento dell’esistenza, è costantemente e interamente esposta al caso. Il centro del nostro essere è legato a queste tre componenti da fibre tali che risente delle ferite inferte a una qualsiasi di esse fino a sanguinare lui stesso» (S. Weil, L’amore di Dio, tr. it. di G. Bissaca e A. Cattabiani, Saggio introduttivo di A. Del Noce, Torino 1968, p. 185). 98. S. Weil, L’Iliade, poema della forza, tr. it. cit., p. 38. 99. Su questo le parole ispirate della Simone Weil “mistica”: «Statera facta corporis. Il corpo crocifisso è una esatta bilancia; il corpo ridotto al suo punto nel tempo e nello spazio. […] Quando l’universo intero pesa sopra di noi, l’unico contrappeso possibile è Dio stesso – il vero Dio, perché i falsi déi non ci possono far nulla, nemmeno sotto il nome del vero Dio. Il male è infinito nel senso dell’indeterminato: materia, spazio, tempo. Solo il vero infinito prevale su questo genere d’infinito. Per questo la croce è una bilancia, dove il corpo fragile e leggero, ma che era Iddio, ha sollevato il peso dell’intero mondo. “Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo”. Questo punto d’appoggio è la croce non ce ne possono esser altri. Bisogna che esso si trovi

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no, si intersecano, disvelando il loro punto di sutura, la natura umana e quella divina, la materia e lo spirito, la carne e l’anima. In questa duplicità della natura umana si trova la sua essenza, ma anche la sua verità, perché qui si apre il varco che lasciando il corpo sempre alla mercé del potere della forza, ne mostra la sostanziale debolezza, la natura irrevocabilmente mortale. Da questo punto di vista, la forza ha il merito innegabile di rivelare l’uguaglianza di fatto che esiste tra gli esseri umani, di porli tutti sullo stesso piano, di annullare le differenze tra essi a partire dalla loro fragilità corporea, dalla loro vulnerabilità. È per questo che, per Weil, la forza è così significativa e la sua potenza così grandiosa: perché essa ci consente di conoscere la natura umana, dunque di apprezzarla in noi stessi e di ri-conoscerla nei nostri simili; essa sola ci costringe a considerare l’umanità nel suo insieme e nella sua unità, senza differenze di sorta che non siano quelle determinate dal caso e dalle sue alterne vicende. La forza appiattisce l’umano al livello della sua fragilità e, nel segnare il destino della nostra caducità, getta luce sulla nostra comune appartenenza, sulla casa comune da cui proveniamo in quanto esseri umani di carne e sangue, cui siamo sempre, tutti destinati a tornare. Tramite il pericolo che rappresenta per noi in ogni momento la forza e il suo potere si giunge nei grandi capolavori dello spirito epico ad afferrare, talvolta confusamente talaltra più distintamente, l’idea che il «sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore»100, proprio in quanto esso pone tutti allo stesso livello, situa ognuno di fronte a uno specchio che riflette l’umana debolezza, la natura fragile e vulnerabile di ogni vivente. A partire da questa nuova consapevolezza l’altro diviene mio simile, è reso veramente il mio prossimo, uguale al mio è il suo destino di miseria e sventura, la possibilità della caduta ora appartiene a entrambi, non c’è più spazio per odio o avversione, solo umana solidarietà e amiall’intersezione del mondo e di ciò che non è il mondo. La croce è questa intersezione» (Ead., L’ombra e la grazia, tr. it. cit., p. 103). 100. Ivi, p. 39.

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cizia: «non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare»101. Quel che impressiona Simone Weil è il modo in cui la forza si abbatte sul Cristo umano-divino, ovvero con la stessa devastante potenza con cui essa colpisce ogni essere umano, e ciò per lei significa che «l’uomo, che non è protetto dalla corazza di una menzogna, non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima. La grazia può impedire che questa percossa lo corrompa, ma non può impedire la ferita»102, poiché nulla può inibire quel dolore, quella sofferenza tutta umana. Dunque, protagonista dell’Iliade, della tragedia attica, del Vangelo e di ogni pur raro poema epico è certamente, come si è detto da principio, la forza, ma soltanto perché essa è capace di mostrare e di cedere il passo all’altra vera protagonista di quelle gesta, la miseria umana, la condizione precaria e provvisoria in cui si dipana l’esistenza quotidiana di ogni essere umano che il suo corpo, la sua co-appartenenza al mondo naturale, inchioda al proprio destino biologico. In quest’ottica, insieme alla perfetta uguaglianza tra i viventi, si realizza una forma di giustizia, poiché il comune destino consente il riconoscimento dell’altro come di un proprio simile a tutti gli effetti. Pertanto, se è vero che «l’uguaglianza è un bisogno vitale dell’anima umana», in quanto «consiste nel riconoscimento pubblico, generale, effettivo, espresso realmente dalle istituzioni e dai costumi che a ogni essere umano è dovuta la stessa quantità di rispetto e di riguardo perché il rispetto è dovuto all’essere umano come tale e non conosce gradi»103, la via che conduce alla giustizia passa per la “cognizione del dolore” e della vulnerabilità che sperimenta ogni essere umano. Tale consapevolezza è l’unico antidoto ai rischi che corre continuamente la relazione dialettica, platonicohegeliana, all’origine del riconoscimento, per via del suo sempre imminente tradimento-rovesciamento, il quale, proprio come 101. Ibidem. 102. Ivi, p. 40. 103. S. Weil, La prima radice, tr. it. cit., p. 24. Corsivi miei.

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la forza, corrompe entrambi i contraenti-contendenti lasciandoli disarmati e indifesi nella propria fragilità, costantemente sul punto di soccombere. Il vero riconoscimento può consistere solo nella reciprocità che ha origine dal sapersi tutti ugualmente deboli, vulnerabili di fronte alla forza. E, tuttavia, anche in questo Simone Weil, fedele alla sua visione sub speciae aeternitatis, legge le tracce del trascendente, riconosce i segni dell’assoluto, ravvisa la presenza del «soprannaturale», solo scudo in grado di riparare dal potere della forza: Il riconoscimento riguarda innanzitutto colui che soccorre, se il soccorso è puro. L’uomo soccorso lo deve solo a titolo di reciprocità. Colui che viene soccorso deve esattamente l’equivalente di ciò che ha ricevuto, e cioè riconoscere che l’altro ha il diritto di dire io. Ogni beneficio puro (puro da ambedue le parti) stabilisce un rapporto di uguaglianza perfetta tra i due esseri che vi hanno parte. Un beneficio puro abbatte la barriera della forza, e di conseguenza è soprannaturale. Un beneficio può essere puro da una sola parte. Non c’è sentimento di debito solo se non c’è purezza da ambedue le parti104.

Il riconoscimento corrisponde all’individuazione di un’equivalenza che trova riscontro in una relazione col trascendente, e che in particolare s’identifica con quella fondamentale «virtù soprannaturale» che è per Simone Weil la giustizia, ritenuta già dai greci equivalente morale della nozione geometrica di misura, che riveste lo stesso ruolo in relazione alla bellezza. L’una e l’altra – “giustizia” e “misura” – sono legate da una corrispondenza che si riflette nelle forme dell’equilibrio, dell’armonia, della simmetria, della proporzione, forme equivalenti declinate secondo l’estetica in relazione alla bellezza e secondo la morale in relazione alla giustizia. Bellezza, Giustizia, Verità, Bene: una terminologia platonica per esprimere valori assoluti e incon104. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. II, p. 246.

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dizionati che coincidono col trascendente, con la realtà extramondana verso cui volge e fissa il suo sguardo Simone Weil; che, tuttavia, acquistano senso e valore soltanto se osservati con i piedi ben piantati per terra, se si lascia ancora una volta al corpo il compito di stabilire e rinnovare un nesso inscindibile col mondo naturale, senza il quale la prospettiva del «soprannaturale» sarebbe impraticabile. In tal senso, l’approdo mistico della spiritualità weiliana è di natura “intra-mondana”: di qui il paradosso e lo scandalo della sua fede religiosa, una fede che coinvolge il corpo e l’anima e la cui concretezza si sperimenta nei rapporti col prossimo, nelle esperienze di relazione con l’alterità, in quelle pratiche di autentico riconoscimento del proprio simile che le consentono di concepire l’«amore per il prossimo» come una delle «forme dell’amore implicito di Dio».105 Questo il senso dell’equazione contenuta negli appunti dei suoi Quaderni: «Riconoscere il proprio fratello in uno sconosciuto, riconoscere Dio nell’universo»106.

105. Cfr. S. Weil, Attesa di Dio, tr. it. cit., p. 103 ss. 106. S. Weil, Quaderni, tr. it. cit., vol. III, p. 70. L’equazione riflessa da questo passo in realtà ha informato l’intera, straordinaria esperienza di vita di Simone Weil, come si evince da due illuminanti letture: innanzitutto la bellissima biografia di S. Pétrement, La vita di Simone Weil, tr. it. di E. Cierlini, ed. a cura di M. C. Sala, con una Nota di G. Gaeta, Milano 1994 e poi l’“empatico” ritratto con cui G. Fiori ha fatto conoscere Weil in Italia intitolato Simone Weil. Biografia di un pensiero, Prefazione di C. Bo, Milano 1990 [1981]. Un’altra straordinaria testimonianza relativa alla sua breve, ma ricca esistenza è quella di J.-M. Perrin-G. Thibon, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, tr. it. di G. Ciaccio, Prefazione di F. Ferrarotti, Milano 2000.

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Doppio gioco. Logica del dominio e astuzia in Michel Maffesoli

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1. A guisa di introduzione. Le piccole cose

S

econdo una delle prassi più consolidate della cultura occidentale – la «distribuzione della conoscenza su piani (discipline) indipendenti, omologhi e omogenei»1 – per anni la “sociologia del quotidiano” è stata vista esclusivamente come attenzione alle micropratiche di vita che tutti mettiamo in atto senza posa e come tale ristretta a un campo d’interesse a metà strada tra la poesia e la psicanalisi, con qualche accento di pensoso esistenzialismo e nulla più. In altri termini, un passatempo per intellettuali snob, impegnati nella produzione di «vignette sociali, “inoffensive e di perfetta bonomia”»2 con cui allietare gli esponenti della borghesia medio-alta delle rispettive nazioni3. Verso la fine del Novecento «la svalutazione implicita […] [nel] termine si attenuerà o verrà rovesciata criticamente»4, è vero, ma, come recita l’adagio, “le cattive abitudini sono dure a mo1. L. Dumont, Homo aequalis II. L’idéologie allemande, Paris 1991, p. 20. 2. D. Frisby, Sociological Impressionism. A Reassessment of Georg Simmel’s social Theory, London 1992, p. 78. 3. Come ricordano opportunamente Jedlowski e Leccardi, il termine “quotidiano” designa, nell’uso corrente, «ciò che avviene e si ripete ogni giorno[,] è “ordinario”, “banale”, quando non “volgare” o “noioso” […]. Il termine è entrato nell’uso comune di diverse lingue europee agli inizi dell’Ottocento sotto la spinta della temperie romantica, per la quale “quotidianità” era sinonimo della vita borghese prosaica e soddisfatta di sé» (P. Jedlowski-C. Leccardi, Sociologia della vita quotidiana, Bologna 2003, p. 13). 4. Ibidem.

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Fabio D’Andrea

rire”. L’etichetta conserva tuttora delle tonalità spregiative e dei limiti d’utilizzo che sembrano precludere alla corrente da essa designata alcuni campi d’indagine, come se la classica divisione “micro”, “meso” e “macro” fosse composta da compartimenti stagni e non da categorie analitiche semplicemente indicative. È ad esempio improbabile che un sociologo del quotidiano possa proporre ipotesi di un qualche interesse sulle dinamiche politiche o sui rapporti di potere: sono temi che esulano chiaramente dalle sue competenze, occupandosi dei quali non potrebbe non fare la figura del dilettante, giocandosi la (poca) rispettabilità accademica di cui è titolare. Eppure, anche solo a far caso ai meccanismi di cooptazione ed esclusione che regolano le comunità scientifiche, si ha l’impressione che il gioco del potere si svolga anche in contesti che prettamente politici non sono o almeno che la politica spesso abbandoni i luoghi paludati dove la si vorrebbe confinata per informare di sé province che se ne proclamano esenti. Non è ad esempio una coincidenza che la frase di Frisby citata poco fa, pur riferendosi alle critiche mosse per decenni a Simmel, si attagli alla perfezione all’atteggiamento che larga parte dell’Accademia ha adottato nei confronti di un pensiero percepito come estraneo, anche se temporalmente successivo. Il che lascia ancora supporre che la prassi che distribuisce il sapere in horti conclusi non abbia granché a che fare con l’efficacia del sapere stesso, ma derivi da preoccupazioni di altro ordine. In particolare viene alla mente quanto affermato da Maffesoli a proposito delle diverse libidines, i desideri profondi che guidano l’azione umana: di norma predomina la libido dominandi, la brama di dominio e controllo su se stessi e sul mondo, sovente alleata (in posizione di supremazia) con la libido sciendi, la sete di conoscenza, mentre ad esse si contrappone, non per disegno ma essenzialmente, la libido sentiendi, la spinta a provare emozioni e sensazioni5. Il ricorso all’antico adagio cesariano divide 5. «Quel che è certo è la reviviscenza di un’erotica sociale, di un orgiasmo diffuso, o, per dirlo in termini più accademici, il ritorno della libido sentiendi, quella del sentire, che non si può comprendere per mezzo delle categorie

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et impera chiarisce i rapporti tra le prime due e il panorama segmentato dell’universo della seconda: se «dominare è sapere. Sapere è potere. La modernità ne fornisce un buon esempio»6, il dominio parcellizza il sapere perché non prenda il potere al suo posto e si replica in ognuna delle province così ottenute, a garanzia della conservazione del suo primato. Un autore che decida di rivalutare la gioia del sentire, il piacere puntuale dell’esperienza condivisa che non ha altra spendibilità che se stesso, si pone, proprio per questa scelta, in posizione eccentrica rispetto a un sapere sempre più strumentale e asservito a esigenze di dominio7. Il conseguente “esilio” nella terra di nessuno del quotidiano segnala l’impossibilità di integrarlo nel pensiero corrente così da trarne letture conformi; segnala il suo essere destabilizzante e scomodo e dura finché – Dio non voglia! – le sue tesi non cominciano a trovare troppi riscontri empirici per poter essere semplicemente e silenzioproprie alla libido sciendi, preoccupata semplicemente dal sapere astratto, o alla libido dominandi, per la quale importa solo la politica, il potere, tutte cose messe in campo dai “morti viventi” che hanno la pretesa di pensare o di gestire il mondo» (M. Maffesoli, La parte del diavolo. Elementi di sovversione postmoderna, Roma 2003 [2002], p. 13). 6. Ivi, p. 31. 7. «Apprezzare [la ricerca dell’inutile], darle un valore, è difficile, perché perfino la conoscenza rientra oggi in una logica politico-economica. Per tutta la filosofia progressista del XIX secolo, “sapere è potere”. Il pensiero non vale più per se stesso, ma viene messo in rapporto a un fine che gli è estraneo: il potere sulle persone (politica) e sulle cose (economia). Si ritrova in questo il fondamento dei grandi sistemi elaborati nella modernità, marxismo, freudismo, positivismo, che vogliono, in ultima analisi, legittimare l’azione che si può esercitare su se stessi: l’economia dell’io (freudismo), o sul contesto sociale: l’economia del mondo (marxismo, positivismo). In ognuno di questi casi, “potere” o “fare” è l’extrema ratio del pensiero. E non c’è che da vedere l’ossessione della professionalizzazione a tutti i livelli dell’educazione, università compresa, per rendersi conto del cammino percorso dall’ideologia, la cancrena – diranno alcuni – dell’utilitarismo. Non dimentichiamolo, nella tradizione antica la schole era “l’ozio studioso”, l’otium senza utilità immediata, contrapposto al negotium che era, lui, proprio dell’azione servile» (M. Maffesoli, La transfiguration du politique. La tribalisation du monde postmoderne, Paris 2002 [1992], p. 170).

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samente accantonate. Per affrontare la traversata del deserto si deve essere convinti delle proprie idee oltre la convenienza spicciola, «ci vuole del coraggio […]. Coraggio di riconoscere che la categoria centrale delle analisi moderne, la Storia, è perlomeno relativizzata. Di conseguenza, i diversi avatar di questa Storia in cammino – politica, mito del progresso, contratto sociale, cittadinanza, ecc. – rivelano a loro volta tutta la propria obsolescenza. Riconoscerlo significa andare controcorrente rispetto all’opinione comune propria dell’intellighenzia, fatta di tendenze confuse. E l’intellighenzia fa pagare un caro prezzo a questa opposizione: cospirazione del silenzio, ostracismo e stigmatizzazioni d’ogni genere. Ma è l’unica maniera per essere in armonia con una socialità nascente, la cui indifferenza nei confronti degli ukase moralisti è monumentale»8. Oggi che la crisi della politica è una realtà incontrovertibile, che l’effervescenza sociale sconvolge intere nazioni mostrando impietosamente la fragilità del potere – come è avvenuto di recente in Francia, con la rivolta delle banlieues – o diviene prassi diffusa e incomprensibile, come i ricorrenti roghi notturni di auto e motorini o i lanci di pietre dai cavalcavia, la lettura maffesoliana del rapporto ambiguo tra la socialità delle masse falsamente acquiescenti e il potere lontano che moltiplica norme e divieti si pone come un termine del dibattito con cui ci si deve confrontare. Questo saggio vuole costituire un tentativo di riflessione in questo senso, inquadrando il pensiero politico di Maffesoli nel più ampio contesto delle sue teorie e segnalandone passaggi problematici, spunti critici e convergenze con altri autori di riferimento. Prima considerazione da cui partire è che la progettualità moderna non sa che farsene del quotidiano, «della piccola musica di un luogo e delle minuscole situazioni della vita corrente»9. La sua è una razionalità astratta e sovrastante che si ritiene separata dalle piccole cose e non è in grado di scorgerne 8. M. Maffesoli, L’istante eterno. Ritorno del tragico nel postmoderno, Roma 2003 [2000], p. 9. 9. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 193.

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il potenziale dirompente. A questo proposito Maffesoli cita un apologo di Bloch, molto istruttivo: «Per instaurare il regno della pace, dice [Bloch], non c’è alcun bisogno di distruggere tutto per far nascere un mondo totalmente nuovo; “è sufficiente spostare appena questa tazza o quest’arbusto, o quella pietra, facendo lo stesso per ogni cosa”. Piccole cose, grandi effetti si potrebbe dire. Da quest’apologo si può ricavare l’idea che in certi momenti sono proprio la sfumatura, lo spostamento infimo o la modifica leggera i vettori di cambiamenti rivoluzionari»10. In proposito è interessante notare che anche la costruzione scientifica occidentale è informata dal medesimo atteggiamento: secondo una tale logica, nell’esperimento scientifico vengono fatti variare alcuni parametri la cui centralità è decisa sulla base della quantità di cambiamento che possono indurre nell’insieme. Si ritiene che negli altri casi minime oscillazioni comportino minime conseguenze e siano perciò insignificanti. Si tratta di una distorsione perfettamente comprensibile – a livello di senso comune – ma fonte di notevoli problemi per chi ambisca a una conoscenza “scientifica”, quindi certa, replicabile e capace di previsione. Come osserva uno dei più grandi matematici (anche se il termine è riduttivo) viventi, Mitchell J. Feigenbaum, «in fisica c’è una supposizione fondamentale, ed è che il modo per comprendere il mondo dev’essere quello di tenerne isolati gli ingredienti finché non si siano comprese le cose che si ritiene siano veramente fondamentali. Si suppone quindi che le altre cose che non si comprendono siano solo dettagli. L’assunto è che ci sia un piccolo numero di principi, che si possono discernere guardando le cose nel loro stato puro – questa è la vera nozione analitica –, e che poi in qualche modo si compongano questi principi in modi più complicati quando si vogliono risolvere problemi meno puri. Sempre che ci si riesca»11.

10. Ivi, p. 192. 11. M.J. Feigenbaum, cit. in J. Gleick, Caos. La nascita di una nuova scienza, Milano 2002 [1987], p. 186.

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Sebbene «l’idea di un universo di fatti oggettivi, depurati da ogni giudizio di valore, da ogni deformazione soggettiva, grazie al metodo sperimentale e alle procedure di verifica, [abbia] consentito lo sviluppo prodigioso della scienza moderna», essa rimane in ultima analisi, «secondo l’eccellente definizione di Jacques Monod […], un postulato, ovvero […] una scommessa sulla natura del reale e della conoscenza»12. Ciò non toglie che i più siano disposti a scordarne il carattere strumentale per trarne rassicurazione e dominio: «Al nostro tempo, al tempo della relatività di Einstein e dell’indeterminazione di Heisenberg, Laplace sembra quasi buffonesco nel suo ottimismo, ma gran parte della scienza moderna ha continuato a coltivare il suo sogno. Implicitamente, la missione di molti scienziati del XX secolo – biologi, neurologi, economisti – è stata quella di scomporre il loro universo negli atomi più semplici che obbedissero alle leggi scientifiche. In tutte queste scienze è stata fatta valere una sorta di determinismo newtoniano […]. [Ma] c’era sempre un piccolo compromesso, così piccolo che gli scienziati al lavoro di solito se ne dimenticavano, nascosto in un cantuccio delle loro filosofie come un conto da saldare. Le misurazioni non potevano mai essere perfette. Gli scienziati che marciavano sotto il vessillo di Newton sventolavano di solito un’altra bandiera, la quale diceva qualcosa del genere: data una conoscenza approssimata delle condizioni iniziali di un sistema e una comprensione della legge naturale, è possibile calcolare il comportamento approssimato del sistema. Questo assunto si trovava al cuore filosofico della scienza»13. La scoperta del cosiddetto “effetto farfalla”, alla base delle nuove discipline del caos, ha però smentito radicalmente una tale catena di assunti: «L’effetto farfalla acquistò un nome tecnico: dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali. E la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali non era una nozione del tutto nuova. Essa aveva un posto nel folklore: 12. E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Milano 1993 [1990], p. 37. 13. J. Gleick, Caos. La nascita di una nuova scienza, cit., pp. 18-19.

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Per colpa di un chiodo si perse lo zoccolo; Per colpa di uno zoccolo si perse il cavallo; Per colpa di un cavallo si perse il cavaliere; Per colpa di un cavaliere si perse la battaglia; Per colpa di una battaglia si perse il regno!

Nella scienza, come nella vita, è ben noto che una catena di eventi può avere un punto di crisi in cui piccoli mutamenti sono suscettibili di ingrandirsi a dismisura. Ma il caos significava che tali punti erano dappertutto»14. La gran parte degli scienziati – ivi compresi gli scienziati sociali – continua ad affidarsi fideisticamente a un discorso scientifico che la stessa scienza ha ormai dimostrato essere riduttivo e semplicistico e nel quale, con tutta evidenza, la libido sciendi ha perso capacità di impulso e di direzione, portando a quella che si potrebbe definire imperitia sciendi e che Morin chiama «intelligenza cieca»: «Ci avviciniamo a una mutazione straordinaria nella conoscenza: quest’ultima è fatta sempre meno per essere riflessa e discussa dalle menti umane, sempre più per essere engrammata in memorie d’informazione manipolate dai poteri anonimi, in primo luogo dagli Stati. Ora, questa nuova, massiccia e prodigiosa ignoranza è a sua volta ignorata dagli studiosi. Costoro, che, in pratica, non dominano le conseguenze delle loro scoperte, non controllano nemmeno intellettualmente il senso e la natura della loro ricerca»15. Il quotidiano sembra tradurre in qualche modo nelle scienze sociali l’idea di «dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali», mettendo in crisi a livello assiomatico ogni pretesa di legiferazione e prevedibilità che esse possano aver manifestato e annullando di conseguenza la loro utilità per un progetto di dominio e controllo sociale. Aderire a una tale ispirazione significa porsi nella contemporaneità in modo inattuale, rinunciare alla spendibilità della propria ricerca in un contesto radicalmente 14. Ivi, p. 27. 15. E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p. 9.

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utilitarista dove ogni cosa trae valore esclusivamente dalla sua strumentalità per fini esteriori, politici o economici che siano. Come tuttavia intuisce chiaramente Morin, questo atteggiamento implica una crescente incapacità di inserire se stessi e il proprio operato in un quadro di senso, con costi prima esistenziali e poi pratici di difficile sopportabilità, in particolar modo quando l’evidenza di tale incapacità revoca in dubbio i metadiscorsi su cui lo stesso utilitarismo razionalistico ha costruito il suo primato. Ne consegue il diffondersi nel corpo sociale – tra coloro che non hanno accesso al sapere critico che potrebbe fornir loro gli strumenti per interpretare ciò che sta accadendo, a dire il tramonto di un mito – di un crescente senso di insicurezza e incertezza, che divengono le parole-chiave attraverso cui comprendere l’attualità: «La cultura postmoderna deve riconoscere e farsi carico del senso d’insicurezza, della perdita di fiducia verso il futuro che caratterizza la nostra epoca, che mette “in atto una sorta di ritirata emotiva di fronte agli impegni a lungo termine, che presupporrebbero un mondo stabile, sicuro e tranquillo”»16. È innegabile che i lunghi anni di predominio totalitario della visione economico-progressista della società e della vita non hanno portato i risultati sperati e predetti. L’esaurimento dell’ideale lascia in eredità all’Occidente un’economia sempre più sbilanciata a favore di un’oligarchia senza volto; una comunità internazionale preda di lotte intestine, dove la guerra torna a occupare un posto di rilievo, mentre lo Stato-nazione stesso mostra evidenti segni di crisi – l’operare disgregante dell’unità nazionale della Lega richiama, in minore, le dinamiche sovietiche e jugoslave17 – ed è vittima del ritorno della differenza, a lungo negata, che infuria con virulenza, sconvolgendo un corpo sociale sbandato e apparentemente rinunciatario.

16. S. Fornari, La vita quotidiana: la “normale follia”. Transiti sociologici, in A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, Urbino 2005, p. 179. 17. Cfr. C. Mongardini, Il futuro della politica, Milano 1990, pp. 93-102.

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Quest’ennesima etichetta merita una certa attenzione, perché una delle principali ipotesi proposte da Maffesoli nella sua riflessione sul politico è che una simile lettura dell’apatia e del non impegno dei quali si è sovente testimoni deriva da un quadro di riferimento superato e pertanto incapace di apprezzarne le caratteristiche: «Si tratta di un processo d’inversione che si osserva spesso nelle storie umane. A volte l’energia sociale si proietta all’esterno, “si utopizza”, si esprime in maiuscole e crea quindi delle grandi entità: Dio, Stato, Rivoluzione, Progresso… che poi riverisce; l’energia è allora estensiva, economica. A volte, invece, essa si spende all’interno, si attacca al minuscolo e crea, perciò, dei piccoli dèi intercambiabili ed effimeri, legati ai luoghi e ai momenti. L’energia diviene allora intensiva, “ecologica” […]. Bisogna insistere su questa circostanza per la facilità con cui si stabilisce una stretta relazione tra la fine del politico e una supposta inerzia popolare. Un altro luogo comune confezionato da coloro che non riescono ad ammettere che il pensiero possa fare a meno di un fine o di un’azione finalizzata. Si può invece ipotizzare che, con la saturazione del politico, l’energia si trasfiguri, prenda un’altra forma, ma resti comunque potente»18.

2. Potenza/Potere Prima di affrontare la questione centrale dell’interpretazione dell’atteggiamento prevalente in questo momento storico – ciò che ha a che fare con la «trasfigurazione del politico» – è bene riflettere sul percorso che a tale trasfigurazione ha portato, dato che le diverse evidenze empiriche che la segnalano vengono di norma trasfigurate a loro volta dal discorso mediatico, che ne rende difficile un apprezzamento scevro da interferenze. «Quando ci si interroga sulle esplosioni violente, sulla caduta brutale di imperi o domini che si ritenevano saldamente fondati, si invocano di frequente l’anarchia, il disordine o la disfun18. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 160.

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zione cronica di cui sarebbero stati vittime. Molto più spesso, tuttavia, l’implosione è dovuta a un eccesso d’ordine. Le differenze culturali che si era creduto di livellare, le diverse anomie che si pensavano evacuate, tutte le contraddizioni che sembravano, dialetticamente o autoritariamente, superate, tutto questo risorge con forza in occasione di un pretesto qualunque, a causa di una rivendicazione anodina o facendo leva su una penuria più accentuata o addirittura su una catastrofe naturale del tutto imprevedibile»19: ciò che porta alla rovina è l’assolutizzazione, la pretesa di spiegare o gestire un contesto qualsiasi sulla base di un solo principio e l’ulteriore pretesa – che sta a monte di questa – che quel contesto sia coerentemente strutturato attorno a quel principio. La modernità ha sostenuto che tutta la realtà fosse organizzata in ossequio ai principi della ragione – «il reale è razionale», afferma Hegel – e la sua implosione rischia quindi di essere all’altezza della grandeur delle sue ambizioni. Un progetto immenso, la cui qualità immaginale e simbolica ridicolizza gli ultimi esiti tristemente materiali: l’utilitarismo, il calcolo monetario glorificato come sola spinta all’azione, il sapere prostituito alla pagnotta, pur venendone disconosciuta e negata, nella radicale incapacità di autocomprensione colta da Morin. Un progetto che porta in sé limiti invalicabili, in special modo nel momento in cui non sa più riconoscersi come tale e perde di vista la dimensione d’incertezza che ogni aspettativa nasconde in sé. Lo si è già visto d’altronde a proposito della scienza: le strategie cognitive e organizzative trascendono regolarmente la strumentalità dichiarata per divenire rituali di rassicurazione e controllo e presto non sono più in grado di ricordare la propria approssimazione. Nello scarto tra realtà e rappresentazione, che nella tarda modernità si fa abisso, precipitano i sogni, le rivendicazioni, la presunzione di chi aveva pensato di poter imporre il proprio ordine alla realtà. Dietro le realizzazioni pratiche – i titanici risultati della tecnologia, l’universo delle merci – si staglia un panorama grazie al quale soltan19. Ivi, p. 75.

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to questi “trionfi” trovano un senso e un riscatto. È tuttavia un cielo di significati dove le costellazioni sorgono e tramontano e quella che ha retto le “magnifiche sorti e progressive” della modernità si avvicina sempre più all’orizzonte. Ogni organizzazione dovrebbe mantenere uno stretto legame con le forze ideali che ne costituiscono radice e ragione. Lo smarrimento della coscienza di questa necessità è ciò che ne causa il progressivo svuotamento di senso condiviso, rendendola sempre più autoreferenziale ed estranea alla vita vissuta20. Si tratta di un processo probabilmente inevitabile, cui la saggezza antica tentava di porre rimedio con appositi rituali: «L’idea di base del Giubileo […] consiste nel ricondurre ogni cosa al suo stato primitivo. È una legge sociale ben nota: ogni cosa tende a svigorirsi. Si perde il ricordo dell’effervescenza fondatrice. Lo shock amoroso diviene noia coniugale, l’energia rivoluzionaria si muta in partito politico istituzionale, l’energia giovanile degli inizi si rovescia in ripetizione monotona. Anche l’intuizione creatrice di un pensiero innovatore tende a divenire sistema cristallizzato, con i suoi dogmi e i suoi cani da guardia che vegliano gelosamente sulla rigidità dottrinale […]. È per questo che

20. «Gli inconvenienti della differenziazione e della rappresentanza organica per Simmel consistono nel fatto che nelle relazioni tra rappresentanti e rappresentati le forme organiche non devono mai arrivare all’autonomia. Anche qui la forma non si deve mai distaccare dalla matrice vitale. “Tuttavia – scrive Simmel – interessa ugualmente alla conservazione del gruppo che questi organi non si specializzino al punto di giungere a una completa autonomia. Bisogna che si senta sempre con forza, se non altro in modo tacito, ciò che essi sono veramente, vale a dire che essi non rappresentano in definitiva che delle astrazioni realizzate, che le interazioni individuali ne sono tutto il contenuto concreto, che essi sono semplicemente la forma sotto la quale si sono praticamente organizzate queste forze elementari, nel corso del loro sviluppo. Tutto quello che essi esprimono è il modo in cui le unità primarie del gruppo mettono in opera le loro energie latenti, quando esse raggiungono la loro più grande potenza d’azione. Se dunque, differenziandosi, essi si staccano dall’insieme, la loro azione, da conservatrice, diviene distruttiva”» (C. Mongardini, Aspetti della sociologia di Georg Simmel, in G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna, Roma 1976, p. CXXX. Corsivi miei).

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il giubileo recupera la memoria dell’origine»21. Ciò che prima accadeva quasi naturalmente e veniva percepito come perdita da reintegrare, nel clima razionalistico della modernità diviene scopo lucidamente perseguito. Con lucidità e miopia, bisognerebbe aggiungere, poiché l’astrazione da ogni strato e movente emotivo e passionale impoverisce progressivamente chi la pratica, sia esso persona, gruppo o istituzione. Quest’impoverimento, questa perdita di smalto è ciò che Weber chiamava «disincanto del mondo»22 e che aveva perfettamente riconosciuto come connaturato alle dinamiche razionalistiche della modernità: «Il processo di razionalizzazione porta inevitabilmente […] al disincanto delle situazioni in cui si realizza, termine che implica chiaramente la perdita di una qualità – l’incanto – una volta rivestita di una grande importanza per le persone»23. Nelle tesi weberiane, come nel loro richiamo da parte di Ritzer, riecheggia tuttavia l’assolutezza del mito del Progresso, l’ineluttabilità di una linea evolutiva alla quale non c’è scampo. È vero che questa cultura è sempre meno in grado di pensare in termini diversi dall’arida ragione strumentale, laddove ritrovare l’incanto significa eminentemente riscoprire il lato qualitativo della vita rinunciando a calcolo e moneta, ma il dover accadere implicito nell’«una volta» di Ritzer nulla sa di saturazioni, né dello svaporare di un primato. Non a caso la modernità sogna l’immortalità e la crescita perpetua, santificata in ogni occasione dai sacerdoti dell’economia; non riesce a concepirsi transeunte e corruttibile come tutto ciò che esiste in natura. In questo senso la modernità rappresenta l’ultima astrazione, in quanto sottrazione del mondo umano – concepito in esclusiva chiave economica – all’ordine naturale, abiura della corporeità

21. M. Maffesoli, La parte del diavolo, cit., p. 19. 22. Cfr. M. Weber, Scienza come vocazione e altri testi di etica e scienza sociale, a cura di P.L. Di Giorgi, presentazione di A. Scivoletto, Milano 1996 [1919]. 23. G. Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo, Bologna 2000, p. 101.

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ed emozionalità che ne costituiscono, assieme al versante intellettuale e con pari dignità, la complessità inesauribile24. Artificialismo e virtualità segnano l’apogeo di uno sviluppo intellettuale e culturale che ha caratterizzato l’Occidente per più di duemila anni, senza raggiungere però posizioni di predominio pressoché assoluto come negli ultimi secoli. In effetti non solo Maffesoli, ma anche numerosi altri pensatori provenienti da discipline diverse indicano in questa circostanza l’inizio dei “guai” per la nostra cultura. Nomi tanto diversi come Neumann25, Dumont26, Durand27, Hobsbawm28, Galimberti29, pur con sfumature originali, indicano nell’assolutizzazione del principio di non contraddizione, e quindi nella radicalizzazione del movimento antinomico della conoscenza, la trappola nella quale è caduta la libido sciendi occidentale. Maffesoli, dal canto suo, indica nella sovversione di questo principio la sola via d’uscita possibile: «La nozione di “contraddittoriale” (S. Lupasco) […] esprime, in logica, la perduranza e il dinamismo del disordine introdotto dal “terzo” (tertium datum). Terzo che intendo qui in senso metaforico: quel che viene a disturbare le certezze, le varie quieti, i valori sociali che si credevano stabiliti una volta per tutte»30.

24. Cfr. F. D’Andrea, Genius loci. I luoghi del quotidiano attraverso Michel Maffesoli, in A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, op. cit., pp. 285-329; id., Immaginare la macchina. La realtà simbolica del cyborg, in F. D’Andrea (a cura di), Il corpo a più dimensioni. Identità, consumo, comunicazione, Milano 2005, pp. 21-53. 25. Cfr. E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, presentazione di G. Tedeschi, prefazione di C.G. Jung, Roma 1978 [1949]. 26. Cfr. L. Dumont, Homo aequalis II. L’idéologie allemande, cit. 27. Cfr. G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Bari 1991 [1963]. 28. Cfr. E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano 1999 [1994]. 29. Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano 1999; Id., La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Milano 2005. 30. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 75.

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Eppure, a voler riprendere una delle letture più originali della condizione umana proposte nel secolo scorso, la Storia delle origini della coscienza di Neumann (1949), la questione è forse più complicata. La costruzione dicotomica della realtà diviene qui l’unica strategia in grado di assicurare l’emersione del complesso dell’Io dalle profondità indistinte dell’Uroboros, la nebulosa precoscienziale della participation mystique. Sforzo titanico che le cosmogonie mondiali descrivono nella figura immane della separazione dei genitori del mondo e che non stentiamo a riconoscere nella fatidica mela colta da Eva dai rami dell’albero della conoscenza: «Solo in questa luce della coscienza l’uomo può conoscere. E questo atto del conoscere, della discriminazione conscia, scinde il mondo in opposti, poiché l’esperienza del mondo diventa possibile solo attraverso le opposizioni […]. Quando l’Io pone se stesso al centro e si consolida autonomamente come coscienza di sé, la situazione originaria è necessariamente spezzata […]. Per banale che possa sembrare, il principio di identità della logica, “Io sono Io”, il principio fondamentale della coscienza, rappresenta in realtà una grande conquista. Solo l’atto con cui l’Io pone se stesso e la personalità viene identificata con l’Io – per quanto ingannevole quest’identificazione possa rivelarsi in seguito – fa sì che possa sorgere una coscienza capace di orientare se stessa»31. Senza la capacità di distinguere, la diairesi di cui discorrerà più tardi Durand riconoscendone la potenzialità schizoide32, non si dà soggettività, né autonomia, né affrancamento da pulsioni istintuali ed emotive. Nella modernità, tuttavia, qualcosa non è andato per il verso giusto: «Nel corso dello sviluppo occidentale, il processo in sé positivo dell’emancipazione dell’Io e della coscienza dallo strapotere dell’inconscio è diventato negativo. Esso è andato ampiamente al di là della divisione dei sistemi coscienza-inconscio, trasformandola in una vera e propria dissociazione. Come la 31. E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, cit., pp. 105-106. 32. Cfr. G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., pp. 179-190.

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differenziazione e la specializzazione sono degenerate in forme esasperate, così questo sviluppo nel suo corso è andato al di là della formazione della personalità individuale e ha portato alla nascita di un individualismo atomizzato»33. Quando Dumont descrive la configurazione individualista in termini di «distinzione assoluta tra soggetto e oggetto (opposta a una distinzione solamente relativa, quasi fluttuante), segregazione dei valori in rapporto ai fatti e alle idee (opposta a una loro non distinzione o stretta combinazione)»34, esprime lo stesso eccesso di separazione che porta l’individuo al di là di se stesso, facendone un “dividuo” per sempre condannato all’incompletezza e alla ricerca cieca di ciò di cui si è più o meno volontariamente privato. Una costruzione-costrizione da cui oggi molti tentano di liberarsi, abbandonando come possono la «metafisica della soggettività» che, secondo Maffesoli, incarna «quell’ambizioso progetto che faceva dell’“io” l’elemento centrale della rappresentazione. A sua norma l’individuo viene considerato tale quando ha “coscienza di sé”»35. Ora, sulla scorta delle considerazioni precedenti, la lettura maffesoliana può venir sfumata identificando il problema moderno in una “coscienza patologica ed esclusiva di sé” che rende impossibile al soggetto riconoscere la sua appartenenza a un contesto: amicale, sociale, ambientale che sia. Un’appartenenza che, seguendo Simmel e Morin, dev’essere interpretata come essenziale, nel senso forte di costitutiva e inevadibile: «Il fatto di poter dire “io”, di essere soggetto, consiste nell’occupare un luogo, una posizione in cui ci si mette al centro del proprio mondo per poter operare sul mondo e su se stessi. È quello che si può chiamare egocentrismo. Naturalmente, la complessità individuale è tale che quando ci mettiamo al centro del nostro mondo vi mettiamo, insieme, anche i nostri: vale a dire i nostri genitori, i nostri figli, i nostri concittadini, e siamo anche capaci 33. E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, cit., p. 378. 34. L. Dumont, Homo aequalis II. L’idéologie allemande, cit., p. 20. 35. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 206.

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di sacrificare la nostra vita per i nostri. Il nostro egocentrismo può trovarsi inglobato in una soggettività comunitaria più ampia; la concezione del soggetto deve essere complessa. Essere soggetti significa essere autonomi essendo contemporaneamente dipendenti. Significa essere qualcuno di provvisorio, di intermittente, significa essere quasi tutto per sé e quasi niente per l’universo»36.

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3. In arabesco: il quantum soggettivo L’intermittenza del soggetto – una figura debitrice delle “nuove” teorie della relatività e della fisica dei quanti – è lo stratagemma che consente di conservare quanto di esso rimane dopo l’attacco sferrato da Maffesoli. Nella sua polemica contro l’individualismo, il primo bersaglio è proprio l’individuo atomizzato che la modernità ha proposto come unità fondamentale dell’intero sistema: «Nella prospettiva che ci riguarda […], l’individuo è libero, egli contrae e s’inscrive all’interno di rapporti egualitari; ciò farà quindi da base al progetto, o meglio, all’atteggiamento pro-iettivo (cioè alla politica). La persona, invece, è tributaria agli altri, accetta un dato sociale e s’inscrive in un insieme organico. In poche parole, insomma, l’individuo ha una funzione, la persona un ruolo»37. La questione della libertà, rozzamente impostata dagli ultimi esiti razionalistici nei termini di un’autonomia assoluta da qualunque legame e del correlativo rifiuto di ogni vincolo come limitazione arbitraria di questo stato di cose, è probabilmente il discrimine sul quale lavorare per impedire quella che può sembrare una deriva “semplice” di un pensiero che sino a ora si è cimentato con successo con numerose sfaccettature della complessità. L’approccio appena descritto rivela il debito, da Maffesoli spesso riconosciuto, nei confronti 36. E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p. 65. 37. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individuo, Roma 1988, p. 94.

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di Simmel: la figura che meglio descrive, a tutt’oggi, lo scambio incessante che lega il soggetto al gruppo di appartenenza e all’ambiente in cui vive è la Wechselwirkung simmeliana, l’azione reciproca circolare che modifica costantemente chi o cosa ne è coinvolto, senza mai ridurre interamente un termine all’altro. Un’altra immagine del contraddittoriale caro a Durand e a Maffesoli. In Simmel e in Durand, tuttavia, il soggetto non scompare: è, pur nella limitazione della libertà ideologicamente proclamata dall’economicismo, parte attiva dell’interazione. Durand, con la sua nozione di «tragitto antropologico» si concentra sul livello immaginale38; Simmel, con gli esiti conclusivi della legge individuale, critica l’universalità delle norme e tenta di porre il soggetto-in-relazione a fondamento del processo sociale39. Non così, sovente, in Maffesoli. In prima battuta, il tragitto durandiano diviene per lui «il costante andirivieni che si stabilisce tra la massificazione crescente e lo sviluppo dei microgruppi che definirò “Tribù”»40. La sua proposta è sbilanciata verso l’estinzione del soggetto tout court, non solamente della sua dimensione utilitaristica identificabile nella figura “individuo”. La tribù in questo senso è un insieme disordinato nel quale l’attore scompare come entità autonoma, caricandosi al tem-

38. «Tragitto antropologico, cioè l’incessante scambio che esiste a livello dell’immaginario tra le pulsioni soggettive e assimilatrici e le intimazioni oggettive provenienti dall’ambiente cosmico e sociale» (G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., p. 31). 39. «Simmel ci ha lasciato un saggio – La legge individuale del 1913 […] – nel quale la sua originale e problematica concezione dello sviluppo morale come sviluppo fondato su una legalità individuale si iscrive […] “all’interno di una più vasta concezione ontologica secondo la quale la vita in genere trova nell’individualità la sua forma più propria ed elevata di espressione”. In questo saggio […] il filosofo di Berlino ci offre […] “una riflessione originale sul nesso di esemplarità singolare e universalità che rimane a tutt’oggi una delle proposte più interessanti per pensare una forma di normatività compatibile con il ‘fatto del pluralismo’ e per cogliere la rilevanza morale, e non solo etica, dell’autenticità”» (A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, Urbino 2002, pp. 551-552). 40. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, cit., p. 14.

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po stesso di una serie di stimoli sensoriali, estetici, prossemici che lo reintegrano in una dimensione di corporeità dalla quale il resto della cultura l’ha rimosso. L’oscillazione si instaura tra atomo di una massa spersonalizzata e componente temporaneo di aggregazioni emozionali, all’interno delle quali si assume un ruolo di volta in volta diverso, che specifica – in quella particolare occasione soltanto – la potenzialità fluida dell’abitante della postmodernità. Dati i fondamenti del pensiero maffesoliano, tuttavia, questa appare una forzatura, una mossa polemica che cede alla lusinga delle tecniche riduttive criticate nel razionalismo, poiché postula che la definizione utilitarista esaurisca le potenzialità del soggetto e che, una volta toltala di mezzo, non resti nulla da riscoprire e rivalorizzare. Rischia così di negare ogni possibilità di libero arbitrio, accentuando unilateralmente la passione – l’essere agiti dalla massa o dalla tribù – a scapito di qualsiasi forma di azione indipendente. Per quanto un tale atteggiamento possa costituire una comprensibile reazione ai trionfalismi ideologici che tanto danno hanno arrecato e arrecano alla convivenza civile – l’individuo “imprenditore di se stesso” e capace di completo controllo, lo stesso che ogni nuovo modello di automobile proclama di avere sulla strada! – bisogna tenere a mente le tesi sostenute con forza da Neumann e ragionare piuttosto dei limiti di quella «ingannevole identificazione» che consente però il sorgere di «una coscienza capace di orientare se stessa». Prima di scrollarsi affrettatamente di dosso un Io che la modernità ha reso troppo ingombrante, si dovrebbe forse ricordare che «l’individuo parte dall’ingenua supposizione di essere “il solo padrone in casa propria”. La coscienza del principium individuationis è un’acquisizione relativamente tarda dell’umanità, e come tale rappresenta un territorio relativamente piccolo rispetto al campo indeterminabile dell’identità originaria»41. Questo “piccolo complesso”, che si vuole autonomo e pur di riuscire ad esserlo è disposto a rinunciare al Paradiso terrestre e a lottare da eroe 41. A. Carotenuto, Jung e la cultura del XX secolo, Milano 2000, p. 60.

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contro il drago dell’inconscio, non è solo ciò che la modernità ha preteso che fosse: è anche la radice dell’orientamento morale, della continuità spirituale e immaginale, il “centro di gravità permanente” che riesce dinamicamente a stabilizzare un flusso ininterrotto di sensazioni ed emozioni, di stimoli creativi e asserti razionali. Un centro che paradossalmente può anche fluttuare e scomparire – come d’altronde accade ogni volta che ci si addormenta per ricostituirsi più o meno faticosamente al risveglio – ma resta comunque il metacentro che consente il riconoscimento di sé e degli altri. Secondo Neumann – forse troppo moderno nella sua “fede” evoluzionistica che non gli impedisce tuttavia di dubitare degli esiti finali – a seguito della dissociazione moderna tale centro, comunque essenzialmente fragile, rischia di estinguersi: «La coscienza disorientata e razionalistica dell’uomo moderno, atomizzata e scissa dall’inconscio, smette di lottare, comprensibilmente schiacciata dal peso di una responsabilità che deve portare da sola, in completo isolamento, perché i legami di massa non la sorreggono psicologicamente […]. La sfera egoica dell’umano e del personale si dissolve. I valori della personalità non contano più, e anche la conquista più alta dell’individuo, il suo comportamento umano individuale, viene perduta e rimpiazzata con modalità comportamentali collettive. I demoni e gli archetipi riacquistano la loro autonomia, la psiche individuale si fonde di nuovo con la grande Madre terribile, e con essa perdono ogni validità l’esperienza individuale della voce e la responsabilità del singolo di fronte all’uomo e a Dio»42. Da questo passo si evince una lettura “oscura” dei fenomeni collettivi al centro dell’attenzione di Maffesoli sulla quale appare necessario riflettere. Questi, dal canto suo, sottolinea a più riprese il carattere di «presentazione» della realtà dei suoi scritti43 e quindi il fatto 42. E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, cit., p. 381. 43. Cfr. M. Maffesoli, Eloge de la raison sensible, Paris 1996, pp. 149171.

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che ciò che osserva possa rivelarsi deteriore o dannoso per il corpo sociale: «Certo, ci si può dolere di un tale stato di cose, ma prima di stigmatizzarlo conviene constatarlo, descriverne i contorni e, soprattutto […], vedere in che misura non risulta essere che la modulazione di un’antica struttura antropologica cui è difficile dare un nome, ma che consiste nel riconoscersi a partire dall’altro, a non esistere che attraverso e nello sguardo dell’altro»44. La ricognizione della contemporaneità messa in atto da Maffesoli a questo fine oscilla, come si è detto, tra posizioni divergenti. Alla svalutazione netta dell’individuo moderno si accostano annotazioni che aprono a una relazionalità capace di salvaguardare la significatività dei suoi molteplici poli: «Vi sono momenti in cui non è tanto l’individuo che prevale quanto la comunità nella quale s’inscrive e in cui, quindi, non è importante la grande storia evenemenziale, ma le storie vissute giorno per giorno, le situazioni impercettibili che, appunto, costituiscono la trama comunitaria. Questi due aspetti mi sembrano caratteristici di ciò che può essere reso con il termine “prossemia”. Naturalmente ciò richiede attenzione alla componente relazionale della vita sociale. L’uomo visto in relazione, non solamente la relazione interindividuale, ma anche ciò che mi lega a un territorio, a una città, a un ambiente naturale che condivido con altri»45: in questo passaggio l’accento cade più genuinamente sulla complessità della trama relazionale che integra «l’enigmatica “finitezza” della fragile identità […] che si può fronteggiare soltanto individualmente-insieme-agli-altri»46, una complessità che chiama in causa una molteplicità di centri attivi, una «multipolarità» strettamente connessa al recupero del weberiano politeismo dei valori47.

44. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 217. 45. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, cit., p. 171. 46. F. D’Andrea-A. De Simone-A. Pirni, L’Io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, Perugia 2004, p. xxviii. 47. Cfr. M. Maffesoli, La parte del diavolo, cit., p. 29.

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La riflessione su questo particolare aspetto della questione porta Maffesoli a tornare sull’argomento, elaborandone direttrici di analisi che lo conducono ad accostarsi significativamente alla dimensione psicologica. La dimensione relazionale apre, ad esempio, a un superamento del soggetto nel quale riecheggiano le osservazioni di Neumann, private tuttavia degli accenti pessimistici appena citati. Quella che si è recentemente proposta al dibattito scientifico come «ulteriorità dell’Io»48, viene declinata nei termini di un rimando costante a ciò che Simondon definisce «realtà preindividuale»49 – concetto nel quale la componente junghiana di «inconscio collettivo» è indubbiamente presente50 – col risultato di ottenere una rappresentazione sempre più complessa e dinamica: «L’individuo è una realtà relativa, nei due sensi del termine: realtà relativizzata dagli altri e realtà che mette in relazione con gli altri. Il che presuppone una realtà arcaica, nel senso etimologico, una realtà che serve da supporto»51. Il rapporto essenziale che completa il soggetto, articolandosi verso l’ambiente naturale e sociale, assume una realtà interiore anch’essa complessa: l’Io è in connessione costante, anche se nella maggior parte dei casi clandestina, con le altre componenti della personalità e con un livello dell’essere «nel quale non esisteva né come individuo né come principio di individuazione»52. Maffesoli ne trae la conseguenza che l’individuo «non può ridursi all’unità, né rispondere al solo principio di identità, né piegarsi alla semplice logica del “terzo escluso”. La persona è sempre più di ciò in cui la si vuole rinchiudere o limitare; certo ha un sesso, un’ideologia, una professione, ma al tempo stesso essa supera, e di molto, le diverse caratteristiche di quel sesso, di quell’ideologia, di quella professione. È un processo che 48. F. D’Andrea-A. De Simone-A. Pirni, L’Io ulteriore, cit. 49. Cfr. G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, Roma 2001 [1989]. 50. Cfr. P. Chabot, La philosophie de Simondon, Paris 2003. 51. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 222. 52. G. Simondon, cit. in ivi, pp. 222-223.

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attualmente acquista un’ampiezza crescente e si spiega senza dubbio attraverso il radicamento nell’“essere preindividuale”, nello stato arcaico»53. Il «tragitto antropologico» di Durand diventa così un «andirivieni»54 nel quale il soggetto pulsa attraverso fasi di esistenza e non-esistenza, diviene «uno stato passeggero, incerto, oscillante, che deve il suo essere a una realtà preindividuale, e dal quale deriva regolarmente le sue diverse potenzialità»55. Il sociologo francese ritiene che questa situazione non debba «essere considerata come una diminuzione delle capacità individuali. Al contrario essa allarga il campo d’azione, demoltiplica le possibilità e permette alla persona di raggiungere le dimensioni dell’universo»56. La posizione maffesoliana, dunque, viene evolvendo nel corso del tempo, restando tuttavia intimamente contraddittoriale. Le diverse possibilità di annullamento soggettivo descritte rischiano in effetti di rendere quantitativamente insignificante il tempo in cui il soggetto è. Per evitare un tale slittamento – e le sue conseguenze negative per l’essere sociale esposte da Neumann – occorre riequilibrare la dignità delle tante fasi che esso attraversa. Che la soggettività possa ancora giocare un ruolo, costituendosi anch’essa in polo tensivo, è infatti non solo concepibile, ma probabile. Perché ciò divenga pensabile, tuttavia, c’è bisogno di una proposta che recuperi una parte del soggetto e ammetta al tempo stesso che questo non è più un’identità, un’entità solida, stabile, ma qualcosa che si avvicina a un campo, aperto tra i valori limite dell’assoluta autonomia (secondo l’utopistica ipotesi moderna) e del totale annullamento in un’entità superiore (pericolosamente prossimo a ciò che si immagina della morte). Il termine “campo” porta però con sé altri sovratoni: al momento del suo utilizzo si pensa immediatamente alla fisica e alla 53. Ivi, p. 223. 54. Ivi, p. 222. 55. Ivi, pp. 223-224. 56. Ivi, p. 224.

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matematica tradizionali, a saperi che vengono dalla razionalità strumentale e che in qualche modo ne condizionano la ricezione. Nel “campo” ci si immagina un punto che si sposta in modo coerente, diacronico; laddove ci si trova piuttosto nell’ambito di un concetto molto antico, ma che è già riemerso nel Romanticismo tedesco, poi con Simmel, spesso con Maffesoli: si tratta della “fluttuazione”, della “vibrazione”, della “oscillazione”. Per suo tramite, ci si trova alle frontiere della fisica contemporanea, perché di fatto c’è una convergenza impressionante tra questi discorsi delle scienze umane e le risultanze delle scienze naturali più avanzate, come ad esempio la teoria del caos. Grazie a simili strumenti euristici, e alla rinuncia mirata al principio di non contraddizione, oggi sono pensabili delle situazioni in cui il soggetto ora è, ora non è: quando non è più, è da qualche parte in questo insieme di variabilità, che lo avvicina alla tribù e quindi all’assoluta estasi – nel senso letterale di ex-stare, esser fuori da e di sé; quando ricompare, torna ad essere soggetto, non rimane indefinito: «Per riprendere la distinzione proposta da Gilbert Simondon tra ontologia e ontogenesi, mentre quella è una, stabile, trascendente, quest’ultima è plurale, labile, puntuale e radicata. Simondon parla di “sdoppiamento d’essere polifasico”. Formula felice, nella misura in cui richiama l’attenzione su quelle fasi multiple che, attraverso la non permanenza, la fluidità, la duplicazione del particolare, assicurano la permanenza del tutto, del Sé, del collettivo»57.

57. M. Maffesoli, La parte del diavolo, cit., p. 33. «I fenomeni della vita sono, come diceva il grande matematico Luigi Fantappié, “sintropici”, ovvero non soltanto negaentropici, il che significa dire negatori di entropia, negatori di disordine, ma anche costruttivi, finalistici, rispettosi di quella entelechia […] a suo tempo formulata da Aristotele […]. Nel declinare le caratteristiche dei fenomeni sintropici (tra i quali vanno ovviamente inclusi i fenomeni psicologici e, insomma, l’“esistenza”) Fantappié fa riferimento alle categorie ulteriori della sempre maggiore differenziazione e complessità, della irriproducibilità e, dunque, della difficoltà di osservazione» (A. Carotenuto, Jung e la cultura del XX secolo, cit., p. 15).

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Il soggetto polifasico si sottrae all’obbligo moderno di essere sempre se stesso, di avere (o far finta di avere) perennemente il pieno controllo della situazione – pretesa dalla quale deriva l’ineliminabile sensazione di inadeguatezza segnalata dall’onnipresenza del mito della performance – e si mette in una situazione dinamica da cui può potenzialmente riprendere contatto con la sua dimensione altra che il razionalismo ha rimosso, portando alla dissociazione denunciata da Neumann58. Dimensione che è ben lungi dall’avere esclusiva significatività individuale, ma irriga potentemente la socialità, come aveva genialmente intuito Simmel formulando il secondo apriori che rende possibile la società59. Non soltanto, si badi, la socialità estetica e postmoderna in cui molti tendono ancora a confinare la portata destabilizzante di queste teorie, ma anche la sfera pubblica, poiché il soggetto polifasico non è più l’unità minima funzionale del dominio. Vi è una stretta correlazione tra definizione e controllo, come Maffesoli ricorda sovente. L’imposizione di comportamenti e 58. Ciò che distingue tale situazione da quella effettivamente vissuta da molti nella contemporaneità è il giudizio che il soggetto stesso è in grado di darne, il fatto che può pensarla come un punto di partenza accettabile e condiviso con altri e non come uno stato di eccentricità, se non malattia, al quale tentare con ogni mezzo di sottrarsi. Il riconoscimento delle proprie instabilità essenziale, cioè – ribaltando la prospettiva attuale – della propria processualità e dinamicità costitutive, gli fornisce una via d’uscita dalla condizione esistenziale ben descritta da De Simone: «L’attore sociale nel theatrum publicum, nella scena contemporanea della vita sociale è sempre più “un personaggio in cerca d’autore”. L’io è sempre più consistente e non più autentico e coerente con se stesso. L’“unità” del personaggio si riduce sempre più a quella di un’esperienza contemporaneamente di compresenza e assenza nei confronti del proprio sé. L’io, pur cercando un centro di gravità permanente, ritrova semplicemente e soltanto uno spazio acentrico di gravità mobile, incapace di comunicare con l’altro e con il diverso» (A. De Simone, Identità, alterità e dialettica del riconoscimento. Filosofia europea contemporanea e mondo globale, in F. D’Andrea-A. De Simone-A. Pirni, L’Io ulteriore, cit., p. 132). 59. Cfr. F. D’Andrea, Soggettività e dinamiche culturali in G. Simmel, Roma 1999, pp. 90-94.

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idee dovrebbe generare consenso e prevedibilità, in una parola ordine, e condurre infine all’Eldorado statico della società amministrata, dove sorpresa, stupore e imprevisto non abbiano più cittadinanza: «Il fatto di voler esser qui e altrove, il desiderio e l’insoddisfazione, la costante dialettica fra statica e dinamica: tale ambivalenza è stata per la maggior parte tenuta nascosta durante l’intero arco della modernità. E con buona ragione! L’individuo doveva essere uno. La sua vita e le sue azioni funzionavano secondo una logica dell’identità. Alla stessa maniera, il contratto sociale, legando gli individui tra loro, era univoco e razionale e, di conseguenza, non lasciava spazio alcuno all’irrazionalità, all’azzardo o, più semplicemente, all’emozione. Ciò era particolarmente vero per la scena pubblica»60. Da un altro punto di vista, però, definire è uccidere: «Troppo spesso il sociologo razionalizzante procede a quel che Peter Berger chiamava «assassination through definition». Un simile assassinio in nome di una definizione è moneta corrente. Nominando, con troppa precisione, ciò che si apprende, si uccide ciò che si nomina»61. In questo caso il sociologo non fa che replicare le procedure messe in atto dal potere, in ossequio alla sottomissione della libido sciendi alla libido dominandi di cui si è già discorso62. Sono queste, dunque, a dover essere esaminate con più attenzione per comprendere in che modo e perché la modernità si sia saturata e si annunci un tempo nuovo, privo del rassicurante alone del miglioramento necessario e inevitabile che ha protetto a lungo la corsa del Progresso. Un tempo nel quale tutto ciò che la modernità ha cancellato dal suo orizzonte di senso tornerà con ogni probabilità sotto vesti perverse e patologiche – come ben descrive l’immagine psicologica del «ritorno del rimosso» – che non faranno che confermare paradossalmente i pregiudizi che il discorso dominante gli ha confezionato contro, 60. M. Maffesoli, Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, prefazione di Lella Mazzoli, Milano 2000 [1997], p. 81. 61. M. Maffesoli, Eloge de la raison sensible, cit., p. 60. 62. Vedi supra, pp. 390-391.

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acuendo lo scontro invece di portare a ripensamenti e autocritiche di un qualche genere: «Gli accessi improvvisi di brutalità, che puntualmente e in modo effimero [ricordano] l’animalità, mai completamente superata, della natura umana, o al meglio il suo lato infantile» dovranno infine esser presi più sul serio di quanto non si sia fatto sinora, poiché «si tratta, anche, di caratteristiche che sono co-strutturali alla natura umana. E che, per di più, se possono essere gestite con precauzione, minimizzate, o perfino totalmente annichilite a livello individuale, non possono esserlo per quanto riguarda la vita sociale»63. Il rifiuto di accettare la parte d’ombra, individuale e collettiva, ha radici molteplici che il discorso sul potere non esaurisce64, ma che sa sfruttare alla perfezione per i suoi fini. Come sottolinea freddamente ed efficacemente Remotti nel quadro di una serrata critica alla nozione di identità, questa «si costruisce a scapito dell’alterità, riducendo drasticamente le potenzialità alternative; è interesse perciò dell’identità schiacciare, far scomparire dall’orizzonte l’alterità. La tesi che si vuole sostenere è che questo gesto di separazione, di allontanamento, di rifiuto e persino di negazione dell’alterità non giunge mai a un suo totale compimento o realizzazione. L’identità respinge; ma l’alterità riaffiora […]. [Certo,] dal punto di vista dell’identità si fa di tutto per “negare” l’alterità. Ciò può assumere significati puramente intellettuali, come il non vedere, il non voler riconoscere “gli altri” o “altre” possibilità; ma può anche rivestire significati tremendamente concreti, come i casi di genocidio e di etnocidio stanno a dimostrare»65. La strategia definitoria, che sterilizza e rimuove ciò che in essa non trova spazio, si è data più volte a vedere nel XX secolo in tutta la sua terribile efficacia, senza però innescare quei processi di revisione critica che avrebbero potuto portare a un 63. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 100. 64. Cfr. F. D’Andrea, Genius loci. I luoghi del quotidiano attraverso Michel Maffesoli, cit., pp. 294-302. 65. F. Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari 2001, pp. 61-62.

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riequilibrio non traumatico delle diverse esigenze umane. È giunta così alla sua apoteosi, alla colonizzazione di ogni provincia di vita, mirata soprattutto al progressivo controllo del corpo sociale: «Michel Foucault e gli studi che a lui si ispirano hanno saputo mostrare efficacemente come […], per tutto ciò che comunemente rientra nella sfera sociale, si sia verificata nei riguardi delle masse una generale addomesticazione, mettendole al lavoro e assegnando loro una residenza. Per quanto mi riguarda, ho parlato di “violenza totalitaria” […]. Violenza che è riuscita a “snervare” il corpo sociale, a fargli perdere il senso di sé fino a renderlo amorfo, indeciso e totalmente velleitario. È la violenza dei buoni sentimenti, che fornisce protezione in cambio della sottomissione. Non c’è dunque motivo di sorprendersi se il sentimento di appartenenza, così come quello di cittadinanza o di responsabilità, tendano progressivamente a farsi sempre più tenui»66. La progressiva razionalizzazione, a un tempo causa ed effetto del furor definitorio in un circolo spiraliforme e vizioso, ha fatto sì che nominando e separando si recidessero infine le radici non razionali dello «stare-insieme» e se ne isolasse la forma amministrata dal flusso estetico – nel senso di emozionalmente condiviso dell’accezione maffesoliana – che anima e irriga la socialità. Circostanza che origina tensioni continue da leggere come «confronto tra espressioni postmoderne, che si manifestano come esplosioni della socialità, della creatività, ma anche della stimolazione puramente epidermica e sensoriale, che si diffondono in tutti i settori della vita, e per contro la radicalizzazione della modernità, fino a un livello di ipermodernità, che tende a riaffermare la necessità e la forza della forma sociale, come bisogno di controllo e di razionalizzazione»67. L’opposizione non evidente, ma profonda, che divide sempre più le diverse espressioni istituzionali del potere – politica, 66. M. Maffesoli, Del nomadismo, cit., pp. 40-41. 67. C. Mongardini, La sociologia di Michel Maffesoli e le mutazioni della politica, «Sociologia», 3, 2004, p. 13.

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economia, amministrazione – dal resto della società – la socialità effervescente, per quanto duramente provata da secoli di imposizioni più o meno “morbide” – va dunque interpretata, secondo Maffesoli, come conflitto tra potenza istituente e potere istituito. Da una parte un forte sentimento metarazionale – ciò che Durkheim chiamava il «divino sociale»68 – e che Maffesoli, in questo debitore di Bachelard e Durand, definisce anche «forza immaginale»69; dall’altra la struttura che di questo sentimento era primariamente espressione, ma che col tempo se ne è progressivamente disgiunta, fino ad astrarsi completamente nella generalizzazione della legge ferrea dell’oligarchia di Michels. Si rilevano, in questa analisi, tracce significative della dialettica Vita/Forma che è stata al centro degli interessi di Simmel: nella nuova versione proposta da Maffesoli, l’opposizione dialetticamente irriducibile tra i due termini – che Simmel poneva alla base del «conflitto della cultura moderna»70 e della quale intuiva già necessità e forme del superamento71 – acquista uno

68. E. Durkheim, cit. in M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 37. 69. Ivi, p. 31. 70. Cfr. G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna, cit., pp. 105-134. 71. «Tra il modo della realtà e quello dei nostri concetti esiste una discrepanza, in seguito alla quale questi per così dire non possono mai raggiungerla. Le determinazioni di una cosa reale hanno tra loro una continuità, una gradualità fluente per cui l’una trapassa nell’altra, che le rende completamente inafferrabili ai nostri concetti rigidamente circoscritti e al loro ampliamento nella forma di leggi di natura […]. Se vogliamo dominare il reale tramite concetti, dobbiamo (per un diritto qui non indagato) fissare in molteplicità rigidamente separate i passaggi e le ininterrotte correlazioni dentro e tra le cose, dobbiamo rendere discontinuo il continuo, fermare ovunque il flusso infinito delle relazioni sia verso ciò che è vicino come verso ciò che è lontano» (G. Simmel, La legge individuale e altri saggi, a cura di F. Andolfi, Parma 1995, pp. 81-82). Per superare questa difficoltà cognitiva, il pensatore tedesco proponeva una modalità estetica di apprensione della realtà che ne intuisse, senza alcuna mediazione, le forme attraverso le categorie dell’evidenza, dell’affinità e della relazione: cfr. F. D’Andrea, Georg Simmel. L’opera d’arte come isola, in M.C. Federici-F. D’Andrea (a cura di), Lo sguardo obliquo. Dettagli e totalità nel pensiero di Georg Simmel, Perugia 2004, pp. 77-210.

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spessore esistenziale che travalica l’ambito filosofico e vede, nella prassi del quotidiano, strategie di convivenza e compromesso che la logica antinomica della non contraddizione è incapace di apprezzare. Tutto ciò che si cristallizza necessita prima o poi di un rinnovamento: che si tratti della vita di un uomo, codificata in modelli di comportamento sempre più rigidi con l’avanzare dell’età adulta, di un rapporto di coppia o della struttura istituzionale di un gruppo non fa differenza. Quel che davvero conta è disporre o meno di modi attraverso cui realizzare non traumaticamente la rigenerazione. È ciò che avveniva nel Carnevale, che la saggezza romana sanciva col motto semel in anno licet insanire, il riconoscimento – in altre parole – del fatto che, se da un lato la ripetizione e la prevedibilità placano delle profonde ansie esistenziali, dall’altro minacciano necessità antitetiche, ma altrettanto connaturate all’essere uomini. Questo la saggezza antica sapeva a perfezione: ritrovava e praticava l’infrazione dell’ordine stabilito nell’alternarsi del tempo sacro e del tempo profano, nell’effervescenza priva di controllo delle feste pubbliche, nei riti di iniziazione e di passaggio che scandivano, rompendola, la continuità della vita individuale. È tuttavia un sapere che l’avvento dell’individualismo razionalistico ha rifiutato, teso com’è a chiudere i conti una volta per tutte con l’incontrollabile, l’oscuro, quel che Maffesoli provocatoriamente chiama La parte del diavolo, senza considerare che, per quanto la sensazione di dominare il mondo possa essere appagante, se assolutizzata porta conseguenze controproducenti: la stasi paralizzante, il soffocamento della creatività e della meraviglia, l’evacuazione di ogni aspetto qualitativo dalla vita. La sensibilità per l’oscillare costitutivo tra i poli del caos – che non a caso si definisce “primigenio” ed è il luogo immaginale della creazione e dell’irruzione dell’energia vitale – e dell’ordine non è nelle corde di una cultura che non sa pensarsi transeunte e nel tempo si è privata, programmaticamente, degli strumenti con cui gestire e porre rimedio alle inevitabili fasi di senescenza.

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Il mito del Progresso, d’altro canto, nega che un simile decadimento possa verificarsi. È in ultima istanza il sogno di un futuro senza morte che, nell’entusiasmo visionario, dimentica di dover, nel frattempo, aver ancora a che fare con la Mietitrice e non contempla alcuna possibilità di confronto e rapporto con essa. L’ottimismo militante, comunque, va oltre: aiutato in questo dalla realtà storica, include anche la vecchiaia nell’oblio purificatorio e, pur vivendo e prosperando di progetti, non escogita nulla per aiutare chi dovesse trovarsi a sperimentarne i disagi e i dolori sulla propria pelle. Disattento alla saggezza delle belle storie antiche perde di vista il fatto che non vi è connessione necessaria tra immortalità e vigore giovanile, commettendo ex novo l’errore di Eos: la ninfa, come ricorda Ruffolo, «innamorata del bel Titone […], aveva chiesto a un Giove molto geloso il dono dell’immortalità, ma si era dimenticata di aggiungere la clausola dell’eterna giovinezza. Così si era trovata a letto un Titone eternamente decrepito»72. Decadimento, corruzione, le tante figure del Male contro cui gli uomini moderni erigono senza tregua fragili barricate, precipitando poi in un’angoscia nera man mano che ne testimoniano il crollo, sono oggi – diversamente da altri momenti storici – colpe da cui si cerca una redenzione, non più fasi naturali dell’esistenza, individuale e collettiva. Per questo non si tenta di alleviarne il peso, ma si investono piuttosto risorse preziose in vista di un loro futuro, utopico sradicamento. La morte è sempre più ospedalizzata, rimossa, assurda nel suo accadere cui alcun rito collettivo sa dare sollievo; negato ed esorcizzato, piuttosto, da discorsi e modelli mediatici smarriti nell’incanto di un’eterna giovinezza che la realtà continua pervicacemente a smentire. Gli odierni dibattiti in bioetica sull’auspicabilità di un tempo di vita sempre più lungo, sull’opportunità di maggiori investimenti nella terapia del dolore, sui limiti dell’accanimento terapeutico affrontano gli esiti meno evidenti, ma più rilevanti, del sogno moderno del miglioramento perenne, i momenti in 72. G. Ruffolo, Immortali e infelici, «L’espresso», 3, 2006, p. 107.

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cui lo scontro tra qualità e quantità, presente e futuro, si rileva nella sua inevadibile tragicità, come accade ad esempio per il tema dell’eutanasia. La questione se sia sufficiente che una vita si protragga tendenzialmente all’infinito perché valga la pena viverla, oppure se debba essere una vita degna di esser vissuta, fatta di alti e bassi, crisi e riprese, svela impietosamente il fallimento del millenarismo scientifico-tecnologico e la sua incapacità di trattare realisticamente problemi etici la cui portata gli sfugge73. Chi non sa accettare l’idea di sconfitta è condannato a trovarsi impreparato quando la subisca e questo vale per un singolo come per una cultura: la modernità assiste al suo declino incapace di porvi rimedio, priva di mezzi adeguati che ne consentano il rinvigorimento, perché ammetterne la possibilità, l’esistenza, equivarrebbe a negare l’intero impianto su cui ha costruito il suo primato. I mezzi in questione hanno a che vedere con una dimensione che il discorso ufficiale ha sempre ritenuto inesistente, frutto di superstizione e ignoranza, qualcosa di cui la ragione ha da tempo fatto giustizia e della quale non sente minimamente la mancanza. Si tratta però del discorso del Potere: attiene a una sfera sempre più lontana dal vissuto del corpo sociale e dal sostrato emotivo e simbolico da cui ha tratto inizialmente le mosse: «Diventando un affare per specialisti, quale che sia il nome che si vuol dare loro: tiranni, burocrati, tecnocrati… la vita pubblica diventa un’entità astratta, un problema degli altri, un problema altro del quale non vale la pena di occuparsi […]. [La storia è prodiga di esempi di numerose] strutturazioni sociali che, ognuna a suo modo, hanno generato classi di specialisti, che surrettiziamente, o attraverso la forza, si arrogano la gestione della città, o dell’impero, e costringono così la maggioranza a rinchiudersi nella sfera del privato. Processo tra i più pericolosi, poiché aumenta in maniera inquietante la distanza che comunque esiste tra vita e politica, rendendola un 73. Cfr. F. D’Andrea, L’uomo mediano. Religiosità e Bildung nella cultura occidentale, Milano 2005, pp. 163-178.

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fossato dalle conseguenze incalcolabili»74. Quando lo iato tra i due mondi raggiunge dimensioni non più componibili, per scongiurare l’implosione della società si riattiva, per “semplici” ragioni di sopravvivenza, il livello profondo della Potenza, della «“comunità organica” […] che deve permettere di superare la pesantezza delle costrizioni economiche o sociali e così facendo di ristrutturare una nuova totalità che lo Stato razionalizzatore, o ogni altra istituzionalizzazione, aveva troppo irrigidito»75. Il legame sociale non razionale che Maffesoli mette al centro della sua analisi, lo «stare-insieme» sul quale si fonda ogni convivenza, ritorna così sulla scena: è la riserva d’energia cui attingere per pensare nuove soluzioni, nuove forme culturali più adatte ai tempi mutati, che integrino o sostituiscano i vecchi modelli ormai inservibili garantendo la continuità del corpo sociale: «La dissoluzione del disegno moderno si compie nel postmoderno secondo un meccanismo di saturazione dei valori culturali. Nell’effervescenza della socialità che esce dagli argini, la sua parte ludica diviene predominante e lascia ampio spazio all’immaginario creatore “di cui si misura attualmente l’importanza sociale” e che è «composto da tutti quegli elementi che spingono a comprendere le nostre società attraverso una molteplicità di ragioni»76. Di nuovo è possibile impostare un parallelo con temi junghiani, a dimostrazione del fatto che livello individuale e collettivo sono molto più correlati di quanto di norma non si riconosca. A proposito dell’archetipo del Re, che incarna il principio spirituale di un gruppo, la von Franz osserva che «deve per rinnovarsi e rigenerarsi ricadere di tanto in tanto nell’inconscio». Dopo aver notato come il carnevale conservi ancora, attenuato, il ricordo delle fasi di disordine e anarchia che anticamente facevano seguito alla morte di un capo, l’autrice afferma che «in 74. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 61. 75. Ivi, pp. 244-245. 76. C. Mongardini, La sociologia di Michel Maffesoli e le mutazioni della politica, cit., pp. 14-15.

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tempi recenti anche noi abbiamo assistito a un siffatto oscuramento della coscienza a livello di un’intera collettività. Sfortunatamente un fenomeno del genere potrebbe ripresentarsi in misura più vasta, perché viviamo in un’epoca in cui il vecchio Re di molte nazioni è morto e si sta rinnovando – almeno lo speriamo – nel profondo. Durante tale oscuramento governa il leone […] [che] nel suo aspetto negativo, […] rappresenta il principio del potere. Qui si impone di nuovo un’analogia con il mondo moderno: infatti, dovunque una civiltà o una cultura non possiedono più una finalità di carattere religioso, scoppiano lotte per il potere politico che vedono emergere i dittatori e le loro cricche a segnare l’intero corso della civiltà stessa»77. Il rifiuto testardo di accettare l’influenza nelle cose del mondo di strati prerazionali dell’esistenza individuale e collettiva può aprire la strada al ripetersi di tragedie mondiali quando – come accade nel nostro tempo tormentato – sono sempre meno le «persone in grado di agire in vista di un ideale che le trascend[a] o di mantenere la pace tra loro in vista di una meta più alta»78. Strati non necessariamente oscuri, nei quali affondano le radici i sentimenti di fede e fiducia nel prossimo, di solidarietà disinteressata, da cui soltanto può prender vita quella che Maffesoli chiama «relazione senza potere tra “Io” e “Tu”»79. Dovrebbe risultare evidente, dalle parole della von Franz e da diversi altri accenni disseminati in quanto precede, che al fondo di tale relazione e, paradossalmente, al fondo del legame politico istituente sta, costitutiva, la dimensione religiosa: non a caso Maffesoli cita principalmente il Durkheim delle Forme elementari della vita religiosa80. Non è questa, tuttavia, la sede in cui affrontare l’importanza di tale dimensione in Maffesoli, poiché il discorso non potrebbe non ampliarsi, ricor77. M.-L. von Franz, L’individuazione nella fiaba, Torino 1987 [1977], pp. 47-48. 78. Ivi, p. 48. 79. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 244. 80. E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, introduzione di R. Cantoni, Milano 1971 [1912].

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dando che i padri della disciplina hanno lungamente riflettuto in proposito, riconoscendo al tema una dignità cardinale che l’odierna specializzazione – delle cui conseguenze euristiche si è già discorso – tende ad appannare. Appare invece urgente rendere nuovamente attuale tale «centralità sotterranea»81: si tratta – nonostante tutto ciò che si è scritto su secolarizzazione e desacralizzazione – di una componente ineliminabile dell’animo umano, le cui dinamiche, lungi dall’influire esclusivamente sull’interiorità soggettiva, informano di sé i campi più diversi della società, attivando processi che non è possibile comprendere senza tenerne conto82. Per quanto attiene allo specifico di questo scritto, la considerazione della sfera religiosa mette nuovamente in luce la stretta correlazione tra quotidiano e politica: «Il religioso, che [il politico] rappresentava e che costituiva il suo elemento di forza, non si è perso ma si è trasferito nella profondità dell’esperienza vissuta»83. È questo il segno ulteriore della saturazione del valore politico moderno e il motivo per cui esso sta subendo la metamorfosi che porta alla sua trasfigurazione.

4. Astuzia «Dovreste vedere cosa succede il giorno dell’impiccagione […]. Ma perché? Ve lo siete mai chiesto? […] Si vuole vedere come gli uomini affrontano la morte mentre sono ancora vivi, si vuole poter disprezzare il debole che chiede pietà e ammirare il forte che va incontro alla morte a testa alta, indomito. O meglio ancora, che le va incontro con una risata. È questa, caro signore, l’attrazione più ricercata, la risata davanti alla morte […]. La gente vuole credere che la morte non sia da prendere sul serio, 81. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, cit., p. 11. 82. Cfr. F. D’Andrea, L’uomo mediano, cit. 83. C. Mongardini, La sociologia di Michel Maffesoli e le mutazioni della politica, cit., p. 19.

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che non sia cosa di cui si debba tener conto. Altrimenti, la vita sarebbe insopportabile […]. Le autorità si immaginano che la gente si ammassi intorno alle forche per disprezzare e schernire i criminali, vale a dire per rispetto della legge. O addirittura che i criminali vengano qui per spaventarsi e astenersi poi dal commettere i loro misfatti. Succede proprio il contrario, se mai. Si sa, la folla riunita davanti alla forca brulica di borsaioli. Ma non c’è niente di strano. La conoscenza degli esseri umani, oserei dire, sulla base della mia non trascurabile esperienza, non è mai stato il forte dei giudici»84. Il romanziere, come spesso accade, formula con poche, limpide parole concetti che inchiodano gli specialisti per decine di pagine, con esiti decisamente meno brillanti. Per altro verso, però, fornisce loro spunti ed esempi calzanti. In questa breve descrizione dello spettacolo di un’esecuzione capitale, attribuita a Daniel Defoe, tornano i temi trattati sinora e si danno a vedere i prossimi snodi del discorso: c’è il perenne problema della morte; c’è la distanza-abisso tra sfera politica e vita quotidiana e il brulichio indomabile di questa, incomprensibile alla luce di un giudizio morale; c’è, poi, l’arte innata – che Maffesoli denomina «sapere incorporato»85 o «astuzia»86 – di piegare le manifestazioni e le iniziative del Potere a usi del tutto eterodossi, ricodificandole secondo una logica quasi incosciente e per esso illegibile. Le osservazioni di Defoe-Larsson sui moventi della folla variopinta riunitasi per festeggiare il supplizio di pochi malcapitati ben illustrano tale circostanza. L’intento didattico-razionale fallisce miseramente lo scopo: nessuno trae insegnamenti dalla morte dei pirati, ma tutti, attraverso il rito, la accostano e si prendono gioco di lei. Bell’esempio di quella che Maffesoli, ancora junghianamente, chiama «“regredienza” […], una ma-

84. B. Larsson, La vera storia del pirata Long John Silver, Milano 2001, pp. 175-176. 85. M. Maffesoli, Eloge de la raison sensible, cit., p. 12. 86. Cfr. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, cit., pp. 68-78.

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niera omeopatica di vivere la propria morte di tutti i giorni»87, di cui folklore e usanze popolari sono pieni e che tradisce un atteggiamento verso i problemi centrali dell’esistenza che la baldanzosa ragione si illude solamente di aver scalfito. Qui è un tempo circolare che regna, che non si cura dell’ansia e della velocità rettilinea del Progresso perché, attraverso il nietzscheano «eterno ritorno», riesce a smussare gli spigoli dell’umano essere «mortale all’improvviso»88, col quale la progettualità moderna è del tutto incapace di fare i conti: «I riti, le cerimonie, per esempio, restituiscono titolo di nobiltà alla lentezza, alla sospensione, al fermarsi del tempo, in breve, alla dimensione qualitativa dell’esistenza […]. Mandando in cortocircuito il tempo lineare, il rito ridinamizza la presenza al mondo, favorisce la contemplazione, ovvero l’apprezzamento del mondo per ciò che è, per come si dà a vivere, qui e ora, nel quotidiano»89. Si evidenzia la dualità della realtà sociale, la cui faccia illuminata – osserva Crespi – è costituita dal «momento formale unitario delle istituzioni politiche e dell’organizzazione dei processi di produzione e riproduzione economica», mentre la faccia oscura è quella «della socialità fatta di situazioni multiple ed eterogenee, di piccole pratiche del quotidiano, di vissuti frammentari ed effimeri […]. Il punto dinamico di incontro tra la faccia luminosa e quella in ombra della socialità è appunto quello della ruse, che permette alla massa come ai singoli individui di mantenersi nell’invarianza, trovando accomodamenti con qualsiasi forma ufficiale del sociale, attraverso un atteggiamento essenzialmente passivo e morbido che consente però di conservare tutte le forme di interazione e di scambio indispensabili alle dimensioni di un vissuto quotidiano che, per sua natura, rifiuta le troppo rigide determinazioni astratte che tentano di inglobarlo»90. L’accondiscendenza alle crescenti pre87. M. Maffesoli, L’istante eterno, cit., p. 64. 88. M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, Milano 1978, p. 13. 89. M. Maffesoli, L’istante eterno, cit., p. 65. 90. F. Crespi, Prefazione, in M. Maffesoli, La conquista del presente, Roma 1983 [1979], p. 9.

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tese del potere – come si è detto91 – viene letta, dagli osservatori che ne condividono la logica, in termini di apatia, mentre di fatto, afferma Maffesoli, si tratta di un’indifferenza protettiva che permette di conservare vivo e operante un qualche grado di influsso della Potenza: «Questo giocare d’astuzia non è un atteggiamento di oggi, ma lo si potrebbe definire una struttura antropologica che, attraverso le storie umane, fa da vero e proprio scudo verso le aggressioni del potere esterno»92. Succede così che non solo si subiscano le iniziative del Potere, ma che vi si partecipi con un entusiasmo che, tuttavia, ha poco a che fare con i motivi di adesione e supporto che potrebbero apparire ovvi. Maffesoli analizza con acume i casi dei grandi raduni religiosi e delle feste di partito concludendo che, sebbene vi sia da parte delle istituzioni organizzatrici «il desiderio di recuperare degli aderenti», questo di fatto si inverte, così che «la festa offerta dall’istituzione serve da nicchia per un motivo del tutto diverso da quello addotto dall’istituzione stessa: si profitterà dello spettacolo, si “piraterà” un’occasione di effervescenza, che non fa mai male. Riassumendo, nei casi indicati, si fa meno attenzione al contenuto che non al contenente che favorisce lo stato di congregazione. Nella prospettiva “formista”, che ho spesso utilizzato: la forma è formante, al di là o al di qua delle giustificazioni allegate»93. D’altro canto, come viene facendosi sempre più evidente in questi anni, «la conoscenza degli esseri umani non è mai stato il forte dei giudici» o dei rappresentanti delle altre istituzioni! Per non rischiare di ricadere in un’altra forma di progettualità, solo valorialmente diversa, va ribadito che l’astuzia maffesoliana non dev’essere in alcun modo letta come progetto razionalmente e/o coscientemente perseguito. È anzi, con tutta probabilità, bersaglio favorito di derivazioni paretiane che giocano con le tante parole d’ordine del discorso ufficiale e con il terrore 91. Vedi supra, pp. 397. 92. M. Maffesoli, La conquista del presente, cit., p. 69. 93. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., pp. 267-268.

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ancestrale di mostrarsi non razionali, portando i più a quello che gli inglesi chiamano con ironia lip-service, la manifestazione di un’adesione che si ferma alle labbra, che usa parole logore per rassicurare il Potere lontano e illuderlo di un supporto che più tiepido non si potrebbe. La massa è depositaria di una saggezza antica, archetipica, che pur non essendo cosciente ne influenza potentemente i comportamenti, rivelandosi nelle molteplici manifestazioni del quotidiano. Si rifugge dal confronto diretto col Potere, perché scendere in aperta competizione equivarrebbe a un conferimento di legittimità ben più dannoso dello scontro. Si relativizza ogni istanza potestativa con una passività a suo modo fertile di risultati, non fosse altro che perché permette di dimenticare, tra una chiacchiera e una risata, che il giorno che finisce è a suo modo unico e quindi perduto, in una morte senza soste o rallentamenti. Il grado di questa corrosione surrettizia varia tuttavia di epoca in epoca, con l’acuirsi o meno del divario che separa i mondi contigui della socialità e dell’istituzione: se una certa intensità è fisiologica, dovuta all’impossibilità di coincidenza tra Vita e Forma, il trasformarsi del distacco in «una vera e propria dissociazione», nelle parole di Neumann, porta a una delegittimazione che non è più clandestina o sottintesa, ma sempre più evidente e foriera di crisi e squilibri. Questo darsi a vedere con decrescente ritrosia non implica, a ogni buon conto, l’aumento necessario della presa di coscienza dei motivi profondi che ne sono all’origine. Secondo Maffesoli, anzi, segnala «la posizione ultima della duplicità: per sopravvivere, bisogna saper avanzare mascherati, non svelarsi in alcun modo a nessuno, neppure a se stessi»94. Il che da un lato spiega la particolare cecità selettiva che impedisce di percepire e tematizzare le incongruenze tra il dire e il fare proprio e altrui che caratterizzano sempre più l’azione individuale e collettiva; dall’altro rende più complessa e labirintica l’analisi di una categoria esplicativa cui non ci si può riferire senza una certa vergogna, «obnubilati come siamo, in generale, dall’ingiunzione mo94. Ivi, p. 104.

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rale ad essere autentici»95: il doppio gioco. Prassi ufficiale dalle forme molteplici – si pensi ad esempio alla diplomazia e all’arte di mentire che le è connaturata, oppure alla propaganda – esso interessa ogni manifestazione sociale, travestendosi sovente di panni utilitaristici (alla luce del predominio del valore economico) e conquistando così l’agognata sanzione razionalistica: il suo effetto si dispiega a livelli insospettati, componendo le pulsioni in fermento della molteplicità soggettiva e addolcendo la pressione esterna con l’implicito svalutarne le istanze. «Basti dire che si tratta di un atteggiamento del corpo e dello spirito che, nel lungo periodo, permette a ogni individualità e al corpo sociale nel complesso di attraversare le diverse vicissitudini che costituiscono la vita umana e sociale. È ciò che, a suo modo, esprime efficacemente André Breton, quando sottolinea, non senza ironia, che non bisogna perdere “il favore dell’istinto di conservazione […] che ci permette dopo tutto […] di comportarci bene […] limitandoci a girare la testa al passaggio di una bandiera…” sottinteso: invece di gridare il nostro disgusto o sputare in terra per il disprezzo»96. Doppio gioco non significa indifferenza. Esso descrive semmai una modalità d’azione del singolo che compensa l’handicap di cui soffre nei confronti della sfera istituita e della sua capacità di sfruttare a proprio favore rendite di posizione, benefici e privilegi. In altre parole, è il modo in cui chi non appartiene alla sfera del Potere può ancora perseguire i suoi fini, che non devono essere necessariamente piccoli o egoisti, quando, per un qualche motivo, essi non coincidano con quelli istituzionali. Così facendo, egli fa un uso vantaggioso della struttura sociale – della quale contraddittoriamente non può fare a meno, perché per agire necessita comunque di un contesto di riferimento – aggirandone gli ostacoli e trasformandoli in opportunità: «Porre la norma come fatto “oggettivo e durevole” e giocare con essa per adattarla a proprio vantaggio o applicarla ai molte95. Ibidem. 96. Ivi, p. 108.

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plici aspetti del quotidiano: questa è l’ambivalenza fondamentale con la quale l’attore si presenta sulla scena e che non permette alle scienze sociali di seguire i modelli conoscitivi delle scienze naturali»97. Lungi dal conformarsi alla versione datane dal Potere, l’azione sociale segue spesso vie tortuose e solo apparentemente conformi alle imposizioni normative. Devianza essenziale, dunque, che rimanda al «nomadismo» caro a Maffesoli e apre a uno dei rimossi più ingombranti della scena attuale: «Per quanto sia insopportabile da un punto di vista morale, la violenza resta indissociabile dal legame sociale»98. Il tentativo di eliminare una volta per tutte ogni violenza dalle società moderne attraverso il ricorso al mito dell’ordine e della sicurezza, che si è tradotto in un aumento esponenziale delle pretese normative e delle limitazioni alla libertà nelle sue forme più varie, non tiene in alcun conto l’insopprimibile eterogeneità del doppio gioco e si condanna a uno scacco dagli esiti ignoti. Da una parte, infatti, «pur essendo arrivata a saturazione, la politica conserva gli strumenti della violenza e anche la tendenza volontarista del moderno, cioè la volontà di dare forma alla società»99; dall’altra «una società che estende sempre più la sua regolamentazione fin nei più riservati settori del privato può certo evolversi ancora come modello o può ridurre temporaneamente il danno di un’individualità che si sottrae dalla partecipazione alla vita collettiva, ma certamente […] sottrae margini di gioco all’attore sociale»100. La progressiva paralisi che ne deriva è causa di tensioni esplosive che non possono, per definizione, trovare alcuno sbocco istituzionale. È sempre più probabile che si scarichino in eventi puntuali, apparentemente privi di motivo e incomprensibilmente – per la 97. C. Mongardini, Saggio sul gioco, Milano 1989, p. 42. 98. P. Tacussel, La hauteur du quotidien. A propos de l’œuvre de Michel Maffesoli, in M. Maffesoli, Notes sur la postmodernité. Le lieu fait lien, Paris 2003, p. 127. 99. C. Mongardini, La sociologia di Michel Maffesoli e le mutazioni della politica, cit., p. 20. 100. C. Mongardini, Saggio sul gioco, cit., p. 26.

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politica – privi di rivendicazioni: violenza gratuita, violenza del “branco” innescata da scuse infime, violenza della quale l’autore è il primo a non saper darsi conto, sia esso un singolo o un gruppo. Il continuo aumento di importanza dell’appartenenza, anche in chiave di compensazione alla sempre più pronunciata sensazione di impotenza derivante dalla chiusura degli spazi di gioco, accelera il processo di desoggettivizzazione di cui si è già discusso101, spingendo verso un inedito «“narcisismo di gruppo” […] [che] ipertrofizza il sentimento collettivo e sfocia nelle emozioni esacerbate che possono essere le effervescenze tribali (rivolte dei gruppi di banlieue, per esempio), le rivendicazioni etniche, i diversi corporativismi o clanismi. Per loro tramite si annuncia l’implosione delle istituzioni consolidate, degli Statinazione di impronta giacobina o degli imperi costruiti, astrattamente, su una base ideologica»102. La dissociazione tra Potenza e Potere rende quindi impossibile ogni equilibrio dinamico tra partecipazione e astuzia, costringendo gli attori a non aver più nulla a che fare con la sfera collettiva, monopolizzata dai detentori del Potere e drasticamente rimossa dal flusso estetico della vita sociale, così da originare una delle figure di quello che Maffesoli definisce «totalitarismo»103: «Il totalitarismo non è soltanto un modello di tirannia, una distruzione della politica da parte dello Stato senza limiti, è prima di tutto un prodotto della concezione tecnica del mondo e del vivente, una visione del divenire collettivo che obbedisce a leggi scientifiche, in breve, una macchina per annientare le differenze, le aspirazioni a sopra-vivere nell’imperfezione e senza progetto»104. Ne deriva una crescente indifferenza verso la cosa comune, non più percepita come tale, «che fu un tempo appannaggio di certi popoli o di certi strati della popolazione,

101. Vedi supra, pp. 407-409. 102. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 275. 103. Cfr. M. Maffesoli, La violence totalitaire. Essai d’anthropologie politique, Paris 1979. 104. P. Tacussel, La hauteur du quotidien, cit., p. 130.

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ma che ora tende a contaminare l’insieme della vita sociale» e che porta con sé la valorizzazione della «non-azione dai connotati estetizzanti»105. L’apatia delle masse si presta a una lettura contraddittoriale: «Il conformismo nasconde in pratica un’abulia sociale, un’irresponsabilità crescente. Il “ventre molle” del sociale»106, un suo carattere che è sempre esistito, ma viene di solito controbilanciato, nella sua tendenza centrifuga, da altre forze sociali centripete che si nutrono dell’energia che scaturisce da un legame sociale vivo. Con l’inaridirsi di questa sorgente, col distacco dalla Potenza, i moti disgreganti non trovano forze capaci di opporsi loro e la propensione all’“ognun per sé” si generalizza, configurandosi il corpo sociale come un arcipelago ogni isola del quale si sogna continente. Maffesoli illustra questo andamento osservando lo slittamento del pensiero politico da Machiavelli a Robespierre: «Per quello la virtù [in italiano nel testo] era la forza del maggior numero che dava vita a una città, ne confortava l’esistenza e ne assicurava il mantenimento. Si manifestava in un equilibrio, a volte conflittuale, tra gruppi dagli interessi diversi, ma che tutti erano necessari. In breve, la virtù era una forza politeista. Per Robespierre, al contrario, «non si deve essere troppo numerosi per essere puri». E l’esclusione, l’epurazione in tutte le sue forme, sarà, se necessario, un buon modo per preservare la qualità dei puri. La virtù è Una, monoteista, e il culto dell’Essere supremo, liberato da tutte le scorie, austero sino all’eccesso, ne è illustrazione perfetta»107. In un altro senso, invece, la disaffezione segnala la saturazione di un ordine ormai autoreferenziale e dannoso per la sopravvivenza dell’insieme sociale. Nelle pratiche alternative sperimentate dall’effervescenza disordinata che ne deriva si deve scorgere il germe di un nuovo ordine che si annuncia, capace di sanare i guasti prodotti dallo squilibrio razionalista. Punto di vista difficile da accogliere per una cultura ancora massicciamen105. M. Maffesoli, La transfiguration du politique, cit., p. 128. 106. Ivi, p. 102. 107. Ivi, pp. 72-73.

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te informata ai principi da questo espressi, che però è in grado – nei suoi momenti più alti – di percepirne la fondatezza, come dimostra il frequente ricorso di Maffesoli all’ultimo Durkheim e com’è possibile osservare, mutatis mutandis, nel pensiero di Freud. Sebbene egli, da campione della modernità, credesse – in piena sintonia con la convinzione che ha portato Pareto a definire residui i moventi istintuali ed emotivi – nella necessità e inevitabilità del prosciugamento dell’inconscio, in altre parole di una definitiva riduzione alla ragione di ogni istanza umana ad essa non conforme, la sua intelligenza andava oltre i confini dell’ideologia, spingendolo a scrivere dei deliri di un suo paziente: «La formazione delirante che noi consideriamo il prodotto della malattia costituisce in verità il tentativo di guarigione, la ricostruzione»108. L’intuizione della forza rigenerante nascosta in ciò che viene visto di norma come disfunzionale e patologico è la stessa che si ritrova nelle argomentazioni di Maffesoli e che spinge a rivalutare l’intuizione junghiana per cui «“normale” e “pazzo” o schizofrenico [sono] termini relativi, non assoluti»: si tratta in larga misura del sistema di riferimento nel quale i fenomeni vengono inquadrati e compresi. Si è a lungo criticato lo psicologo svizzero per non essere riuscito a «distinguere in modo adeguato uno psicotico da una persona normale»109 e la stessa obiezione può muoversi a Maffesoli, com’è stata mossa a Simmel, per il suo non sciogliere l’ambiguità del materiale osservato. È evidente però che una tale richiesta si fonda sul presupposto ideologico della necessaria coerenza razionale dell’attore e del mondo e sul principio della distinzione/esclusione che ne discende. Dove questi capisaldi vengano criticati in modo convincente, l’intera questione perde di fondamento, trasfigurandosi nella considerazione sempre nuova di aspetti particolari del complesso equilibrio dinamico che lega nel profondo soggetti e insieme sociale.

108. S. Freud, cit. in A. Storr, Jung, Milano 1990 [1973], p. 33. 109. Ivi, p. 36.

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5. In arabesco: la “piccola epopea” di Peppone e don Camillo Si tratta di ipotesi affascinanti, da molti considerate, per i diversi motivi già esposti, un brillante gioco di parole e nient’altro. Ritrovarne limpidi esempi nella costruzione letteraria di uno scrittore che ha in comune con Maffesoli solamente un’attenzione spregiudicata alla socialità e una sensibilità non comune, può non essere una prova definitiva della loro consistenza, ma è senz’altro un buon inizio e una base per futuri tentativi. Ci si riferisce a quella che è stata definita «l’epopea di Peppone e don Camillo». Si tratta certo di una forzatura, ma non più di tanto: l’epopea è il corpus di narrazioni epiche nella letteratura o cultura di un popolo e i racconti di Peppone e don Camillo sono in effetti le narrazioni epiche del «mondo piccolo» di cui Guareschi ambisce farsi voce. Epiche, perché caratteristica di questi racconti è quella di unire elementi storici e leggendari, ottenendone una miscela inconfondibile. Che si tratti di un sindaco “rosso” della Bassa parmense e non del sire degli Achei fa poca differenza: il respiro che pervade le storie di Guareschi ha delle connotazioni particolari che non è possibile disconoscere e ne permette molti livelli di lettura. Prescindendo dalla dimensione più propriamente mitologica, comunque, i piccoli fatti del piccolo paese dei due eroi esemplificano magistralmente il perdurare nel tempo delle strutture individuate da Maffesoli. «Peppone era tutto il contrario dei comunisti raffigurati da Guareschi nelle sue polemiche politiche: retto, onesto, intelligente, il sindaco comunista di Mondo Piccolo governava il suo paese con saggezza e senso pratico […]. Affrontava i problemi quotidiani con buon senso e coscienza: potendolo vi impegnava le sue idee di militante comunista, ma se l’ideologia era di ostacolo la accantonava […]. Aveva fede in Dio, pur senza darlo a vedere […]. Don Camillo è democristiano perché veste l’abito talare e perché non ha altra risorsa elettorale contro l’ateismo, ma dell’osservanza alle regole ecclesiastiche o governative tiene pochissimo conto […]. Aborre il comunismo, per lui un crogiolo pestilenziale di ateismo e di violenza, ma conosce la pro-

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Doppio gioco. Logica del dominio e astuzia in Michel Maffesoli

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bità dell’amico-avversario e sa che nessuno meglio di lui può amministrare il paese»110. Già la duplice opinione – pubblica e in qualche modo privata – che Guareschi dimostra d’avere per i comunisti conferma la duplicità di cui si è discusso: un modo di vedere per la sfera del Potere, unificante, generalizzante, con finalità propagandistiche; un altro, del tutto diverso, per la sfera della Potenza, della quotidianità, in cui l’uomo vale per quello che è (per quanto contraddittorio possa essere) e non per la funzione che svolge altrove (cioè nella sfera del Potere). La caratterizzazione dei due personaggi che fa Venè si muove nella stessa direzione: Peppone è comunista, ma alla fine battezza suo figlio Libero Camillo Lenin; don Camillo è democristiano per motivi di forza maggiore, aborre sì il comunismo, ma alle amministrative vota per Peppone, perché sa che uomo sia, al di là della funzione riduttiva e pietrificante che dovrebbe farglielo odiare. Quel che però colpisce maggiormente, nella costellazione degli episodi che vedono i due contrapporsi, è la lampante conferma del fatto che davanti a rapporti reticolari consolidati, nulla possono i comportamenti imposti da altri sistemi di riferimento più “lontani”. Gli esempi di questa dinamica, identica a quella descritta da Maffesoli, sono innumerevoli nei racconti di Mondo Piccolo, il cui nome non è altro che un segno della stessa atmosfera: «In quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio […] e si capisce facilmente cosa possa diventare laggiù la faccenda della politica»111. Particolarmente indicativi paiono due episodi tra tanti, Ritorno all’ovile e La maestra vecchia. Nel primo ci si trova alle prese con un sostituto di don Camillo – spedito in montagna per indisciplina – testimoni dell’accoglienza poco calorosa che 110. G. Venè, Vola colomba, Milano 1990, pp. 228-229. 111. Per questa e le altre citazioni delle storie di Peppone e don Camillo si faccia riferimento a G. Guareschi, Don Camillo – Mondo piccolo, Milano 1991.

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gli viene riservata: d’altra parte il «pretino» è inviato dall’autorità ecclesiastica, che per la gente del paese è come dire la città, l’altrove, e la sua presenza è intollerabile. Le minime innovazioni da lui apportate alla chiesa – lo spostamento di un cero da destra a sinistra dell’altare e la comparsa di un ritratto di santa Rita – vengono vissute come un trauma dall’intera comunità e prese a pretesto per invitarlo ad andarsene al più presto. Cosa sono quei minuscoli segni, se non un’infrazione simbolica del rituale quotidiano? «Lei è uscito dalla legalità! Lei ha cercato di sovvertire un ordine che il titolare effettivo della parrocchia aveva instaurato interpretando la volontà del popolo!» accusa Peppone, con un bell’esempio di mescolanza di stili, ideologie e finalità, in cui invoca tutte le formule del Potere per uno scopo che col Potere non ha nulla a che fare e anzi gli si oppone frontalmente. «“Bene!” approvò la folla, reazionari compresi», tutti uniti, oltre ogni superficiale divisione, per tutelare l’equilibrio dinamico della loro comunità. E Peppone si mette alla testa di un corteo di protesta che cala sul Municipio: «Giunto il corteo davanti al municipio, le urla si fecero più forti. E urlava anche Peppone, alzando il pugno verso il balcone della sala del Consiglio. “Peppone”, gli gridò nell’orecchio il Brusco, “che Dio ti strafulmini! Piantala di gridare! Ti sei dimenticato che il sindaco sei tu?”». Tra i ruoli statuali e quelli comunitari, i primi passano regolarmente in secondo piano, anche nella stessa attenzione di chi li riveste. Non c’è identità, il sindaco non è uguale a se stesso, ma ricopre piuttosto quella funzione come una maschera fra le tante, accanto a molte altre da lui preferite. E quando l’ordine che gli permette un’avanzata nel tempo dissimulata e sicura viene minacciato, dimentica i suoi ruoli “lontani” e la sua stessa individualità per uniformarsi alla massa della sua gente, divenendone particella vociante e incosciente. In La maestra vecchia il problema è diverso. Questo personaggio apparentemente marginale va letto come l’incarnazione della perduranza societaria del microcosmo in cui hanno luogo tutti gli episodi: «Il monumento nazionale del paese era la mae-

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Doppio gioco. Logica del dominio e astuzia in Michel Maffesoli

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stra vecchia, una donnetta piccola e magra che tutti avevano sempre visto perché aveva insegnato l’abbiccì ai padri, ai figli e ai figli dei figli». La sua presenza a memoria d’uomo è la conferma tangibile dell’immutabilità del tran-tran quotidiano che protegge dalla corsa del tempo. Ora, come si è visto, l’autoinganno serve a proteggersi dalla coscienza del limite, non a rimuoverlo. La maestra un certo giorno muore, ma prima convoca Peppone e don Camillo e comunica loro il suo testamento. Tra le altre cose dà loro precise istruzioni per il suo funerale: «Senza musica, perché non è una cosa seria. Senza carro come nei tempi civili. Con la cassa portata a spalle, e sulla cassa voglio la bandiera. “Sissignora”, rispose Peppone. “La mia bandiera, con lo stemma (sabaudo)”». Peppone, il giorno dopo, convoca il consiglio comunale, il luogo del Potere, e chiede ai rappresentanti dei vari partiti se, data la delicata situazione politica, sia o meno il caso di acconsentire alle richieste della vecchia maestra. Tutti, con bei discorsi politici, si oppongono all’«ostentazione di quell’emblema». Peppone accredita gravemente la volontà del consiglio – del Potere – poi prende la parola: «In qualità di sindaco, vi ringrazio per la vostra collaborazione e come sindaco approvo il vostro parere di evitare la bandiera richiesta dalla defunta. Però, siccome in questo paese non comanda il sindaco, ma comandano i comunisti, come capo dei comunisti vi dico che me ne infischio del vostro parere, e domani la signora Cristina andrà al cimitero con la bandiera che vuole lei, perché io rispetto più lei morta che voi tutti vivi, e se qualcuno ha qualcosa da obiettare lo faccio volare giù dalla finestra!». Anche se la maestra era solita correggere con la matita rosso-blu i manifesti dei comunisti, la sua statura simbolica nell’«economia sentimentale» della «tribù» di Peppone e don Camillo la pone a un livello immensamente superiore a tutti i sicofanti di partito che vengono sempre dipinti dal Guareschi come marionette vuote d’ogni umanità, come se l’autore, dopo tante lotte propriamente politiche, ne avesse scoperto l’intrinseca qualità di ballo di Carnevale. Ed è paradossalmente come

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Fabio D’Andrea

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capo dei comunisti che Peppone ne sancisce le ultime volontà di monarchica. Cosa importa uno stemma “lontano” al confronto dell’importanza simbolica e arazionale che la figura della maestra ha rivestito e continua a rivestire? «E così il giorno dopo la signora Cristina andò al cimitero nella bara portata a spalla da Peppone, dal Brusco, dal Bigio e dal Fulmine. E tutt’e quattro avevano al collo i loro fazzoletti rossi come il fuoco, ma sulla bara c’era la bandiera della signora maestra». Cose che succedono là, in quel paese strampalato che non è altro che il metaluogo della vita societaria che, per una volta, non si sottopone al Potere per eluderlo, ma lo relega al posto che, nel centro informe e sentimentale di ognuno, dovrebbe occupare; dove i suoi orpelli, apparentemente irriducibili, possono trovarsi conciliati in una preoccupazione superiore, come lo stemma sabaudo e i fazzoletti rossi dei compagni non stridono nell’onore tributato a una donna che nella sua lunga vita ha incarnato la continuità del gruppo.

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Parte IV.

Ratio juris, diritti umani e dialettica del riconoscimento

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Figure, temi e linguaggi della contemporaneità

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13-09-2001. Da wikimedia.org.

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Giuseppe Cacciatore

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Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di Giuseppe CapograssiI

È

certo fuor di dubbio che la discussione e le riflessioni sul tema dei diritti umani, pur nell’estrema articolazione degli approcci metodologici e degli orientamenti filosofici e ideali, costituiscono oggi una parte rilevante dei dibattiti e delle ricerche della filosofia e della stessa scienza politica contemporanee. Talmente rilevante che da più parti questa accentuazione del tema dei diritti viene ritenuta troppo pervasiva e, talvolta, generica e retorica, specialmente in una fase della storia mondiale in cui si assiste al paradossale fatto che all’ipertrofia dei discorsi sui diritti umani fa da contraltare la loro sistematica lesione e trasgressione. E, tuttavia, come credo possa risultare evidente dagli spunti che al problema ha offerto una riflessione come quella capograssiana sia pur datata a oltre mezzo secolo or sono, non si può certo rinunciare a rivendicare l’importanza giuridica, politica e filosofica dei diritti umani, specialmente a fronte del profondo mutamento delle culture e delle ideologie contemporanee, ma anche al cospetto delle inedite configurazioni che oggi caratterizzano i nessi tra politica ed economia, tra politica e questioni di vita, tra politica, etica e comunicazione. A rileggere le analisi di Capograssi, si possono scorgere, sia pure in una forma talvolta ancora iniziale, non pochi profili problematici che hanno negli ultimi decenni (e ancor più negli I. Questo saggio è stato pubblicato anche in «Civiltà del Mediterraneo», 6-7, 2005, pp. 167-187.

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Giuseppe Cacciatore

ultimi anni) punteggiato la ormai sterminata bibliografia sui diritti umani2. Nelle sue pagine, infatti, emergono con chiarezza alcune questioni che, in un modo o nell’altro, hanno a lungo caratterizzato e tuttora caratterizzano il dibattito. Basti pensare al rapporto tra diritti e sovranità e, dunque, dell’oggettiva e necessaria condizione per i diritti di individuare il proprio fondamento, ma anche la propria efficacia, in una fonte di effettività politica e giuridica. O si guardi, per passare a un altro aspetto fondamentale, alla questione della plausibilità di una fin troppo abusata contraddizione tra il formalismo e l’universalismo dei diritti umani e dunque ad una loro individuazione e formulazione che oltrepassi la soglia ideologica e si configuri come essenziale profilo della filosofia e della prassi politiche delle società democratiche contemporanee. Anche di questo, come vedremo, è possibile individuare tracce nelle posizioni storico-culturali e teoriche di Giuseppe Capograssi. Attraverso le sue analisi è possibile intravedere lo spessore filosofico (ma anche etico e religioso) che hanno alcune categorie poste a base del concetto di diritti umani: libertà, eguaglianza, tolleranza, pluralismo, felicità, benessere. Sia pur affidate a poche ma intense pagine, la riflessione di Capograssi sui diritti umani contribuisce a mettere in risalto, come si vedrà, l’importanza che assume, nel costituirsi del mondo moderno, il tema dei diritti dell’uomo, della sua incidenza sulla cultura giuridica dei diversi popoli, del rapporto che si instaura tra esso e il formarsi di un moderno diritto internazionale, del nesso che certamente si pone tra alcuni orientamenti filosofici (penso naturalmente all’illuminismo ma anche alle teo2. Non potendo qui riferirmi in modo esauriente alla bibliografia sull’argomento per ovvi motivi di economia di discorso, mi limito soltanto a citare due recenti volumi collettanei ai quali si può far ricorso per la vastità delle indicazioni fornite: P. Barcellona-A. Carrino (a cura di), I diritti umani tra politica filosofia e storia, Tomo I (I diritti dell’uomo nella prospettiva europea), Tomo II (I diritti umani nella costruzione del nuovo ordine mondiale), Napoli 2003; R. Finelli-F. Fistetti-F. R. Recchia Luciani-P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, Roma 2004.

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Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di G. Capograssi

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rie filosofiche del liberalismo e della democrazia) e il profilarsi di una concezione della dignità umana basata sui diritti della persona, dell’uomo e del cittadino. Quella di Capograssi, io ritengo, è una delle più alte testimonianze filosofiche e giuridiche, per molti versi ancora attuale, della cultura italiana del Novecento sulla storia e sulla teoria dei diritti umani considerati nel loro diretto o indiretto legame con alcuni passaggi qualificanti della filosofia moderna e contemporanea. Non si può infatti non cogliere l’insieme di temi dottrinali e di prospettive filosofiche che traspaiono in controluce attraverso la pagina capograssiana: il significativo e non occasionale intreccio che si costruisce, ad esempio, tra il rivoluzionario scenario aperto dal concetto kantiano di autonomia della legge morale e l’affermarsi di una visione universalistica dell’uguaglianza degli uomini almeno sul piano dei postulati etici; lo sviluppo di questo intreccio dal piano del rapporto tra diritto e libertà a quello della relazione possibile tra la dignità dell’uomo e il suo riconoscimento non soltanto sul piano morale, ma anche su quello sociale (che è, ad esempio, tema cruciale delle culture politiche e filosofiche liberali, socialiste e democratiche di Ottocento e Novecento); l’importante ruolo che ha avuto nello sviluppo di una teoria e di una pratica dei diritti umani la centralità del concetto di persona sviluppatosi nel cristianesimo, insieme a tutto ciò che ha significato e significa, sul piano della teoria e ancor più su quello della pratica, il principio della solidarietà. Ma, come si potrà facilmente vedere dall’insieme del ragionamento di Capograssi, resta sostanzialmente impregiudicato il pregnante valore che nel mondo contemporaneo viene assumendo la problematica dei diritti umani nel dibattito attuale sui conflitti e le dialettiche tra visioni individualistiche dell’etica, della politica e dell’economia e visioni comunitaristiche, tra orientamenti fondamentalistici e approcci interculturali, specialmente in un’epoca sempre più pervasa dalle drammatiche questioni delle etnie oppresse e dei flussi migratori.

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Giuseppe Capograssi ha affrontato direttamente il tema dei diritti umani almeno in due documentate diverse occasioni3. Una prima volta quando scrisse, non a caso proprio nel 1948, la voce Diritti umani per uno dei volumi di appendice della Enciclopedia Italiana4. Una seconda volta, due anni dopo, quando fu sollecitato a scrivere una introduzione all’edizione italiana della Dichiarazione5. È, naturalmente, subito da avvertire – anche se può apparire superflua l’osservazione – che la questione dei diritti umani non può essere avulsa dal generale contesto teorico, filosofico e dottrinario dell’opera capograssiana. Non si può, cioè, capire il profilo tecnico-giuridico, che pure molto conta nella analisi del filosofo di Sulmona, dei diritti umani, della loro posizione nella gerarchia delle fonti del diritto, della loro effettualità e della loro efficacia normativa, della loro posizione e del loro significato nelle codificazioni costituzionali e in quelle internazionali, se non lo si connette strettamente ai fondamenti teorici della sua filosofia della vita etica, da un lato e, dall’altro, della sua visione della storia come esperienza comune6. 3. Di una terza occasione vi è traccia in una testimonianza di Gaetano Morelli (La protezione internazionale dei diritti dell’uomo in Capograssi, sta in F. Mercadante (a cura di), Due convegni su Giuseppe Capograssi, Milano 1990, pp. 537-540) che dà notizia di una conferenza del giurista, tenuta il 10 dicembre 1949 – anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo – nella sede della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale. Di essa, purtroppo, non è restata traccia. 4. Cfr. Enciclopedia Italiana, II Appendice, Roma 1948, pp. 786-788. Il testo si può leggere ora in G. Capograssi, Opere, vol. V, Milano 1959, pp. 3-8. 5. Cfr. Capograssi, Introduzione alla tr. it. della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Padova 1950, pp. 9-20. Ora in Id., Opere, vol. V, pp. 3750. 6. Esiste una consistente bibliografia critica dedicata a Capograssi: primo fra tutti l’imponente volume di Aa.Vv., Due convegni su Giuseppe Capograssi (Roma-Sulmona 1986), Milano 1990, che raccoglie studi e interventi dei maggiori studiosi italiani (tra cui D’Addio, De Giovanni, Del Noce, Frosini, Masullo, Mercadante, Prini, Tessitore. Ricordo poi, tra gli altri, G. Acocella, L’etica sociale di Giuseppe Capograssi, Napoli 1992; V. Frosini, Giuseppe Capograssi, Torino 1961; Id., Saggi su Kelsen e Capograssi. Due interpretazioni del diritto, Milano 1988; U. Pagallo, Ambiguità dello stato sociale. Comunità

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Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di G. Capograssi

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Quando Capograssi vuole approfondire l’analisi dell’esperienza giuridica nel suo farsi, prima dell’elaborazione scientifica di essa, afferma la necessità di poter e saper cogliere l’oggetto prima che questo divenga oggetto di scienza7. Questo fondamentale presupposto vale come necessario passo propedeutico alla comprensione di una filosofia del diritto che vuole, innanzitutto, essere discorso filosofico sulla vita e sull’uomo non a partire da una astratta e predefinita realtà spirituale, ma alla luce della concretezza storica dell’agire umano in una delle sue forme, per così dire, privilegiate: l’esperienza giuridica. Per Capograssi «l’imperativo giuridico» è la «prima forma nella quale si esplica la legge etica della vita». Nel momento in cui l’azione diventa deficiente perché continuamente minacciata dal male, si impone l’intervento dell’imperativo giuridico nelle articolate strutture della vita. «La legge della vita deve essere portata dentro a questa struttura, che l’ordinata trama dei fini particolari cerca di nascondere, ed entro questa cellula segreta la vita deve essere salvata»8. La prospettiva dalla quale Capograssi muove è la coscienza con la quale l’individuo vive concretamente i momenti cruciali della sua attività e, dunque, innanzitutto, l’attività pratica, colta anche in «quell’insieme di rapporti di mezzi e e regime nel pensiero giuridico-politico di Giuseppe Capograssi, Padova 1990; P. Piovani, Itinerario di Giuseppe Capograssi, «Rivista internazionale di Filosofia del diritto», f. IV, 1956(XXXIII), pp. 417-438; U. Pomarici, L’individuo oltre lo Stato. La filosofia del diritto di Capograssi, Napoli 1996; F. Tessitore, L’idea dello Stato nel primo Capograssi, Torino 1967; Id., Capograssi nello storicismo, in Dimensioni dello storicismo, Napoli 1971, pp. 215-270 (ma cfr. anche gli altri saggi del Tessitore dedicati a Capograssi raccolti in Contributi alla teoria e alla storia dello storicismo, vol. V, Roma 2000, pp. 267-413); C. Vasale, Società e Stato nel pensiero di Capograssi, Roma 1972; Id., L’individuo nell’età dei totalitarismi. Politica, diritto e morale nell’esperienza comune di Capograssi a 20 anni dalla morte, Lanciano 1977. 7. I due testi di riferimento essenziali sono, com’è noto, Analisi dell’esperienza comune (Roma, 1930; ristampa, con introduzione di Pietro Piovani, Milano 1975), in Opere, vol. II, Milano 1959, pp. 5-207, e Studi sull’esperienza giuridica (Roma 1932), in Opere, vol. II, pp. 245-373. Utilizzo qui alcuni spunti interpretativi che ho affidato a mie pagine su Capograssi (cfr. la nota 9). 8. Cfr. Opere, II, p. 114.

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azioni che la coscienza comune (la coscienza di agire per questi fini di vita) considera come diritto»9. Così, proprio per capire i confini concettuali e semantici entro i quali iscrivere l’idea capograssiana di “diritti umani”, non si può, a mio avviso, non prendere le mosse dal centrale suo discorso sull’esperienza giuridica. Il suo valore (e di conseguenza lo spettro dei significati che il suo studio presenta) non può essere limitato alla sola norma prodotta dallo Stato. Sia la riflessione filosofica sia gli sviluppi della scienza giuridica hanno, piuttosto, messo in chiaro che «il diritto ha una sua essenza logica che accoglie in sé – ma non si esaurisce in esso – il diritto dello Stato». Il diritto è «forma essenziale di ogni organizzazione umana». Come si è profondamente trasformata nel mondo moderno l’immagine della persona, sempre più contraddistinta da una «complessità di forme e mobilità di contorni», così anche la realtà giuridica «ha acquistate profondità e complessità che sembravano escluse dalla linearità quasi astratta con la quale l’edificio della legislazione statale si presentava»10. E se questa accresciuta complessità dell’esperienza giuridica moderna ha radicalmente modificato e trasfigurato il diritto dello Stato, allo stesso modo, dinanzi alle sconvolgenti trasformazioni del mondo contemporaneo, si pone l’inedito ruolo della definizione e della salvaguardia dei diritti umani in un contesto che travalica gli ordinamenti giuridici statali e nazionali. Venendo ora alla peculiare trattazione del tema dei diritti umani nelle analisi di Capograssi, appare più che scontata la considerazione del contesto storico-culturale in cui esse si originano: la fine dell’immane conflitto mondiale, l’annientamento di milioni di individui nei campi di concentramento, gli effetti 9. Cfr. Capograssi, Il problema della scienza del diritto, in Opere, vol. II, p. 418. 10. Cfr. Capograssi, Studi sull’esperienza giuridica, in Opere, vol. II, pp. 213-214. Ho affrontato questi aspetti del pensiero capograssiano in Sull’attualità del pensiero etico di Giuseppe Capograssi, ora in G. Cacciatore, L’etica dello storicismo, Lecce 2000, pp. 109-124.

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Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di G. Capograssi

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nefasti dei totalitarismi europei, l’avvio del dibattito sulle garanzie giuridiche internazionali dei diritti umani e la sua prima decisiva tappa concretizzatasi nell’approvazione della Dichiarazione del 1948, il profilarsi dei primi segni della lunga guerra “fredda” che avrebbe caratterizzato buona parte della seconda metà del secolo scorso. È in una tale temperie che bisogna collocare l’inedito problema di come far diventare le libertà fondamentali e le garanzie di rispetto dei diritti umani oggetto di giurisdizione internazionale. Colpisce che sia il filosofo – sia pur filosofo della vita etica e dell’esperienza giuridica – a cogliere il nesso significativo tra il modo nuovo di considerare i diritti umani nei documenti e nelle decisioni degli organismi internazionali (l’Onu innanzitutto) e l’agenda politica della maggior parte delle nazioni rappresentate nel maggior consesso internazionale. Non è un caso, allora, che Capograssi – nella voce Diritti umani – prenda le mosse non da generici e retorici richiami filosofici alla ontologia della libertà o alle teorie del diritto naturale, ma dal commento all’art. 55 della Carta delle Nazioni Unite, là dove il rispetto dei diritti umani senza distinzioni di razza, sesso e religione è indicato come il presupposto essenziale di quelle condizioni di stabilità e di benessere necessarie all’instaurarsi di pacifici rapporti di uguaglianza tra i popoli. Viene, in tal modo, privilegiata la valenza, per così dire, politica del processo di normativizzazione internazionale dei diritti umani. L’ulteriore elemento di novità che viene colto subito da Capograssi è che la tutela dei diritti umani, se vuole perdere finalmente ogni carattere di mera enunciazione morale, può esser tale solo nella misura in cui essa è riconosciuta in forme, sia pur ancora embrionali, di attuazione concreta negli organismi internazionali: o sotto forma di inclusione dei diritti umani nei trattati di pace o sotto forma di raccomandazioni che il Consiglio economico e sociale delle Nu può rivolgere ai paesi membri. Sulla base di queste premesse, Capograssi si dispone a entrare nel merito della «determinazione specifica» dei diritti umani. Come già innanzi si è osservato, quel che appare importante

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non è la stanca ripetizione di principi astratti, quanto di «provvedere a esigenze concrete dell’attuale mondo storico» e non solo rispetto all’esigenza di salvaguardare la libertà, la dignità e la personalità giuridica dell’uomo, ma anche in riguardo – e questo testimonia della sensibile attenzione di Capograssi verso il mutato quadro politico e sociale dell’epoca alle «aspirazioni e iniziative per liberare l’uomo dal bisogno e assicurargli la sicurezza sociale»11. D’altro canto, a Capograssi la scelta di inserire nelle codificazioni internazionali la sfera dei diritti sociali appare agevolata dal fatto che essa, ormai, costituisce parte integrante di non poche carte costituzionali nazionali (si ricordi che Capograssi scrive queste pagine nell’anno stesso dell’approvazione della Costituzione italiana). Proprio da una ricostruzione in parallelo della tradizione culturale e filosofica stratificatasi nella lunga storia dei diritti umani e dei nuovi contenuti affidati, in special modo, ai testi costituzionali novecenteschi, Capograssi articola in quattro tipologie i diritti umani. La prima riguarda l’àmbito dei diritti strettamente connessi all’esistenza individuale (diritto alla vita, all’integrità personale contro violenze e torture, contro la schiavitù, la detenzione arbitraria, il diritto alla libera circolazione e all’espatrio, il diritto di asilo contro le persecuzioni, il diritto al possesso di beni, la libertà di coscienza, di religione e di opinione12, la libertà di manifestazione delle proprie idee, il diritto di riunione e associazione). La seconda tipologia fissata da Capograssi riguarda in generale «la sicurezza contro i bisogni» e, dunque, il diritto al lavoro e a sane condizioni nella sua esplicazione, il complesso delle libertà sindacali, il diritto alla casa, alla nutrizione e alla sanità. La terza tipologia investe quelli che 11. Capograssi, Diritti umani, in Opere, cit., vol. V, p. 4. 12. Nel saggio del 1950 – che di qui a poco esamineremo – Capograssi osserva che il disciplinamento della libertà di opinione e di espressione «sancisce la nuova libertà, che l’esperienza ha dimostrato necessaria di fronte ai sistemi totalitari di propaganda, la libertà di informarsi e di avere modo di informarsi: di poter sfuggire alle allucinanti imposizioni delle verità ufficiali» (ivi, p. 42).

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vengono definiti come «diritti che tutelano l’uguaglianza» e che qui, guardando al carico di problemi attuali legati ai flussi migratori13 e alle questioni del multiculturalismo, vale la pena di citare per intero così come sono elencati nella pagina capograssiana: diritti «contro le discriminazioni di razza, sesso, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni sociali; e quindi tutelano le minoranze assicurando loro, se vogliono, proprie scuole, proprie istituzioni religiose e culturali, l’uso della propria lingua nella stampa, nelle riunioni e dinanzi ai tribunali o altri organi dello Stato». Infine, l’ultima tipologia riguarda i diritti politici, a partire dalle garanzie di partecipazione al governo, il diritto a elezioni periodiche libere e segrete da cui possa scaturire una compagine statale conforme alla volontà popolare14. Naturalmente l’intreccio delle tipologie non pregiudica il fatto che alcuni diritti fondamentali debbano considerarsi propedeutici rispetto a tutti gli altri. Infatti il complesso di diritti riconducibili a ciò che Capograssi chiama «liberazione dalla paura» (incolumità personale e garanzie contro la schiavitù e le torture) diventano la condizione indispensabile per il perseguimento e il mantenimento dei diritti, ad esempio, economici e sociali. Nella distinzione che già allora emergeva nella politica delle Nazioni Unite tra diritti da affidare a veri e propri trattati tra gli stati (i diritti, diremmo, di primo tipo) e diritti da elencare in una dichiarazione come finalità a cui dovrebbero ispirarsi i vari Stati – una distinzione che già Capograssi rilevava – si cela forse l’aspetto più problematico della storia contemporanea dei diritti umani, che è quello legato al vincolo, solo in parte giuridico ma in buona parte etico e politico, al quale dovrebbero sentirsi legate le varie comunità nazionali. Se le lesioni ai diritti riferibili alla prima tipologia possono, in un trattato internazionale che ha valore di patto obbligante, trovare anche l’esito san13. Capograssi, ancora nelle pagine del 1950, individua tra i diritti fondamentali dell’uomo la «libertà di emigrazione che i nostri duri tempi hanno dimostrato bene prezioso dell’individuo» (ivi). 14. Capograssi, Diritti umani, cit., pp. 4-5.

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zionatorio in un tribunale internazionale, quelle verso i diritti delle altre tipologie possono al massimo essere moralmente ed eticamente sanzionati alla luce di una «tavola precisa di valori tali da dominare i generali indirizzi politici degli Stati civili». Insomma, il problema della espansione più ampia possibile delle garanzie verso i diritti umani resta – per Capograssi allora e per noi adesso – quello del ruolo costituito dalla sovranità dei singoli Stati. «La vera soluzione del problema – scrive Capograssi – è nell’organizzazione di una viva, operante e potente comunità internazionale. Questo è il faticoso e lento compito della storia»15. Salvo a osservare che probabilmente Capograssi non avrebbe certo immaginato quanto lento, contraddittorio, spezzato e tuttora in buona parte irrisolto, sarebbe stato questo compito nell’ultimo cinquantennio. Quel che comunque è interessante osservare è che già allora il filosofo di Sulmona individuava alcuni punti-chiave e alcune ipotesi di soluzione: il diritto di petizione aperto agli individui e ai gruppi (e l’individuazione di una sede istruttoria e decisionale); la formazione di una corte internazionale per i diritti umani; l’applicazione piena delle sanzioni agli Stati comminate dalla Corte internazionale di giustizia. Tuttavia il problema di fondo restava, per Capograssi, quello secondo cui la tutela dei diritti umani doveva diventare un «principio costitutivo della comunità internazionale» anche alla luce dell’acquisizione del riconoscimento, da parte del diritto internazionale, dell’individuo come persona. Questo condurrebbe alla conclusione necessaria che il rapporto dei cittadini con l’organizzazione statale non sarebbe più solo «oggetto di diritto interno, ma diventerebbe oggetto di diritto internazionale. Insomma, si dovrebbe finalmente passare dalla tutela di un singolo diritto individuale a quella dell’individuo stesso in tutti i diritti che lo costituiscono come persona (diritti fondamentali della vita, diritti sociali ed economici, diritti politici). «In tal modo l’individuo diventerebbe cittadino del mondo, nel senso più preciso e determinato, con tutte le conseguenze faci15. Ivi, p. 6.

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li a intravedersi che questo fatto fondamentale apporterebbe nella costituzione sia della comunità internazionale che dello Stato»16. Ciò che comunque colpisce nella posizione di un intellettuale certo non definibile come di sinistra radicale o socialisteggiante, è la netta convinzione che un vero «indizio di progresso» nella definizione contemporanea dei diritti umani è il riconoscimento della «connessione indissolubile tra i diritti di libertà e i diritti sociali ed economici di liberazione dal bisogno, in modo che gli uni costituiscono la condizione e il contenuto degli altri e viceversa»17. Su questo punto particolare mi pare di poter osservare che le conclusioni che il giurista Capograssi affidava alle sue riflessioni sulla questione dei diritti umani nel momento storico di svolta determinata dalla fine della guerra e dalla sconfitta dei totalitarismi, non erano poi così lontane da quelle che il filosofo Capograssi elaborava già nei primi anni ’20. Ciò che Capograssi, nel suo pensoso e operoso lavoro di autonoma riflessione filosofica sull’esperienza umana, ci ha mostrato, è che la vera universalità dell’individuo risiede proprio nella vita del mondo sociale, nell’oggettivazione di se stesso nel mondo della storia. «Tutta la vita del mondo sociale – scrive Capograssi nel 1921 – in quanto è la perenne universalizzazione degli interessi immediati della persona, è per l’“io” individuale una sempre più profonda coscienza della propria spiritualità un sempre più concentrato e intenso conoscimento della sua natura. Perciò invece di essere la sommersione e l’oscuramento dell’individuo è una luce sempre più chiara nata nella chiusa e misteriosa essenza dell’atto individuale. Quanto più lo spirito si eleva nella conoscenza della profonda oggettività dell’idea umana, quanto più esso si inoggettiva nelle forme obiettive della vita, tanto più questa prodigiosa operazione dello spirito è non sparizione della coscienza ma inoggettivazione con la quale appunto l’“io” si immerge in quella obiettività serbando in essa se stesso. Proprio in questa dualità consiste la vita sociale: proprio 16. Ivi, p. 7. 17. Ibidem.

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in questo oggettivarsi e in questo rimanere “io” consiste la umanità e la vitalità del mondo sociale»18. Nello scritto del 1950, Capograssi, dopo aver fatto una breve storia dei precedenti immediati della Dichiarazione del 1948, esprime il suo convincimento – in coerenza con la sua visione filosofica dello stretto nesso tra scienza del diritto ed esperienza comune della vita umana nella storicità del suo costituirsi e costruirsi19 – che l’intera problematica sollevata dai diritti umani nasca innanzitutto dalle esigenze maturate nel fuoco dell’esperienza della vita storica contemporanea e non da «escogitazione» di individui o di gruppi per quanto autorevoli. È innanzitutto la grande tragedia del totalitarismo e del razzismo, dell’attacco inaudito alla personalità giuridica, politica ed esistenziali di tanti milioni di individui, del sovvertimento totale del precetto kantiano dell’uomo da considerare mai come strumento e sempre come fine, che ha necessariamente indotto a trovare nuovi argini di difesa contro ogni attentato all’umanità. Accanto a questo basilare e incondizionato diritto alla vita si pone, però, nella visione di Capograssi, l’esigenza di adeguare la teoria e la prassi dei diritti umani alla nuova configurazione storica ed economico-sociale del mondo contemporaneo. Gli 18. Cfr. Capograssi, Riflessioni sulla autorità e la sua crisi [1921], in Opere, cit., vol. I, p. 170. 19. Si rileggano le bellissime pagine di un breve scritto del 1948 (Capograssi, Il “quid ius” e il “quid iuris” in una recente sentenza, in Opere, vol. V, pp. 23 ss.), dove, tra l’altro, si legge: «Tutte queste cose [l’atto del giudicare, la sentenza, la legittimità del giudizio, il diritto alla difesa, la proporzionalità della pena, etc.] stanno implicite e racchiuse in quel nascosto nucleo di ragione diretta e concreta con cui vive la sua vita l’uomo comune, il quale sa bene che cosa sia giudicare, che cosa sia responsabilità, difesa, pena, assassinio. Quello che si chiama sentimento non è quel qual cosa di vago e inafferrabile che s’intende quando si parla per esempio di “sentimentalismo”, ma è la profonda segreta diretta consapevolezza pratica con cui l’individuo vive la sua esperienza, con le certezze che fanno l’umanità della sua coscienza, e che insomma reggono tutto l’ordinamento giuridico e il complesso delle norme e delle istituzioni da cui l’ordinamento risulta».

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sviluppi dell’economia, le lotte sociali, le rivendicazioni di dignità e di uguaglianza per gli strati più deboli della società, fanno sì che si prenda coscienza del fatto «che i diritti riconosciuti all’individuo dagli ordinamenti moderni, se rimangono pure facoltà e puri poteri astratti, sono quasi figurativi; possono diventare qualche cosa di reale solo se la persona sia posta in tali concrete condizioni, da poter realizzare una esistenza veramente umana e trasformare quei poteri astratti in vera esplicazione di vita»20. Il filosofo che aveva teorizzato la situazione di costitutiva indigenza e deficienza dell’essere umano e, per questo, aveva costruito una problematica idea di esperienza comune come luogo di massima esplicazione di tutte le articolazioni della vita etica dell’individuo nel suo mondo storico, non poteva non giungere a una concreta e pratica visione giuridica e politica dell’intersoggettività – che è poi quella che percorre tutta l’età contemporanea – basata sul riconoscimento e sulla ricerca di effettività giuridica dei diritti economici e sociali. «Questi diritti – osserva Capograssi – sono diventati una parte centrale degli odierni ordinamenti giuridici: quasi tutte le costituzioni contemporanee li hanno codificati, e in ogni Paese complesse legislazioni sociali li vanno faticosamente attuando. La democrazia tende da formale a diventare reale»21. È in questo contesto, ragiona Capograssi, che si colloca la posizione ambigua dello Stato dinanzi ai diritti umani, giacché, per un verso, è proprio lo Stato a mettere, come insegna la storia recente, in discussione e in serio pericolo i diritti dell’individuo suddito, mentre, per un altro verso, spesso si deve far ricorso alla forza di uno o più stati per salvare dallo strapotere e dalla violenza di altri stati cittadini indifesi e inermi popolazioni. Tutto ciò, osservava con lucida lungimiranza Capograssi, è causa di scontri internazionali, di attentati, di disordini, di «avvenimenti lesivi, in sostanza, dell’umanità di tutte le genti, e che metten20. Capograssi, La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, in Opere, cit., vol. V, p. 39. 21. Ivi, p. 40.

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do in pericolo masse ingenti di individui e popolazioni intere creano ambienti di instabilità, di invasioni, di nomadismi e di estremismi». A ciò si aggiungano, poi, gli elementi di conflitto provocati dalle condizioni estreme di miseria di popoli e di masse diseredate che possono mettere in discussione la legittimità di quegli stati o incapaci di prospettare soluzioni economiche o coincidenti con i gruppi economici dominanti. È alla luce di questa situazione che si impone una terza via tra lo statalismo nazionalistico improduttivo e foriero di pericoli e l’anarchia altrettanto pericolosa e inefficace. «La esigenza è che la comunità stessa degli Stati, una forza in certo modo superiore alla forza dello Stato, prenda in mano questi formidabili problemi, che la difesa dell’individuo dalla paura e dal bisogno sia riconosciuta per quello che è, interesse di tutto il mondo delle Nazioni civili, sia perché la pace e la pacifica vita di questo mondo ne dipende, sia perché solo questo mondo e le sue forze riunite in una organizzata cooperazione di mezzi e di sforzi, è in grado di risolvere quei problemi che, riguardando oramai tutti i popoli della terra, richiedono la collaborazione di tutte le forze della terra»22. Se non si collocano i documenti internazionali e le dichiarazioni universali dentro la cornice concreta delle condizioni storiche del mondo contemporaneo (guerre, totalitarismi, conflitti di potenza tra gli Stati, ricerca del dominio economico, conflitti sociali, povertà e indigenza di intere popolazioni), si corre il rischio, è questo il monito di Capograssi, di restare alle proposizioni generali, a «una serie di tautologie o ripetizioni di vecchie e logore formule». «Il contenuto della presente dichiarazione non nasce da deduzioni astratte, o si riporta a vecchie metafisiche, o a vecchi cataloghi di diritto naturale, ma è dettato dai bisogni più certi delle nostre società, e si commisura ai fatti più clamorosi e alle esigenze più vitali della umanità presente. Così come è la Dichiarazione è quasi – si direbbe – il più potente atto di riflessione che le Nazioni Unite hanno portato sulla esperienza storica delle società contemporanee: il profondo giudizio che 22. Ivi, pp. 40-41.

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dalla più sofferta prassi dei loro popoli le Nazioni stesse hanno desunto»23. Qui non è certo il caso di riproporre l’analitico esame che fa Capograssi delle tipologie dei diritti umani – peraltro esposte nel piccolo saggio del 1948 – e del loro disporsi nell’articolato del testo della Dichiarazione. Quel che, piuttosto, importa segnalare, è il convincimento capograssiano che i diritti umani, pur nella distinzione delle tipologie, vanno trattati e considerati come un unicum, come un sistema, nel quale nessun diritto può essere trascurato o addirittura leso senza che ne risenta l’intero complesso, anche quando si voglia far passare l’aberrante ipotesi di poter rinunciare a un diritto con l’alibi di favorire la più agevole realizzazione degli altri. Con probabile allusione a quelle posizioni tendenti a giustificare le restrizioni alle libertà individuali in nome del soddisfacimento di diritti economici e sociali, Capograssi ricorda che l’imprescindibile condizione resta quella della libertà dell’individuo in tutte le sue forme e in tutte le sue manifestazioni private e pubbliche. L’altro punto di rilievo richiamato da Capograssi è il ruolo inedito che la garanzia dei diritti individuali inizia ad assumere a livello internazionale a seguito dell’approvazione della Dichiarazione. Quel che colpisce nel ragionamento capograssiano non è solo l’elevazione del diritto individuale alla libertà di movimento e di asilo a diritto internazionale riconosciuto, ma anche e soprattutto la riduzione stessa degli interessi internazionali al diritto dell’individuo. «L’ordine internazionale deve avere per fine il rispetto e l’osservanza dei diritti e delle libertà: e quindi deve essere organizzato in modo che questo fine possa essere conseguito, vale a dire che diritti e libertà abbiano il loro pieno effetto: l’individuo diventa idealmente il titolare di un diritto avente per oggetto questa totale organizzazione del mondo internazionale»24.

23. Capograssi, La dichiarazione universale, cit., p. 41. 24. Ivi, p. 44.

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Comunque, Capograssi è ben consapevole dei limiti del valore di effettualità giuridica dei diritti enunciati nella Dichiarazione. Essa è solo «la prima parte di una complessa e positiva disciplina giuridica internazionale dei diritti dell’uomo»25. E ben sappiamo come, a oltre cinquant’anni di distanza, quella prima parte solo in alcuni punti ha visto un reale passaggio ad altre successive tappe. Tuttavia, se si contestualizza la posizione di Capograssi, se la si colloca, cioè, nella dimensione culturale, politica e psicologica delle aspettative aperte, per il mondo contemporaneo, dalla fine del lungo incubo della guerra e dei genocidi e dalla sconfitta del totalitarismo, diventa agevole capire il tono complessivamente ottimistico che pervade il saggio del 1950. Ha indubbiamente ragione Capograssi quando sostiene che i diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalla Dichiarazione del 1948 hanno una carica notevolissima sul piano del riconoscimento della intangibilità di diritti che sono innati alla persona dell’uomo26. L’universalità, dunque, ha questo profilo di carattere ideale e può anche, ed è questo un fatto certamente positivo, tradursi in atteggiamento culturale (senza il quale, è bene ricordarlo, nessun decreto di legge può valere veramente), in mentalità e corretta abitudine a considerare, nella sua centralità di persona titolare di diritti fondamentali e inalienabili, l’altro e il vicino, il diverso e l’identico e, in tal modo, diventare norma etica. Difficilmente, però, come la storia purtroppo ha mostrato 25. Ivi, p. 45. 26. Se quella dei diritti umani, afferma Capograssi, aspira a diventare una «concezione comune» delle nazioni che si riconoscono nella carta dell’Onu, questo può voler dire che «diritti e libertà escono dall’astrazione di una categoria generale e dalle differenze arbitrarie e particolari delle concezioni e delle politiche dei vari stati, e diventano diritti e libertà definite». Non è certo dunque un dato trascurabile considerare la Dichiarazione, al di là dei limiti di praticabilità e di effettualità, nel suo enorme valore politico, nell’essere cioè una «deliberazione della maggiore organizzazione politica formata dalla maggior parte degli stati del mondo». Insomma, si tratta di un «atto pratico di volontà, fatto per affermare e inserire un complesso di principi e criteri nella realtà storica: ed effettivamente […] costituisce la premessa di una compiuta disciplina giuridica internazionale» (cfr. ivi, pp. 45-46).

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e continua a mostrare, la cultura e l’etica riescono a trasferire la norma a una sanzione reale e concreta. Si potrà certo dar luogo, come spesso è avvenuto, a una sanzione e riprovazione etica, che è certamente la più facile e non costa nulla. Talvolta si è manifestata la sanzione politica che ha qualche efficacia in più sul piano pratico. Quasi mai e molto raramente la sanzione ha assunto qualità e validità giuridica sostanziale. Capograssi sviluppa queste riflessioni sui diritti umani tra il 1948 e il 1950 e non può dunque andare al di là del riconoscimento della grande portata di ciò che definisce un «atto pratico» come premessa a futuri sviluppi politici e ordinamentali. Tuttavia, per Capograssi, il pur incompiuto atto pratico rappresenta l’esito irreversibile di una scelta, una scelta «tra due vie, due concezioni, due direzioni, due sistemi di finalità pratiche». Sono le concezioni e le contrapposte visioni del mondo che la storia contemporanea ha messo le une contro le altre e che hanno indotto alla scelta Stati e forze sociali. «C’è una concezione, la quale mette capo a valori collettivi e impersonali, come società, nazione, sangue, razza, classe, stato e simili: questi valori sono considerati come supremi e quindi posti come il fine verso il quale deve essere diretta ogni politica dello stato, e ogni attività sociale. Conseguenza è che l’individuo, l’individualità umana, le libere formazioni sociali, sono posti e trattati come mezzi, perché in sostanza non hanno valore in sé e per sé, traggono valore da ciò che è stato posto come valore supremo, e non hanno altra funzione, che di servire di mezzo a quel fine. L’altra concezione è più nota, perché più antica, e coincide con le spontanee certezze della coscienza comune. Valore supremo è la persona umana: e quindi fine inviolabile, non riducibile per nessun modo a mezzo; e tutto il resto, realtà naturali e collettive, politiche e sociali, società e Stato sono mezzi e valori strumentali per questo fine. Queste due concezioni mettevano al bivio le coscienze e le pratiche delle forze storiche contemporanee. Con la Dichiarazione […] il dubbio è risoluto: la Dichiarazione è l’atto di volontà col quale le Nazioni Unite,

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come organizzazione, e ogni loro membro come singolo, hanno eliminato il dubbio e fatta la scelta. Tra l’una e l’altra concezione, hanno scelto al concezione che coincide con le certezze della coscienza umana e comune»27. E non si trattava solo di una scelta morale e ideale, giacché la ripulsa della concezione totalitaria e antipersonalistica recava con sé il definitivo rinunciare a mostruose dottrine politiche e a ignobili legislazioni positive e ad ancor più intollerabili pratiche. Insomma, pur essendo Capograssi consapevole che la condanna delle «pratiche negatrici dell’individuo, della sua libertà e della sua dignità» e i principi su cui essa si basa non si sono tradotti ancora in una prassi consolidata della storia contemporanea (e questo, afferma il filosofo, è cosa gravissima, perché significa «sangue e lacrime di individui e di gruppi»), resta però convinto che sia grandemente positivo il fatto che la «verità sia dichiarata», che non sia più possibile non sapere dove sia il male e dove sia il bene. Se pure la Dichiarazione dovesse restare vuota parola, non si può più eludere la certezza della coscienza comune e il ruolo che grazie ad essa hanno assunto termini e concetti come quelli di personalità, dignità umana, libertà, diritto, cioè «parole della civiltà». Quali che siano i limiti e gli ostacoli lungo la strada di una piena e consapevole dottrina e pratica dei diritti umani, quali che siano le contraddizioni tra i principi e la loro applicazione giuridica, quale che sia ancora oggi, aggiungeremmo noi, la difficile costruzione di una codificazione internazionale dei diritti umani, resta, per Capograssi, la «grande intuizione» di quella Dichiarazione, che ha saputo individuare un percorso di verità in un’epoca che sembrava fatalmente destinata a smarrire i «principi elementari della vita». È la netta riaffermazione, per bocca di una filosofia della vita etica come quella di Capograssi, del «bisogno della verità», di una verità che deve essere quotidianamente confessata e ripetuta. «Noi troppo abbiamo creduto che ripetere parole e verità comuni fosse inutile. Abbiamo visto a che cosa porta l’affidarsi ciecamente all’azione. Verità e 27. Ivi, p. 46.

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giustizia sono la stessa cosa. Non tradirle a parole è un mettersi sulla strada di non tradirle nei fatti. È già, per quanto è in noi, un cominciare a trasformare la storia. Non sono gli stati, siamo noi stessi, che abbiamo la responsabilità della storia»28. Nessuno si sognerebbe di negare l’importanza sempre più crescente che la cultura e la pratica dei diritti dell’uomo hanno assunto nell’ultimo cinquantennio. Una importanza visibile a partire dal generale riconoscimento (senza ovviamente trascurare le ricorrenti eccezioni alla regola), giusto riconoscimento, che l’universalità non deve significare solo – e già sarebbe tanto – la più ampia estensione geografica e territoriale dei diritti umani, ma anche, e soprattutto, una dimensione del diritto che oltrepassi l’effettività giuridica dello stato-nazione o del singolo governo. Insomma, i diritti umani devono essere al di sopra e al di là della volontà giuridica e della sua attuazione da parte del singolo governo. Si tratta, e il ricorso a questo concetto non può certo meravigliare chi conosca le pagine capograssiane sulla universalità dell’azione umana e della stessa natura dell’uomo, di un diritto naturale inalienabile che appartiene all’umanità. Il problema dell’intervento del potere politico nazionale si deve, perciò, porre non all’inizio, bensì alla fine. Nel senso, cioè, di una obbligazione che vincoli tutte le nazioni – e questo dovrebbe essere il vero obiettivo del nuovo millennio – al controllo e al rispetto delle norme fondamentali connesse al diritto alla vita, alla sicurezza, all’educazione, alla libertà di opinione, al benessere. Si osserverà, giustamente, che il limite e la contraddizione non riguardano i contenuti della Dichiarazione ma, piuttosto, i modi incoerenti di applicazione di essi da parte di molte di quelle stesse nazioni che la sottoscrissero nel 1948 o che ad essa hanno aderito nei decenni successivi. In effetti è proprio questo l’elemento di maggiore debolezza: il peso determinante che nella stessa Dichiarazione e nella politica internazionale hanno avuto e continuano ad avere gli Stati-nazione. La stessa Onu, 28. Ivi, p. 49.

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pur con i suoi altissimi meriti e pur svolgendo funzioni difficili di equilibrio e pacificazione, ha in sostanza mostrato tutta la sua incapacità ad assorbire in sé quelle funzioni di soggetto politico sovranazionale – quelle funzioni, cioè, che avrebbero permesso di dare efficacia pratica ed effettività giuridica agli articoli della Dichiarazione. Invece, dal 1948 al 1989 il mondo si è piegato alla logica delle grandi potenze e dei mondi divisi dalla guerra fredda e, dopo il 1989, alla logica, nella migliore delle ipotesi, di un sistema occidentale euro-americano impegnato a imporre i valori del mercato e del liberismo e, nella peggiore, alla logica dell’unica superpotenza oggi restata in campo. Ha certamente ragione Norberto Bobbio29 quando, pur riflettendo criticamente sulla storia dei diritti dell’uomo a partire dalla Dichiarazione del 1948, scrive che il dibattito su essi e sulla loro efficacia non è certo da accantonare. Anzi, egli aggiunge, il fatto che il tema dei diritti dell’uomo si imponga sempre più è un «segno dei tempi», tempi marcati dalla necessaria espansione della democrazia, dei suoi contenuti e delle sue procedure, in ogni angolo del mondo. È su questo binario che deve incanalarsi la questione dei diritti dell’uomo, giacché senza democrazia reale e sostanziale non v’è diritto umano che possa essere salvaguardato e potenziato. Lo stesso problema della pace appare intimamente connesso a quello dei diritti e della democrazia. Non sono dunque, in effetti, i contenuti universalistici della Dichiarazione a dover essere mutati, giacché in qualsiasi tempo e a qualsiasi latitudine geografica e culturale la vita, la salute, il benessere, la libertà personale, la libertà di coscienza e di opinione restano valori assoluti. Quel che deve mutare e universalizzarsi è il concetto e la pratica della democrazia. «Siamo sempre più convinti – afferma Bobbio – che l’ideale di una pace duratura non possa essere perseguito se non attraverso una progressiva democratizzazione del sistema internazionale, e 29. Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino 1990. Si ricordi che Bobbio scrive uno dei suoi primi interventi sul tema dei diritti umani risale al 1951 proprio a proposito della Dichiarazione.

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che questa democratizzazione non possa andare disgiunta dalla graduale e sempre più efficace protezione dei diritti dell’uomo al di sopra dei singoli Stati». L’importante, osservava Bobbio, è non ritenere mai concluso questo processo, non dichiararsi mai ottimisticamente soddisfatti del cammino percorso e neanche pessimisticamente sfiduciati dinanzi ad una realtà che sembra sovvertire ogni buona intenzione e ogni universalismo dei principi. Da questo punto di vista, dal punto di vista dei diritti dell’uomo, si potrebbe paradossalmente affermare che la storia, dinanzi agli immani compiti delle generazioni future, è appena agli inizi. Ritornando, per concludere, alla concezione dei diritti umani in Capograssi, è proprio la costante preoccupazione della sua filosofia a non smarrire il senso della fortissima relazione tra i principi universali della coscienza comune (rispetto della vita, libertà, uguaglianza, pluralismo) e storicità del mondo umano colta anzitutto nella determinazione concreta della politica e del diritto, a consentirci di non ridurla a una visione irenica e consolatrice dell’uomo e della sua vicenda storica, dell’individuo e della sua prassi. In un’epoca che si vorrebbe ormai corrosa nell’acquiescenza all’esistente e che brucia ogni sua energia vitale nella vertiginosa e accelerata consumazione del tempo, è forse giusto e necessario richiamare il senso forte della criticità del pensiero, ma anche dell’oltrepassamento verso una dimensione metapolitica e metastorica della vita e delle sue oggettivazioni, pur sempre incessantemente rinnovantesi nel segno dell’individualità, dei suoi bisogni, dei suoi diritti e delle sue stesse rinunzie. «Quest’epoca con tutta la sua esteriorità, con queste bombe e questo marciare di masse, questa inesauribile fantasia di torture carnali e spirituali e questi materialismi effettivi o pretesi, è un’epoca essenzialmente metafisica. Non bisogna farla sprecare»30.

30. G. Capograssi, Introduzione alla vita etica [1953], in Opere, Milano 1959, vol. III, pp. 5-6.

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In pagine elevatissime e meditate, scritte nel 1950 in onore di Francesco Carnelutti, Capograssi rifletteva su quanto l’immane catastrofe della guerra e dei genocidi avesse contribuito a modificare radicalmente la vita dell’individuo contemporaneo e quale lezione questi avesse dovuto apprendere dalla «terribile pedagogia della storia»31. La drammatica crisi doveva necessariamente indurre a una rinnovata visione della libertà, dell’individuo e del diritto. È in questo contesto che Capograssi richiama ancora una volta il problema dei diritti umani e il significato della Dichiarazione universale. Ritorna il monito severo a non considerare la Dichiarazione come uno «dei soliti e morti cataloghi di diritti naturali, cari agli addottrinati di altri tempi». Se è un dato dell’esperienza storica la caduta della coscienza storica dell’uomo in uno stato di passività, è altrettanto da considerare che al fatto storico negativo s’oppone quello positivo di un recupero in sede storica di un principio su cui può rifondarsi l’umanità della coscienza. «Che gli stati riconfermino in una grande organizzazione internazionale, la verità umana, che da parte di altri stati è stata contestata nella teoria e nella prassi, è uno dei più concreti e potenti fatti storici che ci siano». È ben vero, osserva Capograssi, che «l’umanità senza diritto» e il «diritto senza umanità» hanno avuto purtroppo il dominio della scena per lunghi anni, ma alla fine sul terreno della storia ha finito col prevalere l’idea del diritto come «imprescindibile diritto dell’individualità umana, della integrale vita dell’individuo nella pienezza delle esigenze della sua natura»32. Come si è innanzi osservato, Capograssi sa bene che questo è solo l’inizio, che si è gettato soltanto un germe e che persistono ancora notevoli antinomie (tra l’individuo e la sovranità dello stato, tra lo stato nazionale e la comunità internazionale, tra i diritti di libertà e i diritti sociali ed economici. Ma la storia si fermerebbe in un illusorio possesso di verità se non fosse anche ed essen31. G. Capograssi, Il diritto dopo la catastrofe, in Opere, vol. V, cit., p. 153. 32. Per questa e la precedente citazione, cfr. ivi, p. 194.

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Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di G. Capograssi

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zialmente processo di soluzione continua e lenta delle contraddizioni. Questo, afferma Capograssi, è il compito della nostra epoca. Ma, attenzione, non si tratta di un esito finalistico e consolatorio, perché «la nostra epoca significa gli individui della nostra epoca. La nostra epoca siamo noi. L’incertezza è in noi […]. È relativamente chiara, nella coscienza pratica dell’umanità, la direzione a cui essa deve avviare la sua storia se vuole salvare sé stessa […]; le intuizioni di verità che la catastrofe le ha fatto scoprire, sono imperative indicazioni, lezioni di salvezza. Ma metterle in pratica, farle passare nell’azione è fatica: è tutta la fatica che costa il dar vita a mantenere in vita l’umanità della storia. È tutta la fatica che costa all’individuo il mantenersi fedele alla sua umanità, il rendere concreta e attuale in sé la sua umanità. Ora l’individuo, questo individuo hic et nunc, l’individuo che ognuno di noi è, ha la volontà d’animo e la forza adeguata per mettersi a questa fatica? C’è un terribile dubbio di fronte a tale domanda. Il tragico del presente momento storico dipende da questo dubbio»33.

33. Ivi, p. 195.

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Emanuela Fornari

Aporie della ragione giuridica. Transiti habermasiani

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1.

Uno dei banchi di prova decisivi – e al contempo più ardui e problematici – della filosofia contemporanea sembra essere oggi costituito dalla crescente delegittimazione delle pretese di universalità ed “esportabilità” della democrazia, quale non solo e non tanto (classicamente) “forma di governo”, quanto effettivo principio di articolazione tra gli apparati statali e le istanze soggettive di partecipazione espresse da individui e gruppi differenziati. Se i moventi di tale delegittimazione sono palesemente riconducibili al cospirare di una serie di circostanze storico-fattuali di vaste dimensioni – lato sensu ascrivibili agli effetti della cosiddetta globalizzazione – non va tuttavia trascurato il fatto che quelle stesse circostanze tendono ormai a tradursi in una vasta gamma di sfide e di interrogativi teorici che sottopongono a tensione la stessa costellazione concettuale e simbolica della modernità europea. Se per un verso diviene sempre più insostenibile il nostro modo tradizionale di intendere il rapporto tra scienza e politica, in virtù delle implicazioni di un “globalismo” tecno-economico che sembra revocare la distinzione (fondativa del “politico” moderno) tra artificio e natura, per l’altro appaiono ormai fragili e precari i nostri concetti di individuo e comunità a fronte di un mondo a un tempo compresso e de-universalizzato, uniformato sul piano della tecnica e differenziato sul piano delle identità. Un mondo in cui le dinamiche di “soggettivazione” (e le correlate “lotte per il riconoscimento”) non si limitano a contestare il pattern moderno della sovranità politica e del nesso costitutivo tra diritto e Stato, ma

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Emanuela Fornari

tendono a denunciare il carattere prettamente etnocentrico dei pilastri dell’universalismo occidentale. È in una tale temperie – segnata da una duplice e simultanea crisi del modello assimilazionalista (repubblicano e nazionalstatale) e del modello multiculturalista (comunitario e differenzialista) di integrazione – che occorre collocare il tentativo intrapreso da Jürgen Habermas di una ricostruzione del progetto filosofico e politico della modernità attraverso un rilancio, sulla scena “postnazionale”, del principio dei “diritti umani”1. La scommessa habermasiana – schematicamente enunciata – è che tale principio sia, nel suo nucleo di fondo, decontestualizzabile dalla peculiare vicenda storica dell’Europa e dell’Occidente: che esso possegga, in altri termini, un carattere intrinsecamente transculturale. Nel mettere a fuoco questo aspetto, il presente contributo si propone due finalità tematicamente circoscritte: a) in sede interpretativa: collocare la trattazione della forma giuridica in genere, e dei diritti umani in particolare, nel contesto in divenire del programma teorico habermasiano; b) in sede teoretico-costruttiva: fare emergere, all’interno di quel programma, la presenza di aporie concettuali riconducibili, in ultima istanza, all’assunzione di un paradigma di modernità (e di modernizzazione) inadeguato a fronteggiare i nuovi termini in cui si pone, nell’èra globale, il problema dei transiti e della “traduzione” reciproca tra le identità culturali. Discostandoci da alcune recenti e accreditate periodizzazioni dell’opera habermasiana2, volte a enfatizzare la “novità” 1. Si vedano, al riguardo, in particolare: J. Habermas, Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Frankfurt a.M. 1996, tr. it. L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Milano 1998 e Id., Die postnationale Konstellation, Frankfurt a.M. 1998, tr. it. La costellazione postnazionale, a cura di L. Ceppa, Milano 1999. Per una trattazione del recente progetto teorico habermasiano da un’ottica prettamente comparativa, mi permetto di rimandare a E. Fornari, Modernità fuori luogo. Democrazia globale e “valori asiatici” in Jürgen Habermas e Amartya K. Sen, Torino 2005. 2. Si veda, ad esempio, la – peraltro lucida e rigorosa – sintesi di S. Petrucciani, Introduzione a Habermas, Roma-Bari 2000, pp. 133 ss.

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Aporie della ragione giuridica. Transiti habermasiani

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rappresentata dalla riflessione sistematica sul diritto e la politica a partire dai lavori degli anni Novanta, riteniamo doveroso sottolineare che tale spostamento del fuoco dell’indagine – di per sé incontestabile – non rappresenta tanto una rottura, quanto piuttosto uno svolgimento di premesse teoriche già contenute in nuce negli scritti delle precedenti fasi della teorizzazione habermasiana. E qui non si allude soltanto al pur rilevantissimo tema della crisi del welfare statocentrico: ricondotto da Habermas – già alla metà degli anni ’70 – alla “nuova intrasparenza” indotta dal fallimento del progetto di uno “Stato del benessere” fondato sull’utopia di una società del lavoro ristretta all’ambito di una costituzione nazionale3. Ma ci riferiamo piuttosto al persistere di quella vera e propria “scena influente” rappresentata, sin dall’inizio degli anni ’60, dalla ridefinizione della categoria arendtiana di “sfera pubblica” (Öffentlichkeit), concepita né quale mero limite al potere statale (secondo i protocolli della tradizione liberale), né quale sorgente di ogni potere (secondo i protocolli della tradizione democratico-radicale), bensì quale medium di un progressivo assorbimento dell’opacità del potere, o di una dissoluzione della sovranità in razionalità4. “Veritas non auctoritas facit legem”, esclamava Habermas rovesciando la celebre formula hobbesiana. Intendendo con questo che il grado di democratizzazione di una società fosse dato dalla deflazione degli elementi di Öffentlichkeit “manipolativa”, a favore degli elementi di Öffentlichkeit “critica”, di produzione del consenso via discussione. Malgrado il suo carattere incoativo, questo spunto teorico recava già in sé l’ipotesi di una spinta universalizzante radicata nella stessa struttura teleologica della “razionalità dialogica” che, con l’elaborazione della teoria dell’agire comunicati3. Cfr. J. Habermas, Die Neue Unübersichtlichkeit, Frankfurt a.M. 1985, pp. 141 ss., tr. it. La nuova oscurità. Crisi dello Stato sociale ed esaurimento delle utopie, a cura di A. Mastropaolo, Roma 1998. 4. Il riferimento è, ovviamente, al celebre Strukturwandel der Öffentlichkeit, Frankfurt a.M. 21990 [Neuwied-Berlin 1962], tr. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari 1971.

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vo, fungeva da contraltare alla razionalità tecnica (la “ragione strumentale” di horkheimeriana memoria) nella realizzazione di un “incompiuto” progetto moderno ancora incapace di corrispondere all’originaria promessa di emancipazione racchiusa nell’idea kantiana di Aufklärung5. Tutto ciò è oggi ben noto e largamente assodato, alla luce della vasta letteratura critica sull’opera habermasiana. Meno scontata appare viceversa la questione della “partita doppia”, relativa ai guadagni e alle perdite risultanti dal confronto tra l’impostazione di Habermas e quella di Max Weber circa la pretesa di universalità inerente alla coppia “razionalità”-“razionalizzazione”. Se per un verso, infatti, in Habermas lo spettro della razionalità viene considerevolmente ampliato rispetto all’idealtipo della weberiana “razionalità-discopo”, per l’altro verso viene a cadere quell’assunto anti-teleologico che aveva portato Weber a destituire la categoria di razionalizzazione di qualunque significato universale: nella misura in cui la dinamica della Rationalisierung e della Entzauberung der Welt assumeva i tratti di un evento prettamente occidentale incapace di giustificare la riduzione all’“irrazionale” di forme di razionalità maturate in ambiti etico-culturali esterni all’Occidente6. È tenendo presente sullo sfondo la posta in gioco implicita in questa “partita doppia” che proveremo adesso ad accostarci alle recenti riflessioni habermasiane sul diritto e sulla politica, muovendo da due interrogativi ben delimitati. Se è vero che, 5. Cfr. J. Habermas, Die Moderne. Ein unvollendetes Projekt, in Id., Kleine Politische Schriften I-IV, Frankfurt a.M. 1981 e Id. Der Philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Frankfurt a.M. 1985, tr. it. Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, Roma-Bari 1997. 6. Cfr. M. Weber, Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie [1920-21] tr. it. Sociologia delle religioni, a cura di P. Rossi, Milano 1982. All’interno della sterminata bibliografia critica sul nesso di “razionalità” e “razionalizzazione” nell’opera di Max Weber, si rimanda, in ambito italiano, in particolare a P. Rossi (a cura di), Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Torino 1981; Id., Razionalità e razionalizzazione, Milano 1982; Id., Introduzione, in M. Weber, Sociologia delle religioni, cit.; F. Bianco, Le basi teoriche dell’opera di Max Weber, Roma-Bari 1997; A. De Simone, Senso e razionalità: Max Weber e il nostro tempo, Urbino 1999.

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secondo le parole di Habermas, “interessi” e “preferenze” non possono essere interpretati che alla luce di una “tradizione intersoggettivamente condivisa”, in che modo – e a quale prezzo – i contesti eterogenei delle svariate tradizioni culturali possono essere ricondotti a un unico criterio di universalità? E, in secondo luogo: se la spinta universalizzante del “progetto moderno” ha sprigionato dal suo seno, non malgrado ma proprio grazie alla sua matrice umanistica e illuministica, l’imperativo tecnologico di una normatività convenzionale e funzionale, in quale misura potrà mai la “razionalità dialogica” dell’Occidente (che da quella medesima matrice proviene) scongiurare la minaccia di una progressiva “colonizzazione” di quei differenti “mondidella-vita”? 2. Una preliminare risposta agli interrogativi sopracitati presuppone giocoforza una seppur schematica disamina dell’opera teoreticamente più imponente e articolata dedicata da Habermas ai temi del diritto e della politica, Faktizität und Geltung (1992) – seppure, come si vedrà, proprio in essa siano contenute in stato embrionale le contraddizioni e aporie che tormentano il più recente confronto del filosofo con la “costellazione postnazionale”7. In quel volume, infatti, non solo Habermas situava la questione dei diritti umani nel punto di intersezione tra i due assi problematici (tipicamente moderni) della legittimazione e della razionalizzazione. Ma operava anche una duplicazione dei livelli d’indagine – distribuiti in una ricostruzione storico-sociologica e in un’argomentazione teoretico-normativa – che non poteva che ripercuotersi problematicamente sull’intera architettonica del tentativo lì intrapreso. In questa sede, è bene limitarsi a focalizzare uno degli specifici intenti habermasiani: vale a dire la pretesa di dimostrare come il principio dei diritti uma7. Cfr. J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Frankfurt a.M. 1992, tr. it. Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, a cura di L. Ceppa, Milano 1996.

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ni sia non solo – accanto al principio della sovranità popolare – l’unica possibile fonte di legittimazione del medium giuridico come tale, ma anche il solo linguaggio transculturale disponibile in seguito alla dissoluzione delle “società tradizionali”. Larga parte dell’argomentazione habermasiana è infatti giocata attorno all’assunto della dissoluzione delle società cosiddette “tradizionali”: là dove – ci viene detto – si assiste a una divaricazione tra la dimensione della fattualità (vale a dire la mera vigenza sociale di norme e istituzioni) e la dimensione della validità, quale principio di “giustificazione argomentativa (di enunciati e di norme) condotta tramite ragioni”. Se sarà proprio la controversa nozione di “società tradizionali” (intrisa, suo malgrado, di presupposti eurocentrici) a costituire più avanti l’oggetto della nostra critica, occorre tuttavia prestare preliminarmente attenzione agli esiti che la sua assunzione pregiudiziale produce se e quando funzionalizzata a una tematizzazione della forma giuridica. L’interrogativo sotteso all’indagine habermasiana attorno all’operatività e legittimità del medium giuridico è infatti il seguente: come è possibile che sorga un ordine sociale a partire dal labile fondamento costituito da dinamiche dell’azione collettiva costantemente esposte al rischio di una divaricazione tra “fattualità” e “validità”? O, ancora, «come possono integrarsi socialmente mondi di vita in sé differenziati, pluralizzati e disincantati, se cresce simultaneamente il rischio di dissenso nei settori dell’agire comunicativo svincolatisi dalle autorità sacrali e dalle istituzioni arcaiche»8? Mediante un riepilogo delle forme storicamente differenziate di saturazione della dieresi tra il “fattuale” e il “normativo” – dal livello (fenomenologicamente isolabile) della Lebenswelt, quale «massiccio consenso di fondo» o retroterra ante-predicativo e pre-categoriale della comunicazione intessuto di «modelli interpretativi, fedeltà e abilità pratiche date per acquisite», alla fusione di fattualità e validità riscontrabile nelle “società arcaiche e assolutiste” dominate, secondo la celebre analisi durkheimiana, 8. Ivi, p. 36.

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dall’“ambivalenza affettiva” che compete all’autorità rituale del sacro – Habermas giunge, secondo un percorso apertamente teleologico, al crinale rappresentato dalla cosiddetta «transizione alla modernità»9. Con l’avvento della Neuzeit, un’«ondata di riflessione» travolge infatti secondo Habermas non solo cultura e società, ma le stesse strutture della personalità individuale: determinando l’affermarsi dei due complessi (al contempo storici e ideologici) del pluralismo e dell’individualismo, cui si accompagnano processi di differenziazione della società in virtù dei quali cresce in maniera esponenziale l’insieme delle “relazioni strumentali” necessarie al funzionamento dei sistemi sociali. È nello spazio aperto da tale «ondata di riflessione» che si specifica, in Faktizität und Geltung, il ruolo giocato nel corso della modernizzazione dal medium giuridico: nella misura in cui proprio su di esso ricade l’onere di integrare le relazioni «mediate sistematicamente» tra individui che si percepiscono come «reciprocamente estranei»10. Il processo di differenziazione funzionale investe, d’altronde, lo stesso medium giuridico, articolandone la prestazione in due direzioni fondamentali: per un verso si assiste alla moltiplicazione di “sottosistemi” – in primis, i sottosistemi economico e amministrativo – all’interno dei quali è legittimo fare ricorso a un agire “strategico” e zweckrational; e per l’altro, il linguaggio giuridico – regolando le interazioni tra questi sottosistemi medesimi – garantisce l’integrazione della società intera, impedendo che essi si distribuiscano nell’immagine luhmanniana di sistemi autoreferenziali non-comunicanti. Si chiarisce così il volto di Giano, o la natura ancipite, del medium giuridico nella ricostruzione habermasiana: vale a dire il suo radicarsi tanto nell’ambito dei fatti quanto in quello delle norme11. Poiché se funzione precipua del medium giuridico 9. Ivi, pp. 26-38. 10. Cfr. J. Habermas, Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», a cura di L. Ceppa, Milano 1997. 11. Si vedano al riguardo le considerazioni di A. Ferrara, Democrazia e società complesse: l’approccio deliberativo, in S. Maffettone e S. Veca (a cura di), Manuale di filosofia politica, Roma 1996, p. 30.

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– sostituto “tecnologico” delle forme tradizionali di integrazione – è la regolazione della “fattualità” sociale (cioè dell’insieme delle relazioni strategiche cristallizzatesi in sottosistemi), esso deve al contempo mirare al riconoscimento della propria “pretesa di validità”: in altri termini, kantianamente, a un’adesione «per puro rispetto» (aus Achtung)12. Se è vero che Habermas considera improponibile nelle moderne società razionalizzate la ripresa di forme classiche di “giusrazionalismo” rivisitate in teorie quali quelle di Dworkin o di Rawls, ciò non comporta in alcun modo l’accettazione di un paradigma sic et simpliciter giuspositivistico: quale la riduzione weberiana (o kelseniana) della legittimità alla legalità di un ordinamento giuridico formalizzato, o la concezione luhmanniana del diritto come sistema autoreferenziale funzionalizzato unicamente alla stabilizzazione delle aspettative comportamentali. Il diritto deve – leggiamo in Faktizität und Geltung – mantenere una radicale riserva di indisponibilità: nella forma di una pretesa di accettabilità razionale. Ma è proprio in questo snodo cruciale che vediamo profilarsi, nel corso della complessa argomentazione habermasiana, il ruolo e lo statuto accordati ai “diritti umani”. 3. Il tentativo di “fondazione” dei diritti umani condotto in Faktizität und Geltung segue – come si è detto – due percorsi argomentativi differenziati (e, in ultima analisi, radicalmente alternativi): quello di una ricostruzione storico-sociologica della transizione dalle società “tradizionali” alla società moderna e quello di una delineazione teorica della “genesi logica” dei diritti. Si è schematicamente accennato alle coordinate – radicate in una pluriennale riflessione sulla genesi del “discorso della modernità” – che orientano secondo Habermas la transizione alla società moderna. Occorre adesso rivolgersi alle modalità con le quali tale transizione viene riletta e reinterpretata a partire da un’ottica squisitamente teoretica e filosofico-politica. 12. Cfr. J. Habermas, Fatti e norme, cit., pp. 38-53.

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In questo contesto, è bene tenere a mente come il problema dell’“accettabilità razionale” della forma giuridica – vale a dire della sua richiesta di legittimazione – trovi secondo Habermas storicamente risposta nel principio di autodeterminazione: ossia nell’idea che «i cittadini devono sempre potersi pensare come gli autori di quello stesso diritto cui, come destinatari, sono sottomessi»13. Senza potersi in questa sede addentrare nelle complesse articolazioni di quello che si presenta come un “kantismo non-trascendentale” (o, per riprendere i termini della nota controversia con Rawls, non monologico), occorre ricordare che tale idea di autodeterminazione è ricondotta a un intreccio peculiare – fondamento del «terzo modello normativo di democrazia» avanzato dal filosofo francofortese in dialogo e contro i paradigmi liberale e repubblicano – tra il principio dei diritti umani e il principio della sovranità popolare. O, ancora, a un gioco di reciproca presupposizione tra autonomia privata e autonomia pubblica secondo il quale, se è certo vero che i diritti comunicativi e partecipativi dei cittadini (Staatsbürger) postulano la garanzia dell’autonomia privata dei Gesellschaftsbürger, è altrettanto vero che non si dà alcuna “sfera privata” sottratta alla discussione pubblica – alcuna “sfera privata” (e in ciò risuona il fecondo confronto di Habermas con le teoriche femministe statunitensi) che possa essere assunta quale ontologico “dato naturale”. Finalità precipua della “teoria discorsiva del diritto e della democrazia” è così la risoluzione della tensione tra diritti umani e sovranità popolare, a partire dall’assunto fondante di una “sostanza normativa” già inscritta nell’esercizio dell’autonomia politica: a partire, dunque, dall’idea di una cooriginarietà e reciproca presupposizione che lega le due fonti di legittimazione del diritto moderno. Il tentativo di esplicitare tale «intuizione» sulla cooriginarietà di diritti umani e sovranità popolare, autonomia privata e autonomia pubblica, deve muovere secondo Habermas dall’interrogativo su «quali diritti fondamentali devono reciproca13. Ivi, p. 531.

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mente riconoscersi cittadini liberi ed eguali, ove vogliano legittimamente regolare la loro convivenza con strumenti di diritto positivo»14. Tale interrogativo chiama però direttamente in causa lo statuto dei diritti fondamentali, poiché – come si è visto – solo il sistema dei diritti preposti a tutela dell’individuo può costituire la conditio sine qua non dell’esercizio dell’autonomia pubblica. I diritti umani si configurano così come le condizioni pragmatiche indispensabili alla formazione della volontà politica. Più specificatamente: essi istituzionalizzano le condizioni comunicative necessarie a una produzione giuridica legittima, là dove la “legittimità” scaturisce dalla modalità discorsiva della formazione della volontà politica: la sostanza dei diritti umani – leggiamo – si concentra nelle condizioni formali necessarie a istituzionalizzare giuridicamente quel tipo di formazione discorsiva dell’opinione e della volontà in cui è la sovranità del popolo ad assumere veste giuridica15.

Alla ricostruzione in sede storico-sociologica dell’emergere del ruolo legittimante, nelle società moderne, dei diritti fondamentali fa riscontro quindi un’argomentazione teorico-normativa volta a delineare, mediante una serie scandita di “gradi”, una genesi logica del sistema dei diritti. Tale “deduzione logica” prende le mosse da un’interpretazione della “razionalizzazione dei mondi-di-vita” dall’ottica della relazione di integrazionedifferenziazione tra “diritto” e “morale”. Schematizzando l’argomentazione habermasiana (considerevolmente modificatasi nel corso degli anni), è possibile caratterizzare le norme morali e le norme giuridiche quali “derivazioni” parallele e non gerarchicamente preordinate (contro l’idea platonica del rispecchiamento del “diritto naturale” nel “diritto positivo”, e dunque contro l’assunzione di una “gerarchia delle fonti”) di un para-

14. J. Habermas, Legittimazione tramite diritti umani, in Id., L’inclusione dell’altro, cit., p. 219. 15. J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 128.

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digma ad esse sovraordinato16. In contrasto con le argomentazioni sviluppate in Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln17, Habermas individua infatti un più generale «principio di discorso» che, irriducibile alla normatività morale così come alla mera normatività giuridica, costituisce piuttosto la scaturigine di entrambe: nella forma di (i) un principio morale, che si rivolge alla giustificazione delle norme «nella prospettiva d’una paritaria considerazione degli interessi» di tutti gli individui coinvolti dalle norme in questione; e di (ii) un principio democratico, valido per norme che si presentano in forma giuridica e si giustificano tramite ragioni pragmatiche, etico-politiche e morali (e dunque non solo morali)18. Ai fini di una ricostruzione della “fondazione discorsiva” del sistema dei diritti occorre prestare particolare attenzione alla configurazione teorica che accompagna l’enucleazione del “principio democratico”: nella misura in cui ad esso è demandato il compito di «fissare la procedura di una legittima produzione giuridica». Stabilendo che «possono pretendere vali16. Ivi, p. 131. 17. Cfr. J. Habermas, Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln, Frankfurt a.M. 1983, tr. it. di E. Agazzi, Etica del discorso, Roma-Bari 1993. Qui Habermas reinterpretava la concezione kantiana della validità morale come “generalizzabilità” in un principio di universalizzazione (principio «U») che stabiliva le condizioni alle quali una norma – morale o giuridica – poteva dirsi valida: in altri termini, individuava un nesso di derivazione tra normatività morale e normatività giuridica. In Fatti e norme, oltre ad abbandonare l’idea “platonica” di un rispecchiamento tra norme morali e norme giuridiche, Habermas sostituisce alla polarizzazione tra das Ethische e das Moralische una più articolata differenziazione tra questioni morali (che concernono l’intera umanità e hanno come valore fondamentale il giusto), questioni etiche (riferite al bene delle singole “forme di vita”) e questioni pragmatiche (in cui si esprimono contrasti di interesse nella ricerca dell’utile). Per una critica della distinzione tra questioni etiche e questioni morali, concepita come differenza qualitativa e non come mera differenza di grado, cfr. A. Ferrara, Democrazia e giustizia nelle società complesse: per una lettura di Habermas, «Filosofia e questioni pubbliche», 1, 1996(II); Id., Ancora su etica e morale in Habermas, «Fenomenologia e società», 2, 1997(XX). 18. Cfr. J. Habermas, Fatti e norme, cit., pp. 128-136.

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dità legittima solo le leggi approvabili da tutti i consociati in un processo discorsivo di statuizione a sua volta giuridicamente costituito»19, il “principio democratico” determina le condizioni necessarie all’istituzionalizzazione dei processi di produzione giuridica: condizioni che – ci viene detto – coincidono con una qualche forma di «sistema dei diritti». Più chiaramente, Habermas enuncia la tesi secondo cui «il principio democratico deve specificare – in consonanza con il principio di discorso – le condizioni che i diritti in generale devono realizzare per poter costituire una comunità giuridica»20. Al di là di una ricostruzione intratestuale dell’argomentazione habermasiana, si evince dal testo come tale idealtipico «sistema dei diritti» coincida con quei diritti fondamentali che, nella ricostruzione storico-sociologica, apparivano come il precipitato normativo contingente dell’ordine storico istituitosi con la modernità. Lungi dall’essere il portato esclusivo di una determinata evoluzione socioculturale, essi si presentano qui come la risultante necessaria del “gioco” tra principio democratico e forma giuridica: nella misura in cui la stessa forma giuridica determinerebbe la posizione di privilegio detenuta dai diritti fondamentali: per istituzionalizzare [il] codice giuridico, è anche necessario produrre lo status delle persone giuridiche che devono poter aderire – quali titolari di diritti soggettivi – a una libera unione di consociati giuridici nonché azionare in tribunale le proprie pretese. Non c’è diritto che non presupponga l’autonomia privata delle persone giuridiche. Di conseguenza, senza i classici diritti di libertà (e in particolare senza il diritto fondamentale a eguali libertà soggettive) non potrebbe nemmeno esistere un medium atto a istituzionalizzare giuridicamente le condizioni che consentono ai cittadini di partecipare alla prassi di autodeterminazione21.

19. Ivi, p. 134. 20. Ivi, p. 136. 21. J. Habermas, Legittimazione tramite diritti umani, cit., p. 220.

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Malgrado la sua critica a ogni forma di giusnaturalismo, Habermas sembra voler attribuire a questa ricostruzione “genealogica” una validità tendenzialmente universale. Per quanto i diritti fondamentali siano diritti «insaturi» – diritti che devono essere sempre interpretati e sviluppati dal legislatore – è altresì vero che principio democratico e medium giuridico (in virtù di implicazioni prettamente logico-genealogiche) segnano già i confini in cui può svolgersi ogni prassi legislativa. In questo senso Habermas può affermare che: i cataloghi dei diritti dell’uomo e del cittadino posti in apertura delle varie costituzioni storiche possono essere intesi come letture diverse – in quanto muovono da contesti diversi – d’uno stesso sistema dei diritti22.

Non vi è alcun diritto di natura, poiché i diritti fondamentali giungono alla coscienza e acquistano “riflessività” esclusivamente tramite interpretazioni costituzionali determinate. Ma, d’altra parte – malgrado il tentativo di presentare un tale «sistema dei diritti» quale semplice “espediente teorico”23 –, esso nondimeno pretende di isolare quei princìpi che – in quanto condizioni pragmatiche irrinunciabili ai fini dell’esercizio dell’autonomia pubblica – accampano una pretesa di validità universale.

22. Ivi, p. 155. 23. Cfr. Ibidem: «Parlando […] “del” sistema dei diritti noi vogliamo alludere, nella migliore delle ipotesi, a ciò su cui concordano le diverse esplicazioni delle diverse autocomprensioni di questa prassi [di autolegislazione]. A posteriori, anche la “nostra” presentazione teorica “in abstracto” dei diritti fondamentali si rivela come un semplice espediente. Nessuno può presumere di cogliere il sistema dei diritti in una prospettiva di prima persona singolare, prescindendo cioè dalle interpretazioni già disponibili sul piano storico. Non esiste “il” sistema dei diritti sul piano della purezza trascendentale. Tuttavia, più di due secoli di sviluppo costituzionale europeo ci forniscono ormai un numero sufficiente di modelli. Essi possono guidarci a una ricostruzione generalizzante delle intuizioni su cui poggia la prassi intersoggettiva di un’autolegislazione intrapresa con strumenti di diritto positivo».

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Emanuela Fornari

4. E tuttavia è lecito interrogarsi sulla validità teorica di una simile “armonica coincidenza” tra i diritti “generati logicamente” e il sistema dei diritti storicamente emersi nel corso del dispiegarsi del “razionalismo occidentale”. Non sta forse qui Habermas riferendosi a una specifica evoluzione del sistema giuridico e politico riscontrabile unicamente all’interno della vicenda culturale dell’Occidente, e segnatamente del Rechtsstaat, dello Stato-di-diritto europeo? E in che misura tale evoluzione può corrispondere (o, addirittura, comprendere nel suo alveo) le differenti temporalità sociali e le esperienze giuridiche che hanno caratterizzato e caratterizzano l’intero arco degli universi storico-culturali del globo? Simili interrogativi – resi sempre più urgenti e ineludibili dall’effettivo farsi mondo delle relazioni globali – ci riconducono infatti dall’empireo della teoria (per quanto blasonata e attrezzata) alla ruvidità di un’esperienza, storica e sociale, che non si lascia facilmente addomesticare e ricomprendere nel cerchio del “sistema”. È bensì vero che Habermas a tratti presenta la propria teoria come una “ricostruzione dell’autocomprensione pratico-morale della modernità”, riconoscendo in tal modo che la “teoria discorsiva” ha come proprio referente privilegiato la società interamente “secolarizzata” e “disincantata” caratteristica del cosiddetto Occidente. Ma tali pur importanti ammissioni non fugano i dubbi sulla natura intrinsecamente aporetica di una ricostruzione della forma giuridica – e di una conseguente pretesa di legittimazione dei “diritti umani” – che si vuole di per sé decontestualizzabile, e dunque universale. Tali aporie – tanto più importanti in quanto inerenti a un’esperienza di pratica filosofica e di teoria politica intrinsecamente aperta, per il proprio carattere “dialogico”, ad appropriazioni e spiazzamenti al di fuori del suo terreno di origine – sono state rese visibili in maniera cristallina dai più recenti dibattiti intrapresi dal filosofo attorno all’odierna esperienza di confronto-scontro culturale. Senza che sia possibile, in questa sede, rendere conto dell’intero arco delle discussioni intrattenute da Habermas sugli attuali temi dello “scontro di civiltà”, della recrudescenza di fondamentalismi insieme arcaici e ultra-

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Aporie della ragione giuridica. Transiti habermasiani

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moderni, della rilevanza del “religioso” nelle pur secolarizzate società tardo-capitalistiche occidentali, è possibile – adoperando una chiave inevitabilmente selettiva – individuare alcune delle impasse in cui vediamo la “teoria discorsiva” cadere24. Si prenda, quale esempio, il fiorire – a fianco della Dichiarazione Universale sui Diritti Umani – di Carte “regionali” sui diritti: dalla Carta africana del 1981, alla Dichiarazione islamica dello stesso anno, sino alla asiatica Dichiarazione di Bangkok del 199325. Sebbene sia esercizio semplice denunciare il carattere talvolta fortemente ideologico di tali dichiarazioni (come è il caso della rivendicazione di presunti “valori asiatici” operata a Bangkok), sarebbe tuttavia gesto di estremo e cieco suprematismo destituire di valore la volontà lì riscontrabile di articolazione di diritti che tengano conto di specifiche esperienze sociali e culturali spesso ignorate, quando non violentemente soppresse, dalla storicamente innegabile “volontà di conquista” occidentale. La querelle sorta attorno a Carte regionali che si vogliono, se non alternative, quantomeno complementari alla Carta dei diritti umani non investe solo il rapporto tra la sfera dei diritti civili e politici (che in gran parte del mondo occidentale è finita per coincidere con i “diritti” tout court) e la sfera dei diritti economici e sociali – vale a dire, tra le cosiddette prime due “generazioni” dei diritti umani26. Ma tradisce anche la rivendicazio24. Tra i più recenti interventi dedicati da Habermas all’odierna costellazione “globale”, si vedano in particolare: J. Habermas, Fede e sapere, «Micromega», 5, dicembre-gennaio 2001, ora in J. Habermas, Il futuro della natura umana, a cura di L. Ceppa, Torino 2002 [Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem weg zu einer liberalen Eugenik?, Frankfurt a.M. 2001]; Id., Tempo di passaggi, Milano 2004; Id., Der Gespaltene Westen, Frankfurt a.M. 2004, tr. it. L’Occidente diviso, Roma-Bari 2005 e G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Roma-Bari 2003. 25. Per una prima introduzione al dibattito sulla dimensione “transculturale” dei diritti umani si veda il volume curato da Ahmed A. An-Na’Im, Human Rights in Cross-Cultural Perspective. A Quest for Consensus, Philadelphia 1992. 26. La rivendicazione dell’imprescindibilità, nell’ambito dei paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, dell’implementazione dei diritti socio-economici (e basti qui ricordare come gli Stati Uniti non abbiano ratificato il Patto attuativo

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ne, nella stessa modernità, di forme alternative di integrazione sociale rispetto alle quali il diritto sarebbe destinato a svolgere una funzione meramente residuale. Come sostenuto dal politologo nigeriano Claude Ake, citato dallo stesso Habermas: L’idea di diritti umani […] presuppone una società atomistica e individualistica, una società dal conflitto endemico. Presuppone una società di persone coscienti della propria separatezza e dei propri particolari interessi. […] Noi invece diamo meno rilievo all’individuo e più rilievo alla collettività. Noi non permettiamo che l’individuo avanzi pretese che si sostituiscano a quelle della comunità. Noi postuliamo armonia e non divergenza di interessi, competizione e conflitto. Siamo più desiderosi di ricordare gli obblighi che ci legano agli altri membri della società piuttosto che inclini a rivendicare diritti che ci contrappongano a loro27.

Sebbene ciò che è in gioco nella rivendicazione di declinazioni “culturalmente differenziate” dei diritti umani non sia – nella maggior parte dei casi – un rifiuto dei princìpi alla base delle fondativa Dichiarazione dei diritti dell’uomo, simili argomentazioni aprono un angolo visuale a partire dal quale è possibile individuare alcuni nodi teorici irrisolti nel pur articolato tentativo habermasiano di delineare una “fondazione universale” dei diritti umani. L’argomentazione di Habermas sembra infatti prescindere dal dato inoppugnabile che la stessa categoria portante di “diritto oggettivo” – come intesa nel mondo occidentale – non trova analoghi riscontri in altre tradizioni culturali e che, dunque, un’estensione dei princìpi che ne sono alla base difficilmente può fare affidamento su un’analogia nelle del 1966 sui diritti economici, sociali e culturali) fa leva sull’appello a un più comprensivo “diritto allo sviluppo”. Tra gli strumenti internazionali emersi in relazione al riconoscimento del “diritto allo sviluppo” occorre ricordare il Rapporto del Segretariato Generale dell’Unesco sul Diritto allo sviluppo (1979), la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (1986) e il Rapporto della Commissione dell’Unesco per i diritti umani sul diritto allo sviluppo quale diritto umano (1999). 27. C. Ake, The African Context of Human Rights, «Africa Today», 34, 1975, p. 5, cit. in J. Habermas, L’inclusione dell’altro, cit., p. 226.

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Aporie della ragione giuridica. Transiti habermasiani

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condizioni che sottostanno alle diverse forme di integrazione sociale. L’interrogativo, al di là degli aspetti empirico-sociologici che formano l’oggetto di un’analisi differenziale, investe direttamente una dimensione teorica difficilmente eludibile: la possibilità, cioè, di fornire una dimostrazione dell’esistenza di un “modello” di sviluppo giuridico sociale e politico di portata “metaculturale”. È da questo punto di vista che la duplicazione dei livelli d’indagine – segnalata in questo contributo – nella ricostruzione habermasiana del medium giuridico sembra prestare il fianco a critiche non meramente formali, bensì fondatamente sostanziali. In risposta alle rivendicazioni e provocazioni provenienti da esponenti del mondo “non-occidentale”, Habermas infatti ha sostenuto che la questione «non è tanto se i diritti umani, in quanto parte di un ordinamento giuridico individualistico, siano conciliabili con le proprie rispettive tradizioni culturali, quanto piuttosto se le vecchie forme tradizionali di integrazione politica e sociale debbano per forza adattarsi agli imperativi (sempre più pressanti) di una modernizzazione economica complessivamente accettata o non possano invece affermarsi contro di loro»28. Una simile affermazione pericolosamente riduzionistica sull’inevitabilità e unilinearità di una “modernizzazione economica” che oggi ha preso il nome di “globalizzazione” non solo è palesemente smentita dalla “felice” coincidenza di apparati statali autoritari e successo nell’economia di mercato (come avviene nella galassia della Repubblica Popolare Cinese), ma tradisce anche il radicamento della prospettiva teorico-politica habermasiana in un milieu ben determinato. Un milieu definito, per un verso, dalla persistenza del modello continentale del Rechtsstaat e dalla “scena influente” della storia europea segnata dal passaggio dallo Stato assolutista sovrano allo Stato-di-diritto; e, per l’altro, da un’obliterazione delle diversificate esperienze di oppressione, di vita e di lotta sociale che hanno caratterizzato la storia (tuttora codificata come “marginale”) del mondo “non

28. J. Habermas, Legittimazione tramite diritti umani, cit., p. 227.

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Emanuela Fornari

occidentale” – aspetto, questo, segnalato nel 1994 con amarezza dallo stesso Edward Said29. E tuttavia, nonostante questi nodi aporetici, il progetto habermasiano sembra ancora promettere spunti teorici e angoli prospettici a partire dai quali portare allo scoperto e denunciare le contraddizioni che lacerano e tormentano la nostra realtà contemporanea. Soprattutto nella misura in cui – come avvenuto, sul piano strettamente teoretico-epistemologico, con la distinzione tra ordine della Wahrheit e ordine della Rechtfertigung30 – esso sappia muoversi dal piano di una pretesa (ancora eurocentrica) di fondazione dei diritti a quella di una loro (più modesta e al contempo più convincente) giustificazione: in dialogo e, soprattutto, in traduzione con quanto si è trovato, si trova, e si troverà sempre al di là dell’Occidente. Non altrove che in questo fragile e precario punto di congiunzione tra “universi” insieme violentemente uniti e divaricati dalla “storia del mondo”, il progetto di Habermas potrà trovare rispondenza e riscontro oltre i propri stessi confini: con la difficile consapevolezza dell’autorità che deriva dall’essere stati (per storia e tradizione) artefici della Weltgeschichte – e con il timore e il rispetto che scaturiscono dalla volontà di sottoporre a questione la propria stessa Storia, e di aprirsi alle storie e ai diritti degli altri. 29. Cfr. E.W. Said, Culture and Imperialism, London 1994, tr. it. Cultura e imperialismo, Roma 1998, p. 306: «La teoria critica della Scuola di Francoforte, nonostante le fertili intuizioni circa i rapporti che intercorrono tra dominazione, società moderna e opportunità di redenzione attraverso l’arte come critica, tace incredibilmente a proposito delle teorie razziste, la resistenza antimperialista e la pratica dell’opposizione nell’impero. E, per evitare che si possa pensare a una svista, ecco che il più importante teorico di Francoforte, Jürgen Habermas, ci spiega in un’intervista (pubblicata originariamente da «The New Left Review») che quel silenzio è un’astensione deliberata: no, dice, non abbiamo nulla da dire alle “lotte antimperialiste e anticapitaliste nel Terzo Mondo” anche se, aggiunge, “sono consapevole che si tratta di una visuale limitata in senso eurocentrico”». 30. J. Habermas, Wahrheit und Rechtfertigung. Philosophische Aufsätze, Frankfurt a.M. 1999, tr. it. Verità e giustificazione. Saggi filosofici, Roma-Bari 2001.

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Irene Strazzeri

Diritto e riconoscimento in Axel HonnethI

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1. Il riconoscimento nell’ idea originaria di Hegel

I

l tentativo di riattualizzazione della filosofia politica hegeliana recentemente proposto da Axel Honneth1 nasce dalla diffusa consapevolezza della necessità di contestualizzare socialmente i principi di giustizia, definendo contemporaneamente una cornice istituzionale dei principi astratti del diritto moderno e della morale. Il riferimento a Hegel rappresenta, in questo contesto, lo sforzo di sviluppare un tipo di metateoria etica del diritto secondo un’intima connessione con la diagnosi della sua epoca, al cui centro si pone l’affermarsi di una minacciosa individualizzazione. Prima di intraprendere l’analisi, è necessario dunque partire da due considerazioni critiche sull’opera di Hegel2: 1. bisogna sottolineare le conseguenze antidemocratiche della sottomissione delle libertà individuali all’autorità etica dello stato; 2. è necessario ribadire che il concetto ontologico di spirito oggettivo non corrisponde più al contesto odierno. Honneth, nel tentativo di pervenire a una teoria normativamente sostanziata della società, a partire da Hegel, si basa su due intuizioni: I. Il presente contributo presuppone quanto da me precedentemente esposto in I. Strazzeri, Teoria e prassi di riconoscimento, Lecce 2004. 1. A. Honneth, Leiden an Unbestimmtheit. Eine Reaktualisierung der hegelschen Rechtsphilsophie, Stuttgart 2001; tr. it. Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di Hegel, Roma 2003. 2. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Firenze 1984.

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Irene Strazzeri

a. Lo spirito oggettivo: ogni società possiede una struttura razionale. Scontrarsi con essa conduce a effetti negativi per la vita sociale. Dunque le nostre pratiche sarebbero talmente intrecciate con i fondamenti razionali della società, che una loro negazione provocherebbe lacerazioni e danni. b. L’eticità: come sfera dell’agire nella quale passioni e norme morali, interessi, valori si sono fusi, in maniera processuale, in forme di interazione istituzionalizzata. Ne deriva che l’idea di libera volontà universale determina la totale estensione di ciò che chiamiamo diritto. Diritto astratto e morale si presentano come due determinazioni insufficienti della libertà individuale che si riflette nel mondo della vita in un «soffrire di indeterminatezza»3. Laddove la concezione della giustizia assuma per Honneth il significato terapeutico di “emancipazione dalla sofferenza”, l’eticità sembrerebbe coincidere nella modernità con il complesso di condizioni atte a soddisfare la piena realizzazione delle libertà individuali. Diversamente dalla concezione del diritto razionale di Kant e Fichte, in cui vige una rappresentazione atomistica del singolo, secondo la quale la libertà personale consiste essenzialmente nell’esercizio dell’arbitrio individuale privo di ogni condizionamento sociale, per Hegel la libertà individuale è condizione intersoggettiva dell’autonomia personale4. Questa la premessa necessaria al percorso di fondazione dello spirito oggettivo, le cui tappe principali sono: la connessione tra principi generali di giustizia e relazioni sociali intersoggettive, la legittimazione di questi stessi principi attraverso quelle condizioni sociali sotto le quali i soggetti possono scorgere reciprocamente nella 3. A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato, cit. 4. G.W.F. Hegel, Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen System der Philosophie in Jenaer kritische Schriften, Bd. 4 der Gesammelten Werke, Hamburg 1968.

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Diritto e riconoscimento in Axel Honneth

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libertà altrui il presupposto della loro autorealizzazione personale5. I principi normativi non devono essere fissati sotto forma di prescrizioni comportamentali esterne o di leggi obbligatorie, hanno bisogno invece dell’esercizio pratico dei costumi. Semplificando il percorso dello spirito oggettivo possiamo distinguere: morale e diritto – esposizione dello spirito oggettivo (come realizzazione della ragione nel mondo delle istituzioni sociali) – autoriflessione della ragione mediante istituzioni e pratiche sociali. Se sono questi i passaggi necessari attraverso i quali il libero volere di ogni singolo uomo giunge a realizzarsi nelle condizioni moderne, si evince che lo spirito oggettivo possiede le forme della libera volontà universale, ossia che le determinazioni giuridiche sono legittime se esprimono l’autodeterminazione degli uomini. Pertanto lo spirito oggettivo tratta delle condizioni sociali di realizzazione del libero volere. Mentre per Kant e Fichte il libero volere come “materiale della decisione riflessa” è contingente ed eteronomo, e ciò comporta l’esclusione degli scopi particolari dell’uomo, da cui consegue il dualismo kantiano tra leggi ideali e di natura, Honneth, attraverso Hegel, dà al libero volere il significato moderno di autonomia individuale o autodeterminazione, intesa come facoltà di decisione o di scelta tra contenuti dati. L’autodeterminazione individuale deve essere pensata riflessivamente, come prodotto della libertà, in modo tale che essa possa agire su se stessa come volontà. Hegel afferma in proposito che «il libero volere è il volere che ha se stesso come oggetto»6. La libera volontà deve volersi libera, vale a dire, deve poter trasformare gli impulsi in materia di libertà. Honneth a questo punto propone due possibilità interpretative. La prima consiste nel ritenere che Hegel si sia appropriato dell’idea kantiana dell’autodeterminazione individuale, con la 5. G.W.F. Hegel Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Roma-Bari 2004. 6. A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato, cit., p. 49.

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premessa aggiuntiva a che ogni soggetto debba anche possedere le corrispettive inclinazioni personali, in modo tale da poter attivare, sul piano motivazionale, le decisioni liberamente prese. In riferimento alla seconda ipotesi, si può sostenere che Hegel voglia inserire l’idea di autodeterminazione dell’individuo nella naturale struttura delle motivazioni: Questa libertà l’abbiamo già nella forma del sentimento, ad esempio, dell’amicizia e dell’amore. Qui si è non unilaterali entro di sé, bensì ci si limita di buon grado in relazione a un che d’altro, ma si sa sé in questa limitazione siccome se stessi. La libertà non risiede né nell’indeterminatezza né nella determinatezza, bensì è entrambe le cose. La libertà è volere un che di determinato, ma in questa determinatezza essere presso di sé e ritornare di nuovo nell’universale7.

Dalla prima ipotesi prende avvio l’idea che l’autodeterminazione consista nella limitazione riflessiva a una determinata finalità dell’azione; dalla seconda l’idea che l’autonomia debba possedere sempre la forma di un’esperienza illimitata di sé, cosicché possa essere descritta come «essere presso di sé nell’altro»8. Sono visibili già in Hegel le tracce di un modello comunicativo della libertà individuale: la quintessenza di un ordinamento giusto della società è rappresentata dalle condizioni sociali e istituzionali che permettono all’individuo di collocarsi in rapporti comunicativi che possono essere esperiti come manifestazione della propria volontà. Schematizzando: l’esercizio del libero volere deve essere chiamato diritto. Esso è sia condizione necessaria sia pretesa legittima del libero volere. I rapporti comunicativi, cristallizzati nel diritto, sono aperti alla partecipazione di tutti, mentre i presupposti del libero volere sono sia vincolati a istituzioni legali, sia intrecciati con le condizioni sociali idonee alla realizzazione di relazioni comunicative che, in quanto intrinsecamente intersoggettive, consentono di essere presso di sé nell’altro. I diritti 7. A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato, cit., p 52. 8. Ivi, p. 53.

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Diritto e riconoscimento in Axel Honneth

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universali non appartengono in primo luogo agli individui, ma spettano a quelle forme sociali dell’esserci che, nell’interesse per la realizzazione del libero volere, si lasciano mostrare come beni sociali fondamentali. Secondo Honneth l’intenzione fondamentale della filosofia del diritto di Hegel è quella di rendere i principi universali della giustizia nella forma di una legittimazione di determinate condizioni sociali, sotto le quali

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i soggetti possono scorgere reciprocamente nella libertà degli altri il presupposto della propria autorealizzazione individuale9.

Quali sono per Hegel le sfere necessarie all’autorealizzazione? Proviamo a ricostruire per gradi le condizioni comunicative: la prima è il diritto astratto, in quanto spettro dei possibili modelli di libertà nel mondo moderno; la seconda è la morale, comprensiva degli aspetti essenziali delle attitudini e delle pratiche sociali degli individui. Infine l’eticità: come forma dello spirito oggettivo in cui gli individui verificano la titolarità reciprocamente riconosciuta dei propri diritti. Dando la giusta collocazione alla prima possibilità interpretativa, appellabile per convenzione come kantiana, e alla seconda, definibile come opzionale, diviene possibile per Honneth dimostrare che morale e diritto, come modelli limitativi della libertà individuale, hanno significato costitutivo per tutte le forme comunicative di libertà. Ma cosa intende Honneth con giusta collocazione? Egli allude al sussistere di una particolare e significativa relazione tra le patologie sociali dell’indeterminatezza (solitudine, vuotezza, avvilimento) e la tendenza ad assolutizzare la morale e il diritto, nei due modelli limitativi o incompleti di libertà in cui non può esaurirsi la libera volontà universale. È così facilmente dimostrabile che la realtà sociale sia già da sempre permeata da fondamenti razionali, per questo un loro ripudio pratico potrebbe condurre a un rigetto nella vita sociale10. 9. Ivi, p. 58. 10. Ivi, p. 65.

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Irene Strazzeri

Da quanto fin qui esposto si può trarre la prima conclusione: ogni teoria normativa della giustizia deve essere ancorata al principio della libertà individuale di tutti i soggetti. Ma ciò non sembra sufficiente. Già Hegel credeva che il concetto di autonomia dovesse essere reso più complesso, in modo che anche la materia dell’autodeterminazione riflessiva, ossia i nostri first order volitions, potesse essere concettualizzata come elemento di libertà o come medium dell’espressione del nostro sé. Honneth svilupperà il caso particolare dell’amore per il suo essere paradigmatico di una generalizzazione della struttura comunicativa dell’essere presso di sé nell’altro, che nel rapporto d’amore acquista la connotazione intensa di una soggettività senza costrizioni. L’esperienza comunicativa dell’amore consente a ogni singolo individuo di affidarsi a nessi stabilizzati d’interazione sociale non deformata. Il diritto di conseguenza dovrebbe tendere, nelle società moderne, alla garanzia del mantenimento di differenti sfere comunicative. Guardando a Hegel con il criterio della comprensione della libertà individuale, come fa Honneth, le sfere del diritto astratto, della morale, dell’eticità divengono ambiti di restrizione della libertà rispettivamente negativa, opzionale e comunicativa. Questo significa che, prima che i soggetti siano in grado di autorealizzarsi nelle strutture comunicative della sfera etica, c’è bisogno di una cornice all’interno della quale gli stessi imparino a intendersi e rispettarsi come titolari di diritti, nonché di un ordinamento giuridico che consenta loro di autocomprendersi come soggetti morali. È soltanto nel caso in cui queste due morali dell’autoposizionamento vengano fuse in un soggetto, come unica identità pratica, che lo stesso soggetto potrà realizzare se stesso in modo non coatto, nel tessuto istituzionale della moderna eticità. Hegel è cosciente che l’autonomia morale non esaurisce l’intero della libertà individuale. Diritto e morale sono due concetti che pur potendosi manifestare come pretese di totalità, sono in realtà manifestazioni storiche delle tendenza umana all’autolimitazione. Honneth sostiene lo sforzo hegeliano di fare della libertà morale e giuridica

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Diritto e riconoscimento in Axel Honneth

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due funzioni della libertà comunicativa. Ciò suppone necessariamente una struttura razionale delle nostre pratiche sociali. Morale e diritto sono insostituibili nel processo di autorealizzazione individuale ma non bastano a garantire le condizioni sotto le quali gli individui possano realizzarsi senza costrizioni. Honneth ritiene pertanto di dover individuare vere e proprie prospettive di teoria dell’azione, basate sulla corrispondenza tra modelli dell’agire sociale e corrispettivi concetti di libertà, seguendo il tentativo hegeliano di delineare un’ontologia dell’essere sociale. Il punto di partenza può essere ravvisato nell’interrogativo: quali conseguenze pratiche si avrebbero se una delle due concezioni incompiute della libertà fosse resa come l’intero dell’autodeterminazione personale? Se il diritto è un istituto intersoggettivo, il diritto astratto lascia della libertà individuale quel tanto che è necessario per interazioni strategiche? O la libertà dell’altro è vista come semplice mezzo per soddisfare il proprio interesse. Quali sono gli effetti patologici che sorgono quando un soggetto interpreta la propria libertà solo in maniera conforme al principio soggettivo? Dove sta il valore etico che deve spettare al diritto astratto ai fini dell’autorealizzazione individuale? Attraverso il diritto astratto o formale, si perviene alla determinazione giuridica delle facoltà di intendere e di volere, riconosciute agli individui. Tradizionalmente l’utilizzo corretto delle facoltà giuridiche presuppone la piena consapevolezza da parte dei soggetti di come le possibilità individuali si connettono con i diritti soggettivi. La funzione del diritto è pertanto raffigurabile come coscienza di legittimo isolamento, e il suo limite oggettivo consiste proprio nel rendere i legami sociali, le relazioni intersoggettive nelle categorie delle pretese giuridiche. Da qui scaturiscono le ragioni dell’eticità: per realizzare se stessi non è infatti sufficiente la sola autocomprensione morale. Tale concezione altro non è che una concezione limitata del diritto: se la libertà individuale fosse interpretata dagli individui esclusivamente come perseguimento utilitaristico dei propri interessi, si renderebbero irrilevanti le finalità del proprio libero agire. Invece nella mo-

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rale si reputa libero agire solamente ciò che è il risultato della propria autodeterminazione personale. Nella libertà dell’individuo rientra piuttosto, riflessivamente, la relazione del soggetto con se stesso, quale dimensione coscienzialistica e pragmatica, in grado di specificare la libertà come propria modalità di autorealizzazione. Ne consegue che l’autonomia morale non è altro che la sfera attitudinale con cui il soggetto recepisce l’esame riflessivo con se stesso. Gli accordi sulle pratiche sociali devono pertanto essere sottoposti all’approvazione razionale di ogni membro delle moderne società. Ciò è contenuto nel concetto di spirito oggettivo, ossia in quell’ampliamento dell’agire intenzionale secondo il quale un’azione vale come libera solo se essa è il risultato di un’applicazione del principio di universalità. Per Hegel l’imperativo categorico rimane la lealtà nei confronti del contesto: in contesti sociali diversi il diritto permette azioni diverse. Dunque, come rileva giustamente Honneth, è l’ambiente sociale a imporre agli individui aspetti della deliberazione morale. Si tratta di relativismo morale? Attenendosi all’argomentazione hegeliana, le prescrizioni normative provenienti dalla prassi istituzionalizzata dovrebbero essere razionali, ma dal punto di vista epistemologico la realtà sociale va compresa come incorporazione nella morale dei singoli. E se le stesse prescrizioni normative, provenienti dall’ambiente sociale, non fossero razionali? Si varcherebbe la soglia della patologia sociale non appena il punto di vista morale venga trasposto dal terreno della conquista personale a quello dell’atomizzazione, spingendo in tal modo l’individuo all’annullamento di tutti i presupposti pratici e con ciò all’inazione. Honneth propone, ed è questo il contributo più originale alla riattualizzazione della filosofia politica hegeliana, il passaggio all’eticità come liberazione e come terapia, come recupero della fiducia nel contenuto razionale della prassi di vita. La sfera dell’eticità così intesa diventa fonte concreta di libertà, in grado di favorire la comprensione delle condizioni comunicative che sono il presupposto dell’autonomia dei soggetti e nell’in-

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Diritto e riconoscimento in Axel Honneth

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centivare la partecipazione di tutti all’interazione per la libertà individuale. Lo scopo di una riattualizzazione della teoria del riconoscimento tramite l’idea originaria di Hegel termina qui, nell’emancipazione di una dottrina dell’eticità. Honneth si spingerà fino a fare di essa una teoria normativa del moderno, ancorata al misconoscimento, concetto utilizzato per indicare i danni patologici subiti dagli individui, e tesa alla liberazione dalla sofferenza, attraverso l’individuazione di possibilità di fuoriuscita da quelle patologie sociali. L’etica dovrebbe sostanziarsi delle pratiche quotidiane dei rapporti intersoggettivi. Ciò comporterebbe anche che le possibilità di autorealizzazione dovrebbero essere costituite da quelle forme della comunicazione ove i soggetti possano trovare nell’altro una condizione essenziale della propria libertà. Queste forme dell’intersoggettività si possono caratterizzare solo attraverso il riconoscimento, che è quella modalità d’interazione che fa sì che ci si rapporti all’altro nel modo che la forma del riconoscimento morale esige. Si tratta di modelli sociali di reciproca conferma, presupponibili come necessari alla coscienza dell’umana libertà. Il riconoscimento reciproco, incarnando una determinata forma di agire intersoggettivo, consente di spiegare i processi di interazione nella società moderna, in quanto evidenzia una sorta di effetto liberatore dei doveri: le determinazioni etiche sono relazioni necessarie. Com’è possibile che le norme diventino agire sociale senza essere avvertite come dovere? Quali sono le forme di intersoggettività che possono testimoniare il riconoscimento? Connessa ad esse è la possibilità di autorelazione positiva con se stessi, poiché una volte individuate, consentono di dare forma al potenziale istintuale nella direzione di bisogni intersoggettivi esigibili come diritti soggettivi.

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2. Amore, diritto, solidarietà: gli elementi strutturali del riconoscimento Amore, diritto e solidarietà sono modelli di riconoscimento intersoggettivo che rispondono a una tipologia di taglio sociologico. La teoria del riconoscimento, ricostruita da Honneth a partire dagli scritti jenesi di Hegel11, rappresenta una teoria della società che intende spiegare i processi di trasformazione sociale in relazione alle pretese normative ad essa strutturalmente connesse, secondo la premessa generale che la formazione pratica dell’identità dell’uomo presupponga, costitutivamente, l’esperienza del riconoscimento intersoggetivo. Si può affermare, con Honneth, che la riproduzione della vita sociale avvenga sotto l’imperativo del reciproco riconoscimento12. L’estensione del contenuto del riconoscimento è sistematicamente correlata dall’autore con i processi tipici del contesto pratico della vita sociale, ad esempio la lotta sociale intrapresa per l’autorealizzazione della propria individualità. Dall’ipotesi che la lotta sociale rappresenti una forza in grado di rigenerare le strutture morali della società discendono, inoltre, tre importanti premesse, le quali necessitano di un chiarimento sistematico: la prima è la scelta di caratterizzare la tripartizione delle principali forme di riconoscimento, l’amore, il diritto, la solidarietà, in senso fenomenologico, per poter disporre di una struttura delle relazioni sociali empiricamente controllabile. La seconda premessa è che si possano far corrispondere alle diverse forme del riconoscimento altrettanti stadi dell’autorealizzazione pratica dell’uomo. Scaturisce da ciò un’implicazione decisiva: la possibilità di riferirsi in modo sistematico e speculare a un criterio di identificazione di quelle

11. G.W.F. Hegel, Jenaer kritische Schriften, a cura di H. Buchner e O. Poeggeler, Bd. 4 der Gesammelten Werke, Hamburg 1968. 12. A. Honneth, Kampf für Anerkennung, Grammatik sozialer Konflikte, Frankfurt a.M. 1992, tr. it. di C. Sandrelli, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Milano 2003.

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Diritto e riconoscimento in Axel Honneth

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forme di misconoscimento o disprezzo, la violazione dell’integrità fisica, lo spregio dei diritti fondamentali, la svalutazione sociale, che distorcono l’autorelazione positiva conquistata con se stessi per via intersoggettiva13. La domanda che si pone, per un percorso teso a evidenziare il nesso tra riconoscimento e diritto, è allora: quale stadio dell’autorelazione intersoggettiva viene danneggiato, addirittura distrutto, dall’esperienza, opposta al riconoscimento, del misconoscimento? Intendo dire che se, come nell’ipotesi honnethiana, a ogni stadio di riconoscimento giuridico, adesione solidale e coinvolgimento emotivo cresce l’autonomia soggettiva dei singoli, occorrerà contestualizzare tale nesso in specifiche sfere della riproduzione sociale. Nella dottrina del riconoscimento di Hegel tali sfere sono individuate nella famiglia, sostanzialmente basata su vincoli di carattere emotivo, nello Stato, garante istituzionale dei diritti, e nella società civile, organizzata secondo i costumi e i valori comuni della società. Secondo Hegel le sfere della riproduzione sociale sono dunque distinguibili in relazione agli specifici potenziali di sviluppo morale in esse operanti14. Secondo Mead, invece, nelle sfere delle relazioni primarie e dell’attività lavorativa, in quanto forme di realizzazione dell’altro generalizzato, si può rintracciare il criterio di differenziazione delle modalità di autorelazione personale proprie dei due ambiti15. Ai potenziali di sviluppo morale e alle modalità di autorelazione, Honneth aggiunge infine il riconoscimento, medium dell’acclimatazione sociale dell’amore, del diritto e della solidarietà. L’amore è il più forte vincolo affettivo che si possa stabilire tra poche persone. Honneth sostiene che nella relazione d’amore il riconoscimento coincida con l’approvazione affettiva della relazione stessa,

13. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., pp. 81-158. 14. A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato, cit. 15. G.H. Mead, Mind, Self and Society. From the Standpoint of a Social Behaviorist, Chicago 1934; tr. it. di R. Testucci, Mente, Sé e Società, Firenze 1966.

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la cui riuscita dipende dal reciproco mantenimento di una tensione tra la rinuncia simbiotica a se stessi e l’autoaffermazione individuale16.

Nell’argomentare questa tesi, l’autore si rifà alla concezione freudiana dello sviluppo dell’Io come tensione tra pulsioni libidiche e capacità di razionalizzazione dell’io stesso17. Rispetto all’individualismo moderno, che fonda sull’idea cartesiana di trasparenza della coscienza soggettiva, la contrapposizione tra l’esperienza interiore e l’esteriorità del mondo, Freud, com’è noto, sottolineando la presenza dell’inconscio e degli inganni derivanti dai processi di razionalizzazione, sferra un colpo mortale all’idea cartesiana di immediatezza della coscienza, configurando la soggettività come risultato di un processo nel quale interagiscono diverse dimensioni l’Es, l’Io e il Super-io. Freud si contrappone alla tendenza a considerare in maniera unidimensionale il problema dell’individuo e dell’identità. Egli ha definito il super-io come l’insieme di comportamenti che, avendo la loro origine nell’influenza degli adulti, si impongono agli individui già dalle prime fasi della loro socializzazione, portandoli a identificarsi con l’una o l’altra immagine di una personalità ideale. Freud sostiene infatti, nell’Introduzione al Narcisismo (1914), che l’esigenza di formare un ideale dell’Io scaturisce nell’individuo per opera delle critiche che i suoi genitori gli hanno rivolto a voce, alle quali, nel corso del tempo, si sono associati gli educatori, i maestri e l’incalcolabile e indefinita schiera di tutte le altre persone del suo ambiente (il suo prossimo e la pubblica opinione)18. Il Super-io svolge pertanto una funzione essenziale per la strutturazione dell’io nel suo rappor16. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 118. 17. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, vol. IX, Torino 1977; cfr. F. Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Roma-Bari 2004. 18. S. Freud, Introduzione al narcisismo, in Opere, vol. VII, Torino 1975; cfr. F. Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, cit., pp. 69-70.

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to con l’Es, ovvero con l’insieme delle funzioni polimorfe che agiscono nel sub-conscio. Il Super-io consente il superamento delle posizioni infantili e assicura il consolidamento di un’unità coerente e articolata dell’Io, attraverso progressive rimozioni e differenziazioni. Al contempo l’eccessiva dipendenza dell’Io da tali posizioni ostacola un compiuto sviluppo dell’autonomia del soggetto. In questa senso Freud nell’Io e nell’Es riconosce la natura positiva del conflitto tra le diverse identificazioni in cui l’Io si suddivide19. Se lo sviluppo dell’Io consiste inizialmente nel prendere le distanze dal narcisismo infantile primario, spostando la libido sull’Io ideale imposto dall’esterno, tale sviluppo rappresenta una liberazione, in misura maggiore o minore, dal dominio dell’Io ideale attraverso una riformulazione interna che provvede a relativizzarlo, aprendo altre possibilità20. La descrizione di questo processo, che presenta indubbie analogie con l’analisi di Mead del rapporto tra Io e Me, pone in evidenza le tappe fondamentali attraverso cui vengono formandosi sia l’identità sociale legata al Super-io, sia l’identità personale, che trova la sua compiuta realizzazione attraverso la presa di distanza e la liberazione dal Super-io. Proprio perché il Super-io ha un carattere astratto, esso mantiene l’individuo nella dipendenza da un fantasma interno che lo giudica e che, nell’illusione della perfezione ideale, lo fa sentire sempre inadeguato e, in certo modo, sempre colpevole. La costruzione dell’identità nelle prime fasi di vita, come ha mostrato Freud, è necessariamente legata all’identità sociale e ai modelli del Super-io provenienti dal mondo degli adulti. Ancor più vicina a una fenomenologia delle relazioni di riconoscimento è la teoria della relazione oggettuale di Winnicott21. Tale teoria intende l’amore, ovvero il rapporto interpersonale

19. Ibidem. 20. Ibidem. 21. D.W. Winnicott, The Maturational Process and the Facilitatine Environment, London 1965, tr. it. di A. Bencini Bariatti, Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Roma 1970.

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di affetto familiare, amicizia e di relazione amorosa, fondato sulla simpatia e l’attrazione, come forma di approvazione e di incoraggiamento volta a favorire modalità autorelazionali prive di angoscia, conferendo agli individui la capacità di restare soli con se stessi senza paure22, di realizzare la propria autonomia, rifiutando la dipendenza simbiotica dall’altro e le colpevolizzazioni che derivano dalle «definizioni identitarie assolutizzate»23, pur nel riconoscimento del carattere costitutivo del rapporto con l’altro e del nostro costante debito nei suoi confronti. L’amore inteso alla maniera di Winnicott diviene caratterizzabile come forma determinata di riconoscimento in base alla specifica modalità con cui il successo dei legami affettivi viene fatto dipendere dalla capacità, acquisita nella prima infanzia, di bilanciare simbiosi e autoaffermazione. Al primo stadio della vita umana, l’infanzia, Winnicott fa corrispondere una sorta di intersoggettività indifferenziata o simbiosi tra la madre e bambino. Egli definisce l’infanzia come stadio di “intersoggettività primaria”, in cui la dipendenza assoluta del neonato dalla figura materna, e della figura materna dal neonato, non consente di individuare il confine tra sé e l’altro. Va sottolineato che nella fase di intersoggettività primaria non è soltanto il bambino a dipendere dalle cure materne, ma è anche la madre a adeguare le proprie abitudini, dunque la propria esistenza e il proprio ciclo vitale, alle esigenze del bambino. Proprio per questo, rispetto ai contributi classici della psicanalisi, i quali caratterizzavano unilateralmente la relazione madre-figlio nella prima infanzia come dipendenza totale del secondo dalla prima, Winnicott conferisce, in maniera innovativa, alla stessa relazione una valenza fortemente intersoggettiva. Come avviene il distacco da questa unità indifferenziata? Successivamente alla fase di dipendenza

22. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 39. 23. I processi di assolutizzazione identitaria sono stati indagati storicamente e in seguito teoricamente nel recente contributo di Franco Crespi alla sociologia del riconoscimento; F. Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, cit.

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assoluta del bambino dalla madre e viceversa, subentra una relazione di dipendenza relativa, in cui il bambino si sforza di raggiungere il pieno riconoscimento “dell’oggetto” – la madre precedentemente parte integrante del suo mondo soggettivo – come entità per se stessa. I meccanismi di natura psichica che presiederebbero la fase di dipendenza relativa sono principalmente due. La distruzione, in cui le prime manifestazioni aggressive del bambino sarebbero il sintomo di una volontà di verificare se l’investimento affettivo faccia parte o meno di una realtà influenzabile da parte dello stesso. Il secondo meccanismo è caratterizzato dai cosiddetti fenomeni transizionali. Si tratta di processi di auto-elaborazione in base ai quali il bambino tende a intrattenere un rapporto carico di contenuti affettivi con gli oggetti del suo mondo materiale, i quali divengono strumenti di mediazione con la realtà esterna. La sfera ontologica di mediazione è il luogo psichico di origine di tutti gli interessi che in seguito l’individuo adulto rivolgerà alle forme di oggettivazione culturale. Una delle conseguenze più significative della teoria della relazione oggettuale di Winnicott sulla fenomenologia delle forme di riconoscimento è l’acquisizione che si possa difendere la fiducia in se stessi attraverso la continuità affettiva. Winnicott proseguirà la sua analisi esaminando il masochismo e il sadismo come dinamiche di distorsione del rapporto d’amore. Mentre ciò che conta per Honneth è dimostrare, attraverso l’excursus nella psicanalisi, che la reciprocità della tensione intersoggettiva è disturbata dall’incapacità di uno dei soggetti coinvolti di privarsi sia di una condizione di autonomia completamente centrata sull’io sia di una condizione simbiotica di dipendenza assoluta. Entrambe le alterazioni “dell’equilibrio del riconoscimento” vanno ricondotte a disturbi psichici la cui origine comune risiede nello svolgimento anomalo del processo di distacco del bambino dalla madre. Si può pertanto concludere che le patologie amorose rappresentano una simbiosi spezzata di riconoscimento:

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Se uno dei criteri per poter parlare di una deviazione nei legami affettivi è dato dall’idea di una reciprocità fallita tra condizioni in tensione, allora, viceversa, si dimostra anche empiricamente plausibile un concetto dell’amore formulato sulla base di una teoria del riconoscimento24.

Non solo, nel quadro teorico fortemente intersoggettivo della teoria del riconoscimento è così stabilita una solida connessione tra reciproca individuazione e indipendenza individuale, come se il poter-essere-soli costituisse il polo soggettivo di una tensione intersoggettiva. La conquista dell’indipendenza è necessariamente sostenuta da una fiducia affettiva nella continuità della comune dedizione. Nella relazione d’amore il riconoscimento designa il duplice processo con il quale l’altro acquista la propria libertà e nello stesso tempo consolida un legame emotivo. Anche se per questo, afferma Honneth, nell’amore è sempre insito un necessario elemento di particolarismo morale, avendo ragione nel ritenerlo il nucleo di ogni eticità: […] Solo il legame alimentato simbioticamente che si realizza attraverso una delimitazione reciprocamente voluta dà la misura della fiducia in se stessi che è la base irrinunciabile della partecipazione autonoma alla vita pubblica25.

Sulla base di questa affermazione, diviene chiaro l’intreccio indissolubile che lega la sfera interpersonale dell’amore con i rapporti giuridici. Amore e diritto, infatti, vanno concepiti come sfere d’interazione che condividono lo stesso modello di socializzazione, per il fatto che la loro logica non può essere adeguatamente spiegata senza il riferimento al reciproco riconoscimento. Quanto alla sfera giuridica, già Hegel e Mead individuarono uno stretto legame tra la comprensione del nostro io come titolare di diritti e la consapevolezza di dover rispettare obblighi normativi nei confronti degli altri: solo dalla prospet24. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 130. 25. Ibidem.

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tiva normativa di un “altro generalizzato” che insegna a riconoscere gli altri membri della comunità come portatori di diritti in grado di comprendersi anche come persone giuridiche, nel senso di poter essere sicuri dell’adempimento sociale a determinate nostre esigenze. Nel tematizzare la sfera giuridica in base alla teoria del riconoscimento Honneth in un primo momento delinea le caratteristiche generali del riconoscimento giuridico nelle società tradizionali per poi paragonarle con le proprietà strutturali assunte dal riconoscimento nel contesto del diritto moderno, in sintonia con la disamina filosofica del multiculturalismo, proposta in collaborazione da Taylor e Habermas26. Taylor parte dalla convinzione che tra la definizione dell’identità e i processi di riconoscimento esista un legame costitutivo. Egli ritiene che l’ossessione tutta moderna per l’identità derivi principalmente da alcune trasformazioni storico-sociali: il crollo delle gerarchie sociali, sulla base delle quali si fondava tradizionalmente il senso dell’onore, l’emergere dell’idea universalistica di dignità umana con la Rivoluzione Francese. L’onore era saldamente legato a un modello stratificato di società, basato sull’istituzionalizzazione delle disuguaglianze: perché qualcuno ne godesse era essenziale che non tutti potessero accedervi. La dignità umana, invece, secondo i principi della Rivoluzione Francese, era intrinsecamente egualitaria, era comune a tutti gli uomini e compatibile con la società democratica. Nel corso del Settecento si perfeziona a tal punto il processo di individualizzazione dell’identità che al senso dell’onore, socialmente costruito, si sostituisce progressivamente l’ideale dell’autenticità, basato sulla fedeltà a se stessi e al proprio particolare modo di essere. L’ideale dell’autenticità non si costituisce a partire da entità esterne all’individuo – entità metafisiche, divinità religiose – ma in relazione a una reazione soggettiva, al 26. J. Habermas-C. Taylor, The Politics of Recognition, Princeton 1992, tr. it. di L. Ceppa, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano 1998.

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cui centro si pone la fedeltà alla propria originalità. La nascita della società democratica farebbe scomparire, secondo Taylor, l’identificazione del soggetto con la propria posizione sociale, in virtù di un ideale di autenticità, che non va inteso monologicamente come autogenerazione interiore ma come processo dialogico. Se l’identità dipende da relazioni dialogiche con gli altri, il problema del riconoscimento ritorna ad essere centrale. Taylor non vuole sostenere che con l’età moderna nasca il bisogno riconoscimento, piuttosto che per la prima volta emergono le condizioni in cui il riconoscimento può fallire. Infatti l’identità legata a una svolta soggettiva, non fruisce di riconoscimento a priori, ma deve conquistarselo, nella lotta con altri significativi sul piano privato, con lo strumento della politica (per il riconoscimento) su quello pubblico27. Secondo l’autore, con la nozione moderna di dignità ha origine la politica della differenza, che ha come scopo il riconoscimento dell’identità come entità irripetibile: La richiesta di eguale riconoscimento non si ferma a una presa d’atto dell’uguale valore potenziale di tutti gli umani ma comprende anche l’uguale valore di ciò che essi hanno ricavato, di fatto, da questa potenzialità28.

Anche Honneth considera il riconoscimento giuridico nelle società tradizionali prevalentemente orientato a un concetto di dignità fusa con il ruolo sociale, attribuita ai soggetti in un contesto normativo fortemente diseguale rispetto ai diritti e ai doveri: quindi le facoltà giuridiche individuali che spettavano all’individuo derivavano dal suo status di membro della comunità. Nel diritto moderno gli individui si configurerebbero, al contrario, come persone depositarie di diritti non in quanto appartenenti a un determinato strato sociale, ma nella loro qualità di soggetti. Da ciò emerge una figura di individuo sempre più 27. C. Taylor, Multiculturalismo, cit., pp. 20-29. 28. Ivi, p. 26.

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in grado di svincolare il proprio destino dalle appartenenze sociali, un soggetto capace di governare razionalmente le proprie preferenze morali. Mentre nelle società tradizionali l’autonomia individuale si configura qualitativamente eguale per tutti, nel diritto moderno i soggetti si distinguerebbero reciprocamente per la loro imputabilità morale, da cui deriva che il riconoscimento come persone giuridiche non coincide con la stima sociale accordata al singolo nel suo status di partecipante attivo della società. È questo uno dei motivi centrali di quella morale postconvenzionale di cui Honneth si fa portavoce, nella misura in cui separa il riconoscimento dal grado di stima sociale, come forme di rispetto tra gli uomini differenti. Da un lato il riconoscimento giuridico, dunque, in base al quale ogni soggetto umano deve valere senza distinzioni, come fine in sé; dall’altro lato il rispetto sociale come valore individuale gestito secondo criteri di rilevanza sociale. Il rispetto è attenzione cognitiva, è quel comportamento nei confronti di ciascuno a cui obbligano moralmente le qualità di una persona. Quando si ha a che fare con obblighi giuridici invece è necessario accertare le qualità concrete di cui quegli obblighi consentono la manifestazione: La differenza tra stimare qualcuno e riconoscerlo sta nel fatto che la stima non consiste nell’applicazione empirica di norme universali conosciute intuitivamente, ma nella valutazione differenziata di qualità e capacità concrete29.

Nel segno di questa interpretazione è situato uno dei luoghi, empiricamente accertabili, in cui può avvenire la lotta per il riconoscimento: deve essere accreditabile in ogni società la capacità dei soggetti di decidere autonomamente sulle questioni morali. Una simile idea si ritrova d’altronde nelle riflessioni hegeliane sulla figura del delinquente30: il delinquente è proprio 29. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 137. 30. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Roma-Bari 2004.

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colui che costringe l’ordinamento giuridico a estendere le norme di legge della società civile alla dimensione dell’uguaglianza di opportunità materiali. La distinzione tra sistemi legislativi tradizionali e sistemi legislativi moderni è anche alla base della articolazione sistematica, delineata da Marshall, dei diritti fondamentali in diritti civili, diritti alla partecipazione politica, più precisamente alla partecipazione ai processi di formazione della volontà pubblica, e diritti al benessere sociale31. La tesi del sociologo inglese consiste nell’affermazione di un nesso di carattere storico tra ogni nuova classe di diritti fondamentali ed esigenze, esplicite o implicite, di piena appartenenza alla comunità. I diritti sociali deriverebbero, in quest’ottica, da un allargamento, prodotto “dal basso”, del significato e del valore dell’appartenenza alla comunità politica. Marshall permette di comprendere come la progressiva estensione dei diritti fondamentali sia legata a un principio normativo: ogni arricchimento delle facoltà giuridiche del singolo può essere inteso come ulteriore passo in avanti verso l’affermazione della concezione morale secondo cui, affinché ci si possa attendere da tutti i membri della società una disponibilità individuale all’obbedienza, questi ultimi devono poter aderire sulla base di motivazioni razionali all’ordinamento giuridico stabilito32. L’istituzionalizzazione dei diritti alle libertà borghesi, ad esempio, ha aperto tre nuove classi di diritti soggettivi: quelli relativi alla capacità di intendere e di volere – la protezione giuridica del singolo individuo da intrusioni nella sua sfera di libertà personale –, la garanzia di pari opportunità di partecipazione ai processi di formazione dell’opinione pubblica, la garanzia di un certo standard nelle condizioni di vita. Pertanto, gli arricchimenti dello status 31. T.H. Marshall, Citizenship and Social Class and Other Essays, Cambridge 1950, tr. it. Cittadinanza e classe sociale, Torino 1976. Sul tema dei diritti soggettivi e della loro proliferazione cfr. anche N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino 1990. 32. Sul concetto di obbedienza alle norme fondata sull’adesione a una determinata rappresentazione sociale della realtà cfr. M. Strazzeri, Il Giano bifronte. Giuridicità e socialità della norma, Bari 2004.

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giuridico sono andati di pari passo con l’estensione delle facoltà umane (sicurezza economica e formazione culturale), in modo tale che il medesimo principio di uguaglianza includa persone giuridiche eguali non solo formalmente ma anche socialmente. Il conflitto per l’estensione del contenuto materiale e della portata sociale dello status di una persona giuridica sottostanno, come ritiene Honneth, all’esperienza del misconoscimento sociale, al tentativo di tradurre il misconoscimento in riconoscimento. È per questo che il processo storico di ampliamento dei diritti va letto anche in relazione ai processi sociali che consentono al soggetto di costruire la propria identità come identità socialmente riconosciuta. Ancora una volta, si rivela utile ricorrere a Mead il quale, considerando in maniera complementare l’attribuzione sociale dei diritti e l’aumento delle possibilità di rapportarsi positivamente a se stessi, conferma il riconoscimento giuridico come modalità di autorelazione positiva con se stessi. Considerando dunque i diritti come i segni anonimizzati della considerazione sociale, si salda il legame concettuale tra riconoscimento giuridico e acquisizione del rispetto di sé: i diritti contribuiscono a far emergere la consapevolezza di poter rispettare se stessi perché si è ottenuto il rispetto dagli altri. Soltanto se i diritti individuali non sono attribuiti in modo diseguale, ma accordati paritariamente a tutti gli uomini in quanto tali, si potrà considerarli garanzia oggettiva della capacità autonoma di giudizio. Possedere diritti non significa altro che poter avanzare pretese il cui soddisfacimento deve essere considerato legittimo dai membri della società. Per i membri di una società, infatti, la privazione dei diritti significa non avere alcuna chance di acquisizione del rispetto di sé. È questa un’ulteriore conferma, evidentemente, di quello che sosteneva Mead: è nel carattere pubblico che l’individuo trova riconoscimento universale come persona moralmente capace di intendere e di volere. Il riconoscimento giuridico consente di condividere con gli altri membri della comunità quelle caratteristiche che lo mettono in grado di partecipare alla formazione discorsiva della volontà.

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Il rispetto di sé è la possibilità di riferirsi positivamente a se stessi diventa una grandezza percepibile solo nella sua configurazione negativa, cioè quando i soggetti soffrono della sua mancanza. La deprivazione dei diritti fondamentali, percepita come discriminazione, può così diventare motivo di protesta politica. Si pensi, a mo’ di esempio, al movimento per i diritti civili in Usa durante gli anni ’50 e ’60. L’esperienza della discriminazione giuridica può produrre un sentimento paralizzante di umiliazione sociale in grado di provocare opposizione attiva all’ordine esistente. Soltanto quando le dimensioni di una divisione strutturalmente ineguale di beni immateriali vengono inserite nella prospettiva di una teoria critica della società, diventano visibili nella quotidianità zone di conflitto che fondano la sensazione di ingiustizia, ed è questo il mutato compito che Honneth assegna alla teoria critica33. L’ultimo livello di riconoscimento, oltre il riconoscimento giuridico e l’investimento affettivo, si attiva all’interno della comunità etica di appartenenza34, in cui membri sono legati da rapporti di solidarietà che si possono sviluppare solo tra coloro che condividono gli stessi valori, per potersi riferire positivamente alle proprie concrete qualità e capacità. Nel diritto moderno, il principio universalistico può essere ricostruito solo se inteso come risultato di una separazione delle forme di riconoscimento giuridico dalle forme di considerazione intersoggettiva delle qualità concrete dei soggetti. Dal confronto tra il riconoscimento giuridico e la stima sociale deriverebbe una fenomenologia empiricamente controllabile secondo questa traccia:

33. C. Caiano, È ancora viva la tradizione francofortese? Axel Honneth e lateoria del riconoscimento, «Quaderni di Teoria Sociale», 3, 2003. pp. 4578. 34. Ibidem.

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Diritto Moderno espressione indifferenziata delle qualità dei soggetti MEDIUM SOCIALE riconoscimento

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Dottrina Sociale

espressione intersoggettivamente vincolante delle differenti caratteristiche dei soggetti

Il valore sociale delle singole identità si commisura in base a quanto esse appaiano in grado di concorrere alla realizzazione di finalità sociali; di conseguenza la stima sociale è legata al presupposto di un contesto vitale in cui i membri, orientandosi verso finalità condivise, fondano una comunità etica. Le forme che la stima sociale può assumere sono grandezze storicamente variabili in funzione del grado di pluralizzazione dell’orizzonte dei valori socialmente definito35, così come del carattere degli ideali di personalità che in esso vengono promossi. Quanto più le rappresentazioni dei fini etici sono aperte a valori differenti e la loro disposizione gerarchica lascia il posto a una concorrenza orizzontale, tanto più decisamente la stima sociale assumerà una connotazione individualizzata e potrà dar luogo a relazioni simmetriche. Una linea di ricerca concreta sarebbe quella di analizzare le forme di riconoscimento in base al mutamento in esse intervenuto nel passaggio dalle società tradizionali a quelle moderne, dal concetto di onore a quello di alta considerazione, a quello di prestigio sociale. Generalmente si può affermare che sino a quando i valori si dispongono gerarchicamente, la misura della considerazione sociale si esprime in termini di onore, secondo quella che Taylor definisce «stratificazione verticale dei ruoli»36; di conseguenza la valutazione sociale di una persona non è quel35. Per l’articolazione di questo dibattito nel confronto tra comunitaristi e liberali rinvio a A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Roma 1992. 36. C. Taylor, Multiculturalismo, cit., p. 31.

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Irene Strazzeri

la di un soggetto biograficamente individuato, ma quella di un gruppo con uno specifico status culturale: un gruppo consiste dunque del valore che viene ad esso attribuito dai suoi membri. Il comportamento onorevole è la prestazione aggiuntiva che il singolo deve compiere per ottenere la stima dei membri del gruppo, quindi il riconoscimento interno è simmetrico rispetto al riconoscimento esterno che viceversa è asimmetrico. Con il passaggio alla modernità si ha una separazione del riconoscimento giuridico dall’ordine gerarchico della stima sociale, e da ciò deriva il conflitto sociale. Il processo conflittuale che segue alle mutate condizioni di validità degli orientamenti etici di una società (si pensi alla scomparsa della tradizione religiosa come termine di riferimento metasociale) comporta un mutamento di percezione dell’ordine dei valori sociali, così da assoggettare i vincoli etici a processi decisionali intramondani, capaci di mettere in discussione la gerarchia dei valori di una società. La solidarietà dunque si riversa nei mutati rapporti giuridici quando acquista validità universale il concetto di “dignità umana”, ad esempio con la normativa dei diritti fondamentali o diritti umani, la cui protezione giuridica è data dalla considerazione sociale che gli individui attribuiscono al concetto di inviolabilità della persona. Rispetto all’onore, che aveva carattere eminentemente pubblico, l’idea di prestigio sociale si caratterizza sul piano del singolo individuo. I processi di individualizzazione contribuiscono fortemente al modo in cui si rappresentano le finalità sociali, tanto che la stima viene a coincidere con le capacità biograficamente sviluppate dal singolo: dunque è il pluralismo dei valori a costituire il quadro di orientamento culturale nel quale vengono definite le capacità individuali. Eppure sia dal processo di universalizzazione giuridica dell’onore in dignità, sia dal processo di privatizzazione dell’onore in integrità soggettivamente definita, c’è una componente del valore della persona che viene tralasciata. Se la stima non è più connessa ad alcun privilegio giuridico, né comporta più l’attribuzione di specifiche qualità morali alle persone,

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Diritto e riconoscimento in Axel Honneth

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tutto viene a dipendere da come si definisce quell’ orizzonte universale di valori che deve essere aperto alle diverse modalità di autorealizzazione e che deve poter ancora fungere da sistema generale di regolazione della stima sociale37.

Queste esigenze introducono nella forma moderna di solidarietà una tensione che genera conflitto culturale. Quale che sia il modo in cui vengono determinate le finalità sociali, è sempre necessaria una prassi interpretativa secondaria, prima che esse possano entrare in vigore come criteri della stima nella vita sociale. Il modo in cui vengono definite le qualità sociali si commisura alle interpretazioni storicamente dominanti delle finalità sociali, nel senso che il contenuto di queste interpretazioni riesce a far prevalere pubblicamente le proprie prestazioni come quelle di maggiore valore. È questa la prassi interpretativa secondaria potenzialmente in grado di generare conflitto culturale continuativo: nelle società moderne i rapporti di solidarietà sottostanno a una lotta permanente nella quale i diversi gruppi cercano con i mezzi della violenza simbolica di accrescere in riferimento alle finalità generali il valore delle capacità connesse al loro modo di vita. Lo stesso Simmel38, collegando i rapporti sociali di stima al modello di distribuzione dei redditi, aveva in qualche modo inserito i conflitti economici nelle forme della lotta per il riconoscimento39. La stima sociale, rispetto al modello dell’eticità di Hegel e alla divisione democratica del lavoro di Mead, conferisce alle forme di riconoscimento il carattere di relazioni asimmetriche tra soggetti individuati. La solidarietà, come terzo fattore strutturale dell’eticità, individuato da Honneth oltre l’amore e il diritto, dovrebbe pertanto accogliere e superare entrambi i modelli: 1. come tipo di relazione resa possibile dall’esperienza della stima sociale; 37. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit. p. 153. 38. Cfr. A. De Simone, Oltre il disincanto. Etica, diritto e comunicazione tra Simmel, Weber e Habermas, Lecce 2006. 39. P. Bourdieu, La distinction: critique sociale du jugement, Paris 1979, tr. it. di G. Viale, La distinzione: critica sociale del gusto, Bologna 1983.

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2. collegando a criteri cetuali la distinzione sociale viene riferita esclusivamente all’identità collettiva, da cui 3. deriva l’idea di onore come appartenenza. Se all’interno dei gruppi si hanno relazioni di tipo solidale, si crea quell’orizzonte intersoggettivo necessario al riconoscimento delle capacità dell’altro. Con la modernità, la stima sociale si individualizza e con ciò si trasforma anche il rapporto pratico dei soggetti con se stessi. Ora il soggetto non deve più attribuire a un intero collettivo la stima ottenuta per le sue prestazioni in conformità con gli standard culturali vigenti, ma è anzi in grado di rapportarsi positivamente a se stesso. Si può concludere che la stima sociale va di pari passo con la fiducia di avere capacità riconosciute dagli altri membri come ricche di valore. Il termine autostima, come coscienza del proprio valore, designa questo tipo di relazione pratica con se stessi, è una condizione posttradizionale di solidarietà sociale simmetrica ed è perciò legata al presupposto del rapporto sociale di stima simmetrica tra soggetti individualizzati: con simmetria si intende che i soggetti si considerano vicendevolmente alla luce dei valori condivisi che fanno apparire le capacità e qualità dell’altro come significative per la prassi collettiva, cioè solidali. Solidali perché suscitano tolleranza passiva e partecipazione affettiva alla condizione individuale dell’altra persona. Solidarietà sociale simmetrica non significa quindi apprezzarsi a vicenda in eguale misura, per via dell’apertura di tutti gli orizzonti di valore sociale a una pluralità di interpretazioni: significa piuttosto che a ogni soggetto è offerta senza gradazioni collettive l’opportunità di sapersi prezioso per la società […] i rapporti sociali indicati con il termine solidarietà dischiudono l’orizzonte in cui la concorrenza per la stima sociale assume una configurazione non dolorosa40,

cioè non offuscata da esperienze di misconoscimento. 40. A. Honneth, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 153.

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Diritto e riconoscimento in Axel Honneth

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3. Violenza, privazione dei diritti, offesa: misconoscimento e integrità personale L’umiliazione è un’esperienza che colpisce le persone nella comprensione positiva di sé. L’integrità degli esseri umani, infatti, è indissolubile dall’approvazione degli altri. Esiste così un forte nesso tra il processo di individualizzazione e le pratiche di riconoscimento: l’identità è un’immagine normativa di noi stessi che può essere devastata dal misconoscimento. Così come esistono gradazioni sistematiche nel concetto di riconoscimento, esistono gradazioni sistematiche nel corrispettivo concetto di offesa. Honneth istituisce una connessione importante tra il misconoscimento e l’opposizione sociale e il conflitto. Per quale motivo l’esperienza del misconoscimento sarebbe così ancorata al vissuto affettivo dei soggetti umani da dar loro la spinta motivazionale alla lotta sociale, come lotta per il riconoscimento? Prendiamo in considerazione la modalità più elementare di degradazione personale che un soggetto può subire, ossia quella che Honneth definisce violazione dell’integrità fisica. La negazione dell’autonomia del proprio corpo, acquisita attraverso esperienze di coinvolgimento emotivo nella socializzazione, produce una distruzione della fiducia nel poter disporre di sé. Gli esempi concreti sono quelli dello stupro e della tortura. Le aspirazioni dell’autore, come è ovvio, non possono arrestarsi sul piano dell’integrità fisica, poiché il misconoscimento come fattore-motivazione del conflitto sociale va inserito nel contesto dell’intero processo di trasformazione storica. In questo senso, la negazione dei diritti, ossia la discriminazione giuridica, comporta la percezione di non possedere la status di partecipante all’interazione sociale e coincide con la negazione della capacità morale di intendere e di volere. È il caso dell’emarginazione e della schiavitù. Negare valore sociale, infine, a singoli individui o gruppi, è una modalità valutativa di misconoscimento che comporta perdita di autostima sul piano personale. L’approvazione alla propria specifica forma di autorealizzazione è negata proprio perché i modelli di stima sono individualizzati, e quindi

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vengono applicati alle capacità individuali anziché a qualità collettive. L’allusione metaforica alla “morte sociale” deriva proprio dal tipo di sofferenza generato dall’umiliazione, come nel caso degli stili di vita definiti spregiativamente alternativi. Come si potrebbero tutelare gli individui da un simile sofferenza? Come affrontare le patologie sociali innescate dal misconoscimento? Certamente, tutelando socialmente e giuridicamente i rapporti di riconoscimento. Affermare che le reazioni negative al misconoscimento, l’ira, il disprezzo, l’offesa, la vergogna sociale derivante dall’offesa, manifestano la costitutiva dipendenza degli esseri umani dal riconoscimento intersoggettivo, non è sufficiente a spiegare il misconoscimento come fattore motivazionale alla lotta sociale. È per questo che Honneth ricorre, a questo stadio della sua costruzione teorica, alla concezione pragmatica dei sentimenti di cui è sostenitore John Dewey41. Secondo questa concezione gli eventi psichici non riguardano esclusivamente l’interiorità umana, indipendentemente da reazioni rivolte all’esterno. I sentimenti che accompagnano le nostre azioni sorgono come esperienze reattive all’esecuzione di azioni non riuscite o disturbate. Esse rientrano nell’orizzonte vissuto solo in ragione della dipendenza positiva o negativa dai decorsi di azione. I nostri sentimenti dipendono dal successo o dall’insuccesso dei nostri progetti d’azione. L’elemento fondante le relazioni umane è l’aspettativa. Le aspettative possono essere sia attese strumentali di successo che incontrano resistenze impreviste, sia attese normative di comportamento che scatenano conflitti morali nel mondo della vita sociale. Con Dewey si possono intendere le risposte emotive alla violazione delle aspettative normative di riconoscimento: se la violazione proviene dallo stesso soggetto agente, essa susciterà come reazione sensi di colpa; se la violazione proviene dal partner dell’interazione, essa susciterà come reazione indignazione morale.

41. J. Dewey, The Theory of Emotion, I-II, «Psycological Review», 1894(I), p. 553 ss.; «Psycological Review», 1895(II), p. 132 ss.

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Tra i sentimenti di indignazione morale quello che possiede carattere più tangibile sociologicamente è la vergogna42. Il provare vergogna di se stessi è il tipico caso di situazione di esperienza emotiva di un agire con effetto retroattivo sul soggetto: con lo spostamento dell’attenzione sulle proprie aspettative giungono a livello di consapevolezza anche gli elementi cognitivi, vale a dire il sapere morale, che aveva guidato l’azione progettata e poi bloccata dalla vergogna. Da qui depressione della propria autostima e crisi dell’io ideale di ogni soggetto. La vergogna è sintomo di una profonda crisi morale della comunicazione ed è conseguenza del misconoscimento quando il soggetto non è più in grado di affermare ulteriormente le proprie pretese. In seguito a queste considerazioni, diventa chiaro cosa Honneth intenda per conflitto morale e perché i soggetti possano essere motivati al conflitto. Il conflitto sociale può essere definito come: Un processo pratico nel quale le esperienze individuali del misconoscimento vengono interpretate come tipiche esperienze-chiave di un intero gruppo, in modo tale che possono influenzare, come motivi orientanti l’azione, l’aspirazione collettiva a relazioni di riconoscimento allargate43.

L’eventualità che il potenziale cognitivo intrinseco nella vergogna sociale si trasformi in opposizione politica dipende dall’ambiente politico-culturale in cui matura il soggetto. È chiaro che l’esperienza del misconoscimento diventa opposizione politica se si ha la possibilità di articolarla, ad esempio, in movimento sociale. La logica dei movimenti collettivi è così anch’essa illuminata da un’analisi che cerca di spiegare il conflitto sociale in base alla dinamica delle esperienze morali. Chiaro risulterebbe anche l’elemento motivazionale che spinge i soggetti a prendere parte attiva alle lotte politiche. Sono i sentimenti negativi di 42. A. Sen, Commodities and Capabilities, New York 1985; tr. it. La ricchezza della ragione, Bologna 1994. 43. A. Honneth, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 191.

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reazione al mancato riconoscimento che motivano gli individui a prendere parte attiva ai processi di cambiamento sociale. Rimane però da chiarire se Honneth ammetta l’esistenza di conflitti puramente strategici, scatenati da interessi44. Le pretese che nascono dalla disuguaglianza nelle opportunità materiali sono infatti legate all’offesa di aspettative di riconoscimento: una situazione economica è considerata insopportabile sulla base di aspettative morali che gli interessati consensualmente legano all’orizzonte della società. Honneth trova conferma a questa sua interpretazione nella recente storiografia di E.P. Thompson, il quale, nelle sue ricerche sulla resistenza delle classi operaie in Inghilterra agli inizi dell’industrializzazione capitalistica, ha ipotizzato che le rivolte sociali non furono soltanto espressione diretta di necessità economiche45. Il conflitto si trasformava in pratica della protesta solo se i cambiamenti economici erano vissuti come lesione normativa del consenso intorno al proprio orizzonte di valori sociali. Ciò dimostra che la causa dei conflitti sociali molto spesso va rinvenuta nell’analisi del consenso morale che, all’interno di un gruppo sociale, regola informalmente il modo in cui si ripartiscono diritti e doveri tra dominanti e dominati. In riferimento a queste ricerche, Honneth definisce l’elemento normativo su cui la teoria critica della società deve soffermarsi nelle sue analisi, ma anche l’indirizzo che queste analisi devono perseguire46. Se, infatti, l’emergere dei movimenti sociali dipendesse dalla semantica collettiva che fonda le 44. Sulla dialettica tra il polo normativo della redistribuzione e del riconoscimento cfr. N. Fraser-A. Honneth, Umverteilung oder Anerkennung? Eine politisch-philosophische Kontroverse, Frankfurt a.M. 2003. 45. In particolare Honneth si richiama al metodo e ai risultati ottenuti dagli studi di E.P. Thompson in E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia, tr. it. Milano 1969. 46. Sugli sviluppi possibili della teoria critica della società cfr. anche F. Fistetti, Il paradigma del riconoscimento: verso una nuova teoria critica della società?, «Postfilosofie», 1, 2005 pp. 95-120, mentre per l’articolazione futura dei diritti in relazione agli scenari odierni rinvio a R. Finelli-F. Fistetti-F.R. Recchia Luciani-P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, Roma 2004.

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esperienze di delusione personale, ma anche collettive, allora il compito della teoria critica della società sarebbe quello di elaborare una teoria morale in grado di arricchire le rappresentazioni normative della società contemporanea. Una nuova concezione della morale infatti creerebbe un orizzonte interpretativo dal quale poter dedurre, sulla base delle esperienze di misconoscimento, le ragioni morali di una lotta per il riconoscimento. Non si tratta di una deduzione fine a se stessa, ma della possibilità di intravedere non soltanto che le aspirazioni al riconoscimento sono incluse nella rappresentazione della realtà sociale, ma anche che esse contemplano un contenuto normativo per il quale diventa necessario ricostruire la struttura della realtà sociale come un processo di realizzazione del diritto; di evidenziare, insomma, l’estensione dei rapporti di riconoscimento giuridico ai contenuti materiali dell’esistenza47.

47. Sul possibile contenuto concreto dei diritti di cittadinanza nella contemporaneità mi permetto di rinviare al mio contributo La cittadinanza tra redistribuzione e riconoscimento, «Postfilosofie», 2, 2005, pp. 111-131.

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Cristina Pasqualini

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Violenza del mondo e diritti umani. La proposta ri-formatrice di Edgar Morin

«La complessità dei problemi di questo mondo ci disarma. Per questo dobbiamo riarmarci intellettualmente, educando noi stessi a pensare la complessità. Aver perso il Futuro può essere un guadagno, se ci rende consapevoli dell’avventura ignota: dobbiamo essere, una volta per tutte, consapevoli dell’ambiguità dei processi scientifici e tecnici, consci dell’incertezza del nostro divenire. Una nuova forma di razionalità che sia anche autocritica dovrà nascere proprio dal seno della nostra ragione, perché dinanzi al futuro i giochi non sono mai fatti e non c’è mai un rien ne va plus…» Edgar Morin

1. Premessa

P

robabilmente la violenza nel mondo è sempre esistita, ma si può parlare di violenza globale, o meglio di una qualche forma di consapevolezza condivisa di tale situazione, solo in relazione all’avvento della globalizzazione, un processo complesso e multidimensionale che, come è noto, ha riguardato dimensioni differenti come la cultura, l’economia e la politica. Ecco allora che la violenza e lo spirito di conquista, che hanno caratterizzato e dato forma a questo nostro mondo, sembrano avanzare con il processo di planetarizzazione che per Morin ha avuto origine in tempi molto più antichi rispetto a quelli stabiliti dalle analisi sociologiche ed è fin da subito coinciso con l’accelerazione delle dinamiche di contaminazione e ibridazione culturale che, sempre secondo Morin, sono costitutive della specie umana. Senza retrocedere a un passato troppo lontano, la stessa scoperta e colonizzazione delle Americhe da parte de-

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Cristina Pasqualini

gli occidentali è avvenuta all’insegna dello sfruttamento e della conquista. Possiamo quindi ipotizzare che il violento spirito di conquista moderno che spinse popolazioni e culture a sottometterne altre sia una delle tante chiavi ermeneutiche a nostra disposizione oggi, che non ci autorizza tra l’altro a trarne un nesso causale deterministico, per comprendere e descrivere la fenomenologia del mutamento socio-politico oltre che antropologico-culturale contemporaneo. Se questa è l’origine della violenza del mondo – che abbiamo detto essere globale e coincidere con la modernità –, è allora interessante analizzare quali forme essa ha incarnato nella società contemporanea, la cui massima espressione è rinvenibile nella “spettacolare” tragicità degli accadimenti dell’11 settembre 20011. Spettacolarità resa ancora una volta possibile dalla potenza e pervasività delle immagini mediatiche2, che in tempo reale hanno mostrato a milioni di persone globalmente localizzate gli esiti di una violenza paradossalmente localizzata e delocalizzata al contempo. Una violenza che ha avuto delle ripercussioni sui destini in primis delle migliaia di persone che hanno perso la vita in quel giorno, ma, non da ultimo, di tutti coloro che hanno visto stravolti i propri stili di vita, costretti a ridisegnare la percezione del rischio e della sicurezza personale e collettiva. Alla luce delle sembianze che sembra aver assunto la società contemporanea, Edgar Morin torna a riflettere in maniera insistente e preoccupata sulle più recenti trasformazioni sociopolitiche avanzando la proposta di un’antropolitica, ovvero una politica pensata dall’uomo per l’uomo, da cui si evincono la consistenza della componente antropologica e la centralità dei diritti umani.

1. Cfr. G. Gasparini, Un bosco disetaneo. Riflessioni sull’11 settembre, «Vita e Pensiero», 6, 2001(LXXXIV). 2. Cfr. J. Baudrillard-E. Morin, La violenza del mondo. La situazione dopo l’11 settembre, tr. it. Como-Pavia 2004.

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Violenza del mondo e diritti umani

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Se le radici delle logiche di dominio imperanti, dichiaratamente e palesemente di stampo occidentali, sono rinvenibili precipuamente nel XVI secolo, ha senso ripercorrerne i principali passaggi ed evoluzioni. Lo ha ancora di più, ai fini del nostro discorso, in quanto quella stessa logica, che appariva dominante, unidirezionale e intoccabile, ha subito indiscutibilmente un forte contraccolpo, una qualche inversione di tendenza, proprio alle soglie del secolo XXI, in cui la Storia, contrariamente a quanto ci avevano fatto credere i Lumi, ha dato prova di non essere sinonimo di progresso ad libitum3, ma più propriamente un’avventura ignota. Di qui, per dirla con Morin, se il futuro non è dato e non è certo, i tratti di criticità che lo contraddistinguono si radicano sulla crisi del presente stesso contrassegnato, a sua volta, dal sottosviluppo tecnico, economico, politico, etico e affettivo: Le nostre società credevano di progredire su un’autostrada storica verso un futuro radioso. Oggi ci rendiamo conto che il motore è imballato. Bisogna frenare, regolare ciò che è fuori controllo, correggere il percorso. Il pianeta è allo sconforto: la crisi del progresso colpisce l’intera umanità, causa ovunque delle fratture, fa scricchiolare le articolazioni, determina i ripiegamenti particolaristici. Le guerre si riaccendono; il mondo perde la visione globale e il senso dell’interesse generale. Allo stesso tempo, siamo nell’era damoclea delle minacce mortali, con possibilità di distruzione e di autodistruzione che, dopo la breve tregua degli anni 1989-’90, si sono aggravate in modo nuovo4.

In maniera quasi profetica, Morin – da interprete e protagonista della Storia – scriveva queste parole alla fine degli anni Novanta del secolo appena concluso, leggendo prima di altri uno stato preoccupante del mondo in cui viviamo, invitandoci ad aprire gli occhi, a uscire dal torpore delle nostre menti 3. Per approfondimenti, cfr. F. D’Andrea-A. De Simone-A. Pirni, L’Io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, Perugia 2004. 4. E. Morin-S. Naïr, Una politica di civiltà, tr. it. Trieste 1999, pp. 19-20.

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addormentate, a imparare a leggere gli oramai palesi segnali di una conclamata e reale crisi planetaria e, conseguentemente, a prenderne coscienza assumendo una posizione eticamente responsabile. Passando per questa via, il link con la politica è piuttosto immediato. Al sistema politico, o meglio a quello che ancora oggi definiamo più o meno sensatamente Stato Nazione, spetta infatti il difficile compito di imbrigliare un sistema economico scivoloso e sempre più indipendente. Alla base della crisi planetaria, e delle lotte di dominio, che da sempre imperversano sul pianeta Terra, gli interessi economici hanno fatto solitamente da padroni, arricchendo inegualmente stati e persone, producendo un sempre più accentuato sbilanciamento verso un modello di supremazia e monopolio piuttosto che di concorrenza. Da un lato, gli attori economici che godono di una indiscussa leadership a livello mondiale sono facilmente identificabili e facilmente riconducibili a una linea di pensiero, a una matrice culturale e politica, dall’altro le vittime di questi carnefici lo sono altrettanto, ma sono tenute a debita distanza dalle stesse macchine mediali, che volutamente complici e asservite alle logiche di dominio mostrano ciò che è cool piuttosto che ciò che non lo è. Non si tratta di un’ingenua dimenticanza, quanto della deliberata scelta di investire su un profitto certo che genera altro profitto, altrettanto certo. Nella società dei consumi, i poveri, come ci ricorda Bauman5, non hanno riconoscibilità sociale, sono «vite di scarto»6, non sono più neppure così strettamente indispensabili al sistema di produzione come in passato, non consumano e quindi non consumando non alimentano nuova domanda di produzione. Insomma, un anello della “specie umana” “inutile”, parassita, e quindi inabilitato a parlare, a fare richieste e tanto meno a decidere. Se questo è il mondo in cui viviamo, se queste sono le 5. Cfr. Z. Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, tr. it. Troina 2004. 6. Cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, tr. it. Roma-Bari, 2005.

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logiche imperanti, se questi sono gli esiti dello sviluppo economico, era impensabile, come lo stesso Morin ha scritto, che non si arrivasse a una crisi planetaria, a una crisi politica mondiale, a una guerra tra civiltà, a una sempre più evidente insofferenza da parte di coloro che sono stati a guardare per decenni che non hanno voce in capitolo non soltanto in decisioni lontane da loro, ma anche nei verdetti sui loro stessi destini. All’interno di questo scenario dalle tinte cupe, accanto al trend che abbiamo appena descritto, si possono tuttavia intravedere spiragli di luce. In questo senso la tragedia che l’11 settembre si è abbattuta sugli Stati Uniti, pur avendo determinato una recrudescenza della violenza planetaria, allo stesso tempo ha scosso le coscienze della società civile mondiale, costringendola a ripensare e a rimettere in discussione uno stato di cose incancrenito e malato. Sappiamo, inoltre, che da anni si sono destati, all’interno delle società occidentali, una fervida sensibilità e un crescente impegno in difesa di quei valori e quegli ideali che hanno come proprio fondamento il rispetto e la tutela della persona nella sua irriducibilità e unicità di essere umano. Sulla scorta della lezione della Rivoluzione Francese, che ha sposato la causa della Libertà, dell’Uguaglianza e della Fraternità intese come diritti umani da difendere e promuovere doverosamente, questi stessi valori sono diventati per molte organizzazioni il portato primo della loro missione nel mondo. Potremmo affermare, infatti, che a una planetarizzazione che ha seguito le logiche del dominio, della conquista e della violenza, se ne è affiancata un’altra, che ha raggiunto la sua massima visibilità a partire dagli anni Novanta del XX secolo e che persegue la logica della promozione e della tutela dei diritti umani. A quest’ultimo movimento, che è anche movimento di pensiero e nelle cui file hanno militato insigni intellettuali, appartiene lo stesso Morin, la cui vita e riflessione scientifica si sono sempre collocate in una prospettiva di impegno a favore dell’uomo, della società e del pianeta. Egli, infatti, non ha fatto mai mancare le sue proposte per quanto concerne il superamento

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Cristina Pasqualini

della crisi planetaria contemporanea. Non esistono, tuttavia, soluzioni facili, immediate. Ciò che è esito di processi secolari non può essere estirpato per decreto dall’oggi al domani, ma necessita di interventi profondi e radicali da apportarsi al cuore stesso della nostra cultura e della nostra struttura di esseri umani. Si tratta, per usare il linguaggio di Morin, di operare quattro “rifondazioni”: la riforma di pensiero; la rifondazione antropologico-politica; la rifondazione antropo-planetaria; la rifondazione politica: l’antropolitica. All’interno di questo gioco complesso di parole emerge, in ultima analisi, un’idea forte e articolata di politica di civiltà, che si avvale di propri imperativi. Una vera rifondazione etica7, un’etica planetaria appunto per una società-mondo, che stenta ancora a decollare, ma che ha bisogno di essere teorizzata e incentivata nella sua costituzione perché la sua coscientizzazione è premessa indispensabile all’individuazione delle giuste strategie di intervento.

2. Dominazione/emancipazione: i due volti dell’era planetaria Convenzionalmente si è stabilito che quel complesso processo multidimensionale dal nome globalizzazione sia cominciato nel 1990, quale sintesi contemporanea e peculiare di un’era planetaria la cui genesi può essere fatta risalire al XVI secolo, al tempo delle due scoperte rivoluzionarie di natura scientifica e geografica, che riorganizzarono la percezione dell’Europa occidentale rispetto al resto del mondo così come la posizione della Terra rispetto all’Universo8. Se da un lato, infatti, la conquista delle Americhe da parte delle potenze del Vecchio Continente ha rafforzato economicamente quest’ultimo attraverso la logica 7. Cfr. E. Morin, Il Metodo 6. Etica, tr. it. Milano 2005. 8. Per approfondimenti, cfr. C. Pasqualini, Soggettività, interazione e orientamenti normativi nella società globale, «Studi e Ricerche», 11-12, gennaio-dicembre 2003.

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– non da ultima e non solo violenta – di colonizzazione di nuove terre e nuove civiltà, dall’altro l’Europa ha compreso di essere una parte di un sistema geografico grande a tal punto da minarne la possibilità di dominio totale su di esso. Sul versante scientifico, Copernico ha rivoluzionato la struttura dello spazio cosmico e con esso i nostri stessi sistemi di pensiero in maniera così radicale da mutare per sempre la percezione della nostra collocazione nell’Universo: Dalla conquista delle Americhe alla rivoluzione copernicana, un pianeta è nato e un cosmo è crollato. Le concezioni del mondo più salde e più evidenti sono capovolte. La Terra cessa di essere al centro dell’universo, diventa satellite del Sole, e l’umanità perde il suo posto privilegiato. […] L’Occidente europeo scopre grandi civiltà, ricche e sviluppate quanto le proprie, che ignorano il Dio della Bibbia così come il messaggio di Cristo. La Cina cessa di essere una strana eccezione. L’Europa deve riconoscere la pluralità dei mondi umani e la provincialità dell’area giudeo-islamico-cristiana. Così come la Terra non è più il centro del cosmo, l’Europa non è più il centro del mondo. Una tale rivoluzione richiederà tempo per iscriversi nelle menti umane9.

In sintesi, queste due scoperte hanno prodotto istantaneamente e simultaneamente il mutamento di due paradigmi conoscitivi, oltre ad aver segnato l’inizio dell’era planetaria, ossia l’era delle interconnessioni, delle ibridazioni culturali legate agli spostamenti – ancora fisici – su scala mondiale. In qualche misura, l’inizio dell’era planetaria coincide con l’inizio dei tempi moderni. La logica di dominio, pertanto, è il tratto più evidente della prima fase del processo di planetarizzazione, perché, come sappiamo, questo è segnato dalla “predazione”, dalla schiavitù e dalla colonizzazione. Tuttavia, il processo di planetarizzazione è avvenuto sotto una doppia egida, ovvero non solo perseguen-

9. E. Morin-A.B. Kern, Terra-Patria, tr. it. Milano 1994, p. 8.

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Cristina Pasqualini

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do la logica del dominio ma anche quella dell’emancipazione10. Due eliche, quella della dominazione e quella dell’emancipazione, che sono procedute storicamente, seppure con tempi e modalità non sempre equamente distribuite ed equilibrate, pressoché parallelamente. Potremmo dire, in qualche misura, che in questa prima fase di dominazione hanno avuto inizio anche forme importanti di scambi e comunicazioni intercontinentali. Scrive Morin: L’era planetaria comincia attraverso le prime interazioni microbiche e umane, poi attraverso gli scambi vegetali e animali fra Antico e Nuovo Mondo. […] Gli europei importano e cominciano a coltivare a casa loro il mais, la patata, i fagioli, il pomodoro, la manioca, la patata dolce, il cacao, il tabacco. Portano in America pecore, bovini, cavalli, cereali, vigne, olivi, e le piante tropicali, riso, caffè, canna da zucchero. […] Gli scambi Europa-AsiaAmerica si moltiplicano, e in Europa i prodotti esotici di lusso, come caffè, cioccolato, zucchero, tabacco, diventano prodotti di consumo quotidiano. L’Europa conosce uno sviluppo accelerato. Gli scambi vi si intensificano. Gli stati nazionali creano strade e canali. […] L’occidentalizzazione del mondo comincia tanto con l’immigrazione degli europei nelle Americhe e in Australia quanto con l’importazione della civiltà europea, delle sue armi, delle sue tecniche, delle sue concezioni, in tutte le sue agenzie, avamposti, zone di penetrazione. L’era planetaria si apre e si sviluppa con la violenza, con la distruzione, con la schiavitù, con lo sfruttamento feroce delle Americhe e dell’Africa. È l’età del ferro planetaria, nella quale siamo ancora11.

Se la prima tappa del processo di occidentalizzazione del mondo prende le mosse sotto il segno evidente della dominazione, nel corso del XIX secolo ha inizio una nuova “tappa” dell’era planetaria, in cui si intensificano ulteriormente gli scambi mondiali grazie al fenomeno dell’imperialismo europeo, che 10. Per approfondimenti, cfr. E. Morin, Cultura e barbarie europee, tr. it. Milano 2006. 11. E. Morin-A.B. Kern, Terra-Patria, cit., pp. 8-9.

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Violenza del mondo e diritti umani

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produce una sostanziale emancipazione delle colonie europee. Emancipazione, tuttavia, ancora una volta come risultante della dominazione esercitata dal Vecchio Continente. Di grande rilevanza sempre nel XIX secolo è l’abolizione della schiavitù, così come la mondializzazione dell’umanesimo, dei diritti umani, dell’idea di democrazia e di solidarietà umana, del principio di libertà-uguaglianza-fraternità. Infine, nel XX secolo si è aperta una nuova fase del processo di planetarizzazione, caratterizzata da una doppia e netta contrapposizione tra due tipi differenti e antagonisti di mondializzazione, secondo le due differenti logiche della dominazione versus emancipazione. Innanzitutto, i conflitti hanno assunto una dimensione mondiale, facendo registrare in primis nella stessa Europa una significativa quanto inaspettata battuta di arresto nella sua rincorsa al potere. Se quindi, in seguito ai conflitti mondiali, l’Europa vede ridimensionata la sua forza dominatrice sul resto del mondo, al contempo tutto il globo è accomunato da una medesima esperienza: la guerra, la violenza e la distruzione di massa. La guerra mondiale del 1914-1918 prima e quella del 1939-1945 dopo – così come la Guerra Fredda (1947-1989) – possono essere collocate su uno stesso continuum, che si ispira alla medesima idea: la dominazione, la lotta per l’egemonia politica ed economica. Indiscutibilmente: La guerra del 1914-1918 è il primo grande denominatore comune che unisce l’umanità. Ma la unisce nella morte. […] La guerra è diventata totale, mobilitando militarmente, economicamente e psicologicamente le popolazioni, devastando le campagne, distruggendo le città, bombardando le popolazioni civili. L’impegno totale delle nazioni […] ne faranno la prima grande guerra di distruzione di massa, nella quale il pianeta perderà 8 milioni di uomini e l’Europa da vertice del mondo sprofonda nell’abisso. La sua decadenza apre una nuova fase dell’era planetaria12.

12. Ivi, pp. 14-15.

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Non solo, ma, di lì a poco, l’intero globo avrebbe vissuto un’altra esperienza di distruzione mondiale, che – come è noto – ha avuto inizio nel 1939 e si è conclusa con il dissolvimento del Terzo Reich a Berlino nel 1945 e l’annientamento delle città di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto dello stesso anno: «Su 100 milioni di uomini e di donne coinvolti nel conflitto mondiale, furono uccisi 15 milioni di uomini armati, e ci furono 35 milioni di vittime fra i civili; le due bombe atomiche americane sganciate su Hiroshima e Nagasaki fecero da sole 72.000 morti e 80.000 feriti, coronando il massacro mondiale»13. Un “secolo breve”, a detta di Hobsbawn14, uno dei secoli più violenti che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto, se pensiamo solo alle due guerre mondiali. Ma anche un secolo di grandi emancipazioni: emancipazione femminile, progresso scientifico, profonde trasformazioni societarie15 e culturali. Un secolo, per dirla questa volta con Morin, in cui i molti sconvolgimenti hanno prodotto non tanto una società-mondo bensì un impero-mondo, con forti disuguaglianze sociali. Disuguaglianze sulle quali la società civile ha iniziato da anni a riflettere, riprendendo il filo interrotto della seconda mondializzazione, quella che segue la logica dell’emancipazione umana. Pensiamo, ad esempio, alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata dall’Assemblea dell’Onu nel 1948 e pensata per salvaguardare le future generazioni dal flagello delle guerre e come garanzia per la tutela della pace e il rispetto dei diritti dei popoli. A partire dagli anni Sessanta del XX secolo, in coincidenza con la Guerra del Biafra, nascono numerose associazioni umanitarie: Greenpeace – fondata nel 1971, un’organizzazione ambientalista internazionale, politicamente indipendente, uno dei

13. Ivi, p. 17. 14. Sul tema, si veda E.J. Hobsbawn, Il secolo breve 1914-1991. L’epoca più violenta della storia dell’umanità, tr. it. Milano 2000. 15. Cfr. C. Giaccardi-M. Magatti, L’Io globale. Dinamiche della socialità contemporanea, Roma-Bari 2003.

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più grandi movimenti ambientalisti del mondo, ispirato ai principi della nonviolenza; Amnesty International – movimento internazionale che promuove la consapevolezza e l’aderenza degli Stati alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, premio Nobel per la Pace nel 1977; Survival International – l’organizzazione che si occupa delle minoranze e dei popoli minacciati di sterminio culturale, la quale sostiene, provocatoriamente, che oltre agli alberi occorre salvare anche l’uomo; Medici senza frontiere – l’associazione internazionale nata per offrire soccorso sanitario alle popolazioni in pericolo e testimoniare delle violazioni dei diritti umani cui assiste durante le sue missioni. Si arriva così agli anni Novanta, in cui la caduta del Muro di Berlino nel 1989 dà inizio alla globalizzazione, ovvero alla fase attuale e contemporanea dell’era planetaria. Morin scrive: La globalizzazione degli anni Novanta si inscrive nel doppio processo di dominazione/emancipazione e gli apporta nuove caratteristiche. L’implosione del totalitarismo sovietico e il fallimento delle economie burocratizzate di Stato favoriscono al tempo stesso una spinta democratica su tutti i continenti e una espansione del mercato che diventa veramente mondiale sotto l’egida del liberalismo economico; il capitalismo trova nuova energia in una favolosa espansione informatica, l’economia di mercato invade tutti i settori dell’umano, della vita, della natura; correlativamente, la mondializzazione delle reti di comunicazione istantanea (telefono portatile, fax, Internet) dinamizza il mercato mondiale e ne è dinamizzato. Dunque, la mondializzazione degli anni Novanta opera una mondializzazione tecnoeconomica nel mentre che favorisce un’altra mondializzazione, certo incompiuta e vulnerabile, a carattere umanista e democratico, che risulta contrastata dalle sequele dei colonialismi, dall’handicap di gravi ineguaglianze nonché dallo scatenamento del profitto16.

16. E. Morin, Al di là della globalizzazione e dello sviluppo: società-mondo o impero mondo?, «Mauss#2», 2004, pp. 3-4.

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Con la liberalizzazione dei mercati mondiali, il capitalismo acquisisce nuovo vigore anche grazie al supporto della tecnologia che progressivamente si diffonde e modifica gli stili di vita degli individui. Nessuno è immune da tali trasformazioni, sebbene, è necessario puntualizzare, diverse sono le ragioni per cui ci si sposta – Bauman ha scelto le metafore del nomade versus turista –, così come differente è la diffusione delle nuove tecnologie comunicative sul territorio mondiale. Un fenomeno, quest’ultimo, che prende il nome di digital divide. Ancora una volta torna il tema delle disuguaglianze sociali, delle appartenenze/ non appartenenze/pluri-appartenenze territoriali – spesso designate con il neologismo robertsoniano di “glocalizzazione”17 –, dello sradicamento/ri-radicamento culturale, del rispetto/non rispetto dei diritti umani, degli effetti che la logica del dominio ha prodotto su scala globale. A ridisegnarsi sono gli stessi confini, che divengono sempre più virtuali. Come ha sottolineato più volte Giddens18, progressivamente lo spazio ha la meglio sul tempo; il tempo si “azzera” e lo spazio viene colonizzato dalla tecnologia. Interconnessioni globali, ovvero Internet – la rete delle reti per definizione – rendono possibili sia movimenti e transazioni di capitali economici, sia la comunicazione tra persone non compresenti fisicamente. Sul versante antropologico, si parla pertanto di quella che Beck ha definito “globalizzazione delle biografie”, di crescente complessificazione dei percorsi biografici19, in cui «i contrasti e le contraddizioni di continenti, culture, religioni – terzo e primo mondo, buco dell’ozono e mucca pazza, riforma delle pensioni e il crescente discredito dei partiti – hanno luogo nella nostra vita, che non è più isolabile. Il globale non incombe minaccioso là fuori esso irrompe e si manifesta nello spazio personalissimo

17. Cfr. R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, tr. it. Trieste 1999. 18. Cfr. A. Giddens, Le conseguenze della modernità, tr. it. Bologna 1994. 19. Cfr. F. Introini-C. Pasqualini, Compless-età. Dentro le storie degli adulti giovani, Roma 2005.

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della nostra vita. Ancora di più rappresenta una buona parte dei tratti caratteristici della nostra vita»20. Tuttavia, nella partita della globalizzazione, gli attori sociali non hanno uguali possibilità, non hanno modo di giocare ad armi pari, le stesse risorse da investire, le medesime chance. In ultima analisi, a giocare sono in pochi e quei pochi dettano anche le regole del gioco, che li riconferma, secondo una logica ricorsiva perversa, sempre vincitori. Il gioco è truccato e a vincere sono sempre gli stessi. Di qui l’idea di impero-mondo, ovvero di un sistema in cui l’economia è in mano alle superpotenze economiche transnazionali che, in assenza di un organo politico altrettanto transnazionale, dispone senza chiedere, decide senza confrontarsi, agisce senza tener conto della legittimità e talvolta eticità delle proprie pratiche. Un’esemplificazione emblematica di quanto detto è lo sfruttamento del lavoro minorile nei Paesi in via di sviluppo da parte di alcune delle più note multinazionali. Se dunque la logica dell’impero mondo sembra essere ancora una volta quella del dominio e dello sfruttamento, quella dei «ricchi sempre più ricchi e dei poveri sempre più poveri»21, quella dell’inarrestabile gap tra Paesi “super” e “sottosviluppati”, non possiamo non riconoscere la portata, che Morin definisce ancora “timida”, della controcorrente, ovvero della seconda globalizzazione, che, proprio a partire dagli anni Novanta del XX secolo, ha assunto maggiore visibilità su scala mondiale e soprattutto capacità di intervento. Questi due differenti tipi di globalizzazione perseguono obiettivi e strategie alquanto distanti tra loro: La mondializzazione tecnoeconomica è istituzionalizzata, ben organizzata, animata da un pensiero più o meno omogeneo detto “unico”. L’altra mondializzazione eredita delle correnti molto di20. U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, tr. it. Roma 1999, p. 96. 21. Cfr. C. Pasqualini, Globalizzazione e nuove povertà in Italia, «InOltre», 8, 2005(VII), pp. 25-37.

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verse e si scontra inevitabilmente con delle difficoltà di organizzazione. Rischia la disgregazione sotto l’influsso di spinte contraddittorie e la deviazione sotto l’effetto di illusioni semplificatrici. La prima è animata dal cupo pensiero tecnocratico, con il suo accecamento a tutto ciò che sfugge al calcolo, e che non ha altra finalità che lo sviluppo tecnoeconomico stesso. La seconda, alimentata dalle ricche correnti emancipatrici del passato: umanesimo, democrazia, socialismo, porta in sé l’aspirazione a un mondo migliore. […] Così vediamo sempre meglio che ci sono due mondializzazioni in una, l’una che è principalmente tecnica ed economica, fondata sul profitto, l’altra nella quale si è delineata una coscienza di appartenenza a una patria terrestre e che prepara una cittadinanza planetaria22.

Ecco allora che nell’ultimo decennio del XX secolo, accanto all’incessante impegno delle organizzazioni storiche di cui si è detto sopra, si è assistito al sorgere di un vero e proprio movimento di “altra mondializzazione” – per taluni di anti-globalizzazione – che ha visto nel 2001 partecipare al primo World Social Forum a Porto Alegre migliaia di persone radunate dalla comune consapevolezza, per taluni critici ingenua e utopistica, che “un altro mondo è possibile” e che “il mondo non è una merce”. A detta di Morin, Porto Alegre rappresenta una tappa importante nella seconda mondializzazione: Negli scontri simultanei di Davos e di Porto Alegre nel 2001, ci fu un faccia a faccia tra le due mondializzazioni, la prima che sceglie di organizzare una società sulla base dell’economia, e la seconda che parte dall’idea che il mondo non è una merce. Manca sempre la conclusione logica: se non è una merce, deve essere una patria comune23.

22. E. Morin, Il Metodo 5. L’identità umana, tr. it. Milano 2002, pp. 220221. 23. Ivi, p. 220.

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Di particolare rilevanza è anche l’iniziativa promossa sempre nel 2001 nei circuiti dell’Unesco, che ha dato vita a una “rete delle reti della società civile mondiale” che prende il nome di Ubuntu, parola africana che designa proprio l’umanità. Scopo di questa rete è discutere della democraticità dei sistemi di governo internazionali, disponendo una possibile e auspicabile politica di riforma di questi ultimi. Noto è l’impegno di Edgar Morin all’Unesco per quanto concerne le attività di riforma della formazione e dei sistemi sociali che ad essa presiedono, così come il suo ruolo di educatore alla realizzazione di una “società civile mondiale”, di una “cittadinanza terrestre”, di una coscienza planetaria all’interno della quale ogni individuo possa cominciare a sentirsi parte di una sola società-mondo – contrapposta all’impero-mondo – secondo la logica dell’emancipazione, della tutela dei diritti umani, della democrazia cognitiva24 e di un nuovo umanesimo. Sebbene se ne ravvisi una evidente necessità, il progetto moriniano di “cittadinanza terrestre” così come di “società-mondo”, ancora oggi, a causa delle logiche di dominio imperanti, stenta a decollare. Insicurezza, rischio e paura globale: questi sono i “sentimenti” più ricorrenti nella società contemporanea. Se i conflitti mondiali del XX secolo hanno unito l’umanità nel segno della morte, la bomba atomica di Hiroshima rappresenta l’ingresso della Storia in una fase dell’era planetaria che Morin definisce efficacemente come “damoclea”. Non solo: alla paura globalizzata per le armi di distruzione di massa, capaci di annientare la specie umana, così come per i disastri ecologici a cui stiamo andando incontro in seguito alle preoccupanti condizioni della Biosfera – di cui siamo ancora una volta responsabili – si aggiunge la paura per il terrorismo internazionale. Di qui, l’11 settembre 2001, a partire dalla distruzione dei grattacieli di Manhattan, non ha fatto altro che riaccendere il sentimento di minaccia planetaria. La violenza terroristica, che 24. Sul concetto moriniano di democrazia cognitiva, cfr. G. Bocchi-M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Milano 2004.

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ha segnato la vita degli americani prima, così come quella degli spagnoli e londinesi pochi anni dopo, ha fatto scoprire al mondo intero l’esistenza di una rete clandestina politico-religiosa, le cui diramazioni, complici ancora una volta le nuove tecnologie comunicative, sono oramai presenti in tutti i Paesi. In realtà, negli eventi dell’11 settembre è racchiuso un profondo quanto esplicito messaggio simbolico. Le due torri americane erano il simbolo indiscusso della potenza finanziaria e del liberalismo mondiale; per cui chi ha voluto la loro distruzione, la distruzione di un’architettura con valenze simboliche così esplicite voleva colpire il cervello di un sistema, un tipo di economia, una forma di globalizzazione: l’impero-mondo. In questo caso, la liaison tra architettura e immagine del sistema sono molto evidenti e si è scelto di distruggere l’una per distruggere l’altra. Come fa osservare Baudrillard: Quello che è stato distrutto è uno degli edifici più prestigiosi di New York, e una certa architettura è stata colpita insieme a tutto un sistema di valori occidentale, e a un ordine del mondo. Dunque, non è superfluo cominciare con un’analisi storica e architettonica delle Twin Towers per cogliere il significato simbolico della loro distruzione. […] New York è la sola città al mondo a rappresentare così, nel corso della sua storia, con una fedeltà prodigiosa, la forma attuale del sistema e tutte le sue peripezie. Dunque bisogna supporre che il crollo delle torri – evento esso stesso unico nella storia delle città moderne – prefiguri una forma di conclusione drammatica, o, per parlare più chiaramente, di scomparsa, al tempo stesso di questa forma di architettura e del sistema mondiale che essa incarna. […] La violenza del globale passa anche attraverso l’architettura e dunque la contestazione violenta di questa mondializzazione passa anche attraverso la distruzione di questa architettura25.

25. J. Baudrillard, La violenza del globale, in J. Baudrillard-E. Morin, La violenza del mondo. La situazione dopo l’11 settembre, cit., p. 13-16.

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Se la riflessione delle scienze sociali ha insistito, in questi ultimi anni, a riconoscere la dinamica multidimensionale del processo di globalizzazione in opposizione a quanti ne riducevano le analisi alla sola sfera economica – si veda in proposito la distinzione operata da Beck tra globalizzazione e globalismodobbiamo registrate come, nei fatti, si sia andati proprio in questa seconda direzione, contrastando direttamente un modello economico piuttosto che un modello politico. In questo senso, per i gruppi terroristici il mancato colpo sulla Casa Bianca non ha assolutamente inficiato né sminuito la portata della catastrofe da essi causata. Il World Trade Center non era infatti solo il bersaglio più coerente con la loro idea di lotta all’Occidente, ma anche l’incarnazione simbolica di quello che in questo momento, nel mondo intero, è il vero potere: «Quando hanno mancato l’obiettivo Casa Bianca, essi hanno mostrato involontariamente che non era quello il bersaglio essenziale, che il potere politico in fondo non significava più gran che e che la potenza era altrove»26. Di qui una riflessione: mondializzazione dell’economia non equivale a sviluppo uniforme su tutto il globo. Se è vero che il mondo non è una merce, è ancora più vero che non tutti possono godere di questa merce in egual misura. Se le disuguaglianze sociali, che hanno alla base il più delle volte disparità economiche, sono il motore di conflitti non solo all’interno della stessa civiltà ma anche tra civiltà diverse, quale è il ruolo della politica in tutto ciò? Detto in altri termini: qual è il ruolo della politica e delle sue istituzioni oggi? Anche alla luce delle trasformazioni che hanno interessato gli Stati-nazione in seguito ai processi di globalizzazione, qual è lo spazio della politica a livello internazionale per quanto concerne, nel nostro specifico caso, la tutela dei diritti umani e la sicurezza degli individui? Ancora: come è possibile far fronte alla violenza del mondo? È sufficiente una world policy oppure ha più senso pensare a una world politics?

26. Ivi, p. 19.

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Una prima risposta trova un nesso evidente nei fatti dell’11 settembre 2001, in quanto quella che si è venuta a creare è una «società sotto assedio»27, per parafrasare il titolo di una recente pubblicazione di Bauman, una società militare in cui il nemico è ovunque e in nessun luogo, in cui gli stessi cittadini paranoicamente sentono in pericolo la propria vita. Su questa questione si interroga Morin, secondo il quale a una world policy andrebbe affiancata una world politics, una politica globale, che faccia gli interessi di tutti i cittadini, che garantisca i diritti di tutta l’umanità. Una politica globale, che egli definisce “politica di civiltà”, ovvero una politica in cui la componente antropologica, ovvero la complessa condizione umana, risulti essere al centro della sua attenzione. A tutt’oggi questa politica mondiale non ha ancora iniziato un significativo processo di consolidamento, e ancor meno si scorgono le tracce di una politica di civiltà, che appare ancor più necessaria se solo si fa riferimento alle tante voci – si pensi a Huntington – che si levano per denunciare l’avvento di veri e propri conflitti di civiltà28. Di qui allora la necessità di prendere in rassegna la proposta moriniana di una politica di civiltà.

3. Tre parole chiave nella proposta moriniana: politica, uomo e civiltà Già a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, nel volume L’uomo e la morte29, Morin aveva iniziato a riflettere sulla questione antropologica, ovvero sulla condizione intrinsecamente naturale quanto culturale e sociale dell’uomo. Riflessioni che saranno riprese e articolate, secondo il metodo della complessità da lui elaborato negli anni Settanta, nel volume Il paradigma 27. Cfr. Z. Bauman, La società sotto assedio, tr. it. Roma-Bari, 2003. 28. Cfr. S.-P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, tr. it. Milano 1997. 29. Cfr. E. Morin, L’uomo e la morte, tr. it. Roma 1980.

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perduto30. Entrambi gli scritti menzionati contengono in nuce un messaggio antropologico-politico, che sarà sviluppato e chiarito in tutte le sue declinazioni in due opere successive – Introduzione a una politica dell’uomo31 e Una politica di civiltà32 –, dove il più ampio dibattito può essere sintetizzato con tre parole chiave: politica, uomo, civiltà. Prendendo allora le mosse dallo studio della politica contemporanea, Morin effettua un’analisi della fenomenologia con cui si manifesta e un’eziologia delle cause che l’hanno provocata. La politica contemporanea è stata frantumata, ridotta in “briciole”, divenendo così incapace di elaborare un progetto antropolitico, che abbia cioè come proprio centro l’essere umano nella sua globalità. Le ragioni di questa crisi sono molteplici. Da un lato, a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, in virtù dei processi di subpoliticizzazione della scienza e della tecnica, lo spettro delle questioni che hanno assunto peso e pertinenza politica si è notevolmente ampliato, estendendosi spesso ben al di là delle competenze della stessa politica politicante che di conseguenza fatica a comprenderne il senso e mantenerne il controllo. Di qui la sua ulteriore abdicazione a svolgere il proprio compito, a favore dei sistemi esperti e tecnici che sono subentrati ad essa: E dunque, sì, in un certo senso la politica è in briciole. Ma se la politica subisce un inarrestabile processo di autosvuotamento, accade perché poco a poco tutto è ad essa ricondotto. La politica è in discussione perché ogni questione diventa politica: le questioni fondamentali della filosofia, i grandi problemi della morale. Nella politica si riversano i multiformi elementi che compongono la vita dell’uomo nella società, nel tempo e nell’universo: realtà che gonfiano e dilatano le politiche a noi note, quelle che sono state

30. Cfr. E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, tr. it. Milano 1974. 31. Cfr. E. Morin, Introduzione a una politica dell’uomo, tr. it. Roma 2000. 32. Cfr. E. Morin-S. Naïr, Una politica di civiltà, cit.

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attivamente concepite, sino a renderle informi, tumefatte; sino a farle esplodere, riducendole in briciole33.

Quali sono allora le problematiche e i settori di cui si è fatta carico la politica in questi ultimi decenni, che hanno fatto crescere tanto il suo raggio d’azione da produrne la frammentazione e la specializzazione? Ancora, quali sono i principali esiti della frammentazione politica? Infine, di che cosa necessita oggi la politica per riappropriarsi della sua funzione originaria, ovvero dell’arte di governare? Proviamo allora a rispondere. Innanzitutto, la politica si è fatta carico dell’economia: sebbene nel corso del XX secolo si sia assistito a un crescente processo di liberalizzazione da parte di quest’ultima, la politica si è occupata principalmente dell’orientamento e dello stimolo della crescita economica. In secondo luogo, la politica si è accollata i problemi e i bisogni sociali nella forma più evidente ed esplicita del Welfare State. Non solo, la politica si è interessata, soprattutto nelle nuove nazioni, dello sviluppo, inteso come miglioramento economico, sociale e culturale. Da ultimo, la politica ha affrontato i problemi e le necessità vitali e quindi biologiche riguardanti la specie umana, come ad esempio la fame nel mondo, i tassi demografici, le delicate questioni inerenti la riproduzione (contraccezione e aborto) e il concepimento (inseminazione artificiale, ecc.), così come l’eutanasia e la donazione di organi. È evidente allora che la politica ha dovuto farsi carico nell’arco di alcuni decenni di problemi sino ad allora inimmaginabili, come ad esempio la possibilità di annientamento dell’intera specie umana per mano del nucleare. Di qui, afferma Morin: Sebbene oggi si debba ricusare ogni salvezza per mezzo della politica, quest’ultima deve tuttavia farsi carico della salvaguardia e del destino dell’umanità. Vi è dunque, una politicizzazione di ciò che era

33. E. Morin, Introduzione a una politica dell’uomo, cit., p. 9.

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infra, extra, sovrapolitico, compresa la vita e la morte del mondo della vita34.

Qual è allora il destino della politica? Potremmo dire, in qualche misura, che il progressivo complessificarsi del sociale pone la politica di fronte a una duplice opzione: da un lato considerare ogni problema come politico e quindi di sua competenza tendendo al “totalitarismo”, alla “pan-politica”, oppure frammentarsi nei diversi ambiti producendo una sorta di depoliticizzazione della politica stessa. In questa seconda accezione, la politica in briciole subisce la colonizzazione della tecnica e dell’economia, producendo un regresso democratico, ovvero espropriando i cittadini della conoscenza di questioni di centrale importanza. Lo stesso linguaggio della politica diviene specialistico, spesso incomprensibile per i non addetti ai lavori, tanto che Morin ravvisa l’esigenza di una democrazia cognitiva, ovvero di una riappropriazione cognitiva e comprensiva da parte dei cittadini delle questioni trattate dagli specialisti della politica. Ecco allora che tra la politica “totalitaria” e la politica depoliticizzata, Morin individua la missione della politica contemporanea: Ora, tra il Cariddi della politica totale, e lo Scilla della politica depoliticizzata, vi è la nuova missione, grandiosa e terrificante, della politica: indossare la multidimensionalità delle realtà antroposociali e farsi carico del destino storico dell’umanità35.

Per far fronte a questa importante missione, la politica ha bisogno di riformarsi, passando attraverso tipi diversi di rifondazioni: la riforma del pensiero; la rifondazione antropologico-politica; la rifondazione antropo-planetaria; la rifondazione politica: l’antropolitica. Qui di seguito prenderemo in rassegna i diversi tipi di riforma e rifondazione individuati da Edgar Morin:

34. E. Morin-S. Naïr, Una politica di civiltà, cit., p. 23. 35. Ibidem.

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a. Coerentemente con il suo impianto epistemologico, Morin afferma che, innanzitutto, la rifondazione politica necessita di una riforma del pensiero, intesa come capacità di concepire insieme i problemi locali e i problemi globali, capacità di interconnettere le conoscenze piuttosto che perpetuarne la divisione specialistica che impedisce il loro raccordo, indispensabile, invece, per la comprensione dei fenomeni complessi. A un pensiero riduzionista, chiuso e parcellizzante, Morin contrappone un pensiero aperto, reticolare, interconnesso e appunto complesso. Da parte sua, la politica necessita, più di altri ambiti, di un pensiero complesso, proprio perché una delle sue possibili derive sembra essere proprio quella della frammentazione, della inarrestabile colonizzazione da parte dei sistemi economico e tecnico-scientifico, peraltro da tempo in forte reciproca sinergia. Da qui scaturisce il progressivo allontanamento dei cittadini dalla reale comprensione dei problemi che li riguardano sicuramente da vicino in quanto cittadini. Questi ultimi sono spesso espropriati della possibilità democratica di comprendere e di prendere una posizione consapevole e responsabile nei confronti di alcuni problemi. Nel corso della sua produzione scientifica e intellettuale, Morin ha più volte sottolineato che: Non abbiamo bisogno né di un pensiero parcellare o riduzionistico, incapace di vedere il contesto e la globalità, né di un pensiero globale e vuoto. Abbiamo bisogno di un pensiero che consideri le parti nelle loro relazioni con il tutto e il tutto nelle sue relazioni con le parti. Un tale pensiero evita sia di cogliere soltanto un frammento chiuso d’umanità dimenticando la mondialità, sia di cogliere soltanto una mondialità priva di complessità. La riforma di pensiero è dunque necessaria per contestualizzare, situare, globalizzare e anche per tentare di stabilire un meta-punto di vista che, senza sottrarci alla nostra particolare condizione locale-temporale-culturale, ci permetta di considerare il nostro sito antropoplanetario come dall’alto di un’altana36.

36. Ivi, pp. 26-27.

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b. Per quanto concerne la rifondazione antropologico-politica è necessario, afferma Morin, «reintrodurre l’essere umano come mezzo, fine, oggetto e soggetto della politica»37. La proposta antropologica moriniana consiste appunto nel considerare l’essere umano nella sua multidimensionalità, nelle sue molteplici identità, in quanto Homo non è solo Sapiens, faber, oeconomicus e prosaicus, ma anche demens, ludens, consumans e poeticus38. Nell’ottica di un’antropologia complessa, l’identità umana deve essere concepita necessariamente come l’insieme di componenti differenti, “contrapposte”, ma comunque interrelate e compresenti. Inoltre, Homo è la sintesi, ancora una volta complessa e dinamica, del suo radicamento cosmico, biologico, storico, culturale e sociale, a cui possiamo aggiungere, quello planetario. Se questa è la natura di Homo, è importante, pertanto, introdurre questa antropologia complessa nel pensiero politico, che sembra ancora esserne sprovvisto: È questa antropologia complessa che bisogna introdurre nel pensiero politico: per quest’ultimo o l’uomo è cattivo, e bisogna disciplinarlo attraverso le leggi e gli obblighi sociologici, oppure è buono e si tratta di liberare la sua bontà naturale. L’essere umano ha in sé le straordinarie potenzialità del peggio e del meglio, del dominatore e del servile, del mediocre e del sublime, del delirio e della razionalità, dell’incoscienza, della falsa coscienza e della coscienza autoesaminatrice e autocritica39.

c. Accanto a una rifondazione antropologica si colloca la rifondazione antropo-planetaria, per le ragioni che sono già state in parte descritte sopra, ovvero per il radicamento dell’identità umana non solo in una specie, in una cultura e in una società ma anche in un pianeta, che a sua volta si posiziona nell’universo 37. Ivi, p. 27. 38. Per maggiori riferimenti, cfr. E. Morin, Il Metodo 5. L’identità umana, cit. Sul tema si veda anche: E. Morin-C. Pasqualini, Io, Edgar Morin. Una Storia di vita, Milano 2007. 39. E. Morin-S. Naïr, Una politica di civiltà, cit., p. 28.

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più ampio. Reintrodurre l’uomo nel pianeta è necessario e urgente per molteplici ragioni che si fanno sempre più evidenti. È necessario, pertanto, che la specie umana maturi la coscienza di essere figlia e di abitare la Terra, che non è una cosa altra rispetto ad essa, ma è una Terra-Patria40, e per questo va rispettata e preservata. Di qui la proposta moriniana di una coscienza planetaria, dell’impellente bisogno da parte dell’umanità di comprendere la comune appartenenza a uno stesso destino, quello della perdizione41. Una comunità di destino, che dovrà maturare una maggiore sensibilità, senso di attaccamento e di rispetto nei confronti della Biosfera, che non risparmierà nessuno, se continueremo di questo passo. In questo senso, va ripensata anche la stessa idea di progresso e lo stesso rapporto tra uomo e natura, che non è più concepibile come supremazia e sfruttamento indiscriminato e selvaggio dell’uno nei confronti dell’altra. Alla luce di queste considerazioni, ha senso reintrodurre l’uomo nel Pianeta così come il Pianeta nella politica. La politica dovrà infatti farsi carico delle problematiche antropologiche ma anche planetarie, dovrà preoccuparsi della relazione complessa tra Homo e Natura, imparando a pensare congiuntamente il destino dell’umanità e il destino della Terra. Inoltre, la politica dovrà sviluppare un pensiero globale, dovrà essere capace di pensare l’umanità nelle sue interconnessioni planetarie, perché, come abbiamo visto, il processo di mondializzazione ha conosciuto in questi ultimi decenni una significativa accelerazione, ponendo nuove domande e nuove sfide alla politica stessa che deve essere capace di gestire questo nuovo stato di cose, questa crescente complessità delle relazioni umane, economiche e culturali. Proprio perché la mondializzazione non è esente da scontri tra

40. Cfr. E. Morin-A.B. Kern, Terra-Patria, tr. it. Milano 1994. 41. Nel volume Terra-Patria [1994], Morin parla di Vangelo della perdizione. Se siamo figli di questa Terra e il nostro destino è comune, a maggior ragione dobbiamo imparare a rispettarci gli uni gli altri e a salvaguardare la vita del nostro Pianeta. Siamo tutti esposti agli stessi rischi (nucleari, ecologici, terroristici) e per questo siamo una comunità di destino.

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civiltà, occorrerà una ripensamento della politica e delle sue istituzioni, una politica internazionale appunto. d. Arriviamo così alla rifondazione politica, ovvero all’antropolitica, che può edificarsi sulla già citata rifondazione antropologica e su un pensiero planetario. L’antropolitica dovrà tenere presente che la Storia è un’avventura ignota, che non procede quindi deterministicamente, che il futuro è aperto ma anche agonico, e che quindi è in suo potere agire secondo un paradigma di complessità che predilige la strategia al programma42. Vista la centralità antropologica colta nel suo divenire e in relazione al suo contesto storico, sociale, culturale e planetario, l’antropolitica avrà pertanto come fine principale e specifico quello di sviluppare una politica di civiltà. L’espressione politica di civiltà – elaborata da Morin negli anni Ottanta del XX secolo, a partire dalle riflessioni già sviluppate nell’opera Introduzione a una politica dell’uomo – «vuole essere una politica multidimensionale in cui a tutti i problemi umani venga riconosciuta una dimensione politica»43. L’idea di politica di civiltà non è nuova, ma quella proposta da Morin è assolutamente critica e riformata. Come è noto, ricalcando i valori che avevano ispirato la Rivoluzione Francese, il socialismo aveva proposto una politica di civiltà, con l’intento di eliminare le barbarie dai rapporti umani44. Sebbene votato alla creazione di solidarietà nella società, in parte realizzata per mezzo del Welfare State, il socialismo non è riuscito a impedire la dilagante frammentazione sociale, tratto distintivo dei tempi moderni. Da attento sociologo oltre che storico delle trasformazioni sociali e politiche, Morin scrive:

42. Per approfondimenti, cfr. F. Introini-C. Pasqualini, Aprirsi all’inatteso. La sorpresa in Michel de Certeau e Edgar Morin, in G. Gasparini (a cura di), Le piccole cose. Interstizi e teoria della vita quotidiana, Milano 2004, pp. 67-98 43. E. Morin-S. Naïr, Una politica di civiltà, cit., p. 122. 44. Cfr. E. Morin, Cultura e barbarie europee, cit.

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Il socialismo si era votato alla democratizzazione dell’intero tessuto della vita sociale; la sua versione “sovietica” ha soppresso tutte le espressioni di democrazia e la sua versione socialdemocratica non ha saputo impedire quei regressi democratici che, per ragioni diverse, corrodono dall’interno la nostra civiltà. Questo progetto di politica di civiltà, che era il progetto iniziale del socialismo, si è dunque trovato o tradito o sovvertito o sfaldato45.

Tuttavia, se questo era il progetto originario del socialismo nel secolo scorso, la politica di civiltà proposta da Morin, pur riprendendo i valori di libertà, uguaglianza e fraternità, riconosce, meno ingenuamente e più criticamente, la difficoltà antropologica e sociologica di tale progetto. La politica di civiltà aspira a una maggiore vita comunitaria, non solo quindi a un incremento delle relazioni tra gli uomini su scala planetaria, ma anche a un miglioramento della qualità delle relazioni stesse. Con questo Morin non vuole dissolvere la politica intera nella politica di civiltà. I problemi “classici” permangono e non si può pensare di escluderli, ma quanto meno questo tipo di politica è capace di interconnettere questioni diverse. Non solo, nel suo progetto di politica di civiltà, Morin individua tre diversi imperativi, che sono: «– solidarizzare (contro l’atomizzazione e la compartimentazione); – ritornare alle origini (contro l’anonimizzazione); – moralizzare (contro l’irresponsabilità e l’egocentrismo)»46. In ultima analisi, l’imperativo della solidarietà appare di centrale importanza nell’impianto teorico moriniano in quanto, paradossalmente, una società può aumentare in complessità solo se aumenta in solidarietà. Laddove si sviluppa tra gli individui una solidarietà vera, si avrà al contempo garanzia di libertà e di complessità47. Se complessità e frammentazione non possono coesistere, dal momento che complessità significa tessere insieme, fenomenologicamente non possiamo non osservare che, in definitiva, 45. E. Morin-S. Naïr, Una politica di civiltà, cit., p. 123. 46. Ivi, p. 124. 47. Cfr. E. Morin, Il Metodo 6. Etica, cit.

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la società contemporanea è indiscutibilmente complessa, ipercomplessa, sempre più complessa48, un’alternanza dinamica di ordine e disordine, di locale e globale, di logiche di dominio e logiche di emancipazione. Di qui allora la speranza che essa, oltre in complessità, possa aumentare anche in solidarietà. Possiamo allora concludere, ricordando come proprio l’etica della “relianza” e della comprensione siano in qualche misura le due sfide che Morin affida all’umanità per crescere in complessità e in solidarietà.

48. Cfr. F. Introini-C. Pasqualini, Compless-età, Roma 2005.

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Cristina Pasqualini

C. Pasqualini, Adolescenti nella società complessa, prefazione di E. Morin, Milano 2005. C. Pasqualini, Complessità e identità umana. L’uomo Morin-l’uomo di Morin, in A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, Urbino 2005, pp. 249-284. C. Pasqualini, Complessità, narrazione e agire quotidiano. Morin secondo Morin, in A. De Simone-F. D’Andrea (a cura di), La vita che c’è. Teorie dell’agire quotidiano, vol. I, Milano 2006, pp. 211-246. C. Pasqualini, Globalizzazione e nuove povertà in Italia, «InOltre», 8, 2005(VII), pp. 25-37. C. Pasqualini, Soggettività, interazione e orientamenti normativi nella società globale, «Studi e Ricerche», 11-12, gennaio-dicembre, 2003, pp. 131-176. R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, tr. it. Trieste 1999. A.K. Sen, Identità e violenza, tr. it. Roma-Bari 2006. S. Tomelleri, La società del risentimento, prefazione di R. Girard, Roma 2004.

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Parte V.

Diritti, giustizia, differenze

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Antropologia e filosofia politica della globalizzazione

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Margaret Bourke-White, Bread Line during the Louisville flood, Kentucky, 1937.

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Giacomo Marramao

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Passato e futuro dei Diritti Umani. Dall’“ordine posthobbesiano” al cosmopolitismo della differenzaI

1.

Il mio contributo avrà un’andatura non sistematica e si orienterà lungo una linea di medio raggio, muovendosi tra l’astrazione giuridico-politica e la storia effettuale. Ritengo che il confronto con la dinamica storica rappresenti una polarità essenziale per venire a capo di una serie di problemi riguardanti tanto la genesi e struttura della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 quanto la sua proiezione sugli sviluppi futuri, di fronte alle nuove sfide dell’èra globale. La tesi da cui parto è che – malgrado il carattere per certi versi datato, per altri culturalmente pregiudicato di alcune formulazioni – il testo della Dichiarazione rappresenta un decisivo turning point, che propongo di compendiare nella formula della “deterritorializzazione del diritto”. Questa espressione, da me introdotta nel recente dibattito filosofico attraverso una serie di confronti con Jürgen Habermas, Alain Touraine, Étienne Balibar e altri, ha un puntuale ancoraggio in quanto viene recitato dall’art. 6 della Dichiarazione Universale: «ogni individuo ha diritto in ogni luogo» – quindi indipendentemente dal contesto dello Stato territoriale sovrano in cui si trova – «al riconoscimento della sua personalità giuridica». Per altro verso, la Dichiarazione

I. Il presente testo riproduce, con pochi interventi formali, la relazione orale tenuta dall’autore al Convegno di studi “La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (10 dicembre 1948). Nascita, declino e nuovi sviluppi”, organizzato dalla Fondazione Basso presso la Biblioteca del Senato della Repubblica (Roma, 15 giugno 2005).

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del ’48 reca in sé un elemento dinamico che trova la sua espressione più incisiva nell’art. 28, che recita: «ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati». Si tratta di un passaggio molto importante, dal momento che l’implementazione, ossia la proiezione verso una dinamica di realizzazione storica, dei princìpi contenuti nel testo viene non semplicemente posta come problema, bensì enunciata come diritto. Ma vi è di più. Da questa proiezione “infuturante” dei diritti affermati nella Dichiarazione vediamo oggi emergere prepotentemente un tema quanto mai scottante: l’incompatibilità tra diritti umani e guerra (fatta salva la clausola della legittima difesa e delle sue interpretazioni, sulle quali ritornerò più avanti). Lo sfondo generale è dato in ogni caso dalla pesante ipoteca a un’effettiva universalizzazione dei diritti umani posta dall’“ideologia occidentale”: dall’assunto, cioè, che la Ragione dell’Occidente costituisca l’autentica matrice e culla della Libertà e l’esclusivo pattern dell’universalismo, a fronte del “particolarismo” e “localismo” delle altre civiltà. Come ha notato Norberto Bobbio in un suo memorabile scritto, da Erodoto in poi la nostra grammatica della politica è abituata a lavorare con un operatore fondamentale: l’opposizione tra Occidente libero e Oriente dispotico. E ciò ha avuto una ricaduta pesante sul nostro modo di intendere e applicare la celebre tipologia tripartita delle forme di governo: per la semplice ragione che, stando all’antitesi di Occidente e Oriente, “europei” (termine che nelle Storie di Erodoto funge da sinonimo di Greci) e “barbari”, la tirannide si configura come una forma di governo illegittima perché esercitata su un popolo di individui liberi, laddove, invece, il dispotismo si configura come una forma di governo legittima perché esercitata su una massa di non-liberi. Dal momento che uno dei temi fondamentali ai quali dovrò approdare, sia pure per brevi e rapsodici cenni, è quello della critica postcoloniale, dirò subito, per affacciare la questione, che questo tema trova una perfetta rispondenza in una catego-

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ria che è all’origine di quella critica: la categoria di “orientalismo” di Edward Said. Secondo Said, l’orientalismo non è altro che l’effetto della proiezione stereotipica sui popoli extraoccidentali del costrutto logico etnocentrico soggiacente all’endiadi Oriente-Occidente. Questo tema era stato già affrontato, con un apparato categoriale prettamente filosofico, da un pensatore europeo della crisi che, nei miei lavori, ho deliberatamente giocato in contrapposizione a Heidegger: Karl Jaspers. Si tratta di un autore rilevante, con il quale, del resto, lo stesso Bobbio si era confrontato in anni giovanili. In un testo sul concetto di storia apparso nell’immediato dopoguerra (e adoperato da diversi sociologi comparatisti per la celebre tesi dell’“età assiale”), Jaspers aveva a chiare note argomentato, anticipando di diversi decenni la tesi di Said, che l’antitesi Oriente-Occidente è un dualismo interno all’Occidente, in tutto e per tutto funzionale alla sua dinamica di autoidentificazione simbolica: in nessuno dei popoli cosiddetti orientali troviamo alle origini tale dualismo e quindi l’autoidentificazione di se stessi come orientali. Solo con l’espandersi del colonialismo in età moderna assistiamo all’affiorare, in alcune aree culturali del continente asiatico, della tendenza ad appropriarsi di quello stereotipo rovesciandolo – secondo un tipico meccanismo di ritorsione – contro l’Occidente. Di qui l’atto di nascita della categoria di asian values, con cui le élite dei paesi del Sud-est asiatico intendono contrapporre l’ethos soggiacente al proprio modello di sviluppo economico ai valori occidentali. Un altro aspetto, che introduco a mo’ di scenario per chiarire il mio punto di vista, riguarda i passaggi fondamentali con i quali siamo oggi chiamati a misurarci per una riflessione critica sulla Dichiarazione Universale. Si tratta, in sostanza, di due passaggi cruciali: quello del 1999, segnato dall’introduzione del concetto di “guerra etica” – formula elegante per ripristinare contro Milosevic lo slogan legittimante del bellum iustum – e l’idea di “guerra preventiva”, introdotta dall’amministrazione Bush in seguito all’11 settembre. Quest’ultimo passaggio rappresenta, senza ombra di dubbio, una gravissima alterazione

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dell’intera tradizione moderna delle relazioni internazionali. La possibilità di intervenire preventivamente apre infatti la prospettiva di una decisione quanto mai arbitraria: poiché non coinvolge l’organizzazione internazionale, bensì soltanto quel singolo Stato, nella fattispecie gli Stati Uniti d’America, che si ritiene legittimato a intervenire militarmente anche in base al semplice sospetto di minaccia da parte di un nemico. Tutto ciò è legato a doppio filo al destino delle retoriche dell’universalismo (uso l’espressione in senso descrittivo e non assiologico) nel nuovo scenario generalmente definito con il termine “globalizzazione” – sebbene, a partire dal mio libro del 2003 Passaggio a Occidente, io preferisca designare questo sfondo con l’espressione “modernità-mondo”. 2. Lo scenario segnato dal passaggio dalla modernità-nazione alla modernità-mondo pone una serie di problemi nuovi. La prima questione cruciale che vediamo emergere è costituita dall’indeterminatezza semantica dell’aggettivo “umano”: termine-contenitore generico suscettibile di accogliere contenuti differenti sia in base ai periodi storici sia in relazione ai contesti culturali. Il secondo aspetto problematico è rappresentato dalla caratterizzazione sempre più nitida dell’“umano” come categoria polemogena: vale a dire, come spazio di controversia e terreno di conflitto. Alle origini dell’età moderna, con la “conquista dell’America”, vi fu in Europa una lunga serie di dispute teologiche, la cui materia del contendere consisteva nell’interrogativo se gli indigeni del nuovo continente avessero o non avessero diritto allo statuto di “umani”. Solo chi aderisca a una cieca veduta suprematistica può oggi rifiutarsi di vedere nell’idea europea di humanitas un (talora implicito, ma spesso drasticamente esplicito) dispositivo di inclusione/esclusione, la cui posta in gioco chiama inevitabilmente in causa sia diverse o talora opposte nomenclature dell’ordine, sia differenti modi di concepire e declinare lo stesso “universale giuridico”. Ed è appunto su questo terreno, ossia ai fini di una decostruzione e problematizzazione dell’universalismo europeo-occidentale, che appaiono

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Passato e futuro dei Diritti Umani

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ineludibili i temi messi in campo dalla critica postcoloniale. Ma prima di giungere a questo aspetto, vorrei prendere schematicamente in esame il modo in cui la componente maggioritaria della scienza giuridica europea ha rielaborato la vicenda della Dichiarazione Universale. Il racconto che farò ricomporrà a mosaico una serie di ricostruzioni retrospettive che la dottrina internazionalista ha fornito riguardo alla Dichiarazione del ’48. A partire dal XX secolo, i diritti vengono intesi come limiti allo stesso legislatore: essi divengono, in altri termini, princìpi costituzionali superiori, garantiti nei confronti del potere legislativo (non solo, dunque, di un potere autoritario) attraverso appositi organi per il controllo di legittimità delle leggi. Dalla metà del Novecento si ritiene inoltre che il contenuto dei diritti debba essere sottratto alla competenza dei singoli Stati sovrani attraverso il loro riconoscimento sul piano internazionale. Per tale via viene introdotto il concetto di tutela internazionale dei diritti individuali (come abbiamo visto nell’art. 6), oltre che dei diritti delle minoranze e dei popoli. Dopo la seconda guerra mondiale i cosiddetti diritti umani acquistano una rilevanza internazionale, fondata anche sullo stretto rapporto che viene a istituirsi tra diritti umani e democrazia. Qui naturalmente il riferimento deve essere prima alla Carta delle Nazioni Unite del 1945 e poi alla Dichiarazione Universale del ’48. Carta e Dichiarazione universale vengono intese dalla scienza giuridica europea, maggioritaria e democratica, come la fine dello stato di natura e l’inizio dello stato civile al livello della Comunità internazionale: con un riferimento – davvero degno di nota – allo scenario hobbesiano, che viene così assunto come punto di partenza per essere superato nella delineazione prospettica di quello che il politologo Philippe Schmitter, in anni a noi più vicini, avrebbe denominato “ordine posthobbesiano”. Di conseguenza, i diritti umani vengono accolti nelle proclamazioni universali e incorporati nelle costituzioni e nelle legislazioni nazionali. Abbiamo così un fenomeno molto importante, che definirei schematicamente fenomeno del nesso tra deterritorializzazione e riterritorializzazione

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del diritto. Vale a dire: il diritto che viene deterritorializzato negli enunciati della Dichiarazione Universale non può che riterritorializzarsi, proprio per poter conferire una qualifica autenticamente democratica ai singoli ordinamenti democratici nazionali. La Dichiarazione del ’48, pur rappresentando esclusivamente un ideale comune da raggiungere da parte di tutte le nazioni e come un accordo giuridicamente vincolante, non si è limitato a universalizzare l’idea dei diritti umani e ad averne promosso l’adozione da parte dei singoli Stati, ma ha altresì ascritto un valore transterritoriale tanto ai diritti civili e politici quanto a quelli economici e sociali – compendiati da Pietro Costa nella formula della «libertà dalla paura e dal bisogno» – e ha sancito i diritti spettanti alle minoranze e ai popoli, riconoscendo a questi ultimi il fondamentale diritto all’autodeterminazione. Sarebbe certo assurdo voler negare o sminuire lo sforzo compiuto dalle Nazioni Unite al fine di trasformare tali princìpi in ius cogens, vale a dire in norme giuridiche vincolanti: sia attraverso la promozione di patti – patti sui diritti civili e politici, per un verso, e sui diritti economico-sociali e culturali, per l’altro verso: dove – per inciso – la differenziazione tra i due patti pone un problema molto serio di divisione tra i due ambiti di diritti –, sia tramite dichiarazioni e convenzioni internazionali. E tuttavia, nonostante il valore di questo sforzo, rimane ancora aperto il problema della loro effettiva attuazione. Mentre nella Comunità Internazionale non si è ancora compiuto il processo di monopolizzazione della forza che consenta un’effettiva garanzia dei diritti, nelle società contemporanee assistiamo all’affiorare di rivendicazioni dei diritti di “terza generazione” – quale, ad esempio, il diritto a vivere in un ambiente sano e non inquinato (una rivendicazione che si pone in rotta di collisione, direbbe Stefano Rodotà, con il “terribile” diritto di proprietà) – e di “quarta generazione”, come il diritto all’integrità del patrimonio genetico. Tutto ciò sta a dimostrare che non solo le richieste dei diritti diventano più numerose, ma lo stesso ventaglio dei diritti si allarga quanto più una società si sviluppa e diviene una società complessa.

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Passato e futuro dei Diritti Umani

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3. Fin qui – schematicamente restituito – il racconto-resoconto della scienza giuridica sulla Dichiarazione del ’48. Ma, alla luce di esso, si rendono ora necessarie alcune considerazioni. Nei diversi modi di interpretare e “accogliere” l’eredità della Dichiarazione Universale vediamo in azione due poli che determinano tra loro un campo di tensione. Da una parte abbiamo il principio di eguaglianza, inteso come motore delle diverse trasformazioni dei contenuti dei diritti: l’eguaglianza che si incarna in contesti storico-culturali effettivi. Ma proprio in virtù di questo incarnarsi del principio di eguaglianza, assistiamo all’emergere di un’altra polarità, che non è in contrasto con la prima ma l’arricchisce e la complica: il principio di differenza, ovvero della specificità culturale come indicatore del mutare delle circostanze e dei contesti socio-antropologici in cui si produce la dinamica dei diritti. È del tutto evidente che questo campo di tensione pone un problema molto serio alla dogmatica giuridica continentale, rappresentata, nella sua estrema e al contempo più rigorosa espressione formale, dalla dottrina monistica di Hans Kelsen. Secondo Kelsen, l’unità dell’ordinamento giuridiconormativo, nell’èra dell’interdipendenza globale o della modernità-mondo, si manifesta nel primato del diritto internazionale: primato che fa degli individui e dei popoli dei veri e propri soggetti di diritto. Di qui la tendenza a porsi in una relazione di discontinuità radicale con il passato, invertendo una tradizione storica dominata dallo ius ad bellum in una nuova realtà (sancita dalla Dichiarazione Universale) dello ius contra bellum: di quel diritto che considera non solo moralmente illecita ma anche giuridicamente illegittima ogni forma di guerra, salvo la tutela collettiva e la legittima difesa. Sulle premesse teoriche di questa svolta – che, attraverso la categoria di civitas maxima, riprende e ridefinisce l’ideale cosmopolitico di Kant – sono stati acquisiti risultati importanti come il Tribunale Russell e il Tribunale Penale Internazionale per i crimini contro l’umanità. Sul medesimo scenario si è venuto però delineando, già a partire dai primi anni del dopoguerra, il revival del diritto naturale. Per addurre un esempio emblematico di tale fenome-

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no (dal carattere discontinuo, e tuttavia ricorrente), mi basterà qui menzionare la conversione al giusnaturalismo di un grande giurista come Gustav Radbruch. Non si deve dimenticare che Radbruch parlava della Dichiarazione Universale come di una reminiscenza giusnaturalistica, in quanto affermante un diritto superlegale rispetto al quale il diritto positivo poteva rappresentare una “ingiustizia legale”. Né si può certo negare la drammaticità (non solo teorica) del problema posto con esemplare rigore da Radbruch: stando al dispositivo autoreferenziale della dogmatica continentale – da Gerber a Laband, da Jellinek allo stesso Kelsen – non disponiamo di alcun criterio per discriminare un ordinamento giuridico positivo, quale formalmente è stato l’ordinamento giuridico nazionalsocialista, da altri ordinamenti positivi, come quelli vigenti in sistemi di ispirazione liberaldemocratica. E, dal momento che all’interno del positivismo giuridico come tale non abbiamo un discrimine in grado di operare questo tipo di distinzione, dobbiamo ricorrere – aggiungeva Radbruch – ai diritti universali in quanto tabulato superlegale in grado di rappresentare alcuni ordinamenti giuridico-positivi come delle legali ingiustizie. Difficile contestare, dicevo, la cogenza logica di un rilievo del genere. E tuttavia, per affrontare la questione in modo davvero efficace, ritengo si debba oggi compiere un passo ulteriore, chiamando in causa un tema che ha affollato le bibliografie degli anni ’50-’70 e che sta adesso prepotentemente ritornando nei dibattiti suscitati dalla teoria della guerra preventiva: il tema del rapporto tra diritto naturale e storia. Una radicale riconsiderazione delle implicazioni di questo rapporto deve oggi puntare a superare, in una concezione integrata e dinamica, l’antitesi paralizzante tra una sorta di schematismo trascendentale del diritto e uno storicismo giustificazionistico tendenzialmente sconfinante nel relativismo. Dobbiamo, in altri termini, intendere la dimensione dell’universalismo giuridico non come un modello statico e precostituito ma come un farsi storico dinamico. E, di conseguenza, cogliere nella Dichiarazione Universale del ’48 un’acquisizione evolutiva da ancorare non

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tanto al piano metastorico del diritto naturale, quanto piuttosto alla clausola storica del “mai più”. Quando si dice “mai più” il riferimento è ovviamente ad Auschwitz, all’Orrore della Shoah, spartiacque del secolo tragico che sta alle nostre spalle. E tuttavia – sostengono alcuni critici dell’Evento assoluto o paradigmatico – malgrado l’enormità di quanto accaduto non in una “società primitiva” dislocata ai margini del pianeta ma nel cuore (“cuore di tenebra”, potremmo a questo punto dire) della “civilissima” Europa, e malgrado la perentorietà del monito contenuto in quella clausola, analoghi orrori non hanno cessato di ripresentarsi sul teatro delle relazioni internazionali. Qual è allora la scaturigine di questi orrori? Come è possibile risalire alle cause che li hanno prodotti e continuano a riprodurli? Proprio per rispondere a queste domande, è necessario intrecciare la deontologia con la comprensione storico-strutturale, il momento normativo con il momento critico-analitico. L’appello all’universalismo dei diritti umani rischia, infatti, di trasformarsi in vacua retorica se non si salda con il pathos analitico che punta a determinare concettualmente e a localizzare operativamente le radici effettive della violenza, del potere e della violazione della dignità della persona. Per operare una tale saldatura dobbiamo rivolgerci allo scenario storico mutato che abbiamo dinanzi agli occhi: non solo, dunque, alla situazione del mondo post-Guerra fredda, ma anche ai nuovi scenari del dopo-11 settembre. 4. Si tratta di un panorama mutato per due ragioni. Innanzitutto per profondità di campo diacronica: poiché in questo scenario tendono a riaffiorare contraddizioni e conflitti che possiamo comprendere soltanto alla luce di quella che gli storici chiamano “lunga durata”, vale a dire la struttura stratigrafica del tempo storico. Sono convinto che questa visione “tettonica” della storia, segnata dal riemergere repentino e prima facie imprevedibile di fratture longitudinali e arcaici conflitti che ritenevamo ormai definitivamente relegati a oscuri fondali del passato dell’umanità, sia molto più efficace e congrua delle due visioni su

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cui i filosofi si sono interrogati e divisi per 2.500 anni: il tempo lineare del Progresso e il tempo ciclico della Tradizione. La tragica esperienza del XX secolo ci ha duramente insegnato che il tempo della storia non è in realtà né lineare né ciclico: il tempo storico è un tempo a strati, un tempo archeologico in cui non possiamo mai dire mai – e in cui il “mai più” non può essere mai detto una volta per tutte, ma va di volta in volta ripetuto con rinnovata vigilanza rispetto ai sintomi dell’orrore. La seconda ragione per la quale lo scenario globale appare radicalmente mutato investe la dimensione della latitudine: esso tende a includere in sé le nuove forme di soggettività provenienti dalle aree culturali extraoccidentali. Il grado di consapevolezza critica che è venuto maturando in Asia, Africa e America Latina dopo la fine del dominio coloniale ha intessuto trame della memoria che revocano radicalmente in questione la narrativa occidentale della Storia e della Politica: mettendo a nudo i dispositivi di esclusione e le linee di discriminazione costitutive delle stesse nozioni “universali” di diritto e politica (dalla discriminazione sessuale tra donne e uomini, rispondente alla divisione tra oikos e agora, a quella tra “greci” e “barbari”, e – all’interno degli stessi greci – tra “autoctoni” e “stranieri”). Che tali linee di divisione e discriminazione non siano un effetto secondario riconducibile a circostanze storiche contingenti ma abbiano viceversa a che fare con la struttura logica inerente al concetto di politica, è dimostrato dal modo in cui alcune importanti ricerche antichistiche degli ultimi trent’anni hanno ricostruito la genesi di quel concetto come progressiva “sostantivazione” (a partire dal VI-V secolo a.C.) di un aggettivo che stava originariamente ad indicare l’insieme delle questioni che investivano la vita della polis. E non è certo un caso che la stessa coscienza critica occidentale abbia, grazie agli apporti del femminismo e del pensiero della differenza, iniziato a decostruire in radice la logica soggiacente alle demarcazioni simboliche e topologiche del “politico”. Un caso emblematico è rappresentato dal confine tra le due sfere del “pubblico” e del “privato”: confine fondativo delle nomenclature dell’ordine che viene oggi

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revocato in questione, sia per quanto riguarda la tematica della differenza dei sessi sia per quanto riguarda la tematica del rapporto tra corpo naturale e corpo artificiale (penso qui, segnatamente, alla nozione di “postumano”, da tempo al centro delle riflessioni postfemministe di Donna Haraway e Judith Butler, e ripresa di recente dallo stesso Rodotà dal punto di vista di una riconsiderazione del diritto). 5. Vengo così alla parte conclusiva della mia analisi. Una delle acquisizioni più rilevanti e preziose della riflessione contemporanea mi pare rappresentata dalla tendenziale – ma è un trend soggettivo su cui molto c’è ancora da pensare e lavorare – convergenza tra le punte più radicali del sapere critico maturate nelle democrazie occidentali attorno alla categoria di “differenza” e gli apporti (ancora per tanti versi eterogenei) dei postcolonial studies: i cui principali esponenti (da Gayatri Chakravorty Spivak a Homi Bhabha, da Dipesh Chakrabarty a Arjun Appadurai, da Paul Gilroy a Robert Young) si muovono all’interno di un orizzonte problematico aperto, sullo sfondo delle analisi di Antonio Gramsci e Frantz Fanon, per un verso dagli “studi culturali” di Raymond Williams e Stuart Hall, per l’altro dai fondamentali lavori di Edward Said. Per afferrare il senso della critica che questi autori rivolgono al falso universalismo dei diritti umani portato avanti dall’ideologia americana, occorre in primo luogo non fraintendere (assumendola in chiave tradizionalmente “antimperialista”) l’interpretazione che essi forniscono del mondo globalizzato: un mondo non semplicemente uniformato e omologato (come vorrebbero, in senso apologetico, i teorici della “fine della storia” come Fukuyama, o, in senso apocalittico, i teorici dell’“occidentalizzazione del mondo” come Serge Latouche), ma neppure un mondo uniformemente diviso e attraversato dallo “scontro di civiltà” (come vorrebbe Huntington). Il mondo globalizzato possiede, piuttosto, una struttura paradossale: esso è a un tempo unipolare e multicentrico. Unipolare: dal punto di vista del potere tecnologico-militare, detenuto (almeno fino a oggi) dalla superpotenza

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statunitense. Multicentrico: dal punto di vista delle identità e delle istanze di “soggettivazione” che emergono dalle diverse aree del pianeta. Ma altrettanto paradossale è la forma che, in questo mondo glocalizzato, assume il conflitto: la forma – per riprendere una suggestiva espressione di Appadurai – di una «cannibalizzazione reciproca di universalismo egemonico e particolarismo idiosincratico». La portata delle sfide e delle minacce implicite nell’odierno «disordine globale» (come l’ha definito di recente il costituzionalista tedesco Erhard Denninger) ci spinge, pertanto, a interrogarci su quale dovrebbe essere la nuova dimensione dell’universalismo dei diritti in un mondo che non può che essere multipolare e dunque aperto a una pluralità di esperienze e di narrative diverse. Il problema fondamentale che i postcoloniali pongono è quello dell’esistenza nella nostra modernità-mondo di una proliferazione di “comunità immaginate” che, a differenza delle nazioni moderne (anch’esse prodotte da una pratica sociale dell’immaginazione resa possibile dall’universo simbolico-tecnologico della “galassia Gutenberg” di Marshall McLuhan o del “capitalismo-a-stampa” di Benedict Anderson), assumono oggi, nell’epoca postelettronica dei multimedia globali, le sembianze translocali di vere e proprie “sfere pubbliche diasporiche”. Ma queste comunità diasporiche vanno al di là sia del bricolage postmoderno (con la sua equazione lineare tra nomadismo e indebolimento dei nuclei di potere), sia del comunitarismo multiculturalista e relativista. Il fenomeno delle sfere pubbliche diasporiche, delle comunità eccentriche, può essere compreso soltanto alla luce del superamento di ogni visione essenzialistica delle cosiddette “identità culturali”: a partire dall’acquisizione per cui tutte le culture, compresa la cultura occidentale, sono non solo – com’è ovvio, e come è stato più volte ribadito da Amartya Sen e da altri – intrinsecamente plurali, ma anche attraversate da conflitti di valori. In ogni civiltà noi assistiamo a un conflitto, a una frattura longitudinale tra spinte dinamiche universalizzanti e spinte reattivo-conservative identitarie, idio-

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sincratiche, autolegittimanti e dunque tendenzialmente volte a chiudere le culture all’interno di una logica di tipo monadico. Nel mondo globalizzato le diaspore sono di tre tipi: diaspore della speranza, diaspore della disperazione e diaspore del terrore. È questo un ulteriore, importante passaggio della critica postcoloniale, che andrebbe finalmente recepito e tradotto in linguaggio filosofico, per poter riformulare in termini nuovi la classica questione del rapporto tra identità individuale e identità collettiva al cospetto del mutamento di forma del tempo storico con il passaggio dalla “storia universale” di stampo hegelo-marxiano alla storia-mondo. Per cogliere la nuova costellazione dei rapporti tra “individuale” e “collettivo”, logica delle preferenze individuali (il classico paradigma della “scelta razionale”) e logica simbolica dell’identità e dell’identificazione, l’analisi deve essere necessariamente differenziale: capace, cioè, di determinare di volta in volta dove abbiamo le dominanti della speranza, della disperazione e del terrore. Nello spazio noneuclideo e a geometrie variabili della glocalization, le comunità diasporiche non possono in nessun caso essere intese come delle comunità locali arroccate nei contrafforti della tradizione. E ciò per la decisiva ragione che il “locale” della modernità-mondo è altrettanto deterritorializzato del globale. Il fenomeno al quale dobbiamo rivolgerci potrebbe essere, allora, più congruamente definito nei termini di una produzione globale di località: è il fenomeno delle comunità immaginate, che vengono a configurarsi come tante nazioni di eccentrici. La “nazione degli eccentrici” è il fenomeno nuovo con cui siamo chiamati a misurarci: non dobbiamo, dunque, intendere il locale alla maniera di comunitaristi come Taylor, MacIntyre o Sandel ma, piuttosto, nel senso di una dinamica nuova che attraversa tanto il locale quanto il globale. Cruciale appare, in questa nuova realtà, l’idea di una sfera pubblica che sia in grado di ricomporre l’universale contro l’identità: che non si accontenti, pertanto, di relativizzare e indebolire l’identità, semplicemente pluralizzandola. Si tratta, in altri termini, di costruire un universale multicentrico,

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che non punti a ricomporre a mosaico le varie identità culturali assumendole come tali – ossia come un dato autoevidente e autofondato, anziché come un problema. Un procedimento di questo genere sarebbe, infatti, del tutto interno alla logica dominante: per la quale si dà un’oggettiva (e a volte soggettiva) complicità tra la tolleranza multiculturale così intesa e il fondamentalismo. La sola prospettiva potenzialmente liberatoria sarà allora quella disposta a operare un radicale rovesciamento di quella procedura. Non ricomporre a mosaico le identità, ma ricostruire l’universale contro l’identità: a partire dal criterio della differenza. Ripensare a un essere-in-comune composto di storie diverse e di inassimilabili differenze: a una civitas come comunità paradossale suscettibile di accogliere le esistenze (ed esperienze) singolari, indipendentemente dalle appartenenze identitarie che di volta in volta si danno, come inevitabile effetto dei meccanismi di identificazione simbolica e delle pratiche collettive di “invenzione della tradizione”. E tuttavia… E tuttavia in questo “interregno”, in questa fase di passaggio tra il non-più del vecchio ordine interstatale e il non-ancora del nuovo ordine postnazionale in cui ci accade di vivere e operare, per lungo tempo dovremo disporci a scrivere con una mano la parola “universalità”, con l’altra la parola “differenza”. E per lungo tempo, credo, dovremo resistere alla tentazione di scrivere entrambe le parole con una mano sola. Poiché sarebbe, in ogni caso, la mano sbagliata.

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Giacomo Marramao

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Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

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… la libertà è l’essenza dell’individuo umano e la giustizia è l’essenza della convivenza umana (Hannah Arendt) L’accettazione del precetto di amare il proprio prossimo segna l’atto di nascita dell’umanità. Tutte le altre abitudini della convivenza umana, così come le loro norme e le regole delineate in precedenza o scoperte successivamente, non sono che una (mai completa) lista di postille a quel precetto (Zygmunt Bauman).

1. Il paradosso dell’eguaglianza moderna: eguali e diversi

N

ella tradizione della cultura occidentale possiamo distinguere due immagini archetipiche della giustizia: la prima si perde nell’immemoriale e si confonde con il mito, come ci attestano le tragedie di Eschilo e di Sofocle; la seconda è un’idea regolativa di natura riflessiva che interviene nei conflitti della vita quotidiana applicando procedure e norme canonizzate attraverso un confronto di argomenti e il pronunciamento di una sentenza. È evidente che quest’ultimo, con la rottura delle concezioni metafisiche del mondo e con l’affermarsi dei processi di secolarizzazione, è diventato il paradigma dominante della razionalità occidentale. Si tratta, per adoperare il lessico di Louis Dumont, di un paradigma intrinsecamente artificialista, nel senso, cioè, che l’ordine sociale viene considerato l’esito o il prodotto della ragione e dell’agire umano. Dumont sottolinea

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Francesco Fistetti

con Tocqueville che la “rivoluzione moderna” dell’eguaglianza1 ci consente di comprendere meglio la “formula logica” che regge le società “tradizionali” e che è alla base della loro ideologia (intesa quest’ultima come una configurazione determinata di idee e valori). L’ideologia delle società “tradizionali”, per definizione “olistiche”, è gerarchica, vale a dire strutturata sulla “diseguaglianza sociale”, al punto tale che si può dire che la gerarchia «è la forma stessa della giustizia»2. Le società moderne, invece, per essenza “individualistiche”, hanno una concezione egualitaria del legame sociale. In proposito, la diagnosi tocquevilliana dell’antropologia dell’homo democraticus resta ancora un modello insuperato. Basti pensare alle finissime analisi in La democrazia in America relative allo sguardo orizzontale e non verticale (dall’alto in basso) che l’uomo moderno rivolge all’altro: l’altro è il mio simile, sicché qualsiasi scarto, dislivello, distinzione in termini di ricchezza, di reddito, di stile di vita o di potere scatena – direbbe R. Girard – la molla dell’imitazione mimetica e tutto un corteggio di passioni come l’invidia, il risentimento, l’avidità: in una parola, le passioni dell’economia politica. L’immaginario dell’homo democraticus, affrancato da qualsiasi vincolo di subordinazione che lo inchiodava a status e ruoli predefiniti fin dalla nascita, è un immaginario egualitarista. La “formula logica” del funzionamento delle gerarchia viene caratterizzata da Dumont come inglobamento del contrario3, non nel significato, per noi ordinario, secondo cui l’elemento “superiore” domina sugli elementi inferiori ma, più precisamente, nel senso che il tutto ingloba le parti in modo che una parte viene ad assumere un posto di comando o una preminenza nel processo di costituzione della totalità sociale. La struttura ge1. L. Dumont, Homo aequalis, II. L’idéologie allemande. France-Allemagne et retour, Paris 1991, p. 195. Si veda anche Id., Homo aequalis, I, tr. it. Milano 1984. 2. J.-P. Dupuy, Le sacrifice et l’envie. Le liberalisme aux prises avec la justice sociale, Paris 1992, p. 194. 3. L. Dumont, Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, tr. it. Milano 1993, p. 252.

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Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

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rarchica, in altre parole, esprime l’ideologia “olista”, vale a dire un sistema organico di idee e di valori che sottomette il singolo a un ordine che, prima che sociale, è cosmologico e simbolico. La logica dell’“inglobamento del contrario” comporta un rovesciamento della gerarchia all’interno di se stessa, dal momento che l’elemento superiore a livello inglobante diviene inferiore a livello inglobato e viceversa, in un reciproco annodamento delle funzioni religiose e delle funzioni politiche che riproduce, come direbbe Weber, un cosmo dotato di senso e assiologicamente preordinato. «In fatto di religione – afferma Dumont – […] il prete è inferiore al re o all’imperatore a cui è affidato l’ordine pubblico. Ma allo stesso tempo il prete obbedirà al re in materia di ordine pubblico, cioè in un dominio subordinato»4. Ora, per Dumont, il punto cieco delle società moderne, investite dalla rivoluzione dell’uguaglianza, è di credere che il modello gerarchico appartenga al passato e che sia stato definitivamente sostituito dall’artificialismo e, quindi, dal primato del soggetto emancipato da ogni forma di subordinazione e libero di perseguire i suoi interessi e i suoi piani di vita. Si potrebbe dire che ciò che per Dumont è il punto cieco delle società moderne, nel lessico di Marx è una vera e propria falsa coscienza. Infatti, il problema della gerarchia si ripresenta in forma inedita nel cuore stesso delle società moderne e democratiche, nel momento in cui le differenze sociali sono delle differenze di valore, nient’affatto paragonabili alle differenze che noi cogliamo nello studio della natura attraverso le teorie scientifiche. La differenza nell’uguaglianza – il paradosso di una differenza egualitaria (il fatto, cioè, che siamo uguali nella diversità) – è, come chiarisce Dupuy, nient’altro che «una (meta)figura gerarchica, ove il livello superiore (l’uguaglianza) ingloba e contraddice il livello subordinato (la differenza)»5. Dunque, la “formula logica”, attraverso cui si esprime la configurazione ideologica principale delle società moderne e democratiche, è intimamente comples4. L. Dumont, Homo aequali II, cit., p. 197. 5. J.-P. Dupuy, Le sacrifice et l’envie, cit., p. 198.

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sa e fonte di paradossi pratico-morali, poiché l’elemento dominante – il postulato dell’uguaglianza degli esseri umani stabilito non come un fatto di natura ma come un valore della ragione che non ha riscontro nella natura – è costretto a convivere con determinazioni storiche che in linea di principio lo negano come le ineguaglianze di ricchezza, di potere politico, di prestigio, oltre che con differenze concernenti i talenti naturali degli individui. Questa paradossale epistemologia morale – in cui eguaglianza “formale” e diseguaglianza “reale” coabitano in reciproca tensione – spiega il passaggio che con l’avvento della società moderna si produce da una concezione teleologica della giustizia a una concezione deontologica, che coincide, potremmo dire, con la separazione tra il “buono” e il “legale” e con la conseguente supremazia del diritto (della grammatica incrementabile dei diritti) su qualsiasi idea metafisica del bene o di “vita buona”. La giustizia che per Aristotele è, come è noto, la virtù per antonomasia, in cui, cioè, “è compresa ogni virtù” – e, di conseguenza, «è perfetta soprattutto perché è esercizio della virtù nella sua completezza»6 –, presupponeva una nozione oggettiva del bene o un’idea di “vita buona” fondata su un complesso di scopi predefiniti. Ma con l’ingresso nella modernità viene a mancare l’equivalente di ciò che nel mondo antico era la polis come luogo in cui gli uomini perseguivano il telos della “vita buona”. La giustizia post-metafisica diventa, direbbe Dumont, parte integrante di una razionalità artificialista, in cui essa viene integralmente formalizzata in un insieme di procedure e di regole astratte alle quali volontariamente si conformano individui presuntamente autonomi e razionali.

2. Due tradizioni rivali della giustizia Grazie al primato della razionalità artificialista, il destino delle teorie moderne della giustizia sarà il loro carattere astrattamen6. Aristotele, Etica nicomachea, 1129 d 30, a cura di C. Mazzarelli, Milano 1993, p. 191.

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te procedurale, nel senso che la giustizia diviene una virtù delle istituzioni o, come afferma Rawls, la prima virtù delle istituzioni politiche di una società democratica il cui compito precipuo è quello di distribuire ruoli, cariche, beni e risorse7. Sviluppando un suggerimento di Brian Barry8, potremmo distinguere due tradizioni rivali del costruttivismo politico: 1) la prima – che va dai Sofisti a Hobbes sino ad autori contemporanei come Gauthier – argomenta una concezione della giustizia intesa come vantaggio reciproco (mutual advantage): una regola è giusta, se ciascuno vi si può sottomettere in nome del suo self-interest (anche a lungo termine); 2) la seconda – che va dagli stoici a Kant sino a Rawls, Ackerman, Habermas – concepisce la giustizia come imparzialità: una regola è giusta, se implica un’eguale considerazione degli interessi di tutti. Ciò che va sottolineato è 7. Sotto questo profilo il costruttivismo di Rawls è una variante dell’“artificialismo” moderno ed è un costruttivismo politico conseguente, poiché la giustizia distributiva non lascia fuori di sé nessun vantaggio e nessun bene suscettibile di essere ripartito: diritti e doveri – o il sistema delle libertà – da un lato (il Primo Principio) e redditi, ricchezza, accesso alle cariche politiche e ai ruoli di autorità e di influenza dall’altro (il Secondo Principio). «Primo principio – Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti. Secondo principio – Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio di giusto risparmio e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità. Prima regola di priorità (la priorità della libertà) – I princìpi di giustizia devono essere ordinati lessicalmente, e quindi la libertà può venire limitata solo in nome della libertà stessa […]. Seconda regola di priorità (la priorità della giustizia rispetto all’efficienza e al benessere) – Il secondo principio precede lessicalmente il principio di efficienza e quello della massimizzazione della somma dei vantaggi; l’equa opportunità precede il principio di differenza […]. Concezione generale – Tutti i beni sociali principali – libertà, opportunità, reddito e ricchezza, e le basi per il rispetto di sé – devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale non vada a vantaggio dei meno avvantaggiati» (J. Rawls, Una teoria della giustizia, tr. it. Milano 1982, pp. 255-256). Sul costruttivismo politico rawlsiano si rinvia alla omonima Lezione III contenuta in J. Rawls, Liberalismo politico, tr. it. Milano 1994, pp. 89-154. 8. B. Barry, Theories of Justice, Berkeley 1989.

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che in quest’ultima tradizione (la giustizia come imparzialità) l’approccio costruttivista non solo introduce vincoli di universalizzabilità (la “posizione originaria” di Rawls sotto il “velo di ignoranza”, il dialogo neutrale di Ackerman, l’agire comunicativo nella democrazia deliberativa di Habermas)9, ma, ciò che più conta, si sforza di identificare i fondamenti di legittimazione dei rapporti giuridici e politici di un ordinamento sociale giusto. «Legittimare qualcosa – ha sottolineato Höffe – significa attestarla, sancirla o dimostrare che è giusta, ben fondata. All’interno di un sistema sociale esistente, la legittimazione ha luogo ricorrendo alle sue leggi. Ma per la facoltà coercitiva in generale, o per la coercizione giuridica e politica in particolare, non è possibile operare una simile legittimazione positiva o convenzionale, perché qui si mette in discussione il dato positivo stesso, cioè la coercizione sociale. Ecco perché a una legittimazione positiva deve subentrare una legittimazione normativa e valutativa, cioè critica, che si sviluppi secondo delle ragioni metapositive»10. Il problema sociale della giustizia in una società che ha una concezione al contempo individualistica e egualitaria del legame 9. B.A. Ackerman, La giustizia sociale nello Stato liberale, tr. it. Bologna 1984; J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, a cura di L. Ceppa, Milano 1992. Per una discussione critica del concetto di neutralità in Ackerman si veda S. Benhabib, Situating the Self. Gender, Community and Postmodernism in Contemporary Ethics, Cambridge 2004 (ristampa), pp. 95-98. Non manca chi come A. Gutmann e D. Thompson ritiene che tra la democrazia deliberativa di Habermas e il proceduralismo di Rawls non si dà alcun contrasto, ma un’integrazione reciproca. «Si è detto – essi scrivono – che Habermas favorisca la deliberazione democratica a scapito dei diritti individuali, e Rawls i diritti a scapito della deliberazione. Ma, a un’interpretazione più accurata delle loro teorie, né Habermas né Rawls difendono una concezione meramente procedurale o meramente sostanziale della democrazia» (A. Gutmann-D. Thompson, Wy Deliberative Democracy?, Princeton-Oxford 2004, p. 26). 10. O. Höffe, Giustizia politica. Fondamenti di una filosofia critica del diritto e dello Stato, tr. it. Bologna 1995, p. 60. Sulla complessa posizione teorica di Höffe si veda A. Pirni, Filosofia pratica e sfera pubblica. Percorsi a confronto: Höffe, Geertz, O’Neill, Gadamer, Taylor, Reggio Emilia 2005, cap. I.

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sociale non può, dunque, non coincidere con la giustificazione di una facoltà coattiva tale che quest’ultima risulti vantaggiosa non dal punto di vista collettivistico (cioè del bene sociale medio e del “maggior numero”), come ritiene l’utilitarismo, ma dal punto di vista di «ciascuno»11 (il criterio dell’imparzialità). Il problema cruciale della giustizia farà, pertanto, sempre tutt’uno con quello di «sapere se esiste una forma di coercizione sociale distributivamente vantaggiosa e, quindi, giusta»12. Poiché mettono in atto una cessione di diritti e doveri – che comporta delle rinunce reciproche alla libertà –, i princìpi di giustizia non possono essere scissi dall’istanza critico-normativa della legittimazione dell’ordine politico, che giustifichi e renda vantaggiose per tutti le mutue limitazioni della libertà in termini di diritti soggettivi. Questi ultimi non possono essere intesi – alla maniera di Luhmann – come mere “tecniche giuridiche” atte a disinnescare i rischi derivanti nelle società complesse dalla dinamica della positivizzazione del diritto, come se l’imperativo a cui essi sono incaricati di rispondere fosse solo quello dell’autoconservazione del sistema sociale mediante un’adeguata riduzione della complessità e non piuttosto, invece, il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali (non solo i diritti soggettivi, ma anche i diritti sociali e culturali)13. Se così non fosse, non ci spiegheremmo la peculiarità delle Costituzioni del secondo dopoguerra consistente nello sforzo non solo di ridefinire gli strumenti regolativi d’intervento dello Stato nel ciclo economico in funzione anti-crisi ma, soprattutto, come ha osservato Zagrebelsky, di «rendere compatibile lo sviluppo economico con un ordine sociale giusto di cui si delineano ex ante i connotati essenziali o “costituzionali” e non li si rimette al risultato ex post della competizione delle forze economiche»14. Questa ten-

11. O. Höffe, Giustizia politica, cit., pp. 64-75. 12. Ivi, p. 295. 13. N. Luhmann, I diritti fondamentali come istituzione, a cura di G. Palombella e L. Pannarale, Bari 2002. 14. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino 1992, p. 136.

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denza a “costituzionalizzare” princìpi di giustizia “materiale”, tipica dello Stato sociale di diritto, conferma quanto poco la dimensione critico-normativa sia neutralizzabile. Anzi, potremmo dire che tale dimensione ci fornisce il criterio più idoneo per valutare la fecondità euristica sul piano epistemologico e al contempo la capacità pratica di risposta-alla-sfida del liberalismo politico (o della gamma molto estesa delle teorie che vi si ispirano) nei confronti delle rawlsiane “circostanze di giustizia” (scarsità moderata e conflitti distributivi), così come esse, oggi, drammaticamente si delineano non solo nelle società cosiddette avanzate ma soprattutto su scala planetaria. Inoltre, un liberalismo politico che non si confrontasse – tenendo ferma l’istanza critico-normativa – con la “società a rischio” (U. Beck), emersa dalla globalizzazione dei processi economici, tecnologici e comunicativi e con gli effetti perversi che vi sono collegati (il pericolo di una guerra civile mondiale o la minaccia ecologica alla sopravvivenza stessa dell’umanità o, dopo l’11 settembre 2001, il circolo vizioso tra global terrorism e fondamentalismo dell’Occidente15), sarebbe senza dubbio un liberalismo sterile o retorico.

3. La giustizia procedurale pura Se lasciamo da parte un autore come Croce che riteneva un pedantesco esercizio scolastico l’elaborazione di una qualche dottrina della giustizia (si ricordi il suo sarcasmo sulle «alcinesche seduzioni della dea Giustizia»16, contro cui guardacaso ci 15. Su quest’ultimo aspetto si veda G. Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Roma-Bari 2004. 16. Croce riteneva che la dea Giustizia nel corso della storia intellettuale europea dall’antica Grecia ai nostri giorni avesse assunto diversi “sembianti” spesso ingannevoli, culminati nell’equiparazione istituita da alcune correnti della cultura moderna tra giustizia ed eguaglianza, quando quest’ultimo concetto viene inteso non come «il riconoscimento della dignità spirituale di ogni essere umano, coincidente con la sua intangibile libertà, sì invece di una

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avrebbe immunizzato Marx, il “Machiavelli del proletariato”), i teorici liberali più famosi della società giusta condividono tutti un assunto, che è al contempo il punto di forza e il limite della loro riflessione. Essi definiscono la giustizia in termini di “giustizia procedurale”. Poiché nelle società moderne non è possibile scegliere uno standard indipendente e valido a priori per valutare come “giusta” una determinata situazione, “giusto” viene considerato un procedimento o una norma di condotta o un criterio generale che siano tanto astratti che la loro applicazione non possa essere determinata in anticipo relativamente ai risultati. La giustizia in questo caso non è un attributo di persone singole, ma l’effetto non previsto e non prevedibile di procedure complesse: la singola azione può essere giusta dal punto di vista morale e giuridico, ma le sue conseguenze non volute – in un contesto di circostanze che non sono state prodotte intenzionalmente – non possono essere giudicate né giuste né ingiuste. Paradigmatica è, in proposito, la posizione di Hayek. La giustizia “procedurale” di cui egli parla non è una virtù soggettiva (la quale vale solo per i risultati voluti e per le azioni da noi deliberate e di cui siamo responsabili), ma è un procedimento impersonale, nient’affatto “progettato”, che gli uomini hanno scoperto e perfezionato gradualmente, e il cui stravagante eguaglianza utilitaria e materiale» (B. Croce, Libertà e Giustizia [1943], in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, Milano-Napoli 1972, p. 92). Per Croce ogni teoria della giustizia è un sterile esercizio scolastico o una vana utopia etica, dal momento che la giustizia, «che è tutt’uno con la libertà stessa», non è «la giustizia astratta e assurda, ma quella concreta e particolare del singolo momento storico, commisurata e confacente al momento storico, da modificare o ampliare in nuovi momenti storici, nel progresso incessante che è il fine della libertà» (Croce, Ancora di liberalismo, liberismo e statalismo, in B. Croce-L. Einaudi, op. cit., p. 105). Di Marx come «Machiavelli del proletariato» Croce parla sovente: cfr., ad esempio, Materialismo storico ed economia marxistica, Bari 1918, p. 118. Dalla prospettiva di Rawls quello di Croce è un liberalismo “metafisico” e non un liberalismo “politico”, poiché la concezione metapolitica del liberalismo crociano è una dottrina filosofica “comprensiva” (comprehensive), nell’accezione rawlsiana di totalizzante, tale cioè da inglobare tutti gli aspetti della vita umana.

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esito inevitabilmente imprevedibile dipende come nel gioco in parte dall’abilità, in parte dalla fortuna. Ciò che importa rilevare è che nella società libera hayekiana – caratterizzata come un “ordine spontaneo” o «autopoietico»17 o come “gioco della catallassi” – non c’è posto per la giustizia sociale, considerata un residuo atavico tribale18 e un’interferenza indebita nel processo “spontaneo” del mercato. Quest’ultimo non è nemmeno un meccanismo meritocratico, poiché ciò che assicura la migliore ricompensa non sono le buone intenzioni o le necessità, ma il fare quel che in effetti arreca maggiori benefici agli altri, indipendentemente dal motivo. Come ha notato Dupuy, l’“ordine spontaneo” di Hayek non appartiene né all’ordine della natura né a quello dell’artificio umano, ma a «un ordine di terzo tipo, che è quello dell’evoluzione culturale», per il semplice fatto che «la cultura è una memoria, è l’integrale delle regole astratte che il gruppo umano ha selezionato in quanto esse si sono rivelate ad esso più vantaggiose, secondo un processo anonimo la cui logica è su molti punti essenziali identica a quella della selezione naturale»19. L’unica forma di giustizia che una società libera può ammettere è quella dell’eguaglianza di fronte alla legge. «La giustizia esige che le condizioni di vita determinate dall’autorità pubblica siano uguali per tutti. Ma l’uguaglianza delle condizioni comporta di necessità la disuguaglianza dei risultati»20. Vale la pena rilevare che la critica di quello che Hayek chiama il «miraggio della giustizia sociale» da parte di autori ultraliberali (libertariani e anarco-capitalisti) presenta delle consonanze sorprendenti con la decostruzione marxista di questa stessa problematica. Basterà ricordare, in proposito, la celebre formula della marxiana Critica del programma di Gotha: «Da 17. F.A. Hayek, Nuovi studi di filosofia politica, economia e storia delle idee, tr. it. Roma 1988, p. 75. 18. Ivi, p. 68. 19. J.-P. Dupuy, L’individu liberal, cet inconnu: d’Adam Smith à Friedrich Hayek, in Aa.Vv., Individu et justice sociale. Autour de Rawls, Paris 1988, p. 119. 20. Hayek, La società libera, tr. it. Firenze 1969, p. 124.

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ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», ove, comunque la si voglia interpretare, si sottintende che in una società dell’abbondanza (senza più l’assillo della scarsità) non si pone più il problema della giusta distribuzione delle risorse e dei prodotti del lavoro21. Anche R. Nozick, nella sua replica a Rawls consegnata a Anarchia, Stato e utopia (1974)22, condivide l’idea che, se le persone conoscessero in anticipo lo “stato finale” a cui un principio di giustizia distributiva dà luogo, non arriverebbero mai a un accordo per adottarlo. Il criterio di imparzialità nella distribuzione Nozick lo trova nel principio genealogico del “titolo valido”. In altre parole, è giusta ogni distribuzione derivante da una distribuzione precedente che sia a sua volta legittima. Nozick designa come “storica” la sua procedura distributiva, nel senso che essa è un processo inintenzionale e tiene conto di ciò che è realmente accaduto sia sul piano dell’appropriazione originaria (il Primo Principio di giustizia: una persona che ha acquisito con il proprio lavoro oggetti che non erano di nessuno, ha diritto a quella proprietà), sia sul piano dello scambio dei beni (il Secondo Principio di giustizia: una persona che acquista una proprietà attraverso trasferimenti legittimi da parte di possessori legittimi di una proprietà ha diritto a quella proprietà). Nozick non nega che possano darsi delle violazioni di questa procedura sia nell’acquisizione che nei trasferimenti di proprietà, tanto che avverte il bisogno di introdurre un “principio di rettificazione” al fine, come egli dice, di «ripulire la lavagna storica delle ingiustizie»23. Anche per Nozick, come per Hayek, l’ordine sociale è l’ordine del mercato che autopoieticamente – o attraverso il mec21. Sul parallelismo tra Hayek e Marx, cfr. A. Renaut, Qu’est-ce qu’une politique juste? Essai sur la question du meilleur régime, Paris 2004, pp. 118-124. Comune a entrambi, nota Renaut, è una destituzione del politico, il sogno di una società senza Stato, tale da «far perdere significato alla prospettiva di una giusta redistribuzione delle risorse e di una correzione delle diseguaglianze indotte dal funzionamento della società» (p. 124). 22. Tr. it. Firenze 1981. 23. Ivi, p. 162.

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canismo smithiano della “mano invisibile” – secerne uno “Stato minimo” che non lede i diritti degli individui. Ma, a parte il fatto che questi diritti – più che fondati – vengono postulati come assoluti e inviolabili, è evidente che la teoria nozickiana del “titolo valido” è ritagliata sulla figura dell’homo oeconomicus e del soggetto proprietario (possessore del suo corpo e dei suoi beni) e che la stessa ricostruzione razionale della genesi dello Stato minimo è funzionale alla legalizzazione della società di mercato come network di transazioni economiche e di trasferimenti di proprietà. La “clausola lockeana” della compensazione dei torti commessi, adottata da Nozick, altro non è, infatti, che una mercificazione della logica dei diritti soggettivi, come dimostrano gli esempi dell’inquinamento e dello stupro24. Non vi è dubbio che entrambe queste versioni – di Hayek e di Nozick – della “giustizia procedurale pura” assegnano alla ragione umana un posto davvero trascurabile negli affari umani, in cui prende il sopravvento l’arbitrarietà delle contingenze naturali e sociali. La concezione hayekiana della società libera e la teoria nozickiana del “titolo valido” patiscono un grave deficit critico-normativo, poiché si ritrovano sguarnite di strumenti adeguati di legittimazione per giustificare le ineguaglianze sociali e di potere esistenti tra gli uomini e, a maggior ragione, le forme di coercizione giuridico-politiche dei rapporti umani25. Ma se con Dumont assumiamo che le società desacralizzate hanno una concezione “artificialista” ed egualitaria del legame sociale (il postulato della differenza nell’uguaglianza), ne deriva che l’ordine politico è il centro focale in cui i rapporti tra eguaglianza e differenza – o tra eguaglianza e libertà – trovano lo spazio naturale della loro argomentabilità e della 24. J.-P. Dupuy, Le sacrifice et l’envie, cit., p. 298-304. 25. «Si tollera più facilmente la diseguaglianza, essa colpisce meno la dignità, – scrive Hayek – se risulta dall’influenza di forze impersonali anziché se sappiamo che è stata provocata da interventi intenzionali» (in ivi, p. 286). O ancora: «La disoccupazione o la perdita del reddito […] sono meno degradanti se le si può considerare come la conseguenza della sfortuna e non come voluti da un’autorità» (ibidem).

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loro regolamentazione. Se l’ordine politico fosse solo un effetto collaterale (by product) della società di mercato o l’auto-esteriorizzazione spontanea di una qualche “mano invisibile”, non ci sarebbe più posto per l’arendtiano agire di concerto nello spazio pubblico-politico, ove si confrontano agonisticamente le domande relative alla legittimità delle forme di governo o all’equità della ripartizione degli oneri e dei benefici della cooperazione sociale o le istanze di riconoscimento delle proprie peculiarità culturali, morali o di genere da parte di gruppi sociali e di comunità finora discriminate e oppresse (le donne, i gay, gli immigrati, ecc.). Avrebbero allora ragione quei contrattualisti radicali come Gauthier che, sulla base di una lettura economicistica di Hobbes, interpretano il framework giuridicopolitico, cioè l’ordine coercitivo del Leviatano, come una restrizione necessaria del desiderio illimitato di appropriazione rivolta a scongiurare il rischio che la società di mercato – in cui tutti i soggetti sono dei massimizzatori di utilità individuale – «collassi nel caos competitivo»26. Tuttavia, è inevitabile che, privo di una legittimazione critico-normativa, l’ordine coercitivo dello Stato prima o poi si sfaldi. I miti del patriottismo e dell’amore familiare – che per una lunga fase della modernità avevano funzionato come piloni di sostegno della società politica – cadono in pezzi, dal momento che si rivelano una sorta di «oppio»27 che serviva soltanto a escludere la maggior parte delle persone dall’arena del mercato, dalle attività di scambio e di appropriazione. Nello schema interpretativo di Gauthier, prima i lavoratori organizzati nei sindacati e nei partiti operai, poi i movimenti femministi hanno segnato il trionfo dell’ideologia contrattualistica radicale, nel senso che tutte le relazioni umane (comprese quelle della riproduzione biologica e della cura dei figli affidate tradizionalmente alle donne) si sono progressiva-

26. D. Gauthier, Moral Dealing. Contract, Ethics and Reason, Ithaca-London 1990, p. 353. 27. Ivi, p. 352.

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mente trasformate in rapporti contrattuali e di bargaining28. È appena il caso di osservare che l’esplosione delle domande di riconoscimento delle identità culturali ed etniche che ha avuto luogo nel dopo-Ottantanove e che ha segnato la crisi dello Stato fordista-keynesiano si è incaricata di correggere in senso ironico e paradossale la tesi economicistica di Gauthier: al trionfo del neoliberismo si è accompagnato, quasi l’altra faccia della stessa medaglia, un’orgia di neotribalismi e di fondamentalismi, ma al contempo anche l’insorgere di movimenti sociali, civili e culturali che hanno rivendicato il rispetto e il riconoscimento sulla scena pubblica della loro peculiare identità.

4. Giustizia e legittimazione Lo scenario catastrofico di congedo dal Leviatano disegnato da Gauthier, a cui con la globalizzazione è subentrata da un lato la formalizzazione dei nudi rapporti di forza tra gli attori del mercato e dall’altro il ricorso alla violenza e alla guerra come fattore di regolazione dei rapporti interstatali, restituisce plausibilità al modello rawlsiano della giustizia come equità. Ciò che a prima vista sorprende è che quest’ultimo è anch’esso una versione procedurale-pura della giustizia (nel senso, come abbiamo visto, che il predicato «giusto» caratterizza una procedura e solo in un secondo tempo, per una sorta di proprietà transitiva, si estende ai suoi risultati). Ma, diversamente dagli ultraliberali Hayek e Nozick, il paradigma costruttivista di Rawls mette in campo, attraverso l’«artificio espositivo»29 della “posizione originaria”, la questione critico-normativa della legittimazione. In altre parole, i princìpi di giustizia nelle società post-tradizionali sono intrinsecamente princìpi di giustizia politica, vale a dire la loro posta in gioco sono le principali istituzioni di base della 28. Ivi, p. 353. 29. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 35, e Rawls, Idee fondamentali, in Id., Liberalismo politico, a cura di S. Veca, Milano 1994, p. 16 e pp. 3742.

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società: non solo quelle economiche e sociali ma soprattutto le istituzioni politiche, con l’intero sistema dei diritti e degli obblighi che vi è connesso. Solo all’interno di queste istituzioni e di questo sistema – concordati e riconosciuti da «rappresentanti di cittadini liberi e uguali»30 – le diseguaglianze economiche e sociali potranno essere giustificate, valutate come giuste o, se ritenute inique, ricompensate e corrette. Nelle società democratiche e desacralizzate, investite dalla tocquevilliana “rivoluzione dell’uguaglianza”, il concetto di giustizia è necessariamente post-metafisico, dal momento che è venuta meno ogni forma di legittimazione riferita a un’autorità (divina o umana che sia) esterna alle persone che cooperano, o fondata su un codice morale indipendente. Ciò spiega il passaggio dall’etica della virtù propria dell’homo hierarchicus (Dumont), all’etica delle regole o delle procedure, propria di soggetti liberi e uguali. La priorità del giusto sul bene – su cui insiste Rawls – segna, a questo punto, l’insostenibilità di un’idea metafisica, vale a dire metastorica e transculturale, di giustizia e, più in generale, l’insostenibilità di princìpi di giustizia epistemologicamente “veri” in senso nomologico-deduttivo. I princìpi di giustizia possono essere solo “ragionevoli” e ragionevoli per noi che abbiamo sviluppato – attraverso un lungo e faticoso processo di apprendimento – una determinata concezione del soggetto come personalità morale libera e una cultura pubblica, di cui libertà e uguaglianza sono elementi costitutivi31. Da parte sua, Nagel, preoccupato delle obiezioni che i “comunitaristi” hanno rivolto a questa concezione di ispirazione kantiana della «personalità morale libera»32 – secondo cui 30. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 95. 31. Sul concetto di “ragionevole” e di “cultura politica pubblica” si veda J. Rawls, Il costruttivismo politico, in Id., Liberalismo politico, cit., rispettivamente pp. 92-93 e p. 95. Sul tema si veda anche Ph. Van Parijs, Qu’est-ce qu’une société juste? Introduction à la pratique de la philosophie politique, Paris 1991, p. 76. 32. M. Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia, tr. it. Milano 1994, e A. MacIntyre, Giustizia e razionalità, 2 voll., tr. it. Milano 1995. MacIntyre

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il soggetto di Rawls è un soggetto “desertico” (Ch. Taylor)33, desituato e senza legami (M. Sandel)34 –, ha corretto in senso humeano il kantismo di Rawls: l’io del soggetto moderno è carico di credenze, desideri, interessi, pregiudizi e motivazioni personali, ma esso ha anche maturato un punto di vista “impersonale” capace di astrarre dalle contingenze concernenti il modo in cui ognuno di noi vede e valuta le cose. “Se tu conti impersonalmente, tutti contano impersonalmente”: sarebbe

rivaluta, in polemica con la modernità dominata dalla pleonexia hobbesiana dell’avidità illimitata del potere e dei beni, il concetto aristotelico di giustizia (compresa la giustizia distributiva) e la polis che è il suo naturale quadro di riferimento. «La giustizia distributriva – egli scrive – consiste […] nell’applicare un principio di merito a diversi tipi di situazione. Ma i concetti di merito hanno applicazione solo in contesti in cui siano soddisfatte due condizioni. Vi deve essere qualche impresa comune per il raggiungimento dei cui obiettivi coloro che sono considerati più meritevoli hanno contribuito maggiormente rispetto a coloro che sono considerati meno meritevoli; e vi deve essere una concezione condivisa circa la valutazione di questi contributi e la classificazione delle ricompense. Nella vita della polis entrambe queste condizioni sono soddisfatte» (v. I, p. 133). 33. Ch. Taylor, Justice after Virtue, in Aa.Vv., After MacIntyre, ed. by J. Horton and S. Mendus, Oxford 1994, pp. 16-43. Sull’emergere nella cultura filosofica moderna di un Sé equiparato a natura oggettivata (una prospettiva di distacco radicale che neutralizza il soggetto a datità naturale), si veda di Taylor, La topografia morale del sé, a cura di A. Pirni, Pisa 2004. Sulla concezione proceduralistica della ragione di Rawls, ma anche di Habermas, tipica della filosofia morale moderna, che espelle dalla nostra vita morale quelle che egli chiama le “distinzioni qualitative”, le quali «funzionano come una specie di senso di orientamento capace di farci riconoscere ciò che è importante, apprezzabile o doveroso – un senso di orientamento che emerge, bensì, dalle nostre particolari intuizioni su come agire, che cosa sentire e che reazioni avere nelle varie situazioni, ma che rappresenta anche il nostro punto di riferimento quando si tratta di prendere decisioni in campo etico», si veda di Taylor, Le radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, tr. it. Milano 1993, p. 107 ss. 34. Per una ricostruzione del dibattito tra Rawls e i comunitaristi (in particolare Sandel), cfr. R. Forst, Contexts of Justice. Political Philosophy beyond Liberalism and Communitarianism, Barkeley-Los Angeles-London 2002, cap. I.

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questa per Nagel la regola aurea dell’etica e della politica35. Ciò che, comunque, conviene rilevare è che nell’evoluzione del pensiero di Rawls l’artificio della “posizione originaria” abbandona la fisionomia epistemica che aveva nella Teoria della giustizia (1971), cioè di un fondamento assiomatico da cui dedurre una volta per tutte i princìpi di giustizia, e viene reinterpretato come una tecnica ermeneutica di costruzione36 o di identificazione di princìpi corrispondenti a un patrimonio di idee, di credenze e di intuizioni che si sono depositate nel senso comune e nei giudizi ben ponderati dell’homo democraticus occidentale. Infatti, l’“equilibrio riflessivo” può essere inteso nello stesso tempo come un criterio storico-ermeneutico e come un meccanismo fallibilistico che tiene aperta – in vista di un incessante riaggiustamento reciproco – la dialettica tra la “posizione originaria” e le situazioni storiche mutevoli, tra teoria ed esperienza, tra tradizione e innovazione37. D’altronde, l’analogia che Rawls istituisce tra teoria della giustizia e teoria grammaticale intende segnalare che la grammatica della giustizia (vale a dire l’insieme dei suoi princìpi concordati e riconosciuti) sottintende un senso di giustizia che varia, si articola e si arricchisce storicamente38. 35. Th. Nagel, I paradossi dell’eguaglianza, tr. it. Milano 1993. 36. Un’originale quanto pertinente lettura ermeneutica di Rawls successivo a Una teoria della giustizia è stata proposta da P. Ricoeur. Mi permetto di rinviare al mio Il socratismo politico di Paul Ricoeur, in Id., I filosofi e la polis. La scoperta del principio di ragione insufficiente, Lecce 2004, pp. 321-367. 37. La revisione della teoria della giustizia nella sua formulazione del 1971 è dovuta, come ha ricordato Veca, alla presa d’atto da parte di Rawls che la teoria del 1971 risultava essere una «dottrina morale comprensiva: una concezione che includeva una varietà di valori, politici e non politici», vale a dire «una teoria del giusto che non è rispondente al fatto del pluralismo proprio e distintivo di società a tradizione democratica» (S. Veca, Il paradigma delle teorie della giustizia, in Id., Aa.Vv., Manuale di filosofia politica. Annali di etica pubblica, a cura di S. Maffettone e S. Veca, Roma 1996, vol. II, p. 192. 38. Su questo aspetto cfr. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 55 e p. 58, dove l’analogia tra il “senso di giustizia” e la grammatica viene sviluppata in riferimento alla linguistica (al programma di ricerca di N. Chomsky). «Se siamo in grado di esprimere le intuizioni grammaticali di una persona, potremo certamente imparare molte cose riguardo alla struttura generale del

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Donde la correggibilità, l’incrementabilità e l’autotrascendenza della grammatica dei princìpi di giustizia. Ecco perché quella di Rawls è non solo una concezione procedurale-pura della giustizia, ma anche una concezione, per così dire, aggiustata, dal momento che per delineare la struttura di base della società si rendono ogni volta necessari degli aggiustamenti atti a preservare l’eguaglianza delle chance e a far sì che le diseguaglianze economiche e sociali si risolvano a beneficio dei meno avvantaggiati.

5. Lo slittamento regressivo del programma di ricerca di Rawls Come ha rilevato Van Parijs, la teoria rawlsiana della giustizia obbedisce a una logica consequenzialista: la scelta delle istituzioni di base è giusta solo se conduce a delle conseguenze di un certo tipo per quanto concerne la distribuzione delle chance e dei vantaggi socio-economici della cooperazione39. Come è noto, Rawls stabilisce una priorità lessicografica del primo principio di giustizia (o “Principio della Eguale Libertà”) sul secondo (o “Principio di Differenza”). A sua volta, il Principio di Differenza – il quale prescrive: a) che le ineguaglianze economiche e sociali siano organizzate in modo da accordare ai meno favoriti la prospettiva migliore; b) che le funzioni e le cariche di autorità e di potere risultino accessibili a tutti – contiene la priorità di quest’ultima clausola (o clausola dell’equa eguaglianza delle chance) sulla prima, relativa, stricto sensu, alla giustizia economica e sociale. In questa doppia priorità lessicografica è evidente ancora una volta il primato dell’istanza critico-normalinguaggio. Parallelamente, se riuscissimo a caratterizzare il senso di giustizia di una persona civile, saremmo sulla buona strada verso una teoria della giustizia» (p. 58). Con il tempo Rawls tenderà ad assegnare un’accezione storicistica ed ermeneutica alla nozione di grammatica: la teoria della giustizia politica non è solo epistemica, ma l’esito di una specifica tradizione storicoculturale dell’Occidente. 39. Ph. Van Parijs, Qu’est-ce qu’une société juste?, cit., p.197.

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tiva della legittimazione: sia il Primo Principio dell’eguale libertà (a ogni individuo va assicurato il diritto al più esteso sistema possibile di libertà fondamentali eguali per tutti e compatibile con lo stesso sistema per gli altri), sia la clausola dell’equa eguaglianza delle chance sono dei princìpi di giustizia politica. Entrambi vietano da un lato ogni violazione dei diritti sull’altare utilitaristico della più grande “felicità” – utilità o welfare che sia – del “maggior numero” e dall’altro la riduzione dell’accordo sui princìpi di giustizia a un puro e semplice bargaining economico. Nessun incremento di benessere (di reddito, di risorse, di “beni primari”) può essere legittimamente scambiato con una diminuzione o con la perdita delle libertà di base. All’interno di questo primato critico-normativo della giustizia politica su quella economica e sociale Rawls colloca il Principio di Differenza in senso proprio (la parte a) del Principio di Differenza), incaricato di sceverare le ineguaglianze giuste dalle ineguaglianze ingiuste. Anche qui, come ha rilevato Dupuy, troviamo un criterio di priorità lessicografica: il più svantaggiato sotto il profilo degli standard economici deve lessicalmente essere considerato primo nei confronti dei suoi associati40. In altre parole, le vittime (in questo caso, i meno favoriti) non possono essere sacrificate sull’altare di un qualche presunto bene comune. Da questo punto di vista, quella di Rawls è davvero una potente macchina antisacrificale41. Proprio perché nelle società moderne le contingenze naturali e sociali non sono più considerate un dato ovvio (imputabile al destino, al fato, a una Volontà divina) – né rispecchiano, come si riteneva nelle società tradizionali, un 40. J.-P. Dupuy, Le sacrifice et l’envie, cit., p. 141. In Una teoria della giustizia è, dunque, il Secondo Principio, il Principio di Differenza, che «è incaricato di dire la giustizia economica e sociale, cioè di dire quali sono le diseguaglianze giuste e quali le diseguaglianze ingiuste. Il punto di vista da adottare è prioritariamente, «lessicalmente», quello del più sfavorito» (J.-P. Dupuy, John Rawls et la question du sacrifice, «Stanford French Review», 1986, numero monografico in onore di R. Girard, p. 148). 41. J.-P. Dupuy, La Théorie de la justice: une machine anti-sacrifielle, «Critique», 505-506, 1988.

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ordine cosmico teleologicamente preordinato –, esse sono percepite come qualcosa di arbitrario e di casuale su cui la ragione umana è chiamata a intervenire per modificarle. Perciò, non viene giudicata ammissibile alcuna situazione in cui i meno avvantaggiati potrebbero essere sacrificati come “capro espiatorio”. Tuttavia, Dupuy ha sottolineato che in realtà «i princìpi di giustizia di Rawls non si applicano, e non sono concepiti per applicarsi alle situazioni sacrificali»42. Dell’interessante interpretazione girardiana di Rawls proposta da Dupuy – fondata sull’assunto antropologico secondo cui a ogni forma di unanimità e di consenso di una comunità (compresa la società democratica) è consustanziale la ricerca del “capro espiatorio” – vale la pena sottolineare che nemmeno la logica democratica del consenso (unanime o maggioritario che sia) è esente dalla ricerca del “capro espiatorio”: soprattutto in quelle situazioni critiche in cui l’altro (lo straniero, l’immigrato, il non residente o il diverso in generale) può diventare l’oggetto fantasmatico delle fobie collettive, una sorta di schermo psicologico e ideologico che impedisce di percepire e di affrontare le sfide della realtà e che può sfociare nella violenza rituale (per lo più di gruppo). Tanto più questo rischio diviene reale quando si consideri il sistema delle relazioni internazionali così come sono state rimodellate in seguito alla fine della cosiddetta “guerra fredda” tra Usa e Urss e all’ingresso nell’epoca della globalizzazione che, oltre ad aggravare le diseguaglianze tra nazioni ricche e nazioni povere, ha sconvolto gli equilibri geopolitici precedenti senza crearne di nuovi, spalancando così un vuoto di governance riempito soltanto dalla volontà di potenza dei più forti. In questo contesto, nelle società liberaldemocratiche avanzate si fa strada la tentazione di chiudersi nello “sciovinismo del benessere” e, quindi, di cancellare quell’elemento di incondizionalità implicito nel Principio di Differenza che ha sorretto il Welfare State e che fa considerare ingiusto tutto ciò che non corrisponde all’istanza di equità, vale a dire l’esigenza che le diseguaglian42. J.-P. Dupuy, Le sacrifice et l’envie, cit., p. 158.

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ze non possano superare la soglia oltre la quale esse non massimizzano più il minimum sociale43. Per quanto riguarda Rawls, sta di fatto che nel corso della sua riflessione filosofica successiva a Una teoria della giustizia egli ha accantonato il paradigma redistributivo contenuto nel Principio di Differenza insieme con le implicazioni critiche ad esso connesse – sia sul piano di ciò che è una politica giusta a livello di un singolo Stato, sia a livello di una teoria globale della giustizia in riferimento alle politiche verso i paesi poveri nei rapporti tra le nazioni. In altre parole, dopo il 1971 il programma di ricerca di Rawls subisce una deriva neutralizzante per quanto riguarda la problematizzazione e la giustificazione dei fondamenti filosofici del “liberalismo politico”, che non a caso egli distingue nettamente da ogni forma di liberalismo «comprensivo»44, vale a dire inteso come una Weltanschauung morale totalizzante che, al pari di tutte le “dottrine comprensive” (comprehensive doctrines) – sia religiose che morali – persegue un proprio particolare ideale del bene e di esistenza autentica. Al contempo, il suo programma di ricerca patisce uno slittamento regressivo o, per lo meno, un blocco per quanto concerne lo sviluppo che sul piano normativo il Principio di Differenza implicava, soprattutto in riferimento a quella clausola “antisacrificale” (la parte a) rivolta a rettificare tutte le ineguaglianze che non contribuiscono ad accrescere la libertà reale dei meno favoriti). Dopo Una teoria della giustizia la preoccupazione centrale di Rawls è di rinunciare a qualsiasi concezione della giustizia intesa come “dottrina comprensiva” e di recuperare il valore costitutivo del pluralismo nelle società democratiche argomentando la “neutralità” dei princìpi di giustizia di un regime liberaldemocratico nei confronti di ogni concezione particolare del bene. Su questo terreno il concetto filosoficamente più impegnativo che egli elabora è quello di “consenso per intersezione” (overlapping consen43. Su quest’aspetto della giustizia sociale in Rawls cfr. A. Renaut, Qu’estce qu’une politique juste?, cit., pp. 133-137. 44. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 14-15.

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sus)45. Esso non è solo, come si esprime Rawls, un «pezzo mancante»46 di Una teoria della giustizia, ma una correzione profonda dell’impostazione concettuale di quest’ultima, che sviluppa alcuni elementi dell’originario programma di ricerca e ne lascia in ombra o ne espunge altri. Rawls è ora interessato a dimostrare che i princìpi di giustizia non sono deducibili da una particolare dottrina religiosa, filosofica o morale, ma sono del tutto indipendenti. Indebolendo l’assunto della razionalità della scelta su cui si fondava Una teoria della giustizia, Rawls riformula il concetto di “posizione originaria”. Da esperimento mentale eseguito su soggetti epistemici disincarnati, esso diviene una sorta di cristallizzazione storica degli ideali impliciti nella cultura pubblica di una società democratica, i cui protagonisti sono cittadini rappresentativi, guidati da autonome capacità morali. Il “consenso per intersezione” tocca idee fondamentali quali «quella della società come equo sistema di cooperazione, o dei cittadini come persone ragionevoli, razionali, libere e uguali»47. Alla “cultura pubblica” – ereditata da una pluralità di tradizioni quali la Riforma, l’Aufklärung, la rivoluzione scientifica galileiano-newtoniana, i regimi costituzionali seguìti alle guerre di religione, il lascito ebraico-cristiano e anche la tradizione del movimento operaio europeo di ispirazione socialista48 – Rawls assegna ora una funzione “conciliatrice”: individuare i «valori politici»49 di un’equa cooperazione sociale e garantire la tolleranza reciproca tra differenti concezioni del mondo o “dottrine comprensive” ragionevoli50. 45. J. Rawls, L’idea di consenso per intersezione, in loc. cit., pp. 123-154. 46. Ivi, p. 17. 47. Ivi, p. 135. 48. Significativa, al riguardo, la Préface di Rawls alla traduzione francese della sua Théorie de la justice, Éditions du Seuil, Paris 1987. Su questo punto mi permetto di rinviare a F. Fistetti, Comunità, Bologna 2003, pp. 153-167. 49. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 142. 50. Sul modo di intendere l’ideale della tolleranza si veda il confronto di Habermas con Rawls in: J. Habermas, Religion in the Public Sphere, «European Journal of Philosophy», 1, 2006(XIV), e Id., De la tolérance religieuse aux droits culturels, «Cités. Philosophie, Politique, Histoire», 13, 2003.

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Non vi è dubbio che qui ci troviamo di fronte a una strategia di neutralizzazione del politico (nell’accezione di C. Schmitt) e, come ha rilevato Ch. Mouffe, a una variante dell’«utopia liberale»51 nella cancellazione o «sottovalutazione del ruolo giocato dal conflitto, dal potere, dai rapporti di forza»52. Oggetto di neutralizzazione nel liberalismo politico dell’ultimo Rawls sono tutte quelle concezioni della “vita buona” (di razza, di genere e di cultura) che non rientrano nei “valori politici” considerati ragionevoli e universali. Esse vengono confinate nel privato ed espulse dall’agenda pubblica. Ad esse viene impedito non solo di coesistere e di competere nello spazio pubblico venendo riconosciute come tutte degne di egual rispetto, ma anche di essere considerate come fondamento morale di uno Stato liberaldemocratico. Alla base di questa strategia di neutralizzazione vi è la rigida separazione tra “ragione pubblica” e “ragioni non pubbliche”. La prima, tipica dei popoli democratici, è la «ragione dei cittadini, di coloro che hanno in comune lo stato di eguale cittadinanza», il cui oggetto è il “bene pubblico”, vale a dire «ciò che la concezione politica della giustizia richiede riguardo alla struttura istituzionale di base». Le “ragioni non pubbliche” sono le ragioni delle chiese, dei gruppi minoritari (etnici, religiosi o di altro tipo), delle università e delle molteplici associazioni della società civile, che costituiscono la “cultura di fondo” della società53. Qui, oltre all’offuscamento del paradigma distributivo, siamo di fronte al confinamento delle differenze culturali – in particolare delle culture minoritarie – nel 51. Ch. Mouffe, Le politique et ses enjeux. Pour une démocratie plurielle, La Découverte, Paris 1994, p. 108 ss. 52. Ivi, p. 106. 53. J. Rawls, L’idea di ragione pubblica, in Id., Liberalismo politico, cit., p. 183 ss., e Id., Un riesame dell’idea di ragione pubblica, in J. Rawls, Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone, Torino 1999. Per una critica del modello liberale di spazio pubblico si veda S. Benhabib, Models of Public Space. Hannah Arendt, the Liberal Tradition and Jürgen Habermas, in Ead., Situating the Self. Gender, Community and Postmodernism in Contemporary Ethics, cit., pp. 95-104.

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dominio del privato e alla negazione della loro legittimità nello spazio pubblico54.

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6. La giustizia globale Questo esito armonicistico e neutralizzante non era scontato e discende, in gran parte, dall’evacuazione del Principio di Differenza negli sviluppi che Rawls imprime al suo “liberalismo politico” sia in rapporto alle società democratiche, sia soprattutto quando ha tentato di estendere la teoria della giustizia come equità alle relazioni internazionali55. Di fronte alla crisi del contratto sociale su cui si fondava il Welfare State e al moltiplicarsi sul pianeta di vere e proprie “situazioni sacrificali” (povertà, fame, malattie, distruzioni ambientali e terrorismo globale) – che richiederebbero dei princìpi di giustizia politica per così dire ‘sconfinati’ –, Rawls non esita a rinchiudere i princìpi di giustizia nel perimetro del sistema westfaliano degli Stati nazionali bloccando ogni possibile estensione del Principio di Differenza, con la conseguente “causola antisacrificale” in esso implicita, al piano dei rapporti internazionali tra paesi ricchi e paesi poveri. Con una buona dose di ipocrisia (o di involontario cinismo) Rawls spiega che per la costruzione di una “ragionevole legge dei popoli” ciò che è valido per le nostre società liberaldemocratiche non lo è, invece, per le altre società. Per queste ultime non risultano necessari «i tre elementi egualitari dell’equo valore delle libertà politiche, dell’eguaglianza di equa opportunità e del principio di differenza»56. Con una 54. Per una riconsiderazione del rapporto tra pluralismo contemporaneo e riconoscimento delle differenze in una prospettiva critica del liberalismo politico di Rawls, cfr. A.E. Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto identitario, Napoli 1999, cap. I. 55. J. Rawls, La legge dei popoli, in Aa.Vv., I Diritti Umani. Oxford Amnesty Lectures 1993, a cura di S. Sbute e S. Hurley, tr. it. Milano 1994, pp. 54-97. 56. Ivi, p. 64. «La concezione liberale – chiarisce Rawls – chiede alle altre

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formula che un antropologo giudicherebbe sospetta, egli aggiunge che i popoli “bene ordinati” hanno il dovere di assistere le società svantaggiate, con l’avvertenza che il solo modo, o il modo migliore, di tener fede a questo dovere di assistenza non consiste nell’aderire a un principio di giustizia distributiva volto a regolare le «diseguaglianze economiche e sociali interne alla società dei popoli»57. La tesi di Rawls non lascia adito a dubbi: «Personalmente ritengo che il Principio di Differenza sia un principio ragionevole per quanto concerne la giustizia all’interno di una società democratica, ma non credo sia utilizzabile come strumento per risolvere il problema generale delle condizioni sfavorevoli entro un gruppo di società»58. Ma, se escludiamo ogni criterio di redistribuzione, che cosa resta del principio di equità a cui Rawls ricorre? L’aver ristretto il concetto di equità nei limiti di una concezione politica della giustizia preoccupata esclusivamente di costruire una teoria della legge dei popoli amputata del Principio di Differenza è il segno dello slittamento regressivo del programma di ricerca di Rawls verso un “liberalismo politico” il cui unico dovere di assistenza consiste genericamente nel far sì che «a tempo debito, tutte le società pervengano, o siano aiutate a pervenire, alle condizioni che rendono possibile l’esistenza di una società bene ordinata»59. Il che implica, aggiunge Rawls, che i diritti umani vengano rispettati ovunque e i “bisogni umani primari” soddisfatti60. Ma questo resta un encomiabile auspicio fino a quando l’invocata “legge dei popoli” non includa la consapevolezza di una nuova dimensione politica transnazionale rivolta a ridefinire il concetto di cittadinanza e di rispetto dei diritti umani alla luce di istituzioni che in qualche modo si facciano carico di sconfiggere fame, povertà e svantaggi tra le nazioni società solo ciò che esse possono ragionevolmente garantire senza mettersi in una posizione di inferiorità, e tanto meno di soggezione» (ivi, p. 94). 57. Ivi, p. 90. 58. Ibidem. 59. Ivi, p. 91. 60. Ibidem.

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attraverso politiche ad hoc e non affidandosi al funzionamento spontaneo del mercato. Una delle lezioni da trarre da ciò che è avvenuto l’11 settembre 2001 riguarda la consapevolezza che le masse miserabili del Terzo e Quarto Mondo nutrono un risentimento e un odio crescenti verso l’Occidente opulento e tecnologicamente avanzato, da cui, come ha acutamente sottolineato Dupuy, esse sono attratte e verso cui provano proprio per questo “un’ambivalenza gelosa” nel tentativo disperato di trovare una risposta alla domanda: «Perché gli Europei progrediscono mentre noi accumuliamo ritardi?»61. Agli occhi di queste masse miserabili o, meglio, delle loro élite politiche, l’Occidente appare nello stesso tempo un modello e un rivale, anzi appare un rivale in quanto è un modello secondo la logica del desiderio mimetico62. Pertanto, elaborare una teoria della giustizia sociale che oltrepassi il quadro delle comunità nazionali è un compito prioritario dell’Occidente uscito con il collasso dell’Urss e dei regimi comunisti dell’Est europeo dall’assetto geopolitico della “guerra fredda” ed entrato con l’11 settembre 2001 nel tunnel di una guerra civile all’interno di una stessa civiltà mondiale. Ecco perché in quest’ultimo decennio, contrariamente alla posizione rawlsiana che con Habermas potremmo definire di “sciovinismo del benessere”, alcuni autori – come Beitz, Pogge e O’Neill – hanno avvertito la necessità di applicare un principio di redistribuzione globale al sistema economico mondiale, trasferendo il principio della “posizione originaria” dall’ambito nazionale a quello internazionale. Infatti, perché il Principio di Differenza – secondo cui la distribuzione dei “beni primari” è giusta se va a beneficio dei meno avvantaggiati – non dovrebbe valere per la posizione ori-

61. J.-P. Dupuy, Avions-nous oublié le mal?. Penser la politique après l’11 septembre, Paris 2002, p. 44. 62. Sul mimetismo cfr. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, tr. it. Milano 1981. Sulla doppia implicazione di modello e rivalità, si veda J.-P. Dupuy-P. Dumouchel, L’enfer des choses. René Girard et la logique de l’économie, Paris 1979.

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ginaria globale?63 Tanto più che, come ha osservato la O’Neill, è il nuovo contesto storico della globalizzazione che ha rivelato i limiti oggettivi di Una teoria della giustizia, il cui scenario sociale e politico era quello delle democrazie costituzionali all’interno della sovranità dei rispettivi Stati nazionali. La realtà storica che ci separa da Una teoria della giustizia è, invece, un mondo globale in cui gli svantaggiati – i dannati della terra di cui parlava F. Fanon – sono la maggioranza del pianeta e in cui la crisi del sistema westfaliano degli Stati sovrani ha accentuato la distribuzione ineguale dei vantaggi economici e sociali64 e ha rinfocolato l’“ambivalenza gelosa” delle masse miserabili del pianeta, quella perversa commistione di attrazione e odio (di imitazione e competizione) su cui poneva l’accento Dupuy. Con Nancy Fraser bisogna aggiungere che – quasi una sorta di ironia della storia – la globalizzazione, proprio nel mentre ha esacerbato le diseguaglianze economiche e sociali e ingigantito le distanze tra paesi ricchi e paesi poveri del pianeta, contemporaneamente ha portato in primo piano i conflitti di identità che hanno messo a nudo la fragilità della teoria rawlsiana della legge dei popoli. In questo contesto, le lotte per il riconoscimento delle identità collettive e delle culture fino a ora represse o emarginate hanno rischiato di eclissare l’importanza delle lotte per la redistribuzione che erano state centrali nella fase precedente. Una teoria aggiornata della giustizia, a questo punto, non può non essere “bidimensionale” o “bifocale”, nel senso cioè che deve tener conto delle istanze culturali del rico63. Sulla giustizia globale molti sono gli autori che si sono confrontati con Rawls: in particolare cfr. C. Beitz, Rawls’s Law of Peoples, «Ethics», 4, 2000(CX), pp. 669-696; T. Pogge (a cura di), Global Justice, Oxford-Cambridge 2001; T. Pogge, The Moral Demands of Global Justice, «Dissent», Fall 2000, pp. 37-42; O. O’Neill, Bounds of Justice, New York 2000. Per quanto mi riguarda, ho argomentato la necessità di una teoria globale della giustizia nel mio libro, Democrazia e diritti degli altri. Oltre lo Stato-nazione, Bari 1992. 64. Cfr. la recensione di Ch.-Jones Pauly al libro della O’Neill, Loosening the Bounds of Uman Rights; Global Justice and the Theory of Justice, «Human Rights & Human Welfare», v. 1:3, July 2001.

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noscimento ma senza dimenticare le istanze redistributive che, lungi dall’essersi affievolite, sono diventate ancora più pressanti nell’era della globalizzazione65.

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7. La critica di A. Sen al “liberalismo politico” di Rawls Tra i meriti di A. Sen c’è quello di aver denunciato da tempo le restrizioni che il “liberalismo politico” dell’ultimo Rawls ha imposto al concetto di giustizia come equità. «Molte clamorose ingiustizie – egli scrive – avvengono in circostanze sociali in cui invocare il “liberalismo politico” o il “principio di tolleranza” può non essere né facile né particolarmente utile! E tuttavia lasciare tali questioni al di fuori di “una concezione politica della giustizia” implicherebbe una restrizione molto forte della portata di quest’ultima. Vi sono molti significativi problemi di giustizia e di ingiustizia che hanno a che fare con la scelta politica di istituzioni sociali nei più disparati angoli della Terra, e non è facile accettare la definizione di una concezione politica della giustizia che impone di ignorarne la maggior parte sulla base di una lontananza ideologica dalle democrazie costituzionali. Non è necessario interpretare così angustamente i limiti di “ciò che è politico”. I vasti problemi di diseguaglianza e ingiustizia nel mondo richiedono un approccio meno restrittivo»66. Senza ricostruire in questa sede il confronto di Sen con Rawls, conviene soltanto rilevare che l’impostazione di Sen è rivolta ad approfondire la complessità del tema relativo all’eguaglianza delle chance e alla distribuzione dei “beni primari” contenuto nel Principio della Differenza. Quest’approccio più comprensivo lo porta a privilegiare «la libertà complessiva effettivamente goduta dalle persone» anziché i «risultati acquisiti»67, riformu65. N. Fraser, Social Justice in Globalisation. Redistribution, recognition and participation, «Eurozine», 24-01-2003. 66. A.K. Sen, Giustizia e capacità, in Id., La diseguaglianza. Un riesame critico, Bologna 1994, pp. 114-115. 67. Ivi, p. 116.

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lando i princìpi di giustizia politica attorno alla «focalizzazione sul grado di libertà che un individuo possiede» più che «sugli strumenti per la libertà»68 che per Rawls sono i “beni primari”. «Poiché la conversione di questi beni primari e risorse in libertà di scelta su combinazioni alternative di funzionamenti e altre acquisizioni può variare da persona a persona, – prosegue Sen – l’eguaglianza nel possesso di beni primari o di risorse può coesistere con grandi diseguaglianze nella libertà effettivamente goduta dagli individui. La questione centrale, in questo contesto, è se tali diseguaglianze nella libertà siano compatibili con l’idea di fondo della concezione politica della giustizia»69. Se prendiamo sul serio l’approccio di Sen qui sommariamente richiamato, ci rendiamo conto che l’estensione del Principio di Differenza al piano dei rapporti internazionali fuoriesce dal dominio della concezione politica della giustizia in cui Rawls la inscrive, ristretto cioè alle società liberaldemocratiche dove tra le istituzioni politiche e il paradigma distributivo antisacrificale egli instaura un rapporto di interdipendenza reciproca. Ma ecco il punto di maggiore problematicità teorica e pratica: sul piano internazionale, non esistendo l’analogo delle istituzioni liberaldemocratiche degli Stati nazionali, la “situazione originaria” immaginata da Rawls diviene un esperimento mentale di difficile attuazione per quanto riguarda il ricorso al Principio di Differenza. Chi ne sarebbero i soggetti? E come sarebbe possibile mettere gli Stati e i popoli in una situazione ideale di simmetria e di parità reciproca a fronte di diseguaglianze e di svantaggi enormi? Non è un caso che Sen adotti il Principio di Differenza come prospettiva di analisi della politica internazio68. Ivi, p. 117. 69. Ibidem. «Nella valutazione della giustizia basata sulle capacità, – prosegue Sen – le situazioni individuali non devono essere giudicate sulla base delle risorse o dei beni primari che ciascuno possiede, ma sulla base della libertà effettivamente goduta di scegliere la vita che si ha motivo di apprezzare. È proprio questa libertà effettiva a essere rappresentata dalla “capacità” individuale di acquisire varie combinazioni alternative di funzionamenti» (ibidem).

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nale spostando il fuoco dell’attenzione dal concetto rawlsiano di “beni primari” a quello di “capacità”, dal momento che il Principio di Differenza, facendo riferimento alla «disponibilità dei beni primari come indicatore di una posizione di vantaggio», trascura le «differenze derivanti da altri fattori, quali ad esempio le differenze dei bisogni»70. A ragion veduta Sen proporrà di distinguere tra “equità internazionale” ed “equità globale” al fine di pensare il tema della giustizia senza confini. Ci sono idee e azioni di giustizia che attraversano i confini, che vanno al di là dei rapporti tra le nazioni e delle quali sono protagonisti associazioni non governative, organizzazioni solidaristiche, gruppi religiosi e perfino imprese e persone singole71. Ne deriva che, a suo avviso, nemmeno le Nazioni Unite «possono essere l’organismo preposto ad affrontare la giustizia globale, poiché esse non hanno l’adeguato potere o le risorse […]»72. Sen ci suggerisce, quindi, che una teoria della giustizia globale – che guardi alla libertà effettiva delle persone in ogni angolo della terra di realizzare le proprie “capacità” – non può essere intesa in analogia con il patto che sotto il “velo di ignoranza” Rawls immagina abbia luogo in un singolo Stato liberaldemocratico. Sen compie, per così dire, un percorso inverso rispetto a Rawls:

70. A.K. Sen, Problemi etici nella distribuzione del reddito: aspetti nazionali e internazionali, in Id., Risorse, valori, sviluppo, tr. it. Torino 1992, p. 94. «Nel contesto delle politiche internazionali, – chiarisce Sen – la differenza introdotta nell’analizzare le capacità primarie anziché i beni primari […] è piuttosto significativa. I fabbisogni calorici e nutritivi, così come i bisogni legati all’abbigliamento e all’alloggio variano con le condizioni climatiche. Gli sviluppi sociali, quali l’urbanizzazione, producono nuovi bisogni, e quindi una riduzione delle capacità primarie, a parità di disponibilità di beni primari. Queste differenze devono essere attentamente analizzate in un contesto di giudizi morali sulla distribuzione internazionale del reddito, in quanto non è detto che una persona con un reddito reale più elevato in un paese ricco debba essere automaticamente considerata più avvantaggiata di un individuo con un reddito inferiore in un paese povero» (ivi, p. 109). 71. A.K. Sen, Cooperazione e etica globale, in Id., Cooperazione e mercato globale, «Reset», Milano 1998, p. 38. 72. Ivi, p. 39.

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Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

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egli salva il Principio di Differenza lasciando cadere la proposta rawlsiana di estendere sul piano internazionale la concezione politica della giustizia nei termini di una “legge delle nazioni” la cui preoccupazione fondamentale è di costruire un quadro di convivenza tra i popoli fondato su un minimo comune denominatore di “valori politici” di base tra società democratiche e “società gerarchiche” (come le chiama Rawls)73. Ma anche in questo modo in Sen il grande tema della giustizia globale resta nel vago, anche se egli ne lascia intuire chiaramente la dimensione etica – prima che politica –, così come per lui primariamente etica, e non meramente giuridica, è la problematica dei diritti umani. Tra giustizia globale e diritti umani, infatti, Sen instaura un nesso strettissimo fin quasi a identificare i due concetti con i relativi campi teorici, argomentando così il suo disaccordo con le restrizioni in chiave angustamente nazionale che Rawls impone al godimento dei diritti umani. «Come ha sostenuto John Rawls, – egli nota al riguardo – l’oggettività di un’etica sociale o politica può essere considerata nei termini della sua capacità di essere sostenuta da “un impianto di base pubblico [che possa] rendere conto dell’accordo fra agenti ragionevoli nel giudicare”. Questo è un buon punto di partenza per i diritti umani, ma il mio disaccordo con Rawls riguarda la sua insistenza nell’applicare il suo test dialettico esclusivamente all’interno di ogni società o nazione (ciò che egli chiama un “popolo”) presa separatamente dalle altre, e non globalmente»74. Ora, applicare quello che Sen definisce il “test dialettico” di Rawls – vale a dire 73. Sui requisiti di una “società gerarchica bene ordinata”, cfr. J. Rawls, La legge dei popoli, cit., pp. 74-77. Rawls è molto lontano dal sospettare che le “società gerarchiche”, di cui egli parla, sono – per impiegare il linguaggio di Dumont – delle società prevalentemente “olistiche”, in cui cioè il concetto di “personalità morale libera”, tipica delle società moderne e fatta propria dal costruttivismo politico di Rawls, non è ancora una realtà storica effettiva. Delle tensioni conflittuali che la presenza di queste istanze contrapposte genera nelle “società gerarchiche” Rawls sembra non avere la più pallida idea. 74. A.K. Sen, Identità, povertà e diritti umani, in Aa.Vv., Giustizia globale, tr. it. Milano 2006, p. 15. La citazione di Rawls è tratta da Liberalismo politico, cit., pp. 106-107.

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la sua concezione politica della giustizia – alla società mondiale (e non solo ai singoli “popoli”) non implica soltanto il rispetto dei diritti umani, ma comporta in un certo senso una universalizzazione del Principio di Differenza pur in assenza delle condizioni di una “situazione originaria”. Solo che ciò che Sen – e con lui i teorici della giustizia globale – non riescono a cogliere è che la traslazione del Principio di Differenza sul piano internazionale implica una trasformazione epistemologica radicale commisurata al cambiamento di terreno richiesto. In altre parole, il Principio di Differenza, nella sua applicazione ai rapporti interstatali, per creare giustizia economica tra i popoli, non può obbedire alla logica della reciprocità sottesa alla “situazione originaria” delle società liberaldemocratiche descritta in Una teoria della giustizia. A rigore, se fosse la logica della reciprocità a regolare il Principio di Differenza nelle relazioni internazionali, allora, come ha rilevato ancora una volta Dupuy, la risposta terroristica degli artefici dell’11 settembre sarebbe giustificata. Se la legge umana che è alla base dei rapporti sociali fosse la reciprocità dello scambio, allora il risentimento, la violenza e l’assassinio sarebbero la replica ineluttabile alle violazioni dei diritti umani perpetrati dall’Occidente75, il primo dei quali è il diritto a uno standard di vita decente. Nel concetto di reciprocità della “situazione originaria” agisce l’assunto che nella scelta dei princìpi di giustizia occorre adottare la prospettiva simmetrica dell’altro: un assunto che nei rapporti internazionali tra le parti (le nazioni o i popoli) risulta inapplicabile per le disparità incolmabili di partenza tra le rispettive posizioni economiche e di potere. Qui la logica della reciprocità, per scongiurare il pericolo dell’imitazione mimetica da parte dei più svantaggia75. Nell’unica intervista televisiva rilasciata dopo l’11 settembre, al giornalista che gli chiedeva: «Ciò che dite, è che si tratta di una forma di reciprocità. Essi [gli infedeli occidentali, n.d.t.] uccidono i nostri innocenti, dunque noi uccidiamo i loro innocenti: è questo?», Osama Ben Laden rispondeva: «Noi uccidiamo i loro innocenti e, lo ripeto, noi siamo autorizzati tanto dalla legge dell’Islam quanto dalla logica» (citato in J.-P. Dupuy, Avions-nous oublié le mal?, cit., pp. 50-51).

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ti, deve rovesciarsi in un auto-obbligazione unilaterale da parte dei popoli più favoriti. Pertanto, il Principio di Differenza come cardine di una teoria della giustizia globale che miri a una redistribuzione delle risorse, non può essere enunciato secondo i canoni della logica della reciprocità in tutte le sue declinazioni, comprese le varianti dell’etica habermasiana del discorso: da quella che N. Fraser chiama la «clausola della parità di partecipazione»76, ai princìpi del “rispetto universale” e della “reciprocità egualitaria” dei partecipanti all’interazione umana, su cui insiste S. Benhabib77. Nel contesto dei rapporti internazionali esso, per avere efficacia, non può che configurarsi come un Principio asimmetrico, vale a dire come un’istanza di giustizia incondizionata, come un dovere verso l’umanità o verso quella parte dell’umanità svantaggiata, vulnerabile e oppressa che non potrebbe mai trovarsi nelle condizioni di stipulare un accordo attorno a dei princìpi di giustizia su scala globale.

8. Il Principio di Differenza come articolazione della teoria del dono Così risemantizzato, il Principio di Differenza diviene un’obbligazione unilaterale da parte dei popoli più avvantaggiati nei confronti dei “dannati della terra” e delle vittime del pianeta: un principio che si inscrive in un’etica sconfinata o planetaria, di cui sono parte integrante i diritti umani. Si tratta di una “clausola antisacrificale”, che rinvia alla rielaborazione di un’antropologia del dono all’altezza di una teoria critica del presente78. Certamente si tratterebbe di individuare in concreto 76. N. Fraser, Riconoscimento senza etica?, «Postfilosofie», 2, 2006, pp. 23-40. 77. S. Benhabib, Dalla redistribuzione al riconoscimento? Il mutamento di paradigma della politica contemporanea, in Ead., La rivendicazione dell’identità culturale, tr. it. di A.R. Dicuonzo, Bologna 2005, pp. 77-116. 78. Ho abbozzato questo tentativo nel saggio Il paradigma del riconoscimento: verso una nuova teoria critica della società?, «Postfilosofie», 1, 2005, pp. 95-120.

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gli obblighi a cui gli Stati donatori e gli attori economici dovrebbero attenersi, come pure si tratterebbe di progettare un network di istituzioni preposto a mettere a punto politiche di giustizia redistributiva. Non senza, tuttavia, stabilire condizioni di verifica e di controllo dell’implementazione delle politiche di solidarietà per evitare che le risorse vadano a vantaggio dei tiranni o del ceto burocratico-politico corrotto invece che delle popolazioni svantaggiate. Ma ciò che conta è la consapevolezza che una “clausola antisacrificale” di questo tipo non è l’omologo sul piano dei rapporti internazionali del Principio di Differenza, così come quest’ultimo si struttura all’interno delle società democratiche, dove non può sottrarsi alla logica simmetrica – che si rivela pur sempre in ultima analisi una logica mimetica e, perciò, autodistruttiva – della reciprocità e del consenso. È un gesto la cui generosità meno che mai si inscrive nel paradigma della scelta razionale, ma discende da una concezione che ha a che fare con una giustizia infinita nel senso in cui ne ha parlato Lévinas79, o da quell’atto preliminare del donare che, secondo Marcel Mauss, ogni volta è stato necessario nella storia dell’umanità per imporre la “volontà di pace” e sostituire «alla guerra, all’isolamento e alla stasi, l’alleanza, il dono e il commercio»80. Quest’assunto epistemologico di Mauss si rivela sorprendentemente valido nella situazione epocale dell’oggi, in cui, come ha sottolineato Monique Chemillier-Gendreau, il mercato e i media hanno creato sì una società internazionale, ma priva di fondamenti politici legittimi e senza un Diritto in 79. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. Jaca Book, Milano 1990 (seconda edizione). Ho ripreso in chiave etico-politica il motivo lévinassiano della giustizia infinita in I filosofi e la polis, cit., Introduzione e cap. 5. 80. «Le società hanno progredito – prosegue l’autore – nella misura in cui esse stesse, i loro sottogruppi e, infine, i loro individui, hanno saputo rendere stabili i loro rapporti, donare, ricevere, ricambiare» (M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Introduzione di C. Lévi-Strauss, tr. it. di F. Zannino, Torino 1965, pp. 290-291).

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Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

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grado di contrastare o di temperare la potenza della lex mercatoria81. Se è vero che non esiste dono assolutamente gratuito, come ha notato Mary Douglas82, e se, come ha mostrato Caillé, il dono «non è definibile senza l’interesse, ma contro di esso»83, allora anche la giustizia globale va intesa come intreccio di incondizionalità e di condizionalità, di disinteresse e di interesse, di fiducia e di calcolo. La “clausola antisacrificale” a vantaggio dei meno favoriti sul piano dei rapporti tra le nazioni è una proposizione o un imperativo che precede qualsiasi scambio tra interlocutori che si considerano e si riconoscono eguali in termini morali. Se ci fosse solo simmetria e parità nell’interazione, non ci sarebbe dono o solidarietà. La solidarietà, nonostante tutte le condizioni che i donatori più ricchi devono introdurre per rendere efficaci i programmi degli aiuti, è un’obbligazione asimmetrica. E non può non essere tale, pena la sua autonegazione performativa. Il passaggio a un’istanza di incondizionalità condizionale nella teoria globale della giustizia, tale da coniugare da un lato un’obbligazione senza reciprocità da parte dei popoli più avvantaggiati verso i “dannati della terra” e verso le vittime del pianeta, e dall’altro un complesso di condizioni relative all’implementazione degli aiuti e delle politiche redistributive, risulta, dunque, del tutto precluso al liberalismo politico di Rawls. Ma, come abbiamo visto, risulta precluso anche ad autori che hanno elaborato, sia pure declinandola in termini tra loro diversi, una visione co81. M. Chemillier-Gendreau, Le droit dans la mondialisation, in Ead., Peut-on faire face au capitalisme?, Puf, Paris 2001, p. 15 ss. 82. M. Douglas, Il n’y a pas de don gratuit. Introduction à l’édition anglaise de L’«Essai sur le don» de Marcel Mauss, in «La revue du MAUSS», 4, pp. 99115. 83. «Esiste e opera solo perché, essendo dono determinato e non dono in sé, dono di qualcosa (foss’anche il niente), è sempre legato, in modo contraddittorio, con altra cosa da se stesso. Ecco perché il dono è nello stesso tempo scambio, senza ridursi a esso, condizionale e incondizionale, interessato e disinteressato» (A. Caillé, «Dono, interesse e disinteresse», in Id., Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino 1998, p. 104).

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smopolitica della giustizia come Beitz, Pogge, O’Neill e lo stesso Sen.

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9. Giustizia globale ed egoismo democratico In conclusione, vorrei prendere brevemente in considerazione la posizione di Seyla Benhabib, contraria in linea pregiudiziale a ogni principio redistributivo globale, perché fa valere la priorità dell’autogoverno democratico sulla redistribuzione internazionale delle risorse riconducendo quest’ultima istanza all’interno della teoria della democrazia deliberativa. Per “creare giustizia economica tra i popoli”, argomenta la Benhabib, occorrerebbe prima esaminare «la compatibilità di un tale principio con l’autogoverno democratico»84. Ma postulare una correlazione reciproca tra i criteri di giustizia globale e le forme di una democrazia deliberativa, come fa la Benhabib, significa, in ultima analisi, ricadere nel generico dovere di “assistenza” invocato da Rawls in La legge dei popoli. Inoltre, le tre obiezioni che la Benhabib rivolge al redistribuzionismo globale – l’obiezione epistemica, l’obiezione ermeneutica e l’obiezione democratica –, per quanto non implausibili nel merito, condividono tutte il presupposto fallace secondo cui sul piano dei rapporti internazionali tra paesi ricchi e paesi poveri debba valere lo stesso criterio del consenso dei partecipanti che è il criterio normativo di base su cui si regge una democrazia deliberativa, fondata a sua volta sull’etica del discorso85. Estendere il Principio di Differenza all’economia mondiale sarebbe, a suo avviso, un «errore di concretezza malposta», poiché a fronte di un oggetto epistemico e morale complesso come l’economia mondiale «è

84. S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, tr. it. di S. De Petris, Milano 2006, p. 84. 85. Sulla democrazia deliberativa e suoi presupposti di etica del discorso, cfr. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, cit., in specie il cap. IV.

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preferibile fissare obiettivi globali generali sui quali sia possibile raccogliere un consenso democratico»86. Come se obiettivi quali la riduzione della fame nel mondo, della mortalità infantile, dell’analfabetismo e delle morti per malnutrizione e per mancanza di cure sanitarie adeguate non comportino una redistribuzione delle risorse su scala globale, e perfino una riforma politica democratica del governo di alcuni organismi sovranazionali come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale87. Che il Principio di Differenza sia «un criterio di giudizio» e non «un manuale per la politica» che difficilmente può essere considerato «una mappa per la riforma delle istituzioni», si può essere d’accordo con Benhabib, ma si tratta pur sempre di un criterio etico normativo, che non può essere derubricato a un semplice strumento teorico rivolto a «migliorare la Pareto-ottimalità nel valutare la giustizia delle istituzioni economiche»88. All’interno della finzione epistemologica del “velo di ignoranza” che pone gli attori sociali sullo stesso piano costringendoli all’interazione discorsiva in una logica di eguaglianza simmetrica, il Principio di Differenza contiene un elemento antiutilitaristico di incondizionalità che prescrive la non-sacrificabilità dei meno avvantaggiati. Che si dia una difficoltà oggettiva nell’applicazione di questo principio al di là dei confini nazionali, poiché non esiste un criterio univoco e universalmente condiviso su chi debba essere considerato “il meno avvantaggiato”, non c’è alcun dubbio. Ma contro la plausibilità di una teoria della giustizia globale non può essere addotta l’obiezione che sul piano internazionale manca l’equivalente di una sfera pubblica di opinione e di scambio dialogico tipica delle società democratiche nella quale poter definire consensualmente chi sono «i meno avvantaggiati»89. È sorprendente che proprio la Benhabib dimentichi che uno de86. S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., p. 85. 87. Su queste istituzioni tuttora improntate all’ideologia del fondamentalismo del mercato e al “Washington’s consensus” si veda J.E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, tr. it. Torino 2003. 88. S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., p. 86. 89. Ivi, p. 87, nota 14.

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gli effetti non programmati della globalizzazione è il consolidamento di una società civile mondiale e la nascita di movimenti sociali e di opinione transnazionali. Sicché, se è più facile per le società democratiche adottare una modalità comune di governance attraverso cui determinare forme di responsabilità pubblica nel valutatre «i cambiamenti nella politica redistributiva», lo stesso sforzo potrebbe essere proiettato sul piano internazionale. Qui si tratterebbe, come la stessa Benhabib non manca di osservare, di sottoporre a “vincoli democratici” organismi come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio e l’Agenzia per lo sviluppo internazionale, tentando così di «riconciliare il processo di decisione democratica con le politiche redistributive»90. Tuttavia, ciò che la Benhabib sembra dimenticare è che la democratizzazione di questi organismi e la creazione di altre analoghe istituzioni di tipo sovranazionale sotto l’egida dell’Onu è difficile che vengano intraprese dai paesi più ricchi e tanto meno dalle potenze egemoniche del pianeta: si intuisce facilmente che a questo livello siano destinati a prevalere i rapporti di forza e di potere che sono sfavorevoli ai popoli “meno avvantaggiati”. L’«egoismo democratico»91 è il piano inclinato delle democrazie liberali dell’Occidente ed esso non verrà mai scalfito fino a quando non interverrà una decisione incondizionale – sottratta cioè al gioco del consenso democratico – da parte delle società liberaldemocratiche e degli organismi sovranazionali sopra richiamati rivolta a progettare e implementare politiche di solidarietà redistributiva. La proposta della Benhabib di inventare «forme di iterazione democratica», vale a dire processi complessi di interazione e cooperazione reciproca tra contesti diversi e stratificati di governance, all’insegna di un cosmopolitismo federale92, sposta la questione della giustizia redistributiva sul terreno dell’integrazione politica e dell’autogoverno demo90. Ibidem. 91. Ivi, p. 88. 92. Ivi, pp. 90-101.

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Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

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cratico sottolineando l’interdipendenza tra istituzioni politiche e comunità culturali, tra diritti civili-politici e diritti umani. Ma in questo spostamento la questione della giustizia globale evapora, almeno fino a quando essa rimane una variabile interna delle società democratiche e non diviene, invece, il framework teorico di una nuova etica della cittadinanza, la cui premessa maggiore è l’obbligo morale di una redistribuzione delle risorse a favore dei popoli meno avvantaggiati del pianeta. La Benhabib sostituisce al compito epistemologico e critico-ermeneutico di elaborare una teoria della giustizia globale una dottrina della democrazia in grado di ripensare la cittadinanza nell’epoca della globalizzazione93. Forse senza rendersi pienamente conto che si tratta di due facce della stessa medaglia o, meglio, di due aspetti diversi ma complementari, dove però il Principio di Differenza è una clausola morale asimmetrica che sola può contrastare l’“egoismo democratico” e la tendenza connaturata delle democrazie liberali alla ricerca del “capro espiatorio”.

93. Cfr. S. Benhabib, Iterazioni democratiche. Locale, nazionale, globale, in Ead., I diritti degli altri, cit., pp. 137-169.

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Appendice

Giustizia globale e paradigma del dono

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V

orrei provare, discutendo due recenti e importanti contributi rispettivamente di Alain Caillé e Marcel Hénaff94, ad argomentare, sia pure brevemente, la necessità che nell’orizzonte storico odierno, caratterizzato da una società-mondo e da una civiltà planetaria assolutamente inedite, il paradigma del dono compia un salto evolutivo tale da dislocarlo su questo nuovo terreno, in modo da poter affrontare con i suoi specifici strumenti concettuali la complessità dei problemi e delle domande introdotta dalla nuova situazione epocale. Una tale esigenza epistemologica (oltre che etico-pratica) non è per nulla peregrina se è vero, come osserva Caillé, che l’egemonia del discorso economicista nelle scienze sociali e nella cultura occidentale – che ha avuto luogo attorno agli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso – ha anticipato nel cielo della teoria le trasformazioni del mondo reale innescatesi successivamente e che abbiamo convenuto di chiamare col termine di “globalizzazione”. Se, come afferma efficacemente Caillé, la «verità fondamentale» della globalizzazione è che con l’assoggettamento di tutte le sfere dell’azione sociale (scienza, tecnica, sport, cultura, ecc.) alla legge del mercato «tutto diviene tendenzialmente merce», allora per contrastare questo processo di mercatizzazione generalizzata occorre sì mettere a frutto le “risorse teoriche” che provengono da Marcel Mauss e dalla «scoperta dai lui esposta nel suo Saggio sul dono», ma assumendo il contesto della società-mondo e della civiltà planetaria – con le sue fratture e contraddizioni – come l’orizzonte imprescindibile dell’attuale lavoro teorico. È dentro questo nuovo orizzonte di senso che va riformulata la scoperta maussiana secondo 94. Mi riferisco a: A. Caillé, Le don entre science sociale et psycanalyse. L’héritage de Mauss jusqu’à Lacan, «Revue du MAUSS», 27, 2006, e M. Hénaff, Anthropologie du don: Genèse du politique et sphères de reconnaissance, saggio inedito che è servito come schema delle lezioni che l’autore ha tenuto a Napoli presso l’Istituto Italiano degli Studi Filosofici dal 6 al 10 novembre 2006. Di Hénaff si veda anche Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, tr. it. Troina 2006.

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Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

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cui «in un certo numero di società, sottinteso non tutte, […] la regola sociale fondamentale non è quella che presiede alla costruzione della nostra società moderna, non è quella dello scambio mercantile o del contratto, ma quella del dono», della triplice obbligazione del donare, ricevere e restituire. Tra le numerose conseguenze che Caillé ricava da questo postulato di Mauss vorrei soffermarmi per un momento sul carattere agonistico del dono, sulla dimensione ad esso inerente di lotta in termini di generosità (il voler schiacciare il donatario con la potenza ostentaria della generosità), ma anche di rivalità e di ostilità. Si dà un’ambivalenza costitutiva del dono, che Caillé formula così: «Anche se sussiste in ciò un’enorme ambivalenza e ostilità, anche se c’è una dimensione di guerra per la ricchezza – che è una delle traduzioni del termine potlatch –, resta nondimeno il fatto che questa guerra di generosità si sostituisce alla guerra reale e che essa compie in modo quasi omeopatico il suo lavoro fondamentale che è di trasformare i nemici in amici. È questo lavoro che consente, per dirla in maniera più generale, di passare dalla sterilità, dalla morte, dal fatto che non c’è niente al fatto che c’è qualcosa, c’è una relazione sociale e non il nulla. Ecco ciò che realizza il dono primario» (il corsivo è mio). Ora, nel contesto della società-mondo in cui trionfa la lex mercatoria possono gli Stati, le cui frontiere sono state di fatto cancellate dalla logica transnazionale e nomadica del capitale finanziario, comportarsi come gli individui razionali della teoria economica posti di fronte al dilemma del prigioniero? Credo che a questo livello abbiamo bisogno di ripensare la teoria della giustizia globale nella direzione di una «scommessa di fiducia» (pari de confiance) in cui consiste il dono, quella scommessa che, come precisa Caillé, «sfida la razionalità immediata» e «che dice: noi potremmo essere alleati anziché nemici». O, come potremmo anche dire rovesciando la medaglia, il paradigma del dono dovrebbe essere messo alla prova sul terreno della teoria della giustizia globale. Che cosa implica per la teoria della giustizia globale questa scommessa che non è “razionale”, ma “ragionevole”, se non quella che io chiamo un’auto-obbligazione da parte dei paesi e degli Stati più avvantaggiati a favore dei paesi e degli Stati meno avvantaggiati al fine di redistribuire le risorse secondo criteri di equità? Mi rendo conto che le questioni connesse a un simile mutamento di prospettiva nelle relazioni internazionali sono enormemente difficili e complicate. Anzitutto, come classificare le politiche degli aiuti attualmente esistenti nei rapporti tra Nord e Sud del mondo e che vengono

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gestite da organismi sovranazionali come l’Onu, l’Ue, la Banca Mondiale o da associazioni internazionali privato-sociali di beneficenza come la Caritas e così via? E in quale forma di dono queste pratiche di aiuto rientrano tra quelle individuate da Hénaff: 1) il dono cerimoniale, spesso detto “arcaico”, perché lo troviamo nelle società tradizionali, connotato dai caratteri della pubblicità e della reciprocità; 2) il dono grazioso, che può essere pubblico o privato, ma sempre unilaterale; 3) il dono di aiuto reciproco (entraide), che rinvia sia all’azione filantropica sia alla solidarietà sociale? È difficile inscrivere in uno di questi tre generi di dono l’insieme variegato della politica degli aiuti da parte dei paesi cosiddetti ricchi. Saremmo allora legittimati a sostenere che il paradigma del dono manca l’obiettivo della giustizia globale? Una conclusione di questo tenore sarebbe non solo affrettata, ma erronea, perché forse solo il paradigma del dono possiede le “risorse teoriche” per elaborare una teoria della giustizia globale all’altezza del presente. Con probabilmente degli effetti di retroazione benefica, nel senso che l’elaborazione di una teoria della giustizia globale imporrebbe al paradigma del dono di allargare il raggio della sue categorie analitiche e la sua portata euristica. Hénaff fa corrispondere – sulla scia di Axel Honneth – alla differenziazione del paradigma del dono tre distinte sfere di riconoscimento: la prima sfera di riconoscimento trasforma la reciprocità dei partner del dono cerimoniale nella «relazione del cittadino con il potere sovrano», una relazione regolata dal primato della legge e del diritto e che nell’età moderna ha dato luogo al modello del contratto sociale; la seconda sfera di riconoscimento è quella che abbraccia la vita in comune, i rapporti di vicinato, tutti quei modi dell’esistenza che rafforzano l’appartenenza di gruppo; la terza sfera di riconoscimento include tutte le forme di amore e di amicizia nella vita personale. Giustamente Hénaff rileva che si tratta di intendere il riconoscimento in tutte e tre le sfere in primo luogo non «in termini di domanda o di autorealizzazione», ma «in termini di reciprocità». Vale a dire, non bisogna solo richiedere riconoscimento, ma offrirlo, dal momento che «il riconoscimento è reciproco o non è». Hénaff aggiunge: occorre cominciare con il donare ciò che si vuole per sé, cioè il riconoscimento. Ma ecco il cuore della questione del dono: se assumiamo come punto di partenza l’offerta del riconoscimento o, come afferma Caillé, la «scommessa della fiducia», allora ci collochiamo al di fuori della logica della reciprocità o, quanto meno, la reciprocità diventa secondaria – viene dopo – rispetto al gesto uni-

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Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

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laterale del donare riconoscimento o dello scommettere sulla fiducia. Il gesto del donare riconoscimento è paragonabile a un’operazione a somma-zero dal punto di vista della razionalità economica, ma possiede un enorme valore etico-pratico, dal momento che fa prevalere sulle gerarchie di potere e sulle asimmetrie di reddito e ricchezza la priorità delle relazioni reciproche e, di conseguenza, la dignità dell’altro che partecipa all’interazione e l’importanza di ciò di cui è portatore. Sotto questo profilo, sarebbe del tutto razionale – e non un puro atto di oblatività caritatevole – che i paesi ricchi offrissero per primi riconoscimento ai paesi poveri dirottando verso di loro risorse sufficienti non solo a debellare la fame e le malattie, ma anche a elevare il livello della libertà reale di quei popoli in termini di “capacità di agire” (le capabilities di Sen) e nel contempo a far sì che le loro culture – spesso nella storia aggredite dal colonialismo e dall’imperialismo delle potenze occidentali – venissero riconosciute come altrettanto degne di rispetto. In altre parole, la regola della reciprocità viene dopo un riconoscimento preliminare, che comporta l’adozione di una qualche “clausola antisacrificale”, paragonabile al Principio di Differenza di Rawls esteso al piano dei rapporti internazionali. La dimensione normativa della teoria del dono sta sì nel fatto, come spiega Caillé, che nelle diverse culture è necessario che entrino «nello stesso tempo obbligo e libertà, l’interesse per sé e l’interesse per altri», in modo che questi quattro poli si contemperino a vicenda. Ma perché si realizzi l’“alleanza” invece dell’ostilità, l’“ad-sociazione” invece della guerra, occorre che l’“apertura all’altro” sia una decisione libera tale che preceda l’interesse per sé. L’altro non può stare sullo stesso piano in cui sono io: l’altro – direbbe Lévinas – sta sull’altra riva. Anche (e forse tanto più) quando l’altro sono i paesi poveri del Sud del mondo, verso i quali è inevitabile che si instauri quella che Simone Weil chiama la “giustizia del più forte”, vale a dire quel tipo di giustizia che i greci rivendicavano nei confronti dei meli nel celebre dialogo raccontato da Tucidide in La guerra del Peloponneso95. Il diritto, compreso il diritto 95. «La nostra proposta – affermano i greci – è che si faccia quanto è realmente possibile sulla base dei veri intendimenti di entrambi: consapevoli entrambi del fatto che la valutazione fondata sul diritto si pratica, nel ragionare umano, solo quando si è su di una base di parità, mentre, se vi è disparità di forze, i più forti esigono quanto è possibile e i più deboli approvano» (Tucidide, La guerra del Peloponneso, Libro V, 89, a cura di L. Canfora, Torino 1996, p. 755, il corsivo è mio). Si veda sul tema della forza il saggio di F.R. Recchia

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internazionale, celebra sempre la “giustizia del più forte”. Ecco perché occorre un gesto preliminare di gratuità, di “sospensione” della forza (come direbbe S. Weil): una battuta d’arresto tale da rompere la claustrazione del soggetto – nel nostro caso, la vichiana “boria delle nazioni” che presumono che la loro civiltà o la loro cultura sia superiore a tutte le altre – e donare riconoscimento. Ciò significa, spiega Caillé, riconoscere gli altri popoli e le altre culture come a loro volta capaci di entrare nel «registro del dono e della donazione, del dare e del donare». Ma se prendiamo sul serio quest’approccio teorico, allora nella società-mondo e nella civiltà planetaria in cui la globalizzazione ci ha gettato la teoria del dono deve saper elaborare una problematica concernente le relazioni tra i popoli e tra le culture che corrisponda a una umanità il cui centro di riferimento giuridico-politico non è più e non può più essere lo Stato nazionale. Ma qual è oggi lo statuto di un’umanità comune? Che cosa vuol dire avere un mondo in comune? Le domande potrebbero moltiplicarsi, ma tutte convergerebbero sulla questione di quale legame politico potrebbe farci entrare nel circuito del dono e della donazione, del “dare” e del “donare” (tra parentesi è appena il caso di notare che una tale impostazione induce ad andare oltre Schmitt e la sua teoria della sovranità esemplata sul rapporto amico/nemico, e oltre Kojève e la sua rilettura della dialettica servo/ padrone incentrata sul riconoscimento come volontà di potenza). La teoria della giustizia globale rientra, a mio avviso, in questa problematica più ampia, le cui basi poggiano sulla teoria maussiana del dono e sui suoi sviluppi recenti. Ad esempio, la tesi di Mauss secondo cui il perseguimento brutale degli interessi dell’individuo alla lunga nuoce all’individuo stesso oltre che «alla pace e ai fini dell’insieme»96, può essere estesa al piano dei rapporti internazionali tra i popoli e gli Stati. Essa contiene in nuce gli elementi fondamentali di una teoria della giustizia globale. «Il produttore – scrive Mauss – sente di nuovo, ha sempre sentito, ma questa volta in modo più acuto, di dare in cambio qualcosa che è più di un prodotto o di un tempo di lavoro; egli sente di dare qualcosa di se stesso, il proprio tempo, la propria vita, e vuole

Luciani, «Concepire l’equilibrio»: la forza, la giustizia, l’obbligo e il loro legame con la corporeità attraverso Simone Weil, in questo stesso volume. 96. M. Mauss, Saggio sul dono, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Introduzione di C. Lévi-Strauss, tr. it. di F. Zannino, Torino 1965, p. 284.

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Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

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essere ricompensato, sia pure moderatamente, per questo dono»97. Allo stesso modo, il perseguimento dei puri interessi utilitari o di potenza da parte dei paesi egemoni è destinato ad alimentare gli aspetti negativi della globalizzazione fino a ritorcersi contro quegli stessi paesi: la logica del mercato senza regole sfocia prima o poi nella violenza, nella guerra e nella barbarie. La lezione di Mauss, in proposito, è di contemperare l’interesse particolare con quello generale: garantire la pace accedendo all’idea di una «ricchezza comune»98 e soprattutto di un mondo comune99. Potremmo anche dire che ogni popolo-culturanazione sente di dare qualcosa di specificamente suo alla grande famiglia dei popoli e delle nazioni e per questo contributo vuole essere riconosciuto e “ricompensato”: vuole essere immesso nel ciclo del darericevere-restituire inteso nella sua accezione più larga (non solo economica, ma simbolico-culturale). Come il produttore delle società economicamente avanzate sente di dare qualcosa che non è semplicemente riducibile al tempo di lavoro erogato ma ha a che fare con il dono del suo sé e della propria esistenza, così pure nelle relazioni internazionali le nazioni e i popoli meno avvantaggiati o che patiscono l’indigenza e la povertà non possono essere considerati come semplici operatori di uno scambio presuntamente paritario secondo il modello dell’homo oeconomicus, ove peraltro lo scambio è già in origine diseguale, data la diseguaglianza materiale dei soggetti in campo. Essi vanno compresi nella loro alterità come degni di rispetto, accettati nella loro differenza come una differenza non-indifferente, tale cioè che arricchisce la nostra visione dell’umanità e del mondo, e riconosciuti come capaci di donare qualcosa che noi non abbiamo. Riconoscere una cultura equivale, infatti, ad attribuirle un valore insostituibile e, starei per dire, unico nell’ambito delle civiltà e delle culture. In questa prospettiva, potremmo estendere alle culture la tesi formulata da Caillé relativamente al valore sociale dei soggetti100 e affermare che il valore di una cultura si misura sulla sua capacità 97. Ivi, p. 285. 98. Ivi, p. 291. 99. Mi permetto di rinviare su questi due ultimi aspetti a F. Fistetti, Il paradigma del riconoscimento: verso una teoria critica della società?, «Post-filosofie», 1, 2005. 100. A. Caillé, Reconnaissance et sociologie, relazione al convegno “La sociologie face à la reconnaissance» tenutosi a Parigi il 14, il 15 e il 16 dicembre 2006, p. 10.

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di donare, intendendo con questa espressione sia l’insieme dei doni che essa ha realmente accordato all’umanità, sia le sue potenzialità di dono. Ma una volta stabilito che il criterio di valutazione del valore dei soggetti (individuali e collettivi) «c’est l’ensemble des dons qu’ils ont effectivement faits ou bien leur capacité à donner, leurs potentialités de don», Caillé si chiede se il criterio di valutazione concerne più la potenzialità o l’atto del dono («La puissance ou l’acte du don?»). È evidente che, per quanto riguarda le culture, la risposta a questa domanda non può reintrodurre una gerarchia assiologica tra culture superiori e culture inferiori, tra culture degne di essere riconosciute come significative e culture dotate di scarso o nessun valore. Per tutte vale la dimensione fenomenologica della “donazione” (das Ergebnis) o, come direbbe Arendt, la dimensione della gratuità e della spontaneità umana. Ogni cultura contiene il dono di qualcosa che ha a che fare con la pluralità e la diversità umane: si tratti di manufatti, opere d’arte, simboli, codici di comportamento, ecc… È verso questa pluralità e diversità costitutive che Hannah Arendt suggeriva di avere non solo un atteggiamento di stupore, di ammirazione e di lode, come le aveva insegnato il suo amico poeta Auden, ma anche di gratitudine per il fatto che sulla Terra, che è la nostra comune dimora, c’è un popolo o un gruppo umano o una nazione che ha una «posizione nel mondo che nessuno può immediatamente duplicare» e una «visione del mondo che esso solo può realizzare»101. Anzi, più grande è la pluralità e la diversità che caratterizzano un popolo o una cultura, più grande è il valore che va loro attribuito («Più punti di vista esistono in un popolo dai quali esaminare il mondo che tutti ospita in uguale misura e a tutti si presenta in uguale misura, più la nazione sarà grande e aperta»102). E non a caso la Arendt ha insistito sul fatto che il dono dell’alleanza è il centro focale del politico inteso come lo spazio delle relazioni tra i popoli e tra le culture: ella ci ricorda che il trattato di pace e l’alleanza – così come si sono sviluppati nella civiltà occidentale – sono «concetti di origine romana» che hanno reso possibile la trasformazione dell’ostilità in amicizia e la creazione di un mondo comune, in cui «i nemici di ieri diventavano gli alleati di domani»103. A maggior ragione, allora, affinché il dono dell’alleanza continui oggi ad essere l’asse cen101. H. Arendt, Che cos’è la politica?, a cura di U. Ludz, tr. it. Milano 1995, Frammento 3c, p. 83. 102. Ibidem. 103. Ivi, p. 85.

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Giustizia sociale, giustizia globale e obbligo del dono

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trale del politico nelle relazioni tra i popoli è necessario recuperare la dimensione globale della giustizia redistributiva. Riconoscere il valore di una cultura, di un popolo, di un gruppo umano – specialmente quando non hanno il minimo vitale per la sopravvivenza – implica un’obbligazione unilaterale a un’equa redistribuzione della ricchezza del pianeta. Pertanto, una conclusione provvisoria potrebbe essere la seguente: non c’è redistribuzione senza riconoscimento, e non c’è riconoscimento senza redistribuzione.

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La globalizzazione della differenza, tra etiche e diritti I

L

a globalizzazione costringe chiunque si impegni nel comprenderla a un ripensamento dei vocabolari e delle categorie concettuali che l’intero spettro delle scienze umane e sociali ha fino a oggi prodotto. Essa non può per altro essere considerata come un fenomeno economico, sociale, politico, morale o storico accanto ad altri. La globalizzazione ha infatti acquisito un carattere per lo più inedito, presentandosi come un fenomeno appunto globale, nel senso di complessivo, caratterizzante non solo questo o quell’ambito – e quindi non solo questa o quella disciplina, che di tale ambito si occupa –, ma comprendente, a ogni latitudine, ogni ambito del vivere e del sapere umano. Se da un lato può apparire stimolante, la globalità di tale fenomeno rischia, dall’altro, di annichilire ogni tentativo di comprensione, specie se articolato da un solo angolo prospettico o disciplinare, ovvero di banalizzarne radicalmente i risultati. Consapevole di tali rischi, il presente lavoro è totalmente alieno dalla tentazione di offrire un’analisi del fenomeno globalizzazione che si proponga di abbracciarne i confini1. L’intento I. Il presente lavoro costituisce una versione ampliata e completamente rivista (ad eccezione del par. 3., che compare qui per la prima volta) del saggio: Spostare i confini. Appunti per un’antropologia politica della globalizzazione, in P. Foradori-R. Scartezzini (a cura di), Globalizzazione e processi di integrazione sovranazionale: l’Europa, il mondo, Soveria Mannelli 2006, pp. 231-257. 1. Esistono ormai al proposito importanti lavori di sintesi. Senza alcuna pretesa di completezza, mi limito qui a segnalare quelli dai quali ho acquisito

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di fondo è, piuttosto, di ordine diairetico: si vorrebbe infatti cercare di attraversare i molteplici ambiti connessi al fenomeno globalizzazione lungo una linea direttrice che, avendo per ideale termine il ripensamento dei processi di integrazione sovranazionale attualmente in atto, individui il proprio filo rosso nella connessione tra questione antropologica e sfera politicogiuridica. La domanda dalla quale vorrei partire si pone nei termini seguenti: quali sono i problemi connessi alla concettualizzazione di una struttura istituzionale in grado di offrire riscontro a quei processi di integrazione, continuando al tempo stesso a garantire quanto oggi assicura lo Stato nazionale in termini di libertà, diritti e benessere individuali? Una struttura siffatta si trova davanti a una duplice difficoltà: dovrebbe infatti non far i maggiori stimoli: per un utile e preliminare inquadramento problematico può essere consultato il fascicolo di «Fenomenologia e società» dedicato a Globalizzazione, diritti e culture, 1, 1999(XXII); cfr. inoltre Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences, Cambridge-Oxford 1998 [tr. it. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari 1999]; U. Beck, Was ist Globalisierung? Irrtümer des Globalismus – Antworten auf Globalisierung, Frankfurt a.M. 1999 [tr. it. Che cos’è la globalizzazione? Rischi e prospettive della società contemporanea, Roma 72002 (1999)]; I. Clark, Globalization and Fragmentation. International Relations in the Twentieth Century, Oxford 1997 [tr. it. Globalizzazione e frammentazione. Le relazioni internazionali nel ventesimo secolo, Bologna 2001]; G. Damiano, Elogio delle differenze, Padova 2000; D. D’Andrea-E. Pulcini (a cura di), Filosofie della globalizzazione, Pisa 2001; M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna 2000; L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Roma-Bari 2000; A. Giddens, Runaway World. How Globalisation is Reshaping our Lives, London 1999 [tr. it. Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna 2000]; D. Held, Democracy and the Global Order. From the Modern State to Cosmopolitan Governance, Cambridge, Polity Press 1995 [tr. it. Democrazia e ordine globale. Dallo Stato moderno al governo cosmopolitico, Trieste 1999]; G. Lafay, Comprendre la Mondialisation, Paris 1996 [tr. it. Capire la globalizzazione, Bologna 1998]; G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Torino 2000; Id., Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino 2003; F. PrausselloM. Marengo, L’economia mondo tra globalizzazione e regionalizzazione, Genova 1999; D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari 2004.

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La globalizzazione della differenza, tra etiche e diritti

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perdere nulla delle conquiste raggiunte dalle democrazie – specificamente occidentali –, senza al tempo stesso ingabbiare e pre-condizionare lo sviluppo di quei medesimi processi, che si presentano caratterizzati, a loro volta, da una duplice incertezza: da una parte, appare da più punti di vista difficile affermare a cosa portino, verso quale direzione siano indirizzati, dall’altra, non si sa se, nei loro esiti, quei processi integrativi avranno ancora bisogno di qualcosa di avvicinabile al modello occidentale di Stato. Si sente oggi infatti da più parti parlare del problema del governo mondiale o dell’esigenza di una global governance. Il coté problematico del governo mondiale si sostanzia a partire dalla convinzione che un mondo ormai da molteplici punti di vista globalizzato richieda un governo che sia a sua volta globalizzato. Risulta confacente, oggi, pensare a questo assunto nei termini di un problema – e non, ad esempio, nella forma di un ideale o di un’utopia dell’irrealizzabile –, credo innanzitutto per il fatto che, domani, potremmo riconoscere in questo semplicemente un falso problema, ovvero essere costretti ad ammettere che il mondo globalizzato non consente di essere governato in forma a sua volta globale o globalizzata. Per provare ad articolare una risposta a tale domanda, la nostra limitatezza concettuale e la poca ampiezza della nostra fantasia rende necessario partire da ciò che conosciamo nelle sue cause e modalità di funzionamento, ovvero provare a rileggere i termini della questione entro i parametri di ciò che storicamente abbiamo realizzato. Si dovrebbe nel contempo resistere a una duplice tentazione: da una parte, cercare più o meno consapevolmente e acriticamente di riproporre ciò che è storicamente e spazialmente consegnato a una certa epoca e a un determinato luogo, nel quale si sono realizzate specifiche condizioni; dall’altra, provare a immaginare scenari fantasiosi, decisamente slegati dalla realtà che abbiamo di fronte e forse troppo – o, magari, ambiguamente – anticipatori; scenari, dunque, troppo altri rispetto al linguaggio della politica che abbiamo a disposizione. Tale duplice tentazione – e la duplice

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cautela che ne deriva – non deve per altro indurci a rinunciare sbrigativamente a progetti complessivi, ma ci invita a ripartire con maggior decisione da ciò che meglio conosciamo e che sicuramente non deve mai abbandonare il centro del discorso sulla globalizzazione: l’uomo. Se infatti ci si chiede qual è il soggetto, il fulcro della globalizzazione, una prima acquisizione di consapevolezza dovrebbe spingerci a individuare la risposta non nell’economia, nella finanza o nell’internazionalizzazione della politica ma, banalmente, nell’uomo, compreso nel pieno esercizio della propria molteplice capacità di agire, inteso come essere costitutivamente plurivoco e irriducibilmente complesso, sempre rinnovantesi nella propria posizione di sé, capace di suscitare domande di senso, di dar vita a coesioni profonde ma, anche, a conflitti laceranti. La questione della globalizzazione – e della complessità e indeterminatezza che la connota al fondo – si presenta dunque come del tutto omologa alla domanda dell’antropologia; si presenta e si offre anzi come un’occasione per ripensare a quell’essere che la abita, la vive, ne sfrutta le opportunità, ne sopporta le conseguenze. Cercando di seguire la linea di una possibile riproposizione della domanda antropologica, appare pertanto opportuno inquadrare e motivare la riconfigurazione della nozione di confine che la globalizzazione porta con sé (§ 1). In secondo luogo, ci si proporrà di mettere a fuoco il tema del confronto con e del riconoscimento della differenza che tale riconfigurazione rende inaggirabile (§ 2). Si vorrebbe quindi tratteggiare un percorso che proceda oltre – ma non prescinda da – tale riconoscimento, valorizzando la dimensione universalistica e sovra-contestuale (§ 3), per terminare indicando un contesto di rinnovata posizione e, insieme, un possibile esito della domanda antropologica nell’età globale (§ 4).

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1. Spostare i confini Riprendendo la paradigmatica definizione di Nicola Matteucci, con il termine Stato – e Stato moderno in particolare – si deve intendere «una forma storicamente determinata di organizzazione del potere o delle strutture dell’autorità, contrassegnata dal fatto che una sola istanza, quella statuale appunto, detiene il monopolio legittimo della costrizione fisica. […] Lo Stato, così, è una particolare forma di organizzazione coattiva, che tiene unito un gruppo sociale su un determinato territorio, differenziandolo da altri gruppi, a esso estranei; esso generalmente viene caratterizzato da tre elementi: il potere sovrano, che dà sostanza all’autorità; il popolo, che nei diversi tempi storici ha ruoli diversi; e infine il territorio o meglio l’unità territoriale su cui esercita il proprio dominio (lo Stato ha un centro – la capitale – e ben precisi e delimitati confini), donde la territorialità dell’obbligazione politica»2. È indubbiamente questo il concetto di Stato nel quale la modernità occidentale può riconoscersi, quale frutto di un percorso storico amplissimo, complesso e tortuoso, ovviamente non solo dal punto di vista intellettuale. È però proprio l’elaborazione intellettuale di esso che ci consente di giungere al nostro discorso. Tra le molteplici istanze politiche e correnti di pensiero, è forse a quello che siamo soliti chiamare contrattualismo classico che si deve attribuire il ruolo e il contributo più rilevante rispetto alla definizione storica del concetto di Stato3. Considerato in senso lato e complessivo, il contrattualismo intende cogliere l’origine della società e il fondamento del potere politico in un contratto, che sancisce il passaggio da uno 2. N. Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna 21997 [1993], p. 15. 3. All’interno di una letteratura sterminata, mi limito a segnalare due contributi di indubbio riferimento per il panorama italiano: N. Bobbio-M. Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Milano 1979; G. Duso (a cura di), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, Milano 21998 [1987].

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stato di natura a una condizione di convivenza civile. Come è noto, tutti gli elementi ora menzionati – il contratto, lo stato di natura, lo stato civile, il passaggio dall’uno all’altro – sono stati variamente interpretati, ma pur sempre considerati momenti, ora ideali ora storicamente verificatisi, funzionali all’edificazione di ogni Stato e immediatamente legati alla fondazione dell’istanza giuridica che esso incorpora in maniera esclusiva. Il ragionamento di fondo che soggiace alle differenti ma non divergenti varianti teoriche del contrattualismo unisce dimensione antropologica e istanza normativa. Il punto di partenza, in altri termini, è costituito da una teoria descrittiva dell’uomo, in quanto essere dotato di una capacità di agire e di desiderare potenzialmente illimitata. Tale capacità potrebbe ovviamente rivolgersi contro ogni suo simile, danneggiandolo in misura più o meno rilevante, fino a privarlo della vita stessa. Per di più, tale danno non avrebbe alcuna possibilità di giudizio e di risarcimento e il pericolo di patirlo incomberebbe su ogni uomo. A partire da tale condizione antropologica, sembra dunque ragionevole mettere in campo un accordo, ovvero un contratto, consistente in una rinuncia dotata di carattere obiettivo e vincolante per ognuno. Interviene a questo livello l’elemento normativo-costrittivo. Tale rinuncia consiste infatti nel sacrificio di una porzione della propria libertà al fine di ottenere la garanzia della parte restante, attraverso l’istituzione di una figura (il sovrano, variamente inteso) che detiene il monopolio dell’esercizio legittimo della forza ed è in grado di garantire l’integrità e la libertà (pur limitata) di ogni consociato, ovvero di ogni persona che ha sottoscritto quel contratto. La rinuncia, di cui il contratto è espressione, comporta per ogni soggetto coinvolto gli stessi vantaggi e gli stessi svantaggi ed è l’origine di ogni potere politico giusto. Per di più, la rinuncia da parte di ognuno a una porzione della propria libertà coincide con l’ottenimento, per tutti, di una maggiore sicurezza rispetto alla convivenza civile e al godimento dei propri beni. Da un certo punto di vista, l’epoca della globalizzazione sembra riproporre in maniera analoga e in scala amplificata

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la condizione antropologica tipicamente descritta dalle teorie contrattualiste. L’uomo contemporaneo si trova di fronte a un cospicuo allargamento delle proprie possibilità di azione4, delle proprie capacità di movimento, della gamma di prodotti e beni a sua disposizione. Intesa in senso volutamente generico, la libertà dei soggetti coinvolti nel fenomeno globalizzazione (e, del resto, chi può consapevolmente chiamarsene fuori?) sembra essersi ampliata in maniera considerevole e in tutte le direzioni, grazie, innanzitutto, allo sviluppo tecnologico. In maniera analoga alla situazione dello stato di natura, a controbilanciare l’ampliamento dell’intera gamma delle nostre libertà subentra un corrispondente incremento del nostro grado di insicurezza, anch’essa scandita su molteplici livelli, rispetto ai quali la minaccia del terrorismo internazionale costituisce solo un aspetto, per quanto, sicuramente, quello prima facie più evidente5. La nostra, per unire in un unico slogan terminologia del passato e linguaggio del presente, non è più una società civile, derivante dal consapevole abbandono di uno stato di natura più o meno mitico, ma una società del rischio (Risikogesellschaft), conseguenza del largamente inconsapevole ricadere delle nostre società in una inedita, probabilmente più insidiosa forma di stato di natura6. La più lineare conseguenza che saremmo tentati di ricavare da tale condizione sarebbe una rinnovata ri4. Com’è ampiamente noto, esse giungono addirittura a provocare modificazioni micro- e macro-climatiche e a contemplare la possibilità di intervento sul proprio patrimonio genetico. 5. Sul nesso tra globalizzazione e sicurezza si veda il saggio di P. Foradori, Sfide globali e risposte nazionali: le trasformazioni della sicurezza nell’era dell’interdipendenza, in P. Foradori-R. Scartezzini (a cura di), Globalizzazione e processi di integrazione sopranazionale…, cit., pp. 179-207. 6. Utilizzo qui l’espressione divenuta ormai celebre di Urlich Beck (U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt a.M. 1986 [tr. it. La società del rischio, a cura di W. Privitera, Roma 2000], ma cfr. anche A. Giddens, The Consequences of Modernity, Cambridge 1990 [tr. it. Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Bologna 1994, specc. pp. 125-149].

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proposizione dello schema contrattualista: l’istituzione di un pactum societatis che vada a configurare una nuova istituzione giuridico-politica in grado, ad altro livello, di offrire riscontro al nostro bisogno di sicurezza. A fronte di una analoga descrizione antropologica di partenza, per quanto decisamente integrata sul piano delle possibilità tecnologicamente esperibili, si evidenzia un’analoga esigenza normativa di regolamentazione costrittiva, che si ritiene in grado di supportare il ristabilimento di un maggiore livello di fiducia e sicurezza. Tuttavia, considerata da un altro punto di vista, la globalizzazione sembra distanziarsi decisamente dalla situazione di partenza di matrice contrattualista. Sembra in altri termini necessario pensare a una nuova articolazione della dialettica tra stato di natura e stato civile, che tenga conto di alcuni fattori obiettivi, ovvero, innanzitutto, della consapevolezza della distanza. La teoresi contrattualista era sorta nel XVII secolo con l’obiettivo di edificare e legittimare quello che siamo soliti definire il modello dello Stato-nazione. Tale modello appare oggi, per molteplici e noti motivi, non più attuabile o, meglio, decisamente non riproponibile, proprio a partire dalla difficoltà di identificare, sul contemporaneo scenario globale, quegli stessi elementi che, nella definizione di Matteucci sopra riportata, giungevano a comporre il concetto moderno di Stato. Esiste infatti un’indubbia difficoltà a riconoscere già negli Stati attualmente esistenti la presenza di un unico «gruppo sociale pressoché omogeneo» e «differenziato da altri gruppi» – il tentativo di operare un tale riconoscimento sullo scenario transnazionale sembrerebbe a dir poco contraddittorio. Non meno ardua risulta la ricerca di un unico «potere sovrano» che darebbe «sostanza all’autorità» di un’istituzione statuale globale; per nulla immediata sarebbe anche la ridefinizione del concetto, degli ambiti di applicazione e dei limiti della «sovranità» di tale potere; difficile inoltre circoscrivere un concetto globale di «popolo» e, nondimeno, di «cittadinanza», ovvero individuare i criteri che definirebbero il cittadino di un ipotetico Stato globale. Infine, anche intorno al concetto di «territorio» di uno

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La globalizzazione della differenza, tra etiche e diritti

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Stato siffatto, o meglio di «unità territoriale» su cui esso eserciterebbe il suo dominio e, quindi, sui suoi «confini», l’unanimità di vedute sembra di là da venire7. Appare dunque necessario per un verso, urgente per l’altro, spostare i confini della teoria e provare a resistere alla tentazione di riproporre su scala globale o su un piano decisamente sovranazionale l’identica dialettica tipica del contrattualismo; riproposizione che appare troppo facile da un lato – perché consentirebbe semplicemente di applicare un vocabolario politico già a nostra disposizione, in quanto elaborato dalla tradizione occidentale –, troppo esigente dall’altro – perché pretenderebbe implicitamente di ingabbiare l’attuale situazione, rapidamente evolventesi, entro uno schema che appare troppo restrittivo e parzialmente cieco rispetto alle contemporanee emergenze problematiche8. Non deve inoltre essere dimenticato che il modello contrattualista, sorto con l’evidente obiettivo di legittimare la forma-

7. Non si pretende certo di offrire qui una presentazione articolata di tali aspetti problematici, rispetto ai quali esiste già una bibliografia amplissima. Per un più esteso inquadramento delle trasformazioni dell’idea di Stato (e dei suoi elementi costitutivi) mi permetto di rimandare a F. Cerutti (a cura di), Identità e politica, Roma-Bari 1996; G. Cunico-A. Pirni (a cura di), Spazio globale: politica, etica e religione, Reggio Emilia 2005; D. D’Andrea-E. Pulcini (a cura di), Filosofie della globalizzazione, cit.; tra le posizioni più discusse dall’odierno dibattito cfr. J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Frankfurt a.M. 1996 [tr. it. L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Milano 22002 (1998)], specc. pp. 117173] e Id., Die postnationale Konstellation. Politische Essays, Frankfurt a.M. 1998 [tr. it. (parziale) La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, a cura di L. Ceppa, Milano 1999]. 8. Otfried Höffe sembra a tratti indulgere nei confronti di tale riproposizione (cfr. in particolare O. Höffe, Demokratie im Zeitalter der Globalisierung, München 22002 [1999], anche se la complessità della sua interessante posizione teorica non può in questa sede essere affrontata. Su questo punto mi permetto di rimandare ai seguenti miei studi: La globalizzazione in prospettiva giuridico-politica. Il contributo di Otfried Höffe, «Storia, Politica e Società», 5, 2004, pp. 89-94 e Filosofia pratica e sfera pubblica. Percorsi a confronto, Reggio Emilia 2005, pp. 27-80.

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zione degli Stati nazionali nell’Europa del XVII secolo, riesce difficilmente ad essere esportato al di fuori del proprio terreno di origine per essere avvicinato, ad esempio, ai complessi processi di nation building e di formazione dell’autonomia statuale che hanno attraversato e, in larga parte, ancora stanno attraversando gli Stati africani a partire dalla seconda metà del XX secolo. Da questo punto di vista, più convincente sembra essere il tentativo di procedere per macro-blocchi continentali, soffermandosi innanzitutto sull’individuazione di un’identità giuridico-politica comune, il cui riconoscimento risulta funzionale alla concreta definizione, realizzazione ed effettivo funzionamento di una struttura istituzionale avvicinabile all’idea di uno Stato sovranazionale. È questo, ad esempio, il ragionamento che si sta da più parti articolando a proposito dell’Europa9. A partire da queste premesse, sembra dunque opportuno – e per altro inevitabile – prendere le mosse dal bagaglio concettuale elaborato dalla nostra storia particolare, con la consapevolezza che, nell’affrontare il banco di prova politico e insieme giuridico che l’epoca della globalizzazione ci ha posto di fronte, esso si rivela ben presto limitato, inadeguato, difficilmente riproponibile. Tra i molti possibili punti di analisi e verifica di tale convincimento, vorrei qui concentrarmi unicamente su un aspetto, ovvero sulla definitiva messa in scacco di una delle fondamentali categorie della politica: quella di confine. Da sempre considerato il margine estremo – e perciò particolarmente sensibile – della dignità di ogni Stato; fonte di innumerevoli guerre e luogo di edificazione di quasi insormontabili barriere al fine di garantirlo e preservarlo dagli attraversamenti indesiderati; baluardo della difesa – non di rado narcisistica – della propria identità culturale e politica; garanzia di giurisdizione del potere centrale e di tutela giuridica per i singoli 9. All’interno di una letteratura ormai sterminata, mi limito a segnalare F. Cerutti-E. Rudolph (eds.), A Soul for Europe. On the Political and Cultural Identity of the Europeans, 2 voll., Louvain 2001 e B. Henry-A. Loretoni (eds.), The Emerging European Union. Identity, Citizenship, Rights, Pisa 2005.

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cittadini; punto di origine della sicurezza e dell’incolumità per chi si trovasse nel territorio da esso circoscritto e, al tempo stesso, fonte di insicurezza e inquietudine per chi si trovava al di là, fuori, allo scoperto, in balia di altri popoli, altri dei, altre leggi … – questa idea di confine è forse quella che più di ogni altra l’epoca della globalizzazione ha contribuito a rendere inattuale e a relegare in un passato all’apparenza remotissimo. Si chiarisce ulteriormente in questi termini la metafora dello spostamento dei confini, che intende innanzitutto alludere alla necessità di mettere nuovamente in moto la teoresi politica, che deve tentare di ampliare il proprio territorio di riferimento, provando a ridefinire e a innovare il proprio linguaggio e la propria capacità progettuale. In secondo luogo, quella metafora vorrebbe indicare il destino degli Stati nazionali, che già sono e sempre più saranno costretti a ridefinire i propri confini, non tanto territoriali, quanto soprattutto culturali e valoriali, in una costante per quanto non lineare né immediata dinamica di inclusione delle molteplici figure e forme di alterità che si affacciano all’orizzonte delle democrazie occidentali. Tra altri esponenti del dibattito contemporaneo, Onora O’Neill ha colto questa figura e questo destino epocale in maniera a mio avviso paradigmatica, attraverso l’immagine dei confini porosi (porous boundaries)10. La tesi di fondo che l’autrice sviluppa è che l’età contemporanea non deve rinunciare all’idea di avere, istituire e mantenere confini statuali; questi ultimi, tuttavia, non possono più essere pensati come gli unici confini legittimi della giustizia; essi devono anzi risultare sostanzialmente porosi, ovvero attraversabili non soltanto per soddisfare esigenze economiche, ma anche – e soprattutto – di giustizia, di legittima rivendicazione e garanzia di diritti universalmente riconosciuti. Gli Stati e i loro confini restano pertanto giustifica-

10. Cfr. O. O’Neill, Bounds of Justice, Cambridge 2000, specc. capp. 9 e 10. Su Onora O’Neill mi permetto di rimandare ad A. Pirni, Filosofia pratica e sfera pubblica, cit., pp. 117-174.

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bili solo nella misura in cui riescono a non creare ingiustizia nei confronti delle persone che si trovano al di fuori di essi. Provando a fare un non piccolo passo indietro, per soffermarci ancora una volta su uno dei più importanti ispiratori dei contemporanei dibattiti, risulta forse non inutile tornare su una celebre distinzione di Kant tra limiti (Grenzen) e confini (Schranken) che, per quanto riferita alla possibilità della «ragione pura» o «speculativa», consente di essere estesa anche al nostro discorso11. Partendo da Kant, dunque, mentre il limite «presuppone sempre uno spazio», che si trova al di là di sé e del luogo che da questo è racchiuso, il confine semplicemente nega tale spazio e circoscrive dall’interno un territorio determinato, non concependo che possa esistere qualcosa al di là di esso. Se il limite circoscrive il proprio terreno di legittimità e, al tempo stesso, guarda oltre di sé, alla ricerca di comprendere ciò che si trova all’esterno e al di fuori di quel terreno, consapevole dell’alterità di esso ma pur sempre pronto a lanciarsi quasi oltre se stesso, a porsi in discussione in vista di uno sperato allargamento, il confine si attesta invece esattamente su quel terreno, determinandolo certo con una precisione maggiore ma, soprattutto, una volta per tutte. Se, per così dire, il concetto di limite è costitutivamente orientato al di fuori e al di là di se stesso, 11. Nel paragrafo 57 dei Prolegomeni a ogni metafisica futura che si presenterà come scienza, lo scritto che Kant pubblicò subito dopo la Critica della ragion pura con l’intento di fornire una sintesi divulgativa delle tesi articolate in quest’ultima opera, si legge la seguente definizione: «I limiti [Grenzen] presuppongono sempre uno spazio, che si trova fuori di un certo determinato luogo e lo racchiude; i confini [Schranken] non hanno bisogno di ciò, ma sono semplici negazioni che affettano una grandezza, in quanto non ha completezza assoluta. La nostra ragione vede, per così dire, intorno a sé uno spazio per la conoscenza delle cose in sé, sebbene non possa mai averne concetti determinati e sia confinata soltanto entro i fenomeni» (I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können (1783), in Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Preußischen (Deutschen) Akademie der Wissenschaften, Berlin 1900 ss., Bd. IV, pp. 253-383 [tr. it. Prolegomeni a ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, a cura di P. Carabellese, Roma-Bari 1990, p. 120].

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quello di confine non cessa di rivolgere i propri occhi su di sé o, meglio, al proprio interno, evitando di orientarsi al di là di ciò che è in grado di dominare, decretandone anzi l’impossibilità o quantomeno l’irrilevanza della sua esistenza. L’idea dello spostare i confini intende allora alludere a una duplice sfida che la nostra epoca si trova di fronte; significa infatti, da una parte, provare a spostare i termini della nostra teoresi al di là del modello dello Stato-nazione, alla ricerca di un equilibrio che possiamo solo intuire o desiderare ma, certamente, non ancora raggiungere, dall’altra, seguendo la strada (inconsapevolmente) tracciata da Kant, significa provare a operare anche noi il passaggio da Schranke a Grenze, ovvero provare a rendere il confine un limite, non un punto di arrivo della nostra riflessione, della nostra integrazione politica, della nostra tolleranza intellettuale ma, all’opposto, il punto della loro rinnovata partenza.

2. Farsi carico della differenza Se si volesse individuare l’interrogativo che più di ogni altro si è fatto pressante sull’agenda della filosofia politica, credo che esso potrebbe essere rappresentato dalla domanda concernente la sfida della convivenza nell’età globale; una domanda, per altro, la cui risposta riguarda non solo e non tanto la filosofia politica ma, innanzitutto, ogni uomo, in ogni parte del mondo. La prova della radicalità e pervasività di tale domanda è costituita dal fatto che essa si applica e si estende oggi non solo, appunto, ai confini tra gli Stati, ma anche, in forme sempre rinnovate, entro i confini dei singoli Stati, giungendo così a offrire una conferma e contrario di quanto si diceva in premessa circa il carattere globale della svolta che stiamo attraversando, che non ha più un luogo e un tempo determinato di emergenza fenomenica, ma che riguarda simultaneamente tutti i luoghi e tutti i tempi. I molteplici tentativi di offrire una risposta a quella domanda non possono prescindere da un’idea di fondo, imper-

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niata sul riconoscimento dell’infinita pluralità di modelli sociali esistenti e della loro inesausta dinamica di progressiva ulteriore individualizzazione; in una parola, dal riconoscimento della differenza che esiste a tutti i livelli del vivere sociale. L’imperativo categorico e al tempo stesso l’obiettivo primo di ogni tentativo siffatto diventa dunque farsi carico della differenza. Addentrandoci in un’articolazione più minuta di tale imperativo e quindi nella sua applicazione al contesto globale, ci si trova immediatamente di fronte a un fatto difficilmente scalzabile e aggirabile, dal quale, pertanto, risulta ragionevole e, soprattutto, necessario prendere le mosse. Per quanto la globalizzazione – in base a un’idea generale e a una consapevolezza diffusa – possa innanzitutto fare pensare a qualcosa di unitario e complessivo, a un processo costantemente auto-implementantesi e tendente a instaurare una progressiva omogeneità culturale – è questa la tesi della mcdonaldizzazione del mondo12 –, la realtà che tale idea e tale consapevolezza non problematizzano restituisce, invece, l’immagine di un profondo processo di frammentazione che si dispiega a molteplici livelli. La globalizzazione, in altri termini, non consente di essere inquadrata come una sorta di monolite compatta, ovvero come un processo unidirezionale e monodimensionale; essa racchiude al suo interno – implica anzi in modo sistematico – l’attivazione e la reiterata produzione di istanze di frammentazione, che si configurano eminentemente in prospettiva culturale, politica, economica e sociale. La globalizzazione contemporanea dunque, ben lungi dal lasciarsi alle spalle le diverse tipologie di frammentazione che hanno caratterizzato l’epoca ad essa precedente in vista di una prospettiva di sopraggiungente omologazione, contribuisce in maniera decisiva a creare nuove frammentazioni, dalle forme non meno radicali rispetto a quelle del passato. Si origina in questo modo una dialettica tra frammentazione e globalizzazione, una dialettica che proprio quest’ultima implicitamente 12. A questa tesi, tra gli altri, si oppone efficacemente U. Beck (Che cos’è la globalizzazione?, cit., pp. 62-67).

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produce e continua a sostanziare. La frammentazione – con le parole di Clark – «è una risposta dialettica alla globalizzazione anziché un reperto atavico: più la globalizzazione si intensifica, più tenaci saranno le sacche di resistenza»13. Qualsiasi tentativo di approccio al problema globalizzazione non credo possa prescindere da questo dato di partenza. Un significativo aiuto per una migliore comprensione di questo dato è a mio avviso offerto dalla riflessione di uno dei più importanti antropologi contemporanei quale Clifford Geertz, grazie alla quale è possibile compiere un ulteriore tratto del nostro percorso. Nella caduta del muro di Berlino Geertz individua un evento-cesura dalla portata globale: un evento che ha fatto sì che al «mondo in blocchi contrapposti», con il quale eravamo abituati a confrontarci e che, nel bene e nel male, offriva un orizzonte geopolitico mondiale sostanzialmente strutturato, si sostituisse un «mondo in frammenti», un mondo la cui struttura complessiva, come per altro la configurazione dei suoi «frammenti», risulta ai nostri occhi di difficile individuazione e comprensione. Questo nuovo mondo pare infatti caratterizzato da un’idea più pluralistica dei rapporti fra i popoli ma, allo stesso tempo, la sua forma resta per lo più vaga, come del resto vaghi, irregolari e pericolosamente deresponsabilizzati (ovvero privi del senso di lealtà a un’ideale comunque condiviso che prima li informava) paiono essere i rapporti che i diversi «frammenti» hanno instaurato fra loro. Dal crollo dell’Unione Sovietica alla nascita di nuovi centri di potere nel Sud-Est asiatico e nell’America Latina, dall’inquietudine sociale e istituzionale dell’Africa ai risvegliati nazionalismi dell’Europa centrale, dai problemi relativi alla riunificazione della Germania a quelli connessi alle migrazioni di massa: ovunque si volga lo sguardo pare giustificata l’impressio-

13. I. Clark, Globalizzazione e frammentazione…, cit., pp. 55. Per un’ampia rassegna di posizioni su questo punto, articolate e messe in dialogo in prospettiva pluridisciplinare cfr. G. de Finis-R. Scartezzini, Universalità e differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, Milano 1996.

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ne – per restare in metafora – di avere a che fare con «schegge impazzite» o comunque di un dis-ordine generalizzato. Indubbiamente lo sfaldarsi di contesti più grandi, la ricaduta nella vorticosa dinamica post-bipolare, ovvero lo sgretolamento «di ciò che sembrava un contesto in contesti più piccoli e tenuti insieme da legami disinvolti ha reso molto più difficile l’interconnessione tra realtà locali e sovraregionali»14. Tuttavia, dalla constatazione dell’esistenza di una radicale differenziazione non si può né si deve dedurre l’impossibilità di provare a instaurare una qualche forma di approccio analitico e di confronto fra gli elementi di tale diversità. Farsi carico della diversità. Sembra dunque essere questo il nuovo imperativo che promette una qualche possibilità di orientamento in un mondo al tempo stesso decisamente globalizzato e irrimediabilmente frammentato quale quello in cui ci troviamo. Tale possibilità di orientamento può però sperare di non rimanere delusa solo alla condizione di avvertire la diversità non solo – e non tanto – come «un’alternativa a noi»; bensì, innanzitutto come «un’alternativa per noi». Per riprendere un’immagine di Lévi-Strauss15, risulta oggi troppo limitativo – e rischia inoltre di apparire politicamente claustrofobico – rappresentare noi stessi come «passeggeri sui treni delle nostre culture, ognuna delle quali viaggia sul proprio binario, alla propria velocità e nella propria direzione»16. Come passeggeri, riusciremmo appena a intravedere i treni che passano su binari paralleli al nostro, dotati della nostra stessa direzione e velocità. Tutti gli altri treni, che procedono su binari trasversali, con altre velocità e direzioni, sarebbero per noi soltanto un’immagine 14. C. Geertz, Welt in Stücken. Kultur und Politik am Ende des 20. Jahrhunderts, Wien 1996 [tr. it. (parziale) Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, 1999, p. 16]. 15. C. Lévi-Strauss, Le regard éloigné, Paris 1983 [tr. it. Lo sguardo da lontano, Torino, 1984]. 16. C. Geertz, The Uses of Diversity, in Tanner Lectures on Human Values, Salt Lake City 1986, vol. VII, pp. 253-275 [tr. it. Gli usi della diversità, «La società degli individui», 8, 2000, pp. 71-89, p. 79].

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vaga e per lo più indistinguibile. Un mondo globalizzato non consente più di pensare ai conflitti culturali nei termini di conflitti fra differenti società, ognuna al suo interno culturalmente omogenea e coesa. Tali conflitti – e le questioni giuridico-morali che essi portano inevitabilmente con sé – avvengono fondamentalmente già all’interno di ogni società e in tale sede necessitano innanzitutto di essere affrontati. L’esigenza fondamentale, allora, si racchiude nello sforzo di comprensione di realtà problematiche che, quand’anche a noi vicine dal punto di vista spaziale, risultano tuttavia immensamente distanti dal punto di vista ideale, ovvero rispetto alla nostra mentalità culturale di fondo. Qui la sfida del comprendere perviene al suo vero banco di prova e, da questione apparentemente accademica, giunge alla sua autentica concretezza esperienziale. La prima indicazione che ci proviene dalla riflessione e dal lungo lavoro sul campo compiuto da Geertz è dunque di segno eminentemente metodogico, e si sintetizza nel tentativo di allargare e rafforzare la nostra capacità di comprendere ciò che ci sta di fronte e, nel contempo, di aumentare e incentivare la nostra disponibilità a metterci in discussione. In questo senso allora l’antropologia dovrà fungere da collante rispetto ai «frammenti»17: dovrà innanzitutto analizzarli e valutarne la consistenza; individuare e quindi, laddove possibile, cercare di avvicinarne i bordi; considerare, infine, l’applicabilità dei risultati dell’analisi di un frammento a un altro frammento, con la consapevolezza che nessuna analisi può mai dirsi conclusa ed esaurita una volta per tutte, ma ognuna, implicitamente, ne suggerisce una nuova e più completa. La valorizzazione del momento analitico non implica tuttavia l’arrendersi a una sorta di relativismo a-teoretico, che finisce con lo stemperare e annichilire ogni tentativo di comprensione teorica della situazione generale, arenandosi appunto in una disamina dettagliatissima e interminabile. Appare innanzitut17. A. Pirni, Filosofia pratica e sfera pubblica, cit., pp. 81-115.

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to opportuno individuare e distinguere la peculiarità di ogni singola situazione, con la consapevolezza che «l’astrazione dal particolare non è l’unica forma possibile della teoria»18. D’altra parte, il riconoscimento della differenza non deve farci dimenticare che essa «non va intesa come negazione della somiglianza»19. Distinguere e differenziare non significa infatti separare in modo assoluto e una volta per tutte; significa farsi carico della diversità, scendere dalle vette della pura teoria e sporcarsi le mani con la realtà, ma non per perdersi in essa, bensì per tornare a una teorizzazione, per così dire, meno teorica, ovvero più legata alla concretezza e più sensibile alle differenze. La ricerca antropologica, portando l’attenzione su esempi concreti, si pone come uno strumento di accesso alla diversità – ai «frammenti» – e quindi come un utile contributo alla teoria politica, nel senso di riuscire a fornire strumenti e sensibilità di analisi funzionali a rendere nuovamente fluidi concetti quali nazione, cultura, Stato, ormai a tal punto solidificati e consolidati dal dibattito teorico da apparire come costanti terminologiche deterministicamente intese, sul cui concreto significato si tende a non riflettere più. Il problema di comprendere che cos’è uno Stato si collega per altro immediatamente a un altro e non meno cruciale problema: l’identità. Più che i confini fisici di uno Stato, tema – anche tragicamente – dominante fino alla prima metà del XX secolo, sono oggi i confini identitari – che sempre meno coincidono con i confini nazionali – a dover catturare l’interesse del politologo. È infatti intorno a questi ultimi, alla loro tracciatura ma anche al loro spostamento e alla loro costante ridefinizione, che si originano sempre più frequentemente conflitti, di natura e portata differente, ma vissuti ogni volta con grandissima partecipazione e carica emotiva dagli individui coinvolti. Non è infatti più pensabile parlare oggi di identità nazionale, dandone per scontata l’esistenza, nello stesso modo in cui non è 18. Ivi, tr. it. cit., p. 24. 19. Ivi, p. 25.

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più possibile delineare e circoscrivere una cultura nazionale – ammesso che prima lo fosse, seppure al prezzo di fortissime generalizzazioni20. Ciò avviene naturalmente anche a causa dell’estrema differenziazione e micro-frazionamento della sfera pubblica che è possibile scorgere in molteplici contesti, non solo occidentali. Esiste infatti un indubbio nesso che lega il processo di definizione e ridefinizione dell’identità nazionale – ovvero delle diverse identità nazionali, spesso non solo alternative ma anche apertamente rivali tra loro – al processo di formazione e mutamento della sfera pubblica di uno Stato. Risulta dunque irrefutabile affermare che nel «mondo in frammenti» nel quale ci troviamo la coppia identità e cultura assurge al ruolo di un altro binomio concettuale e problematico dal quale non è più possibile prescindere. La questione della cultura rimanda alla domanda sul senso, sul significato di determinate pratiche, costumi, rituali, rappresentazioni dell’esistenza. In maniera reciproca e contraria, l’analisi e l’interpretazione di una determinata cultura si articolerà a partire dall’individuazione del maggior numero possibile di strutture di significazione che la informano e in base alle quali vivono gli uomini e le donne che in essa si riconoscono. Analizzare una cultura e, per suo tramite, la sfera pubblica e quindi la società di cui è espressione, significa allora produrre e articolarne una thick description, una «descrizione spessa», complessa e virtualmente interminabile; un resoconto che, innanzitutto, non ha timore di perdersi in un’osservazione degli aspetti più minuti del vivere sociale e, in seconda istanza, ricollega a tale osservazione, già sempre implicante il punto di vista dell’osservatore, la disamina dei quadri valoriali d’insieme. L’antropologo che analizza una cultura – questo il nucleo della proposta di antropologia ermeneutica di Geertz – cerca innanzitutto di viverla dall’interno, di esserne non uno spettatore (per quanto interessato) ma, per così dire, un co-attore in situazione, speri20. Su questo punto cfr. Z. Bauman, Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Roma-Bari, 2003, p. 16 ss.

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mentando e incarnando per quanto possibile in prima persona quelle pratiche e strutture di significazione che la costituiscono e la rendono unica e irripetibile. La thick description si oppone così a una descrizione thin, «sottile», «magra», nel senso che si ferma all’esteriorità dei fenomeni, a ciò che di essi è in qualche modo misurabile e constatabile da un punto di vista esterno e universale. Quest’ultimo tipo di descrizione, nella maggior parte dei casi, finisce col perdere il significato che l’evento ha per chi lo sta vivendo o per non cogliere le motivazioni – occasionali o profonde – che ne stanno alla base. In altri termini, il rischio che tale descrizione corre è quello di bypassare semplicisticamente quelli che Geertz chiama «sentimenti primordiali», ovvero l’espressione di una forma originaria di attaccamento «derivante dal senso di “datità” dell’esistenza sociale che prova il soggetto e non l’osservatore – come parlare un particolare linguaggio, professare una certa religione, essere nato in una specifica famiglia, provenire da una data storia, vivere in un determinato posto […]. Simili legami variano nella loro forza da società a società, da situazione a situazione, da persona a persona e, naturalmente, da tempo a tempo, e la loro composizione non è mai la stessa ogni volta. Ma quando essi sono avvertiti, come solitamente accade in qualche misura, con una certa intensità, e in qualche combinazione che varia per ciascuno a seconda del tempo, essi sono percepiti come dotati di una forza coercitiva ineffabile e schiacciante in sé e per sé […]»21. La nozione di «sentimento primordiale» può essere utilizzata come rinnovato fattore disaggregativo rispetto al logoro binomio Stato-nazione. Permette infatti innanzitutto la disaggregazione del problema etnico da quello nazionalistico. Legittima inoltre lo scorporamento del problema identitario da 21. C. Geertz, Mondo globale…, cit., p. 86. Cfr. anche Id., The Integrative Revolution. Primordial Sentiments and Civil Politics in the New States, in Id. (ed.), Old Societies and New States. The Quest for Modernity in Asia and Africa, New York 1963, pp. 105-157.

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quello etnico, consentendo così di evitare la biologizzazione e la semplicistica etnicizzazione dei conflitti di identità. Il risultato complessivo che si ottiene è quello di una maggiore precisione nell’affrontare questioni culturali complesse che possiedono anche importanti risvolti dal punto di vista politico. Quali considerazioni di fondo è lecito trarre dalla lezione di Geertz? Il complesso insieme di questioni da lui sollevate possono essere utilmente meditate come un contributo offerto dall’antropologia all’analisi della situazione contemporanea e rivolto essenzialmente alla teorizzazione politica. Da questo punto di vista, l’autore di Mondo globale non si esime dall’articolare una serie di considerazioni ulteriori, che possono essere pensate come altrettanti appunti presi sull’agenda del liberalismo. La prima fondamentale considerazione consiste nella raggiunta consapevolezza del bisogno di una politica più flessibile. «Sembra che ci sia bisogno di una nuova politica: una politica che nell’autoaffermazione etnica, religiosa, di razza, linguistica o regionale non veda una mancanza di ragionevolezza arcaica o innata, da reprimere o da superare, una politica che non tratti questi generi di espressione collettiva come una spregevole follia o un abisso buio, ma sappia invece affrontarli come fa con la disuguaglianza, l’abuso di potere e altri problemi sociali. Una politica, dunque, che in questi fenomeni veda una realtà che vuole essere presa in considerazione e che bisogna analizzare criticamente, una realtà che vuole essere modulata e ordinata»22. Una politica di questo tipo dovrà acuire una maggiore sensibilità rispetto al luogo in cui tenta di concretizzarsi e non potrà mai sentirsi libera dal compito di articolare una attenta e quanto più possibile approfondita interpretazione della cultura o delle culture con le quali si deve interagire in quel tempo e in quel luogo e delle quali si deve tenere conto a livello istituzionale. Tale politica, in grado di immergersi nella particolarità e di instillare confronti tra realtà a prima vista incommensurabili, allo scopo di ricavare istanze di sostegno – ma anche di 22. Id., Mondo globale…, cit., pp. 52-53.

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critica – alle soluzioni istituzionali articolate per promuovere il massimo grado di convivenza civile e di coesione sociale, si trova a fare di volta in volta i conti con una tendenza per molti versi antitetica al suo scopo. È questa la tentazione di «formare goccioline, per così dire, monocrome di politica e di cultura»23, ovvero la tendenza quasi ossessiva a sottolineare la (presunta) irriducibile particolarità del luogo e della cultura con la quale la politica deve fare i conti. Questa tendenza, che tradotta sul piano politico finisce secondo Geertz con lo sfociare nei diversi e ugualmente tragici esiti della pulizia etnica, da un punto di vista metodologico rappresenta la degenerazione dell’impostazione di analisi che l’autore di Interpretazione di culture aveva riassunto nella celebre espressione della thick description. Degenerazione in quanto si sofferma su tale descrizione assolutizzandola – atteggiamento legittimo nella ricerca antropologica – ma rifiutandosi in questo modo di instaurare quelle mediazioni e quei confronti sicuramente auspicabili nella teoresi ma decisamente necessari nella prassi politica. Evitare questa degenerazione significa impegnarsi nello sforzo di escludere una paralizzante assolutizzazione delle differenze proseguendo oltre, alla ricerca di un nuovo modo di prospettare e di affrontare la sfida della convivenza, ovvero alla ricerca di una forma di teoresi politica che, accanto alla necessità di riproporsi e di re-inventarsi su uno scenario distante da quello dello Stato-nazione, non sottovaluti l’ulteriore necessità – divenuta sistemica – di farsi carico della differenza, pensando a tale istanza quale parte integrante e sostanziale della propria rinnovata e legittima ricerca di identità.

23. Ivi, p. 71.

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3. Oltre la differenza. 1. Quale universalismo? La constatazione dell’esistenza di un radicato e inaggirabile pluralismo culturale, lungi dal rappresentare un punto di arresto, offre tutti gli elementi e il decisivo punto di partenza di quella che può essere qualificata come la nuova e a sua volta inaggirabile sfida che l’età contemporanea ha posto sull’agenda della riflessione politica. Tale sfida è rappresentata dall’esigenza di non fermarsi – anzi di rinunciare decisamente – all’edificazione di palizzate o recinti difensivi della purezza e dell’auto-determinazione di ogni singola cultura, insomma di abbandonare l’idea di una rinnovata costruzione di confini. Essi, per altro, risulterebbero del tutto anacronistici e risibili di fronte a fattori chiaramente incombenti sulla nostra realtà e in grado di attraversare qualsiasi frontiera o palizzata politica e culturale – basti pensare, solo per reiterare alcuni esempi ormai classici in materia di globalizzazione, alle lunghe ramificazioni intercontinentali di cui è oggi dotato il potere economico o alle amplissime conseguenze distruttive che potrebbe avere un disastro ecologico o nucleare o, ancora, alle tragiche e purtroppo frequenti manifestazioni del terrorismo globale. Quella sfida richiede di procedere oltre quella tentazione e di provare a spostare i confini dell’azione politica, ovvero di rendere porosi quelli esistenti, avviandosi alla costruzione ed elaborazione – sicuramente più tortuosa, ma forse meno facilmente votata al fallimento – di porte, ponti e varchi che conducano a un attraversamento delle culture, alla possibilità di creare nuove «connessioni» e di riconoscere quelle già da lungo tempo esistenti24.

24. M. Amselle, Branchements. Anthropologie de l’universalité des cultures, Paris 2001 [tr. it. Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Torino 2001]. Su questo punto cfr. anche F. D’Andrea-A. De Simone-A. Pirni, L’Io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, Perugia 22005 [2004], pp. 33-52.

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La decisione di abbracciare più decisamente la strada delle «connessioni» implica per altro il tentativo, pur sempre problematico, di passare da un’attenzione per il particolare a una tematizzazione dell’universale. È tuttavia necessario cercare di dare un contenuto a tale universale, provando a rimanere fedeli alla duplice istanza di inquadrare il lontano (il mondo compiutamente globalizzato) con la consapevolezza del vicino (la realtà politica ancora effettiva e operante). D’altro canto, proprio la messa in atto di tale istanza dovrebbe contribuire a smorzare la diffidenza e il sospetto che, in epoca post-metafisica, può indurre l’impiego del termine universale. Per fare ciò può essere utile provare a «capovolgere il ragionamento abituale, che consiste nell’opporre radicalmente universalismo e relativismo al fine di dimostrare che l’universalismo, lungi dal contrastare la manifestazione delle differenze è, al contrario, il mezzo privilegiato della loro espressione»25. È da questo punto di vista sicuramente prezioso il contributo teorico di Michael Walzer che, in un saggio giustamente famoso, distingue due tipologie di universalismo. Egli individua, da una parte, un universalismo «della legge generale» (covering law universalism), il cui significato d’insieme si articola nel convincimento in base al quale esiste «un solo Dio, una sola legge, un solo modo di intendere il bene o la società buona o il buon regime, una salvezza, un messia un millennio per tutta l’umanità»26, dall’altra un «universalismo reiterativo» (reiterative universalism), che si compendia invece nell’affermazione del fatto che «non c’è un solo esodo, una sola redenzione divina, un solo momento di liberazione per tutta l’umanità, al modo in cui secondo la dottrina cristiana c’è un solo sacrificio di redenzione. La liberazione è un’esperienza particolare, che si ripete

25. M. Amselle, Connessioni…, cit., p. 46. 26. M. Walzer, Thick and Thin. Moral Argument at Home and Abroad, Notre Dame-London 1991 [tr. it. Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, a cura di G. Palombella, Bari 1999, p. 128]; cfr. inoltre Id., Due specie di universalismo, «Micromega», 1, 1991, pp. 127-145.

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per ciascun popolo oppresso […]. Ciascun popolo ha la propria liberazione per mano di Dio»27. Al di là del suo costante riferirsi al testo biblico28, l’argomentare walzeriano restituisce qui una dicotomizzazione tra due modi di intendere l’universalismo indubbiamente stimolante per il discorso ora affrontato. Se infatti alla prima forma può essere fatto risalire un atteggiamento esclusivista e poco o per nulla incline al riconoscimento di altre verità al di fuori di quella da esso stesso rappresentata, nella seconda forma si racchiude un’insopprimibile riconoscimento della differenza e della particolarità di ogni differire. Tuttavia, tale riconoscimento si inquadra pur sempre in una cornice universalistica nella quale risultano riconoscibili almeno due componenti caratteristiche: da una parte, quella che Walzer chiama «l’autorizzazione a reiterare» – il fatto che non siamo i soli a dovere e potere avanzare esigenze di liberazione o di auto-determinazione, ma le stesse devono e possono essere avanzate anche da altri individui e da altri popoli – e, dall’altra, «le occasioni della reiterazione» – ovvero il mai definitivo raggiungimento della liberazione e, al tempo stesso, l’ammissione dell’esistenza di sempre nuove esperienze di oppressione da cui fuggire e, quindi, di sempre nuove «occasioni» di ricerca emancipativa. L’Esodo di Israele dall’Egitto non è un fatto unico e conclusosi una volta per tutte; esso è piuttosto «un fatto esemplare, cardinale di una storia particolare, che altre genti possono ripetere – devono ripetere, perché l’esperienza appartenga ad esse – a modo loro»29. Un nuovo Egitto, una situazione di oppressione e di mancato riconoscimento è sempre possibile – ogni differire costituisce una rinnovata interpretazione di un identico tema –; deve pertanto essere contemplata una «pluralità di esodi» virtualmente interminabile.

27. Ivi, tr. it. cit., p. 130. 28. Paradigmatico, al proposito, è il volume di M. Walzer, Exodus and Revolution, New York 1985 [tr. it. Esodo e rivoluzione, Milano, 1986]. 29. M. Walzer, Geografia della morale, tr. it. cit., p. 131.

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Alberto Pirni

La risposta a tale universale esigenza di liberazione sarà inevitabilmente particolare e particolaristica, costitutivamente inscritta nella storia individuale e collettiva, nelle tradizioni, nei differenti modi di intendere il bene di chi rivendica tale esigenza; l’esigenza stessa – ovvero innanzitutto il diritto alla vita e alla propria libera espressione, come per altro il diritto a fuggire la sofferenza e l’oppressione – si colloca dunque a un livello universale, nel senso di essere universalmente condivisibile e, soprattutto, universalmente esigibile. Se la particolarità della risposta rimanda quindi, in senso generale, a una morale costitutivamente thick, spessa, ovvero necessariamente calata in un contesto determinato e irripetibile, l’esigenza di liberazione – che di volta in volta può essere declinata come fondamentale richiesta di giustizia, di libertà, di ridistribuzione delle ricchezze e quant’altro – si configura in termini invece strutturalmente thin, sottili, cioè condivisibili da ognuno e immanenti a ogni cultura. Non bisogna tuttavia pensare che la morale spessa e quella sottile – ovvero, nei termini di Walzer, «massimalismo morale» e «minimalismo morale» – sussistano come due vettori e due istanze morali al fondo distinte, separate e non comunicanti: «ci sono elementi di una moralità “sottile” e universalista – afferma Walzer in un altro contesto – dentro ogni moralità “spessa” o particolaristica […]»30. Le due morali si presentano dunque strutturalmente connesse l’una all’altra e anzi la tesi è che i significati minimi si trovino già incorporati in ogni morale massima, anche se non potranno che trovare la loro naturale espressione in termini sempre thick, massimalisti, ovvero incarnati e immanenti a quella determinata cultura. Sarebbe infatti errato pensare che vi sia a monte o sia esistita in qualche momento una morale sottile, che è stata via via riempita di contenuti particolari: la morale, per così dire, è spessa fin dall’inizio e non consente, in condizioni normali, di essere distillata allo scopo di fare emergere quello che sarebbe il suo puro minimalismo. 30. Ivi, p. 11.

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Spesso è però necessario appellarsi proprio agli elementi minimi – a quella «moralità di tutti» proprio «perché non è di nessuno in particolare»31 – per salvare il massimalismo morale, la specificità individuale e culturale. Quello che si potrebbe definire una sorta di appello al minimalismo morale, volto a ottenere che quest’ultimo si liberi dalla sua materializzazione spessa e si manifesti indipendentemente da essa, può risultare efficace solo «nel corso di una crisi personale o sociale o di un conflitto politico»32. In ognuna di queste situazioni estreme, il minimalismo si esprime in quello che è da Walzer qualificato nei termini di un «universalismo negativo», ovvero un universalismo che afferma innanzitutto ciò che non bisogna fare, senza determinare la direzione in cui bisogna agire; che sostanzia con fermezza divieti invece di fornire prescrizioni e comandi in positivo. Si tratta dunque di un universalismo che, per un verso, non dimentica la propria origine – e dunque, «nella sua forma minimalista e negativa, concresce dal particolarismo delle esperienze, piuttosto che essere un cappello estraneo ad esse che viene loro imposto»33 – e che, per altro verso, fissa in maniera indefettibile un minimum di principi intangibili, ovvero decreta in ultima istanza ciò a cui ogni uomo non può rinunciare. Esso rifugge così decisamente l’immagine di un universalismo includente, che pretende di contenere in sé ogni forma di liberazione offrendone una lettura deterministica e preconfezionata circa l’itinerario e l’esito, e riesce anzi a presentarsi come un universalismo escludente, impegnato nella denuncia e nella proibizione di comportamenti e assunzioni di pratiche difficilmente equivocabili sul piano del rispetto umano. Ciò che può risultare immediatamente chiaro da un’impostazione di questo tipo è l’implicito eppure inaggirabile riferimento 31. Ivi, p. 19. 32. Ivi, p. 15. 33. M. Rosati, Un pregiudizio a favore della speranza. Michael Walzer e l’idea di critica sociale, in P. Costa-M. Rosati-I. Testa (a cura di), Ragionevoli dubbi. La critica sociale tra universalismo e scepsi, Roma 2001, pp. 144-159, p. 152.

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al tema dei diritti umani. Non è ovviamente possibile trattenersi qui su questo tema con l’estensione che esso meriterebbe. È tuttavia opportuno provare a sgombrare il campo da una facile retorica, provando innanzitutto a rinunciare all’idea che i diritti umani possano essere presentati come un monolitico corpus di principi giuridico-morali da esportare sic et simpliciter a tutte le altitudini, alla stregua di una cassetta di pronto soccorso da portare sempre con sé e utile in ogni situazione di emergenza. La condivisibile indicazione che, tra gli altri, sembra provenire proprio da Walzer, va invece nella direzione del riconoscimento di un nucleo minimale di principi universalmente esigibili, ovvero nell’individuazione di standard minimi che hanno il loro punto di partenza nel rispetto della vita e dell’integrità individuale. Deve infatti essere ricordato lo spirito che ha guidato l’elaborazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948: la promozione e la salvaguardia della capacità di azione autonoma di ogni singolo uomo come di ogni gruppo di uomini, ribadita con grande forza sulle ceneri ancora fumanti del totalitarismo nazionalsocialista. Se l’idea di fondo del discorso sui diritti umani risiede nella tutela – a livello individuale e collettivo – del fondamentale principio di autodeterminazione, in base ad essa devono allora innanzitutto essere rispettati quegli insiemi di pratiche e quelle forme di vita collettiva o individuale che ci appaiono anche molto distanti dal nostro orizzonte di riferimento, senza brandire la Dichiarazione come un’arma dalla quale esplodere un’ampia gamma di manifestazioni avversative, che vanno dall’espressione di giudizi morali denigratori al diretto intervento (armato) nella vita degli Stati che consentono pratiche distanti dalle nostre, anche in presenza dell’esplicito favore e consenso di chi, trovandosi all’interno di quegli Stati, le esercita e le sopporta per i più svariati motivi religiosi, culturali e politici. Il variegato radicalizzarsi di tale atteggiamento ha provocato nei confronti di chi lo sostiene la reiterata accusa di imperialismo culturale, che celerebbe una riproposizione, sia pure in termini morali, delle identiche pretese di omogeneizzazione occidentali-

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stiche tipiche della lunga stagione del colonialismo. Per cercare di evitare tale accusa può dunque risultare efficace recuperare lo spirito originario del discorso sui diritti umani che, al tempo stesso, riconosce l’ineliminabile molteplicità di visioni del mondo e ne legittima il perseguimento a livello sia individuale sia collettivo. A efficace supporto di tale recupero sembra collocarsi il tentativo di scorgere nei diritti umani non un insieme immodificabile di principi da esportare e realizzare in ogni luogo e a tutti i costi, bensì, innanzitutto, al pari dell’universalismo negativo di Walzer, una cornice comune, un insieme di punti di riferimento che può essere impiegato come una sorta di linguaggio – politico – condivisibile e per lo più condiviso. Il condividere un linguaggio politico non implica però né garantisce di per sé un più facile o immediato raggiungimento di un accordo. Come opportunamente affermato da Ignatieff, «un largo consenso sulle valutazioni riguardanti i diritti umani può essere una condizione necessaria, ma non sufficiente, per raggiungere decisioni condivise. Ci sono altri fattori politici essenziali per giungere a una conclusione: la comune stanchezza di conflitto, il manifestarsi di un rispetto reciproco, raggiungere il mutuo riconoscimento […]. Un discorso condiviso sui diritti umani può contribuire a riconciliare le parti, a patto che ciascun contendente ascolti con rispetto l’altrui versione particolarista di istanze universali. […] Quando le due fazioni riconoscono le reciproche rivendicazioni di diritto, la disputa cessa di essere – ai loro occhi – un conflitto tra giusto e sbagliato, e diventa un conflitto tra diritti in competizione. […] I diritti umani non sono altro che una forma di politica, che deve ricondurre i fini morali alle situazioni concrete e deve essere pronta a sottoscrivere compromessi spiacevoli non solo tra fini e mezzi, ma anche tra un fine e l’altro»34. 34. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton 2001 [tr. it. Una ragionevole apologia dei diritti umani, con Interventi di S. Veca e D. Zolo, Milano 2003, pp. 26-27. Sull’interessante prospettiva di Ignatieff, qui richiamata solo per quanto riguarda la tesi dei diritti umani come politica, si è

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Da questo punto di vista, se i diritti umani, abbandonata la loro pretesa di corpus unitario, possono innanzitutto essere intesi come una forma di linguaggio politico, risulta scontato scorgere in essi motivi di conflitto prima che di accordo, proprio per il carattere costitutivamente complesso della loro dichiarazione e formulazione, che tiene insieme diritti politici e civili accanto a diritti economici e sociali, in una sintesi già difficilmente attuabile entro i confini occidentali, ma di sicuro difficilmente riproponibile al di fuori di essi. Una prima approssimazione all’accordo potrebbe sorgere dalla messa in atto di una forma allargata di quello che Rawls ha paradigmaticamente qualificato con l’espressione di consenso per intersezione (overlapping consensus)35, in base al quale individui e gruppi di individui, differenti per i più svariati motivi politici, religiosi, culturali, potrebbero, per ragioni anch’esse differenti, giungere all’accordo su uno stesso gruppo di principi, riconoscendoli validi e irrinunciabili per ognuno. Un ulteriore passo in vista di un accordo (fondamentalmente politico) potrebbe però giungere dall’iniziale consapevolezza della necessità di distinguere con chiarezza i diritti che si considerano universalmente esigibili dalle giustificazioni valoriali che soggiacciono alla loro legittimazione e, ancora, dalle differenti forme giuridico-normative che quei diritti – in origine astratti – possono assumere nei molteplici contesti statuali. Il risultato è un universo di discorso molto più ampio, sicuramente thick, spesso e profondamente radicato nella particolarità che, proponendosi di non perdere di vista nessuna di quelle direttrici sviluppato un ampio dibattito. Cfr. innanzitutto gli interventi di S. Veca (I diritti umani e la priorità del male) e di D. Zolo (Fondamentalismo umanitario), che accompagnano la traduzione italiana del volume. Un vasto arco di interventi è quindi proposto dal forum dedicato a Ignatieff e curato da L. Marchettoni, apparso sul sito del Centro Jura Gentium – Center for Philosophy of International Law and Global Politics, diretto dallo stesso Zolo (http://dex1. tsd.unifi.it/juragentium/it/). 35. J. Rawls, Political Liberalism, New York 1993 [tr. it. Liberalismo politico, introduzione di S. Veca, Torino 21999 (1999)], pp. 31 e 132-139].

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fondamentali, risulta costitutivamente disponibile a mettere in discussione i contenuti di tutte. L’ostacolo principale di tale messa in discussione risiede nella persistente incapacità – tipicamente occidentale – di considerare la propria come una cultura accanto a molte altre. La pretesa superiorità dell’Occidente si fonda in gran parte sul convincimento che la sua cultura (innanzitutto, ma non solo) giuridica sia la diretta conseguenza della caduta dell’ancient régime, il frutto dell’affrancamento da una precedente tradizione oscurantista e liberticida; chiunque non abbia compiuto tale percorso, ovvero chi non abbia rinunciato alla propria tradizione lungo un itinerario simile, semplicemente non può essere giunto al livello culturale dell’Occidente – è questo il ragionamento che si ritrova all’origine di quell’auto-sopravvalutazione dell’Occidente che tende a escludere o quantomeno a emarginare la diversità. Il punto di partenza per tentare di superare tale ostacolo nasce dalla messa in atto di una strategia continuista, ovvero dal riconoscimento che nella rinnovata cultura emersa dalla Rivoluzione Francese sia da individuare un esito della nostra tradizione più che la conseguenza dell’abbandono di essa; un qualcosa preparato dalla storia che l’ha preceduta e che non sarebbe stato – per noi – possibile altrimenti. Tale riconoscimento deve per altro accompagnarsi alla presa d’atto che culture “altre” si sono «modernizzate a modo loro», seguendo una strada per molti versi alternativa a quella occidentale, e non possono pertanto essere comprese inserendole semplicemente all’interno dello schema occidentale alla modernità. Esistono dunque modernità alternative (multiple modernities) alla nostra, per comprendere le quali è necessario rinunciare al naturale istinto di valutarle sulla base dei nostri metri di giudizio36. Il tentativo di giungere all’accordo sul terreno (politico) dei diritti umani necessita pertanto di essere indirizzato a partire dal non facile raggiungimento di una diffusa consapevolezza su 36. Ch. Taylor, Modern Social Imaginaries, Duhram-London 2004 [tr. it. Immaginari sociali moderni, Roma 2005].

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quest’ultimo punto e, lungi dall’esigere come condizione del consenso una rinuncia alla propria cultura e un allontanarsi dalla propria tradizione, nasce proprio dal reciproco riconoscimento di queste ultime e fiorisce «attraverso reimmersioni creative di differenti gruppi, ognuno nella propria eredità spirituale», lungo percorsi costitutivamente differenti e, al tempo stesso, costitutivamente indirizzati verso un’identica meta37.

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4. Oltre la differenza 2: riproporre la domanda antropologica Il percorso argomentativo propiziato da Walzer legittima un ulteriore possibile sviluppo del discorso che, originandosi dalla prospettiva dell’universalismo negativo, consente di riproporre per altra via la domanda antropologica nell’età globale. La forma di universalismo che Walzer chiama negativo non si ferma al riconoscimento di un duplice livello morale (thick e thin, massimalismo e minimalismo morale), distinguibile in teoria ma indistricabile in pratica; esso riesce anche a dar vita e a stimolare una peculiare forma di solidarietà, che si distende a livello trans-contestuale – ovvero al di là degli ipotetici confini di una cultura e di uno Stato (inteso in senso tradizionale) –, ma che, emergendo soltanto in momenti di crisi personale, sociale o politica, risulta circoscritta a particolari problemi e limitata dal punto di vista temporale. La forma di solidarietà alla quale si allude rimanda all’idea di una molteplicità di sodales, ovvero alla condivisione spaziale e alla coesistenza temporale di più compagni di un unico destino, di soggetti irriducibilmente differenti e tuttavia accomunati al fondo dall’identica necessità di interpretare la sfida della convivenza globale. Tale forma di solidarietà, pur nella sua limitatezza e provvisorietà, rappresen37. Ch. Taylor, Conditions of an Unforced Consensus on Human Rights, in J.R. Bauer-D.A. Bell (eds.), The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge 1999, pp. 124-144; su questo punto cfr. B. Henry-A. Pirni, La via identitaria al multiculturalismo. Charles Taylor e oltre, Soveria Mannelli 2006.

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ta dunque un’importante ponte concettuale in direzione di un ripensamento della nozione di legame sociale, prospettandone per altro una sua urgente ridefinizione su scala globale. Da questo punto di vista, si prospetta con chiarezza l’esigenza di mettere alla prova il concetto di legame sociale in relazione alla configurazione inevitabilmente plurale dell’odierna sfera pubblica38. Tale pluralizzazione, che si configura in maniera già evidente a livello dello Stato tradizionale, risulta potenzialmente estremizzata nel contesto globale e lascia trasparire un esito di segno paradossalmente ambiguo. Siamo infatti abituati a scorgere nella pluralità sempre qualcosa di positivo, di arricchente e, addirittura, costituente una delle più importanti conquiste della modernità, in quanto essa fa direttamente pensare alla lotta per la libertà di coscienza e di espressione che è alla base delle moderne democrazie. L’idea di pluralità rimanda dunque direttamente a quella del moderno individualismo il quale, tuttavia, se da un lato ha causato un’importantissima emancipazione dai quadri di riferimento tradizionali e dai vecchi orizzonti morali, non è stato in grado, dall’altro, di evitare il rinchiudersi dell’individuo in se stesso, ovvero non è riuscito a far seguire a quello sgretolamento la ricostruzione di un comune tessuto di socialità; un insieme di legami che, pur preservando l’idea di individualità e le sue molteplici espressioni di autonomia e libertà, riuscisse a mantenere una significativa e qualificata dimensione corale e pubblica39. L’idea di pluralità si è così assolutizzata e radicalizzata, diventando il baluardo del relativismo e dell’indifferentismo sociale; costituitasi come un ambiguo ombrello che consente il permanere della differenza – intesa in senso eminentemente culturale – rischia oggi di non saper più trovare risorse morali e 38. Ho cercato di delineare un più ampio ragionamento su questo punto in A. Pirni, Filosofia pratica e sfera pubblica…, cit. 39. Mi sono trattenuto con maggiore ampiezza su questo tema in F. D’Andrea-A. De Simone-A. Pirni, L’Io ulteriore…, cit. pp. 347-405.

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intellettuali sufficienti per farsene carico nel senso che sopra ho provato a descrivere. In altri termini, tale forma di pluralismo risulta chiaramente esposta al pericolo di garantire la sopravvivenza della differenza – e di chi la incarna –, nel senso più limitativo del termine. È questo un pluralismo che, per altro verso, non riesce più – o riesce sempre più difficilmente – a porre in dialogo chi si riconosce in esso; è un pluralismo che potremmo definire silenzioso, nel quale ognuno, evitando ormai strutturalmente di porsi la domanda sulle ragioni degli altri, rischia di non riuscire a comprendere più neppure le ragioni del proprio agire e di non avere più motivazioni per provare a esplicitarle a se stesso e a quelli che lo circondano. La consapevolezza circa l’intangibilità della sfera privata, che certamente registra il successo della società democratica uscita dalle ceneri dei totalitarismi e il trionfo del liberalismo politico, nel suo radicalizzarsi segna però anche un’importante sconfitta di ogni etica del dialogo, che contempla e aspira alla condivisione ma non esclude il conflitto fra i diversi soggetti che compongono la sfera pubblica. A quest’ultimo livello si ripropone dunque la questione relativa alla sfida della convivenza, che giunge ora a coinvolgere la domanda sul soggetto della globalizzazione alla quale si faceva sopra riferimento. La prospettiva di fondo entro la quale sembra oggi possibile collocare il soggetto della globalizzazione, ovvero chi contribuisce a crearla ma anche ne subisce in prima persona gli effetti, appare sostanzialmente dominata da due opposte tendenze. Da una parte, si riscontra una narcisistica e smisurata vocazione auto-affermativa che, in maniera spesso inconsapevole, tende a sostanziare situazioni di omologazione, indifferenza e perdita di comunità, tutte ugualmente convergenti nel porre in seria crisi l’idea stessa di legame sociale. Dall’altra, l’«io globale» si trova a dover constatare un rinnovato e quasi antitetico bisogno di identità che, tuttavia, si esplica spesso nella forma di quello che è stato opportunamente definito un «comunitarismo tribale», ovvero un revival del legame sociale,

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ma in forma esclusivista ed endogamica, che si presenta non di rado in maniera violenta e aggressiva40. Queste due tendenze, che, pur in forma speculare, presentano un’identica patologia del legame sociale, consentono tuttavia di non abbandonare la chance emancipativa che la globalizzazione sembra portare con sé, che si pone come una scommessa e insieme un tentativo in favore di una riconfigurazione del legame sociale in forma planetaria, capace di conciliare una molteplicità indeterminata di individui che condividono un’irriducibile diversità accanto a una costitutiva debolezza e a un uguale destino41. Soggiace a tale prospettiva la chiarificazione di una condizione antropologica persistente, che si ripropone oggi in una veste e con una radicalità del tutto inedita rispetto al passato. La situazione dell’io globale si configura infatti come dominata da due fondamentali aspetti: da un lato l’illimitatezza – che rimanda alla smodata e perenne velleità autoaffermativa, assecondata e incrementata oggi dall’incontenibile sviluppo tecnologico –, dall’altro l’insicurezza, accresciuta nell’epoca presente dalla crisi 40. E. Pulcini, L’io globale: crisi del legame sociale e nuove forme di solidarietà, in D. D’Andrea-E. Pulcini (a cura di), Filosofie della globalizzazione, cit., pp. 57-83, p. 57 e 68. Un’ampia articolazione delle premesse storiche e teoretiche di tale prospettiva è stata sviluppata in E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino 2001. 41. Pulcini, proponendosi di offrire riscontro a questa patologia sociale, interpreta tale esigenza di riconfigurazione nella prospettiva del dono, inteso «nelle sue molteplici e concrete manifestazioni (dalle organizzazioni no-profit del cosiddetto Terzo settore alle semplici pratiche soggettive di donazione: di tempo, di vita, di corpo, ecc.)» (Ivi, p. 76). Il dono si costituisce così quale «evento intrinsecamente globale» che, da un lato, «varca oggi i confini della sfera intima e privata […] per estendersi alla sfera pubblica e sociale» e, dall’altro, non appare riducibile alla dimensione caritatevole dell’altruismo, riuscendo pur sempre a esprimere un interesse dell’individuo nei confronti della creazione del legame sociale «dettato dalla fiducia nella risposta dell’altro. Laddove “altro”, appunto, non coincide affatto necessariamente con il nostro particolare donatario, ma con un qualunque altro, con chiunque risponda, con altrettanta fiducia, al nostro desiderio di appartenenza e di socialità» (Ibidem).

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del progetto moderno di razionalità, ordine e progresso e, insieme, dal concretizzarsi dello sgretolamento di un assetto politico-economico-sociale fino a pochi anni fa impensabile, senza che dalle sue ceneri si intravveda una qualche avvisaglia di un nuovo ordine stabile. È in particolare proprio quest’ultima condizione, ormai immanente all’uomo contemporaneo e identificata, tra le altre, nell’immagine della «società del rischio», che ripropone l’esigenza originaria di uno Stato, ovvero di un organismo giuridico-politico che si presenti quale fonte di sicurezza, fiducia e pace per ogni suo membro. Per cercare di offrire riscontro a tale esigenza è forse necessario valorizzare un elemento di dinamicità, ovvero «riattivare la paura, senza cadere nella rete paralizzante e indifferente dell’angoscia, e senza cedere alle sue spinte regressive e arcaiche»42. Si tratta, in altri termini, di contribuire a sviluppare una più diffusa consapevolezza dei rischi che caratterizzano l’età contemporanea; una consapevolezza che implica la loro fuoriuscita da quella patina di intangibilità e indeterminatezza che li caratterizza e il loro rivelarsi quali concreti pericoli, minacce chiaramente incombenti su ogni uomo e dagli esiti decisamente rilevanti, quando non definitivi o letali. Si tratta di pericoli esperiti innanzitutto a livello individuale – come quello relativo all’impossibilità di un’autodeterminazione personale e autentica, che si sviluppi in senso né smodatamente autoaffermativo né claustrofobicamente tribale – ma incombenti anche a livello collettivo – come le gravi emergenze per la salute e la stessa sopravvivenza provenienti da un uso sconsiderato delle risorse ambientali o dall’impiego irresponsabile della tecnologia, ovvero le minacce che giungono da un terrorismo e da una criminalità organizzati su scala decisamente planetaria. Sono questi pericoli la cui pervasività non consente più il perpetuarsi di quegli atteggiamenti di inerzia o disimpegno figli del relativismo; sono anzi minacce nei confronti delle quali deve essere stimolata la ricerca di nuove energie morali in grado di contrastare proprio 42. Ivi, p. 73.

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La globalizzazione della differenza, tra etiche e diritti

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quella radicalizzazione del pluralismo che confina con l’incomunicabilità e l’indifferenza dei soggetti coinvolti. È questa una condizione epocale che suggerisce e sembra anzi necessariamente implicare l’idea di una «comunità di destino» (Schicksalgemeinschaft)43, racchiudente in sé l’intero genere umano e dalla quale nessuno può sentirsi immune o escluso. E proprio tale idea conduce nuovamente alla prospettiva dell’universalismo negativo, che implica, da una parte, l’indefettibile esigenza di quel rispetto che non ignora ma valorizza le differenze, integrandole effettivamente nel dibattito pubblico e, dall’altra, la contestuale salvaguardia di uno standard minimale di legittimità, di una soglia sotto la quale l’accettazione della convivenza non può scendere. È questa una prospettiva che fa tutt’uno con la condivisione di un’identica situazione di insicurezza e pericolo che coinvolge l’intero genere umano e che può dunque essere legittimamente riscattata al livello di una condizione antropologica universale, caratterizzante quell’uomo che, trovandosi a vivere e ad agire nella post-modernità globalizzata, cerca di comprenderne il senso e interpretarne le sfide.

43. O. Höffe, Demokratie im Zeitalter der Globalisierung, cit., pp. 15-16.

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Nuovo Stato di diritto e trasformazione del soggetto giuridico. Elementi per una antropologia della globalizzazione. Ipotesi di lavoro

L’

opinione comune considera che la globalizzazione ha non solo ridotto la funzione dello Stato ma sta procedendo alla sua tendenziale liquidazione. In realtà, dopo lo smantellamento dello Stato-nazione di diritto sovrano e sociale, del Welfare State, il flusso della transnazionalizzazione capitalistica riduce la funzione di protezione pubblica dello Stato e seleziona, fra le comunità che si dicono Stati, una élite ristretta di comunità che sono Stati stricto sensu. Nello stesso tempo lo Stato cambia di funzione per riservarsi il compito della gestione della popolazione attraverso l’organizzazione della loro differenziazione o gerarchizzazione. Presento qui un’ipotesi di lavoro che già è stata elaborata da alcuni studiosi come Zygmunt Bauman, Marie-Claire Caloz Tschopp o Michaela Gillespie e che mi propongo di sistematizzare. Se la globalizzazione è la nuova fase del capitalismo dopo la disfatta storica dei suoi avversari del secolo scorso – il movimento operaio e il movimento anticolonialistico di indipendenza –, essa è caraterizzata non solo dall’avvento della «società liquida» tematizzata da Zygmunt Bauman e dall’egemonia delle imprese transmoderne, ma anche da una nuova versione dello Stato di diritto e da una nuova configurazione antropologica del soggetto giuridico.

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1. Il nuovo Stato di diritto proprio del capitalismo globalizzato I teorici della globalizzazione sostengono che lo Stato di diritto risultato della storia, i suoi dispositivi di rappresentazione, le sue pratiche procedurali hanno la funzione di facilitare la produzione di merci e il loro consumo, favorendo così la produzione di profitto massimo, riconoscendo ai soggetti i diritti umani fondamentali e sopratutto la libertà di agire e di consumare come proprietari di se stessi, del loro proprio, aggirando tutti gli ostacoli che lo Stato può oppore alle loro libere iniziative. Lo Stato liberale ha potuto “vincere” perché ha incluso questi diritti dell’uomo nel seno dei diritti politici del cittadino. Lo Stato di diritto della globalizzazione ha potuto neutralizzare la dimensione politica, in precedenza ritentuta ineludibile e necessaria, presentandosi come una realtà “insuperabile” che realizza, in sintonia col sistema delle imprese transnazionali, la «fine della storia». La critica dello Stato di diritto transmoderno non è giustificata: essa deve riconoscere che questo Stato è una forma universale, valida per tutti i territori, dunque una «forma deterritorializzata», secondo un’espressione di Deleuze. Lo Stato di diritto è una specie di cosa in sé, di bene in sé che conviene desiderare in ragione della sua legittimità assoluta fondata sul primato della libertà infinita. Risultato storico, la forma dello Stato di diritto è dotata della capacità di obliare il processo della sua genesi, volendosi forma metastorica. Il solo fatto dell’esistenza di questo Stato lo rende legittimo e i suoi atti legali sono ipso facto legittimi: legalità significa leggittimità. Le vicende dello Stato americano dopo l’11 settembre 2001 hanno dimostrato che lo Stato ha il diritto-arbitrio di sospendere il controllo giurisdizionale del suo potere, di oscurare la possibilità di rimettere in discussione il contenuto dei diritti stessi. Lo Stato di diritto fa del diritto un oggetto di culto e suppone l’inattingibilità dei diritti effetuali. Si presenta come assolutamente puro, come pura adeguazione al giusto in sé, al di là della contestualizzazione politica. È, per definizione, al di là del “sospetto”.

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Nuovo Stato di diritto e trasformazione del soggetto giuridico

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Così il nuovo Stato di diritto s’impone come la forma che contiene la ricerca della felicità, identificata nella libertà di produrre e di consumare. Lascia gli individui liberi di ricercare per conto proprio la loro felicità, di desiderare secondo le proprie aspirazioni e di realizzare tali aspirazioni secondo le proprie capacità di agire, di pensare e di libera impresa. La libertà si misura qualitativamente come libertà solvibile, come libertà risolubile in quantità di denaro e di beni acquisibili, non come libertà politica di decidere le forme e il contenuto del bene comune. Lo Stato di diritto del liberalismo totalitario soft suppone che tutti i soggetti di diritto formino una società civile d’uomini universalmente soddisfatti e che questi non avvertano più il bisogno di sviluppare il diritto di una critica politica. La nuova società civile non è una eklesia, è un forum mercantile, uno spazio non pubblico, uno spazio privato à plusieurs, una pluralità pubblicamente privatizzata. Lo Stato di diritto globalizzato è apolitico in quanto si fonda su una politicità che sviluppa l’apoliticismo di massa. Funziona come supporto alla globalizzazione e organizza la sua propria sovversione in quanto res pubblica. Il suo apoliticismo è formale e occulta il suo agire politico, nella misura in cui continua a proporsi come garante dei diritti dell’uomo universale – dell’uomo che ha il diritto di consumare privatamente e, soprattutto, che ha il diritto di consumare il diritto stesso, come è stato evidenziato nei lavori di Michaela Gillespie. Così facendo, il nuovo Stato iperliberale opera la ridefinizione supina e sorniona dei diritti moderni che sono intrinsecamente, ad un tempo, diritti dell’uomo e diritti del cittadino. Il diritto si riduce al diritto dell’uomo produttore di sé come consumatore. Il soggetto giuridico etico-politico è così indotto a ridefinirsi come soggetto che ha il diritto di consumare il diritto privato solvibile, cioè di consumare illimitamente la produzione. Il soggetto è obbligato dal meccanismo politico di “spoliticizzazione” ad abbandonare la sua determinazione di uomo-cittadino uguale a tutti gli altri uomini di fronte alla legge, cioè a rinunciare alla sua capacità di fare, disfare e rifare

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la legge. Il liberalismo radicale repubblicano diviene superfluo, inutile. Lo Stato di diritto proprio della globalizzazione riconosce solo l’uomo puro, l’individuo che è sgravato della sua capacità di esistenza, cioè di resistenza etica e politica. Lo Stato di diritto globalizzato ha per soggetto l’individuo privato che si fa valore assoluto e si fa di se stesso, autosacralizzandosi, uno “stato metapolitico”. Si produce, così, una nuova istituzione del soggetto, anch’esso assolutizzato come soggetto e identificato al diritto di consumare il diritto di consumare: l’essenza di questo soggetto è la solvibilità o, in altri termini, il soggetto è tale in quanto solvibile. O è pura solvibilità o non è. Tutti gli Stati sono sottomessi all’esigenza di uniformarsi a questa forma di trasversale meta-statualità che sovverte la concezione liberal-radicale dei dirittti dell’uomo e del cittadino, interpretandola come apologia dei diritti del privato – libertà d’impresa, libertà di accesso alla sola proprietà capitalistica, libertà di consumare tutto il consumabile. Cosi l’iperliberalismo realizza una tesi drasticamente enunciata da Marx nella Questione ebraica: i diritti dell’uomo sono la mediazione privilegiata dell’accumulazione perché traducono la forma costituzionale dello stato di diritto privato globalizzato che assicura, garantisce e informa l’imperativo capitalistico. In questo senso lo Stato di diritto si fa infrastruttura costituzionale dell’attività economica capitalistica. E a partire da questi presupposti possiamo comprendere la funzione della tematica della governance, cioè dell’insieme di norme e leggi necessarie per assicurare e realizzare la potenza del “capitalismo liquido”. Lo Stato iperliberale di diritto si colloca al vertice di una gerarchia di Stati concorrenti: i più forti fagocitano, dominandoli come “padrini”, gli Stati deboli, secondo un rito quasi mafioso di filiazione. Il capitale assume il controllo del mondo realizzandosi nelle opposizioni geopolitiche. Il diritto privato globalizzato è il cemento, il collante che produce, al livello della psyche degli individui, la fede nella necessità provvidenziale di conformarsi all’imperativo sistemico mondiale. Si realizza una

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impregnation delle soggettività private sottomesse a un nuovo immaginario giuridico. Il nuovo soggetto, almeno secondo la logica (o ideo-logica) imperante, crede che sia diventato inutile qualsiasi velleità di autonomia politica, di insurrezione contro la sua nuova funzione. È condotto a convincersi della necessità naturale della sua sottomissione al nuovo Stato: questa sottomissione è essa stessa, letteralmente, pagata dal diritto di consumare il diritto di consumare. Tutti sono giuridicamente uguali come infinita potenza di consumo, come libero desiderio de jure. Il soggetto trova il compenso per la sua rinuncia politica, il compenso di esser riconosciuto come uno che “abbia diritto”, come un ayant droit. Ma qui incominciano le difficoltà. Il diritto si concretizza in funzione della potenza sociale effettuale dell’individuo, cioè della sua capacità finanziaria, della quantità di denaro che possiede, della sua solvibilità. Il genre humain si divide radicalmente fra quelli che “hanno il diritto” (i “solvibili”) e quelli che “non hanno” (o hanno poco) di questo diritto (gli “insolvibili”). Il nuovo diritto privato produce, come ha mostrato la Gillespie, la scissione fra ayant droit e non ayant droit, e il nuovo Stato di diritto legittima e fonda il nuovo diritto, producendo politicamente la scissione. C’è di più. I non ayant droit sono responsabili della loro situazione giuridica che li esclude del diritto degli ayant droit. Il nuovo Stato di diritto sanziona una situazione imposta dalla contingenza del meccanismo economico e dall’ineguagliaza storica delle popolazioni, facendo dell’esclusione un’auto-esclusione. Sono i non ayant droit che sono responsabili della loro stessa esclusione, che si sono posti fuori del diritto solvibile, che si sono fatti privi di diritto in ragione della loro incompetenza e della loro irresponsabilità. L’iperliberalismo si presenta come una specie di religione atea che riposa su una doppia fede: la fede nell’espansione illimitata dei diritti dell’uomo quale uomo ayant droit e la fede nel nuovo Stato. Questa fede differenzia e gerarchizza gli individui differenziandoli tra ayant droit e non ayant droit.

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Il dirittto privato globalizzato produce un mondo che esiste solo per i primi; tutti gli altri, privi di diritto, sono eo ipso privati dell’uso del diritto privato e, dunque, sono senza mondo. Il mondo della globalizzazione non è il mondo per i non ayant droit. Questo “acosmismo” coesiste col mondo privato degli ayant droit, mentre i non-solvibili non sono uomini nel senso forte della parola – sono esemplari imperfetti e negativi di uomo, uomini al limite dell’umanità o, addirittura, privati dell’umanità. Sono esposti strutturalmente, anzi sovra-esposti, alla presa diretta del diritto privato globalizzato. Hanno, tuttavia, il diritto-dovere di riconoscere lo Stato che non li riconosce, perché solo il nuovo Stato iperliberale di diritto si riserva il diritto di dire chi è o non è uomo, chi è o non è di questo mondo, chi è privato del mondo e dunque è “individuo acosmico” o “uomo nel suo proprio mondo”. Il potere combinato del nuovo Stato e del nuovo diritto domina, dall’alto del suo imperium, tutti i soggetti che vi sono esposti. Ora, l’imperium non è l’Impero secondo la codificazione “tradizionale” ma, piuttosto, una potenza trans-statale che si manifesta nei rapporti di forza geopolitici. Possiamo qui ritrovare le intuizioni del Marcuse dell’Uomo a una dimensione: si forma, infatti, un apparato dogmatico di egemonia che è, ad un tempo, struttura e sovrastruttura. È un blocco che unisce tre elementi: a. un sistema economico che organizza il soddisfacimento del diritto di consumare secondo un modo ineguale, soddisfacimento, si potrebbe affermare, repressivo, nella misura in cui reprime la capacità politica del cittadino. b. Una fede che cementa le coscienze, la fede dogmatica nei diritti dell’uomo unico, fede che si costituisce come universalismo imperiale e imperialista. c. Lo stato iperliberale che produce un nuovo “corpo morale” colonizzatore dello spazio politico, che, cioè, funziona politicamente producendo un apoliticismo di massa.

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2. Una nuova forma-soggetto egemonica: l’individuo solvibile e il suo corpo Il liberalismo-liberismo trionfa sotto una forma radicalizzata fondata sull’ipostasi del diritto privato soggettivo. L’uomo non è più considerato come cittadino titolare d’una uguale libertà per la quale ciascun individuo è immediatamente in relazione con gli altri e assurge al rango di cittadino. Il diritto liberalerepublicano affermava il diritto come il diritto di aver diritto ma non rinviava al diritto di consumare il diritto di consumare il diritto. Affermava il diritto di essere participe di una città in cui si manifestava il potere di giudicare e di decidere. La nuova forma-soggetto è sprovvista di identità politica e implica solo apparentemente una relazione qualitativa con gli altri soggetti: se è in questione la sola libertà di desiderare il consumo e di soddisfarlo, la qualità si risolve in quantità perché solo i soggetti solvibili possono consumare pienamente quello che è prodotto. Il diritto nuovo esige per realizzarsi l’inegualianza reale dei soggetti, unificati solo dalla proprietà della stessa forma pura e legati radicalmente alla solvibilità. Lo soggetto iperliberale di diritto è riconosciuto come Uomo quale desiderio individuale di diritto privato dotato di “potenza solvibile”. Tale soggettività non è veramente soggettiva perché è una parte qualitativamente omogenea della quantità: la qualità è rappresentata dall’opinione dei molti i quali riconoscono soltanto le differenze quantitative in termini di solvibilità. Questa soggettività non è soggettiva perché non è capace di deliberazione sulle finalità realizzate dallo Stato – queste finalità sono date come evidenti, naturali, indiscutibili. Il nuovo soggetto non pensa né può giudicare. È banale e immerso nella sua banalità. Questa soggettività si definisce come accettazione a priori della naturalità propria del diritto di consumare il diritto di consumare tutti gli oggetti di consumo, rifiutando a priori il diritto di resistenza, che è proprio del cittadino, alla determinazione esclusivamente privata del diritto.

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Ora, lo Stato iperliberale è al servizio del diritto di consumo del diritto privato. Come Stato dell’élite dei liberi (dei veramente liberi che sono i solvibili), si fonda sulla libertà minore (o sulla non-libertà) degli individui formalmente liberi – ma realmente illiberi in quanto uomini minori o, al limite, non-uomini. Il nuovo Stato di diritto vive come lo Stato totalitario di gentiliana memoria in interiore hominis, nel foro interno di un soggetto puro che diviene norma e misura per gli altri in quanto solvibiltà massima, soprattutto per il non-uomo – migranti, senza casa, senza lavoro, senza documenti, poveri moderni, uomini senza mezzi di sussistenza. L’uomo puro non è soggetto nella misura in cui il suo pensiero critico è impossibilitato a riflettere sulle finalità dell’agire umano nel contesto dello Stato liberale che codifica le norme di diritto privato per tutto il mondo. È l’uomo che nel suo foro interno si proibisce la riflessione sul fine e che teorizza solo i mezzi di soddisfacimento del suo diritto di consumo del diritto di consumo. L’uomo unico vive la gioia inquieta della sua libertà che è fede nell’infinito del consumo, che è libertà di credere senza pensare. È l’uomo dedicato al culto di sé, ma il sé in questione è il sé di nessuno; si definisce come la summa dei beni e dei servizi che può produrre e consumare senza fine altro della riproduzione allargata di sé. L’uomo nuovo dell’iperliberalismo ha bisogno, per affermarsi come soggetto, della solvibilità massima e come tale esige l’esistenza del non-uomo, del soggetto insolvibile. La trasformazione del soggettto giuridico è indissolubilmente legata alla trasformazione del corpo umano. Si suppone che il foro interno irriflessivo del soggetto fedele sia sottomesso all’esigenza di una lealtà totale all’assoluto che assume la forma del diritto di consumo di tutto. Il soggetto si presenta come realizzazione di un corpo normale, ricco e forte, parte-aliquota del corpo della société civile. L’individualismo si rovescia in un nuovo corporativismo che è una “agenzia di manifattura” del corpo. Così la questione del soggetto di diritto si fa questione del corpo del soggetto stesso. Il corpo dell’uomo autenticamen-

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te umano è un corpo obbediente, integrato in un paradossale, ortodosso “corpo collettivo”, il corpo della nuova società civile. Tutti gli uomini che resistono contro l’iperliberalismo debbono agire un corpo “deviato” che manifesta una capacità di insubordinazione, un corpo che si vuole eretto, diritto e non curvato su sé. Ma il nuovo diritto non contempla il diritto di erigersi. Il diritto iperliberale denuncia i corpi eterodossi che insorgono contro l’insicurezza e l’incertezza prodotte dal capitalismo liquido e il suo nuovo Stato di diritto. La denuncia si traduce in criminalizzazione e il diritto si concretizza come diritto penale. Il corpo del soggetto resistente è posto a priori come corpo delittuoso, come corpo del delitto in sé. E dal momento che, sovente, è il corpo di un individuo non solvibile o poco solvibile, questo corpo è stigmatizzato come corpo anomalo. L’anomalia del corpo si reduplica in anomalia dello spazio che occupa. Questo corpo anomalo ha per spazio di manifestazione non la città centrale (il luogo dei corpi normali) ma le periferie, les banlieux – secondo l’etimologia, del resto, la banlieu è precisamente il luogo dove si realizza le ban, la chiusura che può essere sanzionata dalla condanna, dal bando, del bannissement. Il corpo anormalo è il corpo di quanti non vivono l’urbanità del centro-città ma la violenza delle zone perimetrali, conducendo un’esistenza fatta di rabbia e di impotenza. Il nuovo diritto si trasforma in diritto penale che condanna (penalizza) a priori il potenziale di insubordinazione presente e prodotto dal capitalismo liquido. Si produce così un corpo criminale virtuale che è l’inverso del corpo normale. Il nuovo diritto è diritto di cittadinanza (di elementi della polis) solo per i titolari del corpo normale (gli uomini solvibili), e il diritto di cittadinanza coincide con il diritto di essere-al-mondo. La negazione di questo diritto è simultaneamente negazione del diritto d’essere-almondo e privazione del mondo per i corpi anomali e, dunque, potenzialmente ribelli. La città-mercato ritiene di essere il mondo vero. In realtà lo è soltanto per quanti fanno parte di questo mondo in ragio-

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ne della loro proprietà, in ragione del fatto di essere un corpo umano normale-solvibile. Le zone suburbane non sono il vero mondo, sono il luogo separato, il deposito per i corpi anormali in quanto corpi impotenti-insolvibili. La città non vuol vedere il suo altro suburbano: per essa deve essere invisibile e mantenuto impotente perché è portatore di una minaccia di ribellione. I corpi suburbani sono, con ciò, virtualmente derealizzati, invisibilizzati, come prova peraltro la tendenza a criminalizzare le manifestazioni di piazza. Lo spazio extra muros non è una agora, non è un luogo di manifestazione politica, non è un forum in senso stretto, perché il foro è, a un tempo, luogo dell’opinione e mercato. Certo la periferia contiene mercati (supermercati), ma il suo mercato è riservato alle persone solvibili, ai corpi capaci di consumo: è uno spazio del desiderio di consumo di pochi e della sua frustrazione per molti; è il fenomeno urbano, l’apparire della città dentro la non-città. Se i corpi eretici possono sì farsi notare nella città, ebbene la loro apparizione è portatrice di insicurezza, è sorvegliata e considerata minacciosa. La città è rivelatrice dell’apartheid inscritto nel diritto di consumare il diritto di consumare; è un’agenzia di esclusione dei corpi eretici insolvibili – s’è detto: di migranti, poveri, senza casa, senza lavoro, manifestanti potenziali. Il diritto di cittadinanza diviene anch’esso diritto penale. Il nuovo Stato di diritto e il suo soggetto non-soggettivo (nel senso di non-politico) sono istituzioni integrate come forme di realizzazione della globalizzazione e sanzionano la nuova dimensione antropologica del soggetto. Dunque la questione va inverata, in ultima analisi, nella questione fondamentale del modo d’essere dell’umano oggi. Il soggetto si rivela come a-soggetto (a-sujet), inversione del soggetto.

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3. La manifattura del corpo sessuato e il venir meno della chair Il corpo lavorato, fatta astrazione del suo marquage cittadino, diviene corpo privato iscritto come formazione nella società civile. Si pone sempre di più come corpo che deve subire lo spostamento del confine che separa la forma umana dalla forma non-umana e lo spostamento è modellato dalla logica del consumo e del diritto del consumo. Il diritto si estende e fa del corpo dell’altro un oggetto di consumo di cui ci si può appropriare legalmente. Abbiamo un esempio di questa mutazione: la vendita di parti, di organi del corpo da parte di uomini e donne poveri. L’uomo o la donna subisce un’amputazione senza comprenderne la ragione e l’organo “strappato” viene pagato sul “mercato”. Il corpo dell’altro perde così une parte della sua integrità e della sua funzionalità allorché il corpo del ricevente (il corpo di chi compra) viene restaurato nella sua potenza. L’individuo non-solvibile diviene così parte integrante dell’individuo solvibile e la pretesa di libera individualità si risolve in una specie di organicismo mercantile che presuppone l’esistenza d’un sovracorpo anonimo e inegualmente partecipato dai suoi membri in funzione dalla loro solvibilità. Possiamo presentare un altro caso. Pensiamo al turismo sessuale praticato dai ricchi turisti che pagano l’uso del sesso dei poveri dei paesi visitati. Il corpo normale e potente dell’uomoautenticamente-uomo gioisce del corpo economicamente impotente dell’altro, della sua carne decaduta, puro oggetto d’uso, dotato di un valore di scambio. Il corpo prostituito è anch’esso in una situazione-limite perché è sottoposto a un’alternativa drastica: o assumere il suo statuto inumano o manifestarsi come corpo ribelle di un delinquente. A ogni modo, sia come corpo usato sessualmente sia come corpo delittuoso, il corpo è il prodotto e il segno della disaggregazione del tessuto sociale urbano. La vendita di sé non è proibita dal diritto soggettivo di consumo perché è mediatizzata da un consenso. Il diritto produce il suo essere fuori dal diritto e tollera la vendita di sé

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all’uomo vero che interviene come un cannibale sul corpo dell’“altro insolvibile” o che lo penetra sessualmente. L’apparente conversione del diritto di consumo degli uomini veri nella mancanza di diritto all’integrità del corpo da parte degli uomini impotenti (cioè non-veramente-uomini) rivela la verità del diritto egemonico nella globalizzazione. Il corpo smembrato o prostituito del ragazzo o della ragazza incarna il corpo che manca del diritto alla vita. È escluso dallo spazio degli ayant droit, è preda della mutilazione e dell’aggressione, vive sul crinale che separa l’umano dall’inumano, è esso stesso questo passaggio al limite. C’è la potenza del capitalismo globalizzato che lo rende “liquido”, lo fa fluire come carne informe, senza consistenza, priva struttura; come carne destinata ad essere dislocata in membri sparsi. La carne umana è come tale “liquidata” e diviene riserva d’organi o di piacere sessuale, materia prima, fonte della felicità del corpo onnipotente dell’uomo solvibile. Il corpo impotente e privato di potenza solvibile è un corpo nudo che è desiderato per la sua nudità e escluso dalla sfera degli ayant droit – ma incluso nel mondo in quanto cosa che non ha diritto alla personalizzazione del corpo. È un corpo non-personificato, è il corpo di nessuno, pura potenzialità di uso per i potenti, per i corpi personalizzati dalla quantità di potenza solvibile, in grado di disporre di questi corpi in quanto res al di sotto della soglia della solvibilità. Così sta prendendo forma il confine dell’umano e del disumano, laddove opera il totalitarismo nuovo proprio del capitalismo liquido. La solvibilità è sempre più contingente, dipende dalle fluttuazioni della redditività del capitale, dall’incertezza crescente della redistribuzione della ricchezza e dall’instabilità dei posti di lavoro, come ha magistralmente mostrato Bauman. Ancora una volta la sola solvibilità determina la capacità di accedere non solo all’umano ma addirittura all’eventuale processo di reumanizzazione. Di più. Se la globalizzazione si definisce come “agenzia” che decide chi è degno di vivere e chi deve essere lasciato morire (secondo l’espressione di Michel Foucault), questo imperium,

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questo potere di vita e di morte, passa per la solvibilità, dunque attraverso il nuovo diritto di consumo, il diritto che struttura la global civil society desiderata come orizzonte della vita. Produttrice della divisione fra chi può consumare e chi non può farlo, la globalizzazione, in realtà, non puo essere mondiale perché non puo contenere nello stesso mondo la totalità dell’umanità – gli ayant droit e gli altri che non hanno diritto. Questi, come s’è visto, costituiscono un corpo improprio dal punto di vista dell’umanità di pieno diritto, un anti-corpo che è un non-mondo, un corpo fatto di non-uomini in confronto al corpo dell’umanità vera. L’anti-corpo e il non-mondo sono necessari in quanto strutture attuali e debbono essere mantenuti in vita per far risaltare il mondo vero e il sovracorpo dei sogggetti umani di diritto. Il voyeurismo dei turisti globali, la mediatizzazione del spettacolo della miseria dei poveri locali, la drammaturgia della compassione che prende il posto della giustizia sono necessari al soddisfacimento e alla sazietà degli uomini veri. Almeno finché dura... Il sovracorpo onnipotente ha bisogno, infatti, del sacrificio dei corpi sofferenti, consumabili – jetables, come hanno chiarito Bernard Ogilvie e Claire Caloz-Tschopp –, che formano l’anti-corpo. È bene che questi corpi siano mantenuti in vita o, meglio, al limite della vita, per rafforzare il sentimento esistenziale dei liberi. Il ragazzo che subisce la degradazione fisica del suo corpo riceve il compenso mentre il suo corpo va in pezzi; al suo destino fa da contraltare la felicità degli utenti che hanno pagato il giusto prezzo di mercato. La ragazza che si prostituisce è tenuta in vita dal salario del piacere che procura all’utente del suo sesso. Tutti e due rimangono, tuttavia, sotto la soglia della povertà. Così si determina una specie di lavoro: il lavoro che fa sopravvivere una forza-lavoro estranea, straniera o altra, al confine dell’alterità. Questo confine viene periodicamente “spostato” ogni qual volta l’anticorpo dei non ayant droit manifesta la possibilità di costituirsi come corpo di rivendicazione o di insurrezione che vuole reclamare la sua parte di essere-al-mondo o, come afferma Rancière, la sua “parte dei senza parte”.

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4. Il diritto alla desimbolizzazione del diritto e i suoi antidoti comunitari Il nuovo soggetto giuridico è quello adeguato alla globalizzazione, al processo di produzione-distruzione che caratterizza la società capitalistica liquida. Divenuto autoreferenziale, il diritto di consumo giustifica la liquidazione delle realtà che si pongono come stabili e solide e permette di qualificare il primato della produzione come primato del consumo. La società civile iperliberale esige che nulla sia assicurato – posto di lavoro, competenze, salari, domicilio –, che tutto fluisca come il denaro, che è la liquidità per eccellenza. La solvibilità è la forma fenomenica di questa esigenza di movimento assoluto nonché il criterio della divisione dell’umanità in due parti ineguali: l’élite dotata della solvibilità massima perché è proprietaria del capitale (sopratutto finanziario) e le moltitudini poco solvibili o non solvibili. Il nuovo diritto è il cemento di una nuova concezione del mondo nel senso gramsciano, di una ideologia che è proposta a tutti come istanza di soggettivazione e che è legata a condotte conformi a questa istanza. Questa concezione del mondo nasconde la divisione o, piuttosto, la naturalizza. I non-solvibili sono così indotti a identificarsi come uomini imperfetti al limite dell’autoesclusione. Non è un caso che il nuovo soggetto sia il supporto del soggetto della teoria economica dominante, la teoria marginalistica del valore che è radicalmente soggettivistica. Come mostra Jean-Michel Goux nel suo libro Frivolité de la valeur (2001), la teoria classica del valore-lavoro dell’economia politica (Smith, Ricardo), criticata ma mantenuta da Marx, presupponeva il referente del lavoro come sostanza quantitativamente determinata quale “coagulo” astratto e divisibile. Adesso il lavoro ha lasciato il posto alla cosa-merce che vale in funzione del desiderio del soggetto edonistico. Una “cosa” trova il suo valore nel prezzo che il soggetto è disposto a pagare per soddisfare il suo desiderio e dare corpo al suo diritto di consumo. Se il soggetto non ha denaro o ne ha poco, non può esistere come soggetto.

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Tutto funziona come se il soggetto sanzionasse da se stesso la sua esclusione legale dal processo e rivelasse il suo non esser giuridicamente degno, il suo essere-fuori-dal-diritto. Così il diritto si manifesta come diritto all’apartheid giuridico. La norma rimane il desiderio e il desiderio si procura il suo diritto. Ma l’apartheid giuridico e il suo diritto non possono esitere allo stato puro. La società civile iperliberale si vuole universalistica ma non può rilevare il ruolo di unico legame sociale, non può realizzarsi esso stesso come società pura. Il suo Stato si mantiene perché gli uomini vivono anche dentro comunità storiche diverse, nazioni vieppiù eterogenee ma unificate dalla lingua, comunità religiose, insiemi etnici caratterizzati da credenze comuni o da una storia più o meno immaginaria ma vissutta come “legale”. Il diritto di consumo è imposto agli uomini storicamente diversi, è esercitato da questi uomini secondo modalità diverse. La nazione, l’etnia, la razza, la chiesa religiosa sono “principi di particolarizzazione” attivi perché sono delle reazioni al dileguare dello Stato sociale di diritto e all’emergere del nuovo Stato iperliberale. L’universalità del nuovo diritto, che è in sé una falsa universalità perché si riduce all’universalità solvibile, si particolarizza o, piuttosto, è sovradeterminata da principi particolari e comunitari – nazione, etnia, religione, razza – che assumono il ruolo di istanza simbolica. Il simbolismo particolarizzato è, certo, vissuto in modo immaginario ma è il supplemento necessario perché non può esistere un legame sociale ridotto alla pura solvibilità e al denaro liquido. Il diritto di consumo soffre di un deficit simbolico strutturale ed esige, per esercitare una presa sulle soggettività, la mediazione di un terzo simbolico. Il denaro non può esistere come il “Terzo simbolico” che struttura le relazioni fra individui, perché ignora molte dimensioni dell’agire e, soprattutto, perché non è una Legge che distribuisce regole e attribuzioni organizzando uno spazio di riconoscimento e di mutuo rispetto, che produce il diritto come diritto di città. Il denaro non fa città perché non conosce altra legge che l’imperativo assoluto di produrre per il consumo allargato, chiama i suoi soggetti a obbedire “libera-

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mente” al movimento perpetuo di un consumare che è eretto a fine in sé e che è simultaneo alla crescita dell’apartheid che isola dall’élite la massa di uomini superflui. La dinamica del diritto iperliberale di consumo è liquidazione del simbolismo logicocivico o, piuttosto, potenza desimbolizzante che sanziona la violenza dell’apartheid immanente al dramma della solvibilità. La Legge è dissolta dalla solvibilità, dai flussi irreversibili del capitale finanziario. Questa dissoluzione rende schizofrenico il nuovo soggetto giuridico scisso fra il desiderio di consumare sempre più, di cannibalizzare gli altri che resistono, e di sopportare di vivere nella rabbia della frustrazione e nell’invidia, nella volontà di distruggere quelli che li impediscono di vivere e consumare almeno il “minimo storico” del consumabile. A questo punto diviene necessario per tutti chiamare in causa un altro “Terzo simbolico” per organizzare uno spazio di riconoscimento, di interrelazione. Può essere ancora la nazione. La nazione si è costituita come questo “Terzo” perché fu chiamata nella modernità a giocare questo ruolo informando della sua storicità e della sua concretezza lo Stato moderno, determinando le sue regole astratte. Ma il ricorso al simbolismo della nazione fa dei cittadini dei “nazionali”, e i “nazionali” sono convocati a separarsi dai non-nazionali stranieri residenti (immigrati) o a considerare come non-nazionali, non-patrioti divenuti altri dell’interno (disoccupati, figli di immigranti “non integrati”, senza casa, senza documenti). Il “Terzo” costituisce lo spazio di riconoscimento per i nazionali e una riserva per gli altri: è il noman’s land delle periferie. La simbolizzazione è particolare e portatrice di una nuova scissione fra “noi” e “loro”, fra “amici” e “nemici”. La politica diviene crash delle comunità, perche il nazionalismo comunitarizza lo Stato. Il simbolismo che organizza uno spazio politico d’interrelazione “capovolge” questo spazio come terreno di scontro, di guerra. Il nazionalismo rimane attivo e produce l’ideologia della nazione eletta – da Dio, dal mercato, dalla storia – per dominare gli altri stati e mettere l’ordine suo

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nel caos delle relazioni transnazionali. Cosi è liquidato nell’immaginario bellico l’ambiguo “Terzo” dello Stato. La stessa ambiguità caratterizza il ricorso ad altre istanze simboliche, come la Razza, l’Etnia, il Dio di qualche popolo eletto. Il ricorso si fa sempre in ragione delle frustrazioni e dell’ineguaglianza prodotte dall’universalizzazione del diritto di consumo del diritto di consumo e dall’elevazione a modello dell’Uomo puro solvibile. Tutti questi “Terzi simbolici” veicolano secondo modalità differenti l’opposizione amico-nemico, noiloro, che diviene opposizione fra bianchi e neri, serbi e croati, credenti fedeli e incredenti infedeli. Il principio della “guerra santa” ricopre e sovradetermina il dualismo fra solvibilità e insolvibilità, dandogli così forma storica. Allo stesso modo in cui il Cristianesimo ha formulato contraddizioni concrete nel linguaggio di uno scontro fra ortodossia e eresia, l’iperliberalismo unisce il discorso formale del suo diritto, che è la sua ortodossia, ai discorsi comunitari che informano il primo e che sono le sue eresie. Ad ogni modo la guerra globale ci minaccia sotto una molteplicità di forme, di cui la principale è la guerra dello Stato imperiale americano contro i suoi nemici globali – terrorismo islamista e Stati-canaglia.

5. Conclusione: quale riscossa etico-politica? Possiamo pensare una alternativa alle aporie del nuovo Stato di diritto, al suo principio antropologico, alla sua religione barbara? La salvezza, se esiste, non puo essere in primis che un rifiuto etico-politico del sacrificio inutile imposto ai corpi impotenti e la decisione di cessare d’essere il mezzo della vita del sovracorpo e dei corpi onnipotenti che lo compongono. La salvezza passa per la critica del diritto di consumo del diritto di consumo, per la produzione di un nuovo diritto publico e delle istituzioni ad esso conformi. La questione tuttavia è complessa, perché l’anticorpo dei non ayant droit non è omogeneo e suprattutto perché, come

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abbiamo visto, è diviso dai processi d’identificazione reattivi di tipo comunitario che riposano sul ricorso all’immaginario identitario – etnico, nazionalistico, razzistico. I processi riposano sul principio della differenza fra “noi” e “loro” e cercano nella comunità nella quale sono presi coercitivamente un rimedio contro l’esclusione posta in essere dai potenti soggetti del nuovo diritto. La frustrazione di beni di consumo, sostanziali e non, produce l’invidia e l’odio che sono speculari alla monopolizzazione dell’umano da parte degli “uomini” veri. I nonayant-droit sono subalterni alla logica del nuovo diritto per il quale “funzionano” come faire valoir. Non sono politicizzati e l’insubordinazione che possono sviluppare è minacciata dalla loro inciviltà antipolitica e rischia di essere manipolata, di farsi controproduttiva. L’anticorpo è minato dal rischio di manifestarsi come potenza pura di negazione se non conquista la dimensione di una lotta non-corporativa ma politica nel senso di internazionalista o cosmopolita o, meglio, “meticciata”. La nuova lotta cosmopolitica non puo esser che la riconquista della democrazia-processo, non della democrazia-regime. La vittoria non è garantita ma la via è quella che supera i comunitarismi che strutturano l’anticorpo dei non ayant droit e il falso universalismo del sopracorpo degli ayant droit. La salvezza esige delle pratiche di solidarietà e del métissage che hanno per sbocco una salut public. Tutto ciò non coincide con la liquidazione dello Stato-nazione ma con la trasformazione dello Stato di diritto privato in nuovo Stato di diritto pubblico capace di lottare a un tempo contro il principio di esclusione fondato sulla solvibilità capitalistica e contro i processi di segregazione nazionalistica, razzista, etnica, religiosa. Il riconoscimento delle differenze culturali si distrugge quando prende la forma di una differenza che si fa “più differente” delle altre. Reciprocamente, l’universalismo si denuncia come falso se prende la forma del dominio imperiale della sola umanità solvibile. La riscossa etico-politica passa, come aveva ben visto il troppo spesso dimenticato Antonio Gramsci, per la via di una concezione del mondo capace di as-

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similare tutti gli uomini, non di trasformare in rifiuti i non ayant droit insolvibili. Tale concezione del mondo non può più essere “totalitaria” nel senso di presupporre l’unificazione tendenziale dell’umanità. La lezione del ventesimo secolo è di avere appreso l’irrinunciabilità della pluralità umana. Tutto questo esige il ripensamento della questione della Legge etico-politica. Il ripensamento non può presentarsi come “ripresa” della legge del padre (Freud) e dell’ordine simbolico nel senso della psicanalisi (Lacan rivisitato da Pierre Legendre). La politica non rileva dalla famiglia, neppure la Santa Famiglia. Non possiamo dimenticare il meglio della modernità eticopolitica che è il pensiero del Politico come “spazio vuoto” di cui nessuno può appropriarsi, come ha già chiarito Claude Lefort ma che può essere invocato come istanza di giustizia a fronte della quale possono rivendicare la loro parte gli uomini lasciati da parte. Il “Terzo” non può essere il Dio Padre e Despota che impone la legge dell’interdetto, dell’incesto e fonda la possibilità della famiglia. La Legge psicanalitica non può essere eretta in assoluto pre-storico. È metabolizzata in Legge di giustizia sopra la famiglia, come aveva già visto Aristotele. Non abbiamo bisogno di una nuova teologia politica, ma di un allargamento globale della Legge etico-politica che riconosca tutti gli uomini come liberi e uguali in seno a un unico spazio politico che fa mondo, un cosmos politico sul quale si aprono le comunità esistenti. La legge del diritto di consumo del diritto di consumo è una falsa legge perché infine non riconosce che il desiderio di consumare e la sua esclusività. Le leggi invocate dalla nazione, dalla razza, dall’etnia, dalla religione divenuta settarismo religioso rimangono pseudo-leggi perché includono mentre escludono. Come avrebbe detto lo Spinoza del Trattato teologicopolitico, la critica della politica implica la potenza costituente dell’immaginario teologico-politico che include certi uomini escludendone altri, esprimendo contestualmente la necessità di un referente simbolico sotto la forma della religio catholica, cioè della legge di giustizia e carità. La globalizzazione ripropone lo stesso problema sul piano non dello Stato ma della politicità

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mondiale. Un cosmopolitismo realista sarebbe l’ultimo orizzonte della riflessione? È possibile o no? Hic Rhodus, Hic salta.

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Una cosa è sicura. La riscossa politica esige una critica del consumo, della logica che abbandona enormi moltitudini alla miseria e alla condizione di rifiuto allorché una minoranza divora il superfluo che produce per se stessa. La riscossa politica non è separabile da un processo di smercantilizzazione (démarchandisation) e di desolvibilizzazione (désolvabilisation). L’antropologia realmente nuova non può essser che quella dell’uomo insolvibile, al di là della solvibilità.

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Indice dei nomi

Accarino Bruno, xii, 48, 53, 54, 57, 72 Ackerman B.A., 565, 566 Acocella G., 442 Agamben G., 44, 350 Agazzi E., 473 Ake C., 476 Alfieri Luigi, xii, 233, 239 Améry J., 350, Anders G., 280, 293 Anderson B., 556, 559 Andolfi F., 416 Andrini S., 76, 82, 85 Anter A., 123 Appadurai A., 555, 556, 559 Arangio-Ruiz V., 367 Arendt H., 138, 147, 149-155, 159, 174, 313, 350, 377, 561, 583, 606, 667 Arienzo A., 54 Aristotele, 264-266, 411, 564, 665 Aron R., 122 Arrighi G., 204, 212 Arvon K.J., 254 Audard C., 254 Augé M., 288, 667 Azzalini M., 342 Baccianini M., 540 Bachelard G., 416 Bacone F., 264 Baier H., 71 Baioni G., 280 Baktin M., 11 Balibar É., 545, 667 Barberis M., 217 Barcellona P., 440, 667

Barker F., 559 Barry B., 565 Bartoli F., 49, 170 Basciu M., 264, 265 Bastiat F., 190-192 Baudrillard J., 514, 528, 540 Bauer J.R., 540 Bauman Z., 516, 524, 530, 540, 561, 610, 627, 647, 658, 667 Bazzicalupo L., 217 Beccaria C., 175, 281, 298, 300 Beck U., 524, 525, 529, 540, 568, 610, 615, 622, 667 Beetham D., 72, 128 Beitz C., 586, 596 Bell D.A., 640 Bellei C.M., 233, 234, 239 Ben Laden O., 592 Bencini Bariatti A., 493 Bendix R., 72 Benjamin W., 8, 56, 277, 278, 283, 294, 301, 302 Benot Y.171 Bensaid D., 667 Berdjaev N., 12, 13, 27 Berlin I., 8, 159, 175, 183, 465 Bertolazzi R., 541 Bettetini M., 356 Bettinelli C., 377 Bhabha H.K., 555, 559 Bianchin M., 263 Bianco F., 72, 73, 123, 466 Bissaca G., 384 Bixio A., 254, 261 Blanchot M., 280 Bloch M., 393 Bo C., 388

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670 Bobbio N., 87, 88, 125, 128, 159, 182, 183, 264, 458, 459, 500, 546, 547, 559, 613 Bocchi G., 527, 540, 541 Böckenförde E.-W., 103 Bodei R., 72, 667 Böhringer H., 62 Bollati G., 352 Bongioanni E., 541 Bonvecchio C., 222 Bori P.C., 32 Borradori G., 477 Bourdieu P., 275, 299, 328, 505, 667 Bouretz P., 72 Bovero M., 559, 613 Braudel F., 189, 215, 216 Brelich A., 238 Breton A., 427 Breuer S., 76 Briegleb K., 175 Brubaker R., 72 Buchner H., 174, 175, 490 Bulgakov M., 424 Bullock A., 159, 160 Burke E., 153, 169, 183 Butler J., 555, 559 Caccamo R., 124, 131 Cacciatore Giuseppe, xii, 439, 444 Cafagna E., 540 Caiano C., 502 Caillé A., 595, 600-606 Cambon G., 165 Campo C., 342 Camporesi C., 49, 170 Canciani D., 378 Canetti E., 220, 238 Canfora L., 364, 603 Cantillo G., 180 Cantoni R., 421 Capograssi G., 439-456, 459-461 Caprioglio S., 182 Carabellese P., 620

Indice dei nomi Caracciolo A., 69 Carrino A., 440 Caruso S., 49, 170 Castrucci E., 217 Cattabiani A., 384 Cattaneo M.A., 35, 38 Cavallera H.A., 183 Cavalli A., 43, 51 Cavalli L., 72 Cecchi O., 23, 24 Ceppa L., 464, 467, 469, 477, 497, 566, 617 Cerroni U., 177 Ceruti M., 527, 540 Cerutti F., 617, 618 Cervelli I., 77 Chabot P., 409 Chakrabarty D., 555, 559 Chemillier-Gendreau M., 594, 595 Chiodi G.M., 235 Cierlini E., 388 Cimmino L., 262 Clark I., 610, 622, 623 Clinton B., 168 Colli G., 172, 236, 264 Colliot Thélène C., 72, 75, 76, 78 Cometa M., 4 Conradi P., 372 Conte D., 117, 146 Cordero F., 282 Cornara E., 187 Costa P., 125, 550, 559, 635 Costantino S., 85, 129 Coutu M., 76 Crespi F., 262, 424, 492, 494 Croce B., 183, 363, 568, 569 Cunico G., 617 Curtius K., 138 Czerkl E., 233 D’Andrea D., 72, 128, 610, 617, 643

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Indice dei nomi D’Andrea Fabio, xii, 263, 268, 353, 389, 401, 408, 409, 412, 414, 416, 419, 422, 515, 631, 641 D’Attorre A., 72, 76, 81 Dal Lago A., 72, 73, 377 Damiano G., 610 Davis D.B., 161 De Angelis E., 280 De Feo N.M., 72 De Simone Antonio, xi, xii, 50, 58, 71-73, 76, 109, 256, 262, 263, 268, 353, 396, 401, 405, 408, 409, 412, 466, 505, 515, 540, 542, 631, 641 Deininger J., 79 Deleuze G., 275, 280, 287, 327, 330, 648 Della Volpe G., 276 Denninger E., 556, 559 Derrida J., 271, 274, 298, 305, 309, 477, 559 Dewey J., 508 Di Bernardo G.123 Di Clemente F., 263, 268 Di Giorgi P.L., 400 Di Marco G.A., 72, 117 Di Vittorio P., 440, 510 Dilthey W., 51, 263, 268 Dostoevskij F., 3-14, 16-22, 26-3339, 250, 251 Douglas M., 595 Dumont L., 389, 401, 403, 561-564, 572, 575, 591 Dumouchel P., 254, 586 Dupuy J.P., 254, 562, 563, 570, 572, 579, 580, 586, 587, 592 Durand G., 401, 402, 405, 410, 416 Durkheim E., 416, 421, 431 Duso G., 72, 81, 312, 613 Eden R., 73 Einaudi L., 569 Eliaeson S., 72 Elias N., 272, 275, 299, 300 Elkins S., 160

671 Engels F., 136, 162, 163, 167 Epitteto, 247, 335 Ercolani Paolo, xii, 189, 193 Eschilo, 278, 292, 383, 561 Escobar R., 222, 234, 235, 237 Esposito R., 73, 217, 236, 242, 372 Fabbri T., 124, 131 Fabietti U., 230 Fanon F., 555, 587 Farinãs Dulce M.J., 76 Fatica O., 233 Febbrajo A., 77, 81-85, 97, 109, 118, 119, 121, 122, 127, 128 Federici M.C., 73, 416 Fergnani F., 184 Ferrara A., 469, 473, 503 Ferrarese M.R., 610 Ferraresi F., 71-73, 128 Ferrari V., 80 Ferrarotti F., 71, 72, 136, 388 Ferri E., 22-26 Finelli R., 440, 510 Fioravanti M., 77 Fiorot D., 239 Fistetti Francesco, xii, 350, 440, 510, 561, 582, 605 Fitzi Gregor, xii, 128, 133 Fleischmann E., 73 Foradori P., 609, 615 Fornari Emanuela, xii, 463, 464, 559 Fornari Fabrizio, xii, 247, 263, 268 Fornari S., 396 Fornero G., 71 Forst R., 576 Forti S., 149 Fortini F., 356, 362, 372 Foucault M., 251, 271, 273, 275, 276, 281, 282, 288, 298, 302, 311, 313, 314, 317, 325-340, 415, 658 Franchi S., 79 Fraser N., 510, 587, 588, 593 Freud S., 431, 492, 493, 665

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Freund J., 72, 84, 86, 96, 98, 115, 116 Frisby D., 43, 389, 390 Fukuyama F., 555 Gadamer H.G., 3, 566 Gaeta G., 341, 352, 353, 361, 372, 377, 378, 388, 442 Galeotti A.E., 584 Galimberti U., 401 Galli C., 73, 610 Garofalo R., 22-24, 26 Garritano F., 271 Gasparini G., 514, 537, 540, 541 Gauthier A., 208 Gauthier D., 565, 573, 574 Geertz C., 566, 623-625, 627-630 Gentile G., 183 Germer A., 73 Gerratana V., 61, 182 Ghia F., 72 Giaccardi C., 522, 540 Giddens A., 204, 524, 540, 610, 615 Gide A., 27, 28, 32 Gillespie M., 647, 649, 651, 667 Gilroy P., 555, 559 Giordano G., 51, 138, 140 Giordano G., 51, 138, 140 Girard R., 233, 234, 542, 562, 579, 586 Giuliani A., 264-266 Givone S., 5 Gleick J., 393, 394 Gobetti P., 12 Goffman E., 249 Goldschmidt L., 78 Gould S.J., 25 Gramsci A., 182, 555, 664 Grassi P., 103 Groos K., 51 Grosclaude J., 84 Grossmann L., 11, 32

Indice dei nomi Gruzinski S., 559 Guani M., 540 Guareschi G., 432, 433, 435 Guattari F., 280, 287 Gumplowicz L., 172, 173 Gutmann A., 566 Habermas J., 124, 133, 134, 142, 262, 264, 267, 268, 272, 464-467, 469-480, 497, 505, 545, 559, 565, 566, 576, 582, 586, 617 Hall J.A., 209 Hall S., 555, 559 Hanke E., 81 Haraway D., 555, 559 Hayek F.A., 206, 208, 269, 570-572, 574 Hegel G.W.F., 133, 142, 159-162, 165, 166, 173-176, 178, 180-182, 186, 358, 398, 481-486, 488-491, 496, 499, 505 Heidegger M., 3, 29, 547 Heine H., 175 Held D., 559, 610 Hénaff M., 600, 602 Hennis W., 72, 73 Henry B., 618, 640 Heurtin J.P., 76 Hitler A., 160, 236 Hobbes T., 63, 70, 145, 225, 227229, 312, 318, 320, 565, 573 Hobhouse L.T., 199, 200, 202 Hobsbawm E.J., 522, 541 Hobson J.A., 163, 189, 193-196, 200-203, 213 Höffding H., 68 Höffe O., 566, 567, 617, 645 Hoffmann F., 560 Hoffmeister J., 176, 180 Honneth A., 481-492, 494-499, 501, 502, 505-510, 602 Hourdin G., 356 Howe I., 8-10

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Indice dei nomi Hugo V., 148, 297, 299, 304, 306, 307 Huntington S.P., 530, 541, 555 Hurley S., 584 Hussein S., 187

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Ignatieff M., 637, 638 Ilting K.H., 70, 176 Introini F., 524, 587, 541 Izzo A., 123 Jacoby E.G., 70 Jaspers K., 72, 547, 560 Jedlowski P., 389 Jesi F., 220 Jhering R., 53 Johnson P., 186, 187 Jung C.G., 238, 401 Kaesler D., 72 Kafka F., 278, 280-284, 286, 287 Kant I., 172-176, 178, 179, 181, 182, 184, 186, 252, 255, 300, 322, 482, 483, 551, 565, 620, 621 Kelsen H., 63-66, 69, 88, 114, 217, 253, 255, 256, 267, 279, 280, 551, 552 Kern A.B., 519, 520, 536, 441 Keynes J.M., 205 Klecatsky H., 69 Klein N., 212 Köhnke K.Chr., 43, 60 Kronman A.T., 76. Lafay G., 610 Landes D., 190, 196, 197, 201 Larsson B., 423 Lascoumes P., 76 Latouche S., 215, 555 Lazzari S., 541 Leccardi C., 389 Lefort C., 665, 667 Lemieux P., 254 Lenin V.I., 167-169, 183, 433

673 Lepsius M.R., 71, 155 Levack B.P., 282 Levi P., 351 Lévinas E., 594, 603 Lévi-Strauss C., 594, 604, 624 Lewellen T.C., 227 Liebsch B., 44 Locke J., 61, 300 Loretoni A., 618 Losito M., 72, 76 Losurdo Domenico, xii, 73, 159, 161, 166, 170, 179, 188, 191, 192, 202, 667 Löwith K., 72, 73, 159 Ludz P., 183 Ludz U., 606 Luhmann N., 85, 311, 313-324, 328, 329, 338-340, 567 Lukács G., 4, 183, 186 Lupoli A., 225 Machiavelli N., 63, 159, 180, 311, 315, 330, 331, 430, 569 MacIntyre A., 253-255, 557, 576 Maffesoli M., 389-393, 397, 400, 401, 403-405, 407-409, 411-417, 420-426, 428-433 Maffettone S., 496, 577, 583 Magatti M., 522, 540 Magri T., 146 Maier C.S., 205 Mainoldi C., 237 Maj B., 280 Mancini I., 12, 15, 18, 20, 26-28, 229, 236 Manfrin L., 81 Marchettoni L., 638 Marcic R., 69 Marcuse H., 652, 667 Marini G., 133, 483, 499 Marra R., 76-80 Marramao Giacomo, xii, 313, 545, 560, 610 Marshall T.H., 500, 556

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674 Martinelli A., 149 Marx K., 49, 50, 73, 135, 136, 159, 161, 162, 165-170, 212, 360-362, 569, 571, 650, 660 Massarenti A., 560 Mastropaolo A., 465. Matala de Mazza E., 44 Matteucci N., 164, 613, 616 Mauss M., 594, 595, 600, 601, 604, 605 Mayer J.P., 164 Mazzoli L., 413 McKitrick E., 160 Mead J.S., 491, 493, 496, 501, 505 Melandri E., 248, 250 Meldolesi L., 163 Mellino M., 560 Mendus S., 576 Meny Y., 560 Mezzadra S., 560 Michel K.M., 160 Miglio G., 217 Milone Bruno, xii, 3 Milosevic S., 547 Minda G., 272 Minogue K., 210 Miquel P., 199 Moldenhauer E., 160 Molfessis N., 76 Mommsen T., 80 Mommsen W.J., 71, 72, 81, 128, 146 Mongardini C., 396, 399, 415, 420, 422, 428 Monod J., 394 Montinari M., 172, 236 Morace F., 541 Morin E., 394-396, 398, 403, 403, 513-515, 517-520, 522, 523, 525528-542 Mouffe Ch., 583 Muller P., 560 Muraro L., 372 Murdoch I., 372

Indice dei nomi Nagel Th., 575, 577 Naïr S., 515, 531, 533, 535, 537, 538, 541 Napoleone, 14, 175 Nemi O., 363 Neumann E., 401-403, 406, 407, 409, 410, 412, 426 Nevin T.R., 352 Nietzsche F., 3, 15, 45, 51, 59, 73, 172, 173, 236, 276 Nirchio G., 55 Nocentini L., 342 Normand R., 187 Nozick R., 253-255, 571, 571, 572, 574 O’Neill O., 586, 587, 596, 619 O’Neill P., 214 Pacchi A., 225, 318 Pacelli L., 541 Pacini G., 3 Palombella G., 567, 632 Pandolfi A., 333 Pannarale L., 567 Panzieri R., 135 Papa F., 72 Pareyson L., 21 Pasqualini Cristina, xii, 513, 518, 524, 525, 535, 537, 539, 541, 542 Pasquino P., 313 Perri A., 541 Perrin J.M., 363, 388 Pétrement S., 388 Petrillo A., 78 Petrucciani S., 464 Peukert D.J.K., 73 Phillips K., 197 Picchio M., 73 Pinzani Alessandro, xii, 311, 318 Piovani P., 443 Pirni Alberto, xii, 408, 409, 412, 515, 540, 566, 576, 609, 617, 619, 625, 631, 640, 641

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Indice dei nomi Platone, 357, 367 Pogge T., 586, 587, 596 Poggi G., 72 Polanyi K., 209 Pomarici U., 443 Portinaro P.P., 72, 130 Prandi C., 560 Praussello F.610 Predaval V., 225 Preterossi G., 568 Privitera W., 615 Pulcini E., 610, 617, 643

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Quermonne J.L., 560 Racinaro R.65 Radbruch G., 552 Rammstedt O., 51 Rawls J., 210, 211, 253-255, 312, 470, 471, 565, 566, 569-570, 574586, 588-591, 595, 596, 603, 638 Raynal G.Th., 171 Rebecchi R., 225 Rebuffa G., 76, 80, 85, 87, 109, 118, 120, 123, 126 Recchia Luciani Francesca Romana, xii, 123, 341, 348, 350, 440, 510, 603 Rehberg K.S., 237 Rehbinder M., 76 Reislad O.R., 138 Rémond R., 103 Remotti F., 414 Renaut A., 571, 581 Rescigno P., 247 Reynaud-Guérithault A., 342 Ricoeur P., 577 Ringelheim J., 560 Robertson R., 524, 542 Rocher G., 76 Rodotà S., 550, 555, 560 Roetz H., 560 Rosati M., 635 Rosenberg A., 173, 174

675 Rossetti C., 227 Rossi P., 71, 72, 77, 89, 92, 109-111, 117, 118, 125, 128, 131, 140, 141, 466 Rousseau J.J., 61, 69, 70 Rozanov V., 5-7 Rudolph E., 618 Ruffolo G., 418 Rufino A., 259, 260 Rusconi G.E., 104 Said E.W., 480, 547, 555, 560 Sala M.C., 388 Sartre J.P., 184 Sbute S., 584 Scalzo D., S., 233, 239 Scartezzini R., 609, 615, 623 Schambeck H., 69 Schiera P., 72, 76, 217 Schiera P., 72, 76, 77, 217 Schleiermacher F., 51-53, 138 Schluchter W., 71-73, 80, 82, 92, 107, 130, 140 Schmitt C., 69, 70, 146, 148, 160, 161, 164, 217, 222, 238, 313, 549, 583, 604 Schumpeter J.A., 206, 207 Scivoletto A., 400 Sen A., K., 509, 542 Seneca, 335 Sereni E., 79 Sestov L., 3, 4 Sève R., 254 Signore M., 72 Simmel G., 43-70, 72-73, 140, 390, 399, 403, 405, 411, 412, 416, 431, 505 Simondon G., 409, 411 Slotkin R., 164 Smith A., 49, 51, 53, 170, 185, 189, 201, 210, 255, 660 Smith B., 199 Socrate, 366-368 Solari G., 175

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Indice dei nomi

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676 Solari P., 569 Solmi R., 277 Solov’ëv V., 4, 39 Sparti D., 261-263 Spedding J., 265 Spencer H., 136, 197 Spinoza B., 665 Spivak G., Ch., 555, 559, 560 Stalin J., 159, 160 Steiner G., 4 Stiglitz J., 189, 209, 213, 214, 597 Strazzeri Irene, xii, 481, 511 Strazzeri Marcello, xii, 76, 271-273, 279, 281, 500 Stuart Mill J., 166, 191, 192, 210 Tacussel P., 428, 429 Taylor C., 497, 498, 503, 557, 566, 576, 639, 640 Tedeschi G., 401 Tessitore F., 442, 443 Testa I., 635 Testucci R., 491 Teubner G., 259 Thibon G., 388 Thompson E.P., 510, 566 Thomson D., 198 Tieck K.P., 76 (de) Tocqueville A., 63, 163-168, 170, 300, 562 Tolstoij L., 37 Tomelleri S., 542 Tönnies F., 70, 138-142 Toscano M.A., 76, 82, 86, 95, 97, 102, 108 Tosel André, xii, 647 Touraine A., 545 Toynbee A., 164, 165 Treiber H., 72, 76 Treu A., 362 Treves R., 76, 77, 88, 109, 118, 217 Trigilia C., 122 Trincia F.S., 122 Tuccari F., 72, 123, 128

Tucidide, 364, 603 Van Parijs P., 252, 253, 575, 578 Vasale C., 443 Veca S., 469, 574, 577, 637, 638 Vegetti M., 367 Venè G., 433 Vidari G., 175 Vitiello V., 29, 73 Vogl J., 44 Volpi F., 217 von Gierke O., 137, 138 Walzer M., 632-637, 640 Weber M., 52, 68, 69, 71-112, 114131, 138-149, 151, 183, 255, 275, 400, 466, 563 Weil E., 184, 186 Weil S., 341-350, 352-388, 603, 604 Weyhe L., 79 Williams E., 201 Williams R., 555, 560 Winch P., 261, 262, 348, 352, 353, 358, 362, 364 Winckelmann J., 71 Winnicot D.W., 493-495 Wittgenstein L., 250, 353 Young R., 555, 560 Zagrebelsky G., 567 Zängle M., 123 Zannino F., 594, 604 Zolo D., 125, 610, 638

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Notizia sugli autori

Bruno Accarino insegna «Filosofia della storia» presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze. Luigi Alfieri insegna «Filosofia politica» alla Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». Giuseppe Cacciatore insegna «Storia della filosofia» presso il Dipartimento di Filosofia «A. Aliotta» dell’Università di Napoli «Federico II». Fabio D’Andrea insegna «Sociologia» alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Perugia. Antonio De Simone insegna «Storia della filosofia contemporanea» alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». Paolo Ercolani insegna «Teoria dei processi di socializzazione» alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». Francesco Fistetti insegna «Storia della filosofia» alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bari. Gregor Fitzi è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze. Emanuela Fornari è assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi «RomaTre» di Roma. Fabrizio Fornari insegna «Sociologia dei processi culturali» alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Perugia. Domenico Losurdo insegna «Storia della filosofia» alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». Giacomo Marramao insegna «Filosofia teoretica» alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi «RomaTre» di Roma. Bruno Milone insegna «Storia e Filosofia» al Liceo Ginnasio Statale «Elio Vittorini» di Milano. Cristina Pasqualini è ricercatore di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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Notizia sugli autori

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Alessandro Pinzani insegna «Etica e filosofia politica» alla UFSC Florianópolis, Brasile. Alberto Pirni collabora alle attività didattiche e scientifiche della cattedra di «Filosofia politica» della Scuola Superiore Sant’Anna-Pisa. Francesca R. Recchia Luciani insegna «Storia della filosofia» alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bari. Irene Strazzeri insegna «Politiche sociali e welfare» alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Foggia. Marcello Strazzeri insegna «Sociologia del diritto» alla Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio dell’Università degli Studi del Salento. André Tosel è professore emerito dell’Università di Nizza.

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